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Italian Pages 368 [367] Year 2006
biblioteca filosofica di Quaestio collana diretta da Costantino Esposito e Pasquale Porro
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Titolo dell’edizione originale: The Changing Self - A Study on the Soul in Later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus © 1978, Koninklijke Vlaamse Academie van België voor Wetenschappen en Kunsten, Brussel © 2006, Pagina soc. coop., Bari per Presentazione, Introduzione all’edizione italiana e Appendice Prima ristampa 2007 La traduzione italiana viene pubblicata per gentile concessione dell’Accademia Reale delle Scienze e delle Arti di Bruxelles
La pubblicazione di questo volume rientra nel Progetto «Soggetto e statuto della filosofia nel Medioevo. Nuove prospettive di ricerca nell’edizione critica dei testi e nelle metodologie di indagine storiografica» (MIUR – Programmi per l’incentivazione del processo di internazionalizzazione del sistema universitario, D.M. 5 agosto 2004 n. 262, art. 23; Bando InterLink 2004-2006) ed è stata realizzata grazie a un contributo parziale COFIN/PRIN 2004, Unità di Ricerca di Bari (responsabile scientifico: Prof. Pasquale Porro).
Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma rivolgersi a: Edizioni di Pagina via dei Mille 205 - 70126 Bari tel. e fax 080 5586585 http://www.paginasc.it e-mail: [email protected]
Carlos Steel
Il Sé che cambia L’anima nel tardo Neoplatonismo: Giamblico, Damascio e Prisciano Edizione italiana a cura di Lucrezia Iris Martone
È vietata la riproduzione, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.
Versione digitale (pdf) ISBN 978-88-7470-340-1
Presentazione
Anche nella storiografia filosofica, come in molti altri ambiti della storia intellettuale, ci sono contributi che non sembrano invecchiare, o per i quali, almeno, il tempo non passa invano. È il caso di questo volume di Carlos Steel: quando apparve, nel 1978, l’interesse per il tardo neoplatonismo (e soprattutto, come occorre forse specificare, per il tardo neoplatonismo pagano) era per lo più limitato a una ristretta cerchia di specialisti, le cui preoccupazioni filologiche nei confronti dei testi considerati non sempre si sposavano con un’analoga volontà di approfondirne gli aspetti genuinamente dottrinali. In generale, i pensatori tardo-antichi rimanevano confinati, dal punto di vista della storia della filosofia, in una specie di terra di nessuno: trascurati in linea di massima dagli antichisti (per molti dei quali la figura di Plotino continuava a rappresentare una sorta di termine ultimo invalicabile), erano di fatto ignorati dai medievisti, la cui considerazione ricadeva piuttosto quasi esclusivamente sugli autori cristiani attivi in quegli stessi secoli. La situazione appare oggi almeno in parte mutata, non solo perché nel frattempo nuove e affidabili edizioni critiche si sono affiancate, integrandole, a quelle portate a termine negli ultimi decenni del XIX secolo, ma anche perV
ché l’attenzione filosofica verso le ultime scuole neoplatoniche è notevolmente cresciuta, tanto a livello internazionale (per effetto, ad esempio, dei grandi progetti avviati da Richard Sorabji sui commenti e sui commentatori) quanto in Italia (si pensi in particolare agli studi di Francesco Romano e della sua scuola a Catania, e, in questi ultimi anni, agli importanti contributi forniti, in prospettive diverse e su autori differenti, da Cristina D’Ancona, Concetta Luna, Alessandro Linguiti – per citare solo alcuni nomi). A dispetto tuttavia di questi cambiamenti, non sono poi così numerosi i volumi monografici disponibili, nel nostro Paese, su autori quali Giamblico, Damascio e Prisciano: da qui la scelta di mettere a disposizione dei lettori italiani un contributo fondamentale (per altro oggi difficilmente reperibile nella sua edizione originaria) su questa stagione di pensiero. Non c’è infatti alcun dubbio che nel processo complessivo di “sdoganamento”, per così dire, del tardo neoplatonismo pagano, Carlos Steel abbia svolto un ruolo essenziale, come questo e molti altri studi stanno a testimoniare – un ruolo dovuto sia alla sua doppia formazione (e alla sua conseguente natura perfettamente ancipite) come antichista e medievista, sia alla sua capacità di combinare, in un proficuo e non comune equilibrio, competenze filologiche e sensibilità filosofica. Ma al di là della rilevanza generale per un periodo e per alcuni pensatori che meritano certamente di essere più conosciuti, The Changing Self (qui tradotto con Il Sé che cambia) si segnala anche e soprattutto per il suo tema specifico: la ricostruzione di un dibattito particolarmente suggestivo, all’interno del neoplatonismo post-plotiniano, sullo statuto e sulla funzione dell’anima umana, in cui entrano in gioco tanto la posizione effettiva dell’uomo nel cosmo (in conseguenza dei diversi possibili modi di concepire il VI
rapporto tra le singole anime e l’anima come realtà ipostatica) quanto la questione della stessa identità individuale. Com’è infatti possibile che l’anima, calata nel mondo del divenire, sia essa stessa caratterizzata da una irriducibile e sostanziale mutevolezza, senza tuttavia pregiudicare in tal modo la permanenza o la costanza dell’io? È questo l’interrogativo di fondo del percorso seguito da Steel, ed è un interrogativo intrinsecamente filosofico, che fa di questo volume qualcosa in più – come è evidente – di una raffinata ricognizione erudita. Rispetto all’edizione del 1978, la traduzione è stata poi arricchita da un’appendice scritta appositamente dall’Autore, ed è stata aggiornata dalla curatrice dell’edizione italiana (ma sempre in accordo con l’Autore) per quel che riguarda gli apparati e soprattutto la bibliografia conclusiva. Il Sé che cambia appare come secondo volume della «Biblioteca filosofica di Quaestio», una collana che intende da una parte accogliere – come per il primo volume già pubblicato – i contributi dei colleghi (italiani e non) e anche dei giovani collaboratori che condividono il progetto della rivista «Quaestio», e dall’altra – come in questo caso – rendere disponibili in italiano quegli strumenti storiografici e interpretativi che rappresentano appunto dei punti di riferimento quasi obbligati, ma non facilmente accessibili, su alcuni autori o aspetti meno frequentati all’interno delle differenti tradizioni metafisiche – esattamente nell’ottica che ispira, ormai da cinque anni, il tentativo portato avanti da Costantino Esposito e da chi scrive nella realizzazione dell’Annuario. Pasquale Porro Bari, dicembre 2005
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Introduzione all’edizione italiana
Quando questo volume apparve nella sua edizione originaria, circa trent’anni fa, non erano particolarmente numerosi gli studi monografici dedicati al pensiero filosofico del tardo Neoplatonismo, e ai temi dell’anima e del Sé in particolare. Con questo lavoro – che oggi appare qui per la prima volta in lingua italiana – Carlos Steel contribuì decisamente al generale risveglio d’interesse per tali tematiche1. Molti degli argomenti trattati in The Changing Self hanno infatti suscitato un dibattito ancor oggi per certi aspetti non sopito. Tale dibattito tuttavia, pur fornendo all’Autore lo spunto per integrazioni e ripensamenti critici, non sembra aver leso la validità dell’impianto generale dell’opera; per questo stesso motivo, Steel ha ritenuto opportuno aggiungere all’edizione originaria solo alcune pagine – qui pubblicate nell’Appendice – che aggiungono significativo valore a questa edizione italiana, ma che fondamentalmente suffragano con ulteriori elementi probanti le stesse teorie del 1978. Uno degli argomenti maggiormente dibattuti in questi ultimi decenni riguarda la paternità del Commento al De 1 Per un’idea della crescita degli studi in tale settore, cfr. l’Aggiornamento bibliografico apposto alla presente traduzione.
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anima, tradizionalmente attribuito a Simplicio. Già nel XVII secolo, Francesco Piccolomini mise in dubbio tale attribuzione, e indicò come autore Prisciano Lido. Nel 1972 Steel e Bossier hanno riproposto questa tesi, sulla base di divergenze di stile, metodo e contenuto dottrinale fra il Commento in questione e gli altri commenti aristotelici di Simplicio, e soprattutto sulla base delle profonde analogie dottrinali e stilistiche che il Commento al De anima presenta rispetto alla Metafrasi di Teofrasto, sicuramente priscianea2. L’articolo convinse gli studiosi, tanto che in The Changing Self Steel non ritenne opportuno tornare sull’argomento e considerò senza alcun dubbio il Commento come opera di Prisciano. Anche Ilsetraut Hadot accolse inizialmente le posizioni di Steel e Bossier; in seguito, però, ne prese le distanze, sostenendo fermamente che l’autore del Commento fosse Simplicio3. Steel chiarisce la propria posizione nell’Appendice – alla quale rinviamo il Lettore – rispondendo agli argomenti contrari alla sua tesi con nuove prove. Per quanto possa essere fuorviante e sterile parlare di mo2 Cfr. F. BOSSIER / C. STEEL, Priscianus Lydus en de «In De Anima» van Pseudo (?)-Simplicius, «Tijdschrift voor Filosofie», 34 (1972), pp. 761822. 3 I. Hadot è tornata sull’argomento in quasi tutti i suoi scritti: cfr. I. HADOT, Le problème du néoplatonisme alexandrin. Hiéroclès et Simplicius, Etudes Augustiniennes, Paris 1978, in part. l’Appendice, pp. 193-202; I. HADOT, La vie et l’œuvre de Simplicius d’après des sources grecques et arabes, in AA.VV., Simplicius. Sa vie, son œuvre, sa survie, Actes du colloque international de Paris (28 sept.-1er oct. 1985), édités par I. Hadot, de Gruyter, Berlin-New York 1987, pp. 3-39; I. HADOT, Simplicius. Commentaire sur le ‘Manuel’ d’Epictète, introduction et édition critique du texte grec, Brill, LeidenNew York-Köln 1996; e molto recentemente: I. HADOT, Simplicius or Priscianus? On the Author of the Commentary on Aristotle’s De Anima (CAG XI): A Methodological Study, «Mnemosyne», 55 (2002), pp. 159-199.
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dernità, è innegabile che The Changing Self affronti un tema ancor oggi suggestivo per i suoi risvolti etici e antropologici: l’identità dell’essere umano. Come può un uomo restare se stesso pur cambiando continuamente ogni giorno? Uno dei primi a interessarsi a questo argomento fu Giamblico di Calcide, che individuò nell’anima il perno dell’identità: l’anima individuale, il Sé, discendendo nel corpo, subisce un mutamento nella sua sostanza, ma, allo stesso tempo, mantiene intatta la propria identità. Su tale nozione dell’anima quale «Sé che cambia» Steel incentra la propria indagine. In primo luogo, Steel mostra l’originalità del pensiero di Giamblico all’interno della tradizione platonica sull’anima. Com’è noto, Giamblico pone delle distinzioni ben precise non solo fra le varie Ipostasi, ma anche nell’ambito di ognuna di esse; l’Anima viene così articolata in tre ordini: Anima ipercosmica, Anima del Tutto e Anime particolari; egli distingue poi un gran numero di Dèi ultramondani, di Dèi intramondani, e di Angeli, Demoni ed Eroi, che costituiscono una “classe superiore” rispetto alle più umili anime umane. Sulla base di distinzioni essenziali, dunque, a ogni anima viene assegnato un posto fisso nell’ordine dell’essere, tanto che non è possibile il passaggio da una classe a un’altra: un’anima umana, per esempio, non può mai entrare nel corpo di un animale, né raggiungere la perfezione degli dèi. Pertanto, Giamblico si oppone a Plotino, poiché quest’ultimo, ritenendo tutte le anime consustanziali, provvede sì a distinguerle, ma non a separarle in modo adeguato. Sembra opportuno ricordare i punti essenziali della dottrina plotiniana. Il ragionamento di Plotino volto a diXI
mostrare l’esistenza dell’anima prende le mosse dall’evidenza empirica dell’esistenza di realtà viventi: ciò che ha vita, deve avere in sé qualcosa che sia vita per essenza, e che sia quindi immortale. I corpi, corruttibili e composti per natura, non possono avere vita da se stessi; è dunque l’anima il principio di vita per il corpo, ed esistono tante anime particolari quanti sono i viventi. Inoltre, se possiedono un’anima i corpi imperfetti, tanto più dovrà esistere un’anima relativa al cosmo, più perfetto, di cui essi sono Parti. Tale anima è anche principio dell’unità dei corpi: essa opera una sintesi rispetto alla molteplicità delle Parti, garantendo così l’unità dell’Universo. Se dunque le anime individuali e l’Anima del Mondo sono ciascuna una e in unità tra loro, occorre postulare un’Anima suprema, da cui tutte provengono. Plotino stabilisce dunque una gerarchia di anime4: 1) l’Anima una e suprema, che procede direttamente dall’Intelletto come pura ipostasi del mondo intelligibile; 2) l’Anima del Tutto, ossia l’anima del mondo e dell’universo sensibile; 3) le anime particolari. L’Anima del Tutto e le singole anime derivano dall’Anima suprema, di cui conservano la natura, distinguendosi da essa solo per il differente grado di attività contemplativa. Ciò influisce pure sulla loro attività – solo l’Anima del Mondo produce il cosmo, mentre le anime individuali si limitano a governarlo – e sul loro rapporto con il corpo. Le anime che muovono gli astri, per esempio, non sono coinvolte in modo assoluto nella corporeità: contemplano incessantemente l’essere supremo, senza essere turbate dal4 Gli studiosi non sono pienamente concordi nell’individuare la struttura e la portata di tale gerarchia. Le più rilevanti proposte esplicative moderne sulla concezione dell’Anima in Plotino sono passate in rassegna da M. ANDOLFO, L’ipostasi della «Psyche» in Plotino. Struttura e fondamenti, introd. di G. REALE, Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 9-16.
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l’inferiore che governano. L’anima umana, invece, è immersa più profondamente nel corpo, tanto da tendere all’Essere vero solo a tratti e con difficoltà. Ciò è una conseguenza della discesa dell’anima nel corpo5, intesa da Plotino come oblio da parte dell’anima della propria origine6 e come causa di una condizione di squilibrio nel rapporto tra anima e corpo, che solo la filosofia può rimarginare7. Ma per Plotino tale questione è soprattutto un enigma8: Platone nel Timeo intende la discesa dell’anima come un dono del Demiurgo a ogni essere sensibile, affinché l’intero universo sia pervaso di intelligenza; in altri dialoghi, invece, secondo la tradizione orfica, il corpo è chiaramente definito come carcere e caverna che imprigiona l’anima come per una punizione. Plotino ritiene di risolvere la questione enunciando una nuova teoria9: l’anima umana non discende nel corpo interamente, ma solo con la sua “parte” inferiore, mentre “qualcosa di essa”, la “parte” superiore, rimane sempre nel mondo intelligibile, 5 Su questo tema in Plotino e nella sua tradizione araba, cfr. C. D’ANCO(a cura di), La discesa dell’anima nei corpi (Enn. IV 8 [6]), Plotiniana arabica (Pseudo-teologia di Aristotele, capitoli 1 e 7; «Detti del sapiente greco»), Il Poligrafo, Padova 2003 («Subsidia medievalia patavina»). 6 Cfr. PLOTINUS, Enn. V, 1, 1. 7 Cfr. PLOTINUS, Enn. I, 1, 3. 8 Cfr. PLOTINUS, Enn. IV, 8, 1. 9 TH.A. SZLEZÁK, Platone e Aristotele nella dottrina del «Nous» di Plotino, trad. it. di A. Trotta, Vita e Pensiero, Milano 1997, in part. pp. 225-282, dimostra come la teoria della parte dell’anima non discesa, nota come un’originale produzione di Plotino, derivi da una più stringente interpretazione dei testi di Platone: per esempio, da Repubblica, 611-612 Plotino trae la concezione di una natura originaria dell’anima, che è coperta e che va disvelata; dal mito del Fedro, l’idea della “ascesa” al di là del cielo; da Timeo 35a, la descrizione della mescolanza nell’anima di un elemento divisibile e di un elemento indivisibile, e da Timeo 41a-d la convinzione dell’immortalità di ciò che è prodotto da Dio.
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presso il Nous-ipostasi10. Tra queste due parti dell’anima esiste una terza, la parte media: è la nostra coscienza, che può tendere verso il nostro Sé superiore, per mezzo dell’esercizio della filosofia, o, al contrario, può lasciarsi trascinare dalla parte inferiore, senza che ciò turbi l’incessante contemplazione della parte più alta. L’anima stessa dunque è divisibile-e-indivisibile, poiché è posta in mezzo tra un’essenza intelligibile completamente indivisibile e un’essenza sensibile totalmente divisibile; se fosse solo divisibile, l’anima non potrebbe dare unità al corpo, e se fosse solo indivisibile, eviterebbe assolutamente la molteplicità e non potrebbe dare la vita a tutte le parti del corpo. Incarnandosi, l’anima continua a essere indivisibile proprio perché non si allontana interamente dal mondo intelligibile11; del resto, è questa la condizione necessaria perché l’anima umana possa ritornare all’Anima Universale, formando così una sola vita infinita. Tuttavia, allo stesso tempo, anche se il male non entra nell’essenza dell’anima, la parte irrazionale di quest’ultima può tendere verso di esso. Dunque, l’anima incarnata può dare luogo a una condotta riprovevole, che sarà punita con la legge della metempsicosi; d’altro canto, così facendo, essa rivela la capacità di mutare la propria sorte e di fluidificare in qualche modo le relazioni tra gli esseri. Giamblico si oppone dunque alla tesi plotiniana, sostenendo, di contro, che l’anima incarnata non possa più godere dell’attività intellettuale con nessuna sua parte. A tal 10 Cfr. PLOTINUS, Enn., IV, 8, 8, 1-3: eij crh; para; dovxan tw`n a[llwn tolmh`sai to; fainovmenon levgein safevsteron, ouj pa`sa oujdΔ hJ hJmetevra yu-ch; e[du, ajllΔ e[stiv ti aujth`" ejn tw/` nohtw/` ajeiv. 11
Cfr. PLOTINUS, Enn. IV,2,1.
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proposito, sulla base di una rilettura del Commento al Parmenide di Damascio (in part. IV, p. 24,1-7) e del Commento al Fedro di Giamblico (in part. fr. 7 ed. Dillon), Steel puntualizza nell’Appendice che Giamblico esclude da tale condizione una privilegiata classe di anime umane, le quali limitano la loro discesa nel corpo a una mera presenza, senza perdere il contatto con l’intelligibile; probabilmente, egli si riferisce alle anime di filosofi come Platone e Pitagora. Per tutte le altre anime, invece, il distacco dall’intelligibile è completo. Le argomentazioni di Giamblico contro Plotino sono ricordate da Proclo nel Commento al Timeo. Giamblico si richiama in primo luogo al peccato: pecchiamo quando l’anima si lascia catturare dalle immagini immorali che vengono dai sensi; ma è la volontà libera, che dà l’assenso a esse. Dunque, se la volontà, che ha il controllo sull’anima, pecca, anche l’anima deve essere peccaminosa. Per Giamblico, la distinzione tra la parte superiore dell’anima, che non può mai essere sviata o ingannata, e la parte inferiore, che può essere trascinata in basso con la ragione dall’azione immorale, non ha senso: se l’anima è davvero responsabile delle sue azioni, l’intera anima è corrotta. Un’altra obiezione si basa sulla felicità: se una parte dell’anima è felice, per il suo legame con il divino, come mai l’esperienza dimostra che non siamo sempre felici e non tutti noi siamo felici? Per Plotino è felice colui che è asceso alla vita perfetta dell’Intelletto e alla visione del Bene Assoluto; tale condizione non può mai perdersi, poiché il saggio soffre solo con la parte inferiore dell’anima. Ma per Giamblico non si può dare una definizione dell’anima semplicemente a priori. D’altro canto, già Platone aveva lasciato intendere che la contemplazione delle idee da parte dell’anima può interrompersi: nel mito fedriano della biga alata, infatti, l’auriXV
ga, che può guidare la sua schiera di cavalli tanto verso l’alto quanto verso il basso, non rappresenta forse in chiave simbolica il principio più nobile dell’anima? L’anima dunque scende interamente nel corpo, ma non solo: Giamblico aggiunge – enunciando così una tesi rivoluzionaria nel Neoplatonismo – che il cambiamento non investe soltanto le facoltà (dunavmei") e gli atti (ejnevrgeiai) dell’anima, ma anche la sua sostanza (oujsiva). Portando alle estreme conseguenze il principio aristotelico per cui dagli atti si può inferire la sostanza, che è causa degli atti stessi, Giamblico ritiene l’anima capace di partecipare allo stesso tempo (a{ma) dello stato di indivisibilità, sinonimo di perfezione, e dello stato di divisibilità, proprio degli enti imperfetti. Tale coincidentia oppositorum si verifica anche nel ritmo scandito dalla provodo" e dalla ejpistrofhv: l’anima, allo stesso tempo, procede da sé verso il divenire, e da esso si volge di nuovo verso di sé, in una tensione incessante tra i due poli; analogamente, sono simultanee anche le fasi della monhv e della provodo". La plausibilità di tale teoria si può accettare facilmente, se si dà il giusto rilievo al carattere intermedio dell’anima; eppure, tale interpretazione fu accolta con non poche difficoltà dai tardi Neoplatonici. Che cosa potrebbe garantire, infatti, l’identità dell’anima? E in cosa poi essa differirebbe dalle realtà sensibili? Per questo, la posizione tradizionale, che fu anche quella di Proclo, era che l’anima cambia negli atti e nelle facoltà, ma resta indivisibile, eterna e immutabile nella sostanza. La maggior parte dei Neoplatonici dunque non accettò la tesi giamblichea dell’anima intesa come identità-in-cambiamento: simultaneamente permanente e cangiante, indivisibile e divisibile, incorrotta e corruttibile, capace di permanere intera in sé e allo stesso tempo di procedere intera fuori da sé. XVI
Soltanto Damascio e Prisciano, autonomamente l’uno dall’altro, preferirono rifarsi al tale interpretazione12. In particolare, Damascio la tiene presente nel suo Commento al Parmenide, scritto, com’è noto, in continuo confronto con l’omonima opera procliana. Secondo i Neoplatonici, Platone aveva tracciato nelle ipotesi del Parmenide una vera e propria esegesi metafisica sui principî primi della realtà13: in breve, nelle negazioni adoperate nella prima e nella quinta ipotesi, essi ravvisavano rispettivamente l’Uno assolutamente trascendente, 12 Secondo I. HADOT, La doctrine de Simplicius sur l’âme raisonnable humaine dans le Commentaire sur le Manuel d’Epictète, in H.J. BLUMENTHAL / A.C. LLOYD, Soul and the structure of being in late Neoplatonism. Syrianus, Proclus, and Simplicius. Papers and discussions of a Colloquium held at Liverpool, 15-16 april 1982, Liverpool University Press, Liverpool 1982, pp. 66-67, anche Ierocle alessandrino e Simplicio ravvisarono nell’anima una disposizione al mutamento radicale, richiamandosi al problema della “morte” dell’anima che si è allontanata dalla virtù, presente in Plotino, Porfirio e Agostino. Ma già H.J. BLUMENTHAL, The psycology of (?) Simplicius’ Commentary on the De anima, in H.J. BLUMENTHAL / A.C. LLOYD, Soul and the structure cit., pp. 73-93, fa notare che Simplicio presenta la tesi del mutamento sostanziale dell’anima in forma cauta e circospetta, come dimostra l’uso di pw" e di espressioni analoghe. A tal proposito, sentiamo di condividere la posizione di A. LINGUITI, Studi recenti sulla vita e l’opera di Simplicio, «Studi classici e orientali», 38 (1988), p. 346: «Il fatto che in Simplicio e in Ierocle il tema dell’alterazione essenziale dell’anima sia costantemente legato all’evento della perdita della virtù costituisce forse un limite, nel senso che la trattazione di esso non sembra possedere la stessa responsabilità teorica che ad esempio posseggono le affini enunciazioni di Damascio formulate all’interno di una discussione metafisica concernente la terza ipotesi del Parmenide, in una prospettiva cioè più generale e astratta». 13 Per una rassegna dei principali modelli esegetici del Parmenide neoplatonico, cfr. dello stesso STEEL, Une histoire de l’interprétation du «Parménide» dans l’antiquité, in M. BARBANTI / F. ROMANO (a cura di), Il «Parmenide» di Platone e la sua tradizione, Atti del III Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo, CUECM, Catania 2002; cfr. A. LINGUITI, L’ultimo platonismo greco. Principi e conoscenza, Olschki, Firenze 1990.
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e l’assoluta privazione della materia; nelle affermazioni della seconda e della quarta ipotesi, il Nous, le forme ideali, e gli Altri, le forme realizzate nella materia; infine, nella terza ipotesi, «l’Uno che è uno e molti e né uno né molti», vedevano un chiaro riferimento all’anima. Infatti, con tale “definizione” che ben rende la natura contraddittoria dell’anima, Platone avrebbe assegnato a essa un posto a metà fra le realtà intelligibili (prima e seconda ipotesi) e le realtà sensibili (quarta e quinta ipotesi). Era questa l’interpretazione di Plotino, seguito da Amelio e Porfirio, Plutarco, Siriano, e Proclo. Solo Giamblico prese le distanze da essa, sostenendo che la terza ipotesi trattasse delle «classi superiori», gli Angeli, i Demoni e gli Eroi. La terza ipotesi, infatti, esprimerebbe la loro natura intermedia fra gli dèi (seconda ipotesi) e le anime, alle quali dunque viene assegnato un posto ancor più in basso nella processione della realtà (espresso dalla quarta ipotesi). Damascio giustifica la posizione giamblichea sulla base del passo del Simposio (202 E) che illustra l’attività mediatrice dei demoni: essi portano agli dèi le preghiere e i sacrifici degli uomini, e agli uomini, i comandi e le ricompense degli dèi. Tuttavia, nonostante ritenga molto convincente l’opinione di Giamblico, Damascio finisce con l’accogliere la posizione tradizionale, ma solo per quanto riguarda l’interpretazione della terza ipotesi. Infatti – puntualizza Steel nell’Appendice – già nel De principiis (III, p. 76,2-7), egli avanza dei dubbi sull’immutabilità dell’anima; in seguito, nell’In Parmenidem, quando procede con la trattazione delle sei conclusioni dedotte dalla terza ipotesi, Damascio fa propria pienamente la dottrina di Giamblico: l’analisi del cambiamento nel tempo, svolta da Platone in quelle conclusioni, si riferisce alla sostanza dell’anima, e non solo ai suoi atti e alle sue facoltà, come vuole Proclo. XVIII
Per Platone, ogni cambiamento si realizza nell’istante (ejxaivfnh"), il momento senza-tempo in cui uno stato si muta in un altro. Proclo e Damascio sono concordi nel riferire l’istante a ciò che è eterno e atemporale nell’anima; ma, per Proclo, tale elemento è la sua intera oujsiva, perfettamente immutabile; per Damascio, invece, l’anima ha sì dentro di sé un elemento di eternità, ma anche quest’ultimo perde la propria purezza scendendo nel divenire. In riferimento all’anima, ogni aggettivo richiama sempre il suo opposto: nella sua essenza vi è una compenetrazione di eterno e di temporale, per cui in essa persino «la temporalità è in qualche modo eternizzata [...], l’eternità temporalizzata»14. L’influenza del pensiero di Giamblico non potrebbe essere più evidente. Ma Damascio non nasconde le stesse perplessità che già Proclo aveva manifestato a riguardo: se l’anima cambia sostanzialmente, essa diventa come una nave senza zavorra, nulla ne garantisce l’identità e la permanenza, tanto che diventa difficile persino distinguerla dal corpo sensibile. Tutte queste difficoltà si possono ricondurre a una questione fondamentale: nel cambiamento l’anima rimane una e identica per specie (ei[dei) o per numero (ajriqmw` /)? In altre parole, l’anima ha un’identità debole (per specie) – come le cose del mondo sublunare, la cui identità è limitata ai tratti comuni alla specie poiché esse sperimentano generazione e corruzione e un continuo ricambio delle proprie parti costituenti – oppure ha un’identità forte (per numero) – come gli astri, che conservano perennemente un’identità individuale? Si tratta di un problema non facile, poiché se l’anima nel cambiamento resta una per specie, si perde la sua immor14
DAMASCIUS, In Parm., IV, pp. 31,12-32,15: to; e[gcronon aijwnivzetaiv
pw" ... to; aijwvnion cronivzetai.
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talità; se, al contrario, l’anima resta una per numero, non si può sostenere che la sua sostanza cambi, poiché ciò comporterebbe la nascita di un nuovo essere. Damascio supera quest’ultima convinzione, sostenendo che l’identità per numero e il cambiamento sostanziale possano coesistere, sulla base della distinzione tra l’eij`do" th`" uJpavrxew" e l’eij`do" th`" oujsiwvdou" meqevxew"15. La «forma dell’esistenza» dell’anima è la sua struttura essenziale, ciò che fa sì che essa sia quell’anima e non un’altra, e pertanto tale forma è immutabile; la «forma della partecipazione sostanziale», invece, fa sì che l’anima, a seconda della realtà con cui entra in contatto, subisca un cambiamento sostanziale. Con un efficace esempio, Damascio paragona l’anima a una spugna: essa può gonfiarsi – quando si riempie della luce divina – oppure sgonfiarsi – quando si rivolge al mondo corruttibile, ma resta sempre la stessa anima. In questo modo, si ribadisce la sua posizione intermedia: – l’Intelletto rimane immutabile sia rispetto a ciò che è sia rispetto a ciò di cui partecipa; – l’anima rimane immutabile rispetto a ciò che è ma muta rispetto a ciò di cui partecipa; – il mondo sensibile muta sia rispetto a ciò che è sia rispetto a ciò di cui partecipa. Nell’Appendice, Steel sottolinea che l’espressione oujsiwvdh" mevqexi" viene adoperata non solo da Simplicio16, ma anche da Proclo e da Dionigi Areopagita, così come eij`do" th`" uJpavrxew" si ritrova in Proclo, Filopono e AmCfr. DAMASCIUS, In Parm., IV, p. 47,6-7. Steel aveva per altro notato passi paralleli fra Damascio e Simplicio già nell’edizione del 1978; cfr. Il Sé che cambia, p. 177, n. 65. 15 16
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monio; tuttavia, pur impiegando termini desunti dalla tradizione, Damascio esprime un concetto del tutto nuovo, quasi “moderno”: l’anima ha la libertà di determinare se stessa secondo le sue possibilità. Anche Prisciano Lido – al quale Steel dedica l’ultima parte del suo studio – sviluppa le idee del “divino maestro”: la dottrina dell’anima assume una nuova dimensione nel confronto con la noetica aristotelica. Prisciano, infatti, nel suo Commento si chiede quale sia il nou`" di cui tratta Aristotele in De anima, III, 4-5, e quali implicazioni comporti la distinzione fra un elemento passivo e uno attivo all’interno di tale nou`". La risposta di Prisciano si fonda sulla distinzione giamblichea dei tre livelli noetici: il nou`" impartecipato, assoluto e universale, luogo di tutte le forme ideali e principio di intelligibilità; il nou`" partecipato dall’anima, che dall’alto la determina come sostanza razionale e pensante; e infine l’anima razionale, nou`" in quanto possiede l’intellezione come abito. I primi due tipi di nou`", per il loro carattere trascendente, sono più consoni a un trattato di metafisica, secondo Prisciano: è l’anima razionale dunque ciò a cui si riferisce Aristotele nel passo in questione, nell’ambito di un’opera rivolta appunto allo studio dell’anima degli esseri viventi. Prisciano procede dunque a un’analisi della vita razionale immanente all’anima, e distingue a tal proposito due momenti (logoi) strutturali della ragione umana: il lovgo" oujsiwvdh", «permanente» o «essenziale», il momento più alto della vita razionale dell’anima, in cui essa è congiunta all’intelletto che la determina, senza avere alcun contatto con il corpo; e il lovgo" proi>wvn o ejn probolh`,/ il momento «procedente», in cui l’anima si rivolge al mondo sensibile, si intreccia alle vite inferiori, vegetativa e senXXI
sitiva, prodotte per la sussistenza del corpo, e perde il contatto con le idee universali. Tale “uscita” dell’anima da sé, tuttavia, non è mai completa e definitiva, secondo l’insegnamento di Giamblico. Il lovgo" proi>wvn, infatti, non è solo ajtelh`", «imperfetto», ma anche teleiwqeiv", «perfezionato»: il primo riceve gli oggetti della conoscenza dal mondo esterno, ma non del tutto passivamente, poiché esso esercita una funzione cognitiva considerando le proprietà accidentali comuni agli oggetti sensibili; il secondo è il momento in cui l’anima ritorna a sé: considerando le cose sensibili come tracce ultime delle forme ideali, il logos si perfeziona, ma, finché l’anima resta legata al corpo, non completamente. La conoscenza dunque è concepita come un processo di auto-perfezionamento dell’anima: dapprima essa possiede le forme di tutte le cose come appartenenti alla sua essenza (oujsiwvdw"); poi, cadendo nel divenire, non ne è più consapevole (wJ" mh; e[cousa); infine, cerca di recuperarle con il processo cognitivo, anche se potrà ricongiungersi pienamente al mondo intelligibile solo con la separazione dal corpo. Tale tensione nell’intellezione, fra conoscenza e ignoranza, non è nient’altro che un riflesso dell’essenza dell’anima, «simultaneamente permanente e cangiante», come la definisce Giamblico. Come si nota, dunque, Giamblico esercita sul commento di Prisciano un’influenza decisiva; eppure, Prisciano si allontana dal maestro proprio sull’aspetto più importante della sua argomentazione: Giamblico infatti riferiva i termini ejnergeiva/ e dunavmei di De an., III, 4-5 all’intelletto partecipato, e non all’anima. Per recuperare i motivi di un tale allontanamento, Steel prende in esame l’interpretazione della noetica aristotelica condotta da Prisciano nella Metafrasi di Teofrasto. Qui il filosofo assume la posizione giamblichea, spiegando inoltre che l’intelletto parteciXXII
pato è “in atto” in quanto viene illuminato dall’Intelletto Assoluto, così che esso è di nuovo in grado di “leggere” le idee “scritte” nella sua essenza; ed è “in potenza” poiché sperimenta un certo stato di divisione proprio a causa della sua relazione con l’anima. Rispetto all’anima razionale, tuttavia, esso non subisce alcun cambiamento nel tempo: la distinzione suddetta ha un significato meramente concettuale. La differenza fra il Commento e la Metafrasi è rilevante: nel Commento, Prisciano analizza la distinzione fra i logoi permanente e procedente dentro l’anima; nella Metafrasi, invece, egli adopera la stessa terminologia per esprimere le relazioni esistenti fra l’Intelletto Assoluto e l’“intelletto psichico”, ossia l’intelletto partecipato dall’anima e l’anima partecipante. Ma come si conciliano i due testi, posto che siano opera dello stesso autore? Steel – che, come si è detto, continua a difendere la paternità priscianea del Commento al De anima anche nell’Appendice apposta alla presente traduzione – spiega tale divergenza con la crescita intellettuale del filosofo, capace di allontanarsi gradualmente dal maestro solo con l’opera successiva. All’inizio del Commento, infatti, si legge una frase degna di nota: «Sia l’anima razionale che l’intelletto partecipato da essa sono chiamati in potenza e materiali»17. Si tratta di una frase isolata, poiché in nessun altro luogo del Commento Prisciano esamina in che senso l’intelletto partecipato possa dirsi “in potenza”, ma essa costituisce un forte richiamo all’interpretazione data nella Metafrasi. In quest’ultima opera, dunque, Prisciano procede “dall’alto verso il basso”: parte dall’Intelletto Assoluto, e mostra le relazioni esistenti fra questo e l’intelletto partecipato, e fra 17 In de an., p. 11,13: kai; hJ logikh; yuch; kai; oJ metecovmeno" uJpΔ aujth`" nou`" dunavmei te kai; uJliko;" levgetai.
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l’intelletto partecipato e l’anima; nel Commento, invece, procede “dal basso verso l’alto”: tratta dell’anima razionale e delucida i rapporti fra questa e l’intelletto di cui partecipa, senza occuparsi dell’Intelletto Assoluto, poiché sarebbe stato un argomento fuori luogo in un trattato psicologico. L’affinità tra la dottrina dell’anima di Damascio e quella di Prisciano, dunque, è rilevante. Senza dubbio, i due filosofi affrontano problemi diversi: Damascio si preoccupa di come si possa preservare l’identità dell’anima, dato che cambia la sua sostanza; Prisciano, invece, di come l’anima, nel processo di conoscenza, proceda da sé e allo stesso tempo permanga in sé. Tuttavia, è chiaro che entrambi sviluppano le loro teorie a partire da quelle di Giamblico, articolando, in particolare, la concezione dell’anima come identità-in-cambiamento. In tal modo, essi danno inizio alla discussione sulla sostanzialità dell’io, destinata poi a riproporsi, per tutt’altra via, in larga parte del pensiero moderno. Per questa traduzione italiana, il testo originale è stato rivisto e ricorretto insieme all’Autore, che ringrazio per la sua disponibilità e pazienza. Le edizioni dei testi di riferimento sono quelle utilizzate originariamente da Steel, tranne nella parte su Damascio, in cui tutte le citazioni sono state adattate alle nuove edizioni del De principiis e dell’In Parmenidem di L.G. Westerink e J. Combès nella «Collection des Universités de France» (Collection G. Budé), Les Belles Lettres, Paris, rispettivamente 1986-1991 e 1997-2003. Nel tradurre i passi dal greco, si è preferito, nel rispetto dell’interXXIV
pretazione dell’Autore, seguire la sua versione inglese, pur avendola comunque confrontata con il testo greco. La bibliografia è stata completamente aggiornata. Per quanto riguarda le fonti primarie, sono state indicate eventuali ristampe o riedizioni dei testi adoperati originariamente dall’Autore, e sono state segnalate sia le nuove edizioni critiche disponibili, sia le principali traduzioni, in particolare quelle in lingua italiana. Per quanto concerne invece la letteratura secondaria, si è preferito mantenere distinti i testi adoperati da Steel nell’edizione del 1978, riportati fedelmente, dall’elenco degli studi apparsi dal 1978 a oggi, attinenti alle tematiche e agli autori trattati in questo libro. Da segnalare – oltre all’Appendice di cui si è detto, realizzata di proposito per l’edizione italiana – anche la traduzione dell’Addendum apposto dall’Autore stesso già all’edizione originaria e aggiornato anch’esso in alcuni riferimenti. Oltre all’Autore, che ringrazio inoltre per l’accoglienza riservatami in occasione del mio soggiorno di studio a Lovanio, desidero rinnovare anche in questa circostanza la mia gratitudine verso il Prof. Pasquale Porro, che mi ha seguito con cura e attenzione in tutte le fasi di questo lavoro. La mia riconoscenza va anche a Marialucrezia Leone, a Pieter d’Hoine e a Christoph Helmig per il loro prezioso aiuto nella revisione dell’intera traduzione e nel reperimento di alcune indicazioni bibliografiche. Lucrezia Iris Martone
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Il Sé che cambia L’anima nel tardo Neoplatonismo: Giamblico, Damascio e Prisciano
Introduzione
Tra i numerosi commenti ad Aristotele apparsi nel tardo Neoplatonismo, quello al De anima, giuntoci sotto il nome di Simplicio, occupa un posto particolare, non solo per la sua singolare terminologia, ma anche per l’originale dottrina sull’anima che vi viene sviluppata. In uno studio precedente, abbiamo dimostrato che quest’opera, in realtà, deve essere attribuita a Prisciano di Lidia, un contemporaneo di Simplicio. Ciò si evince in particolare dalla profonda somiglianza che esiste tra questo commento e la Metaphrasis in Theophrastum dello stesso autore1. Su Prisciano si hanno ben poche notizie. Da Agazia sappiamo che egli, insieme a Simplicio e Damascio, fece parte del gruppo di filosofi pagani che si rifugiarono in Persia dopo la chiusura della scuola di Atene da parte di Giustiniano, nel 529. Essi risiedettero alla corte del re Cosroe2. All’inizio sperarono di trovare in lui un nuovo re-filosofo, ma furono presto disillusi. Già verso la fine del 532, con 1 Un dettagliato confronto tra le due opere è stato oggetto di uno studio da noi pubblicato in collaborazione con F. BOSSIER: Priscianus Lydus en de «In De Anima» van Pseudo (?)-Simplicius, «Tijdschrift voor Filosofie», 34 (1972), pp. 761-822. 2 AGATHIAS, Hist. Libri, II, 30.
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la garanzia di poter vivere in pace, fecero ritorno in patria. Prisciano però dovette godere di una certa reputazione, dal momento che il re gli chiese di scrivere un compendio in cui trovassero soluzione problemi nei vari campi della scienza. Di qui l’opera intitolata Solutiones eorum de quibus dubitavit Chosroe persarum rex3. In un’antica nota si legge che egli scrisse anche commenti a Platone e che Giovanni Filopono si oppose alle sue idee4. Nella sua introduzione, Prisciano ci fornisce la seguente giustificazione del suo commento e del metodo che intende seguire5. In ogni ricerca, bisogna prima di tutto penetrare nella «verità della realtà stessa». È anche necessario, però, includere nella propria indagine i princìpi di coloro che hanno raggiunto il vertice del sapere. Ciò è richiesto anche da chi voglia studiare l’essenza dell’anima. Si deve quindi seguire molto da vicino lo studio di Aristotele Sull’anima. Senza dubbio si trovano eccellenti osservazioni sull’anima anche in Platone; le sue idee però sono 3 Di quest’opera resta solo una versione latina (forse del VI o del VII secolo). Sfortunatamente però presenta numerosi passi oscuri. Cfr. M. ESPOSITO, Priscianus Lydus and Johannes Scotus, «The Classical Review», 32 (1918), pp. 21-23. 4 Nel cod. Coisl. 387 (secc. X-XI – dal Monastero di Grande Lavra sul Mt. Athos) si legge sui ff. 153-154 la nota seguente: to;n me;n Plavtwna uJpomnhmativzousi plei`stoi, crhsimwvteroi de; Gai`o", ΔAlbi`no", Priskia-nov", Tau`ro", Provklo", Damavskio", ΔI wavnnh" oJ Filovpono" o{sti" kai; ka-ta;
Priskianou` hjgwnivsato, pollavki" de; kai; kata; ΔAristotevlou". 5 Il prooemium del Commento (p. 1, 3-6, 17) può essere così suddiviso: 1. Giustificazione di ciò che è necessario per la ricerca e del metodo (1, 320). 2. Breve invocazione alla divinità (Ermes?) (1, 20-21: hJgemw;n tw`n yucw`n te kai; lovgwn pavntwn aijtiva. Cfr. IAMBLICHUS, De myst., I, 1). 3. Collocazione dello studio sull’anima nella filosofia: appartiene alla fisica o alla metafisica? (1, 24-3, 28). 4. Definizione dello scopo (skopov") del trattato di Aristotele (3, 29-4, 11; cfr. 1, 22-24). 5. Quadro generale della struttura e del contenuto del De anima (4, 12-6, 17).
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state già sufficientemente analizzate e, tra gli esegeti, vi è ampio accordo sul significato della sua opera. Ben diverso è il caso di Aristotele. Dopo la conclusione del suo trattato sull’anima, sorsero – come ha giustamente ricordato Giamblico – numerose controversie fra gli interpreti della sua opera. Non solo vi era discordanza sul profondo significato del testo, ma non si riusciva a raggiungere nessun accordo neanche sul tema trattato nel testo stesso – per esempio, la definizione dell’anima come eidos del corpo. È per questi motivi che Prisciano afferma di aver voluto scrivere un commento al De anima. Egli avrebbe cercato di capire fino a che punto il filosofo, attraverso l’intera sua opera, fosse coerente con se stesso e con la verità. Allo stesso tempo, intendeva guardarsi dagli inutili alterchi sorti con le precedenti interpretazioni. Il significato dei passi ambigui sarebbe stato spiegato facendo ricorso ad altre posizioni e ad altre definizioni aristoteliche molto più chiare. In ogni parte dell’esposizione del testo, inoltre, egli avrebbe voluto, come meglio poteva, rimanere vicino alla verità della questione e lasciarsi guidare in questo senso dall’insegnamento sviluppato da Giamblico nel suo trattato Sull’anima6. Secondo Prisciano, evidentemente, non è sufficiente «spiegare Aristotele con Aristotele», come vuole il ben noto principio ermeneutico7. Più precisamente, bisogna mop. 1, 18-20: pantacou` de; kata; duvnamin th`" tw`n pragmavtwn ajnteco-mevnw/ ajlhqeiva" kata; th;n ΔI amblivcou ejn toi`" ijdivoi" aujtou` peri; yuch`" sug-gravmmasin uJfhvghsin. Cfr. una frase analoga in AMMONIUS, De interpr., p. 135, 14: kata; th;n tou` qeiou` ΔI amblivcou uJfhvghsin. Per l’uso dell’espressione tw`n pragmavtwn ajlhvqeia (1, 3. 18) cfr. PROCLUS, In Alc.,75, 16; 6
241, 2; 255, 5; 315, 8 (cfr. W. O’NEILL nella sua traduzione del commento, 2a ed., Den Haag 1971, pp. 242-243). 7 Tale principio fu formulato per la prima volta da Aristarco e applicato
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strare che l’esposizione aristotelica sull’anima è in accordo con la «verità della questione». Tale interpretazione presume che esista un criterio valido con cui verificare le espressioni aristoteliche. Prisciano è dell’opinione che questo criterio sia stato fornito da Giamblico. In effetti, egli considera il filosofo «oJ a[risto" th`" ajlhqeiva" krithv"» (1, 11). Nel suo trattato Sull’anima la verità sull’anima si trova espressa perfettamente. È sufficiente quindi porsi sotto la sua guida per raggiungere il significato più vero del testo aristotelico. Pertanto Prisciano non formula mai nessuna dottrina che si allontani da Giamblico, e cerca sempre di essere in accordo con lui8. Prisciano dunque non è tanto interessato a illuminare il vero significato del testo aristotelico; piuttosto, si avvicina all’opera da commentare con la specifica e sviluppata visione dell’anima acquisita da Giamblico, e presenta il significato che il testo deve avere per poter essere conforme a questi presupposti9. Particolarmente interessante è l’affermazione con nella sua lettura di Omero: cfr. PORPHYRIUS, Quaest. homericae, p. 297, 1617 (ed. SCHRADER). In questo senso, anche Proclo stabilisce di spiegare i «testi enigmatici» di Platone con l’aiuto di altri testi di Platone stesso (Theol. Plat., I, 2, p. 10, 2-4). 8 Cfr. p. 313, 1-10 e la nostra discussione di questo passo più oltre, p. 233. 9 Un esempio eloquente di questo metodo si trova a p. 76, 8: ou{tw" e[moi ge dokei` ma`llon th;n ΔAristotelikh;n kaqistavnein levxin. L’espressione kaqistavnein levxin di solito indica che il commentatore ha introdotto alcuni cambiamenti nel testo per renderlo intelligibile (per esempio, riordinando le parole). Questo è il significato della formula di p. 226, 21 ss. Ma a p. 76 si indica un cambiamento ben più radicale di una semplice correzione di formule. Il testo deve essere interpretato (“arrangiato”) in modo tale da eliminare ogni discordanza con la dottrina dell’anima di Platone. Perciò, il commentatore dimostrerà che la critica formulata da Aristotele non è diretta contro la dottrina platonica secondo la quale il mondo intero è animato – un concetto condiviso da Aristotele stesso, egli pensa – ma contro alcuni travisamenti di quella stessa dottrina (cfr. p. 73, 7-10).
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cui si conclude l’introduzione. Dopo aver gettato uno sguardo d’insieme sull’insegnamento intorno al tema dell’anima, sviluppato nel De anima, Prisciano conclude dicendo: «ma questa [cioè la visione dell’anima] sarà spiegata più chiaramente nel corso della nostra esposizione, così come la teoria di Aristotele è stata ancor più chiaramente espressa da Giamblico»10. Qui l’autore ammette con franchezza che in realtà la sua intenzione è di dimostrare come l’insegnamento di Giamblico sull’anima si possa ritrovare nel trattato di Aristotele, benché non espresso così chiaramente. Anche altre affermazioni sparse in tutto il commento rivelano come Prisciano abbia interpretato il testo con un tale preconcetto. E così egli presenta, in un’ampia introduzione a III, 4-6, la visione dell’anima da cui vuol essere diretto nella spiegazione della noetica di Aristotele. La conclusione di questa sezione recita: «E ora, dopo aver definito questo in anticipo, prendiamo il testo di Aristotele e analizziamo se ciò che abbiamo detto è in accordo con esso»11. Quello che noi chiameremmo hineininterpretieren è, per il nostro autore, proprio il metodo migliore da seguire per interpretare un testo in accordo con la verità. Senza dubbio, quest’opera rimane un vero e proprio «commento» poiché segue da vicino il testo di Aristotele e non si limita a una semplice parafrasi dottrinale, ma spiega anche le singole parole e frasi. Comunque, si evince immediatamente che la maggior parte delle spiegazioni che presenta vanno al di là dello 10 p. 6, 15-17: ajlla; tau`ta me;n safevsteron kai; hJ o{lh tw`n lovgwn ejpi-deivxei dievxodo" wJ" kai; ΔAristotevlei dokou`nta kai; uJpo; tou` ΔI amblivcou ej-nargevsteron ejkpefasmevna. 11 p. 221, 33-34: touvtwn prodiwrismevnwn th;n ΔAristotelikh;n ajnalabovnte" levxin skopwvmeqa eij sumfwnei` aujth`/ ta; prodiwrismevna hJmi`n.
Un altro esempio a p. 67, 32.
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scopo effettivo del testo. Si trova piuttosto una trasposizione neoplatonica del testo di Aristotele12. Lo stesso metodo ermeneutico è stato usato da Prisciano anche in un’opera precedente, una «metafrasi» della Fisica di Teofrasto; in essa si propone di riassumere le posizioni del filosofo, che, afferma, insegna qualcosa di più di Aristotele, e di analizzare le difficoltà sollevate da Teofrasto nella lettura del suo maestro13. La Metaphrasis si è conservata soltanto parzialmente nella forma manoscritta – solo la parte che tratta del V libro della Fisica, ma non tutta14. Non sappiamo se Prisciano abbia scritto commenti a tutti gli otto libri della Fisica. È sicuro però che egli discusse il IV libro, come si evince dall’inizio del nostro testo: peri; aijsqhvsew" aujtw/` oJ skopo;" ejfexh`". Secondo Te12 Questo, forse, spiega come mai tale commento non contribuisca molto a una migliore interpretazione del significato del testo di Aristotele. Cfr. R.D. HICKS, Aristotle. De Anima, London 1907, p. LXV: «Of the other commentators, the Neo-Platonist Simplicius distorts Aristotle’s account, in order, as far as possible, to adapt it to his own philosophical presuppositions». Ancor più negativo il giudizio di A. TORSTRIK, Aristotelis De Anima, Berlin 1862, p. VI: «ipsum interpretandi genus quo in hac re utitur habet senile quiddam, ne dicam anile: tantopere a re proposita discedit et nescio quo evagatur». 13 Cfr. p. 7, 20: hJmi`n provkeitai ... ta; tou` Qeofravstou ei[ tiv te ejpi; plevon th`" ΔAristotevlou" paradovsew" prostivqhsi sunairei`n, kai; ei[ ti ajporw`n proteivnei ejpexergavzesqai. L’uso del termine sunairei`n indica che Prisciano non ha discusso l’intero testo di Teofrasto in dettaglio, ma semplicemente «ha riassunto» le idee più importanti. Presumibilmente, il titolo originario dell’opera era hJ ejpitomh; tw`n Qeofravstou fusikw`n, come Prisciano stesso scrive nel suo Commento a p. 136, 29. 14 Cfr. p. 22, 34: ta; loipa; tou` pevmptou biblivou. Nel quinto libro, mancano la parte finale dell’esposizione sulla «immaginazione» e l’inizio della sezione sull’«intelletto». Cfr. pp. 25, 27 ss. di THEMISTIUS, In de an., p. 107, 31-34 dove la citazione da Teofrasto è più completa. La conclusione del quinto libro manca «archetypi ut videtur foliis aliquot avulsis» (I. BYWATER, introduzione, p. VI).
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mistio, il IV e il V libro di Teofrasto erano dedicati allo studio dell’anima15. Poiché la prima parte è andata perduta, non abbiamo nessuna introduzione sul metodo impiegato, che sarebbe stato espressamente giustificato. Tuttavia, possiamo affermare che Prisciano utilizza più o meno lo stesso metodo impiegato in seguito nel suo commento al De anima. A titolo di esempio, prendiamo in considerazione la sua esposizione della percezione sensoriale. Prisciano inizia con la seguente aporia di Teofrasto: quale analogia può esserci tra l’oggetto percepito e l’anima che percepisce?16 Questa aporia consente a Prisciano di esporre una visione neoplatonica dei processi di percezione. Egli distingue a questo proposito tre momenti. Prima di tutto, vi è l’impressione similare che è generata nell’organo di senso dall’oggetto. Tale impressione, però, non è subita del tutto passivamente, poiché l’organo reagisce sempre in quanto corpo vivente. Per mezzo della vita presente nel corpo, dunque, l’impressione acquista una «forma» (eidos) specifica. La percezione si verifica, comunque, solo quando l’anima produce un’idea (logos) da sé in accordo con l’eidos ricevuto dall’esterno. Solo per mezzo di questa idea è possibile la percezione e il giudizio circa l’oggetto percepito17. Questa dettagliata analisi della percezione si conclude così: «Questa è la maniera per spiegare ogni tipo di percezione [vista, udito, ... ] e tale teoria si riscontra in particolare nello studio filosofico che Giamblico ha dedicato a 15
Cfr. In de an., 108, 11.
16 Secondo Aristotele il soggetto diventa simile all’oggetto sensibile nel-
l’atto della sensazione (cfr. De an., II, 5, 418 a 5). Teofrasto si domandava come fosse possibile tale assimilazione (cfr. Metaphr., 1, 5 ss.). 17 Cfr. Metaphr., 7, 11-16, un buon riassunto dell’esposizione di pp. 1-3.
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questo tema nella sua opera Sull’anima, da cui noi abbiamo tratto il precedente riassunto con l’intenzione di esporre il modello dell’esatto insegnamento riguardante ogni percezione»18. Prisciano ha preso, in pratica, dal De anima di Giamblico l’intera esposizione della percezione che egli presenta come un’interpretazione di Teofrasto. Certo, è ben consapevole di essersi allontanato di molto dal testo di Teofrasto: «Visto che non è nostra intenzione analizzare il pensiero di Giamblico, ma quello di Teofrasto, torniamo al testo di Teofrasto!». Tuttavia nelle altre parti del commento, si può notare come l’autore di volta in volta si allontani dall’effettivo significato del testo e torni nuovamente all’insegnamento di Giamblico19. Come il commento In de anima, la Metaphrasis non è tanto una parafrasi o una descrizione esplicativa del testo di Teofrasto, quanto una sua esposizione neoplatonica su percezione, immaginazione e intelletto. Se il punto di partenza sono sicuramente le considerazioni di Teofrasto, la vera ispirazione è però tratta, nei fatti, dalla dottrina di Giamblico sull’anima20. Pertanto, l’accesso a queste opere presenta molte difficoltà per chi non abbia dimestichezza con la terminologia e la dottrina di Giamblico; sarebbe in effetti difficile cogliere il significato dell’intera spiegazione, poiché l’au-
18 p. 7, 16-20: toiou`to" oJ trovpo" th`" peri; eJkavsthn ai[sqhsin qewriva" o}n dei` mavlista ejk tw`n ΔI amblivcw/ ejn toi`" Peri; yuch`" pefilosofhmevnwn ajnalambavnein, ejx wJ`n kai; nu`n hJmei`" tau`ta sunh/rhmevnw" gegravfamen to;n tuvpon uJpogravyai th`" ajkribou`" peri; eJkavsthn qewriva" boulovmenoi. 19 Cfr. p. 9, 12-30 (tw` / ΔI amblivcw/ eJpovmeno") e 23, 13; 24, 1 e 32, 13-34. 20 Questo è anche il giudizio dell’editore, I. BYWATER, p. V: «nec revera habet quod in metaphrasi vel paraphrasi inveniri solet. Ex Iamblicho enim Metaphrasta in suos commentarios permulta transtulit et transtulisse se fatetur; quae autem Theophrastus ipse Peripatetico sensu intelligenda scri-
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tore non si allontana mai dalle premesse fondamentali con cui lavora. Ma, sfortunatamente, non abbiamo più a nostra disposizione il trattato di Giamblico da cui egli trae la sua interpretazione. Il filosofo Giamblico (ca. 250-326), cui Prisciano si riferisce, svolse un ruolo importante nello sviluppo del Neoplatonismo dopo Plotino21. Nativo della Calcide, nel nord della Siria, fu discepolo di Porfirio per un certo periodo di tempo, ma presto seguì la sua strada e non esitò ad attaccare fortemente il suo precedente maestro22. Aprì una «scuola» nella sua regione natale (Apamea e Dafne). La fama del suo insegnamento e soprattutto la sua speciale relazione con gli dèi e le sue pratiche magiche si diffusero rapidamente. Giungevano discepoli da ogni dove. La sua influenza continuò a espandersi anche dopo la sua morte, e, almepserat, ea omnia omni interpretis arte ad Iamblicheam veritatis normam accomodare studuit». 21 Sulla vita di Giamblico, cfr. J.M. DILLON, Iamblichi... fragmenta, Leiden 1973, pp. 3-18 e B. DALSGAARD LARSEN, Jamblique de Chalcis, Aarhus 1972, pp. 33-42. Poiché la Suda colloca il «floruit» di Giamblico durante il regno di Costantino, la sua nascita potrebbe essere datata intorno al 265280. J. BIDEZ, invece, ha dimostrato che bisogna risalire al 250 ca. («Revue des Études grecques», 27, 1919, pp. 32 ss.). Alcuni studiosi moderni risalgono ancora più indietro: propongono il 245 ca. (A. Cameron) o anche il 242 (Dillon) o il 240 (Dalsgaard Larsen). La loro tesi si basa sul presupposto che il Giamblico citato da Porfirio nella Vita Plotini, IX, sia lo stesso filosofo siriano. Sembra comunque difficile accettare una data tanto remota per la nascita di Giamblico. Ciò implicherebbe che il suo «floruit» si collochi quando era già vecchio; inoltre, la differenza d’età rispetto a Porfirio (nato nel 234) diverrebbe irrisoria, il che va contro la tradizione (cfr. nota 22). 22 La diadoche secondo cui Giamblico era discepolo di Porfirio, a sua volta discepolo di Plotino, è generalmente accettata nella tradizione: cfr. EUNAPIUS, Vitae soph., p. 10, 23 (ed. GIANGRANDE), DAVID, In Porph. Isag., 92,2 e SUDA, s. v. Iamblichus, Plotinus e Porphyrius. Di particolare interesse è la solenne introduzione della Teologia Platonica in cui Proclo colloca Giamblico insieme a Teodoro di Asine nella terza generazione del Neopla-
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no in Oriente, oscurò persino quella di Plotino e Porfirio. Giuliano, che si dichiara «pazzo di Giamblico in filosofia», ne fornisce la testimonianza: aveva studiato con zelo l’opera di tale «uomo divino», «il primo dopo Pitagora e Platone», e aveva preso molto da lui23. Egli parla invece con un certo disprezzo dell’opera dell’uomo di Tiro, cioè Porfirio, e non la ritiene nemmeno degna di essere consultata24. In una tradizione più tarda, viene citato un oracolo della Pizia, che riflette con chiarezza quanto siano diversamente considerati i due filosofi: e[nqou" oJ Suvro", polumaqh;" oJ Foivnix – Porfirio, il fenicio, è un uomo di grande cultura, Giamblico, il siriano, è un pensatore ispirato dagli dèi25. I filosofi dell’ultima scuola di Atene raramente si rifanno a Porfirio, pur essendo alquanto impressionati dalla sua erudizione. Preferiscono le alte considerazioni del divino Giamblico, il filosofo che «sempre vola in alto (metewropolei`), a un livello inaccessibile per la gente comune»26. Effettivamente, tutto indica che Giamblico diede un nuovo impulso al Neoplatonismo, grazie a cui tale filosofia poteva svilupparsi per altri tre secoli e fare i conti con la crescente influenza del Cristianesimo27. Il più importonismo, cioè tra quei filosofi successivi ai primi discepoli di Plotino, Porfirio e Amelio (I, 1, pp. 5-7, 8). 23 Cfr. Epist. 12 (da 357) pp. 18-20 (ed. BIDEZ) e Or. in Sol. reg., 150 D; 157 D. 24 Cfr. Or. in Matr. deor., 161 D. 25 Cfr. DAVID, In Porph. Isag., 92, 2-7. 26 Cfr. per es., PROCLUS, In Tim., II, 240, 4; OLYMPIODORUS, In Phaed., 57, 3 ss.; PRISCIANUS, In de an., 313, 6 ss. 27 «At this point the history of Greek philosophy would have come to an end but for the introduction of new methods, both theoretical and practical, by the Sirian Iamblichus». Così E.R. DODDS, che, nell’introduzione all’edizione degli Elementi di Teologia di Proclo, fornisce un eccellente resoconto dell’influenza di Giamblico nel tardo Neoplatonismo (2a ed., Oxford
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tante rinnovamento consisteva sicuramente nella definitiva e completa integrazione della tradizione pagana, con la corrispettiva prassi rituale, all’interno della filosofia. Inoltre Giamblico, introducendo nuovi princìpi dialettici e facendo ricorso a una coerente ermeneutica dei testi di Platone, sviluppò nuovi modi di analisi in ogni campo dell’indagine filosofica. Proclo avrebbe dato una veste ancor più sistematica a questi stessi elementi28. Come Crisippo aveva dato una nuova forma allo Stoicismo e aveva formulato risposte definitive a molti problemi lasciati insoluti dai suoi predecessori, così Giamblico diede una nuova forma al Neoplatonismo, determinante per le successive generazioni. Perciò K. Praechter lo ha definito un «Crisippo Neoplatonico», il secondo fondatore della scuola29. Purtroppo, della vasta opera di Giamblico rimane molto poco. Oltre al De mysteriis, ci restano solo i primi quattro volumi della Raccolta di dottrine pitagoriche, che in larga parte, comunque, è composta di brani tratti da altri filosofi30. Per le idee originali di Giamblico, facciamo ricorso a testimonianze e frammenti delle sue opere perdute che si ritrovano in pensatori successivi, come Giuliano, Proclo, 1963, pp. XIX-XXIII). Uno sguardo più ampio è dato da A.C. LLOYD in The Cambridge History of Later Greek... Philosophy, Cambridge 1967, capp. 1719, da R.T. WALLIS, Neoplatonism, London 1972, pp. 94-137, e da B. DALSGAARD LARSEN, La place de Jamblique dans la philosophie antique tardive, in AA.VV., De Jamblique à Proclus, Genève 1975, pp. 1-34. 28 Esempi sono la distinzione tra il “principio ineffabile” e l’Uno; la dottrina delle “enadi”; la distinzione tra regno “noetico” e “noerico”; l’importante posto assegnato al corpo celeste (“quinta essentia”) nell’emanazione del mondo sensibile dall’intelligibile; la dottrina su fato e provvidenza, e sul male come parupovstasi". 29 Nel suo classico studio Richtungen und Schulen im Neuplatonismus, in Genethliakon C. Robert, Berlin 1910, p. 143. 30 Un esame delle opere di Giamblico è dato da B. DALSGAARD LARSEN,
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Damascio, Simplicio e Prisciano. Raccogliendo tutti i dati, appare evidente che tali filosofi hanno preso da Giamblico molto più di quanto si possa dedurre dai rari casi in cui lo citano direttamente. Comunque, è difficile determinare con esattezza fino a che punto la sua influenza si sia estesa alla generazione successiva. È ancora possibile recuperare la sua visione originale, disgiunta dalla trasformazione subita nel corso della tradizione? Senza dubbio dobbiamo confrontarci con questa difficoltà se vogliamo studiare la sua dottrina dell’anima. L’opera più importante su questo tema è il Peri; yuch`" a cui si riferiva Prisciano31. Di essa, tuttavia, si sono conservati solo frammenti.
