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Italian Pages 256 Year 2016
Stefano Piovanelli
Il valore degli altri Le relazioni umane come risultato dell'operare mentale
OODRADEK
In copertina: Patchwork di Anna Rocco
© 2016 ODRADEK edizioni via san Quintino 35 - 00185 Roma tel. /fax 06 70451413 e mail: [email protected] - sito Internet: www. odradek.it ISBN 978-88-96487
Indice
Prefazione di Felice Accame
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Introduzione
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PARTE PRIMA - PREMESSE TEORICHE Né uno né molti rispetto a sé stessi
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Operare senso motorio e dipendenze dell'operare Apprendimento senso motorio Dall'operare senso motorio alle dipendenze dell'operare Attenzione e termini di confronto Dipendenze dell'operare e marcatori emotivi Univocità percettiva Preferenze e correlazione
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Dipendenze dell'operare e consapevolezza 48 Dal 'punto cieco' ai 'punti ciechi': i limiti della consapevolezza Essere sé stessi ed i paradossi che ne derivano 56 Sintonia ed operazioni mentali 59 Né uno né molti rispetto agli altri
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Lo sdoppiamento proiettivo I vincoli dell'appartenenza Un esempio di operare proiettivo innato: i neuroni specchio Esempi di pensiero proiettivo: il pensiero magico e l'animismo Espansione, ritrazione, blocco Il rapporto con i simboli: coincidenza e contagio
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Il valore degli altri
L'elemento emotivo nelle dipendenze dell'operare in ambito sociale: il kred Credere e kred 80 Effetto placebo 83 Dipendenze dell'operare ed oggetti 86 Presupposti delle dipendenze dell'operare 87 Dipendenze dell'operare e collocarsi 89 Dipendenze dell'operare e connotazione delle attività che si compiono 91 Collocare gli altri 96 Kred, astrazioni e metafore 99 La metafora della Giustizia 104 Moralità e sanature 104 Avvicendamenti contraddittori di dipendenze dell'operare 110 Dilemmi morali 112 Credere nonostante tutto 115 Kred e realismo 120 Conclusioni
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PARTE SECONDA – IL BLOCCO ED IL VALORE DEGLI ALTRI Il blocco tra reazione innata ed operare mentale Blocco come operazione mentale Blocco subìto (passivo) Blocco imposto (attivo) Blocco precondizionato
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Tipologie di blocco e trasformazioni 1. Estraneità ed omissione alla sollecitazione altrui Estraneità e prossimità coatta. La prossemica Estraneità e prossimità coatta. L'esempio dello sguardo Rifiuto della sollecitazione altrui Omissione rispetto al bisogno di aiuto da parte dell'altro
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Indice
2. Blocco rispetto al destino altrui Distacco come estraneità nei confronti dell'altro Blocco nel perseguimento dei propri obiettivi Indifferenza rispetto al male che si sta procurando attivamente agli altri
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3. Blocco nell'ostilità e nel conflitto Il passaggio dalla ostilità alla aggressione nella prossemica Incorporamento e proprietà Blocco e ribellione Gestione del conflitto e passaggio alla aggressione
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4. Blocco verso sé stessi La dimensione temporale Gestione della coerenza attraverso la riduzione della dissonanza cognitiva
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5. Blocco come fenomeno socialmente indotto Blocco e distacco professionale Blocco professionale in ambito socio sanitario Blocco e coazione all'obbedienza Aggressione come obbedienza all'autorità L'esempio del razzismo Aggressione e colpevolizzazione delle vittime
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Esempi di trasformazioni del blocco
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Considerazioni finali
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BIBLIOGRAFIA
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Il valore degli altri
Ai miei, e ad Angela
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Prefazione Felice Accame
1. Se, in una conversazione qualsiasi, venisse pronunciato il sintagma “il valore degli altri”, agli altri interlocutori toccherebbe il compito di una disambiguazione. Il valore degli altri è il valore che gli altri avrebbero in sé e per sé, per proprio conto. Un valore che, allora – presumibilmente –, andrebbe loro riconosciuto. Ma il valore degli altri è anche quello che agli altri viene assegnato – una libera costituzione da parte di qualcuno, singolo o collettivo che sia. Ho detto “libera” e ho detto “costituzione” ed entrambi, a loro volta, vanno spiegati. Secondo Ceccatoi, categorizziamo come “libera” un’attività sia quando la facciamo dipendere da un potere di scelta (“posso bere l’aranciata o la birra, perché posso scegliere fra le due”), sia quando la facciamo dipendere da un potere di capacità (“posso bere l’aranciata o la birra, perché sono capace di bere sia l’una che l’altra”, “posso” nel senso di “sono in grado di”) e sia – a mio avviso – anche quando, sinteticamente, la facciamo dipendere da entrambi i tipi di potere (“posso bere l’aranciata o la birra, sia perché posso scegliere sia perché sono capace di bere sia l’una che l’altra”). Dal momento che ci costituiamo in soggetto, nel caso della libertà da scelta, ci costituiamo altresì due svolgimenti diversi e contemporanei (entrambi in atto, si potrebbe anche dire), mentre, nel caso della libertà da capacità i due svolgimenti risultano uguali ma l’uno antecedente e l’altro successivi al soggetto stesso (potenza e atto, si potrebbe anche dire). Perché l’occamista fantasma delegato all’amministrazione economica delle lingue abbia permesso questo spreco, Ceccato non lo spiega, ma – immagino – che abbia avuto le sue buone ragioni (parlo del fantasma, ovviamente, e non di Ceccato). Ho anche detto “costituzione” – e l’ho ripetuto, e avrei potuto ripeterlo anziché parlare di “far dipendere” -, ma solo per sottolineare la natura tutta mentale delle ope-
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Il valore degli altri
razioni di cui si parla; per far notare che l’applicazione delle categorie inerenti la “libertà” non abbisogna necessariamente di vincoli fisici di sorta. Se, in luogo di “costituzione”, avessi parlato di “costruzione” avrei buttato lì una metafora che prima o poi – per le fisicità implicite che designa – si sarebbe rivelata imbarazzante e avrebbe richiesto qualche intervento correttivo. Ora – ora sì – posso anche dire che, qui, ci si occupa del “valore degli altri” in quanto risultato di operazioni mentali nei confronti di qualcuno e non in quanto proprietà di questo qualcuno. 2. Nel tentativo di chiarire il significato di parole, mi sono già introdotto nella questione. In un saggio intitolato Osservazione e descrizione meccaniche, Renzo Beltrame cerca di chiarire cosa debba intendersi per “dipendenza dell’operare”. Sta parlando di artefatti – più precisamente, sta parlando dell’ipotesi di costruzione di un cronista meccanico, ovvero di una macchina che cambi di stato fino a trasformare una situazione non-linguistica in una linguistica, ovvero che percepisca e quindi semantizzi il percepito. Costruendo la macchina o studiando l’uomo – riassumo il pensiero di Beltrame -, si incontrano due ordini di problemi: a) individuare quali siano le operazioni che compie e b) in dipendenza di cosa queste operazioni vengano eseguite. Fa l’esempio della figura che può essere predicata come “quadrato”, “rombo”, “quadrilatero”, “quadrangolo”, “parallelogramma”, etc. Ciascuna designazione comporta una diversa catena operazionale e, allora, sorge il problema di “sapere che cosa induca ad eseguirne una piuttosto che un’altra”. In questo studio delle dipendenze si possono proporre diverse “partizioni”, ma va da sé che si tratti di soluzioni “di comodo”. Per esempio: da una parte, le dipendenze costituite da “processi fisici che accadono nell’ambiente e che promuovono per via fisica il funzionamento di qualcuno degli organi dell’uomo o della macchina” e, dall’altra, il “precedente funzionamento di uno o più organi visto come eccitatore o inibitore del funzionamento di uno o più altri organi” Sarebbero esempi del primo tipo l’avvicinare all’epidermide un corpo duro, a una certa temperatura,
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Prefazione
accendere una lampadina, o il battere un tamburo, mentre sarebbero esempi del secondo tipo un suono forte e improvviso, un lampo, etc. hanno il potere di distogliere l’attenzione da ciò che stavamo facendo, interrompendo anche il flusso dei nostri pensieri che, dal canto suo, ha un forte potere di guida della nostra attenzione. “La dinamica delle dipendenze”, dice Beltrame, “appare così un gioco pesato dei vari funzionamenti in atto in quel momento, tra i quali va incluso anche quello della memoria – per quella sua funzione ‘propulsiva’ che ‘fa intervenire tutto il passato’”. Tuttavia – e qui, a mio avviso, sta un punto cruciale – “il vedere qualcosa come dipendenza è frutto di una nostra categorizzazione mentale e pertanto non ci si attenda che una certa attività o un certo processo risultino tali se non per il fatto di essere posti mentalmente in un certo rapporto, quello appunto di sollecitatore-attività sollecitata”ii. Quanto segue, se non di resa, sa di amara consapevolezza in ordine alla complessità del compito prefissatosi. Se è vero che la psicologia sperimentale “è una fonte assai ricca cui attingere leggi di dipendenza”, purtroppo, è anche presto verificabile per chi voglia ottenere ciò cui mira Beltrame che i suoi risultati possono “risultare insufficienti per la costruzione di un modello”. Perché, per costruire un modello dell’operare umano, “occorre invece andare al di là dei semplici aspetti fisici delle situazioni apprestate, per esaminare come ognuna delle operazioni fatte guidi e influenzi l’operare successivo”. A questo punto ulteriori precisazioni mi sembrano pleonastiche. Mi sembra inutile dire che sul problema posto in questi termini Beltrame sarebbe tornato più volte nel corso degli anni e mi sembra inutile ricordare come la stessa nozione di “dipendenza” avesse suscitato più di un dubbio in Ernst Von Glasersfeld che temeva potesse costituire una sorta di cavallo di Troia per reintrodurre una “realtà esterna” di filosofica memoriaiii. 3. Dai dizionari etimologici veniamo a sapere che il termine “blocco” deriva dall’antico francese “blok”, che stava per “tronco squadrato” e poi, metaforizzato, per “chiusura, sbarramento”. Il
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Il valore degli altri
“blochuus” era la “casa di tronchi”, il “fortino”. Analoga la storia nella lingua inglese, dove a un certo punto si arriva a “blockhaus”, ovvero alla “casa fortificata”. “Block” e il corrispondente francese “blocage” è già attestato in neurologia nel 1876 mentre, in quanto metafora politica, proviene da “Le Bloc”, il giornale fondato da Clemenceau nel 1900 il cui titolo sfruttava una curiosa e difficilmente sostenibile teoria che aveva espresso in un suo discorso alla Camera: “La rivoluzione francese è un blocco dal quale non si può staccare nessun frammento né ripudiare alcun episodio”iv. A lui stesso sarebbe stato impossibile rispettarne la lettera. Dagli stessi dizionari etimologici veniamo a sapere che il verbo “inibire” – da “habere” e “in”, nel senso di “trattenere dentro” – è già usato da Machiavelli e quindi, parlando di decreti e di sentenze inibitorie, introdotto nel linguaggio giuridico prima di tornare utilissimo a psicologi e psichiatri sul finire dell’Ottocento (Giovanni Libertini, per esempio, pubblicò L’inibizione nelle malattie mentali a Napoli, nel 1901). Nell’Enciclopedia filosofica Bompiani, l’inibizione viene definita come quel “processo mentale, comportamentale o fisiologico che rallenta, blocca o sospende un altro processo che potenzialmente potrebbe verificarsi” e già trova un suo corrispettivo a livello neuronale, perché “tale processo si realizza mediante un’azione elettrochimica indotta dal rilascio e/o soppressione di neuromediatori e di neuromodulatori nello spazio intersinaptico”v. Di processi inibitori si parla in psicologia a proposito dell’attenzione. Il caso esemplare è quello del falco che piomba su un gruppo di piccioni. Perché l’attacco riesca, l’azione deve essere diretta solo su uno dei molti animali disponibili come preda. “Interazioni percettivo-motorie complesse”, si spiega, “richiedono dei meccanismi di attenzione selettiva, la capacità di prevenire l’elaborazioni di molti stimoli rilevanti e irrilevanti disponibili” e già Wundt, nel 1874, si era reso conto dell’importanza della cosa, perché fa notare che nei fenomeni di concentrazione dell’attenzione – più della parte positiva, cioè della “presa e chiarificazione di certe presentazioni” -, sia importante da studiare “il lato negativo”, cioè “l’inibizione del flusso di tutte le altre eccitazioni di disturbo”.
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Prefazione
A proposito, poi, della legge di Yerkes-Dodson (che riassume la complessa relazione tra prestazione, motivazione e difficoltà del compito) si parla di deattivazione protettiva in reazione a una stimolazione intensavi. Analogamente, infine, anche in etologia si parla di inibizione: come soppressione di una condizione o di uno stato; impedimento; rallentamento o interruzione di un processo – per esempio, relativamente all’inibizione dell’aggressività e all’inibizione di quel “colpo mortale” che induce ai conseguenti comportamenti di sottomissione –, o come inibizione reciproca in quanto originante spesso attività sostitutiva – per esempio: i gabbiani reali possono ripiegare sul diserbamento in occasione di un combattimento in cui stanno dispiegando un’eccitazione estrema. Ma in etologia si parla ma anche di “blocco comportamentale” per quelle situazioni in cui un soggetto reagisce con esitazione a uno stimolovii. Freud dice che l’inibizione esprime una limitazione in una o più funzioni dell’io e ne individua le cause in “motivi prudenziali” o in conseguenze ad un “impoverimento di energia”. Un “io” impegnato in un lutto, per esempio, o in una repressione di affetti, o in una repressione di fantasie sessuali, si impoverisce in energia disponibile. Diverse inibizioni, poi, sarebbero “rinunzie alla funzione”, perché l’esecuzione della funzione produrrebbe angoscia. Infine, vi sarebbero vere e proprie “inibizioni specializzate”. Suonare il piano, scrivere, o camminare, per esempio, se soggiacciono a inibizioni nevrotiche. Alla base starebbe una fortissima erotizzazione degli organi impegnati in queste funzioni, per esempio delle dita delle mani e dei piedi. Anche “l’inibizione nella meta” – in quanto meccanismo inconscio in base al quale si instaurano, per compensazione, i sentimenti di tenerezza e le relazioni intime di amicizia, un concetto molto prossimo a quello di “sublimazione” (non si soddisfano le mete sessuali e, dunque, si devia sull’amicizia) – potrebbe essere considerata una “inibizione specializzata”viii. Alla stessa famiglia di concetti, a mio avviso, appartiene anche il “corazzamento” di Wilhelm Reich che, per quanto poi abbia tentato di andarsene per i fatti suoi, pur dalla psicoanalisi aveva preso le mosse. Da un lato, Reich generalizza il concetto fino a farne l’ori-
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Il valore degli altri
gine stessa di tutti i mali. “Supporremo”, dice, “che l’origine dell’inclinazione all’errore sia da ricercarsi nel corazzamento dell’animale umano. Il corazzamento è l’unica funzione dell’uomo a noi nota, che si distingue per immobilità. Esso agisce contro la mobilità delle funzioni viventi nell’animale umano, ed è nato come funzione frenante. L’immobilità che ci appare anche come caratteristica di fondo di tutti gli errori umani, il fattore statico, assoluto, fissamente eterno insito in essi, potrebbe ben essere l’espressione del corazzamento umano”ix. Dall’altro, ne estende la valenza fino al biologico ed alla sua patologia. Nel suo schema interpretativo, i “disturbi somatici dell’isteria” corrisponderebbero al “significato emozionale degli organi”. Analizzando il movimento dei vermi e dei centopiedi è portato a concludere che “l’energia biologica” muova secondo “un modo ondoso”, mentre analizzando il corpo umano – gruppi muscolari e colonna vertebrale – è portato a concludere che esso sarebbe “segmentato in corazzature”. Affinché “sensazioni vere e proprie di onde d’eccitazione plasmatiche” compaiano è necessario che “un certo numero di segmenti della corazza (come ad esempio i blocchi della muscolatura degli occhi, della bocca, del collo e del diaframma) non siano stati disciolti”, ma “non appena i primi blocchi di corazza sono disciolti” si constaterebbe che, con la comparsa delle correnti e sensazioni orgonotiche, si sviluppa in misura sempre maggiore l’espressione del ‘dare’” (che, in questa prima fase, secondo Reich, l’espressione rudimentale del ‘dare’ si trasformi in ‘odio’, qui non ha rilevanza – non è del modello reichiano che ci stiamo occupando, ma di alcune analogie concettuali – a prescindere che vi si parli di “blocchi” o no, perché – perlopiù ma non sempre – con questa parola Reich designa un insieme di elementi e non un impedimento all’operare). A suo avviso, gli “spasmi muscolari locali” collegati alla “corazza muscolare”, comportano una “ridotta ossigenazione dei tessuti” (anossia) e tali spasmi sarebbero collegabili “chiaramente” alla repressione sessuale e all’”angoscia del piacere”. Da ciò – e ci siamo - il cancro – alla gola e al retto per i maschi (repressione della paura e del pianto nei bambini, paura che siano effeminati, etc.); all’utero, alla vagina e al seno, ovviamente, per le
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Prefazione
femmine (e verrebbe subito da pensare “Povere suore” se, apparati statistici alla mano, non ci avesse già pensato lui)x. 4. In certi contesti, Ceccato usa parlare di “espansione”. Tanto per essere chiaro: non ne parla mai allorché parla di traduzione automatica o del “cronista meccanico”; ne parla allorché parla dei valori umani e dei comportamenti correlati. Escogita fin una “nevrosi da espansione” – una sorta di necessità (improbabilissima per chi l’ha conosciuto) che avrebbe avuto di “mettersi al posto dell’altro”xi; il rovesciamento in negativo dell’empatia. Di questi contesti, tuttavia, ne scelgo anche un altro che sarà sufficiente a farci comprendere il perché Ceccato deve ricorrere a questa soluzione. Allorché parla di “emozione, sensazione, sentimento, stato d’animo, impressione, affezione, affetto, disposizione, etc.” come appartenenti ad “una stessa famiglia” – e come tali confondibili l’uno con l’altro –, sostiene che la loro “individuazione, analisi e descrizione in operazioni” dovrebbe chiarirne la rispettiva specificità e, “anche se l’analisi dovesse in seguito venire corretta”, risulterebbe “ugualmente utile nel guidare verso un tipo di composizione e scomposizione della sfera emotiva in cui ognuno si eserciti, sufficiente comunque a infrangere la supposta datità”. L’analisi di questa “e di altre famiglie della vita mentale”, secondo Ceccato, potrebbe consentire di individuare i rapporti tra sfera emotiva e sia la famiglia del “dovere, potere della scelta, potere dell’essere in grado di, di essere liberi di, etc.” che la famiglia del “determinismo, causale, finale, potenziale, casuale, fatale, e del probabilismo”xii. In questa prospettiva, Ceccato porta alcuni suoi risultati in ordine alla combinatoria di operazioni mentali ottenibile dall’aver prima ottenuto il “soggetto” (“io”), l’“operare” (lo “svolgimento”) e l’“oggetto” (il contrapposto all’“io”) e fa notare come ci si trovi nell’“ambito degli atteggiamenti” – “direzionati”, “relazionali”, “orientati”, “intenzionali” –, ovvero in quell’ambito di operare mentale che “provoca” – il verbo è suo – “attrazione o repulsione nei confronti degli oggetti, espansione o restringimento nei confronti del soggetto”xiii. Nel momento in cui, poi, si pone il problema della verifica sperimentale delle
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Il valore degli altri
proprie analisi – ipotizzando anche il ricorso a quella che all’epoca poteva chiamarsi “elettroencefalografia” –, Ceccato porta ad esempio l’amore e l’odio “per la loro significanza nel guidare le nostre azioni”. “Si cominci”, dice, “con il tenere fra le dita una penna, che si suppone neutra in rapporto a questi sentimenti (non è la penna, insomma, con cui Hitler firmava la condanna a morte di milioni di ebrei, nota mia) e si provi a dire, prima ‘amo la penna’ e poi ‘odio la penna’”. Nel primo caso – è il risultato della sua analisi di se stesso operante –, “è come se la mano, anzi tutto me stesso, si espandesse nella penna”, mentre, nel secondo caso, “avviene l’opposto”: “è come se la mano, e ancora tutto me stesso, si ritraesse”. Spiegando che è l’attenzione “responsabile del gioco” – “nell’amore, mantenendo presente il soggetto categoriale all’aggiungersi dell’operare, sicchè alla fine tutto si troverà alla fine contemporaneo e fuso” (il soggetto che “si espande”); “nell’odio, il soggetto viene invece sospeso, interrotto prima dell’aggiungersi dell’operare, suggerendo così una frattura, un vuoto fra le cose che si succedono” (il soggetto che “si ritrae”)xiv –, Ceccato esce dal metaforico e, di fatto, entra nell’operazionale – in quel “suo” operazionale che, in qualsiasi modo lo si voglia vedere, è sempre meglio di quel poco e niente cui perviene l’indagine psicologica. Considerandolo solo per il versante positivo, Piovanelli parla di un eventuale “blocco” dell’espansione: “un confronto della nostra attenzione con il niente che, diversamente dalla ritrazione, non è proiettato sul futuro, ma sul presente”. Si tratterebbe, allora, di “un’operazione mentale che consente la rimozione della dimensione empatica con l’altro, tende a rendere impersonali e impermeabili al confronto” o, detto altrimenti, si tratterebbe di una “rinuncia deliberata” – deliberata in certi casi ma non sempre, correggerei – “ all’empatia e alla relazione con l’altro”. Che l’analisi non sia ancora soddisfacente, a mio avviso, è palese – il “niente” che serve da termine di confronto per quella che, nella teoria di Ceccato, viene considerata l’unità minima dell’attività mentale, non si comprende se è una categoria tra le tante o il risultato di un mancato operare; la stessa designazione di “blocco” è negativa – e, infatti, direi che nulla aggiunge
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Prefazione
di sostanziale – e nulla toglie di sostanziale – a quanto emerso nella storia della psicologia e delle varie scienze del suo contorno. Nel momento in cui Piovanelli utilizza di questa categoria per far emergere la sofferenza delle relazioni umane e la sofferenza nelle relazioni umane, insomma, non apporta granché di nuovo a quanto era già esplicito nel pensiero dei tanti che l’hanno preceduto dei cui sforzi l’esame precedente tiene conto solo in minima parte. L’apporto di Piovanelli sta tutto nello sfondo in cui la categoria viene usata e, forse, nelle sue potenzialità che, a determinate condizioni – quelle concesse dal potersi riferire ad un modello operazionale della mente -, potrebbero incentivare ulteriori elaborazioni con prospettive molto più significative. Si riparta, dunque, dal titolo. Con “il valore degli altri”, Piovanelli non intende mai l’oggetto di un riconoscimento di un dato di fatto. E questo lo distingue già non poco in rapporto a chi, consapevolmente o inconsapevolmente, s’informa di filosofia realista. Il suo tentativo, poi, è quello di inserire la categoria all’interno di un modello generale dell’attività mentale e dei suoi rapporti con la designazione linguistica. Che, infine, a questo si aggiunga anche l’ulteriore tentativo di inserire questo modello all’interno di una pur sommaria modellizzazione delle relazioni umane e dell’agire sociale, ne testimonia il coraggio e l’originalità. Sono tentativi, beninteso, presumibilmente ancora non sistematizzati a sufficienza, ma, fino ad ora, della ricca messe di risultati ascrivibili ad un punto di vista operativo assunto nei confronti dell’operare mentale soltanto da Silvio Ceccato e da Ernst Von Glasersfeld era stato utilizzato qualcosa in termini di una diagnosi delle relazioni umane che, al contempo, potesse implicare l’assunzione di un atteggiamento terapeuticoxv in rapporto al quale, peraltro, i sospetti non devono mai mancare – perché la costituzione di un’autorità deputata alla sanatura delle differenze dal paradigma dei comportamenti sociali è sempre e comunque un atto di subordinazione politica. In Piovanelli – sia detto con sollievo -, c’è la consapevolezza che, “attraverso i giudizi che emettiamo”, “siamo tutti oppressi e oppressori”, al contempo. Nella misura in cui, allora, l’osservatore comprende in ciò che osserva e in chi osserva (e categorizza) se stesso che osserva (e catego-
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rizza) la sua diventa un’auto-critica e, immediatamente, anche una critica della società di cui si fa parte. Chi per un verso chi per l’altro – chi in quanto capitale, chi in quanto sua espressione politica, chi in quanto istituzione, chi in quanto genitore, chi in quanto figlio, chiunque in quanto “potente” nelle circostanze più opportune – concorriamo a disegnare una società domata e analgesizzata consumatrice di valori belli e fatti – tutti da ricevere, dati – ben predisposti in Tavole delle Leggi laddove si comanda con la religione e tramite il quadro delle grandi ideologie (sto parlando anche del consumismo) laddove la religione non dia sufficienti garanzie di un asservimento a tutto campo. L’alternativa – l’unica – è quella della consapevolezza dei processi di valorizzazione propri o dei processi di valorizzazione finalmente riappropriati e dell’assunzione di responsabilità che ce ne consegue. In questo senso Piovanelli parla della propria proposta analitica come di “un’opportunità di liberazione”. Bene, sono d’accordo, ma ci ho tenuto a mettere bene in chiaro “liberazione da che”.
Note Cfr. S. Ceccato, La mente vista da un cibernetico, Eri, Torino 1972, pag. 113. Cfr. S. Ceccato (a cura di), Corso di linguistica operativa, Longanesi, Milano 1969, pagg. 120-122. iii In una lettera datata 4 ottobre 1996, Ernst Von Glasersfeld, commenta un mio saggio sulla nozione di “consecutivo” in Ceccato e nella Scuola Operativa Italiana e dice che le espressioni da me dette “infelici” usate da Ceccato e da Vaccarino per spiegarne il significato, gli ricordano “un episodio nel ’60 o ’61, quando dovevo tradurre uno scritto di Ceccato e lo chiedevo una spiegazione del termine ‘dipendenza’ i
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Prefazione
(benché avessi letto con tutto lo scrupolo di cui ero capace gli scritti degli anni ’50 e ’60!). Tutto ciò che disse non mi fece vedere dove lui collocava l’origine dal quale dovevano dipendere le ‘dipendenze’” (gli errori di italiano sono suoi e glieli lascio). Per un approfondimento, cfr. F. Accame, La funzione ideologica delle teorie della conoscenza (Spirali, Milano 2002) e F. Accame, Il linguaggio come capro espiatorio dell’insipienza metodologica (Odradek, Roma 2015). iv Cfr. Cortellazzo M. e Zolli P., Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1979 e Dubois J., Mitterand H. e Dauzat A., Dictionnaire étimologique, Larousse, Paris 2001 e Baumgartner e Ménard P., Dictionnaire étimologique et historique de la langue française, Librairie Général Française, Paris 1996. v Cfr. Enciclopedia filosofica Bompiani, Bompiani, Milano 2006. vi Cfr. M. W. Eysenck (a cura di), Dizionario di psicologia cognitiva, Laterza, Roma-Bari 1994, pagg. 38-40 e pagg. 435-436. vii Cfr. A. Heymer, Dizionario di etologia, Armando, Roma 1987. viii Cfr. S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, Boringhieri, Torino 1961 e voce “inibizione” dell’ Enciclopedia filosofica Bompiani, cit. ix Cfr. W. Reich, Etere, Dio e diavolo, Sugar, Milano 1973, pagg. 64-65. x Cfr. W. Reich, Teoria dell’orgasmo e altri scritti, Lerici, Milano 1961, pagg. 190-195 e L. De Marchi, Wilhelm Reich Biografia di un’idea, Sugar, Milano 1970, pagg. 502-504. xi Cfr. F. Accame, Il potere, l’amore, la morte e Dio, in “Rivista Italiana di Costruttivismo”, 2, 2, 2014. xii Cfr. S. Ceccato, La fabbrica del bello, Rizzoli, Milano 1987, pag. 173. xiii Cfr. S. Ceccato, La fabbrica del bello, cit., pagg. 176-177. xiv Cfr. S. Ceccato, La fabbrica del bello, cit., pagg. 179-180. xv Sugli sconfinamenti psicoterapeutici della Metodologia Operativa di Silvio Ceccato era il sottotitolo di un mio saggio con cui affrontavo per la prima volta la questione. Cfr. F. Accame, Il potere, l’amore, la morte e Dio, cit. Per farsi direttamente un’idea delle modalità con cui, ricavandola dalle analisi metodologico-operative, si profila più e meno esplicitamente una soluzione terapeutica, cfr. S. Ceccato, Ingegneria della felicità, Rizzoli, Milano 1985 e E. Von Glasersfeld, Prima si deve essere in due – il cui sottotitolo era Pensieri razionali sull’amore –, in A. A. Bogdanov, Quattro dialoghi su scienza e filosofia, Odradek, Roma 2004.
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Introduzione
Anni fa ho attraversato momenti difficili. Ho compreso che oltre a dover far fronte alle mie fatiche per riemergere, stava cambiando anche il modo in cui gli altri mi valutavano. Pensiamo di essere stabili, che stabili siano fondamentalmente le nostre relazioni ed il modo in cui veniamo percepiti. Ho compreso che non è così, che nei rapporti con gli altri non siamo noi stessi per sempre: la nostra immagine la dobbiamo tutelare giorno per giorno. Pensiamo ad una relazione affettiva: l’altro ci carica di qualità e di aspettative che ci gratificano e che ci sorprendono in qualche modo. Resteremo ancora sorpresi, ma negativamente, quando l'opinione nei nostri confronti cambierà, e ci verranno imputate colpe e responsabilità che non riconosciamo, acquisendo un profilo che non riconosciamo come nostro. 'Eppure – penseremo - io sono sempre rimasto lo stesso, quello che sono ora lo ero anche prima'. I termini di confronto sugli altri sono necessariamente diversi a seconda dei punti di vista. Ad esempio, il modo in cui i figli si rappresentano i genitori è sicuramente diverso da come i genitori si percepiscono: chi è che decide come stanno realmente le cose? Chi ha ragione? Quale è la verità? Esiste una sola verità? Ciò significa anche che altri detengono, in misura variabile, un controllo sulla nostra identità. Ciò determina un margine più o meno significativo di insicurezza. È sufficiente un dubbio su di noi, un periodo di crisi, delle incongruenze e molti rapporti ne saranno segnati per sempre, verremo confinati in una diversa categoria umana. Il nostro valore, come persone, diminuirà, meriteremo di meno. E questo vale a tutti i livelli. È sufficiente varcare una frontiera imposta al mare per diventare clandestino agli altri, cioè un delinquente. Nel romanzo di Eugenides “Middlesex” una giovane adolescente scopre di essere ermafrodita. Il guaio è che lo scoprono anche gli
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altri. Da quel giorno non sarà più considerata 'normale', mentre lei (che poi diventerà un lui) è sempre la stessa persona. È mutato lo sguardo su di lei, e si tratta di una condanna inappellabile, che condiziona anche l'immagine di sé. Non è più 'normale' e se non lo è per gli altri, alla fine non lo è più nemmeno per sé stessa. L'elemento che la rende diversa condizionerà la percezione della persona nella sua globalità. Quando si comprende questo, si comprende anche che essere sé stessi è l'insieme dell'immagine che ci siamo fatti di noi e che gli altri si fanno di noi. E questa immagine è potenzialmente sempre messa alla prova. In quell'immagine cerca di farsi posto la nostra umanità. Da quell'immagine discendono comportamenti che ci possono gratificare o ferire fino a mortificare. Da questa immagine discende il riconoscimento concreto dei nostri diritti e della legittimità delle nostre aspettative. Quando questo riconoscimento non avviene si viene ridotti ad estranei, talvolta anche da parte di chi ci dovrebbe conoscere bene. Perdiamo valore, non in senso astratto, ma concretamente. Si vale meno, fino ad arrivare in alcuni casi a valere niente. La mia idea è che nella vita occorre combattere continuamente per negoziare e rivendicare il proprio valore, sia come persone, sia in relazione ai ruoli che si ricoprono, alle aspettative che si suscitano. La parola 'valore' ha una doppia valenza: una di tipo etico ed una di tipo economico. Quando affermo che si perde valore mi riferisco ad entrambi gli ambiti. Se un lavoratore in quanto tale vede diminuire i propri diritti, vedrà che il comportamento nei suoi confronti si modificherà: uno stagista non verrà trattato come un operaio a tempo pieno, nemmeno dagli altri dipendenti; un lavoratore che può essere licenziato con facilità non verrà trattato con gli stessi riguardi di chi viene tutelato dalla legge. E se può essere licenziato con facilità, si penserà che tanta considerazione evidentemente non la merita, perché la legge in vigore lo dimostrerebbe. Quando si chiede alle persone di fare sacrifici, cioè rinunce – senza mai indicare un termine – a causa di sempre nuove crisi economiche, in realtà non si chiede di fare uno sforzo ulteriore o temporaneo, come chi deve raggiungere una meta, ma di aderire alla richiesta
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Introduzione
di perdita di valore in quanto singoli ed in quanto gruppo sociale: si chiede di accettare l'idea che non si meriterà di meglio. Perché le leggi che riducono i diritti non sono mai a tempo, ma divengono un punto di riferimento, un termine di confronto. E questo darà la misura del valore degli altri. La perdita di valore può essere anche radicale. Ad esempio nei servizi socio-sanitari, settore in cui lavoro, ci viene detto che dobbiamo limitare le prestazioni per rimanere all'interno del budget assegnato. Cioè i diritti costituzionali delle persone sono secondari rispetto ad un bilancio pubblico 'sano'. Le persone marginali hanno un valore marginale, se non ci sono soldi per assisterli adeguatamente si cercano soluzioni di ripiego. Nel caso dei senza fissa dimora i diritti vengono semplicemente negati, e queste persone divengono invisibili, per lo Stato non esistono più, cioè il loro valore è prossimo allo zero. Con questo libro ho cercato di analizzare le costruzioni mentali che portano a disconoscere o sminuire il valore altrui. Tramite il concetto di 'blocco' ho cercato di descrivere gli atteggiamenti che si assumono in questi casi. E le conseguenze che ne derivano. La tesi di questo libro è che in molte situazioni tutto ciò sia il prodotto di operazioni di cui non siamo del tutto consapevoli, e delle cui conseguenze spesso non ci interessiamo. Non c'è mai niente di scontato nei nostri rapporti affettivi e sociali. È nella perdita di valore degli altri che stanno le radici della violenza, dei singoli e delle istituzioni. Il libro presenta numerosissime citazioni. È un modo per cercare di renderlo vivace, come se si trattasse di una discussione con tante voci ed esempi. Chiaramente gli autori citati potrebbero non condividere le mie ipotesi - di cui mi assumo tutta la responsabilità - ma le loro intuizioni e le loro considerazioni illuminano, in modo brillante, aspetti importanti o interessanti relativi alle mie considerazioni. Si tratta anche del riconoscimento di un debito nei confronti di autori che, per me, costituiscono un riferimento importante. Dalla lettura emergerà che l'impostazione che propongo sul tema del valore degli altri è originale, e si rifà solo in parte a scuole di pen-
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siero già affermate. Per questo mi è necessaria la lunga premessa teorica contenuta nella prima parte del libro. Nella seconda parte si approfondiscono invece i contesti e le reazioni che determinano la perdita di valore degli altri, che determinano cioè un 'blocco' nei loro confronti. A questo punto, credo sia giunto il momento di iniziare.
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PARTE PRIMA – PREMESSE TEORICHE A volte mi pare di essere in troppi anche quando sono da solo (mio padre)
Né UNO Né MOLTI RISPETTO A Sé STESSI
Operare senso motorio e dipendenze dell’operare Nello studio di noi stessi e di ciò che ci circonda, l’uomo si colloca ancora al centro dell’universo: cerchiamo la logica del nostro essere come se fossimo frutto di un progetto divino, di una volontà, dunque di una logica. Come se fosse possibile ricostruire un’ipotetica mappa nostra e di ciò che ci circonda, per quanto complessa. Chi non rientra all’interno della mappa prestabilita sarebbe anormale e ‘difettoso’, perché non rientrerebbe nella supposta volontà progettuale. Di fatto non accettiamo l’idea di essere il risultato del caso. Se la vita sulla Terra venisse azzerata e dovesse ripartire da zero, cioè dalla minore complessità, gli esseri considerati più evoluti sarebbero completamente diversi da quelli che conosciamo oggi. L’uomo esiste grazie al caso, e non per l’ineluttabilità della direzione presa dalla vita o dal processo della selezione naturale. Non c’è un progettista e dunque non c’è nemmeno un progetto. La linearità è indispensabile per cercare di dare ordine alle nostre vite (con noi stessi e con gli altri), ma noi siamo altro. In questa mia riflessione sostengo che riguardo a noi stessi siamo né uno né molti, perché possiamo riflettere su noi stessi, come se fossimo due o più, ma non possiamo astrarci del tutto da noi stessi. Ve-
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dremo che a seconda dei momenti e dei contesti emergono parti di noi completamente diverse, ma che ci appartengono indissolubilmente. Tuttavia, quando riflettiamo su di noi, tendiamo a partire dal presupposto della nostra coerenza e univocità, e questo provoca molti problemi. Ricorriamo ad una logica lineare, che ci rassicura rispetto alla stabilità nostra e di ciò che ci circonda, i cui elementi costituivi sono ben separati, mentre invece, ad esempio, l’osservatore non è scindibile da ciò che viene osservato. Cosa ci guida nella costruzione di questa realtà unitaria e apparentemente coerente? I marcatori emotivi, il ‘sentire’ che ‘le cose stanno così’. Si tratta di affermazioni di certezza che, spesso, tanto ragionevoli non sono. I marcatori emotivi ci spingono anche a rinnegare il valore degli altri, o ad essere indifferenti nei loro confronti. Occorre esserne consapevoli ed imparare a pensare in modo diverso. Questo lavoro vorrebbe essere un contributo in tale direzione. Inizieremo analizzando il processo di apprendimento, e vedremo come questo sia la sintesi e l’esito di elementi molto diversi. Il processo è diffuso, ma il risultato ci appare unitario. Apprendimento senso motorio Non sappiamo chi siamo e cosa sia ciò che ci circonda e per darcene una ragione utilizziamo la nostra intelligenza. Questa si sviluppa sulla base delle nostre esperienze, fin dal momento della nostra nascita. Ciò significa che impariamo a conoscerci ed a conoscere il mondo intorno a noi a partire dalla attività concreta del nostro organismo. Pensiero e organismo non sono separati: il rapporto tra di loro è del tipo né uno né molti perché non sono la stessa cosa e, tuttavia, non sono separabili: l’uno condiziona l’altro. Come affermava Francisco Varela “Il mondo non è qualcosa che ci è ‘dato’, ma qualcosa a cui prendiamo parte per mezzo di come ci muoviamo, tocchiamo, respiriamo e mangiamo”1. A tal fine Varela riporta gli esiti di un esperimento condotto da Held e Hein, che “fecero crescere alcuni gattini nell’oscurità e li esposero alla luce solo in condizioni controllate. Ad un primo gruppo
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di animali fu permesso di muoversi normalmente, ma attaccati ad un semplice carretto con un cesto che conteneva il secondo gruppo di animali. I due gruppi perciò condivisero la stessa esperienza visiva, ma il secondo gruppo rimase interamente passivo” cioè non si potevano muovere. “Quando gli animali furono rimessi in libertà dopo alcune settimane di quel trattamento, il primo gruppo di gattini si comportò normalmente, quelli che invece erano stati portati in giro passivamente si comportarono come se fossero stati ciechi: andavano a sbattere contro gli oggetti e cadevano. Questo eccellente studio sostiene il punto di vista (...) secondo il quale gli oggetti non sono visti mediante l’estrazione visiva di caratteristiche bensì per mezzo della regolazione visiva dell’azione”2. Potremmo fare anche l’esempio del cieco, che “conserva il concetto delle distanze legato agli spostamenti del suo corpo nello spazio. Quando circola in città, da solo, sa che cinque passi dopo aver sentito il bordo del marciapiede dovrà voltare a destra e poi, toccato col bastone un certo canale di gronda, a sinistra. Lo spazio, nella sua mente, si srotola come una matassa di spago, di cui non può perdere il filo. Trattandosi di uno spazio legato agli spostamenti del corpo, la sua dimensione risulta – per così dire – ‘più corta’. Molti ciechi, appena operati, pensano di poter scendere in strada, da una finestra posta al terzo piano, proprio perché il loro concetto di spazio, nonostante l’uso degli occhi, resta a lungo ancorato alla dimensione della cecità. (…) A un cieco al quale fu trapiantata la cornea, appena fu in grado di usare gli occhi, fu chiesto di riconoscere gli oggetti che gli stavano intorno: con il solo uso della vista non fu in grado di riconoscerne con sicurezza alcuno. Anche quando fu portato davanti a un tornio – col quale, da cieco, lavorava abitualmente – manifestò le stesse difficoltà. Solo dopo aver chiuso gli occhi e averlo appena sfiorato con le dita disse ‘ma è un tornio!’”3. La realtà dipende da colui che percepisce. Il rapporto che si costituisce tra pensiero, percezioni e sensi viene definito ‘operare senso motorio’. Preesiste nei confronti della con-
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sapevolezza. Tuttavia, questo stesso operare via via diviene sempre più complesso ed integrato, si evolve e finisce per dare vita all’attenzione, per attribuire significati a quanto accade. L’attenzione tende a separare e suddividere, ma le nostre differenziazioni sono sempre arbitrarie. Ad esempio suddividiamo il nostro corpo differenziandone gli organi; ma un organo non inizia e non finisce da nessuna parte, contrariamente a ciò che avviene nelle mappe e negli schemi. Mappe e schemi, seppure finalizzati al solo apprendimento, determinano anche dei modelli di pensiero, in cui tutto è ordinato e conseguenziale, cosicché le persone finiscono per pensare al corpo umano come ad un assemblaggio, analogamente al modello proposto in giochi quali “l’Allegro chirurgo”4. Qualsiasi organo interagisce ed è parte integrante di un sistema complessivo. Varela presenta a questo proposito l’esempio dell’attività cellulare: “Una cellula si distingue dal brodo molecolare in cui è immersa definendo e specificando i confini che la separano da ciò che non è. Questa specificazione di confini, tuttavia, è ottenuta mediante produzioni molecolari rese possibili grazie ai confini stessi. Esiste perciò una specificazione reciproca di trasformazione chimica e di confini fisici”5. A questo va aggiunto che la trasformazione chimica ed i confini sono resi possibili dal brodo molecolare, che fornisce il nutrimento ed accoglie quanto la molecola espelle. Se svanisce questa interazione, questa dipendenza dell’uno rispetto all’altro, l’autonomia cessa e l’organismo muore. Se da una parte le differenziazioni ci sono necessarie per cercare di capire, tuttavia dovremmo mantenere la consapevolezza dei loro limiti. Se questo non accade, è perché abbiamo bisogno di definire la realtà che ci circonda, oltre che il rapporto con noi stessi, come se si trattasse di una mappa. Al contrario di ciò che avviene in una mappa, nell’operare senso motorio non vi è un centro: tutto è implicato ed interagisce. Varela paragona il nostro agire ad un alveare, che riesce a fare fronte agli imprevisti e ad attività complesse, senza che vi sia un governo centrale, ma in modo flessibile e coordinato. Non vi sarebbe un ‘omuncolo’ che determina il nostro comportamento. Caratteristiche analoghe le
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presentano colonie di formiche, stormi di uccelli, branchi di pesci e di altri animali. Si tratta di un comportamento che viene definito ‘emergente’. Sono comportamenti non lineari, non facilmente prevedibili riguardo al singolo componente ma che, sommati a quelli di tutti gli altri, determinano esiti razionali e prevedibili. Non vi è un prima ed un dopo, ma un agire istantaneo, in una logica di flusso che tende a caratterizzarsi per la continuità. Il modello senso motorio proposto da Varela si basa su elaborazioni di elaborazioni, che consentono il mantenimento di un equilibrio nel sistema complessivo. Nel caso si verifichi una perturbazione, si crea un’instabilità che, se non trova reazione adeguata nel proprio ambito, coinvolge via via anche altre parti dell’insieme: o si raggiunge un punto di equilibrio, oppure il sistema collassa. L’operare senso motorio si rivela molto flessibile, alquanto adeguato a rispondere alle sfide che l’ambiente pone di volta in volta. Non può essere rappresentato graficamente, come in una mappa, perché è fluido, interagisce su più livelli contemporaneamente, è potenzialmente in grado di modificarsi continuamente. Dall’operare senso motorio alle dipendenze dell’operare L’accoppiamento senso-motorio interviene a monte della consapevolezza e garantisce i processi vitali (apparato cardiaco, apparato sanguigno, apparato linfatico ecc.). Condiziona anche la contestualizzazione della nostra percezione, dando vita a quelle che la Scuola operativa italiana definisce ‘dipendenze dell’operare’. Tali dipendenze determinano i riferimenti cognitivi cui si ricorre. Anche il rapporto tra dipendenze dell’operare e ambito senso motorio appare del tipo né uno né molti, perché la parte più antica del nostro cervello, che presiede alle emozioni ed alle funzioni vitali, interagisce continuamente con quella più recente, relativa alla elaborazione del pensiero razionale: “Emozione, sentimento, regolazione biologica hanno tutti un ruolo nella ragione umana. I livelli più modesti del nostro organismo fanno parte del ciclo della ragione superiore”6. Tutto questo fa sì che l’operare senso motorio ponga dei vincoli ai nostri comportamenti, cui diamo il nome di ‘istinti’, che si
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traducono in alcuni tipi di dipendenze dell’operare. Altri vincoli condizionano le nostre percezioni. Un esempio di vincolo legato all’istinto, è presentato da un esperimento condotto da Eleanor Gibson, che spingeva bambini di pochi mesi a muoversi su una lastra di vetro sistemata sul pavimento interrotto da una parete verticale, chiamata ‘precipizio’. I bambini si rifiutavano di andare oltre la parete verticale, verso il ‘precipizio’, e lo stesso sembra accadere con i cuccioli degli animali7. Un altro esempio di vincolo innato, questa volta relativo alla nostra predisposizione ad anticipare e dare senso alle nostre percezioni, è costituito dall’effetto ‘phi’, individuato da Wertheimer: si verifica quando si osserva il movimento di due o più elementi che agiscono quasi simultaneamente, ma in successione. Un esempio tipico sono le luci gialle sulle strade ed autostrade, che indicano e sagomano curve pericolose. Ci appare come una sorta di movimento senza oggetto. Il fenomeno viene percepito in un lasso di tempo inferiore a quello richiesto da almeno due luci per accendersi e spegnersi. Se il fenomeno avviene l’osservatore lo segnala prima, se non avviene non lo segnala. È come se il cervello fosse pronto a percepire l’effetto phi già alla accensione della prima luce. Anticipa insomma quanto accadrà e lo inserisce in una cornice di senso, Ulteriore esempio relativo all’innatismo, riguardante la capacità della vista di percepire anche quello che non c’è, è l’effetto ‘beta’, legato al movimento apparente, esemplificato dalla proiezione cinematografica, in cui una serie di fotogrammi statici in successione forniscono l’illusione del movimento. Questa illusione non potrebbe verificarsi se, l’organizzazione globale della percezione, non fosse precedente alla percezione dei singoli elementi. Siamo certi del senso di ciò che percepiamo e dei nostri istinti; si tratta di un aspetto comune a tutti gli uomini. Tale sicurezza riposa sulle conferme che provengono dalle emozioni. Le dipendenze dell’operare possono a loro volta condizionare l’ambito del senso motorio, come è tipico della relazione né uno né molti. Ad esempio, se accade qualcosa che le dipendenze dell’operare individuano come minaccioso, si verificano dei mutamenti a livello di
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battito cardiaco, di attività respiratoria, si verifica rilascio di adrenalina ecc. Si tratta delle conseguenze del senso che si attribuisce a ciò che accade. In tutto questo, è fondamentale il rinforzo emotivo. Ad esempio il pianto del neonato sollecita l’intervento tempestivo degli adulti. Osserviamo il caso dei soldati in combattimento: spesso non si accorgono delle ferite che si sono procurati, se non a fine dell’azione. Un altro esempio è quello del soldato consapevole di essere ferito, ma che comprende che i nemici stanno incombendo. In entrambi i casi il dolore viene sopraffatto dalla necessità di mettersi in salvo. Le dipendenze dell’operare e l’apparato senso motorio sembrano agire in modo da ridurre la percezione del dolore, così da consentire al ferito di combattere o di fuggire per sopravvivere. In queste situazioni, accoppiamento senso-motorio e dipendenze dell’operare prendono il sopravvento, ci guidano nella lotta per la sopravvivenza, determinano reazioni immediate ed anticipatrici, legate ai nostri istinti. Le dipendenze dell’operare connotano il contenuto ed il contesto della percezione, tendono alla stabilizzazione. In alcuni casi le connotazioni possono essere differenziate. Ad esempio accade che l’osservatore A definisca “il bicchiere sul tavolo ‘mezzo pieno’, mentre l’osservatore B predichi il medesimo bicchiere sul medesimo tavolo ‘mezzo vuoto’. E i due risultati – ‘mezzo pieno’ e ‘mezzo vuoto’ – sono entrambi ‘buoni’, non uno migliore dell’altro o, addirittura, uno ‘giusto’ e uno ‘sbagliato’”8. Se vengono presi in considerazione contesti diversi, si avranno dipendenze dell’operare diverse, non di rado incoerenti tra di loro: è il caso del musulmano osservante che talvolta non riesce a fare a meno di consumare alcolici. La gravità della trasgressione verrà rimossa o sminuita, a vantaggio dell’appagamento del desiderio che si impone, magari aiutato da amici compiacenti. Siamo creature complesse, cui l’evoluzione non richiede tanto la coerenza, ma una capacità di risposta funzionale rispetto alle opportunità ed alle sfide che l’ambiente pone di volta in volta. Le connotazioni emotive rendono le dipendenze indiscutibili. Tutto questo condiziona la capacità di riflettere su di sé e su ciò che sta accadendo.
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Attenzione e termini di confronto La parte più importante del nostro operare mentale ci sfugge. Silvio Ceccato notava che “l’uomo opera per lo più in modo inconsapevole. Basta chiedergli come faccia a pensare”9. Anche quando ci muoviamo, non pensiamo ai movimenti esatti che faremo, così come quando giocherelliamo con le dita non ci programmiamo i movimenti precisi; l’espressione indica che giochiamo con qualcosa che in qualche modo dipende da noi, ma non del tutto. Proviamo a concentrarci su un compito e sui movimenti necessari per portarlo a termine. Ben presto ci accorgiamo che compiamo anche altri gesti, ad esempio: allontaniamo un insetto, ci grattiamo, ci allentiamo il colletto della camicia ecc. Movimenti di cui ci rendiamo conto solo dopo. Si tratta di un’esperienza un po’ inquietante, perché comprendiamo di avere un controllo relativo su noi stessi, di essere in qualche modo soggetti a qualcosa che agisce per noi: non siamo del tutto registi di noi stessi, come vorremmo credere. Normalmente non notiamo questi aspetti, diamo per scontato che tutto avvenga per l’intervento della nostra parte consapevole. In tutto questo fluire, l’attenzione è selettiva e condizionata dalle dipendenze dell’operare, si focalizza solo su una parte delle interazioni che si verificano in noi e riguardo all’ambiente. Quando si concentra su qualcosa di nuovo, ‘stacca’ rispetto a quanto teneva in conto precedentemente. Si determina così un nuovo contesto, o un nuovo modo di percepirlo10. L’attenzione è finalizzata a discriminare, cioè a determinare una separazione. Per Varela e Maturana “L’operazione cognitiva basica che facciamo come osservatore è l’operazione di distinzione. Con questa operazione noi specifichiamo un’unità come un’entità distinta da uno sfondo, caratterizziamo sia l’unità che lo sfondo con le proprietà di cui questa operazione le dota e specifichiamo la loro separabilità”11. Ci ‘espandiamo’ in ciò che discriminiamo, nelle nostre analisi e nei loro esiti. In questo modo ci convinciamo di afferrare e di detenere il senso della ‘realtà’. Da questo tipo di passaggio discendono le categorie di ‘vero ‘e di ‘falso’, quindi la logica ed il pensiero lineare, la tendenza ad elaborare modelli e mappe.
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L’attenzione che ‘stacca’, e si focalizza su altro, dà vita a nuovi termini di confronto, e quindi a nuovi pensieri. Spesso si tende a modificare i termini di confronto senza esserne consapevoli, anche laddove non ce lo aspetteremmo. È il caso di molte persone malate di tumore in fase terminale, che continuano a fare progetti per la loro vita. Quando riflettono sulla malattia sono consapevoli del tempo che resta loro da vivere, ma successivamente continuano a proiettarsi in un futuro che può andare oltre. Per le dipendenze dell’operare legate all’istinto di sopravvivenza, è importante che la persona non si rassegni alla morte e continui ad essere attiva, proiettandosi nel futuro. Quando ci inseriamo in contesti diversi dal nostro, finiamo in genere per adottare dipendenze dell’operare e termini di confronto radicalmente differenti da quelli che ci sono abituali. Quando ce ne rendiamo conto, ci sorprendiamo di noi stessi. È il caso di chi vive in un paese straniero e parla una lingua diversa dalla propria: finisce per adottare posture, movimenti ed atteggiamenti tipici di quella cultura. Secondo la scrittrice e commentatrice turca Elif Shafak “‘in ogni lingua una persona è differente’, sostiene ‘non è solo la voce che cambia – anche l’intero assetto mentale si modifica. Conosco molte ragazze che sentono che non possono fare un giuramento in turco, perché la cultura lo proibisce decisamente. Ma quando parlano in inglese non hanno alcuna remora al riguardo’”12. Cambiamenti di termini di confronto radicali e improvvisi sono particolarmente evidenti negli adolescenti. Normalmente procediamo in modo non riflessivo, perché la consapevolezza ci rallenterebbe. Ad esempio tendiamo a ridere prima di aver compreso la battuta della storiella che ci viene raccontata. Varela ritiene che l’attenzione focalizzata si manifesti all’arrivo di un intoppo che ci costringe a fare delle scelte, a soppesare un dubbio, a gestire l’autocontrollo, cioè a modificare quella che definisce ‘micro identità’ ed il relativo micromondo associato. Se invece i cambiamenti avvengono all’interno dello stesso micromondo, i passaggi avvengono in modo fluido, senza che ne siamo consapevoli, come se si trattasse di una routine. Varela propone a questo riguardo
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l’esempio di un’improvvisazione jazz: anticipare lo sviluppo musicale ci permette di scegliere la combinazione di note che più ci piace. Le dipendenze dell’operare implicano delle reazioni obbligate, dei vincoli, come se ci affidassimo ad un copione già collaudato. Grazie alle dipendenze dell’operare tendiamo a proiettare delle caratteristiche sugli oggetti e sulle persone, tendiamo ad avere delle aspettative relativamente agli eventi che si verificheranno, come abbiamo visto a proposito dell’effetto ‘phi’ e dell’effetto ‘beta’. Accame scrive che “Basta l’atto per far percepire l’instaurazione di una cornice”13. Il motivo per cui spesso non ci rendiamo conto delle interruzioni che portano alle transizioni tra micro identità, è legato all’aspetto totalizzante ed emotivo delle dipendenze dell’operare. In questo modo il passaggio non viene percepito. Secondo Kahneman “Quando si verifica un avvenimento imprevisto, aggiustiamo immediatamente la nostra visione del mondo per incamerare il fattore sorpresa”14. Per Varela la nascita del concreto si realizza quando si verificano questi eventi, che chiama ‘fratture’15, come nel caso di uno shock o di un pericolo improvviso. In questi casi l’attenzione si focalizza sulla situazione e attende, cercando di mettere a fuoco ciò che accade. Successivamente si correla riguardo a ciò che manca, alla lacuna che l’intoppo ha messo in evidenza16. Come scrive Varela “diventiamo come dei principianti che cercano di arrivare a svolgere con disinvoltura il compito del momento”17. L’attenzione inizialmente appare ‘sospesa’, perché in attesa di uno stimolo che permetta la comprensione di quanto sta avvenendo. Se l’attenzione richiede tempi che si protraggono, si determina disagio perché, in mancanza di una spiegazione e soluzione del problema, la nostra attenzione si confronta con il vuoto. Ci si affida alla memoria, per discriminare ciò che richiama la nostra attenzione e si operano delle correlazioni. La correlazione consiste nel porre qualsiasi tipo di rapporti. Memoria e correlazione consentono il confronto e le congetture, per anticipare le conseguenze di quanto sta per avvenire, in modo da agire per tempo. Vi sono correlazioni di cui siamo consapevoli ed
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altre che ricadono nell’ambito dell’inconscio, che determinano le dipendenze dell’operare. Attraverso la memoria e la correlazione avviene il riconoscimento. Già nel 1960 Sperling dimostra l’esistenza della ‘memoria iconica’, cioè a brevissimo termine, i cui tempi di mantenimento variano tra i 100 e i 500 millisecondi. La memoria iconica precede il riconoscimento degli stimoli in arrivo. Tutto quello che viene mantenuto nella memoria iconica, se non passa attraverso fasi successive per ulteriori elaborazioni, viene perso una volta per tutte. Ceccato afferma che in senso operativo il riconoscimento è un confronto, cioè una correlazione, con esito di uguaglianza. Il confronto può essere di qualsiasi tipo, da quello fisico a quello astratto. Si tratta di operazioni mentali. Il riconoscimento è fondamentale, anche perché ci rassicura riguardo al nostro bisogno di certezza e di governare ciò con cui dobbiamo fare i conti. Il riconoscimento coincide con una percezione di ‘ritrovamento’, che determina un senso di familiarità con quanto confrontato, la convinzione che si tratti di nessi reali e certi. Si determina la certezza di aver ‘afferrato’ ciò con cui ci confrontiamo. Il riconoscimento è indiscutibile anche perché è relativo a ciò che abbiamo vissuto, che ci è accaduto: trova in sé la propria conferma, e questo è un tratto tipico delle dipendenze dell’operare. Quando il riconoscimento non avviene, col passare del tempo, tende a subentrare l’ansia e l’incertezza perché, come abbiamo già detto, la nostra attenzione non trova riferimenti e si confronta con il niente. Mérő presenta esempi interessanti relativi alla anticipazione, al riconoscimento ed al loro caratterizzarsi con il coinvolgimento emotivo, ad esempio “Gli scienziati sentono esattamente se un interlocutore sta pensando in maniera scientifica o meno, e questa percezione non è basata su qualche sistema formale, ma e piuttosto l’analogo dell’’orecchio musicale’. Un’intuizione paragonabile alla sensazione provata quando, in vacanza all’estero, immediatamente drizziamo le orecchie in un sussulto. Anche se non abbiamo capito per esteso neanche una parola, siamo sicuri di aver intercettato una stazione in cui si parlava la nostra lingua”18.
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Questo confermerebbe quando sostenuto da Simon, e cioè che “L’intuizione non è né più né meno che riconoscimento”19. Secondo Kahneman “Le intuizioni valide maturano quando soggetti esperti imparano a riconoscere elementi familiari in una situazione nuova e ad agire in maniera appropriata”20. Il riconoscimento ha sempre anche una componente emotiva. Non solo, i marcatori emotivi si affermano velocemente anche in contesti inediti. Varela ci fornisce l’esempio della realtà virtuale, in particolare del data glove: “Un casco equipaggiato con due videocamere, una per ciascun occhio, e un guanto o una tuta dotati di trasduttori elettrici dei movimenti sono collegati, non attraverso il solito accoppiamento via ambiente, come ci è familiare, bensì per mezzo di un computer. (…) Ciò che per me è maggiormente significativo è la veridicità del mondo che rapidamente ci sorge dinanzi: abitiamo un corpo entro questo nuovo mondo dopo un breve periodo di sperimentazione di questa nuova situazione (circa 15 minuti), e l’esperienza è quella di volare veramente (...). È per mezzo della chiusura del sistema nervoso che un tale ingegnoso sintetizzatore di regolarità fa sì che qualsiasi materiale di base sia sufficiente come ambiente per far emergere un mondo irresistibile”21. Quel mondo è irresistibile perché si ricreano i processi che danno vita alle dipendenze dell’operare. Ciò che percepiamo diviene parte di ciò che consideriamo realtà, cioè l’assimiliamo e ci viviamo ‘dentro’. L’apprendimento senso motorio si coniuga nuovamente con le conferme indotte dai marcatori emotivi. Dipendenze dell’operare e marcatori emotivi Le correlazioni devono essere ritenute sicure, vere, per credere nei risultati che scaturiscono dal porle in rapporto. Questo è possibile grazie alle loro caratterizzazioni emotive. Senza marcatori emotivi l’intelligenza rischia di andare ‘in blocco’ di fronte all’incertezza. Damasio osserva che “Quando dobbiamo formulare un giudizio morale, decidere sull’andamento di una relazione personale, scegliere come evitare di trovarci privi di mezzi nella vecchiaia, o semplicemente decidere cosa fare degli anni che verranno, siamo di fronte all’incertezza. Emozione e sentimento in-
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sieme con i processi fisiologici che ne costituiscono la base nascosta, ci assistono nello scoraggiante compito di prevedere un futuro incerto e di pianificare in sintonia le nostre azioni”22. Senza le emozioni passeremmo un sacco di tempo a fare calcoli e previsioni senza riuscire a decidere. In mancanza di priorità indicate dalle emozioni, saremmo incapaci di agire e fare delle scelte. Subiremmo gli eventi e rischieremmo di soccombere. L’incertezza è una minaccia nei confronti della salvaguardia del singolo e della specie. Attraverso i marcatori emotivi ‘sentiamo’ di essere nel giusto, di avere compreso, come se ‘vedessimo’ attraverso le congetture. Essere consapevoli significa non solo osservare il nostro operare, ma anche ‘sentire’, provare qualcosa rispetto a ciò che percepiamo. Nel momento in cui sono consapevole di pensare sono consapevole anche del fatto che c’è qualcuno che lo sta facendo, nello stesso modo in cui, se sono consapevole che mi sto allacciando le scarpe, sono consapevole e ‘sento’ che c’è ‘qualcuno’ che sta eseguendo questa operazione23, il che, come abbiamo già osservato, può non essere del tutto tranquillizzante. Facciamo un altro esempio: vediamo l’immagine di un serpente che si morde la coda. Cerchiamo di ricordare il nome che lo definisce, facciamo fatica (boro... uro...). Alla fine arriviamo a trovare la parola: uroboro! Ecco, la riconosciamo, è lei. Come abbiamo fatto a riconoscerla? Abbiamo ‘sentito’ che la parola è quella, una sorta di marcatore emotivo di conferma24. Quando riflettiamo, rievochiamo il problema o l’evento che ci interessa ponendoci in ascolto di reazioni e suggestioni. Implicitamente, il processo del riconoscimento ci fa ritenere che tutto abbia una sua collocazione ed una sua logica. Per estensione siamo portati a credere che tutto risponda ad un senso predefinito. Il nostro compito, nella vita, dovrebbe essere semplicemente quello di percorrere la strada ‘giusta’ che è stata prestabilita, da cui non dovremmo allontanarci. Quando la soluzione non è chiara, si tratterebbe solo di ritrovarla. Forse non è un caso che ‘sentire’ e ‘sentimento’ abbiano la stessa radice etimologica di ‘senno’ e ‘sentenza’. Ciò che sentiamo lo consideriamo vero, perché siamo noi: quello che proviamo è qualcosa
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che ci succede, e dunque ne siamo guidati. Non possiamo essere critici nei confronti del nostro sentire nel momento in cui lo proviamo. Ma se non lo proviamo, allora non avviene il riconoscimento. La capacità di sdoppiarci, che è possibile grazie al né uno né molti, ci serve anche per confermarci nelle nostre conclusioni e nella gestione della consapevolezza. Per capire meglio, leggiamo ad esempio il seguente brano di Accame, a proposito di uno studio di Ramachandran relativo alla sindrome di Capgras, che implica una ‘errata identificazione’, un ‘falso riconoscimento delle persone del proprio ambiente’. Il paziente curato da Ramachandran, al risveglio dopo un trauma cranico, “sembrava stesse bene e fosse perfettamente normale, se non che, al momento in cui venne a trovarlo sua madre, si rivolse con molto tatto al dottore e, senza farsi sentire, gli disse che sì, quella persona appena entrata somigliava molto a sua madre, che sembrava del tutto identica, ma che non era affatto sua madre e che, anzi, di certo si trattava di un’impostora. È a questo punto che scattò la diagnosi di sindrome di Capgras. La spiegazione, tutto sommato, è semplice: le operazioni mentali relative al riconoscimento vengono eseguite in una parte del cervello denominata ‘giro fusiforme’, ma la coloritura emozionale del riconoscimento ed il suo significato effettivo vengono poi elaborati da un’altra particina del cervello, l’amigdala. Ed evidentemente in quel paziente il passaggio dell’immagine della madre da una parte all’altra era stato interrotto dal trauma subìto. Ecco perché la persona entrata nella camera dell’ospedale ‘somigliava’ alla madre del paziente, ma non poteva esserlo. Assegnare significato a qualcosa implica, dunque, un coinvolgimento emotivo che, dall’alto della nostra pretesa razionalità, tendiamo ad escludere”25. La ‘realtà’ necessita di soggettività e di immaginario per prendere consistenza, il senso di certezza del nostro punto di vista è assicurato dalle dipendenze dell’operare, e dalla loro dimensione emotiva ed affettiva. Dalla sintonia con il proprio sentire si producono desideri, tensioni, preoccupazioni, speranze ecc. Si producono cioè le narrazioni che fanno muovere gli uomini, che ci spingono ad alzarci la mattina:
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“Che lo accetti o no, che sia vero o falso, l’uomo crede sempre in un significato, finché egli vive. Anche il suicida crede in un significato, se non della vita, almeno della morte. Se non credesse in alcun significato, allora non potrebbe muovere neppure un dito e non potrebbe neppure pensare al suicidio”26. Il caso estremo del suicidio mostra come l’affermazione di un senso possa ritorcersi anche contro la persona, possa rivelarsi cioè autodistruttiva. Nella mancanza di sintonia con ciò che avviene, si verifica una ritrazione in noi stessi, per smarrimento: non ci sono possibilità di narrazione e ci sentiamo sopraffatti dalla confusione. Nella mancanza di sintonia siamo scissi da tutto: si rischia di perdere il senno, perché il mondo perde senso. Anche la parola ‘senso’ ha la stessa radice di ‘sentire’ e ‘sentimento’. Questa perdita di significato spinse molti internati nei campi di sterminio nazisti a lasciarsi morire: erano divenuti indifferenti a sé stessi. Il condizionamento dei marcatori emotivi legati alle dipendenze dell’operare lo possiamo constatare anche nel sentimento di fondo, che ci connota. Questo costituisce il fondamento della nostra vita emotiva. Ad esempio, se siamo depressi anche il mondo fisico circostante ci appare deprimente. Eppure fuori di noi non c’è depressione, ne’ dolore, ne’ gioia, ne’ altri stati emotivi. Il nostro umore impregna ciò con cui abbiamo a che fare e lo connota. Persone diverse percepiscono le stesse cose in modi radicalmente diversi e ‘reali’. Secondo Damasio il ‘sentimento di fondo’ coinciderebbe con “il sentimento della vita stessa, il senso di essere. (...) Di un sentimento di fondo abbiamo solo una sottile consapevolezza”27. Talvolta questo sentimento si modifica anche per lunghi periodi di tempo, per avvenimenti che condizionano la nostra vita, come ad esempio la perdita di una persona cara. Il sentimento di fondo si traduce in ‘atteggiamento di fondo’, cioè un modo di porsi caratteristico del singolo, differenziato da soggetto a soggetto. Il sentimento e l’atteggiamento di fondo possono essere scavalcati o modificati da anticipazioni emotive relative ad eventi ritenuti importanti.
