Il sorriso di Antigone. Frammenti per una storia del tragico moderno 9788886358934

Il libro si snoda lungo due direzioni: da un lato è una storia per frammenti delle più rilevanti teorie del 'tragic

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Italian Pages 180 [170] Year 2004

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Il sorriso di Antigone. Frammenti per una storia del tragico moderno
 9788886358934

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Bruno Moroncini

Il sorriso di Antigone Frammenti per una storia del tragico n1oderno

-

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Indice

Avvertenza

7

Ouverture

11

Il buon uso della morte

13

Le leggi dell'ospitalità

37

Antigone perduta

45

I:elogio della povertà

59

La volontà senza decisione

79

Antigone ritrovata

87

Il tempo del ritorno

101

Antigone murata viva

121

La morte infantile

135

Il legame della divisione. Post-scriptum 2004

139

Avvertenza

Ristampo il mio primo libro edito nel 1982 per i tipi di Shakespeare & Company e fuori commercio da moltissimi anni. Ho sottoposto il testo ad una revisione completa, eliminando refusi, correggendo errori materiali, sciogliendo passaggi resi oscuri dall'intemperanza di una scrittura giovanile. Non ho modificato invece, a parte pochi casi, le note e i rimandi bibliografici, utilizzando per il necessario aggiornamento il Post-scriptum 2004 in cui prendo in considerazione il meglio della letteratura su Antigone e sulla tragedia prodotta in questi ultimi vent'anni. Ringrazio Stefania Astarita per avermi aiutato nella revisione del testo. Questo libro era, ed è, dedicato a Simona. Bruno Moroncini

Nessuno è a lui compemo. lo solamente. Io lo sono. Perché nessuno è al fine come me. Cosa resta a me di quello ch'ero qui, cosa resta oltre il morire? Lei non ti ha detto nel mandarti a noi che quel giaciglio che di là ci aspetta è d'oltretomba? Io già presi commiato, io presi ogni commiato. Nessun morente più di me, che vengo perché tutto, sepolto sotto quello che è il mio sposo, svanisca, si dissolva. Prendimi dunque: prendimi per lui. Come la brezza che si leva al largo, il dio s'avvicinò, quasi a una morta e fa lontano subito dall'uomo a cui in un breve gesto egli donava tutte le cento vite della terra. Admeto, vacillante, li rincorse per agrapparsi, come in sogno. E loro erano già dove le donne in pianto gremivano l'uscita. Ma una volta ancora egli le vide il viso, indietro rivolto, in un sorriso chiaro come una speranza, una promessa: a lui tornare adulta dalla cupa morte, a lui vivente... (Allora egli le mani) premette sulla fronte, inginocchiato per non vedere più che quel sorriso. R. M. Rilke, Alcesci'

• Trad. di Giaime Pintor.

9

Ouverture

È compito del pensiero che voglia comprendere la propria epoca distogliersi dal doppio miraggio del voler sfuggire alla contingenza del tempo, rifugiandosi nell'atemporalità dell'essenza o, al contrario, in nome di un illusorio desiderio di concretezza, pretendere di mimetizzarsi a tal punto col singolo evento da condividerne lo stesso destino, quello della caducità. Racchiudere nella pura forma razionale la caotica dispersione del divenire, o, con la pazienza dell'entomologo, ingrandire la singola differenza per coglierla nella sua irripetibilità, sono le due direzioni del pensiero storico, il cui inconciliabile divergere ha segnato la crisi dell' Historismus. Crisi dovuta essenzialmente all'aver tenuto fermo all'idea del tempo come successione caratterizzata dal non ritorno. La difficoltà di comprendere il passato discende per l' Historismus non tanto dalla problematicità per lo storico di immedesimarsi nell' evento, distante nel tempo, evitando contemporaneamente di appiattirlo sul proprio presente, nel giusto dosaggio, cioè, fra l'uso degli strumenti critici del lavoro storiografico che permettono la collocazione dell'evento nella sua esatta cornice obiettiva, e la capacità di rivivimento della soggettività che all'evento dà senso e valore, quanto dal fatto che il passato stesso viene letto come ciò che si sottrae da sé al pensiero. È l'aver elevato ad assioma l'irripetibilità del già stato, in nome della laicità della storia, che frappone al pensiero una barriera insormontabile. È possibile al pensiero comprendere il passato solo se esso gli viene incontro a sua volta. Che il passato ritorni non significa che la storia si confonda in una spoglia presenzialità dove il tempo si annulla: è proprio l'irripetibilità ad avere come complice paradossale la ripetizio11

ne del sempre-uguale. Ciò che torna è il luogo originario dell'epoca, a partire dal quale il tempo stesso si temporalizza. Non si tratta più, dunque, di intendere il tempo come altro dal pensiero, come ciò su cui esso si curva per comprenderlo, impaurito contemporaneamente dalla sua facies saturnina, ma di cogliere il tempo come ciò che, sempre ritornando, apre al pensiero la possibilità della interrogazione. Il pensiero può domandare ragione dell'epoca solo perché l'epoca torna ogni volta al suo fondamento, a ciò in cui essa si è già da sempre iscritta, ma in cui ogni volta di nuovo si temporalizza. Solo così l' epoca ha una storia e una verità. In ogni frammento della storia dell' epoca, nella sua differenza, c'è l'apertura della verità. Così l'andare a ritroso dipende più dalle strutture del tempo che dalla decisione del pensiero. Che la riflessione sul tragico si volga verso il passato, non vuole dire allora che essa andrà a rinvenire le tracce perdute e rese quasi invisibili dalla polvere del tempo di ciò che, come puro antecedente, rende possibile la comprensione del presente, ma, al contrario, significa che proprio il ruotare del tempo su se stesso, rotazione fondata a sua volta sul movimento di una storicità essenziale, andrà incontro a quella verità dell'epoca di cui il tragico è la cifra che da sempre la richiama al suo fondamento. Le riflessioni che sul tragico si sono date da Schiller a Lukacs non sono dunque reperti che lo storico dovrebbe tentare di rianimare, infondendogli nuova vita, come una respirazione bocca a bocca fa rinvenire chi sia rimasto troppo a lungo sommerso sott'acqua senza coscienza, ma i luoghi nei quali ogni volta la verità dell'epoca si è annunciata mostrandosi a nudo. Inabissandosi ogni volta di nuovo, fino a quel compimento che, già iscritto nell'origine, chiude definitivamente l'epoca, proprio perché essa è un'apertura della verità. Ogni vera comprensione dell'epoca è dunque quella che, in qualunque punto della sua temporalizzazione si dia, la coglie come ciò che nella sua essenza destinale è già da sempre nel suo tramonto, come ciò che sa che la terra del mattino dove essa sorge è anche la terra della sera dove s'abbuia, che il crepuscolo dell'aurora porta già in sé quello che annuncia la notte.

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Il buon uso della morte

È nella Goethezeit che il problema del teatro e quello del tragico si ripropongono in tutta la loro centralità. La battaglia per un teatro nazionale tedesco, di cui già Lessing si fa portavoce, va di pari passo con la domanda sulla possibilità del tragico moderno. Di fronte all'inesistenza politica della Germania, l'intelligenza tedesca tenta, nella seconda metà del secolo XV1II, almeno la via della rinascita culturale contro il prevalere dell'influenza francese. Ciò che va combattuto è il carattere subordinato della cultura tedesca, acuito dalla povertà d'incidenza politica degli innumerevoli piccoli stati in cui è spezzettata la Germania. Al teatro viene, dunque, affidato il compito pedagogico di educare la nazione tedesca a ritrovarsi unita almeno sul comune terreno della cultura, se essa non può ancora elevarsi a potenza effettuale. È intorno all'idea di una educazione del genere umano che può compiersi solo attraverso la storia, che l'Aujkliirung tedesca coglie la propria specificità rispetto all'illuminismo francese, traducendola nella sostanza del nuovo teatro. Se da un lato il richiamo alla storia aveva la funzione di permettere alla nazione tedesca di ritrovare una perduta identità, esso dall' altro diventava un problema non appena fosse applicato al teatro. Poteva la storia essere l'oggetto della tragedia? Se ci si riferiva a ciò che imperava nel migliore dei casi sulla scena tedesca, e cioè la tradizione classicista francese, la risposta non poteva che risultare negativa. Di fronte alla rigida applicazione delle tre unità della poetica aristotelica, codificata dalla reinterpretazione cinquecentesca del Castelvetro, propria della tragedia francese di Racine e Corneille, la storia, imponendo non solo la rappresentazione di un lungo decorso temporale, ma anche di mutamenti di luogo e d'azione infinitamente più ricchi e

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complessi, risultava essere qualcosa di completamente altro dalla forma trag1ea. È evidente che il problema del rapporto fra storia e tragedia non era semplicemente di natura, per cosl dire, tecnica. Esso riguardava propriamente l'essenza della tragedia. Se quest'ultima consisteva soprattutto nella messa in scena di un conflitto etico e della sua risoluzione, se l'eroe tragico e il suo antagonista erano i portaparola non tanto di se stessi e delle loro passioni, quanto, pur differenziandosene, della cerchia etica cui appartenevano, la struttura generale della tragedia non sembrava essere in grado di sopportare il materiale storico, costituito da individualità poggianti soltanto su se stesse, sulle proprie passioni e sui propri interessi. Là dove, appunto, al racconto epico e al mito si sostituiva quella cronaca puramente mondana delle azioni degli uomini che è la storia, la forma tragica risultava inapplicabile. Ma era rispetto al carattere riconciliatore ed unificante della tragedia, al suo dovere essere portatrice di quella catarsi che, attraverso la disfatta dell'eroe, pacificava il conflitto e rimetteva sui propri cardini il corso del mondo, scosso solo momentaneamente, riconducendolo al suo ordine di sempre, che l'irruzione violenta della storia sulla scena teatrale costituiva l'insormontabile ostacolo. Poiché il problema di poter coniugare storia e forma tragica si spostava per divenire quello, estremamente più inquietante, della possibilità della conciliazione all'interno della storia. Se già fosse stato possibile, si sarebbe dovuto trovare soltanto una soluzione tecnica che rendesse possibile la conciliazione nel magma della storia - a questo dovevano servire la riscoperta e lo studio di Shakespeare, non a caso rimasto quasi completamente incompreso nella cultura illuministica francese; in caso contrario era la tragedia in quanto tale a risultare impossibile. In altri termini, il problema della impossibilità della tragedia non era tanto rappresentato dalla definizione della forma tragica in rapporto alla storia, quanto dall'essenza stessa di quest'ultima. È di fronte alla 'storia realizzata' che il pensiero moderno deve misurare la sua capacità di essere ali' altezza dei compiti che il tempo gli impone. Quel giro di boa decisivo per l'essenza del mondo moderno, che è rappresentato dalla rivoluzione francese, ha tradotto in realtà effettuale ciò che fino ad allora era rimasto soltanto un progetto. Se per l'illuminismo l'avvento della ragia-

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ne avrebbe dovuto costituire la fine della preistoria dell'umanità e l'inizio della vera storia, il passaggio nella realtà aveva mostrato che ciò che era perfetto nell'ideale si era tramutato in 'terrore'. La 'rivoluzione' non è l'attimo di sospensione violenta del tempo, che ne permette poi il pacifico scorrere, ma si rivela come la struttura stessa della storia. La storia è rivoluzione permanente, e in ciò mostra la sua essenza nichilista. Il pensiero moderno è a partire da Hegel, passando attraverso l'Historismus, fino a giungere a quella cultura che ruota intorno a quell'altro spartiacque del mondo moderno rappresentato dalla prima guerra mondiale, il tentativo o di esorcizzare questo carattere inevitabilmente nichilista della storia oppure di riuscire a elaborare una risposta lucida e disincantata ad esso. Se la storia mostra una facies decadente è perché essa è il luogo in cui paradossalmente si dissolvono quei valori che avrebbe, al contrario, dovuto portare a compimento. Ciò spiega perché la critica al diritto naturale propria della cultura ottocentesca, sia condotta in nome della storia. È infatti il diritto naturale che, passando nell'effettuale, si tramuta nel demonismo storico. Di fronte a ciò, ritrovare il valore nella individualità storica, riconoscere ad ogni differenza il suo specifico aspetto normativo, è il tentativo di sfuggire alla conseguenza logica dell'applicazione del diritto naturale in base al quale ogni determinazione concreta, se posta in confronto con la formulazione assoluta del valore, lo tradisce e in quanto tale lo annulla. Ciò che viene contrapposto al diritto naturale è, dunque, un'altra nozione di storia tale da poter ergersi di contro a quella per la quale ogni evento, causa il suo stesso carattere 'storico', è destinato a morire semplicemente dissolvendosi, senza possedere alcun senso se non quello della propria caducità. Queste due 'storie', fra cui si dibatte il pensiero moderno, non tardano però a mostrare la loro essenziale coappartenenza; giacché l'aver ritrovato il valore nella singola differenza non è sufficiente ad evitare che questo stesso valore, per essere a sua volta storico, non subisca lo stesso destino. Che si sia individuata proprio la storia come il terreno sul quale si costituiscono i valori, finisce per coinvolgere questi ultimi nel movimento storico che tutto dissolve. E ricorrere infine al ripristino di un valore che, se pur dato come un compito infinito destinato a non divenire mai effettuale, resta tuttavia ciò

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cui si riferiscono i singoli eventi, significa reintrodurre la trascendenza annullando quel principio di laicità su cui pure la coscienza storica, al suo sorgere, s'era fondata. Allora, in base a ciò, definire impossibile la tragedia significa soltanto che ciò che è impossibile è la sua forma classica, quella che la tradizione aveva consegnato, già in parte mutata, al mondo moderno. La forma classica della tragedia si è spenta perché è mutato il terreno sul quale essa poggiava. Al posto del conflitto etico, irrealizzabile perché l'etico stesso si è dissolto sotto la spinta rivoluzionaria della storia, si è sostituito il conflitto degli individui fra di loro e con il destino, sotto il cui meccanico e impersonale aspetto si cela nient'altro che l'incalzare travolgente del tempo, il solo terreno, labile e sfuggente, sul quale essi poggiano. Dichiarare l'impossibilità della tragedia nella sua forma classica è il gesto preliminare che consente, paradossalmente, di incamminarsi sulla strada della possibilità del tragico nel mondo moderno. Sembra, tuttavia, vero il contrario se si pone attenzione alla lotta per il classico che Goethe e Schiller hanno condotto durante la loro comune permanenza a Weimar (cioè fino alla morte di Schiller). Ma se ciò vale per Schiller, per il quale il classico, e con esso la tragedia, è veramente ricomposizione di un ordine lacerato - sebbene il conflitto sia ora non fra sfere etiche, ma fra l'istinto formale e dunque la morale pura della soggettività da un lato e l'istinto sensibile dall'altro, il che presuppone il già avvenuto dissolvimento dell'etica -, per Goethe, che ha sempre ben poco sopportato l'intellettualismo morale dell'amico di esplicita provenienza kantiana, il discorso è completamente diverso. Se la Maria Stuarda e il Don Carlos, come 'tragedie romantiche', si giocano sul contrasto fra la ragion di stato di Elisabetta e l'assolutismo regio di Filippo da un lato, e il sentimento vitale di Maria e il desiderio di libertà di Carlo dall'altro, - figure che infine devono soccombere in nome del dovere, ritrovandosi lacerate in se stesse - tale contrasto è tuttavia risolto dalla potenza dell'arte, poiché, come dice il prologo al Wallenstein, "Seria è la vita, ma serena è l'arte" 1•

1

F. SCHILLER, Wallenstein, tr. it. di M. T. Mandalari, Garzanti, Milano 1995, p. 11.

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I..:arte deve riconciliare ciò che nella vita è ormai irrimediabilmente lacerato, la sua invincibile 'serietà'. Questo progetto, teorizzato nelle Lettere sull'educazione estetica dell'umanità viene ripreso in quel breve testo che, non a caso, fa da prefazione alla Sposa di Messina e che s' intitola Sull'uso del coro nella tragedia. Qui, infatti, si può leggere: "Ma la vera arte non ha solo per scopo un gioco passeggero; essa si propone sul serio non di cullare l'uomo in un momentaneo sogno di libertà, ma di farlo realmente libero, e questo risvegliando, educando e sviluppando in lui la forza di allontanare, oggettivandolo, il mondo sensibile, che, come materia bruta, su noi pesa, e di trasformarlo in una libera opera dello spirito, e così giungere a signoreggiare con le idee, il mondo della materia" 2 • Solo l'arte, come dominio della bella forma e del gioco, e dunque il teatro ancora come Schauespiel, può realizzare la libertà. Questa non si manifesta là dove l'istinto, sia esso formale e sensibile, prevale, o là dove la sola legge, che ci fa barbari perché "deride e disonora la natura"3, pretende il potere. Lo stadio estetico, vala a dire ciò a cui l'umanità va educata attraverso il teatro, non è, però, ritorno all'ingenua perfezione del mondo antico, al modello mitico dell'unità immediata e perciò felice dell'umanità del passato col mondo e con la natura. La poesia moderna non può non essere 'sentimentale'; essa, cioè, non può non passare nella riflessione infinita della soggettività, sebbene non debba perdervisi, abbandonando del tutto il contatto con la natura e rischiando di imbarbarirsi definitivamente. Lo stadio estetico è allora il regno della libertà solo perché in esso è possibile il libero gioco della legge e della sensibilità; in esso questi ultimi perdono il loro carattere d'istinti, il loro appartenere 'al regno della necessità. La tragedia è il perfetto Schauespiel : essa, come forma che deve trasformare in godimento la rappresentazione del dolore - traduzione moderna, questa, della catarsi aristotelica - riscatta il dissidio non risolto fra dovere e natura. Il fallimento che, nella dire-

2

F. SCHILLER, Sull'uso del coro nella tragedia, in ID., Teatro, tr. it. di B. Allason e M. D. Ponti, Einaudi, Torino 1969, p. 902. 3 F. SCHILLER, L'educazione estetica dell'uomo in una serie di lettere, tr. it. di G. Boffi, Rusconi, Milano 1998, p. 55.

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zione di riproporre la tragedia nella sua forma antica, è rappresentato da La sposa di Messina, è dovuto, dunque, meno all'artificiosità del tutto che all'intenzione di Schiller di attribuire alla forma tragica il potere della riconciliazione. Più che la stranezza di suddividere il coro in due parti, ciascuna a far da seguito ai due fratelli nemici per amore di una donna - e già questo di tragico non ha più nulla - è la sua trasformazione in 'persona ideale' a decidere dell'utopia di questo teatro. Questo coro che "non è un individuo" ma "un concetto universale", che "si allontana dalla stretta cerchia della azione per estendersi al passato e all'avvenire, a lontani avi e lontani popoli, ed in generale, a tutta l'umanità", per "dedurre i grandi risultati della vita e pronunziare i verdetti della saggezzà', questo coro che, più che parlare, sentenzia di contro agli anziani di Messina di cui Schiller tiene ad indicare esplicitamente che non parlano; questo coro, infine, che "purifica la tragedia sceverando la riflessione dall'azione" e ridà "così a quest'ultima tutta la sua forza poeticà' 4 è ciò in cui si incarna il potere della poesia e dell'arte. Ciò che è in gioco non è tanto la distanza che questa concezione del coro prende da quella antica, quanto il fatto che al coro è affidato l'ufficio di rendere poetica, e quindi di salvare, una materia assolutamente prosaica. Il coro è ciò che sulla scena incarna sensibilmente il potere della forma. "Nella tragedia moderna", scrive Schiller, "il coro diventa un organo artistico, esso serve a mettere in valore la poesia. Il poeta moderno non trova più il coro in natura, egli deve ricrearlo poeticamente e introdurlo, e questo vuol dire che egli deve trasformare la favola che tratta in modo che essa venga riportata a quei tempi ingenui e a quella semplice forma di vità' 5• La funzione del coro è l'impossibile tentativo di rendere sublime ciò che è soltanto banale: "Il coro rende al novello tragico un servigio molto più essenziale che al poeta antico, appunto perché trasforma il mondo banale moderno nel mondo antico e poetico, perché gli rende inservibile tutto ciò che alla poesia ripugna e lo riconduce ai motivi semplici, originari, ingenui. Oggi il palazzo del re è sbarrato, la giustizia non

4 5

F. SCHILLER, Sull'uso del coro nella tragedia, cit., p. 906. Ivi, p. 905.

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si amministra più alle porte della città, ma in chiusi edifici, la scrittura ha ucciso la parola viva, il popolo stesso, la folla viva e sensibile, dove non agisce come forza bruta, è diventato lo stato, e cioè un concetto astratto, gli dei sono tornati a celarsi nella coscienza degli uomini. Tocca al poeta spalancare i palazzi, riportare l'amministrazione della giustizia all'aperto, rimettere sul piedistallo gli dei, ricondurre l'immediatezza, che fu sospesa dall'artificiosità della vita, e rigettare tutto il posticcio che nell'individuo e attorno a lui ostacola la manifestazione della sua vera natura e del suo primitivo carattere, come lo scultore rigetta gli abiti moderni, e di tutte le esteriorità che lo circondano accoglie solo ciò che fa più evidente la forma suprema, la forma umana"6 . Il coro, come portaparola della poesia e del poeta, deve dunque dire la 'forma umana', quella rimasta sepolta nel mondo moderno. Esso mostra, altresì, come nell'epoca dello stato come concetto astratto, il politico, come realizzazione effettuale della 'forma umana', trovi rifugio soltanto nell'arte. Questo coro loquace dice soltanto, infine, l'utopia della forma e l'impossibilità di questa tragedia. 1.:unico vero coro della Sposa di Messina, che Schiller non ha potuto non porre sulla scena, è in realtà quello degli 'anziani', che è si presente, ma resta muto. Anzi la sua stessa presenza si limita alla sola prima scena del primo atto. Dopo il discorso di Isabella, con cui si apre la tragedia e che termina annunciando l'arrivo dei due fratelli, gli anziani, come dice la didascalia, "si allontanano in silenzio, la mano sul petto" 7, per non ricomparire più, quasi come se il vecchio coro abbandonasse per sempre la scena sulla quale non ha più ragione di restare. Il tentativo schilleriano di pervenire al perfetto Schauespiel fallisce, perché se è vero che il teatro è un gioco, esso non è più il gioco della bella forma, ma il gioco luttuoso, Trauerspiel. Lo Schauespiel come 'dramma martirologico' aveva già esaurito la sua funzione, come aveva mostrato Benjamin, con l'avvento del Trauerspiel barocco. Ciò getta luce, infine, anche sugli altri drammi di Schiller, dove, nonostante la loro natura di tragedie romantiche, si av-

6

7

Ibidem. F. SCHILLER, La sposa di Messina, in Io. Teatro, cit, p. 913.

19

verte, come nella Maria Stuarda, l'eco del dramma martirologico. Tutta la produzione teorica e teatrale di Schiller è rivolta al ripristino del primato della forma quale unica risposta alla decadenza del mondo moderno; di questo progetto La sposa di Messina rappresenta il punto più alto. Ma la forma tragica salva ciò che di per sé è condannato. Solo la fuga nell'Antico concede ai demoni la parvenza di essere dei. Laver riconosciuto fino in fondo la presenza demonica in tutta la sua estensione è ciò che rende Goethe completamente altro conferendo al suo classicismo una colorazione diversa da quello di Schiller. "Io sono un beniamino degli dei": cosi in quell'esempio, come dice Mittner, di scrittura automatica ante litteram rappresentata dalla novella Il novello Paride, iscritta nell'autobiografia Poesia e verità, Goethe definisce se stesso 8• Ma essere il beniamino degli dei non è un privilegio, non accorda poteri particolari, soprattutto non concede felicità. Colui il quale gli dei eleggono a loro favorito deve sopportare i più grandi dolori: "Tutto danno gli dei, gli immisurabili, / ai loro beniamini, fino in fondo/ tutti i piaceri, gli immisurabili/ tutti i dolori, gli immisurabili, fino in fondo" 9 • Colui che cerca di prendere la misura, come dirà Holderlin, di misurare cioè la distanza fra gli uomini e gli dei, poiché prendere la distanza è gettare un ponte ed entrare in relazione con essi, sarà ricompensato dagli dei, che sono senza misura, in modo smisurato di tutti i piaceri e di tutti i dolori. Poiché il dono degli dei è smisurato, colui che lo riceve non ha il tempo di ringraziare, ma vi soccombe bruciando. Saper portare e sopportare questo eccesso del dono, possiamo dirlo fin d'ora, è il 'classico' goethiano, il tener fermo, dando allo stesso tempo una risposta, a questa 'ubris', che non è più degli uomini, ma degli dei stessi. Allora nulla di 'olimpico' né di 'sereno' c'è in questo "beniamino degli dei" che molto presto ha imparato a saper riconoscere ciò che si celava dietro lo sguardo purificato degli dei dell'antico Olimpo: null'altro che l'incessante metamorfosi dei

8

Cfr. W GOETHE, Poesia e verità, tr. it. di A. Cori, Utet, Torino 1966, p. 127. Per il riferimento a Mittner vedi: L. MITTNER, Il favorito degli dei, in Io., La letteratura tedesca del novecento, Einaudi, Torino 1970, pp. 13-46. 9 W. GOETHE, Tutto danno gli dei, in Settanta liriche, tr. it. di G. Forti, Milano 1970, p. 61.

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demoni, ora benigni, più spesso maligni; e che ha scoperto che gli dei non hanno corpo, se non illusorio, poiché sono i demoni che glielo concedono, uno ogni volta diverso. Il demone è inganno, parvenza, mutamento; egli è il principe delle trasformazioni. È il demone che guida la nostra vita: "Come sferzati da spiriti invisibili i solari cavalli del tempo traggono la carrozza lieve del nostro destino; e a noi non resta che farci animo, reggere le redini, e ora a destra, ora a sinistra governare le ruote a evitare quel sasso, quel precipizio. Chi può sapere dove vada? A mala pena ci si ricorda di dove venne" 10 • Egmont, ennesima figura demonica del cosmo goethiano, così definisce il destino dell'esistenza umana nel tempo in cui la dissoluzione dell'etico ha liberato le forze oscure che prima erano tenute a freno. Invisibili sono gli spiriti che guidano il carro, a noi resta solo reggere le redini. A partire dalla dissoluzione dell'etico, che è l'opera della modernità, un paesaggio diverso si offre allo sguardo. Il mondo antico perde il carattere mitico che l'illuminismo gli aveva conferito come mondo della realizzata felicità, per mostrarsi abitato anch'esso da figure mostruose e terribili, sfingi, sirene, grifoni: è la notte di Valpurga classica, altro speculare della notte di Valpurga nordica, popolata di streghe, diavoli e spiriti. E se, tuttavia, questo mondo ha conosciuto la bellezza, è stato per saperla irrimediabilmente caduca. Così Elena, emblema della bellezza perfetta, alla morte di Euforione, frutto dell'incontro con Faust, non può far altro che piangere: "Un detto antico si avvera purtroppo anche in me: / che non durevolmente gioia e bellezza si uniscono. Si è spezzato il legame della vita come quello dell'amore" 11 • Elena stessa svanisce insieme alla sua forma corporea, mentre a Faust non rimangono nient'altro che la veste e il velo. E se questi "si dissolvono in nubi, avvolgono Faust, lo levano in alto e si allontanano con lui", non è certo Elena che lo trascina con sé, poiché ella è per sempre perduta, ma il 'divino' che, ancora una volta, invisibile lo guida. È Faust la vera natura demonica, non Mefistofele.

10

W, GOETHE, Egmont, in Teatro, tr. it. di F. d'Amico, Einaudi, Torino 1973, p. 283. Sul "demone" cfr. P. KLosSOWSKI, Il bagno di Diana, tr. it. di G. F. Venè, Milano 1962. 11 W. GOETHE, Faust, tr. it. di F. Fortini, Mondadori, Milano 1970, p. 871.

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Dal momento che è solo "una parte della forza che vuole sempre il male ed opera sempre il bene", Mefistofele è 'dialettico', e in questo rappresenta un passato ormai consumato che crede che il male sia la via necessaria per ricomporre il bene, là dove il bene non splenda più di luce propria, originario e immacolato, ma debba essere ricostruito. Mefistofele è l'estremo tentativo di dominare il negativo per forzarlo a trapassare nel suo contrario. Perciò egli come diavolo non è il principe delle trasformazioni, ma solo l'apprendista delle illusioni; la sua funzione è quella del semplice aiutante. Egli è "lo spirito che dice sempre di no", e in questo senso 'spirito di vendettà e di 'gravità', là dove Faust è colui che dice sempre di sì al dono smisurato degli dei. Lo stesso patto illumina sulla vera natura di Faust: questo patto, che è in realtà una scommessa, una sfida, significa che Faust sarà perduto solo quando alzerà le braccia in segno di resa di fronte al dono divino. Se egli mai dovesse dire all'attimo: "Ma rimani. Tu sei cosi bello", solo allora il tempo potrà finire per lui e Mefistofele avrà vinto. O, in altre parole, Faust si consegnerà a Mefistofele solo quando crederà che nel mondo delle metamorfosi sia possibile l'eternità della bellezza. Essa dura un attimo, come un batter di ciglia; in questo fram..: mento di tempo sta tutta racchiusa e in esso bisogna coglierla: "Lo specchio mi dice: son bella!/ e voi, che sarò vecchia anch'io. / Ma tutto eterno sta dinanzi a Dio. I Per quest'attimo, amatelo in me" 12 • Faust è colui che dice sempre di sì, e, non dimentichiamolo, è per questo che verrà salvato; egli dirà di sì finanche - e in ciò risiede l'estrema lucidità di Goethe - alla spinta distruttrice del mondo moderno rappresentata dall'episodio di Filemone e Bauci, ultimi residui del vecchio mondo spazzato via con la violenza dalla trasformazione capitalistica. Così il monologo finale di Faust non è la dichiarazione di resa di chi si rifugia nell'utopia di un mondo liberato dai demoni, ma di chi pur desiderando "in una terra libera fra un popolo libero esistere" 13, sa che ciò non è possibile.

12

W GOETHE, Divano occidentale-orientale, tr. Ìt. dì G. Orellì in Io., Poesie, Mondadori, Milano 1974, p. 145. D W GOETHE, Faust, cìt., p. 1017. Sul 'patto' o 'scommessà tra Faust e Mefistofele, sulla correzione goethiana del "Posso dire a quell'attimo ... " in "Potrei ... " e sul problema della 'salvezza' dì Faust cfr. T.W ADORNO, Sulla scena jì-

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I..:abbiamo già visto: l'avvento del mondo moderno così come trasforma l'epoca, la Goethezeit, in una terra desolata popolata di demoni, allo stesso modo spazza via l'immagine di un mondo antico diverso: ora nessuna nostalgia è più possibile. Anche a volger indietro lo sguardo, l'occhio non troverebbe più "il paese ove il limone è in fiore, I le arance d'oro brillano nel folto, / un mite vento spira dall'azzurro, / umile è il mirto, splendido l'alloro" 14 . Questo è il paese che non si conosce e non si conoscerà mai. Lo stesso viaggio in Italia incontrerà alla fine i mostri della villa del principe di Patagonia. Da qui si origina in Goethe il tema della 'rinuncià - rinuncia al mondo da parte di Werther, rinuncia al paesaggio italiano, rinuncia, come vedremo, perché è ciò che più ci interessa, al teatro. Ma in Goethe "rinunciare" non assume nessun carattere ascetico, non ha parentela con quell' ascesi con cui si chiude il Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. 'Rinunciare' significa in Goethe soltanto non tentare di trasformare i demoni in divinità olimpiche e serene, di conservare intatta la loro natura metamorfica ed ambigua, proteica e nello stesso tempo indifferenziata. Di non scambiare mai lo streben umano, retto dai fili invisibili dei demoni, con l'infinito progredire dell'idea. Rinunciare, al contrario di quel che immediatamente si potrebbe pensare, vuol dire l'opposto dell'esorcizzare e del mettere a tacere. Rievocando la propria giovinezza ed il suo tentativo di avvicinarsi al sovrasensibile, prima attraverso la nozione di religione naturale, poi aderendo ad una religione positiva ed infine abbandonandosi alla fede generale, per poi accorgersi di quanto ciascuna di esse lasciasse fuori di sé inspiegate molte cose che pure accadevano in lui e nel mondo che lo circondava, Goethe "credette di comprendere sempre più chiaramente che era me-

nale del Faust, in Note per la letteratura, tr. it. di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1979, soprattutto pp. 130-131; C. CASES, Prefazione a W GOETHE Ftiust, Ei-

naudi, Torino 1968, soprattutto p. LXXI. Sul 'classicismo' goerhiano cfr. G. Guida, Napoli 1969. 14 W. GOETHE, Mignon, da Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, in Settanta liriche, cit., p. 251. Sul Werthere sul 'paesaggio italiano' dì-. L. MITTNER, Il " Werther', romanzo anti-wertheriano e Paesaggi italiani di Goethe, in La letteratura tedesca del novecento, cit., pp. 41-136.

BAIONI, Classicismo e rivoluzione. Goethe e la rivoluzione francese.

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glia distogliere il pensiero dall'immenso, dall'inafferabile", per accogliere la verità del mondo senza più alcuno schermo consolatorio: credette cioè di "scoprire nella nostra natura vivente e non vivente, animata ed inanimata, qualcosa che si manifestava solo in contraddizioni e che perciò non poteva venir racchiuso in un concetto né tanto meno in una parola. Non era divino, perché pareva irragionevole; non umano, perché non aveva intelletto; non diabolico perché era benefico; non angelico, perché spesso lasciava intravedere malizia. Assomigliava al caso, perché non dimostrava alcuna conseguenzialità, era simile alla Provvidenza perché svelava in accenni l'esistenza di una certa connessione. Tutto quanto ci limita sembrava ad esso penetrabile; era qualcosa che pareva disporre arbitrariamente degli elementi necessari alla nostra esistenza; concentrava il tempo e dilatava lo spazio. Pareva che si compiacesse solo dell'impossibile e respingesse da sé con disprezzo il possibile. Questo Ente che sembrava penetrare fra tutti gli altri esseri, separarli, collegarli, io lo chiamavo il demonico, sull' esempio degli antichi e di coloro che avevano intuito qualcosa di simile. E da questo terribile quid cercavo di salvarmi rifugiandomi com'era mia consuetudine dietro un'immagine" 15 • Rifugiarsi dietro un'immagine non significa non vedere più, ma vedere con assoluto disincanto. Col demonico non c'è altra possibilità che quella del gioco. Rispondendo ad Eckermann che gli ricordava come "il demonico sembra essere elemento cosl forte che finisce per aver sempre ragione", Goethe contrappone a quest'abbandono fatalistico e rassicurante l' esigenza che "l'uomo deve tentare di aver ragione del demonico ed io devo, in questo caso, non risparmiare né fatica né impegno per compiere questo mio lavoro in modo rispondente alle mie possibilità ed a quanto mi viene offerto dalle circostanze. In casi simili è come al gioco che i francesi chiamano Codille, nel quale i due dadi, se ben gettati, decidono di molto, ma dove è lasciato all'abilità dei giocatori di collocare intelligentemente la pietra sulla tavolà' 16• Non dunque il

15

W GOETHE, Poesia e verità, cit., pp. 1008-1009 Sul rapporto fra Goethe e le scienze naturali cfr. G. BENN, Goethe e le scienze naturali, tr. it. di L. Zagari in ID., Saggi, Garzanti, Milano 1963, pp. 87-120. 16 J. P. ECKERMANN, Colloqui con Goethe, tr. it. di G. V. Amoretti, Uret, Torino 1957, p. 797.

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concetto romantico-schilleriano di gioco come riposante libertà, ma gioco come continuo star sul chi vive, lotta aperta e incessante con l'avversario di cui si riconoscono la forza e la superiorità, astuzia nello sviare i colpi e nell'evitare trappole, gioco come 'decisione'. Saper giocare a questo gioco, il cui avversario è invisibile e di cui non si possono prevedere le mosse, è la 'rinuncia' e il 'classico' goethiano. Il demonico e la sua 'rinuncia' si incarnano, in una misura che sarà per Goethe esemplare e insuperabile, nella figura di Mignon. Non solo perché ella stessa deve rinunciare, e con lei Wilhelm Meister, a rivedere il paese "delle arance d'oro", ma perché soprattutto Wilhelm, e Goethe con lui, debbono, attraverso di lei, rinunciare al "demonico" e al sogno che esso rappresenta. Poiché il demonico, nello stesso tempo in cui si mostra come potenza inconciliabile e tremenda, attrae a sé nella forma del ritorno ad un'origine, come a quel luogo in cui il caos della vita si interrompe e si placa. La rinuncia al demonico è rinuncia anche all'illusione di pacificazione che il demonico produce. Quest'origine si svela, infatti, come pura perdita della determinatezza individuale, erosione della parola, l'indifferenziato a partire da cui ha luogo la catena delle metamorfosi. Essa rimanda alla costellazione a cui appartengono il 'fenomeno originario' e le 'Madri', nomi attraverso i quali Goethe ha fatto parlare, traducendolo in un'immagine, l'indefinibile, senza acquietare per questo la sua natura inquietante. I Wilhelm Meisters Lehrjahre sono allora, non tanto un romanzo scritto contro Mignon, quanto il romanzo dell'estremo addio e del1' ultimo commiato a ciò che Mignon rappresenta, a cui fa da corrispettivo nel vecchio Goethe la definitiva rinuncia dell'Elegia di Marienbad, dove, di nuovo e per l'ultima volta, il poeta guarda a se stesso come al "favorito degli dei" nell'attimo in cui diviene consapevole della tragicità di questo privilegio: "Per me è perduto il tutto, ed io a me stesso, I io eh' ero il favorito degli dei. / Mi misero alla prova, mi affidarono Pandora, / così ricca di doni, ma ancora più ricca di pericoli / mi spinsero alla bocca generosa, / ora me ne separano e mi annullano". Ma Goethe sa che di fronte alla duplicità del dono, finanche di fronte al suo ritrarsi, la risposta non può essere nient'altro che quella del ringraziamento "in umiltà": "E presto, alleviato, il cuore sente/ che v'è ancora e batte e vuole battere / per offrire se stesso e ringra-

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ziare / del dono generoso, in umiltà". LÀussohnung, la riconciliazione, è accettazione integrale del dono divino, ascolto umile e ringraziante della "duplice felicità d'amore e musicà' 17 . Nella figura di Mignon, Goethe porta a compimento, come scrive Mittner, la critica "del concetto di destino e di genialità demoniacà': Mignon è, infatti, un essere indifferenziato già nella sua origine e destinato a spegnersi di fronte al primo accenno del risvegliarsi in lei della soggettività come individuazione e relazione con altre soggettività. Frutto di un incesto, che rappresenta per Goethe "la primitiva, indifferenziata naturalità dell'amore romantico", Mignon è la "creatura androginà' 18 , che cade, quando in lei prepotente si fa luce la differenza sessuale. Mignon muore di fronte al suo divenir donna, non tanto, come vuole Baioni, perché "essa significa il dramma di quella naturalità indifferenziata che sta prima della cultura, della società e della storia e che si esprime nello struggente desiderio di negare se medesima, di annullare la propria mobile sehnsucht nell'immobilità del paradiso italiano"19, quanto perché essa è il volto svelato di questo 'paradiso'. Diventando donna essa sarebbe simbolo, non più indifferenza di natura e spirito, ma differenza riconciliata, Versohnung. Mignon resta, come l'Ottilia delle Affinità elettive, allegoria: emblema, più che della possibilità di sfuggire alla smisuratezza del dono divino attraverso la pacificazione nell'unità originaria priva di differenze, dell'impossibilità di questo desiderio. Perciò Mignon tace: come non può diventare donna, se non venendo meno a se stessa, così ella non perviene mai alla parola. Mignon è fasciata dal silenzio come dalla morte, perché è l'indefinibile stesso. Ella danza soltanto, perché solo mediante il corpo, mosso come una marionetta da fili invisibili, si esprime il divino, il demonico che ella è. Tuttavia è solo installandosi nello spazio aperto dalla morte di Mignon, che Wilhelm Meister, può divenire realmente 'maestro'. Ciò

17

18

W. GOETHE, Trilogia della passione, in Settanta liriche, cit., pp. 125-127. G. BAIONI, Classicismo e rivoluzione. Goethe e la rivoluzione francese, cit.,

p. 198. 19

Ivi, p. 202.

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che faceva arricciare il naso alla 'sensibilità' di Schiller, ossia il fatto che Wilhelm immediatamente dopo la morte di Mignon, di cui pure era stato la causa, fosse essenzialmente attratto dalla borsa del chirurgo, è in realtà un vertice dell'arte goethiana. Perciò qui avviene una tacita decisione che solo la morte di Mignon rende possibile: l' abbandono del teatro e l'accesso alla vera vita. La morte di Mignon non è una decisione, ma soltanto il compimento di un destino; ma come compimento di un destino che consuma irrimediabilmente un mondo - quello del teatro verso il quale Mignon ha sempre mostrato "una testarda, significatissima ostilità" 20 - questa morte permette in Wilhelm l'esercizio della decisione. È qui che si incomincia a intravvedere la possibilità del tragico moderno, in questa separazione di morte e decisione, che non albergano più, come nella forma classica della tragedia, nella stessa persona, ma divergono e seguono linee non più parallele. Far buon uso della morte altrui e morire a se stessi attraverso la morte dell'altro, occupando lo spazio silenzioso che la morte inaugura: è questo l'annuncio goethiano del tragico moderno. La morte di Mignon occupa dunque nell'itinerario di Wilhelm, che è l'itinerario di Goethe, dalla giovanile "vocazione teatrale" agli "anni di apprendistato", fino ad arrivare al nomadismo della vecchiaia, altrettante pietre miliari della sua vita, il posto centrale, quello in cui avviene la rottura del tempo demonico, l'interruzione, attraverso la morte di chi fino in fondo lo incarna, del suo scorrere necessario e senza speranza. Non una sua purificazione e/o un suo annullamento, ma la costruzione dell'unica forma possibile per dominarlo senza misconoscerlo. La scelta di Wilhelm, con cui si chiudono i Lehrjahre, di diventare chirurgo, non costituisce una ricaduta nel mondo prosaico, un finale dar ragione all'amico Werner, ma l'abbandono dell'illusione dell'arte come totalità che ricompone il disperso e contemporaneamente l'unico modo di essere all'altezza della prosaicità del mondo

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lvi, p. 207. Sulla incomprensione dei contemporanei riguardo alla figura di Mignon e al suo rapporto con Wilhelm Meister vedi l'epistolario fra Goethe e Schiller, soprattutto la lettera di Schiller del 2 luglio 1796, in W GOETHE, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, tr. it. di A. Rho e E. Castellani, Adelphi, Milano 1976, p. 673, e NOVALIS, Frammenti, tr. it. di E. Pocar in Io., Opere (a cura di G. Cusatelli), Milano 1982, pp. 477-481.

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moderno. Di fronte alla dissoluzione dell'etico, il passaggio attraverso il territorio delfa morte, permette il pervenire a quella 'serietà' della vita e dell'arte che tiene fermo di fronte alla potenza scatenata del demomco. È forse per questo che Mittner definisce un romanzo, le Wahlverwandtschaften, "la sola opera veramente e sostanzialmente tragica di Goethe" 21 .Se ciò è forse in parte dovuto all'esito catastrofico della vicenda che si contrappone al 'lieto fine' del Faust, del Meister e dell' ifìgenia in Tauride, l'unica opera goethiana che si avvicini alla forma classica della tragedia, resta in questa definizione un'intuizione che merita d'essere scandagliata. Ciò che colpisce in primo luogo è che il tragico si dia nella forma del romanzo; esso ha, cioè, abbandonato quello che appariva come il suo luogo deputato - la scena teatrale. Se ciò costituisce un annuncio essenziale intorno allo spostamento del luogo della tragedia nel mondo moderno - spostamento che ritroveremo, sotto altre forme, in Holderlin, che perviene al tragico attraverso l'esercizio della traduzione - esso è, d'altra parte, la conseguenza necessaria dell'abbandono del teatro da parte di Wilhelm Meister. La connessione risulterà ancora più manifesta, là dove si ricorderà che le Wahlverwandtschaften non dovevano essere all'origine nient'altro che una 'novella' inserita nei Wanderiahre. Il suo successivo dilatarsi a 'romanzo' e costituirsi come opera autonoma, la quale presenterà al suo interno, come il gioco delle scatole cinesi, un'altra novella Gli strani figli dei due vicini, se pone un complesso problema d'interpretazione, non toglie, ci sembra, quella continuità alla quale abbiamo accennato. Se i Wanderjahre costituiscono l'origine nella letteratura europea della tradizione del romanzosaggio, come forma narrativa specificamente adeguata alla natura del mondo moderno, le 'novelle', che in esso trovano posto, coprono l' ufficio da un lato di spezzare la continuità della narrazione, che correrebbe altrimenti il rischio di ricostituirsi a perfetta totalità chiusa, venendo meno così alla sua natura 'saggistica', di apertura e scandaglio continuo di una realtà per definizione non ricomponibile, e dall'altro

21

L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca. Dal pietismo al romanticismo, Einaudi, Torino 1964, p. 956.

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lato rappresentano in forma mitica (in modo conforme cioè al significato che Goethe attribuisce al genere della novella e della fiaba), i compiti che, non più risolvibili nel modo antico del sacrificio - e che appunto per questo si racconta come 'favola' - sono tuttavia quelli che Wilhelm, a partire dalla morte di Mignon e in nome del significato che questa morte ha assunto per lui, deve affrontare. La novella - ed è inutile a questo punto ricordare ancora una volta il Goethe inventore di favole per i suoi piccoli amici -, se interrompe il corso dell'azione del romanzo, lo fa per offrirsi come uno "strumento di interpretazione implicita alla narrazione" 22 stessa, ma non al modo di una riflessione critica, come avverrà nelle forme posteriori del romanzo, ma come indice di ciò che il romanzo secondo le sue leggi specifiche dovrà affrontare e risolvere. Se la novella è mitica, il romanzo è prosaico: la novella, dunque, nel suo star dentro al romanzo, conservando intatta la propria differenza, rinvia ali' obbligo di tradurre nel mondo prosaico del romanzo il suo proprio mondo mitico. Questa relazione fra romanzo e novella, che è proprio dei Wanderjhare, si ritrova pressoché immutata nel rapporto che intercorre fra le Wahlverwandtschaften e Gli strani figli dei due vicini. Con questo slittamento essenziale tuttavia: che ciò che era novella in un romanzo, nel suo dilatarsi e assumere le sembianze di quest'ultimo si trasforma nel luogo del tragico. Ciò significa che all'interno del romanzo-saggio deve comparire il romanzo-tragedia, che ne fonda la possibilità stessa d'esistenza, mentre all'interno del romanzo-tragedia non può mancare la 'novella', a ricordare che la forma tragica deve trovare il proprio posto nelle leggi del romanzo stesso. La trasposizione del tragico dalla scena teatrale alla forma-romanzo - e non di quel romanzo, che avrà così grande fortuna nella cultura ottocentesca tutto rivolto a ripristinare l'universo conchiuso della narrazione epica, ma del romanzo-saggio, frammentario ed aperto - implica, come abbiamo già detto, il gesto preliminare dell' abbandono del teatro. Questo gesto, che costituisce il perno intorno al quale gira tutto l'edificio del Wilhelm Meister, significa, più che il rifiuto

22

G.

BAIONI, Classicismo e rivoluzione. Goethe e la rivoluzione francese,

p. 276.