1. Stobeo Nella ben nota antologia che Giovanni Stobeo (all’inizio del V secolo) compilò traendo passi dalle opere di filosofi, poeti, oratori, ecc., per l’educazione di suo figlio, si trova un certo numero di brani più o meno importanti intitolati ΔI amblivcou ejk tou` peri; yuch`"32. Sfortunatamente, StoJamblique de Chalcis cit., pp. 42-65 e da J.M. DILLON, Iamblichi cit., pp. 18-25. 31 Un’altra opera di Giamblico che tratta di «problemi psicologici» è una monografia sulla migrazione dell’anima, in cui dimostra che l’anima umana non potrebbe mai entrare in un animale irrazionale (riferito da NEMESIUS, De nat. hom., 117, 6-118, 3). Questa potrebbe essere la stessa opera ricordata da DAMASCIUS, In Parm., II, 259, 13 con il titolo: peri; yuch`" metanastavsew" ajpo; swvmato". Vi è anche un trattato peri; kaqovdou yuch`" citato da JOHANNES LYDUS, De mens., IV, p. 167, 23. 32 Il primo frammento con questo titolo si trova nella sezione sull’intelletto (I, 48): I, 317, 20-318, 15. Lo stesso titolo ricorre per due brevissimi testi in II, 6, 9-12 e 207, 15-18 e per il frammento sulla memoria in III, 608, 25-609, 3. Comunque, la sezione più importante sull’anima (I, 362, 23-385, 10) manca del lemma introduttivo, ma si conservano i sottotitoli: ejn taujtw`/ peri; ... (367, 10; 369, 5. 18 ecc.). Lo stesso per la parte I, 454,
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beo era interessato soltanto alla parte dossografica dell’opera. Prese perciò solo i testi in cui Giamblico passava in rassegna le diverse dovxai dei filosofi precedenti sull’essenza dell’anima, sulle sue facoltà e i suoi atti, sulla sua unione con il corpo, sulla sua separazione dal corpo (morte) e sul suo destino escatologico. Nel trascrivere questi passi nella sua antologia, Stobeo, in base al suo proponimento, non considerò la struttura originale dei brani estrapolati e li sistemò adeguandoli al piano del suo libro. A.J. Festugière ha tentato di riordinare i frammenti di Giamblico secondo il loro contesto originario. È stato in grado di dimostrare che la struttura di questo studio dossografico segue generalmente quella dei «manuali» della filosofia platonica che, sin dal II secolo, erano alquanto diffusi. Festugière ha inoltre pubblicato una traduzione dei frammenti con note dettagliate su ulteriori rinvii cui fare riferimento33. Le idee proprie di Giamblico possono essere recuperate solo indirettamente da questi testi – a volte in modo puramente negativo per la maniera in cui Stobeo presenta e critica le altre posizioni. Non solo spesso egli rivela la sua preferenza per certe dottrine, ma talvolta avanza anche la sua visione personale come una possibile dovxa fra le altre: «un’altra opinione che non è ancora stata espressa potrebbe essere possibile» (381, 6); «un altro concetto che non è da rigettare» (372, 15); «come potrebbe dire tale insegnamento da poco rivelato» (373, 12)34. Comunque sia, i testi di Stobeo possono aiutarci a com10-458, 21. Un’analisi di stile e di contenuto rivela che tutti questi passi provengono dalla stessa opera, Peri; yuch`", di Giamblico. 33 Cfr. La révélation d’Hermès Trismégiste, III. Les doctrines de l’âme, Paris 1953, Appendice I, pp. 177-264. Un’altra traduzione, a opera di E. LEVÊQUE, è contenuta nell’edizione di M. BOUILLET, Les Ennéades de Plotin, Paris 1857-1861 (nel vol. II, pp. 625-661).
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prendere la posizione di Giamblico rispetto ai suoi predecessori.
2. Prisciano, «Solutiones ad Chosroem» Il trattato di Giamblico, Sull’anima, è citato anche da Prisciano nelle sue Solutiones. Quest’opera, come l’autore asserisce nell’introduzione, è composta in larga parte da brani di autori antichi: «veterum excerptas libris». A beneficio del lettore, Prisciano elenca varie opere su cui si è basato per risolvere le Quaestiones: «facile fiat accipere ex qualibus haec constituta sunt libris». Nella sua lunga lista di fonti, troviamo «Iamblichus de Anima scribens» (42, 17). È difficile, però, ricavare con esattezza quali passi Prisciano abbia trascritto dal trattato di Giamblico, poiché non abbiamo a nostra disposizione testi sicuramente autentici con cui confrontarli. Facciamo riferimento solo al primo capitolo, poiché solo qui è trattata «l’anima e specialmente l’anima umana». Possiamo indicare estratti da Giamblico in questa esposizione? Prima di tutto, possiamo iniziare con un processo di eliminazione. La tesi a favore dell’immortalità dell’anima alle pp. 47-49 deriva da una monografia di Proclo che si è conservata, anch’essa parzialmente, nella tradizione araba35. Le considerazioni sul modo in cui l’anima è legata al corpo (pp. 50, 25-52, 22; cfr. 44, 15-28) sono largamente tratte da Prisciano dalle Commixtae quaestiones di Porfirio, come si può dimostrare ricorrendo a passi paralleli in Nemesio36. La sola parte che si può considerare proAltri esempi sono riportati da FESTUGIÈRE, p. 224, n. 4 (cfr. C. WACHSnella sua edizione, I, p. 367, 4). 35 Cfr. L.G. WESTERINK, Proclus on Plato’s Three Proofs of Immortality in 34
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pria di Giamblico è da p. 44, 30 fino a p. 46. Si trova qui un’esposizione neoplatonica in cui si dimostra che l’anima esiste separatamente dal corpo ed è rivolta a se stessa37. Il punto di partenza per la dimostrazione è una definizione della filosofia. La filosofia vuole condurre a una vita immune dalla contaminazione con la materia e, nello stesso tempo, all’acquisizione, senza errori, dell’essere vero38. Pertanto, dal modo in cui si svolge l’attività filosofica (operatio), si può dedurre quale sia l’essentia dell’anima che fa filosofia. Il primo argomento procede dalla filosofia come capacità di comprensione teoretica. È impossibile conoscere qualcosa senza conoscere se stessi. Ciò che conosce se stesso, però, deve essere incorporeo, perché auto-conoscenza significa che il soggetto è diretto verso se stesso e, per così dire, coincide con se stesso nell’atto della conoscenza. Una tale attività è impossibile per un essere corporeo, in quanto il corpo consiste sempre di parti estese e poste una fuori dell’altra. Perciò, esso non può mai coincidere con se stesso. Di conseguenza, l’anima deve essere incorporea in quanto conosce se stessa. Il secondo argomento dimostra che questa sostanza incorporea è anche separabile e indipendente dal corpo. Qui si passa alla filosofia come prassi. L’anima, per mezzo del modo filosofico di vivere, può svincolarsi e liberarsi dal corpo cui è legata, ed esistere puramente in se stessa. Ora, non è possibile per un essere separarsi dalla materia nella sua attività, a meno che la sua essenza non possa esistere separatamente dalla materia, poiché l’attività non Zetesis. Bijdragen... aangeboden aan Prof. Dr. E. de Strijcker, AntwerpUtrecht 1973, pp. 296-306. 36 Cfr. H. DÖRRIE, Porphyrios’ «Symmikta Zetemata», München 1959. 37 p. 44, 29: «quod anima separata a corpore sit et ad se ipsam conversa».
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può essere superiore all’essenza da cui procede39. Possiamo così concludere che «l’anima che fa filosofia è sia incorporea sia separabile dal corpo» (46, 6). Senza dubbio, si possono citare molti testi paralleli di Proclo a sostegno di questa tesi. Essi dimostrano che, sulla base dell’attività conoscitiva, il soggetto conoscente esiste, nella sua essenza, come separabile dal corpo40. In nessun passo di Proclo, però, si trova un argomento che inizia con una definizione della filosofia, mentre in Damascio si riscontra un’allusione a una prova simile. Damascio afferma che il principio secondo il quale si può risalire all’essenza dell’anima dalle sue attività si trova, prima di Aristotele, già in Platone. Platone, nel Fedone, mostra come il filosofo separi la propria anima dal corpo con il suo modo di vivere41. Anche Prisciano si riferisce a un argomento simile quando afferma che Aristotele aveva preso da Platone il principio secondo cui l’essenza dell’anima si può conoscere dalle sue attività. Tale discussione si può comprendere solo conoscendo l’intera argomentazione, così come appare nelle Solutiones42. Abbiamo motivo di credere che questa tesi sia tratta da Giamblico, benché non abbiamo nessuna prova evidente di ciò. Possiamo solo riferirci a un passo corrispondente del commento In de anima di Prisciano. Secondo Giamblico, così scrive Pri38 p. 45, 16: «philosophari autem nihil aliud quam et vitam mundam habere et incontaminatam materia et scientiam eorum quae vere sunt non errantem». 39 p. 45, 31: «inseparabile enim materia impossibile impassibile fieri ad materiam, nullo eorum quae sunt operationem habente meliorem propria essentia». 40 Cfr., per es., El. theol., prop. 16, 44 e 186. 41 In Phaed., 99,14-18. 42 In de an., 41, 31: eJpomevnw" tw`/ Plavtwni ejk tw`n ejnergeiw`n th;n oujsiv-
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sciano, la percezione umana è del tutto diversa da quella degli animali, perché solo l’uomo, nella percezione di un oggetto, è simultaneamente conscio di se stesso. In questo movimento direzionale verso se stessa, l’anima umana manifesta la sua trascendenza rispetto al corpo. Infatti, il ritorno a sé non è possibile per il corpo43.
3. I «Commenti» di Prisciano La nostra ricerca dei frammenti del trattato di Giamblico Sull’anima ha recuperato poco materiale certo, oltre i brani dossografici di Stobeo44. Se vogliamo guadagnare qualche altra idea della dottrina di Giamblico, dobbiamo ritornare ai due commenti di Prisciano da cui abbiamo preso le mosse. Infatti, Prisciano basa la sua interpretazione di Aristotele e di Teofrasto sull’insegnamento che Giamblico an pistou`tai e 146, 22: ajpov ... th`" ejnergeiva" fhsi; Plavtwn ta;" dunavmei" kai; ta;" oujsiva" tw`n pragmavtwn gignwvskomen. L’editore, M. HAYDUCK,
non si accorge che qui Prisciano si riferisce al Fedone: «quem locum respiciat, non video». 43 In de an., 187, 29 ss.: ejpistrevfon pro;" eJautov ... to; cwristo;n ajpo; sw-mavtwn ejmfai`non, ei[ ge a{pan sw`ma ... oujk a[n pote eij" eJauto; sunneuvoi. Cfr. Solut., 45, 19-25. 44 Forse altri brani del De anima di Giamblico si possono ritrovare nel trattato di PSELLUS, De omnifaria doctrina, par. 50, 55-56, 58 e 61-63. Cfr. par. 50, 9: ΔI avmblico" de; oJ filovsofo" ... Cfr. il testo nel par. 56 con la citazione di Giamblico in PRISC., Metaphr., 23,13 ss. (L’editore, L.G. WESTERINK, non si accorge che i parr. 194 e 199 consistono di brani tratti da PRISCIANUS, In de an., pp. 28, 22-29, 31 e 39, 8-40, 32). Abbiamo esaminato anche il trattato dell’erudito bizantino PETRUS ATHANASIUS: Aristoteles propriam de animae immortalitate mentem explicans (Paris 1641). Questo autore afferma di aver preso il materiale per il suo studio sull’anima «ex multis ac variis Aristotelis ipsius auditoribus, qui sibi ex ordine successerunt, [...] praesertim vero admirabili et magno Iamblicho». L’ipotesi che Atanasio fosse al corrente del trattato di Giamblico (cfr. E. ZELLER, Die Philosophie der Grichen in ihrer geschichtlichen Entwicklung dargestellt, III, 2, p. 741, n.1) non è con-
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aveva sviluppato nel trattato De anima, da cui sembra ricavare estratti anche lo stesso Stobeo45. Tuttavia, Prisciano non fornisce mai citazioni letterali di quest’opera; egli parafrasa piuttosto liberamente i pensieri di Giamblico, in funzione del testo che sta commentando. È ancora possibile ritrovare l’autentica dottrina di Giamblico all’interno di una riproduzione così libera? Possiamo semplicemente prendere ogni affermazione importante sull’anima, che qui è riportata, e assegnarla a Giamblico, soltanto perché l’autore dichiara nell’introduzione che l’intero commento è scritto sotto l’ispirazione di Giamblico? Naturalmente, questo è più facile nei casi in cui Prisciano cita esplicitamente il nome di Giamblico in relazione a una particolare dottrina46. Ma l’influenza di Giamblico va ben oltre questi pochi passaggi. fermata. Il suo studio sull’anima non è nient’altro che una compilazione dai commenti di Giovanni Filopono, Prisciano e Temistio. Presumibilmente, l’autore menziona Giamblico nel titolo al fine di suscitare interesse per la sua opera non tanto originale. Sembra molto improbabile che si siano conservati nei manoscritti altri frammenti del De anima di Giamblico. 45 Che Prisciano si riferisca a un’opera indipendente e sistematica di Giamblico, e non a un commento al De anima, è chiaramente indicato dal modo in cui lo cita: cfr. In de an., 240, 37: ejn th/` ijdiva/ Peri; yuch`" pragma-teiva/, 1, 19: ejn toi`" ijdivoi" aujtou` peri; yuch`" suggravmmasin, Metaphr., 7, 11: ta; ejn toi`" peri; yuch`" pefilosofhvmena, Solut., 42, 17: «Iamblichus-que de anima scribens». Per la differenza tra ujpovmnhma e suvggramma cfr. GALENUS, 16, 532, 543 e 811 (KÜHN). Il termine pragmateiva (aristotelico: cfr. I. DÜRING, Aristoteles, Heidelberg 1966, p. 41) fu usato dallo stesso Giamblico: cfr. STOB., I, 366, 10-11. Inoltre, in nessun luogo Prisciano si riferisce a Giamblico per una dettagliata analisi del testo (levxi"). Si può così concludere che l’opera utilizzata da Prisciano è lo stesso trattato estrapolato da Stobeo. Cfr. H.J. BLUMENTHAL, Did Iamblichus Write a Commentary on the «De Anima»?, «Hermes», 102 (1974), pp. 540-546. 46 In primo luogo, la visione generale sull’anima è attribuita a Giamblico: cfr. pp. 6, 16; 89, 33; 240, 37 e cfr. Metaphr., 32, 13. E così anche le particolari dottrine seguenti: 1. Il corpo celeste ha vita per se stesso (p. 49,
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Ciò si evince dal fatto che le stesse dottrine appaiono anche altrove nel commento senza che il suo nome sia ripetuto47. La stessa cosa si può facilmente dimostrare anche attraverso un confronto tra il commento al De anima e la Metaphrasis. Per esempio, si ritrova la dottrina di Giamblico sulla percezione in un certo numero di passi nel commento, benché non sia mai indicato che si tratta di un suo insegnamento48. Soltanto un confronto con la Metaphrasis permette di accertarlo. E viceversa, possiamo ascrivere anche altri passaggi della Metaphrasis a Giamblico attraverso un confronto con il commento In de anima49. Inoltre, possiamo prendere in considerazione altri testi di Giamblico tramandatici da altri autori. Così, sappiamo da Ammonio che Giamblico distingueva tre modi diversi in cui si può conoscere qualcosa. L’anima umana può, dal suo particolare livello, contemplare le forme eterne nell’Intelletto al di sopra di sé, afferrare i particolari e mutevoli oggetti esterni e inferiori a sé, oppure considerare i concetti universali che appartengono alla sua essenza50. La stessa distinzione è ripetutamente impiegata da Prisciano senza menzionare il nome di Giamblico51. 31). 2. Gli esseri celesti hanno una percezione più perfetta rispetto alla nostra (p. 174, 38) e la percezione umana è del tutto diversa da quella degli animali (p. 187, 37). 3. La phantasia svolge una funzione intermediaria nel processo di conoscenza (p. 214, 19. Cfr. Metaphr., 24, 1). 4. La doxa appartiene ancora alla vita irrazionale dell’anima (p. 309, 36); 5. Il principio intellettivo attivo e quello potenziale trascendono l’anima (pp. 217, 27 e 313, 2. 6). Infine, vi è un riferimento al suo Commento al Timeo, dove si può trovare un’analisi più completa sulla natura della luce (p. 133, 35). 47 Così l’insegnamento sulla percezione sensoriale propria delle classi più alte riappare a pp. 106, 27-30; 215, 19-25; 308, 30-37 (cfr. pp. 174, 38175, 10). La dottrina sul corpo celeste riappare a p. 87, 7-12 (cfr. p. 49, 31). 48 Cfr. In de an., 125, 24-126, 16 e 128, 24-29; 165, 1-6; 189, 35-190, 22.
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Infine, Prisciano sembra seguire l’esempio di Giamblico nella sua terminologia piuttosto caratteristica52. Tutti questi esempi – ci limitiamo qui ad esporli, senza elaborare una prova effettiva – indicano come Prisciano abbia preso da Giamblico molto più dei rari passi in cui cita il suo nome. Forse, egli riteneva superfluo citare ripetutamente, nel corso del commento, il nome del Maestro, essendo d’accordo con lui, e giudicava sufficiente il riconoscimento dedicatogli nell’introduzione53. Di contro alla decisiva influenza di Giamblico, il contributo di altri autori all’elaborazione della sua dottrina è piuttosto scarso. Naturalmente, Prisciano era a conoscenza dei precedenti commenti al De anima, uno di Alessandro di Afrodisia e un altro del filosofo neoplatonico Plutarco, il maestro di Siriano. Nella propria esposizione del testo, spesso fa riferimento alle loro vedute su particolari questioni54. Specialmente Plutarco sembra godere di un certo 49
Cfr. Metaphr., 31, 27 ss. e confronta con In de an., 89, 31 ss.
50 AMMONIUS, De interpr., 135, 14 ss. (e STEPHANUS, De interpr., 35, 19 ss.).
Cfr. PROCLUS, De dec. dub., par. 6-8 e De prov., par. 64-65. 51 Così, per es., pp. 33, 29-34; 231; 252, 6 ss.; 276, 18 ss.; 280, 30 ss.; Metaphr., 32, 33-33, 32; 36, 29-34; 37, 12-13; 20-21 e 30-33. 52 Come l’uso frequente di termini quali probavllw, probolhv e pro-blhtikov" (cfr. infra, p. 223), rJevpw, rJophv, neuvw (cfr. infra, p. 95) e forse anche oJrivzw, oJristikov" (cfr. infra, p. 201). 53 Un caso simile è il commento alle Categorie di Simplicio. Nella sua introduzione Simplicio riconosce di aver trascritto molte pagine dal commento di Giamblico (p. 3, 3-4). Non in tutti i passi, comunque, in cui riporta un testo di Giamblico, si fa il suo nome. Confronta, per es., In cat., 105, 27-106, 2 con SIMPLICIUS, In de caelo, 169, 3-9, dove lo stesso passo è definito come una citazione da Giamblico. 54 Plutarco è citato tre volte nella Metaphrasis e quattordici nel commento In de an. Si allude alle sue interpretazioni cinque volte senza che sia citato il suo nome, come si può dimostrare da un confronto con PS. PHILOPONUS, In de an., p. 202, 12 (cfr. PH. 489, 10); 214, 30 (cfr. PH. 512, 13);
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apprezzamento, nella misura in cui Prisciano lo considera, insieme a Giamblico, fra gli «interpreti autentici di Aristotele»55. Tuttavia, in quasi la metà dei casi in cui lo cita, dissente da lui. Prisciano si allontana ancor più da Alessandro, che, nella sua interpretazione, era rimasto molto fedele al significato originario del testo aristotelico. La sua opinione è accettata solo rare volte, e solo su punti secondari. Come altri Neoplatonici, Prisciano reagì fortemente contro l’opinione di Alessandro, secondo la quale l’anima, come eidos del corpo, non è separabile da esso56. Benché i due esegeti siano citati molto più spesso di Giamblico, la loro influenza sulla dottrina dell’anima è molto limitata. Prisciano fa riferimento a loro solo nel corso di discussioni dettagliate su passi difficili o ambigui. Ma è da Giamblico che egli trae la sua prospettiva generale, la visione dell’anima che costituisce la base della sua interpretazione. È sorprendente che Proclo sia citato una volta sola, e per di più solo per rigettare la sua opinione. A p. 134, 6 del commento In de anima, si domanda come la luce sia presente nell’aria. La risposta non è, come sostiene Proclo, che una sia presente nell’altra come due corpi tagliati in modo da penetrare l’uno nei «pori» dell’altro57. Il concetto di Proclo non era certo così materialistico come lo ritie-
222, 10 (cfr. PH. 520, 34); 258, 36 (cfr. PH. 553, 10); 296, 25 (cfr. PH. 584, 7). In altri cinque casi Prisciano si riferisce in generale a oiJ ejxhghtaiv che sono evidentemente Plutarco e Alessandro: cfr. pp. 259, 40; 304, 16; 301, 30; 310, 30 e 300, 34 (cfr. PH. 591, 5). Alessandro è menzionato venti volte (sei volte insieme a Plutarco). Infine, vi è un riferimento a Temistio (p. 151, 14), ma probabilmente Prisciano conosceva la sua opinione attraverso Plutarco. Per questi commenti al De anima cfr. R. BEUTLER, art. Plutarchos von Athen, in Real-Enzyklopädie, 41, 1951, coll. 967-969 e H.J. BLUMENTHAL, Did Iamblichus Write a Commentary on the «De anima»? cit., pp.
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ne Prisciano58. Il commentatore, comunque, preferisce il punto di vista di Giamblico e rifiuta Proclo con i suoi argomenti59. In realtà, in nessun luogo di questo commento si riscontra l’influenza di Proclo. Quanto diverso è l’altro grande commento al De anima ascritto a Filopono! Benché entrambi i commentari appaiano nello stesso periodo e appartengano alla stessa tradizione neoplatonica, si trova in essi una visione significativamente diversa dell’anima. Crediamo che una differenza tanto cospicua si possa largamente spiegare con il fatto che Filopono (Ammonio) dipende da Proclo per la sua dottrina sull’anima, mentre Prisciano preferisce guardare a Giamblico60. Vi è, invece, una sostanziale concordanza tra la dottrina che espone Prisciano e alcune delle considerazioni sull’anima che si trovano in Damascio. Questo filosofo nacque a Damasco verso il 458 e studiò ad Alessandria al seguito di Ammonio e Isidoro, e successivamente ad Atene,
540-546 e Plutarch’s Exposition of the De Anima and the Psychology of Proclus, in AA.VV., De Jamblique à Proclus cit., pp. 123-147. 55 Metaphr., 32, 33-35. 56 Cfr. pp. 52, 27; 93, 31; 101, 18; 102, 28; 149, 29-32. Cfr. PHILOPONUS, In de an., 10, 1-3; 159, 9-17; 194, 12-19; De int., 4, 70-75. 57 p. 134, 6-7: oujde; ga;r katakermatizovmena dia; tw`n povrwn ajllhvlwn diveisin, wJ" oJ Provklo" uJpotivqetai. 58 Sulla teoria della luce di Proclo cfr. JOHANNES PHILOPONUS, De aet. mundi, 18-19, dove alcuni brani sono presi dal trattato di Proclo Peri; fwtov". Secondo questa testimonianza, Proclo considera la luce nell’aria come un’entità materiale ed esamina il problema di come la luce possa attraversare i corpi (pw`" dia; tw`n ejnuvlwn diveisin). Esclude ogni nesso tra la luce nell’aria e la luce propria dell’essenza del sole. Ciò spiega l’obiezione di PRISCIANUS: oujk a]n hJ tou` fwto;" ejswvzeto pro;" to; ai[tion eJautou` sunevceia (cfr. Metaphr., 9, 16). Cfr. anche SIMPLICIUS, In phys., 611, 8-614, 7. 59 È evidente da un confronto con Metaphr., 9, 12-30. 60 L’influenza di Proclo nel Commento di Filopono richiede ulteriori ana-
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dove ebbe come maestri Marino e Zenodoto. Dopo una seconda permanenza ad Alessandria, fu infine chiamato ad Atene, dove divenne diadochus dell’Accademia; vi rimase fino alla chiusura, nel 529. Si recò quindi in Persia, insieme a Prisciano e ad alcuni altri filosofi. Quando lasciò la Persia, probabilmente tornò alla sua regione nativa61. Nel suo trattato sui princìpi primi (peri; ajrcw`n) e soprattutto nel suo commento al Parmenide, si trovano testi dedicati al tema dell’anima. Damascio fornisce un’esposizione che procede dalla stessa visione dell’anima su cui Prisciano basa il suo commento. Il concetto fondamentale è che l’anima umana, nel suo discendere dentro il corpo, cambia sostanzialmente, e tuttavia, attraverso il cambiamento, è capace di preservare la sua identità. Dato che Prisciano attribuisce espressamente questa tesi a Giamblico, possiamo supporre che allora anche Damascio si sia ispirato a Giamblico nella sua dottrina sull’anima. Tutti e due i filosofi, ognuno a proprio modo, hanno sviluppato ulteriormente un’idea fondamentale di Giamblico. Pertanto, siamo dell’avviso che sia preferibile limitare il nostro studio a questo tema centrale, piuttosto che dare luogo a una ricostruzione tediosa di ogni cosa che Giamblico potrebbe aver detto sull’anima; sarebbe comunque sempre frammentaria e incerta, data l’insufficienza di testi. Cercheremo di capire perché Giamblico abbia formulato questa concezione dell’anima, senza precedenti nella tradizione platonica, e quale importanza abbia il fatto di ascriverla a lui. Infine, seguiremo il modo in cui Damascio e Prisciano sviluppano la sua visione partendo dal confronto con i passi del Parmenide e del De anima. In quelisi. Facciamo due esempi. Secondo Filopono l’anima consiste di molte diverse «sostanze» che formano un’unità, perché il superiore è sempre in re-
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sto modo, ci auguriamo di giungere a una migliore visione dello sviluppo del Neoplatonismo dopo Plotino e dell’influenza del contributo di Giamblico. Ci auguriamo inoltre che il nostro studio possa gettare luce sull’ultimo periodo della scuola di Atene. Entriamo qui in un ambito trascurato dagli studiosi. L’importantissima opera filosofica di Damascio non è stata studiata seriamente e l’opera di Prisciano è stata letta solo in funzione dei testi di Aristotele e di Teofrasto. Nessuno ha focalizzato l’attenzione sull’originale dottrina dell’anima che vi viene proposta. Tale analisi risulta più che mai interessante dal punto di vista filosofico. Troviamo in Giamblico, e più tardi in Damascio e Prisciano, un approccio totalmente nuovo al problema dell’identità del «soggetto» (l’anima) attraverso il cambiamento. La questione centrale è qui se l’identità dell’anima implichi che la sua sostanza debba essere immutabile. Questa stessa discussione sulla sostanzialità dell’io ricorre in molta parte del pensiero moderno.
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Parte prima
Giamblico
Capitolo primo
Giamblico e la tradizione platonica sull’anima
Nell’antologia compilata da Stobeo si trovano, come abbiamo già ricordato, solo frammenti della parte dossografica del trattato di Giamblico Sull’anima. Tuttavia, possiamo ancora ricavare indirettamente larga parte delle sue idee dalla posizione che egli assume nei riguardi della tradizione. Il modo in cui organizza le doxai precedenti tradisce già una certa tendenza a sistemarle secondo il grado di vicinanza a una pura visione spirituale dell’anima. Dopo aver presentato l’anima come un ente composto di atomi, come risultante da caratteristiche fisiche, come la forma qualitativa (eidos) del corpo, e come una sostanza matematica (figura, numero, armonia in successione), egli passa alla fine a considerare quelle opinioni in cui l’anima è intesa come una sostanza incorporea. Le diverse definizioni della tradizione sull’anima sono così classificate secondo livelli ascendenti di essere: il corporeo, l’eidos incorporeo che è legato alla materia, l’ente matematico, e infine la pura realtà spirituale, in cui tuttavia si dà altresì una varietà di livelli1. 1 Cfr. STOBAEUS, Ecl., I, 362, 23-367, 9. La sezione 366, 13-367, 9 appare fuori posto. Infatti, a p. 366, 5-11 Giamblico fornisce la conclusione del suo punto di vista sulle dottrine tradizionali: intende aderire, nella sua
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«Ma vieni, innalziamoci adesso alla sostanza incorporea che esiste in se stessa»2. Con questa esortazione, Giamblico introduce nel suo quadro generale l’ultima serie di opinioni sull’essenza dell’anima. Queste ultime sono tutte accomunate dalla definizione dell’anima come essere incorporeo e in sé sussistente3. Anche Giamblico sottoscrive questa opinione e, infatti, dà una definizione simile in un altro testo citato da Stobeo: «l’anima è in se stessa una sostanza immateriale, incorporea, interamente ingenerata e indistruttibile, che ha essere e vita da sé»4. Non è sufficiente, però, sostenere che l’anima è incorporea. Tale termine esprime soltanto ciò che l’anima non è, e quindi le implicazioni di questo concetto devono essere ulteriormente specificate. Qui di nuovo è possibile una varietà di punti di vista, per cui Giamblico ritiene necessario «anche in questo caso distinguere tutte le opinioni sull’anima in modo ordinato»5. Giamblico colloca due diverse concezioni in opposizione l’una con l’altra. esposizione, alla dottrina secondo la quale l’anima è una sostanza incorporea. Dopo questa conclusione, non vi è motivo di rivedere le teorie materialistiche sull’anima. Forse, questo testo era originariamente collocato tra le ll. 18 e 19 a p. 363. Avremmo così una sequenza logica. 2 STOB., Ecl., I, 365, 5-6: [I qi dh; ouj`n ejpi; th;n kaq`Δ auJth;n ajswvmaton oujsivan ejpanivwmen. 3 L’anima non è solo incorporea ma anche in sé sussistente, mentre le qualità, benché incorporee, non esistono indipendentemente dal corpo. Cfr. NEMESIUS, De nat. hom., cap. II, in cui si dimostra prima che l’anima è incorporea (68, 12-82, 14), poi che esiste in se stessa (82, 14-102, 3). Questo duplice argomento era stato sviluppato anche da Giamblico: cfr. OLYMP., In Phaed., 78, 15 ss. (= fr. 4 Dillon). 4 STOB., Ecl., II, 173, 5-6: oujsiva ejsti;n a[ulo" hJ th`" yuch`" kaq`Δ eJauth;n
ajswvmato", ajgevnnhto" pavnth/ kai; ajnwvleqro", parΔ eJauth`" e[cousa to; eij`nai kai; to; zh`n. 5
STOB., Ecl., I, 365, 6-7.
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Vi sono quelli che sostengono che tutta questa sostanza è omogenea (homoiomeres) ed è una e la stessa, così che l’intero è presente in ogni parte di essa; essi comprendono nell’anima particolare persino il mondo intelligibile, le divinità e i demoni, il Bene e tutti gli ordini superiori all’anima stessa; inoltre essi affermano che tutto è in tutto in modo simile, anche se in ognuno è in modo appropriato alla sua propria natura [...] Secondo questa opinione, l’anima non differisce in alcun modo dall’Intelletto, dagli dèi e dagli ordini superiori, almeno considerando la sua sostanza totale6.
Questa visione era sostenuta da Numenio e anche, con qualche riserva, da Plotino e dai suoi discepoli, Amelio e Porfirio. In opposizione a essa, però, vi è un’altra dottrina che separa l’anima dall’Intelletto, in quanto generata da esso quale ipostasi inferiore e indipendente. Tale dottrina distingue inoltre l’anima da tutte le classi di essere superiori a essa e le assegna una definizione distintiva della sua essenza7. L’opposizione qui indicata tra due punti di vista sull’anima contrastanti è estremamente importante per una completa comprensione della posizione propria di Giamblico, poiché rappresenta, in realtà, un’opposizione tra la dottrina che egli stesso preferisce – benché presentata in modo indiretto – e l’insegnamento dei suoi immediati predecessori platonici. È a partire da questo punto di vista che dobbiamo interpretare tutte le altre affermazioni sull’ani6 STOB., Ecl., I, 365, 7-14: Eijsi; dhv tine", oi} pa`san th;n toiauvthn oujsivan oJmoiomerh` kai; th;n aujth;n kai; mivan ajpofaivnontai, wJ" kai; ejn oJtw/ou`n aujth`" mevrei eij`nai ta; o{la: oi{tine" kai; ejn th`/ meristh/` yuch`/ to;n nohto;n kov-smon kai; qeou;" kai; daivmona" kai; tajgaqo;n kai; pavnta ta; presbuvtera gevnh aujth`" ejnidruvousi kai; ejn pa`sin wJsauvtw" pavnta eij`nai ajpofaivnontai, oijkeivw" mevntoi kata; th;n aujtw`n oujsivan ejn eJkavstoi" e 19-21: Kata; dh; tauvthn nou` kai; qew`n kai; tw`n kreittovnwn genw`n oujde;n hJ yuch; dienhvnoce katav ge th;n o{lhn oujsivan.
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ma; pertanto è necessario analizzare il testo accuratamente, per poter comprendere con esattezza come Giamblico le rifiuti e per quali ragioni. L’intera interpretazione dipende dal significato che si attribuisce alla formula th;n toiauvthn oujsivan all’inizio del testo (365, 7). Secondo A.J. Festugière, Giamblico qui intende «l’anima come ipostasi», cioè l’anima totale che contiene tutte le anime. Questo è anche il significato di th;n o{lhn oujsivan alla riga 21. In base a questa interpretazione, i filosofi del primo gruppo sosterrebbero che l’intera sostanza dell’anima è homoiomeres8. Ora, non si può negare che questa affermazione sia centrale nell’insegnamento neoplatonico sull’anima. In quanto pura sostanza incorporea, l’anima non può conoscere nessuna delle divisioni proprie del corpo. Benché si possano distinguere le sue «parti», come fa Platone, essa è ancora presente come un tutto in ognuna delle sue parti. Ciò comporta che le sue cosiddette parti siano simili non solo le une con le altre, ma anche con il tutto. In altre parole, l’anima è oJmoio-merhv". Dal passo in Stobeo, non si può certamente dedurre che Giamblico avrebbe rigettato questa concezione dell’anima, ricorrente nel Neoplatonismo9. Comunque, qui non si tratta di vedere se l’anima sia «uniforme» in se stessa, ma se la realtà incorporea di cui l’anima costituisce una parte sia interamente omogenea oppure differenziata ontologicamente10. In realtà, ciò appare molto chiaro dalla strutSTOB., Ecl., I, 365, 22-27. A.J. FESTUGIÈRE, La révélation cit., III, p. 184, nn. 1 e 2. 9 Cfr. PLOTINUS, Enn., IV, 2, 1, 64; PROCLUS, In Tim., II, 225, 21: o{ti me;n oJmoouvsiov" ejstin hJ o{lh yuch; pro;" eJauth;n kai; oJmoiomerh;" kai; oiJ`on oJmovcrou" (cfr. anche II, 163, 4-6; 166, 18; 177, 1; 239, 27; 252, 23-255, 8). La questione è trattata estesamente da JOHANNES PHILOPONUS, In de an., pp. 190200. 7 8
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tura di questo passo. Il termine toiauvthn oujsivan (l. 8) non può riferirsi all’anima, ma solo al termine immediatamente precedente: ajswvmaton oujsivan (l. 5). In effetti, Giamblico vuole ripercorrere qui le opinioni dei filosofi che considerano l’anima una «sostanza incorporea». Alcuni ritengono tale sostanza interamente oJmoiomerhv", cioè non distinguono livelli ontologici che differiscano essenzialmente l’uno dall’altro. Perciò, si possono naturalmente inserire in ogni «parte» di essa anche tutti gli altri aj-swvmata, per esempio collocando nell’anima i demoni, gli dèi, l’intero mondo intelligibile e persino il Bene. Giamblico specifica, al contrario, che si devono distinguere vari livelli anche all’interno della «sostanza incorporea» e che, in essa, l’anima deve essere assegnata a un posto definito e fisso. Una tale definizione dell’anima sarebbe impossibile se l’intera realtà incorporea fosse considerata un essere omogeneo, poiché allora tutto sarebbe in tutto, e verrebbe cancellata ogni distinzione. Si potrebbe notare, forse, che persino in questa realtà omogenea rimane possibile una differenziazione, poiché la totalità è presente in ciascuna parte in un modo particolare. Nell’anima, per esempio, tutto è presente in modo psichico. La sostanza incorporea è così homoiomeres in quanto tutto è presente in ogni parte; ed è differenziata in quanto un «aspetto» diverso predomina sempre in ogni parte.
10 Un’interpretazione corretta è data da P. HADOT (Porphyre et Victorinus,
Paris 1968, I, p. 339, n. 4): «ce que Iamblique leur reproche, c’est de ne pas distinguer l’ordre intelligible pur des ordres inférieurs». Alcuni studiosi sembrano tratti in errore dalla traduzione di Festugière. Così H. DÖRRIE (Porphyrios’ cit., p. 195): «Iamblich [...] setzt sich mit der [...] Meinung derer auseinander, die nur eine Substanz der Seele annahmen», e R.T. WALLIS (Neoplatonism cit., p. 33): «Iamblichus regarded this doctrine as
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Abbiamo qui, nei fatti, una trasposizione metafisica di una teoria cosmologica che risale ad Anassagora: «In tutte le cose vi è una parte di tutte le cose» (frr. 11-12). Nel corso della filosofia greca, questo principio fu applicato in vari campi e divenne straordinariamente fruttuoso soprattutto nel Neoplatonismo11. Lo troviamo chiaramente formulato per la prima volta da Porfirio: pavnta me;n pa`sin, ajlla; oijkeivw" th`/ eJkavstou oujsiva,/ una formula che fu più tardi ripresa da Proclo12. Ma anche Giamblico fece uso di questo principio, come appare da altri frammenti13. La sua reazione, nel testo di Stobeo, certamente non poteva essere così diretta contro il principio in quanto tale, ma contro la posizione che alcuni filosofi volevano sostenere tramite esso, e cioè che l’anima non differisce essenzialmente dai gradi superiori di essere14. Possiamo chiarire il vero intento della critica di Giamblico introducendo il passo seguente, tratto dalla Teologia denying any fundamental difference of rank between the different classes of soul». 11 Un buon quadro generale sull’uso di questo principio nella filosofia greca è fornito da P. HADOT, Porphyre et Victorinus cit., pp. 239-46. 12 Cfr. PORPH., Sent., X, p. 4, 7 e PROCLUS, El. theol., prop. 102 e In Tim., I, 335, 12-18. Cfr. OLYMP., In Gorg., 5, 15 (e gli altri riferimenti riportati in nota da L.G. Westerink). 13 Cfr. DAMASCIUS, In Phil., par. 130, p. 63 (= fr. 5): oJ me;n ouj`n Porfuvrio" kai; ΔI avmblico" ... pavnta eij`nai pantacou` levgonte", a[llw" mevntoi kai; a[llw". Lo stesso principio è ascritto da Siriano ai «Pitagorici» (In Metaph., 81, 31-82, 2 – cfr. 178, 28). È molto facile che Siriano abbia trovato questa dottrina nell’opera di Giamblico che, per lui, è l’autentico interprete dell’insegnamento dei Pitagorici (cfr. pp. 101, 26-102, 35; 142, 15; 103, 7 e 26, 21). Tale supposizione è confermata da un confronto con un testo di Giamblico citato da SIMPLICIUS, In cat., 135, 8 ss. 14 In questo contesto polemico, Giamblico distorce il principio per poterlo confutare più facilmente: «tutto è in tutto in modo simile, ma in ogni cosa è in un modo appropriato». I termini wJsauvtw" e oijkeivw" sembra si
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Platonica di Proclo (I, 26). Se si impiega il termine nohtovn, avverte Proclo, non bisogna dimenticare che esso può indicare livelli molto diversi. A volte l’anima è detta «intelligibile» in quanto trascende le cose sensibili. In senso proprio, però, solo l’Intelletto – o meglio, l’Essere puro, cui l’Intelletto guarda come a un paradigma nell’atto del pensare – può essere chiamato intelligibile. Infine, anche il divino è, in un certo senso, «intelligibile», non come un oggetto di intellezione, ma come l’oggetto desiderabile (ejfetovn) verso cui l’Intelletto tende quale sua ultima perfezione. Così vediamo come l’attributo «intelligibile» possa essere usato con denotazioni variabili, a seconda che siano designati l’anima, l’intelletto, il puro essere o gli dèi. «Non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole e così confondere i vari livelli della realtà». Dal fatto che l’anima trascende il corporeo, non consegue che essa appartenga ai princìpi primi. «Perciò, pensiamo che l’anima debba collocarsi nel mezzo, piuttosto che essere annoverata tra le prime cose»15. È in questa stessa prospettiva che Giamblico si pone contro coloro che considerano omogenea la realtà incorporea. Non si può enfatizzare la trascendenza dell’anima al punto tale che, rispetto al corpo, tutte le differenze tra essa e i gradi superiori di essere tendano a scomparire. Contro questa opinione, Giamblico espone più avanti la dottrina che sembra preferire16. Sebbene sia d’accordo con escludano l’un l’altro: ciò che è in ogni luogo lo stesso, non può essere differente in ogni parte. Come dato di fatto, il termine wJsauvtw" non si trova mai in altri testi in cui è citato questo principio. 15 PROCLUS, Theol. Plat., I, 26, p. 117, 21-23: o{qen de; kai; th;n yuch;n ejn mevsw/ tavttein ajxiou`men, ma`llon h] toi`" prwvtoi" ejnavriqmon poiei`n. 16 STOB., Ecl., I, 366, 10-11: hJmei`" te peri; aujta;" th;n metΔ ajlhqeiva" pragmateivan pa`san peirasovmeqa ejnsthvsasqai. L’espressione peri; auj-tav"
può riferirsi solo alle dottrine del secondo gruppo, non a tutte le dottrine di-
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i suoi predecessori nel definire l’anima come una sostanza incorporea, egli introduce, come abbiamo detto, due importanti correzioni: 1) Distingue (cwrivzei) l’anima dall’Intelletto e la considera un’ipostasi separata e inferiore. Inoltre, anche se l’attività principale dell’anima consiste nel pensare, da ciò non consegue che essa non sia essenzialmente differente dall’Intelletto, né che possa mai coincidere con l’Intelletto nell’atto del pensare17. La sua attività intellettuale si deve spiegare con la dipendenza dall’Intelletto, una dipendenza, però, che non impedisce in alcun modo all’anima di sussistere indipendentemente di per se stessa18. 2) In secondo luogo, Giamblico vuole anche separare l’anima da tutte le «classi più alte» (kreivt-tona gevnh, detti anche qeiovtera o presbuvtera). Questo termine acquisì un significato specifico con Giamblico e fu poi ripreso dai tardi Neoplatonici. Esso indica tutti gli esseri che trascendono l’anima nell’ordine di essere, ma sono posti più in basso rispetto all’Intelletto: eroi, demoni, angeli e divinità encosmiche19. scusse in questa sezione. Si noti il parallelismo: da un lato kai; tauvth" th`" dovxh" ... ejsti Noumhvnio" (365,14), e dall’altro peri; dh; tauvta" ta;" dovxa" o{ te Plavtwn ... hJmei`" te (366, 5-10). 17 STOB., Ecl., I, 365, 22-26: ΔAlla; mh;n h{ ge pro;" tauvthn ajnqistamevnh dovxa cwrivzei me;n th;n yuch;n, wJ" ajpo; nou` genomevnhn deutevran kaqΔ eJtevran uJpovstasin. Cfr. anche pp. 317, 20-318, 15 dove è citata l’opinione di «alcuni Platonici» che affermano non vi sia differenza tra l’anima e il suo intelletto. Giamblico pensa che questa opinione contraddica la dottrina tradizionale. Si fa allusione a tale controversia nella sezione introduttiva di NEMESIUS, De nat. hom. 18 STOB., Ecl., I, 365, 24-26: to; de; meta; nou` aujth`" ejxhgei`tai wJ" ejxhrth-mevnon ajpo; tou` nou`, meta; tou` katΔ ijdivan uJfesthkevnai aujtotelw`". Il termine aujtotelw`" indica qui il fatto che l’anima esiste come un’ipostasi indipendente. Cfr. il termine aujqupovstato" che fu usato per la prima volta da Giamblico in connessione con l’anima (ap. STOB., Ecl., II, 174, 21). Nemesio definì l’anima una oujsiva aujtotelh;" ajswvmato" (De nat. hom., 98,
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Ci si potrebbe giustamente chiedere perché Giamblico abbia voluto delimitare l’essenza dell’anima rispetto a queste «classi più alte». Queste ultime non erano forse considerate, nella tradizione, anche come esseri psichici? Nel tardo Platonismo, era comune la credenza in anime divine e in tutta una serie di esseri mediatori tra il divino e l’uomo. Il punto di partenza di ciò si trovava, oltre che in altri luoghi, nelle Leggi (X) e nell’Epinomide. Nella riflessione filosofica, si era tentato di riprendere le varie affermazioni di Platone su divinità e demoni, al di là del loro contesto mitologico, e di raccogliere tutti questi dati all’interno di un sistema coerente. La questione centrale qui riguardava la relazione tra l’anima umana e tutte le anime superiori. Nella filosofia di Plotino, questa riflessione portò appunto alla posizione secondo la quale ogni essere psichico è omogeneo. Di conseguenza non vi può essere una differenza essenziale tra l’anima umana e le anime demoniache o divine: esse sono della stessa natura (oJmoeidhv")20. Mentre Plotino continuò a sostenere differenze individuali tra le anime, il suo discepolo, Amelio, affermò che l’Anima non è una solo nell’essenza, ma è una anche nel numero. L’individualità delle anime separate si perde 7), ma qui il termine aujtotelhv" si riferisce all’indipendenza dell’anima dal corpo. 19 STOB., Ecl., I, 365, 26: cwrivzei de; aujth;n kai; ajpo; tw`n kreittovnwn genw`n o{lwn – e inoltre I, 455, 3-4: tw`n kreittovnwn genw`n pavntwn, hJrwvwn fhmi; kai; daimovnwn kai; ajggevlwn kai; qew`n. Cfr. pp. 365, 11. 20. 26-27; 367, 3; 372, 15-20; 377, 18; 378, 2 e 379, 18-20. Il termine kreivttona gevnh ricorre spesso nel De mysteriis (per es., 8, 14; 10, 12. 14; 12, 11; 26, 6...). Nel suo commento al Parmenide Giamblico riserva la terza ipotesi a queste «classi superiori», cosa che lo porta in conflitto con l’interpretazione tradizionale: cfr. infra, pp. 130-134. Ciò mostra chiaramente l’importante posto che tali «esseri superiori» hanno acquisito nel suo sistema. Il numero delle «classi» può variare: cfr. De mysteriis, II e il commento di F.W. CRE-
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del tutto in questo monopsichismo estremo. Rimane soltanto l’unica Anima universale, che si estende attraverso l’intero cosmo ed è pluralizzata solo dalla molteplicità di «relazioni» che ha con i diversi corpi, resi animati nei differenti livelli dell’Universo. Questa tesi viene rifiutata con indignazione da Giamblico21. Non è certo perché alcuni esseri divini e demoniaci sono anche chiamati «anime», che l’anima umana può essere elevata al loro livello e avere la stessa essenza e la stessa dignità loro attribuite. Sarebbe una pretesa blasfema. Per Giamblico, al contrario, le anime sono suddivise in classi e specie che differiscono essenzialmente l’una dall’altra e che formano, tra di loro, un sistema gerarchico, in cui l’inferiore è sempre sotto l’autorità e l’influenza del superiore. Partendo da questo, osiamo reagire contro quei Platonici che affermano che la nostra anima è della stessa importanza degli dèi e ha la stessa essenza delle anime divine, e dicono che essa diventa l’Intelletto stesso e l’Intelligibile e lo stesso Uno, quando ha abbandonato ogni cosa e si è unita a esso [...] Una tale pretesa è, comunque, molto lontana dall’insegnamento di Platone22.
MER, Die Chaldäischen Orakel und Iamblich De Mysteriis, Meisenheim 1969, pp. 37-41. 20 Cfr. Enn., IV, 3, 6, 1; V, 1, 2, 44 e III, 4, 6, 22-32. 21 Cfr. STOB., Ecl., I, 372, 23; oiJ me;n ga;r mivan kai; th;n aujth;n pantacou`
yuch;n diateivnonte", h[toi gevnei h] ei[dei, wJ" dokei` Plwtivnw/, h] kai; ajriqmw/`, wJ" neanieuvetai oujk ojligavki" ΔAmevlio". Tale dottrina viene respinta da Giam-
blico: cfr. Ecl., I, 372, 3-373, 8; 376, 2-3; 377, 13-378, 5 e PROCLUS, In Tim., III, 257, 5-29 e II, 213, 16 (l’anonimo avversario della teoria di Amelio è probabilmente Giamblico: cfr. J.M. DILLON, Iamblichi cit., p. 332, n. 2). 22 Cfr. PROCLUS, In Tim., III, 231, 5-10: ejk de; touvtwn oJrmwvmenoi parrhsiasovmeqa pro;" tou;" Platwnikou;", o{soi th;n hJmetevran yuch;n ijsostavsiovn te ajpofaivnousi toi`" qeoi`" kai; oJmoouvsion tai`" qeivai" yucai`" kai; o{soi fasi;n aujth;n aujto;n givgnesqai to;n nou`n kai; aujto; to; nohto;n kai; auj-
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È per questo motivo che, nel suo De anima, Giamblico indica la necessità di separare l’anima dagli esseri superiori. Su questo punto, l’opposizione tra Giamblico e i suoi predecessori Platonici è chiara. Più difficile risulta, però, per noi, comprendere perché li abbia rimproverati anche di non aver separato l’anima, quale ipostasi indipendente, dall’Intelletto. Per quanto riguarda Numenio e Amelio, sappiamo che spesso Giamblico si era opposto alla loro dottrina23. A causa della mancanza di testi, però, risulta difficile dedurre con precisione il motivo per cui egli si opto; to; e{n, ajpoleivpousan pavnta kai; sta`san kata; th;n e{nwsin (cfr. 245,1027). Anche se Proclo non cita Giamblico, questo testo riflette evidentemente la posizione di Giamblico, come appare da un confronto con il testo di Stobeo che stiamo discutendo e con altri testi menzionati in n. 21. L’influenza di Giamblico è manifesta anche in un altro passo in cui Proclo si pone contro «coloro che pensano che la nostra anima ha la stessa essenza dell’Anima dell’Universo e delle altre anime, e che siamo tutti realtà ajscevtw" [cioè, finché la nostra anima non sia in relazione con un corpo particolare], i pianeti e le stelle fisse e altre simili cose, come Teodoro di Asine dice in qualche luogo. In realtà, questo vanaglorioso pensiero (megalorrhmosuvnh) è lontano dalla teoria di Platone». È curioso come qui Proclo respinga la dottrina di Teodoro che accetta altrove (In remp., II, 305, 5-24). Questo ci lascia supporre che tale dura critica alla posizione di Teodoro in questo testo sia semplicemente ripresa da Giamblico. Cfr. III, 333, 28-30 e NEMESIUS, De nat. hom., p. 117 in cui la dottrina di Teodoro sull’anima è respinta da Giamblico. 23 Cfr. PROCLUS, In Tim., II, 277, 26: oJ dev ge qei`o" ΔI avmblico" ... ejn tai`" pro;" tou;" ajmfi; ΔAmevlion – ou{tw ga;r ejpigravfei to; kefavlaion – kai; Noumhvnion ajntirrhvsesin. Giamblico giustamente cita Amelio insieme a Numenio. Di fatto, Amelio raccolse e trascrisse quasi tutte le opere di Numenio e conobbe gran parte di esse a memoria, come ci dice Porfirio (Vita Plot., III). Amelio scrisse anche un libro intitolato «Sulla differenza tra le dottrine di Plotino e di Numenio» per respingere l’accusa secondo la quale Plotino avrebbe plagiato Numenio (Vita Plot., XVIII). Questo libro presuppone che egli fosse al corrente delle dottrine sia di Plotino che di Numenio. La critica di Giamblico a Numenio e Amelio compare in PROCLUS, In Tim., I, 77, 24 ss. (= fr. 7); III, 34, 1 ss. (= fr. 64); III, 103, 16-104, 22 (fr.
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poneva al loro punto di vista sull’anima. A quanto pare, Numenio affermava che l’anima umana è indiscutibilmente una parte della sostanza divina ed è consustanziale a essa, e inoltre coincide completamente con la divinità dopo la separazione dal corpo24. Questo, almeno, si può inferire da un altro passo del De anima citato da Stobeo. A quanto sembra, Numenio insegnava che dopo la morte si sarebbe realizzata «una unità e identità senza distinzione» tra l’anima e i princìpi primi. Egli arrivava a parlare in proposito di un «dissolvimento» (ajnavlusi") dell’anima nel superiore. Gli «antichi pensatori», al contrario, affermavano che l’anima rimane sempre una sostanza separata, anche quando si unisce con i princìpi superiori: più che di un immergersi, si sarebbe dovuto parlare di un congiungersi di parti che rimangono distinte25. Gli «antichi» esprimevano qui l’opinione propria di Giamblico, come egli stesso la formula nel De mysteriis: «a dire il vero, l’anima rimane sempre limitata secondo una forma». Benché l’anima abbia il potere di associarsi con ogni cosa, anche con le cause prime, e di divenire simile a qualunque cosa essa voglia, continua a essere sempre diversa nell’essenza dagli altri livelli di essere26. È sorprendente come Giamblico credesse di poter trovare in Plotino un concetto simile a quello di Numenio: «An-
71). Per la critica del solo Amelio: I, 398, 16-399, 1 (= fr. 39) e 425, 18 ss. (= fr. 43) e implicitamente in II, 213, 16 e in STOB., Ecl., I, 372, 10.25 e 376, 3. Forse anche Siriano dipende da Giamblico nella sua critica di Amelio: cfr. In metaph., 8, 18; 38, 36; 147, 6. 24 Cfr. la dottrina attribuita ai «viri novi» da Arnobio: i filosofi che seguono «Platone, Cronio e Numenio» (Adv. nat., p. 76, 17 – ed. MARCHESI) sostengono che l’anima è una porzione della sostanza divina: «principalis esse substantiae portionem» (p. 91, 32). Negli Oracoli caldaici (che sono contemporanei e strettamente legati alla dottrina di Numenio) l’anima è
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che Plotino la pensava in questo modo, senza essere, però, completamente a suo favore». Questa testimonianza sembra attaccare i fondamenti della visione della realtà di Plotino. Che l’anima sia un’ipostasi autonoma e distinta dall’Intelletto, è un’idea basilare su cui Plotino torna ripetutamente. Inoltre, sebbene l’anima appartenga per natura al mondo spirituale, e sia di stirpe divina, nella sua essenza permane ugualmente la possibilità di rivolgersi al mondo sensibile, allo scopo di ordinarlo secondo gli archetipi intelligibili che l’anima contempla. Data questa sua natura mediatrice, è escluso che l’anima possa mai identificarsi con le pure forme intelligibili. L’argomentazione che Plotino usava per provare che ci sono tre ipostasi distinte, né più né meno, è abbastanza nota. Ma allora perché Giamblico annovera ancora Plotino fra coloro che non accettano nessuna differenza essenziale tra l’anima e gli ordini superiori di essere? Occorre, forse, considerare l’intera serie di testi in cui Plotino parla dell’immanenza di ciò che è superiore nell’anima e persino nell’anima particolare. Prendiamo, come esempio, il noto trattato V, 1. Qui Plotino dimostra che possiamo trovare, in ciascuno di noi (parΔ hJmi`n), le tre ipostasi che esistono nella realtà (ejn th`/ fuvsei – 10, 5-6). L’anima possiede in se stessa non solo l’Intelletto, ma anche la causa dell’Intelletto, la Deità (11, 7). In particolare, in questi testi in cui considera l’anima nella sua pura essenza, libera dal legame con il sensibile impostole dalla Necessità cosmica, la differenza tra l’anima e le forme ideali risulta confusa. Se la vera essenza dell’anima consiste nella contemplazione, in che cosa differisce dunque dall’Intelletto?27 Chi considera la propria aniconsiderata una scintilla del fuoco divino: cfr. PSELLUS, Exp. Chald. 1152 C 10-13 (p. 190 ed. DES PLACES).
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ma nel suo puro stato, dice Plotino, capirà che egli si trova già presente nel mondo intelligibile e, inoltre, vedrà se stesso come un intelletto eternamente pensante, «essendo diventato anch’egli un mondo intelligibile», illuminato dal Bene. «In realtà, ciascuno di noi è un mondo intelligibile»28. Riflettendo su se stessa, l’anima vede l’essere universale e, contemplando l’essere universale, ri-trova se stessa, poiché la separazione o la distinzione non esistono più oltre questo livello e il tutto è presente in ogni parte29. Plotino non parla solo di una affinità tra l’anima umana e l’essere ideale, ma anche di una consustanzialità dia; suggevneian kai; to; oJmoouvsion30. E così l’anima sembra essere una «idea» tra le idee31. Un’interpretazione di Plotino che prenda in considerazione solo tali testi, senza attenersi ai numerosi passi in cui viene dimostrata l’inferiorità dell’anima rispetto al25 26
STOB., Ecl., I, 458, 3-8. De myst., II, 2, 69, 16-19: w{ristai me;n ajei; kaq`Δ e{n ti, koinou`sa d`Δ
eJauth;n toi`" prohgoumevnoi" aijtivoi" a[llote a[lloi" suntavttetai. 27 Plotino considera quale caratteristica distintiva dell’anima la sua temporalità e discorsività: nou` de; gevnnhma ... to; dianoouvmenon (V, 1, 7, 41). Però, se l’anima può superare la discorsività nella contemplazione, ciò non implica che diventi identica al nous (nowqei`sa – VI, 7, 35, 5)? In alcuni testi Plotino sembra considerare questa identità con l’intelletto come la «vera essenza» dell’anima e il suo attuale livello ipostatico come il risultato di una «caduta». Cfr. H. JONAS, The Soul in Gnosticism and Plotinus, in Le Néoplatonisme, Paris 1971, pp. 45-53. 28 IV, 7, 10, 35: kovsmon kai; aujto;n nohtovn ... gegenhmevnon. E III, 4, 3, 22: ejsme;n e{kasto" kovsmo" nohtov". 29 IV, 4, 2; VI, 4, 14, 17-22; VI, 5, 7, 12. L’enfasi sulla compresenza di ogni cosa nel mondo intelligibile, però, non esclude che gli esseri ideali siano essenzialmente differenziati. 30 IV, 7, 10, 19. L’argomento sviluppato da Plotino nel cap. IV, 7, 85-10 a sostegno dell’immortalità dell’anima è valido solo se l’anima appartiene allo stesso livello dell’essere ideale (cfr. le osservazioni molto pertinenti di E. BRÉHIER nella sua Notice all’edizione delle Enneadi, Paris 1924-1938, pp.