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Diviene problematico separare nettamente l’aspetto consapevole delle nostre riflessioni da ciò che ci viene indotto a livello inconscio, si tratta di un dualismo che non regge alla prova dei fatti, tutto è più comprensibile se lo si inserisce nella relazione del né uno né molti. Riassumendo: le dipendenze dell’operare scattano automaticamente, senza riflessione; non costano sforzo e nell’immediato non sono controllabili. I processi che le fanno scattare risiedono nell’inconscio e quindi non sono accessibili. Si è ciechi nei loro confronti, e si può essere consapevoli solo a posteriori del loro manifestarsi. Nel momento in cui le dipendenze agiscono, non contemplano alternative a sé stesse, trovano in sé la propria conferma. Interpretano quanto sta avvenendo ed anticipano le presunte conseguenze per consentirci, grazie al pensiero razionale, di favorirle o contrastarle. Si tratta di forme di correlazioni olistiche, che presentano una forte connotazione emotiva. La giustificazione delle nostre reazioni è sempre successiva e non sempre plausibile, come vedremo negli esempi sulla moralità nella seconda parte. L’aspetto olistico delle dipendenze dell’operare è legato al fatto che, apparentemente, riportano tutto ad unità e coerenza. Wittgenstein osserva che “Quando cominciamo a credere a qualcosa, crediamo non già a una proposizione singola, ma a un intero sistema di proposizioni. (...) non singoli assiomi mi appaiono evidenti, ma un sistema in cui le conseguenze e le premesse si sostengono a vicenda”28. Lakoff conferma lo stesso automatismo, quando afferma che “Non c’è un solo frame che si attiva inconsciamente e automaticamente con le parole: c’è un intero sistema di frame e di metafore”29, come in un processo di cristallizzazione. Tutto ci appare così coerente e riconoscibile, unitario. Le dipendenze dell’operare tendono alla stabilizzazione, danno vita a proiezioni funzionali a collocarci ed a collocare ciò che ci circonda e ci accade; sono funzionali a generare aspettative per anticipare ciò che potrebbe accadere, per reagire in modo appropriato.
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Univocità percettiva Ciò che percepiamo ha caratteristiche univoche perché abbiamo bisogno di stabilità, certezza e coerenza. Si verifica un principio che Vaccarino definisce ‘univocità della consapevolezza’ 30, per evitare che si creino conflitti rispetto a ciò che si percepisce. È ciò che accade nel caso delle immagini. Queste sono l’esito di due punti di vista (i bulbi oculari) elaborati in chiave unitaria e ricomposti dall’opera straordinaria di numerosi neuroni. L’immagine univoca e coerente è un’illusione resa possibile dal nostro cervello. Tutto ciò che percepiamo è condizionato dalle nostre operazioni mentali, e non può essere che così: “Consideriamo per esempio gli impulsi nervosi che giungono al cervello dagli organi di senso. Lungi dal fornire un accesso diretto e puro alla realtà, nemmeno loro sono esperiti per ciò che sono davvero, cioè scariche elettriche. Né in genere, li sentiamo accadere nel luogo dove avvengono, cioè i cervello: li collochiamo invece nella realtà esterna. Non vediamo semplicemente il colore blu, ma un cielo blu, lontano, lassù. Non proviamo genericamente dolore, ma abbiamo mal di testa o mal di pancia. Il cervello assegna interpretazioni come ‘testa’, ‘pancia’ e ‘lassù’ a eventi che in realtà avvengono dentro il cervello stesso”31. Ciò che percepiamo costituisce una correlazione, in un rapporto in cui percettore e percepito non sono separabili, sono né uno né molti. Le caratteristiche che attribuiamo alle percezioni sono piuttosto proiezioni. La continuità di ciò che percepiamo, la sua coerenza, è quella che viene chiamata, negli studi relativi alla vista, ‘costanza percettiva’, e “garantisce un mondo percettivamente stabile e, quindi permette la messa a punto di tutti quei comportamenti ripetitivi che costellano le giornate di noi tutti e che ci permettono di non rimanere schiacciati da un mondo che cambia, in ogni momento, di forma e colore”32. Ad esempio: una persona che si allontana diviene molto più piccola di quanto noi percepiamo, perché il cervello rielabora e muta l’immagine retinica. E ancora: l’angolazione degli oggetti muta molto più di quanto ci rendiamo conto osservandoli mentre ci muoviamo. Un altro esempio riguarda una parete che in parte sia esposta
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al sole ed in parte sia in ombra. Il colore della parete dovrebbe essere diverso, ma noi continuiamo a vederlo analogo. “Se il cervello dovesse leggere punto a punto, esattamente tutto ciò che è ‘scritto’ sulla retina (...) non riusciremmo ad avere due volte la stessa percezione dell’oggetto più banale e familiare; a ogni momento dovremmo rifarci i conti sulle distanze, oltre che sulla forma e il colore degli oggetti; i visi delle persone più note, a seconda dei loro e dei nostri spostamenti nello spazio, delle loro posizioni, ci apparirebbero sempre diversi”33. La stabilità della percezione è legata alla selezione che il cervello conduce degli stimoli che vi arrivano. Ciò che avvertiamo è il risultato di un’opera enorme di filtro, basata sulle esperienze precedenti. Non solo, il cervello fonde costantemente le immagini provenienti dagli occhi, perché si giunga ad un’immagine unica, dotata di significato e di profondità. La costanza percettiva è il risultato di “sistemi di relazioni che, nelle esperienze passate (...) hanno risposto coerentemente a verifiche percettive di vario tipo”34. Nella costanza percettiva anticipazione, partecipazione e correlazione si innestano l’una nell’altra, ma il risultato è nitido: è una proiezione, anche se non sempre coerente, come dimostrato dalle illusioni ottiche. La logica innata della costanza percettiva ricerca la persistenza. Poiché siamo portati ad affermare certezze, non viene mai percepita contemporaneamente la doppia possibilità, ma solo una proiezione alla volta, coerente con le precedenti. Sempre Casula riporta che già a livello della retina i segnali subiscono una selezione. La retina, infatti, “funzionerebbe, in parte come la ‘memoria’ di un calcolatore elettronico e sarebbe capace di selezionare, tra tutti gli stimoli che arrivano, quelli più pertinenti. (…) la selezione avverrebbe dentro un certo numero di possibilità, che si sono offerte prima, in seguito a esperienze precedenti”35. In pratica, percepiamo quello che abbiamo imparato a percepire e questo anche a livello cognitivo. La percezione è predefinita, dunque anticipata e, attraverso l’accoppiamento senso motorio, non prevede alternative. Questo fenomeno viene chiamato ‘selezione percettiva’. Pur di mantenere il controllo su ciò che percepiamo ed una de-
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finizione univoca della realtà, l‘elaborazione mentale delle immagini porta a vedere anche cose che non ci sono. Un semplice esempio è dato dallo stereoscopio, una sorta di binocolo, all’interno del quale possono essere poste anche immagini diverse, una per occhio. Se si pongono due foto di persone di proporzioni simili, ad esempio formato tessera, quella che emerge osservando nello stereoscopio è l’immagine di una terza persona, in cui sono fusi i tratti delle altre due36. Il nostro cervello rielabora le immagini, che percepiamo come dati di realtà. Vi sono casi in cui l’immagine unitaria di ciò che ci circonda viene messa in crisi. Accade con le figure ambigue, cioè immagini singole che possono dare luogo a due o più percezioni distinte: vedi ad esempio figure che possono essere lette come un vaso o due volti opposti e uguali, un ritratto di Freud che potrebbe essere anche una donna ecc. Possiamo percepire tuttavia una sola versione alla volta. Singolare è il caso dei ritratti di Arcimboldi, in cui la stessa figura della persona può divenire a sua volta sfondo, se ci si concentra sui singoli elementi che la compongono. Nel nostro inconscio qualcosa agisce e decide come “organizzare i vari profili e i vari colori che gli è dato distinguere sotto la forma di una faccia o sotto quella di un mazzo di fiori. (...) quella di considerare qualcosa come una componente di qualcosa d’altro o come un composto di elementi diversi, come un insieme o come una serie di particolari, come uno sfondo o come un primo piano, è una decisione solo ed esclusivamente nostra. Non succede, ovviamente, soltanto con le opere dell’Arcimboldi, che su quel genere di ambiguità ha deciso di giocare la sua scommessa di artista: succede ogni volta che ci capita di vedere degli alberi invece di un bosco, una libreria invece di un certo numero di libri, un cielo annuvolato piuttosto che delle nuvole in cielo”37. Ciò dimostra che è la percezione che determina il percepito e non il contrario. Il percepito varia al variare “di ciò che attenzionalmente viene lasciato e tenuto”38. Ancora una volta l’attenzione non può essere indifferenziata, neutrale: è precondizionata, anticipatrice.
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Preferenze e correlazione Zajonc ha dimostrato che preferiamo ciò che già conosciamo, cioè ciò che ci è familiare e questo avviene a livello inconscio. In alcuni esperimenti si chiedeva alle persone di leggere un libro mentre ascoltavano sequenze casuali di note. Al termine, riferivano di preferire le successioni di note che di tanto in tanto si erano ripetute, anche se non erano in grado di riconoscerle consapevolmente. In un altro studio si esponevano forme di poligoni per un millisecondo, e venivano preferite le forme che già erano state mostrate, anche se le persone dichiaravano di non averle viste prima. Questi risultati sembrano dimostrare che ci sono alcuni elementi operativi, che Zajonc battezzò ‘preferenda’, che consentono alle persone di fare esperienze di tipo emotivo senza che questo emerga a livello di consapevolezza, un po’ come abbiamo ipotizzato riguardo alla visione. In definitiva ciò che è familiare, cioè riconosciuto dalla nostra memoria, viene apprezzato di più, indipendentemente dal suo contenuto, si trattasse anche solo di forme geometriche39. Riconoscere rassicura. Per dimostrarlo “Marcel (1976) ha utilizzato uno strumento chiamato tachistoscopio per presentare con uguale probabilità parole o spazi bianchi. Le parole potevano essere corte o lunghe, piacevoli o spiacevoli. Se i soggetti pensavano di vedere una parola e non uno spazio bianco, veniva chiesto loro di confrontarne la lunghezza con quella di altre parole, nonché di classificare la parola come ‘buona’ o ‘cattiva’. Una parola buona potrebbe essere ‘cibo’, una parola cattiva ‘male’. La durata dell’esposizione alla sequenza veniva poi ridotta fino a un punto in cui la prestazione dei soggetti nell’indovinare la presenza o meno di parole casuale. Marcel ha scoperto che a questo punto anche i giudizi sulla lunghezza delle parole (anch’essi cognitivi) erano fatti a caso. Tuttavia, sempre a questo punto, il punteggio di valutazione buono-cattivo dato dai soggetti alle parole (quando queste erano presenti) non era assolutamente casuale indicando così che la reazione affettiva era generata più velocemente della reazione di riconoscimento, e poteva anche manifestarsi in sua assenza”40. Ciò che è familiare, che può quindi essere facilmente riconosciuto, appare inoltre più verosimile.
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Probabilmente questi aspetti condizionano anche quella che viene definita l’‘euristica della disponibilità’, per cui le nostre scelte del passato ci condizionano per tutta la vita. Magari ci capita un guasto all’auto, ed iniziamo la nostra ricerca dove si verificano più frequentemente dei problemi, anche se i segnali suggerirebbero di cercare in un’altra direzione. Sul piano del ragionamento logico, la univocità della consapevolezza ci spinge a trascurare il fatto che la realtà consiste delle nostre correlazioni, cioè delle nostre proiezioni. Queste possono essere riferite ai termini di confronto più diversi e, nello stesso tempo, rimanere congruenti rispetto al mondo che ci circonda. Ad esempio: se si esaminano gli eventi che ci accadono da un punto di vista minuto, si avrà l’impressione che molto sia legato alla fortuità degli avvenimenti e delle scelte fatte su due piedi. Se si osservano gli stessi fatti dall’‘alto’ si avrà l’impressione che la nostra storia segua una logica, che spiegherebbe lo sviluppo degli eventi al di là delle azioni contingenti. Queste sarebbero semmai all’interno di una logica a loro superiore. Due modi molto diversi di vedere le stesse cose, che conducono a conclusioni opposte. Quando adottiamo un punto di vista cancelliamo tutto ciò che lo esclude o lo disconferma. Oliva suggerisce che ci si deve allontanare dal quadro, per riguadagnare la visione del volto o dello sfondo nei quadri di Arcimboldi, quindi anche in questo caso non è lo sforzo della volontà che ci permette di vedere in un modo o in un altro: il tipo di visione va in qualche modo indotto. L’allontanarsi favorisce la visione complessiva. Facilita il passaggio nel rispetto della univocità della consapevolezza. Hofstadter ne parla a proposito della musica, per cui vi sarebbero “due modalità in qualche misura analoghe di ascoltare una fuga: o seguire una singola voce per volta, oppure seguire l’effetto totale di tutte le voci insieme, senza tentare di separarle l’una dall’altra. (…) Mi scopro a balzare da una modalità all’altra con repentini spostamenti, più o meno involontari e spontanei”41. Non vi è possibilità di esercitare un controllo consapevole su quale delle due modalità debba prevalere. Come ammette Hofstadter, “nel caso in cui uno stesso sistema ammetta due o più descrizioni a livelli diversi che però in qualche modo
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si somigliano, si rimane disorientati: pensando al sistema, riesce difficile evitare di mescolare questi livelli e si perde rapidamente ogni riferimento”42. Un esempio di descrizioni esplicative intrecciate, che determinano esiti diversi, e della sensazione di indecisione che determina, può essere ritrovato nel seguente brano: “Normalmente penso di essere IO l’agente che controlla ciò che penso, ma come voi mettete le cose, esse appaiono esattamente rovesciate. Ora sembra che ‘IO’ sia soltanto ciò che viene fuori da tutta questa struttura neuronica e dalle leggi naturali. Questa vostra impostazione rende ciò che io considero ME STESSO, nel migliore dei casi, il sottoprodotto di un organismo governato da leggi naturali e, nel peggiore, un costrutto artificiale prodotto dalla mia prospettiva distorta. In altri termini, mi fate sentire confuso perché non so più chi o che cosa sono, ammesso che sia qualcosa”43. Una correlazione incongrua o non soddisfacente “genera situazioni spesso insopportabili. Stati di ansia, paura e angoscia – quelle condizioni di ‘attenzione protratta’ di cui ha parlato Ceccato – sono i costi naturali che dobbiamo pagare in cambio di un’ampia capacità correlativa. Se la parola non si estendesse in discorso, se i segni non permanessero e se non li ricordassimo, se non erigessimo teorie sui rapporti instaurati e se non associassimo valori ad una vasta gamma degli elementi correlati, il problema non sussisterebbe. Ma, neppure sussisterebbero le rappresentazioni che ci siamo fatti di noi stessi”44. Quanto sia faticoso mantenere ordinato e coerente il mondo in cui viviamo, lo possiamo constatare nelle situazioni in cui siamo stanchi, ma dobbiamo restare svegli, come accade a volte quando siamo alla guida da molte ore, specialmente di notte: i pensieri si sovrappongono, le percezioni visive si confondono. Anche in questi casi proviamo ansia, quanto più le distorsioni percettive ed il marasma dei pensieri si aggrava. La univocità della consapevolezza costa sforzo. Soggettività e ricerca della oggettività sono interconnesse in molti modi. Nagel presenta, a questo proposito, l’esempio della fisica, la scienza che ha conseguito il maggior distacco da una prospettiva spe-
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cificamente umana, per concludere che “la fisica è costretta a lasciare fuori dalla descrizione il carattere irriducibilmente soggettivo dei processi mentali coscienti, quale che sia la loro intima relazione con il funzionamento fisico del cervello. La soggettività della coscienza è una caratteristica irriducibile della realtà – senza la quale non si potrebbe fare fisica o qualsiasi altra cosa”45. Senza soggettività non vi può essere possibilità di oggettivare e quindi accumulare sapere. Il nostro mondo è fondato su noi stessi. Perché la soggettività sia possibile è necessario il né uno né molti. Allo stesso modo operare e risultato rimandano l’uno all’altro. Un po’ come nella litografia “Mani che disegnano” di M. C. Escher: un unico disegno reso possibile da due mani diverse che si definiscono a vicenda. Tuttavia, nella litografia osservatore e quadro sono separati: il paradosso in qualche modo si può affrontare e valutare. Nel caso degli esseri umani, invece, tutto è più difficile, perché non ci possiamo scindere da noi stessi. L’esempio della litografia di Escher ci dimostra che, quando si rappresenta il né uno né molti riferito a ciò che ci è esterno, questo è rappresentabile. Questo non è possibile se ci riferiamo a qualcosa in cui siamo implicati. Al pari del labirinto che cessa di essere tale se viene disegnato, il né uno né molti che ci riguarda non è rappresentabile, perché non lo si può fissare sulla carta come invece avviene con una mappa, anche per la sua mutevolezza. La logica che lo genera fondamentalmente ci è oscura. Le valutazioni su noi stessi sono proiezioni autoreferenziali, che si costituiscono nel tempo, interpretazioni a cui ci conformiamo. Così si sviluppa la soggettività. Questo processo di interpretazione e rielaborazione è evidente nella lettura dei diari personali, nelle riflessioni maturate nel tempo. Tali sdoppiamenti rendono possibile stabilire dei termini di confronto; così si arriva, ad esempio, al punto di dividere il nostro ‘interno’ dal nostro ‘esterno’. Le contraddizioni sono comunque evidenti: nell’approccio empatico, nell’identificazione con l’altro, dove sono l’interno e l’esterno? Come può essere del tutto esterno ciò che è il prodotto delle nostre operazioni mentali?
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Anche una parte del corpo può venire isolata dal resto per essere analizzata: quando ci sdoppiamo e ascoltiamo il battito del nostro cuore, il cuore è esterno o interno? Se osserviamo il nostro braccio, è esterno o interno? E quando percepiamo le nostre emozioni, le nostre fantasie, lo facciamo dall’interno o dall’esterno? L’osservatore è più esterno dell’osservato in questi casi? E cosa accade quando siamo vittima delle dissociazioni? Da dove muoverebbe il nostro sguardo? Senza contare che talune forme di dissociazione sono ritenute piacevoli e ricercate, come nel caso dell’estasi e della assunzione di droghe. Anche in questi casi, come si fa a stabilire una scissione tra ciò che la persona percepisce e l’esterno? E quando siamo in una situazione di dormiveglia, prima di alzarsi, e quando vorremmo uscire dalla dimensione del sogno? Nonostante questo, la capacità di correlare, cioè di porre rapporti e formulare congetture, determina un importante vantaggio evolutivo, perché ci consente un ventaglio di opzioni estremamente vario, nel cercare di adeguarci continuamente al mutare degli eventi.
Dipendenze dell’operare e consapevolezza A proposito del rapporto tra inconscio e consapevolezza Nagel parla di ‘punto cieco’ e ne fornisce la seguente definizione: “La visione incompleta di noi stessi nel mondo include un ampio cieco sotto i nostri occhi, per così dire, che nasconde qualcosa di cui non possiamo tener conto nell’agire, perché è ciò che agisce. (…) La visione incompleta ci mette di fronte alla possibilità che siamo costretti a comportarci in uno di questi modi, senza conoscerli, da fattori che operano nel punto cieco”46. Riflettere su sé stessi implica il ‘riconoscersi’, ma questo riconoscimento di sé non ci comprende mai totalmente, c’è sempre l’incognita del ‘punto cieco’ che ci sfugge. Per questo non sappiamo dare spiegazioni chiare sui motivi di tanti nostri comportamenti. Ad esempio, nel senso di colpa e nella vergogna soffriamo per come ci siamo comportati, ma non sappiamo dire –
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neanche a noi stessi – con chiarezza, il motivo per cui abbiamo scelto di comportarci in modo discutibile. Questo è dovuto a due motivi: ● la posizione dell’osservatore: esterna al ‘punto cieco’ ed interna rispetto ad un’osservazione che vorrebbe essere distaccata; ● la dimensione temporale: mentre cerchiamo di osservarci, l’accoppiamento senso motorio e le dipendenze dell’operare hanno già agito. Dobbiamo convivere ed accettare questi limiti, che coincidono con l’inafferrabilità del né uno né molti. Tali limiti ci rendono difficile comprendere il motivo per cui vi sono situazioni che si ripetono più o meno identiche nella nostra vita, e che affrontiamo automaticamente nello stesso modo, con gli stessi risultati, talvolta disastrosi. Dal ‘punto cieco’ ai ‘punti ciechi’: i limiti della consapevolezza A proposito della dimensione temporale del ‘punto cieco’, “Libet ha dimostrato che uno stimolo, la cui intensità sia a livello di soglia, diventa conscio dopo un tempo di esposizione (e un periodo di attività delle aree corticali corrispondenti) di circa 500 ms. Il soggetto è, tuttavia, in grado di fornire una risposta appropriata a quello stesso stimolo con una latenza di circa 100 ms. Ciò sembrerebbe indicare che il soggetto può segnalare la comparsa dello stimolo (per esempio, premendo un pulsante) circa 400 ms prima di averlo percepito in modo conscio. Libet ha anche dimostrato che le aree corticali motorie si attivano circa 350 ms prima che il soggetto abbia esperienza della decisione di compiere un movimento. Se si chiede al soggetto di sollevare una mano di tanto in tanto, volontariamente, senza che il momento di esecuzione del movimento sia segnalato da alcuno stimolo (dunque, il movimento avviene esclusivamente per una decisione conscia), l’area corticale motoria corrispondente alla mano si attiva circa 350 ms prima che il soggetto abbia esperienza di avere deciso di sollevare la mano. (...) Libet stesso, tuttavia, distingue fra la decisione di iniziare il movimento e l’esecuzione del movimento stesso. L’esperienza con-
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scia di avere deciso di eseguire il movimento segue di circa 350 ms l’attività delle aree motorie corticali, ma precede di circa 150 ms l’esecuzione del movimento che è stato deciso. Nei 150 ms successivi all’accesso della decisione alla coscienza, il soggetto può bloccare l’esecuzione del movimento. Secondo l’autore, perciò, la coscienza ha un ruolo causale; non, però, nel senso di decidere o meno il movimento, ma, piuttosto, nel permettere o meno l’esecuzione di un movimento già deciso a livello inconscio”47. Come chiarisce Varela, possiamo focalizzare ciò che percepiamo “solo quando è già presente e non quando è in gestazione”48. Libet dimostra che esiste “una ‘temporanea percezione cieca’ che ci preclude sistematicamente la coscienza degli eventi per mezzo secondo”49. Passato questo intervallo di tempo, la nostra parte conscia è talvolta in grado di pilotare l’altra. Tuttavia, le razionalizzazioni costituiscono spesso degli alibi, per giustificare ciò che inconsciamente agisce a monte dei nostri comportamenti. Per illustrare meglio queste affermazioni ritengo sia utile riportare un esperimento, condotto da Joseph LeDoux e Mike Gazzaniga50, su pazienti cui erano stati separati i due emisferi del cervello, recidendo il corpo calloso che li unisce51. Tali emisferi agiscono in modo incrociato, nel senso che il destro governa la parte sinistra del nostro corpo, e viceversa. I due emisferi comunicano tra di loro tramite il corpo calloso, e le informazioni che provengono dall’esterno vengono integrate. Nel caso della resezione gli emisferi agiscono indipendentemente. Così un’informazione che giunga ad una parte non è disponibile per l’altra. In tale situazione, se si intende rivolgere una domanda all’emisfero destro, la voce verrà udita da entrambe le orecchie, tuttavia sarà sufficiente chiedere al paziente di rispondere utilizzando la mano sinistra. In questo modo si otterrà la risposta dell’emisfero destro. Si può anche chiedere al paziente di rispondere verbalmente, perché il centro del linguaggio risiede nell’emisfero sinistro, la risposta indicherà quale è la risposta individuata da tale emisfero. Venne mostrato alla parte destra un paesaggio invernale (tenendo chiuso l’occhio relativo all’altro emisfero). Successivamente ven-
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nero mostrate, allo stesso occhio, una serie di immagini ed il compito consisteva nell’individuare quale fosse pertinente al paesaggio invernale. L’immagine doveva essere indicata con il braccio sinistro, collegato appunto all’emisfero destro. Analogamente si propose alla parte sinistra dell’emisfero una zampa di gallina e successivamente una serie di immagini, tra cui si doveva individuare quella correlata. Quest’ultima doveva essere indicata con il braccio destro. Il braccio sinistro indicava correttamente una pala da neve, in relazione al paesaggio invernale, il destro indicava una gallina, in relazione alla zampa di quello stesso animale. Quando si richiese verbalmente il motivo di tali scelte, la parte destra non poteva esprimersi, proprio perché il centro del linguaggio attiene all’emisfero sinistro. Per questa ragione, si tendeva a rispondere che si indicava la pala perché serviva togliere gli escrementi delle galline. Ciò che interessa di questo esperimento è il fatto che le spiegazioni erano fasulle, si trattava di razionalizzazioni a posteriori. Nell’emisfero destro era presente la spiegazione corretta, che però non poteva essere espressa. Gli esperimenti di Libet ci indicano che ci rendiamo conto solo a posteriori di quanto avviene. Negli esperimenti di Gazzaniga e LeDoux vediamo che le razionalizzazioni sono talvolta costruzioni arbitrarie, cui comunque aderiamo. Sulla scorta di questi esperimenti, possiamo ritenere che, nel caso delle dipendenze, la persona ‘cada’ nella ripetizione del comportamento dipendente, perché la parte inconscia ha già deciso. La razionalizzazione sarebbe allora una giustificazione a posteriori. Il tentativo di darsi una parvenza di coerenza. Si tratterebbe di una ‘sanatura’. Anche le persone sotto ipnosi tendono a dare spiegazioni fasulle dei loro comportamenti. Non solo, la parte che non si esprime riesce a far passare le proprie informazioni, a condizionare i comportamenti. Emergono aspetti di noi che non conosciamo. Mary Carter riporta in proposito le esperienze di un medico ipnotista vissuto nell’800, Pierre Janet. Costui teorizzava, già allora, che il cervello potesse generare diversi modi di vedere il mondo, stati
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mentali che egli definiva ‘esistenze’. Riteneva che si fosse consapevoli solo di una esistenza alla volta. Attraverso il ricorso all’ipnosi, era tuttavia possibile fare emergere anche le altre ‘esistenze’. Verificò le proprie ipotesi con volontari: li portò allo stato di trance e prescrisse loro che, al loro risveglio, non avrebbero notato nessuna mobilia all’interno della stanza in cui si svolgeva la seduta. Una volta risvegliati, veniva chiesto loro se vedevano oggetti o mobili e, come previsto, rispondevano di no, “tuttavia, alla richiesta di camminare per la stanza, evitavano accuratamente tavolo e sedie. Quando Janet chiedeva il motivo del loro procedere in modo tortuoso, alcuni fornivano giustificazioni incongrue, oppure dicevano che non lo sapevano. Alla richiesta specifica se cercavano di evitare la mobilia, i soggetti negavano con decisione tale assurdità”52. Prosegue la Carter: “Janet utilizzava la parola francese ‘désagrégation’ per descrivere la separazione delle esistenze. La sua spiegazione era che la mente umana consisterebbe di molti elementi e sistemi, ognuno dei quali si può combinare con altri, per formare stati complessi. Alcuni di questi traggono altri a sé – comprese alcune memorie – e così diventano centri di personalità distinte. Le ‘esistenze’ successive possono interagire con la realtà esterna e svilupparsi ulteriormente assorbendo e trattenendo nuove impressioni. Possono sviluppare anche funzioni psicologiche di livello più elevato come desideri ed ambizioni e – ciò che è cruciale – un senso del sé, cosicché quando diventano consapevoli, si percepiscono (ed anche si comportano) come persone autonome”53. Il termine ‘désagrégation’ corrisponde al concetto di dissociazione, che per Janet è una condizione normale, mentre viene considerata attualmente una patologia psichiatrica54. Esperimenti analoghi a quelli di Janet sono stati condotti anche recentemente, e ne riferisce Laszlo Mérő. In particolare si cercava di individuare i simulatori, rispetto alle persone che realmente erano in stato di trance. La persona ipnotizzata doveva immaginare un albero di Natale nel centro della stanza e, successivamente, le si chiedeva di recarsi presso l’ipnotizzatore. Le persone in stato di ipnosi ‘attraversavano’ l’albero, per raggiungere l’ipnotista, i simulatori invece lo evitavano. Nello stesso esperimento si faceva notare, in una sedia a
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fianco della persona, la presenza di una collaboratrice dell’ipnotista. Poi la donna si allontanava di nascosto. L’ipnotista sosteneva che la donna era ancora lì: sia i soggetti realmente in stato di ipnosi che i simulatori sostenevano di vederla ancora. A questo punto l’ipnotista chiedeva cosa altro si potesse vedere sulla sedia. I simulatori sostenevano di non vedere niente, mentre gli altri riferivano di vedere un disegno, che precedentemente era coperto dal corpo dell’assistente. Per le persone ipnotizzate l’assistente non era sparita: “L’allucinazione suggerita ipnoticamente sparisce solo se l’ipnotizzato rimuove la suggestione. (...) Anche l’albero di Natale, per i soggetti in stato di trance, non era sparito, ma semplicemente irrilevante in quel momento”55. Dunque, conclude l’autore, nello stato di ipnosi si vive un diverso stato di coscienza56. Sempre secondo Mérő, gli esperimenti dimostrano che sotto ipnosi, si abbia una tolleranza spontanea nei confronti di inconciliabilità e incongruenze dell’ambiente e del mondo. Ma soprattutto “Ci si comporta comunque in modo razionale e realistico. Ad esempio si va dall’ipnotista seguendo il percorso più breve, senza notare il pungente albero di Natale, perché si sa che quell’albero in qualche maniera è attraversabile – e lo è veramente”57. Mérő definisce questo tipo di logica ‘trance-logica’. Il comportamento dei soggetti ipnotizzati è più logico di quello dei simulatori: seguono la logica in base alla quale funzionano le cose intorno a loro, anche se si tratta di un intreccio di realtà e allucinazioni. Il loro comportamento è coerente, anche se appare illogico al nostro usuale modo di pensare. Se la persona ipnotizzata vedesse il simulatore che fa il giro intorno all’albero di Natale, lo considererebbe un idiota, giacché il simulatore non vede nemmeno le cose più evidenti e allunga inutilmente il percorso. In un esperimento successivo si chiedeva alle persone sotto ipnosi di sedersi su una sedia che vedevano vuota, grazie all’ipnosi, ma che invece era occupata da un’assistente. I simulatori si sedevano in grembo all’assistente, ma coloro ipnotizzati, che avevano delle resistenze di qualche tipo, trovavano delle scappatoie per evitarlo. Ancora una volta i soggetti ipnotizzati avevano agito logicamente.
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“La trance-logica è scevra da contraddizioni, per quanto sia completamente diversa dalla normale logica quotidiana. (...) I soggetti (...) ipnotizzati in qualche modo continuavano a sapere che in realtà la sedia alla loro sinistra era occupata. Questa banalità non disturbava il ragionamento trance-logico, oppure, quando lo faceva, il soggetto ipnotizzato trovava immediatamente una scappatoia logica”58. Successivamente, ai soggetti ipnotizzati veniva fatto credere che la stessa assistente sedesse sia sulla sedia alla loro destra che su quella alla loro sinistra. Dovevano indovinare dove si trovava realmente l’assistente. Diversi indovinavano, con giustificazioni ragionevoli: uno chiedeva dentro di sé, alle due assistenti, di alzare la mano, quella che lo faceva era senza dubbio l’allucinazione. Un altro si mise a fare moine affettuose e disse che l’assistente era l’altra perché non si sarebbe mai preso tali confidenze con una sconosciuta. “(...) attraverso la sperimentazione e la riflessione, i soggetti hanno potuto scoprire o dedurre la verità. Non l’hanno certamente fatto con l’aiuto della pura logica formale, che si sarebbe inceppata alla prima contraddizione (e cioè distinguere due persone indistinguibili)”59. “Nella trance-logica esistono, dunque, tipi di ragionamento illogici, ma certamente intelligenti ed assennati”60. Mérő ritiene che che vi siano persone in grado di pensare in modo trance-logicamente corretto anche nel normale stato di coscienza, e che spesso usino questo procedimento per risolvere vari problemi della loro vita 61. Questo potrebbe spiegare il motivo per cui talvolta ricorriamo a comportamenti che non sappiamo spiegarci successivamente. Nagel rileva che l’apparente completezza soggettiva del sé “non sembra immediatamente avere, come il concetto di ‘oro’ o il concetto di ‘gatto’, o il concetto di ‘Cicerone’, qualche spazio vuoto che può essere riempito da scoperte sulla vera costituzione interna della cosa”62. A livello fisiologico è quello che accade con la macula cieca, cioè quella zona della retina priva di recettori. Il nostro cervello provvede a coprire questa area cieca con un’operazione di completamento arbitraria. Possiamo, in definitiva, essere così certi di conoscerci?
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Parte prima – Premesse teoriche
Hilgard è riuscito a dimostrare che possiamo vivere contemporaneamente gli stessi eventi in modo completamente diverso, senza esserne consapevoli. Durante una seduta di ipnosi per i suoi studenti, dopo aver dimostrato che la persona in stato di trance indotta alla sordità effettivamente dava prova di non sentire alcunché, dovette fare i conti con il dubbio di uno studente: in qualche modo i suoni ed i rumori dovevano essere entrati nel cervello del paziente. Hilgard allora chiese alla persona sotto ipnosi che sollevasse un dito, nel caso ci fosse una parte di lui che stesse ascoltando e comprendendo le parole. Il paziente sollevò un dito. Una volta ritornato nella condizione normale lo studente riferì di non aver udito niente, e che tutto gli era sembrato noioso, tanto che si era impegnato in alcuni problemi di matematica poi, ad un certo punto, aveva visto il proprio dito sollevarsi e non sapeva darsene una ragione. Hilgard lo ipnotizzò nuovamente e chiese, alla parte che aveva sollevato il dito di riferire cosa aveva sentito riguardo alla lezione, quando era in trance. Lo studente riferì un riassunto appropriato di tutto quello che era accaduto. Sulla base di questa esperienza Hilgard ha avanzato l’ipotesi della presenza di un ‘osservatore occulto’ dentro di noi. Successivamente, condusse una serie di ricerche sulle persone che avevano subìto interventi chirurgici sotto ipnosi. Chiedeva, a colui che Hilgard considera l’osservatore occulto, se avesse percepito il dolore legato all’intervento. La risposta fu positiva: una parte del cervello aveva provato una sofferenza estrema63. Dunque, dobbiamo ritenere che non si limitava solo ad osservare. Talvolta la nostra sofferenza può essere così estrema, che la follia può diventare un modo per difendersi. Sheldon B. Kopp ce lo testimonia, quando parla di un’operazione subita al cervello e mal riuscita: “La mia pazzìa (...) era anche un conglomerato ambiguo di fuga pazzesca dall’impotenza, che non volevo affrontare e un tentativo disperato di conservare la mia integrità personale in un mondo illogico. Era buona e cattiva, gravida di quelle che forse rimarranno per me delle contraddizioni insolubili”64. Che cosa agisce in quei momenti?
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Il valore degli altri
A differenza di Hilgard e di Nagel, sono convinto che esistano vari ‘punti ciechi’. E che la cosiddetta consapevolezza sia solo un elemento di un contesto molto più complesso. Non ci rendiamo conto di ciò che ci muove e che agisce nei punti ciechi. Per questo spesso ricadiamo negli stessi errori, nonostante tutte le nostre buone intenzioni. Ritengo che i rapporti tra i punti ciechi rispondano alla logica dell’operare senso motorio, del né uno né molti. Ulteriori paradossi e contraddizioni si presentano quando cerchiamo di fare emergere a noi stessi il mistero di chi siamo. Si tratta di una meta irraggiungibile, ma le riflessioni che ne scaturiscono sono comunque importanti. Essere sé stessi ed i paradossi che ne derivano Il né uno né molti ci impedisce di controllare totalmente alcune nostre azioni, reazioni e sentimenti, quali ad esempio l’ingenuità, l’autenticità, la sorpresa, l’innocenza, il dimenticare, l’essere disinteressati, l’indipendenza, l’indifferenza, il credere sinceramente in qualcosa, la vergogna. Non possiamo agire consapevolmente sulla parte irriflessa. Si può dire ‘attento!’ ed ottenere una risposta, ma se dico ‘disattento!’, determino disorientamento. Lo stesso avviene con le ingiunzioni: ‘sii spontaneo’, ‘dimentica’, ‘sii indipendente’ ecc. Queste ingiunzioni sono paradossali perché si impone di evocare sentimenti ed atteggiamenti che ricadono nel punto cieco, nell’irriflesso. In fondo, è questa la richiesta alla base della ingiunzione paradossale: disattivare l’attenzione ed i meccanismi di controllo, ma questo non può avvenire attraverso di loro. Tuttavia, possiamo divenire ‘attori spontanei’, come il cameriere che gioca a fare il cameriere, fino ad identificarsi spesso nel proprio ruolo. Lo stesso vale per i commercianti, “che si sforzano di persuadere la loro clientela che non sono altro che un droghiere, uno stimatore, un sarto. Un droghiere che sogna è offensivo per il compratore, perché non è più assolutamente un droghiere”65. È difficile stabilire, in questi casi, in che misura una persona recita ed in che misura è spontanea. Siamo entrati nel per-
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sonaggio, ed il personaggio è entrato dentro di noi, i due aspetti non sono scindibili. Così la recluta che deve prestare giuramento, benché si sia mostrata scettica e distaccata cinque minuti prima, giura con partecipazione. Il genitore che accompagna un figlio all’altare avverte la commozione durante la cerimonia, anche se non crede. Assolvere ad un ruolo è molto più che ricorrere ad una recita: ci espandiamo in ciò che si sta rappresentando. D’altra parte, per essere sé stessi occorre essere qualcuno, ma questi va metabolizzato e lasciato emergere, senza imposizione. Altrimenti si agisce come nel caso dello studente descritto da Sartre, in cui “l’allievo che vuole essere attento, l’occhio fisso sul maestro, le orecchie bene aperte in ascolto, si esaurisce a tal punto rappresentando la parte dell’attento, che finisce per non ascoltare più nulla”66. Secondo Sartre “bisogna che ci facciamo essere ciò che siamo. Ma che cosa siamo dunque se abbiamo bisogno costante di farci essere ciò che siamo, se siamo nel modo d’essere del dover essere ciò che siamo?”67. La risposta risiede nel né uno né molti. Proviamo ad analizzare ulteriormente come questo paradosso si rifletta nei nostri comportamenti. Ad esempio il concetto di sincerità si rivela paradossale ed irrealizzabile, perché “Come possiamo anche solo accennare, nel discorso, nella confessione, nell’esame di coscienza, uno sforzo di sincerità, se sappiamo che lo sforzo sarà per essenza votato alla sconfitta e, che nel momento stesso in cui l’annunciamo abbiamo già una visione pregiudiziale della sua vanità”68. La conclusione di Sartre è che “la struttura essenziale della sincerità non differisce da quella della malafede, perché l’uomo sincero si costituisce come ciò che è per non esserlo. Il che spiega la verità riconosciuta da tutti, che si può cadere in malafede a furia di essere sinceri. Sarebbe, dice Valéry, il caso di Stendhal. La sincerità totale e costante come sforzo continuo per aderire a sé stessi è, di sua natura, uno sforzo costante per rompere la solidarietà con sé stessi (...). Erigere l’inventario perpetuo di ciò che si è, significa rinnegarsi continuamente”69. Anche questa è una conseguenza dell’essere né uno né molti. Sartre, nella citazione che abbiamo appena letto, afferma che si cade
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nella malafede. Questo concetto di caduta ha radici molto antiche. Il verbo peccare deriva dal latino peccus, che significa difettoso nel piede, persona con il piede storto. Un concetto analogo vale per il termine ‘scellerato’, legato alla radice ‘skhel’, presente in area indiana e armena e che significa appunto “compiere un passo falso, inciampare”70. Questo sarebbe il peccatore: una persona che, per trascuratezza o per costituzione, non tiene i piedi dritti. Questo lo fa cadere. Nel momento in cui se ne rende conto è troppo tardi. Allo stesso modo si cade nel peccato, o si cade in disgrazia, come nella caduta dal Paradiso. Ancora oggi si dice ‘camminare dritti’, per indicare la via giusta che si segue, e ‘camminare storto’ per indicare chi devia. Anche da queste immagini discende che l’unico modo, per evitare di ‘cadere’, consiste nella attenzione preventiva, nel seguire pedissequamente ‘la via, la verità e la vita’ per come sono indicati. Altrimenti, non si è consapevoli del cambiamento che ci porta a sbagliare nel momento in cui si verifica, e ciò che ci spinge ad errare viene definito tentazione. Quando si ‘cade in tentazione’, si modificano i termini di confronto che orientano il nostro comportamento. È l’effetto delle dipendenze dell’operare. Tuttavia, se analizziamo il nostro comportamento a posteriori, tendiamo a cercare sanature compatibili con quanto le dipendenze dell’operare richiamano. Per le nostre sanature possono essere adottate infinite narrazioni. Tutto dipende dai termini di confronto che si deciderà di adottare. La nostra fantasia e capacità dialettica ci metterà magari in grado di dipingerci come vittime delle situazioni, invece che essere considerati protagonisti. Al limite si potrà cercare di passare per chi è stato costretto ad agire in un determinato modo. Insomma, utilizziamo i termini di confronto che più ci fanno comodo ed in questa logica tutto fa brodo. Le strade per cercare di mantenere una buona immagine di sé sono innumerevoli e spesso siamo convinti o ci convinciamo delle nostre ragioni. Ci mostriamo comunque sicuri della nostra coerenza, della nostra capacità di affrontare e gestire in modo razionale ed appropriato gli eventi con cui dobbiamo fare i conti. Quando invece proprio non sap-
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piamo spiegare il motivo di alcuni nostri comportamenti o di certe nostre scelte, ne parliamo come di cose lontane, come fossero state compiute da qualcun altro, o come se si fosse verificato un black out nel nostro modo normale di agire. Secondo Kahneman, “Una volta che incameriamo una nuova visione del mondo (o di una qualsiasi sua parte), perdiamo immediatamente quasi tutta la nostra capacità di ricordare quello che eravamo soliti credere, prima di mutare parere”71. Questo rende difficile applicare a noi stessi concetti quali la coerenza, la forza di volontà e l’auto controllo. Lo dimostra bene Thomas Schelling, quando si pone il problema di “Come dovremmo concettualizzare quel consumatore razionale che tutti noi conosciamo (e che alcuni di noi sono), quello che, disgustato di sé stesso fa a pezzi il suo pacchetto di sigarette giurando che questa volta la smetterà per sempre di rischiare di lasciare orfani i suoi figli facendosi venire un cancro ai polmoni e, tre ore dopo, è per strada alla ricerca di un tabaccaio ancora aperto; quello che fa un pranzo ipercalorico sapendo che se ne pentirà, poi se ne pente, non capisce come abbia potuto lasciarsi andare, decide di rimediare con una cena ipocalorica, fa una cena ipercalorica sapendo che se ne pentirà, e poi se ne pente; quello che se ne sta incollato davanti alla TV sapendo che domani si sveglierà di nuovo presto sudando freddo, impreparato a quella riunione del mattino da cui dipende tanta parte della sua carriera; quello che rovina la gita a Disneyland andando su tutte le furie quando i suoi figli fanno quello che sapeva che avrebbero fatto quando aveva deciso che non sarebbe andato su tutte le furie quando l’avessero fatto?”72. Sintonia ed operazioni mentali La consapevolezza di essere né uno né molti, di quanto siano importanti le dipendenze dell’operare, potrebbe aiutarci ad elaborare strategie per governare meglio i nostri conflitti, e le nostre operazioni mentali. Ad esempio, se vediamo una cosa triste l’attenzione viene ritratta, e si ritrova senza riferimenti, senza un sostegno. Questo porta a comprendere meglio anche il meccanismo della solitudine, per cui “Tal-
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volta ci si sente soli in mezzo alla gente, e ci si sente in compagnia da soli in aperta campagna, nel più completo silenzio. (...) ‘si può cominciare posando una bottiglia sul tavolo. Si provi a dire ‘bottiglia’, e poi ‘una bottiglia’, o meglio, ‘una bottiglia sola’. (...) in quest’ultimo caso, si continua a guardare, a cercare con lo sguardo. Ma non si trova niente di eguale. Così il guardare resta sospeso. Allora vien fuori un ‘non c’è’. Quindi è un guardare seguito da un ‘niente’, un ‘nulla’. (...) Nel ‘niente’ l’operare si arresta prima di giungere al risultato, come quando si dice ‘non ho fatto niente’; nel ‘nulla’ si cancella quello che si è fatto, come quando si dice ‘non è successo nulla!’, tipico dello scherzo. (...) Dev’essere l’aggiunta di questo ‘niente-nulla’ che ci fa sentire soli. Basta aggiungere un ‘sé stessi’ e non ci si sente più soli. Ecco perché è stato detto ‘beata solitudo, sola beatitudo’ (...) Se non ci si libera dell’aggiunta del nulla, sopravviene la disperazione, un non aver ‘più nulla da fare’, nulla su cui contare e sperare. ci si potrebbe ammazzare. E comunque basterebbe guardare la faccia di un bambino al quale sfugge il palloncino”73. Se si afferma ‘sono solo con me stesso’, si dà vita ad un termine di confronto che smentisce la solitudine. Sono sempre io, ma non sono solo io, l’attenzione fa i conti con l’altro me stesso. Il senso di solitudine si attutisce o scompare. Si tratta di un modo di pensare paradossale: come se un esterno parlasse di noi, mentre in realtà siamo noi a farlo. Affermare che ‘sono solo con me stesso’ implica riconoscere che si è né uno né molti. Analogamente, se si afferma ‘mi vergogno’, è come se si dicesse ‘mi vergogno di me stesso’. È lo stesso tipo di logica che sostiene l’affermazione ‘sono soddisfatto di me stesso’. Le considerazioni di Ceccato relative all’incertezza, ed alle angosce che il suo protrarsi determina, sono importanti. È vero che talvolta non sembrano sufficienti a risolvere situazioni di sofferenza e forte difficoltà. Per rimanere nell’esempio della solitudine: cosa accade se anche l’altra parte di noi stessi si sente sola?
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I nostri marcatori emotivi anticipano la nostra capacità critica, ci sopraffanno ed in questo modo impongono i termini di confronto con cui valutiamo le situazioni ed i valori. Ad esempio si avrà un generico valore positivo dell’acqua se la si considera come bene essenziale per dissetarsi, per lavare ecc. Si attribuirà un valore molto più positivo nel caso si sia assetati. Questo ci aiuta a stabilire delle priorità nei confronti del nostro agire. Il considerare che si tratti di operazioni mentali di valorizzazione, non diminuirà di una virgola la marcatura emotiva estremamente positiva dell’acqua. Al contrario, si avrà un approccio completamente diverso se temiamo di annegare. Non sarà una tirata sulle operazioni mentali, e sul fatto che naturalmente si dovrebbe stare a galla, che impedirà alla persona di affogare. Si tratta di dipendenze dell’operare, che con i loro marcatori emotivi ci condizionano in molti altri contesti: ad esempio quando siamo innamorati e ne soffriamo, non ci solleva molto sapere che si tratta di operazioni mentali. Le dipendenze dell’operare, con il loro corredo emotivo, agiscono anche in ambito sociale. Vengono introiettate le codifiche degli stati d’animo appropriati ed il modo di esprimerli: colpevolizzandosi, congratulandosi con sé stessi, rassicurandosi. Il tutto, come se queste convenzioni cui aderiamo emotivamente fossero ‘naturali’, di per sé evidenti, e non l’espressione di scelte arbitrarie legate ad una cultura, ad un modo di intendere i rapporti sociali. Sulla base di tali dipendenze dell’operare adottiamo determinati comportamenti invece di altri, e varia anche la considerazione che attribuiamo agli altri. Di questo ci occuperemo nella prossima parte.
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NOTE Varela F. J. “Un know-how per l’etica”, Edizioni Laterza, Bari, 1992, pag. 11. Ibidem, pagg. 16-17. 3 Casula T. “Tra vedere e non vedere. Una guida ai problemi della percezione visiva”, Einaudi, 1981, pagg. 307-308. 4 Come ha scritto Gonzàlez-Crussì: “il modello fondante della medicina occidentale fu l’indipendenza degli organi e la loro autonomia funzionale: il sistema gastrointestinale è atto alla digestione degli alimenti e niente più; l’apparato visivo non deve se non provvedere alla vista; analogamente quello auditivo, parimenti autonomo e svincolato da ogni altra funzione corporea; e via di questo passo. Quanto più però la scienza medica progredisce, ci si rende conto che organi e sistemi in apparenza separati sono assai più interfunzionanti di quanto non si sospettasse dapprincipio. Durante l’ascolto di musica rilassante oppure stimolante, i colori non appaiono esattamente gli stessi rispetto a quelli percepiti normalmente: l’udito influenza la vista; gli oggetti sembrano al tocco più freddi in luce blu che in luce rossa. La vista influenza il tatto. Gli intestini sono disseminati di cellule neuroendocrine che li rendono un organo neuroendocrino ‘distribuito’ e parte integrante del sistema nervoso, e anche nei polmoni si trovano in abbondanza gruppi dispersi di cellule neuroendocrine, la cui esistenza comincia soltanto ora a essere largamente riconosciuta; anche la funzione cogitativa dunque, tradizionale dominio dominio esclusivo del cervello, potrebbe ammettere una qualche, limitata, condivisione con altri organi. (…) il modello biomedico ‘per apparati’, che è come dire a comparti separati, appare sempre più insufficiente, mentre guadagna in importanza l’opposta concezione unitaria, o olistica, da gran tempo tenuta in grande considerazione presso le culture orientali” (GonzàlezCrussì F. “Organi vitali”, Adelphi, Milano, 2014, pagg. 307-308). 5 Varela F. J. “Il circolo creativo: abbozzo di una storia naturale della circolarità”, in Watzlawick P. (a cura di) “La realtà inventata”, Feltrinelli, Milano, 1988, pag. 261. 6 Damasio A. R. “L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano”, Adelphi Edizioni, Milano 1995, pag. 20. 7 Cfr. Casula T. “Tra vedere e non vedere. Una guida ai problemi della percezione visiva”, Einaudi, 1981, pag. 249 8 Accame F. “Apertura dell’anno metodologico-operativo. Relazione del Presidente”, 1989, consultabile su www. Methodologia.it,, ultimo accesso 20.12.2014. 9 Ceccato S. “C’era una volta la filosofia”, Spirali, Milano, 1996, pag. 59. 10 Cfr. Lakoff G. “Pensiero politico e scienza della mente”, Bruno Mondadori editore, Milano, 2009, pag. 265. 11 Maturana H. R., Varela F. J. “Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente” Saggi Marsilio, Venezia, 1992, pag. 32. 12 Cit. in Carter R. “Multiplicity. The New Science of Personality, Identity, and the Self”, Little, Brown and Company, New York, 2008, pag. 100. 13 Accame F. comunicazione privata. 14 Kahneman D. “Pensieri lenti e veloci”, Oscar Mondadori, Milano, 2013, pagg. 222. 15 Cfr. Varela F. J. “Un know-how per l’etica”, Edizioni Laterza, Bari, 1992, pag. 14. 16 Il termine ‘attenzione’ è “il nome d’azione nel sistema del verbo ‘attendere’” che significa “volgere l’animo a qualcosa, poi aspettare” (Devoto G. “Avviamento alla etimologia italiana”, Oscar Mondadori, Milano, 1979, pag. 33). 17 Varela F. J. “Un know-how per l’etica”, Laterza, Bari, 1992, pag. 22. 1 2
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18 Mérő L. “Calcoli morali. Teoria dei giochi, logica e fragilità umana”, Edizioni D, Bari, 2000, pag. 309. 19 Simon H. cit. in Kahneman D. “Pensieri lenti e veloci”, Oscar Mondadori, Milano, 2013, pag. 13. 20 Kahneman D. “Pensieri lenti e veloci”, Oscar Mondadori, Milano, 2013, pag. 13. 21 Varela F. J. “Un know-how per l’etica”, Laterza, Bari, 1992, pagg. 64-65. 22 Damasio A. R. “L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano”, Adelphi Edizioni, Milano 1995, pag. 19. 23 Cfr. Von Glasersfeld E. “Il costruttivismo radicale. Una via per conoscere ed apprendere”, Società Stampa Sportiva, Roma, 1998, pag. 60. 24 Che poi la parola sia sempre quella giusta è tutto un altro discorso. Ad esempio io mi ero convinto che fosse elleboro... 25 Considerazioni sviluppate da Felice Accame nella trasmissione “Caccia all’ideologico quotidiano, trasmessa su Radio Popolare il 27.2.05, titolo “Chi non molla l’osso e chi non molla la carne”, consultabile all’indirizzo http://www.radiopopolare.it/trasmissioni/lacaccia/2005/270205/chi-non-molla-losso-e-chi-non-molla-la-carne/ ultimo accesso 31.5.2011. Il libro di V. S. Ramachandran si intitola “Che cosa sappiamo della mente”, Mondadori, Milano 2004, pagg. 12-15. 26 Frankl V. E. “Alla ricerca di un significato della vita”, Mursia, Milano, 1990, pag. 117. 27 Damasio A. R. “L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano”, Adelphi Edizioni, Milano 1995, pag. 216. Senza sentimenti di fondo “il nucleo stesso della rappresentazione del sé sarebbe infranto” (ibidem). 28 Wittgenstein L. “Della certezza”, Einaudi, Torino, 1978, pag. 41. 29 Lakoff G. “Pensiero politico e scienza della mente”, Bruno Mondadori editore, Milano, 2009, pag. 276. 30 Cfr. Vaccarino G. “Scienza e semantica”, Edizioni Melquiades, Milano, 2006, pag. 213. 31 Deutsch D. “L’inizio dell’infinito. Spiegazioni che trasformano il mondo”, Einaudi, Torino, 2013, pag. 12. 32 Casula T. “Tra vedere e non vedere. Una guida ai problemi della percezione visiva”, Einaudi, 1981, pag. 162. 33 Ibidem, pag. 165. 34 Ibidem, pag. 278. 35 Ibidem, pag. 327. 36 “Ma, per mettere in difficoltà il cervello non ci vuole niente: basta rovesciare uno dei due stereogrammi, creando, così, una struttura complessiva ‘inaccettabile’. In questo caso, la percezione è data dalla visione di un viso (quello dello stereogramma che non è stato rovesciato) con, in più, qualche elemento di disturbo (che proviene dallo stereogramma rovesciato). L’immagine rovesciata viene percepita come qualcosa di indistinto che sta sul fondo: il cervello la elimina quasi totalmente” (Casula T. “Tra vedere e non vedere. Una guida ai problemi della percezione visiva”, Einaudi, 1981, pag. 180). 37 Carlo Oliva, “Strane facce”, consultabile all’indirizzo http://www.radiopopolare.it/trasmissioni/la-caccia/2011/22052011/strane-facce/ ultimo accesso 31.5.2011. 38 Ceccato S. “Modificazioni ed innovazioni”, consultabile all’indirizzo www.methodologia.it, ultimo accesso 20.12.2014. 39 Cfr. Zajonc, R. B., Feeling and Thinking: Preferences Need No Inferences. American Psychologist, 1980, 35, 151-175. 40 East R. “Comportamento del consumatore”, Apogeo editore, Torino, 2003, pagg. 206-207. 41 Hofstadter D. R. “Godel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante”, Adelphi, Milano, 2008, pag. 307.
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Ibidem, pag. 311. Ibidem, pag. 343. 44 Accame F. “Scienza, storia, racconto e notizia”, Società Stampa Sportiva, Roma, 1996, pag. 74. 45 Nagel T. “Uno sguardo da nessun luogo”, Il Saggiatore, Milano, 1988, pag. 9. Per considerazioni analoghe, cfr. Sartre J.-P. “L’essere e il nulla”, Il Saggiatore, Milano, 1972, pag. 465. 46 Ibidem, pag. 158. 47 Umiltà C. “Attenzione e coscienza” in Legrenzi P. ( a cura di) “Manuale di psicologia generale”, il Mulino, Bologna, 1997, pagg. 248-249. 48 Varela F. J. “Un know-how per l’etica”, Laterza, Bari, 1992, pag. 58. 49 Odifreddi P. “Quanto è debole la coscienza”, la Repubblica del 28.8.2007, pagg. 50-51. 50 L’esperimento è riferito nel libro di Kurzban R. “Why everyone (else) is a hypocrite”, Princeton University Press, New Jersey, USA, 2010, pagg. 8-9. 51 Tali interventi venivano praticati in passato nei confronti di persone affette da gravi forme di epilessia, per prevenire il passaggio dell’attacco epilettico da un emisfero all’altro. 52 Carter R. “Multiplicity. The New Science of Personality, Identity, and the Self”, Little, Brown and Company, New York, 2008, pag. 8. 53 Ibidem, pag. 9. 54 Ibidem, pag. 9. 55 Mérő L. “I limiti della razionalità. Intuizione, logica e trance-logica”, Edizioni Dedalo, Bari, 2005, pag. 23. 56 Ibidem, pag. 24. 57 Ibidem, pag. 24. 58 Ibidem, pag. 26. 59 Ibidem, pag. 31. 60 Ibidem, pag. 32. 61 Ibidem, pagg. 33-34. 62 Nagel T. “Uno sguardo da nessun luogo”, Il Saggiatore, Milano, 1988, pag. 48. 63 Gli esperimenti di Hilgard sono riferiti nel libro di Carter R. “Multiplicity. The New Science of Personality, Identity, and the Self”, Little, Brown and Company, New York, 2008, pagg. 11-12. 64 Kopp S. B. “Se incontri il Buddha per la strada uccidilo. Il pellegrinaggio del paziente nella psicoterapia”, Astrolabio, Roma, 1975, pag. 93. 65 Sartre J.-P. “L’essere e il nulla”, Il Saggiatore, Milano, 1972 pagg. 101. 66 Ibidem, pagg. 101-102. 67 Ibidem, pag. 102. 68 Ibidem, pag. 104. 69 Ibidem, pag. 107. A questo proposito vedi anche le considerazioni in Elster J. “Inganno e autoinganno in Stendhal: alcuni temi sartriani” in Elster J. (a cura di) “L’io multiplo”, Feltrinelli, Milano, 1991. 70 Devoto G. “Avviamento alla etimologia italiana”, Oscar Mondadori, Milano, 1979, pag. 377. 71 Kahneman D. “Pensieri lenti e veloci”, Oscar Mondadori, Milano, 2013, pagg. 223. “e molti non riescono a credere di averla mai pensata in modo diverso” (ibidem, pag. 223). 72 Schelling T. “The intimate contest for self-command” in “Choice and consequence: perspectives of an errant economist”, Harvard University Press, Cambridge, Mass. (USA), 19884, pag. 59 (cit. in Pinker S. “Come funziona la mente”, Mondadori, Milano, 2000, pag. 422. 73 Ceccato S. “C’era una volta la filosofia”, Spirali, Milano, 1996, pagg. 121-123. 42 43
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Né UNO Né MOLTI RISPETTO AGLI ALTRI
Lo sdoppiamento proiettivo Abbiamo già visto che per cercare di comprendere, ci dobbiamo sdoppiare. Approfondiremo adesso le conseguenze che ne derivano in ambito sociale. Le nostre anticipazioni sono il frutto di condizionamenti culturali e diveniamo succubi di tali proiezioni. Vedremo come le dipendenze dell’operare ci spingano talvolta a comportamenti sociali che appaiono incoerenti, ma che rispondono ad esigenze adattive. I vincoli dell’appartenenza Si può dare un senso solo a ciò di cui si può parlare, che può essere narrato. Sono gli altri a consentirci questa opportunità, attraverso la parola ed i termini di confronto che la narrazione permette. Questo processo è reso possibile attraverso un bisogno innato di appartenenza che, nel caso degli animali, viene definito ‘imprinting’. Morin scrive che “L’imprinting è importante per ogni fase della vita successiva: i cuccioli, in età infantile, infatti, imparano a quale specie appartengono e quindi iniziano a rapportarsi sin da piccoli con i loro simili. L’imprinting è presente, seppure con un peso inferiore, anche nell’uomo”1. Se non vi fosse la guida altrui, l’assimilazione degli strumenti per la valutazione di ciò che accade e per la sua analisi critica, vivremmo in un labirinto. Gli altri sono il nostro filo di Arianna, e questo comprende la famiglia, il sociale, le istituzioni e chi le rappresenta. A questo filo ci aggrappiamo fin dalla nascita. Il nostro io esiste grazie alla socializzazione. Finkielkraut nota acutamente che “Ciò che ha per lungo tempo distinto gli esseri umani dalla maggior parte delle altre specie animali
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è precisamente il fatto che essi non si riconoscono tra loro. Per un gatto, un altro gatto è sempre un gatto. Un uomo, viceversa, deve adempiere a certe draconiane condizioni per non essere radiato, senza possibilità di appello, dal mondo degli uomini”2. Dunque il sociale, che è esterno a noi viene a fare parte di noi, ci fornisce una serie di chiavi per valutare in modo relativamente distaccato chi siamo. Riusciamo così a trascenderci, cioè ad essere osservatori di noi stessi anche rispetto al tempo, per cui possiamo “sapere che ‘vi fu un tempo nel quale non ero vivo e vi sarà di nuovo un tempo nel quale non sarò più vivo’. A un certo livello, quando ci poniamo ‘al di fuori di noi stessi’ e ci vediamo ‘al di fuori di noi stessi’ e ci vediamo ‘semplicemente come un qualsiasi altro essere umano’, questa idea ha perfettamente senso. Ma a un altro livello, forse più profondo, la non esistenza personale non ha proprio nessun senso”3. Sarebbe assurdo rinunciare a questa opportunità. E Nagel conferma: “Dato che il passo trascendentale è naturale per noi umani, possiamo evitare l’assurdità rifiutando di fare quel passo e rimanendo completamente all’interno della nostra vita sublunare? Non possiamo rifiutare coscientemente perché per farlo dovremmo essere consapevoli del punto di vista che rifiutiamo di adottare. Il solo modo per evitare la coscienza di sé sarebbe o di non arrivarci mai o di dimenticarla – e nessuna delle due cose si può ottenere con la volontà”4. L’essere umano si percepisce in qualche modo come un animale incompiuto, che si definisce negli altri, con gli altri e diversamente dagli altri. Altrimenti saremmo vittime delle pulsioni e del caos emotivo. Le nostre introiezioni dei vincoli socialmente indotti, da cui derivano determinate dipendenze dell’operare, sono strettamente individuali, ma è spesso impossibile distinguere tra ciò che fa parte della nostra individualità e quanto abbiamo assimilato, condizionati dagli altri. Un esempio di condizionamento sociale che determina dipendenze dell’operare è costituito dalla prospettiva, che ci fa percepire ciò che ci circonda secondo una logica angolare, mentre gli zulu, negli studi di Gregory, dimostravano di vedere il mondo in modo diverso da
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noi5. Farinelli ha osservato che “la prospettiva è un formidabile modello mentale, il più completo e totalitario che esista, proprio perché è insieme un modello di costruzione del mondo, di percezione del mondo e di rappresentazione del mondo”6. In questo consiste anche la potenza delle dipendenze dell’operare. Volenti o nolenti gli altri entrano dentro di noi, perché “La relazione con l’altro è inscritta virtualmente nella relazione con sé stesso: il tema arcaico del doppio, così profondamente radicato nella nostra psiche, mostra che ciascuno porta con sé un ego alter (Io stesso altro) nel contempo estraneo e identico a sé”7. Senza gli altri, non potremmo essere noi stessi. Riusciamo ad esprimerci se apparteniamo. Individualità e condizionamenti non sono scindibili, come nel rapporto né uno né molti. Anche da adulti, abbiamo bisogno del sostegno altrui, non siamo sufficienti a noi stessi. Ci gratifica che gli altri si congratulino con noi, molto di più di quanto potrebbe avvenire se lo facessimo da soli con noi stessi. Abbiamo bisogno di nutrirci delle storie altrui, oltre che dei nostri sogni e delle nostre aspirazioni. Abbiamo bisogno del confronto con gli altri, per non sentirci isolati in noi stessi. E finalmente abbiamo bisogno di sentirci amati da qualcuno, e di amare. Insomma, abbiamo bisogno di espanderci negli altri e, in qualche modo, di accoglierli. Siamo immersi nel mondo in cui viviamo, ne siamo parte e nello stesso tempo ne siamo osservatori condizionati. Lo sdoppiamento è necessario nella ricerca della risoluzione dei vari problemi che dobbiamo affrontare. Il passaggio dal problema o dal dubbio alla risoluzione passa dalla capacità di contestualizzare, cioè di vedere la situazione dall’esterno, per inquadrarla. I termini di confronto che adottiamo discendono dai vincoli di cui abbiamo parlato. Sulla base di tali vincoli, le dipendenze dell’operare ci rendono in parte prevedibili. Non si potrebbe elaborare la logica lineare se non vi fosse una pluralità di termini di confronto resa possibile dal né uno né molti. Quando la logica lineare si confronta con il né uno né molti, si verificano contraddizioni e paradossi. Ad esempio, nella logica lineare ri-
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teniamo che dove non ci sia un singolare si sia davanti ad un plurale, ma nel caso del né uno né molti non è così. In questo modo, siamo generatori di contraddizioni. Un paradosso famoso, dovuto alla nostra capacità di parlare di noi stessi ‘sdoppiandosi’ è legato alla affermazione di Epimenide, filosofo cretese, che tutti i cretesi sono bugiardi. Dunque se diceva la verità mentiva, e se mentiva diceva la verità. Il paradosso resta tale anche se Epimenide avesse affermato ‘io sto mentendo’. In genere, quando facciamo affermazioni di questo tipo, non ci accorgiamo delle contraddizioni a cui stiamo dando vita. Non ci accorgiamo della nostra autoreferenzialità, che la logica non può riuscire a risolvere. Il principio di univocità della consapevolezza fa sì che non teniamo in considerazione il fatto che siamo implicati nelle nostre elaborazioni. Così accade che assicuriamo autonomia alle nostre proiezioni, a cui ci assoggettiamo. In questo modo, utilizzando una condizione già descritta da Fromm “ci mettiamo in contatto con noi stessi in forma alienata”8. Ci sottomettiamo al potere attribuito alle nostre creazioni. Da qui nascerebbe, ad esempio, la nostra soggezione e subordinazione nei confronti dell’autorità. Kojève conferma che la caratteristica dell’autorità consiste nel fatto che alle sue prescrizioni si obbedisce senza discutere, anche se teoricamente si potrebbe reagire negativamente 9. L’autorità è un fenomeno di gruppo: non c’è vita sociale se non si definisce il tema e la legittimazione dell’autorità. Tuttavia, siamo noi singoli che, attraverso le dipendenze dell’operare, attribuiamo autorità a chi in sé non ce l’ha. Un esempio di operare proiettivo innato: i neuroni specchio I neuroni specchio giocano un ruolo importante in relazione alla nostra attività inconsapevole: costituiscono una specifica classe di neuroni, che “si attivano sia quando vengono eseguite azioni finalizzate a uno scopo sia quando si osservano le stesse azioni eseguite da altri”10. In pratica l’osservazione dà vita comunque ad una simulazione a livello neuronale. Diane Richmond riporta i risultati di un esperimento condotto da Catmur, Walsh e Heyes11 che dimostrerebbe che “il sistema dei neu-
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roni specchio è suscettibile di apprendimento senso-motorio e che tale apprendimento può configurare nuove modalità funzionali”12. I neuroni specchio si attivano anche nell’immaginare un atto. Come conferma Ramachandran, in un’azione immaginata “si attivano molti degli stessi circuiti neuronali che si attivano quando si compie l’azione vera e questo ci permette di provare gli scenari con una simulazione interna, senza spendere l’energia e senza correre i rischi impliciti nell’azione vera”13. Gallese aggiunge che “oltre a riconoscere lo scopo dell’atto motorio osservato, questi neuroni sono in grado di discriminare atti motori identici a seconda dell’azione globale in cui sono collocati. Perciò, questi neuroni non solo codificano l’atto motorio osservato, ma sembrano anche permettere di predire il successivo atto motorio dell’agente, e quindi la sua intenzione complessiva. Questo processo è stato definito da Gallese ‘simulazione incarnata’, e consentirebbe “di fornire un sostrato funzionale comune ad aspetti apparentemente differenti delle relazioni interpersonali”14. “Attraverso uno stato funzionale condiviso da due corpi diversi che tuttavia ubbidiscono alle stesse regole funzionali, ‘l’altro oggettuale’ diventa in una certa misura ‘un altro sé stesso’”15. Si verifica insomma un’espansione nell’altro. Mentre con l’operare senso-motorio la rappresentazione della ‘realtà’ deriva dalla relazione del proprio corpo con il mondo fisico esterno, nel caso dei neuroni specchio l’oggetto rappresentato è un’altra persona16. “Uno dei requisiti più importanti della percezione è rappresentato dalla capacità di predire gli eventi sensoriali futuri. Vari risultati neuroscientifici mostrano, infatti, che neuroni visivi nel lobo parietale sono in grado di anticipare con la propria scarica dove andrà a cadere il proprio campo recettivo quando il movimento oculare saccadico – ancora solo programmato – sarà in seguito eseguito (...). Allo stesso modo ogni azione intrapresa implica la capacità di predirne le conseguenze. Entrambi i tipi di predizione sono il risultato di un processo automatico ed inconscio di simulazione”17. In questo caso, per simulazione si intende l’anticipazione e la pretesa sulla realtà18, cioè proiezione ed aspettativa.