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cit.,

del teatro in quanto tale, la messa a distanza di quel teatro che nel mondo moderno si è trasformato nell'universo chiuso della rappresentazione. Mentre la scena antica attraversava la città ponendola in aperto dissidio con se stessa, la scena moderna, il gran teatro del mondo, risolve, al contrario, le contraddizioni dissolvendole nella rappresentazione e lasciandole d'altronde immutate nella realtà. Il risucchio, ciò che potremmo anche chiamare la voracità della scena moderna, riduce il mondo a mera immagine. Il mondo ridotto a pura immagine di se stesso è ciò che la scena moderna proietta su coloro che da compartecipi dell'azione si sono trasformati in semplici spettatori, catturati nel regno immaginario della fascinazione. Risulta chiaro come questo teatro non possa essere più il luogo della forma classica della tragedia e come da ciò discenda la ragione del suo 'abbandono'. Poiché questo teatro che pretende di offrire come realtà ciò che non è altro che immagine, è il trionfo del demonico. Questo teatro che finge la presenza del divino sotto la forma della macchina, che nasconde l'assenza dell'autorità e della tradizione sotto le insegne del potere mondano, che copre il vuoto etico attraverso la complessità della messa in scena e la ricchezza del cerimoniale - sono, lo notiamo per inciso, i segni del Barocco e del teatro espressionista -, questo teatro è il luogo del doppio, del simulacro e dell'illusione. Esso è, dunque, il demonico, che catturando lo sguardo che vorrebbe passarlo da parte a parte per dissolverlo, lo fa divenire momento del suo dominio. Lostilità, al contrario, di Mignon per il teatro dimostra che ella, per Goethe, è l'immagine dell'altra direzione possibile, quella del disvelamento radicale della natura del demonico: per questo la sua morte, come compimento del destino, segna per Wilhelm Meister la fine della sua 'vocazione teatrale'. Se tragico è questo disvelamento e questo compimento, esso non può darsi nel teatro, ma solo nella forma-romanzo. Infatti solo il romanzo, come genere impoetico e prosaico, sopporta la messinscena del presupposto del mondo moderno e dunque del tragico moderno: la dissoluzione dell'etico. Benjamin, che non a caso dedica uno dei suoi saggi più belli proprio alle Wahlverwandtschaften, nota immediatamente che il tema proprio del romanzo è il matrimonio come forma etica e ciò che accade a partire dal suo deperimento. In questo senso "l'oggetto delle Affinità elettive non è il matrimonio. Sarebbe vano cercare in quest'o-

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pera quelle che sono le sue potenze etiche. Esse sono, fin dall'inizio, in fase di sparizione, come il terreno sott'acqua durante l'alta marea. Il matrimonio non è qui un problema etico e neppure sociale. Non è una forma borghese di vita. Nella sua dissoluzione tutto ciò che è umano diventa fenomeno, e il mitico solo rimane l'essenza'' 23 • L:intenzione di Goethe non è dunque quella di 'fondare' il matrimonio, quanto di "mostrare le forze che emergono nella sua dissoluzione. Ma esse sono, senza dubbio, le potenze mitiche del diritto, e il matrimonio, qui, è solo l'esecuzione di una rovina che non è esso a sancire" 24 • Queste potenze mitiche sprigionate dalla dissoluzione del matrimonio sono appunto le 'scelte' dettate dalle 'affinità' meramente naturali. Dietro lo schermo protettivo del 'desiderio soggettivo', che è l'arma che la modernità ha usato contro il matrimonio fino a farlo precipitare, dietro questo diritto alla scelta libera e 'volontaria', si nasconde nient'altro che l'inconscio, la potenza istintuale, descrivibile alla fine soltanto come 'combinazione chimica'. Che questo istinto, che decide della scelta e fonda l'affinità, si trasformi poi in un Todestrieb, è il castigo necessario che punisce chi ha creduto di poter edificare il matrimonio non attraverso "la morte nell'acqua e nel fuoco", ma trincerandosi nella costumatezza delle forme borghesi di vita, conservando intatta la propria separatezza e il proprio isolamento, e rifiutandosi al dono di sé nell'amore. Solo per questo la 'passione', che tradisce già nel nome il suo carattere eteronomo, irridendo cosi la pretesa della libera scelta, può scatenarsi incontrollabile e irredimibile - passione di fronte alla quale la

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W BENJAMIN, Le 'Affinità elettive' di Goethe, tr. it. di R. Salmi in lo., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922 (a cura di G. Agamben), Einaudi, Torino 1982, p. 185. Sul saggio di Benjamin sono ritornato più distesamente dapprima in Walter Benjamin e la moralità del moderno, Guida, Napoli 1984, pp. 25-146 e in seguito in La lingua muta e altri saggi benjaminiani, Filema, Napoli 2000, pp. 109-142. 24 Jvi, p. 184. Gli estremi fra i quali si situano le Wah!verwandschaften sono rappresentati, secondo Benjamin, dal Flauto magico di Mozart, per il quale il matrimonio è "la costanza degli sposi" e dalla Metafisica dei costumi di Kant che considera il matrimonio come l'uso regolato dal diritto degli organi sessuali. Per quest'ultimo punto cfr. I. KANT, Metafisica dei costumi, tr. it. di G. Vidari, Laterza, Bari 1970, pp. 95-96.

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coscienza, colta in fallo, si scusa in cerca di una complicità, che viene d'altronde ben presto accordata, dichiarando: "è più forte di me!"-, e condurre gli eventi all'esito inevitabilmente catastrofico. Così la colpa s'incarna in quel bambino che, quasi prodotto di pratiche alchemiche, porta nel volto i tratti non dei suoi legittimi genitori, ma quelli dei rispettivi amanti. La colpa dell'adulterio non consumato e taciuto in nome delle buone maniere - cerimoniale quest'ultimo attraverso il quale la borghesia cerca di far dimenticare la sua origine plebea e scimmiotta il mondo aristocratico che pure ha distrutto - prorompe nel volto dell'innocente a scherno delle quattro particelle materiali, ché tali sono diventati Carlotta, Edoardo, Ottilia e il Capitano, attratte e respinte come muti corpi dalla forza di gravità. È allora già iscritto nel loro destino che il bambino, come incarnazione vivente della colpa, debba essere cancellato, morendo di 'morte per acquà, quell'acqua che essi non hanno avuto il coraggio di attraversare. Così come è già deciso da sempre che sia l'indugiare di Ottilia nell'abbraccio di Edoardo, abbraccio che dovrebbe segnare il loro abbandono, subito tacitamente smentito nel retrobottega della loro . coscienza, a provocarne la morte. Da ciò deriva, infine, che la morte di Ottilia non possa assumere la forma del sacrificio tragico, ma solo quella dell'espiazione, propria del martire, attraverso cui poter ottenere la purificazione dell'anima, che non ha saputo far fronte alla potenza del peccato. Ma l'apoteosi barocca, che quasi santifica il corpo di Ottilia, il quale però nel suo rimaner bello anche dopo la morte testimonia del resistere dell'apparenza demonica, dimostra che Goethe, questo inventore di immagini, smentisce implicitamente che abbia luogo tale purificazione: è proprio l'eccesso del cerimoniale a far da spia di come esso sostituisca soltanto la non avvenuta Versohnung, la riconciliazione con Dio. Sembrerebbe con ciò che le Wahlverwandschaften non siano diverse dal dramma martirologico e dal Trauerspiel barocco, in cui martire e tiranno, entrambi alla ricerca della salvezza eterna, sono risucchiati nell'assoluta disperazione dell'immanenza. A far muro di fronte a quest'esito è chiamata appunto la novella che, invocando il tragico al centro del romanzo, riconduce quest'ultimo al suo compito. Che essa, che narra di come due giovani, nel rischio della vita, fondino il loro amore fedele nell'eternità, non se ne stia lì, perfetta bellezza, so-

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spesa in un mondo disgregato, ma conforme al suo principio che dice: "de te fabula narratur", chiami in causa i quattro burattini alle prese con le loro malcelate passioni, è dimostrato dal fatto che Carlotta, al termine della narrazione, agitata, si alzi ed abbandoni la stanza "perché la storia le era notà'. La novella, dunque, li riguarda più di quanto non credano ed è propriamente il capitano a far ben più di Mittler da mediatore, giocando, se cosl si può dire, su due tavoli; e, tuttavia, quanto mutato ormai rispetto alla mitica fiaba. Con perfetta ironia Goethe così glossa la novella: "Questo caso si era veramente svolto tra il Capitano ed una sua vicina, certo non esattamente come l'inglese aveva raccontato, ma nei tratti fondamentali era quello, solo più curato e rifinito nei particolari, come suole accadere a simili storie, appena vanno per la bocca della gente e più ancora quando passano attraverso la fantasia di un narratore pieno di spirito e di gusto. Della realtà, alla fine, rimane tutto e nulla ad un tempo" 25 . Tutto e nulla ad un tempo: perché se è certamente incredibile che nel misero capitano, che, come tutti gli altri personaggi del romanzo, si aggrappa al diritto come ad una zattera nel naufragio del matrimonio come etica potenza, si possa ancora riconoscere il giovane di cui narra la novella, che proprio nell'acqua si muove come nell'elemento più proprio, è altresì vero che è pur sempre l'amore, quello vero, il terreno, per quanto devastato come da un terremoto, in cui essi giocano la loro vita. Ed il fatto che essi non ne siano ali' altezza, non li esime dal doverne, perlomeno, portare le stimmate. Il rapporto novella-romanzo ripete, allora, quello fra epico e tragico, che costituiva la forma classica della tragedia. Con questa differenza: che, se nel tragico l'epico trovava il suo punto di approdo, nel romanzo la novella si ritrae come dietro un velo. Se l'eroe scioglieva nel tragico il suo passato epico, gli eroi moderni della Wahlverwandtschaften si trovano iscritti già da sempre in quel presente mitico dominato dai demoni rispetto a cui il passato, come la patria che gli è propria, si sottrae e si racconta solo come 'favolà. Per essi, che vivono in entrambi, il rapporto no-

25 W. GOETHE,

Le afffinità elettive, tr. it. di M. Mila, Einaudi, Torino

1970, p. 260.

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vella-romanzo è quello dell'espulsione e del desiderio: catapultati nell'universo della dissoluzione essi si pongono affannosamente sulle tracce della via del ritorno. Per quanto la novella, che di loro narra, si allontani a tal punto, fino al rischio che essi non vi si riconoscano più, tuttavia essa, in questo stesso allontanarsi, continua a far da segnale a chi si è sviato nei labirinti demonici. Per questo, pur non essendo morte-sacrificio, morte tragica, quella di Ottilia - come quella di Mignon - è tuttavia compimento-esaurimento di un destino, perché ai confini di questa morte, che ha consumato fino in fondo il presente, pagando la colpa, si apre uno spazio che, proprio perché disperato, attesta la speranza. Solo per questo Goethe può chiudere le Wahlverwandtschaften scrivendo: "Così riposano gli amanti, l'uno accanto all'altro. Aleggia pace sulla loro tomba, serene figure d'angeli, segretamente affini, li guardano dall'alto della volta, e sarà un momento felice, quand'essi si ridesteranno un giorno insieme" 26 • Né martiri, né tiranni, poiché essi sono l'impossibilità della Versohnung e la patria celeste è per loro nient'altro che favola. Ma essi hanno, altresì, imparato nella figura di Ottilia che la morte è la 'traduzione' del regno demonico, che essa, se non è la via che riconcilia, ora, nell'amore, tuttavia conduce, anche se solo di un passo, al di là di questo regno, senza peraltro attingere quello della redenzione; che Ottilia, infine, se non è il sole che illumina il giorno, nemmeno è la luna che inganna con i suoi miraggi il viandante notturno, ma è la stella che guida nella notte del mondo. È in questo senso che, anche per Beniamin, questa volta, l'apparenza della conciliazione, che si mostra nella morte di Ottilia, non è più emblema dell'impossibilità di sfuggire al dominio del destino. Anzi in questo caso "il detto platonico, esser assurdo volere l'apparenza del bene, soffre la sua unica eccezione" 27; e ciò in nome del fatto che "l'apparenza della conciliazione può, anzi deve essere voluta; essa sola è la sede dell'estrema speranza. Così la speranza finisce per liberarsi dall'apparenza; ed è solo come una domanda tremante che, alla fine del libro, quel 'come sarà bello' risuona dietro i morti, che se mai pos-

26

lvi, p. 320.

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W

BENJAMIN,

Le 'Affinità ekttive' di Goethe, cit., p. 253.

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siamo sperare che si ridestino, non è già in un mondo bello, ma in un mondo beato. Elpis rimane l'ultima delle parole orfiche; alla certezza della benedizione, che gli amanti raccolgono nella novella, corrisponde la speranza nella redenzione, che nutriamo per tutti i morti" 28 • Nella morte, in questa morte, èome consapevole compimento del destino e come estremo commiato, "la speranza finisce per liberarsi dall'apparenzà'; così come "via via che il sole si spegne, sorge nel crepuscolo la stella della sera, che illuminerà la notte" 29 • La stella e la speranza, è ancora Benjamin a ricordarlo, si trovano congiunte da Goethe stesso in quel punto del romanzo in cui il destino degli amanti si compie: quello in cui, indugiando l'uno fra le braccia dell'altro, Edoardo e Ottilia, incapaci di fare dono di sé nell' amore, 'scelgono' la morte di chi porta sul proprio volto la colpa. Allora "come una stella cadente, la speranza passò sulle loro teste. Credettero, delirando, di appartenersi; per la prima volta si baciarono apertamente, liberamente e si staccarono con uno sforzo doloroso. Il sole era tramontato, già calava l'oscurità crepuscolare" 30 • Che essi non la vedano, la stella della sera, mentre come sempre sale nella volta del cielo, al tramontare del sole e al calare dell'oscurità crepuscolare, è dovuto al fatto che deve compiersi il destino e che essi sono ancora nella fascinazione demonica che li fa illudere, delirando, di appartenersi. Per questo è 'cadente'. Solo per loro la speranza è "una stella cadente". Poiché, come dice Benjamin, "non si poteva dire più chiaramente che l'ultima speranza non è mai tale per chi la nutre, ma solo per quelli per cui è nutrita. Appare così la ragione più intima dell' atteggiamento del narratore. Perché egli solo può compiere, nel sentimento della speranza, il significato dell'accadere, proprio come Dante accoglie in sé la disperazione degli amanti, cadendo 'come corpo morto' dopo le parole di Francescà' 31 . È così ribadito che il tragico moderno si fonda, per la dissoluzione dell'etico che ne è alla base, sulla separazione della morte dalla decisione; giacché chi muore non per questo è salvo, ma

28 29 30

31

Ibidem,. Ibidem. W. GOETHE, Le affinità elettive, cit., p. 276. W. BENJAMIN, Le 'Affinità elettive' di Goethe, cit., p. 253.

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tuttavia se la sua morte è il prendere congedo, solo per questo instaura il terreno su cui è possibile la decisione. Questa morte resta a far da traccia, o, per dirla con Benjamin, "solo per chi non ha più speranza, ci è data la speranzà' 32 •

32

Ivi, p. 254.

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Le leggi dell'ospitalità Quel demonico contro cui Goethe senza illusioni conduce la sua lotta, Kleist se lo sente crescere dentro come un fiore. Se Goethe poteva ancora, attraverso la potenza delle immagini, oggettivarlo e dissolverlo, i personaggi kleistiani fanno a tal punto tutt'uno con esso, che neppure un briciolo di consapevolezza illumina il loro erramento. È sempre in uno stato di incoscienza e di sogno che il demone si manifesta in essi, decidendo per sempre del loro destino. Cosi è per il principe di Homburg, per Katchen von Heilbroonn, per la Marchesa di O. Tuttavia ridurre Kleist a semplice testimone del muto arrendersi di fronte al demonico o alle potenze del negativo, imprigionandolo in una atmosfera schopenhaueriana, rischierebbe di tradirlo. Poiché al contrario Kleist è forse il primo a sapere che, nell'epoca dell'assenza degli dei, non per questo il divino ci ha abbandonato: esso infatti, è presente sotto mentite spoglie. Non altra ci appare la immanente ragione per cui Kleist avverta il bisogno di riprendere l'Anfitrione di Molière, ma prima ancora di Plauto, per dar testimonianza di un' assente presenza, inquietante di certo, ma che tuttavia nasconde nel suo mistero più del semplice gioco del doppio cui si potrebbe ridurla. Ciò rimanda al dettato di Novalis: dovere avere la serietà una sua luce serena, lo scherzo una luce seria. Perché se l'esser catturati di Anfitrione, di cui si irride la boria guerriera, e di Sosia, che non.a caso dava all'originale il suo nome, nel gioco di specchi della coppia divina, in cui resta l'eco di un'antica allegria, è ciò che si salva dell'originaria 'commedia', esso in Alcmena acquista tutta la sua serena serietà, trasformandosi in dramma. Nell"'Ach" di Alcmena, con cui l'opera si chiude, non solo risuona "il ricordo di un attimo transumanante e l'accettazione della

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propria realtà terrena, un'inconfessabile nostalgia ed una dolce ed amara rassegnazione" 33 , ma soprattutto l'indicibile gioia di chi in fondo aveva sempre saputo di essersi incontrata col Dio. Ciò è dimostrato dal fatto che, quando il popolo di Tebe obbliga Alcmena a dichiarare quale dei due Anfitrione sia il vero, ella, guidata da donna dalla coappartenenza essenziale, indichi senza esitazione Giove. Se, come vuole Mittner, Alcmena resta comunque fedele ad Anfitrione, poiché ella ha amato in lui "la propria fede nel valore assoluto (e quindi 'divino') che ha, quando sia pieno e vero, il solo amore concesso a quanti vivono sulla terra" 34 , e dunque ha amato in Giove null'altro che Anfitrione, è altresì vero che non si dà vero amore se non amando in Anfitrione il Dio. Di ciò l"'Ach" di Alcmena rende testimonianza. Ancora una volta è la realtà del matrimonio e del vero amore a far da emblema del mondo disgregato. Le Wahlverwandtschaften erano la descrizione di quanto restava del matrimonio, dissoltesi le sue potenze etiche; Anfitrione, iscritto in questa dissoluzione, dimostra dal suo canto che o occorre accettare l'inganno, perché in esso il dio si manifesta, o che si dà fedeltà nella forma del tradimento. Perché che cosa è l'amore se non il dono? Come Alcmena ha fatto dono di sé al Dio solo in quanto si cela sotto la forma di Anfitrione e perciò rimane fedele, così Anfitrione cessa di essere un marito tradito, da commedia borghese, quando, di fronte al rivelarsi della potenza di Giove, s'inchina e gli fa dono di Alcmena. Solo allora Anfitrione si ricongiunge ad Anfitrione ed Alcmena torna ad Alcmena e il gioco degli specchi demonici è infranto. Così essi si ritrovano nella fedeltà solo perché sono passati attraverso la lacerazione. Cosa importa, ora, di chi sia figlio Eracle? Da semidio egli attesta soltanto che nessun vero amore è cosa semplicemente umana. Ma che il Dio per venire in aiuto debba ricorrere all'inganno,

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L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca. Dal pietismo al romanticismo, cit., p. 886. Su Kleist cfr. G. LuKAcs, Breve storia della letteratura tedesca, tr. it. di C. Cases, Einaudi, Torino 1956, e Realisti tedeschi del XIX secolo, tr. it. di F. Codino, Feltrinelli, Milano 1963. Su Anfitrione vedi il bellissimo saggio di T. MANN, L'Anfitrione di Kleist. Una riscoperta, in Nobiltà dello spirito, ed. it. a cura di L. Mazzucchetti, Milano 1973. 34 Ibidem.

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che egli debba intrufolarsi nel sogno e approfittare di quando la coscienza vien meno, significa che per lui in questo mondo non è approntata dimora se non marginale e sotterranea, che egli può solo occupare le pieghe e gli interstizi che la "riflessione" gli lascia e che, per dirla con Freud, là dove qualcosa di perturbante ci accade, li risuona qualcosa di familiare per quanto stravolto. La risposta di Kleist è che quando l'ospite arriva, le leggi dell'ospitalità debbono vincerla sulle forme borghesi di vita: proprio quanto non era riuscito ai personaggi delle Wahlverwandtschaften. Ciò che Kleist sa più di Goethe, e ciò spiega forse l'incomprensione di quest'ultimo, è che il demonico è, in un tempo povero di dei, il modo con cui il divino si mostra. Dissolverlo vuol dire allora permettergli di offrirsi con il suo vero volto. Che cosa distingue all'inizio Katchen von Heilbroonn da Kunegonda, promessa sposa del conte Strahl? Se qualcosa le differenzia è anzi a danno di Katchen, il cui comportamento incomprensibile, dapprima attribuito dal padre alle arti magiche del conte, viene in seguito dal conte stesso spiegato come artefatto dell'inferno. Lincomprensibile di Katchen è la pervicacia spinta fino all'umiliazione con la quale ella insegue il conte, perché ella è colei che egli veramente ama senza saperlo. Essi si sono incontrati in sogno e qui è stata suggellata la loro reciproca fedeltà, che il conte nella sua coscienza desta non ricorda: contro questo oblio Katchen deve lottare e che ella, ad onta dell'assurdità del suo agire, sia mossa dal divino, lo dimostra quella brevissima scena in cui Katchen, che dovrebbe essere morta nell'incendio del castello, toccata con la punta di un ramo di palma dal Cherubino che è apparso alle sue spalle, viene salvata. Tuttavia, il conte sa ancora qualcosa di questa fedeltà come comprende quando egli, pur ritenendola opera infernale, sente d'essere legato ed attratto da Katchen molto più di quanto la sua volontà non sappia render ragione. Egli sta per scambiare il divino col demonico, proprio mentre quest'ultimo lo sta avvolgendo nelle sue spire per indurlo alla perdizione. Sarà la cocciutaggine di Katchen - poiché questo, se si vuole, è il lato scherzoso della seria vicenda - che, fedele alla fedeltà del sogno, svelerà Kunegonda nella sua natura demonica, artefatto, da intendersi alla lettera, infernale. Se questa centralità del sogno e dell'inconscio distacca nettamente l'opera kleistiana da entrambe le versioni del classicismo wei-

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mariano, non per questo la confonde con il movimento romantico. Secondo Beguin, infatti, "il concetto di grazia dà palesemente a questa filosofia un indirizzo estetico che non è quello della magia di Novalis fondata sul concetto di un potere: qui l'uomo vuole impossessarsi della Natura, per renderla al suo stato primitivo; là egli aspira a stabilire in se stesso l'armonia. Entrambe le vie conducono alla divinizzazione, ma con punti di partenza e fini che si rassomigliano solo in superficie. E poi se Novalis e i suoi simili, accostando l'arte alla conoscenza fanno dell'opera, su cui non cessano di riflettere, uno strumento della reintegrazione da loro bramata, Kleist, invece, compie la sua opera senza gravarla delle proprie ambizioni metafisiche" 35 • I..:interesse per il patologico, il perturbante, il demonico insomma, attraversa tutto il movimento romantico, ma in Kleist esso perde il carattere più comunemente riconosciutogli di sede del 'sentimento' contrapposto alla ragione, di unico luogo a partire dal quale sia possibile riottenere quella reintegrazione che la 'ragione' non permette più. Già Goethe aveva avuto buon gioco contro quest'illusorio ricorso all'inconscio, mostrandolo nella Wahlverwandtschaften come pura 'combinazione chimicà, natura dominata paradossalmente dalla riflessione. Ma contro Goethe e più ancora contro i romantici, Kleist fa emergere dell'inconscio l'altro versante: più che natura o regno della verità del sentimento, esso è il luogo di un appello. I personaggi kleistiani non 'riflettono' mai sull'inconscio, ma ne sono, semplicemente, chiamati. In questo ha ragione Mittner quando scrive che "Kleist è il più demonico dei poeti tedeschi, quello in cui il demonico si presenta in tutta la sua immediata elementarità. Di fronte agli eroi kleistiani il viandante di Goethe è un prudente sperimentatore del numinoso e Faust un metodico architetto della propria anima. Il demone o genio di Kleist è ciò che egli, incapace e sdegnoso di formulazioni comunque precise, designa con parole come cuore, sentimento, anima: parole tutte polivalenti, che appunto perciò riassumono la totalità di una passione sempre multiforme e contraddittoria. Un orgoglioso solipsismo spinge Kleist ad ammirare il proprio 'vero' sentimento, il proprio sen-

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A. BEGUIN, L'anima romantica e il sogno, tr. it. di U. Pannuti, Garzanti,

Milano 1976, p. 430.

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timento 'puro', lo obbliga a conquistarlo nella sua vera e pura essenza, cioè a riconoscerlo, a chiarirlo, a dominarlo. Il demone - che è sempre il proprio demone ~ è per Kleist il massimo e in fondo unico problema, e la minaccia più terribile che incombe sulla sua anima e sull'anima dei suoi eroi è quella di non trovare più la propria via, la via prescritta dal proprio 'sentimento', cioè di non riuscire a comprendere e conquistare la propria demonicità nella sua forma compita ed immistà'36. Non inganni però la corrispondenza dei termini: cuore, sentimento, anima, non sono per Kleist l'oggetto di una riflessione, ma metafora di quel luogo, altrimenti indicibile, da cui proviene l'appello. Allo stesso modo conquistare il proprio vero e puro sentimento è restargli fedele, restare fedele all'appello che in esso si manifesta. Perciò abbiamo detto di Katchen che ella resta, nonostante tutto, fedele alla fedeltà del suo sogno. Persistere in questa fedeltà che niente compara, è il 'tragico' kleistiano. Ancora Beguin nota che "mentre il suo pensiero si volge verso la speranza della divinizzazione, la sua opera è essenzialmente 'tragica', nel senso in cui lo sono le grandi tragedie greche e non lo è quasi nessun dramma moderno, o comunque nessun dramma romantico: essa esprime cosl com'è la condizione umana, con il tormento della coscienza già desta, ma ancora imperfetta. Il tragico consiste appunto in questo, che i personaggi kleistiani non sono né marionette né dei. E il genio del poeta tragico si preoccupa solo di trovare le immagini e i lampi squarcianti che fanno balzare allo sguardo, in tutta la sua irrimediabile ampiezza, la tragedia di essere uomo" 37 . Non è certo il significato che Beguin dà qui alla parola tragico che ci interessa. Non solo nulla accomuna i drammi kleistiani alla tragedia antica, ma soprattutto qui si dà un'ennesima testimonianza della confusione in cui i moderni sono caduti riguardo al problema del tragico. Ciò che invece ci appare essenziale è riferire i drammi kleistiani all'essere l'uomo in bilico fra la marionetta e il dio. Ma questo in un senso diverso da Beguin. Perché il problema che Kleist affronta nel Teatro di marionette non è tanto quello, meramente formale, di in-

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L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca. Dal pietismo al romanticismo, cit., p. 868. 37 A. BEGUIN, L'anima romantica e il sogno, cit., p. 431.

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dividuare in astratto il posto dell'uomo nel mondo abbandonato dagli dei, quanto quello di chiedersi dove in verità alberghi il Dio da quando siamo caduti nella notte del peccato, dal "giorno che abbiamo gustato all'albero della conoscenzà'. Perché è appunto a partire da quel giorno che "il paradiso è serrato e il cherubino ci sta alle spalle" 38 • La corrispondenza fra questo testo 'teorico' e la pratica drammatica di Kleist non potrebbe essere più manifesta, perché è appunto alle spalle di Katchen che il cherubino appare nella scena che attesta il suo esser 'divinà. Allora 'tragicà non è la condizione in quanto tale dell'uomo nel mondo, ma 'tragico' è che egli debba circumnavigare questo mondo, come mondo del peccato, per andare incontro a quel luogo, che dal suo canto non può stare che alle sue spalle, ma attraverso il quale il divino ancora può irrompere. Nelle parole di Kleist: "Noi dobbiamo fare il viaggio intorno al mondo e vedere se si trovi qualche ingresso dal di dietro" 39 • Ma questo 'ingresso' presenta il paradossale statuto di essere l'uscita dal mondo e l'ingresso nel paradiso e, contemporaneamente, il luogo attraverso il quale Dio può entrare nel mondo. Questo luogo Kleist lo indica nella metafora della 'marionettà. Poiché ciò che è proprio della marionetta è la 'grazià che solo a fatica l'uomo raggiunge. A prova di ciò soccorre l'esempio della danza: "Le marionette hanno bisogno del terreno solo, come gli elfi, per sfiorarlo, e rianimare l'impeto delle membra col momentaneo ostacolo. Ma invece noi ne abbiamo bisogno per posare su di esso e ristorarci dallo sforzo della danza: un momento che certo non è danza e da cui non si lascia ricavare nulla, altro che scartarlo quanto più si possa"40 . Non era forse così che danzava Mignon? Ciò che distingue l'uomo dalla marionetta è per Kleist non tanto la coscienza, quanto quella 'riflessione' che procede dalla conoscenza del bene e del male. Questo è lo 'spirito di gravità' che lega l'uomo alla terra su cui è costretto ogni volta a posare. Come ad ogni tentativo della danza di librarlo al

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H. VON KLEIST, Sul teatro di marionette, in Opere, tr. it. di L. Traverso, Sansoni, Firenze 1959, p. 852. 39 Ibidem. 40 Ibidem.

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di là del terreno, egli deve ricadervi, così la 'riflessione' sulla sua natura non lo affranca dal dominio del peccato. Solo un Dio potrebbe danzare come la marionetta perché "questo è il punto in cui i due estremi dell'anello del mondo si toccano" 41 . Il dio e la marionetta: essi sono gli estremi che si incontrano e si confondono e in cui il mondo del peccato ammutolisce. Proprio il divenir muto della 'riflessione' apre lo spazio della grazia: "noi vediamo, infatti, che nella misura in cui nel mondo organico la riflessione si fa più debole e oscura, la grazia vi compare sempre più raggiante e impetuosa. Ma così, come l'intersezione di due linee, vista da un punto dato, dopo aver traversato l'infinito d'improvviso si ritrova dall'altra parte di quel punto, o l'immagine dello specchio concavo, dopo essersi allontanata all'infinito, d'improvviso ricompare davanti vicinissima, così si ritrova anche la grazia, dopo che la conoscenza, per così dire, ha traversato l'infinito; così che, nello stesso tempo, appare purissima in quella struttura umana che ha nessuna o un'infinita coscienza, cioè, nella marionetta o in Dio" 42 • Ancora una volta non è la coscienza, ma la conoscenza, la 'riflessione', cioè propriamente la 'conoscenza del bene e del male', a dover essere attraversata all'infinito, perché, in quest'universo kleistiano a tempo e spazio curvi, essa sfoci nell'assoluta coscienza del dio, o, che è lo stesso, nella muta grazia della marionetta. La quale, se è muta, non per questo è silenziosa. Se ha rinunciato alla parola umana che, per dirla con Benjamin, accenna sempre ad altro, ha acquisito l'infinito divino linguaggio della danza. Allora "gustare di nuovo dall'albero della conoscenza, per ricadere nello stato d'innocenzà' è il compito degli eroi kleistiani, perché appunto questo "è l'ultimo capitolo della storia del mondo" 43 • Divenire come la marionetta e lasciarsi guidare dai fili invisibili del burattinaio; restare fedeli alla direzione verso cui la sua mano nascosta ci spinge mentre attraversiamo l'universo della 'riflessione', questo è il tragico kleistiano. Perché solo nella muta marionetta alberga il Dio con la sua parola.

41 42

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Ivi, p. 853. Ibidem. Ivi, pp. 855-856.

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Antigone perduta

Se ora abbandoniamo il terreno dell'arte sul quale poggiavano, radicandovisi, Goethe e Kleist, e ci volgiamo al pensiero di Hegel, sembra difficile sfuggire alla sensazione di essere entrati in una regione desertica. Giacchè nel dominio della ragione pare non esservi posto per il tragico. E non è valso ad intaccare tale interpretazione di Hegel nemmeno il tentativo che, in un'atmosfera 'quasi-esistenzialisticà, autori come Whal, Kojève ed Hyppolite hanno compiuto per riconoscergli, almeno fino alla Fenomenologia dello Spirito, una certa comprensione del destino tragico dell'esistenza, subito, tuttavia, dissolto nel primato della logica. Tentativo non riuscito sia perché condotto sulla base di un concetto di tragico stravolto dall'ideologia nient'altro che l'irriducibile contrasto fra individuo e corso del mondo accompagnato dall'inevitabile disfatta del primo-, sia perché mosso dalla convinzione propria della modernità che l'immalinconirsi sulla tragicità del vivere debba essere necessariamente più autentico del virile star fermi davanti ad essa e farvi fronte. All'offuscamento con cui i tempi moderni ingannano lo sguardo catturato nella fascinazione, facendolo accedere alla credenza nella superiorità del 'sentimento', si accompagna l'altra convinzione profonda della modernità nel primato di ciò che è giovane. In nessuna epoca della storia del mondo è stato mai tanto di moda oggettivare il pensiero secondo il ritmo dell'età. Giovane e maturo: ecco ciò che connota il pensiero. Giacché nell'epoca che si è voluta interamente nuova, con il dissolvimento di ogni tradizione, ciò che è giovane ha valore contro ciò che, una volta maturo, ora è dichiarato con sprezzo semplicemente invecchiato. Cosicché l'epoca che ha fatto della maturità una istituzione, è quella che assolutamente ne è priva. E se pure è ve-

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ro che non possiamo sbarazzarci di quest'invenzione della modernità che è la giovinezza come 'età felice' - nonostante ed a causa del fatto che si riveli alla fine nient'altro che 'tragicà -, allo stesso modo va detto che essa è soltanto quell'età in cui è concesso commettere errori. Come ha scritto Goethe: 'Terrore può essere benefico finché si è giovani, ma non dobbiamo trascinarcelo nella vecchiaia" 44 . Ma non è questo il caso di Hegel. In nessun momento Hegel ha perso di vista la possibilità dello scacco da parte della coscienza ed egli stesso l'ha rischiato, come attestano le sue lettere, nella forma della follia. Scrive, infatti, a Windischmann il 27 maggio 181 O: "Io conosco per esperienza personale questa voce dell'animo, anzi della ragione, quando essa penetra con interesse e con le sue disposizioni nel caos dei fenomeni e quando, internamente certa della meta, non si è ancora completamente ritrovata, e non è ancora pervenuta alla chiarezza e alla specificazione dell'intero. Ho sofferto per un paio di anni di questa ipocondria fino all'esaurimento delle forze. Certo ogni uomo ha conosciuto una tale svolta nella sua vita, il punto oscuro della concentrazione della sua natura, che egli deve attraversare perché ne venga assicurato e confermato nella certezza di se stesso, nella certezza della vita consueta e quotidiana, e, se si è reso incapace ad essere soddisfatto da questa, nella certezza di una più nobile esistenza interiore"45. Se la coscienza si lasciasse sprofondare nel "punto oscuro della concentrazione della sua natura", ciò non produrrebbe 'tragedià, ma soltanto rassegnazione impotente di fronte al destino, un restar chiusi nel cerchio magico della propria individualità che, nel suo agitarsi di contro alla malvagità del mondo, nasconderebbe null'altro che la propria 'presunzione'. "L'impossibilità di una immediata realizzazione dei propri ideali, scrive Hegel, può rendere l'uomo ipocondriaco. A questa ipocondria, per quanto in molti possa anche essere invisibile, non sfugge facilmente nessuno (... ) In questo stato d'animo morboso l'uomo non vuole abbandonare la sua soggettività, non è in grado di

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W GOETHE, Massime e riflessioni, tr. it. di G. Zamboni in Opere (a cura di L. Mazzucchetti), Sansoni, Firenze 1962, voi. V, p. 1003. 45 G. F. W HEGEL, Epistolario, (a cura di P. Manganaro), Guida, Napoli 1988, voi. II, pp. 90-91.

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oltrepassare la sua avversione nei confronti dell'effettualità e si trova appunto perciò nella condizione di relativa incapacità, che diventa facilmente una effettiva incapacità. Se l'uomo non vuole sprofondare, deve riconoscere il mondo come autonomo, essenzialmente bell'e fatto, accettare le condizioni poste a lui dal mondo stesso e strappare alla sua burbera ritrosia ciò che egli vuole avere per sé. Di regola l'uomo crede di dover essere condotto a questa arrendevolezza solo dalla necessità e dal bisogno. Ma, in verità, tale unione col mondo non deve essere intesa come un rapporto di necessità, ma come il rapporto razionale ... ; l'uomo agisce perciò del tutto razionalmente in quanto abbandona il piano di una radicale trasformazione del mondo e tende a realizzare i suoi scopi personali, le sue passioni e i suoi interessi solo nella sua connessione al mondo (... ). Infatti, sebbene il mondo debba essere essenzialmente riconosciuto come bell'e fatto, esso non è tuttavia qualcosa di morto, bensì, come il processo vitale, qualcosa che sempre di nuovo si produce, qualcosa che, nello stesso tempo, in quanto si conserva, progredisce" 46 . Questa lucida pagina hegeliana mostra all'esterrefatto paladino della modernità che ciò che egli definisce 'tragedià è soltanto l'irrigidirsi di quella soggettività che nasce sul terreno della dissoluzione del1' etico. Se tragico è per Hegel il conflitto delle potenze etiche, se, cioè, esso ha a che fare con l'etico in quanto tale e non tanto con la condizione del soggetto, l'obsolescenza della tragedia nel mondo moderno non dipende da una decisione arbitraria del pensiero, ma dalla natura della cosa stessa. Non è più sorprendente, allora, che al deperimento del tragico s'accompagni in Hegel quello dell'arte, giacché questa, appartenendo ad un mondo che il procedere del dominio della 'riflessione' ha dissolto, si è vista tagliare alla radice la possibilità stessa del suo esistere: "Il pensiero e la riflessione hanno sopravanzato la bella arte"47. Ciò significa che "qualunque atteggiamento si voglia assumere

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G. F. W. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Filosofia dello Spirito, tr. it. a cura di A. Bosi, Utet, Torino 2000, pp. 139- 140 e pp. 147-148. 47 G. F. W. HEGEL, Estetica, tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, Torino 1967, p. 15.

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di fronte a ciò, è certo che ora l'arte non arreca più quel soddisfacimento dei bisogni spirituali, che in essa hanno cercato e solo in essa trovato epoche e popoli precedenti; soddisfacimento che, almeno dal lato della religione era legato nel modo più intimo con l'arte. Sono trascorsi i bei giorni dell'arte greca come pure l'età d'oro del basso Medioevo. La formazione riflessiva della nostra vita odierna ci crea il bisogno, sia in relazione alla volontà che al giudizio, di fissare punti di vista generali e di regolare in conseguenza il particolare, cosicché forme universali, leggi, doveri, diritti, massime valgono come motivi determinanti e sono ciò che fondamentalmente ci guida. Ma per l'interesse artistico come per i prodotti dell'arte noi richiediamo in generale piuttosto una vitalità in cui l'universale non sia presente come legge o massima, ma operi come identico al cuore e al sentire, così come anche nella fantasia l'universale ed il razionale sono portati in unità con un'apparenza concreta sensibile. Perciò il nostro tempo, per la sua situazione generale non è favorevole all'arte. Lo stesso artista, nell'esercizio della sua arte non soltanto è sollecitato ed influenzato ad introdurre nel suo lavoro sempre più pensieri dalla riflessione che risuona alta intorno a lui, ma l'intera formazione spirituale è tale che egli stesso sta dentro un simile mondo riflessivo coi suoi rapporti, e né potrebbe farne astrazione con la volontà o con l'allontanarsi dai rapporti della vita, fingersi ed effettuare un isolamento particolare che ristabilisce il perduto. Per tutti questi riguardi, l'arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per noi un passato" 48 • Larte, che è ormai un 'passato', è dunque quella al cui concetto Hegel resta sempre fedele, quell'arte cioè in cui razionale e sensibile, universale e vita concreta ancora combaciano. Arte eminentemente simbolica, secondo l'uso che di questo termine fa ancora la filosofia dello spirito del periodo jenese e che si contrappone all'arte allegorica, il cui territorio comprende oltre all'antico oriente e al medioevo, soprattutto la modernità 49 .

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lvi, pp. 15-16. Cfr. G. F. G. HEGEL, Filosofia dello spirito jenese, tr. it. e cura di G. Cantillo, Laterza, Bari 1984, p. 166. Seguo qui l'interpretazione del testo hegeliano offerta da Giuseppe Cantillo secondo la quale ali' epoca della filosofia dello spirito jenese, quindi nel 1805-1806, Hegel ragionerebbe ancora in base alla biparti49

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Dichiarare questa arte un 'passato', non significa però che per Hegel non si dia più arte in generale. Con estremo disincanto Hegel indica che è possibile arte nei tempi moderni solo là dove l'artista, sottrattosi al fascino di un impossibile ritorno, tenga conto del dominio della riflessione come del terreno a partire dal quale deve procedere il suo stesso operare. Egli deve essere consapevole che l'arte ha da rinunciare, oggi, alla pretesa di essere il luogo dell'universale concreto, di essere parte di un universo sacrale, di avere ancora, per usare una espressione di Benjamin, una propria 'aurà. Ciò non toglie, d'altronde, che anche quest'arte, che tiene conto del dominio dell'astratto, non possa comunque sperare di avere l'ultima parola. Essa potrebbe, forse, al massimo, mostrare questo dominio, ma non superarlo, e in questo senso risulterebbe perdente. Poiché essere all'altezza, per Hegel, non consiste tanto nello stare allineati e coperti, ma nel situarsi un gradino più in sù. Sulla riflessione può vincere soltanto la 'scienza'. Da ciò, che Hegel non abbia visto un'altra possibilità dell'arte, è certamente il meno che gli si possa addebitare. Già nella Fenomenologia dello Spirito il tragico è un 'passato', una figura destinata al tramonto. Esso trova la sua radice sul terreno dell'essenza etica. Tragico è perciò solo quel conflitto in cui trapassa, nel suo divenire 'carattere', il quieto differenziarsi dell'etico. Dapprima, infatti, la differenza fra legge umana e legge divina in cui il regno etico si polarizza non comporta scissione: "In tal guisa, nel suo sussistere, il regno etico è un mondo non macchiato di scissione alcuna. E similmente il suo movimento è un quieto divenire: l'una potenza di esso regno, diviene l'altra, e da ciascuna l'altra è ricevuta e prodotta. Noi le vediamo bensì dividersi nelle due essenze e nell'effettualità di esse, ma la loro opposizione è piuttosto la convalida dell'una essenza mediante l'altra, e il punto nel quale esse toccansi immediatamente come

zione tradizionale fra arte classico-antica e arte romantico-moderna e non avrebbe ancora elaborato la tripartizione fra arte simbolica-arte classica-arte romantica divenuta canonica subito dopo: cfr. G. CANTILLO, L'arte nella filosofìa dello spirito della ]enaer Realphilosophie, in "Il Pensiero", 1-3, 1970, ristampato in Io., Le forme dell'umano. Studi su Hegel ESI, Napoli 1996, in particolare pp. 159 e 161. Per la tesi opposta si veda P. D'ANGELO, Simbolo e arte in Hegel, Laterza, Bari 1989, p. 52.

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reali, e il loro medio e il loro elemento, è la loro compenetrazione immediata"50. I..:opposizione è possibile soltanto sul preesistere della differenza, ma che quest'ultima trapassi nella prima non discende dal puro divenire logico, ma dal momento del 'fare'. Durch die Tat l'essenza universale si capovolge nell'individualità; questa, come luogo della coscienza etica, è il puro 'dovere', di fronte a cui l'altro lato del regno etico sprofonda: "Il fatto, scrive Hegel, disturba la quieta organizzazione e il quieto movimento del mondo etico. Ciò che nel mondo etico appare come ordine e accordo delle due essenze, delle quali l'una convalida e completa l'altra, diventa, per via del fatto, un passaggio di opposti, nel quale ciascun opposto si mostra piuttosto come la nullità di se stesso e dell'altro, che non come convalida; diventa il movimento o l'eterna necessità del terribile destino" 51 • Il mutamento del concetto di destino, come di ciò che semplicemente si oppone alla legge del cuore, nel necessario entrare in opposizione delle potenze etiche, testimonia il prender distanza dalle posizioni idealistico-soggettive e idealistico 'assolute' che si consuma nella Fenomenologia dello Spirito. Esso rende ad Hegel il servizio di poter ridurre all'impotenza la concezione kant-schilleriana del tragico, definita, senza mezzi termini, come quel "brutto spettacolo di una collisione tra passione e dovere", addirittura quello spettacolo "comico di una collisione di dovere contro dovere"52. I..:opposizione, infatti, è tutta giocata all'interno del regno etico, e mai fra l'individuo e la legge. La coscienza etica, infatti, come puro dovere, immediata effettualità dell'essenza, ritiene di aver di fronte sì un'altra effettualità, ma priva di diritto: "Ora, siccome da una parte l'eticità consiste essenzialmente in questo immediato decidersi, e quindi per la coscienza soltanto l'una legge è l'essenza; e siccome, d'altra parte, le potenze etiche sono effettuali nel Sé della coscienza, ricevono esse il significato di escludersi e di essere opposte a se medesime; - nel-

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G. F. W. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. de Negri, La Nuova Italia, Firenze 1963, voi. II, p. 21. 51 Ivi, p. 22. Per tutta questa parte della Fenomenowgia del/,o spirito vedi J. HYPPOLITE, Genesi e struttura della 'Fenomenologia dello spirito' di Hegel, tr. it. di G. A. de Toni, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 405-444. 52 Ivi, p. 23. Per questo passaggio cfr. P. SzONDI, Poetica dell'idealismo tedesco, tr. it. di R. Buzzo Margari, Einaudi, Torino 1974, pp. 25-43.

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l'autocoscienza esse sono per sé, a quel modo che nel regno dell'eticità, sono soltanto in sé. La coscienza etica, decisasi per l'una delle due potenze, è essenzialmente carattere, per essa non c'è l'eguale essenza di entrambe; onde l'opposizione appare come un'infelice collisione del dovere soltanto con l'effettualità priva di diritto. La coscienza etica è, come autocoscienza, in questa opposizione; e come tale essa procede ad assoggettare violentemente alla legge, cui appartiene, questa effettualità opposta, o a farsene gioco. Poiché la coscienza vede il diritto soltanto dalla parte sua e il torto dall'altra, quella delle due coscienze che appartiene alla legge divina scorge nell'altro lato una umana, accidentale esplosione di violenza; mentre quella che è soggetta alla legge umana vede nell'altro lato la caparbietà e la disubbedienza dell'interiore essere per sé: i comandi del governo sono infatti l'universale senso pubblico esposto alla luce del giorno; ma la volontà dell'altra legge è il senso infero racchiuso nel profondo senso che nel suo esserci appare come volontà della singolarità e che, in contraddizione col primo, è l'empietà" 53 • La tragedia sofoclea è letta, dunque, come testimonianza dell'irripetibile "bella vita etica", che già si destina al suo tramonto. Essa, da questo divenire trapassa nella opposizione, a causa dell'immediatezza, a causa cioè dei coincidere immediato dell'essenza etica e dell'agire individuale. Per questo, di fronte all'altra legge, "l' azione etica ha in sé il momento del delinquere, giacché non toglie la naturale ripartizione della legge nei due sessi; anzi, in quanto indivisa direzione verso la legge, rimane al di dentro della immediatezza naturale e, in quanto operare, rende questa unilateralità una colpa; la colpa di cogliere uno solo dei lati dell'essenza e di comportarsi negativamente verso l'altro, ossia vulnerarlo" 54 . I.:immediatezza dell'agire etico trascina, in quanto delinquere, nella rovina il regno etico come spirito sostanziale, il quale appunto per questo si dava nella forma della natura. In questa forma esso deve dileguare. Lo scontro, che il passaggio all'azione ha aperto nel regno etico, dissolve l'una e l'altra legge, poiché se quella umana reprime la disubbidienza di quella divina, anch'essa è affetta dalla stessa immediatezza, anch'essa coglie "uno solo

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lvi, p. 24. lvi, p. 27.

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dei lati dell' essenzà', e in questo è empia. Cosi è l'intero regno etico che, entrato nel suo destino, la tragedia, ne esce dissolto. La legge divina e la legge umana, famiglia e stato, trapassano entrambe nella figura della "comunità universale dello Stato di diritto": "questo tramonto della sostanza etica e il suo passaggio in un'altra figura è dunque determinato dall'essere la coscienza etica diretta alla legge essenzialmente in modo immediato; in questa determinazione dell'immediatezza è implicito che la natura in generale entri nell'azione dell' eticità. La sua effettualità fa vedere soltanto la contraddizione e il germe del corrompimento, di cui sono affetti la bella armonia del consenso e il quieto equilibrio dello spirito etico proprio in questa stessa quiete e bellezza; l'immediatezza ha infatti il significato contraddittorio di essere l'inconsapevole tranquillità della natura e l'autocosciente, inquieta tranquillità dello spirito. - In virtù di siffatta naturalità, questa nazione etica è in generale un'individualità determinata per natura e quindi limitata, che trova perciò in un altro il suo superamento. Poiché tuttavia dilegua questa determinatezza, - che, posta nell'esserci, è limitazione, ma è anche il negativo in generale e il Sé dell'individualità, - è perduta la vita dello Spirito e quella sostanza che in tutto è cosciente di sé. Essa sorge in loro come un'universalità formale, non è più a loro intrinseca come spirito vitale, anzi la compattezza semplice della sua individualità si è frantumata in una pluralità di punti" 55 • La tragedia è per Hegel un "passato" poiché essa è essenzialmente un "passare". Lirripetibilità della tragedia antica è esattamente dovuta al fatto che essa segna l'abbandono della vita etica immediata e il passaggio alla nuova figura dello spirito dello "Stato di diritto". La tragedia, come la dialettica, presenta il doppio aspetto della dissoluzione d'ogni immediatezza e la tendenza alla ricomposizione, pur sempre provvisoria, in una nuova organizzazione spirituale. A dispetto di Hyppolite e di Kojéve, il tragico è, per Hegel, il movimento stesso dello spirito, se si tien conto che a partire dal saggio sulla Maniera di trattare scientificamente il diritto naturale, esso viene connesso al movimento di scissione-ricomposizione proprio dell'etica: "Tale è la tragedia, che nella vita etica l'assoluto rappresenta eternamente con se stes-

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lvi, pp. 35-36.