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l’Intelletto, fornisce un’immagine distorta della sua filosofia. A quanto sembra, anche Giamblico cade in questo errore, anche se ammette che Plotino non è mai stato del tutto d’accordo con la tesi che gli attribuisce: ouj pavnth/ de; oJmologoumevnw". L’evidente esitazione che Giamblico nota su questo punto in Plotino può facilmente essere spiegata dal fatto che Plotino cerca sempre di esprimere allo stesso tempo sia l’immanenza che la trascendenza che costituiscono la relazione tra gli ordini superiori e quelli inferiori di essere. Ciò che Plotino comprendeva in una sola intuizione globale, sarà separato in elementi distinti da Giamblico e, più tardi, da Proclo. A ogni distinzione logica, deve corrispondere una differenziazione ontologica. In questo caso, Plotino potrebbe ancora affermare che il medesimo nous, che noi possediamo come nostro intelletto, è, allo stesso tempo, il nostro creatore e il principio verso cui tendiamo32. Per Giamblico, al contrario, l’Intelletto che crea differisce ontologicamente dall’intelletto di cui l’anima partecipa, e quest’ultimo è per di più distinto dall’intelletto che è uno stato o condizione immanente nell’anima33. È a partire da questa prospettiva che si può comprendere perché Giamblico rimproveri Plotino di non aver sufficientemente distinto l’anima quale ipostasi separata dall’ordine superiore. Giamblico ritrova lo stesso atteggiamento ambivalente, riguardo a tale problema, in Porfirio: «Porfirio vacilla: a volte rigetta con forza questa posizione, a volte la accoglie come dottrina tramandataci da tempi remoti». In effetti, in
185-86). Si può notare che anche nel Poimandres il logos umano è considerato oJmoouvsio" con il Nous divino (par. 10). 31 Cfr. I, 1, 2, 6: eij taujtovn ejsti yuch; kai; to; yuch`/ eij`nai, eij`dov" ti a]n
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alcuni testi, Porfirio enfatizza il carattere trascendentale dell’anima ancor più del suo maestro. Come nohth; oujsivva, essa appartiene all’essere intelligibile, ed è consustanziale all’Intelletto divino34. D’altra parte, Porfirio riconosceva il fatto che l’anima non è sempre impegnata nella contemplazione ed è soggetta a una moltitudine di passioni. Nelle sue considerazioni etiche, pertanto, egli partiva dalla distanza che separa l’anima dai livelli superiori di essere e si sforzava di farla tornare alla sua «salvezza». La filosofia è considerata così una terapia per l’anima35. La nozione dell’anima operativa nell’esortazione pratico-etica non è conciliabile con la definizione a priori dedotta per via teoretica36. Forse è proprio tale discrepanza nell’insegnamento di Porfirio sull’anima ciò a cui Giamblico allude qui. Solo dopo aver definito il posto dell’anima nell’ordine dell’essere, si può dare una definizione appropriata della sua essenza37. Giamblico cita cinque definizioni, che, a suo avviso, esprimono tutte in modo adeguato l’essenza dell’anima. Per esempio, definisce l’anima come «il medio tra il divisibile e l’indivisibile» e come «vita che ha, da sé, la vita che procede dall’Intelletto». Giamblico sostiene che Pitagora, Aristotele e lo stesso Platone avevano queei[h (cfr. VI, 8, 14, 24 e ARIST., Metaph., H, 3, 1013b 2). L’anima non può di-
stinguersi dal suo archetipo, cui è identica: cfr. V, 9, 13, 1-8 e V, 7, 1, 2-3. 32 L’ultima frase di I, 1 («etwas übertreibend» nota R. HARDER, Schriften, Hamburg 1956-1971): mevro" ga;r kai; ouJ`to" (scil. nou`") hJmw`n kai; pro;" tou`ton a[nimen.
Cfr. infra, p. 198. Cfr. AUGUSTINUS, De civ. Dei, X, 29 (= De regr. an., fr. 10): «Vos certe tantum tribuitis animae intellectuali ... ut eam consubstantialem paternae illi menti ... fieri posse dicatis». Cfr. P. HADOT, Porphyre et Victorinus cit., pp. 338-41. 33 34
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sta opinione sull’anima, insieme a tutti gli altri pensatori, i cui grandi nomi sono ancora elogiati per la loro saggezza. Chiunque volesse esaminare scientificamente il loro insegnamento, noterebbe che tutti questi filosofi condividono fondamentalmente la stessa concezione dell’anima. E anche noi, dice Giamblico, in verità inizieremo la nostra indagine, tenendo in considerazione tale concezione tradizionale dell’anima38. Poiché l’esposizione di Giamblico non è stata conservata da Stobeo, siamo particolarmente dipendenti dalla testimonianza di Prisciano, per poter arrivare al pensiero fondamentale di Giamblico. Secondo Prisciano, Giamblico, nel suo De anima, ha fortemente enfatizzato il posto intermedio dell’anima nell’ordine dell’essere – tra il divisibile (corporeo) e l’indivisibile (intelligibile). Una tale visione dell’anima era, sin dal Timeo (35 A), certamente tradizionale nel Platonismo. Giamblico voleva, però, andare contro una «tendenza» che credeva di scorgere in certi «moderni» (newvteroi), cioè l’eccessiva enfasi sulla trascendenza dell’anima. L’anima veniva sempre più identificata con la «sostanza indivisibile» e il suo aspetto «divisibile» veniva giustificato di volta in volta in modo differente, per esempio come risultato accidentale del suo legame con il corpo, o come forma apparente che non è costitutiva dell’essenza dell’anima39. Giamblico sosteneva, al contrario, che l’anima nella sua piena sostanza è in 35 Ad Marcellam, XXXI; EUSEBIUS, Praep. evang., IV, 7, 1; 8, 1. Secondo Agostino, Porfirio cercava una «via universalis animae liberandae» (De civ. Dei , X, 32). 36 Cfr. H. DÖRRIE, Die Lehre von der Seele, in Porphyre, Genève 1965, p. 180. 37 STOB., Ecl., 365, 27 ss.: i[dion de; aujth`/ th`" oujsiva" o{ron ajponevmei.
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realtà divisa e anche indivisa, cambia eppure rimane fissa. È soprattutto per questo motivo che essa costituisce il medio della realtà tra il mondo del divenire e l’Essere imperituro40. È certo che Giamblico abbia fortemente esagerato l’opposizione che lo separa dai suoi predecessori. L’accordo, nel loro insegnamento sull’anima, è più rilevante di ogni differenza. Tuttavia, il fatto che egli trovi necessario prendere posizione contro la loro dottrina, è, in se stesso, già indicativo di come egli imposti il problema dell’anima da un’altra prospettiva. Quale sia il vero significato e l’importanza della sua posizione rispetto ai «moderni Platonici» e soprattutto rispetto a Plotino, cercheremo di chiarirlo nei capitoli seguenti.
Ecl., 366, 5-11. Cfr. PLOTINUS, Enn., IV, 2, 1, 71-76: tw`n swmavtwn paqhvma to;n merismovn, oujk aujth`" (scil. yuch`"). Sulla tendenza nel tardo Platonismo a enfatizzare la trascendenza dell’anima cfr. H. DÖRRIE, Porphyrios’ cit., specialmente pp. 187-98 e Die Erneuerung des Platonismus, in Le Néoplatonisme cit., pp. 17-33. 38 39
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Capitolo secondo
L’anima non discesa
1. La posizione plotiniana Abbiamo visto come Plotino a volte enfatizzi così fortemente la trascendenza dell’anima che sembra innalzarla al livello del puro essere intelligibile. In questa prospettiva, le vecchie questioni del perché e come l’anima entri nel corpo diventano ancor più difficili di prima. «Se l’intelligibile è trascendente, come fa l’anima a entrare nel corpo?»1. Nel trattato IV, 8, Plotino mostra che la discesa nel corpo, necessaria per formare e animare il mondo, non è dannosa in quanto tale per l’anima, poiché tale discesa è in accordo con l’ordine universale. Egli fa riferimento all’esempio delle anime divine che reggono i loro corpi celesti senza avvertire alcun ostacolo da parte di essi. Piuttosto, esse rimangono continuamente a contemplare l’essere ideale e, allo stesso tempo, permettono alle cose sensibili di prendere parte il più possibile all’oggetto della loro contemplazione. Di queste anime divine, Plotino dice 1 IV, 7, 13, 1-2: Pw`" ouj`n tou` nohtou` cwristou` o[nto" h{de eij" sw`ma e[rcetai… Questa domanda viene subito dopo l’argomentazione con cui si dimostra che l’anima appartiene allo stesso livello del nohtovn. Tuttavia l’ani-
ma è distinta dal puramente Intelligibile per «l’aggiunta del desiderio» (prosqhvkh th`" ojrevxew" – 13,5).
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che non sono mai «immerse» nel corpo. Senza distogliersi dall’essere supremo o disturbare la propria estatica visione, governano l’inferiore senza subire alcun turbamento o male2. Ma che dire delle anime umane? Non sono, a causa della loro colpa e impudenza (tolma), immerse più profondamente del necessario nel corpo e quindi alienate dall’Essere vero, verso cui tendono solo di volta in volta e anche con difficoltà? Non è forse il legame con il corpo un ostacolo e un male per loro, una prigione da cui doversi liberare? Tuttavia, dice Plotino, «volendo essere così spavaldi da esprimere con più chiarezza la nostra convinzione, contro la comune opinione degli altri, la nostra anima non è mai immersa del tutto, ma vi è sempre qualcosa di essa nel regno intelligibile»3. E ancora: «L’anima non è mai del tutto ritirata, ma vi è “qualcosa” di essa che non è discesa»4. In un linguaggio più poetico, troviamo la stessa tesi in IV, 3, 12. Le anime degli uomini sono state sedotte dalle loro stesse immagini che hanno visto riflesse nel mondo sensibile e sono precipitate dall’alto verso di esso. Ma «esse non sono ancora tagliate fuori dal loro principio e intelletto poiché non sono venute con il loro intelletto; benché esse abbiano raggiunto la terra, le loro teste rimangono fermamente fisse in cielo»5. Così Plotino può af2 3
IV, 8, 2, 26-53; 8, 7, 25 ss.; II, 9, 7, 7 ss.; IV, 3, 9-11. IV, 8, 8, 1-3: kai; eij crh; para; dovxan tw`n a[llwn tolmh`sai to; fainov-
menon levgein safevsteron, ouj pa`sa oujd`Δ hJ hJmetevra yuch; e[du, ajllΔ e[stiv ti aujth`" ejn tw`/ nohtw/` ajeiv. 4 IV, 1, 12: ouj ga;r o{lh ajpevsth (hJ yuch;), ajllΔ e[stiv ti aujth`" oujk ejlhluqov". 5 IV, 3, 12, 1-5: In questo testo è applicata in modo originale un’immagine usata da Omero. In Iliade IV, 443, Omero descrive come, durante la battaglia, la combattente Eris si innalzi fino al punto di raggiungere il cielo con la sua testa, mentre i suoi piedi camminano ancora sulla terra. Nell’applicare tale metafora, Plotino era certamente ispirato dal mito del Fe-
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fermare che persino l’anima umana non è realmente «caduta» nel corpo. A causa del principio superiore dell’anima, essa appartiene al mondo intelligibile e non è mai separata da esso, anche quando è legata al corpo mortale6. Di conseguenza, ogni anima ha una parte che rimane sempre «in alto» rivolta verso le realtà intelligibili, e una parte che propende verso il corpo7. Nelle anime superiori, vi è una perfetta armonia tra queste due «parti»; il rapporto con il corpo non ostacola in alcun modo la contemplazione del mondo intelligibile. Nell’anima umana, invece, il rapporto con il corpo imperfetto molto spesso entra in conflitto con la sua tendenza contemplativa. Tra la parte superiore che è sempre nell’Intelletto e l’inferiore che governa il corpo, bisogna porre una specie di forma mista8. Con questa «parte media» si intende il livello della nostra normale coscienza che, con la ragione discorsiva, combina le intuizioni intelligibili con i dati della percezione sensoriale. Possiamo tentare di vivere in accordo con il nostro «Sé» migliore liberando il più possibile dalle sue funzioni pratiche la nostra ragione, attraverso uno stile di vita filosofico. In questo modo, possiamo riportare la nostra parte media al nostro Sé superiore (con cui coinciderà, di fatto, dopo la morte). Molto spesso, invece, la parte inferiore dro, dove si racconta che alcune anime cercano di innalzare le loro teste «nella regione estrema» (248 A). 6 Cfr. VI, 4, 14, 17-22. 7 Cfr. IV, 8, 8, 11 ss.; III, 4, 3, 22-26. 8 Cfr. II, 9, 2, 4 ss. e VI, 7, 6, 13 ss. (sull’uomo triplice). Cfr. A.H. ARMSTRONG, Plotinus, in The Cambridge History cit., pp. 224-25. La triplice divisione introdotta da Plotino non corrisponde esattamente alla divisione platonica dell’anima. Il logistikovn, la parte più alta nella tricotomia platonica è, per Plotino, solo la parte intermedia dell’anima: cfr. J.M. RIST, Integration and the Undescended Soul in Plotinus, «American Journal of Philology», 88 (1967), pp. 410-22.
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dell’anima trascina giù con sé la parte media. In questo caso, la ragione si occupa esclusivamente dei bisogni corporei. Tuttavia, sottolinea Plotino nel suo trattato contro gli Gnostici, non è mai lecito trascinare giù l’intera anima9. Può essere che qui Plotino scelga intenzionalmente la formula carica di senso religioso: oujk hj`n qevmi". Mentre, in molti miti inquietanti, gli Gnostici descrivono il tragico destino dell’anima umana, che, benché divina per natura, viene imprigionata in questo mondo ostile, Plotino afferma che la discesa dell’anima intera contravviene in realtà l’ordine divino. Se tuttavia la nostra anima superiore rimane sempre in alto, unita all’essere ideale, perché noi non siamo sempre – e alcuni di noi non sono mai – consci di ciò?10 Plotino non è scoraggiato da questa difficoltà, anzi formula la sua risposta con la massima coerenza. Se l’anima, per essenza, è auto-movente ed è quindi sempre in movimento, allora quelle facoltà per mezzo delle quali è in contatto con la realtà superiore devono essere sempre attive in essa. Ma l’anima non è conscia di tutto quanto è presente in essa, né di ogni attività dentro di sé. Essa giunge alla consapevolezza solo quando un’attività è trasmessa e comunicata alla facoltà immaginativa dell’anima, cioè quando l’anima presenta l’oggetto della conoscenza a se stessa nella phantasia11. Pertanto, anche se l’anima è sempre impegnata II, 9, 2, 9. V, 1, 12, 1: Pw`" ouj`n e[conte" ta; thlikau`ta oujk ajnalambanovmeqa… 11 Nella visione di Plotino «immaginazione» (fantasiva) e «coscienza» (ai[sqhsi" o ajntivlhyi") sono strettamente connesse. La conoscenza consapevole è possibile solo quando l’oggetto è rappresentato nell’anima in un «modo immaginativo»: cfr. E. WARREN, Consciousness in Plotinus, «Phronesis», 9 (1964), pp. 83-97, e Imagination in Plotinus, «The Classical Quaterly», 16 (1966), pp. 277-85. 9
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nell’intellezione, la percezione consapevole di ciò arriva fino a noi solo quando il pensiero è rappresentato dall’anima in immagini e termini mentali. «Poiché l’intellezione è una cosa e la percezione dell’intelletto è un’altra. Pensiamo continuamente, ma non ne siamo sempre coscienti»12. Quasi sempre, la parte dell’anima coinvolta nel mondo sensibile predomina in noi e ci impedisce di «divenire consapevoli di quanto contempla la parte più alta»13. Per il lettore moderno, quello della consapevolezza del proprio pensiero tende a essere un problema piuttosto strano: per lui, «conoscere» e «essere conscio» sono molto legati, se non proprio la stessa cosa. Non è così per Plotino. Egli crede che la pura intellezione sfugga alla nostra ordinaria consapevolezza. Si tratta, in effetti, di un atto della nostra anima più alta che è permanentemente fissa nell’Intelletto e diventa conscia solo quando è riflessa nella nostra immaginazione. «È come se la consapevolezza si produca quando l’attività intellettuale si rivolge a se stessa e [...] viene riflessa, come sulla superficie liscia e sottile di uno specchio». In questa riflessione, il pensiero diventa, però, un processo discorsivo14. Per mezzo di questa dottrina dell’“inconscio”, è possibile per Plotino riconciliare la trascendenza dell’anima – che egli sottolinea con forza – con la nostra concreta esperienza: l’anima rimane sempre in alto impegnata nell’eterna attività intellettuale anche se noi non siamo sempre nell’atto di pensare. La tesi che l’anima umana, anche quando è incarnata, risiede ancora nel mondo intelligibile occupa un posto centrale nella dottrina dell’anima di Plotino. La questione 12 13
IV, 3, 30, 11-16: kai; noou`men me;n ajeiv, ajntilambanovmeqa de; oujk ajeiv. IV, 8, 8, 5: oujk eja`/ ai[sqhsin hJmi`n eij`nai wJ`n qea`tai to; th`" yuch`"
a[nw.
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è perché egli si senta obbligato a portare avanti una posizione che si allontana così radicalmente dalla tradizione. Secondo Proclo, Plotino avrebbe ritenuto necessaria tale posizione per poter essere in grado di spiegare come mai noi, nonostante la nostra caduta nel mondo sensibile, siamo ancora capaci di conoscere l’essere ideale. Questo è possibile, pensa Plotino, solo se si accetta che «qualcosa» della nostra anima rimane sempre legata a questa realtà superiore15. A volte, Plotino chiama questa parte superiore sempre pensante il nous dell’anima16. Diventa così anche comprensibile il fatto che Filopono abbia più tardi riproposto tale insegnamento di Plotino come un’interpretazione della ben nota dottrina aristotelica dell’intelletto attivo. Plotino, così sostiene il commentatore, non poneva nell’anima solo l’intelletto-in-potenza, che è solo talvolta pensante, ma anche l’intelletto continuamente pensante, perché era stato portato fuori strada dalla concezione platonica dell’anima. Dal fatto che l’anima, per la sua essenza, è sempre in movimento, egli concludeva che deve essere sempre impegnata nel pensiero, ma ammetteva che noi non siamo sempre consci di queste attività intellettuali «a causa del tumulto del corpo»17. La dottrina di PlotiI, 4, 10. PROCLUS, In Parm., 948, 14-31. 16 Per es. in IV, 3, 12, 1-5. Forse questo è il motivo per cui Nemesio, nella sezione introduttiva del suo De natura hominis, attribuisce a Plotino la dottrina secondo la quale l’uomo consiste di tre «parti»: corpo, anima e intelletto. 17 Questa interpretazione è esplicitamente attribuita a Plotino nella redazione greca non autentica del terzo libro: cfr. pp. 535, 8-13 e 19-21 (cfr. 528, 25-31) e la critica formulata a pp. 536, 15-537, 7 e 538, 33-539, 1. La stessa interpretazione è respinta anche nella versione autentica del commentario, ma qui senza menzione di Plotino. Cfr. De intel., 45, 39: «Alii ... duos aiunt habere intellectus nostram animam, unum quidem actu, alte14 15
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no veniva senza dubbio interpretata qui piuttosto liberamente da Filopono in funzione della sua propria argomentazione. Ma egli non sbagliava di molto nel notare una connessione tra la concezione di Plotino dell’anima superiore permanentemente impegnata nell’intellezione e l’insegnamento di Aristotele sull’intelletto attivo18. Per Plotino, il principio più alto dell’anima umana, che rimane sempre unito all’Intelletto assoluto e che contempla le forme ideali, in realtà, ha la funzione di poietikon nel processo di conoscenza. Così, è assicurata la possibilità dell’anamnesi platonica: ricordare non è nient’altro che un diventare consci di quanto l’anima superiore contempla sempre19. Infine, questa tesi ha anche un’importante dimensione mistica. Dal momento che l’anima umana rimane sempre unita al divino, non ha bisogno di “redenzione”, di un aiuto soprannaturale, o di riti magico-religiosi. Abbiamo bi-
rum autem potentia. Huic autem opinioni praefuerunt quidam qui videbantur esse Platonici, Platone nusquam viso hoc opinari, sed isti deducti sunt ad talem suspicationem, quia Plato ait animam semper motam. Aiunt ergo isti quia, si est semper mota, palam quia semper oportet habere ipsam actu intellectum, ut sic sit semper mota». In effetti, si può ritrovare un argomento simile nel testo di Plotino: cfr. V, 1, 12, 1-12: kai; yuch`/ de; to; ajeikivnhton ou{tw" e IV, 3, 30, 11: ajei; kinoumevnh" pro;" nohvsin. Ci si potrebbe chiedere, però, perché Filopono spieghi inoltre che, secondo questa visione (plotiniana), l’intelletto-in-atto «entra dal di fuori» («de foris ingredi», quvraqen ejpeisievnai, cfr. SOPHONIAS, In de an., 136, 14-17), poiché la tesi basilare di questa interpretazione di De an., III, 5 è precisamente che l’«intelletto agente» è sempre nell’anima. La posizione di Plotino è accennata anche a p. 47, 96: «Si quis dicat quod intelligimus quidem semper, non perpendimus autem hoc ipsum...». 18 Il contesto aristotelico della tesi di Plotino sull’anima fu indicato per la prima volta da PH. MERLAN, Monopsychism, Mysticism, Metaconsciousness, Den Haag 1963, pp. 4-84. 19 Cfr. IV, 8, 4, 28-31: l’anima può sciogliersi dai ceppi del corpo solo quando inizia dall’anamnesi a contemplare nuovamente l’Essere essenzia-
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sogno soltanto di cercare di identificare gradualmente il nostro Sé empirico con il nostro vero, puro Sé che trascende sempre il sensibile20.
2. La critica di Giamblico Non si sa se Porfirio abbia mai considerato questo problema. In effetti, nel suo De abstinentia, prende posizione contro coloro che affermavano che l’intelletto umano rimane sempre imperturbabile nel regno intelligibile, anche quando è coinvolto nel sensibile. Tale critica tuttavia non era certamente diretta contro Plotino, ma piuttosto contro l’amoralità degli Gnostici e di quei Platonici che propendevano per loro21. La visione di Plotino, però, si trova sostenuta da Teodoro di Asine, che era stato per un certo tempo discepolo di Porfirio. Come Plotino, egli affermava che l’anima umana rimane imperturbabilmente pensante anche quando entra in «relazione» con il corpo22. La prima reazione esplicita contro la tesi di Plotino sulle, poiché, nonostante la sua discesa nel corpo, ha «qualcosa che è sempre trascendente» (e[cei gavr ti ajeiv ... uJperevcon). 20 Cfr. J. M. RIST, Integration and the Undescended Soul in Plotinus cit., pp. 410-422. 21 De abst., I, pp. 113-118. Non possiamo concordare con l’interpretazione di questo testo proposta da A. SMITH (Porphyry’s Place in the Neoplatonic Tradition, Den Haag 1974, p. 41): «according to Plotinus and Porphyry our nous does not fall into the body but it is ceaselessly operating in the intelligible world. The highest part of man is always in active contemplation». Ma la prova addotta da A. Smith a sostegno della sua interpretazione (De abst., 115, 9) stabilisce proprio l’opposto! Porfirio qui asserisce che l’anima umana che si è allontanata dall’Intelletto (parekbav") non gode più dell’intellezione e dell’impassibilità perpetue. Cfr. il nostro studio Porphyrius’ reactie tegen het amoralisme van de Gnostici, «Tijdschrift voor Filosofie», 37 (1975), pp. 211-225. 22 Cfr. PROCLUS, In Tim., III, 333, 28-30 e 231, 5-10 (contro Teodoro: cfr.
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l’anima è così quella di Giamblico e la principale testimonianza di essa si trova nel commento al Timeo di Proclo. Platone descrive in Tim. 43 D cosa prova l’anima umana quando si incarna: i suoi cerchi sono scossi come risultato dell’intensità delle percezioni e dell’incessante flusso di nutrimento. «Con ciò, essi incatenano completamente la rivoluzione dell’Identico (ejpevdhsan) [...], e agitano violentemente il movimento dell’Altro (dievseisan)». Sulla base di questo passo di Platone, ritiene Proclo, possiamo sicuramente opporci a Plotino e al grande Teodoro, i quali asseriscono che vi è qualcosa in noi che rimane impassibile e che gode sempre dell’intellezione23. Pertanto ciò è impossibile dal momento che l’anima consiste di due cerchi soltanto, di cui uno (che contempla l’essere intelligibile) è ostacolato dall’attività e l’altro (opinione) è distorto. L’anima così non può più con nessun cerchio continuare a godere dell’attività intellettuale; il suo pensiero si realizza in modo intermittente. «Pertanto, è a buon motivo che anche il divino Giamblico si scaglia contro chi crede ciò»24. Proclo, che evidentemente sta seguendo qui il commento di 246, 23-28). Dagli scarsi dati biografici riguardanti Teodoro, sappiamo che egli era più giovane di Giamblico. Come Giamblico, era stato prima un discepolo di Porfirio. Poi, probabilmente, fece parte della cerchia di Giamblico. Tra i due filosofi sorsero dispute, proseguite dopo la loro morte dai rispettivi discepoli (cfr. JULIANUS, Ep. 12, p. 19 ed. BIDEZ). Cfr. W. DEUSE, Theodorus von Asine, Wiesbaden 1973, pp. 1 e 61-62. 23 In Tim., III, 333,28-30: ajpo; dh; touvtwn oJrmwvmenoi parrhsiasovmeqa pro;" Plwti`non kai; to;n mevgan Qeovdwron ajpaqev" ti fulavttonta" ejn hJmi`n kai; ajei; noou`n. Tale “innovazione” di Plotino era stata già rifiutata a p.
323, 2-6: «Così, secondo Platone, l’anima discende come un tutt’uno. Poiché egli attribuisce a essa solo due cerchi e due rivoluzioni e li conduce giù entrambi, come dice Plotino, si potrebbe sostenere una nuova tesi secondo cui l’anima non scende interamente».
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Giamblico al Timeo, riprende da lui anche una serie di argomenti contro Plotino che discuteremo più avanti. Troviamo una testimonianza altrettanto chiara, indipendente dal testo di Proclo, anche nell’introduzione del commento di Prisciano al De anima. Prima di intraprendere la spiegazione del testo aristotelico, l’autore abbozza la prospettiva generale con cui interpreterà il testo, e cioè, la visione dell’anima di Giamblico. Nella sua breve esposizione, troviamo una critica di Plotino simile a quella di Proclo. «Perciò, non dobbiamo affermare che qualcosa dell’anima rimane sempre identica e pura, come dice Plotino, né che l’anima procede interamente fuori di se stessa nella sua inclinazione verso il regno del divenire, ma che procede come un tutto e però rimane pura quando inclina verso le cose inferiori; ma ciò sarà spiegato più chiaramente durante il corso della nostra esposizione, essendo anche la concezione di Aristotele, che è stata ancor più chiaramente espressa da Giamblico»25. Il commentatore ritorna su tale critica a p. 220, 12-14: «Di conseguenza, l’anima non rimane sempre la stessa, come crede Plotino, e neanche procede da dentro di sé in modo tale da uscire interamente fuori da se stessa, poiché in tal caso non potrebbe né procedere né rimanere come un tutto»26. 24 III, 334, 3-4: ojrqw`" a[ra kai; oJ qei`o" ΔI avmblico" diagwnivzetai pro;" tou;" tau`ta oijomevnou". 25 In de an., 6, 12-17: dio; ou[te mevnein ti aujth`" qhsovmeqa kata; to;n Plwti`non ajei; wJsauvtw" kai; kaqarw`" ou[te pantelw`" proi>evnai ejn th`/ eij" gevnesin rJoph/`, ajllΔ o{lh proveisi kai; mevnei eijlikrinw`" ejn th`/ pro;" ta; deuvte-ra rJoph/`: ajlla; tau`ta me;n safevsteron kai; hJ o{lh tw`n lovgwn ejpideivxei dievxodo" wJ" kai; ΔAristotevlei dokou`nta kai; uJpo; tou` ΔI amblivcou ejnargevsteron ejkpefasmevna. 26 In de an., 220, 12-14: wJ" mhvte mevnein ajei; wJsauvtw", wJ" tw`/ Plwtivnw/ (correxi) dokei`, mhvte mh;n ou{tw" e[ndoqen proi>evnai wJ" pantelw`" eJauth`" ejxivstasqai. Che si possa leggere Plwtivnw/ invece di Plavtwni è evidente da un
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Possiamo ritrovare questa critica di Plotino, che Proclo e Prisciano attribuiscono a Giamblico, anche nei frammenti sparsi conservatici del suo De anima. Nel capitolo precedente, abbiamo discusso nel dettaglio il passo in cui Giamblico prende posizione contro filosofi come Plotino che ponevano perfino il mondo intelligibile nell’anima particolare. Ora, questa posizione è sostenibile soltanto se si accetta che una «parte» dell’anima umana rimanga sempre in alto. Chi respinge una delle due tesi, ripudia anche l’altra27. Una critica della posizione di Plotino è implicita pure nel riassunto che Giamblico fa delle varie opinioni sulla katharsis ancora diffuse tra i Platonici28. Secondo Plotino e la maggior parte dei Platonici, la catarsi perfetta consisterebbe nel ripudio di tutte le passioni e dell’intera conoscenza sensoriale, nel rifiuto di ogni opinione (doxa) e nel distacco di sé da ogni pensiero coinvolto con la materia, finché ci si colma di Essere e di Intelletto, e il percepiente diventa identico all’oggetto percepito. Alcuni di questi
confronto con il testo citato nella n. 25. Inoltre, la nostra correzione è confermata da una citazione di questa frase nella Paraphrasis in de anima di Giorgio Pachimere. In questa parafrasi, che non è stata ancora pubblicata, molte pagine sono tratte dal commentario di Prisciano. Citando il testo precedente, Pachimere reca: wJ" tw/` Plwtivnw/ dokei` (Parisinus graec. 2136, f. 59r; cfr. la traduzione latina di D.PH. BECCHIUS, Georgii Pachymeris totius Aristotelis philosophiae compendium, Basel 1560, p. 209: «quemadmodum Plotino videtur»). Possiamo supporre che un copista, che conosceva meglio il nome di Platone, sia stato responsabile dell’errore nei nostri manoscritti greci. Cfr. AUGUSTINUS, De beata vita, I, 4: la maggior parte dei manoscritti riporta «libri Platonis», laddove la probabile lettura corretta è «libri Plotini» (cfr. P. HENRY, Plotin et l’Occident, Bruxelles 1935, pp. 78 ss.). 27 Entrambe le tesi sull’anima furono collegate da Proclo nella sua critica della dottrina di Plotino: «non è necessario porre il mondo intelligibile dentro di noi, come dice qualcuno [Plotino], così che conosciamo gli oggetti intelligibili in quanto sono in noi. Poiché [quel mondo] ci trascende ed è il
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Platonici spesso sostenevano che la catarsi è richiesta solo per l’anima irrazionale e per la facoltà inferiore del ragionare, cioè per l’opinione. Essi credevano che «lo stesso logos essenziale e l’intelletto dell’anima sono sempre elevati al di sopra del mondo e sono in contatto con gli esseri intelligibili». Perciò, non è necessario perfezionare questo «intelletto» o liberarlo dal «superfluo», ossia dalle passioni e dalle opinioni che potrebbero nascondere la sua vera essenza e ostacolare la sua intellezione29. In questo testo, si può senza dubbio notare un’allusione alla dottrina di Plotino sulla parte più alta dell’anima, il suo «intelletto», che rimane sempre in uno stato di pura contemplazione. In tale prospettiva, osserva Giamblico, un processo di purificazione sarebbe necessario solo per l’anima più bassa, non per la nostra propria anima, la cui essenza coinciderebbe con la pura intellezione30. In effetti, lo stesso Plotino era consapevole che la sua posizione lo portava in conflitto con certi insegnamenti tradizionali del Platonismo. «Cosa sarebbe la catarsi dell’anima se essa non è stata contaminata del tutto?», si chiedeva31. Nel testo di Proclo sopra citato, troviamo un certo numero di argomenti che Giamblico impiega contro Plotino32. principio della nostra essenza. Neanche si dovrebbe asserire che qualcosa dell’anima rimane al di sopra ...» (In Parm., 948, 14-31; cfr. 930, 24-28). 28 STOB., Ecl., I, 454, 10-22. 29 I, 454, 18-22: to;n de; lovgon aujto;n to;n oujsiwvdh kai; to;n nou`n th`" yu-ch`" ajei; uJperevcein tou` kovsmou kai; sunh`fqai toi`" nohtoi`" kai; oujdevpote dei`sqai teleiwvsew" kai; ajpoluvsew" tw`n perittw`n. Il significato del termine oujsiwvdh" lovgo" è spiegato più avanti a p. 215. 30 Cfr. un altro testo citato da Stobeo (I, 369, 20-24). Secondo Giamblico, Plotino asserisce che solo la «pura ragione» (to;n kaqaro;n logismovn) appartiene all’essenza dell’anima, mentre tutte le altre facoltà, la percezione sensoriale, l’immaginazione, la memoria, e anche la ragione discorsiva, sono acquisite quando l’anima scende nel corpo. Cfr. Enn., IV, 4, 1-2.
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1. Come può Plotino spiegare che l’anima pecca, se afferma che il suo principio più alto rimane libero dalle passioni? Il «peccato» si ha quando, sotto l’impulso della vita irrazionale, andiamo dietro le immagini immorali fornite dai nostri sensi. Ora, quale facoltà in noi può controllare se sia dato o no l’assenso a quelle immagini? Deve essere la volontà libera (prohairesis). In effetti, è in ragione di essa che ci distinguiamo da quegli esseri che seguono avventatamente tali immagini. Se anche la prohairesis è peccaminosa – poiché può produrre rappresentazioni immorali – come si può ancora dire che l’anima resta senza macchia? Se la prohairesis, che ha il controllo sull’anima, pecca, anche l’anima deve essere peccaminosa33. L’intera analisi della debolezza morale è chiaramente ispirata allo Stoicismo, come è evidente dalla terminologia impiegata34. Gli Stoici ponevano, quale ideale etico, la to31 Enn., III, 6, 5, 13: ajlla; tiv" hJ kavqarsi" a]n th`" yuch`" ei[h mhdamh/` memolusmevnh"… Cfr. I, 1, 12 e VI, 5, 16. 32 Cfr. In Tim., III, 334, 3-27. Dalla struttura di questo passo è evidente che Proclo adotta l’argomentazione di Giamblico. Cfr. A.J. FESTUGIÈRE, La révélation cit., III, p. 252, n. 3 e J.M. DILLON, Iamblichi cit., pp. 200-201 e 382-383. 33 p. 334, 4-8: Tiv ga;r to; aJmartavnon ejn hJmi`n, o{tan th`" ajlogiva" kinh-
savsh" pro;" ajkovlaston fantasivan ejpidravmwmen… aj`rΔ oujc hJ proaivresi"… kai; pw`" oujc au{th… kata; ga;r tauvthn diafevromen tw`n fantasqevntwn propetw`". Eij de; proaivresi" aJmartavnei, pw`" ajnamavrthto" hJ yuchv… Il significato della frase diafevromen tw`n fantasqevntwn non è chiaro. A.J. Festu-
gière traduce «car c’est par lui que nous l’emportons sur les courants précipités de l’immagination», ma tale uso di diafevrw non è attestato altrove: si trova solo la costruzione «l’emporter sur quelqu’en en qu. ch.». J.M. Dillon traduce: «for it is by reason of this that we differ from those beings that follow impressions without reflection». Il problema è ora l’interpretazione di fantasqevntwn. Sul significato del termine proaivresi" usato in questo testo, cfr. J.M. RIST, Prohairesis: Proclus, Plotinus et alii, in De Jamblique à Proclus cit., pp. 103-117. 34 La passione è definita da Zenone come «un movimento irrazionale e
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tale libertà rispetto a tutte le passioni (apatheia). Una volta posseduta realmente, questa virtù perfetta è estremamente difficile da perdere. Infatti, l’uomo saggio, che ha acquisito questo ideale e vive immune dalle passioni, in accordo con il Logos, non può più ricadere in una vita non-etica. Perciò, l’uomo saggio può dirsi «infallibile» (ajnamavrthto"), non essendo soggetto a errore o peccato35. Ma ciò che gli Stoici presumevano come ideale etico e che potrebbe essere realizzato solo molto raramente dall’uomo saggio, diviene ora, per Plotino, il vero postulato dell’intera sua antropologia. Dal momento che l’anima è una sostanza spirituale, è anche ajpaqh`" per natura – anche quando è legata al corpo36. Lo sforzo etico può essere diretto soltanto a rendere visibile in noi ciò che siamo sempre stati. La virtù non è una condizione acquisita dell’anima, ma la sua bellezza originaria che irradia da essa quando, con l’ascesi, vengono rimossi tutti gli impedimenti37. È degno di nota il fatto che Plotino aveva già anticipato l’obiezione di Giamblico. In III, 6, 1-5, dove si proponeva di dimostrare l’apatheia dell’anima, Plotino si confrontava con il problema della debolezza morale. Se possono originarsi nell’anima false opinioni, cosicché essa diviene «corrotta», si può ancora sostenere che la sua parte razionale resta impassibile? Lo stesso problema era innaturale dell’anima» o anche «un impulso in eccesso» (cfr. DIOG. LAERT., VII, 110). Quando tale impulso irrazionale diventa forte e prevale, l’anima è spinta a fare qualcosa di oltraggioso che contravviene la deliberazione razionale: a[logon, o{tan tw`/ pleonavzonti th`" oJrmh`" ... para; to;n aiJrou`nta lovgon ejkfevrhtai ... : to; pavqo" eij`nai lovgon ponhro;n kai; ajkovlaston.
(PLUT., De virt. mor., III, 441 C). Cfr. STOB., Ecl., II, 112: sugkatativqesqai kata; to;n propeth`. ` 35 Cfr. DIOG. LAERT., VII, 117: fasi; de; kai; ajpaqh` eijnai to;n sofo;n, dia; ` e 122-123: ajnamarthvtou" [tou`" sovfou"] tw`/ ajpeto; ajnevmptwton eijnai riptwvtou" eij`nai aJmarthvmati. 36 III, 6, 6, 1: th;n oujsivan th;n nohth;n th;n kata; to; eij`do" a{pasan te-
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trattato anche in I, 1, 12: «ma se l’anima è senza peccato (ajnamavrthto"), come può ancora esservi punizione per essa [nell’aldilà]?»38. Nella sua risposta, Plotino fa notare che è l’anima razionale che rimane imperturbabile. Le passioni sorgono nell’inferiore anima mortale, che si aggiunge all’anima razionale con la sua discesa nel corpo39. Per Plotino, il peccato non può mai essere un atto di scelta deliberata, anche se la ragione può essere tranquillamente trascinata in basso con l’anima inferiore dall’azione immorale. Ma l’anima superiore non può mai essere ingannata o sviata da immagini piacevoli; è sempre in alto, fissa al vero bene. Pertanto, per Plotino, la vera essenza dell’anima rimane pura e senza peccato, nonostante l’effettiva caduta morale. Giamblico, invece, afferma che l’anima non può essere divisa in questo modo. Se l’anima è realmente responsabile del male che compie, il suo principio più alto deve essere coinvolto in azioni immorali. Così, l’intera anima è corrotta quando la prohairesis fa una scelta sbagliata. 2. Giamblico si chiede inoltre che cosa renda la vita, nella sua interezza, felice. Non è la ragione che raggiunge la sua perfezione? Ma se la parte migliore di noi è perfetta, allora tutto di noi dovrebbe essere felice. Ora, se, come afferma Plotino, la parte più alta dell’anima gode sempre della contemplazione e dimora sempre con il divino, che cosa ci impedisce di essere felici, adesso e sempre? La precondizione della felicità è sempre compiuta per tutti gli uomini. Se si risponde che questo principio più alto è il
tagmevnhn wJ" ajpaqh` dei` eij`nai (cfr. I, 1, 2, 7 ss.). Cfr. W. THEILER, Plotin zwischen Plato und Stoa, in Les sources de Plotin, Genève 1960, p. 80. 37 II, 3, 8, 14: ajretai; me;n dia; to; ajrcai`on th`" yuch`". 38 I, 1, 12, 1 e anche VI, 4, 16, 1: se l’anima non può mai cadere in peccato, che senso hanno il giudizio e i castighi nell’aldilà?
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nous, allora si può certamente accettare che esso è sempre pensante, ma anche che esso non ha nulla a che fare con l’anima, in quanto il nous trascende l’anima stessa. Se esso è, invece, una parte dell’anima, si deve concludere che anche il resto dell’anima è felice, e, di conseguenza, tutti gli uomini sono interamente felici40. Tale argomentazione di Giamblico sembra diretta contro il trattato di Plotino Sulla felicità (I, 4). Con gli Stoici, Plotino respinge la definizione aristotelica di felicità come «vita buona», adempimento delle proprie funzioni e raggiungimento del proprio fine naturale. Egli accetta l’opinione stoica per cui la felicità si fonda su una «vita razionale», cioè una vita vissuta secondo il logos, libera da vicissitudini esterne. Rimprovera però gli Stoici di non aver percepito le implicazioni metafisiche della loro posizione etica. Secondo Plotino, la felicità può essere veramente indipendente da circostanze esterne e bisogni corporei solo quando, rivolgendo il nostro desiderio verso l’interiorità, ascendiamo alla vita perfetta dell’Intelletto e alla visione del Bene Assoluto da cui dipende. Solo colui che ha raggiunto questa vita perfetta ed eterna può dirsi felice e libero da tutte le necessità esteriori; egli possiede tutto ciò che occorre per la felicità. Questa felicità perfetta non è riservata soltanto agli dèi. È possibile per ogni uomo, poiché ogni uomo possiede già la vita perfetta, avendo non solo la vita dei sensi, ma anche la ragione e il «vero intelletto». Non sarebbe un uomo, se non li avesse entrambi, in potenza o in atto41. Ma l’uo-
39 Cfr. I, 1, 12; I, 8, 4 e II, 3, 9 dove «un altro tipo di anima» è introdotto con l’originarsi delle passioni. In altri testi, però, Plotino abbandona questa spiegazione piuttosto mitica (cfr. Tim. 69 E) e dimostra che anche la cosiddetta «parte passiva» dell’anima (paqhtikovn) è impassibile: cfr. III, 6,4. 40 III, 335, 7-15: tiv de; to; poiou`n eujdaivmona th;n o{lhn hJmw`n zwhvn… ...
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mo non è diverso da ciò che possiede? Avere qualcosa non significa essere identico a essa. Dobbiamo forse considerare la vita perfetta solo come una «parte» dell’uomo? Questo è il caso dell’uomo comune, che la possiede inconsapevolmente, meramente «in potenza». Invece l’uomo saggio, che ha superato la vita intellettuale, coincide, in atto, con la vita perfetta. Non è più una sua «parte», ma è identica a lui. Egli non può mai perdere tale felicità, nemmeno con le sofferenze, o la malattia, o le avversità. Senza dubbio, può trovare spiacevole essere bruciato nel «toro di Falaride», ma anche in tale estrema agonia, è solo la sua parte inferiore che soffre. Il Sé più alto rimane imperturbabile e contempla continuamente il Bene42. Il fatto che noi spesso non ne siamo consapevoli, non rappresenta un’obiezione valida. Anche chi diventa squilibrato è ancora felice, perché l’attività intellettuale della sua anima continua in lui. Solo che lo specchio della sua coscienza è infranto, e così egli non riesce più a riflettere e a rappresentare la vita intellettuale, di cui continua pur sempre a godere. Non si può rendere la felicità dipendente da un momentaneo atto di consapevolezza. L’intellezione appartiene alla sostanza stessa dell’anima umana, e perciò, la felicità è inerente a essa, e non cessa, anche se non ne siamo consapevoli. Evidentemente, è contro tali grossolane formulazioni che Giamblico prendeva posizione, puntualizzando l’ovvia esperienza concreta: non siamo sempre felici e non tutti tiv kwluvei kai; nu`n hJma`" eujdaivmona" eij`nai ajnqrwvpou" a{panta", eij to; ajkrov-taton hJmw`n ajei; noei` kai; pro;" toi`" qeoi`" ejstivn… 41 I, 4, 4, 7-8: e[cei teleivan zwh;n a[nqrwpo", ouj th;n aijsqhtikh;n movnon e[cwn, ajlla; kai; logismo;n kai; nou`n ajlhqinovn ... ]H oujd`Δ ejsti;n o{lw" a[nqrwpo", mh; ouj kai; tou`to h] dunavmei h] ejnergeiva/ e[cwn.
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siamo felici. Tuttavia, una tale replica non sarebbe stata rilevante per Plotino, dato che egli definiva l’anima a priori e da questa definizione cercava di dedurre come l’esperienza dovesse essere spiegata per essere in accordo con la sua essenza. 3. Giamblico traeva il suo argomento finale dal famoso mito del Fedro (248 A ss.). Platone descrive qui come l’auriga conduca la biga alata dell’anima attraverso i cieli. A volte egli s’innalza verso le altezze, e solleva la testa nell’estrema regione della volta celeste; altre volte, invece, guida verso il basso, e così azzoppa la sua schiera di cavalli e fa loro perdere le ali. «Cosa significa questo auriga?» si chiede Giamblico. Non è forse la più sublime, e, come dire, la principale parte di noi (to; kefalaiwdevstaton)? Egli governa, in effetti, il nostro intero essere e può vedere, con i suoi occhi, la sfera sopraceleste. Ora, se questo auriga è un’espressione mitica del principio più alto dell’anima, e se Platone sta dicendo che egli non guida sempre in alto, ma a volte cala in basso, ne consegue chiaramente che nessuna parte dell’anima rimane in alto e gode sempre dell’intellezione. Guidando verso il basso, l’auriga interrompe la sua contemplazione dell’essere ideale, e provoca persino alla biga dell’anima una considerevole quantità di ferite e danni. Da questo mito, Giamblico trae la conclusione che anche l’anima più alta non rimane sempre la stessa, ma è diversa in tempi diversi, e pertanto è soggetta al cambiamento43. Giamblico non sbaglia qui nel richiamare l’autorità di Platone a sostegno della propria tesi. Infatti, Platone afferma ripetutamente che l’anima, anche se è per natura capace di contemplare le idee, viene 42 Cfr. cap. 13. Il paradosso secondo il quale l’uomo saggio è «felice» anche quando viene bruciato nel «toro di Falaride» era usato dagli Stoici
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spesso ostacolata dal farlo, a causa della sua relazione con il corpo44. In questa critica di Giamblico, ritroviamo in realtà una presentazione piuttosto distorta della concezione di Plotino sull’anima: l’anima gode dell’intellezione ininterrottamente; dimora in alto, unita all’essere divino; è impassibile, infallibile, sempre la stessa, sempre felice; non differisce nell’essenza dall’Intelletto. Certamente, si può indicare un certo numero di affermazioni nelle Enneadi che potrebbero dare origine a una tale interpretazione. Ma queste affermazioni non possono essere isolate dalla visione complessiva dell’anima, nel cui ambito viene chiarito e delineato il loro significato. Lo stesso Plotino aveva già investigato la questione qui sollevata da Giamblico, e cioè se si debba o meno considerare il principio perpetuamente pensante come una parte dell’anima, e aveva anzi affrontato lungamente questo problema nel suo trattato sull’auto-coscienza (V, 3, 3-4). La vera auto-coscienza, secondo Plotino, è possibile solo al livello in cui il soggetto e l’oggetto coincidono perfettamente nell’atto del conoscere, cioè nell’Intelletto. La perfetta conoscenza di sé, dunque, non si può trovare nell’anima, poiché il suo pensiero è discorsivo e sempre in relazione a qualcosa che esiste al di fuori di essa stessa. «Ma che cosa impedisce al puro intelletto di essere presente nell’anima? Nulla, potremmo dire, ma allora si può ancora definirlo una parte dell’anima?»45. Plotino risponde che l’intelletto è nostro (hJmevtero"), senza rientrare nelle «parti dell’anima», poiché esso trascende la discorsività che è propria dell’anima stessa. (cfr. SVF, III, 154, 1-4). Plotino controbatte che tale paradosso vale solo se il Sé inferiore (che soffre insieme al corpo) viene distinto dal Sé superiore (che continua a contemplare il Bene senza essere colpito dalla sofferenza).
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È il nostro intelletto, quando lo «usiamo»; se non lo usiamo, allora non è nostro. Mentre chiunque concorderebbe nel dire che la percezione è sempre nostra, giacché siamo sempre percipienti; ci sono dubbi, invece, sull’intelletto, poiché il suo impiego è intermittente. L’intelletto sembra trascenderci perché, quando pensiamo, ci rivolgiamo a esso. Tuttavia è possibile per noi diventare identici all’Intelletto quando ci portiamo fino alle «altezze», prendendo con noi solo «la parte migliore dell’anima», che è capace di pensare intuitivamente46. Così, Plotino non vede difficoltà nel definire l’intelletto come trascendente e «nostro» allo stesso tempo47. Nessuna delle due espressioni, ouj ga;r nou`" hJmei`" (3, 31), o kajkei`no" hJmevtero" (4, 26), esclude l’altra. Entrambe esprimono la tensione tra immanenza e trascendenza. Nella sua critica, Giamblico non tiene conto proprio di questa tensione, e pone piuttosto tutta l’enfasi su quelle affermazioni di Plotino che elevano l’anima a livello dell’intelletto. Come vedremo, è questa l’interpretazione che passerà ai Neoplatonici successivi.
3. Gli effetti della critica di Giamblico La critica di Giamblico alla tesi di Plotino dell’anima non discesa fu ripresa da tutti i tardi Neoplatonici48. Cerche43
III, 334, 26-27: o{ti to; ejn hJmi`n ajkrovtaton a[llote a[llw" e[cein aj-
nagkai`on. 44 45
Cfr. Phaedo 65 A e 66 D, e Rep. IV, 439 C-D. V, 3, 3, 21: Tiv ouj`n kwluvei ejn yuch`/ nou`n kaqaro;n eij`nai… oujdevn, fhv-
somen: ajllΔ e[ti dei` levgein yuch`" tou`to… 46 V, 3, 4, 12: sunarpavsanta eJauto;n eij" to; a[nw movnon ejfevlkonta to; th`" yuch`" a[meinon. 47 V, 3, 4, 26: ejpeivper kajkei`no" hJmevtero" kai; hJmei`" ejkeivnou. 48 Secondo R. BEUTLER, art. Plutarchos von Athen cit., coll. 965-966, Plu-
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remo di inserire nella nostra indagine i testi di rilievo. Essi non solo ci mostrano l’influenza di Giamblico sulla Scuola successiva, ma ci forniscono anche una migliore comprensione delle implicazioni della sua critica. 1. Presumibilmente, Giamblico sviluppava con una certa estensione l’argomento contro Plotino tratto dal Fedro, nel suo commento a questo dialogo. Conosciamo il commento di Giamblico al Fedro soprattutto attraverso un altro commento, scritto da Ermia, che lo segue spesso, anche se non sempre lo cita49. L’interpretazione seguente di Fedro, 248 A può essere certamente inclusa fra i prestiti impliciti da Giamblico. In questo brano, Platone diceva che molte anime, a causa dell’errore (kakiva/) della loro guida, sono rese zoppe e hanno le ali spezzate, così che non riescono più a contemplare l’essere vero. Da ciò si può certamente concludere, nota Ermia, che secondo Platone l’intera anima discende, poiché egli afferma che la sua parte più alta – qui rappresentata in senso mitico dall’auriga – è corrotta (kakuvnesqai). La caduta del principio dirigente causa scompiglio nell’intera anima. Infatti, come dice Platone nella Repubblica, finché i guardiani non diventano corrotti, l’ordine della repubblica non può essere distrutto. Pertanto, la dottrina di Plotino secondo cui una parte tarco di Atene era un’eccezione e sosteneva l’opinione di Plotino. Però il testo cui fa riferimento Beutler (PS. PHILOP., In de an., 553, 10-12: cfr. PRISC., In de an., 258, 35) non riguarda affatto l’intelletto umano, ma concerne il nous divino. Cfr. E. EVRAND, Le maître de Plutarque d’Athènes et les origines du néoplatonisme Athénien, «L’Antiquité Classique», 29 (1960), p. 393, n. 167. Infatti, che la posizione plotiniana fosse respinta da Plutarco, appare da PS. PHILOP., In de an., 535, 13-15: ouj levgei ajei; noou`nta, ajllav pote noou`nta. A tal riguardo, Plutarco era d’accordo con Giamblico e Proclo. Cfr. H.J. BLUMENTHAL, Plutarch’s «De anima» and Proclus, in De Jamblique à Proclus cit., p. 132. 49 Questo commento al Fedro è, in larga parte, una redazione dell’inter-
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dell’anima discende, mentre un’altra rimane in alto, dovrebbe essere respinta50. 2. La dottrina dell’anima non discesa era stata messa in dubbio ripetutamente anche da Proclo. Abbiamo già avuto occasione di riferirci al suo commento al Timeo, che si richiama alla critica di Giamblico, e a un passo del commento al Parmenide. Ancor più importante è che Proclo abbia incluso questa critica nei suoi Elementi di Teologia, in cui costituisce la proposizione conclusiva: «Ogni anima particolare, quando scende nel mondo del divenire, scende interamente. Non vi è una parte che rimane in alto e una parte che discende» (prop. 120). Qui non sono menzionati né il nome di Plotino, contro cui tale proposizione è diretta, né il nome di Giamblico, da cui la sua posizione si origina. Su tale argomento, nessun filosofo precedente è nominato negli Elementi, poiché Proclo intende dedurre a priori tutte le proposizioni. Nondimeno, Proclo non si fa scrupoli nel trarre le obiezioni seguenti da Giamblico. Se una parte dell’anima rimane sempre nel mondo intelligibile, allora essa dovrebbe pensare sempre o in modo discorsivo (metabatikw`"), passando da un oggetto a un altro, oppure senza alcuna transizione, afferrando la totalità immediatamente. Se è vera quest’ultima ipotesi, allora quella parte dovrebbe, nei fatti, essere un nous, e non una «parte» dell’anima. Se invece è vera la prima, allora potrebbe ben essere una parte dell’anima, ma così l’anima sarebbe una sostanza composta di due parti diverse, una sempre pensante, e un’altra che pensa solo talvolta. Ma è impossibile che due parti diverse per essenza possano costituire un unico essere51. Da ciò deriva ancora un’altra aspretazione data da Siriano in un seminario che Ermia frequentò insieme a Proclo. Ermia vi inserì interpretazioni tratte dal commentario di Giambli-
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surdità: se la parte più alta dell’anima (ajkrovtaton) è sempre perfetta, perché non riesce a dominare le altre «parti» dell’anima, e renderle così perfette? Ma allora l’intera anima sarebbe senza peccato e sempre felice, e, come osservava Giamblico, ciò contraddice la nostra esperienza. Dunque, dobbiamo accettare che ogni anima discende interamente. In un passo degno di nota del suo commento all’Alcibiade52, Proclo ci fornisce una spiegazione migliore delle ragioni per cui respinge la concezione plotiniana. Proclo dice di preservare la natura intermedia dell’anima, e mette in guardia dal considerarla in modo troppo elevato o troppo umile. Egli pertanto respinge l’opinione di quelli che facevano risultare la perfezione dell’anima dalla composizione con il corpo53: in base a una tale concezione, l’anima perderebbe la sua unicità rispetto al corporeo. Allo stesso modo, non possiamo neanche passare all’estremo opposto, e sopravvalutare la trascendenza dell’anima. Così, la posizione di quanti affermano «che l’anima è una parte della sostanza divina e che la parte è uguale al tutto ed è sempre perfetta» deve essere respinta54. Il turbamento delle passioni colpirebbe solo l’essere vivente e non l’anima stessa. Secondo tale ragionamento, l’anima è «sempre perfetta e
co; cfr. gli esempi di A. BIELMEIER, Die Neuplatonische Phaidrosinterpretation, Padenborn 1930, pp. 23-29. Un altro esempio è In Phaedr., 131-132 che evidentemente riflette la dottrina di Giamblico: cfr. De myst., I, 17 e PRISC., In de an., 49, 31-35 e 87, 6-12. 50 In Phaedr., 160, 1-4; cfr. PROCLUS, In Tim., III, 334, 7 ss. 51 Un argomento simile ricorre in In Parm., 948, 20-23 e in DAMASCIUS, In Parm., II, 254, 7 ss. [Sulle edizioni di riferimento per le opere di Damascio, cfr. cap. IV, n. 1 (N.d.T.)]. 52 In Alc., 226, 7-228, 7. 53 I poteri dell’anima sono detti corrispondenti agli stati del corpo.
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non ha mai bisogno di anamnesi; rimane sempre impassibile e non diventa mai corrotta»55. Però, continua Proclo, questo è chiaramente in contraddizione con tanti passi di Platone, il quale afferma nel Timeo che la nostra anima è formata da ordini secondari e terziari, e nel Fedro, dove si racconta che abbiamo una schiera di cavalli che spingono in direzioni opposte, per cui talvolta prevale la migliore, altre la peggiore. E ancora, Platone non dice forse che anche l’auriga, che rappresenta la parte più alta dell’anima, è corrotto? Così, asserisce Proclo, dobbiamo difendere «i giusti limiti dell’anima» (mevtra th`" yuch`"), e cioè assegnarle il suo proprio posto nel mezzo della realtà, e non trasferire la sua propria perfezione ai corpi, né trascinare le proprietà divine giù, al suo livello. Solo allora potremo essere veri esegeti di Platone, e non tenteremo più di sistemare i detti del filosofo in base alle nostre supposizioni. La nostra anima pertanto, conclude Proclo, non è sempre perfetta, ma soggetta ai cambiamenti. A volte è in stato di ignoranza, a volte gioisce dell’intellezione, e così tempo e divenire contribuiscono alla sua perfezione56. Benché Proclo non si riferisca qui a Plotino, è chiaro che tale forte reazione è diretta contro la sua concezione dell’anima, o, almeno, contro ciò che Proclo aveva dedotto dall’interpretazione di Giamblico. Vi troviamo riflessi tutti gli importanti temi della critica di Giamblico a Plotino. Possiamo dunque sicuramente supporre che Proclo dipenda qui in larga parte dal commento di Giamblico all’Alcibiade57. Quando il corpo è umido, l’anima sarà ignorante, quando invece esso diventa caldo e secco, la conoscenza si svilupperà conformemente nell’anima. Cfr. PROCLUS, In Tim., III, 348, 3-350, 8 dove questa dottrina materialistica è attribuita a Galeno, e CHALCIDIUS, In Tim., CCVI, p. 224, 8-19. 54 In Alc., 227, 2: mevro" me;n eij`nai th`" qeiva" oujsiva" levgousi th;n yuchvn, o{moion de; tw/` o{lw/ to; mevro" kai; ajei; tevleion.
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3. Obiezioni alla posizione di Plotino si possono trovare anche nel commento di Filopono al De anima. La discussione su Plotino ricorre, come abbiamo ricordato, nel quadro generale che egli fornisce delle interpretazioni dell’intelletto agente. Secondo Filopono, Plotino sostiene che il principio incessantemente pensante esiste dentro l’anima. Questa tesi è contestata con i seguenti argomenti. Quando Platone dice che l’anima è «perpetuamente in movimento», certamente non vuole significare che l’anima gode di un’intellezione perpetua, come asserisce Plotino. Il termine «movimento» non si riferisce qui all’attività intellettuale dell’anima, bensì al suo potere di produrre vita (zoogona potentia). L’anima non gode sempre dell’intellezione, ma è sempre principio di vita (semper vivificat)58. Inoltre, se esiste realmente una parte dell’anima che per sua natura gode sempre dell’intellezione, come si può giustificare il fatto che pensiamo solo in modo intermittente – per esempio, non durante il sonno – e che molti non pensano – per esempio, i disabili mentali? Inoltre, la conoscenza è sempre un processo graduale, una transizione dalla mera potenzialità a uno stato attuale. E ancora, anche coloro che hanno raggiunto il culmine di virtù e saggezza non sono mai stati capaci di acquisire un’intellezione continua. Affermare che godiamo sempre dell’intellezione, ma non ne siamo sempre consapevoli, porta ad assurdità ancora più grandi. Come possiamo pensare senza esserne allo stesso tempo consapevoli? E se sono forse l’età o il turbamento delle passioni a impedirci una percezione consapevole della nostra atti55 In Alc., 227, 6: ajei; teleivan poiou`si th;n yuch;n kai; ajei; ejpisthvmona kai; mhdevpote deomevnhn ajnamnhvsew" kai; ajei; ajpaqh` kai; mhdevpote kakunomevnhn. 56
Cfr. In Alc., 228, 1 ss. e 237, 1 ss.
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vità intellettuale, perché non la percepiamo subito dopo che tutti gli impedimenti sono stati rimossi?59 4. In Simplicio, è presente un testimonium su Giamblico che è difficile conciliare con gli altri testi che abbiamo analizzato. Si trova in un commento sull’esposizione di Aristotele a proposito dei termini relativi (ta; prov" ti). Per lo più, secondo Aristotele, questi relativi esistono simultaneamente per natura, come nel caso di “mezzo” e “doppio”, “servo” e “padrone”. Questa, però, non sembra essere una regola generale. Ad esempio, l’oggetto di una scienza sembra essere antecedente rispetto alla scienza stessa: le cose esistono prima che le conosciamo e sono indipendenti dalla nostra conoscenza. Solo molto raramente una scienza può esistere «simultaneamente al suo oggetto»60. Simplicio passa a specificare un caso in cui questo avviene: «Gli oggetti immateriali intelligibili esistono simultaneamente alla scienza che è sempre in atto. O vi è anche in noi una tale scienza, che rimane sempre al di sopra, come pensano Plotino e Giamblico, oppure [una tale scienza] esiste nell’Intelletto-in-atto, se può ancora dirsi scienza questa intellezione»61. Simplicio basa la sua interpretazione sulla dottrina aristotelica, la quale afferma che, nel caso di oggetti immateriali, il soggetto conoscente è identico all’oggetto conosciuto62. Ma come si può tro-
57 Dal momento che Proclo segue qui Giamblico molto da vicino, egli respinge un’opinione che invece altrove accetta, e cioè che le affezioni sono connesse solo al corpo vivente, non all’anima: cfr. In Tim., III, 330, 9331, 2. 58 PHILOP., De intel., 45, 50-52 e PS. PHILOP., In de an., 535, 8. Cfr. PROCLUS, El. Theol., prop. 190, p. 166, 19-21: ouj kaqo; de; yuchv, pa`sa gnw`sin
e[cei. 59 PHILOP., De intel., 47, 16-48, 23 e PS. PHILOP., In de an., 536, 15-537, 7.