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La scoperta del funzionamento dei neuroni specchio “potrebbe permetterci di comprendere meglio fenomeni quali l’empatia, l’identificazione, lo sviluppo infantile, il capire le intenzioni altrui”19. Ad esempio, nel caso del rapporto madre bambino si ipotizza un rapporto circolare “il caregiver funziona come un ‘biofeedback sociale’, nel senso che il bambino aggiusta le proprie emozioni monitorando le reazioni del caregiver che gliele rispecchia”20. “Il rispecchiamento deve aggiungere qualcosa allo stato precedente”21, è chiaro che la madre non deve mettersi a piangere come il neonato, e deve trattarsi di reazioni e comportamenti coerenti e congruenti con gli stati iniziali del bambino. Questo vale in seguito per tutti i rapporti significativi che sperimentiamo, e rientra nella logica dell’apprendimento senso-motorio, da cui discendono le dipendenze dell’operare. In particolare, nella terapia, il terapeuta “dà risposte empatiche congruenti che gli permettono di trovare sé stesso e nel contempo lo facilitano a riflettere e a trasformare l’esperienza. (…) quando il paziente internalizza le risposte del terapeuta, quello che viene internalizzato non è mai una replica del suo comportamento, ma già una sua trasformazione, questo è un aspetto fondamentale del processo terapeutico. (…) nell’empatia vi è molto più che mero rispecchiamento”22. Considero l’empatia un’espansione del nostro io negli altri. Secondo Gallese “è proprio la duplice natura del nostro corpo come soggetto senziente e oggetto delle nostre percezioni, a consentirci la costituzione degli altri esseri umani come persone”23. Non potremmo costituire gli altri senza partire da noi stessi. In particolare, quando interpretiamo il comportamento degli altri, creiamo dei modelli analoghi a quelli relativi al nostro modo di comportarci. Cioè, operiamo delle proiezioni. Gallese riporta i risultati di alcuni esperimenti, i quali dimostrano che perfino “i primati sono in grado di categorizzare e comprendere anche le relazioni sociali che interessano individui terzi”24. Questo genera delle gerarchie introiettate e condivise di valori, per cui ciò che è desiderato, non lo è tanto per le sue “qualità intrinseche, o in virtù di una scelta cosciente e consapevole del soggetto, ma per pura
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imitazione del desiderio altrui”25. Ecco l’attrazione delle persone di potere, del carisma dei personaggi famosi, la tendenza a accaparrarsi beni ritenuti scarsi, condizionati dal comportamento degli altri. Gallese precisa che “Empatizzare e simpatizzare con l’altro sono due processi distinti. Se vedo gioire il mio avversario posso comprenderne la gioia, grazie a un meccanismo empatico, senza necessariamente condividere lo stesso sentimento, ma anzi più probabilmente derivandone un sentimento negativo”26. Nel caso dell’odio, della rivalsa, del disprezzo, il fatto di fare esperienza di ciò che prova l’altro non implica necessariamente l’impossibilità di usare la violenza contro di lui. In questo caso vi sarebbe un blocco alla espansione. Il dato empatico si caratterizza come un termine di confronto su cui si fondano le reazioni delle dipendenze dell’operare, con il loro contenuto emotivo. L‘uomo non può farsi un mondo fisico su misura perché vi è un’autonomia del mondo fisico dal nostro operare27. Tale autonomia determina dei vincoli, su cui si strutturano le dipendenze dell’operare. In questo modo “si può parlare di un ‘raddoppio’, (...) tra un mondo fisico autonomo sul piano consecutivo e quello che l’uomo riconduce a regolarità ripetitive categorizzandolo con le leggi”28. Si tratta di processi proiettivi innati, ma che presentano anche una declinazione soggettiva e socialmente orientata. Attraverso la componente empatica della simulazione incarnata ci si identifica con quanto percepiamo e, sulla base di questo, anticipiamo quanto sta per accadere nella logica delle dipendenze dell’operare. Nagel ci ricorda che “per fare qualsiasi cosa dobbiamo già essere qualcosa. (…) Nella formazione della credenza, come nell’azione, apparteniamo a un mondo che non abbiamo creato e di cui siamo i prodotti”29. Riguardo a questo mondo possiamo sentirci in sintonia o in dissociazione. E questo, come vedremo, ha a che fare con il pensiero magico e con l’animismo.
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Esempi di pensiero proiettivo: il pensiero magico e l’animismo Van der Leeuw definisce in questi termini le differenze tra pensiero proiettivo primitivo e modo di porsi dell’uomo moderno: “Mentre l’uomo moderno è un solitario all’interno di un mondo che per lui è sempre più divenuto oggetto, materiale, bene di consumo o mezzo di produzione, il primitivo è parte di un mondo vivente da cui egli non si distingue. L’uomo moderno sta di fronte al fenomeno, al ‘dato’ – e lo ‘misura’ per appropriarsene utilizzandolo –; il primitivo ci vive dentro. (...) ‘Interno’ ed ‘esterno’ non hanno quasi senso. Tutto ciò che è psichico è fisico, tutto ciò che è fisico è psichico, ed entrambi sono concreti”30. Come è evidente, siamo nella dimensione del né uno né molti, infatti, “Il mondo primitivo non consiste in una serie di esseri che occupano ciascuno il proprio posto escludendosi a vicenda (autaut), cosicché per poterne parlare occorre poterli enumerare (et-et); esso consiste di esseri che partecipano l’uno all’altro, che sono l’uno e l’altro, cosicché in uno di essi si può trovare l’altro”31. Dal pensiero proiettivo ‘primitivo’ discendono il pensiero magico e l’animismo. Nel pensiero magico, c’è una indifferenziazione tra mondo interno della persona e mondo esterno, cosicché noi possiamo permeare di noi stessi ciò che ci è esterno e viceversa. Nell’animismo si ritiene, invece, che “gli eventi esterni siano dotati di propri sentimenti e volontà, che possono essere favorevoli oppure ostili”32. Anche in questo caso si tratta di proiezioni, arbitrarie ma irresistibili. Che queste forme di correlazioni proiettive indifferenziate siano da relegare al pensiero infantile o di popolazioni primitive è assolutamente falso. Basti pensare alla tendenza, che spesso si ha, a connotare come esseri senzienti programmi informatizzati: è il caso dei giochi al computer degli scacchi. A causa di questo errore di attribuzione, cerchiamo di capire come pensa il programma mentre gioca con noi. Un esempio divertente ripreso dallo stesso ambito è relativo ai programmi informatici ‘Doctor’ ed ‘Eliza’, che in una conversazione esprimevano delle risposte neutre. Il programma non comprendeva nulla di quello che le persone scrivevano, ma riconosceva delle pa-
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role a cui rispondeva con delle frasi predisposte. Le persone si coinvolgevano in modo così sorprendente nella comunicazione, che le conversazioni potevano durare a lungo, specie se i soggetti coinvolti desideravano sfogarsi. Tali atteggiamenti riguardavano anche il personale amministrativo che collaborava alla realizzazione dei programmi33. Ci si ‘espandeva’ nei programmi informatici e ne derivavano sentimenti di complicità e aspettative. Espansione, ritrazione, blocco Ceccato sottolinea che l’espansione consiste nel “vedere qualcosa come un oggetto per assumerlo poi come un altro io, o il nostro soggetto che si espande in queste cose34. È un processo che abbiamo già notato a proposito della empatia. Rientra nelle dipendenze dell’operare. Ci espandiamo in ciò che ci circonda ed in qualche modo questo viene a fare parte di noi. Ad esempio il furto, l’esproprio o il danneggiamento sono vissuti come una forma di privazione di una parte di noi. La territorialità in fondo è questo: una parte di noi si espande nel territorio che possiede o su cui rivendica dei diritti. Quel territorio fa parte di noi, e questo tipo di espansione è innato, è tipico di molte specie animali. Un altro esempio di espansione lo ritroviamo in una riflessione di Accame, a proposito della propria auto che finisce in una piccola buca. Si rende conto di mimare, in modo spontaneo, una smorfia di dolore, come se fosse lui a soffrire. “Le necessità quotidiane ci agglomerano allo strumento, ci relegano nell’oggetto”35. Si tratta di automatismi indotti dalle dipendenze dell’operare. Ci espandiamo anche nelle aspettative: se ci attendiamo un vantaggio, l’acquisizione di un bene o di un riconoscimento e questo non avviene, ci sentiamo deprivati come se già lo avessimo acquisito. Ci eravamo espansi nelle nostre aspettative, e ciò che ci attendevamo era già diventato parte di noi. Vi è, tra avere ed essere, un rapporto né uno né molti. L’espansione coincide con la percezione di essere in sintonia, in armonia con sé stessi e con il resto del mondo. Cosicché nell’espansione associamo sensazioni ed emozioni positive a ciò che ci
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circonda, un senso di benessere, di conquista inclusiva, di liberazione, la sensazione di aver compreso e sentirsi padroni della situazione. Si verifica quando abbiamo aspettative positive. A livello ancestrale, ci espandiamo nel cibo che stiamo per assumere, attivando la salivazione ed altri processi, oppure ci espandiamo nel partner sessuale attivando specifici processi fisiologici, quando si sta per consumare un rapporto. Ci espandiamo anche in ciò che siamo convinti di aver compreso, perché ci convince, così come nel cosiddetto effetto ‘aha’, come se un mondo si svelasse davanti ai nostri occhi, come quando si mettono al loro posto le tessere di un mosaico. Ciò che abbiamo compreso, viene a fare parte di noi ed anche questo lo rende indiscutibile. Nella espansione ci sentiamo potenti: percepiamo di avere valore, ed altrettanto valore ha ciò con cui siamo in sintonia. Da questi esempi emerge anche un’altra importante considerazione: espandersi all’esterno implica anche lasciare che ciò che viene considerato esterno entri in noi, come una porta aperta che fa entrare ed uscire, e questo consente che nasca e permanga la relazione. Accolgo il mondo perché mi sento in sintonia con lui. Le aspettative indotte dai neuroni specchio vengono confermate. Nella espansione sentiamo di valere e, di norma, anche gli altri assumono valore ai nostri occhi. Espandersi significa cercare noi stessi in qualcosa più grande di noi, e tendenzialmente identificarvisi. Questo è il motivo per cui l’agricoltore pianta alberi i cui frutti non potrà cogliere, questo è il motivo per cui investiamo nel futuro, anche se non lo vedremo. Abbiamo bisogno di espanderci in qualcosa che vada oltre di noi. Un’illusione, ma indispensabile, forse dovuta alla spinta primordiale ad assicurare la sopravvivenza della nostra specie. Grazie alla espansione si determina uno sbilanciamento fiducioso verso il mondo esterno, ed una disponibilità ad accoglierlo in modo positivo. Si tratta in ogni caso di proiezioni di cui non possiamo fare a meno per definirci e per collocarci nel mondo. L’espansione può indurre a convinzioni talmente radicate da divenire profezie che si autoavverano. È il caso di donne che si fanno
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conquistare da uomini che pretendono di essere amati, uomini che neanche prendono in considerazione l’ipotesi che questo non sia possibile. Il desiderare determinate cose spinge alcune persone a credere che tutto converga in quella direzione, che tutto sia in sintonia con il loro sentire, per cui ciò che ‘deve accadere’ accade davvero. L’impegno e la forza di volontà che si impiegano, per raggiungere i propri obiettivi, sono tali che si ottengono le promozioni agognate, i riconoscimenti, i vantaggi attesi. Quando lo sbilanciamento verso l’altro diviene adesione, si verifica una vera e propria introiezione. Così ci identifichiamo con il carisma che attribuiamo ad una persona che stimiamo, che diviene un nostro eroe, lasciando che le caratteristiche positive entrino in noi, diventino parte di noi. In questo modo diveniamo un suo riflesso. Essere in sintonia con lui ci rassicura: costituisce una guida. Può trattarsi di un campione, di un leader, di una figura particolare. E questa introiezione può avvenire anche rispetto ad altre realtà, quali una squadra di calcio, un partito, una religione, un’ideologia. Questo spiega il motivo per cui si preferisce identificarsi con i più forti: perché introiettiamo e ci nutriamo delle loro qualità, che diventano anche le nostre Vi sono vari tipi e gradi di espansione, legati al tipo di proiezione che operiamo. Ad esempio nella simpatia si percepisce che l’altro è simile a noi. Nell’amicizia si percepisce che l’altro, riguardo a cose molto importanti, è uguale a noi. Nell’amore si percepisce che l’altro è una parte di noi, così “‘Io amo Brahms’ e lo devo sentire; ‘Amo il caviale o la pasta e fagioli’ e li devo mangiare; ‘Amo Maria’ e la devo vedere, sentire, abbracciare. Se l’elemento manca, l’attenzione rimane sospesa, l’operare inattuato, si prova sofferenza, dolore”36. La ritrazione, di cui abbiamo già parlato, riguarda la reazione alla delusione, alla mancanza di ciò che è atteso, alla sospensione della attenzione; è riferibile a quello che viene definito ‘animismo’, cioè alla percezione di una volontà che ci contrasta o alla estraneità di ciò che ci circonda. In questi casi l’attenzione si confronta con il vuoto, e questo genera insicurezza, frustrazione, stati emotivi negativi, improntati alla paura, alla solitudine. Ci sentiamo svalorizzati e senza prospettive.
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Nella ritrazione, cioè nella proiezione animista, ciò che percepiamo è altro da noi, ci è estraneo, rischiamo di subirlo perché è più potente, è ostile e disperiamo del nostro valore. Per reazione ci si ‘chiude’, si può ricorrere alla fuga, alla resa: da vinti ci si può lasciare ‘sommergere’, ‘invadere’. La ritrazione può avvenire anche rispetto a noi stessi: a parti del nostro corpo che non accettiamo, o che magari sono malate e rischiano di pregiudicare ulteriormente la nostra salute, o magari ad aspetti del nostro stesso carattere. Come abbiamo già scritto la differenziazione tra ‘interno’ ed ‘esterno’ costituisce un semplice punto di vista. Nella ritrazione parti inaspettate di noi possono prendere il sopravvento. Ad esempio Simone de Beauvoir racconta che, di fronte alla morte della propria madre, sentiva qualcuno piangere dentro di lei37. Un esempio di animismo nella ritrazione è costituito dall’attribuzione di una volontà autonoma e perversa riferite a sostanze quali ad esempio l’eroina. Per quanto riguarda i rapporti con gli altri, casi paradossali di ritrazione si verificano quando ci si identifica con i valori e le valutazioni altrui che ci squalificano. Si può arrivare, da parte della vittima a legittimare chi l’opprime, come avviene nei sistemi educativi dei regimi oppressivi, o nella sindrome di Stoccolma. Mossi dal timore nei confronti di colui che viene considerato come più forte, si cerca comunque di dare un senso alla propria alienazione. Un ulteriore esempio di ritrazione collettiva è costituito dalla cosiddetta ‘psicologia del gregge’. Questo tipo di reazione si verifica quando si è tra estranei e vi è una vittima che viene aggredita da qualcuno sotto gli occhi di tutti. Si tratta di episodi che vengono riportati frequentemente in cronaca nera: il branco che aggredisce una persona in luoghi affollati, per motivi di tipo razzista; le donne maltrattate o stuprate in pieno giorno. Succede che le persone non agiscano per prevenire la violenza né per contrastarla, né per chiamare soccorsi. Nel gregge non c’è un capo, nessuno reagisce perché si è tra estranei. Si determina la ritrazione e, per paura, si volge lo sguardo da un’altra parte. Istintiva-
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mente, per timore di essere aggrediti a nostra volta, si cerca di porsi all’interno del gruppo, nella speranza di salvarsi, invece di reagire. Quando è evidente che il gruppo non può offrire più protezione con la propria massa, allora vi è la fuga collettiva ed il panico. Anche a fronte di un numero ridotto di aggressori. Un esempio di passaggio dalla ritrazione alla espansione lo possiamo ritrovare nella reazione del bambino, che indica al genitore l’oggetto con cui si è fatto male, come se fosse l’oggetto responsabile dell’accaduto. A quel punto il genitore, per consolare il bambino, finge di picchiare l’oggetto. In questo modo si rassicura il bambino: ecco che nella punizione dell’oggetto si torna alla espansione. Anche noi adulti non accettiamo di farci male senza attribuirne a qualcuno la colpa. Se non c’è nessuno da incolpare, ci mettiamo comunque a gridare e ad imprecare, come se si reagisse ad una volontà ostile. Altri distruggono o scagliano l’oggetto con cui si sono feriti. Solo se l’incidente è grave ci lamentiamo, doloranti e bisognosi di rassicurazione, come bambini. Vi è una terza reazione, legata alle proiezioni, che definisco blocco e che approfondirò nella seconda parte del libro. Si verifica quando reagiamo nei confronti di una frustrazione, o riteniamo di dover superare un ostacolo. Nel blocco tuteliamo il nostro valore dagli altri, che vengono percepiti come una minaccia potenziale o effettiva, o comunque un elemento di disturbo. Ci affidiamo alla nostra potenza per contrastare, aggredire o estraniarsi da ciò che percepiamo come esterno. Attraverso il blocco l’altro perde valore ai nostri occhi. Diviene estraneo. Se non è come noi non merita le stesse cose, va contrastato o schiacciato. Si deve correggere, deve cambiare. Si tratta di un atteggiamento reattivo, non di ripiegamento, come avviene nella ritrazione. Anche il blocco si fonda sull’animismo: si cerca cioè di contrastare una volontà o una sorte percepita come avversa a noi. Ad esempio, un atteggiamento di blocco collettivo si verifica quando il gruppo anonimo di cui abbiamo appena parlato viene assalito, senza che vi sia possibilità di fuga. A quel punto le persone non hanno scampo, né niente da perdere. Verosimilmente si passerà
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dalla paura alla volontà di battersi: l’altro diverrà un nemico da contrastare rabbiosamente. Si verifica il blocco anche quando decidiamo di approfittare di una situazione, anche se questo significa danneggiare qualcun altro. Oppure quando lasciamo che qualcun altro paghi le conseguenze del nostro comportamento. Il rapporto con i simboli: coincidenza e contagio Nel pensiero magico i simboli coincidono con ciò che rappresentano, sono considerati come l’oggetto stesso che rappresentano. In questi casi agire sul simbolo è uguale ad agire sul rappresentato, in questo consiste la ‘coincidenza’. Per questo negli incantesimi occorrono parti del corpo della vittima predestinata, che vengono usati per esercitare un influsso sulla vittima. Si tratta di un pensiero arcaico da cui saremmo immuni? Credo proprio di no. Ecco un esempio: “H. O. Mounce propone di chiedere a qualcuno di infilare degli spilli nel ritratto di propria madre, mirando con attenzione agli occhi: ‘Chi sarebbe disposto a farlo con tranquillità? E chi potrebbe resistere al senso di colpa se, qualche tempo dopo, la madre perdesse la vista? Vi sarebbe in questo caso la percezione di una connessione tra i due eventi, che tuttavia non avrebbe nulla di causale. (...) Siamo piuttosto di fronte ad una reazione morale primitiva, pre-razionale. (…) Le motivazioni razionali cui possiamo pensare sono (…) dei commenti alla reazione primitiva, e non la sua causa”38. Anche in questo caso, si conferma che le dipendenze dell’operare agiscono prima del nostro approccio razionale. Ancora oggi è sufficiente un rito religioso per rendere sacro un locale, un edificio, un oggetto. In questo modo l’idolo assume in sé i poteri e la sacralità della divinità. Il fenomeno del ‘contagio’, invece, si verifica quando il simbolo pervade di sé, si espande in chi ne viene a contatto. Ne parla James Frazer, quando definisce la magia come un fenomeno di simpatia tra le cose, capace di instaurare legami per similitudine o contagio (due cose in contatto fra di loro continuano ad avere un influsso l’una sull’altra anche dopo essere state separate). Nella ‘legge del contagio’,
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“quando un oggetto entra in contatto con una persona, ne possiede in qualche modo l’essenza”39, o comunque una sua parte. Un esempio potrebbe essere il potere terapeutico che si attribuiva ai cram rings, anelli che i sovrani inglesi consacravano e distribuivano tra i loro sudditi: “per essere stati da essi consacrati, avevano ricevuto, si pensava, il potere di restituire la salute agli epilettici e di lenire i dolori muscolari”40. Un’altra forma di contagio è costituita dall’ostia, corpo di Cristo, nel rito della comunione, e dal vino, sangue di Cristo, che il sacerdote beve, o comunque nel cannibalismo rituale. L’esito è un sentimento di protezione e forse di privilegio, che determina espansione. Questo avviene anche nel caso del culto degli antenati, delle immaginette dei santi che si tengono a portata di mano o in casa, del crocifisso o dell’immagine della madonna che molti portano al collo. A questo proposito, Richard Wiseman, nel suo libro Quirkology, riporta le ricerche in merito alla teoria del contagio, tipica del pensiero magico, condotte dallo psicologo Paul Rozin e dalla sua équipe dell’università della Pennsylvania. Nell’esperimento si invitavano i volontari a “valutare quali sensazioni vi trasmette l’idea di indossare un bel maglione blu, morbido, grande e lungo, stile unisex. L’hanno lavato un paio di giorni fa, ma è nuovo, nessuno l’ha mai posseduto o utilizzato”41. Nessuno aveva problemi ad indossare l’indumento. Successivamente, tuttavia, veniva chiesto quali sensazioni avrebbero provato immaginando che tale capo di abbigliamento “fosse stato utilizzato da qualcuno che aveva contratto l’AIDS a causa di una trasfusione di sangue. Specificarono che il capo era stato lavata un paio di giorni prima e che il malato l’aveva portato solo per mezz’ora. All’improvviso gli intervistati non volevano più toccarlo. Anche se sapevano che non vi erano rischi igienici o sanitari, la teoria superstiziosa del contagio aveva sortito il suo effetto, e non se la sentivano di mettersi il maglione. Rozin e i suoi colleghi variarono i proprietari fittizi del pullover, constatando che il pensiero di usare un indumento appartenuto a qualcuno che personificava il male, come un pluriomicida o un leader fanatico, suscitava una forte reazione tra la gente. Anzi, i risultati evidenziarono che le persone avrebbero pre-
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ferito indossare un maglione caduto tra le feci di un cane e mai lavato (con rischi concreti per la salute) anziché un maglione pulito che in precedenza era appartenuto ad un pluriomicida”42. Siamo condizionati dalla proiezione riguardo a ciò o a colui che ha ‘impregnato di sé l’ambiente, questo ci spinge a immaginare la possibilità di un contagio. Di conseguenza, attraverso le dipendenze dell’operare agiamo, quando è possibile, per evitare questa eventualità, in un atteggiamento di ritrazione. Talvolta il contagio è ricercato, come quando ci si reca in pellegrinaggio in un luogo in cui sia vissuto qualcuno in odore di santità. In altri casi il contagio si trasforma in altri tipi di suggestione, come avviene quando visitiamo case abitate da personaggi illustri, un museo, un luogo teatro di eventi storici. Oppure si tratta di ciò che ci resta di persone care. A questo proposito Ceccato parlava di un vecchio cappotto del padre, che faceva continuamente rammendare perché portarlo lo faceva sentire protetto dalla presenza del genitore, si espandeva in questo capo di abbigliamento43. Invece, se subiamo un furto nel nostro appartamento e troviamo tutto sotto sopra, ci sentiamo violati ed i nostri oggetti ‘sporcati’ dal ladro, come se il tocco di questi ci procurasse ribrezzo, per una forma misteriosa di contaminazione. Anche in questi casi le dipendenze dell’operare precedono la riflessione.
L’elemento emotivo delle dipendenze dell’operare in ambito sociale: il kred Credere e kred Il termine ‘credere’ ha origine nelle antichissime lingue indoeuropee. In particolare si tratta di un composto verbale tra le radici *kred e *dhe, da cui deriva *kre-dhe, che significherebbe ‘porre il *kred’. Il *kred indicherebbe una forza magica, per cui *kre-dhe significherebbe ‘porre in qualcuno la forza magica’, da cui risulta la fiducia in questo qualcuno44. Il kred sarebbe una sorta di pegno, “qualcosa di materiale, ma che implica anche il sentimento personale, una nozione investita di una
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forza magica appartenente ad ogni uomo e che si ripone su un essere superiore”45. Porre il proprio kred su una divinità, significava sostenerla e così darle forza, nella lotta e nella rivalità con le altre divinità. Si tratta di aspetti che sono stati ritrovati anche in ambiti religiosi diversi e che quindi dà ragione della antichità della nozione: “La situazione è quella di un conflitto tra divinità, in cui gli uomini intervengono appoggiando l’una o l’altra causa. In questo impegno gli uomini donano una parte di sé stessi, che rafforza quello degli dei che hanno deciso di appoggiare; ma vi è sempre implicata una contropartita; ci si attende una restituzione da parte della divinità. Questo è, apparentemente, il fondamento della nozione laicizzata di credito, fiducia, quale che sia la cosa fidata (fiée) o affidata”46. Insomma, se facciamo un dono, ed anche la manifestazione e la ostentazione della nostra fede sono assimilabili a un dono, ci attendiamo qualcosa in cambio, per cui coltiviamo delle aspettative nei confronti della divinità: un controdono. Si tratta di una dipendenza dell’operare. Ancora in Omero gli dei si contrastano e tramano tra di loro, a seguito delle intercessioni dei rispettivi fedeli. Le vicende degli uomini e delle divinità, in questo modo si intrecciano. Si può ipotizzare che il kred sia alla base della fede devozionale, che si caratterizza con l’invocazione in attesa del miracolo o dell’intercessione. Questi sono attesi in rapporto alla devozione ed alla fedeltà nei confronti del santo protettore, al dimostrarla pubblicamente, ostentandola. L’idea di ‘affidare’ il kred può far sorridere, ma se questa fede la trasponiamo nel tifo espresso negli stadi, allora ne percepiamo la forza e la realtà. Se diventa l’energia di una manifestazione politica o di un corteo convinto e determinato, comprendiamo che qualcosa esiste che che va oltre la somma dei singoli partecipanti. A sua volta, la forza di una manifestazione religiosa esprime una suggestione mistica collettiva. Questa aspettativa di dono e contro dono è presente in tutte le società, in tutte le culture, in tutti i tempi. Robert Cialdini la definisce la ‘regola del contraccambio’47. Questa caratterizza dunque non solo
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il rapporto tra gli uomini ma, come abbiamo visto, anche il rapporto di questi ultimi con le divinità. Si tratta di una dipendenza dell’operare universale. Ne possiamo trovare testimonianza nel termine ‘grazie’, che in alcune lingue significa ‘obbligato’, e che deriva da ‘gratus’, essere grati, il che implica il riconoscimento di un obbligo morale. E da gratium deriva anche la parola ‘grazia’, con la sua connotazione religiosa48. Le dipendenze dell’operare e dell’espansione rendono possibili la relazione e lo scambio, con i vantaggi che ne derivano; ad esempio si compie un lavoro prima di essere pagati, si dà credito, si fa credito, si genera un’aspettativa e ci si comporta come se si fosse certi che si avvererà. Il kred rende possibile l’espansione, la sintonia con il mondo esterno e l’aspettativa fiduciosa, cioè l’apertura rispetto al futuro. Anche in economia si vive sulle aspettative, si crede nel futuro. Altrimenti si crea una crisi di fiducia e l’economia intera rischia di andare a rotoli. Il kred caratterizza emotivamente le dipendenze dell’operare, per l’anticipazione e la ‘costruzione’ del futuro, attraverso il senso del nostro agire nel presente. Il kred agisce in modo duplice: da una parte esprime la suggestione emozionale che assumono le dipendenze dell’operare, nei confronti di ciò che avviene, e contribuisce a renderle indiscutibili, autoevidenti. In questo modo, le nostre azioni conseguenti ci appaiono legittime e logiche. Da un altro lato la connotazione emotiva, attraverso le proiezioni, investe persone, oggetti, simboli; il kred fisicizza ciò che è astratto con la connotazione emotiva. Questo rafforza le ideologie imperanti. I due aspetti del kred sono fortemente integrati. Naturalmente, il kred è un’astrazione, in sé non esiste, non c’è un luogo in cui possa essere reperito. Ho mutuato dal passato questo concetto ed il suo nome perché avevo bisogno di sintetizzare con una parola una serie di aspetti che sono importanti per ciò che intendo esporre. Il kred definisce un’illusione, la sua proiezione e la sua potenza.
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La forza emotiva ed indiscutibile del kred rimuove l’angoscia che provocano la percezione del caos e del caso. Per questo crediamo sempre in ciò che stiamo facendo e nell’importanza di tutto ciò in cui ci impegniamo, e se non ci crediamo, siamo convinti del nostro scetticismo. Crediamo in noi stessi e nel valore del mondo in cui viviamo: abbiamo bisogno di credere e questa suggestione emotiva è determinante nel definire le nostre priorità. Ci spaventa non avere riferimenti, perdere il senso ed il valore delle cose. Tendiamo a continuare a credere anche contro l’evidenza. Il pensiero costituisce continuamente rapporti in cui ci coinvolgiamo. Le dipendenze dell’operare, con il kred che le connota, sono così impellenti che possiamo arrivare a tradire gli altri, oppure arrivare a sacrificare la nostra vita. Hanno a che fare con dimensioni costitutive di noi stessi. Quando abbiamo parlato del pensiero magico e della sua forza di suggestione abbiamo già visto esempi di kred, di proiezioni e di aspettative che ne conseguono. D’altra parte, da un punto occorre partire, per dare un senso a ciò che ci circonda ed alla nostra vita, altrimenti si rischierebbe la regressione all’infinito. L’arbitrarietà delle suggestioni sociali che rientrano nelle dipendenze dell’operare è dimostrata dal fatto che queste cambiano a seconda delle società in cui si è nati. Inoltre, ciò che è consentito in un gruppo sociale può essere considerato vietato o disdicevole in un altro. Le convinzioni socialmente indotte e connotate con il kred, consentono il contenimento delle pulsioni, e questo favorisce la convivenza sociale. La sola razionalità ci spingerebbe invece ad essere indifferenti o spietati nel perseguimento del nostro interesse. Hume ha scritto che “non è contrario alla ragione preferire la distruzione del mondo intero ad un graffio al nostro dito mignolo”49. Vediamo adesso ancora una serie di esempi di dipendenze dell’operare e delle loro caratterizzazioni emotive. Effetto placebo I farmaci placebo sono pseudo farmaci, nel senso che non contengono nessun principio attivo, ma producono ugualmente un effetto te-
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rapeutico, definito appunto ‘effetto placebo’, in una percentuale variabile tra il 25 ed il 40% dei soggetti cui tali farmaci vengono somministrati. Chiaramente le persone non sono a conoscenza del fatto che stanno assumendo compresse, o quant’altro, che non contengono nessun principio attivo terapeutico. Semplicemente la cura funziona perché le persone credono nel farmaco, gli attribuiscono un kred, sulla base delle dipendenze dell’operare. E che le cose stiano così lo dimostra il fatto che l’effetto placebo non si verifica nel caso di persone ignare, sottoposte ad anestesia, o cerebropatiche. L’effetto placebo è un esempio di come le proiezioni, e il kred delle dipendenze dell’operare, determinino mutamenti rispetto al proprio organismo. Infatti, l’effetto placebo è superiore se la somministrazione viene effettuata dal primario invece che dall’infermiere50. A mio parere, il tutto può essere spiegato come una forma di contagio riguardo al kred attribuito al farmaco, potenziata dal kred attribuito alla persona che lo somministra. Quest’ultima ricopre una grande importanza, come dimostrano molti esempi, anche della storia passata. Ad esempio, Marc Bloch “In ‘I re taumaturghi’ studiò l’‘errore collettivo’ secondo cui i sovrani di Francia e d’Inghilterra potevano guarire le scrofole grazie alla semplice imposizione delle mani. Quando la scienza dimostrò il contrario, dopo sei secoli, le guarigioni cessarono. (…) (il falso) quando è creduto, e propagato, quando costituisce il nostro occhio con cui guardare all’universo, arriverà a produrre effetti e fonderà verità nuove”51. Un altro esempio di guarigioni miracolose legate al prestigio attribuito ai guaritori, risale alle campagne di colonizzazione delle Americhe. Nel 1528, una disastrosa spedizione di conquistadores approdò sulle spiagge della Florida. Solo pochi sopravvissero; tra di loro un personaggio appartenente della Corte di Spagna, e ribattezzato dagli indiani Cabeza de Vaca. Vennero schiavizzati dagli indiani e dopo alterne e tribolate vicende riuscirono a fuggire, dirigendosi verso le grandi pianure dell’interno. Li precedeva la fama di aver guarito miracolosamente alcuni indiani malati. In realtà avevano soffiato loro sul corpo, come avevano visto fare agli sciamani, avevano fatto il segno della croce e recitato
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alcune preghiere. Tuttavia, questo fu sufficiente a farli apparire come sciamani potenti. La suggestione era forse dovuta anche alla diversità del loro aspetto e dei loro modi. Nel loro lunghissimo viaggio, per tornare ai possedimenti spagnoli, ebbero al seguito migliaia di indiani, attirati dalle numerose e continue guarigioni miracolose che gli spagnoli riuscivano ad operare: “Gli indiani attribuirono le guarigioni al potere del sole. Cabeza de Vaca sentì la mano di dio operare attraverso di lui. Castillo, che all’inizio era stato il guaritore più potente, fu consumato dai dubbi e rinunciò, sentendo che i suoi peccati lo rendevano indegno di gestire un simile dono divino”52. L’effetto placebo dimostra che proiettiamo specifici valori e poteri su determinate persone, a seconda del loro ruolo sociale. Abbiamo visto che la ‘potenza terapeutica’ dell’infermiere, che somministra il farmaco, è inferiore rispetto a quella del medico. A seconda dei contesti e dei ruoli, le persone acquisiscono maggiore o minore valore. L’effetto placebo è superiore se le compresse sono più grandi. Inoltre, maggiore è la quantità di pseudofarmaco assunto, maggiore l’effetto riscontrato53. Le dipendenze dell’operare che agiscono in questi casi sono di facile comprensione. Meno intuitivo è il motivo per cui i placebo rossi determinano un maggiore effetto in confronto ai placebo bianchi54. Proiettiamo delle proprietà attive anche ai colori e ci regoliamo di conseguenza. L’effetto placebo indica la forte correlazione tra kred ed operare senso motorio. Anche le terapie chirurgiche fasulle, in cui ci si limita al taglio dell’epidermide, possono produrre gli stessi effetti di quelle vere, in particolare in “alcuni interventi di cardiochirurgia, o in artroscopia, o anche attuati in soggetti sofferenti di dolore addominale persistente, sottoposti a precedenti interventi sull’addome per rimuovere le aderenze, la terapia chirurgica fasulla (sham operation) ha prodotto gli stessi benefici di quella vera. Moerman sottolinea come non si tratti solo di un effetto di suggestione ma di una risposta biochimica, ormonale e immunitaria del corpo, in risposta al significato attribuito dal soggetto all’atto terapeutico. (…) L’effetto placebo non è circoscritto solo ad alcune patologie ma si può manifestare nel corso di terapie sia di malattie mentali che
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di psicosomatiche e somatiche, potendo coinvolgere quindi ogni sistema o organo del paziente”55. Vi è uno studio che dimostrerebbe che la stessa agopuntura si fonderebbe sull’effetto placebo56. Infatti gli effetti della agopuntura tradizionale si sono rivelati equiparabili a quelli ottenuti ponendo gli aghi su punti superficiali dell’epidermide o in punti non ritenuti efficaci per il trattamento della lombalgia. Un ulteriore risultato sorprendente emerso dalla ricerca, era che l’effetto terapeutico di entrambi i trattamenti era comunque superiore a quello ottenuto con la medicina tradizionale. Il kred delle dipendenze dell’operare determina anche l’effetto ‘nocebo’, cioè negativo, che si verifica quando vi è sfiducia nel farmaco e/o nel medico che lo prescrive. L’effetto nocebo si verifica anche nei casi di credulità nei confronti di riti e superstizioni, quali malocchio, riti vodoo ecc. Dipendenze dell’operare ed oggetti Ci sembra di avere un atteggiamento neutro riguardo all’ambiente, ma proviamo dispiacere se lo troviamo devastato o stravolto dopo anni, o se solo ci accorgiamo che una pianta che avevamo in mente è stata abbattuta. Agli oggetti attribuiamo spesso un kred. Per Accame “li rendiamo depositari simbolici, gerarchicamente ordinati, di nostre attese, di nostre speranze, di sogni, altrettanto gerarchicamente ordinati”57 e socialmente indotti. A questo proposito ricorre all’esempio delle bottiglie di vino che conserva in casa, per festeggiare eventi particolari che potranno accadere. Diventa secondario che nel frattempo il vino possa andare a male. L’importante è che restino depositarie dei simboli che si sono detti. Abbiamo bisogno dei sogni, e “l’importante è che delle avventure che ci narriamo instancabilmente si sia ancora capaci d’immaginarcene il lieto fine ”58. Vogliamo parlare dei tanti tipi di kred attribuiti al denaro, a seconda dei termini di confronto? In effetti non si tratta nemmeno più di un kred attribuito ad un oggetto, visto che tendenzialmente, con la moneta elettronica, il denaro perderà qualsiasi supporto fisico. Que-
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sto ci fa comprendere come sia facile attribuire il kred anche al nulla, o ad astrazioni. Talvolta siamo costretti a mutare il kred che attribuiamo a particolari oggetti, perché le informazioni di cui disponevamo erano false o inesatte. È quanto accade di tanto in tanto rispetto a determinate opere d’arte. Ad esempio nel 2011 un critico d’arte sostenne che “La testimonianza di San Giovanni Battista”, esposta al Metropolitan Museum di New York attribuita a Francesco Granacci sarebbe in realtà opera di Michelangelo. Sul “New York Post” si ricordò che l’opera era stata acquistata a un’asta di Sotheby’s, a Londra, per 150.000 dollari. Guarderemmo lo stesso quadro con lo stesso sguardo sia che fosse opera di Granacci o di Michelangelo?59. Un caso analogo è quello del quadro intitolato “Bella Principessa”, attribuita alla scuola tedesca del XIX secolo, nel 1998, venduta da Christie’s di New York per 21.850 dollari. Successivamente la paternità del quadro venne attribuita a Leonardo da Vinci, ed è quotato adesso 127 milioni di euro60. Ciò che cambia è il kred che attribuiamo all’opera sulla base di chi l’ha realizzata, indipendentemente dall’opera in sé. Si tratta di una forma di contagio che ci condiziona tutti. Presupposti delle dipendenze dell’operare Non si può fare a meno dei presupposti delle dipendenze dell’operare. Ne è un buon esempio la vecchissima storiella di Gennarino Esposito, personaggio dei bassi napoletani che muore, per ritornare in vita dopo qualche giorno. I vicini gridano al miracolo e Gennarino diviene famoso. Invitato dal Papa, gli viene richiesto cosa abbia visto nell’aldilà. Lui risponde di non avere visto niente. Gli viene fatto capire che questo porterebbe alla fine del cristianesimo, della civiltà occidentale, porterebbe alla disperazione esistenziale molti uomini. Gennarino non reagisce. Gli vengono offerti molti soldi per tacere e Gennarino li accetta. Successivamente viene invitato in Unione Sovietica e gli viene chiesto se vi sia un’altra vita oltre la morte. Lui riferisce del Paradiso, degli angeli ecc. Gli viene fatto capire che queste rivelazioni
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porterebbero alla sconfitta della causa del proletariato, perché la religione legittima il potere degli oppressori, si caratterizza come oppio dei popoli. Gennarino non reagisce. Gli vengono offerti molti soldi per tacere e Gennarino li accetta. Finalmente viene invitato dal Presidente degli Usa, perché la stampa continua a parlare del suo caso, che continua a fare clamore. Il Presidente, in privato, gli dice che a lui non importa nulla se nell’aldilà vi sia o no un Dio, e che lo ha invitato solo per ragioni di immagine. Gennarino afferma di comprendere, ma chiede di poter fare una rivelazione. Il Presidente dice che Gennarino può parlare e questi afferma che “a chille è niro!” (Quello è nero!). Nella prima parte della storiella si ha a che fare con un tema esplicitato: c’è un aldilà o no? A seconda della risposta viene confermata una narrazione della realtà, quella cristiana o quella comunista. Pur di continuare a sostenere la propria narrazione, anche se viene smentita dalle risposte di Gennarino, si è disposti ad accettare che il proprio punto di vista sia falso, e continuare come se niente fosse. Le dipendenze dell’operare prevalgono sulla ‘realtà’, ed il kred non viene intaccato dalla smentita. Nella seconda parte invece si parla di presupposti impliciti: il Presidente americano dice di essere indifferente alla esistenza di un Dio o meno. La sua definizione di realtà non ne avrebbe risentito. Gennarino tuttavia risponde che Dio esiste, poi sottolinea il fatto che sia di colore, mentre il Presidente riteneva che se anche esistesse non potesse essere nero (e questa, implicitamente, è la convinzione di tutti i personaggi della storiella). Ancora una volta emerge che le dipendenze dell’operare costituiscono presupposti arbitrari di cui non siamo consapevoli. Ma c’è un ulteriore aspetto: l’autore della storiella dava per scontato che il presidente degli Stati Uniti non potesse essere nero, ed anche questo è un a priori che il tempo ha dimostrato essere falso. Tanto meno ci si era posti il dubbio che il presidente potesse essere una donna, o che Dio potesse essere di genere femminile. Un’altra storia, che esemplifica le ‘trappole’ legate ai nostri presupposti impliciti, narra di una figlia e di un padre vittime di un grave
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incidente stradale. La figlia deve essere operata ma il chirurgo di turno, quando la vede, afferma di non poterla operare perché si tratta di sua figlia. In genere questo genera sorpresa e perplessità. Nessuno pensa sul momento che il chirurgo sia la madre. Si dà per scontato che il chirurgo sia una figura maschile. Dobbiamo partire da un presupposto, per collocare e collocarci, e questo può dar adito alle conseguenze che abbiamo visto. Dipendenze dell’operare e collocarsi Ci percepiamo ed agiamo a seconda di ciò in cui si crede e di ciò che crediamo di essere, cioè dei termini di confronto in cui ci collochiamo. Vediamo ad esempio, più in dettaglio, come si possa agire diversamente a seconda che ci si consideri cittadini o sudditi. Coloro che si percepiscono come sudditi, implicitamente, accettano di valere meno, rispetto a chi si considera cittadino sovrano. Le differenziazioni che elenco nei prossimo punti sono radicalizzate, ma rendono l’idea di come ci si possa porre in modo molto diverso nei confronti degli altri a seconda del termine di confronto adottato: ● Il cittadino sovrano si sente comproprietario e corresponsabile di ciò che lo circonda. Il suddito si sente responsabile solo della sua proprietà, il resto è territorio franco, da utilizzare, consumare, di cui non farsi carico. ● Il cittadino sovrano pretende che i servizi pubblici siano efficienti, improntati ad educazione, professionalità, efficacia, efficienza. Il suddito si comporta, davanti a un funzionario di un ufficio pubblico, come se fosse in un negozio. Il rapporto è asimmetrico: si abbassa la voce, si sorride timidamente, si incurvano le spalle, ci si imbarazza nella ricerca delle parole più adeguate e che non ci appartengono, come in un esame. Insomma si adottano tutta una serie di segnali di sottomissione. Il suddito al massimo si ribella; i mezzi con cui contesta sono eversivi, nel senso che sono al di fuori della logica del sistema, senza proporre un modo razionale di riformarlo, ma semplicemente si sfoga, minaccia, magari danneggia qualcosa e se ne va. ● Il suddito trattato come un cittadino può divenire arrogante e maleducato, perché vive la disponibilità del dipendente pubblico come
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un segno di debolezza di cui approfittare. Il suddito si può mostrare arrogante e maleducato anche di primo acchito, perché ha imparato che facendo la voce grossa e minacciando, si ottengono i servizi che interessano dai dipendenti pubblici che, in definitiva, sono considerati dei sudditi vili a loro volta. ● Il suddito che lavora in un servizio pubblico non è al servizio dei cittadini, ma ‘occupa’ il posto cui è assegnato: tendenzialmente sono gli altri che dipendono da lui e dai suoi capricci. Non opera per risolvere i problemi ma preferisce utilizzare il potere di veto. Non cerca le soluzioni ma gli alibi per evitare responsabilità. Ciò che produce per il servizio non è un dovuto, ma una concessione. ● Il cittadino sovrano non accetta limitazioni di sovranità. Il suddito sta dalla parte del più forte e giustifica tutto ciò che la sua parte commette. È gregario in quanto suddito. ● Il cittadino sovrano non teme il confronto e di rivendicare i suoi diritti. Il suddito, per definizione, si sente vittima, debole. Cerca di ottenere con espedienti il soddisfacimento di ciò a cui ambisce: ricorrendo a conoscenze, amici, parenti, oppure a favori, scambi. ● Il cittadino sovrano ha il senso della propria dignità e del proprio onore. Il suddito cerca di salvare la facciata; fondamentalmente non guarda ai diritti degli altri, ma agli interessi propri, anche se prevaricano diritti altrui ● Il cittadino sovrano ha il senso della solidarietà sociale, il suddito del comparatico, del clan, della consorteria. ● Il cittadino sovrano esige, il suddito o implora o ricatta. Il cittadino denuncia ciò che non va e le responsabilità. Il suddito tace, è omertoso, al massimo parla alle spalle, fa la spia, cerca di trarre vantaggio. Il suddito tiene solo al guadagno ed alla incolumità personale, mentre il cittadino tiene al rispetto delle regole perché è sovrano e sente che anche il bene comune gli appartiene. Il cittadino è erede del sovrano, il suddito della plebe. ● Il cittadino sovrano dà il dovuto, il suddito cerca lo scambio e cerca di dare il meno possibile. Il cittadino si sente Stato, il suddito vive lo Stato come un’entità con sui deve fare i conti, per cui cerca di raggirarlo, di non pagare le tasse, di non farsi carico delle responsabilità.
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● Il senso del dovere del cittadino infastidisce il suddito, perché quest’ultimo è d’accordo di parlare di giustizia e doveri, ma come copertura ipocrita, un alibi nella ricerca del proprio tornaconto, oppure per cercare di rimediare a ciò che considera un danno. La filosofia è quella del ‘vivi e lascia vivere’, in cui ognuno cerca di fare il proprio interesse, senza badare a ciò che fanno gli altri (e gli altri non devono badare a ciò che fai tu). Il suddito è moralmente indifferente. ● Il cittadino sovrano propone cambiamenti, il suddito si lamenta. ● Il cittadino sovrano cerca politici che lo rappresentino, il suddito invidia i sudditi come lui che hanno più potere perché sono dei politici. ● Il cittadino sovrano cerca di perfezionare la democrazia, il suddito vorrebbe l’uomo del destino, perché il suddito che ci fa in una democrazia? ● La mentalità del suddito è dura da sradicare, perché chi gestisce il potere preferisce avere a che fare con sudditi, piuttosto che con cittadini.
Dipendenze dell’operare e connotazione delle attività che si compiono Le dipendenze dell’operare possono connotare, anche grazie al kred, in modo completamente diverso una stessa attività. Ad esempio Ceccato sostiene che nel gioco (atteggiamento ludico) l’operare ed il risultato siano fusi in un unico avvenimento. Quindi l’operare è completo e tutto nostro. Nel lavoro il risultato è separato dall’operare e ad esso si aggiunge. Il calcio, il bridge ecc., diventano gioco o lavoro a seconda che si considerino nell’uno o nell’altro modo, poiché nel lavoro il risultato del nostro operare non ci appartiene e può portare alla alienazione. Nel caso dell’hobby operare e risultato sono fusi come nel gioco, ma siamo disposti a separarci dal risultato del nostro conservare, vendendo elementi della propria collezione, scambiandoli, o utilizzando le capacità acquisite attraverso l’hobby per aiutare qualcuno. Nel caso dello studio i risultati “appartengono sì all’operare ma in vista di un’applicazione futura, per lo più lavorativa. Se finisce nel gioco si parla più facilmente di imparare, di prendere lezioni, di istruttori, di allenamento, etc.
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Anche lo studio diventa sorgente di diletto, già come espansione di sé, della propria energia mentale, ogni qualvolta il pezzetto nuovo, appreso, trova accoglienza nella rete di rapporti già costituiti, quale alimento di intelligenza. Un pizzico di artigianato? Questo è più difficile, perché comporta che nel risultato chi opera introduca un poco della sua originalità, riconosca così nell’opera un tanto di sé stesso. Anche questo è un modo di espandersi, sia nel rispecchiarsi sia nell’estendersi in coloro che della sua opera si servono”61. L’intensità delle connotazioni emotive delle dipendenze dell’operare è condizionata anche dalla familiarità che si ha con la situazione in cui si va ad agire, talvolta indipendentemente dai dati oggettivi. Ad esempio, l’essere umano è in grado naturalmente di galleggiare, ma chi non sa nuotare, per la paura di affogare, trova paradossalmente la morte in acqua. Per chi sa nuotare il problema non si pone e nuotare diviene un piacere. Nel caso di un pilota di linea che deve fare fronte ad un’avaria dell’aereo, la formazione dovrebbe renderlo più concentrato e determinato, perché la simulazione ripetuta, e dunque la familiarità con tali situazioni, fa sì che quelli che sono i motivi che possono indurre il panico in un pilota dilettante – l’incolumità propria e altrui – aiutino il pilota esperto a concentrarsi maggiormente nel proprio compito. A seconda che un’attività la si compia all’interno di un contesto che prevede un compenso o che la si porti a termine per semplice disponibilità personale, mutano completamente le dipendenze dell’operare. Nel secondo ambito possiamo fare rientrare il volontariato, la disponibilità personale a dare una mano agli altri, ai parenti, agli amici, ma anche agli sconosciuti in difficoltà. Nel caso di un compenso si fa rientrare il proprio operare in un contesto di prestazione professionale. A volte mi è capitato di pranzare in un ristorante gestito da una mia parente, ed era legittimo che pagassi il conto che mi veniva pre-
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sentato. Sarebbe invece molto offensivo se volessi pagare quando mi invita a consumare un pasto a casa sua. Allo stesso modo, sarebbe ritenuto offensivo consegnare un regalo dal valore irrisorio, invece che pagare un conto in sospeso. All’interno della relazione personale, che ci spinge ad attivarci gratuitamente, il ‘compenso’ è costituito dal dono (cioè dal contro dono), il cui valore potrebbe essere irrilevante da un punto di vista economico, ma che acquisisce un valore simbolico che lo rende adeguato. Può semplicemente consistere nel solo ‘grazie’. Se si rammenta il denaro una volta che la persona ha dato una mano lo rifiuterà, perché l’aiuto era legato alla logica relazionale. È possibile che invece la persona accetti denaro, se l’opportunità di un compenso viene proposta all’inizio, quando si richiede un aiuto che magari si sarebbe potuto ottenere anche gratuitamente. Tuttavia, occorre fare attenzione a non passare da una modalità di rapporto all’altra, altrimenti scattano le dipendenze dell’operare legate al nuovo contesto. Ariely rileva che “offrire a qualcuno un regalo, anche se piccolo, è sufficiente a convincerlo ad aiutarvi; ma ditegli quanto costa e lo vedrete andare via prima che abbiate potuto terminare la frase”62. A seconda dell’approccio e della relazione che si instaura, cambia anche il modo di comportarsi e di essere delle persone. Nella relazione improntata sul denaro si è più egoisti, sicuri di sé, si vuole passare più tempo da soli, si è meno disponibili a condividere con gli altri63. Un altro esempio di relazione sociale che può essere inquinata dalla legge di mercato, riguarda la donazione del sangue: esperimenti hanno dimostrato che se si introduce un piccolo compenso per ogni donazione anziché limitarsi ad elogiare il donatore per il suo senso civico, il numero di donazioni cala drasticamente. Dagli esperimenti risultava che “Il compenso economico trasformava quello che era ritenuto un nobile gesto in un modo particolarmente fastidioso per raccattare qualche dollaro: un atto che non valeva la pena di compiere. Che cosa sarebbe invece accaduto se il compenso fosse stato di
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50, 500 o magari anche 5000 dollari? Senza dubbio, il numero di donatori sarebbe cambiato in modo sorprendente. Ma a cambiare in modo non meno drastico sarebbe stato anche qualcos’altro, perché ogni incentivo presenta un lato oscuro. Se una dose di sangue valesse all’improvviso 5000 dollari, state pur certi che la cosa non passerebbe inosservata, con il risultato che aumenterebbero le aggressioni all’arma bianca, il sangue di maiale verrebbe spacciato per umano, i limiti massimi di donazioni verrebbero aggirati con l’uso di documenti di identità falsificati eccetera”64. Introdurre la logica del denaro, in contesti che si fondano sulla disponibilità e sul dono, degrada i rapporti tra le persone, finendo per ridurli ad un’esclusiva logica di tornaconto immediato. Ritornare dalla logica del denaro a quella del dono è molto più difficile. La relazione con il denaro, nell’adempimento di un compito, rischia di alienarci da quanto stiamo facendo. Per Ceccato “L’uomo che opera per scambiare si abitua a vedere le sue gioie non in quello che lui fa, ma nell’uso di ciò che riceve dagli altri, con la conseguenza, fra l’altro, di un’immensa mercificazione”65. Ariely ha rilevato che, di fatto, le persone lavorano di più quando operano per una causa, che quando sono chiamati a fornire prestazioni per denaro66. Lavorano di più anche quando il compenso è simbolico. Ritengo che questo accada perché il compito in cui si stanno impegnando diventa parte di sé, vi ci si espandono, al contrario di quanto avviene con il denaro. Vi è chi cerca di sfruttare le dipendenze dell’operare fondate sulla fiducia e sulla disponibilità relazionale, indipendenti dal denaro, per proprio tornaconto. Ad esempio, molte aziende si presentano ai potenziali clienti proponendo un rapporto che sembrerebbe improntato a familiarità e sostegno: vedi ad esempio la pubblicità delle banche relativamente alla gestione dei conti, o alla concessione di prestiti. Il motto ricorrente è che la banca è vicina a noi. Quando tuttavia il cliente è in difficoltà, o ha delle rimostranze da fare, si rende conto di essere considerato solo un seccatore. Lo stesso vale nel rapporto tra impresa e dipendenti: molte volte, quando arriva la crisi, i dipendenti vengono spesso sacrificati senza tanti complimenti.
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Nella legge di mercato il denaro assume in sé tutto il valore della relazione. Nella logica del dono il valore sta tutto nella relazione, e nella soddisfazione della conferma del proprio valore rispetto ad una richiesta di aiuto. Il denaro in sé non riesce a procurarci le gratificazioni relazionali di cui abbiamo bisogno, al massimo ci può facilitare relazioni interessate. Il denaro non può assolvere a tutto. Lo dimostra il fatto che qualsiasi società necessita di operatori la cui attività sia improntata alla missione, al prendersi cura degli altri. Anche se questi compiti vengono retribuiti, non possono essere considerati dal solo punto di vista economico. L’aspetto costitutivo a monte di molte professioni legate all’aiuto non è legato alla mercificazione, al semplice scambio: un educatore, un infermiere, un assistente sociale, un pompiere, un sacerdote possono e devono ricevere un compenso, perché alloggio e vitto costano, ma il loro investimento emotivo in genere non è nei confronti del denaro, ma nei confronti dello scambio emotivo con le persone67. Ceccato propone una tripartizione: “ci sono attività che si scambiano ‘un tanto al pezzo’, come il formaggio dal salumaio, il metro quadro del piastrellista; ci sono attività che si fanno per il piacere o dovere di fare, come il regalo anonimo, la ricerca, la beneficenza, la missione; e ci sono gli scambi misti che segnano l’opera del medico, dell’ufficiale, dell’insegnante, e simili. Sbagliare la collocazione vuol dire pagare con l’insoddisfazione ciò che si fa”68. L’atteggiamento economico porterebbe, da solo, a diffidare degli altri ed ancor più di coloro che manifestano l’importanza dei valori relazionali. Le persone sentono il bisogno di rapporti, emozioni e sentimenti, appartenenze, che vanno al di là dello scambio economico. Non solo, la fiducia negli altri rafforza i legami sociali ma anche gli scambi economici, perché ci si attende che gli altri rispettino i loro impegni, perché si crede nella forza del legame relazionale. Sono proprio i beni relazionali che consentono e favoriscono lo sviluppo economico, oltre che la convivenza civile. L’incentivo economico da solo non migliora la qualità del lavoro degli insegnanti, dei medici o dei manager, ma determina semmai il
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ricorso all’inganno per ottenere nuovi incentivi ed una rincorsa rivendicativa per essere pagati meglio. Il denaro in sé tende a svuotare le relazioni sociali. Occorrerebbe invece investire di più sulla logica del dono e sulla promozione delle relazioni sociali. Il vantaggio del denaro, nelle relazioni sociali, è che ci rende indipendenti da legami asfissianti con gli altri e dagli obblighi relativi alla regola del dono, che prevede in cambio l’obbligo di un controdono. Collocare gli altri Anche l’attenzione nei confronti degli altri è condizionata dal kred che attribuiamo. Ad esempio Simons e Levin69 inviarono degli sconosciuti esterni al campus universitario dove lavoravano, per chiedere informazioni ad alcuni studenti. Mentre due studenti parlavano, passavano nel mezzo due uomini che trasportavano una porta, a quel punto uno dei due scambiava il proprio posto con quello dello sconosciuto che chiedeva informazioni. Se era uno studente che poneva la domanda 7 intervistati su 15 si rendevano conto della sostituzione. In una seconda serie di esperienze, quando lo sconosciuto era vestito da lavoratore edile, solo 4 intervistati su 12 si resero conto della sostituzione. Questo dimostra che la nostra attenzione, ed il nostro comportamento, nei confronti degli altri sono diversi a seconda del modo in cui li categorizziamo. Riguardo al lavoratore edile, gli studenti non avevano prestato attenzione ai tratti del volto, non erano interessati a sapere chi era (diversamente dal fatto che fosse invece uno studente come loro). Erano interessati semplicemente a sapere ‘cosa era’70. Nei confronti del lavoratore edile tendeva più facilmente a scattare un blocco, e si rispondeva per semplice cortesia ad una persona identificata come un estraneo. Evidentemente un soggetto che presentava uno scarso valore, che costituiva uno ‘sfondo’ riguardo al contesto. Di converso si presta maggiore attenzione e rispetto alle persone che ricoprono ruoli particolari. Ecco allora, come ci ricorda Ceccato, “il trono innalzato, i sette passi del soldato dal colonnello, i passaggi secretariali per arrivare all’autorità, al personaggio”71.