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so, perché esso eternamente nell'oggettività si rigenera, e quindi in questa sua figura si concede alla passione e alla morte e dalle sue ceneri si eleva alla grandezzà' 56 • Con ciò Hegel abbandonava il dualismo kant-fichtiano, centrato sul contrasto individuo-legge, e traduceva il concetto di 'destino' proprio della tradizione ebraico-cristiana in quello di immanente scindersi in se stessa della sfera etica. I..:idea 'schillerianà della tragedia, debitrice nella sua formulazione proprio della posizione 'kantianà nonostante il tentativo di superamento, mostrava allora per Hegel un doppio limite: da un lato quello di tradire, in quanto "brutto spettacolo di una collisione fra passione e dovere" o "fra dovere e dovere", la tragedia antica, e dall'altro quello di pretendere una riconciliazione tragica esattamente fra i termini di quella realtà che proprio la tragedia, dissolvendo "la bella vita etica", aveva inaugurato: il diritto e la pura moralità soggettiva. La loro apparizione è la testimonianza che la tragedia ha svolto la sua opera; per questa ragione la forma tragica non gli si addice più, come un abito smesso. Ma ciò che è pur decisivo è che la pretesa schilleriana di imbrigliare la realtà moderna nella forma determinata della tragedia antica impedisce la possibilità di salvare la forma tragica in quanto tale, liberata dai suoi contenuti storici. Essi sono infatti completamente mutati proprio riguardo alla sfera etica che, d'altronde, è il vero problema di Hegel perché su di essa poggia l'essenza del tragico; fra la famiglia-legge divina e lo Stato-legge umana si è insinuata ora la realta della società civile moderna. La domanda radicale di Hegel è se si può dare eticità, nel senso della Politeia aristotelica, là dove si è instaurato nella vita storica il dominio della 'differenzà. Poiché o lo Stato sopporterà e risolverà in sé questa 'differenzà o non si darà più eticità nel senso forte della parola. A risolvere questa contraddizione deve soccorrere il tragico: l'impossibilità di applicare alla realtà moderna la tragedia sofoclea dipende dal fatto che proprio in essa si testimonia il dissolvimento della immediata vita etica, ma nello stesso tempo la irripetibilità della tragedia sofoclea salva dall'oblio la forma tragica in quanto movimento di scis-

'\G G. F. W HEGEL, Sulle maniere di trattare scientificamente il diritto natuale, in Scritti di filosofia del diritto, a cura di A. Negri, Laterza, Bari 1971, p. 112.

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sione-ricomposizione. O, in altri termini ancora, proprio il venir meno dell'etico come immediatezza, attraverso il lavoro della tragedia, permette all'eticità, come ciò che, perdutosi nella differenza, ritorna a sé, di essere il sempre vivente. I..:essenza, dunque, del pensiero hegeliano sul tragico ci sembra essere questa: aver tolto, aufgehoben, la determinatezza storica della tragedia greca nella forma del divenire dello spirito 57 , allo stesso modo con cui la concreta Polis greca è tolta a forma 'ideale' dello Stato. Se alla luce della storia l'idea di Stato hegeliana si è rivelata, forse, come la sua 'utopià, sarebbe il più grave errore sbarazzarsene con un'alzata di spalle. Ma proprio questa interpretazione della tragedia tradisce, paradossalmente, l'essenza del tragico antico. Giacché ciò che esso poneva all'ordine del giorno della storia era proprio l'apertura del dissidio fra l'eroe e la cerchia etica a cui apparteneva. Nel suo essere parte in causa di un agone giuridico-storico, l'eroe metteva propriamente in questione il mandato del diritto sul cui terreno era cresciuto e di cui era l'esecutore materiale. Lungi dall'essere il precipitato individuale dell' universale essenza etica, egli è al contrario il luogo in cui l'opposizione si coagula e si dà a vedere. Mentre per Hegel la tragedia è ciò che dissolve l'immediata vita etica, essa invece è la messa in scena unitaria del conflitto che la precede. È solo perché la Polis è attraversata dalla differenza e dal contrasto fra forme giuridiche, universi culturali, realtà di classe, che la tragedia può divenire una istituzione statale che, nello spazio del teatro, mostra questi conflitti e richiama la città ai compiti che la storia le impone. Essa li traduce, nella sua forma più alta, in azione drammatica, attraverso la figura dell'eroe. Per questo, lo scarso rilievo dato da Hegel alla funzione drammatica dell'eroe è la luce rossa che fa da spia della sua incomprensione del tragico antico. Questa incomprensione ha la sua ragione d'essere. Ma va subito detto che il problema non è tanto di ordine filologico quanto storico-ermeneutico. Ciò che conta non è l'esatta corrispondenza fra l'interpretazione e l'evento storico appartenente al passato, ma il ruolo che l'interpretazione ha rispetto all'orizzonte di senso che è l'età presente, di cui He-

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Su questo punto cfr. P. SZONDI, Poetica dell'idealismo tedesco, cit., p. 4.

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gel viene a prendersi cura. I.:essenziale è, cioè, stabilire la funzione che questa interpretazione della tragedia antica possiede nei riguardi del mondo moderno che, nel suo essere privo di tradizioni, si era letto, ideologicamente, come ripristino di quello antico. Non rispetto alla realtà dell'antica Grecia, ma rispetto al mito della repubblica romana del pensiero illuminista prima, e di quello della Polis greca del movimento romantico dopo, va cercata la misura del discorso hegeliano. Contro quell'età che, incapace di accedere alla realtà del dominio della 'differenza', pretende immediatamente la sua risoluzione nell'identità astratta, va contrapposta la lucida consapevolezza che proprio l'immediato appartiene inesorabilmente al passato. Ciò vuol dire anche smascherare quel pensiero che scende a patti con la sfera del potere moderno e spaccia l'assenza di tradizione per continuità storica. La Polis greca è il mito dei moderni: questa, ci sembra, è l'affermazione sotterranea del discorso hegeliano sulla tragedia. Perché solo sbarazzandosi di questo mito e guardando in faccia la realtà dell'epoca presente, è possibile tentare la via della ricomposizione etica. Questa non può darsi, se prima non si è andati al fondo del dominio della ' . . sc1ss10ne. Le lezioni sul!' estetica radicalizzano, ci sembra, questa posizione di Hegel. Ciò non solo per le ragioni addotte da Szondi, secondo il quale la definizione del tragico, in base alla quale esso "non è più parte integrante dell'idea del divino, che nella coscienza religiosa si annulla, e l' autolacerazione della moralità, se pure inevitabile, è però determinata nella sua concezione dalle circostanze, e perciò accidentale per ciò che concerne il suo contenuto (... ) a differenza della prima (quella data nel saggio Sulla maniera di trattare scientificamente il diritto naturale), pare non già scaturire direttamente da un sistema filosofico, ma invece (conformemente alla sua collocazione in un' Estetica), pare voler completare tutta la gamma delle possibilità tragiche" 58 . Se è vero che il carattere, se si può dire, classificatorio di una Estetica comporta una descrizione di tutte le possibili forme tragiche, d' altronde lo stesso Szondi avverte che "Hegel ammette con estrema riluttanza questa ampiezza formale della sua definizione, e preferirebbe )

58

Ivi, p. 40.

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in fondo fermarsi su un'unica forma di collisione tragica. Il momento del caso, entrato di soppiatto nella sua definizione nasce come ora si può vedere, dalla tragicità del mondo moderno, i cui eroi si trovano al centro di una quantità di circostanze e di condizioni accidentali, entro le quali si potrebbe agire in quel modo oppure in modo diverso. Il loro comportamento è determinato dal loro carattere particolare, il quale non incarna necessariamente, come accadeva invece nell'antichità, un pathos morale. Hegel, che per questo motivo ammette la validità di una tragedia moderna solo con molte riserve, concede decisamente il suo favore, anche nell'ambito della tragedia antica, ad una sola delle collisioni possibili: quella che egli ritrova nell'Ifigenia in Aulide, nel1' Orestiade e nell'Elettra di Sofocle, ma anche, e al massimo grado, nel!' Antigone, da lui definita 'la più eccellente e appagante di tutte"' 59 • I..:istanza classificatoria è dunque sconfitta dal fatto che ciò che è primario è, per Hegel, impedire la confusione fra tragedia e dramma moderno, negare che si dia tragedia, in senso proprio, nel mondo moderno. La tragedia, ora, non è più letta come un passaggio, come nella Fenomenologia dello Spirito, ma deve risplendere, sola nella volta celeste, come la forma perfetta della riconciliazione. La stessa definizione a cui Szondi faceva riferimento, ricollocata nel contesto dell' Estetica ci sembra ribadirlo. Essa suona: "Quindi possiamo dire in generale che il tema vero e proprio della tragedia originaria sia il divino, ma non il divino che costituisce il contenuto della coscienza religiosa come tale, bensì il divino quale compare nel mondo, nell'agire individuale, senza rimetterci però in questa realtà il suo carattere sostanziale e senza vedersi mutato nel proprio opposto. Sotto questa forma la sostanza spirituale del volere e del realizzare è l'etico. Infatti l'etico, se noi lo concepiamo nella sua solidità immediata, e non solo dal punto di vista della riflessione soggettiva come ciò che è formalmente morale, è il divino nella sua realtà mondana, il sostanziale i cui lati sia particolari che essenziali offrono il contenuto che mette in movimento l'azione veramente umana ed i quali esplicano e rendono reale nell'agire questa loro essenzà' 60 •

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lvi, pp. 40-41. G. F. W. HEGEL, Estetica, cit., p. 1337.

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Ancora una volta Hegel torna sul fatto che oggetto della tragedia è l'eticità immediata, il "divino nella sua realtà mondanà', e li tiene distinti dalla coscienza religiosa e dalla "riflessione soggettiva come ciò che è formalmente morale". Letico è, quindi, l'unità immediata, e perciò sostanziale, di individuale e universale. Ma "tramite il principio della particolarizzazione a cui è sottoposto tutto ciò che si esteriorizza nella oggettività reale, le potenze etiche ed insieme i caratteri in azione sono ora differenti in rapporto al loro contenuto e alla loro apparenza individuale. Se queste forze particolari, quali sono richieste dalla poesia drammatica, sono chiamate ad una attività palese e si realizzano come fine determinato di un pathos umano che passa all'azione, il loro accordo viene eliminato ed essi avanzano gli uni contro gli altri in reciproca conchiusione. I.:agire individuale allora vuole portare ad effetto sotto determinate circostanze un fine o un carattere che, con questi presupposti, poiché unilateralmente si isola nella sua determinatezza per sé compiuta, necessariamente suscita contro di sé il pathos opposto e porta quindi a conflitti inevitabili. Il tragico originario consiste ora nel fatto che entro tale collisione entrambi i lati del1' opposizione, presi per sé, hanno una loro legittimità, mentre d'altra parte sono in grado di condurre a compimento il vero contenuto positivo del loro fine e del loro carattere solo come negazione e violazione dell'altra potenza egualmente legittima, cadendo quindi esse in colpa proprio nella loro eticità e tramite esse" 61 . Il principio della "particolarizzazione" scinde l'etico e lo fa entrare nell'opposizione. Il conflitto è fra le potenze etiche, esso è tutto interno ali' etico. Questo "come unità concreta è una totalità di rapporti e potenze differenti, che però solo in una condizione inattiva realizzano come dei beati l'opera dello spirito del godimento di una vita imperturbatà'62. Ma poiché l'inazione, in ciò che è vita concreta, è impossibile, l'etico si rivela conflittuale. Tuttavia, ciò che era prima unito non può che ritrovarsi, dopo e attraverso la separazione, di nuovo ricomposto. "Con ciò è posta però una contraddizione non mediata, che pur potendo passare a realtà, non può tuttavia conservarsi in essa

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lvi, p. 1338. Ibidem.

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come il sostanziale ed il vero reale, ma trova il suo diritto vero e proprio solo nel superarsi come contraddizione. Perciò in terzo luogo, la soluzione tragica di questo contrasto è altrettanto legittima quanto il fine e il carattere tragici, altrettanto necessario quanto la collisione tragica. Infatti per mezzo di essa la giustizia eterna si esercita sui fini e sugli individui in modo tale da restaurare la sostanza etica e l'unità mediante la distruzione della individualità che disturba la loro quiete. Infatti i caratteri, pur prefiggendosi quel che è in se stesso valido, possono tragicamente eseguirlo solo contradditoriamente con unilateralità arrecante violazione. Quel che è veramente sostanziale, e che deve pervenire a realtà, non è però la lotta delle particolarità, per quanto questa trovi la sua base essenziale nel concetto della realtà mondana e del1' agire umano, bensì è la conciliazione in cui senza violazione ed opposizione armonicamente si affermano i fini e gli individui determinati. Ciò che quindi nell'esito tragico viene superato è solo la particolarità unilaterale che non è stata in grado di adattarsi a questa armonia e che ora, nella tragicità del suo agire, se non riesce a staccarsi da se stessa e dal suo comportamento, si vede esposta a rovina in tutta la sua totalità o almeno costretta, se ne è capace, a rinunciare ad effettuare il proprio fine" 63 . Qui ormai ci sembra che lo sguardo di Hegel sia rivolto al dramma moderno dove predomina la particolarità soggettiva. Rispetto alla Fenomenologia, ora fra individualità e universale si è insinuata, non a caso, la realtà del particolare. È il particolare che produce la contraddizione, è il particolare che va tolto, perché, di nuovo, i fini e gli individui determinati si affermino armonicamente attraverso la conciliazione. Ancor più esplicitamente la descrizione della tragedia, non a caso scandita nei tre momenti della dialettica, abbandona il proprio contenuto storico, per librarsi, assoluta, come pura forma. Il tragico, come movimento dello spirito, conduce a conciliazione i disjecta membra dell'età presente dominata dalla particolarità. Esso brilla nel cielo offuscato della modernità.

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Ivi, pp. 1338-1339

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relogio della povertà Dichiarare l'etico come il "divino nella sua realtà mondana" che, perdutosi nella violenza della separazione, ritorna a sé, avendo vinto la particolarità, era il modo con cui Hegel riconosceva e superava l' assenza degli dei nel mondo moderno. A null'altro accenna nel pensiero di Hegel la presenza del nome di Dio: esso è l'involucro in cui è protetta e salvaguardata l'esigenza della conciliazione. Ma la durftiger Zeit vuole sapersi povera. Essa ha deciso di fare della povertà la sua arma più affilata. Perché quale povertà sarebbe quella che già da sempre è assicurata dalla ricchezza dell'origine? Holderlin è il punto di cesura in cui la Goethezeit si trasforma nella durftiger Zeit. D'ora in poi, ma in modi assolutamente diversi da quelli di Schiller, di Schlegel e dello stesso Hegel, 11 punto di abbrivio sarà rappresentato dalla radicale scissione fra natura e arte, aorgico ed organico, Grecia ed Esperia, da quel punto cioè nel quale l'origine come 'unità' avrà come proprio segno lo zero. "Infatti tutto ciò che è originario, scrive Holderlin, essendo ogni facoltà giustamente ed egualmente ripartita, non si manifesta certo nella sua forza originaria, ma propriamente nella sua debolezza, sicché la luce della vita e l'apparenza appartengono proprio alla debolezza di ogni totalità" 64 • Questo passo è parte di un frammento, risalente al periodo compreso fra il 1798 e il 1800 - il periodo della composizione dell' Empedocle - il cui oggetto è il significato della tragedia. Esso inizia cosl: "Il significato della tragedia può essere colto nel modo più semplice se partiamo dal paradosso", e dopo la parte già citata, prose-

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F. HOLDERLIN, Il significato delle tragedie, in Io.Scritti di estetica, tr. it. di R. Ruschi, SE, Milano 1987, p. 153.

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gue in questo modo: "Nel tragico, ora, il segno in se stesso è insignificante, senza effetto, mentre l'originario è direttamente messo allo scoperto. [originario può infatti apparire propriamente solo nella sua debolezza; nella misura in cui il segno in se stesso, essendo insignificante, viene posto = O, allora anche l'originario, il fondo occulto di ogni natura, può rappresentarsi. Se la natura si rappresenta propriamente nel suo manifestarsi più debole, il segno allora, quando essa si rappresenti nel suo darsi più impetuoso, è = 0" 65 • Come nota Szondi: "Nella tragedia questo segno è l' eroe" 66 • Nell'annullamento dell'eroe l'originario si manifesta. Qui il tempo di Iperione, del viaggio in Grecia alla ricerca dell'origine perduta, è definitivamente tramontato. La Grecia è spopolata quanto l'Esperia. In essa gli dei non albergano più. Ora deve venire alla luce una dialettica nuova fra Grecia ed Esperia, proprio ed estraneo. Nella famosa lettera a Bohlendorff, che è più tarda essendo stata scritta nel dicembre del 1801, Holderlin cosl articola questa dialettica di elemento nazionale ed elemento estraneo: "Attraverso il progresso della cultura l' elemento propriamente nazionale sarà un vantaggio sempre minore. Ecco perché i Greci sono meno maestri del pathos sacro, poiché gli era innato, mentre eccellevano a partire da Omero nel modo dell' esposizione, poiché quest'uomo straordinario aveva tanta anima da rapire a profitto del suo regno apollineo, la Sobrietà Giunonica dell' occidente, e appropriarsi cosi autenticamente dell'elemento estraneo. Per noi è l'inverso. Ecco perché è cosl pericoloso astrarre le regole dell' arte dalla sola ed unica perfezione greca. Mi ci sono arrovellato a lungo, e so ora che al di fuori di ciò che, per i Greci come per noi, deve essere il massimo, cioè la relazione vivente e l'abilità, noi non possiamo avere nulla di identico con essi. Ma ciò che è proprio, bisogna apprenderlo come ciò che è estraneo. È in questo che i Greci ci sono indispensabili. Tuttavia noi non li seguiremo in ciò che ci è proprio, nazionale, poiché, come dicemmo, la cosa più difficile è il libero uso di ciò che ci è proprio" 67 • Cosl il vero problema di Holderlin è il "li-

65 Ibidem.

Per la datazione del frammento cfr. P. SzoNDI, Poetica dell'idealismo tedesco, cit., p. 32. 66 P. SZONDI, Poetica dell'idealismo tedesco, cit., p. 32. 67 F. HOLDERLIN,Samtliche Werke und Briefe, Deutscher Klassiker Verlag,

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bero uso di ciò che è proprio", e l'elemento nazionale degli abitanti di Esperia è la "sobrietà". Essere liberi per ciò che è proprio segna il definitivo distacco dalla Grecia, non tanto da quella reale, ma ancora una volta dal mito romantico della Grecia. Se si eccelle sempre in ciò che con sforzo bisogna acquisire, ecco che i moderni eccellono in ciò che più gli manca, il 'sacro pathos'. Ma questo stesso eccellere in ciò che gli è estraneo comporta l'oblio di ciò che è proprio, in altri termini di ciò che specifica i moderni. Ma qui, a differenza di Schiller, il proprio non è, nonostante tutto, un di più. Alla fine dalle pagine schilleriane traspare la superiorità sull'ingenuo del sentimentale che, richiedendo la infinita riflessione della soggettività, si trasforma nell'ideale. La sobrietà di Holderlin rimanda al contrario alla povertà. Nella stessa lettera a Bohlendorff, accennando all'opera di quest'ultimo, Fernando oder die Kunstweihe (Fernando o la consacrazione all'arte), Holderlin scrive: "È stato il tuo buon genio, cosi mi sembra, a ispirarti di trattare il dramma in modo più epico. È nel suo complesso un'autentica tragedia moderna. Poiché il tragico è, per noi, che ci allontaniamo in gran silenzio dal regno dei viventi, impacchettati in qualche cassa, non che, divorati dalle fiamme, espiamo la fiamma che non siamo riusciti a domare" 68 • Quei moderni che credono di essere "divorati dalle fiamme" e di eccellere, dunque, nel sacro pathos, si ingannano. Tragica e vera è per noi la sobrietà con la quale ci allontaniamo "dal regno dei viventi". Occorre essere liberi per questa povertà. La dialettica proprio-estraneo non è soltanto costitutiva di una estetica, così come le osservazioni di Holderlin sulla differenza dei generi poetici, ma, come si è visto, rimanda ad una filosofia della storia. Stabilire quale sia il genere poetico adatto ai moderni e quale l' elemento proprio di cui debbano appropriarsi, significa contemporaneamente determinare il carattere dell'epoca nella sua verità, il suo posto nel movimento dell'apparire e ritrarsi degli dei. Quest'epoca è povera dei suoi dei: essa è un 'frà, sta sospesa tra

Frankfurt am main 1992, Band 3, p. 460. Una traduzione di parte delle lettere di Holderlin fra cui quella citata a Bohlendorff è ora disponibile a cura di Luca Crescenzi su "Micromega", 2/98, pp. 85-102. Sulla lettera a Bohlendorff vedi P. SZONDI, Poetica dell'idealismo tedesco, cit., pp. 137-159. 68 Ibidem.

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gli antichi dei che sono scomparsi e i nuovi che debbono ancora venire. Il compito di Holderlin è di vivere fino in fondo in questo 'frà. Nel saggio Sulla differenza dei generi poetici Holderlin scrive: "Il poema tragico, eroico nell'apparenza, è ideale nel suo significato. È la metafora di una intuizione intellettuale" 69 . Quest'ultima, aggiunge Holderlin, "non può essere altro che l'unitezza con tutto ciò che vive [e] non può certo essere sentita da un animo angusto, [ma] può solo essere presentita nelle più alte aspirazioni" 70 • Questo giustifica l'esterna apparenza eroica, ma nello stesso tempo il tono fondamentale ideale. Infatti l'avere a proprio oggetto l'epica non rende per questo la tragedia eroica. Conseguentemente, d'altro canto, per Hoderlin "il poema epico, ingenuo nell'apparenza, è eroico nel suo significato. È la metafora di grandi aspirazioni", mentre "il poema lirico, ideale nell' apparenza. è ingenuo nel suo significato. È la metafora perdurante di un sentimento" 71 • Questa struttura complessa dei generi poetici si traduce nel seguente prospetto: "Il poeta tragico fa bene a studiare il poeta lirico, quello lirico l'epico, l'epico il tragico. Poiché nel tragico sta il compimento dell'epico, nel lirico il compimento del tragico, nell' epico il compimento del lirico. Infatti, sebbene il compimento di ognuno sia un'espressione mista di tutti, solo uno dei tre generi è in ognuno di essi il più accentuato" 72 • Questo apparentemente caotico trapassare dei generi e lo strano intrecciarsi di tono fondamentale e carattere artistico, trova la sua ragione nella necessità di pervenire al significato autentico, per i moderni, della tragedia. Infatti "se nel tono fondamentale del poema tragico vi è più disposizione alla riflessione, un maggior sentimento del suo carattere più mediano, e viceversa una minore disposizione alla rappresentazione, meno elemento terreno, è allora opportuno che esso inizi col tono fondamentale ideale, giacché è naturale che un poema il

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F. HOLOERLIN,Sulla differenza dei generi poetici, in Io.Scritti di estetica, cit., p. 127. Su questo saggio si vedano le pagine decisive di P. SZONDI, Poetica dell'idealismo tedesco, cit., pp. 160-207. 70 Ivi, p, 128. 71 Ivi, p. 127. 72 F. HOLOERLIN, Mescolanza dei generi poetici, in Io.Scritti di estetica, cit., p. 125.

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cui signicato sia più profondo e il cui andamento, la cui tensione, il cui movimento siano più forti e più delicati, non si manifesti in tutta la sua più eloquente espressione con la stessa rapidità e facilità che se il significato e i motivi della manifestazione fossero più evidenti, più sensibili. Se l'intuizione intellettuale è più soggettiva, e la separazione procede eminentemente dalle parti intorno al centro, come nell'Antigone, lo stile è lirico; se invece procede dalle parti accessorie ed è più obiettiva, allora lo stile è epico; se infine procede da ciò che è divisibile, supremo, da Zeus, come nell'Edipo, allora lo stile è tragico" 73 . Poiché ogni genere è una esperienza mista di lirico, epico e tragico, la stessa forma tragica potrà essere scomposta in base al prevalere di uno dei tre. Da questa tassonomia del tragico deriva in ultima analisi che la forma tragica per eccellenza è, per Holderlin, quella che "procede da ciò che è divisibile, supremo, da Zeus". Tragedia in senso stretto è quella al cui centro vi sia la separazione assoluta. Ciò rimanda direttamente ali' Empedocle. "Cosi Empedocle è figlio del suo cielo, della sua epoca, della sua patria, figlio delle forti opposizioni fra natura ed arte con cui il mondo si presentò ai suoi occhi. È l'uomo in cui quegli antagonismi si conciliano così profondamente da divenire in lui unità" 74 • La definizione della poesia tragica come eroica nell'apparenza, ideale nel suo significato, metafora di un'intuizione intellettuale, trova nella descrizione della figura di Empedocle la sua giustificazione. A partire dalla separazione di natura ed arte, Empedocle è il luogo di un'unità ideale, metafora dell'intuizione intellettuale dell'unità di tutto ciò che vive. Tuttavia ciò non è sufficiente a rendere la complessità del discorso di Holderlin. Memori della soluzione hegeliana, potremmo essere tentati di tradurre immediatamente il rapporto separazione-unità nei termini propri della dialettica di Hegel: la separazione, la differenza, l'opposizione rappacificata dall'unità che la precede e sul fondamento della quale è possibile far leva per la nuova conciliazione. Nella prospettiva di Holderlin, al contrario, la separazione non ha sol-

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74

F. HOLDERLIN, Sulla differenza dei generi poetici, cit., pp. 130-131. F. HOLDERLIN, Fondamento dell'"Empedocle''. in Io.Scritti di estetica, cit.,

p. 87.

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tauto un carattere negativo, ma è solo nell'estrema separabilità che si offre la massima vicinanza. La prima affermazione di Holderlin che segue la definizione della tragedia già citata sembrerebbe affermare il contrario. Infatti l'intuizione intellettuale, come unità con tutto ciò che vive, "deriva dall'impossibilità di una scissione ed uno smembramento assoluti. La si esprime nel modo più semplice dicendo che la scissione reale - e con essa tutto ciò che è realmente materiale e caduco, - come l'unione-, e con essa tutto ciò che è realmente spirituale e permanente -, l'oggettivo in quanto tale e il soggettivo in quanto tale, sono soltanto una condizione di ciò che è originariamente unito, in cui quest'ultimo viene a trovarsi, essendo costretto a uscire da se stesso: l'immobilità, infatti, in esso non può aver luogo, giacché il modo dell'unificazione non può in esso rimanere sempre immutato, per quanto riguarda la materia, e le parti di ciò che è unito non possono rimanere nel medesimo rapporto, o più vicine o più lontane. E questo affinché tutto s'incontri con tutto, affinché ogni cosa abbia il suo pieno diritto, la sua piena misura di vita, affinché ogni parte nel procedere sia uguale al tutto per compiutezza e inversamente il tutto nel procedere sia uguale alle parti in determinatezza, affinché quello acquisti in contenuto e queste in interiorità, quello in vita e queste in vivacità, quello nel procedere senta maggiormente se stesso, queste nel procedere maggiormente si compiano. Infatti è una legge eterna che il tutto, ricco di contenuto, nella sua unitezza non senta se stesso con determinatezza e vivacità, né senta se stesso in quell'unità sensibile in cui le sue parti, che pur essendo un tutto, lo sono però in una connessione più blanda, sentono se stesse. Piuttosto si può dire che se la vivacità, la determinatezza e l'unità delle parti, con cui la totalità delle parti sente se stessa, superano i limiti a queste concessi, divenendo sofferenza, divenendo risolutezza e isolamento il più possibile assoluti, allora in queste parti il tutto sente se stesso in modo così vivo e determinato come quelle, nella loro totalità più limitata, sentono se stesse in una condizione di maggior quiete, ma anche di movimento" 75 • Ma non si tratta soltanto, crediamo, di una maggiore drammaticità, dovuta alla natura 'poeticà di Holderlin, ma di una diversa strut-

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F.

HOLOERLIN,

Sulla differenza dei generi poetici, cit., pp. 128-129.

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tura logica. In Holderlin non è in gioco il semplice differenziarsi dell'intero immediato, ma il fatto che l'intero si dia soltanto nell'illimitato separarsi, quando cioè il suo segno sia uguale a zero. Non è la ricchezza dell'origine, ma la sua debolezza, la sua povertà, che qui viene in primo piano. Prosegue, infatti, Holderlin: "Il modo in cui l'intero può essere sentito progredisce dunque nella stessa misura in cui progredisce la separazione tra le parti e il loro centro, dove le parti e l'intero sono sensibili al massimo grado. L:unitezza presente nell'intuizione intellettuale si fa sentire proprio nella misura in cui esce fuori da se stessa, nella misura in cui ha luogo la separazione delle sue parti le quali poi si separano o solo perché si sentono troppo unite, trovandosi nel tutto maggiormente vicine al punto centrale, o perché non si sentono abbastanza unite quanto a compiutezza, essendo parti accessorie e trovandosi eccessivamente lontane dal punto centrale, o infine si separano per vivacità, non essendo parti accessorie né parti essenziali nel senso suddetto, non, essendo ancora divenute, essendo parti divisibili. E qui, nell'eccesso di unitezza dello spirito e nella sua tendeza alla materialità, nella tendenza propria di ciò che è divisibile, più infinito, più aorgico - in cui tutto ciò che è più organico deve essere contenuto, poiché tutto ciò che esiste in modo più determinato e necessario esige un qualcosa di più indeterminato, di non necessariamente esistente - qui nella tendenza alla separazione propria di ciò che è divisibile e infinito, tendenza che nella condizione di massima unitezza di tutto ciò che è organico si comunica a tutte le parti ivi contenute - in questo necessario arbitrio di Zeus sta propriamente l'inizio ideale della reale separazione" 76 . La separazione non è un destino in cui l'unità sia costretta ad entrare, ma un arbitrio necessario. Il processo di separazione è qui il positivo, poiché l'intero è tale solo nella "tendenza alla separazione propria di ciò che è divisibile e infinito", le parti spingono alla loro separazione perché solo cosi l'intero si dà in tutta la sua vivezza, o in altri termini, l'intero non si perde, ma è nella assoluta separazione: là dove si sia giunti all'estrema violenza del conflitto, lì, mantenendosi in essa, l'intero vive. Ora, infatti, la separazione "procede fino al punto in

76

Ivi, pp. 129-130.

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cui le parti si trovano nella massima tensione e si contrappongono nel modo più acuto. Da questa opposizione essa retrocede di nuovo in se stessa, laddove le parti, almeno quelle originariamente più interne, si negano nella loro particolarità, si negano come queste parti, in questo luogo del tutto, e nasce una nuova unitezza. Il passaggio dalla prima alla seconda unitezza costituisce appunto la massima tensione dell' opposizione"77. Questa lunga ricostruzione della teoria holderliniana del tragico riceverà la sua chiarificazione dal saggio Fondamento dell'Empedocle, che più direttamente applica quei principi enunciati nello scritto Sulla differenza dei generi poetici al contenuto specifico, la storia di Empedocle, alla tragedia cioè che Holderlin andava scrivendo. Esso funge da mediazione fra l'estrema tensione concettuale della teoria e la pratica della scrittura drammatica. Ancora una volta il punto di partenza è la separazione: "Nella vita pura, natura ed arte si contrappongono solo in modo armonico; l'arte è il fiorire, il compiersi della natura; la natura diventa divina solo in unione con l'arte che, di genere diverso, è però armonica. Se ciascuna di loro è esattamente ciò che può essere e l'una si unisce all'altra, compensando la mancanza di questa, mancanza che essa deve necessariamente avere per essere esattamente ciò che può essere nella sua particolarità, allora si ha il compimento e il divino sta in mezzo ad entrambe. I..:uomo più organico, più artefice, è il fiore della natura; la natura più aorgica, una volta puramente percepita dall'uomo puramente organizzato, puramente formato nel suo genere, conferisce a questi il sentimento del compimento"78. I..:uomo organico, il fiore della natura, è l'uomo che vive questa vita pura e genuina, ma ciò non basterebbe a promuovere la poesia tragica: il suo tono fondamentale deve essere, come sappiamo, ideale. O, in altri termini, questa vita dell'uomo organico non trova il suo

77 lvi, p. 130. Questa dialettica, che potremmo chiamare una "dialettica degli estremi", è anche il tema di un saggio coevo di Holderlin, Il divenire nel trapassare. tr. it. in F. HOLDERLIN, Scritti di estetica, cit., soprattutto pp. 95-99. Sul rapporto Hegel-Holderlin si vedano G. LACORTE, Il primo Hegel, Sansoni, Firenze 1959 e J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegei tr. it. di F. Occhetto, Istituto Librario Internazionale, Milano 1972, soprattutto pp. 91-151. 78 F. HOLDERLIN, Fondamento dell"'Empedode'; cit., pp. 85-86.

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compimento nella natura aorgica, essa "esiste solo nel sentimento e non per la conoscenzà' 79 . Per diventare conoscibile essa "deve rappresentarsi in modo tale da separarsi nell'eccesso di interiorità, dove gli opposti si scambiano, e l'elemento organico, che si era eccessivamente abbandonato alla natura, dimenticando la sua essenza, la sua coscienza, si trasferisce nell'estremo dell'attività autonoma, nell'arte e nella riflessione, mentre la natura, almeno nei suoi effetti sull'uomo riflettente, si trasferisce nell'estremo dell' aorgico, in ciò che è incomprensibile, non percepibile illimitato" 80 . Ma questo violento tornare di ogni estremo a se stesso si trasforma nel suo contrario. Infatti "per il susseguirsi di interazioni contrapposte entrambi, originariamente uniti, s'incontrano come in origine con la differenza però che la natura è divenuta più organica per mano dell'uomo, che le confesrisce forma e cultura, e in genere per via delle forze e degli impulsi di formazione, mentre l'uomo è diventato più aorgico, più universale, più infinito. Questo è forse uno dei sentimenti più alti che sia dato provare quando i due opposti si incontrano: da una parte l'uomo universalizzato, spiritualmente vivo, reso puramente aorgico in modo artificiale e dal1' altra la natura ben formata. Questo è forse uno dei sentimenti più sublimi che l'uomo possa esperire, perché l'armonia attuale gli ricorda il precedente rapporto, puro e inverso, ed egli sente se stesso e la natura duplicemente, e la loro unione è più infinità' 81 • Luomo che vive questo sentimento più alto e in cui vive la nuova armonia, è il poeta, è Empedocle. Lo scambio che ha dato origine a questa nuova armonia, la natura più organica e l'uomo più aorgico, è stato reso possibile dalla separazione iniziale degli estremi, dal loro ritornare su se stessi. Qui, nella figura del poeta, il processo potrebbe trovare la sua fine. Ma l'eroe è il segno zero. In lui l'origine si manifesta nella sua luce più debole. "Nel mezzo, infatti, sta la morte dell'individuo, quel momento in cui l'organico depone la sua individualità, la sua esistenza particolare, che era diventato un estremo, e l' aorgico depone la sua universalità non come all'inizio, in una confusione ideale, ma nella realtà

79

80 81

Ibidem. lvi, p. 86. Ibidem.

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di una lotta suprema, in quanto il particolare deve attivamente generalizzarsi sempre più nel suo estremo, contrapponendosi all'estremo aorgico, e staccarsi sempre di più dal suo punto centrale, mentre l' aorgico deve concentrarsi sempre di più, contrapponendosi all'estremo particolare, acquisire sempre di più un punto centrale e divenire il più particolare; in quel momento allora l'organico divenuto aorgico sembra ritrovare se stesso e ritornare a se stesso, mentre si attiene all'individualità dell'aorgico, e l'oggetto, l'aorgico, sembra a sua volta ritrovare se stesso, mentre nello stesso momento in cui assume individualità trova anche l'organico all'estremo supremo dell'aorgico, e così in questo momento, IN

QUESTA NASCITA DELL'ESTREMA OSTILITÀ SEMBRA REALIZZARSI LA RICONCILIAZIONE SUPREMA. Tuttavia l'individualità di questo momento non è che un prodotto del supremo conflitto, la sua universalità non è che un prodotto del supremo conflitto( ... ). Sicché il momento di conciliazione svanisce sempre più come una falsa immagine e, reagendo in modo aorgico nei confronti dell'organico, sempre più se ne allontana. Ma in questo modo e in virtù della sua morte tale momento concilia e unifica, meglio di quanto facesse in vita, quegli estremi in lotta, da cui si era originato, dal momento che l'unificazione non appare più in qualcosa di individuale e quindi non è troppo interiore, e l'elemento divino non appare più sotto forma sensibile e la felice illusione dell'unificazione svanisce nella misura in cui era un qualcosa di troppo interiore ed unico; sicché dei due estremi l'uno, l'organico, arretrando impaurito di fronte al momento fuggente, viene elevato ad una universalità più pura, mentre l' aorgico, trapassando in esso, deve diventare per l'organico un oggetto di più serena contemplazione, e l'interiorità del momento trascorso appare ora in modo più universale, più contenuto, più distintivo, più chiaro"82. Giunti a questo punto si potrebbe riassumere la teoria holderliniana del tragico nel modo seguente: il punto di partenza è dato dalla separazione e lo scarto fra natura ed arte, Grecia ed Esperia, aorgico ed organico, oggettivo e soggettivo, è il dato non esorcizzabile del tragico e dell'epoca. Qui Holderlin introduce il primo décalage rispet-

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Ivi, pp. 86-87.

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to al discorso sulla scissione della Goethezeit. l'intero non vive prima di questa scissione come stabile fondamento, ma in e di questa scissione, mentre, d'altro canto, le parti non sono semplicemente parti dell'intero scisso, ma ciascuna è l'intero ed è vicina al centro. La conseguenza di ciò è, allora, che le parti, invece di spingere alla loro immediata riunificazione, spingono al contrario alla radicalizzazione del loro conflitto e, nel punto estremo dell'opposizione trapassano l'una nel!' altra. Ciò su cui vorremmo insistere è che questa conciliazione non va intesa nel senso di una semplice sommazione. Ciascuna delle parti, infatti, anche dopo il capovolgimento, è sempre tutto l'intero. Il risultato di questa prima fase del processo è il poeta, Empedocle: "Così Empedocle, come abbiamo detto, è figlio della sua epoca e il suo carattere ci rinvia ad essa, così come egli da essa proviene. Il suo destino si rappresenta in lui come conciliazione momentanea, che tuttavia è costretta a dissolversi per accrescersi. Tutto in Empedocle sembra testimoniare che era nato per esser poeta. Egli sembra possedere già nella sua più attiva natura soggettiva quella rara inclinazione all'universalità che in altre circostanze, o qualora si comprenda e si eviti la sua eccessiva influenza, diventa quella serena contemplazione, quella completezza e assoluta determinatezza della coscienza con cui il poeta guarda alla totalità; analogamente nella sua natura oggettiva, nella sua passività, sembra essere presente quel felice dono che, sia pur nell'assenza di un intenzionale e consapevole ordinare, pensare e plasmare, ugualmente tende ali' ordine, al pensiero e alla creazione, quella plasmabilità dei sensi e del!' animo che con rapidità e agilità assume vivamente tutto questo nella sua totalità e spinge l'attività artistica più verso la parola che verso l' azione" 83 • In base, come si vede, al concetto schellinghiano dell'arte, o, se si vuole, a quello di genio kantiano, e più in generale ali' atmosfera Sturm und Drang, il poeta è il luogo dell' assoluto. Da un lato il suo elemento organico, la coscienza, tende all'infinito, all'aorgico, e dall'altro il suo elemento aorgico tende alla plasticità, ali' organico. Il poeta è il divenire nel trapassare degli estremi. Ma qui Holderlin opera il secondo décalage: giacché ora, contro Schelling, il poeta si rivela come 'immagine falsà della conciliazione e

83

Ivi, pp. 88-89.

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il divino, che è immediatamente tutt'uno con lui, si dà però sensibilmente, dunque ancora in un estremo soltanto. Per questo egli deve morire. Ciò rimanda di nuovo alla realtà dell'epoca. Quest'ultima, infatti, dominata dalla separazione, non richiede né il canto, né un' azione, ma propriamente una vittima. Proprio perché nel poeta, in Empedocle, gli estremi si sono troppo intimamente conciliati, per questo deve morire. Egli come conciliatore è venuto troppo presto. 'Tindividuo perisce e deve perire in un'azione ideale perché in lui si è prematuramente mostrata l'unificazione sensibile, sorta dalla necessità e dal dissidio, ed essa ha risolto il problema del destino, che a sua volta però non può mai risolversi in modo visibile e individuale, perché altrimenti l'universale si perderebbe nell'individuo e la vita di un mondo svanirebbe in una singolarità (... ) Cosl dunque Empedocle doveva diventare una vittima del suo tempo. I problemi del destino in mezzo ai quali era cresciuto dovevano trovare in lui una soluzione apparente, e questa risoluzione doveva rivelarsi apparente e temporanea, come più o meno avviene in tutti i personaggi tragicl' 84 . Tuttavia, anche se Empedocle deve necessariamente morire perché rischia di tradurre la conciliazione di nuovo in un 'positivo', in una individualità e dunque tradirla, resta vero che egli è, come conciliazione, il risultato dell'estrema inimicizia e della suprema ostilità. Questo è il punto di volta dell'edificio tragico di Holderlin. Si comprenderà, forse, meglio ancora, il carattere di vittima attribuito all' eroe tragico, in quanto soluzione illusoria e temporanea e tuttavia necessaria, se gli si contrapporrà il suo antagonista. Questi incarna il 'politico', come già era accaduto per Antonio, l'antagonista del Torquato Tasso di Goethe. Il lucido riconoscimento di questa figura, a cui Holderlin non attribuisce alcun tratto demoniaco, testimonia della profondità della comprensione che egli aveva del proprio tempo: "Lavversario, per doti naturali nobile quanto Empedocle, cerca di risolvere i problemi del-

84 /vi,

pp. 89-90. Sul rapporto fra Hi.ilderlin e la rivoluzione francese vedi R. BooEI Politica e tragedia in Hb'lderlin, in "Rivista di esteticà', XIV, 1969, pp. 382-412, ma più recentemente e, ci sembra, con significative modifiche nell'interpretazione, Holderlin: la filosofia e il tragico, in F. HOLDERLIN, Sul tragico, Feltrinelli, Milano 1989 (prima edizione: 1980).

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l'epoca in modo diverso, più negativo. Nato per essere un eroe, egli non tende a unificare gli estremi quanto piuttosto a dominarli, ancorando la loro azione reciproca a un qualcosa di permanente, di solido, di intermedio, che li mantenga entro i propri limiti, appropriandosene. I.:intelletto è la sua virtù, la necessità la sua dea. È l'incarnazione stessa del destino, con l'unica differenza che in lui le forze antagoniste sono saldamente ancorate a una coscienza, in un punto discriminante, che le mantiene l'una di fronte all'altra in modo chiaro e sicuro, le fissa in una idealità (negativa) e imprime loro una direzione" 85 • Fra Empedocle e Ermocrate, suo avversario e antagonista, non vi è differenza, come si vede, né morale né di significato. Entrambi sono il destino, ma mentre il primo lo realizza conciliando gli estremi e fallendo in questa conciliazione che si rivela apparente, il secondo, invece, lo compie mantenendo gli estremi divisi. Più significativo del fatto che Ermocrate gestisca semplicemente il conflitto, è che egli per Holderlin si mantenga come punto discriminante fra gli estremi. Se è vero che si dà conciliazione soltanto nell'estrema inimicizia e ostilità, sembra essere Ermocrate il luogo più prossimo di questa possibile conciliazione, là dove Empedocle che la incarna si scopre al contrario come transitorio e illusorio e, dunque, come vittima. Che soltanto la morte di Empedocle possa far manifestare il tutto vivente, sembra allora contraddire le premesse stesse da cui il discorso era partito. Giacché, infatti, se l'eroe deve morire, ciò significa che la conciliazione avviene al di là dell'epoca di cui egli incarnava il destino; da questo punto di vista la povertà torna ad essere il mero negativo, ciò che semplicemente deve essere superato. Lepoca si limiterebbe a rassegnarsi a se stessa e a rimandare ad altro la sua risoluzione. Il tragico holderliniano ricadrebbe nella forma, già schilleriana, della tragedia del destino e l'eroe, inevitabilmente sconfitto dalle forze avverse, assumerebbe di nuovo le fattezze del capro espiatorio. Questa contraddizione che si è incuneata nel discorso di Holderlin ci sembra costituire la ragione profonda del fatto che Empedocle non raggiunga mai la sua definitiva stesura. Infatti, se di fronte ad Ermocrate, Empedocle incarna la conciliazione e deve morire per non scendere a patti col suo antagonista,

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lvi, pp. 93-94.

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Ermocrate vince proprio perché mantiene gli estremi nell'inimicizia là dove Empedocle trapassa nella sterile utopia. Egli annuncia con la propria morte il futuro, ma lascia il reale irriconciliato e nel dominio di Ermocrate. Il problema di Holderlin non è ora quello di abbandonare le premesse di questo discorso sul tragico, ma di condurlo fino in fondo con conseguenzialità radicale. Come nota Szondi "le Anmerkungen zum Odipus, scritte da Holderlin nel 1803, seguono insieme con quelle sull'Antigone gli inni della maturità, così come i saggi di Homburg accompagnano la composizione dell' Empedokles. La definizione della tragedia che in essa è contenuta ha i più stretti punti di contatto con quella espressa precedentemente, ma la vicinanza degli inni le conferisce un significato nuovo. Segno esteriore di questo mutamento è già la circostanza che l'interesse di Holderlin per la tragedia non è più legato soltanto alla sua propria produzione tragica, ma alla traduzione delle due tragedie di Sofocle" 86 • Come Goethe aveva realizzato la tragedia moderna attraverso la forma-romanzo, così Holderlin perviene al tragico moderno abbandonando il progetto dell' Empedocle, e realizzandolo nelle forme della traduzione, del commento e dell'inno. Abbiamo visto, infatti, come la forma della tragedia classica, nel senso del classicismo schilleriano, debba scoppiare di fronte all'immissione dei tratti propri del mondo moderno: questa è l'esperienza holderliniana dell' Empedocle. La continuità fra il Fondamento dell'"Empedocle" e le note all'Edipo e all'Antigone è data dal fatto che in tutti e tre gli scritti l'eroe è il luogo della conciliazione, l'incarnazione dell'unità immediata: "La rappresentazione tragica( ... ) riposa sul fatto che il Dio immediato è tutt'uno con l'uomo (. .. ), che l'infinito entusiasmo, scindendosi in modo sacro, comprende se stesso in modo infinito, cioè per opposizioni, nella coscienza che nega la coscienza, e il dio è presente nella figura della morte" 87 . Ma a differenza dell' Empedocle ciò non significa che l'eroe debba come tale annullarsi per dare adito alla vera, futura, conciliazione. Che la conciliazione si dia nell'estrema inimicizia, questo va ora com-

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P.

87

F.

SZONDI, Poetica dell'idealismo tedesco, cit., p. 34. HOLDERLIN, Note all'Antigone, in Io., Scritti di estetica,

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cit., p. 148.

preso fino in fondo: "La rappresentazione del tragico si fonda principalmente sul fatto che l'elemento portentoso, il modo cioè in cui Dio e uomo si accoppiano e il potere naturale e l'intimo più profondo dell'uomo diventano illimitatamente uno nella collera, si comprende in virtù del fatto che il divenire uno illimitatamente si purifica in una separazione illimitatà' 88 . Da un lato l'intero processo si è unificato, abolendo le scansioni temporali che prima lo separavano: l'illimitato divenir uno degli estremi nell'eroe si purifica immediatamente trapassando nell'altrettanto illimitato scindersi. Non è più per l'eroe questione di dover morire per dare adito alla possibilità della vera conciliazione; anzi al contrario è il dio che è presente nella 'figura della morte'. Il tempo fra la morte dell'eroe e l'avvento utopico della conciliazione è, dunque, abolito. Perché non vi sia più iato nel tempo per quel mondo abbandonato "tra la peste e il deviamento dei sensi e uno spirito di divinazione ovunque divampante", occorre che "il Dio e l'uomo, affinché il corso del mondo non abbia lacune e la memoria dei celesti non si esaurisca, si comunichino nella forma dell'infedeltà che tutto dimentica, - e l'infedeltà divina la si debba considerare nel modo migliore. In questo momento l'uomo dimentica se stesso e il dio e si ribella a se stesso, seppure in modo sacro, come un traditore" 89 . I..:assoluta infedeltà divina, quella suprema divisibilità che procede da Zeus, e che già ai tempi dell' Empedocle caratterizzava la forma tragica, è qui ritrovata senza più schermi. Nell'estrema povertà bisogna serbare il ricordo degli dei; questo ricordo è quello della loro infedeltà, nella forma dell'infedeltà essi sono vicini, vivi nella forma della morte. Perciò ora la morte cambia di statuto. Essa non è più il passaggio, la via, per ritornare al tutto vivente: Empedocle che si getta nell'Etna per ricongiungersi con la 'naturà. Al contrario l'eroe può anche non morire di una morte fisica, perché egli ora muore in un altro senso: muore a se stesso per essere stato tutt'uno col dio. La parola tragica è portatrice di morte, ma non nel senso che uccide, come dice Holderlin, un corpo vero e proprio, ma in quello che essa porta in sé l'abbagliante presenza del dio nell'epoca impreparata ad accoglierla.