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vare una tale «scienza» che coincide in atto con il suo oggetto? Se l’anima umana, in una certa misura, rimane sempre «in alto», in contemplazione dell’essere intelligibile, allora potrebbe essere una proprietà umana. Se, però, non si vuole accettare questa ipotesi, una tale scienza potrebbe esistere solo nell’Intelletto Divino, dove l’atto eterno del pensiero coincide con l’Essere ideale. Ma, a questo livello, sarebbe meglio non parlare di «scienza» in senso proprio – un termine che implica discorsività – ma piuttosto di una forma più alta di conoscenza. La prima alternativa, menzionata qui da Simplicio, è senza dubbio la posizione di Plotino. Che Giamblico sia accoppiato a lui è sorprendente, poiché in tutti gli altri testi da noi analizzati appare che è proprio questa dottrina quella che egli combatte. Come si può spiegare questa contraddizione?63 Di fatto, Plotino non fornisce un’interpretazione esplicita di questa frase, Cat. 7 b 25, nelle Enneadi, nemmeno in VI, 1-3, dove pure la dottrina aristotelica delle Categorie è discussa a lungo64. Simplicio probabilmente trova questa interpretazione attribuita a Plotino nel commentario di Giamblico, da cui, come abbiamo notato, egli ricopia intere pagine. Giamblico può aver scritto qui che, dal punto di vista di Plotino, quella frase particolare poteva essere spiegata in quel modo. Ciò non implicherebbe, comunque, che lo stesso Giamblico sottoscrivesse quella opinione. La sua propria interpretazione sembra essere la seconda alternativa indicata da Simplicio (introdotta dal 60 Cat. 7 b 25: ejpΔ ojlivgwn ... i[doi ti" a]n a{ma tw`/ ejpisthtw`/ th;n ejpisthvmhn gignomevnhn. 61 In cat., 191, 8-12: ta; a[neu u{lh" ta; nohta; a{ma th`/ katΔ ejnevrgeian ajei; eJstwvsh/ ejpisthvmh/ ejstivn, ei[te kai; ejn hJmi`n ejstivn ti" toiauvth ajei; a[nw mev-nousa, wJ" Plwtivnw/ kai; ΔI amblivcw/ dokei`, ei[te kai; ejn tw`/ katΔ ejnevrgeian nw`/, ei[ ti" kai; th;n novhsin ejkeivnhn ejpisthvmhn e[loito kalei`n.
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secondo ei[te): solo all’interno dell’Intelletto assoluto è possibile la «simultaneità» perfetta tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Ciò in effetti ben corrisponderebbe alla spiegazione che Giamblico offriva di De Anima, III, 5. Come vedremo, egli asserisce che l’«intellettoin-atto» trascende l’anima65. In ogni caso, il testo così come si presenta può essere difficilmente reso compatibile con le altre affermazioni di Giamblico, a meno che non accettiamo una correzione come la seguente: wJ" Plwtivnw/ kata; ΔI avmblicon dokei`. 5. Damascio e Prisciano, in particolare, sviluppano la critica di Giamblico a Plotino, come vedremo più avanti. Tuttavia, secondo E. R. Dodds, Damascio adotta la posizione di Plotino, e così, su questo punto, si allontana da Giamblico e dalla tradizione successiva. Anche H. Dörrie sostiene che Damascio è d’accordo con Plotino su questo punto, e che avanza anche molti argomenti per mostrare perché sia in disaccordo con Proclo66. Benché appaia un po’ azzardato opporci a tali auctoritates nel campo del Neoplatonismo, osiamo affermare che entrambi hanno frainteso il testo di Damascio. Quello che Damascio cerca di fare è provare che l’anima cambia sostanzialmente e non solo rispetto alle sue facoltà e ai suoi atti. Per giustificare questa tesi piuttosto audace, egli fornisce una lunga serie di argomenti, che tratteremo estesamente più avanti. Per il momento, prendiamo in considerazione solo il passo in cui si trova il riferimento a Plotino. Il ragionamento pro-
62 Cfr. ARIST., De an., III, 4, 430 a 1-5 e a 20; III, 7, 431 a 1. Cfr. Metaph.,
L, 9, 1074 b 38 e il commento di PS. ALEX., In metaph., 713, 27-714, 2. 63 Questa difficoltà è stata notata per la prima volta da E. ZELLER, che, impropriamente, ha interpretato il testo confrontandolo con PS. PHILOP., In de an., 533, 25 ss. (Die Philosophie der Griechen cit., III, 2, p. 767, n. 2).
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cede come segue67: una sostanza che resta totalmente immutata è eterna. L’anima dunque sarebbe eterna, se la sua sostanza non cambiasse. Però, se è eterna, non potrebbe alternativamente scendere nel mondo del divenire e innalzarsi al di sopra di esso, poiché questo implicherebbe un cambiamento nel tempo. Continua Damascio: «Essa è pertanto sempre in alto e, se è così, la sua attività sarebbe anche al di sopra, cosicché la posizione di Plotino, secon64 L’editore KALBFLEISCH si riferisce nel suo apparatus relativo a p. 191, 10 a Enn., III, 4, 3 all., cioè a quei testi in cui Plotino spiega la sua dottrina sull’anima superiore che rimane «in alto». 65 Cfr. PRISCIANUS, In de an., 313, 1 ss. e la nostra interpretazione nella Parte III. 66 Cfr. E.R. DODDS, Proclus cit., p. 309 e H. DÖRRIE, Porphyrios’ cit., p. 196,2 e, infine, H.J. BLUMENTHAL in De Jamblique à Proclus cit., p. 132: «we can not simply assume that it [the view of Iamblichus] was universal, for Damascius took Plotinus’ position». 67 In Parm., IV, p. 15, 1-9: Pro;" de; touvtoi" eij aijwvnio" hJ oujsiva h] o{lw"
ajmetavblhto", oujde; pote; me;n eij" gevnesin kavteisin, pote; de; a[neisin ajpo; ge-nevsew", ajei; de; a[nw ejstivn: eij de; tou`to, kai; ejnevrgeian e{xei th;n ajei; a[nw, w{ste ajlhqh;" oJ Plwtivnou lovgo", wJ" ouj pa`sa kavteisin hJ yuchv. Tou`ton de; ouj prosivetai: kai; pw`" ga;r oiJ`ovn te hj`n, tou` eJtevrou o[nto" ejn tw`/ nohtw/`, qavte-ron mevro" ejn th`/ ejscavth/ eij`nai kakiva… Kai; hJ yuch`" a[ra oujsiva kavteisin, ajnti; eJnoeidou`" meristotevra genomevnh, kai; ajnti; oujsiwvdou" genesiourov". L’editore Westerink accoglie due nostre congetture avanzate nella versione originaria (1978): in l. 1 la correzione della lezione hJ del codice A, riportata nell’edizione Ruelle (II, 254, 3), in eij: la frase condi-
zionale introduce la supposizione con cui inizia l’argomento. Cfr. gli altri argomenti: IV, p. 13, 7: e[ti de; eij; IV, p. 14, 20: e[ti de; hJ`/ (o eij?); IV, p. 15,9: e[ti de; hJ`/ (eij?); IV, p. 15, 13: e[ti de; eij. Inoltre, rispetto all’edizione Ruelle (II, 254,7), si era proposto di correggere la lezione proivetai del codice A in prosivemai (Westerink accoglie la correzione, ritenendo che il soggetto sia Proclo) con il significato di «ammettere, permettere, credere», date le difficoltà che l’interpretazione dell’espressione tou`ton de; ouj proivetai comporta. A. Chaignet traduce: «mais il (= Plotin) ne la développe pas». Tou`ton può riferirsi solo al precedente termine lovgo". Ma l’interpretazione di lovgon proi>evnai come «sviluppare un argomento» non è mai attestata. La correzione da noi proposta invece risulta confermata da una frase analoga
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do cui l’anima non discende interamente, sarebbe vera. Questa posizione, però, io non posso accettarla. Infatti, come potrebbe essere possibile che una parte [dell’anima] sia nel regno intelligibile, mentre l’altra parte risieda nella massima corruzione?». È evidente, pertanto, conclude Damascio, che la sostanza stessa dell’anima discende e cade dall’unità nella molteplicità, dall’essere nel divenire. Gli studiosi moderni interpretano male questo importante passo, poiché generalmente isolano la frase «w{ste ajlhqh;" oJ Plwtivnou lovgo"» dal suo contesto. Infatti, Damascio si riferisce qui a Plotino solo per respingere la sua dottrina. Più in particolare, egli rimprovera Plotino per aver diviso l’anima in due parti, che si suppone siano simultaneamente in stati opposti. Vi sarebbero una parte immutabile, che dimora nel regno intelligibile, e una parte inferiore, soggetta al cambiamento, che risiede in questo inferno (Tartaros!). Nel corso della sua argomentazione contro Plotino, Damascio si riferisce, come ha fatto Proclo, a Timeo 43 D. Non è solo il «cerchio dell’Altro» a essere gettato nella confusione e frantumato, quando l’anima si è incarnata, ma anche il «cerchio dell’Identico» è impedito nel suo movimento, cioè nella sua attività intellettuale, risultando diviso fino a un certo grado, nella misura in cui si è esteso (diastav") nel cerchio dell’Altro. Al contrario, il cerchio dell’Altro è ostacolato, quando è portato nella sfera intelligibile. Così, non possiamo considerare questi due cerchi che costituiscono l’anima come due «parti» separate, avente ognuna la propria attività indipendente dall’altra. Ma l’intera anima è completamente legata a se stessa, e compirà sempre, come un tutto, le sue varie attività – e non una parte l’attività più alta e l’altra quella inferiore68. in HERODOTUS, I, 75. Erodoto parla qui della traversata del fiume Halys. Egli
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È ovvio che, nella sua critica di Plotino, Damascio procede lungo le linee di pensiero di Giamblico: l’anima umana discende, tutta intera, nel divenire e nessuna parte di essa sfugge al cambiamento69. Per di più, questa critica appare in un argomento diretto contro Proclo. Chiunque affermi, come fa Proclo, che la sostanza dell’anima rimane immutata, ritorna inevitabilmente alla posizione di Plotino, per cui «qualcosa» dell’anima resta al di sopra del cambiamento. Il contesto in cui appare tale critica di Plotino ci consente di supporre che Damascio dipenda qui fortemente da Giamblico, anche se non cita il suo nome. Egli trova in Giamblico la dottrina secondo cui l’anima subisce un cambiamento sostanziale. Che questa sia infatti la posizione di Giamblico, lo dimostreremo nel capitolo seguente.
prima dà la sua opinione personale, e poi riferisce quanto si crede comunemente tra i Greci: Thales avrebbe voluto deviare il fiume, per consentire alle truppe di attraversare sull’alveo asciutto. Però «non posso accettare questa versione dei fatti – dice Erodoto – perché come avrebbe fatto l’esercito ad attraversare il fiume al suo ritorno?» cfr. p. 78, 22-24 (ed. LEGRAND): ajlla; tou`to me;n ouj prosivemai: pw`" ga;r oJpivsw poreuovmenoi dievbhsan aujtovn… Gli elementi paralleli nella struttura e nella formulazione sono sorprendenti. In entrambi i casi, il motivo per cui un’opinione non è accettata è formulato in una domanda introdotta con pw`" gavr…
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Capitolo terzo
L’anima: identità in cambiamento
Nel capitolo precedente, abbiamo notato come Giamblico respinga l’opinione secondo cui l’anima umana rimane sempre perfetta e impassibile (ajpaqhv"), anche quando è unita al corpo terreno. Contro Plotino, egli afferma che l’anima umana discende tutta intera, e che, perciò, non vi può essere niente in essa che rimanga immutato. Inoltre, non solo le facoltà e gli atti, ma anche la sostanza dell’anima umana è soggetta ai cambiamenti. Questa posizione, senza precedenti nel Platonismo, porta Giamblico a una visione originale dell’anima. L’anima subisce un cambiamento sostanziale, senza perdere, però, la sua identità. È proprio come identità-in-cambiamento che essa è «il medio tra il divisibile e l’indivisibile». Per la nostra esposizione, siamo dipendenti in modo particolare dalla Metaphrasis e dal commento al De anima di Prisciano. Come abbiamo sottolineato nell’introduzione, questo autore prende le mosse dalla dottrina di Giamblico per poter rispondere alle importanti questioni sollevate dai testi di Aristotele e di Teofrasto. Benché non si possa ricostruire, con certezza, gli ipsissima verba di Giamblico dalle opere di Prisciano, è ancora possibile tracciare con un certo grado di accuratezza le linee basilari del suo discorso e il filo del suo ragionamento. Procediamo come segue. 78
Iniziamo con quattro passi in cui è espressamente attribuita a Giamblico una specifica visione dell’anima: In de anima, 5, 38-6, 17; 89, 33-90, 25; 240, 33-241, 26; Metaphrasis, 31, 27-32, 19. Nel primo di questi testi, Prisciano dichiara di voler dimostrare come la visione di Giamblico si trovi già in Aristotele1. E dovunque incontriamo le stesse considerazioni sull’anima come quelle nei passi citati, possiamo ritenere a buon motivo che l’autore stia riproducendo l’opinione di Giamblico. Naturalmente, non si tratta di una citazione letterale, ma di un’ulteriore elaborazione delle sue opinioni, in relazione al testo che sta commentando. Ma possiamo ancora separare, fino a un certo punto, i concetti di Giamblico dalle trasformazioni cui sono stati sottoposti, poiché lo stesso Prisciano segnala dove si allontana da Giamblico, cioè nella sua interpretazione della noetica aristotelica2. Ogni volta che egli “applica” la visione di Giamblico per spiegare la dottrina del nous, dà luogo a una elaborazione personale e a uno sviluppo dei concetti di Giamblico. Tenendo conto di tale restrizione, possiamo anche considerare i passi seguenti come una riproduzione della visione dell’anima di Giamblico, anche se il suo nome non è menzionato: In de an., 238, 4-29: Si tratta di una tipica digressione nel testo, con considerazioni generali sull’anima. Vi è un’evidente connessione con 240, 36 ss. e Metaphr., 32, 13 ss. In de an., 219, 32-220, 15 e 19-21: Questo testo fa parte dell’esposizione generale sull’anima che precede l’interpretazione di III, 4-6. Vi è una chiara relazione con il testo precedente e 5, 38-6, 17, dove compare la stessa critica di Plotino. 1 2
Cfr. Introduzione, pp. 6-7. In de an., 313, 1-25; cfr. infra, pp. 229-235.
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In de an., 223, 28-34 è in relazione con 90, 14 ss. In de an., 244, 26-31, da confrontare con 240, 33 ss. In de an., 94, 34-95, 2 e 24; 5, 14-21; 14, 7-14. Metaphr., 29, 30-31; 30, 2-15 e 31, 13-16. In tutti questi testi, riappare la stessa fondamentale concezione dell’anima.
1. L’anima cambia nella sostanza A. Il nostro punto di partenza è il commento di Prisciano a De anima, II, 1, 412 a 26-27. Questo testo fa parte della rilevante analisi che Aristotele conduce per ricercare «la più generale definizione dell’anima». Egli arriva alla conclusione che l’anima è l’attualizzazione (ejntelevceia) di un corpo naturale organico. Ma il termine «entelechia» può essere usato in due sensi, come è illustrato nell’esempio della conoscenza: o si riferisce al possesso della conoscenza oppure all’esercizio attuale di essa. Perciò, Aristotele specifica che l’anima è la prima attualizzazione, cioè la perfezione che costituisce il corpo vivente come vivente e gli fornisce il suo essere specifico («vita»). Ciò non implica che il corpo particolare svolga sempre le varie attività della vita, che sono rese possibili dall’anima – dette «atti secondi» dalla tradizione successiva – ma che è sempre capace di queste attività3. Nell’ordine del divenire (th`/ 3 Naturalmente, non vi è reale distinzione tra atto «primo» e atto «secondo», finché l’anima è considerata semplicemente un principio vitale. Come potrebbe l’anima essere l’attualizzazione del corpo vivente senza operare, cioè senza dare attualmente vita al corpo? L’esempio del sonno, scelto da Aristotele, non è tanto felice, perché anche nel sonno l’anima è attiva. Secondo Prisciano l’anima può essere definita «prima entelechia» solo riguardo alle sue attività intellettuali (cfr. p. 88, 31 ss.). Infatti, queste attività possono essere realmente separate dall’essenza dell’anima, come vedremo in seguito (cfr. infra, pp. 224-225).
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genevsei), osserva Aristotele, la capacità viene prima del-
l’esercizio attuale – almeno nello stesso essere. Infatti, spiega Prisciano, il meno perfetto precede sempre il più perfetto nell’ordine del divenire – prima lo sperma, poi l’embrione, poi l’essere vivente – anche se il perfetto è anteriore per natura4. L’applicazione di questo principio al caso dell’anima costringe il nostro commentatore a confrontarsi con una seria difficoltà. Può la nozione di divenire (gevnesi") applicarsi anche all’anima? «Se l’anima è senza divenire, come può prima esistere come imperfetta e subito dopo acquisire uno stato più perfetto, quando agisce?» Come è possibile una tale transizione, che tocca la vera essenza dell’anima (oujsiwmevnh), se essa, per definizione, non è soggetta al divenire (ajgevnhto")?5 È vero che anche Platone a volte usa il termine gevnesi" in connessione all’anima, per indicare la sua «prima discesa nella divisione», cioè la sua generazione dall’Intelletto come ipostasi inferiore. Nell’opinione di Platone, però, questo non significa che l’anima sia soggetta al divenire, poiché egli ha specificamente dimostrato che essa è «inoriginata e indistruttibile»6. Nello 4 Cfr. Metaph., A, 8, 989 a 15: e[sti to; th`/ genevsei u{steron th`/ fuvsei prov-teron. Cfr. 1050 a 4. 5 p. 89, 22-24: ajllΔ eij ajgevnhto" hJ yuchv, pw`" kata; to; ajtelevsteron oujsiwmevnh, u{sterovn pote to; teleiovteron i[scei, o{tan ejnergh`/… Il termine ajgevnhto" è difficile da tradurre (cfr. ARIST., De caelo, I, 11!). Le consuete tra-
duzioni (inoriginato, ingenerato, increato) suggeriscono tutte che l’anima non è dipendente da un principio superiore. Il termine indica principalmente il fatto che l’anima «non è soggetta a un processo di venire-a-essere». 6 p. 89, 26-29: kai; ouj dhvpou wJ" Plavtwn tw/` th`" genevsew" ojnovmati crwv-meno" ejpi; th`" yuch`" dia; th;n prwvthn eij" merismo;n uJpovbasin, ajllΔ oujc wJ" pote; ou[sh", ajgenhvtou kai; ajnwlevqrou aujtw`/ deiknumevnh" (cfr. Phaedr. 245 D). La «prima discesa nella divisione» deve essere intesa come un riferimento alla costituzione dell’anima descritta nel Timeo. Nel tardo Pla-
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stesso senso, Platone si arrischiava a descrivere l’anima divina, che certamente non conosce alcun divenire, come ajrivsth tw`n genhtw`n7, in quanto anche quest’anima procede da una causa superiore. Non è, però, in questo senso particolare che Aristotele usa qui il termine gevnesi": in Aristotele, questo termine indica sempre tav pote o[nta, gli esseri che non esistono sempre – a volte sono, a volte non sono. Tali esseri posseggono la loro «essenza» solo attraverso il continuo divenire nel tempo8. Transizioni da imperfetti stati potenziali ad attualizzazioni più perfette si possono notare ovunque nel mondo sensibile. Ma in che senso possiamo accettare un tale processo di divenire riguardo all’anima? Se venire-a-essere e morire non si riferiscono alla sostanza dell’anima, ma soltanto ai suoi atti, allora entrambi i termini, genhtov" e fqartov", possono essere sicuramente usati riguardo all’anima. Infatti, l’anima non è sempre perfetta, in quanto può esse-
tonismo vi furono molte controversie su come interpretare questa «generazione» dell’anima: cfr. la visione di PROCLUS in In Tim., II, 125, 15 ss. (cfr. infra, p. 113). 7 Sembra un’allusione a Tim., 37 A 2: ajrivsth tw`n gennhqevntwn. 8 I diversi impieghi del termine genhtov" sono accuratamente esaminati da ARISTOTELES in De caelo, I, 11, 280 b 6-20. Il termine si riferisce principalmente a ciò che talvolta non è, e talvolta è. Un’interessante discussione sul significato e l’uso del termine gevnesi" si trova in SIMPLICIUS, In de cae., 92, 33-107, 24. Secondo Simplicio, Aristotele usava il termine gevnesi" per indicare il passaggio dal non-essere all’essere, un «venire-a-essere» che comporta cambiamento temporale; genhtav sono quegli esseri che non possiedono immediatamente il loro essere totale, ma lo acquisiscono in un processo continuo (p. 103, 4; 95, 6). Ma Platone, benché conoscesse questo significato, impiegava il termine anche per denotare la dipendenza atemporale e ontologica dell’essere inferiore rispetto al superiore: kaqΔ h}n to; eij" diavstasin swmatikh;n uJpelqo;n ouj dunavmenon e[ti eJauto; paravgein, ajllΔ ejx a[llou tino;" aijtivou movnw" uJfistavmenon (pp. 103, 28 ss.; 92, 33). Cfr. il te-
sto di Prisciano citato in n. 6.
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re corrotta e distolta dal pensiero, e acquista la sua perfezione soltanto in modo graduale9. Se l’anima dunque non è sempre uniformemente perfetta, ne segue che essa soggiace a un processo di cambiamento nel tempo. Ma ci si può chiedere, con Giamblico, se questo processo non tocchi il profondo dell’anima piuttosto che solo i suoi atti: «Se, però, come pensa Giamblico, da una sostanza che è essa stessa impassibile (ajpaqhv") e perfetta, non può mai derivare un atto perverso e imperfetto, l’anima potrebbe essere, anche nella sua sostanza, in qualche modo soggetta alle passioni»10. L’argomentazione di Giamblico consiste nel fatto che un cambiamento fondamentale nelle attività si può spiegare soltanto accettando che la sostanza stessa che causa le attività cambia. B. Troviamo una simile linea di ragionamento, che conduce alla stessa conclusione, in Metaphrasis, pp. 31, 2732, 18. Qui Prisciano fornisce i “nessi” dell’argomento, mancanti nel testo appena discusso. L’intera esposizione è senza dubbio una riproduzione, quasi parola per parola, del De anima di Giamblico, anche se il nome di quest’ul-
9 p. 89, 31-33: h] eij kai; mh; katΔ oujsivan, ajlla; katΔ ejnevrgeian kai; teleiovthta to; genhto;n kai; fqarto;n safe;" ejpi; th`" ajnqrwpivnh" yuch`" kai; kakunomevnh" kai; pedoumevnh" potev. La forma pedoumevnh" è menzionata nell’Index verborum sotto pedevw. Questa forma del verbo, però, non è attestata altrove. Forse si tratta di una variante del verbo pedavw («mettere ai ceppi»).
Prisciano allude al passo del Timeo che abbiamo discusso nel Cap. II. Quando l’anima si è unita al corpo, il cerchio dell’Identico è incatenato (ejpevdhsan), il cerchio dell’Altro è distorto (pavsa" strevyai strofav"). Si allude allo stesso passo a p. 281, 35: ouj diastrefomevnou ... ajlla; kai; pedoumevnou kata; Plavtwna ... Cfr. DAMASCIUS, In Parm., IV, p. 15, 13. 10 p. 89, 33-35: eij de;, wJ" tw`/ ΔI amblivcw/ dokei`, oujk a]n ejx ajpaqou`" kai; teleiva" oujsiva" diestrammevnh kai; ajtelh;" proi?oi ejnevrgeia, ei[h a]n paqainomevnh pw" kai; katΔ oujsivan.
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timo è citato soltanto alla fine11. Il contesto in cui l’autore si riferisce a Giamblico, è, di fatto, strettamente correlato al passo di In de anima appena discusso. Anche qui si ricerca il senso in cui genesis si può dire riguardo all’anima. In realtà, l’anima umana non è solo ciò che è; essa sembra anche, fino a un certo punto, divenire: faivnetai kai; ginomevnh pw". A causa della sua posizione intermedia nella realtà, e anche a causa del fatto che la sua vita costituisce un movimento continuo, è come se fosse «ambivalente»12. Essa può sia inclinare verso il peggio e cadere nell’ignoranza, sia dirigersi alle cose migliori e nutrirsi nuovamente di conoscenza. In effetti, l’anima umana non è immutabile come i puri esseri intellettuali. È alternativamente imperfetta e perfetta – imperfetta ogni volta che è ignorante e possiede il suo oggetto solo in potenza, perfetta ogni volta che conosce in atto. Così, benché l’anima coincida nella sua essenza (oujsiw`tai) con gli oggetti conosciuti, sembra diventare essi attraverso un processo temporale. «Da cosa, allora, deriva questo cambiamento» domanda Teofrasto, «dal suo abito, o dalla sua facoltà, o dalla sua sostanza?»13. Ciò significa – o almeno così interpreta Pri11 Giamblico è citato nella conclusione. Questo ci lascia supporre che tutto il discorso, che porta a tale conclusione, è preso da lui. Evidentemente, il punto di partenza dell’argomento (p. 31, 27-30) corrisponde verbatim al testo di Giamblico citato in In de an., 89, 33-35. 12 p. 31, 15: ajmfivbolo"; cfr. p. 29, 8: ajmfivbion. La metafora «anfibia» è spesso impiegata nel Neoplatonismo per illustrare lo stato intermedio dell’anima. Così, PLOTINUS, Enn., IV, 8, 4, 32; HIEROCLES, In carm. aur., 468 B; e SIMPLICIUS, In ench., 78, 5-9. Cfr. anche infra, p. 144. 13 Questo frammento del V libro della Fisica di Teofrasto (= fr. VIII Barbotin) si riferisce a ARISTOTELES, De an., III, 4, 429 b 5-9. Quando l’intelletto ha acquisito conoscenza ed è diventato tutte le cose «in habitu», è ancora, in un certo senso, in potenza, finché non conosce i suoi oggetti in un atto esplicito. Teofrasto si chiede come avvenga il cambiamento dalla potenza all’atto: uJpo; tivno" ouj`n hJ gevnesi" kai; pw`", ei[tΔ ouj`n e{xew" kai; du-
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sciano – che questo cambiamento nell’anima riguarda solo i suoi abiti e le sue facoltà, oppure tocca la sostanza stessa? Quando l’anima passa dall’ignoranza alla conoscenza in atto, ciò implica soltanto una attualizzazione della facoltà intellettiva o di una attitudine? O piuttosto, assistiamo a un cambiamento che l’anima subisce nella sua essenza? Benché il testo di Teofrasto indichi chiaramente la prima possibilità (e[oike de; ma`llon e{xew"), le premesse psicologiche con cui il nostro autore lavora (tratte da Giamblico) lo inducono a scegliere la seconda spiegazione: è necessariamente determinato un cambiamento nella sostanza stessa. Il testo di Teofrasto sarà manipolato in modo da risultare conforme a tale interpretazione. Prisciano fornisce la seguente argomentazione per questa tesi. Gli abiti, come anche le facoltà, procedono dalla sostanza. Di conseguenza, è impossibile supporre che la sostanza sia interamente immutata e sempre identica, dato che produce a volte atti buoni e perfetti, altre volte imperfetti e perversi. Infatti, le sostanze sono le cause degli atti, e, inversamente, possiamo inferire come deve essere la sostanza stessa, solo ragionando sul modo in cui gli atti si realizzano14. Se è escluso che una sostanza totalmente ` teleiou`n th;n nav-mew" ei[te oujsiva"… e[oike de; ma`llon e{xew", au{th de; oiJon fuv-sin. Come è attualizzato l’«intelletto abituale»? domanda Teofrasto. Evi-
dentemente, questo intelletto non ha più bisogno di un aiuto esterno. Dal momento che ha acquisito conoscenza come una capacità (habitus), può applicarla ed esercitarla come vuole: è capace di perfezionare la propria natura. 14 Metaphr., 31, 27-32: ΔEpei; ouj`n ajpo; th`" oujsiva" ai{ te e{xei" kai; ejnevrgeiai, ajduvnaton uJpotivqesqai th;n oujsivan mevnousan pavnth/ ajmetavblhton kai; ajei; wJsauvtw" e[cousan potev me;n teleivwn kai; ajgaqoeidw`n ejnergeiw`n eij`nai ajpodotikhvn, pote; de; ajtelw`n kai; diestrammevnwn. AiJ ga;r oujsivai tw`n ejnergeiw`n aijtivai, kai; oJpoi`ai a]n wj`sin aiJ ejnevrgeiai toiou`ton hJmi`n kai; th`" dunavmew" kai; th`" oujsiva" to; eij`do" sullogivzesqai parevcontai. Cfr. n. 9.
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immutabile produca tanto atti perversi quanto atti buoni, come possiamo spiegare le diverse attività dell’anima? Si può presumere che vi sia in noi una duplice sostanza (ditth; oujsiva) e perciò anche due specie di facoltà e attività, quelle che sono sempre perfette, e quelle che sono successivamente imperfette e perfette. Questa soluzione cerca di spiegare la tensione esistente nella nostra vita psichica attraverso un’anima duplice. L’uomo dunque avrebbe un’anima superiore, che è immutata e sempre perfetta, e un’anima inferiore, che cambia, e con cui si può spiegare il passaggio dall’imperfezione alla perfezione. In effetti, tale spiegazione sposta semplicemente il problema, poiché sorge immediatamente la domanda su quale relazione queste due sostanze abbiano tra loro. 1. Se le due sostanze sono separate l’una dall’altra (diespasmevna"), allora viene spezzata l’unità dell’essere vivente, in quanto essa poggia sull’unità dell’anima. In questo caso, sarebbe composta di una molteplicità di zw`/a15. Inoltre, l’anima superiore sarebbe interamente separata, non avrebbe più controllo sulla vita umana, e non avrebbe, di fatto, niente da fare con essa. Il fatto che la vita umana sia caratterizzata dall’essere perfetta e imperfetta di volta in volta, si può imputare solo alla seconda anima. L’ipotesi di un’anima che non muti è pertanto completamente superflua. 2. Si potrebbe, forse, sostenere che questo non si riferisce a due «sostanze» in senso proprio, ma piuttosto a due «vite» o «princìpi» (lovgoi) o «relazioni» all’interno dell’anima stessa. Certamente, in questo modo, viene garantita l’unità dell’essere vivente, cosicché l’«Io» umano non è 15
Metaphr., 32, 1-5. Cfr. In de an., 76, 17-19.
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come un coro o certe altre molteplicità, poiché queste «vite» – o logoi o relazioni – si combinano per formare un singolo principio16. Ma allora ci troviamo nuovamente di fronte alla questione originaria, cioè dobbiamo di nuovo ricercare se quest’unico principio, benché consista di due «vite», sia o meno uniforme, interamente puro e immutabile17. Nel primo caso, non è di nuovo assolutamente possibile nell’anima la presenza di «imperfezione, o male, o passione – né nella sua sostanza, né nei suoi atti, poiché gli atti seguono la sostanza». D’altra parte, non possiamo neanche considerare l’anima come completamente mutevole, poiché, attraverso tutti i cambiamenti, la sua vita perdura18. Di conseguenza, Giamblico respinge entrambe le alternative: l’anima non è immutabile, né cambia interamente. Il discorso precedente permette una sola conclusione: «secondo Giamblico, l’anima particolare abbraccia entrambe le caratteristiche ugualmente, sia permanenza sia cambiamento, cosicché, in questo modo, anche la sua posizione intermedia viene nuovamente preservata; gli esseri superiori sono stabili, quelli mortali completamente mutevoli. L’anima particolare, invece, essendo al centro, è divisa e moltiplicata insieme agli esseri mondani, e non solo rima16 p. 32, 5-7: eij de; scevsei" levgwn ditta;" h] lovgou" h] zwa;", th;n e{nwsin toi`n duoi`n mh; ajnairoivh ... sunevrchtai de; eij" e}n pavnta kai; pro;" mivan sum-fuvhtai ajrchvn. 17 p. 32, 8: povteron monoeidev" ejsti kai; ajkhvraton pavnth/ kai; ajmetavblhton. Il termine monoeidhv" è usato da Platone nel Fedone per caratte-
rizzare l’essere ideale che, avendo un’unica forma, è sempre costante e perpetuo, mentre le cose mortali sono mutevoli e di molte forme (80 B). L’anima, anche se è molto simile all’essere ideale, si allontana da esso, adottando abiti corporei (83 D E). Non può essere chiamata monoeidhv", dice Prisciano (p. 30, 4; 31, 14). 18 p. 32, 12: diamevnei ga;r hJ zwh; ejn tai`" metabolai`".
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ne permanente, ma cambia anche, poiché vive attraverso tante vite divisibili. E non cambia solo nei suoi abiti, ma, in qualche modo, cambia anche nella sua sostanza»19. Prisciano aveva anticipato questa conclusione: «così l’anima in qualche modo diviene, poiché non è né uniforme (monoeidhv") come gli esseri intellettuali, né puramente permanente; sebbene rimanga se stessa, il cambiamento è inerente alla sua natura (e[mfuton)»20. La stessa opinione, come suppone Prisciano, era stata già sostenuta da Teofrasto, il quale affermava «e[oiken ma`llon e{xew"», cioè che il processo di conoscenza sembra piuttosto un cambiamento e una perfezione dell’abito dell’anima. Aggiungendo l’avverbio limitativo «piuttosto» alla frase, Teofrasto indicava che esso, in realtà, è una perfezione della sostanza stessa, e non dell’abito. Pertanto, osserva Prisciano, egli aggiungeva: «au{th de; oiJ`on teleou`n th;n fuvsin...», cioè l’anima stessa perfeziona la sua natura, il che implica che la sua natura prima non fosse perfetta. Ecco un drastico esempio della maniera in cui il nostro commentatore interpreta un testo di Teofrasto presentando in realtà l’opinione di Giamblico. C. Che l’anima umana, secondo Giamblico, subisca un
19 p. 32, 13-19: “Amfw a[ra kata; to;n ΔI avmblicon hJ merikh; yuch; ejx i[sou suneivlhfe, kai; to; movnimon kai; to; metaballovmenon, i{na kai; tauvth/ hJ me-sovth" swvzhtai: ta; me;n ga;r kreivttw movnima movnw", ta; de; qnhta; pavnth/ me-tablhtav. ÔH de; merikh; yuchv, wJ" mevsh pa`si toi`" perikosmivoi" gevnesi sum-merizomevnh te kai; sumplhqunomevnh, ouj movnon mevnei, ajlla; kai; metabavl-lei tosauvta" diazw`sa merista;" zwav". Kai; ouj kata; ta;" e{xei" movna", ajl-la; kai; kata; th;n oujsivan metabavlletaiv ph/. Le meristai; zwaiv sono le vite prodotte dall’anima quando discende nel corpo: cfr. in-
fra, p. 95. 20 Cfr. pp. 31, 13-16 e 30, 4-8: né l’attività dell’anima, né la sua essen-
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cambiamento sostanziale, è confermato inoltre da un altro passo di In de anima (p. 240, 33 ss.). Mentre il nous, di cui partecipa l’anima umana, è sempre impegnato nell’intellezione, non è così per l’anima umana. Persino la sua «parte» più alta non è sempre in atto, poiché essa a volte pensa, a volte no21. Ora, se la sostanza principale dell’anima fosse totalmente identica e immutabile, la sua attività – che non rimane mai la stessa, ma varia sempre – non sarebbe come la sostanza da cui procede (hJ ejnevrgeia oujc hJ aujth; mevnousa oujk a]n ei[h o{per hJ oujsiva). Questo è, però, impossibile, poiché le attività manifestano la sostanza da cui sono prodotte. Supponendo che non vi siano differenze all’interno della sostanza (ajparavllakto"), allora anche la sua attività sarebbe sempre la stessa e immutabile. Ovviamente non è così. Una volta l’anima umana produrrà forme inferiori di vita, a cui si trova ad essere allacciata, e, altre volte, si libererà da esse e riprenderà la sua pura essenza. Tali divergenti attività si possono spiegare soltanto accettando che anche la sostanza cambia. «È pertanto ragionevole, anzi necessario, che non solo l’attività, ma anche la sostanza dell’anima, e persino la sostanza più alta, sia in qualche modo differenziata in se stessa e distesa»22. Dobbiamo dunque convenire con Giamblico, dice Prisciano, che anche la sostanza superiore dell’anima non rimane puramente se stessa, ma cambia quando si immerge nel corpo. In questo modo, inoltre, l’anima appare come il medio, non solo tra divisibile e indivisibile, ma anza sono semplici e uniformi, poiché l’anima, allo stesso tempo, cambia ed è permanente. 21 Prisciano si riferisce a De an., III, 5, 430 a 21: ajllΔ o{te me;n noei`, o{te dΔ ouj noei`. Si noti che Prisciano omette oujc dopo ajllΔ, che la maggior parte dei manoscritti riporta. 22 p. 241, 7-9: eu[logon a[ra ma`llon de; ajnagkai`on ouj th;n ejnevrgeian
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che tra gli esseri soggetti al divenire e quelli che non lo sono23. Una formula molto sorprendente, che esprime questo cambiamento sostanziale dell’anima, si trova in un altro testo ispirato a Giamblico: «Nella sua proiezione verso l’esteriore, l’anima si muove in qualche modo via da se stessa, e non rimane interamente in se stessa, né è puramente ciò che è, dal momento che, fino a un certo punto, è spezzata anche nella sua sostanza (paraqrauovmenov" pw" kai; katΔ oujsivan)»24. Ciò non significa che l’anima sia interamente distrutta in questo processo. Il fatto che l’anima esca da se stessa non le impedisce di rimanere in qualche modo in sé. Dobbiamo intendere lo «spezzarsi» della sua sostanza in un modo che sia appropriato alla sua posizione intermedia tra l’indivisibile e il divisibile. Vi sono buoni motivi per supporre che, in tutti questi testi, Prisciano esponga l’opinione di Giamblico sull’anima, piuttosto che la propria concezione. In effetti, Prisciano stesso sembra aver avuto difficoltà nell’accettare una tale teoria, come si può dedurre dalle considerazioni che egli dedica all’apatheia dell’anima a p. 19, 16-27. Se l’anima è già impassibile di per sé, come dice Aristotele, perché allora ha bisogno di «educazione» per bandire le passioni da se stessa?25 E in che cosa l’anima che è uscita da sé dif-
movnhn, ajlla; kai; th;n oujsivan th`" yuch`" kai; aujth;n th;n ajkrotavthn, th`" hJ-metevra" fhmiv, diaforei`sqaiv pw" kai; cala`sqai. 23 p. 240, 35-38: eij de; kai; aujth; hJ a[kra aujth`" oujsiva ouj mevnei ejn th`/ pro;" ta; deuvtera rJoph/` eijlikrinhv", i{na kai; tauvth/ h/`j mevsh, wJ" kai; tw`/ ΔI amblivcw/ ejn th/` ijdiva/ Peri; yuch`" pragmateiva/ dokei`. 24 p. 220, 2-15. L’uso del termine paraqrauvw richiama il mito del Fedro,
a proposito del quale abbiamo detto che le «ali» dell’anima sono «spezzate» nella sua discesa: qrauvontai (248 B), cfr. HERMEIAS, In Phaedr., 160, 12.
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ferisce dall’anima che rimane interamente in se stessa, se anche la prima è impassibile? Naturalmente, non può trattarsi di un qualche pathos corporeo nell’anima, argomenta Prisciano, ma di una certa «degradazione e perversione» (uJpovbasi" kai; diastrofhv) nelle attività dell’anima, che può anche essere chiamata pathos. Tale pathos non si verifica come qualcosa di passivo in virtù dell’influenza dell’esterno – poiché questo è proprio solo del corporeo – ma perché l’anima, fino a un certo punto, discende nella sua attività e usa il suo corpo «in modo perverso» (diestrammevnw"). Educazione vuol dire, quindi, una guarigione delle attività. L’attività che era stata diretta verso l’esterno deve essere riportata, attraverso la contemplazione intellettuale, nell’essenza dell’anima. Secondo questo testo, Prisciano sembra accettare un cambiamento nell’anima solo a livello dei suoi atti. È così con una certa esitazione che egli cita l’opinione di Giamblico a p. 89, 33: «Se, però, come pensa Giamblico, da una sostanza che è essa stessa impassibile (ajpaqhv") e perfetta, non può mai derivare un atto perverso e imperfetto, l’anima sarebbe, anche nella sua sostanza, in qualche modo soggetta alle passioni». In effetti, Giamblico affermava che la diastrofhv tocca anche la sostanza dell’anima. Possiamo pertanto giustamente presumere che Prisciano riproduca il punto di vista di Giamblico in tutti quei passi del suo commento in cui si tratta del cambiamento sostanziale dell’anima. D. In tutti questi testi, si riscontra un’argomentazione analoga: la natura della sostanza viene sempre inferita a partire dalle attività. In definitiva, questa linea di ragionaLo stesso tipico termine è impiegato a p. 238, 15 ss., ancora un passo che riflette la dottrina di Giamblico.
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mento risale ad Aristotele. Siamo capaci di conoscere la natura e l’essenza dell’anima, asseriva Aristotele, principalmente attraverso le varie manifestazioni della vita, di cui l’anima è l’origine. Partiamo dai dati direttamente accessibili a noi dall’esperienza e arriviamo, con un processo di ragionamento, all’ambito ontologico, che è relativamente oscuro26. Così, dobbiamo vedere come si realizzano la percezione sensoriale e il processo del pensiero, se vogliamo capire cosa siano in se stesse le facoltà sensitiva e intellettuale, «poiché le attività sono logicamente anteriori rispetto alle facoltà»27. Partendo dall’osservazione delle attività, possiamo dedurre la natura delle facoltà dell’anima. Lo stesso principio metodologico è applicato da Aristotele nel rispondere alla difficile questione se l’anima, come entelechia del corpo, esista separata dal corpo stesso (cwristhv). Se una qualunque attività sembra essere esclusivamente propria dell’anima, senza che sia necessario il corpo, allora si può giustamente concludere che l’anima può esistere separatamente in se stessa. Invece, se tutte le sue attività sono sempre legate al corpo, allora si può concludere che l’essenza dell’anima non può mai esistere libera dal corpo: oujk a]n ei[h cwristhv28. Questo principio viene ulteriormente elaborato da Giamblico, come appare da un passo tratto dall’In Alcibiadem di Proclo. Qui si osserva che non è semplice percepire l’essenza dell’anima. Invece, è più facile vedere e p. 19, 16-17: ajllΔ eij kaq`Δ auJth;n ajpaqh;" hJ ... yuchv (cfr. ARIST., De an., 403 a 16), pw`" aujth; paideuomevnh ajnastevllei ta; pavqh… Cfr. PLOTINUS, Enn., III, 6, 5, 1. 26 Cfr. De an., II, 2, 413 a 11-13. 27 Cfr. II, 4, 415 a 18-20 e I, 1, 402 b 11 ss. 28 Cfr. De an., I, 1, 403 a 10 e II, 2, 413 a 4, b 28. Questo argomento è stato sviluppato in una vera e propria prova dai Neoplatonici: cfr. PROCLUS, 25
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spiegare le sue facoltà, poiché le facoltà sono «madri» dirette delle attività, e da queste ultime possiamo dedurre come l’essenza sia in sé. «La facoltà costituisce il medio tra sostanza e attività; prodotta dalla sostanza, essa genera l’attività»29. Infatti, è attraverso le attività che la natura della sostanza diviene visibile e conoscibile per noi, anche se la sostanza è ontologicamente precedente30. La relazione che esiste nella triade sostanza-facoltà-attività è stata spesso esposta da Giamblico e da lui applicata a diversi livelli di realtà31. Nei testi tratti da Prisciano, prima analizzati, possiamo constatare che Giamblico portò il principio «come gli atti, così la sostanza» alle estreme conseguenze, fino al punto di spingerlo a conclusioni piuttosto sorprendenti. In generale, si deduceva dagli atti spirituali dell’anima che la sua
El. theol., prop. 16 e 44, De prov., 15, 2-6, PHILOPONUS, In de an., 16, 2 ss. e 46,10-48 e anche PRISCIANUS, Solutiones, 45-46, il quale testo probabilmente fornisce la dottrina di Giamblico (cfr. supra, p. 17). 29 In Alc., 84, 9-11: mevsh ga;r hJ duvnamiv" ejsti th`" te oujsiva" kai; th`" ej-nergeiva", proballomevnh me;n ajpo; th`" oujsiva", ajpogennw`sa de; th;n ejnevr-geian. E anche p. 84, 15-17: ta;" ejnergeiva" sundei` pro;" ta;" oujsiva" (hJ duv-nami"): hJ me;n ga;r ejnevrgeia gevnnhma th`" dunavmewv" ejsti, hJ de; oujsiva proav-gei ta;" dunavmei" ajfΔ eJauth`". 30 Cfr. De mysteriis, I, 4, 13, 9-16 e 11, 8-16. 31 Giamblico fa uso di questo schema triadico nel compendio dossografico del suo De anima: prima viene esaminata la oujsiva dell’anima (STOB., Ecl., I, 362, 24-367, 9), poi le sue dunavmei" (I, 367, 10-370, 13) e infine le sue ejnevrgeiai e i suoi e[rga (I, 370, 14-375, 28). La stessa divisione triadica è impiegata nel De mysteriis per distinguere le «classi superiori» dalle altre (cfr. 11, 8-16): questi esseri superiori differiscono nelle loro sostanze (67, 11), facoltà (67, 15) e attività (68, 3). Presumibilmente, Giuliano, nel suo panegirico di Elio, segue l’esempio di Giamblico quando si occupa successivamente della sostanza, delle facoltà e delle attività del dio (132 B; 142 B-C; 143 A). Ermia applica la stessa divisione nella sua palinodia dal Fedro (In Phaedr., 129, 18-20) e Proclo nella sua interpretazione della psi-
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sostanza trascendeva il corpo ed era quindi indivisibile, immutabile e incorruttibile. Ma perché questo modo di ragionare non potrebbe applicarsi anche agli altri atti dell’anima? Se l’anima manifesta nelle sue attività temporalità, cambiamento, divisione e corruzione, ciò non implica forse che anche la sua sostanza debba essere temporale, mutevole, divisibile e corruttibile? Sembra difficile accettare questa conclusione. Infatti, se anche la sostanza dell’anima è soggetta a cambiamento, cosa garantirà la sua identità e permanenza durante il cambiamento, e in cosa l’anima sarà diversa dalle cose completamente periture? A causa di questa difficoltà, come vedremo in Proclo, la posizione tradizionale manteneva che cambiamento e temporalità riguardano solo le attività dell’anima, mentre la sua sostanza rimane sempre la stessa. Tuttavia, Giamblico ritiene che, se si dà il giusto rilievo al carattere intermedio dell’anima, si deve accettare che essa cambia anche nella sua sostanza. Chi considera la sostanza dell’anima qualcosa di immutabile, cade inconsapevolmente nella posizione di Plotino, per cui «qualcosa», «la parte più elevata» dell’anima, rimane sempre pura e imperturbabile. Secondo Giamblico, temporalità e cambiamento non sono accidentali all’anima, ma interessano la sua propria sostanza. Tuttavia, pur sottostando a questo cambiamento sostanziale, l’anima preserva ancora la sua identità, o, come dice Giamblico, «l’anima simultaneamente cambia e permane». Le implicazioni di questa paradossale affermazione saranno chiarite nella sezione seguente.
2. Permanere se stessi durante il cambiamento Quando Prisciano, con Giamblico, parla di un cambiamento katΔ oujsivan dell’anima, si riferisce sempre all’ani94
ma umana e al suo stato incarnato. È proprio a causa della sua discesa nel corpo che essa è, per così dire, «scossa» e «spezzata» nella sua sostanza. L’anima umana non rimane indisturbata in se stessa, come sono invece le anime divine, che governano i loro corpi senza mescolarsi a essi; non appartiene più completamente a se stessa, ma è rivolta al corpo e diventa del-corpo. Essa perde così, in un certo senso, il suo equilibrio; «si piega» e «inclina» verso il corpo che rende animato. Con questa «inclinazione», viene tirata giù32. Non che l’anima umana sia direttamente mescolata al corpo. Quando piega in basso, genera da se stessa «vite inferiori», che sono necessarie per organizzare e animare il corpo, cioè la vita sensitiva e quella vegetativa: probavlletai deutevra" zwav". Con l’acquisizione di queste forme irrazionali di vita, l’anima perde la sua pura trascendenza. Diviene allacciata e mescolata a tali vite inferiori e anche, attraverso esse, al corpo33. Tuttavia, se cogonia del Timeo (In Tim., II, 125, 10 ss.). Importante per la successiva speculazione metafisica è il fatto che Giamblico interpreti la triade Caldaica Padre, Potere e Intelletto, come una relazione tra sostanza, facoltà e atto: cfr. DAMASCIUS, De princ., III, p. 147, 24-148, 19. 32 In de an., 94, 9-11: o{ti mh; eJauth`" ouj`sa zwoi` kai; kinei` to; sw`ma ... ajlla; rJoph`/ kai; neuvsei th`/ pro;" aujtov. Cfr. De myst., I, 7, 21, 5-7: e[cei fuvsin ejpineuvein e 21, 16: rJoph`/ kai; scevsei kai; neuvsei kratei`tai. Il termine rJophv indica principalmente la discesa di un braccio di una bilancia, e neu`si", un’inclinazione verso o dal centro. Entrambi i termini (e i verbi corrispondenti) sono spesso usati da Prisciano per indicare il declinare dell’anima verso il corpo. Egli probabilmente segue Giamblico: cfr. SIMPL., In cat., 128, 33 ss.; 261, 12 e 354, 1; STOB., Ecl., I, 382, 6-7; II, 174, 25 e PROCLUS, In Tim., I, 152, 32; De myst., 21, 5-7. 16; 64, 7. Cfr. anche PLOTINUS, Enn., I, 1, 12, 24 e PORPH., Sent., p. 2, 2. 8; 17, 5; 21, 1; 45, 1-5. L’impiego di questi termini sembra suggerire che la tendenza dell’anima verso il basso sia inerente alla sua natura. Eppure, l’anima è colpevole quando acconsente a tale inclinazione. 33 p. 242, 4-6: o{te toivnun eij" th;n fuvsin rJevyasa hJ hJmetevra yuch; probavlletai ejn eJauth`/ deutevra" zwa;" kai; ajfΔ eJauth`", ouj meivnasa e[ti ajk-
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ascende nuovamente e si libera dal corpo, allora elimina tutte queste vite inferiori e ritorna alla sua propria essenza, purificata da tutte le aggiunte. Tutte queste «vite» non possono essere considerate come tante differenti facoltà o manifestazioni dell’una e medesima sostanza. Poiché, osserva Prisciano, se si parte dal presupposto che soggiace a tutti questi vari atti una sostanza uniforme, è difficile spiegare la varietà delle funzioni vitali34. Di conseguenza, dobbiamo presumere che l’anima umana non solo disponga di una molteplicità di facoltà (poluduvnamo"), ma sia già molteplice nella sua sostanza (poluouvsio")35. Con ciò, si getta una nuova luce sul testo di Giamblico prima citato. A causa della sua posiraifnh;" oi{a per hj`n. Questo è, nuovamente, uno dei presupposti fondamentali sull’anima in questo commentario. Prisciano si riferisce spesso a tale dottrina, ma non la spiega mai (cfr. pp. 4, 2; 77, 19; 95, 1; 218, 33-40; 219, 12. 32; 240, 9; 242, 23; 246, 37; 247, 12; 260, 38; 280, 1; 298, 28). Sembra che egli adotti la dottrina basilare da Giamblico (cfr. pp. 241, 2 e 313, 21), ciò che sembra essere confermato dai testi seguenti: STOB., Ecl., II, 174, 21-27 (zwa;" a[lla" probavllei rJepou`sa" eij" th;n gevnesin kai; ejpikoinwnei` tw`/ swvmati); De myst., 68, 11-69, 2; STOB., Ecl., I, 369, 18-370, 13 (dal De an.) e SIMPLICIUS, In cat., 374, 7-376, 16 (probavllei tina;" zwa;" peri; eJauthvn, 374, 32). 34 Questo problema è esplicitamente esaminato a pp. 76, 14-77, 13, un excursus in cui è probabilmente importante l’influenza di Giamblico. Prisciano in primo luogo esamina se l’anima sia, nella sua sostanza, semplice o molteplice, e difende quest’ultima posizione con un argomento che è tipico di Giamblico: se la sostanza fosse semplice, anche le sue attività sarebbero semplici, ciò che non è. Secondo l’interpretazione di Prisciano, una molteplicità di sostanze nell’anima era accettata anche da Aristotele: cfr. pp. 286, 34-287, 4. 35 p. 286, 37: wJ" poluduvnamo", ou{tw kai; poluouvsio" (cfr. p. 287, 3). Il termine poluouvsio" non è attestato altrove con questo particolare significato, anche se è avvicinato per il suo uso a HIPPOLYTUS, Adv. haer., 7, 21 (p. 197, 16 – WENDLAND): spevrma tou` kovsmou poluvmorfon o{mou kai; poluouvsion. La dottrina secondo la quale l’anima consiste di differenti ousiai compare anche nel commentario di Filopono (in particolare a pp. 192-199). Per
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zione intermedia, l’anima non può rimanere puramente se stessa, ma essa cambia «vivendo attraverso tante vite divise». Apparentemente, Giamblico intende le vite inferiori che l’anima produce nella sua discesa nel corpo, moltiplicando, per così dire, e dividendo la sua propria sostanza36. Plotino stesso pensava che l’anima immateriale non potesse mai essere direttamente legata al corpo, poiché la distanza tra l’una e l’altro è troppo grande. Perciò, l’anima emana una specie di luce, da cui il corpo viene animato. Il corpo diventa un corpo vivente «avendo acquisito, nella prossimità dell’anima, un’impronta di essa (i[cno"), non una sua parte, ma una specie di calore o irradiazione che gli arriva»37. Una risposta simile era stata formulata da Porfirio: in quanto essenza incorporea, l’anima non può mai mescolarsi al corpo o essere rinchiusa in esso. Di conseguenza, l’anima non arriva al corpo con la sua sostanza (th`/ oujsiva)/ , ma, nella sua inclinazione verso il basso, produce da sé «poteri» (dunavmei") inferiori, con cui può entrare in contatto con il corpo38. Sia Plotino che Porfirio evi-
poter preservare l’unità dell’anima, Filopono adotta la spiegazione ilemorfica sviluppata da Proclo (cfr. supra, p. 24, n. 60). Prisciano spiega l’unità dell’anima partendo dal fatto che essa si sviluppa insieme alle sostanze secondarie, una spiegazione che probabilmente derivava da Giamblico. 36 p. 223, 28-29: miva ga;r ouj`sa hJ yuch; hJ hJmetevra ... a{ma te mevnei miva kai; plhquvnetai ejn th`/ pro;" sw`ma rJoph`/ (cfr. p. 282, 37); p. 14, 7-8: kata; ajlhvqeian kai; th/` oujsiva/ miva kai; pollh; hJ yuchv. Cfr. il testo di Giamblico citato in n. 19. Si noti che spesso Giamblico parla di «vite» e «sostanze» dell’anima al plurale: cfr. STOB., Ecl., I, 381, 6 (pleivona" eij`nai ta;" dunav-mei" kai; ta;" oujsiva" th`" yuch`") e 370, 8; 371, 20; De com. math. sc., 13, 11 e 43, 9 (to; tw`n oujsiw`n aujth`" plh`qo"); De myst., 19, 4. Come fonte di vita, l’anima sgorga, in un certo senso, in una molteplicità di vite e sostanze: uJperbluvzein zwav" te kai; oujsiva" (In de an., 246, 37; cfr. 247, 13).
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denziano che l’essenza propria dell’anima non viene toccata dal legame con il corpo. L’anima è fondata stabilmente in sé e appartiene completamente a se stessa. Non abbandona mai la sua unità per poter entrare in contatto con il corpo esteriore, ma lascia che una «irradiazione» o un «potere» inferiore discendano nel corpo stesso39. Su questo punto, la differenza rispetto a Giamblico è chiara. Anche se Giamblico concorda nel ritenere che l’anima razionale non possa mescolarsi direttamente con il corpo, egli tuttavia sostiene che essa non rimane immutabile quando produce le vite inferiori. Producendo le vite irrazionali, l’anima stessa si emana; è essa stessa, non solo un suo «potere» o una sua «irradiazione», a uscire dalla sua propria essenza. Con questa «pro-iezione» (probolhv) dell’anima verso l’esterno, la sua originaria unità viene attenuata e frantumata. L’anima non coincide più perfettamente con se stessa e non è neanche più unita in atto agli oggetti della conoscenza, che sono appropriati alla sua essenza. Poiché è caduta nel divenire e nella divisione, può solo riacquistare la sua conoscenza con un «processo» graduale. Per il fatto di essere intrecciata alle vite irrazionali, il suo intelletto diventa dipendente dal corpo e saturato da dati sensibili. Tale stato di esteriorizzazione, però, non è mai completo o definitivo, poiché l’anima può separarsi dalle vite irrazionali, ritornare in se stessa e riassemblarsi in un’unità indivisa. Solo allora troverà di nuovo la sua pura natura essenziale, libera da ogni aggiunta:
Cfr. Enn., I, 1, 7-8; VI, 4, 15-16. Cfr. Sent., IV, p. 2, 5-9 e XXVIII, p. 17, 4: dei` uJposth`sai dunavmei" rJepouvsa" ajpo; th`" pro;" auJto; eJnwvsew" eij" to; e[xw, aiJ`" dh; katio;n sumplevketai tw`/ swvmati. Preferiamo leggere auJtov con Mommert (cfr. FICINUS: «ab ipsa in se ipsum unione») e non aujtov, come fa Lamberz. 37 38
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«quando è separata, soltanto allora è davvero se stessa»40. Solo allora è diretta interamente verso se stessa, e contempla senza interruzione gli oggetti ideali. «Processione» e «ritorno» sono i due poli tra i quali la vita dell’anima umana si muove incessantemente – ora più vicino a uno, ora più vicino all’altro – senza occupare mai pienamente una delle due posizioni estreme. In caso contrario, la tensione cesserebbe immediatamente. L’anima dunque non esce mai totalmente fuori di sé, né viene interamente divisa o modificata, neanche quando vive puramente nei sensi, poiché in tal caso risulterebbe del tutto identica a ciò che diviene ed è diviso. Ma d’altra parte non è mai totalmente indivisa, né rimane immutata in se stessa, neanche nei momenti di pura intellezione, poiché allora non vi sarebbe differenza tra essa e gli esseri intellettuali che la trascendono. L’anima è certamente indivisa, ma in un modo appropriato alla sua posizione intermedia; in altri termini, essa è anche, simultaneamente, divisa. In modo simile, è divisa, ma, allo stesso tempo, indivisa. Può dirsi lo stesso delle altre caratteristiche contrastanti che specificano la sua essenza: non vi è mai una senza che sia implicata allo stesso tempo quella contraria. L’anima non evita le contraddizioni che definiscono la sua essenza ed è una coincidentia oppositorum41. Pertanto, ogni opinione che non tiene nella giusta considerazione tale tensione interna all’anima deve essere respinta. Sicuramente, non si può accettare l’opinione di Plotino, per cui l’anima umana, anche quando è nel corpo, rimane
L’opinione di Plotino è ben descritta da Proclo nel suo commento a Enn., I, 1: oJ ga;r ajnh;r ouJ`to" oujk aujth;n ajmevsw" th;n noera;n yuch;n tw`/ swv-mati mivgnusin, ajllΔ ejkeivnhn me;n eJauth`" eij`nai tivqetai, ka]n ejn swv39
mati gevnhtai, th;n de; ejx aujth`" proi>ou`san e[llamyin, h{n kai; i[ndalma yu-
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puramente in se stessa, immutabile e sempre identica42. Se l’anima rimane immutata, come può procedere fuori di sé per animare il corpo? Il fatto che essa produce vite inferiori implica che non rimane puramente in se stessa, che l’unità indivisibile della sua essenza è diventata «rilassata» (kecalasmevnh) e frantumata, così da rendere possibile la «proiezione» verso l’esterno. Anche quando l’anima umana è pienamente diretta verso di sé nel pensiero intuitivo, non è perfettamente identica a se stessa e all’oggetto conosciuto, come è invece l’Intelletto, perché essa porta sempre in sé la possibilità di uscire fuori di sé. «Ciò che a volte pensa e a volte non pensa, ha sempre, quando pensa, la possibilità di non pensare»43. Questa possibilità non si può spiegare se si ammette che l’anima, nella sua essenza, non sia soggetta al cambiamento. Il suo rimanere-in-sé è così sempre un uscire-fuori-di sé e, pertanto, la sua indivisibilità è divisa, il suo essere è un divenire, e anche la sua immortalità è colpita dalla mortalità44. Ma, analogamente, non possiamo affermare che l’anima umana scenda nel divenire in modo tale da uscire completamente fuori di sé, cosicché niente più in essa sia stabile. In tal caso, essa apparterrebbe alla realtà totalmente
ch`" oj-nomavzei, tw`/ swvmati sugkeravnnusqai. Cfr. L.G. WESTERINK, Exzerpte aus Proklos, «Byzantinische Zeitschrift», 52 (1959), p. 7. 40 De an., III, 5, 430 a 22: cwrisqei;" dev ejstin movnon tou`q`Δ o{per ejstiv. Questa frase ritorna come un Leitmotiv nel commentario: cfr. per es. pp. 77, 10; 90, 14; 238, 18; 241, 5; 243, 11; 258, 37. 41 Cfr. p. 6, 4-5: ouj mh;n wJ" pavnth/ tw`n ajntikeimevnwn ajfistamevnhn e 90, 21: oujdevteron e[cei pantelw``" oujde; ajphllagmevnon tou` loipou`. 42 p. 6, 12-13: ou[te mevneivn ti aujth`" qhsovmeqa kata; to;n Plwti`non ajei; wJsauvtw" kai; kaqarw`" e p. 220, 12-13: wJ" mhvte mevnein ajei; wJsauvtw" wJ" tw`/ Plwtivnw/ dokei`. Cfr. anche pp. 223, 29; 244, 29; 90, 3 (senza menzionare Plotino).