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Ancora una volta, il rispetto dovuto all’Autorità che riconosciamo è il risultato del kred che proiettiamo su chi esercita il ruolo della Autorità stessa. Proiezioni differenziate avvengono nel caso in cui l’altro sia un amico, oppure un familiare, un amante, un collega, un paziente, o un avversario. Magari possiamo essere d’accordo con gli altri nel giudizio sulla persona, tuttavia ci comportiamo in modo diverso a seconda del tipo di legame, e questo dà luogo a reazioni diverse da parte dell’interessato. In questo senso, Bohr ebbe a dire che “non si può conoscere qualcuno alla luce dell’amore e della giustizia nello stesso tempo”72. Un esempio di diversità di valutazione di una persona, a seconda dei punti di vista, lo ritroviamo nel proverbio ‘nessuno è profeta in patria’. Per le persone che lo conoscono da sempre gli ammiratori hanno perso la capacità critica; per gli ammiratori, coloro che lo svalutano non comprendono le doti e le capacità della persona oggetto del loro entusiasmo. Dopo un po’ di tempo si possono verificare due possibilità: quanto più è idolatrato altrove, quanto più lo si ignora in patria, per la differenza smaccata percepita da chi lo ha visto crescere e lo considera un proprio pari, soltanto più fortunato. La seconda possibilità prevede che la persona, dopo un po’, diventi l’idolo anche della sua gente, che si ‘espande’ in lui, in quanto figlio ed espressione della loro terra. Si verificano situazioni in cui dobbiamo fare delle scelte relativamente al comportamento da tenere, e subentrano valutazioni consapevoli. Accade quando si devono assolvere contemporaneamente più ruoli, perché, ad esempio, “alla posizione dell’insegnante sono legati i ruoli del collega, del subordinato al preside e al Ministero, dell’educatore e via dicendo. Quanto più sviluppata è la differenziazione sociale, tanto più differenziato diventa anche il complesso di ruoli collegati ad una data posizione. Quanto più differenziato è il complesso di ruoli, tanto più aumenta l’esigenza di accordare tra loro le diverse norme”73. Non si tratta di gestire solo una situazione di potere. Un esempio può essere la difficoltà a conciliare il ruolo di madre di famiglia con quello di donna lavoratrice: quali divengono le priorità di volta in volta? “Se la signora Rossi non è solo madre, ma anche
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insegnante, membro di un sindacato e presidente di una associazione volontaria, è assai probabile che il suo comportamento di ruolo quotidiano sia improntato ad una serie di strategie messe in atto per superare i conflitti che ne scaturiscono. (...) I conflitti inter-ruolo pertanto possono anche essere intesi come conflitti tra le istituzioni e gli attori nella veste di loro rappresentanti individuali. Molti problemi di cui spesso gli individui si fanno carico, dal punto di vista dei conflitti inter-ruolo possono essere interpretati come problemi tra istituzioni che vengono scaricati sulle spalle degli individui che le rappresentano”74. Come ha notato anche William James, “Non ci mostriamo ai nostri figli come agli amici del circolo, ai nostri clienti come ai nostri dipendenti, ai nostri padroni e datori di lavoro come agli amici intimi”75, questo non significa che siamo insinceri, ma che siamo né uno né molti. I set di ruoli generano talvolta incomprensioni profonde. Pensiamo al rapporto medico paziente: nel sistema degli operatori della salute mentale, spesso si è critici nei confronti dei genitori che non accettano la diagnosi espressa nei confronti del figlio, e che non vogliono prendere atto che il comportamento del figlio sarebbe dovuto a tale patologia. Per il medico la diagnosi determina la collocazione della persona. Lo sguardo di un genitore è differente: il valore del figlio sta in molti altri elementi. Si avrà buon gioco a dire che i genitori sono invischiati in un gioco relazionale patologico. Resta il fatto che si tratta di sguardi diversi: categorizzante quello del medico, relazionale affettivo quello del genitore. Abbiamo già visto come le persone divengano attori che si identificano nel loro ruolo: abbiamo fatto a questo proposito l’esempio del cameriere che gioca a fare il cameriere, e diviene un ‘attore spontaneo’. Il passaggio da un ruolo ad un altro può essere repentino, senza che le persone vi riflettano. Ne è un esempio la descrizione che Goffman riporta dei gestori di un piccolo albergo nelle isole Shetland, che tenevano un certo tipo di comportamento nei confronti dei clienti ed immediatamente dopo, varcata la porta della cucina, ne tenevano uno
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completamente diverso. Si mostravano sboccati e rilassati, si prendevano gioco degli ospiti, delle loro fissazioni, per poi riprendere il loro atteggiamento attento ed ossequioso durante il servizio. Era sufficiente superare una porta per passare da una dimensione all’altra. All’interno della cucina descrivevano il loro comportamento come se il rispetto mostrato agli ospiti fosse una maschera, che questi prendevano per autentica, perché erano degli sciocchi76. La vera faccia del personale sarebbe stata quella che mostravano agli altri colleghi, all’interno delle cucine. Ma le cose non sono così semplici: erano autentici e recitavano in entrambi i contesti. Altrimenti non sarebbero stati credibili. Erano cioè né uno né molti. Kred, astrazioni e metafore È dalle dipendenze dell’operare che nasce il nostro senso di appartenenza, il nostro crederci. Ad esempio Aime rileva che “Un popolo non esiste per natura e neppure sulla base di una legittimazione territoriale o nazionale. Se, riprendendo le parole di Sigfried Nadel, ‘la tribù è un’unità sociale i cui membri affermano di formare un’unità sociale, un popolo esiste se un gruppo di persone crede che esista’”77. Dal credere procedono sviluppi non prevedibili: ad esempio Weber dimostrò che le radici del capitalismo americano risalivano alla ricerca dell’ascesi protestante. Come ricordano Berger e Berger “Weber cercò di dimostrare come i processi economici stessi dipendano a loro volta da ciò che accade nelle menti degli uomini, o meglio e più esattamente, dai loro valori e dalle loro credenze”78. Una proprietà fondamentale del credere è che le astrazioni, i valori, se ci credi e li pratichi, determinano delle conseguenze molto importanti, come se esistessero veramente: guidano e plasmano le correlazioni del pensiero e delle dipendenze dell’operare. Il modo in cui inquadriamo un problema tende a caratterizzarlo, ed a confermarci nelle nostre convinzioni. E da questo discende la scelta dei mezzi ritenuti adeguati per affrontarlo. Ne è un esempio l’approccio alla salute mentale e le conclusioni che ne traeva Basaglia: “Non voglio con questo dire che la malattia non esiste, ma che noi
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produciamo una sintomatologia – il modo di esprimersi della malattia – a seconda del modo col quale pensiamo di gestirla, perché la malattia si costruisce e si esprime sempre a immagine delle misure che si adottano per affrontarla. Il medico diventa gestore dei sintomi e crea un’ideologia su cui poi il manicomio si edifica e si sostiene. Solo così egli può dominare e reprimere le contraddizioni che la malattia esprime. Ma il suo intervento si limita a sancire scientificamente una violenza che serve solo alla difesa del tecnico e dell’istituzione non certo alla comprensione della sofferenza del malato”79. Anche noi siamo parte del problema da affrontare. Concetti e metafore sono simulazioni funzionali, cui tuttavia finiamo per credere come fossero affermazioni di verità, divengono immagini del mondo, fisicizzazioni di una mappa che è una nostra costruzione. Di fatto viviamo di metafore. Perché vi sia una narrazione occorrono tre elementi costitutivi: il paradigma (cioè un termine di confronto), la differenza rispetto al paradigma, e la sanatura, cioè la giustificazione che si adotta per spiegare la differenza riguardo al paradigma. La percezione degli eventi, come abbiamo già visto, non è neutrale, ma si inserisce in un contesto. In particolare, quando determiniamo un termine di confronto, “ogni differenza viene messa a carico delle cose confrontate, e non ad esso”80. È molto difficile che si metta in discussione il termine di confronto. Tant’è che quando si calunnia qualcuno, gli altri tendono a pensare che se vengono fatte determinate affermazioni, ci sarà pure qualcosa di vero. Tanto più se l’affermazione viene espressa da persone di potere, o in qualche modo ritenute credibili. Cosa accade quando il paradigma è ambiguo e sfuggente, come nel caso delle metafore? I concetti metaforici sono un elemento generatore di paradossi. Producono, a livello sociale, termini di confronto e correlazioni importanti. Non sono mai neutri, hanno sempre forti implicazioni e conseguenze sulla vita sociale e di chi ne fa parte. Nella metafora si implicano livelli diversi, il metalinguaggio tende a fondersi con il linguaggio: ritorna il paradosso di Epimenide ed il
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né uno né molti. Secondo Elena Gagliasso “L’aspetto di scarso rigore e carico di duplicità delle metafore sembra essere paradossalmente più conforme al funzionamento della mente umana, più rispettoso di come effettivamente si sviluppano i nostri processi conoscitivi di base”81. Afferma ancora questa autrice che “I concetti si sovrappongono dunque e si relazionano tra loro nella nostra mente. Scivolano gli uni sugli altri, gli uni dentro gli altri, e gli effetti di questo processo, definito da Hofstadter conceptual slippage, comportano analogie, metafore e dunque molti insight creativi”82. I concetti metaforici di tipo sociale – come ad esempio giustizia, democrazia, onestà, affidabilità ecc. – sono funzionali alla convivenza: è il nostro crederci che ce li fa percepire alla stregua di oggetti fisici, indiscutibili e coerenti. È il nostro crederci che ce li fa mettere in pratica. I concetti astratti sono invece invenzioni che, in genere, ci hanno fatto progredire. Non sono divinità, ma artefatti. Non andrebbero venerati, ma utilizzati al meglio. Non sono cose, ma astrazioni da declinare in modo critico e consapevole, perché assumono, in modo apparentemente indiscutibile e coerente, concezioni ambigue ed arbitrarie relativamente al modo di rapportarci a noi ed agli altri. Declinazioni che mutano nel corso della storia, e che si rivelano sempre funzionali a chi gestisce il potere, legittimandolo. Così, sulla base di una pretesa oggettività, si adottano comportamenti le cui conseguenze vengono messe a carico di coloro che subiscono la declinazione dominante della metafora. Vediamo l’esempio del concetto metaforico di ‘potere’: “l’idea del potere come forza ha catturato l’immaginazione americana nelle relazioni personali, nell’organizzazione aziendale e negli affari esteri. Questa semplice equazione, ‘potere = forza’, produce conseguenze incommensurabili su tutta la nostra cultura, dal costo esorbitante del bilancio militare per mantenere gli Stati Uniti una potenza mondiale, alle percosse alle moglie e agli stupri per affermare il potere maschile, al portare addosso un’arma per rivendicare il potere della libertà personale. Quando, invece, il potere è definito più come influenza (le-
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gami, nepotismo, reti di collegamenti), come nei gruppi di potere in Italia e in Giappone, oppure quando è definito dalla nomina e dalla permanenza in una carica, come nell’impero asburgico, allora il ruolo della forza nella società è mitigato da altri stili di potere. Questo anche nella tradizionale società inglese, dove il potere era definito soprattutto dalla subordinazione all’interno di un sistema classista oppressivo. Allora i poliziotti londinesi, i ‘bobbies’, non portavano armi: l’espressione e i modi erano la forza che gestiva i comportamenti capaci di turbare l’ordine pubblico e che ‘teneva al loro posto’ i sudditi britannici. Ancora: quando il potere assume la sua definizione dal rapporto con gli antenati, con gli spiriti e dalle forze al di là dell’umano, iniziazioni e tabù alterano il significato stesso della forza e controllano una violenza indiscriminata”83. Abbiamo già visto le conseguenze che derivano dal sentirsi sudditi o cittadini nei confronti del potere. Silvio Ceccato studiò approfonditamente questi problemi, e coniò il termine di ‘metafora irriducibile’, la considerava l’esito inevitabile del ‘raddoppio del percepito’. Si tratta di un processo di cui non siamo consapevoli: davanti a termini astratti – quali numero, amore, essere, realtà, verità, ma anche devianza – se ne cercherà la localizzazione dentro o fuori di noi, successivamente si procede ad un confronto per ‘conoscere’ o ‘riconoscere’ quella cosa nella direzione opposta a dove la si è collocata. Ecco in cosa consiste il raddoppio del percepito: “Sdoppiato in due posti, sdoppiato anche in due momenti, l’oggetto del confronto è ben strano, un qualche cosa di ‘incognito’ da ‘conoscere’ deve essere confrontato con un qualche cosa ‘predisposto’ non si sa dove, non si sa da chi, non si sa in che modo. Come risultato del confronto si dovrebbe ottenere una conoscenza e un sapere del tutto particolari. Ma il confronto come dovrà avvenire? Ad esempio da questo confronto come farò a sapere se un qualche cosa è ‘Amore’, è ‘Giusto’, è ‘Buono’, è ‘Bello’, è ‘Arte’?”84. Dunque il confronto è impossibile e queste parole, questi concetti si rivelano metafore irriducibili. È su tali metafore che si impantana la filosofia, ed anche molte scienze umanistiche. Per Ceccato gli oggetti della percezione, della rappresentazione, del pensiero, sono il risultato di operazioni costitutive, e non qualcosa
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di già esistente85. In questo contesto il processo conoscitivo assume un’accezione a sua volta metaforica. La sua funzione diviene quella di sanare l’incongruità del confronto tra ciò che è posto all’esterno ed all’interno di noi. E concludeva Ceccato: “rimanendo impossibile il confronto, ognuno avrebbe potuto inventarsi qualsiasi cosa, dotata di ‘verità’, ‘realtà’, ‘naturalità’, etc., e servirsi della gabellatura per dominare gli ingenui”86. La vaghezza delle metafore consente ampi margini di manipolazione. Le metafore irriducibili determinano dipendenze dell’operare conseguenti. Si è spinti a credere che vi sia un’unica declinazione della metafora. Le altre sarebbero false, quindi non esistenti, non concrete, solo apparentemente vere. Eresie da contrastare. Le metafore irriducibili non sono né vere, né reali e né concrete. Lo sono invece le conseguenze delle loro interpretazioni, o attribuzioni di significato. La irriducibilità delle metafore consente di adeguarle alle esigenze dei tempi e dei rapporti di potere che mutano. La loro indiscutibilità non deve comunque essere messa in dubbio. Le metafore irriducibili cercano di rimuovere la constatazione della propria autoreferenzialità e, poiché trovano la loro ragione di essere in sé stesse, è difficile che possano essere smentite. D’altra parte, molti di questi valori rappresentano il lato migliore della nostra umanità e sarebbe assurdo rinunciare al senso di giustizia, al senso del rispetto per gli altri, del dovere. Se è opportuno credere in ciò che è migliore, è opportuno a maggiore ragione essere consapevoli che le metafore irriducibili non sono verità precostituite, ma costruzioni problematiche che, nel confronto con la imprevedibilità e la varietà di contesti cui vengono applicate, ci sfidano continuamente, per essere adattate al meglio ai vincoli che l’esperienza e l’ambiente ci pongono. Se davvero ci vogliamo confrontare con gli altri, dobbiamo dichiarare con chiarezza cosa intendiamo quando ci riferiamo ad una metafora irriducibile. Dobbiamo avere la disponibilità, la saggezza e l’onestà di metterci in discussione nel confronto. Ci sarebbero meno conflitti ideologici insensati e dalle conseguenze imprevedibili.
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Vediamo adesso ulteriori esempi sulla apparente autoevidenza di alcune metafore La metafora della Giustizia Il sentimento di giustizia è proprio anche delle scimmie. Lo dimostra un esperimento sulle cebo cappuccino eseguito nello Yerkes National Laboratory di Atalanta. Varie coppie di scimmie di questa specie venivano formate a svolgere determinati compiti, per i quali venivano premiate con un pezzo di cetriolo ciascuno. Dopo un po’ di tempo una scimmia ricevette un acino di uva in ricompensa, mentre l’altra no. L’uva è molto più apprezzata dalle cebo. Le scimmie che avevano ricevuto solo il cetriolo si risentirono, divennero molto più indisponibili a portare a termine i loro compiti e in molti casi non solo rifiutavano di cibarsi del cetriolo, ma lo scagliavano rabbiosamente contro gli sperimentatori87. Dunque, la giustizia costituisce un concetto metaforico che appare di evidente e immediata comprensione. Tuttavia, quando si tratta di regolamentarlo socialmente, allora scopriamo che i criteri di riferimento utilizzati storicamente, e con cui dobbiamo ancora fare i conti, sono i più diversi. Perelman ha identificato almeno sei termini di confronto: 1. “eguale per tutti (e si dovrebbe indicare il criterio di eguaglianza); 2. tener conto dei meriti (e il criterio di valutazione anche di questi); 3. tener conto dei bisogni (e criterio di riconoscimento anche di questi); 4. il corpo delle leggi e chi le promulga; 5. le premesse e le conseguenze di ciò che si fa; 6. le opere, indipendentemente da chi le abbia fatte. Per esempio il conte ha una storia, ma il bracciante no. Avrà un trattamento differente; (…) Non va poi dimenticato che spesso si attua una compensazione fra i vari criteri, quando si parla di ‘equità’”88. Altri paradossi sorgono quando si affronta il tema della morale. Moralità e sanature “Quasi sempre gli individui ed i gruppi di individui, vivendo as104
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sieme nella società, vivono in un mondo che è dato per scontato. Ciò significa che le strutture fondamentali in cui ha luogo l’esperienza sociale non sono messe in discussione, ma sono vissute come condizioni di vita apparentemente naturali e di per sé evidenti”89. Ciò che è autoevidente ed indiscutibile non deve essere violato. Durkheim sosteneva che la società costituisce un fenomeno religioso. L’utilità di determinate regole è evidente. La reazione istintiva che ci costringe a frenare davanti ad un semaforo rosso, ad esempio, è un comportamento indotto dalle dipendenze dell’operare, e corrisponde alla introiezioni delle regole alla base del codice della strada. Altri modelli di riferimento connotati da un forte kred sono i tabù. Ma anche questi sono costituiti dall’uomo e sono i più diversi. Si veda la seguente citazione di Erodoto da parte di Abbagnano: “Dario convocò un giorno i Greci che erano con lui chiese loro a qual prezzo avrebbero acconsentito a cibarsi dei loro padri morti, invece di bruciarli, come era loro costume: e i Greci risposero che non lo avrebbero fatto a nessun prezzo. Allora Dario, in presenza dei Greci, convocò gli Indiani Gallati e chiese loro a qual prezzo avrebbero acconsentito a bruciare i cadaveri dei loro padri invece di cibarsene, come era loro costume; e gli Indiani risposero che a nessun prezzo lo avrebbero fatto. Così sono, commenta Erodoto, le tradizioni avite e io credo che ha ben detto Pindaro nei suoi versi che la tradizione è la regina di tutte le cose”90. Ciò che colpisce in questo brano è l’assoluto radicamento nelle convinzioni che discendono dalle norme sociali e dalla tradizione. Conseguente a tali credenze, vi è la condanna reciproca nei confronti di chi agisce diversamente riguardo ai tabù ed alle norme adottate, come testimonia questo testo di ispirazione sofistica, citato da Lombardi Satriani, e che viene fatto risalire alla metà del IV secolo avanti Cristo: “I Macedoni credono bello che le ragazze siano amate e si accoppino con un uomo prima di sposarsi e brutto che facciano questo dopo sposate: per i Greci brutta sia l’una che l’altra cosa. I persiani giudicano bello che gli uomini si adornino come le donne e che si congiungano con la figlia, la madre e la sorella; i Greci giudicano queste azioni brutte ed immorali. I Lidi credono bello che le ra-
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gazze si prostituiscano e così guadagnino denaro e poi si sposino mentre presso i Greci nessuno sarebbe disposto a sposarle”91. Le reazioni di condanna nei confronti di determinati comportamenti scattano anche oggi. E che si tratti di reazioni legate a specifici contesti culturali, appare anche dalla diversità delle azioni che vengono ritenute vergognose. È il caso di alcuni esperimenti in merito, che sono stati condotti da alcuni psicologi americani, si trattava di comportamenti quali: bruciare la bandiera nazionale, oppure usarla per pulire il bagno, mangiare la carcassa di un pollo che si è utilizzata per masturbarsi92. Credo che se gli intervistati fossero stati italiani, non avrebbero considerato un atto esecrabile dare alle fiamme la bandiera nazionale, né usarla come straccio. Quanto al pollo, credo che la situazione proposta genererebbe più commiserazione che ripugnanza allarmata, al di là della praticabilità di dare seguito a determinate pratiche sessuali con la carcassa di un pollo. Si tratta cioè di atti che oltraggiano più l’immaginario americano che il nostro. Tuttavia hanno a che fare con una determinata percezione del sacro. È vero anche che la sensibilità relativa a determinati tabù si modifica nel tempo. È il caso del tabù per eccellenza: l’incesto. Che cosa s’intenda per incesto varia da cultura a cultura, da codice a codice. Nel nostro codice penale l’incesto si riferisce ad atti sessuali che violano la morale familiare (che è l’oggetto tutelato dall’art. 564 c.p.) causando ‘pubblico scandalo’. La norma non si pone affatto l’obiettivo di prevenire eventuali tare nella discendenza, come comunemente si crede. Infatti, l’incesto viene perseguito anche se gli atti sessuali avvengono tra affini in linea retta (suocero e nuora, genero e suocera), per i quali non esiste un rapporto di consanguineità. Non solo, l’incesto esisterebbe anche nel caso di morte del coniuge, che farebbe cadere il rapporto di affinità. Inoltre, non si evita l’imputazione se si ricorre a rapporti sessuali con anticoncezionali, né è chiaro se si incorra nel reato anche in assenza di un rapporto completo. Il motivo reale per cui il tabù dell’incesto viene sanzionato penalmente, è la ripugnanza che provoca a livello sociale. Tale ripugnanza è conseguente ad una concezione della famiglia asessuata rispetto ai rapporti tra i parenti. Tant’è che molti ritengono debba essere perseguito
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anche l’incesto con i figli adottivi. Ed infatti il reato è compreso tra i delitti contro la famiglia. Il pubblico scandalo determinato dall’incesto deve essere provato. Di fatto si tratta di un reato di cui non ci si occupa più in ambito penale, proprio perché probabilmente sono venuti a cadere i motivi del pubblico scandalo legati all’incesto. Si persegue semmai il reato di violenza sessuale intrafamiliare. Reato che avviene quando la violenza è ai danni di un minore – per legge incapace di intendere e volere – o di un adulto non consenziente. Il fenomeno dell’incesto ci aiuta a capire il nostro condizionamento riguardo ai comportamenti sociali, anche da un altro punto di vista. Da tempo gli psicologi americani si sono accorti che determinati principi morali, fortemente radicati, non hanno una motivazione razionale. Infatti, si ritiene che in una democrazia liberale si dovrebbe vietare soltanto ciò che può danneggiare gli altri. Tutto il resto dovrebbe rientrare nel lecito, anche se magari può non risultare edificante per qualcuno. Laddove l’incesto avviene con il consenso delle persone adulte coinvolte, non si capisce perché dovrebbe essere punito. Abbiamo visto che si parla di incesto anche laddove non vi è rapporto di consanguineità, cioè tra affini. Il proibire determinati comportamenti rientra in un retaggio culturale di cui non siamo consapevoli, ma che fa scattare le dipendenze dell’operare. Jonathan Haidt, psicologo americano, descrive la storia di un fratello e di una sorella maggiorenni, in vacanza in Francia. Una sera si trovano sulla spiaggia. Decidono di fare l’amore. Per sicurezza, lei usa la pillola, mentre lui ricorre al profilattico. Il segreto di quella notte li rende ancora più uniti in seguito. La breve storia si conclude con le domande “che cosa ne pensi? È stato positivo per loro fare l’amore?”93. Le persone interrogate esprimono unanimemente un giudizio negativo, ma quando sono chiamate a chiarire il motivo per cui condannano l’accaduto, accade che le loro ragioni naufraghino miseramente. Tuttavia, la loro convinzione resta. Questo induce a pensare che molte sanature, rispetto alla contraddittorietà dei nostri
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comportamenti, siano successive ai nostri agiti e che si ritenga di essere nel giusto, cioè di mantenere il kred, anche quando è evidente che non c’è un motivo razionale che sostenga la nostra reazione. Quando si propongono situazioni ritenute riprovevoli, inconsapevolmente, si ricerca sempre una vittima. Soltanto che in tali azioni talvolta non ci sono vittime. Allora i soggetti degli esperimenti le inventano. Nel caso dell’incesto proposto da Haidt la vittima sarebbe la famiglia, oppure la società. Altre situazioni proposte dagli psicologi riguardano urinare sulla tomba di una persona che non ha nessun parente in vita e nemmeno amici. Oppure il caso di uno scienziato che cloni un essere vivente, anche se il clone non è mai stato vivo, in modo che non avrebbe potuto soffrire, o meritare che ci si preoccupasse per lui. Anche in questo caso si cercavano le vittime e le si individuavano in concetti astratti o nella società94. Cioè: prima si giudicavano le azioni e poi si ricercavano le sanature e le vittime. Il che fa ritenere che il giudizio morale non sia guidato da una ratio che ci sia chiara. Le nostre sanature sono ‘toppe’ a posteriori, ad hoc, funzionali a rafforzare ulteriormente le nostre convinzioni. Ricordano più le argomentazioni di un avvocato, che prende le difese del proprio cliente ricorrendo ad argomentazioni più o meno corrette, piuttosto che la ricerca spassionata dei motivi che hanno portato a determinati giudizi95. In altri casi cerchiamo di capire il motivo per cui avremmo fatto bene ad agire in un determinato modo, come se fossimo degli interpreti dei nostri comportamenti96, un po’ come avviene nei giudizi estetici. Il pensiero razionale, cui affermiamo di aderire, deve fare i conti con parti più arcaiche che agiscono tramite le dipendenze dell’operare. Solo successivamente ricerchiamo una sanatura. Nelle dipendenze dell’operare ciò che viene prima decide di ciò che viene dopo, perché anticipiamo ciò che potrebbe accadere connotandolo con le nostre proiezioni, e agendo di conseguenza. Al contrario, nel pensiero scientifico ciò che viene dopo gli esiti degli esperimenti decide le regole da applicare, verifica i rapporti di causa ed effetto, cioè quello che viene dopo decide relativamente a ciò che viene prima97. Per questo motivo la logica lineare ci mette in
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grado di mettere a fuoco molte contraddizioni dei nostri comportamenti e delle dipendenze dell’operare. Dunque le dipendenze operano non solo per fare e reagire, ma anche per non far fare, attraverso i divieti, in una dimensione in cui gli altri vengono trattati come bambini da correggere, reprimendo e condannando. In questi casi, le dipendenze dell’operare scattano per un retaggio culturale legato a società oppressive, in cui vigeva la regola del controllo reciproco e dei divieti fobici, mutuati da prescrizioni religiose che, volenti o nolenti, obbligavano tutti. Ancora una volta l’etimologia ci può aiutare a comprendere: la parola ‘scandalo’, citata nella norma che punisce l’incesto, deriverebbe dal greco skàndalon, che significa trappola, inciampo. La radice più antica del termine risalirebbe per alcuni a *skad-jò che significa ‘zoppico’. Sembra invece che i più la facciano risalire alla radice indoeuropea Skand – che significa scendere, anche nel senso di cadere. Ritorna dunque il concetto di zoppicare, di cadere, che abbiamo già incontrato quando abbiamo approfondito l’etimo della parola ‘peccato’. Chi si perde e zoppica invece di camminare dritto, cade nel peccato e rischia di trascinare e perdere anche gli altri. Questo è il danno che procura alla comunità, per questo si riteneva dovesse essere punito. Un’altra pratica che genera reazioni fortemente critiche è il consumo di stupefacenti. In effetti, i tossicodipendenti non danneggiano nessun altro se non sé stessi, alla stessa stregua dei fumatori e di coloro che abusano di alcol. Peraltro quest’ultimo, tra le sostanza psicotrope, viene considerata la più pericolosa98. Ritengo che con il tempo queste reazioni, così emotivamente negative nei confronti di questi comportamenti, non comporteranno una loro sanzione penale, si stempereranno. Poiché non danneggiano gli altri non dovrebbero essere punibili. È un processo in corso, e lo dimostra il fatto che in passato i divieti erano tanti e che gradualmente sono caduti in disuso. Ad esempio, un tempo l’adulterio veniva punito con la morte (mentre avviene ancore laddove si applica la sharia). Oggi nessuno si sentirebbe più di punire penalmente gli adulteri. Un altro comportamento meritevole di morte era la bestemmia.
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Le costruzioni mentali legate alla morale o alle astrazioni non si cancellano mai del tutto, proprio perché, come abbiamo già detto, trovano in sé stesse la propria ragione di essere. Così può sempre accadere che la dipendenza dell’operare che reprime riaffiori, anche se appariva sopita. Potremmo fare l’esempio ulteriore del sentimento di vendetta, che faceva sì che coloro che intendevano fare del male dovessero tenere nel dovuto conto la ritorsione successiva che ne sarebbe seguita. Questo avrebbe dovuto scoraggiarli dal compiere le violenze che avevano in animo di fare. Teoricamente, lo spirito di vendetta dovrebbe essere un regolatore sociale, anche se sappiamo che alla lunga non è affatto così. Istintivamente, gli animali si fanno giustizia da soli, come appare evidente dalle osservazioni condotte in proposito rispetto agli scimpanzé ed ai bonobo99. Da un punto di vista evolutivo si è rivelata più efficace la repressione, attuata attraverso un soggetto terzo, che abbia il monopolio della forza e della punizione: lo Stato ed i suoi tribunali. Il passaggio dalla logica della vendetta personale all’affidarsi all’azione dello Stato ha richiesto secoli, ma alla fine questa conquista culturale ha prevalso. Il che non significa affatto che i vecchi istinti non si ripresentino di tanto in tanto, o non possano riprendere il sopravvento, ma che l’unico modo per superarli consiste nel generare nuove convinzioni, che diano vita a nuove dipendenze dell’operare, nuovi modi di vedere, tenendo conto che non sono mai acquisiti per sempre. Come avverte Primo Levi, la nostra umanità va coltivata e presidiata, giorno per giorno. La mala bestia della svalutazione degli altri è sempre in agguato. Avvicendamenti contraddittori di dipendenze dell’operare L’univocità della consapevolezza ci induce a pensarci coerenti nelle reazioni agli stimoli. Tuttavia, è sufficiente designare con un’altra parola lo stesso elemento, per connotarlo in modo completamente diverso, dando vita a dipendenze dell’operare differenziate. Ad esempio il termine ‘sterco’, se viene riferito a ‘fertilizzazione’, diviene ‘concime’, e così viene ‘igienizzato’. L’olio che rientra nella categoria degli alimenti, diventa ‘macchia di unto’ se cade sul vestito, quindi sporca e contamina.
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Assumendo un nuovo termine di confronto non ci rendiamo conto delle contraddizioni riguardo a quello precedente: il bel piatto di zuppa che ci hanno servito diviene ‘sporco’, via via che ne consumiamo il contenuto. Passiamo da una contestualizzazione all’altra, e questo modifica le nostre priorità. Questi slittamenti valgono anche rispetto a noi stessi. Ad esempio, vi sono esperimenti in cui i soggetti affermano di respingere determinati pensieri e suggestioni relative alla sessualità, che invece ammettono di avere durante l’eccitazione sessuale100. Così il musulmano in moschea non sarà attratto dal consumo di alcolici. Al contrario, in un’allegra compagnia sarà più facilmente portato a consumare alcolici che a seguire le prescrizioni religiose. Se all’interno di un luogo sacro irrompe un personaggio che costituisce per noi una minaccia, il kred della sacralità lascerà il posto alla determinazione a difendersi. Il passaggio da una dipendenza dell’operare all’altra sarà immediato. Un altro esempio lo troviamo nelle memorie del gerarca nazista Höss, quando descrive gli effetti dei bombardamenti alleati sui campi di concentramento vicini alle industrie belliche, si trattava di “attacchi di inaudita violenza alle fabbriche dove erano impiegati i prigionieri; ho visto così il loro comportamento, ho visto come le guardie e i prigionieri spesso si riparassero insieme e insieme perissero in qualche rifugio improvvisato e come i prigionieri aiutassero a trasportare le guardie ferite. Durante quei violenti attacchi, in quella confusione generale, non esistevano più sorveglianti e sorvegliati: c’erano uomini che cercavano di sfuggire alla grandine di bombe”101. Ritengo che questa reazione sia legata a meccanismi evolutivi relativi alla sopravvivenza della specie: se tutti rischiano di morire riaffiora il senso di condivisione della situazione, perché questo consente maggiori possibilità di sopravvivenza. Un esempio di mutamento improvviso di dipendenze dell’operare, per cui ci si può espandere anche negli animali, lo possiamo ritrovare in un episodio che risale al 55 a.C., quando il generale romano Pompeo organizzò un combattimento tra uomini ed elefanti: “Accerchiati
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nell’arena, gli animali capirono di non avere alcuna speranza di fuga. Allora, secondo Plinio, essi ‘cercarono di attirarsi la compassione degli spettatori con atteggiamenti indescrivibili, e li supplicarono come piangessero la propria sorte con una sorta di lamentazione’. Gli spettatori, mossi a pietà e rabbia dalla loro situazione, si alzarono a insultare Pompeo – sentendo, scrive Cicerone, che gli elefanti hanno ‘qualcosa in comune’ (societas) con la razza umana”102. Dunque: determinati stimoli modificano la percezione del contesto, ma è vero anche il contrario e cioè che l’attribuzione di significato con cui connotiamo il contesto modifica il senso degli stimoli e delle percezione. Questo significa che tra stimoli e significati vi è un rapporto non scindibile, del tipo né uno né molti. L’operare legato al né uno né molti determina sovrapposizioni e incongruenze. Ne parla tra gli altri Hofstadter, che definisce questo fenomeno ‘Strani Anelli’, frutto di una ‘gerarchia aggrovigliata’: “Si ha una Gerarchia Aggrovigliata quando quelli che si presume siano livelli gerarchici ben precisi e netti inaspettatamente s’intrecciano in un modo che viola i principi gerarchici. L’elemento sorpresa è importante; è la ragione per la quale chiamo ‘strani’ gli ‘Strani Anelli’”103. Anche Mérő ritiene che occorre “abbandonare la bella idea che i concetti siano organizzati nella nostra mente secondo un ordine facilmente descrivibile. (...) accade regolarmente che un concetto posto a un livello più alto rispetto a un altro, ossia un concetto più generale del secondo, risulti più generale anche di un terzo, e così via, finché alla fine un concetto che si trova a un livello gerarchico più basso non dimostra di essere più generale, in un certo senso, del primo”104. Ad esempio i concetti di compito, lavoro ed apprendimento hanno ognuno una connotazione leggermente diversa: compito è più generico di lavoro, lavoro più generico di apprendimento e apprendimento più generico di compito. Dilemmi morali Vi sono situazioni in cui dobbiamo fare delle scelte, ma sentiamo che ognuna è sbagliata. Le dipendenze dell’operare non sono in grado di orientarci. E nemmeno il pensiero riflessivo. 112
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Immaginiamo la seguente situazione. Siamo sopra una passerella e vediamo che sta arrivando un carrello a forte velocità: sta per investire ed uccidere 5 persone ignare, che stazionano lungo i binari. Non c’è tempo sufficiente per farle allontanare e sono troppo lontane per avvertirle gridando. Accanto a noi c’è un uomo con un grosso zaino: spingendolo fuori dalla passerella lo zaino permetterebbe di fermare il carrello. L’uomo però resterebbe ucciso. In questo modo si salverebbero cinque persone e ne morirebbe una. Cosa sarebbe moralmente giusto fare?105 Non esiste una risposta. Molte volte la vita ci pone di fronte a dilemmi irrisolvibili, mentre noi riteniamo che la razionalità possa risolvere tutti i problemi con cui dobbiamo fare i conti. Implicitamente, crediamo che tutto sia governato da regole che debbano essere decodificate, come se tutto fosse l’esito di un progetto pianificato da esplicitare, come se ci fosse un Progettista e Realizzatore e noi fossimo investiti della missione di rispettare e risalire al Progetto. Una volta raggiunto l’obiettivo, qualsiasi problema, qualsiasi dilemma si presentasse sarebbe risolvibile. Tuttavia questo non è vero. La logica non ricostruisce, bensì elabora dei modelli funzionali a dare un ordine a ciò che, talvolta, non si rivela gestibile. Non tutto è risolvibile. Pensare che tutto si rifaccia ad un ordine superiore ci fa sentire protetti, riguardo a situazioni che rischiano di contraddire le nostre costruzioni e conoscenze. Ma in determinati contesti dobbiamo fare delle scelte, che possono essere interpretate in modo opposto, a seconda dei termini di confronto. Un esempio viene offerto dal film “Profumo di donna”, in cui uno studente di un college americano deve risolvere il dilemma se rivelare i nomi dei compagni responsabili di una beffa ai danni del preside (ed essere premiato per questo), oppure decidere di non dire niente, per non fare la spia (ed essere punito). Il ragazzo preferisce essere punito e non fare la spia. Nel film questo comportamento viene esaltato come esempio di integrità, perché si preferisce la punizione alla delazione. Se lo stesso dilemma si verifica, ed avviene frequentemente, all’interno di una comunità terapeutica per tossi-
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codipendenti, la scelta di non fare i nomi dei responsabili di un atto ritenuto inaccettabile verrebbe interpretata come una collusione, e soprattutto come un indicatore che la persona è ancora legata alla ‘cultura dell’infame’, radicata nella malavita, per cui ognuno paga per quello che ha fatto, senza coinvolgere nessuno, indifferenti a ciò che di sbagliato gli altri possono aver fatto. Dunque, lo stesso comportamento si presta a valutazioni opposte in due diversi contesti, comunque educativi. Ancora: Morin ricorda che in Francia “Simultaneamente si opposero due internazionalismi: quello dell’obbedienza alla linea del partito comunista, che ingiungeva di accettare l’alleanza conclusa tra Hitler e Stalin, e quello dei minoritari devianti del partito, che cominciavano la resistenza all’occupazione nazista”106. Analizziamo il tema della interruzione della gravidanza: se l’embrione è parte del corpo della donna, fino a quando si può considerare il nascituro da tale punto di vista? Fino a che data la decisione dell’aborto non lede i diritti di un altro essere vivente? Il rapporto tra madre e nascituro è del tipo né uno né molti. Tuttavia, condizionati dalle nostre dipendenze dell’operare, cerchiamo di elaborare soluzioni razionali impossibili, per definire quando il concepito diviene una persona e quando è ancora parte dell’organismo della donna. Qualcuno predica il ricorso al buon senso, ma in realtà si tratta di fare delle scelte, comunque arbitrarie. Nel dilemma del rapporto tra ciò che è bene e ciò che è male come si compone il contrasto tra chi vorrebbe la sperimentazione clinica e farmacologica sugli animali e coloro che da tali esperimenti potrebbero trarne giovamento, rispetto alle malattie più o meno gravi di cui soffrono? Nagel riconosce che “il mondo può metterci di fronte a situazioni in cui non c’è condotta onorevole o morale che un uomo possa adottare, nessuna condotta libera da colpa e responsabilità per il male. L’idea di un vicolo cieco morale è perfettamente intelligibile. (...) È ingenuo supporre che vi sia una soluzione per ogni problema morale a cui il mondo ci pone di fronte”107. D’altra parte, proprio il fatto che la nostra razionalità non è sufficiente a rispondere a tutti i dilemmi, ci costringe a credere in una lo-
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gica superiore, in un senso delle cose al di là della nostra comprensione, perché, continua Nagel, “Se cercassimo di fare assegnamento interamente sulla ragione, e essa si trovasse in difficoltà, le nostre vite e convinzioni andrebbero in pezzi – una forma di pazzia che può davvero verificarsi se si perde in qualche modo la forza d’inerzia di prendere il mondo e la vita per scontati. Se perdiamo la nostra padronanza su ciò, non sarà la ragione a restituircela”108. Credere nonostante tutto La nostra capacità di correlare e proiettare è tale, che tutto può assumere un kred di sacralità. Ad esempio, le divinità tra gli antichi romani erano circa 7.000 e sovrintendevano a qualsiasi tipo di attività e di protezione. Vi era addirittura una divinità che sovrintendeva alla concimazione, veniva chiamato Sterculus o Stercuzio109. Il nostro bisogno di trovare un senso in tutto ciò che ci circonda ci differenzia profondamente da tutte le altre specie viventi. Ad esempio, se un carnivoro aggredisce il cucciolo di un’altra specie, dovrà fare i conti con il tentativo della madre, o magari del branco, di difendere il piccolo. Se tuttavia il cucciolo viene ucciso, la madre lo abbandonerà. Questo non vale per gli esseri umani. Il dolore non si spegnerà. Il torto, che venga perdonato o che si ricorra alla vendetta, o alla sanzione della condanna penale, necessita di un’elaborazione. Sentiamo il bisogno, correlando emozioni e razionalità, di una riparazione: dobbiamo ristabilire un ordine, cioè dare un senso a ciò che è accaduto. È ciò che si verifica, ad esempio, durante la funzione religiosa a favore del defunto. Personalmente, riesco a fare i conti con il pensiero che un domani sparirò morendo. Tuttavia, non riesco ad accettare l’idea che le persone a cui ho voluto bene e che ho perduto siano scomparse per sempre, nel nulla. Forse perché quelle persone le percepisco come parte di me, mi espando nel loro ricordo. E come si può pensare, a maggior ragione, che sia scomparsa per sempre una persona che ci è stata cara, con cui abbiamo avuto un rapporto irrisolto? Il pensiero magico è costitutivo di noi esseri umani.
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Se il pensiero magico prevede la nostra espansione nel mondo identificandovisi, la frattura del vuoto, che determina ritrazione o blocco, richiede una riparazione. La morte diviene la conseguenza di una volontà maligna, ed è questa la caratterizzazione che viene attribuita alle patologie che conducono alla morte. Si tratta di una prospettiva animista di cui parla anche Freud110. Il fine dell’illusione religiosa è “esorcizzare i terrori della natura, riconciliarci con la crudeltà del fato, specialmente quale si manifesta nella morte, risarcirci per le sofferenze imposte all’uomo dalla civile convivenza”111. Freud definisce l’illusione “una credenza, quando nella sua motivazione prevale l’appagamento di desiderio, e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà, proprio come l’illusione stessa rinunzia alla propria convalida”112. Per questo, chi crede nelle illusioni, troverà sempre delle sanature alle incongruenze ed ai paradossi con cui dovrà fare i conti. Per quanto irragionevoli ed assurde, alcune potenti illusioni sono fondamentali per la vita sociale. Questo è palese nei confronti di tutto ciò che ha a che fare con la morte. Ricordo di aver visto in Corsica numerosi monumenti funebri, che si affacciavano sulla costa, perché queste erano le ultime volontà di chi vi era sepolto. Come se una volta morti, dalla bara, sotto terra, si potesse godere delle bellezze del paesaggio e del mare. Un altro esempio di illusione è quello che consiste nel porre nella bara oggetti che sono appartenuti al defunto, e che gli sono stati cari, come se potesse avvalersene. E che senso ha la veglia notturna del morto, per non lasciarlo solo, da parte dei familiari? A sezioni di cadaveri vengono attribuiti poteri miracolosi e divengono reliquie, determinando aspettative. Per dare un’idea dell’importanza del culto dei morti nella storia dell’uomo vorrei proporre un esempio ripreso dalla storia degli assiri: il re Nabopolassar (626-605 a.c.), che sconfisse gli assiri e si proclamò re di Babilonia, nelle iscrizioni si descrive come ‘figlio di nessuno’. Questo è dovuto ad un episodio che si verificò nel corso della lunga guerra che lo contrappose agli assiri, e che viene riferito nelle tavolette che sono state ritrovate grazie agli scavi archeologici. Vi si
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racconta che, a seguito della presa di Babilonia da parte degli alleati degli assiri, la salma del padre di Nabopolassar venisse trascinata per le strade. La profanazione delle tombe di famiglia di chi era considerato traditore, era una vendetta che privava i viventi dei loro antenati. Infatti, si credeva che l’esistenza del defunto nell’aldilà fosse possibile, se i familiari ne avessero potuto venerare in continuazione la tomba. Nel momento della profanazione il genitore sparisce ed il figlio diventa ‘figlio di nessuno’113. Così, anche dopo la morte, i defunti hanno bisogno dei vivi ed i vivi dei defunti, se vogliono mantenere una posizione sociale (‘sono figlio di...’). Senza le illusioni e le credenze relative al ‘governo della morte’, come lo chiama Foscolo ne ‘I sepolcri’, non esisterebbe il legame sociale. Quando parla del ‘governo della morte’, Ugo Foscolo intende indicare “l’esigenza dell’illusione, che riafferma sul piano del sentimento quanto è negato dall’intelletto, che sembra incarnarsi nel significato che la tomba può assumere nella vita dell’uomo e delle nazioni: la tomba innanzitutto come centro sul quale convergono la pietà e il culto degli amici e dei parenti”114. Sheldon Kopp parla efficacemente di “offesa della morte”115. Tale offesa si manifesta in modo evidente nell’orrore che ci fanno i corpi insepolti, il loro degradarsi. Non accettare questo ha comportato l’affermarsi dell’umanità. Abbiamo elevato la morte a mistero, trascendendola, esorcizzandola con l’aldilà. Chi impone di lasciare insepolti i cadaveri va contro uno dei fondamenti del legame sociale, di ciò che definisce la nostra umanità, come indica Sofocle nella tragedia “Antigone”. Per Foscolo, la tomba rappresenta “il simbolo delle memorie di tutta una famiglia attraverso i secoli e che realizza una continuità di valori da padre in figlio (...); la tomba come segnacolo stesso di civiltà dell’uomo che, insieme al culto dei morti, ha creato i suoi valori essenziali (le nozze, i tribunali, gli altari); la tomba che racchiude in sé i valori ideali e civili di tutto un popolo (Santa Croce per gli italiani, Maratona per i greci), che ad essa s’ispira per operare il proprio riscatto; la tomba, infine, il cui significato si allarga a tutti gli uomini del mondo e i cui valori non sono travolti dal tempo ma eternati dal
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canto dei poeti (Aiace, Ettore)”116. Quindi si afferma il valore della continuità grazie alla dimensione temporale. Nel carme ‘I sepolcri’ si mostra che le illusioni sono funzionali a veicolare sentimenti consolatori, sia nei confronti di chi non c’è più e sia rispetto al proprio trapasso. Più in generale sono funzionali a indirizzare la propria emotività, in modo da promuovere la nostra umanità. L’essenza dell’umanità consisterebbe nel conciliare la ragione con l’emotività, attraverso il riconoscimento dell’altro in noi, e della compassione. “i Sepolcri sono il grande poema dell’illusione, per mezzo della quale (...) l‘uomo può recuperare quei valori fondamentali (la patria, la libertà, l’onestà, la bellezza, il senso dell’infinito e della morte) che la storia e la ragione gli avevano mostrati vani”117. Cioè: la mancanza di senso che rileviamo nel mondo che ci circonda la ritroviamo risolta attraverso l’illusione. L’illusione costituisce una certezza indotta e fatta propria. L’illusione è il presupposto della nostra umanità: rende possibile espanderci nei nostri cari che non ci sono più e nell’illusione che loro si possano espandere in noi. Con le illusioni si giustifica anche l’oppressione, attribuendola ad un destino o alla volontà di un’autorità divina. Si veicolano ideali quali quello di ‘patria’, comprese le loro conseguenze nefaste. Il bisogno di illusione trova risposte connotate secondo predeterminati termini di confronto, funzionali a chi vuole affermare e consolidare il proprio potere sociale. Credere nelle illusioni, da un punto di vista evolutivo, costituisce un vantaggio formidabile, perché dà coesione al legame sociale, ci dà la forza e la convinzione per rimandare il soddisfacimento immediato dei propri bisogni, a vantaggio di principi e valori più astratti, che favoriscono il gruppo e la sopravvivenza della specie. Così si arriva a rimandare la gratificazione immediata ad un futuro più o meno determinato. Si arriva a rinunciare a tutto, fino al sacrificio di sé stessi. Questo consente ai gruppi umani una capacità di coesione e di contrasto, riguardo alle avversità, sconosciuti negli altri esseri viventi. Vi sono molti tipi di illusioni che coltiviamo, grazie al kred che proiettiamo. Ceccato ci fornisce un esempio: alla fine di una lunga trattativa un sacerdote riesce a convincere la polizia di frontiera amer118
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icana a fare entrare delle medaglie d’oro, contrariamente da quanto previsto dalle norme. Sostiene il prete che si tratta di medaglie benedette, riesce insomma a valorizzarle positivamente ed a farle diventare qualcosa di altro rispetto alle monete che sono: lo spirito finisce per prevalere sulla materia118. La benedizione diventa una garanzia sufficiente ad esorcizzare i timori per la violazione della norma. Mostrare di non credere al sovrannaturale può determinare inconvenienti nel rapporto con gli altri, specialmente nei paesi in cui impera il fondamentalismo. Limitazioni alle proprie aspirazioni si possono verificare anche negli stati più liberali, se è vero che il 60% degli americani rifiuterebbe di votare per un presidente ateo119. Talvolta ricorriamo a rituali con cui ci auguriamo di controllare gli eventi che possono accadere: scendere dalla stessa parte del letto e magari posare a terra lo stesso piede, baciare l’effige di una persona amata prima di qualsiasi prova, farsi il segno della croce, indossare vestiti di un determinato colore. Di fatto finiamo per credere alle cose più diverse e balzane. Ad esempio, crediamo nella nostra buona fortuna quando siamo in espansione e nella sfortuna quando siamo in ritrazione, il caso è comunque escluso. Ricerche di sociologi americani mostrano come le persone che giocano a dadi pongano in atto i riti più strani per accattivarsi la fortuna, giungono a sussurrare qualcosa ai dadi tenuti dentro il pugno, per ‘lavorarseli’120. Coloro che comprano i biglietti della lotteria vi attribuiscono un kred tale che si convincono di avere maggiori possibilità di altri di vincere, cosicché chiedono cifre 4 volte più alte del prezzo del biglietto per cederlo121. Ma queste credenze condizionano anche le organizzazioni, tanto che Goffman riferisce di personale licenziato dai casinò, perché secondo i dirigenti dei locali portavano sfortuna122. Insomma, crediamo che ciò che ci accade non sia per caso, ma che ci sia un ‘disegno’, crediamo che qualcuno o qualcosa ‘lassù’ ci protegga, che ci aiuti a fare le mosse giuste. Crediamo anche che i suoi disegni li abbia appuntati in cielo e che siano comprensibili attraverso una serie di complicati calcoli astronomici123. E tali intenzioni sarebbero rinvenibili anche nelle carte da gioco, nei fondi di caffè, di
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tè, e attraverso gente in trance. Per questo crediamo ai colpi di fulmine, che la vita degli altri nasconda un messaggio anche per noi. Cerchiamo di dare un ordine agli eventi che ci accadono e creiamo dei principi esplicativi, dei concetti metaforici che non spiegano assolutamente niente. Così, in ambito religioso, abbiamo la volontà divina, la provvidenza, il miracolo, oppure la fortuna ed il destino per chi è più laico; riguardo ai comportamenti del singolo abbiamo il raptus; l’ispirazione e l’illuminazione per chi è più portato al misticismo ed al positivo. Kred e realismo Poniamo continuamente toppe e sanature razionaliste alle nostre dipendenze dell’operare. Di fatto, la mappa che ci facciamo del nostro rapporto con ciò che ci circonda e dell’importanza delle regole chiare nel rapporto con gli altri, per poter continuare ad esistere, deve continuamente essere aggirata e smentita. Ad esempio, sul lavoro, se ognuno si limitasse a compiere quanto strettamente prescritto, sorgerebbero problemi tali che renderebbero inefficaci i servizi che si vogliono garantire. Perché le incongruità, gli imprevisti ed il fattore umano li mettono sempre a rischio. In tutto il mondo gli scioperi bianchi servono proprio a dimostrare questo: ognuno di noi deve fare qualcosa di più rispetto al proprio mansionario, per far sì che la nostra vita e la vita sociale proceda in modo più o meno ordinato. Morin ha scritto a questo proposito che “la contro-organizzazione spontanea – detta informale – tra gli esecutori, pur essendogli antagonista, è necessaria a ogni organizzazione che obbedisce alla logica meccanica della macchina artificiale. Il disordine non significa solo aggressione, delinquenza, ma anche libertà, iniziativa se non creatività”124. Questa ‘anarchia coorganizzatrice’125 consente, insomma, di far fronte agli inconvenienti, di salvaguardare in qualche modo l’ordine complessivo. Questo vale anche nelle relazioni con gli altri: viene prescritta la franchezza e la capacità di accogliere le critiche, ma ci comportiamo diversamente. Dietro le buone maniere e le convenzioni si nascon-
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dono ipocrisia e travisamenti, per non dare vita a suscettibilità o risentimenti che ci potrebbero essere di intralcio. Così come non ammetteremmo mai con il nostro partner il desiderio che ci può suscitare un’altra persona. Siamo noi stessi e contemporaneamente recitiamo sia quando siamo con il partner che quando siamo con l’amante. E quante volte preferiamo non sapere cosa pensa, o a volte cosa fa, il nostro partner, pur di non affossare un rapporto importante? In alcuni casi sarebbe opportuno parlare e chiarirci con altre persone, in altri appare più conveniente tacere e cercare di porre rimedio in qualche modo al problema. Siamo continuamente alle prese con le contraddizioni delle prescrizioni sociali e delle convenzioni, e di volta in volta cerchiamo di tenere in piedi il nostro mondo alla meno peggio. Questi condizionamenti sono così forti perché rientrano nelle dipendenze dell’operare. Il che significa che introiettiamo non solo la spinta ad adeguarci alle regole ed alla razionalità, ma anche la buona volontà ad aggirarle per rendere possibile la convivenza e la nostra inclusione sociale. È la società stessa che si premunisce e ci premunisce dai conflitti distruttivi, attraverso tali dipendenze dell’operare. Credere determina ulteriori conseguenze che sono funzionali al vivere sociale. Ad esempio, fior di economisti sostengono che non ha senso votare, perché il peso del proprio voto è irrilevante126. Da un punto di vista scientifico hanno ragione, ma la storia dimostra che il loro realismo ha torto, perché l’insieme dei votanti rende possibile il sistema democratico. E questo accade perché i singoli credono, illusoriamente, nel valore del loro voto. Già Rousseau, a proposito del contratto sociale, sosteneva che alla base della società “c’è una convenzione che altro non è che una finzione modellata dall’uomo a cui occorre credere, per fare sì che sia possibile vivere”127. Un altro esempio di finzione fondativa dell’organizzazione sociale sono i diritti primitivi128. Queste finzioni divengono un riferimento ideologico cui si attribuisce un forte kred ed in questo modo vengono fisicizzate.
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Le polemiche sulla necessità di essere ‘realisti’ molte volte sono assurde, proprio perché la maggior parte delle cose in cui crediamo, e che consentono la convivenza civile, in sé non esistono, sono contraddittorie: esistono e sono possibili solo perché vi aderiamo con convinzione. Abbiamo il profondo bisogno di vivere per qualcosa o qualcuno che sia più grande di noi, e di espanderci in questo. Quindi il problema non è se occorre essere realisti, ma se è migliore credere ed affermare certe cose riguardo ad altre, cioè se sono realizzabili, e se gli altri sono disposti a crederci da subito o se prima occorre un lavoro di sensibilizzazione e di esempio. Il problema non è il realismo, ma scegliere ciò che è migliore, come arrivarci, decidendo di mettersi in gioco, perché anche gli altri facciano proprio questo nuovo credo. Vaihinger ha scritto che “la vita elevata si fonda su nobili illusioni”129.
Conclusioni Attraverso le dipendenze dell’operare riusciamo ad adattarci ai mutamenti ed agli imprevisti, operando dei salti logici di cui non ci rendiamo spesso conto. Passiamo da un termine di confronto all’altro senza esserne consapevoli, cioè ricontestualizziamo le situazioni. Tuttavia, grazie al kred, ci percepiamo coerenti e lineari e cerchiamo di giustificare a posteriori le nostre scelte, ricercando i termini di confronto più adeguati allo scopo. Come fa osservare Mérő “Il coltello è uno strumento utile, ma può essere anche mortale: nella vita quotidiana dobbiamo vivere con l’essenza contraddittoria dei coltelli, e di molte altre cose. Invece, nella logica formale, nessun sistema può essere anche solo un po’ contraddittorio: sarebbe contraddittorio del tutto. Allo stesso modo un coltello non può sostituire qualsiasi oggetto pericoloso, né tutti gli oggetti utili”130. Definiamo questa capacità di effettuare cambi di termini di confronto buon senso, ragionevolezza, ma non siamo in grado di capire come facciamo ad arrivarci, ed a risolvere in questo modo problemi
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teoricamente irrisolvibili dal punto di vista della logica formale. Hofstadter ritiene che “potrebbero esistere sistemi ricorsivi sufficientemente complessi da possedere la forza necessaria per sfuggire ad ogni schema prefissato. E non è forse questa una delle proprietà che definiscono l’intelligenza?” 131. Spesso si verificano eventi o problematiche che non possono essere gestite in modo automatico, ma richiedono una riflessione. In questi casi la nostra attenzione ‘stacca’ rispetto a ciò che la impegnava precedentemente, e si focalizza sul problema da affrontare, ricercando i termini di confronto che appaiono più appropriati. La riflessione che segue all’attenzione, per quanto razionale, è tuttavia condizionata dai nostri punti ciechi e dai condizionamenti sociali. La scelta dei termini di confronto da adottare non è mai neutra, perché frutto di scelte relative alla selezione degli elementi di cui tenere conto, e del modo di connotarli. Questi sono i presupposti perché si possa sviluppare comunque una riflessione razionale. Il pensiero scientifico presenta delle prerogative specifiche: discrimina, suddivide ed ordina, si occupa di correlazioni che cerca di dimostrare attraverso la ripetizione dei risultati degli esperimenti. Mette cioè alla prova le ipotesi per verificarle. Tali operazioni sono possibili, ancora una volta, perché possiamo scinderci da noi stessi, questa volta in modo più consapevole, grazie al fatto che siamo né uno né molti. Ne deriva che nel metodo scientifico il rapporto di causa ed effetto viene attribuito successivamente alla conferma sperimentale. Nelle dipendenze dell’operare, invece, tale attribuzione viene anticipata. Vi è una autoreferenzialità irrisolvibile anche nel pensiero di tipo scientifico, evidente nel dilemma del metodo. Ceccato sintetizza la questione affermando che “la metodologia altro non è che epistemologia, o teoria della conoscenza, con l’aggiunta di indagare nel conoscere pretendendo il possesso della conoscenza vera”132. Mette a nudo l’autoreferenzialità in modo ironico quando parla della “ingenua convinzione che la metodologia (da meta-hodos, ‘la via che porta a’) assicurasse il risultato scientifico e dovesse esserne la bandiera. Ma purtroppo per essere scientifica doveva essere assicurata dalla scienza. Un circolaccio!”133.
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Kuhn conferma che “La scienza normale, l’attività nella quale la maggior parte degli scienziati spendono inevitabilmente quasi tutto il loro tempo, è affermata sulla base della assunzione che la comunità scientifica sa che cosa è il mondo”134. Si tratta di un dilemma non risolvibile perché, come abbiamo già visto, non possiamo prescindere dalla nostra soggettività. Ciò significa che i nostri modelli scientifici, la connotazione degli elementi oggetto della ricerca scientifica, i concetti da applicare potrebbero essere completamente diversi, se fosse stata diversa la storia del pensiero umano e della conseguente ricerca scientifica, come ha cercato di dimostrare con buone ragioni Ludwik Fleck nei suoi libri135. Non possiamo scoprire ciò che la realtà è, ma cercare di darle una veste, tenendo conto dell’autonomia del mondo dal nostro operare. Quindi, attraverso il procedimento scientifico, ci costruiamo un mondo compatibile con la nostra specificità ed i nostri limiti in quanto genere umano. Questo determina errori sistematici di cui non possiamo essere consapevoli. Fino a prova contraria niente è stato creato, non c’è un ordine prestabilito, e forse l’ordine apparente è l’esito dell’operare senso motorio. Attraverso il metodo scientifico e la logica è possibile individuare ciò che è manifestamente falso, rendendo possibile smitizzare molte credenze alla base delle dipendenze dell’operare, che divengono così illusioni, superstizioni, pregiudizi. È grazie all’analisi razionale e scientifica che possiamo rilevare l’ambiguità e la pericolosità delle metafore irriducibili, mettere alla prova gli assunti religiosi che hanno condizionato il genere umano per millenni, esplicitare superstizioni e credenze. La ricerca scientifica e la riflessione razionale sono in grado di stabilire se ed in che modo sono mutati i termini di confronto, che giustificherebbero il nostro agire. In questo modo è possibile separare il contenuto di un pensiero dalla sua connotazione emotiva, il kred, che lo fa apparire indiscutibile. Questa capacità di scindersi rende possibile anche la nostra libertà, perché si diviene in grado di fare delle scelte, cioè di essere in qualche misura liberi di diventare la persona che si vorrebbe essere136. Se si è presenti a sé, anche se parzialmente, possiamo
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scegliere di modificarci e comunque portiamo la responsabilità delle nostre scelte. Si tratta di un’opera di analisi difficile perché l’attenzione non è indifferenziata, neutrale, si rivela precondizionata, anticipatrice. Un esempio di quanto sia problematico il rapporto tra attenzione e consapevolezza, lo possiamo ritrovare nella storia della persona diffidata a ripresentarsi al casinò. Esce di casa convinta che non ricadrà nella dipendenza dal gioco, tuttavia, nel proprio percorso, si avvicina sempre di più al casinò; nel frattempo la sua sicumera vacilla, ed alla fine cercherà di nuovo di entrare nel casinò, da cui verrà cacciato. Nel contrasto tra le due tendenze la persona ‘sente’ comunque di essere ‘una’, sarà concentrata su sé stessa, ma i termini di confronto su cui fonderà le sue scelte muteranno in modo graduale e impercettibile. La persona non saprà mai quando la spinta a tornare a giocare sia emersa e come abbia prevalso. Se in qualche misura siamo indagabili, abbiamo il dovere di farlo. Per migliorare i rapporti con noi stessi e con gli altri, per migliorare la qualità della nostra vita ed il mondo in cui viviamo. Il riduzionismo non è sufficiente in questa opera perché cerca di spiegare “i fenomeni sempre riconducendoli alle loro parti e analizzandoli componente per componente”137. Abbiamo visto quanto sia riduttivo questo approccio, basti ricordare che “la respirazione è una proprietà del sistema respiratorio, non di uno dei suoi componenti. Il pensiero è una proprietà del cervello, ma non è una proprietà dei neuroni. (…) le disfunzioni sono delle proprietà delle burocrazie, ma non sono le proprietà degli individui giustapposti”138. La logica formale mostra i suoi limiti anche rispetto ai criteri del vivere sociale. Se si utilizzasse soltanto la logica nei rapporto con gli altri, come abbiamo già scritto, diverremmo opportunisti e spietati, sempre alla ricerca egoista del perseguimento del nostro interesse personale. Se il pensiero scientifico e la logica formale si limitassero a svilupparsi dal loro interno, non avremmo progressi. La creatività non può che venire dall’esterno, ad esempio da analogie con conoscenze relative a campi diversi, che fanno intuire nuovi settori di sviluppo, nuove implicazioni.
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Se l’intuizione e la creatività – cioè aspetti a cui noi attribuiamo un nome, senza sapere quali processi li determinino – rientrano nel nostro inconscio, significa che il né uno né molti tende a governarci nelle reazioni immediate e negli automatismi, ma anche nella ricerca della comprensione di noi stessi. Ciò che agisce nei punti ciechi è creativo e può porre la creatività al servizio della razionalità. La logica, a sua volta, ci metterà in grado di verificare la congruità ed il senso delle nostre reazioni, dei nostri comportamenti. Se siamo consapevoli che la realtà è una costruzione, così come lo sono le metafore ed i concetti alla base della nostra vita e del vivere sociale, sarà più facile integrare la ricerca scientifica e la logica con i bisogni di conoscenza relativi al vivere sociale. Inoltre, dobbiamo tenere conto dei valori e della loro connotazione emotiva. Perché anche questo ci consente di comprendere. Un esempio è costituito dalle riflessioni di Frank Gonzàlez-Crussì, famoso anatomopatologo: intervistato da un giornalista, alla fine deve rispondere ad una domanda che non si attendeva: deve dire quale lezione umana, quale saggezza abbia ricavato dai molti anni passati a sezionare i cadaveri. Gonzàlez-Crussì risponde “l’esperienza mi ha insegnato che la nostra vita è legata ad un filo e vola via”. Il giornalista risponde freddamente che allora il medico non ha imparato niente di nuovo. L’autore del libro si rende conto che tra lui e il giornalista è insorta un’incomprensione: il giornalista ha valutato la risposta da un punto di vista razionale e la trova banale. GonzàlezCrussì sostiene invece che “Solo un’esperienza realmente sconvolgente, quale osservare per la prima volta una cadavere umano che viene dissezionato, o subire un lutto, è in grado di consegnarci la conoscenza piena – quella che viene dal cuore – circa la provvisorietà e labilità della vita. La cognizione puramente intellettuale è una luce fredda. Bagna gli oggetti della contemplazione con limpidezza inambigua, ma ci mantiene a distanza da quelli, come accade nell’osservare esemplari precisamente ordinati ed esposti dietro il vetro della bacheca di un museo: sono presto dimenticati. Questo genere di conoscenza raramente ci sprona all’azione; quella che viene dal cuore invece ci coin-
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volge, ci trascina verso il mondo, e marchia indelebilmente a fuoco le nostre vite. Perché è solo giungendo a conoscere, per così dire, visceralmente, le cose che possiamo affermare di averle recepite appieno”139. Abbiamo bisogno di ‘sentire’ per capire, ma anche questo ci può portare fuori strada Siamo implicati in ciò che percepiamo e nella sua elaborazione, per questo le discriminazioni che operiamo sono arbitrarie. La scienza stessa non può negare che, ad esempio, la vita e la morte siano indissolubilmente legate. In questo momento miliardi di cellule del nostro corpo stanno morendo, ed altre si stanno generando per continuare ad essere noi stessi, in un percorso di inesorabile invecchiamento. Siamo la stessa persona che eravamo 5, 10, 15 anni fa? Ed è lo stesso corpo? Possiamo dire che siamo né uno né molti? Come ha scritto von Glasersfeld “Se l’umanità deve trovare un equilibrio vitale per la sopravvivenza su questo pianeta, scienziati e mistici dovranno riconoscere che, sebbene il coordinamento razionale tra la effettiva esperienza e la saggezza raccolte dalle metafore poetiche siano incommensurabili, non devono essere incompatibili. Il compito più urgente sembra essere quello di sviluppare un modo di pensare e di vivere che dia il giusto valore ad entrambi”140. Credo che le mie ipotesi siano in grado di rispondere a tale bisogno. Cercare di comprendere è un atto di creatività, possibile grazie a determinate premesse, che discendono dai punti ciechi e dai condizionamenti sociali e culturali. Niente può emergere da una tabula rasa, e comunque nessuno di noi è una tabula rasa. Cercare di comprendere è un processo di affinamento continuo. A monte del vaglio critico necessario per la comprensione vi è un imperativo morale, che ci spinge a modificarci ed a modificare in meglio il mondo intorno a noi. La comprensione deve rispondere ad alcuni requisiti, non può essere slegata dalla realtà e dalla storia di colui o di coloro che riflettono e studiano. Abbiamo già detto che l‘umanesimo non sarebbe possibile senza l’espansione, senza la capacità di collocarci attraverso il né uno né
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molti. Vi sono tuttavia dipendenze dell’operare che agiscono in modo opposto. Nella seconda parte di questo studio intendo approfondire le dipendenze dell’operare legate al blocco, che ci portano a disconoscere il valore degli altri, a renderli estranei, a considerarli talvolta come oggetti. Si tratta di dipendenze che hanno avuto e continuano ad avere effetti che talvolta sono devastanti. La comprensione di questi aspetti sarà invece fonte di nuova creatività. Il né uno né molti fa sì che quando ci rendiamo conto dei nostri limiti, si iniziano a vedere le cose in modo diverso, e da questo si aprono nuove strade. Questo è possibile perché nel momento in cui si descrive un contesto, in buona misura ce ne siamo posti all’esterno. E questa è una delle opportunità che il mio punto di vista intende proporre, di liberazione.
NOTE 1 Cit. in “Imprinting” in Wikipedia, all’indirizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/Imprinting_(etologia), ultimo accesso 14.12.2011. 2 Finkielkraut A. “L’umanità perduta, saggio sul XX secolo”, Atlantide Editoriale, Roma, 1997, pag. 9. 3 Hofstadter D. R. “Godel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante”, Adelphi, Milano, 2008, pag. 757. 4 Nagel T. “Questioni mortali”, Il Saggiatore, Milano, 2001, pagg. 27-28. 5 Cfr. Gregory R. L. “Occhio e cervello”, Il Saggiatore, Milano, 1966. 6 Farinelli F. “L’invenzione della terra”, Sellerio, Palermo. 2007, pag. 44. 7 Morin. E. “Il metodo. 5. L’identità umana”, Raffaello Cortina editore, Milano, 2002, pag 57. 8 Fromm E. “Avere o essere?”, Mondadori, Milano, 1977, pag. 66. 9 Cfr. Kojéve A. “La nozione di autorità”, Adelphi, Milano, 2011, pag. 20. 10 Gallese V., Migone P., Eagle M. N. “La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi”, in “Psicoterapia e scienze umane, 2006, XL, pag. 543. 11 Catmur C., Walsh V., Heyes C. “Sensorimonitor learning configures the human mirror system Brain”. Curr. Biol. 17, 1527-1531, 2007. 12 Richmond D. “Apprendimento senso-motorio dei neuroni specchio”, consultabile su www.brainmindlife.org/apprendimentospecchio.htm, ultimo accesso 21.11.2011. 13 Ramachandran V. S. “Cosa sappiamo della mente”, Mondadori, Milano, 2004, pag. 58. 14 Gallese V. “La molteplice natura delle relazioni interpersonali: la ricerca di un comune mec-
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canismo neurofisiologico”, pag. 34. Consultabile all’indirizzo www.swif.uniba.it/lei/ai/networks/, ultimo accesso 15.4.2010. 15 Gallese V., Migone P., Eagle M. N. “La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi”, in “Psicoterapia e scienze umane, 2006, XL, pag. 558. 16 Cfr. Mazzotta S. “I neuroni specchio, l’empatia e la coscienza”, Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XIII (2007), pag. 188. 17 Gallese V. “La molteplice natura delle relazioni interpersonali: la ricerca di un comune meccanismo neurofisiologico”, pag. 34. Consultabile all’indirizzo www.swif.uniba.it/lei/ai/networks/, ultimo accesso 15.4.2010. 18 È stato dimostrato che anche le scimmie “sono in grado di inferire lo scopo di un’azione, anche quando l’informazione visiva a disposizione è incompleta (...). Mediante la simulazione, la parte non vista dell’azione può essere ricostruita e quindi il suo scopo può essere inferito”. Cioè, anche in questo caso, anticipato. (Gallese V. “La molteplice natura delle relazioni interpersonali: la ricerca di un comune meccanismo neurofisiologico”, pag. 35. Consultabile all’indirizzo www.swif.uniba.it/lei/ai/networks/ ultimo accesso 15.4.2010). 19 Gallese V., Migone P., Eagle M. N. “La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi”, in “Psicoterapia e scienze umane, 2006, XL, pag. 543. 20 Ibidem, pag. 544. 21 Ibidem, pag. 553. 22 Ibidem, pag. 568. 23 Gallese V. “Il corpo teatrale: mimetismo, neuroni specchio, simulazione incarnata”, pag. 26. Consultabile all’indirizzo www.unipr.it/arpa/mirror/pubs/pdffiles/cultureteatrali_2008.pdf. 24 Gallese V. “La molteplice natura delle relazioni interpersonali: la ricerca di un comune meccanismo neurofisiologico”, pag. 29. Consultabile all’indirizzo www.swif.uniba.it/lei/ai/networks/, ultimo accesso 15.4.2010. 25 Gallese V. “Il corpo teatrale: mimetismo, neuroni specchio, simulazione incarnata”, pag. 15, riferendo le teorie di René Girard sul capro espiatorio. Consultabile all’indirizzo www.unipr.it/arpa/mirror/pubs/pdffiles/cultureteatrali_2008.pdf, ultimo accesso 11.12.2014. 26 Intervista a Vittorio Gallese, dal titolo “I neuroni specchio, nuova frontiera delle neuroscienze”, consultabile all’indirizzo www.fmag.unict.it/Public/Uploads/article/06%20Neuroni%specchio.pdf, ultimo accesso 23.10.2013. 27 Cfr. Vaccarino G. “Scienza e semantica”, edizioni Melquiades, Milano, 2006, pag. 308. 28 Ibidem, pag. 30. 29 Nagel T. “Uno sguardo da nessun luogo”, Il Saggiatore, Milano, 1988, pag 147. 30 Van der Leeuw G. “L’uomo primitivo e la religione”, Torino, Boringhieri, 1961, pag. 24; cfr. Cosi G. “La liberazione artificiale. L’uomo e il diritto di fronte alla droga”, Giuffré editore, Milano, 1979, pagg. 29-30. 31 Van der LeeuwG. “L’uomo primitivo e la religione”, cit., pag. 35. 32 Miller P. H., 1983, Teorie dello sviluppo psicologico, Il Mulino, Bologna, citato in www.benessere.com/psicologia/arg00/pensiero_magico.htm, ultimo accesso 7.8.2010. 33 Cfr. Mérő L. “I limiti della razionalità. Intuizione, logica e trance-logica”, Edizioni Dedalo, Bari, 2005, pag. 80. 34 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 22. 35 Accame F. e Oliva C. “Transazioni Minori nel commercio dell’ideologia”, Elèuthera, 1987, pagg. 43-44. 36 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 124.