88 89

F. HOLDERLIN, Note all'Edipo, in Io., Scritti di estetica, cit., p. 144. Ibidem.

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Per questo Edipo si acceca, perché aveva un 'occhio di troppo'. Alla morte come nostalgia si è sostituita la morte come fedele presenza divina nell'infedeltà stessa. "Questa dialettica di fedeltà e infedeltà, di serbar memoria e dimenticare, è la base tematica della tarda produzione holderliana. In essa viene definito e assolto insieme il compito del poeta in un'epoca alla quale gli dei possono essere vicini soltanto con la loro lontananza. Holderlin è deciso a restare ben saldo nella notte senza dei, che è malgrado tutto un presente ed è il solo che non annienti l'uomo, e a preparare il futuro ritorno degli dei" 90 . Szondi interpreta con estrema chiarezza il senso del tragico nell'Holderlin delle Note all'Edipo. Tuttavia, se è vero che "il futuro chiliastico in cui gli dei saranno vicini irrompe prematuramente nel presente, che è impreparato ad accoglierlo", in modo che la "scintilla scocca e nell'incendio da essa scatenato, la notte si muta in fiammeggiante giorno" 91 , tutto ciò non può e non deve essere interpretato come utopia. Utopica è la soluzione dell' Empedocle, e per questo esso risulta impossibile. Utopico è il semplice annunciare il futuro, lasciando il presente a se stesso, ma tragico è, invece, far irrompere il futuro nel presente. Sapere cioè che la notte, l'assenza e l'infedeltà, sono le sole forme possibili nell' epoca della povertà del giorno, della presenza e della fedeltà. Colui il quale anticipa il futuro e per il quale la notte nella sua profondità cessa di essere un puro ammasso opaco di tenebre, ma, trasparente, si rivela come "il giorno fiammeggiante", muore. In Holderlin la morte ha assunto la forma della follia. La conciliazione come estrema inimicizia è così salvaguardata fino in fondo: conciliazione e tradimento, fedeltà e infedeltà, ricordo e oblio, per questa paradossale dialettica degli estremi, sono tutt'uno; e ciò non nella forma dell'immediatezza Empedocle fallisce perché è ancora letto come un immediato -, ma in quella del prender misura. Perché prender la misura della distanza che ogni volta separa l'uomo e il dio è nello stesso tempo porli in relazione; far incontrare gli estremi nel loro centro, mentre essi si manten-

90 P. SzoNDI, Poetica dell'idealismo tedesco, cit., p. 34. Sulla figura del "poetà' in Holderlin e sulle sue trasformazioni vedi W. BENJAMIN, Due poesie di Friedrich Holderlin, tr. it. di A. M. Solmi in Io. Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918 (a cura di G. Agamben), Einaudi, Torino 1982, pp. 111-136. 91 lvi, p. 35.

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gono separati, è il tragico di Holderlin: la fedeltà nell'infedeltà, la memoria nell'oblio, la conciliazione nel fallimento, uniti e disgiunti, conciliati e nemici, nel medium della poesia. La concezione del tragico, quale scaturisce dalle Note all'Edipo, è ciò che informa tutta l'ultima produzione poetica di Holderlin. L'elegia Brot und Wein è il luogo originario e programmatico di questa poesia del Ruckkehr in die Heimat, nella patria segnata dalla povertà. Ciò in due sensi: perché in essa viene mostrata in modo irripetibile la dialettica del mostrarsi e ritrarsi degli dei, e perché qui viene espresso nella forma di una domanda quel nuovo senso del canto poetico come tragedia: Wozu Dichter in Durftiger Zeit. Ma il tempo della povertà è sì il tempo nel quale giungiamo tardi, ma è anche quello nel quale gli dei, risparmiandoci della loro presenza, ci proteggono. È vero che "tardi, amico, giungiamo. Vivono certo gli dei, / ma sopra il nostro capo, in un diverso mondo. I Operano senza fine e poco sembra si curino / se noi viviamo", ma è anche vero che solo "cosi i celesti ci risparmiano" 92 . Risparmiare è infatti un modo del prendersi cura e il prendersi cura riluce nel lascito divino: Brot und Wein, pane e vino. L'ultimo dio, l'ultimo della triade, il Cristo, ha lasciato questo dono prima di ritirarsi dal mondo. Pane e vino sono le tracce luminose che guidano il viandante nella notte del mondo. Coloro che si pongono sulla via di queste tracce sono il "Frucht von Hesperien", gli abitanti del tempo della povertà, che hanno fatto della povertà la loro ultima ricchezza. In questo modo la tarda poesia di Holderlin realizza quel programma testimoniato dalla lettera a Bohlendorff del 1801: appropriarsi della sobrietà come del carattere specifico degli Esperidi, poi-

92 F. HOLDERLIN, Brot und wein, tr. it. di E. Mandruzzato, in Le liriche, Milano 1977, p. 119. Sul tema dell'infedeltà divina vedi M. BLANCHOT, Lo spazio letterario, tr. it. di G. Zanobetti, Torino 1967, pp. 236-243. Sul tema del 'linguaggio' poetico cfr. M. HEIDEGGER, La poesia di Holderlin, tr. it. di L. Amoruso, Adelphi, Milano 1988, ma in direzione diversa l'analisi esemplare delle poesie della 'follià di R. JAKOBSON, Holderlin. L'arte della parola, tr. it. di O. Meo, Il Melangolo, Genova 1979. Su Holderlin si vedano ancora, T. W. ADORNO, Paratassi, in Note per la letteratura, cit., pp. 127-172 e R. RAcINARO, La colpa dell'innocenza. Holderlin e il destino tragico, in "il Centauro", n° 7, 1983, pp.

50-85.

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ché, là dove gli dei sono assenti, non è possibile altro pathos che quello della loro lontananza; ma nello stesso tempo in cui si tiene ferma la notte, è possibile sapere che misurare questa lontananza è gettare un ponte e salvaguardare nella forma adeguata alla realtà del tempo il colloquio fra uomini e dei. Ma se il canto poetico è questo spazio in cui ancora può aver luogo il colloquio fra uomini e dei, ciò decide anche del destino del poeta. Abbiamo già visto come vi sia in Holderlin un mutamento dello statuto della morte. La morte del poeta perde il carattere del sacrificio necessario affinché la totalità torni a manifestarsi, per assumere invece le sembianze della metamorfosi divina. In una lettera ancora indirizzata all'amico Bohlendorff, ma dopo il ritorno dal suo ultimo viaggio in Francia, Holderlin può perciò scrivere: "L'elemento potente, il fuoco del cielo, e il silenzio degli uomini, la loro vita nella natura, e la loro limitatezza e soddisfazione, mi hanno commosso costantemente, e come lo si ripete degli eroi, posso ben dire che Apollo mi ha colpito" 93 . Come Edipo ha dovuto accecarsi e precipitare nelle tenebre per aver visto fino in fondo quella suprema divisibilità che procede da Zeus - ma, per questo, morto ormai al mondo, scomparirà, accolto dagli dei, nel bosco sacro di Atene -, così Holderlin per essersi inoltrato troppo nella regione dell'infedeltà divina ha dovuto pagare con la follia. Ma proprio dalla follia di Holderlin proviene la testimonianza più alta sul tragico moderno. Interpretare tale follia come una sconfitta significherebbe tradirla. Essa, infatti, costituisce il punto di cesura che segna l'avvenuto attraversamento del tempo della povertà e l'entrata in un tempo diverso. Questo tempo non può non essere che indeterminato, poiché è il tempo dell'origine; così come questa poesia, cosiddetta della follia, non canta più del tempo della povertà, ma di ciò che da sempre e per sempre costituisce il terreno del1' esistenza umana. In Holderlin, la danza delle stagioni e il ritmo delle età. Né deve meravigliare la scomparsa del nome proprio: colui che è passato attraverso la notte deve abbandonare il nome che gli apparteneva nel tempo povero, per acquistare quello che gli deriva dal ritrovamento di ciò che è proprio. Questa parola ultima di Holderlin è

93

F. HOLDERLIN, Samtliche Werke und Briefe, cit., p. 466.

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quella che proviene non dalla necessità del dire come mera comunicazione di ciò che è estraneo, ma dal silenzio di ciò che è proprio del1' uomo. Questo silenzio non è dunque la caduta del linguaggio, ma il suo nucleo più profondo, il luogo di massima intensificazione della parola. Esso è ciò che bisogna imparare ad abitare. È Benjamin a ricordarci che vera e tragica sarà quella parola che perverrà al suo centro, il silenzio: ciò presuppone però sempre che, contemporaneamente, si tenga fermo all'esser la parola, nel mondo moderno, segno allegorico e scrittura - in Holderlin 'estrema inimicizia fra uomo e dio' e che non si conceda al silenzio né la valenza del tacere nichilistico, né quella dell'estatico incontro con la totalità. Entrambi, Holderlin e Benjamin, hanno evitato questo duplice errore94 . Silenzio e follia sono soltanto le parole difettose con cui il tempo della povertà tenta di dire ciò che è posto sotto il dominio della dimenticanza e che una memoria troppo ricca nasconde. Holderlin anticipando il futuro nel presente e ritrovando in questo stesso movimento il passato più autentico, ha per primo abitato questa regione che porta i nomi che la nostra povertà è riuscita a trovare per essa. Dal tempo che avvolge tutti i tempi, giunge al nostro ascolto la sua parola di ringraziamento per il dono che gli dei, avendo egli risposto alla loro infedeltà, gli hanno concesso in cambio: è per interna necessità del canto che Holderlin, nella chiusura di ogni poesia, avverte il bisogno di ringraziare; è parte integrante del canto che egli lo chiuda ogni volta, scrivendo: "Con umiltà, Scardanelli".

94

Sul tema del silenzio in Benjamin e sul rapporto di quest'ultimo con Holderlin rinvio rispettivamente ai miei La lingua muta e La cesura del tempo ora entrambi in B. MoRONCINI, La lingua muta e altri saggi benjaminiani, cit., pp. 11-34 e 241-250.

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La volontà senza decisione

Quando si decide di non lottare più e si scambia la virilità con la rassegnazione, allora il demonico, divenendo principio, si risolve interamente in mito e il tragico viene meno. Esso allora prende le fattezze del 'pessimismo', questa pura arrendevolezza di fronte al destino che, a sua volta, destoricizzato, si volatilizza e si nasconde sotto lo schermo della volontà. Lerrore di Schopenhauer non consiste soltanto nell'aver elevato il primato della ragion pura pratica, come volontà, a ciò che, come ragion d'essere universale, sta in agguato sotto il velo di Maia, previa sua riduzione a 'volontà di vivere' - ciò appartiene alle vicissitudini del kantismo -, ma soprattutto nell'aver con ciò assecondato l'epoca nella sua pretesa di assurgere a destino. Tuttavia non è stato certo Schopenhauer ad aver trasformato la tragedia in 'tragedia del destino': essa è la forma propria del teatro romantico. Ma per quest'ultimo, almeno nei suoi momenti più alti, il destino era ciò che doveva essere combattuto dalla volontà dell'eroe, sebbene il fatto che questi pervenisse alla decisione fosse esattamente ciò che di problematico il tragico moderno presentava rispetto alla forma classica della tragedia. Ciò contro cui i classici tedeschi, da Schiller ad Holderlin, avevano preso le armi, era la possibile convinzione che dal tempo della povertà conseguisse meccanicamente la povertà della decisione; in nessun momento essi avevano ceduto alla tentazione di ritenere che la volontà appartenesse al destino: per quanto problematica, essa risiedeva di diritto nell'eroe. Schopenhauer inverte la relazione: l'eroe è spossessato definitivamente della possibilità della decisione, e la volontà passa nel campo avverso del destino. Con ciò egli ritorna all'essenza del Trauerspiel barocco. Ma, nello stesso tempo, aver designato come volontà il fondamento del mondo ridotto a

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rappresentazione costituisce il tratto di verità del pensiero di Schopenhauer. Esso è infatti il luogo teorico che testimonia dell'avvenuto dominio della forma vuota della rappresentazione, che non poggia più sull'esatta visione dell'idea, ma sul cieco conato della volontà. Che di fronte a questa l'unica risposta sia l'oscillare fra la compassione e l' ascesi, è la spia che l' Entsagung goethiana ha lasciato di sé un'immagine stravolta. Perché ciò che in Goethe era abbandono dell'illusione, che permetteva la decisione, qui è rinuncia alla decisione, che abbandona al dominio del mito. Ciò che l'ascesi, come progressivo spogliarsi della costrizione della volontà - contraddizione paradossale per ciò che attineva alla libertà della ragione -, trova al suo culmine è esattamente: 'nullà; ma questo nulla è popolato proprio da ciò da cui la non-volontà aveva tentato di liberarsi. Ascesi è rassegnazione perché essa, invece di istituirsi come volontà e strappare la maschera al mito, concede all'avversario il diritto al travestimento e si spossessa della possibilità di scardinarlo. E, d'altra parte, cosa assicura che la non-volontà non sia un'astuzia della volontà per affermare il suo dominio? Perché alla fine proprio l'individuo, in quanto concrezione della volontà, non può sfuggirle, anche là dove, come una diga, tenti di prosciugarla. Vi soccombe proprio perché tenta la fuga. Egli è in realtà rappacificato e appaesato con quel mondo che gli si era presentato, al suo primo apparire, come il radicalmente estraneo. Invece di far sua questa alterità e trasformarla in sua proprietà attraverso la decisione, il tentativo di sfuggirle lo condanna a farsene una patria di cui è solamente il paria. Come individuo egli è sempre il prodotto della volontà, anche quando si illude di sconfiggerla. Cosi il soggetto scompare e, avvolto nell'illusione, diviene mito egli stesso, anello del destino. Il mondo come volontà e rappresentazione è il rovescio speculare di quella armonia che, altrettanto invisibile, si era creduto desse ordine razionale alla dispersione dei tempi moderni. Ma se quella di Schopenhauer è la risposta alla 'economia politicà e al suo sogno di autoregolamentazione del sistema, essa è tuttavia lontana da quella che contro Leibniz aveva portato Voltaire, perché se in quel caso il negativo attendeva ancora la sua ragione, qui esso trapassa immediatamente nella pura positività altrettanto irrazionale. Il negativo non è più né ciò che lavora e trasforma, né l'estremo lembo di terra da cui spiccare il salto, ma la piatta superficie che esaurisce l'orizzonte. La verità di

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Schopenhauer sta nel fatto di aver descritto ciò che restava del primato della soggettività come cardine del mondo moderno: essa era il prodotto della forma vuota della rappresentazione e del dominio cieco della volontà, come ciò che di quella forma è l'essenza. Qui si dà compimento alla società civile e al suo stato quali erano stati compresi per primi da Hegel, ed insieme all'occultamento di tale verità per aver trasformato questo tempo in destino e nella sola patria. All'occultamento della verità del tempo consegue quello dell' essenza del tragico. È vero che Schopenhauer sembra riandare alla natura del Trauerspie4 ma con la differenza che in esso, dramma martirologico o tirannico, la salvezza, impossibile nel mondo dominato dal peccato, brillava tuttavia di luce riflessa come attraverso lo specchio. Da qui la centralità dell'allegoria, che pur restando segno e scrittura del peccato, accennava come una stella cadente al cielo da cui si era pur sempre in esilio. Ma l'allegoria, a differenza che per i romantici come ad esempio Friedrich Schlegel, per il quale essa denotava il moderno, resta per Schopenhauer inferiore all'idea che si raggiunge solo per via d'intuizione. Con l'allegoria, infatti, "viene quindi ognora significato un concetto, e per conseguenza la mente dello spettatore è condotta lungi dall' offertale rappresentazione intuitiva verso un'altra astratta, non intuitiva, che sta tutta fuori dell'opera d'arte (... ). Quel che per noi è il fine dell'arte - rappresentazione dell'idea percepibile solo intuitivamente - non è quivi più il fine" 95 . Così il riandare all' essenza del Trauerspiel barocco risulta soltanto formale, perché l'idea, di cui la rappresentazione tragica è la manifestazione intuitiva, consiste soltanto nel dominio senza speranza della volontà di vivere. Se nel Trauerspiel la salvezza, come puro al di, là restava sospesa sulle vicende terrene e il dio era solo uno spettatore passivo della forza del peccato, qui qualunque interstizio del mondo è saturato e abolito. Il degrado dell'allegoria significa che il mondo come frammento e rovina, che pure è il terreno proprio della modernità, viene mistificato e ri-

95

A. SCHOPENHAUER. ll mondo come volontà e come rappresentazione, tr. it. di P. Savj-Lopez e G. di Lorenzo, Laterza, Bari 1968, voi. Il, p. 320. Su Schopenhaner vedi M. CACCIAR!, Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Padova 1977, pp. 13-29 e R. GENOVESE, Dell'ideologia incomapevole, Liguori, Napoli 1979.

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condotto ad un'essenza unitaria non conciliante o conciliante per solo difetto. Perché se la vita è dolore ci concilieremo con essa, raffreddandola fin quasi allo zero assoluto; se è tensione sempre inappagata, oscillazione fra il desiderio e la noia, raggiungendo una passività simile alla morte, senza peraltro morire, poiché la morte implicherebbe un massimo di volontà per rendere possibile la decisione. Cosi la ripresa del Trauerspiel da parte di Schopenhauer va in direzione opposta a quella del Goethe delle Affinità elettive da un lato e di Benjamin e Hofmannsthal dall'altro 96 • Qui si afferma soltanto - ciò che diverrà in seguito luogo comune - che tragica è l'inevitabile sconfitta che l'individuo non può non patire contro potenze estranee, sconfitta di fronte alla quale egli non può rispondere se non spogliandosi di se stesso, nella morte, abdicando alla lotta. Ciò si realizza nella rinuncia al principium individuationis, svelato come mero inganno della volontà di vivere, e in questo è racchiuso l'esito tragico. La consapevolezza a cui deve pervenire l'eroe consiste tutta nel fatto che ciò che si dà nella rappresentazione, nella sua materialità e determinatezza, è apparenza e fenomeno in cui trionfa l'irrazionale spingere della volontà. La trasformazione del concetto di fenomeno, da ciò che si offre nell'organizzazione spazio-temporale (e perciò si apre alla conoscenza scientifica, a cui si contrappone il noumeno, come puro pensato della ragione), a ciò che è mera apparenza, errore, velo falsificante (nei cui confronti il noumeno torna ad elevarsi ad entità metafisica), mostra la distanza che questa vicissitudine del kantismo assume rispetto al suo punto d'abbrivio. Essa, come è fondante dell'edificio schopenhaueriano, cosl lo è della sua concezione del tragico. Poiché esso non è nient'altro che liberazione da questo errore e rappacificazione con ciò che 'comandà. Tantomeno, ci sembra, questa adialettica relazione fra apparenza e noumeno può rimandare, nella sfera del tragico, a quella della vita e del sogno. In questo caso, infatti, la consapevolezza della interscambiabilità fra lo stato di veglia e quello del sogno significa che la ragia-

96 Per l'interpretazione benjaminiana del Trauerspiel barocco e della sua relazione con la doppia stesura della Torre di Hofinannsthal rinvio al mio Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., pp. 307-418, su Hofmannsthal in particolare pp. 414-418.

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ne, una volta entrata nel dominio della rappresentazione, non può che provarne vertigine. Poiché se il mondo e la vita sono ridotti ad immagini, la cesura fra reale ed onirico viene a cadere. Il trapassare della vita nel sogno e del sogno nella vita, allora, significa che la ragione, come fondamento della verità, si scopre senza fondamento. A ciò risponde in Calderon il già precario richiamo alla verità non rappresentativa di Dio e nella Torre di Hoffmansthal l'assunzione senza speranza, ma per questo profetica, del mondo sospeso sul proprio nulla. In entrambi non si dà appaesamento. Schopenhauer si situa fra questi due estremi e, al di là del tono falsamente drammatico, il suo mondo è il totalmente pacificato. Qui si dà perdita della contraddizione e della differenza e il contrasto della volontà è inganno a sua volta. Il conflitto è tolto senza che esso venga mai affrontato e riconosciuto come tale, poiché, al di là delle concrezioni individuali, la volontà è una e indivisibile; "scopo della tragedià' per Schopenhauer è si "la rappresentazione della vita nel suo aspetto terribile, che il dolore senza nome, l'affanno dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti vengono qui a noi presentati; imperocché si ha in ciò tìn significante segno intorno alla natura del mondo e dell'essere. È il contrasto della volontà con se medesima, che qui, nel grado supremo della sua oggettività, dispiegato in tutta la sua pienezza, tremendamente balza alla luce. Nel dolore dell'umanità si fa visibile: e quello è prodotto parte dal caso e dall'errore, che quali dominatori del mondo intervengono, e per la loro malizia, che giunge fino ad aver l'apparenza di consapevolezza, sono personificati nel destino; parte proviene dall'umanità stessa, per le incrociantesi voglie degli individui, per la malvagità e perversità dei più", ma, nello stesso tempo, "una e identica volontà è quella, che in tutti vive e si manifesta, mentre le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano a vicendà'97. Se la prima parte di questo passo mostra, al di là della consapevolezza stessa di Schopenhauer, che la sua caratterizzazione della trage-

97 A. SCHOPENHAUER,

ll mondo come volontà e come rappresentazione, cit.,

pp. 340-341.

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dia si radica nella realtà dei tempi moderni, che si fondano sul diritto supremo della soggettività a realizzare i propri fini, l'intero discorso testimonia, senza ombra di dubbio ma, al contrario, come necessaria conseguenza, che la soggettività debba alla fine rinunciare del tutto al1' essenza che la costituisce. Ciò che conta, però, non è tanto la non verità di questo movimento - in esso, infatti, si compiono i tempi moderni -, quanto la sua consacrazione. Ciò risulterà chiaro se contrapporremo a Schopenhauer il modo con cui Hegel individua il contenuto della scena moderna. Al fine di caratterizzare, di contro alla tragedia antica, la specificità di quella moderna, Hegel nota che nella prima "ciò che crea l'occasione per le collisioni non è già la cattiva volontà, il crimine, l'indegnità o la semplice disgrazia, la cecità e così via, ma come ho più volte detto, la legittimità etica di un atto determinato"98. Mai nel tragico antico "la decisione e l'atto si basano sulla semplice soggettività dell'interesse e del carattere, sulla ambizione, sull'innamorarsi, sull'onore o in genere su passioni il cui diritto può basarsi solo sulla particolare inclinazione e personalità" 99 . Così l'esito tragico, sulla scena moderna, venuta ormai meno l'oggettività dell'etica e assunta la signoria da parte dell'accidentale pathos individuale, non può manifestarsi anch'esso altro che "come effetto semplicemente di circostanze infelici e di altre accidentalità che si sarebbero potute svolgere anche diversamente e avrebbero potuto avere per conseguenza una fine felice. In tal caso resta solo la visione di una individualità moderna la quale, data la particolarità del carattere, delle circostanze e degli intrecci, è esposta in sé e per sé alla caducità del terrestre in generale e deve sopportare il destino della finitezzà' 100 • In tal modo Hegel, in nome di una filosofia critica della storia, che in Schopenhauer è andata completamente perduta, tiene ferma la differenza tra tragico antico e scena moderna, che l'altro ideologicamente abolisce. Il togliere la differenza è, infatti, per Schopenhauer, il modo col quale egli eleva non dialetticamente il mondo moderno a verità ultima del processo storico, ciò che, per Hegel, sarebbe una pura resa al positivo.

98 99

G. F. W. HEGEL, Estetica, cit., p. 1355. Ibidem. 100 Ivi, p. 1375.

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Sulla scena moderna non si dà conciliazione etica, ma soltanto "conciliazione dolorosà'. Con la consueta lucidità Hegel legge l' autentico contenuto del dramma moderno nella "caducità del terrestre" e nel "destino della finitezza". Ciò sta a fondamento dell'azione: "Considerata esteriormente, la morte di Amleto appare avvenire incidentalmente, per il duello con Laerte e per lo scambio delle spade. Ma nel fondo dell'animo di Amleto, vi è fin dall'inizio la morte. Il banco di sabbia della finitezza non gli basta; di fronte a questa tristezza e mollezza, di fronte a qllesto dolore, a questo disgusto per tutte le condizioni di vita, noi sentiamo spontaneamente che egli è in questo crudele ambiente un uomo perduto, già quasi consumato dal tedio interno prima ancora che gli venga la morte dall'esterno. Lo stesso avviene in Romeo e Giulietta; questo tenero fiore non si addice al suolo su cui è sbocciato, e non ci resta altro che rimpiangere la triste fugacità di un amore così bello, che come una delicata rosa nella valle di questo mondo accidentale viene abbattuto dalle inclementi tempeste e dai fragili calcoli di una nobile, ben intenzionata saggezza. Ma questa mestizia che ci coglie è una conciliazione soltanto dolorosa, una infelice beatitudine nell'infelicità" 101 • I.:indeterminatezza delle circostanze che decidono dell'azione e dell'esito tragico è ricondotta da Hegel al suo fondamento. Ma questo a sua volta conserva strenuamente la propria determinatezza storica. Il mondo moderno, mentre pone a suo principio la soggettività, la consegna nello stesso tempo alla finitezza e alla caducità da cui ogni finitezza è affetta. Che l'eroe sia già da sempre perduto o che il suo amore sia dall'origine destinato alla morte, non discende dall'essere egli semplice incarnazione di una volontà che lo trascende, ma dalla configurazione formale ed astratta che i tempi moderni hanno assunto: se il moderno è il terreno su cui si produce la soggettività, esso la produce a propria immagine e somiglianza. È sconfitta prima ancora di incominciare la lotta; se nella tragedia antica l'esito del conflitto era al principio indeciso, nella scena moderna esso è da sempre scontato. Tuttavia che l'eroe continui a testimoniare di 'altro', nella sua stessa impotenza, è ciò che Hegel da ultimo riconosce; altrimenti non sarebbe possibile "l'infelice beatitudine nell'in-

101

Ibidem.

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felicità". Con questa espressione, che al di là della dialettica perviene al paradosso, si testimonia che, se nel Trauerspiel si dà conciliazione, essa è 'dolorosa', poiché viene soltanto adombrata e rimandata al futuro. Non ci si riconcilia con il dolore, ma la mestizia proviene dal fatto che con dolore si assiste alla morte dell'eroe, poiché in essa si rende manifesta l'impossibilità presente della conciliazione. I..:eroe, come nel dramma martiriologico e tirannico, è essenzialmente un testimone, le ultime parole di Amleto sono un appello affinché si racconti la sua storia e nell'oblio del suo nome non vada perduto anche ciò di cui egli recava testimonianza. Per Schopenhauer, al contrario, essenza del tragico è la riconciliazione con il dolore presente. Non a questo dolore bisogna rinunciare, ma al Sé che nella silenziosa caparbia lotta per farlo sparire. È contro il Sé che l'eroe deve combattere, per liberarsi non dell'inganno della soggettività moderna, ma per liberarsi di se stesso. Laccidentalità dei motivi che spingevano l'eroe all'azione è superata, non pervenendo alla consapevolezza della loro origine storica, ma ancorandoli alla eterna volontà di vivere. Il Sé fa tutt'uno con essi; egli è un fenomeno tra fenomeni: " Allora la forma del fenomeno, il principium individuationis, viene da lei visto ben addentro; e perciò l' egoismo che su questo si fonda è spento, sì che i motivi prima sì poderosi perdono la loro forza e in luogo di quelli la piena cognizione del1' essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, fa nascere la rassegnazione, la rinuncia non alla vita soltanto, ma all'intera volontà di vivere. Così vediamo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunciare per sempre, dopo lungo combattere e soffrire, agli scopi fino ad allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi e lieti" 102 • Il cerchio si è chiuso: dalla sfida alla pacificazione totale col demone.

102

A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e come rappresentazione, cit.,

p. 341.

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Antigone ritrovata

Nel mondo frammentario sono possibili solo schegge di sapere. La pretesa di riunificare in un discorso compiuto ciò che il tempo ha separato può essere solo il prodotto di un'illusione, e il tentativo di superare la differenza delle lingue, costruendo un'ennesima torre di Babele, può risolversi soltanto con un nuovo castigo divino. Non si perviene a Dio traducendo le lingue in un'unica lingua, ma parlando di volta in volta i dialetti dei singoli frammenti: non per acquietarsi in essi, ma perché, una volta istituito il loro limite, sia possibile da questo saltare in un altro regno. Per Kierkegaard questo regno è quello della fede, regno incommensurabile con ogni ordine estetico o etico in cui si sia rifratta la modernità. Per Kierkegaard la parola di colui che vuole articolare il presente è sempre postuma. Anticipando l'inattualità di Nietzsche, Kierkegaard rifiuta l'identificazione col presente rispetto al quale è perciò stesso sempre in anticipo. Allo stesso modo la frammentarietà del soggetto non subisce edificazione alcuna: egli si salva dalla distruzione accedendo al gioco della maschera. Dissolvendo la presunzione dell'identità, salvaguarda la possibilità di parlare ancora. A null'altro rimanda la dispersione degli pseudonimi con cui Kierkegaard gioca a nascondino con le potenze che vorrebbero togliergli la parola. Fa come chi si finge morto e sfugge cosl alla morte reale, né è mai là dove l'avversario è ormai sicuro di trovarlo. È un sepolto vivo e parla per dei lettori che ancora non sono nati: è postumo. "Delle carte postume sono come un rudere, e qual rifugio potrebbe essere più naturale per dei sepolti" 103 ? 103 S. K!ERKEGAARD, Enten-eller, ed. it. a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano 1977, voi. Il, p. 35.

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Questo passo si trova in uno dei frammenti che compongono Enten-eller dal titolo Il riflesso del tragi.co antico nel tragico moderno. Un saggio di ricerca frammentaria. Definire l'essenza del tragico in modo unitario è possibile, per Kierkegaard, soltanto quando sia introdotta la differenza del concetto: "Se qualcuno dicesse che il tragico resta pur sempre il tragico non avrei tanto da obiettare, nella misura in cui, però, ogni processo storico giace costantemente entro la dimensione del concetto. Infatti, ammesso che tale motto abbia un senso, che la parola 'tragico', comparendovi due volte, non debba essere ritenuta l'irrilevante segno di parentesi su un vuoto nulla, la sua opinione, credo, dovrebbe essere che il contenuto del concetto non fa scadere il concetto, ma l'arricchisce" 104. Soltanto articolando la differenza che separa il tragico antico dal tragico moderno, il concetto del tragico riceve la sua determinatezza. La conseguenza di ciò è duplice: da un lato Kierkegaard guarda al tragico dal posto di vedetta della considerazione storica, dall'altro egli può passare dal tragico antico a quello moderno, come accadrà nella sua rilettura dell'Antigone, muovendosi sempre nella sua sfera, ma senza annullare mai la distanza, anzi dandole il massimo rilievo. Ciò che caratterizza il tragico antico è l'assenza della soggettività riflessa in sé: "Benché si muovesse liberamente, l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca e la sua vera e propria caratteristica. La rovina del1' eroe non è perciò solo una conseguenza della sua azione, ma è anche un patire, mentre nella tragedia contemporanea la rovina dell'eroe non è propriamente patire, ma atto. Nell'epoca contemporanea predominanti sono perciò, propriamente, la situazione e il carattere. Leroe tragico è soggettivamente riflesso in sé, e questa riflessione non soltanto l'ha riflesso fuori da ogni rapporto immediato con lo stato, la famiglia e il fato, ma spesso l'ha perfino riflesso fuori della sua stessa vita precedente. Quello che ci tiene intenti è un certo e determinato momento della sua vita in quanto suo proprio atto. È per questa ragione che il tragico si lascia esaurire in situazione e replica, poiché, insomma, non resta più nulla d'immediato. La tragedia moderna non

104

lvi, p. 19.

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ha dunque nessun primo piano etico, nessuna eredità epica. Leroe sta e cade completamente sui suoi propri atti" 105 . Che l'eroe tragico provenga dal passato epico, di cui non ha colpa, ma verso il quale è egualmente responsabile; che egli oscilli fra il patire l'immediatezza di un ordine e l'agire, che, pur già destinatogli, lo vede emergere a se stesso: in ciò sta il nucleo del tragico antico. Da qui deriva che la colpa, paradossalmente, gli appartenga senza appartenergli. Questa colpa tragica, che Kierkegaard definisce 'estetica', sta di contro alla colpa 'eticà, quale si dà nella tragedia moderna, là dove l'individuo, perduta ogni immediatezza epica, risponde in prima persona di tutti i suoi atti. Lisolamento dell'individuo, che giunge al limite di rifletterlo fuori della sua stessa vita precedente, tende da un lato all' annullamento della responsabilità e dunque della colpa. Per questo aspetto, secondo Kierkegaard, l'epoca inclinerebbe piuttosto al comico, poichè solo comico può essere lo spettacolo di una personalità isolata che volesse "far valere la sua accidentalità di fronte alla necessità del processo"106. Dall'altro, se si seguisse fino in fondo la pretesa che l'eroe fosse totalmente responsabile, visto che egli cade completamente sui suoi propri atti, egualmente il tragico verrebbe meno, dal momento che la colpa da estetica si tradurrebbe esaustivamente in etica. Rendere l'eroe responsabile di tutto, rovesciargli tutta la sua vita sulle spalle come risultato dei suoi atti, significherebbe trasformarlo in un perverso e fare del male l'oggetto unico del tragico. Ma "il male non ha alcun interesse estetico e il peccato non è un elemento estetico" 107 . Il tragico è definito, in Kierkegaard, dal fatto che l'eroe sia essenzialmente innocente, dunque inizialmente non responsabile, di modo che la collisione tragica avvenga fra questa innocenza e la colpa, in cui inevitabilmente incorre non appena passa all'azione. Là dove venisse introdotta la responsabilità morale dell'azione da parte dell'eroe, venendo meno l'originale innocenza, non si darebbe più collisione tragica. Tra questi due estremi, del non avere colpa alcuna e dell'essere assolutamente colpevole dell'eroe, sta l'essenza del tragico.

105 106 107

Ivi, p. 24. Ivi, p. 23. Ivi, p. 25.

89

Tuttavia è appunto a partire da questa essenza che è possibile definire la differenza tra tragico antico e tragico moderno. Se il concetto di tragico poggia sul rapporto fra innocenza e colpa, rapporto che non può mancare, pena il suo stesso annullamento, la differenza consisterà nel diverso modo di articolarsi di questo rapporto nella scena greca e in quella moderna. La prima cesura Kierkegaard l'aveva già indicata nella determinazione sostanziale della famiglia, dello stato e del fato dell'eroe antico e nella riflessione infinita della soggettività di quello moderno. Accanto a questa e con essa intrecciata sta una seconda differenza che riguarda il primo termine del rapporto su cui si fonda il concetto del tragico: l'innocenza. È evidente che al variare del concetto di innocenza, varierà anche quello di colpa. 11 tema dell'innocenza compare nel pensiero di Kierkegaard nel Concetto dell'angoscia in cui esso deve rendere conto del peccato originale. Non intendiamo ricostruire qui tutto il discorso di Kierkegaard sul problema del primo peccato e del suo rapporto con l'angoscia. Per il tema del tragico, che è quello che qui esclusivamente c'interessa, ci limiteremo ad isolare il concetto d'innocenza nel suo rapporto con la colpa. Contro la posizione di chi ritiene Adamo moralmente responsabile del peccato, Kierkegaard fa osservare che ciò presupporrebbe da parte del primo uomo la conoscenza del bene e del male. Si può essere responsabili moralmente soltanto quando si scelga in piena consapevolezza. Ma la conoscenza del bene e del male è esattamente il risultato del peccato. Lo stato antecedente il peccato non può essere definito, dunque, altro che come uno stato d'innocenza. Per chiarire ulteriormente Kierkegaard lo definisce "ignoranzà': "L'innocenza è ignoranza. Essa non è per niente il puro essere dell'immediato, ma è ignoranza" 108 • Ora Kierkegaard aveva individuato come tratto essenziale del tragico moderno la scomparsa di qualunque "essere immediato", cioè le determinazioni sostanziali della famiglia, dello stato e del fato, presenti nella tragedia greca. Ciò si collega con quanto, a proposito della grecità,

108

S. KIERKEGAARD, Il concetto dell'angoscia, tr. it. di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1965, p. 45. Sul concetto di "peccato" vedi G. BATAILLE, J. P. SARTRE, J. HYPPOLITE, Dibattito sul peccato, tr. it. di E. d'Ambrosio, Shakespeare & Company, Brescia 1980.

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viene affermato in un passo del Concetto dell'angoscia-. "Quando tutto dipende dalla bellezza, essa conduce ad una sintesi dalla quale è escluso lo spirito. Questo è il segreto di tutta la grecità. Perciò una certa sicurezza, una solennità tranquilla si diffonde sopra la bellezza greca; ma precisamente per questo c'è anche angoscia, di cui il greco forse non s'accorgeva, benché la sua bellezza tremasse in quest'affanno. Essendo escluso lo spirito, nella bellezza greca è l'assenza del dolore; ma perciò vi è anche un dolore profondo e incompresibile" 109 • Nel caso del racconto del Genesi, secondo la ricostruzione di Kierkegaard, il salto fra l'innocenza e la colpa è radicale e solo il mondo cristiano, cioè moderno, perviene al concetto adeguato dell'angoscia come della realtà della libertà, come "possibilità per la possibilità". Ma proprio la presenza di un 'patire' dovuto ad un elemento immediato, cioè necessitante, nella tragedia greca, impedisce che l' angoscia possa manifestarsi in essa: unica spia dell'angoscia è il tremore che coglie la serenità della bellezza come un'increspatura sulla calma superficie dell'acqua. Se l'agire dell'eroe tragico è determinato anche da ciò che Kierkegaard ha chiamato l'eredità epica, egli non ha sperimentato fino in fondo l'angoscia. Per Adamo, per l'uomo cristiano e moderno, non vi è, al contrario, passato, e non essendovi neppure responsabilità morale in senso stretto, il peccato è realmente il primo peccato. Da ciò deriva, come necessaria conseguenza, per Kierkegaard, che la colpa attinente al peccato originale sia infinita e con essa il dolore, cosl come attraverso il peccato nasca anche la soggettività moderna come infinita riflessione in sé. Per questo, mentre il mondo greco può trovare la propria verità nella bellezza, soltanto solcata dalla misteriosa presenza dell'angoscia, e perciò cade nella categoria dell'estetico, il mondo moderno oscilla fra l'etico e il religioso: l' estetico è ormai alle sue spalle. Ciò verrebbe convalidato, da un lato, dal fatto che né il male né il peccato sono elementi estetici: estetico è infatti solo il gioco immaginario di innocenza e colpa e non a caso Adamo è definito, prima del peccato, come "spirito sognante" che viene ridestato a se stesso dalla "pura potenza del linguaggio". Dall'altro, Kierkegaard insiste sull'impossibilità di leggere come tragedia la pas-

109

lvi, p. 79.

91

sione e la morte del Cristo: esse, infatti, appartengono di diritto alla fede. Tuttavia l'intento di Kierkegaard consiste nel cogliere nell'unità del concetto del tragico la differenza storica e quindi la possibilità del tragico moderno. Sulla base di quanto detto finora, questa possibilità viene individuata nel poggiare del tragico moderno sul concetto di dolore. Nel passo già citato del Concetto dell'angoscia, a proposito della grecità, Kierkegaard aveva notato che "essendo escluso lo spirito, nella bellezza greca, è l'assenza del dolore"; il nucleo del tragico antico è rappresentato infatti dalla 'penà. Nel saggio su Il riflesso del trugico antico nel tragico moderno, la differenza fra pena e dolore viene ripresa e chiarita. "Nella tragedia antica, scrive Kierkegaard infatti, la pena è più profonda, minore il dolore; nella tragedia moderna il dolore è più grande, minore la pena. La pena contiene sempre in sé qualcosa di più sostanziale che non il dolore. Il dolore suppone sempre una riflessione sulla sofferenza, che la pena non conosce" 110 • Là dove è il fato a decidere dell'uomo o, come dice Kierkegaard, quando si cade nelle mani del dio vivente, allora la colpa è segnata dall'ambiguità estetica e il sentimento prodotto dalle sventure dell'eroe è la pena. Al contrario quando l'eroe è trasparente a se stesso, cioè spirito, allora emerge il dolore come consapevolezza radicale della colpa. Tuttavia la differenza tra pena e dolore così intesa risulterebbe statica e inadatta al fine di definire il concetto del tragico moderno: essa deve essere animata dialetticamente. La pena, infatti, si trasformerebbe in mera compassione, se non fosse dovuta essenzialmente alla colpa e il dolore cesserebbe di essere tragico, se dimenticasse del tutto l'innocenza. Il rapporto fra innocenza e colpa, che costituisce l' essenza del tragico, riceve la sua determinatezza storica dalla differenza della pena e del dolore. Al mutamento dell'elemento centrale fra tragico antico e moderno, deve corrispondere un'inversione del rapporto fra innocenza e colpa. Nel tragico antico l'innocenza non è radicale, l'eroe partecipa già delle determinazioni sostanziali che lo collocano in un ben definito intreccio etico e divino e perciò la colpa è mitigata a causa della sua ambiguità estetica. Ma appunto per questo la pena ri-

110

S.

KJERKEGAARD,

Enten-eller, cit., p. 29.

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suita dovuta solo alla presenza della colpa, benché minima. Nel tragico moderno, invece, l'innocenza è totale e da ciò deriva la radicalità della colpa, ma proprio per questo il dolore proviene dal residuo d'innocenza. In altri termini, mentre nel tragico antico la colpa non annulla mai l'innocenza ed è la sua presenza che genera la pena, nel tragico moderno l'innocenza è completamente sradicata dalla colpa ed è il suo ricordo che produce il dolore. Scrive, infatti, Kierkegaard: "La vera pena tragica esige dunque un momento di colpa, il vero dolore tragico un momento di innocenza; la vera pena tragica esige un momento di trasparenza, il vero dolore tragico un momento di oscurità. Questa, a mio avviso, la miglior maniera possibile di delineare la dialettica in cui le determinazioni di pena e dolore vicendevolmente si toccano, cosi come anche la dialettica che sta nel concetto di colpa tragica'' 111 • La possibilità del tragico moderno risiede, dunque, esattamente in questo: trasformare la pena in dolore, tradurre la determinazione sostanziale propria della tragedia antica nell'oggetto della riflessione, senza peraltro annullarla. Di ciò Kierkegaard porta un esempio: la reinterpretazione del1' Antigone sofoclea condotta, appunto, secondo i principi, ora indicati, del tragico moderno. In primo luogo perché si dia tragico è necessario che la colpa tragica oscilli sempre fra innocenza e colpa; in altri termini "ciò per cui la colpa entra nella sua (di Antigone) coscienza, dovrà essere sempre una determinazione della sostanzialità". D'altro lato la riflessione non dovrà essere infinita, perché, se cosi fosse, "rifletterebbe Antigone fuori della sua colpa, non potendo la riflessione stessa, nella sua infinita soggettività, lasciar sussistere il momento di colpa originaria che dà la pena''. I poli dialettici sono dunque i seguenti: la colpa proviene ad Antigone dal passato della stirpe, passato di cui ella è innocente; questa colpa, di cui tuttavia Antigone deve portare il peso, è ali' origine della sua pena tragica. Ma in Antigone si manifesta lo spirito, la potenza della riflessione, rispetto alla quale non c'è più colpa che derivi dal passato, ma una colpa che ricade interamente su se stessa. Ciò escluderebbe il tragico: è allora necessario che un momento della colpa permanga, ma in modo tale che il riflettere

111

Ivi, p. 34.

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su di essa, e sulla sofferenza che dalla colpa promana, trasformi la pena in dolore. È quanto propriamente scrive Kierkegaard: "Tuttavia, quando la riflessione si sarà destata, non rifletterà Antigone fuori dalla sua pena, ma dentro di essa, e ad ogni istante trasformerà per lei la pena in dolore" 112 • 1.:Antigone moderna è l'unica a conoscere il segreto di Edipo. Per tutti egli è soltanto il solutore dell'enigma della Sfinge e il felice re di Tebe. Solo per lei egli è anche l'assassino del proprio padre e lo sposo della propria madre. Di fronte a questa rivelazione Antigone è posta di fronte all'angoscia e l'angoscia, nota Kierkegaard, è una "riflessione". La differenza dall'Antigone greca consiste dunque in questo che, mentre quest'ultima vive solo esteriormente la colpa paterna, che le cade addosso come colpa della stirpe, quella moderna, dapprima innocente, è l'unica a dover riflettere in se stessa il destino. Esso diviene il suo solo segreto, ciò per cui Antigone vive, mentre è già da sempre votata alla morte. La collisione tragica avviene infatti non fra la pietà familiare, che le impone di dar sepoltura al fratello e il divieto che Creante, in nome dello Stato, le contrappone, ma fra il suo segreto e l'amore. A questo segreto ella deve offrire in olocausto il suo amore. Potrebbe forse amare senza confidare il suo segreto, e tuttavia, se lo confidasse all'amato, non tradirebbe cosi suo padre, disonorandolo? Giacché, ora, la colpa della stirpe di Labdaco non è più sorte comune e perciò esteriore e immediata di tutti coloro che da essa discendono, ma è divenuta coscienza interiore e mediata della sola Antigone. La pena pubblica si è tramutata nel dolore privato, ma non per questo meno reale. Il destino di Antigone non è più, dunque, quello di assumere come colpa la determinazione sostanziale che la fonda, ma quello di essere l'unica a piangere, innocente, il segreto paterno. La lotta che l'amato ingaggia con lei consiste proprio nel tentativo di strapparle il suo segreto. Ma questo è ciò che lo fa soccombere. Ora, infatti, "le potenze che entrano in collisione si tengono cosi ben testa l'un l'altra che l'azione diventa impossibile per l'individuo tragico. Il

112

Questo passo e i precedenti, ivi, p. 37. Sulla fortuna del mito di Antigone nella cultura europea vedi C. MoLINARI, Storia di Antigone,, De Donato, Bari 1977.

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dolore di Antigone s'è ora accresciuto accanto al suo amore, accanto al suo simpatetico patire per colui che ama. Solo nella morte potrà trovar pace; perciò la sua vita è votata alla pena, ed ella ha per cosl dire fissato un limite, un argine alla sventura che forse si sarebbe fatalmente perpetuata in una generazione successiva. È solo all'istante della sua morte che potrà confessare ciò che è intimo del suo amore, è solo all'istante in cui all'amato non appartiene più che potrà confessare di appartenergli (... ). Così la nostra Antigone regge il suo segreto nel suo cuore, come un dardo che la vita ha costantemente spinto sempre più in fondo, senza privarla della vita perché fino a quando esso resta nel suo cuore può vivere, ma all'istante in cui le sarà levato dovrà morire"113. La lotta dell'amante è la morte di Antigone e in ciò risiede la sua sconfitta. Ella vive con il suo segreto per piangere la colpa e nello stesso tempo per vanificarla. Perché la sventura non si perpetui in eterno, Antigone è la tomba del suo segreto. Perciò ella anticipa la morte trascinando con sé anche la colpa. Certamente, se si volesse verificare questa interpretazione della tragedia antica, ancora una volta, non si potrebbe che porre in rilievo l'estrema distanza dal modello. Il relegare la tragedia greca nei limiti angusti della categoria dell'estetico ne è una prova evidente. È invece essenziale comprendere la traduzione moderna dell'Antigone sofoclea ponendola in relazione con quelle teorie del tragico con le quali essa forma una costellazione storica. È in primo luogo evidente che il modello kierkegaardiano del tragico antico e la stessa scelta, fra tante tragedie, proprio dell'Antigone, siano di netta provenienza hegeliana. I..:insistenza con cui Kierkegaard mette in evidenza il ruolo, nella tragedia greca, di ciò che, con dei modi espressivi che non si vergognano di mostrare la loro genealogia, chiama 'determinazione sostanziale', 'immediatezza epica', lo conferma. Ma a differenza di Hegel, Kierkegaard non attribuisce al tragico antico alcun carattere di conciliazione etica. Il sussumerlo sotto la categoria dell'estetico, oltre ad essere un modo per dichiararlo obsoleto, dipende forse meno dalla incomprensione che dalla necessità di rispondere ad Hegel. Mentre Hegel, infatti, di fronte alla dispersio-

113

Ivi, pp. 49-50.