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transitoria che trapassa nel non-essere. L’anima umana cambia, comunque, senza mai perdere la sua identità (il suo «permanere»)45. Il suo divenire continua sempre a essere legato al suo essere, cosicché essa non fluisce mai completamente. Dentro di sé, l’anima trova il principio che causa incessantemente il suo esistere, e che, per così dire, ricarica tutto ciò che perde nel divenire, facendo sempre fluire nuovo essere46. Anche quando l’anima, nella sua attività, sembra andare interamente fuori di sé e sembra essere solo in relazione al sensibile, di fatto rimane ancora in qualche modo in se stessa e relazionata a se stessa47. Pertanto, essa può ancora, mentre inclina verso l’esteriore, sentire da dentro il richiamo a ritornare a sé48. In qualunque situazione sia caduta, può sempre portare se stessa alla perfezione, il che prova che essa non fluisce completamente nel divenire, ma rimane anche sempre ciò che è. Infatti, ciò che perde interamente se stesso, non può mai ritornare a sé. Così, Plotino era certamente nel giusto nel dire che, nell’anima umana, deve esserci un elemento stabile, poiché altrimenti essa scorrerebbe via nel non-essere. Tuttavia, da ciò egli concludeva erroneamente che vi 43 p. 245, 16-20. Questo passo riassume l’argomentazione sviluppata a p. 89. Prisciano ritorna alla stessa questione a pp. 262, 32-263, 25. 44 p. 90, 1-4: oujde; to; ajgevnhton eijlikrine;" e[cousa, oiJ`on to; noerovn, ej-
peidh; oujde; to; ajmevriston h] to; movnimon ..., ajllav ... oiJ`on ejxivstasqaiv pw" eJautou` pote th`/ pro;" th;n gevnesin koinwniva/. 90, 22-24: kai; to; ajqavnaton aujth`" tovte ajnapivmplatai tou` qnhtou` kata; pa`n eJautov, kai; ouj mevnei mov-non ajqavnaton, kai; to; ajgevnhton ginovmenovn pw" tugcavnei o[n, wJ" kai; to; aj-mevriston aujth`" merizovmenon. 45 p. 220, 13-14: mhvte mh;n ou{tw" e[ndoqen proi>evnai wJ" pantelw`" eJauth`" ejxivstasqai; 219, 36-37 oujc ou{tw" ... eij" to; e[xw proveisin wJ" mh; kai; mevnein ejn eJauth`/. Cfr. p. 6, 13 e 223, 30. 46 p. 90, 2-8: oujde; to; genhto;n toi`" ejscavtoi" o{moion, toi`" o{lw" pote; mh; ouj`sin ... to; de; (genhto;n) oujdevpote tou` ajgenhvtou ajpoleipovmenon, ajllΔ
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deve essere nell’anima umana una «parte» o «principio» che sia totalmente immutabile e sempre identico. In questo modo egli non poteva spiegare come l’anima potesse sempre uscire da sé, dato che un’anima immutabile rimane sempre in se stessa. Se si considera seriamente l’essenza dell’anima come «media», devono essere tenuti insieme entrambi gli elementi, senza enfatizzare l’uno a spese dell’altro. L’anima rimane in sé e simultaneamente procede da sé. Non si tratta di immaginare che una parte superiore rimanga, mentre una parte inferiore proceda nel divenire. L’anima come intera rimane in sé ed è identica a sé, e come intera procede fuori di sé e cambia. Inoltre, l’anima non fa una cosa o l’altra alternativamente – ora rimane e ora procede – ma le due cose si realizzano nello stesso tempo: a{ma o{lh mevnei kai; proveisi. Questa è l’idea centrale della visione dell’anima di Giamblico, quale ripetutamente si trova in Prisciano49. L’anima continuamente va fuori di sé nel divenire e nel cambiamento e tuttavia preserva la sua identità attraverso tale cambiamento. «La divisione dell’anima è infatti sempre accompagnata all’unione dentro uno stato indivisibile, la sua processione fuori di sé al ritorno in sé, il suo distacco da sé allo stare in sé»50. In quanto l’anima ajei; aujtw`/ sunhrthmevnon kai; e[ndoqen e[con to; diamevnein kai; oiJ`on ejpirrevon kai; ajnaplhrwmatiko;n tou` ajpoginomevnou ... to; genhto;n aujth`" kai; proi>o;n ouj-devpote a[neu tou` monivmou kai; ajgenhvtou. 47 Cfr. l’analisi di Giamblico della percezione sensoriale, che mostra che l’anima, nella percezione dell’oggetto, ritorna a se stessa: cfr. supra, p. 19. 48 p. 90, 18-19: dhloi` de; kai; hJ e[ndoqen ... ejpi; to; krei`tton ajnavklhsi". Un parallelo si trova in PORPH., Ad Marc., X: ajnavklhsi" ajpo; tw``n aijsqhtw`n ejpi; ta; nohtav. Cfr. MARCUS AURELIUS, 6, 31: ajnakalou` seautovn. 49 Cfr. p. 6, 14: o{lh proveisi kai; mevnei 90, 4-5: to; sunamfovteron oJmou` mevnein te o{per ejsti; kai; givnesqai – 90, 20-21: oJmou` o{lh kai; mevnei kai; prov-eisi – 95, 1: o{lh" a{ma ejn th`/ probolh/` th`" genesiourgou` zwh`" kai;
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procede fuori di sé (kata; th;n provodon), sembra assomigliare al mondo interamente divisibile, in cui nulla mantiene la propria forma, ma tutto cambia continuamente. Invece, in quanto l’anima rimane se stessa (kata; to; movnimon eJauth`"), è simile all’Essere puramente indivisibile, in cui non si trova nessun cambiamento o fine. Come essenza che procede e rimane allo stesso tempo, l’anima è davvero il termine che unisce nella realtà il divisibile e l’indivisibile, il mortale e l’immortale, il Divenire e l’Essere51. Che l’anima sostenga nello stesso tempo tali opposti nella sua essenza, è possibile solo perché essa non è un’unità statica e fissa in sé, anzi, è un processo continuamente auto-sviluppantesi. L’anima semplicemente rimane in sé, poiché essa incessantemente procede da sé e, allo stesso tempo, ritorna in sé. Questo non è, come abbiamo visto precedentemente, un evento puramente esterno che lasci la sua sostanza indisturbata; è una tensione intrinseca al vero essere dell’anima stessa. Monhv e provodo" sono «modi di essere sostanziali» dell’anima umana52. Quando piega verso il corpo, la sua sostanza non rimane immutabile «al di sopra», limitandosi a produrre le sue «emanazioni» o «poteri» per il corpo. È essa stessa a sprofondare (uJfizavnei) e perciò la sua unità è spezzata completamente e la sua identità, per così dire, «rilassata» (calavw)53. L’alterità ora pene-
proiüouv-sh" kai; menouvsh" – 95, 24: hJ o{lh yuch; a{ma te mevnei kai; proevrcetai. Cfr. anche p. 34, 15 e 229, 18-19 e Metaphr., 30, 7; 31, 15; 32, 14. La stessa espressione a{ma mevnei kai; proveisin è usata da Giamblico in un
altro contesto. Nelle sue speculazioni sull’essenza della quantità (SIMPL., In cat., 135, 8 ss.), egli dimostra come le due forme di quantità (continua e discontinua) si realizzano poiché il Potere che emana dall’Uno insieme procede attraverso tutti gli esseri, e permane a ogni livello che determina. 50 p. 6, 5-7: oJ merismo;" aujth`" meta; th`" eij" to; ajmevriston sunairev-
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tra nella sua propria essenza. L’anima diventa estraniata da se stessa. La processione è così per essa una situazione di alienazione: ajllotriwqe;n dia; th;n e[xw rJophvn54. Uscendo da sé diventa diversa da quella che era prima. Tuttavia, la diversità non è tale da far perdere all’anima la propria identità. L’anima che procede è certamente altra e diversa dall’anima che rimane. Nondimeno, l’anima che procede e rimane è la stessa55. E così, si può dire che l’anima umana diviene costantemente un’altra e, allo stesso tempo, resta se stessa: wJ" a{ma th;n aujthvn te kai; ouj th;n aujth;n fulavttesqai56. L’anima preserva la propria identità solo attraverso la concomitante combinazione di due movimenti contrari, processione e ritorno. Entrambi si implicano a vicenda e uno dei due movimenti non esclude mai l’altro. L’anima manifesta più chiaramente tale auto-estraniazione sul piano noetico. Cos’altro significa l’ignoranza, se non un’estraniazione dai concetti ideali che sono propri dell’essenza dell’anima? E la conoscenza non è nient’altro che una «anamnesi», cioè un ritornare alla propria vera essenza, da cui si era allontanata con la sua inclinazione verso l’esteriore. Prisciano, nell’interpretare l’analisi aristotelica della conoscenza, aderirà a questa visione di Giamblico. sew" kai; hJ probolh; meta; th`" eij" eJauth;n ejpistrofh`" kai; hJ eJauth`" ajpovstasi" meta; th`" ejn eJauth`/ monh`".
Cfr. pp. 6, 8-12; 89, 35-37; 220, 6-8; 238, 8-12; 240, 37-39. Cfr. p. 312, 6-7: monh; de; kai; provodo" oujsiwvdei" uJpostavsei" th;n ajmevriston oJmou` kai; meristh;n h[toi th;n metaxu; para; tw`/ Plavtwni ejmfaiv51 52
nousi u{parxin. 53 I termini uJfizavnw e calavw sono, in questo uso metaforico, attestati per la prima volta in Prisciano e Damascio. Cfr. In de an., 42, 23; 50, 7; 62, 7. 10; 219, 39; 223, 32; 238, 25; 241, 9; 244, 36; 260, 7; 262, 16-22 e 42, 30 (calasmov"); Metaphr., 27, 15; 26, 19; 35, 14. DAMASCIUS, De princ., I, p. 36, 4-5; II, p. 90, 1; II, p. 182, 19; In Parm., II, p. 2, 25 e IV, p. 46, 2. Per quanto riguarda uJfizavnw, cfr. In de an., 30, 18; 241, 9; 259, 38; 262, 23;
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La medesima concezione dell’anima è alla base anche dell’interpretazione che Prisciano fornisce della nozione platonica di aujtokivnhto". Con il prefisso aujto-, Platone caratterizza le essenze perfette indivise, che rimangono sempre identiche a se stesse (le «idee»). Il termine kinhtov" indica, d’altra parte, le cose divise, che hanno l’«essere» solo in divenire57. Contrariamente ad Aristotele, Platone non esitava a impiegare il termine «movimento» in connessione alla vita psichica. L’anima non è, in realtà, un primo motore immobile, come l’Intelletto, ma un principio secondario di movimento, che è già in movimento58. Essa è infatti discesa dalla totale essenza indivisa nella divisione, e realizza la sua esistenza tramite un continuo «dispiegarsi» (ajnevlixi"). Tuttavia, nel suo movimento, non cade mai nella divisione totale che caratterizza il corporeo. Non perde mai se stessa, perché, nella sua processione fuori di sé, ritorna sempre in sé, e pertanto continua a risiedere nell’indivisione. È proprio questa peculiare identità dentro il cambiamento che Platone voleva designare con il termine composto aujto-kivnhto". L’anima non è semplicemente in movimento e cambiamento (kinhthv), come il corpo fisico, ma è un sé-in-cambiamento (aujto-kivnhto")59. Questo termine composto indica come l’anima, essendo al centro tra il divisibile e l’indivisibile, partecipi simultaneamente di en263, 26; cfr. DAMASCIUS, In Parm., IV, p. 13, 5-6. Un sinonimo di calavw è ejkluvw: cfr. In de an., 244, 27. 54 p. 223, 26; cfr. p. 223, 31: eJteriou`sqai pro;" eJauthvn e p. 229, 18. Anche p. 90, 11-12: pro;" eJauth;n ... diaforoumevnh e p. 241, 9 dove abbiamo i tre termini insieme: diaforei`sqaiv pw" kai; cala`sqai kai; oiJ`on uJfizavnein. Cfr. p. 259, 38: eij" thvn ... eJterovthta uJfizavnon. 55 p. 219, 39-40: eiJ`" ouj`n oJ mevnwn te eijlikrinw`" provteron kai; auj`qi" calw`n to; movnimon th`/ eij" to; e[xw ajfΔ eJautou` probolh`/. 56
p. 241, 11-12.
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trambi gli estremi60. Può essere detta kinhthv in quanto va fuori di sé nel divenire e nella divisione, e aujtov in quanto non va mai totalmente fuori di sé, ma, nel suo movimento, preserva la propria identità e indivisibilità, rimanendo così in se stessa. Pertanto è aujto-kivnhto" nella misura in cui simultaneamente rimane in sé e va fuori di sé61. Tale interpretazione di aujtokivnhto" si allontanava considerevolmente dalla spiegazione neoplatonica comunemente accettata, la quale presentava questo termine in riferimento all’automovimento62. Ciò non viene dimenticato dal nostro commentatore. Nondimeno, egli sposta l’attenzione in modo evidente dall’auto-movimento alla preservazione dell’identità nel movimento. Questa identità in cambiamento è possibile, naturalmente, solo perché l’anima, in quanto auto-moventesi, cambia da sé. Nella sua esposizione, Prisciano impiega spesso i tre termini mevnw, ejpistrevfw, e proveimi (o probavllw) per esprimere la tensione che esiste all’interno dell’essenza dell’anima. Qui senza dubbio egli segue Giamblico, il quale era 57 p. 26, 25-26: to; ga;r aujto; th;n ajmevriston oujsivan kai; th;n teleivan ejnevrgeian tw/` Plavtwni dhloi`, wJ" to; kinhto;n th`" meristh`" ejsti shmantikovn: e p. 246, 27: to; aujto; w/`J kai; ejpi; tw`n ajkrotavtwn ei[wqe crh`sqai eijdw`n. In realtà, Platone usava il pronome aujtov per caratterizzare le pure forme ideali. Cfr. Phaedo, 75 D 2: peri; aJpavntwn oiJ`" ejpisfragizovmeqa to; aujto; o} e[sti. Le formule platoniche, come aujth; dikaiosuvnh (Rep., VII, 517 E 2) danno origine nel tardo Platonismo a una serie di nomi composti con aujto-. 58 59
Cfr. pp. 25, 16-19 e 26, 22-23. Cfr. p. 26, 23-24: oujc aJplw`" de; kinhthv (correxi: kinhtikhv, cfr. p. 312,
34), ajllΔ aujtokivnhto" levgetai. 60 Cfr. p. 26, 26-28: th`/ ouj`n mesovthti th`" yuch`" to; ejk tw`n a[krwn suvn-qeton ajpodivdotai o[noma (scil. aujtokivnhto") dia; th;n pro;" a[mfw ta; a[kra tou` mevsou koinwnivan – p. 312, 33-36: mhvpotede; kai; to; para; tw`/ Plavtw-ni aujtokivnhton toiou`ton, oujc wJ" to; kinouvmenon aJplw`", ajllΔ wJ" to; mevson dia; th`" tw`n a[krwn sunqevsew" dhlouvmenon, tou` te aujtov fhmi kai; tou` kinhtou`. Cfr. p. 30, 4-10 e 62, 2-11.
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stato il primo ad applicare lo schema triadico all’anima, come attesta Proclo63. Tale triade rievoca la nozione di «unità dinamica» o, come la chiama Hegel, konkrete Totalität, cioè una totalità che è se stessa solo in quanto è differenziata dentro di sé. Questi tre termini sottolineano i movimenti strutturali che rendono possibile per ogni totalità il costituirsi in un sistema ordinato (diavkosmo"). Nessun singolo termine di questa triade si può considerare come un’unità fissa che esiste in se stessa: sono momenti di una totalità che si sviluppa. Ogni diakosmos comprende infatti ciò che rende unitario il sistema, ciò che fornisce le distinzioni dentro di esso, e ciò che lo rende unitario nelle sue distinzioni. Non si tratta, pertanto, di «parti», ma di momenti all’interno di una totalità, ognuno dei quali, a proprio modo, rappresenta (darstellen) la totalità64. Così possiamo distinguere nell’anima manenza, processione e ritorno – non come tre parti, ma come momenti, ognuno dei quali esprime l’intera essenza dell’anima. Per questo, Prisciano specifica che l’anima va fuori di sé come un tutt’uno e, simultaneamente, come un tutt’uno rimane in sé, e non che una parte rimane «al di sopra» e un’altra scende nel divenire. Proprio perché l’anima va fuori e ritorna in 61 Cfr. p. 34, 11-15: tou` Plavtwno" ... oujsivan th`" yuch`" to; aujtokivnhton qemevnou, wJ" kata; zwh;n oujsiwmevnh" toiauvthn, uJpoba`san me;n th`" ajmerivstou oujsiva", ajllΔ ouj pavnth/ ejxestw`san i{na dia; me;n tou` kinhtou` th;n u{fesin, dia; de; tou` aujto; th;n ejn tw`/ ajmerivstw/ monh;n ejndeivxhtai, kai; th;n a{ma ejn eJauth`/ mevnousan kai; ajfΔ eJauth`" proi>ou`san. Cfr. anche pp. 30, 4-
21; 50, 5-16; 62, 2-3. 62 Cfr. HERMEIAS, In Phaedr., 102 ss., PROCLUS, El. theol., prop. 14-20 e Theol. Plat., I, 14, p. 61, 22-62, 23, DAMASCIUS, De princ., I, pp. 51-52 e III, pp. 70-72. Per quanto concerne Simplicio, cfr. F. BOSSIER / C. STEEL, Priscianus Lydus en de «In De Anima» cit., pp. 813-14. 63 Cfr. In Tim., II, 215, 5-29 (= fr. 53 Dillon). E. BRÉHIER è stato il primo a notare l’importanza di questo testo: cfr. Histoire de la philosophie, I, pp.
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sé simultaneamente, essa riesce a preservare la propria identità (il «permanere»). Manenza, processione e ritorno sono dunque tre momenti strutturali che rendono possibile l’esistenza dell’anima come «identità dinamica». Questa struttura triadica costituisce l’essenza di ogni anima in quanto tale. In realtà qui, secondo Proclo, Giamblico si era occupato in modo specifico della formazione dell’anima non-partecipata, cioè dell’archetipo ideale di tutte le anime65. Nell’anima umana, invece, questa struttura essenziale è dislocata diacronicamente. Essa sperimenta la processione come un’alienazione effettiva da sé, il suo provodo" diviene una probolhv. E il suo ritorno significa un recupero della sua identità (quasi) perduta. Poiché l’anima è caduta nell’estrema divisione, prima predominerà un aspetto, e poi l’altro66. La sua essenza sarà caratterizzata, pertanto, da divenire e cambiamento nel tempo. Questo è quanto i testi, sui quali abbiamo fondato questo capitolo, hanno cercato di dimostrare.
3. La posizione di Proclo Anche se Proclo afferma, insieme a Giamblico, che l’anima umana scende interamente nel divenire e che al di so474-75. Cfr. E.R. DODDS, Introduzione a PROCLUS, Elementatio theologica (Oxford 19632), pp. XIX-XXII e 220-21. 64 G.W. HEGEL (il quale ammirava Proclo soprattutto per la struttura triadica del suo sistema) lo ha formulato in modo eccellente: «Diese Unterschiede in der Idee, als in der Einheit mit sich bleibend, werden, weil es ihre Momente, ihre Unterschiede sind, wesentlich auch als Ganzes bestimmt so dass die Einheit in ihren Unterschieden ganz ist, was sie ist, so dass jeder dieser Unterschiede in der Form einer Totalität ist» (Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, XIX, p. 19, passo citato da W. BEIERWALTES, Platonismus und Idealismus, Frankfurt 1972, p. 169). 65 Cfr. PROCLUS, In Tim., II, 105, 15-19 e 143, 21-24; 240, 2-8.
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pra non resta nulla che sia immutato, tuttavia è restio a trarre la stessa conclusione di Giamblico, e cioè che l’anima umana subisca un cambiamento sostanziale. Evidentemente, egli sentiva questa posizione troppo divergente rispetto alla dottrina platonica tradizionale. Ciò si può evincere immediatamente dall’esposizione, da parte di Proclo, della propria visione, che viene subito dopo il passo in cui egli adotta l’argomentazione di Giamblico contro Plotino. L’affermazione di Platone, per la quale «il cerchio dell’Identico» e il «cerchio dell’Altro» sono scossi, si riferisce soltanto, secondo Proclo, alle facoltà e alle attività dell’anima, mentre la sostanza di essa rimane identica e immutata67. Proclo supporta la propria interpretazione riferendosi al mito del Fedro, in cui Platone paragonava le facoltà dell’anima «ai cavalli e all’auriga» in reciproco conflitto. Pertanto, con la caduta dell’anima, sono scalfiti solo le sue facoltà e i suoi atti68. Certamente, non si deve ritenere che la sostanza dell’anima sia stata «gettata nella confusione», come risultato della sua incarnazione. La si può paragonare a un uomo che vede il proprio viso riflesso in un ruscello. Il movimento del ruscello fa sì che la sua immagine cambi continuamente; essa è storta, deformata, solcata, eppure il 66 Prisciano nota che la «divisione», che è costitutiva dell’essenza di ciascuna anima, non è mai sperimentata come reale divisione o alienazione dalle anime più alte. Cfr. In de an., 50, 7-9 (sull’Anima del Mondo): ou[pw
de; merizomevnh" oujde; ajfistamevnh" eJauth`", ajllΔ eij" eJauth;n deutevrw" ejstrammevnh" e più chiaramente in 12-14: dia; me;n th;n ejk tou` ajmerivstou uJpovbasin ejnergou`sa to;n merismovn, ajllΔ ouj pavscousa. Damascio sottolinea
esplicitamente la differenza tra anime umane e anime superiori in In Parm., IV, p. 10, 8-11: ejn ga;r tai`" kreivttosi yucai`" oJmou` to; meristo;n kai; ajmevriston, ... ejn hJmi`n de; dia; to;n e[scaton merismo;n, pote; me;n tovde prokuvp-tei, pote; de; tovde. Cfr. IV, p. 49, 11-18. 67
Cfr. In Tim., III, 335, 24 ss., 338, 6 ss. e 340, 14 ss.
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suo viso in realtà rimane imperturbato. Così, anche l’anima vede la propria immagine nel corpo come spazzata via dal flusso del divenire, e pensa che essa stessa subisca questi cambiamenti (oi[etai de; pavscein). Ma rimane ancora apathés. In questo passo, Proclo sembra abbandonare l’opinione di Giamblico e ritornare a quella di Plotino69. Lo stesso si nota anche nel suo commento alle Enneadi, dove, in conformità a Enn. I, 1, 3, 3-7, egli afferma: «Se l’anima è incorporea, le passioni del corpo non possono toccarla; se esse, invece, ancora sopravvengono, non arrivano alla sua sostanza, ma solo alle sue facoltà e ai suoi atti»70. Incontriamo qui la tipica soluzione che Proclo aveva elaborato per spiegare il cambiamento e la temporalità che caratterizzano l’anima. La sostanza è e rimane eterna e immutabile. Il cambiamento si manifesta solo a livello delle facoltà e degli atti71. Negli Elementi (propp. 106-107), Proclo cerca di dare una giustificazione a priori di questa opinione. Inizia dal principio fondamentale che regola la processione nella realtà: «Ogni processione si compie attraverso una somiglianza del secondario al primario»72. Come una causa non può produrre qualcosa di totalmente diverso da sé, è necessario un termine intermedio, che, essendo sia simile sia dissimile ai termini estremi, li leghi, così da preservare la continuità nella processione. Un essere totalmente temporale, pertanto, non può essere direttamente originato da Cfr. p. 338, 21-26 e In Alc., 227, 9-18. Il commento di Proclo al Fedro non si è conservato. Ma in Ermia – che riflette, come dice Proclo, l’esegesi di Siriano – si trova un’interessante discussione, che sembra essere diretta contro Giamblico. Ermia si pone contro quegli interpreti che applicano l’immagine «dei cavalli e della guida» alla sostanza dell’anima, e non alle sue facoltà. Tale interpretazione deve essere respinta, poiché implicherebbe che anche la sostanza dell’anima possa essere perversa: oujj ga;r 68
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ciò che è totalmente eterno. Per collegare la distanza, deve esistere un termine medio «che è eterno per un verso, e misurato dal tempo per un altro». Proclo intende qui un principio che sia eterno nella sua sostanza e temporale nella sua attività. Così, si hanno tre successivi livelli ontologici: ciò che è eterno sia nella sostanza sia nell’attività; ciò che è eterno nella sostanza, e temporale nell’attività; ciò che è temporale sia nella sostanza sia nell’attività.
Dato che questo principio intermedio partecipa sia del tempo che dell’eternità, si può anche dire «che esso è insieme nell’essere e nel divenire», anche se non sotto lo stesso aspetto. In quanto ha una sostanza eterna, esso è; in quanto le sue attività sono compiute nel tempo, esso diviene73. Anche se, in questi passi, non è mai usato il termine «anima», è evidente che Proclo, con tale argomentazione astratta, pone le basi per le asserzioni sull’anima che vengono dopo, nelle proposizioni 191-193. Qui «anima» si sostituisce al termine astratto «medio». La proposizione 191 recita: «ogni anima partecipata ha una sostanza eterna ma un’attività temporale». Questa proposizione è dimostrata con l’eliminazione delle tre altre possibilità: 1) Sostanza e atto non possono essere entrambi eterni, altrimenti l’ani-
kakuvnetai hJ ousiva th`" yuch`" (p. 122, 8). Giamblico, comunque, non prende le distanze da questa conclusione: cfr. PRISC., In de an., 89, 31-33: katΔ oujsivan ... th`" yuch`" ... kakunomevnh". 69 In Tim., III, 330, 9-331, 2. È difficile conciliare questo testo con In Alc., 226, 7-228, 7 in cui Proclo respinge la visione plotiniana sulle passioni: cfr. supra, p. 70.
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ma sarebbe una sostanza indivisa che non differisce in alcun modo dall’essere intellettuale. 2) Non possono neanche essere entrambi temporali, poiché allora l’anima sarebbe semplicemente una cosa nell’ambito del divenire, e non avrebbe più il suo essere e la sua vita da se stessa. 3) È assurdo presumere che la sostanza sia temporale, e l’atto eterno, poiché altrimenti verrebbe capovolta la priorità ontologica della sostanza. Vi è una sola conclusione possibile: l’anima è una sostanza eterna le cui attività sono compiute nel tempo. Da ciò consegue che l’anima, rispetto alla sua sostanza, rientra nell’ordine degli «esseri veri che sono in perpetuo», mentre, rispetto alle sue attività, appartiene al mondo del divenire (prop. 192). Se la sostanza dell’anima è eterna, allora essa è anche totalmente immutabile (ajmetavblhto") (prop. 193). Un cambiamento potrebbe avvenire soltanto nelle sue attività. È importante notare che queste tre proposizioni appaiono nella struttura degli Elementi come un’interpretazione della «definizione» platonica dell’anima quale «media tra il divisibile e l’indivisibile», che le precede immediatamente (prop. 190). Così è abbastanza chiaro in che senso Proclo consideri l’anima come «media». Nella sua sostanza, l’anima è indivisibile, eterna e immutabile, e solo nelle sue attività manifesta divisione, temporalità e cambiamento. Considerando questa soluzione procliana, possiamo meglio comprendere l’originale posizione di Giamblico: come principio intermedio, l’anima deve essere simultaneamente mutevole e immutabile, divisa e indivisa nella sua intera essenza – cambiamento e divisione non possono essere limitati alle attività. È proprio in tali «simultaneità» e «totalità» che giace la tensione propria della vita psichica: l’anima può cambiare totalmente senza perdere la sua identità. Questa tensione è «risolta» da Proclo in 112
maniera logico-formale. L’anima è suddivisa in un sostrato eterno e immutabile, e in atti che hanno luogo nel tempo. Fino ad ora, abbiamo seguito l’argomentazione degli Elementi, poiché il pensiero di Proclo trova qui la sua più piena e chiara espressione. Tuttavia, saremmo ingiusti verso Proclo se non considerassimo, nella nostra investigazione, le belle pagine che egli dedica alla «generazione» dell’anima nel suo commento al Timeo74. Proclo affronta qui un problema che era stato a lungo discusso nella tradizione platonica: in che senso Platone parla di un divenire dell’anima? Come può esserci una gevnesi" di ciò che è ajgevnhton? Una risposta a questo interrogativo presuppone che si stabilisca prima che cosa si intende esattamente con il termine gevnesi". Proclo usa questo termine per indicare il fatto di essere continuamente generati e di ricevere perpetuamente l’infinito potere di esistere. Questo termine dunque esprime una relazione di dipendenza tra il generato e la sua causa. In questo senso, Proclo considerava Platone legittimato nel chiamare l’anima generata, poiché essa non può mai ricevere l’infinita pienezza della sua esistenza in nessun momento. Inoltre, anche se è sempre attiva, compie tuttavia un atto dopo l’altro. Essa non possiede mai l’infinito potere di cui avrebbe bisogno per realizzarsi come tutt’intera in un solo momento; piuttosto riceve il proprio potere sempre di nuovo, come è manifesto nella sua vita, che, in continua transizione, ogni volta realizza forme (lovgoi) diverse75. Nondimeno, l’anima è anche ingenerata, dal mo70 Cfr. M. PSELLUS, De omnifaria doctrina, § 33, un testo tratto dal commento di Proclo alle Enneadi. 71 Tale soluzione è anticipata in PLOTINUS, Enn., IV, 4, 15, 16-20. 72 prop. 29.
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mento che, in quanto auto-moventesi, è il principio che genera la sua vita e il suo essere. Ci rendiamo conto, dunque, che l’anima umana è simultaneamente ingenerata e generata: dal momento che riceve il suo essere e la sua vita da se stessa, è ingenerata ed eterna; invece, dal momento che riceve sempre in modo nuovo l’essere e la vita da un’altra causa, è generata e temporale. Inoltre, Proclo nota che la genesis non riguarda solo le attività dell’anima. Il continuo svolgersi della sua vita mostra che anche la sua sostanza è sempre in divenire76. «Pertanto, non basta chiamare l’anima generata semplicemente perché è divisa nelle sue attività, ma occorre vedere anche in che modo tale proprietà pre-esista nell’essere dell’anima. Infatti, ogni attività ha, per natura, una sostanza che precede la causa dell’attività. Di conseguenza, l’anima porta in anticipo nella sua sostanza il seme della vita temporale che è comune a ogni anima [...] Poiché l’anima deve anche divenire, non solo essere»77. Questo passo si avvicina all’opinione di Giamblico: il divenire non è una caratteristica solo delle attività dell’anima, ma è «seminalmente» anticipata come una «proprietà» della sostanza stessa. Nondimeno, è in un significato totalmente diverso e in un altro contesto che Giamblico osava parlare di un cambiamento della sostanza dell’anima. Con genesis, Proclo intende qui il fatto che l’anima è sempre dipendente da un superiore principio 73 Cfr. De providentia, § 9 (p. 115): «Entium igitur hec quidem in eternitate substantiam habent, hec autem in tempore [...]; hec autem media horum aliqualiter sunt, habentia substantiam quidem stantem et meliorem generatione, operationem autem semper fientem, et hanc quidem eternitate, hanc autem tempore mensuratam. Oportet enim omnem processum a primis in ultima fieri per media [...] animam autem eternalem quidem secundum substantiam, operationibus autem utentem temporalibus». Cfr. Theol. Plat., I, 19, p. 93, 7-12.
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di essere e non può mai ricevere tutto il suo essere in nessun momento. Anche Giamblico avrebbe certamente interpretato la psicogonia, che è esposta nel Timeo, come una relazione di dipendenza78. Ma, nei passi prima analizzati, egli si riferisce a un’altra genesis dell’anima, come osserva lo stesso Prisciano. Noi non prendiamo qui, dice Prisciano, il termine genesis nel senso in cui spesso lo usava Platone, cioè per indicare la discesa dell’anima nella divisione. Certamente, si può anche parlare, in questo senso, di un divenire katΔ oujsivan in riferimento all’anima, in quanto essa è costituita nella sua essenza da questa discesa79. Qui, però, prendiamo la parola nel suo senso comune, come riguardante gli esseri che «a volte» sono e «a volte» non sono. È in questo senso che Giamblico osa parlare di un divenire dell’anima. Pertanto, le implicazioni di tale asserzione vanno ben oltre quanto Proclo afferma nel suo commento al Timeo. Essendo l’anima davvero il centro nella realtà, deve pure provare, nella sua essenza, la tensione tra tempo e eternità, divenire e essere. Senza dubbio, Proclo è ben consapevole delle tante contraddizioni che dominano la vita dell’anima, come il confine tra le due opposte regioni della realtà80. Con le sue distinzioni formali e concettuali, tuttavia, egli non riesce ad esprimere adeguatamente la tensio74
In Tim., II, 119, 29-132, 3.
75 II, 124, 17-19: dhloi`
gou`n zw`sa kata; metavbasin kai; probolh;n a[llwn lovgwn kai; a[llwn, oujk e[cousa th;n a[peiron zwh;n a{ma pa`san pa-rou`san. 76 II, 124, 20: kai; th;n oujsivan e[cei gignomevnhn ajeiv. Cfr. anche p. 141,
18-22. 77 II, 131, 20-23: pa`sa ga;r ejnevrgeia kata; fuvsin e[cei th;n oujsivan pro-labou`san th;n aijtivan th`" ejnergeiva": w{ste kai; hJ yuch; th`" kata; crovnon zwh`" ejn th`/ oujsiva/ proeivlhfe to; spevrma. Cfr. anche p. 148, 2: kai; dh`lon o{ti kai; th;n u{parxin e[cein ti toiou`ton aujth;n ajnagkai`on h] oujd`Δ
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ne interna all’anima. A più riprese, vediamo che, nella sua analisi, egli “divide” l’anima in due elementi. Che l’anima sia simultaneamente eterna e temporale, significa per Proclo, infatti, che la sua sostanza è eterna, e le sue attività si svolgono nel tempo81. Così, anche la divisibilità non riguarda la sua propria essenza, ma i vari logoi che da essa procedono. E anche nel passo tratto dal commento al Timeo, in cui accetta l’idea che anche l’oujsiva dell’anima «divenga», egli introduce una correzione. In quanto l’anima è un intero, non è in divenire, poiché il suo divenire si realizza solo «nelle sue parti»82. E così si perde la reale intenzione della critica di Giamblico a Plotino. Il punto di vista di Proclo indica un certo ritorno alla posizione di Plotino. I neoplatonici successivi generalmente preferiranno la soluzione, chiaramente formulata, che Proclo forniva al problema rispetto al paradosso offerto da Giamblico83. Solo Damascio e Prisciano scavalcano Proclo e ritornano a Giamblico. L’ulteriore elaborazione della sua dottrina verrà trattata nei capitoli seguenti.
4. Nota. La teoria di Giamblico sulla qualità La nostra ricostruzione della dottrina di Giamblico sull’anima è, in molti punti, ipotetica. I testi a nostra disposizione sono troppo pochi e troppo frammentari. Tuttavia, la verità fondamentale della dottrina di Giamblico, come l’abbiamo presentata, può essere confermata da un aspetto piuttosto inconsueto, e cioè dalle considerazioni di Giamblico sull’essenza della qualità, che sono state con-
a]n ejn tai`" kata; fuvsin aujth`" ejnergeivai" ejnevfaine th;n ijdiovthta th`" genevsew" kai; th`" cronikh`" paratavsew". 78
Cfr. In Tim., I, 277, 8 ss. (= fr. 32 Dillon) e 290, 3 (fr. 33) e il com-
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servate da Simplicio84. Troviamo qui passi che esprimono idee simili a quelle studiate nell’opera di Prisciano. Un lettore moderno potrebbe forse non cogliere immediatamente la connessione tra i due problemi: come può un’esposizione sulla qualità insegnarci qualcosa sull’anima? Nel Neoplatonismo, però, la distanza tra anima e qualità non è così grande come sembra essere a noi. In primo luogo, bisogna notare che la qualità discussa da Giamblico non è una qualificazione acquisita dal corpo (poiovn = quale), ma il principio (logos) in virtù del quale il corpo è qualificato (poiovth" = qualitas)85. Il principio qualificante è in se stesso, come ogni logos, incorporeo e indivisibile, ma diventa diviso nel corpo. Per indicare la qualità, Giamblico impiega un’espressione che è usata anche per definire l’essenza dell’anima (cfr. Tim., 35 A). La qualità, che è l’ultima manifestazione di vita (cfr. p. 219, 12), sembra far parte della regione intermedia, occupata anche dall’anima. Ma, mentre l’anima sta vicino al puramente indivisibile, le qualità si avvicinano alla divisibilità dei corpi86. Comunque sia, la presenza di una qualità nel corpo qualificato da essa si può spiegare per analogia alla presenza dell’anima nel corpo. mento di J.M. DILLON, pp. 303-7. Cfr. anche JULIANUS, Oratio IV, 146 A-B e JOHANNES LYDUS, De mensibus, IV, p. 175, 1 ss. 79 Cfr. p. 89, 27 e anche p. 39, 8-16: oJ de; Plavtwn ... kalei` de; kai; th;n katΔ oujsivan aujth`" ajpo; th`" noera`" kai; ajmerivstou oujsiva" uJpovbasin kivnhsin wJ" e[kstasin ...: e[stai ouj`n hJ yuchv ... katΔ aujth;n de; th;n kivnhsin oujsiwmevnh. In questo passo vi è un’allusione alla psicogonia del Timeo (cfr.
supra, n. 6, p. 81). 80 Cfr. specialmente II, 127, 16-132, 3. 81 Cfr. II, 128, 17 ss.; 147, 34 ss. 82 II, 131, 23-25; 144, 5-7. 83 Così, per esempio, SIMPLICIUS, In ench., 98, 52-99, 1; 76, 20 ss.; PHILOPONUS, In de an., 24, 22 ss. e 118, 8 ss.
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È difficile comprendere l’essenza propria della qualità, poiché essa è un principio incorporeo eppure esiste solo in quanto è coinvolta nella materia. La qualità non può essere definita come una pura forma ideale che trascende il mondo materiale, come fa lo ajmevqekton eij`do". L’idea di bianchezza non è la stessa cosa che la qualità «bianco». La qualità ha il suo essere proprio nel fatto di essere partecipata. Non esiste di per sé, ma come qualità-del-corpo. Di conseguenza, soggiace al cambiamento insieme al corpo che condivide. D’altro canto, è ugualmente sbagliato supporre che le qualità cambino nell’esatto modo in cui sono qualificati i corpi. Infatti, non vi sarebbe più distinzione tra il corpo partecipante e la forma partecipata87. Benché appartenente al corpo, la qualità ha ancora un’esistenza di per sé: un’entità immateriale non può appartenere interamente al corpo, né perdersi totalmente nel corpo. Il suo particolare modo di esistere (uJpovstasi") consiste nell’appartenere simultaneamente a se stessa e al corpo. Tale simultaneità non si deve spiegare distinguendo due princìpi nella qualità, ponendo cioè un logos che rimarrebbe puramente in se stesso, e un altro logos inferiore, prodotto dal primo, che procederebbe verso l’esterno e diventerebbe del-corpo; ponendo cioè un logos indivisibile e incorporeo, e uno divisibile e corporeo. Una tale spiegazione non riesce a dar conto del fatto che la qualità appartiene interamente al corpo, senza perdersi nel corpo88. Simplicio ritiene che il modo in cui la qualità è presente
84 Cfr. In cat., 288-289 e 218-219, un passo che fornisce «la mirabile dottrina di Aristotele». Come dato di fatto, Simplicio adotta questa teoria da Giamblico: cfr. p. 216, 6 ss. 85 Tale distinzione si basava su Cat. 8 b 25: poiovthta ... kaqΔ h}n poioiv
tine" levgontai.
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nel corpo non sia stato perfettamente spiegato da Giamblico. Nel suo modo consueto, Giamblico cerca di formulare la complessità del reale in un periodo complesso che combina apparentemente affermazioni contraddittorie. «Anche se la qualità è un’essenza incorporea e appartiene ai princìpi (logoi), si dà ai corpi che la ricevono; anche se fornisce al corpo una qualità, tuttavia rimane in se stessa, essendo incorporea nel corpo; si dà l’essere da sé, eppure comunica la sua esistenza al corpo, senza distruggere la sua propria natura»89. Nella parte successiva al passo citato da Simplicio, Giamblico parla non solo della qualità, ma più in generale della presenza di ogni eidos incorporeo nel corpo: ouj mevntoi o{lh th`" u{lh" givnetai, diovti kai; eJautw`n ejsti; ta; ei[dh kai; ka-ta; to; e}n kai; taujto; kurivw" w{ristai kai; dia; tou`to oujde; ejn tw`/ th`" u{lh" givnesqai ajfivstatai pavnth/ th`" o{lh" eJautw`n fuv-sew", mevnonta de; ejn auJtoi`" ` trovpon gev tina ajnapivmplatai th`" ejnantiva" pro;" aujta; ejkstavsewv" te kai; ajoristiva".
L’affinità di questi passi con le considerazioni sull’anima contenute nel commento di Prisciano è ovvia. In quanto l’anima, come eidos, determina il corpo vivente, essa procede fuori di sé e prende parte, in qualche modo, alla divisione e al cambiamento che sono propri del corpo. Però, l’anima non si allontana mai dalla sua propria natura poiché rimane in se stessa. Non vorremmo enfatizzare eccessivamente le analogie tra questi testi, che, in effetti, trattano argomenti diversi. Tuttavia, è interessante notare come Giamblico adoperi una terminologia e sviluppi un’argomentazione che corrisponde a quanto troviamo in Prisciano. Così, la nostra ricostruzione della dottrina di Giamblico si trova a essere confermata da questo testo indubbiamente autentico. 86
Cfr. p. 219, 33: e[stin ajmerivstw" peri; ta; swvmata merizovmeno". I fi-
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Parte seconda
Damascio
«Il y a plus affaire à interpréter les interprétations qu’à interpréter les choses» Montaigne
Capitolo quarto
L’interpretazione dell’anima nella dialettica del «Parmenide»
Nel corso della sua analisi critica del Parmenide, Damascio fornisce alcune considerazioni sulla «terza ipotesi», che si possono ritenere un ulteriore sviluppo dell’insegnamento di Giamblico sull’anima. Meglio delle rare testimonianze e dei frammenti che abbiamo analizzato fino a questo punto, esse consentono una comprensione del significato e delle implicazioni della dottrina giamblichea. Questo testo così rilevante non ha ricevuto però l’attenzione che merita da parte degli studiosi – forse perché, in effetti, è molto oscuro. Non solo il testo, così come lo abbiamo, è tanto corrotto da costringere spesso a congetture1, ma anche il metodo impiegato da Damascio non è del tutto facile da seguire. Damascio non scrisse un commento nel sen-
1 Nella versione originaria di quest’opera (1978), tutti i riferimenti a Damascio erano tratti dalla vecchia edizione di C. Ruelle, rispetto alla quale avevamo proposto correzioni congetturali; oggi le due opere principali di Damascio sono disponibili in eccellenti edizioni critiche: DAMASCIUS, Traité des premiers principes, texte établi par L.G. WESTERINK et traduit par J. COMBÈS, Les Belles Lettres, Paris 1986-1991, 3 voll.; DAMASCIUS, Commentaire du Parménide de Platon, texte établi par L.G. WESTERINK e introduit, traduit et annoté par J. COMBÈS avec la collaboration de A.-PH. SEGONDS et C. LUNA, Les Belles Lettres, Paris 1997-2003, 4 voll. Tutti i riferimenti sono tratti da queste nuove edizioni.
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so comune della parola. Piuttosto, egli elaborò la sua interpretazione del Parmenide in dialogo con il grande commento del suo predecessore, Proclo, cui fa continuamente riferimento come «l’interprete» o chiamandolo semplicemente «egli»2. Per ogni parte del testo platonico, Damascio elenca prima una lista di problemi da prendere in considerazione e poi cerca una soluzione ragionevole per ciascuna di quelle aporie, e, nel far ciò, spesso corregge e persino respinge la posizione di Proclo. La natura peculiare di questo «commento» al Parmenide è ben espressa nella formula conclusiva: «Di Damascio, il diadoco [di Platone], aporie e soluzioni riguardanti il Parmenide di Platone, sviluppate in confronto con il commento del filosofo [Proclo]»3. Pertanto Damascio doveva aver supposto che il lettore avesse davanti il testo di Proclo. Sfortunatamente, questo non è più possibile, giacché solo la prima parte del commento di Proclo, che si interrompe alla fine della prima ipotesi, ci è stata conservata4. Per l’interpretazione pro2 Lo stesso metodo era stato usato da Damascio negli altri suoi commentari: In Phaedonem, In Philebum, e In Alcibiadem (frammenti da Olimpiodoro). Sul metodo di Damascio cfr. L.G. WESTERINK, In Philebum, pp. XVXXII e Damascius, commentateur de Platon, in Le Néoplatonisme cit., pp. 253-60. 3 IV, p. 135, 16-18: Damaskivou diadovcou eij" to;n Plavtwno" Parmenivdhn ajporivai kai; ejpiluvsei" ajntiparateinovmenai toi`" eij" aujto;n uJpomnhvmasin tou` filosovfou (= Proclo). Il significato di ajntiparateivnw è «porre faccia a faccia così da fare un confronto». 4 Il testo greco si interrompe dopo Parm., 141 E2, ma il resto del commento sulla prima ipotesi è stato conservato nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke (XIII sec.). R. KLIBANSKY suppone che il commento non vada oltre la prima ipotesi: «In vollständiger Gestalt umfasst der Kommentar des Proklos mit ausführlicher Exegese die ganze erste Hypotesis, und nur die erste Hypothesis des Platonischen Dialogs» (Ein Proklos-Fund und seine Bedeutung, in Sitzungsberichte Heidelberg, Akademie Wiss. Ph.
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cliana delle altre ipotesi, dipendiamo soprattutto dai dati che ci fornisce Damascio. Ma l’interpretazione di Damascio si può comprendere correttamente solo sullo sfondo del commento di Proclo. Pertanto, siamo di fronte a un compito difficile: quello di dare un’interpretazione dell’interpretazione che Damascio dà del Parmenide, basata sull’interpretazione di Proclo così come la riproduce Damascio. Tutto ciò presuppone per di più che siamo in grado di comprendere il testo dello stesso Platone. Alcuni pensatori moderni vedono nella storia della filosofia poco più che una successione di interpretazioni di un «testo», un «racconto» che, quando viene detto, controlla e determina l’evoluzione del pensiero. E, in effetti, il Parmenide, accanto al Timeo, ha avuto la funzione di un testo di tale portata nello sviluppo del Platonismo. Tuttavia, ogni nuova interpretazione è anche un nuovo tentativo di liberazione dai limiti posti dal testo. Per quanto il pensiero di Damascio sia costretto dal contesto interpretativo in cui opera, è però notevole come egli cerchi continuamente di forzare il testo per poter articolare la sua personale opinione. Troviamo così, nella sua interpretazione del Parmenide, una visione molto originale dell’anima anche se egli rimane, soprattutto per la terminologia, debitore nei confronti della tradizione.
Hist. Klasse, Heidelberg 1929, pp. 3-4). Ma i numerosi riferimenti che Proclo fa alla sua interpretazione delle altre parti del testo di Platone (In Parm., 1086, 7; 1090, 28; 1120, 24; 1118, 5; 1191, 14; 1202, 28 e Theol. Plat., III, p. 163, 13-17) e la testimonianza fornita da Damascio dimostrano che tutto il Parmenide era stato esposto da Proclo nel suo commento. Cfr. H.D. SAFFREY, Vicissitudes de la tradition du commentaire sur le Parménide de Proclus, «Philologus», 105 (1961), pp. 317-21. Stiamo preparando una nuova edizione critica di questo commento in «Collection des Universités de France».
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1. La terza ipotesi del «Parmenide» sull’Uno Nella seconda parte del Parmenide, Platone esamina dialetticamente le conseguenze che seguono dall’ipotesi che l’Uno è – per l’Uno come anche per gli Altri (dall’Uno) – e quelle che possono derivare dalla negazione di questa ipotesi, e cioè che l’Uno non è. Vi è scarso accordo, anche fra i critici moderni, su quale sia la vera intenzione di Platone. È soltanto un gioco intellettuale, un esercizio dialettico, forse una parodia della scuola logica? Oppure la dialettica ha una dimensione metafisica e quindi sono i «princìpi» della realtà a essere discussi? E questa dialettica, in un certo senso, offre l’uscita dalle difficoltà connesse alle idee presenti nella prima parte? O si tratta piuttosto di una reductio in absurdum di tutta la dialettica? Tale divergenza interpretativa esisteva già nell’antichità5. Alcuni ritenevano che non si dovessero cercare in questo testo dottrine profonde e misteriose, essendo soltanto un esercizio formale, una logikh; gumnasiva con cui Platone cercava di battere Zenone sul suo stesso terreno, cioè con una discussione dialettica sui pro e i contro6. In opposizione a ciò, i Neoplatonici optarono decisamente per un’ermeneutica metafisica. Platone chiarisce, sosteneva5 Un esame dell’interpretazione del Parmenide nell’antichità va al di là dello scopo del nostro studio: cfr. l’eccellente introduzione di SAFFREY-WESTERINK alla loro edizione di Proclus. Théologie platonicienne, I, Paris 1968, pp. LXXV-LXXXIX. Ci concentreremo solo sulle interpretazioni di Giamblico e di Damascio, in particolare sulla terza ipotesi. Un valido resoconto dell’interpretazione di Damascio è stato fornito recentemente da J. COMBÈS, Damascius lecteur du «Parménide», «Archives de Philosophie», 38 (1975), pp. 33-60. Per un esame delle interpretazioni moderne del Parmenide cfr. F.W. NIEWÖHNER, Dialog und Dialektik in Platons «Parmenides», Meisenheim 1971, pp. 71-81. 6 Cfr. PROCLUS, In Parm., 630, 37-635, 27 e Theol. Plat., I, 9.
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no, di aver voluto elaborare una dialettica che non fosse un mero gioco di parole (ejn lovgoi" gumnoi`"), ma fosse relativa alla realtà stessa (pragmateiwvdh)7. Le varie «ipotesi» ci mostrano, dunque, non soltanto possibilità o costrutti concettuali, ma i veri princìpi della realtà. Già Plotino aveva riconosciuto le «tre ipostasi principiali» della realtà nelle prime tre ipotesi in cui sono esaminate le conseguenze che derivano per l’Uno dalla posizione dell’Uno8. La prima ipotesi sostiene che dalla nozione di una pura unità che esclude ogni molteplicità non si può dedurre nulla. A una tale unità assoluta non si può ascrivere nessun attributo, neppure l’essere – essa non «è» e non è neanche oggetto di conoscenza. Plotino, e con lui tutti i Neoplatonici successivi, vedeva qui un chiaro riferimento all’Uno che trascende l’essere e tutte le forme di conoscenza, e di cui si devono negare tutti gli attributi. La seconda ipotesi procede dall’assunto che l’Uno è. L’analisi questa volta dimostra che tutti gli attributi possibili, prima negati, possono essere ascritti a tale Uno-cheè. Plotino vede qui una caratterizzazione del Nous, che, nel suo perpetuo pensiero di sé, abbraccia la molteplicità di 7 Parmenide dice che faranno un «gioco laborioso» (pragmateiwvdh paidia;n – 137 B1). Proclo, però, attribuisce al termine pragmateiwvdh" un si-
gnificato più profondo: «che concerne la realtà», opposto a «concettuale». Cfr. In Parm., 1051, 38-1052, 4 e Theol. Plat., I, 9, p. 34, 15. 8 Cfr. il trattato V, 1 peri; tw`n triw`n ajrcikw`n uJpostavsewn. Nel cap. 8 Plotino mostra che la dottrina delle tre Ipostasi non è un’innovazione, ma solo un’esplicazione di quanto è già implicito nelle opere di Platone. Così nel Parmenide Platone distingue i tre principali livelli della realtà, il primo Uno, una pura Unità, il secondo Uno, che è Uno-Molti, e il terzo, che è Uno-e-Molti. Cfr. anche IV, 2, 2, 52-54 (forse un riassunto fatto da Porfirio). Altre analogie tra il Parmenide platonico e le Enneadi sono elencate da H.R. SCHWYZER, «Plotinos» in RE, coll. 553-554. Proclo allude a questa interpretazione di Plotino in In Parm., 1089, 32-1090, 3 e Theol. Plat., I, 11, p. 47, 10-12.
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tutte le forme ideali. Amelio e Porfirio, suoi discepoli, lo seguono anche in questa interpretazione e sostengono che tutte le conclusioni qui derivate sono riferite all’intero Nous. I Neoplatonici successivi a Giamblico, invece, ritengono che sia necessario distinguere vari livelli anche all’interno della realtà intelligibile, e rifiutano come insufficiente l’interpretazione dei «Plotiniani» poiché «essi non distinguono la molteplicità degli enti e gli ordini degli dèi»9. Le varie conclusioni, che sono successivamente dedotte nella seconda ipotesi, non si possono applicare, pertanto, indiscriminatamente all’Uno-Essere nella sua totalità, e cioè che è un intero, che è finito e infinito, che è in moto e in quiete, ecc. Le differenti proprietà successivamente analizzate da Platone vanno invece riferite ai corrispondenti livelli di essere. In effetti, Platone deduce le conclusioni seguenti non in modo arbitrario, ma secondo le articolazioni della realtà stessa10. Così gli attributi primi e semplicissimi si riferiscono al livello sommo di essere, lo e}n o[n o nohtovn che non è ancora interamente proceduto dall’Uno. Le ultime conclusioni indicano quegli esseri che già partecipano nel tempo e che quindi si avvicinano all’Uno della terza ipotesi. Tutte le conclusioni nel mezzo si riferirebbero allora alle classi intermedie della gerarchia divina. Si vede in tal modo che «la sequenza delle conclusioni accompagna (sunodeuvoi) l’emanazione degli esseri»11. Così, invece di un gioco dialettico, il Parmeni9 PROCLUS, Theol. Plat., I, 8, p. 33, 8: oiJ de; ta; plhvqh tw`n o[ntwn kai; ta;" tavxei" tw`n qeivwn mh; diorivzonte". Questa critica è rivolta contro Plo-
tino e contro quanti condividevano le sue opinioni (cfr. p. 42, 4-9). Tuttavia, a pp. 50, 13-52, 12 Proclo cerca di dimostrare che anche Plotino e Porfirio riconoscevano differenti livelli nel Nous. 10 katΔ a[rqra: cfr. In Parm., 1063, 4; Theol. Plat., I, pp. 42, 15; 52, 19. 11 Theol. Plat., I, 11, p. 53, 9-10. Questa interpretazione era stata prima
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de diventa il preminente dialogo teologico in cui Platone abbozza una «teogonia» in concetti astratti12. Tuttavia, è più difficile determinare lo statuto della terza ipotesi, in cui gli stessi attributi dell’Uno sono simultaneamente affermati e negati. Alcuni interpreti vedono qui una sorta di Aufhebung dell’antinomia che esiste fra la prima e la seconda ipotesi13. La maggior parte degli studiosi fa notare che Platone non inizia da capo, ma riprende la conclusione a cui lo ha portato la seconda ipotesi e la sviluppa ulteriormente: «Se l’Uno è così come lo abbiamo descritto, sia uno che molti, e né uno né molti...». Evidentemente, non si tratta di una nuova «supposizione», bensì di una specie di corollario, collegato alla seconda ipotesi, in cui Platone si occupa del problema del divenire e del cambiamento nel tempo14. Nell’analisi precedente, infatti, era stato dimostrato che l’Uno-che-è ha tutti gli attributi possibili, anche opposti, e poi che esiste nel tempo. Ciò imsistematicamente elaborata da Siriano, come attesta in più occasioni Proclo: cfr. In Parm., 1061, 20 ss.; 1085, 12 ss.; Theol. Plat., I, 10, p. 42, 9 ss. 12 Cfr. Theol. Plat., III, p. 162: kai; wJ" oujde;n a[llo ejsti;n h] gevnesi" kai; provodo" qew`n (cfr. I, p. 31, 24) e DAMASCIUS, In Parm., II, p. 84, 14-15. Cfr. Siriano, il quale afferma che Platone, nel Parmenide, cerca di sviluppare una teogonia in termini astratti e filosofici in senso stretto (In Parm., 1061, 33 ss.). Proclo fonda la sua Teologia Platonica sul Parmenide, poiché crede che in quel dialogo siano state espresse perfettamente tutte le proposizioni della scienza teologica (Theol. Plat., I, 7, p. 31). 13 Così, per es., J. WAHL, Etude sur le Parménide de Platon, Paris 1926, p. 167: «pour concilier la seconde et la première...». 14 Così F. CORNFORD, Plato and Parmenides, London 1939, p. 194 ss. Così anche A.E. TAYLOR, Plato, the Man and his Work, 5a ed. London 1948, p. 361, n. 1: «The main argument ends at 155 e 3. What follows down to 157 b 5 is an appended special development which would, in a modern writing, be relegated to a note». F. NIEWÖHNER (Dialog und Dialektik in Platons «Parmenides» cit., p. 280) parla di un «Zusammenfassung der 1. und der 2. Hypothese und das daraus resultierende Problem des ejxaivfnh"».
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plica che tale Uno può essere una volta ciò che non era un’altra, e, di conseguenza, che esso può diventare ciò che non era prima. In questa sezione, Platone distingue i vari tipi di «divenire» a cui tale Uno è soggetto. Esso viene a essere o cessa di essere; diviene uno o molti; cresce o decresce in grandezza; diventa simile o dissimile nella qualità15. «Divenire», in tutte queste forme, implica che una cosa stia passando da uno stato a un altro. Platone dimostra che tale transizione non si realizza in un periodo di tempo, per quanto breve possa essere, ma in un «istante» (ejxaivfnh") che non occupa nessun tempo e si situa fra i due stati. L’intenzione originaria di questo passo del Parmenide – dare un’analisi del cambiamento nel tempo – si perde totalmente nell’interpretazione neoplatonica. Plotino vide in questo Uno che è «uno e molti e né uno né molti» un’allusione all’essenza dell’anima, evidentemente perché essa porta queste contraddizioni nella sua essenza in quanto «media» tra essere e divenire. Nella tradizione neoplatonica, tale terza ipotesi fu interpretata sistematicamente in funzione dell’anima: così Amelio e Porfirio, Plutarco, Siriano e Proclo, e infine lo stesso Damascio16. Giamblico invece si allontanò da tutti i suoi predecessori, riferisce Proclo, sostenendo che la terza ipotesi non trattasse dell’anima, bensì delle «classi superiori, gli angeli, i demoni e gli eroi». Egli pensava che Platone avesse dato loro, nel15 Il movimento locale non è menzionato da Platone come conclusione separata. Questo perché, come osserva Damascio, il movimento locale è implicito in tutte le altre forme di cambiamento e dunque non necessita di una trattazione particolare: cfr. In Parm., aporia 14 e la sua soluzione in IV, p. 35, 1-10. 16 AMELIUS, In Parm., 1052, 35; PORPHYRIUS: 1054, 2 (confermato da SIMPL., In phys., 230, 34-231, 6); PLUTARCHUS: 1059, 5; SYRIANUS: 1063, 5.
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la sequenza delle ipotesi, un posto subito dopo quello degli dèi (la seconda ipotesi) – poiché queste classi dipendono immediatamente dagli dèi – e tuttavia prima delle anime, di cui parla solo nella quarta ipotesi, e questo perché le anime non sono dipendenti direttamente dagli dèi, ma dalle «classi superiori» che mediano tra loro. Questa idea è, come abbiamo già osservato, particolarmente cara a Giamblico. Egli non esita, pertanto, a deviare dall’interpretazione tradizionale, per poter essere in grado di isolare le classi superiori come un «regno speciale» tra gli dèi e le anime. Di conseguenza, alle anime viene assegnato un posto inferiore nella processione della realtà. Non facendo più parte del livello dell’Uno, ma dell’Altro dall’Uno, la loro distanza dagli esseri divini aumenta. Secondo Proclo, questa interpretazione coinvolge Giamblico in un paradosso: le classi superiori come gli angeli e i demoni verrebbero elevate anche al di sopra delle anime universali17. La validità di tale tesi non è immediatamente evidente, dal momento che sappiamo da altri testi che Giamblico certamente collocò le anime divine universali al di sopra degli angeli e dei demoni, come fecero Proclo e Damascio18. Ma probabilmente egli sosteneva che il soggetto della quarta ipotesi fosse l’anima razionale in quanto tale e che lì fossero trattate sia le anime universali che le particolari. In questo modo, le anime universali PROCLUS, In Parm., 1055, 2: th;n de; trivthn, oujk e[ti peri; yuch`", wJ" oiJ pro; aujtw`n, ajlla; peri; tw`n kreittovnwn hJmw`n genw`n, ajggevlwn, daimovnwn, hJrwvwn (tau`ta ga;r ta; gevnh prosevcw" ejxhrth`sqai tw`n qew`n kai; eij`nai kai; aujtw`n kreivttona tw`n o{lwn yucw`n. Tou`to dh; to; paradoxovtatovn fasi, kai; dia; tou`to th;n pro; tw`n yucw`n ejn tai`" uJpoqevsesin tavxin labei`n). I manoscritti indicano in margine ΔI amblivcou dovxa, attribuzione che è con17
fermata da passi paralleli in Damascio. 18 Cfr. per es. STOB., Ecl., I, 372, 15-21.