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De Beauvoir S. “Una morte dolcissima”, Einaudi, Torino, 2007. Wiseman R. “Usanze sinistre e profonde: Wittgenstein, Frazer e la magia”, consultabile su http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html, ultimo accesso 20.5.2010. 39 Dei F. “Quirkology, La strana scienza della vita quotidiana”, Frassinelli, 2009, pag. 114. 40 Bloch M. “I re taumaturghi”, Einaudi, Torino, 1973, pag. 5. 41 Wiseman R. “Quirkology, La strana scienza della vita quotidiana”, Frassinelli, 2009, pag. 114. 42 Ibidem, pagg. 114-115. Cfr. Nemeroff C e Rozin P. “The contagion concept inadulti thinking in the United States. Transmission of germs and interpersonal influence” pubblicato su “Ethos”, n. 22, 1994, pagg. 158-186. Vedi anche Rozin P., Millman L. e Nemeroff C. “Operation of the laws of sympathetic magic in disgust and other domains”, in “Journal of Personality and Social Psychology”, n. 50, 1986, pagg. 703-712. 43 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pagg. 96-97. 44 Cfr. Benveniste E. “Le vocabulaire des institutions indo-européennes”, Les editions de minuit, Paris, 1969, vol. I, pag. 172. 45 Ibidem, pag. 179. 46 Ibidem, pag. 177. Esempi ancora attuali del concetto sono reperibili nei modi di dire ‘accesso al credito’, cioè ad un prestito di denaro da restituire, oppure al sinonimo ‘fare credito’, oppure ‘dare credito’, cioè dare una fiducia da cui deriva il valore di una notizia che altrimenti non avremmo. In latino ‘fides’, è il sostantivo astratto del verbo ‘credere’. “Fides, nel suo senso primo di ‘credito, credibilità’, indica dipendenza da colui che ‘fidem habet alicui’, designa una nozione molto vicina a quella di *kred. Si comprende così facilmente che, essendo perduto in latino il vecchio nome radice *kred, fidés abbia potuto prenderne il posto come sostantivo corrispondente a ‘credo’” (Benveniste E. “Le vocabulaire des institutions indo-européennes”, Les editions de minuit, Paris, 1969, vol. I, pagg. 120-121). 47 Cfr. Cialdini R. “Le armi della persuasione”, Giunti, Firenze, cap. 2, 1995. 48 Ritroviamo questi concetti anche in economia, quando si parla di ‘crediti obbligazionari’, di bond, che significano ‘legame’, cioè in qualche modo di nuovo ‘obbligazione’. 49 Hume D. “A Treatise on human nature”, London, Penguin, 1969, pag. 461. 50 Berndt C. “Medizin ist Show”, in Süddeutesche Zeitung, 5.8.2003, pag. 15, cit. in Ehrardt U. e Johnen W. “Se sei sincero vai in Paradiso, se menti vai dappertutto”, Corbaccio, Milano, 2014, pag. 149. 51 Buonanno E. “Sarà vero. La menzogna al potere. Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia”, Einaudi, Torino, 2009, pag. VIII. 52 Grant R. “Senza mai fermarsi. Viaggio con i nomadi americani”, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2003, pag 59. 53 Crf. Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Placebo_(medicina), ultimo accesso 1.8.2014. 54 Berndt C. “Medizin ist Show”, in Süddeutesche Zeitung, 5.8.2003, pag. 15, cit. in Ehrardt U. e Johnen W. “Se sei sincero vai in Paradiso, se menti vai dappertutto”, Corbaccio, Milano, 2014, pag. 149. 55 Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Placebo_(medicina), ultimo accesso 1.8.2014. 56 Cfr. Haake M, Muller HH, Schade-Brittinger C, Basler HD, Schafer H, Maier C, Endres HG, Trampisch HJ, Molsberger A (2007) German Acupuncture Trials (GERAC) for chronic low back pain: randomized, multicenter, blinded, parallel-group trial with 3 groups. Arch Intern Med 167 (17): 1892-1898. 57 Accame F. e Oliva C. “Transazioni Minori nel commercio dell’ideologia”, Elèuthera, 1987, pag. 24. 58 Ibidem, pag. 26. 38
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59 Cfr. Oliva C. “Trecento milioni di prove” in http://www.radiopopolare.it/trasmissioni/lacaccia/2010/09052010/trecento-milioni-di-prove/, Ultimo accesso 20.06.2011. 60 http://www.ilpost.it/2011/09/30/la-principessa-e-di-leonardo-da-vinci/, ultimo accesso 30.9.2011. 61 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 48. 62 Ariely D. “Prevedibilmente irrazionale. Le forze nascoste che governano le nostre decisioni”, Rizzoli, Milano, 2008, pag. 92. 63 Ibidem, pag. 93. 64 Levitt S. D e Dubner S. J. “Freakonomics. Il calcolo dell’incalcolabile”, Sperling e Kupfer, Milano, 2008, pag. 7. 65 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 31. 66 Cfr. Ariely D. “Prevedibilmente irrazionale. Le forze nascoste che governano le nostre decisioni”, Rizzoli, Milano, 2008, pag. 89. 67 Cfr. Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 78. 68 Ibidem, pag. 79. 69 Cfr. Simons D. J. - Levin D. T. “Failure to Detect Changes to People During Real-World Interaction”, “Psychonomic Bulletin & Review”, vol. 5 (4), 1998. 70 Cfr. Hallinan J. T. “Il metodo antierrore”, Newton Compton, Roma, 2009, pag. 33-34. 71 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 28. 72 Cit. in Accame F. “Le metafore della complementarietà”, Odradek, Roma, 2006, pag. 60. 73 Nedelmann B. “Teoria dei ruoli”, in http://www.treccani.it/enciclopedia/teoria-deiruoli_(Enciclopedia-Scienze-Sociali)/, ultimo accesso 20.6.2013. 74 Ibidem. 75 James W. “The Philosophy of William James”, a cura della Modern Library, New York, Random House, s. d., pag. 129 cit. in Goffman E. “La vita quotidiana come rappresentazione”, Il Mulino, Bologna, 1975, pag. 61. Anche Morin scrive: “Come ha messo in rilievo la sociologia del role-taking e del role-playing noi impersoniamo dei ruoli sociali differenti in casa, in famiglia, in amore, al lavoro, con i nostri superiori, con i nostri inferiori, con i nostri amici” (Morin. E. “Il metodo. 5. L’identità umana”, Raffaello Cortina editore, Milano, 2002, pag. 72). 76 Goffman E. “La vita quotidiana come rappresentazione”, Il Mulino, Bologna, 1975 77 Aime M. “Verdi tribù del nord. La Lega vista da un antropologo”, Laterza, Bari, 2012, pag. 17. 78 Berger P. L. Berger B. “Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana”, Il Mulino, Bologna, 1985, pag. 47. 79 Basaglia F. “Scritti” vol. 1, Einaudi, Torino, 1981, pag. 258. 80 Ceccato S. “C’era una volta la filosofia”, Spirali, Milano, 1996, pag. 154. 81 Gagliasso E. “Usi epistemologici della metafora e metafore cognitive” in Morabito C. (a cura di) “La metafora nelle scienze cognitive”, McGraw-Hill, Milano, 2002, pag. 14. 82 Ibidm, pag. 13. 83 Hillman J. “Forme del potere. Capire il potere per usarlo in maniera intelligente”, Garzanti, Milano, 1996, pagg. 20-21. 84 Ceccato S. citato in www.geocities.com/stazione_marchetti/ceccato.htm, ultimo accesso 20.6.2008. 85 Cfr. Ceccato S. “La mente vista da un cibernetico”, ERI, Roma, 1972, Capitolo IV, consultabile anche su Internet all’indirizzo www.geocities.com/ceccato3/cibernetica.htm, ultimo accesso 11.10.2008. 86 Ceccato S. “C’era una volta la filosofia”, Spirali, Milano, 1996, pag. 79. 87 Cfr. www.americanscientist.org/template/Newsletter?memberid=null&issuede=1661, ultimo accesso 11.10.2010. Cfr. Lakoff G. “Pensiero politico e scienza della mente”, Bruno Mon-
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dadori editore, Milano, 2008, pag. 220. 88 Ceccato S. “C’era una volta la filosofia”, Spirali, Milano, 1996), pag. 41. 89 Berger P. L. Berger B. “Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana”, Il Mulino, Bologna, 1985, pag. 31. 90 Abbagnano N. “Il relativismo culturale” in Quaderni di sociologia A. XI, n. 1, 1962, pagg. 5-22. 91 Lombardi Satriani L. M. “Antropologia Culturale e analisi della cultura subalterna”, Guaraldi, Firenze, 1976, pag. 103. 92 Cfr. Haidt J. “The emotional dog and its rational tail: A social intuitionist approach to moral judgment” Psychological Review, 108, 2001, pagg. 814-834. 93 Ibidem, pag. 814. 94 Cfr. R. Kurzban R. “Why everyone (else) is a hypocrite”, Princeton University Press, New Jersey, USA, 2010, pag. 190. 95 Cfr. Haidt J. “The emotional dog and its rational tail: A social intuitionist approach to moral judgment” Psychological Review, 108, 2001, pag. 820. 96 Cfr. Gazzaniga M. S. “The social brain”, Basic Books, New York, USA, 1985. 97 Cfr. Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 40. 98 Proviamo ad immaginare le reazioni dei cittadini, se un ipotetico governo decidesse di apporre sulle confezioni di alcolici un’etichetta, che specificasse che l’alcol nuoce gravemente alla salute, al pari di quanto avviene per il tabacco... C’è da dire che etichette di questo tipo vengono apposte da anni sulle confezioni di alcolici di alcuni paesi arabi ed in Turchia. 99 Cfr. de Waal F. “The chimpanzee’s sense f social regularity and its relation to the human sense of justice”, American Behavioral Scientist, 34, 1991, pagg. 335-349; de Waal F., Lanting F. “Bonobo: the forgotten ape”, University of California Press, Berkley, USA, 1997. 100 Kurzban R. “Why everyone (else) is a hypocrite”, Princeton University Press, New Jersey, USA, 2010, pagg. 166-167. 101 Höss R. “Comandante ad Auschwitz”, Einaudi, Torino, 2013, pagg. 148-149. 102 Cit. in Nussbaum M. C. “L’intelligenza delle emozioni”, il Mulino, Bologna, 2009, pag. 117. 103 Hofstadter D. R. “Godel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante”, Adelphi, Milano, 2008, pag. 749. “uno strano anello è un anello a feedback con un attraversamento paradossale di livelli” (Hofstadter D. “Anelli nell’io. Che cosa c’è al cuore della coscienza?”, Mondadori, Milano, 2008, pag. 132). 104 Mérő L. “I limiti della razionalità. Intuizione, logica e trance-logica”, Edizioni Dedalo, Bari, 2005, pag. 104. 105 Cfr. R. Kurzban “Why everyone (else) is a hypocrite”, Princeton University Press, New Jersey, USA, 2010, pag. 81. 106 Morin. E. “Il metodo. 5. L’identità umana”, Raffaello Cortina editore, Milano, 2002, pag. 261. 107 Nagel T. “Questioni mortali”, Il Saggiatore, Milano, 2001, pagg. 76-77. Cfr. anche Bauman “Le sfide dell’etica”, Feltrinelli, Milano, pag. 254. 108 Nagel T. “Questioni mortali”, Il Saggiatore, Milano, 2001, pagg. 26-27. 109 Cfr. Giannini I. S. e Rossi Fagnini A. M. “Aspetti e peculiarità della religione romana”, casa editrice d’Anna, Firenze, 1972, pagg. 29-31. Per evitare ingiustizie di genere vi era una divinità femminile preposta alle latrine ed alla fognature ed aveva il nome di Cloacina (da cloaca), ne parla Plinio il vecchio. 110 Cfr. Freud S. “L’avvenire di un’illusione”, Boringhieri, Torino, 1979, pag. 29. 111 Ibidem, pag. 30. 112 Ibidem, pag. 50. 113 Cfr. Jursa M. “Il crollo dell’impero assiro e i suoi eredi: Babilonesi, Medi e Persiani”,
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Parte prima – Premesse teoriche
in “L’antichità.” Vol. 1 “Le civiltà del vicino oriente. Storia politica, economica e sociale”, La biblioteca di Repubblica-L’espresso, Roma, 2013, pag. 612. 114 Salinari C., Ricci C. “Storia della letteratura italiana” Vol. III, Parte prima, Laterza, Bari, 1977, pag.101. 115 Kopp S. B. “Se incontri il Buddha per la strada uccidilo. Il pellegrinaggio del paziente nella psicoterapia”, Astrolabio, Roma, 1975, pag. 45. 116 Salinari C., Ricci C. “Storia della letteratura italiana” Vol. III, Parte prima, Laterza, Bari, 1977, pag.101. 117 Ibidem, pag.120. 118 Cfr. Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pagg. 97-98. 119 Elder J. “Finding Religion on the Campaign Trail”, New York Times, 7.11.2007, cit. in Kurzban R.“Why everyone (else) is a hypocrite”, Princeton University Press, New Jersey, USA, 2010, pag. 97. 120 Cfr. R. Kurzban R. “Why everyone (else) is a hypocrite”, Princeton University Press, New Jersey, USA, 2010, pag. 112. 121 Ibidem, pag. 112. 122 Ibidem, pag. 112. 123 Acutamente Stanislaw Lec ironizzava: “persino le costellazioni non sono libere associazioni di stelle” (Lec S. “Pensieri spettinati”, Bompiani, Milano, 1992, pag. 91). 124 Morin. E. “Il metodo. 5. L’identità umana”, Raffaello Cortina editore, Milano, 2002, pag. 177. 125 Ibidem, pag. 176. 126 L’economista Patricia Funk ha affermato che “un essere dotato di raziocinio dovrebbe rifiutarsi di andare alle urne” (cit in Levitt S. D. e Dubner S. J. “Freakonomics. Il calcolo dell’incalcolabile”, Sperling e Kupfer, Milano, 2008, pag. 257). 127 Cfr. Rousseau J.J. “Il contratto sociale”, Rizzoli 1993, cit. in Aime M. Verdi tribù del nord. La Lega vista da un antropologo”, Laterza, Bari, 2012, pag. 80. 128 Vaihinger H. “La filosofia del ‘come se’. Sistema delle finzioni scientifiche, etico-pratiche e religiose del genere umano”, Ubaldini, Roma, 1967, pag. 43. 129 Ibidem, pag. 90. 130 Mérő L. “I limiti della razionalità. Intuizione, logica e trance-logica”, Edizioni Dedalo, Bari, 2005, pag. 54. 131 Hofstadter D. R. “Godel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante”, Adelphi, Milano, 2008, pag. 165. 132 Ceccato S. in Accame F. “I fioretti metodologico-operativi ovvero la lieta novella da Montecchio Maggiore”, La Vita Felice, Milano, 2014, pag. 43. 133 Ceccato S. “C’era una volta la filosofia”, Spirali, Milano, 1996, pag. 41. 134 Kuhn T. S. “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, Einaudi, Torino, 1980, pagg. 23-24. Anche Hannah Arendt parla di questo, che definisce un “circolo vizioso”, “che può essere formulato come segue: gli scienziati formulano le loro ipotesi per realizzare i loro esperimenti e poi usano questi esperimenti per verificare le loro ipotesi; è evidente che nel corso di una impresa del genere hanno a che fare solo con una natura ipotetica. In altre parole, il mondo dell’esperimento sembra sempre suscettibile di diventare una realtà fatta dall’uomo” (Arendt H. “Vita activa. La condizione umana”, Bompiani, Milano, 1994, pag. 213). 135 Fleck L. “Genesi e sviluppo di un fatto scientifico”, Il Mulino, Bologna, 1983. Fleck L. “La scienza come collettivo di pensiero. Saggi sul fatto scientifico”, edizioni Melquiades, Milano, 2009.
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Cfr. Sartre J.-P. “L’essere e il nulla”, Il Saggiatore, Milano, 1972, pag. 535. Deutsch D. “L’inizio dell’infinito. Spiegazioni che trasformano il mondo”, Einaudi, Torino, 2013, pag. 111. 138 Moessinger P. “Irrationalité individuelle et ordre social”, Librairie Droz, Genéve, 1996, pagg. 178-179. 139 Gonzàlez-Crussì F. “Organi vitali”, Adelphi, Milano, 2014, pagg. 278-280. 140 Von Glasersfeld E. “The incommensurability of Scientific and Poetic Knowledge” in www.methodologia.it, ultimo accesso 13.12.2014. 137
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PARTE II. IL BLOCCO ED IL VALORE DEGLI ALTRI “Quello che tutti vogliamo è provare, sentire qualcosa. Anche la serenità che tu cerchi è un sentimento. È come se tu dicessi di voler essere ricco. Quello che cerchi è il sentimento di essere ricco, non la ricchezza in sé”1.
Il blocco tra reazione innata ed operare mentale In questa parte approfondiremo i comportamenti legati al blocco, che conducono alla perdita di valore degli altri. Faremo esempi storici di comportamenti ripugnanti, di fronte ai quali spesso ci chiediamo come sia stato possibile per l’essere umano macchiarsi di azioni così esecrabili. Occorrerà allora premettere che i nostri sentimenti morali sono legati al modo in cui connotiamo un contesto. Non esiste un modo oggettivo di percepire e vivere una situazione: la nostra soggettività, condizionata socialmente, è necessaria per definire ciò che ci circonda e che accade. Le dipendenze dell’operare danno vita a termini di confronto ed a sentimenti che li confermano, cosicché tutto può essere giustificato. Questo modo di operare può determinare reazioni che, analizzate criticamente, appaiono incongrue: ad esempio costruiamo storie sugli altri che ci condizionano emotivamente, anche se questi ultimi ne sono all’oscuro. È il caso di una persona cara deceduta, che si riteneva profondamente amata dall’altro coniuge e che, veniamo a sapere, veniva continuamente tradita. Questo non cambierà quella che è stata la vita felicemente inconsapevole del nostro conoscente, ma la vicenda ci rattrista ugualmente. Perché noi viviamo le storie che elaboriamo, talvolta indipendentemente dagli altri, che ne possono essere ignari protagonisti. La soggettività del gruppo sociale di riferimento fa sì che di fronte ad uno stesso evento possiamo avere reazioni completamente oppo-
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ste. Ricordo di avere visto una volta un documentario sulle trappole che venivano tese ai delfini, in un golfo del Giappone, per catturarli. Attivisti ecologisti americani si erano impegnati per evitare la mattanza, ma alla fine si erano dovuti arrendere. Davanti alla strage gli americani piangevano, i giapponesi ridevano del loro pianto e per il compiacimento di una buona pesca. È impossibile stabilire chi avesse ragione, perché il comportamento di entrambi i gruppi era mosso da termini di confronto completamente diversi. Termini di confronto, ritenuti legittimi, vengono utilizzati anche per ammassare preventivamente armi di distruzione di massa negli arsenali militari. È il primo passo per l’azzeramento del valore altrui, in questo caso del nemico, chiunque esso sia. Talvolta dobbiamo scegliere all’interno di un dilemma. In questi casi, una volta effettuata la scelta, possiamo imporci di essere indifferenti riguardo a determinati richiami emotivi, cosicché possiamo rimuovere le nostre resistenze, così come possiamo ignorare le richieste di aiuto da parte di altri. È sufficiente ricorrere a termini di confronto che razionalizzino e sanino le nostre scelte. Non esiste una realtà assoluta, siamo noi a connotarla ed a collocarci al suo interno, attraverso le dipendenze dell’operare che adottiamo. Il passaggio da una dipendenza ad un’altra ci assicura flessibilità e maggiore adattività rispetto alle sfide del mondo circostante. Questo rende possibile il blocco. Blocco come operazione mentale Il blocco costituisce un confronto della nostra attenzione con il niente che, diversamente dalla ritrazione, non è proiettato nel futuro, ma sul presente. Infatti nella ritrazione, quando qualcuno pensa ‘sono solo’, l’angoscia e l’impotenza che ne derivano si trasferisce dal presente al futuro, in qualche modo divengono destino. Questa proiezione non avviene nel blocco che si concentra sulla attualità del problema. Il blocco coincide con l’attenzione focalizzata, con le ‘fratture’ descritte da Varela, in conseguenze di intoppi e shock che costringono a prendere delle decisioni o comunque costringono al passaggio da
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un micro mondo all’altro. Ne abbiamo parlato nel capitoletto dedicato a ‘Attenzione e termini di confronto’, nella prima parte. In definitiva, il blocco della espansione avviene quando si presenta un ostacolo che deve essere superato, per giungere alla espansione. Oppure il blocco si verifica quando sorge il dubbio, per cui dobbiamo operare una scelta. Il periodo del blocco diviene allora un momento di passaggio, più o meno lungo, che spesso determina una dimensione spiacevolmente sospesa. In questo lasso di tempo talvolta, in qualche modo, ci si estranea. La reazione ancestrale che caratterizza il blocco è la tendenza all’irrigidimento. Navarro descrive, a questo scopo, la reazione degli spettatori agli spettacoli che vedono la presenza di grandi felini sui palchi dei teatri di Las Vegas: “Mentre la tigre o il leone camminano sul palco, puoi essere sicuro che la gente nella prima fila non starà facendo nessun movimento superfluo con le braccia o con le mani. Staranno pietrificati sulle loro poltrone. Queste persone non seguono indicazioni nel rimanere immobili; lo fanno perché la loro area limbica ha preparato la specie umana a comportarsi in questo modo di fronte ad un pericolo da oltre cinque milioni di anni”2. È la stessa reazione che caratterizza i soldati in avanscoperta quando, improvvisamente, uno di loro si immobilizza. È una tendenza che si può osservare anche nelle persone che vengono sorprese a rubare, o a mentire. Ci irrigidiamo anche quando all’improvviso ci accorgiamo che abbiamo dimenticato qualcosa, ad esempio il gas acceso a casa. Oppure, quando ci ricordiamo di non aver detto qualcosa di importante ad una persona. Come sottolinea Navarro “Il momentaneo stop è sufficiente al cervello per condurre una veloce valutazione, se la minaccia arriva con le sembianze di un predatore e da una preoccupazione ricordata. In ogni caso, la psiche deve fare i conti con una situazione potenzialmente pericolosa”3. Questo irrigidimento, il tentativo di sembrare invisibili, di non essere notati, di attesa, è presente in tutte le specie animali, dagli insetti fino ai mammiferi. Si verifica anche quando avvertiamo che qualcosa non
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va dentro di noi: un malessere improvviso, rendersi conto di essersi feriti. Nel caso degli esseri umani, quando si attiva il blocco si mobilitano le nostre energie ed anche l’attenzione, si attende per decidere come agire sulla base del succedersi degli eventi. Nelle relazioni sociali il blocco, attraverso le dipendenze dell’operare, acquista numerose sfumature e valenze che approfondiremo. Il blocco viene utilizzato anche nella gestione di uno sforzo impegnativo, un atto di volontà per il perseguimento di un obiettivo. Per questo non è detto che il blocco, in sé, debba essere negativo, perché la ricerca dell’espansione spinge ad impegnarci per raggiungere il risultato che ci prefiggiamo: lo sforzo della scalata ci fa apprezzare ancora di più la soddisfazione per il raggiungimento della vetta. Il blocco tende a generare frustrazione, e questo rende ancor più liberatorio il momento della successiva espansione, una volta rimosso l’ostacolo. Nel momento del blocco, per risolvere il problema contingente, aguzziamo il nostro ingegno, aumentiamo i nostri sforzi ed anche il desiderio del successo. Per sottolineare come tale esperienza si rifaccia a reazioni innate, Ceccato presenta l’esempio dell’urina, che gonfia la vescica, ed il cui svuotamento produce un immediato sollievo4. Gli stati d’animo della espansione, ritrazione e blocco possono essere essere indotti consapevolmente. Ceccato propone due esperienze in merito, una di espansione e l’altra riferibile al blocco: “Si stringa in mano la penna, che rimane nel palmo come una cosa morta, ma non appena, appunto, ci si rivolga ad essa con il ‘tu’ ‘Tu, o mia penna, non tradirmi’, è come se, pur distinta, si incorporasse nella mano. È difficile? Basta allenarsi, stare attenti a come opera la nostra testa. E può aiutare anche un’esperienza contraria, quella di negare questa espansione proprio nei confronti di un altro uomo, per esempio da parte del libero nei confronti dello schiavo, con quel diritto di vita e di morte che non riusciamo più ad esercitare nemmeno di fronte al coniglietto, alla capretta, e persino alla gallina, una volta considerati nostro prossimo e promossi da animali da cortile ad animali domestici, cioè di casa”5. Essere consapevoli di tali dipendenze
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dell’operare, significa poter cercare di gestire in modo più adeguato il nostro comportamento. Il rapporto con l’altro si modifica a seconda dei termini di confronto che adottiamo. Ciò riguarda il rapporto con qualsiasi altra cosa, esseri umani, animali ed anche oggetti. Secondo Ceccato “La socialità nasce con il porre qualcosa, davvero qualsiasi cosa, come nostro prossimo”6. In questo modo, ci espandiamo e lo incorporiamo. Abbiamo bisogno espanderci e di incorporare anche gli oggetti che ci circondano, altrimenti rischiamo di sentirci alienati, estranei a tutto. Lo rivela chiaramente questo brano autobiografico di Massimo Carlotto, tratto dal romanzo ‘Il fuggiasco’, in cui l’autore descrive il blocco cui ricorreva durante il periodo della propria latitanza: “L’aspetto che detestavo di più dei traslochi era di dover ricomprare gli oggetti, dai mobili agli utensili presenti in ogni casa. Normalmente lo si fa con l’idea che durino nel tempo, che facciano parte della quotidianità e che abbiano una loro storia. Per un latitante è diverso: l’unico criterio è quello dell’uso momentaneo, così immancabilmente ogni cosa perde valore. Li definivo non-oggetti, appartenenti ad una non-persona, che viveva una non-vita”7. Possiamo fare anche un esempio opposto, ricorrendo ad alcune scene del film ‘Le invasioni barbariche’: arredi, paramenti sacri, statue di santi divengono, agli occhi di una funzionaria di case d’asta, semplice paccottiglia e, negli scantinati in cui sono conservati, appaiono prive di qualsiasi suggestione, diversamente da quanto avviene nei luoghi sacri. Il kred della sacralità è scomparso, siamo davanti ad un processo di blocco della espansione che contagia anche lo sguardo degli spettatori. Poiché gli stati d’animo possono essere indotti, e questo vale anche per il blocco, si può parlare di ‘blocco preventivo’, quando ci prepariamo ad affrontare situazioni che riteniamo di dover gestire con tale stato d’animo. In qualche misura, possiamo indurre determinate dipendenze dell’operare. Nella paura e nella solitudine ci si ritira in noi, nella nostra infelicità, tendenzialmente si fugge. Nel blocco si tengono gli altri a di-
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stanza in senso difensivo o per imporsi, cercando di evitare qualsiasi possibilità di espansione. Il blocco si può manifestare prima o dopo la ritrazione. Nel primo caso dopo il blocco ci si può rendere conto che l’ostacolo da superare o il nemico da contrastare è molto più potente di noi e quindi ci scoraggiamo. Nel secondo caso le dipendenze dell’operare inducono al blocco che spinge a combattere. Abbiamo già scritto che il blocco è da attribuirsi ad una reazione di tipo animista, la ricerca cioè di contrastare quanto è di fatto estraneo e potenzialmente avverso a noi. La differenziazione, tra espansione di sé negli altri e blocco, può essere osservata anche da un punto di vista linguistico, ad esempio nell’uso del pronome cui si ricorre, ad esempio “Il ‘tu’, la seconda persona, si ottiene quando la cosa è posta prima come oggetto e poi ripresa come soggetto. Lo riconosco come io, non ‘andando verso’, come con la persona, ma ‘chiamando a me’. Il ‘lui’, ‘lei’, ecc., la terza persona, si ottiene rovesciando i pezzi combinati: il soggetto è ripreso come oggetto; e questo, pur ponendo la comunanza, allontana, stacca. Pone dal soggetto una ‘distanza’, di rispetto, di prudenza, di disdegno”8. Quest’ultimo caso si applica a ciò che definisco blocco. Evidentemente, vi possono essere passaggi tra le varie persone utilizzate, che indicano una modifica dell’atteggiamento assunto nei confronti dell’altro: “Già una volta si avvertiva bene fra uomo e donna il passaggio dal ‘lei’ al ‘tu’, di confidenza, per non dimenticare il ‘voi’ di rimprovero dei padri e zii nei momenti di collera”9. Il blocco è un’operazione mentale che consente la rimozione della dimensione empatica con l’altro, tende a renderci impersonali, e impermeabili al confronto. Con il blocco si perde la spontaneità, si adotta una maschera. Ci si irrigidisce, anche psicologicamente. Si ricorre al blocco quando si verificano situazioni in cui ci si deve dominare o dare un contegno, come nel caso di minacce, rinunce, compiti che troviamo ripugnanti, perdita di fiducia nei confronti di persone che ci sono vicine, dubbi che facciamo fatica a risolvere. Riguardo all’altro si proietta un rapporto di estraneità, si verifica una
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scissione, come nell’esempio relativo al ‘lei’ di cui parla Ceccato10. L’altro viene ‘cosificato’. Nel predisporsi ad un eventuale scontro o a confrontarsi con una situazione sgradevole, il blocco mobilita le nostre energie e la nostra attenzione. Nel blocco si assume un atteggiamento individualista. Non si comunica con l’altro o lo si fa in modo formale. È anche lo stato d’animo di chi dice un ‘no’ e si ribella. Per lo più ciò che l’altro dice o fa, nel blocco, viene valutato in termini di minaccia effettiva o potenziale, oppure di trasgressione da contrastare. L’altro viene ridotto ad una dimensione, in modo sbrigativo e definitivo. Non ha più valore umano o sociale. Il blocco è una reazione socialmente condizionata che si rifà ad una situazione di pericolo potenziale, frustrazione, repulsione, errore e dubbio che gli animali e gli esseri umani vivono in natura. Quanto più il blocco ci coinvolge, quanto più tutto il resto diventa sfondo, cioè vi si pone sempre meno attenzione. Cercheremo di approfondire quanto l’educazione e le regole sociali inducano questa reazione. In che misura cioè i termini di confronto, che fanno scattare il blocco, sono determinati dai condizionamenti sociali. Secondo Harrison e Callari Galli “Dobbiamo (...) renderci conto che non solo il nostro modo di essere è innaturale, non solo ogni altro modo di essere differente dal nostro è anche esso innaturale, ma innaturale è anche l’esistenza delle differenze”11. Blocco subìto (passivo) Vi è nell’uomo il bisogno di creare tante gerarchie e scale di valori, in modo forse che ognuno trovi qualcosa di soddisfacente ed anche la sua parte di media infelicità nella posizione che ricopre. Ecco la divisione in classi o in caste, che diviene una divisione morale, ecco la divisione tra cittadini e campagnoli, ancora una divisione morale. Ecco l’irrisione dei brutti e l’elogio dei belli, l’ironia nei confronti dei calvi, degli obesi, degli balbuzienti, la stigmatizzazione dei disabili e dei diversi. Da questo punto di vista siamo tutti oppressi ed oppressori, attraverso i giudizi che emettiamo.
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In particolare, il blocco passivo si verifica in seguito ad imprevisti che ci mettono in difficoltà, perché non sappiamo come porci, o rispetto ai quali fare buon viso a cattivo gioco. Si tratta di un blocco di tipo difensivo. Il timore, in qualche misura, è sempre quello di perdere la faccia. Si tratta di un blocco che cerchiamo di dissimulare, che crea incertezza ed ansia, legate anche ad eventi inattesi che generano imbarazzo per colpa altrui, o che ci pongono in situazioni disgustose. Talvolta, il blocco si verifica in situazioni conseguenti alla perdita di fiducia in qualcuno o negli altri, come quando viene messa in gioco, o violata, una nostra aspettativa ritenuta legittima. Spesso tendiamo a difendere in modo debole o lasciamo violare tali aspettative, per rispetto di altre prescrizioni sociali che confliggono. Si tratta insomma di un contrasto, tra quanto ci dovrebbe spettare e ciò con cui dobbiamo fare i conti per prescrizioni sociali cui, in qualche modo, ci viene richiesto di adeguarci. È il caso di leggi che contravvengono a diritti precedentemente riconosciuti, come quelli relativi ai rapporti di lavoro, o ai diritti legati ai trattamenti pensionistici. Si arriva così a normative che disconoscono del tutto i diritti fondamentali delle persone, come nel caso dei senza fissa dimora i quali, non disponendo di una residenza, non hanno più diritto alla assistenza sanitaria di base (possibilità di avere un medico di medicina generale), di iscriversi ai centri per l’impiego, non hanno diritto di voto, non hanno diritto alla casa (non possono partecipare ai bandi per l’assegnazione delle case popolari), così come di molti servizi sociali pubblici. Nel blocco subìto preferiamo trattenerci, per ragioni di opportunità, per rassegnazione o per timore che le conseguenze si ritorcano contro di noi. L’adeguamento al blocco imposto ricorda il meccanismo della obbedienza dovuta ai genitori, in cui ci viene chiesto di rinunciare a qualcosa, anche se ritenuta legittima, se il genitore lo impone. Leopardi affermava che l’educazione è una forma di assuefazione, in questo caso di accettazione delle regole anche a fronte della frustrazione. Si tratta di regole sociali: il blocco subìto ci mostra quale
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sia la forza del kred attribuito al potere ed all‘autorità, che ci spinge ad obbedire anche quando non vorremmo e non dovremmo. Il blocco legato alle gerarchie sociali tende a mettere in difficoltà, ed a suscitare soggezione. Chi detiene una posizione di potere tende a legittimare la perdita di valore da parte di chi è subordinato, giustificandola con situazioni di necessità che non terminano mai, e che pongono tanti cittadini alla mercé delle scelte altrui. Talvolta l’acquiescenza viene imposta con la brutalità, e le persone finiscono per subire il blocco in modo totale. Un esempio lo troviamo nella testimonianza di una ex guardia SS del campo di sterminio di Treblinka, relativa agli ebrei che sapevano sarebbero stati uccisi: “‘Non mi sarebbe importato nulla, se qualcuno di loro fosse fuggito’ disse l’ex infermiere SS Otto Horn (…) ‘A volte mi domandavo come mai non fuggissero. Una volta Matthes (che comandava il campo superiore) mi mandò a far legna con un gruppo di prigionieri: sei uomini, e una guardia ucraina. Eravamo appena usciti dal campo, che l’ucraino se la squagliò; andavano continuamente nei villaggi a cercare cibo e roba da bere. (…) Pensai tra me: ‘ecco una buona occasione per loro. Non hanno da fare altro che squagliarsela’. Non avrei potuto farci nulla, e poi, come ho già detto, non me ne sarebbe importato. No, non credo che mi sarebbe successo niente... non sarebbe stata colpa mia. Dovevano andare in giro per i boschi in cerca di rami – era questo che dovevano fare; io ero solo, e inevitabilmente li perdevo di vista anche per molto tempo – come avrei potuto stargli dietro? Era impossibile. Comunque... alla fine ritornarono tutti quanti’. Scrollò la testa. ‘Non riesco proprio a capirlo’”12. C’è nella schiavitù subita una parte di schiavitù accettata. Anche i carceri sarebbero probabilmente ingestibili, se i detenuti non accettassero la loro condizione. Vi sono casi in cui si riduce la persona al blocco passivo, per condurla poi alla depressione profonda, cioè alla ritrazione, in modi molto più subdoli. È il caso del mobbing sul posto di lavoro: la persona viene isolata, misconosciuta, trattata come un’estranea. Si tratta di una violenza da cui è difficile difendersi, perché abbiamo bisogno degli altri e di essere confermati dagli altri. Come chiarisce Crespi, “Questa esi-
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genza di conferma sottolinea il fatto che l’individuo non è mai solo, ma è costitutivamente in rapporto con gli gli altri. Ciò che l’individuo cerca di evitare ad ogni costo è infatti di non essere visto dagli altri, l’indifferenza costituisce per lui una sorta di sentenza di morte, in quanto equivale a dire ‘tu per me non esisti’”13. È questo il tipo di violenza che si esercita con il blocco costituito dal mobbing. Per Martin Buber “una società si può dire che è umana nella misura in cui i suoi membri si confermano tra di loro... È uno solo il principio su cui si basa la vita associata degli uomini anche se sono due le forme in cui si manifesta: il desiderio che ogni uomo ha che gli altri lo confermino per quello che è, o magari per quello che può divenire; e la capacità (che è innata nell’uomo) di poter confermare i suoi simili come essi desiderano”14. Il fatto che la persona oppressa subisca la propria condizione non significa che l’accetti sempre, né che la consideri inevitabile. Si supera il blocco imposto ribellandosi, cioè con un altro tipo di blocco. Il ‘no’ richiede coraggio perché va contro l’assuefazione di cui parla Leopardi. Nel ‘no’ ci si riappropria del nostro valore in quanto persone. La rivolta nei confronti dell’oppressione non produce necessariamente un modello culturale alternativo a quello che si contesta. Come ha sottolineato acutamente Erving Goffman, lo stigmatizzato, “qualora cerchi un genere di separazione e non di assimilazione, può darsi si accorga che i suoi sforzi attivi vengono formulati nel linguaggio e nello stile dei suoi nemici. Inoltre, le richieste che egli presenta, i soprusi che elenca, la linea strategica che promuove, fanno parte di un contesto idiomatico di espressione e di sentimento che appartiene all’intera società. Il suo disgusto per una società che lo respinge può essere inteso soltanto in rapporto al concetto di orgoglio, dignità e indipendenza che ha quella società. In breve, a meno che non ci sia qualche cultura straniera su cui ripiegare, più egli si separa strutturalmente dalle persone normali e più è probabile che diventi simile a loro sul piano culturale”15. Nella maggior parte dei casi le dipendenze dell’operare ci inducono a subire, per non spiacere.
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Si ricorre al blocco passivo per entrare a fare parte di un gruppo, come nel caso delle cerimonie di iniziazione, che hanno un costo rilevante per l’individuo: “Queste cerimonie rafforzano l’adesione dell’individuo al suo nuovo gruppo. Un impegno spontaneo, soprattutto quando è difficile tornare indietro, e si è sottoposti al giudizio altrui, conduce spesso l’individuo a rafforzare la propria adesione a questo impegno. In generale, la maggior parte delle scelte che ci impegnano sono così autorafforzate”16. Negli anni si modifica il nostro modo di stare nel mondo e, invecchiando o in situazioni problematiche, varia la valutazione degli altri nei nostri confronti. Possiamo percepire che viene sminuito il nostro valore, che veniamo fraintesi in modo negativo, ed anche questo può portarci ad un blocco passivo. Accame ed Oliva notano che “al mondo, tu sei tu fino a quando interpreti coerentemente il tuo personaggio, cioè ti attieni al tuo paradigma; ma può capitare che qualcosa, prima o poi, venga investita dalla proprietà di essere ‘differente’ dalle cose che costituiscono questo tuo paradigma: questa differenza va sanata, cioè spiegata, giustificata, per far ciò si riconduce la differenza ad una causa. Fra le cause preferite c’è la ‘vecchiaia’, la ‘malattia’, il ‘punto di morte’, ma non si può dimenticare la popolarità dell’’innamoramento‘ (a maggior ragione se coniugato con ‘vecchiaia’ o con ‘malattia’), né – si può dimenticare – il successo storico della ‘conversione’, come quella di San Paolo quando cade da cavallo. Della legittimità del ricondurre quella differenza a quel sanatore del paradigma alterato e non ad altri, cioè a quella causa, di questa legittimità arrivano ad occuparsi perfino i tribunali. E lì se ne sentirebbero delle belle, perché è ovvio che il paradigma non è qualcosa che si trova in natura, bell’e fatto, qualcosa che è così e basta, qualcosa di uguale per tutti in tutti i momenti storici; il paradigma è qualcosa che cambia con la norma sociale, è il prodotto di un dominio ideologico, di opzioni dichiarate e consapevoli come di opzioni né dichiarate né consapevoli, anche quando fra quello della gente comune e quello dei tribunali sussista qualche significativa differenza.
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Se ne sentirebbero delle belle perché i tribunali hanno la fantasiosa pretesa di esplicitare la certezza del diritto; per cui gli tocca fingere l’extrastoricità della norma, attribuendone la paternità o alla natura particolarmente impicciona o a una cultura che, per quanto dotata di sempiternità e universalità, non sarebbe mai e poi mai al di sopra di ogni sospetto. Allora, anche il diritto di essere sé stessi sempre e comunque sembrerebbe traballante e incerto. Non a caso, dicevamo, come diritto non se ne parla proprio. Traballa tanto che forse sarebbe ora di chiederne il regolare esercizio. Non si sa mai: da un po’ di tempo in qua furoreggia il modello di uomo che vorrebbe in tutti noi, tanti dr. Jekill, altrettanti mr. Hyde. Il problema è: come regolare, come criterizzare il passaggio dall’uno all’altro. Ma facciamo presto, perché se come il dr. Jekill siamo tutti rispettabilissimi, come mr. Hyde siamo carne da cannone”17. Il blocco scatta anche quando percepiamo che qualcuno vuole violare segreti ritenuti intimi, come quelli propri o della propria famiglia. In un rapporto sessuale si dice, appunto, che ci si può sentire bloccati se accade qualcosa che procura fastidio ad uno dei due partner. Questi cercherà, verosimilmente, di interrompere il rapporto. Il blocco subìto genera comunque inquietudine e disagio, perché il nostro valore come persone viene sminuito. Blocco imposto (attivo) In questi casi il blocco viene instaurato perché socialmente giustificato o tollerato. È atteso e magari prescritto. Spesso si verifica in situazioni che si ripetono (istituzioni concentrazionarie, realtà caratterizzate da rapporti gerarchici: medici, vita militare, burocrazia ecc.). Rientra in questo ambito anche il blocco relativo al rispetto solo formale dell’altro, cosicché gli altri perdono valore, sia da un punto di vista sociale che personale. Nel blocco che imponiamo agli altri non vi è l’istinto a ritrarsi o ad allontanarsi, ma a tenere a distanza. In molti casi, nel blocco imposto, si sottrae agli altri territorio. È la distanza che l’uomo di potere pone tra sé e gli altri, sono i li-
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miti che pone riguardo all’essere eventualmente avvicinato. È l’indiscutibilità tendenziale delle sue decisioni. Si tratta di un tipo di blocco che approfondiremo nel corso del libro. Blocco precondizionato L’essere umano ricerca l’espansione, cioè la gratificazione. Tuttavia, perché ciò sia possibile, occorre credere in qualcosa, perché questo determina dei termini di confronto, dei presupposti da cui partire per qualsiasi valutazione sugli esiti, siano essi positivi o negativi. Hillman ha scritto che “Vediamo le idee e al tempo stesso vediamo per mezzo di esse”18. La ‘fisicizzazione’ delle idee è un’illusione di cui abbiamo bisogno, e più si sviluppa la società, più si sviluppano le illusioni per rendere possibile la convivenza in una realtà sempre più complessa. Il blocco si attiva per dipendenze dell’operare socialmente legittimate: i termini di confronto cui si ricorre, per inquadrare situazioni e relazioni, sono socialmente determinati o comunque influenzati. Ad esempio si verificano reazioni di blocco quando non sono rispettati criteri predefiniti relativi alla gestione dello spazio, delle risorse (‘prova ad essere indifferente quando sono finiti i soldi’ recitava una vecchia battuta), ad aspetti che generano frustrazione o ripulsa. Non solo, spesso è predefinita anche la dimensione temporale considerata accettabile, come dimostra questo esempio presentato da Ceccato, rispetto al ristorante: “Ci si siede, e sulla tavola si trovano già acqua e vino. Ci si serve, si serve il vicino. Tutto bene, ma sino ad un certo punto, perché di far questo spesso non ci si accorge, va da sé, d’abitudine. Ma se l’acqua e il vino mancano e si chiedono al cameriere, e questi tarda qualche minuto? Non è certo che ci si disidrati, ma basta una piccola attesa perché di essi si senta il bisogno, che sembra sospingerci alle spalle, ed il desiderio, che sembra tirarci per davanti, di quell’acqua e quel vino. E quando compaiono, si prova una soddisfazione, un sollievo, anche se piccolo, ben avvertibile”19. Lo stesso senso di disagio e di crescente esasperazione lo proviamo quando abbiamo un appuntamento importante cui non
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riusciamo ad arrivare, perché bloccati nel traffico, o a causa di un imprevisto che si protrae. Raramente si vive al presente. Più spesso si costituisce un intervallo temporale in relazione all’obiettivo che ci si pone. La durata ritenuta ragionevole per arrivare al suo perseguimento è in qualche modo socialmente predefinita. Il periodo di passaggio diviene funzionale al raggiungimento della meta e viene vissuto in funzione del futuro. Nel blocco l’attenzione ‘stacca’ rispetto a ciò che si stava facendo. In particolare non si mantiene memoria e continuità riguardo al passato. Il blocco parte da sé stesso, il passato non conta più, vale il presente e l’immediato futuro. Questo potrebbe spiegare l’insorgere del razzismo in contesti in cui precedentemente non era percepito o, se lo era, si manifestava in forma latente. Potrebbe spiegare anche il ricorso ad atti di crudeltà tra persone che precedentemente convivevano più o meno pacificamente, oppure nei confronti degli stessi familiari, come talvolta accade. Non si avrebbe insomma memoria e consapevolezza delle nostre contraddizioni. Questo rientrerebbe nella modalità di operare dei neuroni, e dei percorsi neuronali, che si ‘disattivano’ a vicenda. Lakoff parla di questo fenomeno, che agisce a livello cerebrale, ed afferma che “L’attivazione di un dato frame tende a inibire l’attivazione di frame alternativi”20. Il blocco non è irrazionale in sé, risponde ad una logica lineare che rinuncia alla relazione con l’altro, in certi casi deliberatamente. Come sottolinea Lakoff “vediamo noi stessi come se avessimo solo le scelte definite dai frame e dalle narrazioni culturali del nostro cervello. E viviamo le scelte delle narrazioni fatte per noi dal nostro cervello senza esserne consciamente consapevoli”21. Anche secondo il premio Nobel Daniel Kahneman “non siamo consapevoli di cambiare idea anche quando lo facciamo: inoltre, dopo aver cambiato idea, la maggior parte di noi ricostruisce le idee che aveva in precedenza modellandole sulle nuove convinzioni e si persuade di aver sempre ragionato secondo il nuovo schema”22. Si tratta delle dipendenze dell’operare.
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Ceccato ricorda che “ognuno generalizza su di sé”23 e citando Aldous Huxley chiarisce che: 1) ognuno nota nella vita solo gli eventi che confermano la sua visione del mondo ed il suo modo di viverci; 2) siamo convinti che la nostra sia la sola chiave interpretativa rispetto a ciò che accade, per cui “Il cattivo come potrebbe interpretare ciò che riceve come azione buona? Ed il buono come azione cattiva? Ecco dunque l’eccesso di diffidenza o di conferma”24. D’altra parte, l’attenzione porta alla coscienza determinati elementi a scapito di altri, come nel caso di chi legge un libro: si concentra sui caratteri e lascia il bianco della pagina, mentre per un grafico potrebbe accadere l’inverso25. Nel nostro rapporto con ciò con cui dobbiamo fare i conti, partiamo da atteggiamenti di fondo che ci caratterizzano fin dall’infanzia: sfiducia, ottimismo, pessimismo, paura, ecc. Questi atteggiamenti proiettivi si autoalimentano, divengono costitutivi, perché la ricerca di regolarità avviene per confermare il proprio punto di vista. Ciò determina delle dipendenze dell’operare soggettive, perché colui che cerca conferme al proprio punto di vista poi le trova. Si dà vita a profezie che si autoavverano e che ci confermano nel nostro punto di vista. Come colui che crede nell’astrologia non farà che prendere atto delle concordanze con le sue credenze, rimuovendo ciò che le smentisce. In questo modo, come abbiamo già visto, anche molti nostri giudizi morali, così come i giudizi estetici, sono legati a dipendenze dell’operare, che solo a posteriori cerchiamo di giustificare sanandole in qualche modo. Questi casi avvengono continuamente, nei nostri rapporti con gli altri: ci convinciamo della giustezza e della coerenza delle nostre sanature, arbitrarie ed a posteriori. In definitiva, le dipendenze dell’operare si saldano in modo inscindibile con le sanature, confermando la univocità della consapevolezza. Così ci sentiamo autorizzati frequentemente a perpetuare tali comportamenti. Ciò fa sì che abbiamo un’opinione delle nostre ragioni che gli altri spesso non condividono, perché ne percepiscono l’incongruità. È la parte che ci è nascosta, che risiede nei punti ciechi. Questo rende possibile il per-
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petuarsi degli aspetti negativi del nostro comportamento, che ci vengono rimproverati e che non riconosciamo, il ripetersi delle conseguenze delle nostre azioni, di cui rimaniamo vittime. È importante cercare di esserne consapevoli. A seconda dei punti di vista, si dà vita a narrazioni che possono essere opposte relativamente ad uno stesso evento. Accame osserva che “L’applicazione del rapporto in una certa struttura è teoricamente libera – non solo perché il libero ed il determinato sono sempre e comunque risultato di nostro operare mentale –, ma perché chi opera può operare in un modo o nell’altro fermo restando che in certe condizioni certe operazioni sono più facili ad eseguirsi di altre. È difficile, per esempio, che il poveraccio in catene appeso alle mura del castello si categorizzi come ‘libero’, ma nulla teoricamente glielo vieterebbe – libero di vedere la sua situazione rosea alla luce dei valori per i quali ha agito finendo là dove appunto è finito”26. Insomma, è autocontraddittorio ritenere che siamo ‘liberi di’, o ‘costretti a’, perché “si tratta di due schemi mentali alternativi che, come per tutto ciò che facciamo con la nostra testa e con il nostro corpo, usiamo perlopiù inconsapevolmente. Il fatto di rendersene consapevoli non ci mette di per sé in grado di controllarne poi l’uso a piacere in qualsiasi contesto possibile. Ci mette in grado di provarci”27. Vi sono casi in cui occorre fingere di assumere liberamente atteggiamenti richiesti implicitamente, se non si vuole soccombere a livello sociale. Si torna così al blocco passivo. Ne parla Jill Nelson, reporter afroamericana a proposito del suo comportamento durante un colloquio di assunzione al “Washington Post”: “Ho anche compiuto il tipico atto di compromesso che i neri sono costretti a fare quando si confrontano con i bianchi: ho dovuto da una parte smussare i contorni della mia personalità per non intimidirli e dall’altra mantenere salva la mia integrità. Esiste un confine sottile tra il giocare allo zio Tom e l’intimidire (Mau-Mauing). Oltrepassare quel confine può significare il disastro. Da una parte c’è il lavoro e il disprezzo di sé, dall’altra il dubbio onore della disoccupazione e l’integrità personale”28. Nel tempo, si può arrivare a giustificare tale scissione da parte di chi la vive, ricorrendo a razionalizzazioni quali: ‘è sempre stato così’,
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‘devo loro molto’ ecc. Magari pretendendo che anche i propri simili si debbano assoggettare alle stesse regole, così come avveniva con il fenomeno del nonnismo nelle caserme. Il né uno né molti ci aiuta a convivere con le nostre contraddizioni, generandole, assimilandole, rendendole invisibili, relativizzandole.
NOTE 1
Terzani T. “Un altro giro di giostra”, Longanesi, Milano, 2004, pag. 242. Navarro J. Karlins M. “What Every Body is Saying”, Collins Living, New York, 2008, pag. 27. 3 Ibidem, pag. 27. 4 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 24. 5 Ibidem, pagg. 22-23. 6 Ibidem, pag. 23. 7 Carlotto M. “Il fuggiasco”, edizioni e/o, Roma, 2009, pag. 91. 8 Ceccato S.”Itinerarium mentis in Deum. Quadro sacrale operativo”, in Amietta P. L., Magnani S. “Dal gesto al pensiero. Il linguaggio del corpo alle frontiere della mente” Franco Angeli, Milano, 1998, pag. 296. 9 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 23. 10 Ha lo stesso senso riferirsi all’altro con termini tipo: “quello lì”, “coso” ecc. 11 Harrison G. e Callari Galli M. “Nè leggere, né scrivere. La cultura analfabeta: quando l’istruzione diventa violenza e sopraffazione”, Feltrinelli, Milano, 1974, pag. 121. 12 Sereny G. “In quelle tenebre”, Adelphi, Milano, 2005, pag. 264. 13 Crespi F. “Imparare ad esistere. Nuovi fondamenti della solidarietà sociale”, Donzelli, Roma, 1994, pag.64. 14 Buber M. “Distance and Relation” Psychiatry, 1957 – 20. 15 Goffman E. “Stigma”, Laterza, Bari, 1970, pag. 178. 16 Moessinger P. “Le jeu de l’identité”, Puf, Paris, 2000, pag. 33. 17 Accame F. e Oliva C. “Transazioni Minori nel commercio dell’ideologia”, Elèuthera, 1987, pagg. 147-148. 18 Hillman J. “Forme del potere. Capire il potere per usarlo in maniera intelligente”, Garzanti, Milano, 1996, pag. 23. 19 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 15. 20 Lakoff G. “Pensiero politico e scienza della mente”, Bruno Mondadori editore, Milano, 2009, pag. 265. 21 Ibidem, pag. 40. 22 Cit. in Hallinan J. T. “Il metodo antierrore”, Newton Compton, Roma, 2009, pag. 86. 2
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Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 70. Ibidem, pag. 69. 25 Cfr. Vaccarino G. “La mente vista in operazioni”, Casa editrice d’Anna, Messina-Firenze, 1974. 26 Accame F. “Firma altrui e nome proprio. Un saggio sociologico di sé stessi”, Odradek, Roma, 2009, pag. 36. 27 Accame citato in Ranci F. “Consapevolezza e libertà”: http://www.arivista.org/?nr=307&pag=64.htm, ultimo accesso 20.6.2013. 28 Cit. in Akerlof G. A., Kranton R. E. “Economia dell’identità. Come le nostre identità determinano lavoro, salari e benessere”, Laterza, 2012, pag. 132 24
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TIPOLOGIE DI BLOCCO E TRASFORMAZIONI Il blocco può essere analizzato in relazione a cinque ambiti: 1. Estraneità ed omissione alla sollecitazione altrui 2. Blocco rispetto al destino altrui. 3. Ostilità e conflitto. 4. Blocco verso sé stessi. 5. Blocco come fenomeno collettivo.
1. Estraneità ed omissione alla sollecitazione altrui In questo tipo di blocco si agisce per rendere impermeabile la persona agli altri. Ciò può avvenire in due contesti: nella estraneità messa alla prova della prossimità coatta e nella omissione alla sollecitazione altrui. Il termine di confronto da cui si parte è che l’altro sia un estraneo, per cui ci si regola come se non esistesse, o come se costituisse una presenza irrilevante1. Nella estraneità il rifiuto della relazione è reciproco, nella omissione alla sollecitazione altrui si nega un rapporto richiesto da altri, per varie ragioni. Da un punto di vista emotivo il blocco della estraneità è funzionale a superare una situazione che genera imbarazzo. Il messaggio è: pur essendo consapevole della tua presenza non invaderò il tuo spazio ignorandoti e, nello stesso tempo per reciprocità, tu non invaderai il mio. Estraneità e prossimità coatta. La prossemica La distanza personale viene vissuta come norma sociale, ma in realtà rientra nella prossemica, cioè nella affermazione della territorialità, importantissima anche a livello animale2. ‘Distanza personale’ è un termine coniato da Hediger e “si riferisce all’intervallo mantenuto dagli animali che seguono la norma del non-contatto tra sé e i loro simili ”3. Nel caso degli uomini, le distanze, le ‘bolle personali’, variano da un contesto culturale all’altro, e determinano reazioni di tipo emotivo e fisiologico.
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Hall ha definito e misurato quattro ‘zone’ interpersonali: ● La distanza intima (0-45 cm). ● La distanza personale (45-120 cm) per l’interazione tra amici. ● La distanza sociale (1,2-3,5 metri) per la comunicazione tra conoscenti o il rapporto insegnante-allievo. 4 ● La distanza pubblica (oltre i 3,5 metri) per le pubbliche relazioni . Hall ha rilevato che la distanza in cui ci si sente a proprio agio con le altre persone dipende dalla propria cultura: “i sauditi, i norvegesi, gli italiani e i giapponesi hanno infatti diverse concezioni di vicinanza”5. Cioè dipendenze dell’operare che presentano termini di confronto diversi. Ad esempio “gli arabi comunicano verbalmente tra loro in stretta vicinanza, alitandosi addosso, in quanto la percezione dell’odore del partner è elemento costitutivo dello scambio comunicativo”6. Al contrario “gli europei e gli asiatici si tengono invece fuori dal raggio di azione del braccio. In alcune regioni meridionali dell’India, dove la distanza che gli appartenenti alle diverse caste devono mantenere fra di loro è rigidamente stabilita, quando gli individui della casta più bassa (paria) incontrano i bramini, la casta più elevata, debbono tenersi a una distanza di 39 metri. Altra differenza è quella tra i sessi, i maschi si trovano più a loro agio a lato di una persona, invece le femmine di fronte”7. In ogni caso la spazialità è fondamentale nel caratterizzare le relazioni sociali ed il nostro collocarci nel mondo. La prossemica indica la propensione che uomini e animali hanno ad espandersi nello spazio che li circonda. Nell’edizione del libro di Hall sulla prossemica pubblicata nel 1982, mi è sembrata particolarmente interessante una nota del traduttore Massimo Bonfantini, sulle misure indicate dall’autore rispetto alle distanze individuate per le relazioni sociali. Scrive Bonfantini: “È evidente che la misura di 4 piedi ha per un anglosassone, una connotazione diversa della misura di mt. 1,20, per noi, anche se tutte e due indicano la medesima distanza. Cioè, ‘4 piedi’ ha un sapore di ‘cifra tonda’, indica dunque una distanza valutata ‘ad occhio’, ap-
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prossimativamente, mentre ‘mt. 1,20’ dà l’impressione di una distanza misurata esattamente, ‘col metro’. Il lettore dovrà tenere presente questa discrepanza connotativa, derivante dalla differenza dei due sistemi di misura, per valutare esattamente il significato del testo, qui e altrove. È interessante notare, inoltre, le implicazioni prossemiche della discrepanza ora osservata. Sembra, infatti, che un pittore italiano o francese (o in generale di una cultura che faccia uso esclusivo del sistema metrico decimale) difficilmente sarebbe indotto a indicare la ‘distanza del ritratto’ come compresa fra 1,20 e mt. 2,40; e più probabilmente la direbbe compresa fra ‘il metro abbondante e i due metri e mezzo’. Cioè, la stessa distanza di un metro è vista in modo differente da un anglosassone e da un europeo: ‘non è la stessa cosa’. Sembra probabile che ciò comporti anche qualche differenza nell’uso dello spazio, e che questo sia legato, anche, all’unità di misura scelta dalle diverse culture. Il rapporto fra uso dello spazio e unità di misura potrebbe, comunque, essere illuminato solo da una ricerca specifica”8. Sembra insomma che l’unità di misura condizioni il nostro modo di percepire le cose, le stesse cose. Inconsapevolmente, grazie alle dipendenze dell’operare, traduciamo l’unità di misura che utilizziamo in un elemento di ordine riguardo a ciò che ci circonda, per cui tendiamo a far coincidere i fenomeni e le distanze – ciò che percepiamo – con la cifra ‘tonda’, come se questo confermasse l’ordine recondito che attribuiamo al mondo. Invece si tratta di un ordine che noi, con i nostri criteri, imponiamo e che ci illudiamo provenga da una natura decriptata. Estraneità e prossimità coatta. L’esempio dello sguardo Spesso le traiettorie delle nostre vite si incrociano con quelle delle vite altrui, in ambienti e contesti ritenuti anonimi ed in cui si agisce come se si dovesse mantenere l’anonimato. Si tratta, ad esempio, di ascensori, treni, mezzi di trasporto pubblico, locali pubblici. Si ricorre così al blocco, assumendo atteggiamenti di estraneazione. Questo tipo di atteggiamento è sintetizzato dallo sguardo, che diviene
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assente, specialmente in ambienti angusti, come nel caso di ascensori, o sovraffollati, come nel caso di ambienti pubblici. In queste situazioni, lo sguardo che cade incidentalmente sugli altri è come se si riferisse non a persone, ma a cose, ‘tappezzeria’, in definitiva uno sguardo privo di interesse. Vi è anche in questo caso il rifiuto di una relazione, ma tale rifiuto è reciproco. Il rifiuto può essere protratto e rivelarsi anche impegnativo, come accade ad esempio in treno, nel caso di un lungo viaggio: “Non fissare le persone richiede di guardare molto attentamente in altre direzioni, il che può rendere l’intera questione qualcosa di molto più conscio di quanto dovrebbe essere, perché potrebbe anche esprimere troppo vivamente l’incapacità o il rifiuto a impegnarsi con le persone presenti”9. Per questo si legge, si parla sottovoce con un eventuale amico, si lavora con il pc, oppure si ricorre ad un rapporto simbiotico con il cellulare, attraverso chiamate, messaggi e quant’altro. Quando sentiamo che c’è qualcosa in noi che non va, ci preoccupiamo: esteriormente si finge indifferenza e non si guardano gli altri. Prevale il timore di mettersi alla mercé degli altri se si chiede aiuto, almeno fino a che non se ne può fare a meno. Anche rispetto all’ascensore, le strategie per negare la relazione, possono rivelarsi differenziate in base ai contesti di provenienza, “ ad esempio gli europei in ascensore si pongono a cerchio con la schiena appoggiata alle pareti, mentre gli americani si pongono in fila con la faccia rivolta alla porta10. .È chiaro che in quest’ultimo caso si agisce in modo che gli sguardi non si incrocino. “Attendere l’ascensore costituisce per tutti un momento critico. Si arriva davanti alla porta chiusa e si preme il bottone. Un’altra persona si avvicina: dopo un’occhiata di reciproco apprezzamento, si guarda entrambi da un’altra parte e si continua ad aspettare, pensando nel frattempo cose sgradevoli l’uno dell’altro. (…) Fissare l’altro negli occhi sembra azzardato, e di solito gli occhi non reggono. Le scarpe sono oggetti convenienti da fissare – sia le proprie che quelle di altre persone –, sebbene concentrarsi troppo su questo oggetto possa dare l’impressione di un incipiente feticismo per le scarpe.
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(…) (Nell’ascensore) Alcune persone guardano la nuca di quello che manovra, altre fissano come in trance le luci-spia che segnano i piani, come se la sicurezza del viaggio dipendesse da questa profonda concentrazione”11. Queste dipendenze dell’operare possono apparire scontate e comuni, ma sono il frutto di condizionamenti sociali, e possono essere considerate del tutto assurde da chi appartiene ad altre culture. Ad esempio, nella nostra cultura lo sconosciuto è un estraneo, quasi un invisibile, nella cultura orale invece costituisce un’opportunità di incontro. Mentre nel nostro mondo prevale l’ostentazione del disinteresse nei confronti dell’estraneo, nella cultura orale il silenzio viene vissuto come un atteggiamento ostile e innaturale, che crea un disagio diffuso, un impasse che occorre collaborare a superare. Nella cultura orale, il silenzio è ostile, perché ignora l’altro, quindi ne negherebbe l’esistenza. Nella cultura orale si viene guardati apertamente, si viene riconosciuti, o altrimenti ci si domanda con chi si ha a che fare. E tutto questo viene ritenuto legittimo. Nella cultura scritta ci si ignora se non ci si conosce. Nella cultura orale, se si è insieme ad altre persone in uno spazio chiuso, è educato attaccare discorso. Nella cultura della parola scritta tutto ciò viene vissuto come intrusivo. Nella cultura orale si cerca di riconoscersi anche tra estranei, nella ricerca delle cose che ci uniscono12. Si tende ad allontanare solo chi può apparire pericoloso. Nella nostra cultura siamo orientati alla prevenzione del rischio e quindi temiamo l’estraneo e riteniamo legittimo che l’altro sia sospettoso nei nostri confronti. Nella nostra cultura ci si adatta alla prossimità coatta con uno stato d’animo di blocco. E tali dipendenze dell’operare sono così radicate che l’atteggiamento di estraneità normalmente rimane anche se, per qualche motivo, si verifica un imprevisto. Per esempio, nel caso di una frenata brusca in un pullman, si ricorre a forme di comunicazione estremamente formali, per mantenere comunque le distanze. È interessante notare che anche negli Stati Uniti, in cui è importante il mantenimento di certe distanze fisiche per consentire che l’interazione si svolga in modo sereno, se gli individui “si trovano in una situazione in cui non si richiede loro di avere un’interazione come per
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esempio in un autobus, possono stare molto vicini, fino al punto di avere un contatto completo”13. Lo sguardo assente, il rifiuto di percepire l’altro come persona, annulla il bisogno della distanza, perché nega l’esistenza altrui. Un esempio di blocco e di tensione, in una condizione di forte prossimità coatta, avviene quando si è sottoposti a igiene dentale o ad un intervento chirurgico da parte di un odontoiatra. Lo sguardo fisso sul dentista o sull’igienista, che pure stanno intervenendo su di noi, verrebbe vissuto con disagio e come intrusivo. Gli sguardi si incrociano solo in caso di domande dirette. È come se ci estraniassimo da ciò che ci stanno facendo. È forse ciò che accade anche a chi è sottoposto a tortura. La prossimità coatta viene vissuta con fastidio, ma tollerata come condizione di necessità. La reazione sarebbe diversa se, in un luogo pubblico relativamente affollato, qualcuno si appoggiasse a noi non essendocene la necessità. Le dipendenze dell’operare ci farebbero reagire per ristabilire la bolla personale. Nel nostro mondo, quando si verifica una situazione di prossimità coatta, lo spazio non viene condiviso (come accade nella cultura orale), ma ritagliato: ognuno ne occupa una parte e se lo spazio si riduce a niente, diveniamo noi il ‘muro’ ed il confine del nostro spazio. La suddivisione degli spazi non è egualitaria, perché coloro che ricoprono posizioni di potere o di prestigio tendono a occupare uno spazio maggiore, e ciò viene concesso e ritenuto legittimo. Possono rinunciare al loro spazio in più, ma si tratta di una ‘graziosa concessione’. Questo accade anche nella cultura analfabeta. Un esempio, della tendenza a ritagliare lo spazio in condizione di prossimità coatta, può essere reperito nell’uso delle panchine pubbliche. Ipotizziamo di occuparne una: se qualcuno si vuol sedere a sua volta, molto probabilmente ce ne chiederà il permesso. Noi lo daremo e cederemo metà della ‘proprietà’ che, in qualche modo, percepivamo di avere della panchina. Cioè: il permesso che ci viene chiesto è per compiere un’operazione mentale che ci permetta di ridurre della metà l’incorporamento della panchina, dopo di che ci sposteremo su una metà della panchina stessa.