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ne del mondo moderno, nega ad esso qualunque possibilità tragica, il problema per Kierkegaard è se a partire dall'essenza di questo mondo sia possibile la tragedia. Per Hegel occorre salvare il modello del tragico come conciliazione etica dalla sua determinatezza storica, perché esso risolve le contraddizioni del presente; per Kierkegaard è necessario, invece, trovare il riflesso del tragico antico in quello moderno per cogliere la specificità di quest'ultimo. È possibile, cioè, a partire dal1' essenza della modernità, individuare il tragico ad essa adeguato senza cadere nella risposta astorica ed eternizzante di Schopenhauer 114 ? A questa domanda risponde la reinterpretazione dell'Antigone sofoclea. Il modello della forma classica della tragedia, così come Hegel lo pensa, presuppone che il negativo e il conflitto che da esso deriva possano essere superati-riconciliati in modo obiettivo; essi devono essere dicibili. In questo senso il tragico è forma. Forma che precede il dispiegarsi del negativo, che lo analizza e lo risolve: gli dona appunto una forma. Ma là dove, ed è la realtà dei tempi moderni, la forma è venuta meno, il negativo è prima di ogni forma, è l'indefinibile angoscia che opera il trapasso dall'innocenza al peccato. La forma che lo organizza, e che gli è perciò sempre posteriore, è quella vuota del male radicale. Per questo Kierkegaard insiste: il male non è un oggetto estetico ma etico. Infatti la forma del peccato è solo quella astratta della legge, del1' etica nel linguaggio kierkegaardiano. Ma l'etica, a sua volta, può soltanto limitarsi a tenere a bada il negativo, a riprodurlo nella sua alterità, proprio mentre tenta di annullarlo. Da qui il rischio che essa ricada nell'ambiguità estetica. Se, ad esempio, il matrimonio è solo un

Per la critica di Kierkegaard a Schopenhauer dr. S. KlERKEGMRD, Diario, tr. it. di C. Fabro, Rizzoli, Milano 1975, pp. 227-237. Per quella condotta nei confronti di Hegel, Il concetto dell'angoscia, cit., soprattutto pp. 14-15. Su Kierkegaard come prodotto della dissoluzione del sistema hegeliano cfr. K. LOEWITH, Da Hegel a Nietzsche, tr. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 1949; per una direzione interpretativa diversa di Kierkegaard come momento dell'emergere del pensiero negativo vedi M. CACC!ARI, Sulla genesi del pensiero negativo, in "Contropiano", n. 2 1968, pp. 158-173. Sull'interiorità del 'singolo' come vuoto decor borghese vedi T. W. ADORNO, Kierkegaard. Costruzione dell'estetico, Longanesi, Milano 1962, e la recensione di Benjamin al libro di Adorno, in W. BENJAMIN, Critiche e recensioni, tr. it. di A. M. Solmi, Einaudi Torino 1979. 114

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rimedio della passione, non avrà, pur essendo un'istituzione etica, già stretto un mortale compromesso con essa? Da questo intrico demonico salva soltanto lo spirito. Ma lo spirito, per Kierkegaard, non è la totalità obiettiva riconciliata con sé, ma l'infinita riflessione in sé della soggettività che non solo la separa dall'etica, ma che, alla fine, la riflette fuori di sé e la vanifica come soggettività. Questo vanificarsi della soggettività è però il suo massimo ritrovarsi nel regno paradossale della fede. Il tragico moderno deve, allora, oscillare fra questi due estremi: da un lato l'etica, che con la sua pretesa di assoluta colpevolezza, del resto impossibile, toglierebbe il negativo, e dunque il tragico, ma solo per difetto; dall'altro la fede, che lo toglierebbe anch'essa, ma per eccesso. Infatti, già lo sappiamo, Cristo non è un personaggio tragico, è spirito infinitamente al di là della lettera: "Nella vita di Cristo c'è questa identità, perché il suo patire è assoluto, in quanto è agire assolutamente libero, e il suo agire è patire assoluto, in quanto è assoluta obbedienza"115. Cristo è al di là dell'estetico e dell'etico, in lui ogni conflitto è abolito. Ma Antigone, invece, occupa quel posto fra l'etica e la fede. Ella, infatti, da un lato rifiuta l'amore per restare fedele al suo segreto; è sposa, dice Kierkegaard, ma sposa di questo segreto. Dall'altro, però, non può togliere il negativo - per lei, la colpa paterna -, né riconciliarlo. Ella può solo custodirlo nel dolore e nel silenzio. Non lo offre al lavoro del lutto per trasformarlo, ma lo lascia crescere in se stessa come il dono più bello che abbia mai ricevuto. Avvolto nel silenzio, lo conserva in tutta la sua purezza. Il silenzio e il segreto definiscono l'Antigone moderna. Ella è colei che non parla. Fedele a ciò che le è stato affidato, lo conduce con sé nella morte. lrreconciliato, è vero, tuttavia intatto per la futura conciliazione. Questa lettura del tragico in Kierkegaard potrebbe apparire forzata se la si paragonasse alle quasi contemporanee pagine di Timore e tremore, là dove per definire il sacrificio di Abramo il termine di paragone scelto è quello dell'eroe tragico. Scrive Kierkegaard: "È evidente la differenza che separa l'eroe tragico da Abramo. L'eroe tragico rimane ancora nei confini della morale. Per lui ogni espressione della mo-

115

S. KIERKEGMRD, Enten-eller, cit., p. 32.

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rale ha il suo telos in una espressione superiore della morale; egli riduce il rapporto morale tra padre e figlio o tra figlio e padre a un sentimento, la cui dialettica si riferisce all'idea di moralità. Non è possibile, quindi, che qui si tratti di una sospensione teologica della morale in quanto tale. Con Abramo, è tutta un'altra cosa. Col suo atto egli ha varcato i confini di tutta la sfera morale. Il suo telos è più in alto, al di sopra dell'etica; in vista di questo telos egli sospende la morale" 116 • I.: eroe tragico è tutto dalla parte dell'etico, della mediazione e del dicibile. Non solo l'etico annulla il negativo, ma traducendolo in un sentimento ricade nell'ambiguità estetica. Abramo, al contrario, assume il negativo in quanto tale. Esso è ora l'ordine divino che comanda il sacrificio di Isacco. Questo atto non può essere mediato né risolto all'interno dell'etico. I..:angosciante e angosciata fede di Abramo doppia e taglia, al di fuori di qualunque mediazione dialettica, quell'angoscia che era stata all'origine del peccato originale. Anche allora un ordine, sotto forma di divieto, aveva fatto emergere l'angoscia. A quella parola, altra da ogni lingua, corrisponde questa parola altrettanto priva di rimando. La risposta a questa parola è il silenzio. È vero: in questo modo il 'cavaliere della fede', che crede in virtù dell'Assurdo, si trova rappacificato di nuovo con se stesso; egli ha trovato cosl la soluzione alla propria 'singolarità'. Il problema che Kierkegaard aveva posto attraverso la centralità dell'angoscia e del rapporto privo di mediazione fra individuo e negatività è di nuovo vanificato. Lo stesso insistere sull'attimo, come dell'indicibile luogo in cui s'intersecano divenire ed eterno, mostra infine una lettura della realtà del tempo ancora iscritta, paradossalmente, nella moderna esperienza della temporalità. Perché in fondo nell'eterno non è possibile ritrovare altro che il divenire, ed il passato, che resta tale, subisce niente di più che un rivestimento: ma l'ornamento può soltanto coprire il vuoto del 'decor' borghese. Ciò nonostante Kierkegaard si muove ad un'altezza di fronte alla quale Schopenhauer fa la figura del pigmeo. Tornando, ora, al nostro oggetto, il tragico, Abramo si situa al di là della mediazione e del linguaggio: ''Abramo si rifiuta alla mediazio-

116

S. KIERKEGMRD, Timore e tremore, tr. it. di F. Fortini e K. M. Gulbrandsen, Edizioni di Comunità, Milano 1971, p. 82.

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ne. In altri termini: non può parlare. Dal momento in cui io parlo, io esprimo il generale e, se taccio, nessuno può comprendermi" 117 • Ma il silenzio era esattamente ciò in cui era avvolta Antigone. E se Kierkegaurd ricorda sempre in Timore e Tremore che "l'eroe tragico non entra in relazione privata con la divinità" 118 , il dolore di Antigone è la trasformazione della pena che colpisce la stirpe nel rapporto che il singolo intrattiene con la colpa. Che Abramo presenti alcuni dei caratteri di Antigone non è l'ultimo dei paradossi di Kierkegaard. Forse, per uri attimo, Kierkegaard ha avuto la tentazione di abbandonare il rifugio della fede per accogliere in pieno il senso del tragico e dunque della modernità, che impone il disincanto rispetto alla possibilità della riconciliazione nel presente, per salvaguardare quella futura. Per un attimo Kierkegaard si è innamorato di Antigone, colei che egli chiama la propria "creaturà'; con questa creatura, confessa, "è come se in una notte d'amore le avessi riposato accanto" ed ella "mi avesse confidato il suo profondo segreto" 119 • In questa notte d'amore Kierkegaard ha concepito, per rinnegarla, la possibilità del tragico moderno.

117

118

Ivi, p. 83. Ibidem.

119

S,

KlERKEGAARD,

Enten-eller, cit., p 36.

99

Il tempo del ritorno Solo se il passato ritorna è possibile la decisione tragica. Ma quando il passato è soltanto la catena di colpa e castigo, quando assume le sembianze di ciò che è irrimediabilmente accaduto e si trasforma in destino, allora l'attimo in cui si compie la decisione è abolito. Costretto a guardare in avanti non può, volgendosi indietro, permettere al passato di ritornare e in questo modo sospenderlo. Nell'ansia di mirare al futuro non s'accorge di ciò che lo sovrasta e ha già deciso per lui. La possibilità di volere a ritroso è la possibilità della decisione tragica. È solo con Nietzsche che, in modo radicale, si annuncia la coappartenenza del tragico e del tempo, di una nuova esperienza del tempo. Ciò non fa meraviglia: il tentativo di pensare il tragico moderno, fin dall'origine, verteva sulla possibilità di coniugare storia e tragedia. Se l'esser storico è l'essenza del mondo moderno, è a partire da questa realtà che deve essere ripensata la natura del tragico. Al passato epico, presentificato nell'agone tragico, si è sostituito il passato creaturale, segnato dal peccato e dall'omogenea forma vuota del tempo. Dal dramma martirologico al Trauerspiel barocco, il tentativo di riscattare il tempo del peccato si è rivelato impossibile. Ciò proprio a causa del fatto che il restar fermi al tempo vuoto del peccato e alla storia, come sequenza lineare di eventi, situava nell'esatto speculare del tempo, l' eterno, l'istanza della redenzione: questa cadeva, cosi, fuori del tempo e della storia, avvolta in un'assoluta trascendenza. Fra l'ascesi del martire e la caduta del tiranno non vi era differenza: entrambi s'incontravano alla fine nella solitudine del loro essere creature e destinate a rimanere tali. Per sfuggire al dominio del passato, senza peraltro esorcizzarlo, ma al contrario assumendolo fino in fondo, è necessario ripensare ra-

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dicalmente la natura del tempo. Non può darsi vera redenzione, se il passato stesso non viene redento. Tuttavia ciò non deve significare redenzione dal tempo, ma redenzione del e nel tempo. Nel primo caso ciò vorrebbe dire ricadere nella dicotomia tempo-eternità e la redenzione sarebbe di nuovo niente altro che l'abbandono del tempo. Tantomeno redimere anche il passato può voler dire mutarlo. Il passato resta il "così è stato". La redenzione del passato consiste piuttosto nella possibilità di presentificare il "così è stato", sottraendolo alla sua natura di passato. Poter pensare il passato come ciò che sempre di nuovo ritorna e non come ciò che sta semplicemente alle spalle, è ciò che lo apre preliminarmente alla redenzione. La decisione, allora, non è altro che il decidersi per questo ritorno, che solo libera il passato dal suo esser passato e nello stesso tempo il futuro dal suo esser ciò che semplicemente deve ancora accadere. Al passato che torna corrisponde il futuro come ciò che viene incontro. Perché autentico futuro è solo quello che viene anticipato nell'attimo e non si dà futuro se non sulla base del ritornare del passato. Ma il nucleo del tragico è la possibilità della decisione. Il tempo tragico è il tempo del ritorno. Non è, dunque, un caso se l'annuncio dell'inizio del tempo tragico segua quello dell'eterno ritorno. Gli ultimi due aforismi del quarto libro della Gaia scienza sono, infatti, rispettivamente il Peso più grande, in cui viene enunciata, per la prima volta, la dottrina dell'eterno ritorno e Incipit tragoedia, che annuncia l'inizio dell'insegnamento di Zarathustra nella forma del tramonto. Zarathustra, al pari del sole, deve tramontare. Nel tempo del suo tramonto prende corpo il tempo tragico e il ritornare del tempo. È in questo senso che Zarathustra è il maestro dell'eterno ritorno e insieme del superuomo. Giacché il superuomo non è nient' altri che colui la cui volontà di potenza lo pone in grado di occupare il luogo della convergenza, cioè l'attimo, dei circoli dell'eterno ritorno. Perciò egli è "il trasfigurato di luce", l'incarnazione di Dionisio. Con l'avvento del tempo tragico Zarathustra ha esaurito il suo compito: con lui, che è ancora soltanto un maestro, tramontano i tempi moderni. Se il problema dell'eterno ritorno è la redenzione del passato, così come è quello del tragico, la prima revisione che questa nuova esperienza del tempo deve apportare a quella che proviene dalla tradizione occidentale riguarda l'idea del peccato. La posizione di Nietzsche è ra-

102

è,

dicale: al di là di qualunque teodicea, per la quale non vi sarebbe altra soluzione dell'espiazione morale, il peccato e con esso la lunga storia del bene e del male, va semplicemente abolito. Un frammento dell'estate-autunno del 1881 a questo riguardo enuncia: "Sarebbe orribile, se credessimo ancora al peccato, ma, qualunque cosa faremo, in ripetizione innumere, è innocentè' 120 • Questa innocenza non va intesa come )ciò che si contrappone alla colpa, ma come ciò che sottrae il tempo al suo dominio. Il carattere ripetitivo del rapporto causale, per cui la colpa rimanda sempre al castigo, è tolto da quell'altra ripetizione, che è instaurata ogni volta dall'esercizio della decisione. Che il tempo si ripeta e venga accolto cosl come è stato significa che qualunque tentazione di eternizzazione morale ed estetica viene qui rifiutata. Essa presupporrebbe ancora l'esistenza del male, in quanto causa e prodotto del peccato, come ciò da cui è necessario fuggire. Ma il tempo continuerebbe ad essere il negativo dell'eterno, e l'eterno non potrebbe non ritrovarsi, alla fine, affetto dal tempo. Il superamento del male, perseguito per questa via, si ribalterebbe nella sua consacrazione. Ciò ci sembra essere insieme la ragione della critica della morale cristiana e della sua traduzione laica nei tempi moderni da un lato, e dall'altro della distanza che Nietzsche deve, ora, assumere nei confronti della Nascita della tragedia. Sempre nella Gaia scienza, nel suo primo aforisma, là dove si annuncia un "avvenire per il riso", Nietzsche aggiunge: "Per il momento le cose stanno ben diversamente, per il momento la commedia dell'esistenza non è ancora 'divenuta cosciente' di se stessa - per il momento continua ad esserci il tempo della tragedia, il tempo delle morali e delle religioni" 121 • Solo con la fine di questa tragedia, che non permette di ridere della caduta dell'eroe, che non permette, dunque, di ridere della conoscenza che questa caduta produce, può aver inizio il tempo della vera tragedia, il tempo della 'gaia scienzà. Se qui Nietzsche ha già preso distanza nei confronti della Geburt, il distacco sarà reso definitivo dal Tentativo di autocritica, apparso nel

120

F. NIETZSCHE, La gaia scienza. Idilli di Messina e frammenti postumi 1881-1882, tr. it. di F. Masini e M .. Montinari, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. condotta sul testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1991, voi. V, t. II, p. 382. 121 Ivi, p. 38.

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1887 come sua nuova prefazione. Il problema centrale di Nascita della tragedia è il 'pessimismo'. Questo è il nome, incerto e confuso balbettio in cui si cela il 'nichilismo europeo', sotto il quale il mondo moderno dà la prima formulazione, dopo la crisi del sistema dialettico, della propria perdita di senso. Già in Schopenhauer, tuttavia, il tentativo non si riduce soltanto a quello di una semplice registrazione del pessimismo, ma cerca di indicare la via del suo superamento. Questo, come già sappiamo, avviene nella forma dell'ascesi, attraverso i gradini preliminari della sospensione artistica della volontà di vivere e della compassione quale regno della morale. Ma l'intemporalità cui l'ascesi tenta di pervenire, sottraendo peso alla forza del divenire della volontà, paga la sua assenza di contenuto con il ritrovarsi necessariamente affetta da quel mondo dal quale voleva fuggire. Lascesi non mette a freno il ritornare del tempo: nella sua ansia di liberarsene è costretta a subirlo. La seconda 'inattuale' sulla storia, scritta un anno dopo la Geburt, già tenta di rispondere a questo problema. Contro la scienza storica, l' Historismus, che trasforma il presente nel puro effetto del passato, unificando le dimensioni temporali nella catena causale - il passato torna, perché esso torna sempre, ma in modo necessitante, senza cioè essere fatto proprio dalla decisione -, il sapere che procede dalla considerazione monumentale, antiquaria e critica della storia instaura fra passato e presente un rapporto non di causalità, ma di ripresa e di dissoluzione consapevole. Sebbene queste tre forme di comprensione storica possano anch'esse, se praticate in modo epigonale, risultare dannose, tuttavia solo esse permettono un rapporto vivente fra il pre- · sente e il passato. Se la storia critica produce quel necessario oblio, preliminare ad ogni ulteriore nuova creazione, la storia monumentale e la storia antiquaria, offrendo rispettivamente il modello e l'origine, presentifìcano il passato, senza trasformarlo nella gabbia d'acciaio del presente. Senza continuità storica la vita stessa sarebbe priva della possibilità di progettare il futuro. Il superamento del pessimismo ha bisogno di rifarsi ad un'origine sempre presente e ad un modello la cui ripresa non si traduca in mera imitazione: questo pericolo è scongiurato dall'esercizio distruttivo della storia critica. Lorigine ed il modello sono i Greci. Ma ciò che ora viene richiesto ai Greci non è più d'illuminare con l'idea della polis e della 104

"bella eticità" il cammino dei moderni; sulle orme di Burckhardt ciò che conta è il loro rapporto col pessimismo. L'interrogativo a cui i Greci devono rispondere è il seguente: "Il pessimismo è necessariamente un segno di declino, di decadenza, di fallimento, di istinti stanchi e indeboliti? - come lo fu per gli Indiani, come secondo ogni apparenza, lo è per noi, uomini 'moderni' ed europei? C'è un pessimismo della forza? Un'inclinazione intellettuale per ciò che nell'esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, d'una salute straripante, di una pienezza dell'esistenza? C'è forse un soffrire della stessa sovrabbondanza? Una sperimentante prodezza dello sguardo più acuto, che anela al terribile, come al nemico, al degno nemico su cui può provare la sua forza? Da cui vuole apprendere che cosa sia la 'paura'? Che cosa significa, proprio presso i Greci dell'epoca migliore, più forte, più valorosa, il mito tragico? E l'enorme fenomeno del dionisismo? Che cosa significa la tragedia, nata da esso" 122 ? Certo questo passo nietzschiano risente dello sguardo critico che ora viene lanciato sulla Geburt; tuttavia il dionisismo, "il pessimismo della forzà', il "soffrire della stessa sovrabbondanzà', è proprio ciò che, per Nietzsche, costituisce l'aspetto non caduco della sua opera giovanile. Ciò che di superato vi è nella Geburt non è la scoperta del fenomeno 'Dioniso' presso i Greci, ma ciò che, proveniente da Schopenhaner, conserva ancora il sapore della fuga e della rassegnazione di fronte al terribile. Nella stesura primitiva del Versuch Nietzsche scrive: "Una questione fondamentale è il rapporto del greco con il dolore, il suo grado di sensibilità, e lo stabilire se il suo desiderio di bellezza sia derivato da un desiderio di ingannare se stesso nell'illusione, da un'avversione per la 'verità' e la 'realtà'. Allora lo credevo" 123 • Nascita della tragedia pensa ancora il superamento del pessimismo secondo la direzione schopenaneriana dell' eternizzazione del divenire, eternizzazione che avviene attraverso l'arte, nel regno della "bella parvenzà', sotto il dominio di Apollo. Nonostante il mutamento di segno che l'Apollineo subisce nel passaggio dall'epopea alla tra-

122

tr. it di S. t. I, p. 4. 123

F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia. Considerazioni inattuali, I-III, Giametta e M. Montinari, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., voi. III, Ivi, p. 506.

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gedia, esso conserva, in entrambi i casi, il carattere rassegnato e sconfitto nella lotta col pessimismo. Nella sfera epica, là dove si tratta di dare forma al caos del divenire e del molteplice, l'Apollineo realizza la propria essenza senza contrasti. Il mondo epico è interamente un mondo sognato, puro prodotto della potenza dell'arte in grado di creare, contro la dura e terribile realtà dell'esistenza, un universo idealizzato in cui l'uomo possa appaesarsi. Ma la tragedia non è il puro dominio di Apollo; il dio della forma e dell'individuazione sottratta al caos ed eternizzata nell'arte deve subire l'irruzione nel suo territorio dell'ebbro Dioniso, il suo fraterno nemico. Ora il vero ed unico protagonista della tragedia è Dioniso, ed Apollo non rappresenta più la forma immanente che ordina il divenire, ma il garante della speranza del ritorno del dio sotterraneo: "Ma in verità quell'eroe è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che sperimenta in sé i dolori dell'individuazione, e di cui mirabili miti narrano come da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi in questo stato venisse venerato come Zagreus. Con ciò si significa che questo sbranamento, la vera e propria sofferenza dionisiaca, è come una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco, e che quindi dobbiamo considerare lo stato d'individuazione come la fonte e la causa prima di ogni sofferenza, come qualcosa in sé detestabile. Dal sorriso di questo Dioniso sono nati gli dei Olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In quell'esistenza in quanto dio smembrato Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele e selvaggio e di un dominatore mite e dolce" 124 . Il divenire ha ora il suo fondamento: Dioniso smembrato. È lo smembramento di Dioniso a dare origine agli dei e agli uomini, dal suo sorriso e dalle sue lacrime. Dalla sofferenza dionisiaca scaturiscono la separatezza e l'individuazione, l'incarnazione del male. Ma ora non è più sufficiente, come nell'epopea, che il sognante Apollo salvi questa 'detestabile' separatezza nell'individuazione eternizzante dell' arte. Il suo superamento è compito, anch'esso, di Dioniso. Apollo ne conserva in vita la speranza: "Ma la speranza degli epopti si appuntava su una rinascita di Dioniso, che noi dobbiamo ora presentire come la fine dell'individuazione: per la venuta di questo terzo Dioniso ri-

124

Ivi, p. 72.

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suonava il fremente canto di giubilo degli epopti. E solo in questa speranza appare un raggio di gioia sul volto del mondo dilaniato, smembrato in individui" 125 • La "dottrina Misterica della tragedia" consiste, dunque, secondo la Geburt in questo: "La conoscenza fondamentale di tutto ciò che esiste, la concezione dell'individuazione come causa prima del male, l'arte come lieta speranza che il dominio dell'individuazione possa essere spezzato, come presentimento di una ripristinata unità" 126 • Se questa lettura della tragedia giustifica che essa non rappresenti "la liberazione apollinea nell'illusione, ma al contrario lo spezzarsi dell'individuo e il suo unificarsi con l'essere originario", e che quindi il dramma sia la "rappresentazione apollinea sensibile di conoscenze e moti dionisiaci", separato dunque dall'epica "come da un immenso abisso" 127 , tuttavia che Apollo, cioè l'arte, come lieta speranza, prenda il posto della desiderata unità e si limiti, consolatoriamente, a presagirne l'avvento futuro, significa ancora una volta, per Nietzsche, aver mancato il vero compito, il lucido e radicale riconoscimento del movimento vitale che va sotto il nome di Dioniso come di quella realtà che va fatta propria senza malinconia né desiderio di fuga; il non esser riuscito a vedere che la sofferenza dionisiaca è la sofferenza gioiosa, il "soffrire della stessa sovrabbondanzà'. Nonostante, dunque, la centralità di Dioniso, la tragedia, così come viene interpretata nella Geburt, non sembra poter sfuggire alla critica; nonostante tutto, Dioniso non è stato compreso fino in fondo. La presenza di Schopenhauer e di Wagner ha offuscato anche ciò che di decisivo si affacciava nelle sue pagine: "Peccato, scrive Nietzsche, che allora io non abbia avuto il coraggio di formarmi sotto ogni riguardo un mio proprio linguaggio per intuizioni così mie, e peccato che abbia cercato in formule schopenhaueriane cose cui non poteva aver corrisposto nessuna esperienza diretta entro l'anima di Schopenhaner: lo si ascolti parlare della tragedia greca, e si noti quanto falsa e quanto lontana dovesse apparire ad un discepolo di Dioniso una siffatta dottrina morale di sconsolata rassegnazione" 128 • Fin quando si

125 126 127 128

Ibidem. Ivi, pp. 72-73. Ivi, p. 61. Ivi, pp. 506-507.

107

resta imbrigliati nella prospettiva di Schopenhauer, l'illusione di una possibile ricomposizione, per quanto negativa, del mondo lacerato, impedisce di guardare lucidamente la realtà del mondo moderno e di operare in esso; impedisce, cioè, di cogliere nello stesso smembramento un significato positivo nel doppio senso di essere, da un lato, compiuta dissoluzione di una tradizione, che Nietzsche chiamerà "cristianesimo", la quale svalorizzando la vita ha finito per svalorizzare se stessa, e dall'altro di essere anche il punto di abbrivio, non illusorio, del suo reale superamento. È nella critica della Geburt che il 'pessimismo' si traduce in nichilismo, la decadence in 'trasvalutazione'. Ciò che resta fermo nella Geburt è, nell'epopea come nella tragedia e nonostante l'abisso che le separa, che l'individuazione sia il male, che essa debba essere abolita attraverso o il sogno apollineo o la rinascita di Dioniso. Sebbene Dioniso stesso sia, in quanto smembrato, il creatore dell'illusione - dal suo sorriso gli dei, dalle sue lacrime gli uomini - questa illusione deve, schopenhauerianamente, essere superata; nonostante Dioniso, come la stessa Geburt è costretta a riconoscere, sia ad ogni istante il liberatore di se stesso nella "visione estasiante" e nella "gioiosa illusione", tuttavia questi momenti apollinei, paradossalmente già iscritti in Dioniso, sono ancora avvertiti come male. Non è sufficiente quindi la comprensione che "ciò che veramente è, l'uno originario, in quanto eternamente soffre ed è pieno di contraddizioni, ha nello stesso tem~ po bisogno, per liberarsi continuamente, della visione estasiante, della gioiosa illusione", questa illusione resta per noi il negativo: "Completamente dominati da essa e di essa consistenti, siamo costretti a sentirla come ciò che veramente non è, ossia come un continuo divenire nel tempo, nello spazio e nella casualità, in altre parole come realtà empirica" 129 • Questo mondo illusorio non è altro, come si vede, che il mondo come rappresentazione di Schopenhauer, ma se questo è vero, Dioniso non può che coincidere con la volontà di vivere, altro nome dell'uno originario. Non fa meraviglia allora la conclusione di Nietzsche: "Se concepiamo la nostra esistenza empirica, come quella del mondo

129

Ivi, p. 35.

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in genere, come una rappresentazione dell'uno originario, prodotta in ogni istante, allora il sogno (l'arte) dovrà essere da noi considerato come l'illusione dell'illusione, quindi come una soddisfazione ancora maggiore della brama originaria d'illusione", ed Apollo ci verrà incontro "come la divinizzazione del principium individuationis in cui soltanto si adempie il fine eternamente raggiunto dell'uno originario, la sua liberazione attraverso l'illusione: con gesti sublimi egli ci mostra come tutto il mondo dell'affanno sia necessario, perché da esso l'individuo possa venir spinto alla creazione della visione liberatric~ e poi sprofondato nella contemplazione di essa, possa sedere tranquillo nella sua barca oscillante, in mezzo al mare" 130 • Sebbene ciò riguardi propriamente l'epica omerica, tuttavia, indipendentemente dal mutamento di funzione che Apollo subisce nella sfera tragica, l'illusione dell'illusione, l'arte come liberazione dal male dell'individuazione, resta il principio dell'intera Geburt. Nello stesso tempo, però, una contraddizione l'attraversa: la presenza di Dioniso nella tragedia non solo sottrae forza ad Apollo, ma mostra di far resistenza alla cornice schopenhaneriana in cui vorrebbe ritrovarsi. È questa contraddizione che la critica lavora. Non solo perché ciò che resta della speranza di ricomposizione dell'infranto appartiene soltanto a Dioniso, ma, soprattutto, perché ciò che comincia ad emergere è il carattere illusorio di questa stessa speranza. Ciò che in modo ancora indistinto e aurorale si mostra nella Geburt è che la verità di Dioniso sta nell'essere smembrato, che, in altri termini, l'individuazione lungi dall'essere il male è, al contrario, la realizzazione gioiosa della forza straripante del Dio. La creazione di un mondo, come opera divina, è già liberazione: liberazione dalla pienezza e dalla sovrabbondanza, che ora, se inadempiute, trapassano nel dolore soffocante e nello spirito di vendetta. [illusione non è dunque il male, che trova la propria risoluzione o in quell'altra illusione, l'arte, che le sottrae il suo carattere disperante, o nel ritorno di Dioniso, atteso come ricomposizione ed unità. [illusione cessa di essere la vuota apparenza a cui sempre rimanda il regno della verità, per divenire la sostanza stessa di cui è fatto il mondo.

130

Ivi, pp. 35-36.

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La dissoluzione del mondo vero, reso alla sua natura di pura parola, di mitico racconto, non conduce alla semplice rivalutazione di quello apparente, suo fratello gemello, speculare riflesso, ma alla vanificazione di entrambi. Ciò che resta è il processo della trasformazione incessante, della creazione o dissoluzione dei mondi, che si accompagna alla consapevolezza che ogni creazione richiede sofferenza, non quella che proviene dal peccato, ma quella che si origina dalla pienezza e dal!' eccesso. Ciò giustifica infine il mutamento di statuto dell'arte. Essa perde la sua valenza 'esteticà, cessa di identificarsi con Apollo, con il regno della 'bella parvenza' per riconquistare il suo originario significato: quello di un 'fare', un creare menzognero, ma non per questo 'falso'. La nuova arte tragica è dunque, "questa creazione dell'illusione, dove 'apparenzà significa, però, in questo caso, ancora una volta la realtà, nell'ambito, però, di una scelta, di un rafforzamento, di una correzione. I.:artista tragico non è un pessimista - egli dice precisamente sì anche a tutto quanto è problematico e orrido, egli è dionisiaco'131 • Nell'ormai compiuta assenza di modelli che va sotto il nome della 'morte di Dio', il mondo si svela come la parodica parata dei simulacri, e l'arte, o la gaia scienza, che qui fanno tutt'uno, come la loro paradossale origine. Per questo, nella Versuch, Nietzsche può scrivere: "In effetti, tutto il libro, dietro ad ogni accadere, vede soltanto un senso e un senso recondito d'artista, - un 'dio', se si vuole, ma certo solo un Dio-artista, assolutamente noncurante e immorale, che nel costruire come nel distruggere, nel bene come nel male, vuole sperimentare un uguale piacere e dispotismo, e che, creando mondi, si libera della oppressione della pienezza e della sovrabbondanza, della sofferenza dei contrasti in lui compressi. Il mondo è in ogni momento la raggiunta liberazione di Dio, come la visione eternamente cangiante, eternamente nuova dell'essere più sofferente, più contrastato, più ricco di contraddizioni che sa liberarsi solo nell'illusione" 132 •

131

F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, tr. it. di F. Masini e R. Calasso in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., voi. VI, t. III, p. 74. 132 F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia. Considerazioni inattuali, I-III, cit., p. 9.

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,Al Dio-morale, di cui il folle nella Gaia scienza annuncia la morte già da tempo avvenuta ma non ancora riconosciuta, si sostituisce il Dio artista. Questi non è più Apollo, ma Dioniso; e Dioniso stesso, che è solo in quanto smembrato, trapassa nella pluralità divina. Non è forse dal suo sorriso che provengono gli dei olimpici e dunque lo stesso Apollo? E tuttavia Dioniso non per questo è il loro creatore. Solo il Dio-morale può pretendere di essere l'unico Dio, ma il Dio artista è egli stesso la pluralità cosl degli dei come dei mondi. Questa pluralità di mondi, prodotta dall'eccesso e da quel dolore dell'annientamento, che accolto fino in fondo trapassa in gioia, è ciò che il tragico ogni volta ripete. Solo a partire dal Dio, da Dioniso, un mondo viene all'esistenza. La creazione di un mondo è l'esito della vera tragedia, l'autentica risposta al problema del pessimismo. Essa ha il suo tempo: il tempo del ritorno. Crepuscolo degli idoli riprende e ratifica ciò che si era annunciato nella Gaia scienza, la coappartenenza del tragico e dell'eterno ritorno: "Il dire di sl alla vita persino nei suoi problemi più oscuri e più aspri, la volontà di vivere rallegrantesi, nel sacrificio dei suoi tipi più elevati, della propria inesauribilità, - questo io ho chiamato dionisiaco, questo io divinai come il ponte verso la psicologia del poeta tragico. Non per affrancarsi dal terrore e dalla compassione, non per purificarsi da una pericolosa passione mediante un veemente sgravarsi della medesima come pensava Aristotele -: ma per essere noi stessi, al di là del terrore e della compassione, l'eterno piacere del divenire - quel piacere che comprende in sé anche il piacere dell'annientamento. E così io torno a toccare il punto da cui una volta presi le mosse. La Nascita della tragedia è stata la mia prima trasvalutazione di tutti i valori: cosl torno a collocarmi ancora una volta sul terreno da cui cresce il mio valore, il mio potere - io, l'ultimo discepolo del maestro Dioniso, - io, il maestro dell'eterno ritorno" 133 • Impossibile scindere dionisismo ed eterno ritorno: contro la ri-

133

F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., pp. 160-161. Sull"eterno ritorno' e la decisione vedi G. VATTIMO, ll soggetto e la maschera, Bompiani, Milano 1974; sul carattere 'selettivo' dell'eterno ritorno cfr. G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, tr. ir. di F. Polidori, Einaudi, Torino 2002.

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duzione della vita e del divenire all'eterno presente dell'arte e del bene morale, entrambi fondati, in ultima istanza, su quell'ente supremo, segnato dall'identità e sempre ritornante sotto nomi diversi nella storia del nichilismo, l'avvento della vera tragedia rimanda ad un'altra eternità non più avvolta e fasciata dal primato della presenza. l:uguale che torna non coincide con l'identico, poiché mentre quest'ultimo, in quanto presenza, si contrappone alla differenza come al suo altro, l'eguale, che non appartiene all'universo della logica discorsiva, accenna al ritornare di ciò che è differente. Ma la stessa insistenza sul primato della differenza, se intesa ancora come primato della differenza logica, ritradurrebbe di nuovo, surrettiziamente, l'uguale nell'identico. Anche la differenza, nel discorso di Nietzsche, perde la sua con~otazione logica e si traduce nella 'diversità', nello 'scarto' e nella 'distanzà. Ciò che ritorna è, dunque, lo scarto fra annientamento e creazione, fra il dolore e la gioia, scarto necessario alla vita e alla sua realizzazione. Non sarà possibile superuomo se non sulla base della distanza che lo separerà dal 'piccolo uomo', ma proprio per questo anche il 'piccolo uomo' deve ritornare. Non è, d'altronde, questa la ragione per cui il pensiero dell'eterno ritorno è dichiarato "il peso più grande", il "pensiero abissale"? La ragione per cui Zarathustra stesso, il maestro dell'eterno ritorno, soccombe più volte al suo stesso pensiero, rifiutandosi di accettarlo? Poiché il pensiero dell'eterno ritorno gira intorno al problema del passato e della sua possibile redenzione, il perno di questo pensiero abissale sta nell'assumerlo come quella dimensione necessaria che può divenire soffocante di ogni possibile futuro. La risposta del pessimismo consiste nel suo rifiuto, non discostandosi in questo, anche se ciò può apparire paradossale, dall'atteggiamento dell'ideologia storicista. In entrambi i casi il passato è il negativo che va tolto, o superandolo nell'eterno presente dell'ascesi o trasfigurandolo nel futuro, nel segno di una lineare transcrescenza: comunque esso resta disatteso nella sua realtà di ciò che sempre' si presentifica, vanificando gli sforzi del suo superamento. Il pensiero dell'eterno ritorno assume in primo luogo il ritornare del passato, così come è stato, nel presente; il suo primo aspetto è, per così dire, di natura negativa, poiché accetta il nichilismo come l'unico terreno che costituisce quel presente che sono i tempi moderni; e se nichilismo non è altro che compimento di una storia, quella occidentale, nichili112

sta già nel suo sorgere, esso è presentificazione del passato storico dell'Europa. Il nichilismo non è ciò che ci sta ormai alle spalle, ma l' orizzonte del nostro presente. Il pessimismo schopenhaueriano è, al contrario, il tentativo consolatorio, e illusorio, di dichiarare il nichilismo un semplice passato. Contemporaneamente il pensiero dell'eterno ritorno è autosuperamento del nichilismo, perché nell'attimo della decisione, che è decisione per questo ritorno, si instaura lo scarto, la differenza non logica, del nichilismo stesso, l'esito tragico che è creazione di un mondo. Tuttavia questo mondo non è il mondo "vero", altro radicale del nichilismo, ma, fedele al dettato dell'arte come 'menzogna vitale', è creazione parodica. Lesito tragico è la parodia del nichilismo: esso svela nello stesso tempo il nichilismo come a sua volta puro mondo parodico, esso stesso creazione menzognera. Sottraendogli così il carattere di 'destino', ciò che il pessimismo era impotente a compiere, il tragico dionisiaco precipita il nichilismo nell'autentico passato. Che il tragico dionisiaco sia la risposta non 'pessimistà al problema del nichilismo, in quanto realtà dei tempi moderni, è possibile evincerlo ulteriormente da alcuni frammenti del 1887-1888, che avrebbero dovuto far parte di quel libro mai scritto che è La volontà di potenza. Nel frammento, che porta come titolo Principi e considerazioni preliminari, si legge: "1 ° Per la storia del nichilismo europeo. Come conseguenza necessaria degli ideali finora coltivati: assoluta mancanza di valore. 2° La teoria dell'eterno ritorno: come suo compimento, come crisi. 3° Tutto questo sviluppo della filosofia come storia dello sviluppo della volontà di verità: quest'ultima mette in questione se stessa. I sentimenti di valore sociali gonfiati in principi di valore assoluto. 4° Il problema: come volontà di potenza. Il temporaneo predominio dei sentimenti di valore sociali comprensibile e utile: si tratta di costruire delle fondamenta su cui divenga infine possibile una specie più forte. Criterio della forza: riuscire a vivere sotto il dominio dei valori contrari e volerli sempre di nuovo. Stato e società come fondamenta: punto di vista di un'economia mondiale, educazione come allevamento" 134 • Il

134

F. NIETZSCHE, Frammenti postumi I 887-1888, tr. it. di S. Giametta, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., voi. VIII, t. II, p. 3.

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terreno del nichilismo, come orizzonte dei tempi moderni, è ciò che non va abbandonato: la pretesa del suo semplice superamento si tramuterebbe all'istante in utopia. Nietzsche tiene fermo alla determinatezza storica in cui si trova situato e rifiuta, in primo luogo, qualunque discorso sul futuro che si presenti come il semplicemente 'altro' dal nichilismo. Ciò spiega, al di là della lettura nazista, la utilità relativa dei valori sociali, che in sé sono nient'altro che la traduzione laica della morale cristiana, e il riferimento allo stato, alla società e all'economia mondiale come fondamenta per l'allevamento di una 'specie più forte'. Si lavora con ciò che il nichilismo stesso, nel sub compiersi nei tempi moderni, ha prodotto. l:appello al futuro, sia in senso escatologico, sia in quello di una transcrescenza lineare, risulterebbe solo illusorio. Di più esso confermerebbe il dominio del nichilismo, proprio mentre ne vorrebbe affermare l'avvenuta dissoluzione. Al contrario ciò che impedisce al nichilismo di divenire destino è che il suo compimento sia insieme la sua crisi: questa crisi è l'eterno ritorno. Ma crisi non è ciò che viene prodotto a partire dall'esterno del nichilismo, non è giudizio di valore che pretende poter dichiarare la sua scomparsa. Crisi del nichilismo è introduzione dello scarto e della differenza all'interno stesso del nichilismo: ripetizione del nichilismo. Il cuore del pensiero di Nietzsche è esattamente questo: decidersi per la ripetizione, per il ritorno, è il contrario della rassegnazione impotente, il contrario del pessimismo; questo gesto richiede il massimo della forza, è il criterio della forza: "riuscire a vivere sotto il dominio dei valori contrari e volerli sempre di nuovo". Questo è dunque il discrimine fra la forza e la debolezza: debole è colui che non è capace di dire sì al ritorno dei "valori contrari" e rispetto ad essi instaurare la differenza, forte chi si decide per la ripetizione. Il gesto della decisione è iscritto all'interno dell'eterno ritorno in quanto crisi del nichilismo. Decisione e crisi, infatti, dicono la stessa cosa: entrambi scardinano separando: la decisione il tempo lineare-circolare, la crisi il nichilismo come semplice destino. Ora la tragedia per Nietzsche non testimoniava d'altro che di questo dominio della forza che accettava il presentifìcarsi del passato, del 'terribile', perché attraverso esso si rendeva possibile la creazione di un mondo. È per questo che il tempo del compimento del nichilismo come crisi è anche il tempo tragico dell'Europa. Un altro frammento

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dell'autunno 1887, recita: "Sviluppo del pessimismo in nichilismo. Snaturamento dei valori. Scolastica dei valori. I valori, staccati, idealistici, invece di dominare e guidare il fare, si volgono in una condanna contro il fare. Antitesi introdotta in luogo dei gradi e delle gerarchie naturali. Odio per la gerarchia. Le antitesi sono conformi ad un' epoca plebea, perché più facilmente comprensibili. Il mondo rifiutato, di fronte ad un mondo costruito ad arte, 'vero, pregevole'. Infine si scopre con che materiale si è costruito il 'mondo vero', e allora non resta che quello rifiutato e si mette anche questa suprema delusione in conto della sua condannabilità. E con ciò siamo giunti al nichilismo: si sono conservati i valori che condannano, e nient'altro! Sorge qui il problema della forza e della debolezza: l) i deboli vi si spezzano contro; 2) i più forti distruggono ciò che non si spezza; 3) i fortissimi superano i valori che condannano. Tutto questo insieme costituisce i'ETÀ TRAGICA"l35_

Il nichilismo è in primo luogo dominio dei valori contrari alla vita e da questo punto di vista il pessimismo schopenhaueriano ne è, in prima istanza, la fedele registrazione. Tuttavia pessimismo non è nichilismo, poiché quest'ultimo è anche la sua crisi; nel nichilismo stesso s'instaura lo scarto e ritorna la gerarchia: questo è il problema della forza e della debolezza. La tripartizione fra deboli, più forti e fortissimi, che, è necessario notarlo, tutta insieme costituisce l'età tragica, testimonia dell'esistenza, fin dentro il nichilismo, della differenza. Tragico è vedere il ritorno di ciò che condanna, perché solo così è possibile superarlo. Nei termini del tragico antico, a cui più di chiunque altro, dopo la Geburt, Nietzsche si avvicina, decidersi da parte dell'eroe per il passato mitico significa dissolverlo. Un altro frammento sempre dell'autunno dell"87, chiamando in causa ancora Dioniso, ribadisce questa costellazione fra nichilismo, eterno ritorno e tragedia; il frammento porta come titolo "La mia nuova via verso il sì" e dice: "La mia nuova lconcezione del pessimismo consiste nella volontaria esplorazione dei lati terribili e problematici dell'esistenza, con questo mi divennero chiare le figure affini del passato. Quanta verità sopporta e osa uno spirito? Problema della sua for-

135

Ivi, pp. 53-54.

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za. Un tal pessimismo potrebbe sboccare in quella forma di affermazione dionisiaca del mondo così com'è: fino al desiderio del suo assoluto ritorno e della sua eternità: con ciò sarebbe posto un nuovo ideale di filosofia e sensibilità. Intendere i lati dell'esistenza finora negati non solo come necessari, ma anche come desiderabili, e non solo desiderabili in rapporto ai lati affermati sinora (per esempio come loro complemento e condizioni preliminari), ma anche per se stessi, come i lati dell'esistenza più possenti, più fecondi, più veri, in cui la volontà di questa si esprime più chiaramente. Valutare i soli lati dell'esistenza finora affermati: isolare ciò che in tali casi propriamente dice di sì (l'istinto dei sofferenti anzitutto, l'istinto del gregge d'altra parte, e quel terzo istinto: l'istinto dei più contro l'eccezione). Concezione di un tipo superiore d'uomo come 'immorale' secondo i precedenti concetti: gli appigli in tal senso nella storia (gli dei pagani, gli ideali del rinascimento)" 136. Questo frammento è decisivo, ci sembra, per la comprensione del tragico e dell'eterno ritorno. Non si tratta più solo di riconoscere l'esistenza e la necessità dei valori che condannano la vita, ma di volerli come desiderabili in se stessi, in quel loro aspetto nel quale anch'essi testimoniano della volontà di potenza. Anche gli istinti cosiddetti reattivi sono modi dell'affermazione della vita, anche se di un'affermazione che limita se stessa alla sola conservazione dell' esistenza. I tipi degli uomini superiori sono, per converso, quelli per i quali la vera ed autentica affermazione passa attraverso la stessa perdita: è in questo senso che la volontà, pur di volere, vuole anche il nulla. Ma gli stessi uomini superiori sono possibili solo a partire dall' esi-

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Ivi, pp. 106-107. Sul pensiero di Nietzsche come compimento del nichilismo vedi il classico M. HEIDEGGER, Nietzsche, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, ma anche Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, tr. it. di G. Vattimo, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, La sentenza di Nietzsche: 'Dio è morto; tr. it. di P. Chiodi, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, e Che cosa significa pensare?, tr. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, SugarCo, Milano 1978. Ma per una lettura di Nietzsche come 'superatore' del nichilismo vedi, oltre il già citato Deleuze, P. KLossOWSKI, Nietzsche e il circolo vizioso, tr. it. di E. Turolla, Adelphi, Milano 1981; sempre di Klossowski sul tema della "parodià' cfr. Nietzsche, il politeismo e la parodia, tr. it. di A. Serra in "Il Verri", n. 39/40, pp. 105-133; e ancora G. BATAILLE, Nietzsche. Il culmine e il possibile, tr. it. di A. Zanzotto, Rizzali, Milano 1970.

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stenza dei gradi inferiori della volontà. È necessaria quest'unica omogeneità fra il passato e il presente, perché si possa volere il ritorno. Ciò che torna, infatti, deve appartenere alla decisione tragica, esser fatto della sua stessa sostanza, perché quest'ultima possa far proprio e così dissolvere ciò che le era originariamente estraneo. Trasformare il "così fu" in "così volli che fossi", gesto in cui consiste la redenzione del passato, discende dal fatto che il "cosi fu" non è altro che l'ordito della volontà stessa trasformato nel semplice passato. L'operare proprio della decisione tragica agisce in duplice modo: ridonando al passato il suo provenire dalla volontà e mutandone nello stesso tempo il segno. Il movimento che dal presente va verso il passato, assumendone il ritorno, consiste appunto nel fatto che il passato viene trasvalutato; ma questa trasvalutazione non rimanda ad un giudicare che verrebbe ad esercitarsi su di un oggetto esterno all'atto della valutazione, né tantomeno ad un mutare effettivo del corso di ciò che è stato. Non è tanto in gioco la correzione della necessità causale e del tempo omogeneo e vuoto ottenuta con la reintroduzione nel divenire temporale della categoria della possibilità, quanto il fatto che il passato, restando sempre "ciò che è stato", sia tuttavia riconosciuto come il risultato della volontà, il prodotto della valutazione, ciò che solo rende possibile il volerlo di nuovo e il trasvalutarlo. La volontà può volere soltanto se stessa e lottare soltanto con se stessa. Questa è la chiave di volta della dottrina dell'eterno ritorno e di ciò di cui è chiamata a rispondere: la redenzione del passato. Il problema della rendenzione consiste, infatti, nient'altro che in questo: appropriarsi del passato sradicandolo dal "cosi fu". È il "cosi fu" che si presenta come il limite e l'ostacolo apparentemente insormontabile all'operare della volontà, che rischia perciò di doversi riconoscere impotente di fronte a "ciò che è già fatto", allo "spettacolo del passato". L'impotenza della volontà si trasforma allora in "risentimento" e in "spirito di vendettà'. Risentimento e vendetta contro il passato che pesa come un macigno sulla vita presente. Anche quando la volontà si erge rabbiosamente contro il passato, essa non per questo cessa di essere impotente, poiché il suo nemico non si lascia distruggere. Ciò rimanda all'idea del peccato: peccato, infatti, non è nient'altro che il passato trasformato nel "cosi fu". Il presente, come mero effetto del passato, è la punizione che da esso discende. La struttura del tem-

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po, che impedisce alla volontà di volere a ritroso, è, dunque, quella per cui il dominio del passato si estende nel presente nella sequenza della colpa e del castigo. La concezione tradizionale del tempo si rivela paradossale: mentre interpreta il passato come ciò che è irrimediabilmente accaduto una volta, finisce per ritrovarlo intatto e sovrano nel presente. I.:eterno presente non è null'altro che il passato elevato ad eternità e mistificato nella presenza. Di contro l'eterno ritorno, discorso all'apparenza caotico sul tempo, toglie la paradossalità della sua interpretazione moderna. È decisivo, infatti, che l'impotenza della volontà a volere a ritroso non sia risolta attraverso l'appello ad un rafforzamento della volontà stessa, fermo restando il "così fu": ciò accrescerebbe soltanto lo spirito di vendetta. Il rovello della volontà riguarda piuttosto la domanda se "il tempo non possa camminare a ritroso" 137 • Il volere a ritroso della volontà è possibile solo se il tempo stesso si dà nella forma del ritorno. Solo se il passato torna, la volontà, volgendosi indietro, può incontrarlo e, come un giocatore, batterlo d' anticipo prima che esso invada il presente. I.:eterno ritorno, proprio perché accede al continuo presentificarsi del passato, ne decide il dissolvimento, là dove, come abbiamo visto, la concezione del passato, come di ciò che essendo accaduto è radicalmente finito, ne consacra al contrario il dominio. La redenzione del passato, che consiste nella possibilità da parte della volontà di ritrovarsi, trasvalutandolo, nel "così fu", è possibile solo a patto che il passato, e con esso il tempo, sia un ritorno. Lo scontro fra Zarathustra e il nano verte tutto su questo; la circolarità temporale di cui parla quest'ultimo non è l'eterno ritorno cui Zarathustra accenna. Per il nano la non contradditorietà delle dimensioni temporali è dovuta, ancora una volta, alla riduzione del divenire al primato della presenza, che abolisce 1a decisione. Il tempo di cui parla, il tempo circolare e non contraddittorio, non diverge dal tempo lineare infinito ed irreversibile di cui è solo l'altro aspetto, essendo entrambi dominati dalla presenza o, che è lo stesso, dal passato reso eterno.