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sono introdotte nell’esposizione solo dopo le classi superiori, benché esse siano precedenti da un punto di vista ontologico. Proclo crede che questa contraddizione possa essere evitata. Le classi superiori non richiedono un’ipotesi separata: o sono puri esseri «intellettuali» (noerov") e allora appartengono alla seconda, oppure sono esseri psichici e quindi rientrano nella terza. Proclo preferisce qui l’interpretazione del suo maestro, Siriano: Platone introduce sia le anime universali sia le classi superiori alla fine della seconda ipotesi. Il tema di questa ipotesi è, come abbiamo detto, lo svolgersi di tutti gli esseri divini e divinizzati da quelli puramente intelligibili a quelli che già partecipano nel tempo. Dal momento che la partecipazione nel tempo si realizza in primo luogo nell’anima, l’Uno, analizzato alla fine di questa ipotesi, deve essere un’essenza psichica. Platone considera qui lo stato delle anime divine e degli esseri superiori che le assistono, mentre, nella terza ipotesi, sarebbero trattate solo quelle anime «che sono simili agli dèi senza avere un’essenza divina», cioè le anime umane, che non sono sempre al cospetto degli dèi19. Giamblico rimane completamente isolato nella sua spiegazione della terza ipotesi. Infatti persino Damascio, che spesso preferisce Giamblico a Proclo, non può accettare la 19 Questa interpretazione è attribuita da Proclo anche a Siriano (In Parm., 1063, 5-1064, 5 e 1217, 13-21; Theol. Plat., I, 11, p. 49, 19-21). Anche se il commento di Proclo alla seconda ipotesi non è conservato, è possibile ricostruire la sua interpretazione delle ultime conclusioni. Parm. 151 E3-153 B7 si occupa delle anime universali; 153 B8-155 D1 delle classi superiori. Cfr. In Parm., 1212, 5-1233, 19 e 1233, 20-1239, 21, in cui le proprietà di entrambi i gruppi sono negate all’Uno (cfr. Theol. Plat., II, p. 71, 13-72, 3). Cfr. anche DAMASCIUS, In Parm., III, p. 159, 1-5 (aujtov" = Proclo).
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sua interpretazione e fornisce un certo numero di argomenti per giustificare il suo rifiuto. Un paragrafo speciale (nr. 398) è dedicato all’esame dello scopo (skopov") della terza ipotesi. Damascio muove dall’interpretazione di Proclo secondo cui il soggetto in quel caso è «l’anima che scende nel divenire e sale fuori dal divenire»20. Proclo intende le varie forme di cambiamento che vi vengono analizzate come indicazioni dei cambiamenti che l’anima sopporta nella sua discesa e salita. La validità di questa interpretazione può essere dimostrata escludendo le altre possibilità. Platone certamente non si riferisce agli e[nula ei[dh, cioè alle forme realizzate nella materia, dato che le chiama sempre «gli Altri», mentre l’assunto da cui procede qui è ancora quello che l’Uno è. Platone comincia a parlare degli Altri solamente con la quarta ipotesi. Inoltre, afferma Proclo, non può trattarsi degli esseri divini – l’anima divina o il corpo divino – poiché tutti questi esseri sono già implicati nelle conclusioni riferite agli dèi, che sono state dedotte alla fine della seconda ipotesi21. Perciò, l’anima particolare resta la sola possibilità. Questa è certamente la conclusione che Proclo trae dall’argomentazione, ma Damascio la trova piuttosto prematura, e del tutto inaspettatamente, conclude: «rimane l’opinione che l’ipotesi descriva gli esseri che sono sempre al cospetto degli dèi, che è l’opinione
20 IV, p. 3, 8-10: peri; yuch`" ... katiouvsh" kai; ajniouvsh" ajpo; genevsew" kai; eij" gevnesin. IV, p. 8, 2-3: w{" fhsin aujtov", kaqovdou" te kai; ajnovdou". 21 IV, p. 3, 13-14: e[ti, fhsivn (scil. Proclo), eij peri; oujsiva" qeiva", ei[te yu-cikh`" ei[te swmatoeidou`". Cfr. El. theol., prop. 139, p. 122, 29-30: e[stin ouj`n kai; swmatikw`" kai; yucikw`" kai; noerw`" to; qei`on gevno". Non
solo le anime divinizzate appartengono, con gli dèi, alla seconda ipotesi, ma anche il corpo divino: cfr. DAMASCIUS, In Parm., III, p. 160, 5-8; IV, p. 52, 11-16; IV, p. 53, 3-7; IV, p. 66, 1-3. Un’allusione al corpo divino era riconosciuta in Parm., 155 D 6 dove si dice «che vi può essere percezione
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del grande Giamblico. Questa è la più convincente di tutte le spiegazioni antiche e ottiene ancor più plausibilità dalle conclusioni riguardanti i demoni nel Simposio»22. Senza dubbio, Giamblico sosteneva la sua interpretazione riferendosi al famoso passo del Simposio che parla della posizione intermediaria dei demoni tra gli dèi e gli uomini (202 E). La funzione dei demoni è di interpretare e portare le preghiere e le offerte degli uomini agli dèi e, inversamente, di trasmettere i comandi e le risposte dagli dèi agli uomini. Forse Giamblico avrebbe potuto vedere, nella terza ipotesi, allusioni allo «scendere» e «ascendere» di questi esseri superiori nell’esercizio della loro funzione mediatrice. Troviamo ancora alcune tracce della sua interpretazione anche in altri passi di Damascio, come è il caso di IV, p. 18, 14 e ss. Stiamo esaminando qui, dice Damascio, i cambiamenti che la nostra anima subisce nella sua discesa e ascesa. Anche se le classi superiori provano una certa forma di «discesa e ascesa», come suppone Giamblico, tuttavia questa esperienza è più cospicua nel caso delle nostre anime23. Infatti, la presenza degli esseri superiori in questo mondo (la loro kavqodo") non comporta una reale separazione dal mondo intelligibile, poiché essi sono continuamente orientati verso di esso (la loro a[nodo"). Nel caso delle anime umane, invece, vi è un’alternanza di ascesa e discesa che non possono verificarsi simultaneamente24. (ai[sqh-si") dell’Uno», cioè, deve esserci un essere divino percepibile dai sensi. 22 IV, p. 3, 15-19. daimonivwn sumperasmavtwn non significa «conclusioni degne di nota» come traduce Dillon, ma «conclusioni riguardanti i demoni» [Combès traduce: «conclusions qui (...) sont relatives aux démons» (N.d.T.)]. 23 IV, p. 19, 15-16: h[dh gavr ti kai; toiou`ton oJ qei`o" ΔI avmblico" ejn touv-toi" aujtoi`" uJpotivqetai. La frase ejn touvtoi" aujtoi`" significa «in que-
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È in qualche modo curioso che, sebbene Damascio chiami l’interpretazione di Giamblico la più «convincente», egli alla fine adotti quella di Proclo. Dopo aver espresso il dovuto rispetto a Giamblico, Damascio adduce infatti le seguenti obiezioni alle sue posizioni: 1. Le classi superiori – angeli, demoni ed eroi – sono perpetuamente al cospetto degli dèi. Di conseguenza, esse ricevono, secondo il loro rango, le proprietà che sono state dedotte nell’ipotesi riguardante le loro rispettive divinità. Fra tutti gli esseri che sono stati «assegnati» (klh`ro") agli dèi, essi sono i più perfetti, perché non si allontanano mai dalle loro guide divine25. Per questa ragione, l’interpretazione di Proclo poneva queste classi superiori nella seconda ipotesi, dove erano collocate dopo le diverse classi degli dèi. Anche se Damascio non è completamente d’accordo con Proclo, egli, pure, crede che, nella seconda ipotesi, Platone non si limiti a parlare degli dèi (i
ste stesse classi» e non «in questo stesso passo» (Ruelle, Dillon) [Combès traduce: «dans ces genres eux-mêmes» (N.d.T.)]. 24 Cfr. anche IV, p. 24, 1-7 e In Phaed., 191, 26 ss. 25 IV, p. 4, 1-5: ΔAllæ o{mw" ojpadoi; kai; aji?dioiv eijsin oiJ para; touvtwn ta;" ijdiovthta" ejn tavxei uJpodecovmenoi tw`n qeivwn sumperasmavtwn: tw`n ga;r dh; toi`" qeoi`" klhvrwn uJpestrwmevnwn plhrwvmata kai; ta; kreivttw gevnh, a{te oujde;; oJpwstiou`n ajfistavmena tw`n qeivwn. Invece di aji?dioi la tradizione manoscritta riporta oijloioiv, forma inintelligibile che Ruelle propone di cambiare in a[ggeloi. A. Jahn suggerisce oiJ loipoiv. La congettura aji>vdioi è nostra. Cfr. IAMBLICHUS, De myst., 36, 8: ajivd> ioi te eijsi kai; sunopadoi; tw`n qew`n. Il termine ojpadov" fu usato in prima istanza da Platone per designare
le anime che seguono gli dèi nella loro processione attraverso i cieli, e contemplano le regioni superiori (Phaedr., 252 C - cfr. Phil., 63 E). Questa immagine mitica fu, per i successivi Platonici, il punto di partenza per una classificazione gerarchica delle anime: cfr. IAMBLICHUS, De myst., I, 10, 36, 8 ss. e anche 8, 14; 9, 10; 94, 20 e specialmente PROCLUS, El. theol., prop. 184 e 204. Tutte le divinità cosmiche hanno ottenuto dal demiurgo quale loro «assegnazione» (klh`ro") non solo una speciale provincia del mondo di
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differenti livelli di essere «Uno»), ma consideri pure tutti gli esseri che sono in qualche modo «annessi» a loro, cioè le classi superiori, che sono perpetuamente in compagnia dei loro dèi. Invece, quegli esseri, che a volte si ritirano e diventano distaccati dagli dèi (l’«Uno»), sarebbero il soggetto dell’ipotesi successiva, la terza26. 2. Nella terza ipotesi, è analizzato il cambiamento che avviene nel tempo. Ora, ciò può riferirsi solo all’anima particolare, poiché soltanto essa sperimenta il cambiamento temporale, il quale continuamente fa sì che sia diversa da ciò che era prima. Si potrebbe obiettare che anche alla fine della seconda ipotesi si dice che, se l’Uno «è», è nel tempo e ha la proprietà di diventare «più vecchio e più giovane». Tuttavia, Damascio crede che tempo e divenire siano anticipati in quel contesto solo come «proprietà» (katΔ ijdiovthcui prendersi cura, ma anche un particolare gruppo di anime (suddivise in angeli, eroi, ecc.), che vanno sotto la loro guida e partecipano delle loro caratteristiche. Cfr. IAMBLICHUS in STOB., Ecl., I, 377, 19-29 e PROCLUS, In Tim., I, 163, 6-11; III, 305, 1 ss.; 308, 25 ss. 26 Cfr. III, p. 160, 8-13: o{ti peri; tou` eJno;" dialegovmeno" peri; qeou` me;n dialevgetai pavntw" kata; th;n deutevran uJpovqesin, a{ma de; kai; peri; th`" ejxhmmevnh" aujtou` pavsh" oujsiva", ... kata; th;n tw`n ojpadw`n sumperipovlhsin. In questo paragrafo Damascio esamina lo skopov" delle tre ultime con-
clusioni della seconda ipotesi (149 D8-155 D1). Secondo Proclo, uguaglianza e diseguaglianza nella grandezza si riferiscono alle divinità cosmiche (149 D8 - 151 B8); uguaglianza e diseguaglianza nella quantità (discreta) agli dèi sublunari (151 B8 - 152 E2); uguaglianza e diseguaglianza nel tempo alle anime divine (151 E3 - 153 B7) e alle classi superiori (153 B8 - 155 D1). Damascio non avrebbe potuto accettare questa interpretazione: hJmi`n de; a[meinon eij`nai dokei` (III, p. 159, 5). Secondo la sua opinione, le prime conclusioni si riferiscono agli «dèi delle stelle fisse», le intermedie agli «dèi dei pianeti», e solo le ultime agli dèi sublunari. Pertanto non accetta più che le anime divine e le classi superiori siano direttamente indicate nella seconda ipotesi, neanche nelle ultime conclusioni. Poiché, se questa ipotesi è, nella sua interezza, una teogonia, tutte le conclusioni, anche le ultime, trattano principalmente di una classe particola-
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ta) degli dèi sublunari che interferiscono direttamente nel
processo del divenire e in tal modo lo controllano. Ma ciò non implica che questi stessi dèi possano subire qualche reale cambiamento nel tempo27. 3. L’Uno che è considerato in questa sezione procede immediatamente dopo le classi inferiori degli dèi, e cioè gli dèi sublunari che producono e controllano il processo del divenire (genesiourgoiv). In base al suo posto nella processione della realtà, tale Uno sarà caratterizzato nel suo essere dalla specie di divenire che è proprio degli esseri sublunari. Questo Uno può essere soltanto l’anima particolare, poiché il «divenire», come anche l’«essere», sono costitutivi della sua essenza. La discesa nel mondo del divenire non è, per l’anima, contraria alla sua natura, nella misura in cui la sua natura è determinata anche dagli dèi che sono coinvolti nel mondo del divenire28. Per tutte queste ragioni, Damascio non può accettare la posizione di Giamblico riguardo lo skopov" della terza ipotesi e segue l’interpretazione tradizionale, che intendeva questo testo come una descrizione dell’anima particolare che scende nel divenire e risale da esso. re di divinità. Però Damascio concorda con Proclo sul fatto che le anime divine e le classi superiori siano trattate indirettamente, in quanto esse partecipano delle proprietà dei loro rispettivi dèi (III, p. 160, 8-20). Cfr. anche III, pp. 173, 4-175, 26. 27 III, p. 175, 2-4: wJ`/n ijdiovth" ejn aujtoi`" proeivlhptai toi`" genesiourgoi`" h] o{lw" uJposelhvnoi" qeoi`" (cfr. III, p. 187, 22 ss.). Sul significato di ijdiovth" cfr. infra, p. 150. 28 IV, p. 4, 14-19: meta; th;n genesiourgo;n ijdiovthta tw`n qew`n ajnafaivnetai tou`to to; eJvn ... kai; ajpo; tw`n uJposelhvnwn qew`n paravgetai, h] oujk a]n kata; fuvsin th;n eJautou` kath`lqen eij" gevnesin. Cfr. IV, p. 25, 1-2; IV,
p. 25, 10-12; IV, p. 25, 18-20; IV, p. 26, 4; IV, p. 26, 7-9; IV, p. 26, 13-15; IV, p. 26,16. Nella sua discesa nel mondo del divenire e nella sua risalita da esso, l’anima è dipendente dagli dèi sublunari (cfr. PROCLUS, In Tim., I,
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2. Il posto dell’anima all’interno della dialettica dell’Uno Se concordiamo con Damascio nel dire che Platone avrebbe determinato lo statuto ontologico dell’anima particolare nella terza ipotesi, sorge immediatamente la domanda sul perché proprio l’anima sia definita «sia uno che molti e né uno né molti»29. Una risposta a ciò presuppone che siamo sicuri del posto che l’anima occupa nella dialettica dell’Uno, che Platone sviluppa nella seconda parte del dialogo. Quando osserviamo il metodo impiegato nella deduzione delle prime cinque ipotesi, allora, con Damascio, possiamo stabilire quanto segue30: nella prima e nella quinta ipotesi, sono usate solo negazioni per indicare, rispettivamente, la perfetta trascendenza dell’Uno Assoluto, che non è niente di quanto si origina da esso, e per caratterizzare l’assoluta privazione della materia, che non è niente di quanto appare in essa, ed è dunque formalmente agli antipodi dell’Uno, imitando le sue negazioni in un senso inverso31. La seconda e la quarta impiegano entrambe affermazioni, l’una per designare il dispiegarsi gerarchico dell’Uno-che-è e la molteplicità degli ordini divini che esso abbraccia, l’altra per indicare la diversità e la molteplicità degli Altri, cioè le forme realizzate nella materia che ancora, in un certo senso, partecipano dell’Uno32. Per la terza ipotesi, Platone usa affermazioni come anche negazioni, così che esse sembrano cancellarsi reciproca186, 4-5) che, per così dire, fanno sì che l’anima «muoia» o «riviva»: cfr. lo strano passo in IV, p. 9, 1-4: oiJ qeolovgoi oJmologou`sin wJ" ta; aujta; pavscei toi`" qeoi`" hJ hJmetevra yuchv, ajniou`sa kai; katiou`sa, ajpoqnhvskousav te kai; aj-nabiwskomevnh, kaq jo{son ajpo; tw`n toiouvtwn paravgetai qew`n (cfr.
HIEROCLES, In carm. aur., 418 B). 29 Questo è l’oggetto della seconda aporia esaminata in IV, p. 4, 20 ss.
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mente l’un l’altra. In effetti, il posto dell’anima «a metà fra» le realtà intelligibili e quelle sensibili può essere espresso solo in termini mutuamente contraddittori33. Se è così, allora l’anima deve anche occupare una simile posizione intermedia nella sequenza delle ipotesi nella misura in cui esse intendono riflettere le articolazioni della realtà, e cioè tra l’Uno (considerato nelle ipotesi 1 e 2) e gli Altri (considerati nelle ipotesi 4 e 5). Sopra l’anima vi è il puro essere intellettuale («l’Uno») e sotto vi è il dominio del puro divenire («gli Altri»). Nell’anima, l’essere scende all’estrema frontiera dove si mescola al divenire. Come forma più bassa dell’Uno, l’anima porta gli Altri in sé paradigmaticamente, sebbene l’unità in essa sia ancora predominante34. Questo è chiaramente indicato nella frase iniziale della terza ipotesi. L’anima non è soltanto «uno e molti», ma anche «né uno né molti» in quanto anticipa nella sua unità le negazioni degli Altri. Nondimeno, non si può ridurre e semplificare questa «contraddizione» che esiste all’interno dell’anima a un’opposizione tra unità e molteplicità. Si potrebbe suggerire che «non-molti» significa la stessa cosa di «uno», e «non-uno» lo stesso di «molti» e che, di conseguenza, la 30 Cfr. IV, p. 78, 15-19; IV, p. 4, 20-5, 18; IV, p. 35, 15-22. L’interpretazione di Damascio è ben illustrata dai diagrammi forniti da COMBÈS nel suo articolo, Damascius lecteur du «Parménide» cit., pp. 58-59. 31 Cfr. IV, pp. 65, 11-67. 32 Cfr. IV, p. 85, 1 ss. 33 Cfr. IV, p. 35, 19-22: hJ mesovth" th`" yuch`" ajpaitei` ta; ajntikeivmena ... ou{tw" a[ra to; katafatiko;n kai; ajpofatikovn. Cfr. PROCLUS, Theol. Plat., I, 12, p. 57, 22-58, 7: hJ de; mevsh (scil. ipotesi) th`/ yucikh/` tavxei proshvkou-sa: suvgkeitai me;n ga;r ejk katafatikw`n kai; ajpofatikw`n sumperasmavtwn. Cfr. In Tim., III, 25, 21-24: oujdΔ a[llw" dunavmeqa th`" mesovthto"
tauvth" katakrath`sai televw" eij mh; trovpon tina; toi`" ajntikeimevnoi" ejp j aujth`" crhsaivmeqa.
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frase iniziale si può riformulare in un modo più semplice, come «se l’Uno è uno e molti». Tuttavia, quest’interpretazione semplificante – che si può trovare in Plotino35 – conserva solo le affermazioni con cui Platone determina l’anima, poiché la molteplicità è una determinazione positiva dell’anima tanto quanto l’unità. L’anima è in effetti un’unità che è differenziata in se stessa e contiene «parti» o logoi o facoltà. In questo senso, si può correttamente chiamare «una e molti». Ma non potrebbe dirsi lo stesso anche del mondo intelligibile? Difatti, nella seconda ipotesi che considera l’essere intelligibile, Platone parla anche di una molteplicità dentro l’unità, di una totalità che abbraccia parti dentro se stessa. Per poter indicare l’essenza propria dell’anima e distinguerla dall’intelligibile, si deve, come fa Platone, formulare simultaneamente le sue negazioni con le sue affermazioni. Oltre a essere «una e molti», l’anima è anche e ugualmente «non-una e non-molti», che sono precisamente le caratteristiche degli Altri. Come abbiamo già osservato, la terza ipotesi è presentata da Platone come un corollario della seconda e non offre in realtà un nuovo punto di partenza. «Se l’Uno è così come lo abbiamo descritto, non segue che...». D’altra parte, l’espressione e[ti dh; to; trivton levgwmen suggerisce un nuovo inizio. La questione se la «terza ipotesi» possa essere considerata davvero indipendente, o solo un corollario della precedente, ha, per Damascio, anche una dimensione ontologica. A suo avviso, la sequenza delle ipotesi manifesta la graduale processione della realtà. Se la terza
34 Cfr. IV, pp. 51, 13-52, 10. Sia Proclo che Damascio intendono il termine «l’Uno» come riferito al puro essere incorporeo, mentre «gli Altri» si riferirebbe a tutte le cose coinvolte nella materia (ta; e[nula). Cfr. PROCLUS,
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ipotesi non fosse indipendente, neanche l’anima potrebbe essere un’ipostasi auto-sussistente. La sua risposta a questo problema è chiara: «Questa mescolanza nell’anima, cioè, uno e non-uno, essere e non-essere, è auto-costituita (aujqupovstaton: IV, p. 8, 5)». Quantunque Platone sembri prendere le sue affermazioni sul terzo Uno – l’anima – come conclusioni dalla seconda ipotesi, egli distingue la sua essenza da quanto è stato dimostrato nella seconda. «Se l’Uno è così come lo abbiamo descritto, allora, in quanto è uno e molti, non deve necessariamente essere non-uno e non-molti» cioè, per la sua propria natura?36 In effetti, l’anima costituisce da sé la sua complessa struttura. Divenendo continuamente diversa, è la negazione delle sue affermazioni, come vedremo più avanti. Ammesso che Damascio abbia distorto la struttura del testo di Platone, la sua interpretazione, tuttavia, tiene in conto una reale difficoltà. Se accettiamo che, in questa parte del Parmenide, non sia introdotta una nuova ipotesi, ma sia piuttosto proposto un ulteriore sviluppo della precedente, ci troviamo di fronte al seguente problema. Nella seconda ipotesi, sono pronunciate solo asserzioni affermative sull’Uno, e non si dice mai che l’Uno è «non-uno e non-molti». Di conseguenza, gli attributi negativi che sono ascritti all’Uno nella terza ipotesi non possono deriva-
In Parm., 1048, 6-10 e 1059, 8-11; DAMASCIUS, In Parm., IV, pp. 51, 21- 52, 3. 35 Cfr. Enn., V, 1, 8, 23 e IV, 2, 2, 52-55, dove l’anima è definita come e}n kai; pollav in opposizione al Nous che è detto e}n pollav. Questa interpretazione è menzionata anche da HERMEIAS, In Phaedr., 121, 8-10 e da Proclo (cfr. n. 8). 36 IV, p. 8, 8-11: ΔAmevlei wJ" kai; tau`ta sunavgwn trovpon tinav, ou{tw ejdiwvrisen ajpo; tw`n dedeigmevnwn: «To; e}n eij e[stin oiJ`on dielhluvqamen», «aj`ra oujk ajnavgkh aujto; e{n te o]n kai; polla; kai; ou[te e}n ou[te pollav» aj-
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re dalla seconda ipotesi. Ma neppure possono derivare dalla prima, dove indicano la trascendenza dell’Uno assoluto. Secondo Damascio, essi sono l’espressione dell’essenza dell’anima come medio tra l’Uno e gli Altri37. L’anima appare nel dispiegarsi della realtà come la forma più bassa di unità che è auto-sussistente. Ciò che viene dopo di essa sono gli Altri-dall’-Uno, le forme realizzate nella materia. Si dovrebbe osservare che essere altro-dall’-uno non implica essere «molti». Per poter formare una «molteplicità», gli Altri devono partecipare dell’Uno, come è mostrato nella quarta ipotesi38. Presi di per sé, senza questa partecipazione, sono «né uno né molti». Ora, dal momento che l’anima, quale unità inferiore, confina (suvnoro") con gli Altri, le caratteristiche di questi ultimi vengono riflesse nella sua essenza. Essa è un Uno dove comincia ad apparire (uJpofaivnetai) il non-uno, in cui è prefigurata la forma degli Altri39. L’opposizione esistente fra l’Uno e gli Altri è dunque «mediata» dall’anima nella sua propria essenza. In quanto esiste come un uno, partecipa dell’essere e forma una po; th`" oijkeiva" fuvsew". Damascio non cita l’intera frase dal Parmenide, omettendo la parte finale con l’infinito metevcein. Nel testo di Platone, la frase negativa mhvte e{n mhvte pollav funziona come una coordinata con la frase positiva e{n te kai; pollav, essendo entrambe predicati di aujto; o[n. Damascio la rende un predicato di ajnavgkh (eij`nai), il che dà al testo un significato diverso. È l’anima che dà a se stessa le determinazioni negative della sua essenza. 37 Damascio giunge a questa conclusione attraverso una lunga e difficile analisi dell’opinione di Proclo: cfr. IV, pp. 5, 19-6, 4: Mhvpote ouj`n a[mei` non levgein o{ti hJ merikh; yuchv, mevsh oujsa tou` te eJno;" kai; tw`n a[llwn, katΔ aujth;n th;n mesovthta th`" fuvsew" e{n tev ejstin kai; oujc e{n ... JOmoivw" de; pol-la; me;n wJ" tw`/ eJni; suggenh;" ... ouj polla; de; wJ" toi`" a[lloi" suvnoro". 38 In IV, pp. 51, 13-52, 10 è sollevata la questione se la quarta ipotesi abbia o meno un quarto «Uno» come soggetto. Damascio risponde che l’a-
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molteplicità. In quanto anticipa gli Altri in se stessa, è non-uno, non-essere, e non-molti40. Tutte queste negazioni, naturalmente, non possono essere prese in un senso assoluto. L’anima non può essere considerata un assoluto non-essere, non-uno e non-molti, come la materia. Queste negazioni sono usate soltanto per indicare le forme false, ‘umbratili’ (ei[dwla) della vera unità, del vero essere e della vera molteplicità41. Nell’anima, infatti, la sua non-unità è ancora (e[ti) una, il suo non-essere ancora essere, la sua non-molteplicità ancora una molteplicità42. In effetti, quale reale Uno inferiore, l’anima anticipa gli Altri in se stessa, ma nella modalità della sua unità. È come unità che essa manifesta non-unità e come essere che sembra non-essere. E, viceversa, la sua non-unità e il suo non-essere devono essere intesi come la forma apparente della sua unità e del suo essere. Di conseguenza, è impossibile fare una chiara distinzione tra due «parti» di cui l’una sia specificata solo da affermazioni, l’altra da negazioni. Questo comporterebbe che l’anima sia scissa in «essere» e «divenire» e che sia un essere composto43. nima è la forma più bassa di unità kaqΔ uJpovstasin, gli Altri possono solo avere unità per partecipazione. 39 IV, p. 9, 25-26: to; oujc e}n kai; ouj polla; kai; oujk o[n, a}" dh; aujtav" fh-mi; prolhvyei" eij`nai tw`n a[llwn ejn th/` yuch/` - IV, p. 10, 16-18: nohtevon wJ" uJfestw`ta ejn th`/ yuch/` paradeivgmata tw`n a[llwn, ma`llon de; wJ" a[lla ka-ta; e[mfasin h[dh pw" profainovmena. Cfr. anche IV, p. 85, 3-5: to; de; trivton e[n, h[dh tina; kai; tw`n a[llwn e[mfasin uJpofai`non ... wJ" protuvpwma tw`n a[llwn o[n.
Cfr. IV, p. 6, 14-16; cfr. Parm., 155 E 6-8. Cfr. IV, p. 7, 19-23 (con un riferimento a Soph., 240 A ss.). Questo sembra essere anche il significato del difficile passo a IV, p. 8, 14-18: wJ" 40 41
e[scatovn ejsti tou`to to; e}n kai; wJ" oujc e}n ijndallovmenon: wJ" de; to; e}n e[cei, ou{tw kai; ta; eJpovmena tw/` eJni; pavnta (cioè: molteplicità e essere) oujk aujtav (cioè come non-molteplicità e non-essere), ajllΔ e[ti o{mw" aujta; kai; a[lla eij`nai fantazovmena: ou[te a[ra polla; ou[te ti tw`n eJpomevnwn th`/ ka-
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Non è sorprendente che Damascio, in questo contesto, faccia riferimento al famoso passo del Timeo sulla costituzione dell’anima. Proprio come Timeo costruisce l’essenza dell’anima mescolando due elementi opposti, l’indiviso e il diviso, Parmenide descrive l’anima usando termini che si contrappongono: uno e non-uno, molti e non-molti, essere e non-essere. Tutte queste e altre simili opposizioni analizzate nel Parmenide sono messe insieme nel Timeo in una sola opposizione: l’indiviso e il diviso44. Nel suo commento al Timeo, Damascio dimostra che l’indiviso e il diviso non possono essere considerati come due parti distinte dell’anima. Tutti e due i termini insieme esprimono l’essenziale ambiguità dell’anima umana che, come una e medesima natura, è simultaneamente divisa e indivisa wJ" mivan fuvsin ajmfivbion45. Come una «natura anfibia», l’anima può vivere in due elementi estremamente diversi. Timeo la chiamava un «arbusto che ha le radici in cielo» ma Parmenide mostrava che essa è anche fissata nella terra ed è soggetta al cambiamento temporale46. È difficile immaginare direttamente un tale essere amtafavsei tou` eJnov". Questo passo può essere chiarito da un confronto con
IV, p. 51, 16-18. Come Uno inferiore, l’anima non ha mai negazioni assolute. Le sue determinazioni negative devono essere intese come false-forme della vera unità, della vera molteplicità e del vero essere. 42 IV, p. 8, 19-22: To; a[ra gignovmenon aujth`" wJ" e[ti o]n nohtevon, kai; to; oujc e}n wJ" e[ti e{n, kai; to; ouj polla; wJ" e[ti pollav, kai; e{kaston tw`n a[llwn oJmoivw". 43 IV, p. 10, 22-23: diaspavsomen ga;r ou{tw th;n yuch;n eij" oujsivan kai; gevnesin, kai; suvnqeton aujth;n poihvsomen e IV, p. 30, 3-4: Pw`" de; ouj diaspavsomen th;n yuch;n ... … 44 Cfr. IV, p. 6, 6-21 e IV, p. 7, 17-19. Si potrebbe obiettare, sostiene Damascio, che Timeo fornisca la struttura dell’anima universale, mentre le asserzioni di Parmenide si applicano solo all’anima particolare. Eppure, anche Timeo riconoscerebbe che l’opposizione tra il divisibile e l’indivisibile è più manifesta nell’anima umana poiché vi è alternanza nel tempo. In
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biguo. In effetti, è più semplice comprendere i termini estremi (a[kra) – l’interamente diviso o l’interamente indiviso – piuttosto che formulare quello che è situato «a metà strada», quello che non è né puramente diviso né indiviso ma è, precisamente, «tutti e due insieme». Inoltre, non abbiamo a nostra disposizione termini appropriati per esprimere essenze intermedie e dobbiamo ricorrere a una combinazione di termini estremi per indicarle indirettamente. Così, quando Platone nel Timeo forma l’anima mescolando le opposte caratteristiche degli estremi, non significa che l’anima debba essere realmente un essere misto o composto. «Mescolanza» è una metafora usata per caratterizzare l’essenza intermedia dell’anima che è, come un tutt’uno e simultaneamente, divisa e indivisa, mutevole e immutabile, divenire e essere47. Se il «diviso» e l’«indiviso» non sono due «parti» ben distinte dell’anima, ma proprietà di una semplice natura, una proprietà non può essere presente senza implicare il suo opposto: il diviso è indiviso e viceversa48. Anche se possiamo distinguere concettualmente queste proprietà e contrapporle, nell’anima quale «soggetto» esse in realtà coincidono49. Il fatto che l’anima porti sempre e simultaneamente gli opposti dentro di sé non esclude che a volte essa viva più secondo l’«indiviso» in sé e a volte più secondo il «divi-
tempi diversi può prevalere una diversa proprietà (cfr. IV, p. 6, 21-7, 4 e IV, p. 10, 8-12). Perciò Parmenide include «prende parte nel tempo» nella sua iniziale definizione dell’anima. 45 Cfr. IV, p. 10, 24-11, 1; IV, p. 12, 10-12. Il commento al Timeo non è stato conservato: altri riferimenti a esso sono dati a pp. III, p. 151, 4; III, p. 183, 2; IV, p. 12, 2-5; IV, p. 41, 15 e IV, p. 42, 18; cfr. anche In Phaed., 238, 17. 46 Cfr. IV, p. 9, 4-9.
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so». L’uno o l’altro «elemento caratteristico» (stoiceiwvdh" ijdiovth" – IV, p. 31,7) in essa può alternativamente predominare. E anche se la sua essenza è sempre caratterizzata dalla stessa fondamentale tensione, l’anima può provare tale tensione in gradi variabili dalla quasi pura unità alla quasi totale divisione50. Qui abbiamo l’idea centrale che Damascio svilupperà nella parte seguente. L’anima soggiace a un cambiamento sostanziale senza per questo perdere la sua identità – può diventare più o meno ciò che è. Abbiamo visto come Damascio tenti di spiegare la terza ipotesi dalla prospettiva del Timeo. L’Uno, che Parmenide introduce qui, è identificato con l’anima, la cui costituzione era stata abbozzata da Timeo. Così, nell’astratta discussione dialettica del Parmenide, è possibile riconoscere una caratterizzazione dello statuto ontologico dell’anima e la sua posizione intermedia tra l’intelligibile e il sensibile. D’altra parte, l’anima è introdotta nella dialettica dell’Uno e interpretata in funzione dell’unità. La psicologia è integrata in una «henologia» la quale, in realtà, costituisce l’intenzione ultima dell’intera filosofia neoplatonica51.
Cfr. De princ., II, p. 89, 18-25 e II, p. 90, 25 ss. Cfr. PRISCIANUS, In de an., 259, 10-29. 48 Cfr. IV, p. 31, 5-6: ΔH ... yuch`" oujsiva sugkevkratai pantavpasin ejx ajmfoi`n, kai; oujdevteron tou` eJtevrou cwriv". Cfr. IV, p. 48, 6-8: oujde; cwri;" mevn ... cwri;" dev ... ajlla; taujtovn e IV, p. 44, 21-22: e[cousa aujtov (scil. to; krei`tton), pro;" to; cei`ron ajmh/` gev ph/ suntetagmevnon. Cfr. l’uso dell’espressione o{lh diΔ o{lh": IV, p. 11, 4 e IV, p. 11, 9-10; IV, p. 15, 10 e IV, p. 15, 21; IV, p. 32, 18; IV, p. 47, 1; IV, p. 48, 3. 47
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Capitolo quinto
L’anima come autocambiamento
1. Una sostanza in cambiamento Nel capitolo precedente, abbiamo esaminato il modo in cui Damascio spiega il punto di partenza della terza ipotesi. Nella formula «uno e molti e né uno né molti», egli vede una definizione dell’essenza (eidos) dell’anima come il medio tra essere («uno») e divenire («altri»). Se si volesse concordare con questa interpretazione, quale significato dovrebbe dunque essere attribuito alle varie conclusioni dedotte successivamente da questo punto di partenza riguardante l’Uno? Come ricordato precedentemente, Platone distingue qui i vari modi in cui si verificano divenire e cambiamento, così come il fatto di divenire uno o molti, o il fatto di divenire simile o dissimile. Le sei conclusioni che vengono dedotte non possono essere considerate una caratterizzazione dell’eidos dell’anima1. Esse indicano, in una 1 Secondo Damascio le conclusioni devono essere distinte dall’ipotesi da cui sono state dedotte. Così Platone prima definisce l’Uno «uno e molti, e né uno né molti» e poi conclude che questo Uno «diventa uno» e «diventa molti». La prima asserzione – l’ipotesi – indica la struttura essenziale dell’anima (il suo eidos), la seconda – le conclusioni – i cambiamenti che riguardano tale eidos. Cfr. IV, pp. 7, 15-8, 2: to; me;n eij`do" aujth`", oiJ`on auj-
to; to; uJpokeivmenon ... peri; de; tou`to to; eij`do" ajpotelei`sqai ta;" ejfexh`" su-nagomevna" ejnantiwvsei" (cfr. IV, pp. 4, 22-5, 5 e IV, pp. 20, 20-24).
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sequenza razionale, quali cambiamenti l’anima sperimenta nella sua discesa nel divenire2: rimuove se stessa dall’essere e produce ciò che è soggetto al divenire e alla corruzione; perde la sua unità e diventa divisa e molteplice; procede fuori di sé e si incolla al corpo3; infine, produce le vite irrazionali attraverso cui diventa simile al corpo perfino sotto l’aspetto quantitativo, poiché, come il corpo, essa si riempie di massa maggiore o minore. Le stesse conclusioni indicano, in senso opposto, i cambiamenti che l’anima subisce quando ritorna e ascende: essa si differenzia dalla vita corporea con il compiere atti razionali e incorporei; una volta separata, «ripiega» (sumptuvxai) la sua molteplicità nell’unità e si incammina (oJdeu`sai) verso la partecipazione all’essere di cui sarà nuovamente ricolma4. Damascio così interpreta coerentemente in funzione dell’anima i cambiamenti corporei che Platone analizza5. 2 Cfr. IV, pp. 19, 22-23, 16 dove è esaminata la questione, formulata in IV, p. 1, 11-12: «Quante conclusioni ci sono? Cosa indicano? Perché sono proprio tante e perché sono ordinate così?» 3 IV, p. 21, 7: per l’uso metaforico di kovllhsi" cfr. PLATO, Phaedo, 82 E1. 4 Cfr. IV, p. 22, 8-13. In l. 8 una parte del testo deve essere stata omessa. Ou{tw me;n hJ kavqodo" fornisce la conclusione di IV, p. 22, 1-7. Dunque ci aspetteremmo: «E l’ascesa dell’anima procede in modo inverso» . E infatti, la parte seguente analizza i cambiamenti che l’anima sperimenta nella sua ascesa. La nostra correzione è confermata dall’uso di a[nodo" in ll. 13 e 15 [edizione Westerink-Combès: (N.d.T.)]. 5 I Neoplatonici spesso cercarono di applicare metaforicamente i diversi cambiamenti del corpo, che erano stati analizzati da Platone in Leggi, X, 893 B-C, all’anima, quale principio di ogni movimento. Così HERMEIAS, In Phaedr., 107, 6-25: kai; paradeigmatika;" de; eu[roi" a]n ta;" th`" yuch`" kinhvsei" tw`n swmatikw`n kinhvsewn e PRISCIANUS, Sol., 49, 19-34: «movetur quidem et in motus corporales rationalis anima non corporaliter, sed et eos per se mutabiliter, utpote in generationem et corruptionem, augmentum et minorationem, et mutationem et eam que secundum locum est transmutationem». Questo passo riflette la dottrina di Proclo (cfr. p. 42, 19-21): cfr.
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Ma sorge la domanda se questi molteplici cambiamenti, cui l’anima è soggetta, riguardino solo le sue attività, oppure se venga alterata anche la sua sostanza6. Nel testo di Platone si fa menzione di una «generazione» e di una «corruzione», che sembrano indicare un cambiamento sostanziale: pascouvsh" th`" oujsiva"7. Si può accettare ciò in riferimento all’anima? Questa è la questione centrale nella ricerca di Damascio, ed egli vi ritorna ripetutamente in continua discussione con Proclo. In accordo con la sua visione generale dell’anima, Proclo afferma che i cambiamenti analizzati nella terza ipotesi si applicano solo alle attività e facoltà dell’anima, mentre la sua sostanza rimane eterna e immutabile8. Damascio non può essere d’accordo: «Peraltro, abbiamo dimostrato nel nostro commento al Timeo che l’anima è, del tutto e interamente, sia generata che ingenerata nella sua sostanza, e siamo inoltre dell’opinione che queste conclusioni [della terza ipotesi] debbano essere intese come riferite alla sostanza»9. In effetti, una tale interpretazione è compatibile con l’intenzione generale del Parmenide, poiché, in ogni parte della sua dialettica,
L.G. WESTERINK, Proclus on Plato’s three Proofs of Immortality, in Zetesis. Bijdragen aangeboden aan Prof. Dr. E. de Strijcker, Antwerpen-Utrecht 1973, pp. 296-306. La corrispondenza tra il testo di Ermia e Prisciano-Proclo indica una comune dipendenza da una fonte precedente – Siriano o forse Giamblico (cfr. J.M. DILLON, Iamblichi... fragmenta cit., pp. 249 ss.). 6 IV, p. 1, 7-10: Povteron peri; ta;" ejnergeiva" h] peri; th;n oujsivan th`" yu-ch`" th;n metabolh;n tou` crovnou qewrhtevon, kai; o{lw" th;n a[llote a[llw" ejpi; ta; ejnantiva metarrevousan fuvsin.
IV, p. 21, 22. IV, p. 11, 20-23: aujtov" (scil. Proclo) me;n peri; ta;" ejnergeiva" kai; e[ti ta;" dunavmei" oJra/` ta;" tw`n sumperasmavtwn metabolav": th;n ga;r oujsiv7 8
an aujth`" aijwvnion eij`nai, th;n de; gevnesin peri; ta;" probola;" tw`n toivwn kai; toivwn zww`n.
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Parmenide si riferisce a «sostanze» e anche a ciò che trascende le sostanze, le enadi. Pertanto egli tratterebbe anche qui della sostanza dell’anima e non semplicemente dei suoi atti: «se l’uno è, allora deve essere così». Certamente si può, procedendo dalle attività, chiarire anche la sostanza dell’anima. Ma in questo esercizio dialettico, Parmenide è intento a dedurre conclusioni che si riferiscono principalmente alla sostanza, e pertanto alle attività viene data una conclusione secondaria poiché esse si limitano a manifestare le caratteristiche delle loro rispettive sostanze. Si potrebbe forse accettare una qualche forma di cambiamento nella sostanza dell’anima se la si considera solo come una caratteristica (katΔ ijdiovthta) della sostanza. In effetti, ogni causa comprende il suo effetto prima della sua manifestazione e anticipa in se stessa le caratteristiche dell’inferiore che da essa procede. L’inferiore pre-esiste nel principio superiore non come ciò che esso è essenzialmente (kaqΔ uJpovstasin), ma solo «virtualmente»10. In questo modo potremmo anche affermare che la sostanza dell’anima, come il principio da cui procedono le attività mutevoli, porta in sé le caratteristiche di quel cambiamento, ma non sperimenta mai in se stessa un cambiamento effettivo. Solo nelle attività potrebbe così esserci un cambiamento effettivo tale da implicare una successione nel tempo, mentre nella sostanza la totalità del cambiamento temporale potrebbe essere contenuta in un’immutabile unità atemporale11. Questa soluzione del problema è sen9 IV, p. 12, 2-5. Riguardo al commento di Damascio al Timeo cfr. supra, p. 144. 10 Tutte le proprietà dell’inferiore sono anticipate in un senso causativo dai livelli superiori. Così il nous che determina l’anima ha le caratteristi-
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za dubbio accettabile, osserva Damascio, nel caso degli dèi che presiedono al processo del divenire (gene-siourgoiv), poiché essi intervengono in tale processo senza esserne coinvolti. Pertanto, il cambiamento è presente nella loro sostanza solo come un «carattere»12. Nella terza ipotesi, però, il problema è l’anima umana, non gli dèi. È ovvio che l’anima umana non abbraccia mai la totalità del tempo, ma fa esperienza del tempo in un continuo cambiamento. Di conseguenza, dobbiamo accettare che l’anima umana conosce un cambiamento reale. Dopo molta esitazione e dopo aver prima esaminato attentamente tutte le altre spiegazioni possibili, Damascio alla fine introduce la sua personale visione, che si allontana decisamente dalla concezione di Proclo: «Forse ora possiamo osare esprimere ciò che da tempo avevamo in mente: forse vi è qualche cambiamento che tocca la nostra sostanza»13. E poiché egli stesso giudica la propria posizione piuttosto audace, si produce in un grande sforzo per suffragarla: 1. Che l’anima non appartenga all’essere eterno, ma abbia ricevuto l’esistenza nel tempo, è chiaramente insegnato dal Timeo. Ma mentre le anime divine abbracciano la totalità del tempo simultaneamente (pavnta ... o{mou), nel Parmenide si dice che l’anima umana partecipa e non partecipa dell’essere. E dal momento che non può avere e non
che dell’anima: nou`" me;n kaqΔ uJpovstasin, yuch; de; th/` ijdiovthti. Cfr. De princ., III, pp. 80, 9-81, 19 e In Phil., 228, 1-5 e 130, 5; 159, 4. 11 Cfr. IV, p. 12, 13-19. Damascio qui tocca una dottrina basilare della sua teoria sul tempo: la totalità del tempo esiste simultaneamente (eij`nai a{ma to;n o{lon crovnon ejn uJpostavsei). Questa dottrina fu criticata dal suo discepolo, Simplicio. Cfr. In phys., 775, 31-785, 11. 12 III, p. 190, 5-7: tou`to to; o]n proujbavleto ejn eJautw`/ to;n crovnon, ej-
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avere esistenza allo stesso tempo, il tempo in cui partecipa sarà differente dal tempo in cui non partecipa. Questa differenziazione nel tempo indica che l’anima sperimenta un cambiamento reale. A quanto pare essa è la prima sostanza che «scinde» (scivzei) il tempo, la prima che dà inizio a un cambiamento temporale. E, «per essere esplicito, intendo un cambiamento che riguarda la sostanza stessa»14. La disintegrazione del tempo come una totalità in una successione di diversi momenti mostra che l’anima umana, quale soggetto cosciente del cambiamento temporale, è sprofondata nella massima forma di divisione, cioè nella divisione della propria sostanza15. 2. Dato che l’anima umana non può realizzare la sua intera essenza in un unico momento, avrà forme diverse in tempi diversi. Come si può dunque negare che la sua sostanza sia in qualche modo mutevole (pavqoi ti)? Se la sostanza dell’anima rimanesse impassibile (ajpaqhv"), si dovrebbe anche escludere dalle sue attività un’inclinazione verso il peggio, poiché esse sono simili alla sostanza da cui hanno origine16. Ogni cambiamento negli atti, pertanto, indica un cambiamento ben più fondamentale nella sostanza stessa. «Poiché è dall’interno che ogni cambiamento inizia». Cambiando la sua sostanza, l’anima produce vari at-
peidh; kai; th;n gevnesin proesthvsato (kai; gavr ejstin oujsiva me;n th/` uJpostavsei, qei`on gavr ejstin, gevnesi" de; th`/ ijdiovthti). 13 IV, p. 13, 1-2: Mhvpote ouJ`n tolmhtevon o} pavlai wjdivnomen nu`n ejxeipei`n: mhvpote gavr e[sti ti" metabolh; peri; th;n hJmetevran oujsivan. 14 IV, p. 37, 5-8: Kai; prwvth, wJ" e[oiken, hJ hJmetevra oujsiva scivzei to;n crovnon kai; metabolh`" a[rcei th`" kata; crovnon, w{" te diarrhvdhn eijpei`n, levgw dh; th;n metabolh;n katΔ aujth;n th;n oujsivan. 15 IV, p. 13, 4-6: o{ti de; oujde; pavnta sunhv/rhken oJmou` to;n crovnon wJ" hJ kreivttwn yuchv, dhloi` hJ u{fesi" eij" to; e[scaton uJfizhvsasa merismo;n th`" yucikh`" oujsiva". La stessa tipica formula è usata da PRISCIANUS, In de an.,
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ti17. Presumere che l’anima rimanga impassibile quando scende nel corpo è, dunque, assurdo. Ed è altrettanto sbagliato assegnare tutte le «passioni» e tutto il male al corpo, poiché anche prima che l’anima entrasse nel corpo, essa già era inclinata verso il basso. Il corporeo può ostacolare l’anima solo in quanto l’anima ha legato se stessa a esso. In effetti, come potrebbe il corpo essere una reale barriera (paravfragma) e un intralcio per un essere puramente immateriale e trascendente quale è l’anima? Se l’anima non inclinasse, di per sé, verso il corpo, il corpo non potrebbe nulla contro di essa. È proprio questa «simpatia» dell’anima verso il corpo a racchiuderla nel corpo. Se il corpo può essere detto la «prigione» o i «ceppi» dell’anima, è solo perché l’anima ha incatenato se stessa al corpo. I veri «ceppi» dell’anima sono «proprio i suoi» (oi[koqen), il che vuol dire che la sua propria sostanza è affetta da passioni (paqouvsh")18. 3. Un altro argomento si basa sull’analogia tra l’anima e il suo corpo astrale. Mentre i corpi celesti sono del tutto impassibili e i corpi terrestri interamente mutevoli e mortali, il luminoso (aujgoeidev") veicolo che ha grado intermedio è immortale, eppure in qualche modo soggetto al cambiamento, in quanto può assumere varie forme in virtù di una specie di contrazione o espansione della sua sostanza, come dice lo stesso Proclo nella sua spiegazione delle Enneadi di Plotino19. Non ne deriva dunque che anche l’ani262, 23: th;n oujsivan uJfizavnousan e 30,18: merizomevnhn kai; uJfizavnou-san (cfr. anche 241, 9 e 263, 36). 16 IV, p. 13, 10-11: aiJ ga;r ejnevrgeiai tai`" oujsivai" ejxomoiou`ntai kai; aj-po; tw`n oujsiw`n ajpogennw`ntai e IV, p. 12, 12-13: ta;" de; ejnergeiva" wJ" oJ-moeidei`" tai`" oujsivai" e anche IV, p. 41, 1-3. Cfr. De princ., I, p. 45, 514. 17 IV, p. 46, 12-15: e[ndoqen ga;r hJ ajlloivwsi" a[rcetai ... Pavscousa ga;r hJ oujsiva tavde toiavsde ejnergeiva" ajfivhsin.
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ma umana, che è, in un modo analogo, intermedia tra ciò che è totalmente imperituro e ciò che è totalmente perituro, possa essere immortale e tuttavia soggetta al cambiamento? In effetti, l’anima cambia se stessa ed è cambiata da se stessa quando discende o risale. Per questo, nelle Leggi, Platone la chiama una «essenza sempre-fluente»; la sua essenza consiste precisamente in una specie di divenire e fluire20. Questo argomento ci appare piuttosto strano. Come si può, per analogia, dedurre dal corporeo qualcosa che si riferisce all’incorporeo? Un tale ragionamento è valido solo quando si accetta che vi è una relazione essenziale tra i cambiamenti sperimentati dall’anima e quelli del suo veicolo luminoso o astrale. In realtà, una tale relazione fu formulata da Proclo nella prop. 209 dei suoi Elementi di Teologia. Il corpo, che è essenzialmente legato (sumfuev") all’anima, imita la vita dell’anima che lo usa, e subisce i 18 IV, p. 13, 11-19. Cfr. PRISCIANUS, In de an., 119, 12 ss.: non il corpo in quanto tale è responsabile della perversione (kakiva) dell’anima; l’anima è perversa di per sé, poiché si lega da sé al corpo. Cfr. anche PORPH., Sent., XXVIII, p. 17, 8-10: ouj dΔ a[llo aujto; katadei`, ajllΔ aujto; eJautov e VII, p. 3, 4-5; PHILOP., In de an., 18, 22: eJkou`sa sunedevqh/ th/` sumpaqeiva/. 19 IV, pp. 13, 20-14, 7. Poiché il commento di Proclo alle Enneadi non è stato conservato, siamo costretti a fare affidamento su altri testi per maggiori informazioni sulla sua dottrina del «corpo luminoso». Negli Elementi di Teologia Proclo dimostra che questo corpo è immutabile e impassibile (prop. 208) e possiede sempre la stessa forma (prop. 210). Però, nel corso della discesa dell’anima, tale corpo viene coperto di successivi strati degli elementi materiali attraverso cui passa. Quando l’anima risale, tutte queste «vesti» (citwvne") materiali sono rimosse e il corpo recupera la sua forma originaria (prop. 209). Così Proclo può asserire che il veicolo luminoso dell’anima «conserva la stessa forma e dimensione perpetuamente, ma sembra più grande o più piccolo e di varie forme in ragione dell’aggiunta o rimozione di altri corpi» (prop. 210). Cfr. anche In Tim., III, 236, 31 ss.; 298, 12 ss. Cfr. Appendice. 20 IV, p. 14, 10-12: tou`to kai; oJ ΔAqhnai`o" hjbouvleto xevno", ajevnaon ouj-
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cambiamenti appropriati secondo le diverse attività dell’anima: summetabavllei tai`" ... ejnergeivai". Quando l’anima soffre per gli effetti della passione, soffre con essa; quando l’anima è purificata, è purificato con essa. I cambiamenti del corpo luminoso dunque riflettono i cambiamenti che avvengono nell’anima stessa. Ora, se quel corpo cambia nella sostanza, come Proclo sembra accettare, ciò non implica che anche l’anima, cui è essenzialmente legato, possa cambiare sostanzialmente? Più oltre nel testo Damascio farà ricorso a questo esempio del «corpo astrale» per spiegare come l’anima possa cambiare sostanzialmente senza perdere la propria identità. 4. Quando l’anima scende nel divenire, produce da sé innumerevoli forme inferiori di «vita», che essa abbandona quando risale e ristabilisce la sua unità originaria. Damascio osserva che queste vite inferiori sono forme «sostanziali», e non semplicemente facoltà o attività diverse prodotte dalla stessa sostanza immutabile. L’anima pluralizza se stessa in una molteplicità di forme sostanziali, e poi si raccoglie nuovamente in un’unità indivisa. Quindi, tale processo dovrebbe essere inteso come cambiamento sostanziale21. L’anima non subisce questo cambiamento da lontano. Essa prende il suo timone in mano, in un certo senso, e si dirige così verso l’alto o verso il basso, muo` sivan eijnai th;n yuch;n ajpofhnavmeno"… Kai; tauvth/ a[ra to; eij`do" aujth`" ejn genevsei tini; kai; rJoh`/ uJfevsthken. Cfr. PLATO, Leges, XII, 966 D-E. Anche Plotino caratterizzava l’anima come ajevnao" ma dava al termine un significato diverso: l’anima è una sempre-fluente, inesauribile fonte di vita: ajevnao" ouj`sa fuvsi" ouj rJeou`sa (VI, 4, 5, 5 e VI, 5, 12, 7; cfr. PORPH., Sent.,
XL, p. 47, 9). 21 IV, p. 14, 13-17: “Eti toivnun katiou`sa me;n eij" gevnesin probavlletai muriva" o{sa" zwav", kai; dhlonovti pro; tw`n ejnergousw`n ta;" oujsiwvdei", aj-niou`sa de; ajnastevllei me;n tauvta" kai; sunairei` kai; ajfanivzei, i{sthsi
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vendo e cambiando la sua sostanza dall’interno: ejk pruvmnh"22. 5. L’anima è, per definizione, un’essenza auto-movente. Il termine aujtokivnhton indica qualcosa di più del semplice fatto che l’anima è «vivente», poiché altrimenti anche l’Intelletto, che ha una pienezza di vita, dovrebbe essere detto «auto-movente»23. Tuttavia, il termine si riferisce anche all’auto-cambiamento. L’anima è un’essenza che cambia incessantemente ed è cambiata da se stessa. La sua ousia esiste proprio nel cambiamento, come sarà chiaro più avanti. 6. Se la sostanza dell’anima fosse immutabile, allora l’anima rimarrebbe sempre in alto, come asserisce Plotino. Ora, questo è impossibile, dato che l’anima, come un tutt’uno e simultaneamente, cambia sempre e tuttavia non è mutevole. Abbiamo già discusso dettagliatamente questo argomento nella Prima Parte24. Per sommi capi, l’argomentazione che Damascio sviluppa consta di tre importanti temi: 1. Le attività non possono cambiare se il principio da cui sono prodotte, l’essede; auJth;n kata; to; hJnwmevnon wJ" mavlista kai; ajmevriston. Cfr. il parallelo in PRISCIANUS, In de an., 219, 32-34: ajfΔ eJauth`" proiüou`sa ta;" deutevra" kai; trivta" probavlletai ejn eJauth`/ zwav", oujk ejnergeiva" ajnousivou" ou[sa", ajllΔ aujto; dh; tou`to zwav" (cfr. supra, p. 95). Cfr. anche p. 247, 36: eij" to; kreit-tovnw" o]n sunaivresin ... eij" eJauth;n kai; th;n proelqou`san ajnastellouvsh" zwhvn. La «fonte» comune di entrambi i testi è probabilmente
Giamblico. 22 IV, p. 14, 17-19: Aujth; ouj`n eJauth;n a[gei a[nw kai; kavtw e[ndoqen ejk pruvmnh", ajpΔ aujth`" a[ra th`" oujsiva" eJauth;n kinou`sa. La metafora risale a PLATO, Crizia, 109 C: gli dèi non governano i mortali dall’esterno con la forza, ma li guidano «dall’interno, dalla poppa», usando la persuasione come timone. Cfr. PROCLUS, In Alc., 140, 9; 199, 18; 281, 17; In remp., I, 22, 2; II, 272, 7; 381, 7; Theol. Plat., I, 15, p. 72, 13-14. In tutti questi testi vi è un’opposizione e[xwqen – e[ndoqen.
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re di cui sono l’espressione, resta esso stesso immutato. Agere sequitur esse. 2. I cambiamenti che l’anima sperimenta non sono accidentali, ma la toccano in ciò che essa è, nella sua essenza. 3. Questi cambiamenti non sono imputabili a circostanze puramente esteriori. Ogni cambiamento dell’anima, in meglio o in peggio, viene dal di dentro, dal suo «Sé». Dunque l’anima stessa è il «soggetto» dei suoi cambiamenti. Per tutte queste ragioni, Damascio crede che si debba accettare che l’anima subisca cambiamenti nella propria ousia. E questa stessa dottrina è, di fatto, secondo Damascio, suggerita dal Parmenide.
2. L’istante: eternità nel tempo Damascio rivela la sua concezione dell’anima ancor più chiaramente nell’ottava questione (IV, pp. 29, 1-32, 15), in cui, in discussione con Proclo, ricerca quale sia l’esatto significato di «istante» (ejxaivfnh") nella terza ipotesi. Nell’analisi condotta nel Parmenide, si sostiene che il cambiamento può verificarsi solo nell’«istante», poiché ogni cambiamento è sempre una transizione da uno stato a un altro; ora, una tale transizione non può mai verificarsi nel tempo, non importa quanto breve sia lo spazio. In effetti, fin quando un oggetto è in quiete, non può passare al movimento; se è già in movimento, non può iniziare a muoversi. Il passaggio dalla quiete al movimento è dunque possibile solo in un momento che intercorre tra i due stati, e che non è esso stesso né in quiete né in movimento. Tale «strano essere» che esiste a metà tra quiete e movimento è l’istante, il momento senza-tempo in cui subitaneamente uno stato si muta in un altro. È il punto di arrivo e, nello stesso tempo, il punto di partenza del passaggio dalla quiete al movimento e di ogni altro cambiamen157
to25. Queste considerazioni di Platone, che per molti aspetti preparano l’analisi aristotelica dell’«ora», vengono interpretate da Proclo e Damascio in funzione dell’anima. La questione importante in questa ermeneutica è così la determinazione di cosa precisamente Platone abbia voluto specificare rispetto all’anima con questo ejxaivfnh". La risposta di Proclo è chiara: l’«istante» si riferisce a ciò che è atemporale e eterno nell’anima, cioè al suo essere sostanziale che è esente da ogni cambiamento26. Damascio solleva un certo numero di questioni e osservazioni critiche riguardanti tale interpretazione, che, alla fine, lo conducono a una propria dottrina dell’anima. Seguiamo la sua discussione. Se l’istante denota l’essere eterno dell’anima, come può pure apparire nel mezzo tra quiete e movimento, come dice Platone? In effetti, l’eterno trascende ogni cambiamento. Proclo potrebbe rispondere che l’istante è «il medio» in quanto precede i due stati. Ogni cambiamento procede dalla sostanza eterna dell’anima ed è relativo a essa, senza che la sostanza stessa debba per questo cambiare. Il cambiamento si verifica nell’ambito delle attività che sono prodotte dalla sostanza. Inoltre, prosegue Damascio, se l’istante si identificasse con la sostanza eterna, allora l’eternità sarebbe una caratteristica esclusiva della sostanza. Come si può allora trovare un elemento di eternità dentro l’attività dell’anima? L’anima compie atti che trascendono il processo del tempo, come quando essa contempla gli oggetti puri, ideali. A ciò si potrebbe forse rispondere che la
23 IV, p. 14, 23: ouj ga;r movnon zwtikw`", h] ou{tw ge kai; oJ nou`" aujtokivnhto". Non come traduce Chaignet «mais comme le fait aussi la raison
automotrice», poiché nel Neoplatonismo il nous è caratterizzato sempre come immobile.