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Questa tendenza a suddividere non riguarda solo lo spazio, ma avviene anche con il tempo, che assumiamo come una sorta di nastro, da ben amministrare. Per citare Hall: “Il tempo da noi è trattato come un materiale; impariamo a guadagnarlo, a spenderlo, a risparmiarlo, a sprecarlo”14. I Sioux hanno un concetto del tempo completamente diverso, come testimonia un nativo sovrintendente per i Sioux nello stesso libro: “Cosa direbbe d’un popolo che non ha nessuna parola per indicare il tempo? Quanto a ciò, il mio popolo non ha parole per dire ‘tardi’ o ‘attesa’. Non sanno cosa sia aspettare o essere in ritardo”15. “Per chi è cresciuto nell’ambito della tradizione europea il tempo è qualcosa che avviene tra due punti. La ‘durata’ è il presupposto implicito più largamente condiviso sulla natura del tempo nel mondo occidentale. Pare inconcepibile a chi di noi ha imparato a credere questo isolato tanto naturale che si possa organizzare la vita in altro modo. Però uno dei miracoli dell’esistenza umana è l’enorme varietà che compare in questioni così fondamentali. Per esempio gli Hopi sono separati da noi da un tremendo abisso culturale. Il tempo infatti non è per loro durata, ma molte cose diverse. Non è fisso o misurabile come lo consideriamo noi, né è una quantità. È quel che accade quando il grano matura o una pecora cresce – una sequenza caratteristica di accadimenti. È il processo naturale che ha luogo mentre la sostanza vivente recita il dramma della vita. Pertanto c’è un tempo differente per ogni cosa, che può essere alterato dalle circostanze. In passato si vedevano case Hopi che erano sempre in costruzione, per anni e anni. Apparentemente gli Indiani non avevano nessuna idea che una casa potesse o dovesse essere costruita in un dato periodo di tempo, poiché non potevano attribuirle un sistema temporale intrinseco come lo avevano il grano e la pecora. Questo modo di pensare costa al governo migliaia e migliaia di dollari in progetti di costruzione, poiché gli Hopi non potrebbero pensare che vi sia un tempo fissato in cui si deve costruire una diga o una strada. Tentativi per fare loro rispettare un orario furono interpretati come intimidatori e non fecero che peggiorare le cose”16. “Per i Pueblos gli eventi cominciano quando il tempo è maturo e non prima”17. Ecco perché non ha senso domandare a che ora inizia
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un avvenimento tra quelle popolazioni. Inizierà quando le cose saranno pronte. La nostra è la cultura del numero, in cui tutto viene suddiviso, frazionato e ricomposto. Ed è la società della competizione e dell’efficienza, della continua misurazione delle performance. Nella nostra cultura tempo e spazio divengono ‘proprietà’ di cui disporre. Questo non avviene nella cultura orale, dove non c’è fastidio rispetto ad una prossimità ritenuta eccessiva, l’altro viene accolto e lo spazio ed il tempo vengono condivisi. Tutto avviene contemporaneamente, senza che abbia senso suddividerlo e ordinarlo. Nella prossimità coatta ci si isola, mentre nella cultura orale si rifugge la solitudine. Quando si dispone di un bene, lo si può condividere o suddividere. In molti paesi del sud del mondo si agisce ancora nella logica della condivisione per cui, ad esempio, si mangia tutti assieme servendosi dallo stesso vassoio. Si tratta di una modalità di consumo del cibo che crea insanabili tensioni tra i detenuti italiani ed i detenuti che provengono dall’Africa, o da alcune parti dell’Asia. Le reazioni di blocco dei detenuti italiani riguardano l’igiene, ma in realtà scattano dipendenze dell’operare in cui ci percepiamo forzati da comportamenti di condivisione che non ci appartengono, che ci allarmano. Dobbiamo sapere qual’è il nostro cibo, e mantenere le distanze sociali prescritte. Altrimenti scatta la sensazione di sentirsi ‘invasi’, si attiva il blocco ed il timore di venire raggirati o contaminati. Accame propone due situazioni particolari di estraneità in una condizione di prossimità coatta. Nella prima si racconta di una persona che si trova a teatro. È arrivato presto e in sala c’è solo una coppia. Accade che i posti loro riservati siano adiacenti. Questo crea una situazione di imbarazzo, che termina quando il teatro si affolla. “Nel nostro zoo, lo sappiamo, la vita è dura: i diritti sul territorio sono una cosa seria. Una prossimità coatta in un teatro vuoto deprime e offende; una prossimità coatta in un teatro pieno è accettata e a volte perfino goduta. Come dalla seconda può nascere solidarietà di
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branco, dalla prima può nascere la solitudine più nera ed il perenne rifiuto dell’altro”18. La prossimità coatta è sgradevole o piacevole a seconda dei termini di confronto che adottiamo, dalle aspettative sociali. Cosicché si vive la prossimità coatta con uno stato d’animo di espansione in un teatro, ma anche in una festa popolare, durante una ricorrenza religiosa, o magari in una manifestazione politica. Le prescrizioni sociali sono importanti, riguardo alle dipendenze dell’operare ed al kred attribuito. Un esempio lo possiamo trovare nella liturgia della messa cattolica. Nei tempi passati la messa richiedeva una partecipazione corale, ma la richiesta della grazia è sempre stato un fatto individuale. L’atteggiamento di fondo era in genere individualista. In una strepitosa gag di Massimo Troisi e Lello Arena, si descriveva la competizione tra due devoti di San Gennaro, per avere la precedenza nell’ottenimento della grazia rispetto all’altro fedele. L’aver imposto lo scambio del segno della pace durante la funzione religiosa causò molte resistenze inizialmente, perché le persone dovevano fare i conti con uno stato d’animo di blocco, conseguente ad una familiarità imposta con persone considerate fino ad allora estranee. Successivamente questa difficoltà è stata superata e, in qualche modo, il segno della pace viene scambiato con una disponibilità nei confronti degli altri molto maggiore. Nel caso del teatro l’intimità è attesa e vissuta nella massa. Invece, occupare posti contigui in un ambiente vasto, crea disagio, perché riguardo alle dimensioni della sala si è troppo vicini, ci si sente invasi. Ciò è reso possibile dalle regole della assegnazione casuale dei posti, che cozza con le regole della prossemica e con le aspettative sociali. Si tratta di una situazione che crea imbarazzo perché non può essere risolta. Allontanarsi dal proprio posto sarebbe comunque una forma di scortesia nei confronti dell’altro. Il secondo esempio descrive il disagio del blocco originato dalla prossimità coatta e come possa essere risolto con un’operazione simbolica, infatti: “A certi eventi fisici invero di minima portata attribuiamo significati decisivi, che cambiano una situazione da così a così. La situazione, in certi casi, parrebbe addirittura la stessa, ma
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c’è stato un qualcosa – qualcosa di mentale – che ha fatto sì che noi non la si viva più come prima. Magari trasformando il dispiacere in piacere, o l’imbarazzo in agio. (... nei ristoranti) Facciamo il caso che si sia in due e non ci sia libero altro che un tavolino attaccato a un altro, già occupato”. Si crea una situazione di disagio che il gestore del locale può risolvere facilmente, in che modo? “sposta di un paio di centimetri il tavolo dall’altro già occupato. Quella è la mossa decisiva. Da quel momento il mondo è mentalmente diverso – e, fisicamente, drammaticamente uguale. Il vostro umore potrebbe perfino trarne un immediato beneficio, ma qualsiasi cosa diciate voi o dicano loro è irrimediabilmente in comune, la direzione dei vostri discorsi assumerà gradualmente perfino orientamenti similari, vi alzerete più tardi con opinioni ben fondate sui destini dei vicini commensali e con la piena consapevolezza che da altrettale dono del cielo siano stati toccati loro. Lo spostamento fisico del tavolo è del tutto ininfluente, ma le operazioni mentali alle quali ci invita il ristoratore sono invece quelle da cui dipenderà la nostra prossima serenità o il nostro prossimo malumore: Il diaframma è prima mentale e poi fisico: la ricchezza di cui ci siamo dotati nel corso dell’evoluzione è veramente enorme. Ci consente di spezzare e cementare universi a piacere, a seconda delle necessità; porre barriere insormontabili laddove non si vede alcunché o riunificare i frammenti perduti di un mosaico sempre nuovo. Tocca a noi valercene: chi ci riesce è atteso dalla gratificazione di sentirsi sempre e comunque protagonista, artefice di sé; chi non ci riesce è atteso dalla frustrazione di sentirsi sempre e comunque subordinato, vittima forzatamente passiva di una sovrana congiura cosmica nonché delle inette trame altrui”19. Niente giustifica in sé uno stato di animo di blocco, oppure di godersi la prossimità coatta. Tutto è legato a come le prescrizioni sociali ci spingono a interpretare e vivere una determinata situazione. Si tratta di operazioni che si traducono in dipendenze dell’operare. Ci espandiamo in ciò che possediamo o che ci viene attribuito. Il tavolo viene così incorporato da parte del cliente a cui viene assegnato.
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Nel momento in cui il tavolo viene separato, proviamo lo stesso sollievo che si prova quando una persona, che ci è addosso in un ambiente affollato, si stacca anche di poco: torniamo ad espanderci, invece che sentirci invasi e forzati. Il limite del tavolo diviene il confine simbolico della nostra proprietà, e questo spinge a rilassarci ed a parlare, a sentire e farci sentire: perché siamo all’interno della nostra proprietà, e gli altri sono chiamati a considerarci un altrove. A questo punto la prossimità coatta viene goduta, come a teatro. Questo avviene perché ci si aspetta di consumare il pasto da soli e non con estranei, protetti dalla bolla personale che coincide con il tavolo. In questo caso la bolla personale definisce l’intimità. Si tratta di aspettative socialmente legittimate, di termini di confronto socialmente condivisi e che, tuttavia, devono fare i conti con l’autorità che nel ristorante gestisce l’organizzazione del territorio, cioè il cameriere. Se i tavoli non fossero stati separati il cliente poteva decidere malvolentieri di accettare la situazione (blocco passivo), oppure reagire con un ‘no’ ed eventualmente andarsene (blocco attivo). Questo comportamento sarebbe incomprensibile in una sagra paesana, in cui le persone vengono servite in tavolate comuni, e già si è mentalmente preparati a tale condivisione. Chi assume un atteggiamento di blocco in situazioni di prossimità coatta può accettare di incrociare lo sguardo dell’altro per un saluto frettoloso, come forma di educazione, per poi guardare subito dopo altrove. Un ulteriore caso legato allo sguardo ed al blocco è quello della persona che interagisce con un’altra, una delle due riceve una chiamata al telefono a cui deve rispondere. Per tutto il tempo della chiamata, colui che aspetta di riprendere a parlare, può mostrare di guardare altrove20. Con il termine ‘disattenzione civile’ Goffman definisce un tipo di sguardo, sempre legato all’aspetto relazionale, che consiste nel “concedere all’altro un’attenzione visiva sufficiente a dimostrare che se ne è notata la presenza – e che si ammette apertamente di averlo visto – distogliendo subito dopo lo sguardo per significargli che non costituisce l’oggetto di una particolare curiosità o di un’intenzione specifica.
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Nel compiere questo atto di cortesia formale gli occhi di chi guarda possono incontrare per un istante quelli dell’altro, ma di solito non è ammesso alcun ‘riconoscimento’. (...) Ciò dimostra che egli non ha niente da temere o da evitare nel farsi vedere anche mentre guarda, e che non si vergogna di sé stesso, del luogo e della compagnia in cui si trova”21. È lo sguardo tipico che ci si lancia per strada alle persone che stiamo incrociando. In questo caso il kred riconosciuto all’altro è apparentemente neutro. Lo sguardo è indispensabile alla relazione. Ricordo di aver visto in un programma tv il caso di una donna sudcoreana che manovrava l’ascensore ed eseguiva performances comiche. In un altro servizio si parlava di un esperimento sulla contagiosità del riso: un attore in incognito inizia ridere in modo sempre più irrefrenabile ad una fermata affollata del bus. La gente inizia a ridere a sua volta. In entrambe le situazioni, se prima c’era l’esigenza di distogliere lo sguardo, per respingere l’altro, successivamente emergeva l’esigenza di scambiarsi occhiate divertite, di intesa e di conferma. In questi casi, il blocco viene attivato perché si considera la situazione un momento di passaggio rispetto a quanto stiamo facendo, una sospensione non evitabile in cui il contatto con gli altri è casuale e non voluto. Un fastidio da sopportare prima di rientrare nella dimensione che ci è più propria. Siamo disposti ad aprirci solo nei confronti delle persone con cui abbiamo degli interessi in comune o delle relazioni già avviate, o persone conosciute per il tramite di altre. C’è sempre meno spazio per gli incontri casuali; chi si propone viene vissuto con fastidio a prescindere; non è un caso che le agenzie di incontri siano estremamente gettonate, così come gli incontri nati via internet, vista la solitudine a cui le persone si costringono. Si accettano o si ricercano gli incontri ‘al buio’, ma si evita di iniziare un dialogo con la persona con cui possiamo per caso condividere un momento della nostra giornata. Preferiamo l’incertezza dell’incontro con lo sconosciuto totale, piuttosto che con quello che ci siede di fronte in treno.
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Credo che questa difficoltà a vivere la prossimità coatta e l’incontro con sconosciuti, sia in qualche modo legata alla cultura del libro, molto diversa, come abbiamo accennato, alla cultura orale. Qualcuno ha detto che il libro è una porta chiusa sul mondo, nel senso che il lettore si assenta da ciò che gli accade intorno, per concentrarsi sull’argomento di cui sta leggendo. Per questo viene considerato maleducato disturbare una persona concentrata nella lettura. Per lo stesso motivo, fingere di leggere può essere una buona strategie per non essere importunati. Quando ci concentriamo su qualcosa abbiamo un atteggiamento di blocco riguardo a tutto il resto, che diventa sfondo. Forse l’estraneità conseguente allo studio ed alla lettura è diventata gradualmente un modo di porsi rispetto agli altri. Si ordinano i nostri giorni, programmando eventi e cose da fare in modo lineare e ordinato. E ciò che non vi rientra è considerato sfondo, tempo di passaggio, un momento di assenza, tutto sommato da sopportare. Un caso particolare di blocco è quello di chi litiga, e si allontana furioso. È difficile che si soffermi a salutare qualcuno, resta per lo più preso da sé stesso e dalla sua rabbia. Evita di guardare chiunque. Quando si è arrabbiati si tende ad attivare il blocco nei confronti delle persone non coinvolte, perché si deve smaltire la frustrazione, abbiamo bisogno di essere soli, distanti dagli altri. Fino a quando sentiremo il bisogno di sfogarci. Rifiuto della sollecitazione altrui In questo caso si finge di non sentire chi ci interpella o che potrebbe farlo: l’altro è come se non esistesse se non lo si guarda, se non si reagisce. In questi casi si nega il rapporto. Si assiste a questi comportamenti quando, per esempio, una ragazza non vuole essere avvicinata, oppure nei confronti di una persona inopportuna che vuole avvicinarci per strada per chiederci soldi, oppure quando qualcuno compie una manovra avventata con l‘auto, e non ricambia lo sguardo di coloro che suonano il clacson imbestialiti. Oppure quando si viene colti sul fatto rispetto ad un’azione universalmente considerata negativamente. In questo modo si nega la
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situazione e la presenza dell’altro. Si ricorre insomma a quella che Goffman ha definito “una certa ‘fissità anormale nello sguardo’”22. Ne sono un esempio le persone alla sbarra in un processo e quelle che, per evitare la vergogna, si sottraggono agli sguardi altrui In genere gli altri, quando cercano di attirare la nostra attenzione, si sforzano di incrociare il nostro sguardo ma, se questo non avviene, abbandonano spontaneamente il tentativo di relazione. Al massimo si inveisce contro chi si estranea perché si è tranquilli che non reagirà. Si tratta di una reazione al blocco che si sente di subire Se invece gli sguardi si incrociano, l’altro si sentirà in diritto di imporsi o rivendicare qualcosa. Un esempio evidente di indifferenza simulata riguarda gli arbitri nelle competizioni sportive: fatti segno di insulti, lazzi e battute gridate e sentite da tutti, tuttavia continuano imperterriti a seguire la competizione ed a prendere decisioni che probabilmente daranno la stura a nuovi improperi. Nell’omissione alla sollecitazione altrui si mostra di non provare alcuna vergogna per ciò che sta accadendo. E questo è possibile finché si nega e si può negare la relazione. Insomma, è anche l’atteggiamento di chi non vuol pagare il costo di ciò che ha fatto, di chi non intende risponderne finché può, di chi ritiene di stare facendo ciò che deve anche se altri lo contestano. Chi si sente in colpa o si vergogna cerca di evitare lo sguardo altrui. Di fatto questo tipo di blocco si attiva anche se non si è osservati, quando si sente di trasgredire una regola. La si infrange isolandosi dal resto del mondo attraverso il blocco, in modo preventivo. Un’eccezione è costituita da chi detiene potere o prestigio sociale nei confronti degli altri, per questo carica il proprio sguardo di tutta la sua autorità. Nel caso abbia commesso un torto sorride minimizza il male che ha fatto e si allontana in fretta. Si tratta di uno sguardo che vuol dare la misura della distanza sociale tra chi è in posizione di potere e chi lo contesta, lo sguardo di superiorità di chi non deve rispondere di ciò che fa a persone così in basso. Ciò che colpisce è che tale tipo di sguardo, ed il suo messaggio implicito, venga in genere tollerato dai presenti. Si ritiene cioè oggettivo, per quanto irritante, il
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contenuto implicito nello sguardo in questione. Successivamente poi, magari, riparte la contestazione. I condizionamenti sociali relativi al peso della autorità si manifestano anche in tali situazioni. Omissione rispetto al bisogno di aiuto da parte dell’altro In questa casistica rientra l’omissione riguardo ad un aiuto che viene richiesto, cui si risponde con frasi tipo ‘non sono cose che mi riguardano’, ‘non mi importa’, ‘non ho sentito niente’ ecc. Si può arrivare a questo tipo di blocco anche perché ci si sente impotenti ed inadeguati ad affrontare la situazione, e si preferisce allontanarsene, perché si sente di non avere altra possibilità. Molti anni fa lessi un articolo di una bambina americana che era riuscita a sfuggire ad un bruto, scappando dall’auto in cui era tenuta prigioniera. Chiedeva aiuto piangendo terrorizzata alle auto che passavano, ma nessuno si fermò, cosicché il bruto la catturò di nuovo e la uccise. In questi casi il blocco nasce dal timore di trovarsi in una situazione imprevedibile, che ci fa paura e che cerchiamo di evitare. Fermarsi per soccorrere significherebbe anche dover mettere in secondo piano le cose che si stanno facendo, gli obiettivi che si intendono perseguire. Si tratta di un blocco imposto, in cui si tiene l’altro a distanza o lo si allontana. L’omissione rispetto all’altro avviene spesso per un calcolo utilitaristico personale. Ritroviamo spesso questo modo di comportarsi nella vita quotidiana di tutti noi, anche nelle piccole scelte: siamo sensibili alle sofferenze altrui, ma se queste hanno un costo per noi, allora le nostre priorità cambiano e privilegiamo il nostro tornaconto. Il seguente articolo è un buon esempio di tale dipendenza dell’operare: “Il lavoro minorile è uno scandalo, lo sfruttamento degli operai cinesi un’ingiustizia, la morte di mille persone nel crollo del palazzo di Dacca grida vendetta. Eppure, immersi nel mercato, tutti noi dimentichiamo i nostri standard morali. Non è una considerazione a freddo, ma il frutto di un esperimento. Un test crudo, perché condotto sulla pelle di alcuni topolini di laboratorio, ma disarmante nella sua evidenza. I volontari selezionati da Armin Falk, economista dell’università di Bonn, sono infatti persone uguali a ciascuno di noi.
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Hanno domandato loro se fosse giusto o sbagliato lasciar vivere dei topolini di laboratorio, e tutti hanno risposto ‘ovviamente sì’. Hanno poi inserito gli animali in un sistema di scambi, in cui la sopravvivenza delle cavie avrebbe comportato il costo di una decina di euro, e i volontari hanno iniziato a dire di no. La vita di animali tutto sommato insignificanti poteva benissimo essere sacrificata. Il guadagno, per la quasi totalità dei volontari, era diventato in breve tempo la variabile indipendente delle proprie scelte. Il mercato uccide l’etica. Il denaro rende tutti più cattivi. ‘Chi opera in un contesto economico viola continuamente i propri standard morali’ è la conclusione di Falk. A queste considerazioni – ovvie, ma forti della dimostrazione pratica – giunge oggi lo studio pubblicato su Science. (…) ‘Per studiare la tenuta dei nostri valori morali abbiamo cercato di capire quanto gli individui sono disposti a danneggiare gli altri in cambio di un ritorno economico’, spiega Falk. La prima fase del gioco di ruolo si è svolta senza denaro. I partecipanti – 800 volontari – dovevano decidere se alcuni topolini di laboratorio usati per la ricerca ma ormai anziani dovessero trascorrere la loro ‘pensione’ assistiti di tutto punto. Tutti hanno risposto di sì. Queste decisioni, scevre da ogni considerazione economica, sono poi state messe a confronto con la seconda e la terza tappa del gioco di ruolo. Quando ai volontari è stato chiesto semplicemente se uccidere il topolino in cambio di 10 euro fosse giusto, solo la metà dei volontari ha accettato di violare così apertamente i propri standard morali. Ma quando le transazioni economiche hanno iniziato a coinvolgere più persone e a farsi più complesse, la sorte della cavia si è mescolata con mille altre considerazioni sul valore dello scambio. I dettami della morale sono passati in secondo piano rispetto al vantaggio in denaro, e il 76% dei topolini è stato sacrificato in cambio di un prezzo medio di 10 euro. ‘Nelle situazioni di mercato più complesse – spiega Falk – entrano in gioco vari fattori che contribuiscono ad abbassare i sentimenti di colpa e responsabilità’. La molteplicità degli attori diluisce l’importanza del singolo individuo. La consapevolezza che rinunciare a un’opportunità permetterebbe ad altri di approfittarne permette di pa-
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cificare il proprio foro interiore. Il senso di competizione che un mercato con molti attori è in grado di scatenare anche nel più mansueto degli individui fa il resto. Nessuno di noi, in fondo, vuole comprare un telefono a 2.000 euro, una maglietta a 100 euro o accettare un prezzo per l’energia alto in cambio di un maggiore rispetto per l’ambiente. E i topolini di Bonn non sono i soli a dimostrarlo. Lo gridano da sotto alle macerie anche i mille operai morti nel palazzo crollato di Dacca”23. Ci espandiamo in ciò che possediamo ed in ciò che vorremmo acquisire, e per questo non siamo disponibili a rinunciarvi. Le dipendenze dell’operare in questi casi fanno prevalere la ricerca del nostro interesse riguardo ai diritti altrui. A posteriori cercheremo mille giustificazioni, come vedremo quando parleremo della riduzione della dissonanza cognitiva.
2. Blocco rispetto al destino altrui Questa tipologia di blocco riguarda un rapporto di estraneità nei confronti dell’altro, con cui si ha un rapporto, solo che ci si limita, nei suoi confronti al rispetto della forma, e a volte nemmeno di quella: o perché si è indifferenti, o perché non si vuole andare incontro a fastidi, impegni, responsabilità ecc. Si tratta di una forma di deresponsabilizzazione del rapporto nei confronti dell’altro, di una manifestazione attiva della estraneità di cui abbiamo già parlato: una barriera espressa esplicitamente. Si agisce nei confronti dell’altro in modo contrario riguardo a quanto ci si attenderebbe. Questo tipo di reazione può dare luogo a situazioni diverse che andiamo ad esaminare: a) Distacco come estraneità nei confronti dell’altro. b) Blocco nel perseguimento dei propri obiettivi. c) Indifferenza rispetto al male che si sta procurando attivamente agli altri.
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a) Distacco come estraneità nei confronti dell’altro In questo caso si interviene nei confronti dell’altro ma in modo formale. La persona resta ridotta ad una dimensione. Si verifica nei casi di chi compie atti di umanità, ma per vanagloria personale o dovere. Ricordo un amico che per un certo periodo di tempo visse per strada; mi raccontava che la notte, in stazione, al freddo, rifiutava di accettare le coperte dai volontari se gli venivano lanciate. Le accettava se la persona porgeva la coperta mostrando interesse e rispetto. Ci imponiamo questo tipo di blocco anche quando dobbiamo fare un’operazione che ci ripugna, ma che è necessario fare: ad esempio assistere una persona incapace, che si sia imbrattata in modo disgustoso. Un tipo particolare di blocco, cui si ricorre anche se non si vorrebbe, è determinato dall’imbarazzo, come ad esempio nel caso del chirurgo, che deve comunicare al paziente che l’intervento non è riuscito, perché magari il tumore è risultato troppo esteso. Un altro caso è quello dell’omertà. Lo spirito omertoso può essere socialmente condiviso, come avviene nei contesti mafiosi. Questo tipo di estraneità nei confronti altrui scatta più facilmente quando si pensa che siano gli altri ad avere bisogno di noi. b) Blocco nel perseguimento dei propri obiettivi Si ha il blocco anche quando il perseguimento dei propri obiettivi pone in secondo piano tutto il resto. Gli altri in questo modo non esistono, o divengono strumenti, od ostacoli. Ad esempio, se si compete con qualcuno l’altro è avversario, e come tali ci si comporta, a di là della lealtà con cui si partecipa alla gara. La competizione fa riemergere operazioni mentali che facilitano il riaffiorare di eventuali pregiudizi, specialmente se si fa parte di una squadra o di un pubblico. Dopo la gara i rapporti possono anche tornare ad essere più amichevoli e di tipo empatico, tuttavia il blocco innescato dalla competizione sospende tutto questo e si impone, anche se ne siamo inconsapevoli. Altri atteggiamenti, tipici di questo tipo di blocco, sono costituiti dall’invidia e dall’ambizione. Secondo Ceccato l’invidia costituisce una trappola cognitiva, caratterizzata dal fatto che si vuole come no-
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stro qualcosa che è desiderato proprio per il fatto che appartiene a qualcun altro. In questo modo l’invidioso è destinato a non godere, perché desidera sempre di più24. Per ottenere ciò che desidera, finisce per porsi in competizione con gli altri. Anche l’ambizioso si pone in termini di competizione con gli altri e, sulla base dei risultati e del consenso che raggiunge, misura il proprio valore. Infine, un atteggiamento che rientra in questa categoria è quello di chi consiglia di ‘farti i fatti tuoi’, cioè: persegui i tuoi interessi senza guardare in faccia a nessuno, tanto gli altri sarebbero peggiori di te ed al tuo posto farebbero le stesse cose. In base a questo modo di pensare, il mondo sarebbe pieno di gente infida ed in malafede, questo giustificherebbe il fatto che lo siamo noi per primi. In sintesi: se io sono sporco, voi lo siete di più e nessuno ha il diritto o la coscienza pulita per giudicarmi. Si tratta di un modo disonesto per giustificare la propria mancanza di scrupoli. Una disonestà al quadrato, in cui gli altri hanno perso valore prima ancora che possano aprire bocca per criticare. c) Indifferenza rispetto al male che si sta procurando attivamente agli altri Il blocco dell’espansione ci permette di agire come se procurassimo un danno ad un oggetto e non ad un essere vivente. In questo modo si può arrivare ad uccidere un animale, magari per cibarcene, ma anche una persona. Si annienta cioè colui con cui abbiamo a che fare, che risulta di ostacolo al soddisfacimento di un bisogno o di un’aspettativa. In questo tipo di blocco c’è un senso di necessità: ho allevato la gallina e adesso, per cibarmene la devo uccidere. Sarebbe stupido che la allevassi per tenerla in vita. Ciò condiziona anticipatamente il nostro stato d’animo nei confronti degli altri. Ricordo un allevatore, che mi raccontava di avere un atteggiamento di tenerezza nei confronti delle vacche che sarebbero rimaste in stalla, ed uno più freddo e distaccato nei confronti di quelle destinate al macello.
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Questo vale anche nel caso degli esseri umani. Così si può arrivare a schiavizzare gli altri. Ma è anche il caso di tanti imprenditori, che trascurano anche le minime precauzioni volte a prevenire gli incidenti sul lavoro dei propri dipendenti. Rientra in questa casistica il concetto di ‘mors tua, vita mea’. Un esempio lo ritroviamo in determinati comportamenti collettivi, contagiosi, come nel caso della psicologia del gregge di cui abbiamo già parlato: si fugge dal pericolo tutti assieme ed in questo modo gli altri, che prima costituivano una protezione, diventano un intralcio, da lasciare indietro perché siano loro le vittime, o da calpestare se cadono davanti a noi. È ancora il caso della percezione di penuria, per cui i clienti si accalcano agli sportelli della banca che sta per fallire: si protesta assieme agli altri per entrare e poi ci si accapiglia per arrivare per primi. È la stessa spinta che muove la corsa ad accaparrarsi beni alimentari e di prima necessità, in caso di crisi economica e di sconvolgimenti sociali. La stessa dipendenza dell’operare agisce sui genitori che vogliono acquistare un bene desiderato dai figli per le vacanze natalizie, quando si sa che verrà venduto solo in quantità limitata: si creano code infinite, si possono verificare tensioni ed anche scontri fisici. Un altro esempio di contagio che determina il blocco, è legato al dilagare della violenza in alcune aree urbane degradate, probabilmente originato dalla percezione di penuria e dalla necessità di procurarsi risorse a qualsiasi costo. Infine, rientra in questo tipo di comportamenti la scelta del pirata della strada che, pur di non pagare per la propria condotta, diviene indifferente alle condizioni in cui versa la persona investita.
3. Blocco nell’ostilità e nel conflitto Il termine di confronto su cui si opera è quello dell’altro considerato con avversione, un nemico nel caso peggiore. Si tratta di un tipo di blocco che può essere sia imposto che subìto.
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Presupposto per gli atteggiamenti di ostilità e conflittualità è la diffidenza che, secondo Ceccato “costituisce forse il maggior attentato alla socialità e così alla gioia di un convivere, convergere”25. Quando si vuole manipolare qualcuno si può ricorrere al blocco, come fa Jago con Otello relativamente al comportamento di Desdemona. Si spinge cioè la persona ad essere diffidente rispetto all’altro, fino a farla sentire ingannata nella buona fede. L’altro diviene così meritevole di punizione per il supposto tradimento. Per contrastare la diffidenza Ceccato propone due strategie: ● “accrescere la confidenza in sé stessi, nel godere di ciò che si fa, indipendentemente dallo scambio nel quale verrà a porsi il risultato dell’operare. In altre parole, fa le tue cose per te. Si noti che questo non entra affatto nell’alternativa di altruismo ed egoismo. Niente impedisce che il risultato sia scambiato economicamente od offerto come servizio. Basta che nel fare si sia provata una gioia che precede lo scambio”26. ● Se non si possono cambiare le cose, si cambi il modo di vederle, cioè il proprio atteggiamento. È importante saper ricorrere a molti atteggiamenti: “Sì, quello scientifico, ma anche quello magico, religioso, mistico, persino filosofico”27. Il passaggio dalla ostilità alla aggressione nella prossemica Vi sono aspetti legati alla prossemica, che fanno scattare reazioni di blocco e di aggressione, specialmente quando si percepisce una violazione del proprio territorio. Il problema è che nelle dipendenze dell’operare legate alle varie culture, si intendono per ‘intrusione’ cose diverse, come nel caso delle misure della ‘bolla personale’. Vi sono elementi simbolici che sono funzionali a delimitare gli spazi personali e la loro sacralità. Ad esempio per un americano parlare affacciandosi da una porta di casa non significa essere entrati, mentre per un tedesco vedere l’interno di un ambiente implica già una violazione della privacy, e quindi un’intrusione se non si è invitati28. Non è un caso che le porte delle camere di albergo americane siano considerate inaccettabilmente sottili e poco robuste dai tedeschi. Lad-
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dove in alcuni alberghi tradizionali tedeschi talvolta occorra superare due robuste porte prima di entrare in camera. Questo costituisce un ulteriore esempio di come le dipendenze dell’operare che danno vita al blocco, siano indotte e caratterizzate socialmente, pur avendo ragioni che ritroviamo in tutte le culture. Quando l’aggressività aumenta, gli animali hanno bisogno di maggiore spazio29. Questo sembra accadere anche agli uomini, specialmente quando percepiscono di trovarsi in una situazione di pericolo. Nel blocco le dipendenze dell’operare inducono ad aumentare i margini della propria sicurezza, aumentando lo spazio tra sé e gli altri. Lo spazio che pretendiamo diviene ‘spazio vitale’. Quando lo spazio viene percepito come insufficiente, aumenta l’aggressività a livelli che possono essere incontrollati. In questi casi Hall parla di ‘fogna del comportamento’. Si può cercare di esasperare la percezione del sovraffollamento, come da sempre fanno i regimi autoritari che intendono aggredire altri paesi, o determinati gruppi di individui. Accade anche nei regimi democratici, per ottenere consenso elettorale, come dimostra l’avversione che si cerca di fomentare nei confronti della immigrazione clandestina. Incorporamento e proprietà L‘ostilità scatta quando si avverte una violazione che riguarda il proprio sé, l’incolumità, l’onore, i propri diritti, quando sentiamo che l’altro ci ha traditi. La suscettibilità è amplificata dal fatto che ciò in cui si crede diventa parte di noi stessi, del nostro ‘territorio’, e quindi lo si difende, anche a rischio della vita. Lo stesso vale per ciò che si possiede. Cercherò adesso di spiegare perché senso della proprietà e valori hanno una radice comune, e l’ostilità che scatta quando si percepisce una loro violazione. Si ricordi l’esempio di Ceccato sulla penna: se la si stringe e ci si rivolge a lei con il ‘tu’, in qualche modo la incorporiamo nella mano. Diviene una nostra estensione, una parte di noi. Questo vale anche per le persone, anche in assenza di contatto fisico (‘io e te siamo una cosa sola’). Proseguendo l’esempio della penna Ceccato spiega: “Nel
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caso dell’amore è come se la mano, anzi tutto me stesso, si espandesse nella matita. È ciò che esprimono le frasi ‘ti amo tanto che vorrei essere te’, ‘mangiare, divorare di baci’; e già il tenersi per mano. Nel caso dell’odio avviene l’opposto. È come se la mano, ed ancora tutto me stesso, si ritraesse. È ciò che esprime la frase ‘non lo posso vedere’, quando è lo sguardo ed i pensieri che rifuggono dall’oggetto. Una carezza rivela bene i due atteggiamenti. Nella carezza sincera, affettuosa, amorosa, la mano, cessato di scorrere, rimane appoggiata sull’essere amato; nella carezza mentita, la mano è già staccata mentre il braccio ancora si muove”30. Insomma, ciò a cui mi rivolgo con il tu del vocativo in qualche modo viene incorporato e ci condiziona: questo vale per un oggetto, per un animale, per una persona, per un modo di pensare o di sentire. Nella ripetizione questa operazione mentale si stabilizza, diviene una dipendenza dell’operare. Condiziona quella che viene definita la propria identità, i propri termini di confronto riguardo alle relazioni ed a ciò che accade. A proposito degli oggetti, Felice Accame ricorda ad esempio quanto sia “difficile tener distinta la protesi da sé medesimi; presto lo strumento o l’artificio che sia, fa organicamente parte di te”31. Riflettiamo sul disappunto che si impadronisce di noi una volta che la nostra auto venga danneggiata, mentre stiamo guidando. Ritengo che, quando questo accade, stacchiamo il nostro incorporamento dell’auto, ma solo in parte: il disappunto è relativo a qualcosa che ci è stato danneggiato e che comunque fa parte di noi. Lo stacco costituisce un’operazione di buon senso, che comunque molti non riescono a compiere, per cui si lasciano andare a reazioni rabbiose e violente, come se davvero la ferita e la mortificazione del danno fosse stata inferta alla loro persona. Adottiamo il blocco nei confronti del conducente dell’altro veicolo, che riteniamo responsabile del danno, proprio come indica Ceccato, e ci ritraiamo da lui cercando di tenere sotto controllo l’irritazione, come quando qualcuno, senza volerlo, ci ferisce. Un altro esempio, relativo ai rischi legati all’incorporamento di un oggetto, riguarda gli attrezzi da lavoro: la familiarità ci spinge ad
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espanderci in loro, considerarli a loro volta una nostra protesi. Ciò facilita la rimozione della consapevolezza della loro pericolosità, della attenzione necessaria a maneggiarli, il che aumenta i rischi di incidenti sul lavoro. L’incorporamento, alla base del senso di proprietà, può essere anche transitorio. Un esempio, che abbiamo già descritto, è quello relativo alle persone nel ristorante, che rischiano di consumare il pasto con degli sconosciuti, in una spiacevole prossimità coatta. Quando i tavoli vengono separati, il proprio tavolo diviene loro e solo loro proprietà, come un territorio che viene in qualche modo incorporato. Incorporiamo e ci espandiamo anche in cose staccate da noi. Basti pensare ad una persona che comincia a curiosare nella nostra borsa. L’avarizia è un caso estremo di incorporamento, in cui ciò che possediamo è parte di noi cui sentiamo di non potere e dover rinunciare. E questo vale non solo per gli oggetti e le proprietà ma, come abbiamo già accennato, anche per le convinzioni personali. Ad esempio, ci sono persone che uccidono o si fanno uccidere per un ideale, una persona amata, il senso del dovere, ma anche per una bandiera. Sono elementi diversi, ma tutti rientrano in un senso di proprietà che coincide con la nostra integrità. Quando difendiamo ciò in cui crediamo, difendiamo la nostra stessa vita. Quando, a proposito di qualcosa, diciamo ‘è mio’, in realtà vogliamo dire ‘è parte di me’ oppure, ma forse è la stessa cosa ‘io sono parte di lui’, nel senso che attribuiamo a ciò che possediamo una parte di noi. Non solo le idee e le credenze possono divenire proprietà, ma anche le abitudini: “Così ad esempio, chi faccia la stessa colazione alla stessa ora di ogni mattina, può essere turbato anche da una minima alterazione di questa routine, e se ciò accade è perché la sua abitudine è divenuta una proprietà la cui perdita mette in pericolo il senso di sicurezza dell’individuo”32. Tutto ciò è frutto di processi mentali. Nella dipendenza l’incorporamento di altro ricerca la simbiosi. Solo a questa condizione ci si sente ‘completi’, perché ci uniremmo a qualcosa di essenziale che ci manca.
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Nell’astinenza percepiamo fisicamente la mancanza di ciò che desideriamo. Ciò è evidente nel caso di determinati stupefacenti, che innescano dei processi neuronali legati alla produzione di endorfine, ma è un aspetto comune a tutti i tipi di dipendenze. Il blocco scatta perché non si accetta la frustrazione della rinuncia nei confronti dell’oggetto della nostra espansione. Scatta anche nelle reazioni affettive: ad esempio nella rabbia dell’innamorato, o del figlio che si è sentito maltrattato e che vorrebbe, dopo lo sfogo rabbioso, ritrovare l’oggetto del proprio amore, sentendosi riaccolto e contraccambiato. Nel caso dell’espansione legata al sentimento amoroso, non si accetta il concetto di differenza. Quando emergono le contraddizioni legate alla diversità scoppia il conflitto. E cos’è la guerra, sosteneva Ceccato, se non il rifiuto di accettare la differenza?33. La percezione della differenza irriducibile rispetto all’altro cancella l’illusione che questi sia parte di noi, cancellando la tensione amorosa. Si verifica il blocco attivo di chi rompe il rapporto, e lo sconforto di chi subisce la scelta. Come ebbe a scrivere Oscar Wilde “in amore chi guarisce prima guarisce meglio”. Quando la separazione dalla persona amata si verifica, la cosa più faticosa, oltre che farsene una ragione, è riappropriarsi del rapporto con sé stessi. Occorre insomma un periodo di ritrazione. Quando questo periodo è superato, accettiamo la diversità di ciò che desideravamo e ritroviamo la nostra serenità. Blocco e ribellione Rientra in questa casistica anche chi si ribella, a livello individuale e sociale e chi pretende rispetto. Ritengo che la ribellione possa avvenire in questi casi: ● Quando le aspettative vengono tradite. Questo rende più facile che si ribellino coloro che hanno condizione di vita migliori riguardo agli altri. Poiché hanno aspettative più alte, la deprivazione relativa è maggiore e quindi la frustrazione viene percepita come inaccettabile. Si determinano dei diritti acquisiti, per cui, ad esempio “l’attuale impiegato ha il diritto di conservare il suo salario anche se le condizioni di mercato permetterebbero al padrone di ridurlo. Il nuovo
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commesso non ha il diritto del precedente commesso al salario di riferimento, e al padrone è quindi consentito ridurre la paga senza il rischio di essere marchiato come ‘ingiusto’”34. ● Quando si verifica un passaggio dalla paura, cioè dalla ritrazione, al blocco: se non c’è più niente da perdere e quindi non ci sono più aspettative, tanto vale lottare. Si tratta di un blocco in reazione ad un blocco subìto o ad un’aggressione. Si pone l’avversario a distanza, pronti a combattere. ● Quando si deve obbedire ad una prescrizione che si ritiene ingiusta. È un caso che approfondiremo più avanti, nella parte relativa al ‘blocco come fenomeno socialmente indotto’ Del secondo tipo di ribellione parla in un suo libro Kapuscinsky e nota che, quando si parla di rivoluzione, si dovrebbe soprattutto essere in grado di spiegare “per quali motivi un uomo terrorizzato e sottoposto a ogni genere di vessazioni riesca, improvvisamente, a rompere con il terrore, a mettere fine alla sua paura. Questo singolare processo, che talvolta si svolge in una frazione di secondo, come se si trattasse di uno shock, richiede una spiegazione. L’uomo si libera dalla paura e si sente libero: se così non fosse, non ci sarebbe nessuna rivoluzione”35. La rivoluzione e la liberazione iniziano con un ‘no’. Con il blocco legato alla ribellione si reagisce ad una violazione inaccettabile dei valori e/o delle proprietà che abbiamo incorporato. Con il ‘no’ ce ne riappropriamo, è il primo gradino per ambire alla espansione. Il blocco legato al ‘no’ è positivo, perché in questo modo ridiamo valore a noi ed a tutti quelli che condividono la nostra condizione. Nessun sistema sociale può funzionare se una parte della popolazione dice ‘no’. Già uno sciopero bianco mette in crisi qualsiasi istituzione, figuriamoci il ‘no’. Per questo le forme di opposizione vengono regolamentate e contenute. Gestione del conflitto e passaggio alla aggressione Il blocco ed il conflitto alimentano tensioni che, se non vengono gestite in modo adeguato, si scaricano con l’aggressione, che costituisce un passaggio all’atto.
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Conflitto ed aggressione sono concetti molto diversi: “Il conflitto appartiene all’area della competenza relazionale, mentre la guerra e la violenza appartengono all’area della distruzione relazionale”36. Nell’aggressione mossa dall’odio si passa alla volontà di cancellazione vera e propria dell’altro. Per fare questo si assale l’altro, cioè non si tiene più la distanza, ma la si annulla per annientare il nemico. Non si tratta più di blocco, ma di ricerca della espansione con la fine dell’altro. Questo differenzia il blocco dal compiacimento sadico, che aggredisce per eliminare ed infierire sul nemico. Il passaggio dalla ostilità all’odio non è automatico, e nemmeno il passaggio alla aggressività. Purtroppo, nella nostra cultura, non ci viene insegnato a convivere con la diversità, a gestire i conflitti senza necessariamente doverli risolvere in tempi brevi. Siamo portati a pensare che il conflitto sia qualcosa di estremamente negativo, che va eliminato: o trovando una soluzione pacifica, o ricorrendo allo scontro ed alla eliminazione del problema, cioè dell’altro. In questo modo vi sono persone che, già alle prime avvisaglie di un contrasto, si sentono incapaci di gestire il confronto e preferiscono passare subito alle vie di fatto.
4. Blocco verso sé stessi Il blocco verso sé stessi si verifica quando non ci si accetta, o quando non si accetta una parte del nostro corpo o del nostro carattere, o delle nostre reazioni, o di ciò che abbiamo realizzato. È un blocco sia imposto che subìto. Si può finire per detestarsi. Un caso particolare riguarda coloro che non riescono ad operare delle scelte. O meglio, finiscono per scegliere il blocco fine a sé stesso. Si condannano ad un’impotenza che determina rabbia e frustrazione. Un altro caso riguarda i perfezionisti, ossessionati dai compiti che si sono posti, e dal timore costante di non raggiungere gli standard massimi, che per loro divengono minimi. Il blocco verso sé stessi è possibile perché possiamo scinderci nel né uno né molti anche per fare del male a noi stessi, per trattarci con disprezzo e frustrazione.
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I termini di confronto, per valutare la nostra adeguatezza/inadeguatezza rispetto al resto del mondo, sono sempre socialmente indotti. Un esempio di blocco indotto verso sé stessi e la propria condizione viene riferito da Lakoff: riguarda i bianchi del sud degli Stati Uniti, che avevano diritto alla assistenza sanitaria e che tuttavia votavano Reagan, che invece voleva negarla. “La ragione? Essi accettavano la moralità del padre severo”37, per cui si facevano apparire le persone colpevoli e responsabili della loro condizione di indigenza. Tutta la campagna di Reagan era impostata sul negare i sussidi ai negri indolenti e parassiti. Quindi togliere i sussidi non era riferito al bianco lavoratore ma sfortunato, ma al nero immorale. D’altra parte il bianco che si sente sfortunato deve accettare di ripartire con le sue forze, senza l’aiuto pubblico, che non sarebbe un diritto, ma un modo per fare aumentare indolenza e immoralità. Il bianco ‘sfortunato’, identificandosi in questo modo di ragionare, colpevolizza solo sé stesso del suo destino e su questo misurerà il proprio valore, cercherà di fare di tutto per non valere quanto un ‘nero’38. Il blocco verso sé stessi si attiva anche a seguito di atti e scelte che non avremmo dovuto compiere, che ci fanno provare sensi di colpa, rimorso o vergogna. Ciò avviene sempre a posteriori, quando non possiamo fingere con noi stessi che non sia accaduto niente. In questi casi, si determina un conflitto perché ciò che abbiamo fatto, indotti dalle dipendenze dell’operare, contrasta con ciò che vorremmo essere, con l’affermazione della nostra integrità. Così percepiamo l’essere sé stessi, la nostra presunta natura, come qualcosa di vergognoso. In particolare, la vergogna emerge perché siamo costretti a prendere atto che quella persona di cui vergognarsi siamo noi. Nella vergogna una parte di noi incontra l’altra, e la parte ‘morale’ deve accettare di essere l’altra. È questo che determina la vergogna di sé. Si tratta di una rivelazione a noi stessi e contemporaneamente nei confronti degli altri, perché la vergogna, al contrario del senso di colpa, richiede un pubblico. E ci si vergogna di apparire così agli altri e di riconoscere di essere come gli altri ci vedono39. La vergogna è la di-
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mostrazione che parti di noi incompatibili possono prendere atto l’una dell’altra, di fare parte della stessa persona e dare vita così ad una reazione totalizzante e univoca, che in questo caso è appunto la vergogna40. Considerazioni analoghe valgono anche per il senso di colpa. Secondo Nietzsche, concetti come ‘colpa’, ‘peccato’, ‘peccaminosità’, ‘pervertimento’, ‘dannazione’, servono “a rendere innocui sino a un certo punto i malati, a distruggere gli inguaribili attraverso sé stessi, a dare ai malati lievi una rigorosa direzione alla volta di sé, una svolta a ritroso del loro ressentiment (…) e a sfruttare in tal modo i cattivi istinti di tutti i sofferenti ai fini dell’autodisciplina, dell’autocontrollo, dell’autosuperamento”41. La vergogna può emergere anche per comportamenti che abbiamo adottato in situazioni più grandi di noi. Ad esempio è probabile che molte persone coinvolte in crimini di guerra, si siano adattate alle azioni dei propri commilitoni non condividendole, magari provando ripugnanza, ma senza averla potuta esprimere ed agire di conseguenza, per timore delle conseguenze. Lo stesso può accadere in chi si sia affiliato a gruppi di devianti, alla ricerca di una protezione: la fedeltà al gruppo li avrà costretti, in qualche occasione, a partecipare ad azioni riprovevoli, che altrimenti avrebbero evitato. È probabile che successivamente a tali eventi, queste persone rimuovano e cerchino di dimenticare ciò di cui si sono rese corresponsabili, cioè ricorrendo al blocco. Una volta che tali azioni siano diventate di dominio pubblico, ne provino rammarico e vergogna. Si ritorna al concetto di mors tua vita mea. Ricorriamo al blocco verso noi stessi anche quando ci imponiamo un compito: un esempio è l’uomo solo sperduto in un ambiente sconosciuto ed ostile, che contrasta il desiderio di lasciarsi andare con la volontà di continuare a cercare, per sopravvivere. Un ulteriore esempio di conflitto con sé stessi è dato dalla possibilità di dover assumere, contemporaneamente, ruoli fra loro incompatibili in parte o del tutto, come abbiamo già visto nella prima parte del libro. Nel conflitto con noi stessi non rimuoviamo i nostri sentimenti, ma cerchiamo di non farci sopraffare, cerchiamo di tenerli sotto con-
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trollo razionalmente. Da questo punto di vista, il blocco non è necessariamente negativo. La dimensione temporale Finché i tempi rientrano nell’ambito di ciò che è considerato ragionevole, vi è l’attesa. Quando si va oltre vi sono due possibilità: o il blocco oppure la ritrazione. Un caso particolare di attesa protratta riguarda la persona che sta aspettando angosciata di essere sottoposta ad un intervento chirurgico. Dopo un certo lasso di tempo di attesa ci si spazientisce, e si passa dalla angoscia alla richiesta di cominciare, dalla ritrazione al blocco. I tempi ritenuti accettabili dell’attesa sono definiti in base alle operazioni mentali che si adottano. Per cui ci si può sentire comunque protetti in qualsiasi contesto, come nel caso di chi ha fede. Lo testimonia questa poesia che Dietrich Bonhoeffer scrisse, poco tempo prima di essere giustiziato: “Da forze buone, miracolosamente accolti qualunque cosa accada, attendiamo confidenti. Dio è con noi alla sera e al mattino e stanne certa, in ogni nuovo giorno”42. Si tratta ancora una volta di operazioni mentali, che in determinati casi sono diverse nelle singole persone. Il blocco di cui stiamo parlando può essere contingente o protrarsi nel tempo. Spesso, se il blocco si protrae nel tempo, le persone modificano il loro comportamento. Nell’esempio dell’ascensore, se questo si guasta e non arriva nessuno, probabilmente, dopo un po’ di tempo le persone comincerebbero a parlarsi, per decidere cosa fare per affrontare la situazione. A questo punto non potrebbe più continuare l’estraneità. Lo stessa cosa avviene se il treno si ferma in mezzo alla campagna senza ripartire. In molti casi il distacco professionale, nei confronti di una persona che si conosce da lungo tempo, si può trasformare gradualmente in simpatia. Per quanto riguarda il blocco nei confronti di sé stessi, si
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può trovare nel tempo una riconciliazione, oppure nel caso opposto si può arrivare al suicidio. Un esempio di blocco che si protrae e rispetto al quale, per risolverlo, mutiamo i nostri termini di confronto viene descritto in questo antico racconto della tradizione sufi, che si intitola ‘il racconto delle sabbie’: “Nato in montagne lontane, un fiume attraversò molte contrade prima di raggiungere finalmente le sabbie del deserto. Così come aveva superato tutti gli ostacoli, cercò di oltrepassare anche quello, ma si accorse che via via che arrivavano alle sabbie, le sue acque scomparivano. Era certo che il suo destino era di traversare il deserto. Ma in quale modo?... Fu allora che una voce misteriosa, proveniente dal deserto, mormorò: ‘Il vento attraversa il deserto, il fiume può fare altrettanto’. Il fiume rispose che pur gettandosi contro la sabbia, non otteneva altro risultato se non di essere assorbito; mentre il vento poteva volare e così attraversare il deserto. ‘Procedendo nel modo in cui sei abituato, non lo attraverserai certamente. Non puoi che scomparire o divenire palude. Devi lasciare che sia il vento a portarti a destinazione’. Ma come sarebbe stato possibile? ‘Lasciandoti assorbire dal vento’. Questa idea era inaccettabile per il fiume. Dopo tutto non era mai stato risucchiato così, prima di allora. Non voleva perdere la propria individualità: una volta perduta, come si poteva essere sicuri di ritrovarla? ‘Il vento adempie a questa funzione, disse la sabbia. Assorbe l’acqua, la porta al di sopra del deserto, poi la lascia ricadere. L’acqua cade sotto forma di pioggia e ridiventa fiume. – Come posso sapere se ciò è vero? – È così. E se non ci credi, non potrai divenire nient’altro che una palude e ciò può richiedere degli anni. E non è la stessa cosa che essere un fiume. – Ma non posso rimanere il fiume che sono oggi? – In ogni caso tu non puoi restare lo stesso, disse il mormorio. La
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parte essenziale di te stesso verrà trasportata per formare di nuovo un fiume. Anche oggi tu porti questo nome perché non sai quale è la parte essenziale di te stesso’. Quando sentì queste parole, alcuni echi si risvegliarono nella mente del fiume. Vagamente si ricordò di uno stato nel quale – o era una parte di sé stesso’ – era stato nelle braccia del vento, Si ricordò anche – ma era un ricordo? – che era proprio questo che doveva fare. Anche se la necessità non lo imponeva. Allora il fiume elevò i suoi vapori fin nelle accoglienti braccia del vento. E questi, dolcemente, e senza sforzo, li sollevò e li portò lontano, lasciandoli delicatamente ricadere appena raggiunsero la sommità di una montagna, a molte leghe da là. E poiché aveva avuto paura, il fiume poté ricordarsi con altrettanta chiarezza i dettagli dell’esperienza. (...) Ed è per questa ragione che si dice che le vie che permettono al Fiume della Vita di proseguire il suo viaggio, sono inscritte nelle sabbie”43. Gestione della coerenza attraverso la riduzione della dissonanza cognitiva In questa parte approfondiremo ulteriormente il bisogno, che ognuno di noi ha, di dare senso e coerenza a ciò che ci circonda ed ai nostri comportamenti, come se tutto fosse preordinato. Ne abbiamo parlato nella prima parte, ma adesso lo analizzeremo in relazione al blocco. Quando non ‘sentiamo’ sintonia tra ciò che accade e ciò che percepiamo, possiamo avere reazioni di vero e proprio panico. La scrittrice americana Susanna Kaysen descrive in questi termini situazioni di questo tipo, nel romanzo autobiografico in cui descrive la propria permanenza in una clinica psichiatrica: “Immaginate di essere su un treno, vicino a un altro treno, in una stazione. Quando l’altro treno si mette in moto, siete convinti che a muoversi sia il vostro treno. Lo sferragliare dell’altro treno sembra lo sferragliare del vostro, e vedete il vostro treno che lascia dietro l’altro. Ci vorrà un po’ – forse anche mezzo minuto – prima che il secondo interprete con-
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trolli le affermazioni di movimento del primo e le corregga. Questo perché è difficile neutralizzare la validità delle impressioni sensoriali. Siamo progettati per crederci. (…) A volte, quando avete capito che il vostro treno non si sta veramente muovendo, potete passare un altro mezzo minuto sospesi tra due regni della coscienza: quello che sa che non vi state muovendo e quello che invece ne ha la sensazione. Potete svolazzare avanti e indietro tra queste percezioni e provare una specie di vertigine mentale. E se è così, siete nel territorio della pazzia: un luogo dove le false impressioni hanno tutte le caratteristiche della realtà”44. Il bisogno di certezza e il bisogno di senso si basano sulla stabilità, e sulla convinzione di una nostra sintonia con le leggi che governerebbero l’ambiente in cui viviamo, e quindi di una nostra coerenza. Abbiamo già visto che i termini di confronto, su cui misuriamo la nostra coerenza, sono anche dati dai valori che abbiamo incorporato. Talvolta dobbiamo fare delle scelte, e possiamo anche agire in maniera contraria ai nostri interessi immediati, pur di salvaguardare i valori cui teniamo. Cialdini ha scritto che “Un alto grado di coerenza è associato di regola a solidità personale ed intellettuale, La coerenza è alla base della logica, della razionalità, della stabilità e dell’onestà”45. Il concetto di coerenza per molti aspetti è illusorio, perché può essere valutato in base a qualsiasi termine di confronto, che può mutare anche continuamente in corso d’opera. Si può dunque essere coerenti ed incoerenti a seconda dei punti di vista. La comicità non è forse il continuo prendersi gioco delle regole, dei paradossi della coerenza, delle aspettative e delle conseguenze che ne derivano? Talvolta i termini di confronto possono essere assolutamente folli, come nel caso della persona che riesce ad ottenere quello che vuole minacciando atti di autolesionismo ai propri familiari. Se riesce ad ottenere quello che vuole potrà tornare ad adottare tale atteggiamento, con buone possibilità di raggiungere i propri propositi. La coerenza si riduce, tutto sommato, a mantenere una capacità di spiegazione di sé.
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Concordo con Accame quando scrive che “l’‘io che decide’ è una categoria mentale fra le altre. Ce la raccontiamo così finché possiamo – non è detto che tutti se la raccontino così (si veda la diagnosi di personalità multipla, ma anche la moltiplicazione freudiana dei soggetti) e non è detto che tutti se la raccontino così per tutta la vita (si veda il ricco e assortito repertorio neurobiologico del rincoglionimento). Ma, nel raccontarcela così, diciamo anche che la cosa funziona – nel senso che, perlopiù, ci teniamo a che i nostri racconti stiano in piedi, perché, in un certo senso, se stanno in piedi loro – se sono composti di elementi coerenti –, stiamo in piedi noi”46. La ricerca della sanatura, riguardo alle dipendenze dell’operare, coincide con la riduzione della dissonanza cognitiva. Si determina una riduzione di tale dissonanza modificando i termini di confronto. Questo permette di sentirsi coerenti e dare vita ad atteggiamenti, comportamenti ed opinioni diverse rispetto alle stesse cose. È il caso di colui che vuol smettere di fumare, poi si concede una sigaretta, perché ‘tanto cosa vuoi che mi faccia’, fino a fumarne altre perché si convince che ‘una diminuzione graduale è migliore’, finendo magari per fumare come e più di prima e rimandando a domani l’astinenza dal fumo. Un tipo classico di riduzione della dissonanza cognitiva è quello che fa seguito a una decisione, e si chiama ‘riduzione post decisionale’. Si verifica nel caso della persona che decide di acquistare una nuova auto. Una volta individuato il modello da acquistare, valorizzerà e si interesserà solo alle caratteristiche del mezzo che ha acquistato o ai pregi delle auto prodotte da quella marca. Moessinger commenta che “Tutto accade come se il comportamento che segue la sua decisione – non interessarsi che all’informazione che conferma la sua scelta – costituisse un tentativo di ridurre una dissonanza anticipata”47. Cioè: ci attiviamo per anticipare l’incongruenza della dissonanza, per evitare di farci i conti. La riduzione della dissonanza cognitiva rientra nelle dipendenze dell’operare, nel bisogno di sentirsi coerenti nei propri comportamenti e nelle proprie scelte.
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Cerchiamo di essere coerenti o razionali, utilizzando come termine di confronto valori importanti o valorizzando ciò che siamo riusciti ad ottenere, o un mix di entrambe le cose. Nel tentativo di ridurre la dissonanza si finisce per apprezzare di più ciò che abbiamo ottenuto con fatica e dolore, perché saremmo stati coerenti e determinati nelle scelte adottate. Dopo lo sforzo ci espandiamo insomma nel risultato raggiunto e ci gratifichiamo anche rispetto alle fatiche del passato. Secondo Moessinger “il voler credere (…) è una varietà di dissonanza post-decisionale e consiste nell’impegnarsi in una assenza di razionalità, al di fuori di ogni impulsività, e dopo matura riflessione”48. Si tratta insomma di una sanatura a posteriori, che spesso tanto razionale non è. “Per Cialdini, il fatto che un piccolo impegno conduca ad uno più grande riposa sulla dissonanza post-decisionale”49. Infatti, molte decisioni vengono prese o rinforzate quando sono minacciate, perché la minaccia investe tutta la costruzione costituita: il nostro l’orizzonte sembra chiudersi e rischiamo di sentirci sbilanciati sul vuoto. Per evitare tutto questo, ci si rifugia ancor di più nelle credenze. Si decide di non recedere riguardo ai punti di riferimento individuati, anche se si rivelano improbabili. Moessinger riporta in merito l’esempio di un esperimento condotto da Festinger, relativo ad una setta di adepti che attendevano di essere salvati dagli extraterrestri, immediatamente prima della fine del mondo. Nel momento prefissato l’evento non si verifica. La dissonanza spinge allora il gruppo ad affermare che gli extra terrestri hanno deciso di salvare tutta l’umanità. La setta stabilisce di non tenere più al proprio interno questi segreti, ma di diffonderli, rafforzandosi nella propria fede. L’insensatezza finisce per cementare la maggior parte degli adepti iniziali50. Non vogliamo abbandonare ciò che ci sembra di aver già conquistato. Così è anche per le religioni: quanto più sono improbabili i divieti e le spiegazioni, quanto più vi si radica chi vi ha riposto la propria salvezza. In questi contesti guai ad essere una voce fuori dal coro. Se responsabilità ed errori vengono ammessi, sono tuttavia attribuiti all’esterno del gruppo.
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A livello individuale, il tentativo di ridurre la dissonanza cognitiva ci può spingere anche alla rinuncia di ciò che desideriamo, cercando una giustificazione, come nella vecchia storia della volpe e dell’uva. Oppure ci si adatta, come “quando ci troviamo in una situazione che non possiamo modificare, improvvisamente pensiamo che quella situazione non sia poi così male. Per esempio, è stato dimostrato che gli elettori riconoscono le capacità di un candidato che non gradivano... una volta che il candidato è stato eletto. E gli studenti delle superiori si rendono conto dei difetti di un college... quando vengono a sapere di non essere stati ammessi”51. Anche in questi casi le dipendenze dell’operare, nel tentativo di ridurre la dissonanza cognitiva, intervengono per indurci a vedere il futuro in positivo. Il blocco è funzionale alla riduzione della dissonanza cognitiva, per giustificare anche i comportamenti più abietti. In genere si scaricano le proprie responsabilità sugli altri, e si valorizzano in alternativa i propri buoni sentimenti. Ad esempio Höss, che fu comandante del campo di sterminio di Auschwitz, nella propria biografia parla con astio di coloro che definisce delinquenti abituali ed asociali. Non sopportava i criminali perché riteneva che non avessero sentimenti. Riconosceva che alcuni di loro mostravano coraggio davanti alla morte, ma niente di più. Höss non si considerava come, loro perché riteneva di avere dei valori. Dal suo punto di vista obbediva semplicemente a degli ordini, quando faceva uccidere nelle camere a gas vecchi, donne e bambini. Non si considerava un delinquente, anzi cercava di dimostrare che soffriva per quello che faceva, che doveva essere eseguito in base ai comandi. Come se si dovesse tener conto del ‘dramma interiore’ del macellaio. Adottava lo stesso punto di vista, relativo ai criminali, nei confronti dei Sonderkommandos, cioè degli ebrei che accompagnavano i loro correligionari ai forni crematori, tranquillizzandoli, rassicurandoli, facilitando il lavoro delle SS. Höss si stupisce che i Sonderkommandos non mostrassero una coscienza, una solidarietà nei confronti delle persone che accompagnavano ai forni, anche quando tra la folla appariva un parente o un conoscente. Il giudizio morale di
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Höss è negativo. Tuttavia proprio lui e quelli come lui, responsabili della organizzazione dello sterminio, avevano previsto che i Sonderkommandos si dovessero fare carico di questo compito infame, se volevano rimandare il momento della loro stessa morte. Höss non sentiva la responsabilità di aver annientato l’umanità di queste persone, per cui si sentiva in diritto di ergersi a giudice52. Inoltre, come ha scritto DiSalvo: “Secondo la ricerca scientifica, se ci consideriamo carenti dal punto di vista morale in un settore della nostra vita, cercheremo di compiere dei gesti di carattere etico per riequilibrare la bilancia. (...) se siamo convinti di aver fatto abbastanza, eticamente parlando, allora non ci sentiamo obbligati a far di più, perché la bilancia è già in equilibrio”53. Ci sarebbe insomma in noi una sorta di ‘contabilità etica’, di cui possiamo essere i soli giudici rispetto a noi stessi. Così Höss si descrive come un padre affettuoso ed un marito attento. Mostra simpatia per i bambini rom, che morivano di stenti e malattie ad Auschwitz. Avere ‘buoni sentimenti’, o manifestarsi come persone sensibili, è compatibile con la commissione delle peggiori nefandezze. Anzi, è funzionale ad affermare a sé stessi che, nonostante i crimini che si commettono, non si è dei delinquenti. Il né uno né molti viene utilizzato per compensare i crimini commessi con le buone azioni che riteniamo ci caratterizzino. Ricordo di aver udito in teatro una battuta dell’Otello di Shakespeare in cui il Moro di Venezia affermava: “Oh Jago che ami la tua sensibilità per farne un delitto!”. Siamo abituati a pensare il male come contrapposto, irriducibile riguardo alla sensibilità di chi praticherebbe il bene. Evidentemente non è così. Davanti alla scelta si può scegliere di volta in volta di essere affettuosi, disinteressati o cinici. E si tratta sempre della stessa persona. Quelli che cambiano sono i suoi termini di confronto. Così, non ci dobbiamo stupire se le persone che hanno commesso crimini orrendi ci sembrano del tutto normali. Il né uno né molti consente loro questo sdoppiamento, ricorrendo alla ‘caduta’ nel blocco. Le dipendenze dell’operare ed il né uno né molti sono del tutto congruenti con le teorie relative alla riduzione della dissonanza cognitiva.
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L’autoassoluzione avviene, a maggior ragione, per comportamenti meno gravi, ad esempio un rapporto extraconiugale. La persona, con sé stessa, potrà ridurre la dissonanza cognitiva pensando che l’altro è pieno di difetti, che non ha attenzioni, che il rapporto esclusivo genera comunque solitudine. Nessuno si percepisce negativamente, se non quando si vergogna di sé stesso: al massimo ci si può sentire inadeguati o vittime delle situazioni. Inoltre, per confermare la buona opinione di sé, si possono avere pensieri carini per il coniuge. Attraverso il né uno né molti si può comprendere come si possa essere coniuge (ad esempio si corrisponde all’intimità del rapporto gratificandosi con l’espansione), e subito dopo amante di un altro/a. Allo stesso modo in cui vi sono noti benefattori che si sono rivelati responsabili di crimini odiosi. Le persone manifestano spesso comportamenti fortemente differenziati ed apparentemente incoerenti tra di loro, cui riescono comunque successivamente a dare delle giustificazioni, cioè delle sanature. Per questo ci si può scandalizzare della propria condanna, perché ci si sente ‘normali’, non delinquenti, e si trascura la gravità degli atti che comunque si sono compiuti, grazie al blocco. Proprio come faceva Höss. La condanna deve allora mirare a rimuovere il blocco, cioè la censura del sentimento e della vergogna. Nel blocco si è consapevoli di ciò che si sta facendo da un punto di vista strettamente razionale. Il problema è che muta il nostro tipo di proiezione sugli altri, su coloro che subiscono le conseguenze delle nostre azioni, e di conseguenza sulla gravità di tali azioni. Abbiamo privato gli altri di valore. Sia nel pensare comune, sia nelle scienze sociali, si ritiene che una persona sia un tutt’uno, come se fosse coerente in senso lineare. Si stabilisce quale sia la condotta considerata normale e sulla base di questo si cerca di stabilire chi è normale e chi no, in che cosa, come mai e quali siano le terapie adeguate. Tuttavia, la linearità dei comportamenti non sembra la norma, ma piuttosto un bisogno del vivere sociale. Quando si contrappone il ‘bene’ al ‘male’, non confrontiamo due modi di porsi che si rifanno a logiche opposte. Il ‘male’ che seguisse
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una logica lineare, per quanto spietato, sarebbe prevedibile ed alla fine in qualche modo gestibile. Ciò che temiamo di più è invece l’imprevedibilità del male, il suo essere ibrido, che mette concretamente a rischio la convivenza sociale. Infatti, ciò che è ibrido non sta né in una logica né in un ‘altra, ponendo a rischio il tentativo di stabilire un ordine lineare, un’affidabilità dei comportamenti e la capacità di gestirli. L’ibrido viene percepito come diabolico, perché è contemporaneamente dentro e fuori le regole sociali; è questa l’essenza del Maligno, per come viene rappresentato nella cultura popolare: “Diabolica non è una delle due facce dell’antitesi, ma chi supera questa contraddittorietà, chi partecipa dei due mondi contrapposti, chi tiene i piedi su due staffe, chi serve due padroni, il bianco che coesiste col nero, chi prolunga la sua vita diurna anche in campo notturno e viceversa, chi valica i confini tra due realtà contraddittorie. Anche il negativo non è negativo. Diabolico è l’Ambiguo. Il trono del demonio si trova tra ‘cielo e terra’”54. Il demonio allora non rappresenta tanto il male (un contro valore) ma la perdita di senso del mondo, che finisce per perdere le nostre anime quando, per usare le parole di Sartre, si cade nella malafede. Il demonio svela le contraddizioni e le ipocrisie delle nostre costruzioni della realtà. La tentazione devastante del demonio consiste nel suo invito a perdersi in un mondo in cui tutto può essere vero e falso, normale e anormale, morale e amorale, in cui le metafore irriducibili mostrano la propria inconsistenza, le loro ambiguità, cosicché vengono utilizzate in modo spregiudicato per perseguire il proprio tornaconto. Analogamente, possiamo decidere di andare oltre le classificazioni ed i limiti imposti dai ruoli. Possiamo decidere o simulare di stare contemporaneamente in più schemi, tradendoli tutti e trasformandoci, rendendo la relazione imprevedibile e quindi vissuta come pericolosa dagli altri. Cerchiamo di classificare noi e gli altri in una logica di coerenza, per governare la dinamicità del mondo che ci circonda. Si tratta di una semplificazione che non resiste alla verifica dell’esperienza, perché non si tiene conto dei punti ciechi.