137

Questa e le due precedenti citazioni sono tratte da F. NIETZSCHE, Cosi parlò Zarathustra, tr. it. di M. Montinari, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., voi. Vl, t. I, pp. 170-171.

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Nell'immagine usata da Zarathustra delle due vie infinite ed eterne e della porta carraia che coincide con l'attimo, al contrario, la non contraddittorietà discende dal fatto che, se è vero che passato e futuro restano separati, perché non trapassano l'uno nell'altro attraverso il presente, tuttavia ognuno di essi, in quanto eternità non presente, torna su se stesso. Cosi il passato, tornando, si muta nel suo futuro e viene accolto in questo modo come ciò che sempre si presentifica, mentre il futuro, a sua volta, si volge verso il passato. Ciò che impedisce che le due eternità si richiudano nell'eterno presente è l'attimo che, mentre costituisce il punto verso cui il passato ed il futuro convergono, li conserva nella loro differenza. Il morso al serpente, che è il fulcro della visione, accenna alla decisione che, assumendo il tempo come doppia eternità ritornante, impedisce la sua ricaduta nella circolarità vuota e nella linearità irreversibile. Passato e futuro non si contraddicono non perché siano ricondotti all'unica presenza, ma perché ciascuno di essi, in quanto ritorno, passa nel suo altro; l'attimo che li pone in relazione, tuttavia, non li annulla nella loro differenza, ma la riapre ogni volta. Ciò significa: non credere di avere a che fare con un passato morto, non credere che il futuro sia oggetto del semplice desiderio. Il futuro, infatti, come risultato della decisione, è lo scarto che questa instaura rispetto al passato; ma, allora, futuro non è altro che passato che torna trasvalutato dalla decisione. Il futuro autentico è il passato autentico, quello di cui la volontà si è appropriata, divenendo ciò che già da sempre era. Allora il pastore - "un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva. Mai prima al mondo aveva riso un uomo come lui rise!" 138 -, che nella decisione che si compie nell'attimo ha tolto il dominio del passato, coincide con Dioniso quale dio della vera tragedia, che, dicendo si al terribile, crea un mondo. Il suo riso testimonia non la rassegnazione, ma la forza con cui, accettando i valori contrari, egli li trasvaluta e trasforma cosi i tempi moderni, come compimento del nichilismo, in un mondo abitabile dalla gioia. La creazione di un mondo parodico, come esito tragico, significa che solo accettando fino in fondo la realtà del mondo moderno questo mondo è trasformabile e possiede ancora un fu-

138

Ivi, p. 194.

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turo. Ma questo futuro non è più la "lieta speranzà', ma l'immanente signoria del Dioniso smembrato, "demone crudele e selvaggio", "dominatore mite e dolce". Ogni mondo ha i suoi demoni, ma per questo ha anche i suoi dei. Che Dioniso sia demone e dio vuol dire che egli è passato e futuro di un mondo. Trasvalutare il passato per trasformarlo in futuro significa non altro che riconoscere l'ambiguità del demone e del dio, il paradosso di tutto ciò che esiste. Ogni mondo ha il suo passato con cui lottare, cioè il suo demone selvaggio: solo se la decisione lo fa tornare, esso si trasforma nel futuro ed il demone nel mite dominatore. Per questo il tempo tragico è il tempo del ritorno.

120

Antigone murata viva

Se per Nietzsche la tragedia era lo spazio in cui l'io si dissolveva in parodia, per Lukacs, al contrario, essa è l'unico luogo rimasto in cui l' egoità, perduta e alienata nel vivere quotidiano, trova il suo compimento: nel tragico l'esistenza perviene all'essenza, la vita alla forma. Se i termini che in Lukacs fungono da scenario per il problema della tragedia, la vita e la forma, rimontano ad una genealogia segnata dai nomi di Kant, Schopenhauer e Nietzsche, la filiazione diretta porta al nome di Simmel 139 • Incominciamo allora a leggere una pagina di quest'ultimo: "Queste pagine, scrive in Concetto e tragedia della cultura, prendevano l'avvio dalla profonda estraneità o ostilità che esista fra il processo vitale e creativo dell'anima da una lato e i suoi contenuti e i suoi prodotti dall'altro. Di fronte alla vita che vibra incessante e tende all'infinito, alla vita dell'anima, in qualsiasi senso essa sia creatrice, sta il suo prodotto solido, idealmente immutabile, con l' aspetto inquietante di fissare quella vitalità, anzi di irrigidirla; spesso è come se la mobilità creatrice dell'anima morisse nel proprio prodot-

139

Sul rapporto Lulcics-Simmel cfr. G.LuKAcs, Ricordo di Simmel, in G. SJMMEL, Arte e civiltà, a cura di D. Formaggio e L. Perucchi, Isedi, Milano 1976. Sul concetto di Erlebnis cfr. W. DJLTHEY, Critica della ragione storica, tr. it. di P. Rossi, Einaudi, Torino 1954, soprattutto pp. 331-352. Sul concetto di 'vita' in Simmel vedi G. SJMMEL, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, tr. it. di G. Antinolfi, ESI, Napoli 1997. Per il rapporto fra vita, forma ed astrazione vedi sempre di G. SJMMEL, La metropoli e la vita mentale, tr. it. di F. Luciano, in C. W. MILLS, Immagini dell'uomo, ~dizioni di Comunità, Milano 1971, pp. 525-540. Su Lulcics cfr. F. FEHÉR, A. HELLER, G. MARK.us, A. RADNOTI, La scuola di Budapest: sul giovane Lukdcs, tr. it. di E. Franchetti, La Nuova Italia, Firenze 1978; L. BOELLA, Il giovane Lukdcs, De Donato, Bari 1977; E. MATASSI, Il Giovane Lukdcs, Guida, Napoli 1979.

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to" 140 • La contraddizione è, dunque, dentro la vita, non fra la vita e la forma, poiché, come Simmel scrive nel Conflitto della cultura moderna, diviene manifesto "il conflitto in cui la vita, per sua necessità essenziale, precipita, non appena essa, nel senso più largo, diviene cultura, vale a dire o creatrice o atta ad appropriarsi di ciò che è stato creato. Questa vita deve o generare forme o muoversi entro forme. Noi siamo, sì, immediatamente la vita, e con questo fatto si congiunge un sentimento di cui non si può dare una più precisa descrizione, di essere, di forza di moto verso una meta; ma noi tale sentimento possediamo solo nella forma che esso ogni volta assume, la quale, come ho già sottolineato, nel momento del suo presentarsi si mostra appartenente ad un altro ordine, fornito di diritto e significato attinenti da sé, e che afferma e pretende una esistenza sopravitale (. .. ). La vita è indissolubilmente vincolata alla necessità di diventare reale solo in forza del suo opposto, il che vuol dire in una forma" 141 • Cio che conta è non solo che la vita debba necessariamente diventar forma, per poter trovare espressione e non restare muta e dunque di fatto irreale, ma soprattutto che essa sia strutturalmente rivolta verso la forma; essa non può non essere intenzione verso la forma: nei termini 'metafisici' di Simmel ciò si esprime col dire che la vita è sempre anche "più che vita", cioè forma. Il conflitto tragico non consiste, come si vede, per Simmel, nella separazione fra vita e forma, intese come due entità già da sempre separate - in questo caso, infatti, non si darebbe conflitto alcuno per mancanza di un terreno comune sul quale affrontarsi -, ma sta all'interno della vita stessa. Se è contro Kant, oltre che contro Hegel, contro l'ingenuo dualismo del primo, che conduce ad una ragione troppo vuota per essere viva e ad una vita troppo cieca per elevarsi ad autocoscienza, e se soltanto - in questo caso con Hegel contro Kant - la vita è creatrice di forma, se la vita stessa intenziona la forma, che la vita non si riconosca più nella forma che appunto ha creato, è contraddizione che attraversa da parte a parte nient'altro che la vita stessa.

140

G.

S!MMEL,

Concetto e tragedia della cultura, in Arte e civiltà, cit., pp.

87-88. 141

G. S!MMEL, Il conflitto della cultura moderna, ed. it. a cura di C. Mongardini, Bulzoni, Roma 1976, p. 132.

122

Il punto d'abbrivio della Lebensphilosophie è certamente l' emergere della soggettività come variabile indipendente all'interno dello spirito oggettivo e di riflesso all'interno delle stesse teorie generali. La necessità di andare oltre Kant era di conseguenza dettata dal fatto che per quest'ultimo la soggettività si identificava immediatamente con la norma razionale. I.:elemento antinormativo, indipendente, era relegato nella categoria del patologico e semplicemente contrapposto alla ragione. Un soggetto senza corpo, per quanto razionale, risulterà impotente là dove entrino in gioco rapporti concreti fra gli uomini: questi risulterebbero non dominabili razionalmente. Il compirhento diltheyano della 'criticà kantiana va esattamente in questa direzione: I' Erlebnis lungi dall'essere dedotto a partire dalle forme a-priori della ragione, è esso stesso l' a-priori, non formale, ma storico-concreto, delle forme. Solo in questo modo i sistemi della cultura e in essi i rapporti di dominanza da un lato, e l'organizzazione esterna della società, diritto e Stato, dall'altro, ricevono, insieme, la loro legittimità e il principio di variabilità che li rende storici. Per quanto, infatti, siano prodotti di mediazione, risultato dell'interconnessione di molteplici Erlebnisse, secondo diverse modalità di organizzazione e di stratificazione, essi poggiano sempre sulla mutevole e concreta realtà dell' Erlebnis142. È certo che in questo passaggio sta Hegel: qui, infatti, la realtà del soggetto è ancorata definitivamente alla struttura della società civile. Uno dei due principi su cui questa poggia è infatti "la persona concreta, la quale è a sé come fine particolare, in quanto totalità dei bisogni e mescolanza di necessità naturale ed arbitrio", ed è solo in quanto connesso con il bisogno in quanto elemento indipendente e non normativo che, secondo Hegel, il soggetto diviene concretamente quella "rappresentazione che si chiama uomo" 143 . Contemporaneamente Hegel individua, però, l'altro principio, quello della "universalità", che a sua volta si scinde nell'universalità astratta che dà origine allo "Stato di necessità ed intellettualistico", e in quella concreta e dialettica che si realizza nello "Stato etico". Se,

142

Per questi problemi cfr. W DJLTHEY, Introduzione alle scienze dello spirito, tr. it. di G.A. de Toni, La Nuova Italia, Firenze 1974. 143 G. F. W HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it. di F. Messineo, Laterza, Bari 1974, pp. 189-190.

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dunque, l'universalità è principio della società civile allo stesso titolo della soggettività vivente e concreta, ciò vuol dire che quest'ultima non è altro dalla universalità, ma l'intenziona in modo immanente. Tuttavia l'universalità che il soggetto intenziona per prima è quella dell'astratta dipendenza del "sistema dei bisogni", su cui poggiano l'intera società civile e il suo stato. Essa è altra dalla universalità dello stato etico: ciò rende ragione dell'autonomia della società civile, del suo essere "differenza entro lo stato". Ma, d'altro canto, pur essendo la soggettività estraniata in questi rapporti di dipendenza astratta, essa, per Hegel, è in grado di attraversarli e, forzandoli, pervenire all'universalità dello stato. Ciò non muta se, al contrario, come pure Hegel esplicitamente ammette, è lo Stato a forzare il dominio della società civile, poiché la legittimità di questo intervento si fonda pur sempre sulla sostanziale razionalità del soggetto. I due processi, dalla società civile allo Stato e da questo verso la società civile, si risolvono, alla fine, dialetticamente, in un unico processo che però mantiene ferma la differenza. È esattamente questo che per Simmel è venuto meno. Per lui, infatti, "è come se la mobilità creatrice dell'anima morisse nel proprio prodotto". Il necessario riconoscimento dell'autonomia della soggettività vivente e concreta, non più deducibile dalla norma astratta della ragione, rispetto alla quale è anzi chiamata a fungere da fondamento, si traduce nel suo contrario: come variabile indipendente la soggettività produce una rete formale in cui muore. Luniversalità astratta, che in Hegel è ancora 'momento' dell'intero, si eleva, non dialetticamente, al ruolo dell'intero stesso, 'buco nero' in cui precipitano, scomparendo, e la soggettività e la Kultur. Che la soggettività creatrice muoia nel proprio prodotto, divenendo essa stessa astratta, è ciò che Simmel chiama 'tragedià. Ma il Lulcics dell'Anima e le forme solo apparentemente riprende il discorso di Simmel: la tragedia è, infatti, ora il luogo della realizzazione della forma, dell'assolutezza dell'io. La tragedia è l'altro dalla vita comune e quotidiana: essa è la vera vita, quella in cui l'esistenza e l'essenza coincidono, in cui l'io è kantianamente di nuovo norma a se stesso a prezzo dell'esclusione del patologico, cioè dell'esistenza, che in Lukacs è solo 'chiaroscuro' e 'indeterminatezza'. Tutto il tentativo della Lebensphilosophie, così come del più avvertito neokantismo, è rovesciato di segno, in un ritorno a Kant, che, come in Wildeband, avendo preso

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una rincorsa eccessiva, finisce per andare oltre il segno, regredendo molto al di là di Kant. Come Wildenband perviene ad una 'filosofia dei valori' di stampo platonico, così Lukacs incontra 'l'ente perfetto' della metafisica medievale e riduce tutta la sua modernità al fatto che esso trovi la sua unica dimora nello spazio tragico. In contrasto con tutto il pensiero moderno sulla tragedia, Lukacs ribadisce, al contrario, che essa è il luogo dove, nel generale naufragio, il 'valore' può trovare ancora rifugio. La critica di 'impressionismo' che Lukacs porta, fin dal 1918, a Simmel e che anticipa, senza sostanziali differenze, quella radicale di irrazionalismo presente in Distruzione della ragione, mostra che tutto ciò che Lukacs è disposto ad accogliere del discorso di Simmel è la frantumazione dell'esperienza, ma non il fatto, ben più rilevante, che la vita produca la forma ed in essa scompaia. Laccusa di 'impressionismo' deve in realtà preparare il terreno alla possibilità, per Luk:ics, che, al contrario, la vita si ritrovi integralmente nella forma, anche se soltanto nella rarefatta atmosfera della tragedia. La tragedia non ha alcuna relazione con la realtà del tempo, se non quella indiretta e negativa di esserne il superamento, per quanto relegato nel solo ambito estetico. È Luk:ics ad assumere la crisi nella sua versione semplice ed ideologica - cosa che d'altronde continuerà a fare anche dopo - come mera parcellizzazione-dispersione e non, al contrario, come organizzazione-razionalizzazione progressiva: crisi, dunque, soltanto come decadenza e non anche come trasformazione; crisi come nostalgica perdita del centro e non, secondo il principio dei tempi moderni, come proliferazione-disseminazione di punti, in modo tale che il sistema funzioni esattamente perché ormai decentrato. Paradossalmente è proprio Luk:ics ad essere 'impressionistà nel senso che l'impressionismo è il suo avversario di comodo, il suo delirante fantasma privato, senza il quale il suo pensiero franerebbe di colpo. Tuttavia contro l'impressionistica sfaccettatura della vita resta pur ferma l'impossibilità di contrapporre la rigida chiusura della forma: dichiarare questa via impraticabile non equivale tuttavia ad un completo abbandono. La sua stessa irrealizzabilità la trasforma in progetto, 'ideale regolativo'. Ciò che solo può essere prodotto è, fra la vita e la forma, quell'ente intermedio che è il 'saggio', simile in questo al demone, sospeso fra uomo e dio. Il saggio, come l'aforisma, è la forma adeguata al mondo ridotto 125

in frammenti: ma là dove l'aforisma, come 'battura tragicà 144 , presentifica e mette in scena lo scarto irriducibile del discorso, il saggio, nel1' accezione di Lukacs, dà forma, per quanto provvisoria, alla vita. Esso è un 'gradino' di quella scalata, il cui punto d'arrivo, la cima, è il sistema realizzato. Ma poiché la vita non può essere preordinata dal sistema, il saggio, come gradino, testimonia, allo stesso tempo, di un momento autonomo e irriducibile alla totalità del sapere complessivo. Il saggio, dunque, "può contrapporre con tranquillo orgoglio la propria frammentarietà ai piccoli sistemi della precisione scientifica e della freschezza impressionistica; ma l'adempimento più coerente della sua missione, i suoi approdi più alti diventano carta straccia ali' avvento della grande esteticà' 145 • Da questo punto di vista sembra che "il saggio sia veramente ed esclusivamente un precursore, non avente alcuna validità autonoma. Ma questa Sehnsucht per il valore e la forma, per la misura, l'ordine e lo scopo, non finisce, cosi come ogni cosa finisce, dopodiché scompare e diventa una pretenziosa tautologià' 146 • Il saggio non è riducibile tautologicamente al sistema realizzato, ma quest'ultimo è possibile soltanto come il risultato delle molteplici ed autonome vie attraverso le quali è possibile pervenirvi. Il sistema è solo I' a-priori formale aperto all'infinita differenziazione della vita. Da esso, infatti, il saggio riceve il suo essere valore e forma, misura, ordine e scopo ma solo come oggetti della Sehnsucht, del desiderio e della nostalgia soggettiva. Il finire del saggio non è semplice trapassare nella totalità, ma morte autentica, che testimonia dell'autenticità ed irriducibilità di quel tanto di vita in esso racchiusa: "Ogni autentica fine è una fine vera e propria: la fine di un percorso, dove percorso e fine non costituiscono un'unità, non sono collocati uno accanto all'altro come equivalenti, oppure coesistono: la fine è impensabile e irrealizzabile se il percorso non viene compiuto in maniera sempre nuova; non c'è fermata alcuna, ma arrivo, non pausa, ma scalata. Il saggio si giustifica dunque come mezzo necessario per raggiungere la meta ulti-

144

Sull'aforisma come 'battuta tragica' cfr. M. CACCIARl, Aforisma, tragedia, lirica, in "Nuova corrente", n° 68-69, pp. 464-492. 145 G. LuKAcs, L'anima e le forme, tr. it. di S. Bologna, Sugar, Milano 1963, pp. 45-46. 146 Ivi, p. 46.

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ma, come il penultimo gradino di questa gerarchia. Ma ciò rappresenta soltanto il valore della sua funzione, perché il fatto della sua esistenza rappresenta un altro valore ancora più autonomo. La Sehnsucht infatti potrebbe realizzarsi e quindi dissolversi nel sistema dei valori istituiti, ma essa non è qualcosa che si chiuda nella realizzazione di se stessa, bensì un fatto dell'anima con valore ed esistenza autonomi, un'originaria e profonda presa di posizione di fronte alla totalità della vita, una categoria ultima e insopprimibile delle possibilità della vita. Quindi non ha bisogno di una pura realizzazione, che provocherebbe la sua soppressione, ma di una rappresentazione formale, che redima e salvi la sua propria e ormai indissolubile essenza come valore eterno. Il saggio opera questa rappresentazione formale" 147 . Il saggio è dunque l'unico luogo 'formale' in cui l'originaria Sehnsucht dell'anima può aspirare alla rappresentazione, senza subire o la vanificazione impressionistica o la dissoluzione sistematica; nel saggio esistenza ed essenza si ritrovano senza ferite o perdite: il saggio è la forma della tragedia. Tuttavia esso resta pur sempre un luogo teoretico: il saggio è, comunque, un esercizio della riflessione la cui funzione è di evitare le secche della pura descrizione 'fenomenologicà della vita - ciò di cui Lulcics accusa Simmel -, e l'astratta compostezza del trattato sistematico, della 'grande estetica'. Al saggio corrisponde, sul piano pragmatico, la figura del 'gesto': con ciò l'anti-impressionismo di Lukacs si traduce nel polo opposto dell'espressionismo. Il gesto, infatti, è espressivo: esso ha un valore esistenziale, possiede per Lukacs "il valore esistenzale della forma, il valore della forma come creazione, esaltazione di vità'. Il gesto allora "è il movimento che esprime chiaramente l'univocità" e "la forma è l'unica strada per raggiungere l'assoluto nella vita; il gesto è la cosa compiuta in sè, è una realtà, qualcosa di più che una mera possibilità". Se tutto questo è vero, allora "solo il gesto esprime la vità'. Ma si chiede Lukacs: "Si può esprimere una vita? La tragedia di ogni arte del vivere, non è forse quella di costruire un castello di vetro sospeso in aria, di voler temprare di realtà le aeree possibilità dell'anima, di voler gettare il ponte delle sue forme tra gli uomini, lasciando che due anime

147

lvi, pp. 46-47.

127

s'incontrino e poi si distacchino? Esistono i gesti in assoluto, il concetto di forma ha un senso e un'interpretazione esistenziale" 148 ? Questa riflessione lukicciana sul rapporto fra il gesto e la tragedia si trova nel saggio Quando la forma si frange sugli scogli dell'esistenza compreso nell'Anima e le forme. Il gesto di cui si parla è quello col quale Kierkegaard rompe il proprio fidanzamento con Regina Olsen. In questo gesto Lukacs vede "il salto con cui l'anima perviene da una cosa all'altra, il salto con cui abbandona i dati sempre relativi della realtà e raggiunge l'eterna certezza della formà' 149 . Rinunciare a Regina Olsen rappresenta per Kierkegaard nient'altro che una "tappa sul cammino che conduce al tempio di ghiaccio dell'Amore-esclusivo-diDio"150. Questo cammino ancora una volta è schopenhauerianamente un'ascesi: è necessario sottrarsi alla gioia che partecipa dell'indeterminato della vita per pervenire alla forma. Tuttavia questo è il Kierkegaard di Lukacs, la trascrizione impoverente di un pensiero ben altrimenti consapevole. Ciò che nel rifiuto del matrimonio da parte di Kierkegaard viene alla luce è, esattamente in contrapposizione- a Lukics, il declino dell'etico. Poiché è questo che da luogo di realizzazione della soggettività si è tramutato in regno demonico, in "tempio di ghiaccio". Limpossibilità del matrimonio deriva, come già aveva visto Goethe, dall'emergere delle sue potenze mitiche là dove quelle etiche s'inabissavano. Lal di qua del matrimonio è la seduzione, l'aldilà il paradosso della fede: se essi si corrispondono è poiché entrambi sono segnati dall'assenza di forma. Sia la seduzione sia la fede dissolvono la forma: la prima perché gioca con simulacri, perché inventa illusioni, la seconda perché, infrangendo l'ordine dell'etico - il sacrificio di Isacco ne è la testimonianza più atroce -, svela il divino nella forma del paradosso. Il luogo della forma è l'etico: per questo va infranto. Di contro Lukics legge il gesto di Kierkegaard invertendolo: l' estetico è la vita quotidiana, indeterminata e priva di forma; l'etico ciò a cui si deve rinunciare, lo spazio di una esecuzione; la fede, la forma assoluta. È solo per questo che il gesto può occupare il posto interme-

148 149 150

Ivi, pp. 69-70. Ivi, P· 71. Ivi, p. 83.

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dio nell'ambito dell'esistenza che corrisponde a quello che occupa il saggio nello spazio teoretico. Come il primo è il gradino che conduce dall'assenza di forma alla forma perfetta, cosi il secondo trasporta dal frammento al sistema, credendo di rispettare in entrambi i casi l' irriducibilità della vita. Al saggio ed al gesto si richiedono due compiti contraddittori: da un lato salvaguardare la differenza, la singolarità della vita in una forma appropriata e dall'altro disporsi come tappe di un cammino che ha per fine la forma sciolta dalla indeterminatezza della vita. Il saggio come il gesto è vita che da sé perviene alla forma, autonoma dunque e senza rimandi, e nello stesso tempo addio alla vita in nome di una forma senza residui. Essi, che dovrebbero restare sospesi senza aver bisogno di nulla, si rivelano come allegorie: rimandano ad altro: alla vita che li precede, alla forma che li ghermisce. Essi, per Lukacs, non indicano altro che la necessità di una rinuncia che nessun richiamo alla Sehnsucht, alla sua irriducibilità, è in grado di occultare. Nel saggio come nel gesto il soggetto, la vita sono portati al patibolo, sono il luogo appunto di una esecuzione. Non si comprende l'interpretazione che Lukacs dà del rapporto fra Kierkegaard e Regina se non lo si riconduce a quello fra lo stesso Lukacs e Irma Seidler. Come nota Furio Jesi il suicidio reale di Irma corrisponde all'abbandono di Regina da parte di Kierkegaard 151 • Ciò che li era, non tanto rifiuto di Regina, quanto del matrimonio come potenza demonica - e solo un dio altrettanto paradossale può dissolvere i demoni - si trasforma qui nella morte necessaria al compimento dell'opera. Se in Goethe la morte di Mignon era volontario sprofondamento del demonico che in lei s'incarnava e premessa per Wilhelm della decisione di abbandonare il teatro, in Lukacs la morte di Irma è il sacrificio impostole per permettere la realizzazione della forma. Ella deve morire perché è la vita: "Stanotte la nota sensazione: Irma è la vità' 152 • Ma il filosofo ha deciso in anticipo: vita ed opera non coincidono. Non solo di nuovo la contraddizione interna alla vita diviene quella fra la vita e la forma, ma questa, che tutto il pensie-

151

Cfr. F. ]ES!, Su uno scritto giovanile di Lukdcs, in "Nuova Corrente", n° 71, p. 233. 152 G. LuKAcs, Diario, tr. it. di G. Caramore, Adelphi, Milano 1983, p. 16 (traduzione leggermente modificata).

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ro moderno, a cui lo stesso Lukacs attinge, aveva dichiarato obsoleta, va comunque realizzata a costo della morte: altrui. Nel dialogo Della povertà in spirito Lukacs compie questa razionalizzazione. Proprio dove sembra che egli si dichiari colpevole del suicidio di Irma, Lukacs salva se stesso: "Lei sa l'antica leggenda della costruzione del tempio: il diavolo ogni notte distruggeva ciò che era stato costruito di giorno, finché si decise che uno degli uomini che lavoravano alla costruzione sacrificasse la propria moglie: doveva essere la prima donna che, un certo giorno, sarebbe venuta. Fu la moglie del capo mastro. Chi potrebbe scoprire il motivo per cui proprio lei venne per prima? Ci sono innumerevoli motivi esterni e ragioni psicologiche, e fintantoché si considera la cosa dal punto di vista del mondo fisico e psichico, è solo un caso brutale e senza senso che proprio lei dovesse venire. O pensi anche alla figlia di Jefta! Ma, pure, un senso c'è: non per il capomastro né per Jefta, bensì per la loro opera. [opera è sorta dalla vita ma l'ha superata, è nata dall'umano ma è disumana, anzi è contro l'umano. Il cemento che salda l'opera alla vita che la genera, la separa anche per sempre da essa: è un cemento fatto di sangue umano (... ). Non riesco più a sopportare la vita comune, opaca ed insincera, che vuole avere tutto e, certo, può anche averlo, dal momento che non vuole nulla di reale, non vuole nulla realmente. Tutto ciò che è chiaro è disumano, in quanto la cosiddetta umanità consiste in una perenne mescolanza dei limiti e dei campi. La vita vivente è senza forme perché sta al di là delle forme; ma è così perché in essa nessuna forma può raggiungere chiarezza e purezza. Tutto ciò che è chiaro può sorgere solo nella misura in cui si erge violentemente al di sopra di questo caos, solo nella misura, cioè, in cui quanto lo ha tenuto finora legato alla terra viene reciso. La stessa etica autentica (pensi a Kant) è contro l'umano: vuole in parte realizzare l'opera etica dell'uomo (... ). Proprio perché lei era per me tutto ciò che la vita è stata, la sua morte - e la mia incapacità ad aiutarla, che di quella morte è stata la causa - è il giudizio di Dio. Non creda che io disprezzi la vita. Ma anche la vita vivente è un'opera, e a me un'altra opera è stata imposta" 153 •

150

G.

LUKÀCS,

Della povertà in spirito, in "Nuova corrente", n° 71, p. 219.

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Irma è la "vita vivente", l'amore. Non basta la falsa umiltà del filosofo di ritenersi incapace della "bontà" a coprire la disgustosa fuga di fronte ali' amore. Il trucco di Lukacs consiste ancora una volta nel rispettare i ruoli assegnati: "Irma (... ) la donna, la redentrice", scrive nel diario il 27 aprile 1910 e circa un anno dopo aggiunge: "Ma forse avrei potuta salvarla, prendendola per mano e guidando" 154 • La donna è la "redentrice", e già questo è un inganno, ma con una trasformazione in cui si rivela tutta la decadenza dell'uomo, è Lukacs alla fine che vuole salvare Irma, colei che evidentemente è troppo debole perché donna. Ma Irma non voleva altro che amare e essere amata: "Caro Gjuri, stia bene, mi scriva e mi ami" 155 • Anche Agnes Heller è costretta a notarlo: in verità, scrive, "Irma non voleva né salvare né redimere l'Altro; né mai aveva voluto essere salvata o redenta. Voleva semplicemente amare e essere amata" 156 • Solo l'uomo, nella sua povertà, può desiderare di essere salvato dalla donna, sebbene ciò alla fine ripugni alla sua presunzione. Irma è la vita: era questa vita che bisognava essere in grado di abitare; la sua contraddittorietà, la sua indeterminatezza, in questo spazio occorreva imparare a vivere. Ma il filosofo ha paura della vita, della donna: egli innamorato della sua egoità, deve compiere l'opera; l'opera è appunto il proprio "io". I..:essenza della tragedia è "la pura esperienza dell'egoità" 157 • La nudità cui l'anima nella tragedia perviene non è altro che quella dell'io spogliatosi di ogni alterità, di ogni differenza, perfetto nella propria identità con sé, morto. Poiché la vita è esattamente ciò che nella tragedia deve morire. Il pensiero moderno aveva capito che dalla vita non veniva salvezza, che non era bastato spostare dalla ragione alla vita la possibilità della conciliazione. La vita era demonica quanto la ra-

Sulla leggenda della costruzione del tempio/ponte ritorna F. JESI, in Cultura di destra, Garzanti, Milano 1979, pp. 38-50. Sul mito in generale cfr. A. SEPPILLI,

Sacralità dell'acqua e sacrilegio dei ponti. Persistenza di simboli e dinamica culturale, Selleria, Palermo 1977, pp. 265 ss. 154 G. Lukacs, Diario, cit., p. 14 e 49. 155 Lettera di Irma Seidler a Gyorgy LuKAcs citata in A. Heller, Quando la vita si schianta nella forma. Gyorgy Lukdcs e Irma Seidler, in M. VV., La scuola di Budapest, cit., p. 14. 156 Ibidem. 157 G. LVKÀCS, Metafisica della tragedia, in L'anima e le forme, cit. p. 314.

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gione stessa e tuttavia soltanto vivendola e attraversandola, senza illusioni, era possibile pervenire alla salvezza; la vita in se stessa aveva il suo rovescio: questa era la verità di Mignon. In lei infatti sprofonda non solo il suo aspetto demonico, ma anche l'illusione di Wilhelm: egli è trasformato da questa morte. Lukacs rifiuta di esserlo e prima che ciò possa avvenire compie l'assassinio che gli permette di restare aggrappato alla propria illusione. Lo spazio della tragedia è il luogo dove s1 conserva questa illusione: "lo ho rappresentato vergognosamente poco per lei - c'è solo da chiedersi: vergognosamente per lei o per me? Questione assurda: questa è una tragedia - ma lei non si era innalzata al livello a cui mi ero innalzato io. La tragedia non appartiene alla donna. 'La donna è solo donnà" 158 • Il livello a cui solo l'uomo può innalzarsi è quello della libertà: la libertà assoluta, la libertà dalla vita. Questa libertà vuota è l'ultimo rifugio del filosofo e dell'uomo, l'astratta identità con sé contro la vita. Per questo la donna non appartiene alla tragedia. Chiudendo il saggio Metafisica della tragedia Lukics, a commento di un testo di Paul Ernst, scrive: "Nel momento della decisione suprema la sua eroina si svincola dalla morsa del tragico, con consapevole risolutezza scrolla tutto il sublime e tutto il fatale che sino a quel momento aveva aureolato il suo volto e si precipita nuovamente nel!' esistenza, da lei bramata, che l'aspettava con ansia. Il momento supremo porta il giudizio di scelta: ecco la sentenza sul suo valore e al tempo stesso sulla sua limitatezza. Ella ha acquistato una forza sufficiente lungo la lotta che ha ingaggiato con se stessa per la propria libertà, una forza che le consente di sopportare l'aria del tragico, di poter vivere costantemente nella sua cerchia. Ma le manca la suprema impronta dell'esistenza, la specie umana cui ella appartiene. Si trova al gradino più alto di una specie inferiore: questa è la sentenza che la forma del dramma pronuncia sul valore della sua esistenza. Ella voleva ottenere per sé il massimo e lo ottenne: la libertà; ma la sua libertà era

158

G. LuKAcs, Diario, cit., p. 47. Il testo del diario di Lukacs riportato in questa edizione differisce da quello citato da Agnes Heller: qui usiamo quest'ultimo: cfr. A. Heller, Quando la vita si schianta nella forma. Gyorgy Lukdcs e Irma Seidler, cit., pp. 35-36.

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quella di chi si è svincolato da tutti i legami, non - in ultima analisi - una libertà cresciuta organicamente dall'interno, non un fattore di perfettibilità dell'esistenza. La sua libertà era quella delle prostitute. Si era liberata da tutto ciò che costituisce un forte legame interno, dal marito e dal figlio, dalla fedeltà e dal grande amore. Per questo sopportò duri sacrifici: si dedicò ai piccoli umilianti legami che l'amore venale e quello concesso per stati d'animo passeggeri portano nella vita di una donna. Sentl il peso di ciò che aveva perduto e sopportò con orgoglio ciò che le impose il destino da lei stessa prescelto - ma tuttavia era un alleggerimento dell'esistenza, una fuga di fronte alle sue pesantissime necessità. Questa autoliberazione della donna non significa condurre sino in fondo la sua necessità essenziale, come invece avviene per l'uomo tragico, e perciò la fine del dramma pone il problema che il teorico Paul Ernst aveva individuato già da lungo tempo: una donna può essere tragica di per sé e non in rapporto all'uomo della sua vita? La libertà può essere un valore reale nell'esistenza di una donnà' 159 ? E tuttavia a cosa servirebbe questa libertà? È paradossalmente giusto che di questa libertà la donna non sappia che farsene. Ciò che qui conta non è l'espulsione della donna dalla tragedia, ma il significato di quest'ultima. In questa tragedia la donna, per sua decisione, non entra. Quanta distanza dall'Antigone di Kierkegaard, di cui Lukacs si ostina a volersi la copia perfetta. Là Antigone al centro della scena conservava il suo segreto per chi in un altro tempo avrebbe potuto comprenderlo, qui Antigone è murata viva da chi non sa sopportare il suo sguardo e le attribuisce spudoratamente la bontà pur di non vedere la sua eterna ironia, il sorriso che le sorge sul volto e resiste anche quando l'ultimo mattone completa la sua tomba.

159

G. LUKAcs, Metafisica della tragedia, cit., pp. 345-346.

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La morte infantile In una pagina dell' Ursprung des deutschen Trauerspiels Benjamin, riprendendo un passo di un suo scritto precedente Schicksal und Charakter, scrive: 'La profonda tendenza eschilea alla giustizia anima la profezia anti-olimpica di tutta la poesia tragica. 'Non è col diritto, ma nella tragedia, che il capo del genio si è sollevato per la prima volta dalla nebbia della colpa, poiché nella tragedia il destino demoniaco è infranto. Ciò non significa che la concatenazione - che dal punto di vista pagano non ha fine - di colpa e castigo sia sostituita dalla purezza dell'uomo purgato e riconciliato col puro Dio. Ma nella tragedia l'uomo pagano si rende conto di essere migliore dei suoi dei, anche se questa conoscenza gli toglie la parola, e rimane muta. Senza dichiararsi, essa cerca segretamente di raccogliere le sue forze. Non si può dire affatto che sia ristabilito !"ordine etico del mondo', ma l'uomo morale, ancora muto, ancora minore - come tale è l'eroe - cerca di sollevarsi nell'inquietudine di quel mondo tormentato. Il paradosso della nascita del genio nell'incapacità morale di parlare, nell'infantilità morale, è il sublime della tragedià' 160 . La tragedia è anti-olimpica, cioè anti-mitica. Tuttavia essa non è una semplice stazione di un cammino che dal mito debba condurre all'ordinato mondo del pensiero, ad una nuova purezza, al definitivo appaesamento. Questa purezza, questo appaesamento si rivelerebbero immediatamente come nuove maschere del mito. In questo senso la ricerca del tragico moderno nei suoi punti più alti rispetta il senso della tragedia antica. È ancora una volta il mito che essa deve dissolvere, quel mito che Benjamin chiama

160

W BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1971, pp. 107-108.

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storia, e che con altro nome, che dice però la stessa cosa, noi chiameremo universo della riflessione. Se la tragedia antica mette in crisi il passato epico e con esso anche il presente della città, che di quel passato è progenie, la tragedia moderna deve a sua volta attraversare lo spazio della storia e la totalità del discorso falsamente conciliato. In entrambi i casi si va incontro al silenzio. Il carattere profetico attribuito alla tragedia da Benjamin significa esattamente questo, dal momento che la profezia non è tanto l'annuncio di un futuro, di cui già si conosce l'impossibilità, quanto la parola gettata in avanti perché nel tempo dovuto ritorni. Questo tempo è quello stesso in cui la parola si pronuncia. Il tempo della profezia è, infatti, il presente: è al presente che parla, ammutolendo. Ma la parola si fa muta non per disperata rassegnazione, ma, al contrario, per troppa gioiosa consapevolezza. E in questo silenzio parla. L'infanzia della parola o la parola infantile è ciò a cui la tragedia perviene. Ma la sua verità è che essa invita a vivere esattamente all'interno di questa parola, di questa infanzia 161 . Infantilità morale non vuol dire un gradino inferiore dell'etica, ma l'unica etica possibile ai di fuori del mito. È il divenire fanciulli nel senso dell'ultima delle tre metamorfosi di Nietzsche: "Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un gioco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sl" 162 . L'eroe tragico non dice di sl né al mondo mitico che sempre lo condanna, né al mondo del sapere che ghermendolo lo dissolve, ma esattamente a quel mondo che si apre là dove entrambi sprofondano. Che si apre, come dice Holderlin, nel tempo di mezzo, quel tempo che è l'unico tempo. Il sacro infatti non appartiene agli dei, né a quelli passati né a quelli venturi: esso è l'infedeltà stessa come Kleist aveva capito. Per questo la riflessione sul tempo è essenziale al discorso sul tragico, poiché è nella struttura stessa della tragedia che si mostra la natura autentica del tempo. Esso è il tempo del ritorno. La tragedia non è né la rassegnazione di fronte al destino - il tempo circolare della ripetizione del sempre-uguale - né l'appello al futuro - la facies saturni161

Per il concetto d'infanzia vedi G. AGAMBEN, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 1978. 162 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., p. 25.

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na del tempo lineare -, ma l'apertura del tempo originario, del tempo dell'infanzia: il tempo parodico. Lo abbiamo già notato: è Nietzsche a coniugare tragedia e parodia e ad aprire la strada verso l'incontro di tragico e comico. Il tempo del ritorno è quel tempo in cui ogni verità logica e etica ritorna parodiata, destituita dal suo presunto potere, sottratta proprio a quella intemporalità di cui si fa forte. Ridotta alfine a simulacro, artefatto, opera di una consapevole arte del mentire. Non si tratta di sostituire ai demoni un dio purificato, ma di togliere ad essi la maschera del puro dio. Il demone vince soltanto quando il suo inganno non viene scoperto. Ridere della morte dell'eroe è l'invito di Nietzsche. Ma forse il silenzio dell'eroe è proprio la forma del suo riso. Immaginiamola dunque anche noi, come Kierkegaard, l'Antigone moderna. Presa fra due fuochi, il diritto materno che le impone la sepoltura di Polinice e quello dello stato, di Creonte, che glielo vieta, ella morendo li conduce entrambi alla loro fine. La sua morte non è un sacrificio, non riconcilia gli ordini scissi della potenza etica; ella sa di essere superiore ai suoi dei, anche a quelli di cui deve rispettare la legge. Ella è sl l'eterna ironia, ma a differenza di Hegel, noi pensiamo che Antigone inizi a guardare con distacco anche a quelle potenze ctonie, quel diritto dei morti divenuti antenati, quel corpo materno che pretende fagocitarla per sempre. Che ella muoia vergine significa per noi che Antigone si rifiuta a ciò a cui la vorrebbero costringere tutti: proseguire la specie perché la catena delle generazioni e con essa la catena della colpa e del castigo e il potere mitico ad essa connesso non si interrompa. Ella non sarà né sposa, per attendere al volere della legge paterna, né madre per rispettare quello materno. Come ella stessa dice unico letto di nozze sarà la sua tomba. Antigone esce danzando dalla rete delle genealogie e delle filiazioni: senza padre né madre, orfana senza rimpianti, fanciulla divina senza memoria, la sua parola muta recide il proprio legame con il passato e non si volge al futuro. Parola senza rimando, simbolo. Il suo andare verso la morte è già una vecchia abitudine, già la morte ha perduto ogni carattere sacrificale, drammatico. È un gesto banale, senza, infine, né volontà né decisione, e tuttavia non rassegnato, non disperato, privo del sapore della resa. Un gesto ripetuto, insistito, ma senza ossessione, come ravviarsi i capelli ogni mattina o sognare ad occhi aperti prima d'addormentarsi.

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Per questo mentre ella va verso la morte il coro invoca Dioniso, il dio che vive nella felicità, l'unica, dello smembramento, della morte sempre ritornante, ma come parodia di se stessa. Immaginiamola, dunque, noi che le facciamo ala lungo la via che la conduce alla morte e che dapprima la vediamo triste e desolata; immaginiamo che non appena ci dia le spalle, ella incominci a sorridere di un sorriso mai visto, quello stesso che trasfigurava il pastore dopo che aveva tagliato col morso la testa del serpente, e giunta sulla soglia della caverna che sarà la sua tomba ella si volti per un solo istante e mostri a noi che restiamo il suo volto illuminato. Allora noi non faremo come Admeto che chiama a soccorso la memoria per non dimenticare il sorriso sul volto di Alcesti e conservarlo come una promessa, come una speranza soltanto, noi non ci porremo semplicemente sulle tracce di quel sorriso, attendendo impotenti il suo ritorno. Lo sappiamo, come l'Antigone di Kierkegaard, ella porta con sè un segreto racchiuso nella sua parola muta, fasciato nel suo enigmatico sorriso, ma non aspetteremo un nuovo Edipo che svelandolo lo tradisca e ci faccia ripiombare in quel passato che ora, lo sentiamo, già si sgretola sotto i nostri piedi. Non accetteremo di nuovo di interrogarci su nostro padre e su nostra madre per scoprire che erano altri e che li abbiamo uccisi. Il sorriso di Antigone è come il canto delle sirene: non ci faremo legare all'albero maestro per udirlo soltanto e vivere di nostalgia per tutto il resto della nostra vita. Lo sappiamo, non canteranno un'altra volta per noi. Allora noi entreremo in quel sorriso, abiteremo quel segreto, prendendovi finalmente dimora. Cosi diverremo infantili e perciò finalmente adulti, 'maestri' come Wilhelm. Questa volta dobbiamo far buon uso della morte, di questa morte infantile, morendovi.

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IL LEGAME DELLA DIVISIONE Post-scriptum 2004 Così come Hegel, noi siamo stati affascinati da Antigone, da questo rapporto incredibile, questo potente legame privo di desiderio, questo impossibile, immenso desiderio che non poteva vivere, capace soltanto di sconvolgere, paralizzare o eccedere un sistema e una storia, di troncare la vita del concetto, di soffocarne il respiro. Jacques Derrida, Glas La verità è quella cosa che gli dri ci gettano quando ci abbandonano. E il dono del loro abbandono. Una luce e che sta più in alto e più oltre, e che nel cadere sopra di noi, i mortali, ci ferisce. Sono, quelli sui quali cade la verità, come agnelli col marchio del padrone. Maria Zambrano, La tomba di Antigone Ho sempre voluto, senza mai riuscirvi, dipingere il sorriso. Francis Bacon, L'art de l'impossible. La liberté est marque, récompense, résultat de discipline savante. Seul, Le danseur sait marcher; Le chanteur, parler; Le penseur, sourire. Le sourire final de !'acrobate ou de celui qui vient d'achever un travail difficile come pour l'offrir gratuitement et pour dire que cela n'est rien, que c'est aisé, piume, (Philosophes ne l'ont pas). Paul Valery, Cahiers - Gladiator

Nel tardo autunno del 1981, quando la fattura del libro su Antigone e il tragico moderno era giunta ad un passo dalla stampa, usci, in gravissimo ritardo rispetto alla sua scadenza naturale, il numero di una rivista, ora scomparsa ma all'epoca letta ed apprezzata - 'Me139

taphorein' -, dedicato in gran parte a Robert Musi!. Fra i testi che vi erano pubblicati uno in particolare attirò la mia attenzione: era di Antonio Porta, un poeta troppo precocemente scomparso, e s'intitolava Adorare una sorella. Richiamandosi all'ultima parte dell'Uomo senza qualità, tutta occupata, come ben si sa, dall'incontro fra Ulrich e sua sorella Agathe, Antonio Porta si abbandonava ad una fantasia - o iscriveva sulla pagina bianca un fantasma, il suo fantasma, - con cui non feci fatica a identificarmi. Scriveva Antonio Porta: Io immagino che il corpo di una donna esista soltanto dentro un vestito da Pierrot. Penso che se un giorno avrò il coraggio di indossare quel costume a imitazione di Ulrich ("gli piaceva perchè era comodo") e di entrare nell'altra stanza lì c'è la sorella che mi aspetta, un "altro Pierrot, biondo, alto ... " che a prima vista mi somiglia moltissimo. Io immagino che il corpo di una donna, il sesso di una donna, esista soltanto se è speculare al mio, ma non fissato nell'età adulta, fermato prima, in un corpo prepubere, o quasi pubere, perché io non ho mai avuto una sorella mentre fin dalle mie prime esperienze sessuali l'ho desiderata con forza cosi forte da renderla presente. Ventri lisci e sessi impuberi, perfetti, delle mie infantili compagne di giochi sono qui e ne formano uno solo, perfetto, quello della sorella che non è mai entrata nel mio letto per coprirmi col suo corpo. Una sorella deve entrare hel letto del fratello gemello e coprirlo col suo corpo in modo che lui possa scoprire il suo, per questo una donna nasce, o dovrebbe nascere, insieme all'uomo per compiere quest'opera di svelamento: una donna nasce già aperta, l'uomo è un sacco ricucito, deve essere aiutato a usire da sé, a scucirsi. Per questa ragione Musi! ha scritto: "- Non sapevo che fossimo gemelli! - disse Agathe e il suo viso sorrise rischiarato". Quando Agathe incontra per la prima volta il fratello Ulrich capisce che finalmente potrà stendersi sul suo corpo e con quest'atto svelare anche se stessa. Non è vero che una donna nasce già aperta, è un'assurdità che ho scritto poche righe sopra cedendo ad una mia persistente idea di superiorità della donna sull'uomo. Una donna ha bisogno del suo gemello esattamente come l'uomo, una donna nasce chiusa come un uomo. I corpi si aprono recipocamente stendendosi uno sopra l'altro, unendosi come due fogli di carta bianca elettrizzati. I due sessi devono combaciare come due componenti costruite apposta per questo scopo: combaciare. I..:unione sessuale vera e propria, quasi mai perfetta, quasi mai un puro combaciare ( attenzione, non ho detto: mai! ma quasi... ), è un'altra cosa, è legata alla fecondità che qui non ha luogo, tra i gemelli, almeno in un primo tempo, in un tempo assoluto.

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Se io adesso entro nell'altra stanza vestito da Pierrot e trovo mia sorella che naturalmente non si chiama Agathe ma Lucia, non provo alcun desiderio che lei si tolga il costume da Pierrot né provo alcun desiderio di togliermi il mio: so che dobbiamo soltanto fronteggiarci, sentire i nostri corpi dentro i costumi (sotto i costumi si è nudi, ma solo sotto ... ). Se si togliesse il costume scoprirei che è una donna mentre io desidero il suo corpo di ragazza, di prima di diventare ragazza: una bambina adulta. Così, fingendo un'altra verità, posso raggiungere quell'eccitazione pura, fine a se stessa, che nasce da un rapporto non sessuato, senza ansie di orgasmi. I nostri sessi, ben presenti, e vivi, sono come assenti: il corpo è tutto un sesso e quando Lucia mi stringe a sé finalmente nuda, e nuda come io la desidero, la negazione di una donna, i corpi diventano un solo corpo e i sessi un solo sesso e io posso sentire la mia vagina e lei il suo membro teso, implume. Ma Agathe (o Lucia) non abita qui. Stavo per scrivere: non abita più qui, ma ho tolto quel più all'ultimo istante, qualcuno (quell'unico lettore) avrebbe potuto credere che io stessi evocando una vera Lucia che un giorno ha abitato qui, con me, nella stanza accanto e che in qualche occasione, anche una sola occasione, io l'avessi incontrata. No, non abita qui perché io non la desidero più. Se la sua immagine sta qui e io la sento più reale del cosiddetto reale la mia vita isterilisce di colpo, indosso una corazza di ghiaccio e aspetto che il gelo della notte la renda ancora più solida e spessa. Qui abita una donna che mi dice: "Tu idealizzi le donne". Semplice e rozzo ma efficace. Nel momento in cui lo ripete io vedo Agathe, io sono nudo e liscio come lei sotto il mio costume da Pierrot. Che cosa significa "io idealizzo le donne", in altre parole? Che io credo che il sesso sia sacro. Io credo che l'incesto che mi toglie il fiato con la sorella che non c'è sia l'unico atto sessuale possibile, che ogni altro atto sia violentemente legato alla figura materna inondata del sangue del parto 163 .