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atemporalità dei nostri atti è solo un «riflesso» dell’eternità della sostanza da cui sono prodotti. Tuttavia, se la sostanza dell’anima è eterna e immutabile, si deve anche accettare che, pure quando l’anima umana è caduta nello stato più estremo, e anche quando si abbandona totalmente al mondo della materia e del divenire, essa agisce ancora «secondo l’eterno che è in lei». E questo perché la sostanza è il principio di tutte le attività. Tuttavia, come può una sostanza eterna essere anche il principio delle attività che accadono nel tempo? Non si deve accettare che essa è caratterizzata anche da tempo e divenire? D’altra parte, se si riconosce con Damascio che la sostanza dell’anima cambia e partecipa del tempo, dove possiamo collocare l’«istante» in essa? Non riduciamo in questo modo il suo essere al puro divenire, nel quale il momento eterno è completamente perduto? O l’eterno è forse una sorta di centro nell’anima intorno al quale gira ogni movimento? Ma allora ritornano tutte le questioni precedenti. È possibile che questo «cuore» dell’anima rimanga libero da ogni divenire quando l’anima scende nelle forme di vita più basse? Come può tale centro essere il medio tra divenire e quiete? Come centro, dovrebbe rimanere chiuso in se stesso e non essere mai presente nella «periferia», dove avverrebbe il cambiamento27. Ma sarebbe difficile per un tale centro fungere da medio tra due cambiamenti. In effetti, non corriamo forse il rischio di separare nuovamente l’anima in due parti diverse, in essere e divenire?28 E se così fosse, quale delle due parti sarebbe «auto-mossa» (aujtokivnhton)? Se fosse la parte che diviene, il suo es24 Cfr. supra, p. 74. “Eti in IV, p. 15, 9 e e[ti de; in IV, p. 15, 13 non introducono un 7° e un 8° argomento. Rientrano come argomenti nella critica alla posizione di Plotino. L’ultima frase (IV, p. 15, 21-22) è corrotta e oscura.
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sere non sarebbe più auto-mosso, ma anzi totalmente immobile (ajkivnhton). Se, invece, fosse la parte che semplicemente «è», allora la sua parte diveniente non sarebbe più auto-mossa, ma piuttosto mossa dall’esterno (eJte-rokivnhton), cioè, dalla parte che «è». Ma così distruggiamo la vera essenza dell’anima, che consiste proprio in quello stesso unico essere che muove ed è mosso da sé. Però, che cosa potrebbe essere l’istante, se non è né eterno né temporale, né in essere né in divenire? Questa difficile pagina, con il suo intreccio dialettico di obiezioni, risposte e contro-obiezioni, mostra con quanta cautela Damascio perlustri il terreno prima di arrischiarsi a esprimere la propria opinione. «Forse è più sicuro mescolare i due elementi [l’eterno e il temporale] l’un l’altro, poiché nell’anima non vi è nulla che sia puro e non mescolato. In effetti, il diviso in essa è indiviso e l’indiviso è diviso e anche il suo essere è in divenire e il suo divenire è di nuovo essere. E, per questo, Platone chiama l’anima una volta essenza (oujsivan) e un’altra divenire (gevne-sin)»29. Ed è per questo che, in questa terza ipotesi, sono impiegate tanto affermazioni quanto negazioni per caratterizzare l’essenza dell’anima: quest’ultima infatti consiste proprio di opposizioni, per cui un termine richiede sempre il suo opposto: uno e non-uno, essere e divenire, movimento e quiete. Damascio illustra molto bene questa fondamentale ambiguità della vita psichica umana con il riferimento all’esperienza umana del tempo. Come abbiamo ricordato, Pro-
25 26
Parm., 156 D-E. Cfr. SIMPLICIUS, In phys., 982, 2 ss. IV, p. 29, 1-3: Ti; ouj`n tou`tov ejsti to; ejxaivfnh", kai; ti; to; a[cronon,
` to; aijwvnion th`" yuch`" kai; to; o]n aujtov, w{" fhsin o{per o[gdoon hj`n… ΔAra
(scil. Proclo);
160
clo spiega la tensione provata tra tempo ed eternità sostenendo che l’anima, benché eterna nella sua sostanza, diventa temporale nei suoi atti. Damascio crede che questa distinzione formale non rifletta adeguatamente il fatto che l’anima sia davvero «le due cose-insieme» (sunamfovteron), cioè, simultaneamente i termini opposti. L’eternità non è propria esclusivamente alla sostanza e la temporalità non si trova soltanto negli atti dell’anima. Anche se i suoi atti certamente si svolgono in un arco di tempo, essi a volte superano la separazione di «prima» e «dopo» e sperimentano la totalità in un indivisibile «ora»30. In realtà, non veniamo mai assorbiti totalmente nell’esistenza temporale come gli oggetti sensibili, ma abbiamo la facoltà di riunire la temporalità nell’unità con la comprensione intellettuale che trascende il tempo. Questa trascendenza, però, non è di una natura tale che l’intelletto umano venga strappato dalla diffusione nel tempo per vivere in un puro, eterno «ora», poiché anche in quei momenti di eternità rimaniamo limitati e legati alla temporalità. Così l’anima umana non riesce ad afferrare, in una volta, l’unità onnicomprensiva del mondo ideale. Introduce distinzioni, e considera separatamente un’idea dopo l’altra, e in seguito unisce questi termini con il ragionamento. Per questo, è difficile per essa immaginare una realtà intelligibile che sarebbe altra rispetto al mondo che percepisce. Ma, inversamente, è altrettanto difficile per essa afferrare la continua corrente del divenire e del tempo come tale, poiché l’anima cerca insistentemente di comprendere il divenire secondo i concetti fissi che trova in se stessa. E poiché il continuo fluire del tempo sfugge al suo sguardo fisso, tenterà di arrestarlo (iJstavnein) e di demarcare delle porzioni che può afferrare 27
IV, p. 30, 2-3: kevntron ge o[n, ajllΔ oujk ejn th`/ perifereiva/ tetagmev-
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tutte insieme (ajfwrismevnon ti ajqrovon). Così essa parla del passato e del presente, di anni, giorni e ore, come se il tempo fosse davvero un assemblaggio di tali componenti. Per questo la nostra comprensione del tempo è mescolata a tutte le specie di aporie, così come la nostra immagine dell’eternità rimane sempre problematica. L’anima comprende il superiore come l’inferiore a partire dalla sua posizione nel mezzo, e distende l’eternità e raccoglie il tempo in un’unità, poiché è essa stessa questo medio tra essere e divenire31. Questa esperienza di eternità nel tempo è una manifestazione della fondamentale tensione che costituisce l’essenza dell’anima. «Questa essenza è simultaneamente eterna e temporale»32. Non si tratta di un’«addizione» di parti separate per formare un essere composito, ma di un’essenza che esiste come coincidenza di opposti. Quindi, la sua temporalità è resa in qualche modo eterna, e, in senso inverso, la sua eternità è temporalizzata: to; e[gcronon aijwnivzetaiv pw" ... to; aijwnv ion cronivzetai ... Dato che la relativa influenza di questi termini opposti oscilla, l’anima non rimane «la stessa». In effetti, la sua essenza può essere più temporalizzata o eternalizzata secondo il suo modo di essere33. Peraltro, come si può ancora parlare di un «momento atemporale» nell’anima se la sua eternità è interamente scalfita dalla temporalità? Qual è dunque il significato dell’«istante» (ejxaivfnh") introdotto da Parmenide nella sua analisi del cambiamento? Damascio concorda con Proclo nell’attribuire tale «istante» a ciò che è eterno e indiviso nell’anima; è quello che è stabilito più fermamente non. 28 IV, p. 30, 3-5: Pw`" de; ouj diaspavsomen th;n yuch;n eij" o]n kai; gignov-menon, a[llo kai; a[llo movrion…
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in essa e che tiene insieme la sua intera essenza; è il punto di partenza per ogni cambiamento34. Tuttavia, non è questo un motivo per identificare l’«istante» con la «sostanza» eterna, come fa Proclo! Non esiste nessun nucleo identico nell’anima che rimanga libero dal cambiamento, come non vi è nessuna parte superiore che rimanga sempre in alto. Persino l’«eterno» in essa scende nel divenire e nel tempo. Ma se pure l’«istante» atemporale discende e viene temporalizzato, chiede Damascio, non dovremmo introdurre un altro «istante» o principio eterno nell’anima così che essa non cada del tutto nella temporalità e nel divenire? E se si sostiene nuovamente che questo momento atemporale scende nel tempo e nel cambiamento, non dovremmo allora proporne un altro, per poter garantire l’identità dell’anima, e così via ad infinitum? La posizione secondo la quale l’anima scende interamente nel divenire e cambia nella sua interezza, sembra dunque implicare una regressione infinita35. Questa obiezione, tuttavia, si basa su un’ingiustificabile distinzione nell’anima tra una parte eterna e permanente e una temporale e mutevole, e non tiene in considerazione cosa significhi per l’anima essere simultaneamente e nella sua intera essenza in cambiamento e permanenza. Quando Damascio sostiene che anche l’«istante» scende nel tempo, egli non suggerisce che l’anima sia del tutto persa nel tempo, ma che quello che è eterno in essa è anche temporalizzato. «Poiché l’istante non discende in quanto è istantaneo [cioè, atemporale], ma in quanto è in divenire
29
Cfr. IV, p. 30, 10-15: Mhvpote ouj`n ajsfalevstaton mi`xai tw`/ eJtevrw/
eJkavteron: oujde;n ga;r ejn th/` yukh`/ kaqaro;n kai; a[kraton: ajmevlei kai; to; me-risto;n aujth`" ajmevpistovn ejstin kai; to; ajmevriston meristovn. Kai; to; o]n a[ra gignovmenon, kai; to; gignovmenon auj` pavlin o[n: kai; dia; tou`to po-
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(genhtovn)»36. Il fatto che l’anima scenda interamente non implica che sia distrutta la sua eternità e permanenza. Ciò che si intende dire è che nell’anima umana non è possibile nessuna eternità pura. L’istante (l’«eterno») non si trova al di sotto o al di sopra del cambiamento, ma nel mezzo di esso, «a metà fra quiete e movimento», come diceva Parmenide. Esso si manifesta nel passaggio da un opposto a un altro (IV, p. 33, 8-9: tovte ga;r parafaivnetai kata; ta;" metastavsei" tw`n ajntikeimevnwn). È dentro il cambiamento che l’anima si mantiene eterna e immutabile. Così ritorniamo alla questione basilare che interessa Damascio: come può l’anima subire un cambiamento sostanziale (IV, p. 32, 3-4: th;n eijrhmevnhn oujsiwvdh metabolhvn) senza per questo perdere la propria identità? Nella parte seguente, vedremo che questo è possibile solo perché l’essenza dell’anima è automovimento e quindi auto-cambiamento.
3. Identità in cambiamento Damascio è ben consapevole che la visione dell’anima che egli propone si espone a forti resistenze (di qui il tolmh-tevon in IV, p. 13, 1). Egli stesso elenca un certo numero di aporie in connessione con il suo argomento in IV, pp. 11, 20-19, 21, e fornisce qui una risposta provvisoria. In apparenza, ciò non lo soddisfa, tanto che ritorna su tale problematica in una dettagliata appendice all’interpretazione della terza ipotesi: e[ti peri; yuch`" ajporhtevon37. Queste aporie gli offrono l’opportunità di articolare in modo più approfondito la sua dottrina. Cercheremo di abbozzare la sua difficile e spesso tortuosa esposizione. te; me;n an aujth;n kalei`, pote; de; gevnesin oJ Plavtwn. 30
Cfr. III, pp. 183, 19-184, 9; cfr. PRISCIANUS, In de an., 198, 2-7.
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oujsiv-
Come mostrato precedentemente, i cambiamenti che l’anima sperimenta mentre scende e risale toccano la sua vera sostanza. Ma quale può essere, si chiede Damascio, il significato di una tale conclusione? «Cerchiamo di capire cosa stiamo dicendo!» Non priviamo in questo modo l’essenza dell’anima di ogni fissità e permanenza, e non la rendiamo forse instabile, come una nave senza zavorra che viene sballottata di qua e di là sulle onde?38 È vero che ogni cambiamento negli atti indica un cambiamento nella sostanza? In che cosa, allora, l’anima umana differisce dal corpo sensibile che continuamente fluisce nel cambiamento senza essere capace di preservare lo stesso eidos? Forse potremmo in qualche modo arrivare a concepire qualcosa del genere per l’anima umana, ma come possiamo applicare la stessa conclusione anche alle anime divine? Le loro attività sono in continuo cambiamento, in quanto anche queste anime percorrono dei cicli di tempo determinati che corrispondono alle rivoluzioni celesti. Dobbiamo allora concludere che in queste anime vengono a essere tante sostanze quanti sono i diversi atti nel corso dell’intero ciclo?39 Se, d’altronde, la sostanza dell’anima diviene sempre altra da ciò che era, e nessuna sostanza rimane stabile, come possiamo ancora affermare l’eternità dell’anima?40 Non distruggiamo, con questa posizione, l’intera dottrina platonica dell’anima?
Cfr. il passo citato da SIMPLICIUS, In phys., 798, 26-799, 10. IV, p. 32, 1-2: h{ ge oujsiva aijwvnio" a{ma ejsti; kai; e[gcrono". 33 Cfr. IV, pp. 31, 12-32, 15 e IV, p. 32, 18-22; IV, pp. 46, 24-47, 1. 34 Cfr. IV, p. 39, 2-4: o{ti to; mavlista iJdrumevnon th`" yuch`" kai; staqhro;n kai; sunektiko;n tou`tov ejstin. Per questo Parmenide dice che l’istante «si siede» (ejgkavqhtai). 31 32
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Damascio credeva che tutte queste e simili difficoltà potessero essere ricondotte a una questione fondamentale41: l’anima, durante tutti i cambiamenti sostanziali, rimane una e identica per numero, oppure rimane una e identica solo per specie, mentre la sua identità individuale si perde per il suo continuo fluire via in tutte le sue parti?42 Questa è la distinzione aristotelica fra ciò che è uno ajriqmw`/ e ciò che è uno ei[dei (lovgw/). Tutti gli enti che appartengono alla stessa «specie» hanno le medesime caratteristiche essenziali che sono costitutive della specie e possiedono quindi un’unità specifica. Invece, in quanto un ente è individualizzato, e distinto dagli altri enti specificamente identici, è detto uno ajriqmw/`43. Entrambi i termini possono essere usati anche in un senso diacronico. Un ente è specificamente uno in quanto possiede continuamente lo stesso eidos, ed è numericamente uno in quanto è capace di preservare la sua identità individuale. Così, per esempio, il mare continua a esistere solo come eidos, non come un individuo, poiché esso diviene sempre qualcos’altro in quanto le sue parti costitutive cambiano continuamente (l’acqua evapora, nuova acqua vi fluisce). Nonostante questo cambiamento, però, l’identità specifica del mare è preservata44. In questo mondo sublunare, dove tutte le cose costantemente vengono all’esistenza e periscono e si cambiano l’una nell’altra, niente rimane mai numericamente
Così si legge nella nona aporia: cfr. IV, p. 2, 10-13 e la soluzione in IV, pp. 32, 16-33, 4. 36 Cfr. IV, p. 33, 1-4. 37 p. IV, p. 41, 1. Quest’ampia discussione della questione era già annunciata in IV, p. 18, 8-9: Peri; me;n dh; touvtou kai; auj`qi" i[sw" ejrou`men. 38 IV, p. 41, 3-4: ΔAllΔ ou{tw ge ajnermavtistovn ti kai; a[staton aujth`" to; eij`do" ajpofanou`men. ajnermavtisto" è detto di navi senza zavorra. È usa35
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identico. Invece, gli enti divini, la cui sostanza è immutabile e imperitura, non solo conservano lo stesso eidos nella loro eterna rivoluzione, ma preservano anche la loro identità individuale45. Sullo sfondo di questo orizzonte aristotelico, possiamo comprendere meglio perché Damascio si chieda se l’anima rimanga una e identica soltanto ei[dei o anche ajriqmw`/. In effetti, se ci si arrischia a sostenere che l’anima subisce un cambiamento sostanziale, sembra impossibile affermare ancora che essa rimane numericamente identica, poiché la caratteristica essenziale di una sostanza è che, nel cambiamento, «rimane numericamente una e identica»46. Dire che una sostanza cambia, perciò, implica che l’identità individuale è sacrificata. Se volessimo ancora mantenere questa posizione, non dovremmo allora concludere che ogni volta che si realizza un cambiamento, un’altra anima viene all’esistenza? Come il mare, così anche l’anima sarebbe capace soltanto di mantenere la sua identità formale come un intero durante il cambiamento sostanziale, mentre le sue parti sarebbero in incessante movimento. Ma se questo viene accettato, sembra impossibile l’auto-movimento dell’anima. L’anima muoverebbe (kinei`) in quanto continuerebbe a esistere come un tutt’uno e sarebbe in movimento mentre scorrerebbe via nelle sue parti, ma questo non è più auto-movimento. Ciò che è mosso continuamente scorre infatti via da sé, così che non ap-
to anche metaforicamente per persone che vacillano: cfr. PLATO, Theaet., 144 A e PLOTINUS, Enn., I, 8, 8, 34. 39 Cfr. IV, p. 41, 1-13 e IV, p. 16, 1-3. Per il ciclo temporale (perivodo") delle anime divine, cfr. PROCLUS, In Tim., II, p. 289, 4-22; El. theol., parr. 198-200. 40 Cfr. IV, p. 41, 14-17 e IV, p. 43, 7-10.
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partiene più al suo «Sé», e ciò che muove sarebbe, come un tutt’uno, sempre diverso, dato che sarebbe costituito di parti in continuo cambiamento. L’anima dunque non muoverebbe più se stessa, bensì qualcosa di altro da sé; non sarebbe più mossa dal suo «Sé», ma da qualcosa che diviene costantemente diverso. Nondimeno, l’auto-movimento implica che la stessa cosa, totalmente e interamente, muova e sia mossa simultaneamente. Un essere che è auto-mosso non può, dunque, mai perdere niente di sé nel suo movimento. Non può certamente cambiare sostanzialmente, poiché necessariamente diventerebbe costantemente diverso e non sarebbe più un «Sé» in cambiamento47. D’altro canto, accettando che l’anima rimane numericamente la stessa, in che senso si potrebbe parlare ancora di «divenire» e «corrompere» rispetto all’anima? In effetti, entrambi questi termini implicano che l’anima perda costantemente «qualcosa» della sua sostanza48. Riassumendo, la difficoltà consiste in questo: o si accetta un cambiamento sostanziale nell’anima, nel qual caso essa rimane la stessa solo come eidos e sono resi impossibili auto-movimento e immortalità, oppure l’unità numerica è preservata, ma si deve rinunciare definitivamente a parlare di cambiamento sostanziale nell’anima. Il dilemma è chiaro. Vedremo, però, che Damascio non si la` e{na o{ron qevmenoi pro;" tou`ton ajna41 Cfr. IV, p. 43, 11-12: Fevre oujn gavgwmen tauvta" te kai; ta;" toiauvta" ajporiva" aJpavsa". 42 Cfr. IV, p. 16, 14-16: povteron taujto;n ajriqmw`/ to; eij`do" aujth`" ajei; mev-nei, h] kata; eij`do" movnon taujtovn, ajei; toi`" mevresin ajporrevon… 43 I passi più importanti a questo riguardo si trovano in Metaph., L, 6, 1016 a 17 ss. e Top., I, 7. L’espressione ajriqmw`/ e{n può essere l’equivalente di to; kaq`Δ e{kaston (cfr. Metaph., B, 4, 100 a 1 ss.). 44 45
ARIST., Meteor., II, 3, 357 b 27 ss. ARIST., De an., II, 4, 415 b 4-7: to; mhde;n ejndevcesqai tw`n fqartw`n
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scia costringere a una delle due alternative. Egli crede che il cambiamento dell’ousia dell’anima sia possibile senza che per questo venga distrutta la sua identità numerica. Sotto queste formule tecniche, in realtà, si trova una questione davvero fondamentale con cui si confronta ogni antropologia filosofica. Tradotta in concetti moderni, più etici, la difficoltà è la seguente: la persona rimane la stessa attraverso l’intera sua esistenza? Si può, per esempio, chiamare qualcuno a dar conto di un misfatto che ha commesso in passato? È possibile che quella persona abbia sperimentato una completa conversione, così da poter dire giustamente «Io non sono più la stessa persona che ha commesso il crimine». In effetti, egli sembra cambiato essenzialmente. Tuttavia, rimane lo stesso uomo che porta sempre il proprio passato dentro di sé. Dove allora si deve cercare la base della propria identità? Certamente, la prospettiva di Damascio è del tutto diversa. Non si tratta qui di un uomo che, in quanto unità psicosomatica, sperimenta la propria esistenza come temporalità che si progetta in modo libero e responsabile, ma di un’anima che viaggia tra il mondo sensibile e l’intelligibile e che muta secondo la posizione che sceglie. Ma la questione dell’identità in cambiamento rimane centrale per lui, come vedremo più avanti. Quando l’anima si lega all’Intelletto e a Dio in virtù della sua spinta verso l’alto, si riempie di luce intellettuale e divina che conduce la sua essenza all’unità e alla perfezione somma. Tuttavia, non è sicura nel suo godimento di questa illuminazione divina, perché non fa parte degli esseri che sono sempre alla presenza degli dèi. A volte cade dalla realtà più alta e scorre via (ajporruei`sa) nel divenire. Nel contatto con il mondo materiale e con i demoni che vi risiedono, l’anima è affetta dalle passioni (pros-paqei`) che sono proprie di questo mondo. Privata della luce divina che pri169
ma la rendeva perfetta, essa conduce una vita degradata e materiale, interamente riempita di oscurità demoniaca49. Quindi, i due stati estremi, tra i quali l’anima può muoversi, sono: da un lato, un’esistenza pura e intellettuale, unificata e perfezionata dalle illuminazioni divine; dall’altro, un modo di vita oscuro, demoniaco, incline alla bassezza, conquistato dalle passioni, soggetto al divenire, caduto nella divisione e nella molteplicità definitive. Questa caratterizzazione della vita ambivalente dell’anima non è, come tale, originale. Si tratta di un tema onnipresente nei testi neoplatonici. Ciò che è nuovo è che, da questa descrizione, Damascio trae la conclusione che la sostanza dell’anima non può rimanere immutata. Il passaggio da un estremo all’altro non è un evento accidentale, ma un processo che altera intrinsecamente l’essere dell’anima. Damascio afferma infatti che è assurdo presumere che solo gli atti dell’anima siano divinizzati (qeou`sqai) o materializzati (uJlou`ntai), mentre la sua sostanza rimane immutata e sempre la stessa50. L’illuminazione divina non solo influenza le attività, ma migliora anche il vero essere dell’anima, concedendogli una perfezione che prima non possedeva: oujsioi` th;n yuch;n eij" to; a[meinon. E al contrario, quando l’anima si allontana dalla luce divina, perde la forma del suo essere che le era data dall’alto, ed è soltanto «anima» a un grado «inferiore»51. Viene così stabilito che l’anima può talvolta diventare più perfetta di se stessa o peggiore di se stessa, il che significa che può realizzare il suo «essere un’anima» a un grado più alto o più basso52. ` aujtov, ajtaujto; kai; e}n ajriqmw``/ diamevnein ... diamevnei oujk aujtov, ajllΔ oiJon riqmw/` me;n oujc e{n, ei[dei dΔ e{n (cfr. De gen. an., II, 1, 731 b 31). De gen. et cor., XI, 338 b 14: o{swn me;n ouj`n a[fqarto" hJ oujsiva hJ kinoumevnh, fanero;n o{ti kai; ajriqmw/` taujta; e[stai, o{swn de; mh;, ajlla; fqarth;, ajnavgkh tw`/ eij`dei, ajriqmw/` de; mh; ajnakavmptein.
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Questo non significa che l’anima umana perda la propria identità individuale durante tale cambiamento sostanziale. Anche quando si realizza secondo la forma più bassa e vive esclusivamente in modo sensuale, rimane ancora la stessa anima che prima viveva in contemplazione del divino. Perché non è con una «parte» superiore che contempla il divino, ma come un tutt’uno. E nemmeno entra in rapporto con il sensibile solo con una «parte» inferiore, ma come un tutt’uno. La stessa anima può realizzare la sua essenza in vari modi. Anche se è sempre sia divisa che indivisa, esisterà talvolta più secondo il diviso in essa, e talvolta più secondo l’indiviso. Tuttavia, in queste forme fluttuanti, continua a preservarsi lo stesso eidos. Infatti, anche quando l’anima è attiva secondo la sua forma inferiore, non perde il suo elemento più alto che, insieme al più basso, è costitutivo della sua essenza. Per quanto possa essere divisa, la sua divisione è ancora sempre indivisa. Altrimenti, come si potrebbe spiegare il fatto che l’anima, dalla sua posizione di estrema decadenza, possa ritornare in alto? Che l’essenza più alta dell’anima produca da sé una forma inferiore non è così sorprendente. Ma come può la forma più bassa dell’anima produrre una forma di essere più alta di se stessa? Non è un capovolgimento del principio di causalità per cui il superiore non può originarsi dall’inferiore?53 Tale argomento è fallace, poiché procede erroneamente dall’ipotesi che vi siano due parti separate dell’anima. Tuttavia, se si intende che l’anima rimanga indivisa anche nel suo peggiore stato di divisione, allora non vi è difficoltà nello spiegare come possa risalire da tale divisione alla maggiore indivisibilità possibile. Possiamo così concludere che l’anima preserva 46
Cfr. Cat., 4 a 10: taujto;n kai; e}n ajriqmw/` o[n.
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sempre il proprio eidos, quello di essere «divisa e indivisa», ma può dargli forma in differenti modi54. Damascio la paragona a una spugna, che può gonfiarsi e diventare più grande, e poi assottigliarsi e sgonfiarsi senza perdere il proprio «essere»55. Così anche l’anima umana può farsi da sé una e perfetta, quando è, per così dire, «irrobustita» (stomoumevnh) dalla luce divina, oppure, al contrario, può svuotarsi e cadere nella molteplicità quando perde l’«irrobustimento» divino56. Ma anche se l’anima diventa più solida e più piena, e poi più debole e più vuota, rimane la stessa – cioè: è sempre la stessa anima che soggiace a tutti questi cambiamenti nel bene o nel male, o meglio, che si cambia nel bene o nel male57. Per poter illustrare il suo argomento, Damascio adduce un certo numero di esempi tesi a mostrare come una metabolhv non sopprima necessariamente l’identità del soggetto. Per un lettore moderno, gli esempi non sono sempre 47 Cfr. IV, p. 13, 4-6; IV, p. 42, 1-10. Non accettiamo la correzione di Westerink (l. 1 h[ al posto di eij), e correggiamo in l. 4 h] mevnousa in h; mevnousa. 48 Cfr. IV, p. 43, 7-10: povteron ajpobavllei ti hJ yuch; ejn tai`" metabo-
lai`" h] oujdevn: eij me;n ga;r tou`to, oujdΔ a]n metabavlloi oujdamh`/ oujdamw`", eij de; ejkei`no, oujkevti ajqavnato" e[stai o{lh diΔ o{lh". Cfr. IV, p. 16, 18-20: pw`" a[n ti ei[h ejn aujth`/ gignovmenon kai; fqeirovmenon, eij mhde;n ajpobavllei hJ ou-siva… La risposta a questa domanda è: aujth`" ... th`" oujsiva" oujde;n ajpobavl-lei (IV, p. 49, 8-9; IV, p. 45, 24).
Cfr. IV, pp. 16, 23-17, 8; IV, pp. 18, 20-19, 6 e IV, p. 44, 7-18. Cfr. IV, p. 17, 15-23. 51 Cfr. IV, p. 19, 2-3: ajpobavllei th;n ejndoqei`san aujth`/ oujsivan a[nwqen. 52 Cfr. IV, pp. 16, 23-17, 3: eJauth`" ejsti teleiotevra (cfr. IV, p. 16, 11). Cfr. anche In Phaed., 164, 19. 53 Tale obiezione è espressa a IV, p. 16, 3-8. 54 Cfr. IV, p. 44, 18-25 e anche IV, p. 39, 11 ss. e IV, p. 32, 3. 55 Cfr. IV, p. 17, 2-4: oiJ`on spoggiav, oujde;n me;n ajpollu`sa tou` eij`nai, manoumevnh de; movnon kai; puknoumevnh. Damascio credeva che Platone allu49 50
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molto chiari e talvolta sembra anzi trattarsi di una spiegazione per obscuriora. Prima di tutto, osserva Damascio, non ogni cambiamento causa la distruzione (fqoropoiov") del soggetto che cambia. Così, nella percezione, la facoltà sensitiva è alterata e affetta a seconda dei diversi oggetti percepiti. Eppure, tale alterazione non distrugge l’identità del soggetto percipiente, ma anzi la preserva, essendo una realizzazione delle sue potenzialità. Inoltre, la facoltà della vista può essere «annebbiata» dall’oscurità e sottratta all’influenza della luce che rende possibile la sua attualizzazione. Ma anche in questo caso, essa non è «distrutta», bensì soltanto ridotta a uno stato imperfetto58. Una simile identità-in-cambiamento si può discernere nel «corpo astrale» dell’anima, un esempio che è stato citato precedentemente. Quando questo corpo risiede nelle sfere celesti, è ricolmo di raggi celesti che, diffusi attraverso il suo intero essere, gli conferiscono forza divina e lo rendono il più possibile sferico. Ma quando è quaggiù, è nascosto ai raggi celesti ed è, per così dire, disseccato (aujcmei`). Esso diventa oscuro e più materiale, più simile al corpo terreno, e in tal modo perde la sua forma sferica59. desse a tale mavnwsi" e puvknwsi" dell’anima nella terza conclusione di questa ipotesi (to; sugkrivnesqai kai; diakrivnesqai – cfr. IV, p. 21,1-7). Un simile cambiamento nell’anima è indicato a IV, p. 31, 3-4: pote; me;n ma`llon sunairoumevnhn, pote; de; hJ`tton (cfr. IV, pp. 45, 25-46, 3). 56 Cfr. IV, p. 46, 18-20: Pevfuken a[ra diΔ eJauth;n kai; eJnou`sqai, oiJ`on stomoumevnh uJpo; tou` qeivou fwtov", kai; plhquvesqai ajpobavllousa th;n stovmwsin. Il termine stomovw è usato per indicare l’indurimento del ferro. Secondo gli Stoici, lo pneuma, che è originariamente una forza vegetativa, si sviluppa in un’anima quando, alla nascita, penetra l’aria fredda ed è «irrobustita» da essa (cfr. S.V.F., II, p. 222, nn. 804-808; cfr. PLOT., Enn., IV, 7, 83). Damascio attribuisce a questa metafora un significato più spirituale. L’anima umana è irrobustita sotto l’influenza della luce divina. Cfr.
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Non si tratta di una semplice alterazione di forma, figura e posto, ma piuttosto di un cambiamento sostanziale. La sostanza stessa del corpo astrale diviene più perfetta e più divina nella regione celeste, e diventa più terrena quaggiù. Eppure questo corpo rimane numericamente identico durante tale cambiamento sostanziale60. Infine, possiamo indicare i cambiamenti che i corpi celesti (stelle e pianeti) conoscono l’uno rispetto all’altro. Per Damascio, è impensabile che i corpi celesti abbiano soltanto relazioni esteriori e accidentali tra loro (cioè, distanza e posizione). Ogni corpo permette agli altri di partecipare dei propri poteri specifici e prende parte esso stesso alle proprietà degli altri. Questa comunicazione di poteri astrali dipende però dalle varie posizioni che le stelle occupano l’una rispetto all’altra nelle loro rotazioni, e dalle diverse «figure» che esse così formano. A causa di queste partecipazioni perpetuamente varianti, i corpi celesti subiscono un cambiamento sostanziale: sunalloiou`sqaiv pw" ajllhvloi"61. Possiamo osservarlo direttamente nella luna. A seconda del grado con cui la luna si avvicina o si allontana dal sole, varia costantemente la quantità di vita che riceve, il che si può percepire nella sua luce, che varia corrispondentemente. Il crescere e il calare della luna indicano dunque che il sole agisce sulla (dra`/ eij") sua sostanza e la altera. Così, anche tutti gli altri pianeti e stelle si OLYMP., In Phaed., 57, 27-30: sopravvivrà alla conflagrazione del mondo solo quell’anima che è «irrobustita» (stomwqei`san) dalla virtù – una visione attribuita a Eraclito. 57 Cfr. IV, p. 18, 11-12. 58 Cfr. IV, p. 43, 7-10 e IV, p. 17, 10-13. L’esposizione di Damascio si basa su De an., II, 5, 417 b 2 ss. Aristotele lì sottolinea che l’atto della percezione non è un’alterazione o un cambiamento che distrugge la facoltà sensitiva, ma piuttosto un perfezionamento e una preservazione di essa: oujk
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influenzano reciprocamente l’un l’altro, e ognuno cambia la sostanza dell’altro a seconda della posizione reciproca. Anche se non possiamo percepire direttamente questi cambiamenti come nel caso della luna, possiamo osservarli nei loro effetti sulla terra. Secondo le credenze astrologiche della tarda antichità, era generalmente accettato che l’influenza di una stella particolare sugli eventi terrestri fosse dipendente dal suo «oroscopo», cioè dalla sua configurazione (schmatismov") rispetto alle altre stelle durante uno specifico periodo. Ora, il fatto che gli effetti sulla terra di una stella particolare – le sue cosiddette aj-povrroiai – non rimangano gli stessi, ma varino a seconda della sua «costellazione», indica che la sostanza stessa di tale stella è alterata continuamente sotto l’influenza delle altre stelle. Tuttavia, come poteva Damascio affermare che i corpi celesti subissero un cambiamento sostanziale? Tale posizione non era forse in conflitto con l’opinione allora corrente, secondo la quale i corpi celesti sono interamente impassibili? In realtà, Damascio credeva che non vi fosse contraddizione tra le due posizioni, poiché i cambiamenti in questione non sono distruttivi o privativi. Essi semplicemente fanno sì che questi corpi passino da una forma di perfezione a un’altra, e realizzino la loro essenza in modi diversi. Dunque i corpi celesti rimangono specificamente e numericamente identici, pur essendo mutevoli nella loro sostanza62. Ora, se questi corpi divini e incore[sti dΔ aJplou`n oujde; to; pavscein, ajlla; to; me;n fqorav ti" ... to; de; swthriva ma`llon. Anche Plotino si riferisce all’esempio della percezione dei sen-
si (Enn., III, 6, 2, 32-37), ma, mentre egli usa l’esempio per dimostrare l’impassibilità dell’anima, Damascio lo cita per spiegare come l’anima possa mutare senza perdere la propria identità. 59 IV, p. 17, 5-6: pote; me;n sfairou`tai ma`llon, pote; de; hJ`tton. L’opinione secondo la quale il veicolo luminoso dell’anima sia sferico compare
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ruttibili possono cambiare sostanzialmente senza perdere la loro identità, allora tale cambiamento è certamente concepibile anche per l’anima63. Malgrado questi esempi, non abbiamo ancora ricevuto una risposta adeguata alla domanda su ciò che realmente Damascio intende dire quando parla di katΔ oujsivan metabolhv. Questa espressione ha, forse, un significato debole, come quando talvolta parliamo di un «cambiamento sostanziale» semplicemente per indicare un cambiamento molto radicale? Se, però, Damascio usa questa formula in uno stretto senso tecnico, ci si può chiedere se vi sia o no una contraddizione logica nell’asserire che l’eidos dell’anima cambia sostanzialmente e nel ribadire che tale eidos rimane numericamente identico. In termini aristotelici, è effettivamente un controsenso – ciò che cambia sostanzialmente, ipso facto, perde la sua identità numerica, poiché è proprio questa che è caratteristica di una sostanza. Damascio cerca una formulazione che gli consenta di evitare questa contraddizione. Troviamo un passo importante e preciso in IV, p. 47, 6-7: aujth; to; me;n eJauth`" eij`do" sw/vzousa th`" uJpavrxew", to; de; th`" oujsiwvdou" meqevxew" ajlloiou`sa.
per la prima volta con Giamblico: cfr. PROCLUS, In Tim., II, 72, 14: «il nostro veicolo è fatto sferico, e si muove in circolo, ogni volta che l’anima è specialmente assimilata all’Intelletto» (fr. 49-Dillon). Cfr. anche PLOTINUS, Enn., IV, 4, 5, 18 e II, 2, 2, 21. Olimpiodoro sostiene che i corpi luminosi perdano la loro forma perfettamente sferica e divengano ovali quando l’anima inclina verso il corpo (In Alc., 16, 12 ss.); cfr. PHILOPONUS, De aet. mundi, p. 287, 1. Altri riferimenti sono dati da E.R. DODDS, Proclus, addenda, p. 347. 60 Cfr. IV, pp. 43, 22-44, 6 e IV, p. 17, 4-6, IV, p. 15, 18-21. 61 IV, p. 45, 7. 62 Cfr. IV, p. 45, 1-12. Simplicio si riferisce a questa dottrina di Dama-
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«l’anima preserva la forma della sua esistenza, e tuttavia cambia la forma della sua partecipazione sostanziale».
Per poter spiegare l’identità-in-cambiamento, Damascio ricorre alla distinzione tra u{parxi" e mevqexi". Con la forma della u{parxi", egli indica ciò che costituisce formalmente l’essere dell’anima come anima, la sua forma essenziale. Per quanto l’anima muti, rimane kaqΔ u{parxin sempre quella che è, ma può realizzare il suo essere in modi molto diversi a seconda della realtà di cui partecipa. Attraverso questa partecipazione mutevole, l’essenza dell’anima può assumere forme diverse eppure rimanere identica. Anche Proclo afferma che il soggetto partecipante cambia in conformità agli oggetti di cui partecipa64. Esattamente come Damascio, egli ricorre a questo principio per spiegare come si possa parlare di «alterazione» (ajlloivwsi") nel caso dell’anima. In quanto l’anima, in tempi diversi, apprende «idee» diverse, sembra mutare attraverso l’assimilazione dell’oggetto conosciuto (sundiatiqemevnh) e diventare «multiforme» (polueidhv"). Ma mentre Proclo specifica che le anime partecipano di questi oggetti attraverso i loro atti (metevcousai tai`" ejnergeivai"), Damascio parla di partecipazione sostanziale (oujsiwvdh" mevqexi"), ossia di una partecipazione che agisce sulla sostanza dell’anima e la altera65. Certo, una sostanza può partecipare di
scio nel suo Corollario sul tempo (In phys., 779, 4-11). Nel suo commento al De caelo, egli mostra come i corpi celesti si influenzino l’un l’altro, e come si comunichino le loro rispettive proprietà e poteri secondo le loro diverse configurazioni: th;n telesiourgo;n eij" a[llhla metavdosin te kai; me` tavlhyin...: dh`lon ga;r, oijmai, o{ti ta; oujravnia swvmata dra`/ eij" a[llhla kai; metadivdwsin ajllhvloi" tw`n oijkeivwn ajgaqw`n a[llote a[llwn kata; tou;" diafovrou" schmatismouv" (In de cae., 112, 27 ss.; cfr. 96, 21-97; 115, 3 ss. e In
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varie proprietà senza che ne sia toccato il suo stesso essere – un tavolo può essere rotondo o quadrato, bianco o nero, più o meno largo, o stare qui o in qualche altro posto, e tuttavia rimane sostanzialmente lo stesso. Però, come crede Damascio, quando l’anima partecipa della realtà divina, quando si stabilisce nelle sfere celesti, o quando prende parte al mondo del divenire, la sua sostanza è alterata da queste varie partecipazioni. Naturalmente, ciò non significa che l’anima diventi qualunque cosa. Essa preserva sempre lo stesso eij`do" th`" uJpavrxew", cioè non perde mai la struttura formale della sua essenza, eppure può modellare la sua essenza in varie forme, assimilandosi sia all’inferiore che al superiore. Cos’altro è l’essenza e l’essere dell’anima se non un continuo mutar-si? In quanto auto-mossa, l’anima è in cambiamento, perché è mossa, e simultaneamente rimane essa stessa immutata, poiché è richiesto un punto fisso per poter essere capace di muoversi66. Pertanto, se «movimento» implica una forma di «cambiamento», il termine «auto-mosso» (aujtokivnhto") può essere tradotto in aujto-metavblhto", o anche in aujto-gevnhto": l’anima è un’essenza cambiata da se stessa ed è in divenire a partire da sé. Inoltre, in quanto l’anima è in perpetuo movimento (ajeikivnhto"), sarà anche sempre-cambiante (ajeimetavblh-to"), e sempre-diveniente (ajeigevnhto"). L’anima possiede il suo essere proprio in ragione del perpetuo cambiamento della sua essenza67. La sua essenza non è così mai fissa in una phys., 1176, 27-30). Tuttavia, da queste osservazioni Simplicio non arriva mai alla conclusione che i corpi celesti cambino nella loro sostanza: ouj ga;r metevbalev ti th`" oujsiva" aujth`" hJ ajlloivwsi", ajllΔ ejteleivwse movnon ta;" uJparcouvsa" dunavmei" (In de cae., 113, 19-20; cfr. In phys., 779, 4: ka]n mh; th;n katΔ oujsivan).
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singola forma. Di fatto, l’anima è «virtualmente» (katΔ aijtivan) tutte le cose e, perciò, vuole divenire tutte le cose partecipando di tutte le cose e realizzando forme diverse della sua essenza in tempi diversi68. Così non si può più obiettare che l’anima perde qualcosa del suo eidos quando cambia sostanzialmente. In quanto auto-movente, essa non è mai legata a una determinata forma di essere; può cambiare la sua essenza spingendosi verso partecipazioni sempre differenti69. Rimane sempre quella che è, automoventesi, ma non sempre nella stessa maniera70. Si può così comprendere come l’anima umana possa cambiare del tutto e rimanere ancora quella che è. Considerata in se stessa (cioè kaqΔ u{parxin) l’anima rimane numericamente una e identica, senza mai perdere qualcosa della sua essenza nei suoi innumerevoli cambiamenti. Tuttavia, essa cambia secondo la sua partecipazione, un cambiamento che o «rinforza» o «rilassa» la sua essenza, senza che l’essenza che ha ricevuto dall’essere iniziale sia distrutta71. L’eidos dell’anima rimane così fermamente stabile in se stesso e non è Damascio fornisce l’esempio dei corpi celesti per illustrare come l’anima, che è impassibile per natura, possa mutare. In senso simmetrico e opposto, Simplicio si riferisce all’anima per spiegare come possano cambiare gli impassibili corpi celesti: cfr. In de cae., 113, 23 ss.: mh; kata; pavqo" givnesqai legevtw ajlloivwsin tauvthn, ajlla; telesiourgovn, wJ" kai; yu63
ch; a]n alloiou`sqai levgoito ejnqeavzousa. 64 Cfr. In Parm., 1157, 32-37: aiJ ga;r meqevxei" didovnai ti pantelw`" lev-gontai tw`/ metevconti th`" aujtw`n fuvsew" ajlloiwvteron. 65 mevqexi" hJ eij" aujth;n drw`sa th;n oujsivan. Abbiamo trovato solo un parallelo con l’espressione oujsiwvdh" mevqexi", e cioè SIMPLICIUS, In cat., 254,7,
dove è detto che il calore non è una qualità accidentale del fuoco, ma una qualità che appartiene alla sua essenza: kata; th;n oujsiwvdh mevqexin. Cfr. 289, 1: kata; th;n ejn th/` oujsiva/ mevqexin. Cfr. anche Appendice. 66 Cfr. IV, p. 30, 3-8; IV, p. 30, 22-26; IV, p. 42, 1-8; e De princ., I, pp. 51, 6-52, 15 e III, pp. 69, 3-70, 22. 67 IV, p. 31, 1-3: ejn touvtw/ e[cousa to; eij`nai ajeiv, ejn tw/` sunalloiou`n
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scosso dal cambiamento al punto di non essere più ciò che è, cioè al punto che l’anima non sia più un’anima. Si tratta di un cambiamento che penetra l’intero eidos, non per distruggerlo, ma per poterlo disporre in un certo modo (diatiqei`san), una disposizione che dipende dalla sua partecipazione sostanziale72. In tal modo, l’anima può cambiare completamente eppure restare se stessa, dimostrando nuovamente come essa costituisca il «medio» tra il mondo intelligibile e quello corruttibile. L’Intelletto rimane, infatti, del tutto e interamente immutabile rispetto a ciò che è, così come rispetto a ciò di cui partecipa. Tutte le forme ideali in esso rimangono quelle che sono e partecipano l’una dell’altra senza alcun cambiamento. Le cose corruttibili, al contrario, non possono preservare né ciò che sono, né ciò di cui partecipano. Esse subiscono ogni specie di cambiamento passivo, attraverso cui passano continuamente in forme di essere diverse e prendono parte a cose differenti. Tra ciò che è totalmente incorruttibile e ciò che è totalmente corruttibile, si situa l’anima. Essa rimane sempre ciò che è, ma cambia continuamente attraverso le partecipazioni che alterano la sua sostanza73. Pertanto, Damascio la
pw" eJauth;n kata; to; aujtometavblhton th`" oujsiva". Cfr. IV, p. 18, 4-11 e IV, p. 34, 12-20. I quattro termini, aujtometavblhto" (IV, p. 31, 1-3), aujtogevnh-to" (IV, p. 34, 13-14), ajeigevnhto" (IV, p. 34, 13) e ajeimetavblhto" (IV, p. 31, 1, IV, p. 38, 17-18), probabilmente sono stati coniati da Damascio stesso. 68 IV, p. 18, 4-8: ejn touvtw/ ga;r e[cei to; eij`nai to; aujtokivnhton, ejn tw/` poiei`n eJauto; o{ ti a]n bouvlhtai: poiei` de; pa`n aujtokivnhton mevnon ajeiv, kai; pavnta o]n katΔ aijtivan, kai; pavnta gignovmenon kata; probolh;n a[llote a[llh" oujsiva", levgw de; a[llote ajlloiva". Cfr. IV, p. 46, 4-5: pavnta ga;r ouj`sa pavntwn bouvletai metevcein. 69 IV, p. 46, 3-4: Auvjth; mevntoi a[gei eJauth;n pro;" eJkavsthn ajlloivwsivn te kai; mevqexin. 70 IV, p. 16, 21-22: ejstin o{lh diΔ o{lh" aujtokivnhto", ajllΔ ouj pavnth/ o{mw" wJsauvtw" e cfr. IV, pp. 17, 25-18, 1.
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chiama una ajqavnato" gevnesi" poiché esiste nel divenire e nel tempo senza perdere mai il suo essere74. Questa è la «soluzione» che Damascio presenta per spiegare l’identità-in-cambiamento: l’eij`do" th`" uJpavrxew", l’essere formale dell’anima rimane inalterato. Ci si può chiedere quale possa ancora essere, con questa restrizione, il valore di un cambiamento katΔ oujsivan. Una corretta comprensione di tale domanda è resa ancor più complessa dal fatto che i termini eij`do" e oujsiva sono continuamente usati l’uno accanto all’altro e l’uno al posto dell’altro, senza una apparente differenza di significato75. Entrambi i termini sono usati per indicare la forma essenziale che determina l’anima per quella che è. Dal momento che l’essenza è anche ciò che esiste in se stessa e sostiene i vari atti e le varie caratteristiche, si può chiamarla anche sostanza dell’anima. Quando Damascio parla di un cambiamento katΔ oujsivan, certamente non vuol dire che sia toccata l’identità sostanziale dell’anima, che non sarebbe identica a se stessa attraverso 71 IV, pp. 45, 22-46, 6: wJ" a[ra kaqΔ eJauth;n me;n hJ oujsiva o{sh kata; crovnon uJfevsthken ajqavnato" (scil. l’anima), hJ aujth; mevnei tw`/ ajriqmw/`, oujde;n ajpobavllousa tou` oijkeivou ei[dou" ejn tai`" murivai" metabolai`", ajlloiou`tai de; o{mw" kata; mevqexin, kai; ajlloiou`tai th;n ajdiavfqoron ajlloivwsin, h] rJwn-nu`san aujth`" to; eij`do" h] calw`san, oujdevpote de; sugcevousan aujth`" th;n ouj-sivan h}n ejx ajrch`" keklhvrwtai. ... kai; h/J` me;n e[stin, hJ aujth; kata; ajriqmovn, hJ`/ de; metevcei, a[llote ajlloiva. Cod. A legge th;n diafqora;n che è stato mutato da Chaignet in mh; dia; fqora;n, e da Westerink in ajdiavfqoron. Tale correzione è
necessaria, in quanto Damascio nega esplicitamente che il cambiamento dell’anima sia distruttivo (cfr. IV, p. 43, 16 ss.). 72 IV, p. 47, 18-21: ajlloivwsin ouj saleuvousan to; eij`do" eij" to; mh; eij`nai o{ ejstin, diatiqei`san de; movnon eij" to; eij`nai toiovnde, aujto; o]n o{ ejstin: to; de; toiovnde kata; th;n oujsiwvdh mevqexin kai; ei[sw tou` o{lou cwrou`san ei[dou". Il termine saleuvw evoca l’immagine di una nave che oscilla in un
mare in tempesta (cfr. supra, p. 165, n. 38). Plotino applica il termine all’anima; cfr. Enn., III, 6, 3, 23: ouj saleuomevnhn, l’impassibilità dell’anima non è mai disturbata dalle onde della passione.
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il cambiamento. In questo senso, egli è pienamente in accordo con la visione tradizionale, secondo cui l’anima, come «sostanza», continua a esistere durante il cambiamento76. Ma il pericolo è che, dal fatto che l’anima rimanga se stessa, lo stesso soggetto, attraverso il cambiamento, si possa arrivare alla conclusione che debba esistere in essa un sostrato immutabile. Tale sostrato sarebbe da ricercare naturalmente in un’essenza immutabile dell’anima. In questo modo, però, si riducono tutti i cambiamenti che l’anima sperimenta a un livello accidentale, mentre la sua propria essenza rimarrebbe al di fuori del processo del divenire. Damascio giustamente sottolinea che, se l’anima cambia del tutto, anche la sua essenza non sfugge al divenire. Vi è, allora, nell’anima qualcosa che permanga e garantisca la sua permanenza mentre ogni cosa cambia? Damascio afferma che la struttura formale dell’essere dell’anima (eij`do" th`" uJpavrxew") è immutabile. A qualunque livello l’anima cambi, essa non può mai oltrepassare i determinati limiti ontologici della sua essenza specifica. Dunque essa non diventerà mai – neanche nei suoi più alti atti contemplativi – un’anima divina, o non diventerà mai identica all’Intelletto stesso. Ma essa può partecipare del più alto, e così, entro i limiti del suo eidos, proiettare il suo essere in modi differenti (eij`do" th`" meqevxew"). Di conseguenza, l’anima diventerà continuamente «qualcos’altro» (ajlloi`on), ma non «un’altra cosa» (a[llo), diversa da quella che era prima77. Questa soluzione ci fa fare un passo avanti? Oppure Damascio con questa nuova distinzione sposta semplicemente il problema? L’eij`do" th`" uJpavrxew" non funge forse da 73 IV, p. 47, 1-7: o{lh ga;r diΔ o{lh" oiJ`ovn ejsti kai; mevnei kai; metabavlle-tai wJ`dev pw". Kai; tauvth/ a[ra mevsh hJ toiauvth fuvsi" nou` me;n tou` pavnta o{sa ejsti;n kai; o{swn metevcei ajnalloiwvtou pantavpasin, genevsew" de; th`" fqarth`", oujde; o{ ejstin oujde; [o}] ouJ` metevcei sw/zouvsh" to; aujto; kata;
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sostrato immutabile al posto dell’oujsiva?78 In effetti, alcune formulazioni puntano in questa direzione. Così, Damascio afferma che l’eidos dell’anima rimane sempre lo stesso, anche se è disposto (diatiqevmenon) diversamente in tempi diversi. Solo le disposizioni della sostanza cambiano; esse possono essere presenti o assenti, mentre il medesimo eidos continua a esistere. Dunque, ciò che è mutato non è tanto l’essenza stessa, ma la particolare «qualificazione» (to; toiovnde) dell’essenza, che è dipendente dalla disposizione prevalente al momento79. Ora, se l’eidos rimane numericamente lo stesso nonostante le varie disposizioni che acquisisce, ciò non significa che funge da sostrato immutabile durante il cambiamento?80 Questa conclusione si potrebbe accettare se le «disposizioni» fossero accidentali rispetto all’eidos. Se, invece, esse sono i vari modi in cui l’eidos si esprime e si realizza per quello che è, non si può più dire che l’eidos rimane immutabile durante il cambiamento delle sue disposizioni81. ajriq-movn, aujth; to; me;n eJauth`" eij`do" swv/zousa th`" uJpavrxew", to; de; th`" oujsiwv-dou" meqevxew" ajlloiou`sa. Con l’aiuto di questo passo si può chiarire il breve commento a IV, p. 17, 24-25: Kai; mhvpote kai; tou` katΔ eij`do" kai; aj-riqmo;n mevnonto" mevsh ejsti;n hJ yuch; oujsiva. Probabilmente, è omessa una sezione del passo per homoioteleuton dopo ajriqmovn. Suggeriamo di inserire il passo seguente: ajriqmovn mevnontov. 74 Cfr. IV, p. 47, 10-11 e IV, p. 45, 22-23: o{sh kata; crovnon uJfevsthken ajqavnatov. Cfr. De princ., III, p. 75, 22 ss. ` " e 75 Cfr. per es. IV, p. 41, 3-4: th;n oujsivan … ... a[staton aujth; to; eijdo 9: ajnivdruton th`" oujsiva" e la soluzione in IV, p. 47, 16-17: iJdrumevnon ... ` ". Cfr. IV, p. 48, 9-10: to; yuch`" eijdo ` " ... diatiqevmenon e IV, p. to; ... eijdo 49, 5: hJ yuch`" oujsiva diatiqemevnh. Anche IV, p. 19, 2-5: ajpobavllei th;n ` ". E IV, p. 44, 5-6: tw/` ajriqmw`/ tauj... oujsivan ... fqeivrei to; toiou`ton eijdo ` ". to;n katΔ ouj-sivan. Cfr. hJ aujth; ouj`sa kata; ajriqmo;n kai; taujto;n eijdo 76 Damascio impiega questo argomento per provare l’immortalità dell’anima: cfr. In Phaed., 170, 2 ss. con un riferimento a Cat. 4 a 10.
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La posizione di Damascio può essere riassunta come segue. L’eidos dell’anima è in cambiamento eppure è permanente: in cambiamento, perché la sua essenza è data in forme diverse in ogni «disposizione»; permanente, perché ogni disposizione è una forma dello stesso eidos. In apparenza, questo strano essere può essere soltanto un’essenza che è «auto-cambiata», cioè un’essenza che possiede il suo essere, e conserva la sua identità, cambiando continuamente se stessa. Come è possibile un cambiamento sostanziale che pure non dissolva l’identità di quella sostanza? Questo è il problema con cui si confronta Damascio. In termini strettamente aristotelici, qualcosa del genere è difficile da capire. In effetti, un cambiamento che non distrugge la sostanza e non origina una sostanza nuova, ma soltanto determina la data sostanza in un modo diverso, è un cambiamento qualitativo, e non un cambiamento della sostanza stessa. Se è così, allora si deve nuovamente concludere che l’anima cambia solamente a livello accidentale. Tuttavia, ci si potrebbe chiedere, come fa Damascio, se è o no possibile un cambiamento da cui possa essere alterata anche l’essenza del soggetto cambiante. Se la «razionalità» non è semplicemente una caratteristica accidentale dell’anima umana, ma una proprietà che determina la sua essenza, e se questa proprietà può aumentare o diminuire, perché non accettare che lo stesso eidos, in quanto è determinato da tale proprietà, possa essere ciò che è a un livello maggiore o minore? L’anima umana non diventa forse più perfetta quando contempla l’essere intelligibile, e, al contrario, più imperfetta quando vive unicamente in 77
IV, p. 18, 7-8: kata; probolh;n a[llote a[llh" oujsiva", levgw de; a[llo-
te ajlloiva".
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funzione dei bisogni del corpo, senza alcuna attività intellettuale?82 È interessante confrontare la visione di Damascio con il modo in cui il suo discepolo Simplicio si avvicina a un simile problema. Nella sua interpretazione di Physica, VII, 3, Simplicio solleva la questione su come Aristotele possa affermare che la virtù è «generativa» (gevnesi") dell’anima, e il vizio è «distruttivo» (fqorav). L’anima non possiede forse sempre lo stesso eidos, e non preserva la sua identità, tanto nel caso sia virtuosa, quanto nel caso sia depravata?83 Simplicio dapprima cerca di aggirare questa difficoltà ricorrendo a una distinzione. Vi è una perfezione che appartiene alla sostanza stessa, cioè il possesso di tutti gli elementi e le caratteristiche che costituiscono la natura essenziale. Se questa perfezione o qualcuno dei suoi elementi venisse meno, l’anima non sarebbe più un’«anima».
78 u{parxi" e oujsiva sono chiaramente distinte da Damascio in De princ., III, pp. 147, 19-155, 23. u{parxi" denota il primo principio di ogni esistenza (uJpovstasi"), la base (qemevlion) dell’intera struttura dell’essenza, l’essere puro, senza le diverse qualificazioni che lo rendono un’essenza determinata (oujsiva): cfr. III, p. 152, 13 ss.; III, p. 152, 19 ss. Cfr. PROCLUS, In Tim., II, 125, 25 e 126, 6. 79 Cfr. IV, p. 39, 11: kata; metabolh;n dhlonovti th`" ejpikratouvsh" e{xew". 80 Cfr. IV, p. 7, 15-16: to; ... eij`do" aujth`", oiJ`on aujto; to; uJpokeivmenon – IV, p. 48, 9-10: mevnei ... to; yuch`" eij`do" ajei; to; aujtov, a[llote de; a[llw" dia-tiqevmenon (cfr. IV, p. 49, 5 e IV, p. 49, 7-10). 81 Un confronto con le anime divine può chiarire il problema. Perché le anime divine non sperimentano un reale cambiamento nella loro sostanza, anche se passano attraverso disposizioni sempre mutevoli (e{xei")? Damascio sottolinea che queste anime conoscono solo la transizione da una perfezione a un’altra, mentre le anime umane possono essere del tutto private della perfezione e cadere nell’ignoranza e nel vizio. A causa di questa «privazione», le anime umane sono soggette al cambiamento sostanziale. Cfr. IV, pp. 49, 11-50, 4; IV, p. 19, 7-12; IV, p. 34, 4-7. 82 Questa conclusione evidentemente contraddice quanto è detto da
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Ma vi è anche una perfezione che è acquisita come abito avventizio (ejpeivsakto") o accidentale. Tale perfezione avventizia può essere presente o mancante, senza che la sostanza dell’anima stessa per questo si generi o si corrompa. Secondo questa interpretazione, Aristotele non avrebbe voluto indicare una generazione dell’anima stessa, ma piuttosto delle sue perfezioni accidentali84. Nondimeno, questa soluzione non è molto soddisfacente. Non si può semplicemente asserire che la virtù e il vizio sono modificazioni accidentali dell’anima, poiché la modificano essenzialmente. Infatti, come dice Aristotele, la virtù è un completamento, la più alta realizzazione di ciò che una cosa è per natura, e il vizio è un allontanamento da ciò che dovrebbe essere. Pertanto, Simplicio suggerisce quella che considera una spiegazione migliore. Ogni eidos, quando è realizzato in accordo con la sua natura, deve possedere non soltanto la perfezione che è costitutiva della sua essenza, ma anche la sua propria eccellenza o «virtù». Se quest’ultima è assente, l’eidos non è perfettamente realizzato secondo la sua natura, anche se conserva ancora tutte le sue caratteristiche essenziali. Così, un corpo malato non è più perfettamente quello che è, perché non può più produrre i suoi atti naturali, anche se possiede tutte le parti e gli elementi che sono propri della sua struttura organica. Al contrario, un tale corpo è come un cadavere, poiché è privato della sua naturale «virtù». Allo stesso modo, l’anima razionale può anche perdere la «virtù» che le è dovuta per natura. Allora non è più capace di svolgere Aristotele in Cat. 3 b 33 - 4 a 9: la sostanza non può ammettere gradi in più o in meno. Tale problema fu esaminato dai commentatori successivi: cfr. DEXIPPUS, In cat., 54, 3-22 e SIMPLICIUS, In cat., 112, 15 ss. (la somiglianza di questi passi si può spiegare con la loro comune dipendenza da Giamblico).