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Abbiamo già accennato alle ipocrisie sociali cui ci atteniamo, per rendere possibile la convivenza con gli altri. Ci adattiamo alle situazioni, cerchiamo di aggiustarcele, facciamo finta di non vedere per amore di quieto vivere, mentiamo, un po’ per necessità un po’ per convenienza. Ognuno di noi fa parte contemporaneamente di mondi, identità e categorie diverse, e questo scatena corto circuiti che possono far perdere senso a qualsiasi costruzione sociale. Tutto questo significa che dobbiamo essere molte cose, se vogliamo tenere in piedi una realtà sociale che fatica a sostenersi, secondo una logica lineare di fatto incongrua. Essere uno e molti costituisce un attentato al “senso di realtà”55, ma non esserlo fa naufragare la convivenza sociale. Si tratta di un dilemma non risolvibile, che non possiamo affrontare ad un livello superiore, perché ci viviamo dentro e non ci possiamo astrarre da tale condizione, non esiste per noi la possibilità di un livello meta rispetto a molti dei problemi posti dal né uno né molti. 5. Blocco come fenomeno socialmente indotto Questo tipo di blocco si differenzia dagli altri perché frutto di dipendenze dell’operare condivise dal gruppo sociale di riferimento. Si tratta di un blocco imposto, di un comportamento che più persone assumono e condividono, a qualsiasi livello. Ad esempio “un’équipe può trattare un individuo come se egli non fosse presente, (...) per esprimere disapprovazione nei confronti di un individuo che si è comportato scorrettamente”56. Identificarsi in determinati gruppi sociali, significa espandersi in tali entità e incorporarle. I conflitti del gruppo si trasformano quindi in vere e proprie questioni personali. Anche questo è un prodotto derivato dai nostri processi mentali. Così accade spesso, in particolare nei gruppi giovanili, che si dia sfogo a risse e comportamenti violenti che i singoli, da soli, non metterebbero mai in pratica, ma a cui si adeguano in quanto aderenti al gruppo di riferimento. Il blocco contro qualcuno determina solidarietà e di nuovo espansione.
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Blocco e distacco professionale Una forma di distacco particolare è quella legata alle esigenze della propria professione, come nel caso del chirurgo che opera un paziente. In questi casi si può equiparare il blocco alla necessità di sgombrare il campo da una serie di fattori emotivi, che potrebbero essere di disturbo in una situazione in cui occorre agire in modo tempestivo, lucido e determinato (‘il medico pietoso fa la piaga puzzolente’ dice il proverbio). La persona viene ridotta alla sezione dell’organo su cui si deve intervenire. Non c’è la spinta ad allontanarsi, ma semmai ad allontanare la persona in quanto tale. A mio parere può avvenire lo stesso processo nel caso del medico, o dell’operatore che esprime una diagnosi: la persona può essere ridotta alla patologia su cui si deve intervenire. È un tipo di distacco che gli altri si attendono dai professionisti interpretandolo come manifestazione di oggettività professionale. In realtà, spesso è un modo per allontanare la persona in quanto tale. Un caso estremo di blocco di questo tipo riguarda i medici e gli studenti di medicina, alle prese con la dissezione di cadaveri; “la dissezione richiede che chi la esercita sospenda, o sopprima per intero, molte reazioni fisiche ed emotive, del tutto normali, derivanti dal fatto di mutilare volontariamente il corpo di un altro essere umano (…) I cadaveri talvolta rivelano un’inattesa umanità che coglie alla sprovvista i medici. Mi è capitato di parlare con una studentessa di Anatomia che descriveva un episodio avvenuto in laboratorio: a un tratto si era resa conto che il braccio di un cadavere le circondava la vita. È in circostanze come queste che diventa difficile mantenere il distacco professionale”57. Il distacco professionale in sé non implica necessariamente il blocco, ma può diventare un alibi in tal senso. Vi dovrebbe essere cioè una partecipazione ed un calore empatico anche nel distacco necessario a condurre il proprio compito. Ciò che muove chi agisce ricorrendo al blocco non è l’attenzione nei confronti della persona. In molti casi l’altro diviene strumento di affermazione professionale, talvolta di sperimentazione spregiudicata, oppure una seccatura.
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Marco Presta ha così descritto l’estraneità nell’aiuto, riferendosi ad un anziano soccorso da un’ambulanza: “maneggiandolo con tutta la mancanza di premura che fa di loro dei professionisti”58. In questi casi, il termine di confronto su cui si opera è la considerazione dell’altro come non persona, cioè qualcuno distante da noi, riguardo al quale si esercita un potere, perché si hanno informazioni e competenze che lui non ha. Tale rapporto viene declinato in vari modi: ● ‘paziente’, nelle professioni socio sanitarie; ● ‘utente’ nelle aziende di servizi; ● ‘cliente’ nelle libere professioni; ● ‘civile’, per i militari; ● ‘imputato’ in ambito processuale; ● ‘detenuto’ negli istituti penitenziari. In questo tipo di blocco il rapporto con la persona è mediato dal ‘lei’. Tuttavia, il coinvolgimento nella relazione è sempre dietro l’angolo. Nel caso di professionisti della vendita e procacciatori di affari, il distacco professionale è funzionale ad accreditarne la competenza. In realtà si cerca di conquistare il più presto possibile la simpatia e la fiducia del cliente, per passare poi ad un rapporto confidenziale, in cui resta comunque un’asimmetria di sapere rispetto al campo di vendita, di cui si avvantaggia il professionista. In questi casi, la cordialità definisce lo stile di comunicazione con cui l’operatore si propone, ma questo non significa che sotto l’apparenza il rapporto sia simmetrico e non focalizzato. Il ‘lei’, che apparentemente viene utilizzato come modalità di riconoscimento e rispetto del valore del cliente, è in realtà significativo del mantenimento di una distanza. Nel caso dei medici che conducevano le proprie sperimentazioni sulla pelle degli ebrei, vi era un distacco professionale, che rientra nell’indifferenza al destino dell’altro, un’indifferenza sostenuta dalle proprie convinzioni, quali il primato della ricerca e l’adesione al regime. Vi è il distacco professionale dei torturatori, come mostra Camus quando racconta l’episodio di un ufficiale nazista che incrocia una
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sua vittima fuori dalla stanza della tortura, lo vede molto malridotto e gli chiede se sente dolore, come se ne fosse moderatamente interessato59. Un altro tipo di distacco professionale è costituito dalla disciplina in ambito militare. In questo caso vi è il distacco con cui il superiore comunica con il sottoposto. Può nascere in privato un rapporto amichevole, che tuttavia non deve trasparire nei momenti in cui viene richiesto il rispetto della forma. In particolare, l’addestramento militare si fonda in gran parte sull’induzione al blocco anche riguardo a sé stessi – con l’esaltazione del sacrificio – ed al proprio corpo, che viene messo continuamente alla prova. Infine viene indotto il blocco nei confronti di ciò che è esterno alla istituzione militare, tendenzialmente percepito come estraneo. Il distacco professionale del militare può condurre ad obbedire ad ordini disumani; o a rendersi complice di tali atti. Gli altri perdono valore a vantaggio del senso di appartenenza. Questo può avvenire anche nei confronti di persone a cui precedentemente si era legati. Un esempio in questo senso ce lo offre Jean Orieux, rievocando una battaglia tra cattolici e riformati francesi, che avvenne il 10 dicembre 1562 a Dreux: “I cavalieri sul punto di uccidersi erano francesi. Si conoscevano, erano stati compagni d’armi sotto la stessa bandiera con i fiori di giglio, erano amici e talvolta persino legati da vincoli di parentela. Questo scontro era davvero disumano e straziante, e entrambe le parti ne erano consapevoli. Gli uomini osservarono un attimo di silenzio. Ciascuno di essi era pronto a massacrare l’altro, ma nessuno osava cominciare. Questo momento commovente è stato descritto da La Noue, uomo di grande nobiltà d’animo, calvinista, tollerante e umano, dilaniato da questa lotta fratricida. (...) nella battaglia parvero mossi da una sorta di furore suicida, nel tentativo di cancellare questo attimo di debolezza e in qualche modo vendicarsi sugli altri del sentimento di amicizia che li aveva portati quasi a cedere. Sovente, le crudeltà delle guerre civili si spiegano con questi sentimenti rimossi che assumono veste d’odio e che, in realtà, meriterebbero un nome diverso”60.
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Blocco professionale in ambito socio sanitario Nella società in cui viviamo, di fatto Dio è stato sostituito dal principio di salute, ed il peccato e la condanna da quelli di malattia e riabilitazione-guarigione. I professionisti socio sanitari (psichiatri, psicologi, assistenti sociali, educatori ecc.) cercano di collocare le persone in categorie ‘cliniche’, che sono categorie mentali. Si tratta di attribuzioni discutibili, ma che assolvono ad un mandato sociale inderogabile. Lo sguardo nei confronti del paziente è di fatto categorizzante, indipendentemente dalla accoglienza e dalla simpatia che si prova. Le persone si rivolgono agli ‘esperti’ perché hanno bisogno di aiuto, o sono costretti a chiederlo spinti dai familiari, dalla autorità giudiziaria (ad esempio per scontare delle pene in alternativa al carcere), dalle autorità amministrative (ad esempio per riottenere la patente). Quindi gli operatori sono in una posizione di forza rispetto ai loro pazienti. Per gli operatori, normalmente, la patologia si riflette sulla persona nella sua interezza. Ecco allora che si prende in carico l’intera persona, perché sarebbe compromessa in toto. Vengono rappresentati in qualche modo come soggetti disabili o inconsapevoli. Se adottiamo il punto di vista del né uno né molti, ci convinciamo che spesso abbiamo a che fare con persone contemporaneamente (e imprevedibilmente) sane e malate. Come ha notato Rosenhan: “nei pazienti che hanno avuto diverse diagnosi si può osservare un’enorme sovrapposizione di sintomi, ma anche nei comportamenti degli individui sani e degli individui folli c’è sicuramente una sovrapposizione enorme. I sani non sono ‘sani’ in ogni momento. (...) Analogamente, i folli non sono sempre folli”61. La scienza ha importato la contraddizione e cerca di dominarla in qualche modo, non riuscendo a risolverla. Finché la persona rifiuta di identificarsi nella propria completa diversità, viene considerata ‘intrattabile’ (si dice che non ha capito il suo problema). Quando invece si accorge che le sue difficoltà permeano tutti gli aspetti della persona, finisce spesso per voler cambiare, chiede aiuto e si affida ai terapeuti. Tuttavia, le categorizzazioni
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dei terapeuti appaiono arbitrarie, condizionate dalla soggettività, in definitiva poco scientifiche. Ricordo di aver assistito a riunioni del coordinamento toscano dei gruppi di auto aiuto di pazienti psichiatrici, in cui si elaboravano documenti che rivendicavano il diritto alla certezza della diagnosi, visto che spesso le diagnosi nei loro confronti differivano, a seconda degli psichiatri che li visitavano. Rivendicavano il diritto di sapere ‘chi’ erano, di cosa soffrivano, e di come si dovessero regolare di conseguenza. Tutto questo rispetto ad un giudizio che ad altri spettava emettere. I certificati medici rilasciati dai singoli medici non sono contestabili, la diagnosi certificata diviene una certezza. A meno che si ricorra alla certificazione di un altro specialista. A questo proposito, Rosenhan osservava che accade spesso di “leggere di processi per omicidio in cui eminenti psichiatri della difesa vengono contraddetti da altrettanto eminenti psichiatri dell’accusa in merito alla sanità di un imputato”62. Questo potere di formulare diagnosi tende a ridurre i pazienti ad una sola dimensione, magari variabile, come abbiamo visto nel caso della psichiatria. D’altra parte una complementarietà di rapporti è necessaria. Il paziente deve necessariamente affidarsi allo specialista, deve avere fiducia ed accettare le prescrizioni che gli vengono impartite. È molto facile che dal distacco professionale si passi alla indifferenza nei confronti del destino degli altri. In particolare, quando non si pensa ad una persona nella sua globalità, ma solo alla parte che professionalmente ci compete. La riduzione ad una sola dimensione dei pazienti rende possibile anche il fenomeno dell’adeguamento degli operatori alle prescrizioni ideologiche mutevoli della normativa, come nel caso della legislazione sulle tossicodipendenze in Italia. La funzione degli operatori si confonde tra aspetti di aiuto e di controllo sociale, con un mandato sociale che stigmatizza negativamente persone che, in linea di principio, fanno uso di sostanze che possono nuocere soltanto a loro, esattamente come avviene con gli alcolici. L’approccio scientifico e di cura viene tranquillamente piegato alle esigenze del mandato sociale
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e politico. Aspetti di interesse e di carriera facilitano ulteriormente l’adesione degli operatori a logiche che, a mio parere, dovrebbero respingere. Si tratta di un problema riconosciuto da tempo, specialmente nelle scienze sociali. Galbraith, in proposito, ha affermato che gli economisti hanno sempre creduto ed insegnato ciò che è compatibile con le istituzioni in cui vivono ed operano, sia che operassero negli Stati Uniti che nella ex Unione Sovietica. Sono usciti numerosi libri e saggi in cui si esaminavano le psicopatologie attribuite a Hitler, ma resta il fatto che gli psichiatri tedeschi non solo non se ne accorsero, ma erano schierati dalla sua parte. Anche Elias, ad esempio, criticava i sociologi americani per non sapersi sottrarre alla pressione della loro società verso il conformismo concettuale, e di come tale situazione influenzasse il loro senso critico63. Non si deve dimenticare che le scienze sociali sono prodotte dal sistema sociale, i suoi componenti più accreditati rivestono ruoli di responsabilità riguardo alla costruzione ed al mantenimento del consenso sociale. Gunnar Myrdal sosteneva che “una scienza sociale ‘disinteressata’ non è mai esistita e non potrà mai esistere”, perché “La scienza non è altro che senso comune altamente sofisticato”64. In proposito Alessandro Dal Lago scrive: “si tratta allora di considerare gli apparati teorici che legittimano i diversi sistemi di terapia sociale non come manifestazioni o sistemi di esplicitazione della verità, ma come espressioni di una lunga e contraddittoria impresa di disciplinamento della realtà”65. Non si tratta di compiti nemmeno tanto difficili, vista la autoreferenzialità di tali discipline. È sufficiente elaborare nuove mappe che accolgano le indicazioni del potere. Si ricorre a nuovi termini di confronto, alla legittimazione di riferimenti che precedentemente sarebbero stati impensabili. Se le nuove mappe contravvengono ai diritti ed alle legittime aspettative dei pazienti, si ricorre al blocco ed alla colpevolizzazione delle vittime. Nelle università che formano i futuri psichiatri, psicologi, assistenti sociali ed educatori non ci si sofferma ad analizzare le conseguenze che determinate scelte provocano nei pazienti, sul fatto che il
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potere esercitato dagli operatori può creare sofferenze. Spesso tali scelte danno vita oggettivamente a violenze, per quanto necessarie, come nel caso dell’allontanamento di un minore dalla propria famiglia. ‘Stranamente’ vengono rimosse le considerazioni sulla violenza implicita nel mandato sociale e nelle decisioni che ne conseguono. In questo modo non si viene formati a gestirne le conseguenze. Eppure si tratta di professioni di aiuto. Dovremmo tutelare ed aiutare tutti, sempre e comunque. Il risultato è che spesso le persone che subiscono le conseguenze delle decisioni prese non vengono accompagnate da qualche operatore: sono lasciate a sé stesse, talvolta temute per le loro eventuali reazioni. Le si ritiene colpevoli per il fatto che si sia dovuto adottare determinati provvedimenti. In genere, le valutazioni che hanno dato adito a conseguenze dolorose sono adeguate e giustificate, ma questo non legittima il blocco nei confronti di chi le subisce. Ammettere di aver dovuto procurare dolore determina relazioni molto complesse, difficili da gestire. Così si lascia che sia l’altro, seppur ferito, a chiedere aiuto, se vuole riottenere ciò che gli è stato tolto. Tale richiesta implica il riconoscimento di un comportamento sanzionato come una colpa. Tutto ciò è abbastanza evidente nel settore delle tossicodipendenze. Quando formula la richiesta di aiuto, la persona tossicodipendente si consegna ad un sapere esterno, che istituisce i modi e le maniere, le cause ed i fini, il bene ed il male della condizione che si trova a vivere. Al suo sapere su sé stesso, la società oppone il proprio, ammantato della presunta oggettività della scienza: su questo il tossicodipendente dovrà modulare sé stesso, e a questo dovrà adeguarsi, se vorrà avere in cambio il metadone, o qualche altro farmaco, che gli consentirà, in qualche modo, di condurre una vita migliore. Attraverso la giustificazione bio-medica e psicopatologica, l’infrazione di leggi sociali, e di prescrizioni normative, si traduce nella violazione di leggi considerate ‘naturali’. Di conseguenza la persona tossicodipendente, nel momento dell’incontro con l’istituzione, di fronte alla condizione posta ‘ti aiuto se vuoi cambiare’, si adatta alla situazione che lo vuole nel ruolo di ‘tossico’ e la riflette, usa parole
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che non sono più le sue e, al tempo stesso, deforma il discorso ufficiale che gli viene imposto. Agisce come l’elemento che distorce qualsiasi strategia di controllo e impedisce che la ‘legge’ o la ‘terapia’ siano realmente efficaci. La persona tossicodipendente diventa realmente specchio grottesco e deformante della realtà ufficiale. Il potere degli operatori non permette di mettere in discussione la legittimità delle loro scelte e di un’organizzazione del servizio spesso disfunzionale, che costringe a lunghe code ed attese. In definitiva, accade frequentemente che i programmi più che concordati vengano imposti, all’interno di un rapporto che spinge molti tossicodipendenti ad inventare pretesti ed alibi per eventuali inadempienze, rispetto a ‘regole’ che sono costretti ad accettare più che a condividere. Non a caso davanti all’entrata di tutti i Sert dell’area metropolitana fiorentina stazionano perennemente delle guardie giurate (peraltro molto preparate e disponibili). La normativa vigente vede nella persona tossicodipendente un soggetto relativamente incapace: implicitamente non in grado di assolvere impegni e di assumersi responsabilità, elementi alla base dell’etica del lavoro. Pure sappiamo che molti tossicodipendenti attivi, in carico o meno ai servizi, lavorano e mantengono le loro famiglie66. I tossicodipendenti sono difficili da guarire, soprattutto se li si considera ‘malati’ senza che sia chiaro di quale malattia si tratti. Tra gli operatori dei servizi socio sanitari non si ricorre allo scetticismo scientifico, ma alla affermazione di certezze, relativamente alle proprie convinzioni. Si rimuovono e si negano le lacune ed i limiti delle nostre discipline. Ritornano in mente le parole dei ragazzi di Barbiana, “Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi”67. Forse per questo, Lec ha scritto che “Dai manicomi possono uscire guariti solo i pazienti, non i medici”68. La riduzione della dissonanza cognitiva riguardo alla discutibilità dei propri comportamenti, avviene sempre a scapito dell’altro. Questo è tanto più facile se il portatore della patologia viene socialmente stigmatizzato, in quanto consumatore di stupefacenti. Ricordo che rispetto alla carenza di medici in un Sert, da parte della direzione sa-
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nitaria venne risposto: ‘preferite un medico in più per la chirurgia del cervello o uno in più per i tossici?’. Non tutte le patologie sono considerate uguali, per i ‘tossici’ varrebbe la logica per cui ‘chi è cagione del suo mal pianga sé stesso’. Magari lo stesso atteggiamento non si ha nei confronti di un medico che abusa di alcol o di sigarette, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano della salute. Insomma, di alcune patologie si viene considerati colpevoli o corresponsabili, a meno che si abbiano i mezzi economici e uno status sociale che ci fanno valere di più, aprendo le porte alla comprensione. La colpevolizzazione determina una perdita di valore delle persone, sia da punto di vista individuale che sociale. Guardate le sedi dei Sert: sono sempre separate dagli altri servizi sanitari. Se sono collocate negli stessi spazi di un ospedale o di un poliambulatorio, ne sono divise comunque da muri, ed entrate separate. In genere le sedi sono presidiate da guardie giurate, come abbiamo già detto, e la sala di entrata costituisce la sala di attesa, cosicché chiunque entra può vedere, ed eventualmente riconoscere, le persone in terapia. Guardate in che condizioni sono costretti a vivere i detenuti. Guardate la collocazione degli uffici degli assistenti sociali: in genere sono periferiche rispetto agli altri uffici, spesso in sedi separate; spesso gli utenti sono costretti ad attendere nei corridoi, esposti allo sguardo degli altri. Verificate le prestazioni che vengono erogate a favore degli utenti dei servizi sociali: l’entità dei contributi economici è mortificante, i tempi di erogazione spesso ingiustificabili. Se siete un anziano non autosufficiente o un disabile vi verrà chiesto di compartecipare alle spese ‘alberghiere’ della struttura in cui potreste essere inserito. Se non siete in grado di coprire tali spese, si rivarranno sui redditi dei vostri familiari. Tuttavia, nessuno chiede di compartecipare alle spese alberghiere per un ricovero in ospedale. Vi diranno che le spese per un anziano non autosufficiente sono relative ad un paziente ‘stabilizzato’, che non richiede cure ospedaliere. Resta il fatto che ad un tossicodipendente non viene chiesto di compartecipare ai costi di un inserimento in comunità terapeutica, e nemmeno ad una persona che ha bisogno di un ricovero in una struttura residenziale psichiatrica.
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Allora vi diranno che pagare la retta completa a tutti gli anziani non autosufficienti costerebbe troppo, così come costerebbe troppo riconoscere i diritti civili ai senza fissa dimora, accettando di iscriverli tra i residenti del comune in cui gravitano, cosa che la legge prevede, e che molte amministrazioni si rifiutano di applicare. Sono convinto che la spiegazione per tutto questo sia legata al fatto che queste persone hanno perso valore: nei loro confronti si determina un atteggiamento di blocco, per cui i loro diritti diventano un costo, una sottrazione di risorse alla comunità. Come se derubassero la società con la richiesta di un diritto. Per questo ci si periterà di verificare le risorse economiche dei familiari, per pretendere che siano loro a farsi carico dei congiunti. E e se le relazioni familiari sono di fatto interrotte, si andrà a sindacare e verificare se si debba comunque farsi carico del congiunto, con valutazioni e giudizi morali sugli affetti e sui rancori, che non dovrebbero entrare nel campo del diritto alla salute ed alla assistenza. Non si tratta di lussi, sto parlando dei diritti fondamentali di una persona. Tutto questo accade, e ci si sente legittimati ad agire in questo modo perché, nei confronti di queste persone, scattano dipendenze dell’operare che le fanno considerare un peso, un fastidio da gestire. Per loro i soldi non ci sono, invece per i parcheggi, le grandi opere, per i salvataggi di istituti bancari che hanno speculato o dilapidato i loro patrimoni i fondi si trovano. Per gli evasori fiscali si approntano scudi fiscali, condoni e quant’altro. Le persone più in difficoltà non sono mai state scudate. Non è ammissibile ricorrere all’atteggiamento economico per stabilire se una persona ‘merita’ i propri diritti, in base al valore che gli si attribuisce. I meccanismi di blocco e le dipendenze dell’operare sono così forti, che parte degli stessi operatori, che sono stati formati ad assolvere professioni improntate all’aiuto, si adeguano a queste logiche. E questo vale anche per la gran parte degli amministratori politici, siano essi di destra, di centro che di sinistra. Blocco e coazione all’obbedienza Perché una società possa continuare ad esistere occorrono delle
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regole. Alcune sono di un’utilità evidente, come quelle relative al codice della strada. Ceccato osserva che per estensione la disciplina suddivide i comportamenti in obbedienti e disobbedienti, “con giustificazioni pratiche, con criteri scientifico-tecnici, legati cioè ad uno scopo, senza attribuire agli ordini stessi valori positivi o negativi”69. Vi è un termine di confronto, il comportamento prescritto, ed un confrontato, il comportamento adottato, e “si avrà un ‘obbediente’ se il comportamento è eguale da quello espresso dall’imperativo, disobbediente in caso contrario”70. La giustificazione pratica della regola la rende di per sé positiva. Tendenzialmente l’obbedienza finisce per divenire un valore in sé, tende ad assumere in sé ogni positività. La disobbedienza acquista una caratterizzazione opposta. Il passaggio ulteriore è la valutazione delle persone sulla base del rispetto delle convenzioni: chi obbedisce diventa obbediente, cioè un comportamento diventa un aspetto costitutivo di una persona. Cosicché l’obbediente diventa ‘buono’, il disobbediente diventa ‘cattivo’, il ‘male’, il ‘pericolo’. Dunque si obbedisce perché si è ‘buoni’, si disobbedisce perché si è ‘cattivi’, per elementi costitutivi precedenti alla scelta che si compie. A livello sociale, si cerca di legittimare anche le regole e le leggi che non hanno evidente utilità pratica, ma che si basano su presupposti morali. Chi le contrasta diviene succube o sostenitore del Male, del Demonio. “E se qualcuno è non credente? Niente paura, la stessa cosa si può fare avvalorando per esempio la Storia, il Popolo, e simili; anche perché non potrebbero protestare. Chi non osserva la parole messe loro in bocca si sentirà accusare: ‘Sei fuori della Storia’, ‘Sei un traditore del Popolo’, etc.”71. La forza di questi legami è fortissima. A questo proposito Beneviste ha analizzato il significato originario del concetto di ‘libero’, ed è arrivato alla conclusione che “il senso primitivo non è, come si sarebbe tentati di pensare, ‘liberato da qualcosa’; è quello dell’appartenenza a un ceppo etnico designato attraverso una metafora di crescita vegetale”72. Non si nasce persone, Alessandro Dal Lago ci ricorda che “Sono le norme relative alla cittadinanza che fanno di qualcuno una persona, e non viceversa.(…) un essere umano è persona solo se la
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legge glielo consente, indipendentemente dal suo essere persona di fatto”73. Se la legge non ci riconosce persone, si diventa paradossalmente soggetti clandestini, persone abusive, come accade con gli extra comunitari. Insomma, quando abbiamo a che fare con un’altra persona, non è la sua umanità ad imporsi: considerarla come noi costituisce l’esito di una serie di operazioni, e delle categorie di valore che applichiamo. Delle conseguenze sugli altri di tali categorizzazioni non siamo né consapevoli né interessati, poiché ci sembrano del tutto naturali. Se si danneggia il corpo di un uomo si commette reato, e questo non è moralmente accettato, mentre se si spoglia l’individuo del suo essere persona, questo non è circondato dalla stessa protezione morale e giuridica, non vi ruota attorno la stessa disapprovazione. La forma più alta di potere è l’autorità. È questa a stabilire se e in che misura siamo persone, e cosa dobbiamo fare e come per continuare ad esserlo. Cioè in che modo dobbiamo assolvere ai nostri ruoli. In questo senso, Horkeimer e Adorno hanno scritto che: “La definizione dell’uomo come persona implica che esso, nell’ambito delle condizioni sociali in cui vive, e prima di aver consapevolezza di sé medesimo, si trovi già sempre a svolgere ruoli determinati come simile di altri uomini. In virtù di questi ruoli, e in relazione ai suoi simili, esso è ciò che è: figlio di una madre, allievo di un maestro, membro di una tribù, esercitante una professione. Queste relazioni non sono dunque per lui qualcosa di estrinseco, ma relazioni in cui egli si determina in rapporto a sé stesso – come figlio, appunto, scolaro ecc. Anche la persona singola nella sua biografia è una categoria sociale, determinata solo nella correlazione vitale con altre persone, che costituisce appunto il suo carattere sociale; solo in questa correlazione la sua vita, in condizioni sociali date, acquista un senso, e solo in lei la maschera sociale del carattere è, se lo è, ancora un individuo”74. Gli altri costituiscono il filo che ci orienta nel labirinto del mondo in cui viviamo. A questo filo ci aggrappiamo appena nati, secondo l’automatismo dell’imprinting. Nel rapporto con gli altri, con la cultura e le istituzioni, impariamo a modulare e gestire anche le emozioni, secondo modalità condivise.
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Come abbiamo già visto, “L’imperativo costituisce il prius della situazione (…). La morale ha sempre come premessa un imperativo e, per questo motivo, non può trovare sostegno e giustificazione, ad esempio nella scienza, nella storia ecc. (...) l’etica non si avrebbe senza le parole, né si avrebbero religioni e ideologie (...). È quel che invece si ottiene da millenni e millenni, in quanto chi parla si presenta soltanto come il detentore preferenziale di valutazioni portate di per sé da una ‘realtà’ o ‘natura’, o ricevute in confidenza da un ente superiore. Egli pronuncia sì parole, ma non sue”75. “Se si ridà forza coercitiva alla norma etica, nasce la giustizia, e l’obbediente, dopo essere diventato il buono, diventa il ‘giusto’ che la giustizia rappresenta. (...) la giustizia è di per sé giusta”76. Gli uomini devono decidere cosa fare rispetto a consuetudini, ordini, imperativi. Come approfondisce Ceccato: “Si presenta, si descrive una cosa, un evento, un comportamento che devono venire usati come termini di confronto, come modelli: questi ci tengono sospesi, finché non siano applicati. Una sospensione spiacevole che crea il ‘morso della coscienza’. Così, per eliminare altre spiacevolezze, si è portati ad obbedire”77. “Siamo perennemente soggetti alla autorità: ad esempio, basterà pronunciare con forza ‘Alzati!’, oppure ‘Siediti!’, anche per gioco, ma si avvertirà come la tendenza ad obbedire sia forte”78. Si tende ad obbedire per evitare la sensazione spiacevole del rifiuto, ed il ricorso al blocco attivo. La forma imperativa dei verbi è sufficiente a indurre un modello per le proprie azioni. La persona tenderà ad adeguarsi a tale modello, perché se non si dà seguito alla esecuzione, si proverà un disturbo mentale e psichico, insomma si preferisce il blocco passivo79. Anche Elster conviene che “l’aspetto emotivo delle norme è quello centrale (…). Se le prescrizioni possono coordinare le attese è solo perché si sa che la loro violazione susciterà forti sentimenti negativi sia nel trasgressore sia in chi lo guarda”80. Il blocco passivo tende a prevalere per il potere che abbiamo proiettato sulla autorità. Come possiamo reagire quando l’obbedienza va contro valori e convinzioni che abbiamo incorporato? Le alternative sono tre.
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● Si può decidere di adeguarsi, seppur contro voglia e questo può produrre una ritrazione o un blocco a seconda di quanto l’ordine sia contrario alle proprie convinzioni ed alla propria sensibilità. Quando, in una condizione di blocco, si fa qualcosa che non dovremmo, è come se affrontassimo una curva a velocità elevata: ci batte il cuore, aumenta l’adrenalina. Se la curva viene superata, rimuoviamo il ricordo e prendiamo lezione dall’esperienza. Oppure l’auto sbanda. A quel punto affrontiamo la situazione istante per istante, accada quel che accada, pur di sopravvivere. In questo modo il blocco si autoalimenta: si può diventare spietati, quando si sente che non si può più tornare indietro. I conti si faranno dopo. ● Si finge di adeguarsi ma si annullano gli effetti dell’ordine, secondo il vecchio motto ‘se obedece pero no se cumple’ (si obbedisce ma non si esegue). Vi ricorrevano i funzionari della corona di Spagna che operavano nelle colonie americane, quando da parte del re giungevano ordini e ingiunzioni assurde o controproducenti se applicate alla situazione locale. In questo modo si salva la forma. ● Si disobbedisce, mantenendo comunque un senso di disagio, considerando che comunque sarebbe maggiore la sofferenza se si obbedisse. L’etica personale prevale sulla morale e sui condizionamenti sociali, ma si è in difficoltà, agisce il blocco. Per questo si può cercare di rovesciare la norma, per ristabilire l’eticità del nostro modo condiviso di stare al mondo81.
Chi si ribella diviene, per chi detiene l’autorità, il cattivo esempio, il malato, il degenerato, il traditore. Lo si può contenere fisicamente, con il ricorso alla forza, o in maniera più sottile, isolandolo socialmente, screditandolo, inserendolo in una categoria patologica. Aggressione come obbedienza alla autorità Rientrerebbe in questo ambito l’atteggiamento di chi commette ingiustizie e atrocità, in cui non vi sarebbe odio, né rancore, ma un compito da svolgere. In particolare l’ordine è accettato quando è ritenuto legittimo, cioè emanato da quella che viene vissuta come l’au-
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torità preposta, che prescrive un obbligo che condividiamo, perché ne condividiamo i valori di riferimento. Il potere psicologico dell’autorità aumenta se, rispetto all’ordine, vi è un rinforzo di consenso sociale. Si eseguono gli ordini, anche a costo di stravolgere il senso delle cose, pur di credere nella positività di ciò che si compie. Appare cioè un meccanismo analogo alla riduzione della dissonanza cognitiva. Ce ne dà un esempio Brecht in questa poesia: “Andranno in guerra, non come ad un massacro, ma ad un serio lavoro”82. Un altro esempio estremo relativo a questo tipo di blocco è fornito dalla testimonianza di Franz Stangl, comandante del campo di Treblinka: “E così, sentiva che non erano esseri umani? ‘Bestiame’ disse con voce atona ‘Semplicemente bestiame’ (…) Quando pensa che cominciò a sentirli come bestiame? Da come parlava poco fa, del giorno in cui arrivò a Treblinka, dell’orrore che provò vedendo quei cadaveri dappertutto – allora non erano ‘bestiame’ per lei, non è vero? ‘Credo che cominciò il giorno in cui vidi per la prima volta il Totenlager di Treblinka. Ricordo Wirth lì in piedi, accanto a quelle fosse piene di cadaveri lividi, nerastri. Non aveva più nulla a che fare con l’umanità... era una massa... una massa di carne che imputridiva. Wirth disse: ‘Che cosa dobbiamo farne di questo letame?’. Credo che inconsciamente fu da quel momento che cominciai a considerarli come bestiame’. V’erano tanti bambini, non le fecero mai pensare alle sua bambine, a come lei si sarebbe sentito se fosse stato al posto dei loro genitori? ‘No,’ disse lentamente ‘non posso dire di aver mai pensato a una cosa simile’. Fece una pausa. ‘Vede,’ riprese dopo un poco, sempre parlando con quell’estrema serietà, e con l’evidente scopo di trovare in sé stesso una nuova verità ‘raramente li vedevo come individui. Per me era sempre e soltanto un’enorme massa. A volte stavo in piedi sopra il muro, e li vedevo nel tubo”. Il tubo era il vialetto che conduceva alle camere a gas. “Ma – come posso spiegarlo – erano nudi, assiepati, e correvano sotto le sferzate... ‘non finì la frase”83.
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Stangl è inorridito la prima volta che vede i cadaveri a Treblinka, ma poi attiva il blocco e, nel parlare delle persone che successivamente ha fatto sterminare ricorre ad un nome collettivo, ad un nome che si applica agli animali, usa la parola ‘bestiame‘. Gli individui erano percepiti come parte di un insieme animalesco, non erano più persone. Denudati o con uniformi di panno grezzo, divenivano gregge e non singoli esseri umani. Per rendere più sopportabile un compito eticamente deprecabile, coloro che gestiscono la violenza spesso cercano modalità asettiche e indirette, in modo che gli esecutori non debbano confrontarsi con le conseguenze delle loro azioni: così si ricorre al bombardamento attraverso i droni ed altri tipi di aerei, si usano armi che possono uccidere a lunga distanza ecc. Per tornare all’esempio dello sterminio degli ebrei, il comandante del campo di sterminio di Auschwitz scrisse che con il metodo delle camere a gas si sentiva ‘tranquillo’ perché si sarebbero evitati bagni di sangue e “perché le vittime avrebbero potuto essere risparmiate fino all’ultimo momento. Era proprio questo che mi turbava di più, quando pensavo alle descrizioni che Eichmann ci aveva fatto dello sterminio di ebrei mediante mitragliatrici e mitra, compiuto dalle squadre speciali. Pare che vi si svolgessero scene spaventose: i tentativi di fuga da parte dei condannati, l’uccisione dei feriti, soprattutto delle donne e dei bambini. I frequenti suicidi nelle file delle squadre speciali, da parte di coloro che non erano più in grado di sopportare quei bagni di sangue. Alcuni sono impazziti. La maggioranza dei membri di queste squadre hanno cercato di dimenticare il loro triste lavoro annegando nell’alcool”84. Inoltre, si era provveduto a rendere le operazioni meno penose, lasciando ai sonderkommando il compito di tranquillizzare i loro correligionari ebrei e, successivamente, provvedendo ai compiti che seguivano all’opera di gassificazione. Ed anche questa è una strategia che viene spesso utilizzata: lasciare che i collaborazionisti svolgano il lavoro sporco, in cambio della salvezza o di altre contropartite. Berger e Zijderveld forniscono un altro esempio, legato alla negazione dell’intervento del persecutore: “‘Non sono io a fare questo; sono
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solo lo strumento di Dio’. Un’espressione raccapricciante di quest’aggiramento si può vedere sulle spade di molti carnefici europei (come quelle in mostra alla Torre di Londra): ‘Tu, o Gesù Cristo, sei il giudice’.In altre parole: ‘Io non ti sto staccando la testa; è Gesù che lo fa’”85. La parola ‘giudice’ deriva da ‘jus dixit’: il giudice è colui che dice lo jus, cioè, anticamente, delle formule tradizionali che venivano applicate ai casi concreti. Il giudice si limitava quindi a richiamare le formule della tradizione, non era sua la volontà che esprimeva. Si attiva il blocco anche nelle fasi di passaggio necessarie a raggiungere un obiettivo: ci si assenta o ci si anestetizza riguardo a ciò che stiamo facendo, in attesa di conquistare il risultato che ci interessa. Anche la crudeltà diventa finalizzata ad un obiettivo, o diventa il male minore rispetto alla positività della meta da perseguire. Si può essere indifferenti al destino dell’altro perché si aderisce e si condivide l’esecuzione degli ordini, che determinano ingiustizia e crudeltà. Oppure si esegue, attivando il blocco, senza che si condivida l’ordine, ma non si ha la forza, il coraggio o l’interesse a disattenderlo. Opporsi produce spesso una sorta di senso di colpa così radicato, che si preferisce attivare il blocco e compiere quanto ci viene ordinato. L’ordine dell’autorità acquieterebbe la consapevolezza della propria responsabilità riguardo ai torti che si provocano nei confronti degli altri. Si ricorre a razionalizzazioni quali ‘se me lo chiede l’autorità ci sarà un motivo grave e oggettivo’, ‘se tutti gli altri obbediscono, non possono avere torto’, ‘chi sono io per decidere diversamente da tutti gli altri?’, ‘cosa accadrebbe se non obbedissi?’, ‘non posso tradire i miei compagni’. Proprio per indagare i motivi che spinsero tanti tedeschi a rendere possibile l’olocausto, attraverso l’obbedienza alla autorità, Milgram elaborò un esperimento: ingaggiò soggetti volontari, cui venne chiesto di somministrare scariche elettriche a persone che fornivano risposte sbagliate a test in corso. Via via le scariche divenivano sempre più intense e protratte. Le persone continuavano a somministrarle su indicazione degli sperimentatori, non sapevano che le presunte vittime erano in realtà attori che simulavano il dolore dovuto alle scariche 86. Si trattava di vedere fino a che
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punto l’obbedienza all’autorità potesse spingere la persona a far soffrire l’altro. Il ricercatore in camice incitava spesso i volontari, con veri e propri ordini, a fare il loro dovere, nonostante il male fisico e psichico provocato alla vittima innocente. I soggetti odiavano il loro compito ed erano partecipi della sofferenza della vittima, pregavano il ricercatore di lasciarli smettere e al suo rifiuto andavano avanti, tremando, sudando, balbettando proteste e rinnovate preghiere di lasciar libera la vittima. Questi esperimenti condotti da Milgram, dimostrano la potenza del principio di autorità, che inchiodava i soggetti al loro posto, nonostante soffrissero per quello che facevano. La ritrazione non elimina l’empatia verso la vittima. Le persone obbedivano agli ordini, ma era evidente che avrebbero preferito non farlo, ed essere altrove. Si può arrivare all’estremo di voler giungere il prima possibile alla morte della vittima pur di porre fine ad una situazione estrema. Tanta è la forza dell’obbedienza all’autorità. Si fa violenza alla propria coscienza, e gradualmente dalla ritrazione si può passare al blocco, cioè ad anestetizzarsi nei confronti delle situazioni in cui siamo coinvolti e che ci vedono carnefici. Questo distacco, che diventa routine, può essere verificato nel campo della medicina: la salute ha per noi un’importanza enorme e così i medici, che hanno in questo campo grande influenza e conoscenza, detengono la posizione di figure rispettate ed autorevoli. Nessuno può mettere in discussione il giudizio del medico curante, se non un altro collega. Nasce allora la spiacevole possibilità che, se un medico commette un errore, nessuno o pochi a lui sottoposti cercheranno di chiarire cosa sta succedendo. Si tenderà ad eseguire. Introduciamo questa logica in un ambiente complesso come un ospedale, e si potranno determinare conseguenze tragiche87. L’esempio del razzismo Gli altri esseri umani possono non essere riconosciuti come pari, grazie alla ricchezza dei termini di confronto che si adottano: si viene respinti perché si arriva in Italia su un barcone invece che in aereo,
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perché si appartiene ad una tifoseria avversa, perché si professa un’altra religione. Ricordo che a Cuba, negli anni ‘80, i bar venivano divisi in due settori, per evitare risse: da una parte stavano coloro che bevevano birra, dall’altro coloro che consumavano super alcolici, come il rum. Gli uni avversavano gli altri. Attraverso i termini di confronto, creiamo una gerarchia di valore rispetto agli altri ed a noi stessi: un atleta varrebbe più di un tossicodipendente (ed un atleta che si dopa?), uno scienziato vale di più di un operaio, miss Mondo vale più di una casalinga. Sono modi di pensare che vengono sostenuti a livello sociale, attraverso i modelli di riferimento imposti dai mass media. Naturalmente il valore delle persone varia, a seconda del termine di confronto che si adotta per la valutazione: se il tossicodipendente è un artista geniale, può risultare ‘superiore’ riguardo ad un atleta che fatica a vincere. L’obbedienza alla autorità, e l’adesione al gruppo sociale di riferimento, comportano anche l’identificazione nei pregiudizi che vengono propugnati. Da qui si sviluppa il razzismo. Ritengo che il pensiero razzista, con le sue generalizzazioni, abbia origine nel pensiero primitivo. Van der Leeuw spiega che il pensiero primitivo è caratterizzato dal cosiddetto ‘collettivismo’: “Noi non diciamo: stanno arrivando moltissimi soldati, ma: c’è un esercito in marcia, e così parla anche il primitivo. La differenza è piuttosto questa, che noi andiamo oltre e diciamo: l’esercito è costituito da soldati, mentre il primitivo non lo dice. Ciò ha gravi conseguenze, Quando da noi avviene un omicidio, io dico: un uomo di nome N ha ucciso un uomo di nome Z. È una faccenda fra questi due e... la polizia. Perché neppure noi sfuggiamo completamente al pensiero totalitario e in conclusione rinviamo ogni individualità allo Stato. Anche noi sappiamo bene che in ultima istanza non ci sono fatti isolati e che tutto ciò che avviene al singolo interessa anche la comunità, ma il primitivo lo sa molto meglio: non è che N abbia ucciso Z; ma invece: un uomo, appartenente alla tribù N, ha tolto la vita a un uomo appartenente alla tribù Z. O meglio: tutto N ha recato danno a tutto Z. Allora tutto Z si muove. E così hanno origine le rappresaglie sanguinose”88. In questa appartenenza
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gli altri rispondono di un loro componente, e lui risponde per i suoi: ecco da dove deriva il pensiero collettivista dei primitivi. Per questo, nella situazione di blocco perde senso il valore del nome della persona. Questa viene semmai associata ad un nome collettivo, per essere identificata: negro, extracomunitario, zingaro ecc. Ricordo che un mio parente ferì un compaesano per vecchi rancori. Subito dopo l’episodio si svolse una riunione ‘in famiglia’ per decidere come comportarsi nei confronti del paese. La famiglia si sentiva giudicata in toto dalla gente, e doveva reagire unita nei confronti del giudizio degli altri, percepiti non come singoli, ma come un insieme omogeneo. Questo poteva alimentare a sua volta la percezione nel paese che la famiglia fosse connivente, solidale rispetto all’atto compiuto, cosa non vera. Nel pensiero razzista l’altro è qualcosa di diverso e irriducibile a noi. Illuminante è la seguente riflessione di Pasolini, relativamente alla tolleranza: “Per chi non si droga, colui che si droga e’ un diverso. E come tale viene generalmente destituito di umanità, sia attraverso il rancore razzistico (...), sia attraverso l’eventuale comprensione o pietà. Nei rapporti col ‘diverso’ intolleranza e tolleranza sono la stessa cosa. C’è da dire tuttavia che mentre gli intolleranti credono che la diversità dei diversi non abbia spiegazione e quindi meriti soltanto odio, i tolleranti si chiedono spesso, più o meno sinceramente, quali siano le ragioni di tale diversità”89. In pratica, si toglie umanità e dignità ad una persona nel momento stesso in cui la si considera diversa. Si tratta di una dipendenza dell’operare. Una volta che si è assegnati ad una categoria, non se ne può essere affrancati completamente, perché la ‘macchia’ insita nel giudizio in qualche misura è irrevocabile, perché ciò che non è visibile non può essere cancellato. La diversità resta; con il dubbio che ciò che è stato possa ripresentarsi in futuro. Per cui non si è soltanto sé stessi ma, semmai, anche un ex tossicodipendente, un ex caso psichiatrico, un ex assistito dai servizi sociali, una persona con un passato problematico. In fondo, una riserva resta sempre anche nei confronti dell’extracomunitario integrato, della persona di colore. Implicito, nella collocazione in un categoria, è il giudizio morale sulla persona, sul suo valore.
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Nel tentativo di comprendere gli altri, si cerca di sviluppare una mappa della loro personalità, come se si volesse ridurre la complessità della globalità della persona ad una sola dimensione. La persona finisce così per caratterizzarsi principalmente per un aspetto: in particolare, si tiene conto degli elementi che potrebbero essere fonte di pericolo o di interesse per noi. Le dipendenze dell’operare agiscono attraverso gli stereotipi. Si tratta di uno sguardo categorizzante, che può dare vita a diverse rappresentazioni degli altri, a seconda dei punti di vista: lo sguardo di uno psichiatria, o di un avversario politico, di un vicino, di un collega determineranno mappe diverse. Quanto sia popolare la semplificazione dello sguardo categorizzante, può essere rilevato in modo evidente nell’enorme numero di film, telefilm che inondano le nostre tv ed i nostri cinema: il cattivo è la rappresentazione del male, l’eroe è senza difetti. Invece, quando pensiamo a noi stessi, o alle persone a cui teniamo di più, tendiamo a rappresentarci in modo molto più complesso. Così, per giustificare le nostre azioni, i termini di confronto possono saltare da un piano ad un altro, dando vita anche a quelle che, per gli altri, possono risultare contraddizioni e paradossi. Goffman ha sottolineato questa differenziazione e sostiene che “Generalmente sembra incontestabile che i membri di una categoria sociale diano il loro deciso appoggio a criteri di giudizio che essi ritengono non debbano applicarsi direttamente a loro. In tal modo l’uomo d’affari pretenderà dalle donne un comportamento femminile e dai frati un modo di comportarsi ascetico, ma non proietterà sé stesso come la persona che dovrebbe seguire questi modelli di vita”90. È una sensazione che ognuno di noi ha provato, perché in certi periodi della vita abbiamo vissuto l’esperienza della stigmatizzazione per una specificità che ci caratterizzava o ci caratterizza tuttora: portare gli occhiali, essere calvi, grassi, avere lievi o gravi difetti fisici o di pronuncia ecc. Ci è sembrato di subire un giudizio sbagliato se non ingiusto, pur mantenendo i nostri pregiudizi nei confronti degli altri91. Una volta affermato, l’alibi razzista servirà a legittimare i comportamenti e le azioni future. Molte di queste sanature a posteriori, e le ideologie che cercano di sostenerle, sono fondamentalmente de-
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menziali, sostenute da valori che rimandano a metafore irriducibili, ritenute adeguate a giustificare azioni e comportamenti aberranti. Non è un caso che, gruppi di questo tipo, ricorrano all’intolleranza ed alla violenza nei confronti di chi cerca di smontare i loro alibi, ricorrendo alla razionalità. Kahneman osserva che “Le persone ‘cognitivamente indaffarate’ hanno anche più probabilità di compiere scelte egoistiche, usare un linguaggio sessista e formulare giudizi superficiali in società”92. In pratica, se si è sotto stress per compiti cognitivamente impegnativi, è più probabile che emergano comportamenti improntati agli stereotipi ed ai pregiudizi. Credo che condizioni di stress e di ansia personale – quali disoccupazione, problemi economici, preoccupazioni familiari – conducano agli stessi risultati. Lo stress e le difficoltà inducono il blocco e dipendenze dell’operare improntate alla irritabilità, alla intolleranza, molto più di quanto saremmo disposti ad ammettere. Le stesse considerazioni valgono quando lo stress è indotto da pulsioni che non vengono soddisfatte, per cui il blocco si trasferisce dalla frustrazione fisica a ciò con cui dobbiamo fare i conti. Kahneman, a questo proposito, riferisce della analisi svolta sul lavoro di otto giudici israeliani, che dovevano decidere se concedere o meno la libertà sulla parola ai detenuti che l’avevano richiesta. La percentuale dei sì era molto più alta nei casi che venivano valutati dopo i pasti (65% circa) per scendere fino a 0 poco prima del pasto: “i giudici stanchi e affamati tendevano a ripiegare sulla soluzione più ordinaria, negando la libertà sulla parola. È molto probabile che la stanchezza e la fame svolgano un ruolo nel giudizio”93. Analogamente, lo stress socialmente indotto produce dipendenze dell’operare e kred improntati al razzismo: i diversi sono di troppo, riducono lo ‘spazio vitale’ necessario a coloro che vivevano precedentemente sul territorio (in questo modo si sono giustificate anche le guerre coloniali), oppure ‘non c’è lavoro per tutti’, i diversi sono un costo per la società, rubano, si prostituiscono, sono portatori di malattie contagiose e pericolose. Il timore della perdita del proprio rango sociale, mentre persone appartenenti a categorie stigmatizzate riescono invece ad avanzare,
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determina rancore e rivalsa. Si cerca di tornare alla situazione di partenza con la violenza, come se si trattasse di un atto di giustizia. Il termine di confronto della propria dignità consiste nell’essere, comunque, un gradino al di sopra delle vittime del pregiudizio razzista. Se così non è, la persona rischia di vergognarsi di sé stessa: ‘allora io varrei meno di uno di serie b?’. A questo punto, gli appartenenti alle categorie stigmatizzate vengono accusate delle peggiori infamie: speculano sulla crisi economica, si approfittano della dabbenaggine dei politici e dei servizi sociali, sono coalizzati contro il resto della popolazione. L’aggressore razzista si sente, e si dipinge, come una vittima chiamata a riportare la giustizia. Nel razzismo la pregiudiziale non è una tanto sulla persona. L’intolleranza nasce da come la mappa cognitiva razzista colloca la persona: ‘è colpa mia se è un diverso?’. La persona è quello che è, al di là della propria buona volontà, come abbiamo visto nel pensiero primitivo, e nelle considerazioni di Pasolini. Sarà al massimo un buon negro, o buono per essere un negro. Non è responsabile della propria condizione, ma resta pur sempre un negro. Anche per questo le persone razziste dicono di non esserlo, non ce l’hanno con la persona, ma con quello che rappresenta, con lo sfondo narrativo che la identifica e la caratterizza, nonostante la buona impressione che può suscitare. Nelle dipendenze dell’operare connesse al razzismo, l’altro appare come un oggetto e, come osserva Sartre, “la sua soggettività diventa una semplice proprietà dell’oggetto considerato. (...) L’Altro-oggetto ‘ha’ una soggettività come questa scatola vuota ha ‘un interno’”94. La connotazione della scatole è comunque negativa e si arriverà a sostenere che la buona apparenza rende ancor più pericolosa la persona, per la apertura di credito che istintivamente suscita. Sulla base di tali termini di confronto, si cerca poi di decodificare i comportamenti alla ricerca di somiglianze, conferme, aderenze allo sfondo imposto. È per questo che il pregiudizio non scatta nei confronti di una persona che si conosceva precedentemente ad una categorizzazione negativa, ad esempio un amico che diviene tossicodipendente: lo sfondo narrativo è già stato costituito nella relazione, e prevale sulla rappresentazione stereotipica della persona deviante.
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Non solo, il razzismo non si applica, o si applica in misura minore, nei confronti di persone facoltose: per la possibilità che queste hanno di ‘comprarsi’ la simpatia, ed anche perché la mappa sociale attribuisce loro maggiore valore, grazie alla connotazione positiva di successo e affidabilità attribuita alla ricchezza. Talvolta il pregiudizio razzista è una giustificazione a fronte di comportamenti disonesti. Un esempio è tratto da un testo dello scrittore Kertész, in cui si narra di un fornaio che imbrogliava sul peso del pane a tessera per gli ebrei. Afferma il protagonista: “Ho capito la logica del suo ragionamento, ovvero del perché non può permettersi di sopportare gli ebrei: perché altrimenti avrebbe la sgradevole sensazione di imbrogliarli. Invece così è coerente con al sua convinzione e il suo agire viene guidato dalla giustezza di un’idea, il che (...) è una cosa completamente diversa, è naturale”95. Anche in questo caso, ritengo si sia in presenza di meccanismi di riduzione della dissonanza cognitiva. Nell’intervista di Sereny a Stangl, abbiamo visto che questi associava gli ebrei del campo di sterminio a bestiame. Questo ci introduce alla nozione di disgusto nei confronti dell’altro. Il disgusto è la percezione che proviamo nei confronti di determinati animali (serpenti, scarafaggi, ratti ed altri ancora), riguardo a ciò che chiamiamo sporco, ai fluidi ed alle secrezioni corporee, a determinati odori. Si tratta di una reazione incontrollabile ed immediata, che serve anche a difenderci dalla assunzione di cibo o liquidi avariati, o dalla possibilità di essere contaminati. Tale reazione è tuttavia condizionata culturalmente, e diventa un kred che si attribuisce e che si differenzia da società a società. Ad esempio “Un insetto schifoso in una casa occidentale diviene un boccone prelibato in un mercato del Sudest asiatico: un formaggio muffoso, una verme nella bottiglia di Mezcal, la carne di un cane sono cibo squisito per alcuni, un attentato al (buon) gusto per altri; un gesto ripugnante in certe società, come ruttare e sputare in pubblico, in altre costituisce un’usanza apprezzata”96. Da sempre le religioni distinguono tra le pratiche pure e quelle impure, i cibi ammessi e quelli no. Esempi se ne trovano nella Sacra Bib-
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bia e nel Corano, ma anche nei testi sacri di altre antiche religioni. Contravvenire alle prescrizioni significava contaminare gli altri, e scatenare l’ira della divinità. Quindi, significava danneggiare anche la comunità, e questo giustificava la repressione. Un esempio interessante di disgusto, provocato da un diverso modo di considerare e manipolare il cibo, a seconda del contesto culturale di provenienza, ci viene da Charles Darwin: “Nella Terra del Fuoco un indigeno toccò con un dito la carne fredda conservata che io stavo mangiando nel bivacco, e sentendola tenera manifestò chiaramente un estremo disgusto, mentre allo stesso tempo io fui molto disgustato dal fatto che il mio pasto fosse stato toccato da un selvaggio nudo, benché le sue mani non sembrassero molto sporche. Una sbordolatura di minestra sulla barba di un uomo ci disgusta, benché non ci sia evidentemente niente di disgustoso nella minestra in sé stessa. Ritengo che ciò dipenda dalla forte associazione che c’è nella nostra mente tra la vista del cibo, dovunque si trovi, e l’idea di mangiarlo”97. Questo brano è interessante, anche perché ci fa comprendere che il disgusto è legato alla anticipazione di ciò che potrebbe accadere, in questo caso l’assunzione di cibo: costituisce una reazione nei confronti di una proiezione. Ciò che crea disgusto è l‘immaginazione, cioè le operazioni mentali ed i termini di confronto che adottiamo. Si tratta di dipendenze dell’operare. Oltre al cibo, stabiliamo anche quali siano altri comportamenti ritenuti riprovevoli, che determinano disgusto nei confronti di coloro che li praticano, ad esempio pedofili, persone che praticano l’incesto ecc. Abbiamo già visto che, ancora oggi, si adotta nei loro confronti una morale che risale ad antiche prescrizioni religiose e che non sempre ha senso punire, a meno che ci si renda colpevoli di violenza, come avviene nel caso della pedofilia. In particolare, si è portati a percepire coloro adottano pratiche disgustose, come soggetti mossi da istinti animaleschi, sub umani. Così sono stati attribuite a questi gruppi umani caratteristiche disgustose, come la viscidità, il cattivo odore, la sporcizia, la decomposizione, l’indecenza. Per estensione, tali caratteristiche sono state attribuite anche nei confronti di gruppi di persone fatte oggetto di avversione razzista, e cioè, ad esempio, gli ebrei, gli omosessuali, gli zingari, i poveri.
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In molti casi gli appartenenti a tali categorie sono costretti a vivere nella sporcizia, per confermare lo stigma razzista. Si pensi ai paria dell’India: erano costretti a ritirare gli escrementi delle altre famiglie della comunità. Depositavano le feci in contenitori aperti, che portavano in equilibrio sul capo. Nella stagione dei monsoni i secchi si riempivano di acqua, che poi scendeva sulla testa e sul corpo dei paria. Si diceva che i cani vivessero meglio dei paria, perché i cani possono rifiutare il cibo che si offre loro, ma era ritenuto offensivo che i paria rifiutassero il cibo talvolta immondo che veniva loro offerto dalle famiglie, per i loro servizi. Ancora oggi, le prostitute paria sono costrette a vendersi in luoghi fatiscenti nel Bangladesh. Ne parla uno splendido e terribile articolo pubblicato su El Pais98, in cui si descrivono gli sputi di betel, il buio degli ambienti di uno squallido bordello a tre piani, nella città di Faridpur, a cento chilometri da Dacca. Quindicenni, costrette a prostituirsi dopo essere state violentate, quindi disonorate. Sporcate dalla violenza e dunque, nella mentalità del luogo, impure e sporche a loro volta. Da tale bordello è nato un moto di contestazione per rivendicare un minimo di diritti: non essere obbligate a camminare scalze (e quindi ad imbrattarsi con la sozzura del terreno) per essere subito riconoscibili (essere riconosciute cioè per la loro sporcizia contaminata e contaminante). Hanno ottenuto anche di essere sepolte una volta decedute, mentre prima venivano gettate nel fiume, come le carcasse degli animali. Nella loro vita disgraziata, devono guardarsi anche dalla furia devastatrice e omicida degli estremisti islamici, che talvolta cercano di appiccare fuoco ai bordelli. In nome della purezza e della decenza... Le persone contaminanti devono essere riconoscibili, altrimenti il blocco della espansione non scatta. Ecco allora che alle prostitute viene imposto di camminare scalze, ecco la sporcizia degli ambienti in cui vivono e sono costrette a praticare: sono considerate persone ‘contaminate’, organiche alla sporcizia con cui sono a contatto. Determinano disgusto. La loro presunta ‘abiezione’ rende possibile trattarle come bestie. Non solo, vengono colpevolizzate per la loro condizione.
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Nel disgusto colpevolizzante, l’altro costituisce anche una minaccia per la società, perché la corromperebbe, e ciò determina una doppia giustificazione alla sua eliminazione. Per questo, se viene attaccato nessuno si attiva per difenderlo e molti, che non osano usare violenza, si sentiranno comunque liberati. L’aggressione razzista viene percepita come operazione di pulizia e ripristino dell’ordine (o del ‘decoro’): un modo sbrigativo per ‘risanare’. Si è colpevolizzati perché si imputa l’adesione a valori abbietti, che sarebbero tipici del gruppo di appartenenza; una logica che si rifà al pensiero primitivo. Tant’è che il postulante si presenta sporco, se vuol sperare nella concessione dell’elemosina. Propone cioè l’immagine stereotipata del povero per definizione, contrapposta alla pulizia di chi è chiamato a compiere l’opera di carità. Le caratteristiche disgustose, non a caso, hanno carattere permanente. Ad esempio, lo sporco viene associato ad un tratto di personalità. Infatti “Si dice ‘sporco uomo’ e così pure ‘sporco commediante’, ‘sporco avaro’; tuttavia non ‘sporco violento’, ‘sporco pettegolo’. Sembra cioè che tale attributo si adoperi per contrassegnare proprietà permanenti del soggetto; non si fa invece intervenire per atteggiamenti accidentali o mutevoli”99. Vaccarino ha scritto giustamente che “Lo sporco non è visibile, non è tangibile, non è in alcun luogo perché non è una cosa fisica. Pertanto voi, uomini giudiziosi, persone di alto senno, potete liberarvi dal suo spettro semplicemente ignorandolo. Smettete di vederlo nei concimi, nelle polveri, nel fango, negli escrementi, nelle macchie ed esso scomparirà”100. Sarebbe ancor più saggio comportarsi allo stesso modo nei confronti degli uomini. Lo sporco costituisce una metafora, tanto più pericolosa perché non è qualcosa che si vede o si tocca, bensì il frutto di operazioni mentali; non può mai essere tolto del tutto e lo si può attribuire ai gruppi sociali che, di volta in volta, divengono bersaglio di risentimento e avversione. Tutto questo fa supporre che, contrariamente a ciò che si pensa, le operazioni mentali – che ci hanno fatto progredire nel corso della storia dell’uomo, che ci rendono più tolleranti e civili –, non si sono sostituite alle altre, ma semmai si sono aggiunte sovrapponendosi.
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Questo potrebbe spiegare il motivo per cui i comportamenti più primitivi e bestiali riaffiorano nel tempo. Proprio perché ciò che non si vede non può essere cancellato una volta per tutte. Aggressione e colpevolizzazione delle vittime Nella aggressione, a seguito della esecuzione di un compito o di un ordine, cerchiamo comunque di giustificarci, richiamandoci ad un’etica di tipo superiore ed a questioni di principio (‘quello che ho fatto era il male minore’, ‘andava fatto’ ecc.). Insomma, cerchiamo di rendere spiegabile e coerente il nostro comportamento, quindi inevitabile, riducendo la dissonanza cognitiva. Un esempio è il discorso che Himmler tenne a Poznan davanti ai gerarchi nazisti, sulla necessità di sterminare gli ebrei andando oltre i sentimenti di pietà, proprio perché mossi da una morale ‘superiore’. In effetti, tutte le volte che si compiono azioni indegne ci si rifà a principi superiori, o se ne addossa la colpa a qualcun altro, preferibilmente la vittima, o entrambe le cose. Anche in questo caso si riduce l’altro ad una dimensione, in modo razzista. In questo modo l’altro sarebbe nato per essere servo, dominato o eliminato. Oppure sarebbe traditore per natura. Per sottolineare l’aspetto ‘etico’ dello sterminio, Himmler affermava che chiunque si fosse appropriato anche solo di un marco requisito agli ebrei, sarebbe stato passato per le armi, perché tutto doveva essere conferito allo Stato. Dietro questa facciata ‘etica’, si nasconde la volontà, che ufficialmente viene negata, di degradare preventivamente l’altro. In vista dell’aggressione le persone si ‘caricano’, per rendere possibili comportamenti aggressivi. Ricordo che qualche tempo fa vennero rese pubbliche le intercettazioni di alcuni camorristi, che si stavano recando presso l’abitazione di un loro nemico, per ucciderlo. Bestemmiavano, lanciavano insulti e si raccontavano episodi squalificanti sulla loro vittima per ‘caricarsi’ di rabbia e determinazione, per darsi un alibi. In questa logica, è importante alimentare il proprio disgusto per le vittime. Così, l’altro viene spogliato di umanità e di dig-
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nità prima ancora di essere incontrato. È quanto accade anche prima di una battaglia; da sempre i soldati si caricano con grida di guerra, atteggiamenti minacciosi e sprezzanti. Gitta Sereny chiese, a questo proposito, all’ex comandante di Treblinka, Franz Stangl101: “Visto che li avreste uccisi tutti… che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà?”, l’uomo rispose: “Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni, Per rendergli possibile fare ciò che facevano”. Levi continua commentando: “prima di morire, la vittima dev’essere degradata, affinché l’uccisore senta meno il peso della colpa”102. Il disgusto deve essere spinto al massimo livello. Un uomo che è possibile denudare e mortificare, spogliato della sua dignità non è più percepito come un essere umano, ma come una non persona. Induce disprezzo invece che compassione. Può essere trattato come una preda. È probabilmente la stessa dipendenza dell’operare che scatta nei confronti del nemico sconfitto che fugge. È noto infatti che il maggior numero delle uccisioni nelle battaglie, in qualsiasi tempo, avviene quando uno dei due eserciti viene messo in fuga. Questo perché è più difficile trafiggere o sparare ad un uomo mentre lo si guarda negli occhi. Il nemico in fuga non è più un essere umano: diviene una preda e questo esalta l’istinto atavico del cacciatore che è in noi, che suggella la vittoria nel momento in cui abbatte la preda. Grossman ritiene che si tratti dello stesso istinto che spinge i cani ad attaccare o meno: conviene arretrare continuando a restare rivolto verso il cane, invece di fuggire. Altrimenti si viene azzannati103. Si verifica insomma una regressione alla animalità, alle dipendenze dell’operare relative al rapporto cacciatore-preda. Dal blocco relativo al combattimento si passa all’espansione sadica, con il compiacimento per l’annientamento del nemico terrorizzato, in un delirio di onnipotenza. Da qui proviene probabilmente il senso della ‘festa della crudeltà’ di cui parla Nietzsche, che caratterizzava i rapporti sociali del passato, ma che riaffiora tutt’oggi. Il fascino ed il richiamo del rapporto cacciatore-preda appare in modo sublimato in quasi tutti i film e telefilm di provenienza ameri-
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cana, dove non manca mai un inseguimento che ripropone la situazione di chi fugge terrorizzato da chi lo vuole catturare. Evidentemente si tratta di un ingrediente fortemente attrattivo per il pubblico, se tali situazioni vengono riproposte continuamente. Così come non mancano mai situazioni di suspense, in cui i personaggi devono far fronte ad una volontà malefica. Siamo ancora in presenza del rapporto cacciatore-preda. Ancora oggi, quando si osservano i filmati degli estremisti musulmani diffusi su internet, in cui mostrano i loro prigionieri, ciò che viene fatto loro subire – rinchiusi in gabbie, mostrati come animali alla popolazione, messi al rogo, sgozzati –, si avverte, da parte di questi pervertiti, un senso di esaltazione che altro non è se non una regressione alla animalità, nell’eccitazione per il potere che si può esercitare nei confronti di prede, presentate come prigionieri, ma umiliati per disconoscerne l’umanità. Il tutto con l’alibi di una fede religiosa che, al contrario, dovrebbe promuovere l’uomo per affrancarlo dalle proprie radici bestiali. La regressione alla animalità è tanto più facilitata se vi è un gruppo che la condivide e la rivendica, pur con mille alibi. Un ulteriore tipo di mortificazione è costituito dalla derisione. È il riso dei vigliacchi: si deride qualcuno davanti ad un uditorio compiacente, quando ci si sente sicuri che l’altro non sia in grado rispondere, né con le azioni né con le parole, anche se si finge il contrario. In questa maniera, si cerca di dimostrare che l’altro non merita né rispetto né considerazione, perché sarebbe senza dignità. È una tecnica utilizzata anche nel mobbing sul lavoro: la derisione in pubblico o alle spalle diviene aggiuntiva all’isolamento104. In definitiva, quando si fa un torto a qualcuno, in realtà spesso se ne fanno tre: 1) si fa del male all’individuo 2) per sottrarsi alla responsabilità del nostro comportamento si colpevolizza la vittima di ciò che è accaduto 3) si lascia che la persona si maceri per il torto subìto e per le conseguenze della colpevolizzazione, rispetto agli altri e rispetto a sé stessa.