I..:impatto con questo testo breve e intenso di Antonio Porta ebbe l'effetto che potrebbe avere una cartina di tornasole: fece venire in superficie uno strato fino allora nascosto del mio libro, nascosto in primo luogo a me che l'avevo scritto, vale a dire il fatto che Il sorriso di Antigone avrebbe potuto perfettamente intitolarsi Adorare una sorel-

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A. PORTA, Adorare una sorella, in "metaphorein", anno 3°, n° 7, luglioottobre 1979 (data effettiva di pubblicazione: dicembre 1981), Pironti editore, Napoli, pp. 24-25.

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la dal momento che altro non era che la forma attraverso la quale era giunto all'espressione un fantasma di desiderio che adesso riconoscevo come quello che mi costituiva e mi aveva fatto essere quel che ero, e cioè il desiderio di una sorella, della sorella mai avuta e che mai avrò. Proprio come Antonio Porta o il narratore del brano intitolato Adorare una sorella (lo stesso o un altro, o il se stesso più vero? Come fare a saperlo?), anche io desideravo da tempo (o da sempre? Quando nasce un desiderio?) che una sorella entrasse nel mio letto per coprirmi col suo corpo, seppellirmi quasi, affinchè anche io potessi finalmente scoprire il mio, scucirlo, e aprirlo in tal modo all'altro sesso. Ma senza sangue e senza sacrificio. Ricostruendo sotto il nome di Antigone le vicissitudini dell'idea del tragico nella modernità, procedendo in un modo per nulla esaustivo 164, anzi frammentario e lacunoso, più intensivo che estensivo, non avevo fatto altro che dare forma ad un fantasma privato, privatissimo, al fantasma, per dirla come Holderlin, di un essere in comune sororale ( Gemainsamschwersterlich), di una comunità il cui modo d' essere peculiare ed esclusivo fosse quello che si ha con la sorella. E ciò non perché ignorassi quel che è fin troppo noto, vale a dire che il destino di Antigone è legato a filo doppio al fatto di occupare nelle strutture elementari della parentela più che il ruolo di figlia o di futura sposa e madre quello di sorella, una sorella tanto devota alla memoria del fratello morto da perdonargli il tradimento della patria e pronta quindi a rischiare la morte pur di seppellirlo per sottrarre il cadavere allo strazio dei cani e all'avidità dei vermi; ma perché questa determinazione parentale che caratterizza Antigone fino a renderla unica non risuonava in me se non come un costrutto intellettuale, un segmento di sapere come tanti: non infrangeva, insomma, la barriera della censura per andare ad incistarsi in un fantasma inconscio offrendogli in tal modo una via d'accesso, simbolica e indiretta come sempre, alla coscienza. Solo verso la fine, nell'ultimo capitolo del libro, a cose fatte, quando una "figura della vita è invecchiatà' e "la Nottola di Minerva

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Come invece accade per l'ormai classico libro di GEORGE STEINER, Le Antigoni (1984), tr. it. di N. Marini, Garzanti, Milano 1990.

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inizia il suo volo sul fare del crepuscolo", solo allora la connessione fra Antigone, il suo esser sorella e il rapporto che ciascuno di noi, volente e nolente, deve patire con le strutture elementari della parentela da cui pure proviene, affiorava sulla superficie della pagina, emergeva nelle smagliature della trama dei significati. Scrivevo non a caso: Che ella muoia vergine significa per noi che Antigone si rifiuta a ciò a cui la vorrebbero costringere tutti: proseguire la specie perché la catena delle generazioni e con essa la catena della colpa e del castigo e il potere mitico ad essa connesso non si interrompa. Ella non sarà né sposa, per attendere al volere della legge paterna, né madre per rispettare quello materno. Come ella stessa dice unico letto di nozze sarà la sua tomba. Antigone esce danzando dalla rete delle genealogie e delle filiazioni: senza padre né madre, orfana senza rimpianti, fanciulla divina senza memoria, la sua parola muta recide il proprio legame con il passato e non si volge al futuro.

Così, come un evento sovranumerario, dal fondo di un contesto le cui domande principali vertevano sull'obsolescenza della forma tragica e sui travestimenti e le mimetizzazioni cui quest'ultima era dovuta ricorrere per sopravvivere nella modernità 165 , s'iscriveva nella pagina bianca, quando ormai il lavoro dell'inconscio era compiuto, la verità che da sempre si lega al nome di Antigone e che sotto questo nome cade su di noi, ci afferra e ci marchia a fuoco: che per vivere una vita minimamente degna di essere vissuta, per divenir soggetto, un individuo appartenente alla specie umana debba fare i conti con la propria provenienza iscritta nella catena delle generazioni, tentando di sospenderla o esaurirla, dovesse questa scelta costargli la morte, una morte, più che fisica, spirituale, la morte dell'identità personale che di per sé non è altro che l'eco dell'impronta originaria e ancestrale dei predecessori. Da questo nuovo punto di vedetta gli stessi autori o le sequenze

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Sul rapporto fra tragico e modernità si veda a cura di Fulvio Carmagnola il volume Tragico e modernità. Studi sulla teoria del tragico da Kleist ad Adorno, Franco Angeli, Milano 1985, che comprende saggi dello stesso Carmagnola, di Laura Boella, Elio Franzini, Riccardo Pozzo e Piercarlo Necchi, accompagnati da una presentazione di Remo Bodei.

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di pensiero che formavano l'ossatura del mio libro cambiavano statuto, venivano rivoltati come un guanto, e aspetti dei loro discorsi prima tralasciati passavano ora in primo piano. In occasione di una conferenza che si tenne a Milano nel 1982 e che doveva servire, nemmeno troppo di nascosto, come presentazione del mio libro, preparai una scaletta - la stessa che uso oggi per scrivere questa appendice o attualizzazione di ciò che scrissi allora - le cui scansioni erano rappresentate, oltre che dal passo di Antonio Porta già citato, da alcuni brani della Fenomenologia dello spirito di Hegel e di Enten-eller di Kierkegaard di cui nel libro non si teneva conto e che ora invece mi apparivano centrali, nonché da citazioni sul riso e sul sorriso tratte dai luoghi più svariati: la poesia di Rilke che nel libro fa da esergo, l'aforisma numero uno della Gaia scienza di Nietzsche, enunciazioni di poetica da parte di Francis Bacon, un passo dalla Logica della sensazione di Gilles Deleuze e due frammenti dai Cahiers di Valéry (parte dei quali, come si vede, fungono oggi da eserghi o motti di questo post-scriptum del 2004). Si prenda Hegel: nel libro tutta l'attenzione è concentrata sulla funzione che l'idea del tragico 166 svolge in riferimento all'elaborazione 166

Per il concetto di 'idea del tragico' si veda il fondamentale P. SZONDI, Saggio sul tragico (1961), tr. it. di G. Garelli, Einaudi, Torino 1996, il cui esordio lapidario suona in questo modo: "Fin da Aristotele vi è una poetica della tragedia; solo a partire da Schelling vi è una filosofia del tragico. Proponendosi di istruire sull'attività poetica, lo scritto di Aristotele vuole determinare gli elementi dell'arte tragica; suo oggetto è la tragedia, non l'idea di essà' (p. 3). Sebbene alla fine Szondi neghi l'esistenza di un'idea del tragico e quindi di una filosofia del tragico, attribuendo tale esito al Benjamin dell' Ursprung des deutschen Trauerspiels - "La storia della filosofia del tragico non è priva essa stessa di tragicità. È simile al volo di Icaro. Infatti, quanto più il pensiero si approssima al concetto generale, tanto meno gli aderisce l'elemento sostanziale a cui deve lo slancio. Al culmine dello sguardo all'interno della struttura del tragico, il pensiero ricade esausto su se stesso. Laddove una filosofia, in quanto filosofia del tragico, diviene qualcosa di più del riconoscimento di quella dialettica cui concorrono i suoi concetti fondamentali, laddove essa non definisce più la propria tragicità, non è più filosofia. Pertanto la filosofia non sembra poter concepire il tragico - ovvero il tragico non esiste" (p. 64) -, tuttavia la tesi iniziale del suo saggio secondo la quale nella modernità al posto delle tragedie e delle poetiche corrispondenti si installa l'idea del tragico come oggetto di una riflessione filosofica continua a non sembrarmi molto distante da quella che sostenevo nel mio libro intorno al fatto che, assunta l'obsolescenza della tragedia nella sua versione classica, il mondo moder-

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del concetto dello spirito. Dallo scritto giovanile sulle Maniere di trattare il diritto naturale, passando per la Fenomenologia, fino alle lezioni sull'Estetica, in primo piano è sempre la corrispondenza fra il tragico e il movimento di scissione-ricomposizione che anima lo spirito. Lo stesso riferimento ad Antigone presente sia nella Fenomenologia che nell'Estetica, dove addirittura di tutto il corpus delle tragedie pervenutoci quella di Sofocle intitolata alla fanciulla vergine viene giudicata "la più eccellente e appagante di tutte", è piegato alla ricostruzione delle vicissitudini che l'idea del tragico subisce lungo il corso del pensiero hegeliano. Ora invece (un 'orà che era già tale allora), ad essere centrali sono appunto le strutture elementari della parentela, la differenza dei sessi e le differenze fra i sessi che in parte sono a fondamento delle prime e in parte ne derivano, e il ruolo che nell'antropogenesi gioca quel che Hegel fin dall'inizio aveva individuato come il "padrone assoluto"

no si provi a proseguirla sotto mentite spoglie, utilizzando linguaggi e forme a prima vista lontani se non del tutto estranei alla forma tragica quali il romanzo, la traduzione, il commento, il rifacimento-ripetizione, l'aforisma, il saggio, e, fast not least, la forma del concetto (Su questo punto aveva richiamato l'attenzione, prendendo spunto dal mio libro, CLAUDIO VICENTINI in Fine del tragico e fine del teatro, pubblicato su "Studi tedeschi", XXVII, 3, Napoli 1984, p. 83). Forse ha ragione Barnaba May a ritenere nel suo recente Idea del tragico e coscienza storica nelle "fratture" del moderno (Quodlibet, Macerata 2003) che nel valutare la tesi di Szondi bisognerebbe considerare il fatto che il saggio sul tragico del critico tedesco era stato scritto prima della edizione critico-filologica delle opere di Benjamin e quindi anche di quella della 'premessa teoretico-conoscitivà dell' Ursprung, il che gli aveva impedito di cogliere in tutta la sua portata la fondamentale distinzione epistemologica elaborata da Benjamin fra l'idea e il concetto: confondendo quindi idea e concetto, non attribuendo alla prima anche l'ambito delle distinzioni storiche - tragedia antica e tragico moderno -, Szondi sarebbe stato indotto di conseguenza a negare l'esistenza dell'idea-concetto del tragico e dunque di una filosofia del tragico (p. 32). A parziale scusante di Szondi si potrebbe osservare però che se il modello di filosofia di cui si parla resta per lui quello dell'idealismo schellinghiano-hegeliano e della sua dissoluzione posteriore, allora è impossibile evitare la conclusione che non esiste una filosofia del tragico e che ~e si vuole capire il tragico anche nella modernità bisogna allontanarsi il più possibile dalla filosofia. Sulla 'teoria delle idee' benjaminiana rinvio ai miei Walter Benjanin e la moralità del moderno, cit., in particolare pp. 307-354, e La ferma e il vincolo. Idealismo e materialismo nella dissertazione sulla critica romantica di Walter Benjamin, in B. May, D. Messina, Walter Benjamin tra critica romantica e critica del Romanticismo, Aletheia, Firenze 2000, pp. 123-168.

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cui l'autocoscienza era costretta ad inchinarsi, cioè la morte. Ciò che fa differenza fra i due lati in cui si scinde il mondo etico, la comunità, vale a dire il maschile e il femminile, l'individualità e la sostanza, la legge umana e quella divina, lo stato e la famiglia, è appunto il diverso modo con cui essi lavorano e rendono allo spirito questo dato bruto e immediato dell'esperienza umana. Dalla parte dello stato la morte è qualcosa che si impone, è un comando, un obbligo, un lavoro: il lavoro supremo, la corvée ultima e radicale, che gli individui si accollano in nome della comunità. Questo lavoro imposto, questo lavoro coatto, ha un nome: guerra. Ed è mediante l'imposizione del 'mestiere delle armi' che lo stato riafferma il suo diritto: facendo "sentire" ai suoi cittadini attraverso la guerra quale sia il loro vero e unico padrone, cioè la morte, esso impedisce allo stesso tempo che ciò su cui pure si fonda, vale a dire la libertà e l'indipendenza dei singoli, possa trasformarsi nel germe della disgregazione e del disfacimento della comunità. Se in tal modo lo stato dà un senso alla morte, essa però resta per il singolo meramente accidentale; se è vero che fin quando combatteva egli lavorava per l'universale, una volta morto questo nesso si spezza: posto pure che ne fosse il risultato, la morte cade tuttavia fuori dell'universale, vi si oppone come qualcosa di meramente naturale, senza coscienza e senza senso, e l'individuo regredisce allo stato di semplice cosa inerte e muta. Spetta alla famiglia, al legame di sangue, compiere l'altra parte del lavoro, quella che segue o dovrebbe seguire al lavoro della guerra, vale a dire il lutto, e rendere la morte nel suo aspetto più perturbante e irricevibile una dimensione spirituale e umana. La consaguineità, scrive Hegel, rende quindi completo l'astratto movimento naturale aggiungendo il movimento della coscienza, interrompendo l'opera della natura e sottraendo il consaguineo alla distruzione; o meglio, poiché la distruzione o il divenir puro essere del consanguineo son necessari, la consaguineaità prende su di sè fin l'atto della distruzione. Accade cosl che anche il morto essere, l'essere universale, divenga qualcosa che è ritornato in sé medesimo, un esserper-sè; o che la singolarità debole, pura e singola venga elevata ad individualità universale. Il morto, avendo isolato il suo essere dal suo operare o dal suo negativo, è la vuota singolarità, è solo un passivo essere per altro, un passivo essere dato in preda ad ogni bassa individualità irrazionale e alla forza delle materie astratte; quelle individualità

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irrazionali in virtù della vita di cui sono provviste, e quelle forze astratte in virtù della loro natura negativa, sono ora più potenti di lui. La famiglia tien lungi da lui questo ignominioso operare di brame inconscienti e di essenze astratte; pone l'operare proprio al posto dell'altro, e disposa il parente al grembo della terra, alla elementare individualità intraseunte; così lo rende socio di una comunità la quale domina invece e tiene a freno le forze delle singole materie e le basse vitalità che volevano scatenarsi contro il morto e distruggerlo 167 •

Se ne potrebbe concludere che mentre lo stato per Hegel rappresenta la comunità dei vivi, è tutto dalla parte della vita, ed accetta la morte, arrivando in qualche caso anche a promuoverla, soltanto se essa serve al suo mantenimento, la famiglia invece è la comunità dei morti o piuttosto è quella comunità che attraverso la memoria fonda e conserva il legame dei vivi con i morti. Che poi il lavoro del lutto ed il culto dei morti che del primo è il prolungamento mitico e rituale spettino all'elemento femminile è spiegato da Hegel con la tesi in base alla quale l'essenza etica della donna, anche quando si determina in riferimento ad un individuo specifico e determinato - un marito e/o un figlio - e persegue un proprio sentimento di piacere, è in realtà rivolta verso l'universalità, restando estranea alla singolarità del desiderio, vale a dire al riconoscimento dell'unicità e insostituibilità del suo oggetto d'amore. Ed è per questa capacità di rapportarsi all'Altro in generale senza dover passare per una individualità determinata che l' elemento femminile può assumere i singoli non solo in quanto viventi, ma anche e soprattutto in quanto morti, una volta cioè che la morte abbia interrotto il divenire carico di possibilità della loro vita e lo abbia fermato per sempre in una figura compiuta ed immodificabile, innalzandoli in tal modo "dalla inquietudine della vita accidentale alla quiete dell'universalità semplice" 168 • Ma non ogni donna compie il lutto allo stesso modo, o piuttosto ci sono modi diversi c!i relazione alla morte a seconda del ruolo che la donna assume nei, o si vede assegnato dai, rapporti di consaguineità: se le relazioni fondamentali interne alla famiglia sono tre, va-

167 168

G. F. G. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit. pp. 12-13. Ivi, p. 11.

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le a dire quella fra marito e moglie, quella fra genitori e figli, e quella fra fratello e sorella, allora una donna potrà essere rispettivamente moglie, madre, figlia ed infine sorella. I rapporti marito-moglie e genitori-figli sono per Hegel rapporti che restano nell'ambito della transizione e della diseguaglianza dei lati che li costituiscono dal momento che nel primo caso la verità della relazione è nel figlio il quale è un altro dal rapporto stesso, ne è per un verso il divenire e per un altro il dileguare; e nel secondo caso, che del primo è solo una prosecuzione, nella separazione che invitabilmente deve avvenire fra genitori e figli. Se in generale questa è la caratteristica dei rapporti principali dell' eticità domestica, essa però si manifesta nella donna con una modalià specifica: se, come si è già visto, il femminile si rapporta direttamente all'universale senza passare, se non accidentalmente, per la singolarità, allora "nel domicilio dell'eticità, scrive Hegel, ciò su cui si basano i rapporti della donna non è questo marito, non questi figli; ma un marito e dei figli in generale; non è la sensazione, ma l'universale" 169 • E in quanto all'esser-figlia questa posizione non è altro che un passaggio in vista dell'assunzione dei ruoli che le sono destinati, vale a dire di nuovo moglie e madre: per una donna quindi l'esser-figlia consiste nel1' accettare lo svanire dei rapporto coi propri genitori in quanto esso è il prezzo da pagare per giungere, come scrive Hegel, "a quell'esser-persé di cui è capace" 170 • Ricapitolando, i limiti dei rapporti marito-moglie e genitori-figli nella misura in cui costituiscono l'ossatura della riproduzione della specie e quindi della successione delle generazioni, consistono per Hegel nel fatto che essi risultano formati da una mescolanza non risolta di legame naturale e sentimento, di singolarità e universalità, di desiderio e eticità, per cui anche nel caso in cui la struttura del rapporto riconosca la necessità di amare una singolarità - questo marito e questi figli -, quest'ultima degrada immediatamente a semplice universalità - un marito e dei figli. Il sangue, si potrebbe dire, il legame di sangue, altera necessariamente il rapporto fra i sessi, impedisce cioè la relazione fra singolarità individualizzate e quindi determinate. Detto in altri

169 170

lvi, p. 17. lvi, p. 16.

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termini e di nuovo in relazione alla morte e al lavoro del lutto: morto un marito, una donna, espletato il lutto rituale, ne può sposare un altro, e morto un figlio, una donna, alle stesse condizioni, ne può generare un altro. Mariti e figli sono per una donna rimpiazzabili e in ultima analisi anche intercambiambili. Tutt'altra situazione è invece quella che si dà fra fratello e sorella: in questo caso, dice Hegel, il rapporto fra i sessi è puro, non è più mescolato. L essere dello stesso sangue, l'essere cioè consanguinei, giunge nel rapporto fra fratello e sorella "alla quiete e ali' equilibrio". Fra di essi non c'è più desiderio - cioè non c'è sesso come procreazione, riproduzione della specie -, ma semplicemente un reciproco sapersi uguali nella differenza: nessuno di loro, aggiunge Hegel, "ha dato né ricevuto l'un dall'altro questo esser-per-sé, ma sono reciprocamente libera individualità" 171 • Nonostante non possa giungere, secondo Hegel, alla coscienza e alla realtà del!' essenza etica - questo spetta solo allo stato e all'elemento maschile della differenza sessuale -, tuttavia nella figura della sorella il femminile è quasi giunto sulla soglia del suo regno, ne ha il presentimento e forse lo anticipa. E ciò è reso possibile dal fatto che agli occhi della sorella il fratello non è una singolarità desiderabile che però è allo stesso tempo indifferente, né un'essenza altra dalla propria con la quale si danno soltanto rapporti di dominio e lotta per il riconoscimento, bensì "la quieta, uguale essenza in generale": fratello e sorella sono 'uno in due', la stessa essenza solcata dalla differenza sessuale senza che quest'ultima trapassi in desiderio, vale a dire in brama di possesso e in lotta. Da ciò consegue infine che mentre per una moglie ed una madre il marito e i figli morti siano facilmente sostituibili, per una sorella "la perdita del fratello è insostituibile e il suo dovere verso di lui è quello supremo" 172 • I commentatori concordano: qui Hegel, pur senza menzionarla, sta introducendo nel discorso la figura di Antigone e quindi già anticipa e prepara il tema successivo della tragedia come crisi necessaria e inevitabile della bella vita etica, del regno etico come mondo "immacolato", non ancora infettato dal virus della scissione. Di più: Hegel

171

172

Ivi, p. 17. Ibidem.

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starebbe commentando, alla lettera come scrive Hyppolite, quel passaggio della tragedia sofoclea, esecrato da Goethe che sperava fosse un passo interpolato e, a dimostrazione di una trasversalità storica dell'incomprensione, definito "vituperevole" da Judith Butler, in cui Antigone spiega la sua scelta di seppellire Polinice, violando l'editto di Creante e rischiando in tal modo una morte precoce, con l' argomentazione secondo cui, fossero morti un marito o un figlio, avrebbe sempre potuto rimpiazzarli, ma, essendo scomparsi madre e padre, un fratello nuovo non avrebbe mai più potuto averlo. Ma è meglio leggere direttamente Sofocle: E ora, Polinice, perché seppellisco il tuo corpo, ecco cosa ottengo. Eppure, per coloro che hanno senno, io ti resi un giusto onore. Né se di figli fossi stata madre, né se lo sposo morto fosse imputridito, mai mi sarei assunta questa fatica, sfidando lo Stato. In omaggio a quale legge mi esprimo cosl? Morto lo sposo, un altro avrei potuto averne, e un figlio da un altro uomo, se un figlio avessi perduto. Ma essendo madre e padre tutti e due nascosti nell'Ade, non vi è più fratello che possa germogliare 173 • Parole dure, crudeli, quasi ciniche, inadatte sia ad una fanciulla che a una donna, e stridenti con quelle pronunciate poco prima con cui Antigone contro Creante, che si sforzava di convincerla che in

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SOFOCLE, Antigone, vv. 904-912, cito dalla traduzione di Luisa Biondetti, Feltrinelli, Milano 1987, preceduta da un saggio di Rossana Rossanda. Per il rinvio a Hyppolite, cfr. J. HYPPOLITE, Genesi e struttura della 'Fenomenologia dello spirito' di Hege4 cit., p. 421. Per la considerazione goethiana che la giustificazione portata da Antigone "turba il tono tragico e si avvicina troppo ad un calcolo dialettico" per cui c'è da sperare che qualche buon filologo dimostri "falso questo luogo", cfr. W GOETHE, Colloqui con Eckermann, cit., I, pp. 389-390. Lespressione "passo vituperevole" attribuita ali' argomentazione di Antigone si trova in J. BUTLER, La rivendicazione di Antigone (2000), tr. it. di I. Negri, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 22. Un discorso del tutto simile a quello che Sofocle mette in bocca ad Antigone si trova nelle Storie di Erodoto (3, 119) in cui viene attribuito alla moglie di lntafrene che alla domanda del re Dario su quale dei suoi parenti volesse salvare visto che erano tutti condannati a morte scelse il fratello sulla base dell'osservazione che, mentre di mariti e figli se ne possono sempre avere altri - almeno fìnchè soccorrano le grazie e la fertilità -, di fratelli, se i genitori non ci sono più, non ce n'è neanche l'ombra o, come è appunto nel caso di Antigone, ne resta solo l'ombra.

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quanto nemico della patria Polinice non meritasse alcun riguardo, affermava con orgoglio di non esser nata per condividere l'odio ma soltanto l'amore. Eppure proprio in queste parole così 'vituperevoli', se non addirittura spurie, Hegel leggeva contro tutta una schiera di interpreti, passati e presenti, più o meno famosi e variamente accreditati, il presentimento più puro che l'elemento femminile potesse avere dell'essenza etica, vale a dire dello spirito della comunità. Affermazione tanto più stupefacente se si pensa che qualche pagina dopo, una volta che il tragico ha svolto la sua opera, incrinando irreparabilmente la figura pregressa della bella vita etica, il femminile si trasforma quasi senza soluzione di continuità da presentimento della comunità in sua eterna ironia, cioè nel principio della sua dissoluzione. Accusare qualcuno di praticare l'ironia è per Hegel quasi un'invettiva o, comunque, una delle critiche più forti e radicali che sia dal punto di vista teoretico che da quello pratico si possano portare ad una posizione di pensiero: le bordate contro l'ironia romantica, prosecuzione dell'altrettanto esecrabile idealismo soggettivo fichtiano, contro i suoi effetti distruttivi e nichilistici, nelle pagine hegeliane si sprecano. Il femminile, scrive Hegel, in quanto "eterna ironia della comunità cambia co' i suoi intrighi il fine universale del governo in un fine privato, trasforma la sua attività universale in un'opera di questo determinato individuo e inverte l'universale proprietà dello Stato in un possesso e orpello della famiglià'. Non contento, dopo questo anticipato attacco al 'familismo', Hegel alza ancora il tiro: "Così la pensosa saggezza dell'età matura, che, morta alla singolarità al piacere e al godimento, nonché all'attività effettuale, pensa e cura soltanto l' universale, dal feminino è fatta zimbello alla audacia dell'immatura giovinezza e viene additata al disprezzo del giovanile entusiasmo. Il feminino eleva in generale a valore la forza della giovinezza: il figlio in cui la madre ha partorito il suo signore, il fratello in cui la sorella trova l'uomo come proprio uguale, il giovane, mediante il quale la fanciulla, sottratta alla propria insufficienza, consegue la gioia e la dignità della sposà' 174 • Hegel sembra dimenticare in questo punto del percorso fenome-

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G. F. G.

HEGEL,

Fenomenologia dello spirito, cit., p. 34.

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nologico che la 'sorellà di cui parlava poche pagine prima usciva, proprio in nome dell'amore che la legava ad un fratello d'altro canto morto, dalla serie delle posizioni parentali che si assegnano a una donna: questa sorella non sarebbe mai diventata né sposa né madre ed il fratello non poteva più incarnare per lei, posto che mai l'avesse fatto prima, il valore della giovinezza, quanto mostrare invece il suo esatto contrario: la decrepitezza del cadavere. Afferrato dall'ansia di difendere lo stato, la sua compostezza, la sua autorità, infine il suo tratto dispotico175, ossia ciò che fa di ogni stato lo stato e si ritrova identico in tutte le sue incarnazioni storiche, fossero la 'bella vita eticà o lo stato di diritto, Hegel relega l'elemento femminile dal lato della fregola sessuale in cui non c'è più nessuna Antigone che tenga perché tutte le donne, si potrebbe dire, altro non sono che variazioni di Giocasta, la cui voglia di nozze ad ogni costo è la dimostrazione, come noterà Lacan, di un desiderio, il desiderio della madre, che fin dalla sua origine è incestuoso e criminale 176 . Mentre semmai è Antigone che, facendosi carico del lato criminale della discendenza incestuosa, del fratello rinnegato e traditore della patria, porterà quel desiderio, vera e propria "sciagura del letto materno" (vv. 863-864), a compimento, vale a dire all'esaustione. Come spiegare questo voltafaccia di Hegel a proposito dell' elemento femminile prima innalzato al rango di quasi matrice dell' essenza etica e della relazione comunitaria e subito dopo abbassato a quello di principio disgregatore e fattore dissolvente? In realtà esso non si spiega, non esiste cioè nessun discorso razionale che restituisca a ciò che appare come un salto improvviso ed indefinibile la struttura di una trama continua, di una serie di nessi trasparente e comprensibile. Preferisco pensare che in quel trionfo della tonalità, del ritornare a casa, che è !"andante maestoso' del procedere hegeliano, l'emergenza di Antigone rappresenti l'elemento atonale e dissonante, il punto di sospensione e arresto dell'incedere dello spirito del mondo, quasi l' abis-

175 Su questo punto rinvio a S. LANDUCCI, Hegel: la coscienza e la storia. Approssimazioni alla 'Fenomenologia dello spirito; La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 100-103. 176 Cfr. J. LAcAN, L'éthique de la psychanalyse, Seui!, Paris 1986, p. 329, tr. it. di M. D. Contri, Einaudi, Torino 1994, p. 356.

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so seducente e vertiginoso in cui cade e va a fondo. Antigone è un hapax del discorso hegeliano, come scrive Derrida è un "esempio unico nel sistema: un riconoscimento che non è naturale e che tuttavia non passa attraverso alcun conflitto, alcuna lesione, alcuna violazione: unicità assoluta, universale eppure senza singolarità naturale, senza immediatezza; relazione di simmetria che non ha bisogno di nessuna riconciliazione per acquietarsi, che ignora l'orizzonte della guerra, la ferita infinita, la contraddizione, la negatività" 177 • Forse anche a Hegel era accaduta la stessa cosa che sarebbe capitata a Kierkegaard: passare una notte d'amore con Antigone e durante questa notte sperimentare la morte dello spirito, dell'autocoscienza traparente e consapevole, risvegliandosi al mattino come facente parte non più della comunità dei vivi ma di quella dei morti. Con la differenza che, mentre Hegel aveva fatto di tutto per dimenticarla, Kierkegaard non aveva cessato di ripeterla, non nel senso di limitarsi a ricordarla con nostalgia come una cosa del passato, bensl in quello di aspettarla dal futuro come un evento il cui avvenire non era ancora terminato 178 . Ecco il passo kierkegaardiano che avevo preparato per l'incontro di Milano: Venite allora a me più vicino, cari sunparanekromenoi (conmorenti), stringetevi a me d'attorno, mentre getto nel mondo la mia eroina tragica, mentre do per corredo alla figlia della pena la dote del dolore. Ella è opera mia, ma tuttavia i suoi lineamenti sono cosi indeterminati, la sua figura così nebulosa, che ciascuno di voi può invaghirsene e a suo modo la potrà amare. Ella è mia creatura, i suoi pensieri sono i miei pensieri, eppure è come se in una notte d'amore le avessi riposato accanto, come se mi avesse rivelato il suo profondo segreto, l'avesse esalato con la sua anima nel mio abbraccio, e in quel mentre si fosse trasformata innanzi a me, fosse svanita, cosicchè la sua realtà non si possa cogliere che nello stato d'animo che resta, piuttosto del contrario, che cioè sia generata dal mio stato d'animo a una realtà sempre più grande. Le metto la parola in bocca, eppure per me è come se abusassi della sua confidenza; per me è come se stesse alle mie

177

J.

DERRIDA, Glas, Galilée, Paris 1974, p. 170. Su questi temi rinvio al mio Ripetizione in L. SAVIANI (a cura di), Segnalibro. Voci da un dizionario della. contemporaneità, Liguori, Napoli 1995, soprattutto pp. 157-166. 178

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spalle a rimproverarmi eppure è il contrario, nella sua segretezza si fa costantemente e sempre più visibile. Ella è mia proprietà, mia legale proprietà, eppure, a volte, è come se mi fossi proditoriamente introdotto nella sua confidenza, come se dovessi costantemente volgermi indietro verso di lei, eppure è il contrario, ella sta costantemente davanti a me, ella nasce costantemente solo quand'io la presento. Si chiama Antigone 179 . Di questo brano isolerò soltanto un tratto: chi sono i sunparanekromenoi, chi sono i 'commorenti'? Come si formano, a quali condizioni, e per quale scopo, sempre che ad un 'morire-insieme' sia assegnabile uno scopo? Questa strana parola ha una sua genealogia e come sempre una sua deriva: costruita da Kierkegaard già nella forma greca, essa sembra derivare da due luoghi dei Dialoghi dei morti di Luciano e soprattutto da un passo della Vita di Antonio di Plutarco in cui, sotto la forma sunapothavoumenoi, designa una specie di associazione, setta o confraternita, denominata 'Compagni di morte', che Antonio e Cleopatra, ormai sconfitti, fondarono dopo avere sciolto quella precedente intitolata ai 'Viventi inimitabili'. Vi si iscrivevano tutti quegli amici della coppia di amanti che intendessero morire insieme a loro, passando il tempo che restava in mollezze, lusso e dispendio, godendosela insomma il più possibile. Da questa stessa fonte la parola ricompare, francesizzata (commourans), nei Saggi di Montaigne, nel capitolo dedicato alla Vanità, e citata da qui l'ho ritrovata recentemente in un saggio-conferenza di Derrida dedicato al tema del 'vivere-insieme' 180 . Provo a porre la questione partendo da quest'ultimo: quando in riferimento a conflitti in corso, come quello, ad esempio, fra israeliani e palestinesi, si porta a favore della pace l'argomento in base al quale alla fine bisogna pure che i due popoli si convincano a 'vivere-insieme' perché dopo tutto è

179

Enten-eller, cit., p. 36. l'impossible: "Retours'; Repentir et Réconciliation, in M. VV., Comment vivre ememble?, Albin Miche!, Paris 2001, p. 191. Per i rinvii rispettivamente a Luciano e a Plutarco cfr. del primo Dia!. Mort. II, 1 e X, 2, e del secondo VitaAnt. (XXVIII), 71, 3. Per Montaigne, Saggi, libro III, ca18

S.

KlERKEGAARD,

° Cfr. J. DERRIDA, Avouer -

pitolo IX, tr. it. di F. Garavini, Mondadori, Milano 1970, voi II, p. 1311. Per un'analisi del testo di Derrida e dei problemi connessi rinvio al mio Tradurre è perdonare?, in "Studium", anno 99°, settembre/ottobre 2003, n° 5, pp. 713-729.

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meglio vivere che morire, si dimentica, secondo Derrida, che non è detto che "morire insieme, nello stesso luogo e nello stesso momento" non sia per certuni, per quelli per esempio che "Montaigne chiama i 'commorenti'", la "prova suprema del 'vivere-insieme" 181 , quindi che si viva veramente insieme soltanto quando insieme si muore o ci si prepara alla morte. Morire-insieme è una forma del vivere-insieme? Ma non è questa la comunità dei morti, e dei vivi con i morti, che, secondo Hegel, era l'opera specifica dell'elemento femminile che proprio in Antigone si manifestava nella sua forma pura? Non è Antigone una commorente, colei che fa comunità coi morti e che, cosi facendo, rannoda i fili che tengono insieme i vivi e i morti? E non si diviene commorenti l'uno all'altro e l'uno per l'altro solo perché si commuore insieme a lei? Non ho mai avuto dubbi sul fatto che il coro che attornia Antigone mentre ella si avvia verso la cella che le farà da tomba, pienamente consapevole della sua atopia, del suo non appartenere né ai mortali né ai morti, del suo essere straniera agli uni e agli altri (vv. 850-853), non subisca, durante la lamentazione funebre, una vera e propria metamorfosi e da mera società dei mortali, e dunque di persone per le quali vivere è sempre meglio che morire, non divenga una comunità di commorenti, di coloro che, vivi, partecipano già fin d'ora della morte, e che per questo non sono più gli stessi che erano un minuto prima, che forse non sono più gli stessi in assoluto, che sono cioè divenuti altri ed estranei in primo luogo a sé medesimi. Perché è questo per Derrida il punto di maggiore attrito e problematicità che si incontra nella questione del 'morire-insieme'. Che vuol dire "stesso" nell'espressione "morire nello stesso luogo e nello stesso momento"? Si può morire nello stesso luogo e allo stesso momento? O la morte disperde i luoghi e i tempi, li separa e li rende incomparabili? Dove si muore? E quando? Dove avviene la morte e a che ora incomincia? O avviene sempre in un altro luogo e in un altro tempo? Non potendo collocarsi in un luogo e in un tempo determinati, non occupando nessuno 'qui e ora' specifico, coloro che formano la comunità dei commorenti sono proprio quelli per i quali è im-

181

Ibidem.

155

possibile scegliere di 'morire insieme' nel senso di vivere la morte come evento comune e in comune, decisione volontaria che si dà nello stesso luogo e nello stesso momento. In altri termini, il morire-insieme come morte-in-comune (che, come per il kamikaze palestinese o iracheno, non è mai un morire-insieme, ma solo e sempre un morire per 'l'insieme', un sacrificio) fonda forse una comunità dei vivi, ma mai la comunità dei morti, ossia dei vivi e dei morti insieme, vale a dire la vera essenza etica, il vero spirito della comunità 182 • La morte estranea da se stessi, fa diventare altro e quindi altri a se stessi. Ma se questo è vero, allora l'insieme del morire-insieme è un insieme di morti, cioè di altri, un insieme i cui elementi sono ciascuno altro rispetto all'altro e a se stesso. Essi sono uguali, ma appunto nel senso che la parola 'commorente' aveva in Luciano dove designava colui che era uguale a me perché morto esattamente come me. Il paradosso sta nel fatto che il morire-insieme non fonda alcun insieme se con questo termine intendiamo una molteplicità di individui unificata dalla partecipazione ad una qualità o un essenza comuni (essere italiani o francesi, israeliani o palestinesi, qualunque nazionalità insomma, qualunque nascita comune, qualunque fratellanza): la morte o, come si dovrebbe dire, il morire in quanto processo incessante e illimitato, non sono qualità o tratti essenziali che identificano e unificano un gruppo di individui, sono piuttosto metamorfosi e trasformazioni che impediscono proprio il 'fare gruppo', il reciproco riconoscimento ed ogni sentimento di appartenenza e di inclusione. Per parafrasare un'espressione celebre la comunità dei commorenti è la comunità di coloro che non hanno comunità, è una comunità assente e/o impossibile 183 • Tornando a Kierkegaard, i commorenti sono, se si dà retta al paratesto, i membri di un'associazione davanti ai quali vengono letti sia Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno che il testo successivo Silhouttes. Come 'compagni di morte' essi sono in primo luogo votati

182

Su tutta la questione si veda il mio La comunità e l'invenzione, Cronopio, Napoli 2001. 183 Ma in realtà Bataille conosceva il testo kierkegaardiano: la traduzione di quest'ultimo fatta da Pierre Klossovski era stata letta durante la riunione del Collegio di Sociologia tenutasi il 19 maggio 1938.

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alla notte, alla notte che accorcia tutto "il giorno, il tempo, la vita, il travaglio del ricordo in un eterno oblio", alla notte - forse la notte d'amore che si passerà in compagnia di Antigone - che è "la madre eterna di tutto e alla quale tutto nuovamente ritorna" 184. Passato un anno dalla fondazione dell'associazione i suoi membri si ritrovano per festeggiare il giorno della nascita di san Giovanni, cioè il solstizio d' estate, giorno in cui terminano le lunghe notti bianche, le notti luminose del Nord, e inizia la vera notte, la notte nera in cui tutto scompare e appunto per questo tutto può rinascere. Il punto importante è che, pur essendo persone che si uniscono per attendere insieme l' avvento della morte, nessuno di essi tutttavia è morto nel frattempo né tantomeno si è tolto la vita: nonostante considerino la morte come il bene supremo, essi sono "personalmente troppo orgogliosi per farlo"185, troppo orgogliosi per morire e/o per anticipare la morte. Come i loro antenati e prototipi Antonio e Cleopatra, i commorenti attendono una morte che sanno inevitabile e vicina ma lo fanno incrementando i piaceri della vita, cercando di gustarne il sapore fino all'ultimo; in altri termini essi indeterminano il rapporto fra la vita e la morte, contaminano la vita con la morte e la morte con la vita, accomunano fino all'indiscernibilità l'esser vivo e l'esser morto. Ed è da questa capacità di occupare lo spazio intermedio fra la vita e la morte, di vivere nell'imminenza incessante della morte, che deriva anche quella di comprendere la natura frammentaria d'ogni ricerca che l'uomo intraprende per conoscere la sua condizione e il suo destino. Le poche verità che l'uomo può giungere a sapere su se stesso sono quelle che faticosamente vengono strappate al "nesso infinito della naturà', alle concatenazioni meramente causali, al legame mitico fra la colpa e il castigo, i quali quindi vanno spezzati ed interrotti, fatti sprofondare nella notte, perché cessino di condizionare le scelte e i comportamenti. Contrasta quindi con gli scopi dell'associazione dei commorenti pensare di produrre "opere fornite di nesso o giganteschi sistemi", lavorare alla costruzione di una nuova "torre di Babele che Dio, nella sua giustizia, possa venire a distruggere": essi hanno impa-

184 185

S. KiERKEGMRD, Enten-elfer, cit., p. 55. Ivi, p. 54.

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rato "che quella confusione avvenne a buon diritto" e che di conseguenza "la ricchezza di un'individualità sta proprio nella sua capacità di prodigarsi frammentariamente", e che il suo godimento non consiste nell"'esecuzione laboriosa e precisa" o nel "lungo concepimento di questa esecuzione", ma al contrario nella produzione della "sfavillante fuggevolezza'' 186 • Dal momento che la nostra epoca, andando in controtendenza rispetto alle analisi e alle previsioni hegeliane, "ha perduto tutte le determinazioni di famiglia, stato e stirpe" e deve quindi "abbandonare completamente a se stesso il singolo individuo", il quale, essendo divenuto "nel senso più forte della parola il suo proprio creatore" 187 , non può più affrontare la colpa familiare attraverso una collisione tragica, ma può soltanto viverla come dolore privato, l'unica possibilità, secondo Kierkegaard, che resta all'individuo per liberarsi del peso che grava su di lui consiste nel disfare l'opera del giorno e nell'affrettare l'avvento della notte, compiendo in tal modo degli atti che, sul piano soggettivo, si traducono nel vivere come se si fosse morti, nell'indeterminare il rapporto 'vita-morte'. Al posto della collisione tragica che anche per Kierkegaard resta sostanzialmente quella delineata da Hegel - scontro fra famiglia e stato, legge divina e legge umana, sostanza e individualità, femminile e maschile - deve subentrare allora un'altra dialettica che prende la forma di un rapporto d'esclusione fra il segreto e l'amore: il segreto è la colpa paterna 188 che non si può condividere con nessuno e l'amore è quella passione che imporrebbe la trasparenza assoluta con l'amato e dunque l'assenza del segreto. Ma se la colpa venisse confessata ed entrasse in tal modo nel giorno dello spirito, essa allora sarebbe di nuovo afferrata dal nesso infinito della natura e non finirebbe mai. Solo se resta segreta e viene trascinata nella notte essa può esaurirsi e sva-

186 Ivi, p, 34. Cenni sul significato del tema dei 'commorenti' in Kierkegaard in E. ROCCA, L'Antigone di Kierkegaard e la morte del tragico, in M. VV., Antigone e la filosofia (a cura di P. Montani), Donzelli, Roma 2001, p. 81. 187 Ivi, p. 31. 188 Colpa paterna di Antigone che non è altro che la colpa del padre di Kierkegaard, colpa che sta ali' origine della sua impossibilità di sposare Regina 01s,en: su questo punto vedi D. BREZIS, Kierkegaard et les jìgures de la paternité, Les Editions du cerf, Paris 1999.

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nire: a condizione che chi è il detentore del segreto svanisca anch'egli nella notte, lasciando semmai dietro di sé una scia di luce che resiste ancora per un attimo prima di spegnersi definitivamente. Che cos'è Antigone se non uno sfavillio fuggevole, un repentino bagliore nella notte? Nell'incontro di Milano questa insistenza su Kierkegaard che, unita a tutto il resto, contribuiva ad avvalorare una lettura della figura di Antigone in chiave esplicitamente antihegeliana, venne duramente contestata da Giacomo Contri, psicoanalista di scuola lacaniana e curatore e traduttore in Italia degli Écrits. Reduce da un seminario dedicato ad Antigone 189 fortemente influenzato dalle discussioni seguite alla proiezione del film di Margarethe von Trotta Anni di piombo (1981) in cui la stagione del terrorismo tedesco degli anni '70 era raccontata attraverso la storia del rapporto fra due sorelle una delle quali membro della Rote Armee Fraktion, Contri prendeva posizione contro tutta una serie di rifacimenti e riscritture dell'Antigone in cui all'eroina tragica viene attribuita una posizione ed una volontà rivoluzionarie, antagonistiche rispetto all'ordine vigente 190 . La fuoriuscita dalla struttura edipica quale invece si riscontra ancora nell'Edipo a Colono, estromette, secondo Contri, l'Antigone da ogni forma drammatica: non c'è dramma di Antigone, cioè non c'è dialettica e quindi svolta, trasformazione, ma soltanto l'affermazione monotona e ripeti189

Di cui resta una traccia in G. CONTRI, Tolleranza del dolore, Shakespeare & Company, Milano 1983, pp. 205-207. 190 La sceneggiatura del film della von Trotta si ispira alla storia reale di Christiane e Gudrun Ensslin: quest'ultima, membro della RAF o banda BaaderMeinhof, fu trovata 'suicidatà per impiccagione insieme ai suoi compagni nel carcere di Stammheim nel 1977. Come ricorda Rossana Rossanda quando ciò accadde e si tentò di far passare la strage per un suicidio, molte città tedesche si rifiutarano di seppellire i corpi nei loro cimiteri, finchè il sindaco di Stoccarda, il socialdemocratico Rommel, figlio della 'volpe del deserto', non mise fine all'incresciosa situazione autorizzando funerali e intombamento: cfr. R. RossANDA, Antigone ricorrente, in Sofocle, Antigone, cit., p. 13. Fra i momenti più importanti di questo tipo di lettura della figura di Antigone vanno annoverati in primo luogo il rifacimento brechtiano che situa l'Antigone moderna dalla parte della resistenza tedesca antinazista, non senza aver stigmatizzato il ritardo colpevole della sua presa di posizione, la storica edizione del testo brechtiano da parte del "Living Theater" nel 1967 e il film I cannibali di Liliana Cavani del '69: su tutto questo si veda G. STEINER, Le Antigoni, cit., pp. 171-172.

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riva di "una e una sola e finora eterna volontà". Una volontà, specifica e rincara Contri, "che sarebbe equivoco chiamare di ferro, o d'acciaio, staliniana (è qui che Brecht non capisce), poiché la metafora che le si addice, a questa volontà cui è identica Antigone, è piuttosto quella del piombo" 191 • Limmagine del titolo del film della von Trotta - Anni di piombo - allarga il suo raggio d'azione: quel plumbeo che attribuisce agli anni settanta diventa per Contri un autentico 'affetto' in grado di connnotare un atteggiamento patologico nei confronti del mondo e della storia, simile e pari negli effetti "all'angoscia, alla noia, alla tristezza, al malumore, alla depressione" 192 • Questa Antigone oscillante fra il pessimismo di Schopenhauer e lo spirito del risentimento nietzscheano è per Contri il risultato - ed è il punto chiave di questa presa di posizione etica prima ancora che teoretica - dell'effetto seducente operato dallo "spirito della Normà' quando ci si illude, come un' anima bella che per sovramercato sia afferrata anche dal delirio della presunzione, "di opporlo alla sua letterà' 193 • Il conflitto fra le leggi scritte e non scritte, fra legge umana e divina, fra legge dello stato e legge familiare, non incarna più una dialettica fra sfere distinte dell' eticità, come accade in Hegel, ciascuna avente il suo diritto e la sua legittimità, ma si snatura in un'opposizione, non dialettica e per questo sterile, che si svolge tutta all'interno della sfera del Diritto astratto, vale a dire della Norma, e che si gioca fra lo spirito e la lettera, ossia fra l'universalità formale della legge che è sempre identica a se stessa e la sua applicabilità alle situazioni empiriche e determinate che la diversifica e la smussa. Antigone, che da questo punto di vista tende ad assomigliare ad una seguace del rigore della legge morale kantiana o della Norma fondamentale kelseniana, richiede che queste ultime siano applicate indipendentemente dalla configurazione della situazione: per lei, cioè, "Si deve", "È legge", seppellire il morto in ogni caso, anche in quello in cui egli sia un traditore, un assassino, un terrorista (oggi anche: un se-

191

G.

192

Ibidem. Ibidem.

193

CONTRI,

Tolleranza del dolore, cit., p. 206.

160

rial killer, un pedofilo, un mostro perverso; ma in passato - non lo si dimentichi - ciò valeva anche per un attore, un eretico etc.). :Costinazione nel non tener conto della situazione, l'attaccamento alla Legge come oggetto d'amore - da cui la seduzione della Norma di cui parla Contri - l'impossibilità soggettiva di mutare, contribuiscono a comporre progressivamente la sindrome malinconica o maniaco-depressiva che nella sua forma estrema implica il suicidio o il lasciarsi morire e di cui Antigone sarebbe l'incarnazione più riuscita: quanto più, dunque, il nostro tempo è sedotto dalla Norma, fagocitato dal diritto e/o dalla moralità soggettiva, e fugge inorridito dall'eticità, tanto più Antigone diventa la figura ideologica, quindi falsificante, in cui esso si riconosce e si legittima. Il potere di seduzione della figura di Antigone è talmente forte, secondo Contri, da colpire anche coloro che dovrebbero essere i più illuminati esponenti e interpreti della modernità, cioè gli psicoanalisti "fra i quali, infatti, v'è stato chi ha creduto di leggere nell'Antigone il dramma del desiderio irriducibilmente assunto, invece che l'abdicazione mortifera all'assumersi come desiderante" 194 • Non credo di sbagliare se dietro quello che Contri non esita a chiamare "un equivoco psicoanalitico" leggo lo stesso nome di Lacan. All'epoca il testo del seminario sull'Etica tenuto nel 1959-60, in cui tre sedute sono interamente dedicate all'interpretazione dell'Antigone sofoclea, se circolava negli ambienti degli psicoanalisti lacaniani lo faceva sotto la forma di trascrizioni dattiloscritte, oggetto spesso di culto, di baratto, a volte anche di lucro, ma soprattutto tali da generare piccole isole di sapere esoterico, gelose del proprio possesso esclusivo della voce del maestro e pronte quindi a tradurlo in privilegio. La pubblicazione dell' edizione Miller avvenuta nel 1986, pur con tutti i limiti che ad essa vanno addebitati, pose fine a questa situazione e permise l'accesso democratico al discorso magistrale. E ciò non fu senza sorprese. Sorprese gradevoli per me, non so per altri, che vi vedevo confermate sia una certa interpretazione congiunta di Antigone e della tragedia in generale, ma soprattutto una lettura della psicoanalisi lacaniana di cui avevo incominciato ad occu-

194

Ibidem.

161

parmi 195 • In primo luogo la tesi che Antigone, Antigone come personaggio tragico che una maschera più che un attore fa agire sulla scena di un teatro davanti a degli spettatori, sia nient'altro che un'immagine, un'imago nel senso freudiano, insomma un fantasma di desiderio e/ o il fantasma del desiderio, del desiderio in quanto tale che non solo si rende visibile (imeros enarghes: vv. 795-796), ma che dal, e, nel medium della bellezza viene condotto al massimo del suo fulgore (éclat) e della sua luminosità, spinto fino allo splendore. Solo la scena, e in particolare quella tragica, concede questo trionfo della visibilità, dell'esposizione integrale e senzi resti, ai limiti del porno, dell'essenza inessenziale dell'essere umano, cioè del desiderio. Ragion per cui, d'altronde, questa luminosità non può che essere fuggevole, spegnersi con la stessa velocità con cui si è accesa. Memore, forse, del Rilke della prima elegia duinese, per il quale il bello è solo il principio del terribile, del terribile quando è ancora sopportabile e "disdegna di annientarci" 196 , anche per Lacan la bellezza non può durare a lungo ed il suo operare deve rapidamente trasformarsi in "un effetto di accecamento" 197 . Qualcosa, infatti, "accade ancora più in là", poco più in là del bello, dentro e tuttavia fuori di esso, "che non può essere guardato" 198 , pena la scomparsa del desiderio e del soggetto. Questo "più in là", questo al di là del principio del piacere e

195

Nel 1981, anno della morte di Lacan, era uscito sul Mattino di Napoli un necrologio a mia firma intitolato Stile di un uomo ("Il Mattino", venerdì 11 settembre 1981). Successivamente mi sono occupato della teoria dei quattro discorsi: cfr. Il discorso e la cenere. Dieci variazioni sulla responsabilità filosofica, Guida, Napoli 1988, pp. 163-235; del seminario sulla lettera rubata: cfr. La lettera disseminata e l'invenzione della verità. Poe, Lacan, Derrida , in M. VV., Palinsesto. I modi del discorso letterario e filosofico (a cura di Giuseppe Zuccarino), Marietti, Genova 1990, pp. 117-146; del tema del dono: cfr. Il dono di Lacan , in La questione della fobia nell'insegnamento di Jacques Lacan (a cura del "Centro lacaniano" di Napoli, di "Cosa freudianà' di Roma e della "Fondazione europea per la psicoanalisi"), Roma 1993, pp. 37-50; e infine della teoria dell'amore: cfr. Agalma o la metafora dell'amore . Jacques Lacan commenta il Simposio di Platone, in Fabio Ciaramelli, Bruno Moroncini, Felice Ciro Papparo, Diffrazioni. La filosofia alla prova della psicoanalisi, Guerini e Associati, Milano 1994, pp. 77-193. 196 Cfr. R. M. RILKE, Elegie duinesi, tr. it. di A. Giavotto Ki.inkler, in Io. Poesie (a cura di G. Baioni), Einaudi, Torino 1995, II, p. 55. 197 J. LACAN, L'éthique de la psychanalyse, cit., p. 327, tr. it. p. 354. 198 Ibidem.

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di quello di realtà, questo al di là del fallo, è la morte: l'immagine cui mira il desiderio, quest'immagine "che, dice Lacan, detiene non so quale mistero finora inarticolabile perché faceva chiudere gli occhi quando la si guardavà' 199 , è la morte, lo stesso padrone assoluto di cui parlava Hegel2°0 • Ma prima di affrontare questo tema, d'altronde decisivo nella lettura lacaniana dell'Antigone, prima cioè di interrogarci sulla posizione atopica dell'eroina tragica, sul suo stare 'tra-due-morti', e sull'uso radicalmente antihegeliano di questa eredità hegeliana, soffermiamoci ancora sul ruolo e la funzione che Lacan attribuisce alla bellezza. La natura di quest'ultima è duplice: da un lato il bello, rendendo visibile il non visibile, permette uno sguardo sulla morte, dall'altro impedisce che in questo al di là (vale a dire ciò che da sempre chiamiamo Tal di là') ci si butti a capofitto. Il bel'o apre e nello stesso tempo sbarra l'accesso all' al di là, è come una soglia o, per stemperare il tono tenebroso di questo discorso, assomiglia a una porta girevole che ci può far fare capolino nel fuori terribile e pericoloso senza dover effettivamente mai uscire dal dentro che ci protegge e ci rassicura. A differenza del bene che, stante l'assunto aristotelico (Et. Nic. I, 1, 1094a), del desiderio è il termine cui, come ogni cosa, tende, il fine (telos) dalla natura destinatogli in cui acquietarsi e perdere ogni tratto mostruoso e/o criminale, il bello al contrario funge da forma, eidos, nel senso tutto platonico dello schema o della figura (e senza d'altra parte implicare nessun cedimento lacaniano a qualunque 'idealismo' filosofico), in cui, senza conseguenze disastrose, giunge a manifestazione il suo lato eccessivo e tracotante. Mentre il bene non fa che ingannarci intorno alla natura del desiderio, il bello, scrive Lacan, "ci sveglia e forse ci adatta (accommode)" 201 su di esso, più propriamente mette a fuoco il desiderio e fa in modo che se ne distinguano i contorni affinchè si rendano visibili i tratti che lo contraddistinguono, vale a dire gli aspetti fantasmatici e ingannevoli. Essendo il bello un gioco di specchi, un trionfo dell'apparenza sia in senso positivo - l'appa-

199 200

Kojève. 201

Ivi, p. 290, tr. it. p. 314. Quasi superfluo ricordare che il rinvio a Hegel è mediato in Lacan da

J.

LAcAN, L'éthique de la psychanalyse, cit., p. 280, tr. it., p. 303

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renza come manifestazione dell'essenza - che in negativo - l' apparenza come trucco ed illusione -, esso non solo corrisponde al desiderio, ma è anche ciò che può sospenderlo o almeno disarmarlo. "La manifestazione del bello, dice Lacan, intimidisce, proibisce il desiderio" 202 . Ma intimidirlo o proibirlo non vuol dire negarlo, implica solamente che il bello sopporta più di ogni altra cosa quell'andare al di là che spinge il desiderio, che esso resta "insensibile all' oltraggio" 203 . Da qui deriva quella capacità dell'immagine artistica, della bella immagine, di produrre catarsi in un senso - essere purificati dalle passioni che ci agitano - che da Aristotele a Freud resta immutato: cimentandosi anche lui a dire la sua sul controverso passo aristotelico in cui la tragedia è definita come quell'opera "adatta a suscitare pietà e paura, producendo di tali sentimenti la purificazione che i patimenti rappresentati comportano" (Poetica, 6, 5-10) 204 , Lacan opta, se non del tutto almeno in parte, per quella lettura che, inaugurata da Goethe, si è imposta fino a noi come l'unica corretta, non senza aver lambito Freud per il tramite di Jakob Bernays. Secondo questa interpretazione sono i patimenti (pathemata) subiti dai personaggi del dramma e rappresentati sulla scena a purificare da quelle emozioni, la pietà e la paura, suscitate negli spettatori, di cui il coro fa le veci all'interno dell' azione205, dalla visione dell'opera tragica. In altri termini, i patimenti che producono la purificazione non sono a loro volta pietà e paura e di conseguenza l'interpretazione psicologista e moraleggiante del testo aristotelico, fondata sul principio dell'identificazione, è destituita d' ogni senso 206 .

202

203

/bidem. Ivi, p. 279, tr. it., p. 302.

204

Uso la traduzione e seguo il commento di Carlo Gavallotti (Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1974). 205 J. LAcAN, L'éthique de /,a psychanalyse, cit., p. 295, tr. it. p. 320. 206 Nelle Note supplementari al/,a "Poetica" di Aristotele Goethe si chiede come ''Aristotele, che si rapporta sempre ali' oggetto, avrebbe potuto, discorrendo propriamente della costruzione della tragedia, pensare ali' effetto, e ancor più, ali' effetto imprecisato che una tragedia poteva avere sugli spettatori? In nessun modo! Egli dice con chiarezza e precisione: dopo aver utilizzato i mezzi che suscitano la pietà e il terrore, è necessario che la tragedia concluda la sua opera sulla scena con l'equilibrio e la riconcilazione di tali passioni" (cfr. W. GOETHE, Note supplementari sul/,a "poetica "di Aristotele, tr. it. di P. Necchi e M. Ophalders in Io.,

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Il risultato per Lacan è il seguente: dopo aver rimarcato che né Antigone né Creonte sembrano "conoscere pietà e paurà' 207 e che anzi la prima è addirittura fredda, selvaggia ed impietosa, ferina e crudele come mostrano le sue "vituperevoli" parole, Lacan può dire che è proprio per il fatto di non 'cedere sul proprio desiderio', anzi di assumerne fino in fondo il carattere eccessivo e necrofilo, che il fantasma di Antigone, la sua immagine che campeggia sulla scena, il fulgore che irradia - il sorriso di cui si parlava nel mio libro fino a dargli il titolo - producono l'effetto della purificazione, ci lasciano quella paradossale sensazione di pienezza e appagamento che segue la fruizione della rappresentazione artistica anche quando il suo oggetto sia lo scatenamento delle passioni più violente e dolorose. Insomma la purificazione non scaturisce dalla repressione o dall'idealizzazione delle passioni, ma al contrario dalla loro liberazione, dalla loro emancipazione dal vincolo del bene, e quindi dal loro essere perseguite - e non perseguitate! - fino in fondo: a condizione, l'unica richiesta, che questo scatenamento avvenga in e attraverso una forma - indifferentemente quella tragica, quella del bello o quella rappresentata dalla 'curà 208 •

Scritti sull'arte e la letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 1992. p. 266). Jakob Bernays era lo zio della moglie di Freud, Martlra: sulla sua posizione rispetto alla recezione della poetica di Aristotele si veda C. GENTILI, Ermeneutica e metodica, Marietti, Genova 1996, pp. 13-18. Sulla catarsi cfr. U. CURI, "Introduzione" a M. VV., Metamorfosi del tragico fra classico e moderno, Laterza, Roma-Bari 1991, soprattutto pp. 4-14. 207 J. LACAN, L'éthique de la psychanalyse, cit., p. 300, tr. it., p. 326. 208 L:assunto del seminario sull'etica della psicoanalisi è che vi sia isomorfismo fra la struttura della tragedia e la direzione della cura analitica; ciò non vuol dire che questa sia l'unica posizione lacaniana sulla questione dell'etica, semplicemente che è quella teorizzata all'altezza del seminario del '59-60. A ciò va aggiunto che dal momento che per Lacan il modello standard di un'analisi è l'analisi didattica e che pertanto per lui non c'è differenza, se non empirica, fra quest'ultima e quella cosiddetta personale, la posizione di Antigone rispetto al desiderio diventa quella che ogni analista deve avere riguardo al desiderio che lo abita e alle volte lo devasta, cioè al desiderio di essere uno psicoanalista. Resta vero però che la posizione di Antigone è quella che volente o nolente è chiamato ad assumere qualunque 'analizzante', anche quando e soprattutto, com'è nella maggior parte dei casi, non sia e non si sogni neppure di essere un eroe tragico. La tesi di Lacan va assunta nello stesso senso per cui per Freud ciascuno di noi ripercorre che lo sappia o no il percorso di Edipo così com'è esemplato nell'Edipo tiranno di Sofocle. Bisogna riconoscere che di fronte al seminario sull'etica la posi-

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Resta da chiarire adesso, al di là degli accenni già disseminati qua e là lungo il discorso, perché per il seminario sull'etica solo il bello e non il bene possa svolgere il ruolo di purificatore delle passioni al modo già indicato. Perché bisogna liberare preliminarmente il desiderio dal vincolo del bene? Forse che il bene non purifica, non mira a tener lontane dalla comunità le passioni che producono violenza, disgregazione e morte? È evidente che questo è il compito e l'obiettivo del bene di cui chi di volta in volta governa la comunità - re, tiranno, sovrano in generale - si fa pegno e garante; solo che il modo con cui il sovrano mira alla realizzazione del bene che, come sempre, si declina sia come il più gran bene in assoluto - il sommo bene - sia come il bene del numero più grande - il bene di tutti -, produce un effetto contrario a quello che ci si proponeva e, passando per la segregazione e l'esclusione - passando cioè per i dispositivi dell'immunizzazione per dirla con Roberto Esposito 209 -, perviene, quasi senza accorgersene, alla dissoluzione di quella comunità della cui consistenza in realtà doveva farsi carico. Ragion per cui ciò che lo caratterizza non è, come si continua a credere per scaricarsi la coscienza, il delirio di onnipotenza o l'arroganza del comando, ma più banalmente l'errore di giudizio e la betise. Il sovrano è bete, il che non gli impedisce di essere sadico, di volere, all'inizio solo per una parte dei suoi sudditi, ma alla fine per tutti, cioè anche per se stesso, la sofferenza eterna210 , e quindi l'eterna riproduzione delle vittime. È nel dramma sofocleo la posizione di

zione di Giacomo Contri non è rimasta isolata tanta è la difficoltà o la resistenza che la sua radicalità produce: la critica più esplicita è da questo punto di vista quella di Patrick Guyomard che nel suo La jouissance du tragique. Antigone, Lacan et le désir de l'analyste (Frammarion, Paris 1998, prima edizione 1992) accusa Lacan di "idealizzare l'analista idealizzandone il desiderio" (p. 130) e di postulare cosi "un nuovo bene" (p. 35), appunto il desiderio puro, il desiderio puro di morire di Antigone inteso come nuovo ideale. Sulla stessa lunghezza d'onda si muove M. S!LVER, L'etica della psicoanalisi. Il percorso della perversione da Freud a Lacan, tr. it. di L. Quaquarelli, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 129-152. La miglior lettura del seminario di Lacan resta quella di Philippe Lacoue-Labarthe, De l'éthique: à propos d'Antigone, in M. W., Lacan avec !es philosophes, Albin Miche!, Paris 1991, pp. 19-36. 209 Cfr. R. ESPOSITO, Immunitas, Einaudi, Torino 2002. 210 J. LACAN, L'éthique de la psychanalyse, cit., p. 303, tr. it., p. 330.

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Creonte: Lacan insiste ripetutamente sul fatto che Creante non è il personaggio tragico, non è l'eroe, la passione che lo agita non è la hybris, la tracotanza, l' oltraggiosità, che come si è visto appartengono ad Antigone; è semmai un controeroe, un eroe secondario, la cui colpa è I' amartia, vale a dire un errore, uno sbaglio, una scemenza, una cantonata211. In cui però da vero stupido qual è s'incaponisce, si fissa, provocando alla fine la distruzione propria e altrui. Creonte vuole una sola cosa: vuole il bene della città di Tebe, il bene di tutti i tebani, il bene della comunità212 . Dal momento che Polinice, qualunque fosse il suo diritto usurpato, si è alleato con la città di Argo, nemica storica di Tebe, e ha marciato contro la sua patria a capo dell'esercito nemico, dimostrando di non volere il bene della sua città, egli, sconfitto e ucciso, non merita nemmeno di essere sepolto fra i suoi cari. La pena che Creonte gli commina dopo morto è quella, terribile, della seconda morte, ossia di essere cancellato non solo dalla comunità dei vivi ma anche da quella dei defunti che il culto della memoria conserva nel cuore dei sopravvissuti 213 . Di Polinice non deve restar niente, nemmeno il ricordo, nemmeno il nome: nessuno dovrà sapere in futuro di chi era figlio, di chi fratello, come visse e morl. Come se non fosse mai nato, mai entrato nella catena delle generazioni, mai esistito. Al di là della questione se si possa mai veramente infliggere a qualcuno la seconda morte o se essa non sia intimamente contraddittoria per il fatto di volere da un lato l'annullamento integrale di qualcuno e dall'altro di essere costretta a riconoscere che resta sempre qualcosa che non si riesce a distrugge-

211 lvi, p. 323, tr. it., pp. 349-350. In questo caso Lacan accetta la descrizione aristotelica dell' amartia ma nega che essa caratterizzi come sembra credere Aristotele l'eroe tragico. Comunque il passo aristotelico recita cosi: "Resta dunque (come possibile eroe tragico) il personaggio intermedio: colui che senza eccellere in virtù e giustizia, cade nella sventura per una qualche colpa, e non per la sua cattiveria o perfidia, mentre appartiene al numero di chi vive di grande reputazione e felicità, come Edipo e Tieste e gli altri uomini insigni di tali casato" (Poet. 13, 3, 21). 212 Ivi, p. 301, tr. it., p. 327. 213 Il tema della 'seconda morte' appartiene alla tradizione cristiana ed è responsabilità di Lacan la decisione di applicarlo alla tragedia greca. Lo si trova nell'Apocalisse di Giovanni (2,11 e 21, 8) e poi soprattutto in Agostino da cui deve essere giunto a Lacan: cfr. in particolare De civitate Dei, XIII, 8.

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re (da cui l'inevitabile eternizzazione della vittima), il punto chiave dell'interpretazione di Lacan è che la relazione fra i due atti - volere il bene di tutti e infliggere la seconda morte - non è per nulla casuale. Essi non solo sono compatibili, sono consustanziali l'uno all'altro: "Il bene, scrive Lacan, non può affatto regnare su tutto, senza che compaia anche un eccesso, delle cui conseguenze fatali la tragedia ci avverte"214. In altri termini, il bene di tutti, la cui realizzazione fonda il diritto della sovranità, implica necessariamente un regime di esclusione. E non l'esclusione come semplice esilio, allontanamento temporaneo, oppure periodo lungo o breve di carcerazione o ancora, ma nei casi estremi, come sottrazione della vita; no, l'esclusione integrale e definitiva, l'esclusione dalla catena delle generazioni, dalle strutture elementari della parentela. Non è quindi un caso se siano proprio queste ultime quelle leggi non scritte che ordinano ad Antigone di seppellire Polinice. Lacan sfrutta fino in fondo il passo sofocleo in cui Antigone, rispondendo a Creonte, dichiara che nel seppellire Polinice non ha obbedito né alle leggi di Zeus né a quelle di Dike che vive insieme agli dei sotterranei, ma si è attenuta a quelle leggi degli dei che, sebbene non scritte, tuttavia sono infallibili e che "non da oggi, non da ieri, ma da sempre sono vive, e nessuno sa da dove attinsero splendore"(vv. 450-457), per dimostrare come a questo livello del percorso tragico non siano più in gioco i nomoi, le leggi positive, codificate e scritte, siano esse quelle dello stato e/ o quelle della famiglia, bensl si tratti di "una certa legalità, conseguenza delle leggi agrapta - tradotto sempre con non scritte, che è infatti quel che vuol dire - degli dei", la cui evocazione rinvia certamente a qualcosa che è "dell'ordine della legge, ma che non trova sviluppo in alcuna catena significante, in niente". Questo orizzonte, questo limite, che è quello su cui si attesta Antigone, è "determinato da un rapporto strutturale - esiste solo a partire da un linguaggio di parole (mots), ma ne mostra la conseguenza invalicabile": poiché le cose esistono in quanto nominate da un significante; dal momento in cui qualcuno è detto mio fratello, mio fratello esiste e niente e nessuno possono ricacciarlo nel non essere. Det-

214

J.

LACAN, L'éthique de la psychanalyse, cit., p. 301, tr. it., p. 328.

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to in altri termini: "Mio fratello è quello che è, ed è perché è quello che è, e che non c'è lui che possa esserlo, che avanzo verso questo limite fatale" 215 • È dunque dal recesso più nascosto di queste stesse leggi agrapta che discende il desiderio che costringe Antigone ad andare, seguendo l'Ate, la sciagura familiare, ad occupare quel limite che separa le strutture elementari della parentela e la catena delle generazioni dal nulla che le precede e da cui vengono, e che di conseguenza non può non configurarsi che come quel luogo inassegnabile fra la prima e la seconda morte, fra la morte che si trasforma in sopravvivenza e quella che vorrebbe annullare la vita in quanto tale. Tra la legge simbolica o l'ordine del significante - così Lacan ribattezza, non senza sostanziali cambiamenti, le levi-straussiane strutture elementari della parentela - e la realtà del desiderio non c'è contraddizione: se le prime sono lo scheletro formale e formalizzabile delle relazioni parentali intese come l'architettura della riproduzione della specie, il secondo né è l'anima nera e infernale, la pulsione mostruosa e criminale. Il desiderio fa da sostegno reale della legge che altrimenti come pura forma si volatizzerebbe e in cambio la legge trasmette il desiderio che senza.iscrizione significante ricadrebbe al livello preumano. Il che vuol dire che, come d'altronde attesta il tardo Freud - cui qui più che altrove Lacan ritorna - l' es come concentrato della filogenesi, legato testamentario di tutta l'eredità della specie umana presso il nuovo nato, trasmette insieme alla voglia di legame, alla spinta all'unione, inevitabilmente incestuose anche quando appaiano rispettose dei divieti e degli interdetti - Edipo docerl -, insomma insieme a Eros, anche Thanatos, vale a dire la spinta contraria mirante alla divisione, alla separazione e all'inimicizia. E dal momento che le due pulsioni s'impastano fino all'indirscenibilità, risulterà sempre indecidibile, aporetico, ossia tragico, sapere se l'amore dichiarato per un altro, per il suo bene e la sua felicità, non nasconda in realtà un'intenzione criminale, e se il perseguimento del desiderio puro di morire non sia la condizione di nuovi legami della vita comunitaria.

215 Per questa e le precedenti ivi, p. 324, tr. it., p. 351. Ovviamente in quest'ultimo passo Lacan non si esime dal far riferimento all'incomprensione goethiana rispetto alle ormai famose "vituperevoli" parole di Antigone.

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Inutile nasconderselo: la lettura di Lacan riprende ed intensifica un'interpretazione dell'Antigone - della figura da un lato e della tragedia sofoclea dall'altro - condotta in chiave decisamente antipolitica. Come si è già visto, quando l'etica cui si rifà, in modo esplicito od implicito, l'agire del politico è l'etica del bene, l'effetto è quello della segregazione di ogni desiderio: pur riconoscendo che 'l'ordine dei poteri' non sia affatto qualcosa che vada disprezzato, dal momento che i propositi della psicoanalisi non sono certamente anarchici, tuttavia per Lacan è decisivo saperne indicare il limite. Rispetto a quel che si riferisce al desiderio, "al suo concerto e sconcerto, la posizione del potere, quale che sia, in ogni circostanza, in ogni incidenza storica e non, è sempre stata la stessà', e cioè il rinvio del desiderio fatto in nome del bene. L'esempio di Lacan è come sempre brutale: Qual è il proclama di Alessandro all'arrivo a Persepoli come pure di Hitler all'arrivo a Parigi? Il preambolo importa poco - Sono venuto a liberarvi da questo o da quello. Lessenziale è questo - Continuate a lavorare. Il lavoro non si fermi. Che vuol dire - Beninteso questa non è in alcun modo un'occasione per manifestare il minimo desiderio. La morale del potere, del servizio dei beni, è - Per i desideri ripassate. Che aspettino 216 •

216

lvi, p. 363, tr. it., pp. 395-396. Non ho dubbi che dietro le maschere di Creonte e Antigone Lacan stia in realtà tentando di formalizzare la comprensione dell'evento chiave di tutto il novecento, ossia il nazismo, la soluzione finale e lo sterminio. Hitler è come Creonte, come ogni incarnazione della sovranità la cui etica, quando si declini come un'etica del/dei bene/beni, produce inevitabilemente una politica di sterminio. Laffermazione più irricevibile di Lacan da parte di una tradizione umanistica è quella secondo la quale anche Hitler voleva il bene di tutti (gli ariani) e voleva ricoprire tutti (gli ariani) di tutti i beni; e per farlo non poteva che infliggere la seconda morte agli ebrei e a qualche altro degenerato. Ciò che è decisivo nello sterminio perché esso sia un hapax non è né l'assassinio di massa, né la crudeltà, né il carattere industriale della produzione dei cadaveri, ma soltanto la spinta micidiale a non lasciare tracce: non solo devono scomparire tutti i corpi, ma, una volta che l'ultimo deportato sia stato gasato e fatto cenere, bisogna smantellare i campi, bruciare le carte che ne attestano il lavoro, eliminare gli esecutori di secondo grado, e poi dimenticare di aver desideraro, voluto e praticaro lo sterminio, dimenticare persino di averlo mai pensato, e ancora dimenticare di aver dimenticato. Da qui la necessità del rinvio a Sade, alla presenza in Sade del tentativo di infliggere alle vittime e a se stesso la se-

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Di fronte a una denuncia così logicamente rigorosa e moralmente esplicita dei guasti provocati dalla coppia maledetta formata dall' etica del bene e dalla politica dei beni 217 , l'ideologia dominante del potere risponde rilanciando l'accusa: quel discorso teorico e quel dispositivo pratico che tentino di tematizzare il limite che il politico non dovrebbe valicare diventano, che lo vogliano o no, il veicolo per il suo rifiuto radicale, regrediscono verso una dimensione prepolitica o addirittura impolitica, vanificando in tal modo l'obiettivo che si prefiggevano e che era quello di rifondare il politico a partire da un'etica del desiderio 218 • Ma è poi vero che mettere l'accento sulle strutture elementari della parentela, sui guasti e sulle distorsioni di queste ultime, sul double bind cui incatenano i soggetti - "non cedete sul desiderio anche se

conda morte, di realizzare il fantasma dell'essere supremo in malvagità. Da questo punto di vista credo che la migliore esemplificazione dell'assunto lacaniano sia stato il Salò-Sade di Pier Paolo Pasolini. 217 Coppia che corrisponde alla visione binaria della sovranità - sacerdote e despota - cosl come è stata spiegata da Dumézil: per questo punto rinvio al mio Sovranità e democrazia, in "Chaosmos. Critica, cura, teorià', Sciogliere legare, Filema, Napoli 2004, in particolare pp. 43-45. 218 Da ultimo, e per la verità in un modo piuttosto paradossale, questa è anche la posizione della già citata Judith Buder che, accomunando Hegel a Lacan e addirittura a Luce Iragaray, li critica tutti per aver considerato Antigone "non come una figura politica il cui discorso ardito ha implicazioni politiche, ma piuttosto come chi articoli una opposizione prepolitica alla politica, giungendo a rappresentare la parentela come quella sfera che condiziona la possibilità della politica senza neppure entrarvi" (cfr. J. Buder, La rivendicazione di Antigone, cit. p. 13). Criticando aspramente la distinzione attribuita a Lacan e ai lacaniani fra legge simbolica e legge sociale e ribadito invece che "non soltanto il simbolico di per sé è la sedimentazione delle pratiche sociali, ma le alterazioni radicali della parentela impongono una riarticolazione dei presupposti strutturalisti della psicoanalisi e, di conseguenza, della teoria contemporanea del genere e della sessualità" (35), la Buder ne conclude che "non solo lo Stato presuppone la parentela e la parentela presuppone lo Stato", ma che "gli 'atti' commessi in nome di uno dei due principi si compiono nella lingua dell'altro, confondendo sul piano retorico la distinzione tra i due e mettendo così in crisi la stabilità della distinzione concettuale che li definisce"(25). Antigone quindi è pienamente coinvolta "nell'eccesso maschile detto hybris" e "afferma se stessa appropriandosi della voce del!' altro, colui al quale si contrappone" (24-25), cioè Creonte. Ma che la parentela abbia a che vedere con la politica ben più di quel che creda la politica dei beni è quanto sostiene Lacan e quanto tento di dimostrare d'ora in poi.

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è dell'altro, siate eredi di ciò che vi distrugge, fondate la verità dei rapporti umani sul crimine assoluto" -, sia impolitico e non implichi invece una diversa curvatura del politico che proprio per poter fondare e mantenere modelli affermativi del vivere-insieme deve fare posto all'inimicizia, alla disgregazione e alle spinte distruttive? Se l'etica del bene si coniuga ad una politica dei beni - politica comune a tutti i sacerdoti e i despoti che da sempre sanno quale sia il nostro bene e di quali beni ci sia bisogno per riuscire a realizzarlo -, l'etica del desiderio, di cui l'etica tragica è una declinazione, con quale politica farà costellazione? Quale nome daremo ad una politica le cui radici affondano consapevolmente nei recessi più oscuri delle leggi della parentela? Sulla scia di tutto ciò che, attualizzando un vecchio libro, analizzando la potenza di un nome - Antigone -, i suoi effetti in me e fuori di me, ho detto finora, propongo di chiamarla una politica luttuosa, una politica del lutto interminabile della provenianza criminale del nostro desiderio, una politica che mentre riconosce il debito che ciascuno di noi contrae con il passato della specie ne sia contemporaneamente la condizione e l'effettualità dell'estinzione, una politica infine per la quale la comunità di coloro che per mezzo suo, del suo potere istituente, vivono-insieme si apprenda come la comunità dei commorenti. Se questo è l'obiettivo o, per meglio dire, se questa è la posta in gioco del girare e rigirare intorno a un nome - Antigone - e ad un manufatto culturale come la tragedia attica, è chiaro perché la prima mossa consista nel prendere distanza dalla tesi hegeliana. Per la cui ricapitolazione mi affido ad un più che esplicito passo dell'Estetica: Tutto in questa tragedia è conseguente; la legge pubblica dello Stato è in aperto conflitto con l'intimo amore familiare ed il dovere verso il fratello; l'interesse familiare ha come pathos la donna, Antigone, la salute della comunità Creonte, l'uomo. Polinice, combattendo contro la propria città natale, era caduto di fronte alle porte di Tebe; Creonte, il sovrano, minaccia di morte, con una legge pubblicamente bandita, chiunque dia l'onore della sepoltura a quel nemico della città. Ma di quest'ordine che riguarda solo il bene pubblico dello Stato, Antigone non si cura, e come sorella adempie al sacro dovere della sepoltura, per la pietà del suo amore per il fratello. Ella invoca in tal caso la legge degli dei; ma gli dei che onora sono gli dei inferi dell'Ade, quelli interni del sentimento, dell'amore del sangue,

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non gli dei della luce, della libera ed autocosciente vita statale e popolare219.

Nonostante quel che si può credere, l'opposizione a Hegel fu immediata: Goethe, ad esempio, in un contesto già più volte richiamato, criticando aspramente un libro di Hermann Hinrichs sulla tragedia antica, in realtà prendeva posizione contro Hegel di cui l'autore citato era seguace, sostenendo che se è vero che "noi viviamo nella famiglia e nello stato e non ci colpisce un tragico destino senza che ci colpisca anche come membri di queste due istituzioni", tuttavia "possiamo diventare personaggi tragici anche se rimaniamo solamente membri della famiglia o solamente membri dello stato", dal momento che quello che è importante è solo "il conflitto tragico, il conflitto che non permette soluzioni e che può sorgere dal contrasto di qualsiasi forma di rapporto quando esso ha un fondo di natura ed è veramente tragico". Aiace, continua Goethe, "corre alla sua rovina trascinato dal demone del sentimento dell'onore, ed Ercole dal demone della gelosia amorosa. In questi due casi nulla abbiamo che ricordi il conflitto fra l'amore della famiglia e la ragione di stato, che devono essere, secondo lo Hinrichs, gli elementi della tragedia grecà' 220 • Il seguace di Hegel, prosegue Goethe, vorrebbe farci credere che Creante, quando proibisce di dar sepoltura a Polinice, agisca in nome della ragion di stato. Ma in realtà "quando Creante proibisce di seppellire Polinice ed appesta con il cadavere di lui che si decompone non solamente l'aria, ma fa sl che cani ed uccelli rapaci trascinino attorno membra strappate al morto e contaminino persino gli altari, ci troviamo di fronte ad un fatto che offende uomini e Iddi e non si può giustificare con la ragion di stato, ma è un delitto di stato" 221 • Poiché il delitto contro lo stato di cui Polinice, nel tentativo di riconquistare la sua parte dell'eredità paterna di cui era stato privato, si era macchiato, non era tale da non far ritenere che la morte fosse una punizione sufficiente senza che si dovesse "punire anche il suo cadavere innocente",

219 G. F. W HEGEL, Estetica, cit. p. 522. 220 W GOETHE, Colloqui con Eckermann, cit., I. p. 386. 221 lv4 p. 388.

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ciò che muove Creonte, secondo Goethe, è il puro "odio per il morto"222. Lacan, da parte sua, si riallaccia direttamente a questa pagina goethiana quando nota come "Creonte, spinto dal suo desiderio, esca palesemente dalla sua strada e cerchi di rompere le barriere, avendo di mira il proprio nemico Polinice al di là dei limiti entro i quali gli è consentito colpirlo" 223 , infliggendogli cioè, come sappiamo, la seconda morte. Anche per Lacan, dunque, il conflitto tragico non si scatena fra diritto e diritto, legge dello stato e legge familiare, divinità olimpiche e divinità infere, bensl è ciò che spacca da parte a parte il desiderio, ciò che al di là di ogni compromesso e d'ogni riconciliazione lo conduce a confrontarsi con la legge che lo istituisce e ne determina la mira. Se Antigone abbraccia un desiderio che la condurrà alla morte non è, secondo Lacan, per riparare una lesione che un diritto ha prodotto su di un altro diritto, ma per risarcire un torto portato a quella "legalità" che precede il diritto, a quell'ordine significante della parentela senza il quale nessun soggetto umano potrebbe mai venire al mondo 224 . Tutto questo la isola, la scioglie da ogni forma di legame, la rende quasi disumana. Proseguendo la demolizione dell'eredità hegeliana, Lacan cita un libro di Karl Reinhardt in cui si dice che nella tragedia sofoclea "l'uomo si coglie soltanto nel momento dell'abbandono, quando viene lasciato solo e affidato a se stesso" ed i suoi eroi sono quindi "degli isolati, degli individui strappati alle proprie radici, dei reietti" 225 . In Sofocle, insiste Reinhardt, riferendosi questa volta direttamente al testo dell'Antigone, la sfera, divina o demonica è lo stesso, non si situa sullo stesso piano di quella propriamente umana, ma le è eccentrica. In tal modo fra l'una e l'altra non si danno né opposizioni

222 223

Ibidem.

J.

LAcAN, L'éthique de la psychanafyse, cit., p. 297, tr. it., p. 323. Ibidem. 225 Ivi, p. 316, tr. it. p. 342. Per la citazione da Reinhardt cfr. K. REINAHARDT, Sofocle, tr. it. di M. A. Forgione, il Melangolo, Genova 1989, pp. 1213. Nel testo di Reinhardt si trova anche una critica esplicita dell'argomentazione goethiana contro le 'vituperevoli' parole di Antigone (99-100). 224

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più o meno dialettiche né riconciliazioni più o meno razionali: piuttosto quella divina taglia all'improvviso e trasversalmente l'altra ponendola in dissidio con se stessa e portandola al collasso. Se questo è in realtà il conflitto tragico si avranno allora per Reinhardt due modi del suo manifestarsi: in un caso ciò può accadere attraverso un "rifiuto unico, violento o attraverso un isolamento distruttivo, come avviene nell'Aiace o nell'Edipo rè'. Nell'altro, invece, può avvenire "che due personaggi, entrambi eccentrici, privi di equilibrio e fuori da ogni misura, si muovano, insieme con i loro mondi, attorno ad uno stesso centro invisibile" 226 • Come esempio di tragedia del "doppio destino"227, l'Antigone mette a nudo il fatto che, pur essendo Antigone e Creonte personaggi contrapposti, così come sono contrapposti i loro mondi, tuttavia non è fra essi che si dà il conflitto tragico: esso li attraversa entrambi ed è sulle modalità con cui l'affrontano che si stabilisce quella gerarchia che fa di Antigone l'eroina tragica e di Creonte l'eroe secondario o il controeroe. La differenza in sostanza consiste in quello che già il primo capitolo del mio libro d'allora così come la sua ultima frase chiamavano "il buon uso della morte": essere costretti a porsi questa domanda 'cosa fare della morte?' - e dover dare una risposta, questa è l'aporia tragica. Non c'è via d'uscita: qualunque sia la decisione, qualcosa di nostro cade, si perde, in modo irremediabile; la nostra identità va in pezzi, il mondo si frantuma, il tempo si disperde e lo spazio si sfrangia. Se questo avviene comunque, anche quando il nostro tentativo sia quello di espellere la morte dalla sfera dell'umano facendola morire, condannandola alla seconda morte, tanto vale allora accettare il limite, riconoscere che non si dà l'umano se non a partire dall'illimitato e incessante processo del morire e che esso si trasmette e sopravvive attraverso le strutture elementari della parentela, la differenza dei sessi e la differenza fra i sessi, e più di tutto nella loro forma pura ed essenziale, vale a dire l'amore sororale. Manca solo un tassello alla costruzione della fabbrica che deve reggere la tesi di una politica luttuosa: occorrerebbe dimostrare cioè

226 227

K. R.EINAHARDT, Sofocle, cit. p. 79. Ibidem.

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che la tragedia attica, pur restando un'istituzione cittadina, pubblicamente finanziata, non sia tanto utilizzata come uno strumento per la costruzione del consenso, che pone l'accento sui lati positivi del legame sociale, sul valore assoluto di ciò che unisce ed accomuna, quanto funga piuttosto come una lamentazione funebre, una pratica collettiva di elaborazione del lutto di quei momenti di rottura e di lacerazione che fanno parte allo stesso titolo degli altri, se non forse di più, dell'esistenza della polis. Nel suo libro La voce addolorata, Nicole Loraux appoggia la sua interpretazione della tragedia greca sul postulato dell'esistenza di un rapporto stretto fra "l'effetto tragico e l'espressione del lutto" 228 , che fra le sue conseguenza avrebbe anche quella di collocare, rispetto ad un'ideale classificazione dei generi poetici (e in qualche misura anche storici e antropologici), la tragedia nella rubrica di quelli "antipolitici" 229 . I.:affermazione è rilevante anche se Nicole Loraux si affretta a precisarne il senso, per impedirne una lettura radicalmente impolitica: l'aggettivo 'antipolitico', chiarisce, non serve a designare soltanto l' altro dalla politica, ma anche "un politico altro, non più basato sul consenso e sul vivere-insieme, ma su quello che chiamo il 'legame della divisione"' 230 • Che cos'è dunque l'antipolitico che in realtà è solo un altro dalla politica o più giustamente ancora un politico altro? È antipolitico, secondo la dizione complessa e contraddittoria che siamo stati costretti a articolare, "qualunque comportamento, scrive Nicole Lo-

228

N. LoRAUX, La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca, tr. it. di M. Guerra, Einaudi, Torino 2001, p. 33. 229 Ivi, p. 87. La tesi era già stata argomentata in un libro precedente, Le madri in lutto (tr. it. di M. P. Guidobaldi, Laterza, Bari 1991), in cui a proposito di Antigone veniva sostenuto che non bisogna dimenticare che ciò che ella vuole è "onorare il corpo morto di Polinice e non 'rovesciare' Creante o riabilitare politicamente la memoria del fratello; dimenticare che Antigone non si opporrebbe ali' ordine del tiranno se il morto fosse suo marito e non suo fratello" (29). Non c'è dubbio che, per Nicole Loraux, Antigone rappresenti un sottoinsieme dell'insieme superiore 'lutto' che è ritenuto di pertinenza, se non esclusiva certamente preminente, delle 'madri': mentre "le leggi della città intendono contenere il lutto materno, la tragedia, che fa la parte del politico e del non-politico, riconosce che le madri sono le sole vere regolatrici del lutto", restituendo loro "lo statuto di donne in lutto esemplari"(30). 230 Ivi, p. 40.

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raux, che travisi, respinga o metta in pericolo, coscientemente o meno, i requisiti e i divieti costitutivi dell'ideologia della città, la quale fonda e nutre l'ideologia civica", e cioè "essenzialmente l'idea che la città debba essere - e quindi, per definizione sia - una e in pace con se stessa" 231 •

Detto in altri termini, la città, le sue istituzioni politiche - che nel caso dell'Atene che vede il fiorire parallelo del genere tragico e della forma di governo democratica sono l'assemblea popolare e il consiglio dei cinquecento - possono trattare come parte dell'ideologia civica, e quindi fare oggetto di memoria pubblica, quegli eventi che hanno rappresentato dei momenti in cui l'unità della città si è frantumata fino a giungere al collasso e la cui rievocazione può provocare di nuovo disaffezione e discredito per le virtù pubbliche? Si possono ricordare la lotta intestina, la sconfitta in guerra, le varie forme del dolore, senza che ciò diffonda un dubbio sull'utilità e il valore delle istituzioni della polis? A che possono servire se non sono state in grado di assicurare la vita dei loro cittadini, se non hanno fermato l'invasore esterno o non lianno saputo governare la discordia interna? Chi e che cosa s'incaricherà di permettere l'elaborazione di tutto questo lutto? Che ciò appartenga alla tragedia e conceda di conseguenza a quest'ultima lo statuto di parte integrante del 'politico altro' è dimostrato, fra le altre cose, dall'episodio raccontato da Erodoto (VI, 1821) riguardante la tragedia scritta da Frinico sulla presa di Mileto da parte dei persi-ani che quando fu rappresentata provocò un tale pianto fra gli spettatori da spingere i responsabili del concorso tragico prima a multare di 1000 dramme l'autore reo di aver ricordato le sventure nazionali e dopo a decretare che mai più una simile tragedia sarebbe stata recitata su di una scena ateniese: un caso esemplare di censura artistica dovuto a motivi di ordine pubblico. Un simile ostracismo nei confronti della rappresentazione tragica risulterebbe incomprensibile se la rievocazione della sconfitta e della sofferenza fosse un evento isolato, un evento che si dà una volta sola, un omaggio che serve ad archiviare e a dimenticare l'episodio doloroso e che quindi non intacca l'ideologia della città. Lo si compren-

231

lvi, p. 46.

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de invece se si tiene conto che, al di là del carattere strutturalmente iterabile della rappresentazione teatrale, è proprio della tragedia far slittare il lutto, come avrebbe detto Freud, verso la malinconia, contaminare il lutto cosiddetto riuscito, quello che libera l'energia libidica per nuovi investimenti, con la sindrome malinconica, con l'impossibilità cioè di abbandonare il morto alla sua morte senza farsi trascinare da lui verso l'abisso, senza seguirlo sulla scia di luce che lascia prima di sprofondare nell'oscurità. Quel che caratterizza l'eroe tragico è l'impotenza, che si fa caparbia e tracotanza, a dimenticare: sempre il dolore ritorna, il dissidio si attualizza, la morte si ripete. Sempre il passato che si credeva archiviato, con il quale si era convinti di aver chiuso i conti, irrompe nel presente e ne scardina le illusioni di pace e di compattezza. Come splendidamente dimostra Nicole Loraux, "aei", l'avverbio che denota la continuità e l'illimitatezza di qualcosa, si tramuta, sebbene non vi sia altra affinità che quella prodotta dalla contiguità, dalla compresenza sul piano d'immanenza costituito dal testo tragico, in "aiai", interiezione, grido e lamento, espressione onomatopeica di un dolore che toglie la parola 232 • Al sempre della città, alla necessità della città di riprodursi sempre identica a se stessa, scorre parallelo e in opposizione allo stesso tempo - contraddizione che è la ferita non rimarginabile inferta al corpo della città - il sempre del dolore, l'incessante e illimitato sempre della morte. Non potendo la città cacciare fuori dalle mura per sempre il teatro e la tragedia, nonostante i tentativi ci siano sempre stati, continui, ripetuti ed insistenti, essa allora si limita ad espellerli dal centro della sovranità, dal luogo - l'agorà - in cui si esercita il potere: il teatro non è sull'agorà, abbandona il, o è mandato via dal, luogo in cui si raduna, non il popolo, ma una cerchia ristretta, forse oligarchica, della città, il cui organo istituzionale è il consiglio dei cinquecento. Se il politico è tutto ciò che si dà nell'agorà, allora la tragedia è impolitica; ma se la tragedia è, più che impolitica, antipolitica secondo la modalità che abbiamo visto, allora un politico altro s'installa in un altro luogo o, per dirla con Badiou, la politica, la politica come procedura di ve-

232

Ivi, pp. 60-66.

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rità e invenzione di luoghi singolari, si dà sempre e soltanto a distanza dallo stato 233 • Il che verrebbe ulteriormente confermato dal fatto che, come mostra la Loraux, non è solo il teatro a lasciare l'agorà per insediarsi ai piedi dell'Acropoli, ma anche l'assemblea popolare, cioè l'organo del governo democratico: "con un movimento unico, quindi, scrive la Loraux, - e quasi nello stesso momento - l'assemblea e il teatro debordano, di pochissimo, ma giusto quanto basta, al di fuori dei limiti che la città arcaica assegnava alla vita pubblica" 234 • Come il demos è quel multiplo che non si può contar per uno, 233

Cfr, A. BADIOU, Metapolitica, tr. it. di M. Bruzzese, Cronopio, Napoli 2001, p. 157 sg. Tutto questo discorso sulla tragedia, comprese le tesi della Loraux, prende le mosse dal testo fondativo e canonico allo stesso tempo degli studi di psicologia storica riguardanti la tragedia e il mondo antico: mi riferisco a Mito e tragedia nell'antica Grecia di Jean-Pierre Vernante Pierre Vidal-Naquet (tr. it. di M. Rettori, Einaudi, Torino 1976) in cui si dice ad esempio che "la tragedia non è soltanto una forma d'arte; è un'istituzione sociale che, con la fondazione dei concorsi tragici, la città instaura accanto ai suoi organi politici e giudiziari. Instaurando sotto l'autorità dell'arconte eponimo, nello stesso spazio urbano e secondo le stesse norme costituzionali delle assemblee o dei tribunali popolari, uno spettacolo aperto a tutti i cittadini, diretto, interpretato e giudicato dai rappresentanti qualificati delle diverse tribù, la città si fa teatro; in un certo senso essa prende se stessa come oggetto di rappresentazione e interpreta se stessa davanti al pubblico. Ma se, così, la tragedia appare radicata più di qualsiasi altro genere lettarario nella realtà sociale, ciò non significa che ne sia il riflesso. Essa non riflette questa realtà, la mette in causa. Presentandola lacerata, in urto con se stessa, la rende tutta quanta problematicà' (11-12). 234 N. LORAUX, La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca, cit., p. 26. Il nesso fra tragedia e democrazia viene sostenuto, ma in una direzione diametralmente opposta a quella della Loraux, anche da Christian Meier nel suo L'arte politica della tragedia greca (tr. ir. di D. Zuffellato, Einaudi, Torino 2000) in cui si afferma che gli Ateniesi avevano bisogno della tragedia "nella stessa misura forse in cui erano per loro necessari l'Assemblea popolare, il Consiglio dei Cinquecento e tutte le altre istituzioni della loro democrazia"(3). Ma non per affrontare attraverso la tragedia ciò che le istituzioni politiche erano costrette a tralasciare, quanto per educare i cittadini ali' esercizio degli organismi democratici. La tragedia diventa un formidabile strumento di pedagogia politica che educa individui abituati a vivere in cerchie ristrette e in mondi di vita· circoscritti a muoversi in uno spazio per un verso plurimo - più mondi distinti e separati - e per un altro astratto e neutro: senza la tragedia, insomma, e la messa in scena dei conflitti fra passato e presente e fra mondi di vita diversi se non opposti, difficilemente le istituzioni democratiche sarebbero potute sopravvivere. Su questi punti si veda P. VIDAL-NAQUET, Lo specchio infranto, tr. it. di R. Di Donato, Donzelli, Roma 2002, in particolare p. 38.

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che non forma un insieme chiuso, una totalità distinta, e che quindi eccede sempre e in linea di diritto l'ideologia della città235 , così la tragedia è il luogo politico in cui, attraverso la rievocazione del crimine che ne stava a fondamento, la città fa il lutto del suo desiderio di unità e di fratellanza che è sempre ad un passo dal trasformarsi in sovranità e tirannide. Il lutto si addice alla democrazia - e se quest'ultima è il governo degli uguali, il governo dei fratelli, allora per essere fratelli non basta aver avuto stesso padre e stessa madre - chè anzi questo non ci salverebbe dalla guerra che è sempre fratricida - ma è necessario avere una sorella che copra il nostro corpo col suo sesso impubere e ci affidi alla morte: l'unico modo per essere fratelli è esserlo come lo sarebbe una sorella.

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Su questo punto rinvio di nuovo al mio Sovranità e democrazia, cit.,

passim.

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