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Da parte sua, chi subisce un’ingiustizia si sente umiliato due volte: la prima perché viene screditato, la seconda perché non è in grado di reagire alla situazione nel modo che riterrebbe più opportuno, per questo si sente vile o inadeguato, confermandosi nel giudizio espresso dagli altri. Così, chi viene umiliato tende ad introiettare il disprezzo degli altri. Tali dipendenze dell’operare in ambito sociale rendono possibile il fenomeno dei cosiddetti invisibili (barboni, marginali ecc.). Invece di intervenire li rifuggiamo, perché rimuoviamo ciò che ci ripugna e ricorriamo al blocco. Poiché non si possono eliminare fisicamente, si cerca di farlo anagraficamente, ostacolando l’iscrizione agli uffici dello stato civile, e consentendo la loro morte civile. Quando non è più possibile chiudere gli occhi li si colpevolizza per la loro condizione. Ciò evita di prendere in considerazione le ragioni della marginalità. È sempre stato così. Ad esempio, pene severe, fino alla seconda metà del ’700, erano previste nei confronti dei vagabondi, considerati colpevoli di non lavorare: “’Questi miserabili – scrive Fernand Braudel – hanno rotto con il lavoro, ma il lavoro, l’occupazione ha precedentemente rotto con loro’. A questo punto converrà ricordare le considerazioni di Marx sul paradosso crudele che offre la situazione dei vagabondi, costretti a rinunciare alla loro condizione sociale di prima e per giunta perseguitati per questa precisa ragione. Infatti, se è vero che l’inadattabilità psicologica e sociale porta spesso al rifiuto di lavorare, altrettanto spesso è il lavoro che manca e che questa gente non riesce a trovare”105. Ancora oggi si ritiene che uomini e donne “se restano disoccupati è perché non hanno mai imparato come ottenere un colloquio di lavoro, o perché non si sono industriati abbastanza a trovare un impiego o perché sono dei puri e semplici scansafatiche; se temono per le loro prospettive di carriera e tremano pensando al futuro è perché non sono sono abbastanza bravi a farsi degli amici e a influenzare la gente e non hanno imparato – colpevolmente - a padroneggiare l’arte di far colpo sugli altri. Questo è, a ogni modo, quanto viene loro detto e quanto si fa loro credere. Come Beck ha acutamente osservato: ‘il modo in cui si vive diventa una soluzione biografica a contraddizioni
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sistemiche’. Rischi e contraddizioni continuano a essere prodotti a livello sociale; sono solo il dovere e la necessità di affrontarli a essere stati individualizzati”106. Una forma particolare di colpevolizzazione è quella adottata dal pensiero calvinista americano, per cui si ritiene che i cosiddetti ‘perdenti’ (losers) semplicemente non siano i prediletti di Dio. Generalmente, si imputa alle persone in difficoltà o emarginate la mancanza di buona volontà. Il concetto di ‘volontà’ costituisce una comoda metafora irriducibile per chi gestisce il potere, evitando di metterne in discussione le contraddizioni. Secondo lo psicologo Patrick Declerck, la volontà è soltanto la capacità di dominare i desideri e le pulsioni più profonde. Tutto il resto non esisterebbe, ed afferma: “Per quale strana operazione di volontà cosciente, ad esempio, opteremmo per una carriera omosessuale piuttosto che eterosessuale? O l’inverso? Su quale inaudita esteriorità appoggiarsi per scegliere o meno di avere il desiderio, il gusto, la motivazione, in breve, la volontà di diventare magnaccia invece che pescivendolo? Soizic Bigorneau, sposata e madre di 4 bambini a Bénodet (Finistére sud) invece di vedette di strip tease a Las Vegas? Questa pretesa libertà esistenziale, già burlesca, diviene francamente assurda quando vi si ricorre rispetto alle patologie. Chi può seriamente immaginare che si scelga di divenire alcolista invece che eroinomane? Maniaco depressivo piuttosto che schizofrenico? Nevrotico ossessivo piuttosto che sociopatico? Chi può, per un istante, sostenere che non si guarisce perché non si vuole guarire? Chi osa l’odiosa e disinvolta ingiuria di pensare, per un istante, che si vive nella strada perché lo si vuole? Perché piace? Chi? Ma tutti, sempre… (…) La verità, molto semplice e poco gloriosa, è che, come me, come te, tutti gli uomini e fino all’ultimo e più allucinato dei folli, fanno quel che possono con ciò che sono. Vale a dire non un gran ché, con quasi niente… Non ciò che si vuole ma, più miseramente, ciò che si può”107.
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Esempi di trasformazioni del blocco Non è soltanto con il blocco che si disconosce l’umanità altrui. Può avvenire anche nell’espansione, quando si prende piacere della vendetta, dell’annientamento del nemico, o del tormento di una vittima. Lo dimostrano esperimenti rimasti famosi, come ad esempio, lo Stanford Prison Experiment, condotto da Philip Zimbardo nel 1971. Si dimostrò che, in soli sei giorni, normali studenti potevano trasformarsi in mostri, dopo che erano stati assegnati al ruolo di guardia in una falsa prigione, dove i prigionieri erano a loro volta altri studenti. In quei sei giorni gli studenti-guardie arrivarono a denudare ripetutamente i prigionieri, li incappucciavano, li incatenavano, negavano favori riguardo al cibo o al sonno, li isolavano e facevano pulire loro il water a mani nude. Si costrinse addirittura i prigionieri a simulare atti di sodomia tra di loro. Zimbardo scrisse che “‘Il comportamento umano è più sotto il controllo di forze legate alla situazione di quanto la maggioranza di noi sarebbe disposta ad ammettere’. Milgram concordava: ‘La psicologia sociale di questo secolo rivela una lezione fondamentale’, dichiarava. ‘Non è tanto il tipo di persona che un uomo è, quanto il tipo di situazione in cui si trova che determinerà i suoi comportamenti’. (...) una meta analisi di 25.000 studi di psicologia sociale, condotta dai ricercatori della Princeton University, concludeva che quasi ognuno è capace di tortura e di altre azioni spregevoli se indotto dalla situazione”108. Riaffiora insomma la regressione alla animalità, tipica del rapporto preda-cacciatore. Nel piacere della crudeltà vi è espansione109, nella indifferenza o rimozione per il dolore che si provoca c’è il blocco. Già gli antichi greci definivano akrasia la mancanza di dominio di sé che porta gli uomini ad agire contro ciò che si ritiene il bene. Tuttavia, è possibile determinare un cambiamento nelle dipendenze dell’operare e del kred in questi casi, proprio come può avvenire anche rispetto al razzismo. Un esempio sono gli esercizi denominati ‘blue-eyed/brown-eyed’ elaborati e messi in pratica da
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Jane Elliot già alla fine degli anni ’60. La Elliot, che allora lavorava come maestra nelle scuole elementari, in una classe di bambini bianchi, volle far sperimentare ai suoi alunni le radici e le conseguenze del razzismo. Si trattava di un argomento di scottante attualità, poiché in quei giorni era stato ucciso Martin Luther King. La classe venne divisa in due gruppi: da una parte i bambini con gli occhi azzurri, da assimilare ai bianchi, dall’altra quelli con gli occhi marroni, da assimilare ai neri. Il primo giorno i ragazzi di un gruppo, assieme alla Elliot, tiranneggiarono e presero a male parole i componenti dell’altro gruppo. A questi ultimi, il giorno successivo, venne chiesto di adottare lo stesso comportamento, assieme alla maestra, nei confronti di coloro che erano stati i loro persecutori. I bambini del secondo gruppo si rivelarono molto meno accaniti, perché avevano vissuto quell’esperienza sulla loro pelle ed erano meno disposti a maltrattare gli altri. In questo modo i bambini compresero l’assurdità del razzismo e provarono il disgusto per la sopraffazione. Questi esercizi sono stati riproposti successivamente anche in molti altri contesti di vita, sempre con gli stessi risultati.110 Un altro esempio di passaggio dal blocco all’espansione è costituito dalla ritorsione. In assenza del nemico che si vorrebbe punire, ci si rivale e ci si espande compiendo atti di crudeltà nei confronti di persone, animali od oggetti cari alla persona odiata. Un caso esemplare è la storia di Medea, narrata da Euripide, che secondo Gualdrini: “è ben consapevole non solo delle azioni che compie ma anche del loro valore morale: ‘e capisco quali mali dovrò compiere, ma più forte dei miei propositi è la passione, la quale per gli uomini è causa dei mali più tremendi’ (Euripide, “Medea”, 1078). Con queste parole Medea, mentre è sul punto di uccidere i propri figli per desiderio di vendetta nei confronti di Giasone, sancisce la lacerazione dell’anima psyché, affermandone la debolezza: i buoni propositi (boulemata) possono essere vinti dalla passione (thymos) e causare un’azione biasimevole non solo agli occhi degli altri ma anche propri”.111 Il passaggio dal blocco alla ritrazione del senso di colpa lo ritrovo in una mia esperienza personale. Lo vivevo quando andavo a trovare mio padre, allettato e non autosufficiente, ospite di una RSA: da una
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parte non sopportavo la situazione, non riuscivo ad accettare di vedere mio padre così sofferente, e questo determinava in me un blocco. Non riuscivo a rimanere a lungo. Quando me ne andavo, mi sentivo in colpa per come vivevo quella situazione. Si tratta di un passaggio che ritroviamo in numerose situazioni: si adotta il blocco nei confronti di persone a cui teniamo, perché magari siamo arrabbiati o delusi, tuttavia questa separazione in realtà ci fa soffrire, solo che non ci rendiamo conto di questi due livelli, e ci ancoriamo al blocco. Successivamente facciamo i conti con il nostro patire. Si può indurre un blocco negli altri per ottenere rispetto, passare cioè da una condizione di discredito ad una di rivalutazione del proprio valore da parte degli altri. Maraini racconta, ad esempio, un episodio di cui fu protagonista durante il periodo di prigionia presso i giapponesi, nel secondo conflitto mondiale. A seguito di uno sciopero della fame, lui e gli altri compagni di prigionia italiani, vengono redarguiti con disprezzo dagli ufficiali giapponesi, che accusano gli italiani di mentire riguardo alle condizioni di prigionia e di essere dei traditori. A quel punto Maraini afferra un’accetta e si mozza una falange di un mignolo, porgendolo poi ad un ufficiale giapponese che si chiamava Kasuya ed affermando che gli italiani non sono bugiardi. Racconta Maraini: “ricordo chiaramente Kasuya vestito di bianco e tutto macchiato di sangue. Questo particolare aveva la sua notevole importanza magica; col mio gesto obbligavo infatti il poliziotto ad una purificazione, trasferivo su di lui ogni responsabilità riguardo all’incidente. La violenza contro sé stessi testimonia al superiore, col sangue e con la sofferenza morale dell’inferiore, nei casi supremi col sacrificio della vita, la sincerità, l’impegno morale dell’inferiore, e deve compiersi con certe forme – come da noi un duello – perché esprima davvero un moto dello spirito”112. L’atteggiamento di blocco non è mai comunque totale, perché in qualche modo si resta sempre implicati in una relazione. Il discorso di Himmler a Poznan era anche un richiamo a non farsi coinvolgere
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da sentimenti di umanità, perché aveva ben presente cosa sarebbe potuto accadere in questo caso. Il coinvolgimento emotivo era quanto di più temesse, assieme all’accusa di aver agito per depredare le vittime. Innumerevoli film, romanzi e opere teatrali mettono a fuoco una situazione di blocco, da cui nasce comunque una relazione e come questo evento si possa verificare. Nella Bibbia – vedi Mosé – e nei miti antichi sono molte le storie di bambini che dovrebbero essere uccisi per problemi di successione e che, invece, vengono graziati dal carnefice che si impietosisce di loro. Un esempio di scardinamento del blocco, può essere ritrovato nelle conversioni religiose di personaggi impegnati nelle persecuzioni, che restavano sconvolti dalle prove di coraggio e santità delle loro vittime. Il pentimento, per il male che si è fatto, scatta quando ci si identifica con la vittima, quando cioè a livello mentale si opera un’eguaglianza con chi soffre, e si lascia che si espanda in noi l’empatia. Il blocco, relativo alla categoria dell’estraneo, si scioglie se si riconosce nell’estraneo un elemento di familiarità: avere lo stesso tipo di ironia, rendersi conto che i rispettivi figli frequentano la stessa scuola, che si coltiva una stessa passione ecc. Secondo Ceccato ci sono due modi costruttivi di superare i conflitti legati alla diversità: “1) ponendo l’eguaglianza (“in fondo quelle cose le ho fatte anch’io”); 2) comprendendola inglobandola, come una libertà anche nostra (“il comprendere è perdonare”, “io riesco a pensare anche come te, sono più ricco di quanto non fossi prima di conoscerti”)”113. La differenza diviene così una possibilità di promozione personale. Nel caso della prossimità coatta, il blocco può essere scardinato ricorrendo all’ironia rispetto ai paradossi della situazione, od offrendo qualcosa che ci appartiene: ad esempio il vino sulla tavola, nel caso delle persone che si ritrovano a desinare assieme al ristorante. Oppure se si è portatore convinto e non distruttivo, di un altro punto di vista. Ad esempio una persona che si rifà alla cultura orale. Nella prossimità coatta il dono serve a spezzare la logica della spartizione, magari mettendo a disposizione il proprio spazio. Ed è un
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passaggio radicale cui si può aderire volentieri, perché liberatorio riguardo ad una situazione di costrizione ed autocostrizione. Si finisce nell’espansione. Un altro passaggio dal blocco alla fiducia lo ritroviamo nel caso della persona disponibile a farti credito, anche se sei uno sconosciuto. Si tratta del dono della fiducia, che reclama il contro dono della restituzione. Talvolta non funziona, però consente l’avvio di nuove relazioni.
Considerazioni finali Abbiamo visto, nel corso del libro, che il blocco si radica in reazioni istintive, primordiali, presenti in molte specie animali, dettate dalla necessità di assicurare la propria sopravvivenza. Da questo discendono le dipendenze dell’operare conseguenti: si va da quelle indotte per reazione innata, a quelle indotte socialmente. Il rapporto tra i vari ambiti è del tipo né uno né molti. Per questo devo ammettere che la suddivisione che ho operato, tra dipendenze dell’operare del singolo e dipendenze indotte socialmente, costituisce una forzatura, che ho adottato mosso dall’esigenza di mettere a fuoco i vari aspetti e sfumature del blocco. Pure la suddivisione netta tra blocco e ritrazione di fatto è forzata, al fine di presentare un’analisi più comprensibile e semplice. Ritrazione e blocco possono coesistere, e questo avviene nelle situazioni estreme, ad esempio quando si deve combattere. Da una parte si vorrebbe evitare lo scontro, dall’altro cerchiamo di imporci l’autocontrollo. In questi casi il nostro corpo mobilita le proprie energie, da spendere sia che nel caso che ci si batta, sia nella eventualità della fuga: per questo motivo la circolazione sanguigna si concentra nelle braccia e nelle gambe, accelerano sia la respirazione che il battito cardiaco. Il blocco e l’espansione in determinate situazioni possono essere compresenti. È il caso di chi si sente ferito da una persona a cui vuole
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molto bene e non attende che delle scuse, o comunque un segno, per riavvicinarsi ed espandersi. Anche il rapporto tra dipendenze dell’operare innate e quelle indotte socialmente ricade nella dimensione del né uno né molti. Infatti abbiamo visto che vi sono forme di blocco che originano dalle nostre radici animali, come nel caso del rapporto cacciatore-preda. Una delle molle che ha reso possibile il processo di civilizzazione è proprio il ripudio della dimensione animale. Non è un caso che si contesti ai singoli ed ai gruppi sociali che si detestano di comportarsi come bestie. Occorre cercare di essere consapevoli delle reazioni di blocco che ci possono far regredire, anche se in modo sublimato e socialmente accettato, alla dimensione animale. Se l’emotività e le dipendenze dell’operare fossero onnipotenti, saremmo imprigionati nel presente, senza capacità riflessiva. Quest’ultima è possibile perché, grazie al né uno né molti, possiamo osservarci dall’esterno, ed agire successivamente in modo diverso. Possiamo cioè fermarci e rimandare temporaneamente le azioni da compiere, sulla base delle convinzioni che stiamo maturando. Come hanno scritto Frankl e Kreuzer: “essere uomo significa comunque poter diventare sempre diverso”114. Ciò è realizzabile se si va oltre le dipendenze dell’operare. Abbiamo la responsabilità di essere noi, per quanto condizionati, gli artefici del nostro mondo. Sulla base delle nostre valutazioni e delle nostre scelte si innescano, successivamente, cambiamenti e dipendenze dell’operare di tipo nuovo. Come suggeriva Ceccato: “se fosse proprio il soggetto, e non quanto gli accade intenzionato ad espandersi ed intenzionato a restringersi, ecco questo soggetto diventare proprio lui l’artefice rispettivamente di una positività e di una negatività. Ed ecco che si spiega come una cosa possa riuscire odiosa, sì, perché ha quella certa caratteristica, disturba i miei sonni, puzza, etc., ma anche proprio e soltanto perché viene odiata. Altrimenti odieremmo ed ameremmo tutti e sempre le stesse cose, in quanto anche per l’amore è possibile il doppio passaggio, cioè una cosa è amata perché amorevole, amo-
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rosa, amabile, ma lo diventa anche se è amata”115. Essere consapevoli di questo ci mette in condizione di modificarci. L’essere umano è soddisfatto quando è in espansione, cioè quando l’esterno per lui ha valore, quando si sente in sintonia con il mondo che lo circonda, e quando sente che lui ha valore per gli altri. A seconda del tipo di espansione che ricerchiamo, si producono valori e dipendenze dell’operare conseguenti. Vaccarino chiarisce che “nessuna categoria od osservato comporta un valore positivo o negativo che sia, perché il valore è sempre ottenuto ponendo qualcosa in rapporto e considerando la sua possibilità di soddisfare o meno tale rapporto”116. Così le persone possono cercare la propria espansione nel valore delle proprie relazioni, oppure cercando di possedere quanto più possono, espandendosi nelle loro proprietà. A volte si tratta di un mix di questi elementi. L’ideologia corrente vede ed incoraggia nelle persone la ricerca del proprio utile, la massimizzazione dei vantaggi economici, anche a scapito degli altri. L’affermazione personale è sempre in relazione alla condizione degli altri, in una gerarchia di cui si deve cercare di occupare le posizioni più elevate, o di maggior profitto. Le dipendenze dell’operare conseguenti a questo tipo di approccio, fanno ritenere che ci siano persone di maggiore e minor valore, i vincenti ed i perdenti, ed altre castronerie del genere. Si favorisce così l’indifferenza al destino altrui. La ricerca della massimizzazione del proprio utile ci porta a pensare, come nell’esperimento relativo ai topolini da tenere in vita, che ciò che diamo ad altri avvenga a nostro discapito. Non ci fermiamo a riflettere sul fatto che ciò di cui disponiamo, talvolta, è reso possibile dalle ingiustizie subite da altri, come nel caso degli operai tessili sfruttati del Bangladesh, costretti a vivere nella miseria e nella assenza di diritti. I diritti altrui vengono invece percepiti come un costo. Camus scriveva che “Non si ragiona male perché si è assassini. Si è assassini se si ragiona male. È così che si può essere assassini senza avere concretamente ucciso nessuno. Ed è così che siamo tutti as-
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sassini, in una misura o nell’altra”117. Altrimenti non sarebbero stati possibili i lager nazisti ed i gulag sovietici, nemmeno le condanne a morte in tanti paesi del mondo, ad iniziare dagli Stati Uniti, l’indifferenza per la sicurezza dei lavoratori, i bombardamenti con i droni ed i loro danni ‘collaterali’: “milioni di uccisioni non sono state e ancora non sono avvertite come omicidi dalle diverse opinioni pubbliche, e spesso neppure dagli ordinamenti giuridici e dai tribunali”118. Tendenzialmente viviamo in una società che tende ad incrementare il blocco, l’isolamento e la rassegnazione delle persone. Se, invece, ricercheremo l’espansione nell’investimento relazionale, daremo vita ad altre dipendenze dell’operare, completamente diverse, perché completamente diversi saranno i termini di confronto. L’investimento relazionale non desidera l’accumulo ed i feticci (denaro, proprietà, affermazione di status ecc.), ma si coniuga con l’empatia. Si tratta di un bisogno profondo ed innato, dimostrato dall’esistenza dei neuroni specchio. Secondo Lakoff: “Se l’empatia è naturale, allora l’interesse personale non esaurisce il discorso”119. E prosegue: “Fare qualcosa per gli altri è naturale se sentiamo come gli altri sentono. La fiducia è naturale quando la distinzione tra sé e gli altri è più attenuata. (...) La lealtà è naturale verso qualcuno che non è distinto da noi”120. I neuroni specchio dimostrano che “siamo predisposti non solo per l’empatia, ma anche per la cooperazione”121. Quando si ricerca questo tipo di espansione, ci si rende conto che l’uomo non è un’isola e che c’è bisogno di tutti. In questo contesto, le dipendenze dell’operare ci spingono a commuoverci e ad indignarci rispetto a qualsiasi storia di ingiustizia, anche se ne veniamo a conoscenza molto tempo dopo. A differenza degli animali, il nostro senso di riparazione dei torti dura a lungo, ed è essenziale per dare un senso al nostro stare al mondo. Così ci sconvolge ancora la storia degli ebrei sterminati nella seconda guerra mondiale, così come il genocidio commesso dagli khmer rossi, le atrocità perpetrate nella ex Jugoslavia, ed in qualsiasi parte del globo. Credo che il motivo per cui si chiede alla magistrature ed agli storici di stabilire la verità, risieda nel bisogno di ristabilire i canali e le
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regole che consentano agli uomini di legarsi nuovamente tra di loro, nella dimensione della espansione. Anche per questo le pene sono finalizzate al reinserimento sociale. I momenti più esaltanti, nella storia delle persone e dell’umanità, sono legati al sentimento di espansione nella condivisione. Si possono commettere le nefandezze più esecrabili, questo sentimento di espansione si affermerà di nuovo, forse proprio a causa di tali atrocità e del bisogno di ripudiarle. Forse l’esigenza di stabilire la verità ed il perdono sono mossi da questa forza potente che unisce gli uomini. Non abbiamo necessariamente bisogno di essere ricchi o più ricchi degli altri. Siamo felici se ci sentiamo ricchi e appagati nei bisogni primari: libertà dal bisogno, poter coltivare affetti e relazioni gratificanti. Nell’investimento relazionale si è disposti a farsi carico del senso del dovere. Non è vero che gli individui seguono una norma solo perché temono di essere puniti in caso di trasgressione. E non è vero che solo il profitto personale muove le persone ad impegnarsi di più, nella vita come nel lavoro. È invece l’espansione in ciò che si compie che produce risultati migliori. In questo caso non si ricerca tanto il denaro, ma il riconoscimento pubblico del valore di ciò che si è fatto. Così la mia insegnante delle scuole elementari era orgogliosa della medaglia d’oro concessale dal Ministero della Pubblica Istruzione; così il donatore di sangue potrà esporre la targa che la sua associazione gli consegna, per attestarne la costanza nell’impegno. Allo stesso modo i militari esibiscono medaglie ed onorificenze, e non pretendono un bonus per le loro azioni. L’espansione nella relazione con gli altri spiega il perché i contribuenti siano disposti a versare denaro in tasse per parchi che non visiteranno mai, per scuole di cui non si avvarranno e per altri servizi ancora che non utilizzeranno. Non solo, coloro che si impegnano in un atto non retribuito tendono a proseguire l’attività anche quando potrebbero dedicarsi ad altro122. In psicologica sociale si è appurato che i traumi, legati a violenze subite a causa di altri esseri umani, sono molto più devastanti e difficili da elaborare, riguardo ai traumi dovuti ad eventi naturali o in-
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cidenti stradali. Credo che questo avvenga perché dagli altri non ci attendiamo un pericolo, una minaccia alla nostra incolumità, ma semmai la possibilità di instaurare una relazione empatica. Il senso di comunanza con l’altro può emergere anche in contesti di scontro estremi. A questo proposito mi ha molto impressionato la testimonianza di un veterano della seconda guerra mondiale, rispetto alla sua esperienza in situazioni di combattimento: “davanti, a destra, a sinistra, rimbalzi e schegge alle tue spalle, esplosioni sopra di te, il terreno che trema sotto i tuoi piedi. Lo scontro lo ‘senti’ in tutto il corpo. La vista confusa per il sudore che ti cola negli occhi, le narici bruciate dall’acre odore degli spari, le orecchie invase da rumori terrificanti, i nervi scossi dai colpi di mortaio e dall’esplosione delle granate, le urla dei combattenti, i lamenti dei feriti, il crepitio dei proiettili e dei traccianti, i corpi dietro cui ti nascondi o che calpesti, che magari sono i corpi di gente che conoscevi. Tutto questo fuso insieme. Non c’è modo di descriverlo, non c’è film che possa raffigurarlo, non ci sono parole per raccontarlo. Grazie a Dio, mi ci sono trovato in mezzo solo poche volte. Ma, una volta che ti ci sei trovato, questo crea un legame tale, non solo coi tuoi compagni ma persino col tuo nemico, che nessun altro, per quanto vicino ti possa essere, potrà mai condividere”123. Il bisogno relazionale viene rimosso di nuovo se capita l’occasione, anche potenziale, di acquisire un vantaggio personale, o se qualcuno lo propone: ci espandiamo in ciò che potremmo ottenere, e da qui si innescano i termini di confronto e le dipendenze dell’operare legate alla competizione, al possesso, con ciò che ne consegue in termini di perdita di valore degli altri. Insomma, si torna al blocco. Il blocco rende possibili le ingiustizie sociali, il loro perpetuarsi nel tempo, la sopraffazione, la possibilità che ciò che viene riconosciuto come un diritto possa essere sottratto in qualsiasi momento. Il progresso consiste nella riduzione degli spazi lasciati alla violenza, alla negazione parziale o totale dell’altro. Se è l’uomo che definisce la realtà e non è possibile l’oggettività del reale, allora, come sostiene anche Watzlawick, “dobbiamo confrontarci con la possibilità di essere totalmente responsabili non solo di noi stessi, ma anche
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dell’invenzione e della produzione di realtà per altre persone”124. Dal dovere di approfondire e governare questi aspetti discende la responsabilità di ognuno di noi. Responsabilità, in definitiva, significa essere interessati ed attenti agli altri. La consapevolezza dei valori di riferimento ci consente di saper stare nel confronto con gli altri, perché si esplicitano i presupposti di partenza. Analogamente, una società migliore si otterrebbe esplicitando i propri termini di confronto, invece di ricorrere alle tante confuse metafore irriducibili su cui si puntella chi gestisce i rapporti di potere. Questo renderebbe il confronto chiaro, onesto e sostenibile. Occorrerebbe rifuggire tutti coloro che si propongono come i detentori della verità, del giusto, di una conoscenza a priori che, di fatto, si basa sull’impostura e sulla brama della propria affermazione. Non sarebbe male insegnare tutto questo nelle scuole. Vorrei non essere frainteso: non sto dicendo che occorre rimuovere il blocco nel momento in cui lo proviamo, perché la consapevolezza è successiva, ma che dovremmo mantenere il senso del valore degli altri, indipendentemente dalle reazioni emotive che vorrebbero prevalere. Si tratta di un compito e di una responsabilità non facile, però essenziale. Quando, attraverso il blocco, disconosciamo l’umanità altrui rinneghiamo anche la nostra, la capacità di esprimere e comunicare la nostra ricchezza e di confrontarsi con quella altrui. Certamente non possiamo abbracciare ed essere interessati a tutti. L’estraneità in moltissimi casi è giustificata, ed anche la prudenza. Tuttavia, quando si deve agire nei confronti degli altri, o ci viene richiesto di rispondere al richiamo altrui, siamo posti davanti ad una scelta: accogliere il mistero dell’altro e confrontarsi, anche in modo duro, oppure ridurlo ad una mappa o ad una cosa? Oppure negarne addirittura l’esistenza? È chiaro che non si può essere accoglienti nei confronti di intende opprimerci o dominarci: in questi casi è giusto contrapporsi e lottare
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per i propri diritti e per quelli altrui. Opporsi alle ingiustizie per motivazioni etiche è positivo, perché ci mette in grado di rivendicare il nostro valore di persone e, in questo modo si ridà valore anche a coloro che subiscono dei torti. Nella gestione consapevole del blocco e nel permanere della capacità di confrontarsi, anche in modo conflittuale, sta la forza della non violenza. Resistere alla violenza altrui in modo non violento, significa costringere l’altro a fare i conti con la propria animalità, se usa la violenza, nelle sue varie declinazioni. È una violenza che si ritorce contro gli autori perché le supposte vittime la subiscono, ma rifiutano di sentirsi umiliate. Restano persone che non fuggono e non si arrendono. Stravolgono la logica dello scontro, in cui una delle due parti deve darsi alla fuga o arrendersi alla mercé del nemico. Il cacciatore esplicita così la propria animalità quando l’altro rifiuta il ruolo di preda. Se si ha la consapevolezza delle dipendenze dell’operare che determinano il blocco, sarà più facile prevenire il passaggio dal conflitto alla violenza distruttiva, mantenendo aperta la relazione. Non esistono relazioni importanti senza conflitti; che spesso non sono risolvibili nel breve periodo. Il conflitto ed il confliggere non sono l’eccezionalità, ma piuttosto la norma. Per questo è importante imparare a sostare nel conflitto ed a non temerlo, in modo che maturi ed evolva, perché la volontà di risolverlo rapidamente quasi sempre aggrava le relazioni. Se siamo convinti che tutto sia collocabile nelle categorie di bene o di male, di giusto o sbagliato, perché tutto rientrerebbe in una logica e in un disegno precostituito, che occorre soltanto riconoscere e di cui si dovrebbero seguire i fili, finiamo prima o poi per incappare in dilemmi che smentiscono tali certezze. In questi casi possiamo reagire in due modi: in modo radicale, cercando soluzioni semplici ed autorassicuranti a problemi complessi, come se noi fossimo i depositari di ciò che è giusto, da riaffermare a qualunque costo, spesso a spese di qualcun altro. L’altra reazione consiste nel far finta di non vedere le ingiustizie che si provocano, ed anche questo a spese di qualcun altro. Credo invece che dovremmo fare spazio all’umiltà, per cercare di trovare la soluzione che appare migliore, o meno peggiore, al di là del
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bene e del male e delle assolutizzazioni che ne conseguono. Occorre agire perché tali situazioni non ricapitino, quando è possibile. È faticoso, e sono convinto che si possa fare solo se si parte dalla consapevolezza del primato del proprio valore e del valore degli altri, rispetto alla imposizione ideologica. Le dipendenze dell’operare talvolta ci spingono ad agire in modi di cui ci pentiamo. Mi viene in mente un esempio relativo al mio lavoro, all’interno di un Sert: un giorno un’operatrice di un gruppo appartamento per donne con gravi problemi di emarginazione, mi raccontò di un’ospite con limitate risorse cognitive, che una sera sul tardi aveva deciso di andare a visitare il fidanzato, che soggiornava a poche centinaia di metri. Andò a trovarlo in pigiama, per fargli una sorpresa. Quando lui aprì lei lo salutò e gli sorrise. La cosa non andò bene, perché si era dimenticata la dentiera. Lì per lì mi venne da ridere, poi mi pentii, perché in realtà si trattava di un dono di sé da parte di una persona ingenua e tenera: un atto bello, da rispettare. Questo episodio mi serve anche per chiarire che se le dipendenze dell’operare precedono la nostra consapevolezza e sono indotte, è vero anche che possiamo maturare sensibilità e convinzioni che, successivamente, ci mettono in condizione di rivedere lo stesso episodio con uno sguardo diverso. È possibile governare le nostre reazioni. Come fare? Cercherò di formulare la mia proposta rifacendomi ad un’altra esperienza personale. Nella introduzione al libro, ho raccontato di aver attraversato un momento difficile anni fa. In quel periodo presi a frequentare un gruppo terapeutico condotto da uno psicologo. Un giorno riferii di una difficoltà che mi affliggeva: da tempo l’atto di ricordare per me era in qualche modo doloroso, mi provocava malinconia; per questo cercavo di non soffermarmi sui ricordi, nemmeno sui momenti più belli, perché anche questi erano condizionati da questo alone di tristezza. Approfondendo l’argomento, riferii che vedevo il passato come attraverso un filtro, che dava ai ricordi una colorazione sfocata, come nelle foto d’epoca. Grazie al terapeuta riuscii a visualizzare una
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lastra di vetro che riproduceva lo stesso effetto: si poneva tra me ed il mio passato, e mi venne chiesto cosa intendevo farne. Risposi che avrei voluto distruggerla; mi fu risposto che non era possibile perché faceva parte di me. Ad un certo punto compresi: mi dovevo spostare all’esterno della lastra di vetro per vedere i ricordi in un’altra luce. Quando impariamo qualcosa di nuovo riguardo a noi stessi ci modifichiamo, cioè ci spostiamo, siamo in grado di vedere in qualche misura ‘dall’esterno’ la situazione. ‘Spostarsi’ significa semplicemente cambiare i termini di confronto che si adottano e nel contempo ‘sentire’ che è il modo più adeguato e giusto di vedere la situazione. Questo è possibile grazie al né uno né molti. Il passato non viene cancellato, resta, ma abbiamo deciso di spostarci, cioè di cambiare gioco e regole del gioco. Il vecchio modo di vedere le cose rimane, ma viene depotenziato da una visuale ben più ampia ed adeguata. Crescere, dal mio punto di vista, significa questo: da figli si diventa adulti non perché si perde la prima dimensione, ma perché ci si sposta e si vede il rapporto con i genitori con uno sguardo diverso, quello di un adulto che è in grado di valutare altri adulti. In questo modo si riescono a governare eventuali conflitti. Analogamente, un genitore si sposta dal proprio ruolo, per iniziare ad intrattenere con il figlio un rapporto da adulto, pur rimanendo genitore. Allo stesso modo ci si può ‘spostare dal blocco’ e dal conflitto. Non solo, è possibile la riconciliazione ed il perdono. Non si dimenticano le ferite ed i torti subiti, ma si decide di non restare prigionieri del gioco delle rivalse e delle ritorsioni, si opta per la propria liberazione da tali condizionamenti: così si decide di spostarsi ed in questo modo di reinventare l’altro attraverso il perdono, o almeno di fornirgli questa opportunità. Starà all’altro decidere se cambiare, cioè spostarsi a sua volta, o restare prigioniero del gioco che l’ha portato a fare del male, in una dimensione meschina. Spostandosi, si disattivano vecchie dipendenze dell’operare e si può dare vita a nuove dipendenze, più giuste, più adeguate. Si acquisisce maggiore consapevolezza. Questo ha reso possibile il mio pentimento rispetto al sorriso che ho espresso, quando mi è stato raccontato l’episodio della ragazza che era andata a trovare il fidanzato senza protesi.
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Un libro è fondamentalmente un’opera di rassicurazione, perché propone una chiave interpretativa, cioè una logica ed un ordine riguardo a ciò che viene percepito come problematico. E questo fa bene, per primo a chi scrive. Ecco, adesso lo posso dire: questo libro contiene in sé la sintesi delle riflessioni di una vita, con la necessità di riconciliarsi con ciò che mi ha fatto soffrire. Lavoro in un contesto in cui le persone devono fare i conti con la loro perdita di valore sociale. Osservo intorno a me un crescente isolamento sociale ed un blocco nei rapporti tra gli individui. Penso che la sofferenza subìta deve trovare la forza della denuncia, ma questa deve diventare anche una mano tesa, perché sia data l’opportunità a chiunque di riflettere e rivedere i propri comportamenti, come scrissero gli allievi di don Milani nel libro collettivo “Lettera a una professoressa”125. Occorre andare oltre lo sguardo che categorizza, così come occorre andare oltre l’atteggiamento economico quando si parla di assicurare i diritti fondamentali delle persone. Ho già citato Dave Grossman, esperto militare, formatore delle forze speciali americane. In un suo libro, racconta che dopo un conflitto a fuoco in zone urbane, in cui vi siano state delle vittime, si procede al ‘debriefing’, cioè ad un incontro a cui partecipano tutte le persone che sono state coinvolte. Questo permette di confrontarsi sulle diverse interpretazioni e ricostruzioni dell’episodio, per trarne delle lezioni, ed anche per ripartire le responsabilità. Infatti, spesso le persone coinvolte in eventi traumatici assumono su di loro l’intera responsabilità dell’accaduto, e tendono a portare con sé questo peso, che diviene talvolta insopportabile. Quello che i militari hanno compreso, dall’esperienza del debriefing, è che si rivela molto efficace a superare lo shock rispetto a ciò che si è vissuto. Soprattutto si è imparato che il dolore condiviso diviene un dolore suddiviso, e quindi sopportabile. La gioia condivisa diviene una gioia moltiplicata. In entrambi i casi abbiamo bisogno degli altri: le cose vanno meglio se ci si tende una mano a vicenda. E questo vale per tutti i gruppi di auto aiuto.
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All’inizio del libro l’autore riporta la testimonianza di un reduce della guerra del Vietnam, che depose sul monumento dedicato ai veterani di quel conflitto, a Washington, la foto che ritraeva un giovane soldato vietnamita assieme alla piccola figlia. Nel biglietto che accompagnava la foto raccontava che, durante il periodo del conflitto, un soldato nemico lo aveva individuato e che gli avrebbe potuto sparare. Non lo fece. Il giovane militare americano, allora diciottenne, addestrato ad uccidere il nemico sparò, colpendo a morte l’altro. Nel portafoglio trovò la foto del soldato vietnamita con la figlia. Portò con sé quella foto per 22 anni prima di deporla sul monumento. Al termine del biglietto stava scritto: “Più di tutto, oggi so rispettare l’importanza che la vita aveva per te. Suppongo sia la ragione per cui oggi sono qui... È tempo che io continui la mia vita deponendo il mio dolore e la mia colpa. Perdonami Signore”126. Una mano tesa è difficile da cancellare ed è la base per un mondo migliore, in cui vorremmo far crescere i nostri figli. Perché questo sia possibile, occorre partire dal riconoscimento del valore degli altri.
NOTE 1 L’omissione alla sollecitazione altrui può essere funzionale anche a nascondere il proprio timore. In questo caso si finge un atteggiamento di blocco e questo non rientra nelle considerazioni che svilupperemo. Nell’omissione alla sollecitazione altrui di cui stiamo parlando non c’è paura. 2 La territorialità, sostiene Hall, lo studioso che ha coniato il termine ‘prossemica’, è fondamentale nel regno animale perché: 1) “assicura la propagazione della specie regolandone la densità di popolamento (Hall E. T. “La dimensione nascosta”, Bompiani, Milano, 1982, pag. 16); 2) facilita la generazione e l’allevamento dei figli, fornendo una sfera di sicurezza ‘domestica’” (ibidem pag. 17); 3) “preserva dal supersfruttamento quella parte dell’habitat da cui una specie dipende per sopravvivere” (ibidem pag. 17); 4) “mentre sono gli animali più forti a determinare la direzione generale in cui evolve la specie, il fatto che i più deboli possano vincere (e dunque
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generare) a casa propria aiuta a conservare la plasticità della specie, incrementando la varietà ed impedendo che gli individui più forti monopolizzino la linea dell’evoluzione, irrigidendone i caratteri” (ibidem pagg. 17-18); 5) “ostentazione e aggressività diventano strumenti al servizio del processo di selezione naturale. Per assicurare la sopravvivenza della specie, tuttavia, l’aggressività deve essere regolata. Ciò può avvenire in due modi: o sviluppando e articolando le gerarchie sociali o istituendo intervalli spaziali tra gli individui” (ibidem pag. 23). 3 Hall E. T. “La dimensione nascosta”, Bompiani, Milano, 1982, pag. 22. 4 Cfr. Hall E. T. “La dimensione nascosta”, Bompiani, Milano, 1982, pagg. 147-159. 5 Wikipedia, alla voce ‘Prossemica’, ultimo accesso 22.10.2012. 6 Amietta P. L., Magnani S. “Dal gesto al pensiero. Il linguaggio del corpo alle frontiere della mente”, Franco Angeli editore, Milano, 1998, pag. 26. “In America Latina, dove è più comune toccarsi e le unità di spazio fondamentali sembrano essere più piccole, le grandi automobili costruite negli Stati Uniti pongono dei problemi. Le persone non sanno dove sedersi” (Hall E. cit. in Goffman E. “Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione”, Einaudi, Torino, 1982, pag. 161, nota 2). 7 Wikipedia, alla voce ‘Prossemica’, ultimo accesso 22.10.2012. 8 Hall E. T. “La dimensione nascosta”, Bompiani, Milano, 1982, pagg. 100-101. 9 Goffman E. “Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione”, Einaudi, Torino, 1982, pag. 137. 10 Wikipedia, alla voce ‘Prossemica’, ultimo accesso 22.10.2012. 11 Goffman E. “Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione”, Einaudi, Torino, 1982, pag. 138. 12 Harrison G. e Callari Galli M. “Nè leggere, né scrivere. La cultura analfabeta: quando l’istruzione diventa violenza e sopraffazione”, Feltrinelli, Milano, 1974, pag. 82. 13 Goffman E. “Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione”, Einaudi, Torino, 1982, pag. 100, nota 3. 14 Hall E. T. “Il linguaggio silenzioso”, Garzanti, Milano, 1972, pag. 16. 15 Ibidem, pag. 22. 16 Ibidem, pagg. 189-190. 17 Ibidem, pag. 18. 18 Accame F. e Oliva C. “Transazioni Minori nel commercio dell’ideologia”, Elèuthera, 1987, pag. 108. 19 Accame F. “Dire e Condire”, Odradek, Roma, 1999, pagg. 102-104. 20 Cfr. Goffman E. “Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione”, Einaudi, Torino, 1982, pag. 158. 21 Ibidem, pag. 86. 22 Ibidem, pag. 95. Una fissità anormale ancor più calcata è quella espressa dal soldato che viene redarguito da un ufficiale e che, tuttavia, è costretto a rispondere rispetto a quanto gli viene imputato. In questo caso, è ancor più evidente lo stato di subordinazione. 23 Dusi Elena “Il mercato è fatto per gente cattiva, e ce lo dimostra un test coi topolini”, Repubblica on line del 15.5.2013, consultabile all’indirizzo www.repubblica.it/scienze/2013/05/15/news/mercato_sopravvivono_cattivi-58761822/?ref=HREC2-9, ultimo accesso 15.5.2013. 24 Cfr. Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 54. 25 Ibidem, pag. 35. 26 Ibidem, pag. 36. 27 Ibidem, pag. 36. 28 Hall E. T. “La dimensione nascosta”, Bompiani, Milano, 1982, pagg. 165-166.
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Ibidem, pag. 53. Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pagg. 60-61. 31 Accame F. e Oliva C. “Transazioni Minori nel commercio dell’ideologia”, Elèuthera, 1987, pag. 44. 32 Fromm E. “Avere o essere?”, Mondadori, Milano, 1977, pag. 103. 33 Cfr. Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 26. 34 Kahneman D. “Pensieri lenti e veloci”, Oscar Mondadori, Milano, 2013, pag. 339. 35 R. Kapuscinsky cit. in Stainem G. “Autostima. Un viaggio alla scoperta della nostra forza interiore” BUR, 1993, pag. 39. 36 Novara D. “La grammatica dei conflitti”, Edizioni Sonda, Alessandria, 2011, pag. 22. 37 Lakoff G. “Pensiero politico e scienza della mente”, Bruno Mondadori editore, Milano, 2009, pag. 192. 38 Il lavoro è ormai un metro di misura del valore della persona. Nel passato, invece, era considerato disdicevole essere costretti a guadagnarsi da vivere lavorando, mentre le persone ‘a modo’ si facevano vanto del fatto che altri lavorassero per loro. 39 Cfr. Sartre J.-P. “L’essere e il nulla”, Il Saggiatore, Milano, 1972, pagg. 285-286. 40 Il rossore, invece, è diverso dalla vergogna. Si verifica quando ci vengono attribuiti pensieri o intenzioni vergognose, ma da cui non siamo in grado di difenderci, oppure quando ci assumiamo responsabilità che vengono ritenute vergognose, al posto di altri. 41 Nietzsche F. “Genealogia della morale”, Adelphi, 2000, pag. 123. 42 Bonhoeffer D. “Lettere alla fidanzata”, Queriniana, Brescia 1994. 43 Shah I. “Contes derviches”, Le courier du livre”, Paris, 1988, pag. 27. 44 Kaysen S. “La ragazza interrotta”, Tea, Milano, 2013, pagg. 133-134. 45 Cialdini R. “Le armi della persuasione”, Giunti, Firenze, 1995, pag. 57. 46 Accame F. “Rossori. Viatico all’esercizio della colpa e della redenzione”, Due punti edizioni, Palermo, 2013, pag. 22. 47 Moessinger P. “Irrationalité individuelle et ordre social”, Librairie Droz, Genéve, 1996, pag 57. 48 Ibidem, pag 62. 49 Ibidem, pag 64. 50 Ibidem, pagg. 62-68. 51 Hallinan J. T. “Il metodo antierrore”, Newton Compton, Roma, 2009, pag. 269. 52 Cfr. Höss R. “Comandante ad Auschwitz”, Einaudi, Torino, 2013, pagg. 131-134. 53 DiSalvo D. “Cosa rende felice il tuo cervello (e perché devi fare il contrario)”, Bollati Boringhieri, 2013, pagg. 252-253. 54 G. Lisi “La cultura sommersa”, Libreria editrice fiorentina, Firenze, 1972, pag. 82. Continua Lisi “Il maligno si identifica con l’ambiguo e l’equivoco. Maligno è colui che annulla la contraddizione, valicandola. Maligno è colui che pur facendo parte della notte entra nel giorno. Se restasse nel suo dominio, non interferirebbe con la realtà, con la vita diurna degli uomini. Se restasse nell’assenza della notte, Egli sarebbe assente come la notte. Il nero di notte è invisibile” (ibidem, pag. 91). 55 Cfr. Berger P. L. e Berger B. “Sociologia, la dimensione della vita quotidiana”, il Mulino, Bologna, 1985, pagg. 369-370. 56 Goffman E. “La vita quotidiana come rappresentazione”, Il Mulino, Bologna, 1975, pagg. 178. 57 Roach M. “Stecchiti. Le vite curiose dei cadaveri”, Einaudi, Torino, 2005, pagg. 5 e 9. 58 Presta M. “Un calcio in bocca fa miracoli”, Einaudi, Torino, 2011, pag. 161. 59 Camus A. “La crisi dell’uomo”, in “L’informazione bibliografica”, n. 2, aprile giugno 1995, pag. 186. 60 Orieux J. “Caterina de’ Medici. Un’italiana sul trono di Francia”, Mondadori, Milano, 1988, pag. 273. 30
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61 Rosenhan D. L. “Essere sani in posti insani”, in Watzlawick P. (a cura di) “La realtà inventata”, Feltrinelli, Milano, 1988, pagg. 114-115. 62 Ibidem, pag. 105. 63 Cfr. Elias N. “Il processo di civilizzazione”, Il Mulino, Bologna, 1988, pag. 97. 64 Cit. in Szompka P. “Sociological Dilemmas - Toward a Dialectic Paradigm”, Academic Press, Londra, 1979, pag. 198. 65 Dal Lago A. “La produzione della devianza. Teoria sociale e meccanismi di controllo”, Ombre Corte, Verona, 2001, pag. 44. Varrà la pena di ricordare l’uso smaccatamente a fini repressivi della psichiatria nei regimi totalitari. 66 Considerazioni analoghe le avevo già espresse in un articolo, scritto assieme a Giovanna Cangioli, sul numero del luglio 2002 della rivista Fuoriluogo, allegata a “il manifesto”, il titolo dell’articolo era “La cura sotto ricatto”. 67 Scuola di Barbiana “Lettera a una professoressa”, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, pag. 13. 68 S. Lec “Altri pensieri spettinati”, Bompiani, Milano, 1999, pag. 41. 69 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 38. 70 Ceccato S. “Lezioni di linguistica applicata”, Clup, Milano, 1990, pag. 51. 71 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 39. 72 Beneviste E. “Il vocabolario delle istituzione indoeuropee”, vol. 2, Einaudi, Torino, 1976, pag. 249; cfr. Meillassoux C. “Antropologia della schiavitù”, Mursia, Milano, 1992, pag. 29. 73 A.Dal Lago, “Non-persone l’esclusione dei migranti in una società globale”, Feltrinelli, Milano, 1999, pag.207. 74 Horkheimer M. e Adorno T. W. “Lezioni di sociologia”, Einaudi, Torino, 1974, pagg. 53-55. 75 Ceccato S. Oliva C. “Il linguista inverosimile”, Mursia, Milano, 1988, pag. 31. 76 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 38. 77 Ceccato S. “C’era una volta la filosofia”, Spirali, Milano, 1996, pag. 111. 78 Ibidem, pag. 111. 79 Cfr. Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 103. “la stessa sensazione spiacevole si prova, e per motivi analoghi, alla domanda lasciata senza risposta ed alla volontà che non si attua” (ibidem). 80 Elster J. “Il cemento della società, uno studio sull’ordine sociale” Il Mulino, Bologna, 1995, pag. 145. 81 Cfr Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 103. 82 Brecht B. “Poesie e canzoni”, Einaudi, Torino, 1961, “Quando la guerra comincia”, pag. 118. 83 Sereny G. “In quelle tenebre”, Adelphi, Milano, 2005, pag. 271. 84 Höss R. “Comandante ad Auschwitz”, Einaudi, Torino, 2013, pag. 130. 85 Berger P., Zijderveld A. “Elogio del dubbio. Come avere convinzioni senza diventare fanatici”, Il Mulino, Bologna, 2011, pag. 121. 86 Cit. in Moessinger P. “Irrationalité individuelle et ordre sociale” Librairie DROZ, Genève, 1996, nota a pag. 56. 87 Cfr. Robert Cialdini “Le armi della persuasione”, Giunti editore, Firenze, capitolo 6. 88 Van der Leeuw G. “L’uomo primitivo e la religione”, Torino, Boringhieri, 1961, pag. 31. 89 P.P. Pasolini, Corriere della sera, 24.7.75. 90 Goffman E. “Stigma”, Laterza, Bari, 1970, pag. 22. 91 Cfr. Goffman E. “Stigma”, Laterza, Bari, 1970, pag. 212. 92 Kahneman D. “Pensieri lenti e veloci”, Oscar Mondadori, Milano, 2013, pag. 45. 93 Ibidem, pag. 49. 94 Sartre J.-P. “L’essere e il nulla”, Il Saggiatore, Milano, 1972, pagg. 362-363. 95 Kertész I. “Essere senza destino”, Feltrinelli, 2004, pag. 13.
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96 “Classificazioni sospette” di Lingiardia V. e Vassallo M.a in Nussbaum M. “Disgusto e umanità”, il Saggiatore, Roma, 2011 pag. 12. Ci sono anche varianti legate all’individuo, come ad esempio persone che sono disgustate dagli uccelli o da altri animali normalmente accettati. 97 Darwin C. cit. in “Classificazioni sospette” di Lingiardi V. e Vassallo M.a in Nussbaum M. “Disgusto e umanità”, il Saggiatore, Roma, 2011 pag. 10. 98 http://sociedad.elpais.com/sociedad/2011/12/09/actualidad/1323430959_547959.html Pubblicato su ‘El Pais’ il 9.12.2011. Ultimo accesso 14.12.2013. 99 Vaccarino G. “Lo sporco”, Marsilio editore, Venezia, 1977, pag. 77. 100 Ibidem, pag. 58. 101 Il libro si intitola “In quelle tenebre”, editore Adelphi, Milano, 1975, pag. 135. 102 Levi P. “I sommersi e i salvati” Einaudi, Torino, 1994, pag. 101. 103 Grossman D. “On combat. Psicologia e fisiologia del combattimento in guerra e in pace”, Edizioni Libreria Militare, Milano, 2009, pagg. 198-199. 104 Invece, l’irrisione è l’arma che una maggioranza adotta nei confronti di una minoranza che gestisce il potere in modo non condiviso ed a cui non ci si può ribellare apertamente. Vi rientrano ad esempio le pernacchie nei confronti di chi si comporta da ‘trombone’. 105 Geremek B. “Il pauperismo nell’età preindustriale (sec. XIV-XVIII) in “Storia d’Italia”, Einaudi, Torino, 1975, volume 5/1 “I documenti”, pagg. 695-696. 106 Bauman Z. “Modernità liquida”, Laterza, Bari, 2002, pag. 26. 107 Declerck P. “Le sang nouveau est arrivé. L’horreur SDF”, Gallimard, Paris, 2005, pagg. 69-70. 108 Carter R. “Multiplicity. The New Science of Personality, Identity, and the Self”, Little, Brown and Company, New York, 2008, pagg.34-35. 109 Analogamente vi è espansione nel vandalismo e nella distruzione di ciò che viene percepito come proprietà altrui. Infatti, si gode per l’impunità, per la propria sensazione di potenza e di dominio rispetto a ciò che si distrugge. 110 Cfr. www.janeelliot.com, ultimo accesso 5.12.2015 111 Gualdrini A. “Akrasia. Debolezza morale e uomini malvagi”, in Eco U. (a cura di) “L'antichità”, vol. 14 “Vicino Oriente, Grecia, Roma”, La Biblioteca di Repubblica L'espresso, Roma, 2013, pagg. 273-274 112 Maraini F. “Incontro con l’Asia”, de Donato editore, Bari, 1980, pag. 253. 113 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 25. 114 Frankl V. E. e Kreuzer F. “In principio era il senso”, Queriniana, Brescia, 1995, pag. 95. 115 Ceccato S. “Ingegneria della felicità”, Bur, Milano, 1988, pag. 16. 116 Vaccarino G. “La mente vista in operazioni”, Casa editrice G. d’Anna, Firenze-Messina, 1974, pag. 27. 117 Camus A. “La crisi dell’uomo”, in “L’informazione bibliografica”, n. 2, aprile giugno 1995, pag.187. 118 Escobar R. “Il silenzio dei persecutori. Ovvero il Coraggio di Shahrazàd”, Il Mulino, Bologna 2001, pag. 17. 119 Lakoff G. “Pensiero politico e scienza della mente”, Bruno Mondadori editore, Milano, 2009, pag. 240. 120 Ibidem, pag. 242. 121 Ibidem, pag. 121. 122 Cfr. Beauvois J.-L. “Les influences sournoises”, François Bourin Editeur, Paris, 2011, pagg. 124. 123 Keith Kreitman, cit. in Grossman D. “On combat. Psicologia e fisiologia del combattimento in guerra e in pace”, Edizioni Libreria Militare, Milano, 2009, pag. 73.
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124 Watzlawick P. “Le profezie che si autodeterminano, in Watzlawick P. (a cura di) “La realtà inventata”, Feltrinelli, Milano, 1988, pag. 100. 125 Cfr. Scuola di Barbiana “Lettera a una professoressa”, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, pag. 132. 126 Grossman D. “On combat. Psicologia e fisiologia del combattimento in guerra e in pace”, Edizioni Libreria Militare, Milano, 2009, pag. 15.
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COLLANA VERDE di Storia orale, storia dal basso diretta da C. Bermani • SALVATORE CAPOGROSSI, Storia di antagonismo e resistenza • CESARE BERMANI, Spegni la luce che passa Pippo, Voci, leggende e miti della storia contemporanea • AA. VV., Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del ’77 • SANTE NOTARNICOLA, L’evasione impossibile • CESARE BERMANI (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, vol. I; Ricerche, vol. II • FILIPPO BENFANTE-PIERO BRUNELLO, Lettere dalla Curva sud. Venezia 1998-2000 • GIANNI BOSIO, I conti con i fatti. Saggi su Cafiero, Musini e l’occupazione delle fabbriche • ALFONSO ETXEGARAI, Ritornare a Sara Testimonianza di un deportato basco • ANTONIO JELMINI, La prima Brigata lombarda. Memorie del comandante “Fagno”, • CESARE BERMANI, “Guerra, guerra ai palazzi e alle chiese... “. Saggi sul canto sociale • ROBERTO BIANCHI, Donne di Greve. Primo maggio1917 nel Chianti: donne in rivolta contro la guerra • Circolo “GIANNI BOSIO” (a cura di), Un anno durato decenni. Vite di persone comuni prima, durante e dopo il’ 68 • ARRIGO BOLDRINI, Diario di Bulow • CESARE BERMANI, “Filopanti”, Anarchico, ferroviere, comunista, partigiano • MAURO VALERI, Negro, ebreo, comunista. Alessandro Sinigaglia, vent’anni di lotta contro il fascismo • SAšA BOžOVIć, A te, mia Dolores. Nella tempesta della guerra col fucile e lo stetoscopio • AA. VV., Sangue rosso lame nere. Storie di militanza antifascista • UMBERTO TOMMASINI, Il fabbro anarchico. Autobiografia fra Trieste e Barcellona • MARIO FIORENTINI, Sette mesi di guerriglia urbana. La Resistenza dei Gap a Roma
COLLANA BLU di Storia e politica • CESARE BERMANI, Il nemico interno. Guerra civile e lotte di classe in Italia (1943-76), IIª ed. • SILVERIO CORVISIERI, Il re, Togliatti e il Gobbo. 1943: la prima trama eversiva • EROS FRANCESCANGELI, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917-1921) • MARCO CLEMENTI, La “pazzìa” di Aldo Moro • SILVERIO CORVISIERI, Il mago dei generali. Poteri occulti nella crisi del fascismo e della monarchia • MARCO CLEMENTI, Il diritto al dissenso. Il progetto costituzionale di Andrej Sacharov • SILVERIO CORVISIERI, Bandiera Rossa nella resistenza romana. • AA. VV., Le Brigate Matteotti a Roma e nel Lazio. • CESARE BERMANI, Storie ritrovate. • RAFFAELE D’AGATA, Disfatta mondiale. Motivi ed effetti della guerra fredda • DAVIDE CONTI, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente”. (1940-1943) • LEO GORETTI, I “neri bianchi”. Mezzadri di Greve in Chianti tra lotte sindacali e fuga dalle campagne (1945-1960) • CLARA CONTI, Servizio segreto. Cronache e documenti dei delitti di Stato • DAVIDE CONTI, I criminali di guerra italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo dopoguerra • VALERIO LAZZARETTI, Valerio Verbano. Ucciso da chi, come, perché • ROBERTO CAROCCI, Roma sovversiva. Anarchismo e conflittualità sociale dall’età giolittiana al fascismo(1900-1926) • GIACOMO SCOTTI, “Bono taliano”. Militari italiani in Jugoslavia dal 1941 al 1943: da occupatori a “disertori” • AUGUSTO POMPEO, Forte Bravetta. Una fabbrica di morte dal fascismo al primo dopoguerra • GIACOMO SCOTTI, Montenegro amaro. L’odissea dei soldati italiani tra le Bocche di Cattaro e l’Erzegovina dal luglio 1941 all’ottobre 1943 • GIANNI FRESU, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo • MAURO VALERI, Il generale nero. Domenico Mondelli: bersagliere, aviatore e ardito
FUORILINEA
• DARIO PACCINO, Euro Kaputt. Testimonianze antifasciste anni trenta-Novanta • DINO FRISULLO, Se questa è Europa. Viaggio nell’inferno carcerario turco • FRANCO MARENCO (a cura di), Imbrogli di guerra. Scienziate e scienziati contro la guerra • ENNIO POLITO, La strage infinita. Indonesia: dal grande pogrom anticomunista al genocidio di Timor est • PETER TOMPKINS- MARIA LUISA FORENZA, La CIA in Guatemala. Orrori di un genocidio • MASSIMO ZUCCHETTI (a cura di), Contro le nuove guerre. Scienziate e scienziati contro la guerra • AA. VV., Guerra civile globale. Ritornando a Genova, in volo da New York • SALVATORE VERDE, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale • MAURO PASCOLINI (a cura di), Sport e rivoluzione. Il movimento che libera l’uomo • MASSIMO CERVELLI, Profondo viola. Il caso Fiorentina • FEDERICO DELLA VALLE (a cura di), Ambiente e guerra. Contributi scientifici, riflessioni e testimonianze • ORSOLA CASAGRANDE, Minatori. La storia di Tower Colliery e le lotte dei minatori britannici contro la chiusura dei pozzi • WALTER DE CESARIS, La borgata ribelle. Il rastrellamento del Quadraro e la resistenza popolare a Roma • FILIPPO MANGANARO, Senza patto né legge. Antagonismo operaio negli Stati uniti • MASSIMO ZUCCHETTI (a cura di), Il male invisibile sempre più visibile. La presenza militare come tumore sociale che genera tumori reali. Scienziate e scienziati contro la guerra • C. CANCELLI, G. SERGI, M. ZUCCHETTI (a cura di),Travolti dall’Alta Voracità • LUIGI CORTESI, L’umanità al bivio. Il Pianeta a rischio e l’avvenire dell’uomo • AA. VV., Modello Roma. L’ambigua modernità • SERGIO GIUNTINI, Pugni chiusi e cerchi olimpici. Il lungo ’68 dello sport italiano • MAURO VALERI, Stare ai giochi. Olimpiadi tra discriminazioni e inclusioni • GIACOMO SCOTTI, Terre di guerre e viaggi di pace. Con lo zaino in spalla nei paesi insanguinati della Slavia del Sud
AZIMUT • SEBASTIANO TIMPANARO, Il Verde e il Rosso. Scritti militanti 1966-2000, a cura di Luigi Cortesi • AA. VV., Olocausto/olocausti. Lo sterminio e la memoria, a cura di F. Soverina • ARNOLD TOYNBEE, La rivoluzione industriale, a cura di Michele Nobile • MARCO CLEMENTI (a cura di), Stalinismo e Grande terrore • AMADEO BORDIGA, Mai la merce sfamerà l’uomo. La questione agraria e la teoria della rendita fondiaria secondo Marx
IDEK - Instant book di Odradek • C.BERMANI, S. CORVISIERI, C. DEL BELLO, S. PORTELLI, Guerra civile e Stato. Per una revisione da sinistra. Con una mappa bibliografica dei revisionismi storici • PAOLO PERSICHETTI-ORESTE SCALZONE, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni Settanta a oggi • AA. VV., Il rovescio internazionale. Vademecum per la prossima guerra
IDEOLOGIA E CONOSCENZA • HEINZ VON FOERSTER, ERNST VON GLASERSFELD, Come ci si inventa. Storie, buone ragioni ed entusiasmi dell’eresia costruttivista • ALEXSANDR A. BOGDANOV, Quattro dialoghi su scienza e filosofia, a cura di Felice Accame, con scritti di E. von Glasersfeld, Massimo Stanzione, Silvano Tagliagambe • FELICE ACCAME, Le metafore della complementarità. • FELICE ACCAME, CARLO OLIVA, (a cura di), Methodos. Un’antologia • PERCY WILLIAMS BRIDGMAN, Come stanno le cose. (The Way Things Are) • FELICE ACCAME, Il linguaggio come capro espiatorio dell’insipienza metodologica. • ERNST VON GLASERSFELD, Il costruttivismo radicale. Una via per conoscere e apprendere COLLANA ROSSA di CULTURE SUL MARGINE • EDOARDO DE FALCHI, Non è vero. Disordinazioni: un’avanguardia subliminale di massa, con adesivi • ANDREA COSENTINO, La scena dell’osceno. Alle radici della drammaturgia di Roberto Benigni • SILVERIO CORVISIERI, Badernão. La ballerina dei due mondi • ANTONELLA DE PALMA, Culture aerosol. Storie di writers
• FELICE ACCAME, Dire e condire. Scampoli di ideologia nel linguaggio e nella comunicazione • BENOîT NOël, L’assenzio. Un mito sempre verde • MARGHERITA BECCHETTI, Il teatro del conflitto. La Compagnia del Collettivo nella stagione dei movimenti. 19681976 • CESARE BERMANI (a cura di), Parole che ridono. A proposito di Ernesto Ragazzoni. Con un’appendice di poesie inedite e scritti dimenticati • ARMANDO GNISCI, Biblioteca interculturale. Via della Decolonizzazione europea n. 2 • DAVIDE PINARDI, Il partigiano e l’aviatore. Vite troppo brevi di vincitori e vinti ugualmente dimenticati • FELICE ACCAME, Antologia critica del sistema delle stelle. • ERNESTO SCREPANTI, Un mondo peggiore è possibile. Sei perle dalla triste scienza. • NIKOLAJ KOSTOMAROV, Storie di Ucraina • VALERIA PALUMBO, Le figlie di Lilith. Vipere, dive, dark ladies, femme fateles. L’altra ribellione femminile • FELICE ACCAME, Firma altrui e nome proprio. Un saggio di sociologia di se stessi • NEVIO GAMBULA, Qui si vende storia. Una farsa proletaria, o un aborto di teatro epico. Con un saggio di FRANCESCO MUZZIOLI, Per una parodia rossa nell’epoca del ridicolo • ANDREA ALBINI, L’autunno dell’astrologia. Il declino scientifico del discorso sulle stelle da Copernico ai giorni nostri. Con una nota di Giorgio Galli • VALERIA PALUMBO, Geni di mamma. Storie di madri ingombranti per figli stravaganti • FRANCESCO MUZZIOLI, Il “Gruppo ’63”. Istruzioni per la lettura • GIANFRANCO BELLINI, La bolla del dollaro. Ovvero i giorni che sconvolgeranno il mondo • DANIELE ORLANDI, Le chimiche di Primo Levi.
SAGGI E STUDI • M. CAROLINA BRANDI, Portati dal vento. Il nuovo mercato del lavoro scientifico: ricercatori più flessibili o più precari? • ROBERTO BIANCHI, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia • MARCO CLEMENTI, Storia del dissenso sovietico. 1953-1991 • STEFANO COCHETTI, La metafora secondo la teoria della differenza • MARCO CLEMENTI, Storia delle Brigate Rosse • JAN REHMAN, I nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione • ALBERTO GIANQUINTO, Sul senso della storia • WALTER PERUZZI, Il Cattolicesimo reale. • VANDANA SHIVA, Semi del suicidio. I costi umani dell’ingegneria genetica in agricoltura • ANDREA MARTOCCHIA, I partigiani jugoslavi nella resistenza italiana. Storie e memorie di una vicenda ignorata • ALBERTO GIANQUINTO, L’arte e la critica • ALBERTO GIANQUINTO, Arte astratta tra politica e storiografia. Dei suoi quattro modi di essere
PERSONA E SOCIETÀ • MASSIMO RENDINA, Cronache dalla prima Repubblica. • RICCARDO VOMMARO, La resistenza dei Cattolici a Roma (1943-’44). • LEO SOLARI, I giovani socialisti nel crocevia degli anni ’40. FUORI COLLANA • E. DI GIOVANNI-M. LIGINI-E. PELLEGRINI, La strage di Stato. Controinchiesta, 1999/ 2002/ 2006 • CARLO COLLODI, Le avventure di Pinocchio, illustrazioni di G. Montelli, prefazione di M. Lunetta • M. LUNETTA, F. MUZZIOLI, M. PALLADINI (a cura di), Almanacco Odradek 2007 di Scritture antagoniste. • G. MONTELLI - V. PALUMBO, Dalla Chioma di Athena. Donne oltre i confini. • SANTE NOTARNICOLA, L’anima e il muro. • C. CORNAGLIA-F. D’AMBROGI-W. PERUZZI-M. TURCHETTO, Oca pro nobis • ANDREA MARTOCCHIA (a cura di), Il territorio libero di Norcia e Cascia a 70 anni dalla proclamazione
Finito di stampare nel mese di febbraio 2016 ad opera di Universal Book – Rende