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quelle attività che sono appropriate alla sua natura, come, per esempio, il pensare. Ora, una tale anima non è più un’anima in senso proprio. Non è più una «vita razionale che esiste secondo la sua natura, ma una specie di anima morta»85. Questa «virtù naturale» o capacità di agire in conformità alla sua natura deve essere considerata la componente più importante dell’eidos. Un’essenza che ne è priva è soltanto una forma morta e, al più, è simile solo nel nome (oJmwnuvmw") all’essenza che vive secondo la sua natura. In questo passo degno di nota, Simplicio sembra avvicinarsi molto all’affermazione secondo cui l’anima umana è soggetta al cambiamento sostanziale. Quando Aristotele rifiuta di considerare l’acquisizione o la perdita di abiti morali come un cambiamento qualitativo (ajlloivwsi"), ma parla di «generazione» e «distruzione», la ragione di ciò, secondo Simplicio, sta nel fatto che il passaggio dal vizio alla virtù è un cambiamento che contribuisce alla vera essenza dell’anima. In effetti, egli fa notare, la virtù non è una qualità accidentale del soggetto, ma il compimento della sua essenza. Partecipando di questa perfezione, il soggetto non è semplicemente «alterato» (ajlloi`o"), ma anzi è cambiato in un’altra forma (a[llo")86. In realtà, una perfezione non può derivare dalla sua assenza o privazione per un processo di «alterazione», ma deve essere genera83 Cfr. In phys., 1066, 3: pw`" th;n ajreth;n kai; th;n kakivan gevnesin kai; fqora;n th`" yuch`" duvnaton levgein, ei[per e[cousa to; eij`do" th`" ajnqrwpinh`" yuch`" kai; uJpomevnousa ejn tw`/ aujtw/` pote; me;n ajretou`tai, pote; de; kakuvne-tai. In Physica VII, 2-3 Aristotele dimostra che, strettamente parlando, l’alterazione (ajlloivwsi") si verifica solo nelle cose sensibili: esse so-
no alterate in quanto vengono toccate nelle loro «qualità passive» (cfr. 245 b 2-5). Pertanto l’acquisizione o la perdita di abiti morali non rappresentano alterazioni qualitative del soggetto poiché la virtù (ajrethv) non è una «alte-
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ta come una realtà positiva che prima mancava. Ma per quanto Simplicio sembri ammettere, in questo senso, una «generazione» dell’anima, egli non ne trae mai l’ovvia conclusione, e cioè che l’anima cambia katΔ oujsivan87. Damascio è stato il solo a considerare a fondo, fino alle sue ultime conseguenze, il problema del cambiamento dell’anima, e a condurlo di fatto alle «contraddizioni logiche»: una oujsiva che cambia katΔ oujsivan eppure rimane taujto;n ajriqmw`./ Nel tentativo di evitare questa contraddizione, egli si sente obbligato a impiegare termini che indicano il cambiamento qualitativo piuttosto che la generazione. Ma cade poi in una nuova difficoltà: come è possibile il cambiamento qualitativo della sostanza? Tutti questi conflitti logici sono quasi inevitabili, poiché Damascio rimane legato e limitato dall’apparato concettuale fornitogli dalla sua tradizione. ΔAlloivwsi", metabolhv, gevnesi", katΔ ajriqmovn o katΔ eij`do" e{n – tutti questi termini erano impiegati principalmente per analizzare il cambiamento fisico. Se si vuole esprimere la vita dell’anima in questi termini, ci si imbatte in tali inevitabili difficoltà. Tuttavia, con questo intrattabile materiale grezzo della tradizione, Damascio riesce a formulare un’analisi nuova e originale. Meglio di qualunque filosofo greco precedente, egli comprende che l’essenza dell’anima non è immutabilmente fissa, ma anzi esiste proprio nella sua libertà di determinare se stessa come quella che potrebbe essere. Essa non subisce il cambiamento sostanziale, ma è sia il soggetto che l’oggetto del suo cambiamento. Cambiando sempre se stessa, rimane se stessa. Certo, non si tratta qui di un «esistenzialismo» avant la lettre, anche se fa venire in mente la massima di Sartre, r-atio» di una cosa, anzi è la realizzazione della sua natura, il compimento della sua propria perfezione. E il vizio (kakiva) è la distruzione (fqorav!) e
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«l’homme n’a pas d’essence, il est ce qu’il fait». Per Damascio, la libertà dell’anima di «progettare» la sua esistenza è possibile soltanto entro i limiti dell’essenza che le è stata assegnata nell’ordine dell’essere88. L’ampiezza della sua libertà è limitata dalla «forma» essenziale del suo essere (eij`do" th`" uJpavrxew"). In effetti, in conformità con la visione tradizionale, Damascio colloca il fondamento dell’identità dell’anima durante il cambiamento nella permanenza della sua struttura oggettiva, e non nell’unità soggettiva della sua «coscienza».
4. L’influenza di Giamblico È abbastanza chiaro che l’idea di fondo dell’argomento di Damascio – l’anima umana cambia sostanzialmente senza perdere la sua identità – può essere ritrovata in Giamblico. Anche l’argomentazione che propone Damascio a supporto di tale posizione è già presente in Giamblico. 1. Come è possibile che l’anima produca atti perversi se la sua sostanza rimane immutabile? Se la sostanza è il principio degli atti, e se gli atti sono simili alla sostanza, allora si deve accettare che anche la sostanza cambia89. 2. La produzione e la mescolanza con le vite inferiori causano un cambiamento sostanziale nell’anima90. 3. Ancor più importante è il fatto che Damascio reagisce contro Plotino nello stesso modo di Giamblico. Non vi è nessuna parte o elemento nell’anima che rimanga sempre «al di sopra» immutato. Se l’anima scende come un l’allontanamento dal suo stato naturale. Su questo passo cfr. G. VERBEKE, The Aristotelian Doctrine of Qualitative Change in Physics VII,3, in Essays in Ancient Greek Philosophy, ed. J.P. ANTON / G.B. KUSTAS, New York 1971, pp. 546-65. 84 Una soluzione simile a questo problema fu proposta da PHILOPONUS, In
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tutt’uno nel divenire, anche la sua sostanza è soggetta al cambiamento91. 4. Come Giamblico, Damascio associa il cambiamento sostanziale dell’anima alla sua posizione intermedia tra la realtà divisibile e quella indivisibile92. Le affinità con la visione di Giamblico sono così impressionanti che dobbiamo presumere che Damascio sia largamente dipendente da lui in questa particolare esposizione. Perché allora non si riferisce esplicitamente al filosofo siriano? Al contrario, egli fa sembrare di stare assumendo una posizione personale e di essere il primo ad «avventurarsi» contro la concezione tradizionale. Prima di tutto, potremmo osservare che Damascio non segue certamente Giamblico riguardo all’interpretazione della terza ipotesi del Parmenide. Abbiamo già visto le ragioni per cui egli rigetta l’esegesi di Giamblico, e concorda piuttosto con Proclo e con gli altri Neoplatonici, che vedono nella terza ipotesi un riferimento all’anima umana. Tuttavia, nell’elaborazione della sua interpretazione, si allontana dalla posizione di Proclo e si richiama alla dottrina dell’anima di Giamblico. In un modo simile, Prisciano, anche se generalmente segue l’insegnamento di Giamblico sull’anima, si allontana da Giamblico quando spiega la noetica aristotelica, come vedremo nell’ultima parte del nostro studio. La nostra supposizione che Damascio critichi Proclo de an., 193, 34-194, 16: Aristotele non intende «generazione» in senso stretto (aJplw`" gevnesi") cioè un cambiamento della sostanza, ma una generazione qualificata (gevnesiv" ti"), una generazione della perfezione della sostanza. Cfr. ARISTOTELES, Phys., V, 1,225 a 14-15. 85 In phys., 1066, 26-27: ouj yuch; kurivw" oujde; zwh; logikh; kata; fuvsin e[cousa, ajlla; nenekrwmevnh tiv" ejstin. 86 In phys., 1081, 17 ss.: o{sai ga;r poiovthte" eij" th;n oujsivan kai; th;n
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perché preferisce la dottrina di Giamblico sull’anima, è confermata in realtà da un’importante testimonianza data da Simplicio sul suo maestro nel suo Commento alla Fisica. Simplicio nota che quasi tutti i filosofi post-Procliani sono d’accordo con Proclo, non soltanto riguardo alla sua concezione del tempo, ma su tutti i problemi filosofici. Asclepiodoto, il miglior allievo di Proclo, e Damascio, maestro di Simplicio, sono delle eccezioni: il primo perché la sua estrema ingenuità lo porta a prediligere nuove idee, mentre il secondo, a causa della sua diligenza e della sua attrazione per Giamblico, non esita a contestare molte delle dottrine di Proclo. Così, Simplicio93. Simplicio è interessato qui soprattutto all’insegnamento di Damascio sul tempo. Secondo Damascio, il tempo non trascorrerebbe se consistesse di punti distinti che non hanno estensione – in effetti, un numero infinito di «ora» non potrebbe mai formare un continuo. Il tempo procede, afferma Damascio, «per salti» (a{lmata), per così dire, per «passi» finiti, che hanno una certa estensione, ma non sono essi stessi divisibili94. Damascio ritrova questa visione alquanto originale del tempo, come successione di quanta finiti, in Giamblico95. Proclo, che accetta la posizione di Giamblico riguardante il tempo assoluto, tuttavia non lo segue nella sua analisi del tempo partecipato, ma sostiene l’insegnamento classite-leiovthta suntelou`sin kai; eij`do" givnontai tou` metevconto", ouj poiou`sin ajlloi`a ta; katΔ aujta;" metabavllonta, ajlla; ma`llon a[lla e anche 1081, 26: aiJ kata; ta;" areta;" ouj`n metabolai; teleiou`sai to; uJpokeivmenon kai; eij" to; tiv hj`n eij`nai suntelou`sai oujk eijsi;n ajlloiwvsei". Cfr. PHILOPONUS, In de an., 101, 1: eij" aujth;n th;n tou` uJpokeimevnou oujsivan drw`sin. Sia Filo-
pono che Simplicio sembrano adottare la soluzione di Alessandro. 87 Simplicio è a conoscenza della dottrina di Damascio poiché allude a essa in In phys., 778, 32-36.
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co di Aristotele, per cui il tempo consiste solo dell’«istante»96. Damascio vuole così risalire oltre Proclo, per ritrovare la concezione del tempo di Giamblico. Eppure, egli non cita specificamente Giamblico nelle parti del suo commento al Parmenide, dove abbozza questa visione del tempo97. Ma non è soltanto riguardo alla teoria del tempo che Damascio si allontana da Proclo. Simplicio dichiara espressamente che il suo maestro attaccava «molte dottrine» di Proclo. Crediamo che la nostra analisi dell’insegnamento di Damascio sull’anima abbia chiaramente dimostrato che anche qui egli abbandona le dottrine di Proclo, poiché preferisce la dottrina di Giamblico, per la quale l’anima subisce un cambiamento sostanziale. In effetti, Damascio dà spesso prova della sua preferenza per Giamblico. Molto di frequente cita la sua dottrina con approvazione. «Mi vergognerei», scrive nel suo trattato sui primi princìpi, «dinanzi al divino Giamblico, il miglior esegeta della realtà divina e intelligibile, se osassi introdurre qualche innovazione (kainotomoivhn)»98. Egli cita Giamblico, insieme alla tradizione orfica e caldaica, come un’autorità, e cerca egli stesso di pensare nel medesimo modo di Giamblico. Sembra che nella cerchia di Damascio fosse sorto un rinnovato interesse per Giamblico. Le sue opere erano studiate e generavano stupore per le profonde speculazioni che in esse si ritrovavano. A quanto pare, spesso si riteneva che Proclo avesse risolto i problemi troppo formalisticamente e «troppo facilmente». Si vedeva nelle considerazioni barocche e complicate di Giamblico, che erano piene di formule sottili e parados-
88 89
Cfr. IV, p. 46, 2-3: th;n oujsivan h}n ejx ajrch`" keklhvrwtai. Cfr. DAMASCIUS, IV, p. 13, 7-11; IV, p. 17, 17-23; IV, p. 41, 1-7 e IV, p.
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sali, una più adeguata espressione della complessità della realtà stessa. Si difendeva Giamblico dall’accusa che la sua filosofia fosse «oscura e impenetrabile» (a[baton), o anche che egli fosse più interessato alla retorica presuntuosa che alla verità99. Così, possiamo sicuramente parlare di un deciso ritorno a Giamblico nell’ultimo periodo dell’Accademia Ateniese. Damascio testimonia che il suo predecessore, Isidoro, aderiva al «meraviglioso sottile pensiero di Giamblico», accanto a quello di Platone, e, inoltre, alle dottrine di tutti gli «amici e seguaci di Giamblico», fra cui Siriano occupava il primo posto100. In questo contesto, è anche più facile capire perché Prisciano abbia cercato di elaborare un’interpretazione di Aristotele e di Teofrasto basata sulle idee di Giamblico. Egli cita Proclo solo una volta, riguardo a un punto secondario, e di fatto solo per criticarlo. Il commento di Filopono, al contrario, scritto ad Alessandria, è fortemente influenzato da Proclo. Simplicio, che sappiamo essere stato un discepolo di Ammonio come pure di Damascio, manifesta questa ambivalenza nel suo atteggiamento nei riguardi di Giamblico. Egli, inoltre, dà prova di grande ammirazione per il pensatore siriano, soprattutto nel suo commento alle Categorie, dove trascrive o parafrasa numerose pagine da Giamblico, e nei suoi Corollari sul tempo e sul luogo. Tuttavia, egli non adotta le dottrine di Giamblico senza obiezioni: spesso le critica o cerca di portare le speculazioni elevate e spesso oscure del siriano a un livello più accessibile. Damascio e Prisciano, al contrario, hanno ti46, 12-18 e cfr. con Giamblico in PRISCIANUS, In de an., 89, 33-35 e 240, 3337 e Metaphr., 31, 27-32. 90 Cfr. DAMASCIUS, IV, p. 14, 13-17 e, per Giamblico, i passi citati a p. 62. 91 Cfr. DAMASCIUS, IV, p. 15, 1-22; IV, p. 32, 17: kavteisin ga;r o{lh hJ yu-
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more di allontanarsi da Giamblico e si affrettano a scusarsi quando lo fanno. Dal momento che la particolare dottrina che è attribuita a Giamblico da Prisciano si può trovare nel Commento di Damascio, dobbiamo ammettere che anch’egli fu influenzato dal maestro siriano, anche se non riteneva necessario riconoscere questo debito. Tuttavia, egli potrebbe aver ammesso questo accordo generale con Giamblico nell’introduzione perduta al suo Commento, come aveva fatto Prisciano. Questa dipendenza, naturalmente, non esclude la possibilità che Damascio avesse sviluppato ulteriormente, in un modo personale e originale, la visione di Giamblico, e che avesse esplorato più a fondo un certo numero di problemi, che Giamblico aveva soltanto sfiorato. Sembra probabile che l’intera investigazione aporetica – se l’anima rimanga una solo specificamente o anche numericamente, e se permanga identica durante il cambiamento sostanziale – sia un contributo proprio di Damascio. A lui possiamo attribuire anche il tentativo di esprimere il cambiamento psichico in concetti più precisi e tecnici. La distinzione tra la forma dell’u{parxi" e la forma dell’oujsiva fu applicata certamente a questo problema per la prima volta da Damascio. In ogni caso, non troviamo nulla di ciò in Prisciano. Damascio non solo sviluppò ulteriormente la visione di Giamblico e ne investigò le implicazioni, ma pure la ripensò e la arricchì, portandola nella dialettica del Parmenide. Anche Prisciano darà una nuova dimensione a questa dottrina dell’anima, confrontandola con la noetica aristotelica. È quanto esamineremo nel capitolo seguente.
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Parte terza
Prisciano
Capitolo sesto
La vita razionale dell’anima
Nella Parte prima, abbiamo discusso un certo numero di passi tratti da Prisciano, che ci hanno consentito di accedere al pensiero di Giamblico. In quest’ultima parte del nostro studio, esamineremo in particolare come Prisciano, nella sua personale maniera, abbia sviluppato ulteriormente l’idea di fondo dell’insegnamento di Giamblico sull’anima, e come l’abbia applicata alla sua interpretazione della noetica aristotelica. Il significato stesso della dottrina di Giamblico trarrà forse da ciò nuova luce.
1. Anima e Intelletto Prima di dedicarsi alla spiegazione di De Anima III, 4-5, Prisciano specifica chiaramente la sua posizione rispetto a una questione controversa: di quale nou`" o, eventualmente, di quali nove" tratta Aristotele nel passo in questione? Quali sono le implicazioni della distinzione che egli fa tra un elemento passivo (potenziale) e uno attivo all’interno dell’«intelletto»? La brevità di questo testo è stata la causa di spiegazioni molto divergenti già dall’Antichità1. 1 PS. PHILOPONUS, In de an., 535, 2: oiJ ejxhghtai; ejpi; polla;" kai; diafovrou" oJdou;" ejtravphsan (cfr. PHILOP., De intel., 42, 96-43, 1).
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Tale divergenza emerge specialmente a proposito dell’interpretazione del cosiddetto «intelletto agente». Con questo principio attivo di conoscenza, Aristotele vuole indicare qualcosa che trascende l’anima umana – un intelletto divino – oppure qualcosa che appartiene alla struttura della ragione umana? La risposta a questa domanda determina, naturalmente, l’interpretazione che si potrebbe dare di tale testo. Per questo, Prisciano procede in primo luogo a esporre e a giustificare la posizione che intende assumere sull’argomento2. Per far questo, Prisciano si richiama alla fondamentale distinzione che Giamblico introduce tra i diversi livelli della realtà intellettuale. Prima di tutto, vi è il nous impartecipato (ajmevqekto"), cioè l’Intelletto assoluto, universale, in cui si trovano tutte le forme ideali, e che è il principio dell’intera intelligibilità. Poi vi è l’intelletto che è partecipato dall’anima ed è unito a essa. Anche se l’essenza di tale intelletto consiste nell’essere unito all’anima che partecipa di esso, tuttavia esso continua a trascendere l’anima. Esso esiste in se stesso, senza essere mescolato all’anima, conferisce coerenza «dall’alto» alla vita razionale dell’anima e la porta alla perfezione. Infine, possiamo anche chiamare la stessa anima razionale un nous, in quanto essa possiede l’intellezione come abito3. Con 2 L’interpretazione di Prisciano (o Ps. Simplicio) è stata esaminata da O. HAMELIN, La théorie de l’intellect d’après Aristote et ses commentateurs, Paris 1954, pp. 44-55 e da J. MONTOYA SAENZ, Interpretación por Simplicio de la teoria aristotélica del “Nous”, in Annales del Seminario de Metafisica, Madrid 1968, pp. 75-95. Quest’ultimo, però, che ha preso in considerazione solo il commento relativo a De an., III, 4-6, non vede la connessione tra la noetica di Prisciano e la sua dottrina dell’anima. Per un quadro generale degli studi più recenti, cfr. Appendice. 3 Questi tre livelli noetici furono distinti per la prima volta da Giamblico. Cfr. PROCLUS, In Tim., II, 313, 15-24 (=fr. 60) e, in connessione, le con-
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questo triplice schema in mente, così dice Prisciano, possiamo determinare più facilmente quale nous intenda Aristotele nei capitoli che seguono. «Lo scopo (skopov") di questo testo non è fornire un’esposizione sull’intelletto che è partecipato dall’anima, e ancor meno, sull’intelletto impartecipato, ma sulla sostanza razionale. Infatti, questo trattato è anche sull’anima, e la ragione è una parte dell’anima umana»4. Dovremo ora esaminare come Prisciano cerchi di dimostrare la validità di questa interpretazione. Sin dall’inizio, Prisciano respinge ogni interpretazione teologica dell’«intelletto attivo». Troviamo una tale interpretazione, per la prima volta, in Alessandro di Afrodisia, che scorge una connessione tra certe affermazioni di De anima, III, 5 a proposito dell’intelletto (ossia che è sempre in atto, che è impassibile, separabile e non mischiato, e, soprattutto, «che produce tutte le cose») e la caratterizzazione dell’Intelletto divino nel libro Lambda della Metafisica. Sarebbe dunque questo Intelletto divino quello che, come principio attivo, illumina e attualizza il pensiero umano5. Prisciano, al contrario, ritiene che sia sbagliato, in un trattato psicologico, cercare asserzioni sull’Intelletto assoluto, trascendente, che non è partecipato da nessuna anima. Anzi, tali considerazioni sarebbero più consone a un’opera metafisica. Prisciano ha, come dice egli stesso, condotto la sua riflessione filosofica sull’Intelletto assoluto in un luogo più adatto, cioè nel suo commento al siderazioni di Proclo a pp. 312, 30-313, 4 e 405, 7-406, 10. Anche II, 240, 22-26 (= fr. 54) e 250, 21 ss. (= fr. 55) e 252, 21 ss. (= fr. 56). Cfr. STOBAEUS, Ecl., I, 365, 24-26. 4 p. 218, 29-32. 5 Cfr. ALEXANDER, De anima, 89, 16-18; THEMISTIUS, In de an., 102, 3031; PHILOPONUS, De intel., 43, 18-44, 24 e PS. PHILOP., In de an., 535, 4-5; SIMPLICIUS, In phys., 2, 5 e 268, 27.
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libro Lambda, seguendo in quell’occasione la dottrina di Giamblico, che è nella fattispecie in accordo con l’intenzione del testo aristotelico. L’Intelletto divino qui discusso è l’Essere primo, la Vita migliore e l’Atto supremo. Nell’atto del pensiero, esso coincide perfettamente con l’oggetto conosciuto. È eternità, perfezione, permanenza, causa e determinazione (o{ro") di tutte le cose6. Anche se è superfluo e irrilevante dilungarci qui sull’Intelletto assoluto, dobbiamo ancora parlare dell’Intelletto che è strettamente legato all’anima umana, cioè, dell’intelletto partecipato, e chiederci se Aristotele non stia forse trattando di tale intelletto, nel capitolo in questione. «Infatti, esiste anche un intelletto proprio di e partecipato da ogni anima razionale, che determina ogni anima razionale che è scesa allo stato di essere determinato e dalla forma (eidos) [indivisibile] alla discorsività (logos)»7. Il significato di questo passo non è chiaro al primo sguardo, e certamente non lo è per chi non ha dimestichezza con il particolare vocabolario filosofico di questo commentario. o{ro", oJristikov", oJrivzw, e termini simili, si riferiscono qui ai veri concetti-chiave8. Il termine o{ro" indica, nella terminologia aristotelica, ciò da cui la natura essenziale di qualcosa è costituita e determinata9 in modo tale da essere sot6 7
Cfr. pp. 217, 23-28 e 249, 19-21. p. 217, 29-32: e[sti gavr ti" kai; i[dio" uJfΔ ejkavsth" logikh`" yuch`"
me-tecovmeno" nou`", w/`J oJrivzetai eJkavsth yuch; uJpoba`sa eij" to; oJrizovmenon kai; eij" lovgon ajnti; ei[dou". 8 Questi termini ricorrono circa trecento volte. Molto frequenti sono anche carakthrivzw (carakthristikovn) e eijdopoievw. 9 Cfr. BONITZ, Index Aristotelicus, 529 b 44: «omnino id quo alicuius natura constituitur et definitur». Il termine è spesso usato da Aristotele con il significato di «definizione»: cfr. Top., 101 b 39: e[sti o{ro" lovgo" oJ to; tiv hj`n eij`nai shmaivnwn (cfr. 139 a 24). La formula usata in Eth. Nic., VI, 9 (oJ nou`" tw`n o{rwn, tw`n prwvtwn o{rwn, tw`n ajkinhvtwn o{rwn – 1142 a 26; 1143
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tratta all’indefinitezza della materia e poter essere espressa in una «determinazione» propria (cioè: in modo da essere definibile). Ora, quello che determina e attualizza un essere, così che esso possa costituirsi come questo essere determinato (tovde ti), è proprio la forma (eij`do") di quell’essere. Entrambi i termini sono, perciò, usati ripetutamente in modo intercambiabile nel corso del commento: pa`n ga;r eij`do" o{ro". Determinare (oJrivzw) qualcosa vuol dire dargli forma (eijdopoievw)10. Questa «determinazione formativa» (eijdhtiko;" o{ro" – 42, 3) esiste da se stessa e in se stessa come una sostanza, ma fornisce anche sostanzialità a ciò che è determinato da essa. La cosa determinata (un composto di materia e forma) prende parte alla perfezione che è la stessa forma determinante11. In quanto l’eidos non a 36, b 2) portò a un’identificazione di o{ro" e eij`do", cfr. PRISCIANUS, p. 124, 23: nw/` ga;r tou;" o{rou" gignwvskomen, o{roi de; ta; ei[dh (cfr. 224, 40). Cfr. anche PROCLUS, In Tim., I, 438, 29; In Alc., 247, 3 e ASCLEPIUS, In metaph., 6, 20; 13, 25. 10 Cfr., per es., p. 18, 15; 45, 12: to; ga;r eij`do" o{ro", ajllΔ oujc oJrizovmenon. La materia è interamente aj-ovristo", ma è tuttavia dektikh; o{rou. Quando è determinata da una forma, si realizza una wJrismevnh oujsiva: cfr. pp. 83, 29 ss. e 84, 25-30. Nel commento di Prisciano, la dottrina neoplatonica sugli ei[dh è consistentemente interpretata in funzione del concetto di o{ro". Questo comporta una peculiare terminologia che rende il testo di difficile comprensione. In alcuni passi, anche Ammonio considera le forme (ei[dh) come princìpi «determinativi» della realtà (wJ" oJristika; ... tw`n o[ntwn). Cfr. PHILOP., In anal. post., 47, 24 ss.: ta; nohta; kai; qeiva ei[dh. ”Orou" de; aujta; kalei`sqai dia; to; pevrata eij`nai tw`n pavntwn (cfr. p. 324, 8 ss.). L’uso che i Pitagorici facevano dei numeri per indicare le forme ideali è spiegato da Ammonio con il fatto che sia i numeri che le idee sono princìpi determinativi e limitativi: oJristikai; kai; perantikaiv; cfr. ASCLEPIUS, In metaph., 34, 12 ss., 92, 29; 379, 17-20; 418, 16-18; 430, 8-9. Comunque, tutti questi testi sono casi isolati, riguardanti un testo particolare di Aristotele. In nessun luogo troviamo eij`do" identificato sistematicamente con o{ro" come nel commento di Prisciano. 11 Cfr. p. 83, 31-32: to; eij`do" o{ro" ... kai; teleiovth" kai; prwvth kai; kaqΔ auJth;n oujsiva, ajllΔ ouj to; oJrizovmenon kai; tevleion kai; to; oujsiwmevnon kai; hJ
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appartiene solamente a se stesso, ma determina ciò che partecipa di esso, può essere detto anche «il determinante» (oJristikovn). Così i fusika; ei[dh sono gli oJristikav del corpo sensibile, l’anima è l’oJristikhv del corpo vivente come vivente, e l’intelletto partecipato è l’oJristikovn dell’anima razionale12. È importante notare che ogni eij`do" - o{ro" è, come tale, indivisibile, e perciò non può subire nessun cambiamento o sviluppo, dato che ciò implicherebbe una divisione. È la cosa determinata a cambiare, mentre il fattore determinante (o l’eidos) rimane sempre interamente ciò che è. Dunque, l’eidos può anche essere detto semplice (aJplou`") – non nel senso di una contrazione o restrizione, ma perché esso anticipa in se stesso, come unità indivisa, tutte le proprietà e i logoi che si sviluppano da esso13. E in effetti, a ogni eidos corrisponde una molteplicità di logoi. Così l’eidos del corpo naturale abbraccia una molteplicità di logoi fisici, che spiegano, nella divisione di tempo e spazio, la totalità delle proprietà che stanno insieme, simultaneakaq`Δ e{teron oujsiva (cioè il composto). Teleiovth" è usato spesso insieme a o{ro" per caratterizzare l’eij`do": pp. 83, 31; 84, 29; 131, 24; 194, 26; 217, 32; 249, 15. La forma è la perfezione auto-sussistente (teleiov-th"), mentre il composto è perfezionato da essa: p. 151, 24: pa`n ga;r eij`do" tevleion, ma`llon de; teleiovth" e anche pp. 130, 38; 194, 25-32 e 262, 6. Per questo, Aristotele chiama l’eidos «entelechia»: wJ" teleiovth" kai; ejn teleiovthti e[con to; eij`nai ... kai; to; suvnqeton ejn teleiovthti sunevcon (84, 5-6; 121, 26-27). 12 Cfr. pp. 86, 25-28 e 231, 35 ss. Questa terminologia non è così rigorosa. Il termine o{ro" è usato anche per l’eidos quando è considerato nella sua funzione determinativa. 13 ajmevriston a{pan eij`do" (pp. 86, 29; 113, 21; 167, 32; 217, 32). Cfr. anche p. 249, 15-19: to; eij`do" ... ejsti ... o{ro" ajmevristo" eJnoeidw`" pavn-
ta" touv" te peri; aujto;n ajnelittomevnou" lovgou" kai; ta;" kaq`Δ a}" ta; merista; uJfiv-statai ijdiovthta" proeilhfwv", aJplou`" me;n, ajllΔ ouj kata; ajpestenwmevnhn iJstavmeno" aJplovthta, kata; de; th;n pavntwn oijstikh;n tw`n peri; aujto;n meri-zomevnwn ph/ ijdivwn lovgwn (cfr. anche p. 262, 8).
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mente, nell’eidos indiviso. Questi logoi «in-formano» direttamente la materia e le conferiscono qualità, aspetto, e dimensione, in conformità all’eidos14. Tuttavia, se si sottolinea con forza che l’eidos è una sostanza indivisa e semplice, segue immediatamente la conclusione che l’anima stessa non può più essere considerata come appartenente agli ei[dh. In effetti, la sua vita è caratterizzata da discorsività (ajnevlixi"); essa dispiega il suo intero essere in una successione continua, variabile, di stati e forme. In tal modo, distrugge e “rilassa” l’unità indivisa propria dell’eidos15. «È uscita dalla sostanza indivisa» e «è scesa nella divisione», osserva ripetutamente Prisciano16. Il suo essere non è altro che un incessante uscire dal suo eidos nella divisione e un continuo dispiegare ciò che è anticipato come unità nel suo eidos17. Nell’ordine ontologico, pertanto, l’anima viene dopo gli ei[dh, perché questi sono sempre interamente indivisi18. Comprendiamo così l’affermazione con cui abbiamo cominciato: «l’anima è scesa dall’eidos al logos»19. Qui si deve notare che con 14 Cfr. p. 249, 19: oJ me;n fusiko;" (o{ro") tw`n fusikw`n (lovgwn) uJpostatikov" e 113, 17-20: pavntwn tw`n fusikw`n to; eij`do" tw`n te a[llwn tw`n kata; fuvsin aujtoi`" uJparcovntwn kai; tou` megevqou" aijtiatevon kai; th;n logikh;n para; to; eij`do" ajnevlixin eij" merismo;n ajpo; tou` ajmerivstou proi>ou`san. 15 Cfr. p. 62, 6-8: oujc aJplw`" ouj`san eij`do" ... tw`/ calavsai kai; ejklu`saiv pw" th;n ajmevriston e{nwsin e p. 50, 6-7: zwh`" ... to;n ajmevriston calavsh" o{ron. 16 ejkba`sa th`" ajmerivstou oujsiva" ... uJpoba`sa eij" merismovn. Questa
espressione è usata di frequente: cfr. pp. 8, 18; 11, 29; 25, 22; 26, 24; 34, 12; 39, 10; 50, 13; 62, 7; 89, 28; 217, 31. 34; 218, 7. 17 p. 39, 12: e[kstasi" ... tou` o{rou kai; tou` ei[dou". p. 86, 31: ajnelivttwn to; hJnwmevnw" proeilhmmevnon ejn tw`/ ei[dei plh`qo". 18 Cfr. p. 194, 39: meta; de; ta; ei[dh hJ yuch; kai; ajnelittomevnh ejsti;n ouj-siva e 312, 21-22: oiJ ga;r lovgoi meta; ta; ei[dh pantacou` prosecei`": lovgo" de; kai; hJ yucikh; oujsiva (cfr. 8, 16-19; 86, 19-23; 167, 31). 19 Cfr. p. 217, 31: uJpoba`sa eij" lovgon ajnti; ei[dou". Cfr. p. 100, 21-22:
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logos non si indica, in prima istanza, un’attività razionale, ma principalmente il dispiegamento o la discorsività dell’eidos20. Quindi, si può definire l’anima, come fece Aristotele, come «l’essenza corrispondente al logos» (hJ oujsiva hJ kata; to;n lovgon), dato che logos esprime molto meglio di eidos la maniera propria dell’essere dell’anima21. Anche se l’anima, dunque, non fa parte dei puri, indivisi ei[dh, e non è una «forma» o «determinazione» in senso stretto, si può nondimeno ancora considerarla tra le «cause formali o determinanti»22. Infatti, essa è il principio che forma il corpo vivente come vivente e, in questo senso, è ripetutamente designata come oJristikhv. Determina il corpo che partecipa di essa e gli conferisce la sua propria perfezione, cioè, il fatto di vivere23. Ma è ancora semplicemente una causa secondaria, una oiJ`on ajrchv, poiché essa è in realtà fuoriuscita dalla sostanza indivisa24. Come logos-insviluppo, deve essere determinata dall’o{ro" più alto a sua volta. Vediamo così come l’anima, quale «medio» tra il diviso e l’indiviso, sia anche il «medio» tra ciò che è solo deouj to; ajmevristovn ejstin eij`do" hJ yuchv, oujde; oJ prwvtisto" o{ro", eij" logikh;n de; uJpevbh ajnevlixin. 20 Cfr. p. 259, 37: to; logoeide;" kai; ajneiligmevnon. Un interessante
esempio è il passo citato nella n. 14 (p. 113, 17) dove Prisciano parla della lo-gikh; ajnevlixi" dell’eidos fisico. Il termine logikov" non ha, in questo testo, nulla a che fare con «razionalità», esso denota soltanto il «discursus» nella divisione. 21 Cfr. p. 92, 16-18 (un commento a II, 1, 412 b 9). 22 Cfr. p. 86, 23: meta; me;n ouj`n ta; ei[dh hJ yuchv, ajllΔ o{mw" eij" th;n eijdh-tikh;n uJpavgetai aijtivan. 23 L’anima come oJristikhv: cfr. pp. 16, 1; 22, 16; 52, 7. 17. 22; 57, 4. 24; 58, 18. 20; 59, 10; 81, 5...; come carakthristikhv: cfr. pp. 4, 29; 52, 37; 57, 12. 32; 58, 28; 59, 13. 33. 36.... 24 Cfr. p. 8, 19: th`" ajlhqw`" ajrch`" ajpoleivpetai e 194, 41: hJ yuch; ... deutevrw" ouj`sa aijtiva.
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terminato e ciò che è solo determinante, e come condivida le caratteristiche di entrambi25. Essa può essere il principio determinante per l’inferiore, solo in quanto essa stessa è determinata dal superiore26. Su questo sfondo, possiamo capire meglio come dobbiamo considerare la relazione tra l’anima e l’intelletto di cui partecipa. Se si vuole definire l’anima umana in un modo davvero scientifico – come crede Prisciano – si deve prendere il suo o{ro", cioè la sua «definizione» o «determinazione». Ciò si applica in realtà anche per tutti gli altri esseri. Se vogliamo capire l’essenza (eij`do") di qualcosa, non dobbiamo accontentarci di una descrizione dell’essere come si presenta di fatto (o{ti), ma dobbiamo cercare di capire la causa (diovti) di esso, cioè, il principio determinante (o{ro") che lo rende quell’essere determinato. Così, l’anima è la causa formale attraverso cui l’essere vivente come tale è determinato27. Qual è, allora, l’horos da cui l’anima umana, a sua volta, è determinata? In quanto l’anima umana è un’essenza che pensa in modo discorsivo, si deve supporre che l’eidos che la determina debba essere anche una sostanza pensante, e tuttavia appunto come un eidos, cioè, in una maniera indivisa. Ora, quale può essere una tale sostanza indivisa e pensante se non il nous, o, più precisamente, quell’intelletto che è partecipato dal25 Cfr. p. 221, 24-26: th;n de; logikh;n yuch;n wJ" mh; movnon oJrizomevnhn ajlla; kai; o{ron ouj`san: metaxu; ga;r wJ" tou` ajmerivstou kai; meristou` a[mfw pw" ouj`sa, ou{tw kai; tou` o{rou kai; tou` oJrizomevnou ajmfovteron ejmfaivnousa (cfr. p. 30, 4-6). L’anima, anche se sta a metà tra il determinante e il determinato, inclina più dalla parte del determinante. Cfr. p. 11, 12: pro;" to; oJrivzon ajpoklivnein. 26 Cfr. p. 100, 24: to; ou{tw" a[rcon wJ" oJrizovmenovn pw". 27 Cfr. pp. 218, 16-20 e 97, 6-17. Prisciano gioca sul significato ambivalente del termine o{ro", che può indicare sia la «definizione» logica che quella ontologica.
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l’anima?28 Come l’anima partecipata, quale entelechia, è la causa formale del corpo vivente in quanto vivente (non in quanto corpo), così l’intelletto partecipato deve essere considerato l’eidos-horos dell’anima razionale in quanto razionale (non in quanto anima). Con la sua presenza, l’anima fornisce al corpo la capacità di muoversi e di reagire come un corpo vivente. Tuttavia, l’anima rimane, come principio formale, distinta dal corpo che ha formato, e non subisce essa stessa quei cambiamenti che rende possibili nel corpo29. Così anche l’intelletto è inseparabilmente (ajcwrivstw") presente nell’anima umana come la causa formale per la quale (kaqΔ h{n) – e non come la causa efficiente in virtù della quale (uJfΔ hJ`") – essa pensa30. Come oJ-ristikovn, dà all’anima la capacità di compiere i vari atti razionali, senza prendere parte esso stesso allo sviluppo dei processi di pensiero. L’anima, come logos, sperimenta infatti il suo essere in un continuo dispiegarsi, in cui essa nello stesso tempo si divide e si riunisce, si aliena e si reCfr. p. 218, 9-11. L’anima non è solo la causa formale (oJristikhv) del corpo vivente, ma anche la sua causa motrice ed efficiente (poihtikhv): essa è il principio sia kaqΔ h}n che uJfΔ hJ`" del corpo. Si tratta di una dottrina fondamentale nel commento e Prisciano vi ritorna più volte. Cfr. per es. 4, 17-20; 51, 28-53,1; 56, 35-59, 14; 87, 23-25; 105, 10 ss.; 301, 30-304, 7. Una distinzione simile è fatta da DAMASCIUS, De princ., I, 17-18. 30 p. 218, 26-27: eijdhtikh;n th`" yuch`" aijtivan th;n kaqΔ h}n parou`san aujth`/ ajcwrivstw" oJrivzetai h[dh eij" to; oJrizovmenon uJpoba`sa. La dottrina di Prisciano del nous è travisata da J. Montoya Saenz. Nel suo articolo (cfr. supra, n. 2) egli sostiene che la formula o{ro" yuch`" non dovrebbe essere interpretata in un senso ilemorfico, poiché il nous come o{ro" non è la «causalidad formal» dell’anima (pp. 78-79), ma l’«objeto trascendental» del suo pensiero. Il fatto che Prisciano caratterizzi l’intelletto come o{ro" dell’anima dimostra che, nella sua visione, vi è una «primacia del aspecto-eidos (oggetto) sobre el aspecto-nous (soggetto)» (p. 80, p. 95,1). Questa interpretazione, però, ignora la spinta fondamentale della noetica di Prisciano. 28 29
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cupera31. Ciò si riflette nella sua attività razionale: alternativamente, si lascia coinvolgere nella conoscenza pratica della realtà, e si dirige alla pura considerazione teoretica delle forme intelligibili32. Tuttavia, l’anima, nel suo incessante processo razionale, rimane essenzialmente unita al suo horos, l’intelletto di cui partecipa. Poiché questo intelletto rimane sempre quel che è – un’indivisibile vita pensante – può determinare l’anima nei suoi vari stati (katastavsei") e investirla di identità e indivisibilità nel corso del cambiamento33. Ciò non deve suscitare stupore, commenta Prisciano, poiché anche nel corpo diviso e sensibile, l’eidos determinante rimane indiviso e immutato, anche se i componenti cambiano continuamente. In effetti, è proprio l’eidos che garantisce l’identità di questo essere cambiante34. Ancor più, allora, l’anima, che è più vicina alle «forme ideali» rispetto agli enti fisici, sarà determinata dal suo eidos35. A questo punto, ci si potrebbe chiedere se ogni anima partecipi di un intelletto che è comune a tutte le anime, oppure se ogni anima sia determinata dal suo intelletto particolare. Le alternative non si escludono a vicenda, ritiene Prisciano. L’intelletto, che è partecipato in comune (koinh`)/ da tutte le anime umane, è, allo stesso modo, l’intelletto particolare di ogni anima (oJ eJkavsth" i[dio")36. Così, anche ogni ente sensibile è determinato da una forma che è comune a tutti gli enti della stessa specie (oJmo-eidevsi) eppuCfr. pp. 86, 20 ss. e 217, 33. Cfr. pp. 218, 20-25 e 313, 20 ss. 33 Cfr. pp. 220, 21-23 e 218, 20-25. 34 Cfr. pp. 217, 36-218, 2; 220, 23-25; 57, 10-11. 35 Cfr. p. 218, 2-4: eij dΔ ouj`n ..., meizovnw" hJ yuchv. Lo stesso argomento a fortiori anche a pp. 249, 23-26 e 312, 18 ss. 36 Cfr. pp. 249, 21-23 e 218, 27-29; 217, 30. 35 (i[dio" eJkavsth"). 31 32
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re è propria di ognuno separatamente. Per esempio, l’eidos «cane» è comune a tutti i singoli cani, altrimenti non sarebbero simili, eppure ogni cane particolare possiede solo il suo proprio eidos, e non quello di un altro. Infatti, è una caratteristica dell’eidos partecipato quella di essere sia particolare che comune. In quanto è presente in un ente particolare, è proprio esclusivamente di quell’ente che partecipa di esso37. Esso diventa un eidos individualizzato (ajtomwqevn), dice Prisciano, nel senso stoico di una «entità individualmente qualificata» (ijdivw" poiovn) che garantisce l’identità e l’individualità del composto38. Possiamo dunque supporre, anche se l’autore non lo dice espressamente, che esistano tanti intelletti partecipati quante sono le Cfr. PROCLUS, El. Theol., prop. 23, p. 26, 32: to; me;n ga;r ejn eJni; o]n ejn toi`" a[lloi" oujk e[stin. Prop. 24, p. 28, 14: tino;" o]n kai; ouj pavntwn. 38 Cfr. pp. 217, 36-218, 2: to; ajtomwqe;n ... eij`do", kaqΔ o} ijdivw" para; toi`" ejk th`" Stoa`" levgetai poiovn, o} kai; ajqrovw" ejpigivnetai kai; auj` ajpogivnetai kai; to; aujto; ejn panti; tw`/ tou` sunqevtou bivw/ diamevnei, kaivtoi tw`n morivwn a[llwn a[llote ginomevnwn te kai; fqeiromevnwn. Secondo gli 37
Stoici, ogni essere è caratterizzato dalla sua propria qualità che lo differenzia dagli altri esseri della stessa specie e lo rende questa cosa individuale. L’individualità non è, in questa visione, considerata come un «difetto» in riferimento all’essenza, ma è valutata positivamente come ciò che dà a ogni cosa la sua irriducibile particolarità. Cfr. CICERO, Acad., II, 85: «Stoicorum est istuc ... “nullum esse pilum omnibus rebus talem qualis sit pilus alius, nullum granum”» – «singularum rerum singulas proprietates esse» (Acad., II, 56). La permanenza di questa «qualità individuale» garantisce l’identità di un essere in continuo cambiamento. Cfr. SIMPLICIUS, In cat., 140, 25-28 e 430, 1 e PLUTARCHUS, De com. not., 44. Il termine ajtomwqevn usato da Prisciano non significa «essere unificato» (così Liddell-Scott), ma «essere individualizzato». In De an., II, 3, 414 b 27, Aristotele usa l’espressione to; oijkei`on kai; a[tomon eij`do" con il significato di «the infima species which cannot be further subdivided by differences» (Hicks). In questo passo, però, l’eidos è detto «individuale» perché non è più la forma universale e assoluta, ma la forma di questo essere particolare (tinov"). Cfr. SIMPLICIUS, In phys., 255, 27: la materia è individualizzata da forme individuali (uJpo; tw`n ajtovmwn eij`dwn ajtomou`tai).
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anime che partecipano di essi39. Tutti questi intelletti, però, sono simili essenzialmente, in quanto l’intellezione di ognuno è la stessa del contenuto conosciuto da ciascuno. Se così non fosse, le anime che sono da essi determinate non sarebbero mai capaci di comunicare. In questo senso, possiamo dire che l’intelletto è comune a tutte le anime. La distinzione tra gli intelletti partecipati non sta nella loro essenza; essi differiscono l’uno dall’altro in quanto sono relativi ad anime diverse40. Abbiamo qui una riflessione molto originale e molto profonda sulla relazione tra anima e intelletto. È difficile determinare fino a che punto Prisciano sia dipendente da Giamblico nella sua esposizione41. Tuttavia, un approccio simile a questo problema si può trovare nelle considera39 La forma plurale metecovmenoi nove" non è mai presente nel testo. Però abbiamo a p. 86, 27: ta; tw`n yucw`n (oJristikav) e in Metaphr., 34, 23: ta; mev-
sa wJ" ... oJristika; tw`n ajnelittomevnwn. 40 L’eidos partecipato, che è un caso individuale della forma universale, ha la funzione di «principio di individuazione». Cfr. L.J. ROSAN, The Philosophy of Proclus, New York 1949, p. 81, e A.C. LLOYD, Neoplatonic and Aristotelian Logic, «Phronesis», 1 (1955), pp. 62-63. Questa individuazione non concerne la «comprensione» del termine, ma solo la sua «estensione». Così si può spiegare come forme che sono simili nella forma, pure possono essere differenti. Cfr. THEMISTIUS, In de an., 103, 26-32. Nella sua Paraphrasis, Temistio dedica molta attenzione alla questione se vi sia o no un singolo «intelletto agente» per tutte le anime umane (p. 103, 20 ss.). Tommaso d’Aquino usò questo testo per la sua confutazione della dottrina averroistica sull’unicità dell’intelletto. Cfr. G. VERBEKE, Themistius et le De unitate intellectus de St. Thomas, in Themistius. Commentaire sur le traité de l’âme d’Aristote, Louvain 1956, pp. XXIX-LXII. D’altra parte, il commento di Prisciano (Simplicio) era spesso usato nel Rinascimento italiano. Cfr. B. NARDI, Il commento di Simplicio al «De Anima» nelle controversie della fine del secolo XV e del secolo XVI, in Saggi dell’Aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI, Firenze 1958, pp. 365-442. 41 È molto probabile che, nel suo lungo excursus sull’intelletto partecipato, Prisciano rifletta la dottrina di Giamblico che cita all’inizio (p. 217, 27). E infatti Giamblico considera l’intelletto partecipato come l’oJristikovn
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zioni che Temistio dedica all’«intelletto agente». Anche Temistio si oppone all’interpretazione teologica di Alessandro: non è l’Intelletto trascendente, divino, a essere discusso nel De anima, ma l’intelletto che è immanente all’anima umana42. L’intelletto attivo, insieme al principio potenziale, forma la struttura della comprensione umana, allo stesso modo in cui un eidos è unito alla materia per formare un singolo essere43. Però, come con tutte le cose composte di atto e potenza, si può fare una distinzione tra la cosa composta (to; tovde) e la sua essenza, l’elemento formale che la rende quella determinata cosa (to; tw/`de). Temistio applica questo principio generale alla struttura ontologica dell’«io», applicazione che potremmo parafrasare come segue: anche se potenzialità e discorsività sono sempre coinvolte nel mio pensiero, la mia propria essenza consiste di un’attività intellettuale sempre-in-atto e intuitiva, il nou`" ejnergeiva44 / . Questo nous abbraccia immediatamente, senza alcun processo temporale, la totalità delle forme intelligibili, ed è identico a esse nell’atto del pensare45. Pertanto, esso può svolgere in me la funzione di un principio attivo che porta la mia mente potenziale all’attualizzazione. Tuttavia, anche quando sto pensando – quando sono «in atto» – non sono identico a questo intelletto attivo. Ciò che esso mi dà da pensare, non posso riceverlo in dell’anima (cfr. p. 313, 3). L’interpretazione del rapporto anima-intelletto come rapporto di materia e forma si trova già in Plotino: cfr. Enn., V, 1, 3, 22-24. 42 Cfr. In de an., 102, 30-103, 19. 43 Cfr. p. 99, 8-23. 44 Cfr. p. 100, 18-20: kai; ejgw; me;n oJ sugkeivmeno" nou`" ejk tou` dunavmei kai; tou` ejnergeiva/, to; de; ejmoi; eij`nai ejk tou` ejnergeiva/ ejstivn e anche 26-32: para; movnon toivnun tou` poihtikou` to; ejmoi; eij`nai. 45 Cfr. pp. 99, 38-100, 14.
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un modo indiviso. Passo continuamente da un oggetto a un altro, e, proprio combinando e separando i concetti, pervengo alla comprensione46. Così rimango sempre, nel mio pensare in atto, distinto da ciò che costituisce la mia pura essenza, cioè dall’indivisa e incessante attività intellettuale. Quindi, per Temistio, l’«intelletto attivo» è l’eidos supremo dell’anima umana: è il principio che definisce le facoltà inferiori dell’anima, senza essere esso stesso determinato da una forma ancora più alta47. Per quanto notevole possa essere la somiglianza con la concezione di Prisciano dell’intelletto come eidos dell’anima, la differenza non è meno evidente. Per Temistio, l’«intelletto attivo» fa parte della struttura dell’anima, essendo la sua parte divina e più alta48. Prisciano crede, al contrario, che l’intelletto, quale horos, non possa essere esso stesso una parte dell’anima che determina e perfeziona, proprio come l’anima non può essere considerata come una parte del corpo vivente. Anche se l’intelletto è connesso all’anima, rimane sempre distinto da essa come una «sostanza superiore»49. È dunque l’intelletto che è partecipato dall’anima, quello di cui tratta Aristotele in De anima III, 4-5? Anche questa ipotesi è fermamente respinta da Prisciano: «Lo scopo Cfr. pp. 99, 8-13 e 100, 20-23. Cfr. p. 100, 28-37. 48 p. 101, 9: o{ti hJma`" oi[etai to;n poihtiko;n eij`nai nou`n e p. 103, 5: fh46 47
si; to;n toiou`ton nou`n kai; th`" yuch`" th`" ajnqrwpivnh" oiJ`ovn tina moi`ran th;n timiwtavthn. Con questa interpretazione, Temistio sembra avvicinarsi
alla posizione di Plotino sull’anima più alta che gode dell’intellezione perpetua. Ma nella sua visione, l’intelletto-in-atto non è mai realmente distinto dall’intelletto potenziale, con il quale è connesso come la forma con la materia. Il vero soggetto pensante è il «composto» di potenza e atto. 49 kreivttwn oujsiva, cfr. pp. 218, 6-8. 12-13 e 227, 36 (cfr. n. 52).
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di questo testo non è un’esposizione dell’intelletto che è partecipato dall’anima [...] ma della sostanza razionale, cioè dell’anima razionale stessa50». Aristotele fornisce qui un’analisi dei vari momenti che si possono distinguere entro la vita razionale dell’anima. Prisciano ritorna ripetutamente su questa posizione, suffragandola con argomenti sempre nuovi51. Secondo Prisciano, quindi, Aristotele non avrebbe trattato, come alcuni avevano asserito, dell’intelletto che è un’essenza superiore all’anima52. Ciò sarebbe stato in contrasto con il piano del suo trattato, che era inteso a essere uno studio dell’anima degli esseri mortali, viventi53. Quando Aristotele parla qui del nous, quindi, può solo intendere l’anima razionale umana. Infatti, poiché l’anima umana è formalmente determinata dall’intelletto, il termine nous può essere usato anche per indicare la vita razionale dell’anima54. Nel suo De anima, Aristotele segue una sequenza ben definita. Inizia la sua esposizione con la facoltà più bassa Cfr. p. 218, 29-31. In questa determinazione dello skopov", Prisciano segue l’interpretazione di Plutarco, che era generalmente accettata nel tardo Neoplatonismo: l’esposizione in De an., III, 4-6 si riferisce all’anima umana e deve essere interpretata in termini strettamente psicologici. Cfr. Plutarco in PS. PHILOP., In de an., 536, 2-5 (cfr. 518, 19 ss.); Ammonio in PS. PHILOP., In de an., 518-519; PHILOP., De intel., 48, 27 ss.; PS. PHILOP., In de an., 535, 14; 539, 31 e SIMPLICIUS, In phys., 2, 4-5 e 1249, 37-1250, 2. 51 Cfr. pp. 220, 15 ss.; 221, 39 ss.; 222, 33 ss.; 227, 35 ss.; 240, 2 ss.; 247, 15 ss.; 254, 32 ss. 52 p. 220, 25-26: ajlla; nou`", fasivn, hJ kreivttwn ejsti; th`" yuch`" oujsi50
va, peri; de; nou` poiei`tai to;n lovgon oJ ΔAristotevlh" kai; ouj peri; th`" logikh`" oujsiva". Prisciano qui sembra alludere all’interpretazione di Giamblico (fasivn) (cfr. n. 49). 53 Cfr. pp. 3, 29; 4, 11; 80, 11; 172, 6; 326, 7. Il terzo libro si occupa in modo specifico dell’anima razionale: cfr. pp. 5, 37; 172, 4; 187, 16; 191, 7. 54 Cfr. pp. 220, 38-221, 15 e 286, 28 ss. Cfr. Metaphr., 29, 3 ss.
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dell’anima (la vegetativa), per poter gradualmente salire, attraverso i vari sensi, il «senso comune» e l’«immaginazione», alle facoltà razionali nell’uomo. È dunque fuori questione che egli abbia potuto improvvisamente saltare un livello così importante nell’anima come la ragione, per iniziare immediatamente a parlare della pura sostanza intellettuale che determina l’anima55. Infine, Prisciano sottolinea alcune formulazioni nel testo, da cui si può certamente concludere che nous, in questi casi, si riferisce sicuramente alla parte più alta dell’anima. Così, Aristotele parla di «quella parte dell’anima con cui essa conosce e pensa» e afferma che la differenza tra un principio attivo e uno passivo deve essere trovata nell’anima stessa56.
2. Momenti strutturali della ragione umana L’intenzione di Aristotele in De anima III, 4-5 è dunque chiara: un’analisi della vita razionale immanente all’anima. Per questo motivo, Prisciano distingue vari momenti (logoi) nella ragione umana, che, nella loro mutua opposizione e interazione, sono insieme costitutivi della razionalità propria dell’uomo. Tale differenziazione all’interno dell’anima razionale dipende dal grado in cui l’anima è in relazione con il corpo. Infatti, abbiamo visto come l’anima umana possa venire in contatto con il corpo solo «proiettando» vite inferiori (sensitiva e vegetativa), con cui si trova poi a essere intrecciata. Ora, a seconda del grado in cui Cfr. p. 220, 27-30: eujtavktw" ajniwvn e 218, 13-15. Cfr. 429 a 10. 23 e 430 a 13 (anche Temistio usa questo passo come un argomento contro Alessandro: cfr. p. 103, 1-6). Altri passi a sostegno della sua interpretazione sono menzionati da Prisciano a pp. 227, 34 e 247, 18-19. 55 56
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l’anima è unita a queste vite inferiori, possiamo distinguere sostanzialmente diversi livelli di razionalità: vi è la ragione che permane in se stessa, e la ragione che procede verso l’esterno, e quest’ultima è nuovamente differenziata in se stessa, in quanto o è totalmente potenziale, oppure è stata perfezionata durante la sua processione. Esaminiamo più da vicino questi tre momenti razionali all’interno dell’anima. 1. Prima di tutto, possiamo considerare il logos in quanto rimane interamente separato dal corpo e indipendente dalle vite corporee57. Questo logos non ha bisogno della conoscenza che è comunicata attraverso il corpo e i sensi. Esso non è diretto verso l’esterno, ma rimane interamente in se stesso, ed è riempito degli oggetti della conoscenza, senza doversi sottoporre all’influenza o allo stimolo dall’esterno58. A questo «livello più alto» (to; ajkrovtaton) della sua esistenza, l’anima è, per così dire, congiunta con l’intelletto che la determina, così che essa ha anche diretta intuizione delle forme ideali all’interno di questo intelletto59. Nel suo proprio pensare, essa imita il più possibile l’intellezione indivisa e perpetua dell’intelletto di cui partecipa. Perciò, si possono attribuire a essa tutte le caratteristiche di questo intelletto in un senso derivato (deutevrw")60. Così anche l’anima, a questo livello, è in atto in 57 Cfr. p. 218, 37: tou` me;n (scil. lovgou) oujde; crwmevnou tai`" deutevrai" zwai`". Cfr. pp. 243, 16 ss. e 311, 34-35. 58 Cfr. pp. 218, 37: kaqΔ eJauto;n ejnergou`nto" e 219, 1: plhvrh ajfΔ eJautou` tw`n oijkeivwn gnwstw`n. 59 Cfr. p. 311, 35-37: dia; th;n pro;" to;n uJperevconta nou`n sunafhvn, ouj diΔ eJterovthto" ginomevnhn ..., ajlla; kaq`Δ e{nwsin kai; tautovthta ma`llon sumfuh` – p. 312, 36: ouj diΔ ajpostavsew", ajlla; sumfuvsew" ajmevsou (cfr. p. 312, 18) – p. 240, 21-22: hJ ajkrovth" th`" yuch`" ajmevsw" sumpevfuke th`/ uJ-pe;r aujth;n noera/` oujsiva/ kai; toi`" ejn aujth`/ ei[desin – cfr. pp. 219, 2; 243,
22; 258, 29.
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virtù del suo essere (th/` oujsiva/ ejnevrgeia), cioè la sua attività intellettuale è implicata dalla sua essenza61. Pensare non è qui un atto che venga prodotto dalla sostanza come qualcosa che è distinto da essa, poiché in quest’ultimo caso un tale atto potrebbe essere sia compiuto che omesso. Al contrario, si intende un’attività che non è ancora distaccata dalla sostanza, ma è latente in essa62. Questa attività, che costituisce parte dell’essenza dell’anima, è chiamata da Prisciano il logos «permanente» o «essenziale» (oujsiwvdh")63. Ci si può chiedere giustamente se l’anima, a questo livello più alto, differisca ancora dall’intelletto che le dà forma. Non scompare forse ogni distinzione che esiste tra l’anima e l’intelletto?64 Certamente no! Per l’anima umana, l’intellezione indivisa è soltanto un «momento» all’interno della sua totale vita razionale, e pertanto non è presente in uno stato puro. L’anima non è, infatti, interamente fondata in se stessa, né pienamente separata dalle vite inferiori. Pertanto, anche il suo logos più alto rimane legato ai logoi inferiori che procedono da esso e partecipa della loro po60 Cfr. p. 5, 15: to;n ejxh/rhmevnon mimei`tai nou`n (cfr. p. 6, 2) – p. 219, 26: ajfomoiou`tai tw`/ nw/` – p. 244, 3-5: kathgorei` ... o{sa prwvtw" tw`/ qeiotevrw/ proshvkei nw/`, dia; de; th;n pro;" aujto;n suvmfusin kai; tw`/ oujsiwvdei th`" yuch`" deutevrw" (cfr. p. 311, 38 ss.).
Cfr. pp. 5, 15; 219, 23; 243, 27 e 311, 35. Cfr. pp. 5, 14; 15, 29-32; 21, 1; 77, 3. 32; 240, 18-26 e 241, 16-19. 63 oujsiwvdh" nou`" (pp. 234, 28; 238, 25; 242, 37; 244, 4; 254, 34; 263, 33; ...) e oujsiwvdh" lovgo" (p. 219, 21). Prisciano probabilmente adotta il termine da Giamblico. Cfr. STOBAEUS, Ecl., I, 454, 19: to;n lovgon to;n ouj-siwvdh (cfr. A.J. FESTUGIÈRE, Révélation cit., III, p. 239, n. 5; però, egli non ha notato l’importanza di questo termine nel commento di Prisciano). 64 Cfr. p. 243, 36: tiv a[n ti" diafevrein ei[poi tou` ajlhqou`" nou` ...; La differenza tra il nous essenziale e l’intelletto partecipato è stabilita a pp. 244, 39-246, 13. 61 62
215
tenzialità e divisione. Di conseguenza, l’anima non sfugge mai alla discorsività e non gode mai dell’intellezione perpetua, dal momento che anche la sua «parte» più alta è colpita dalla potenzialità65. 2. Possiamo anche considerare l’anima in quanto procede dalla sua essenza verso il mondo sensibile. A questo livello, la vita razionale è interamente intrecciata con le vite inferiori, che sono originate in funzione del corpo, senza però coincidere completamente con esse. Da questa «proiezione» (probolhv) verso l’esteriore, l’anima non solo viene rimossa dall’intelletto determinante, ma è anche alienata dalla sua propria essenza. Così, essa perde anche il contatto con le idee universali che ha dentro di sé; la sua conoscenza cade in uno stato potenziale che Prisciano chiama, con Aristotele, il nou`" dunavmei. In questo logos «procedente» (proi>wvn o ejn probolh`)/ , si possono distinguere due livelli, a seconda che esso sia del tutto potenziale e imperfetto (ajtelhv"), oppure sia stato perfezionato (teleiwqeiv")66. 2A. Prendiamo prima in considerazione il logos nel suo stato imperfetto. Qui, esso è sceso al massimo grado nella vita sensitiva. Pertanto, Aristotele giustamente paragona questo livello di conoscenza alla percezione dei sensi: «Pensare», dice, «è come percepire», dal momento che il logos, imperfetto quale è in questo stato, non può produrre 65 Cfr. pp. 240, 31 ss.; 238, 2 ss.; 244, 25-39; 245, 16-35 e p. 253, 1112: oujc aJplw`" ejsti nou`" ajlla; su;n th`/ logikh/` ajnelivxei th`/ prwvtw" eijsagouvsh/ th;n diavstasin sumpeplegmevno" kai; ejnergw`n. Questa prosqhvkh th`" logikh`" diairevsew" distingue l’anima dall’intelletto da cui è determinata: cfr. pp. 245, 7-16; 249, 27; 259, 29-260; 280, 27 e 312, 1-5. 66 Cfr. p. 234, 24-27: peri; tou` proi>ovnto" dittou` nou` ... h] duvo o[ntwn, ka-ta; to; ajtele;" kai; tevleion diakrinomevnwn kai; kata; to; ditto;n dunavmei
kai; kata; to; h] o{lon tai`" deutevrai" sumplevkesqai zwai`" h] kai; pro;" eJauto;n kai; pro;" th;n oujsivan ajnaneuvein (cfr. p. 219, 28-29).
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alcun oggetto di conoscenza da se stesso, e deve ricevere ogni cosa dal mondo esterno. Infatti, andando fuori di sé, il logos si separa dai concetti ideali che esistono nell’essenza dell’anima. Come la materia sta in relazione alle forme come pura potenza, così questa ragione possiede i suoi concetti solo in potenza. Per questo, può anche essere chiamato nous «materiale» o «passivo». Esso è il momento di ricettività e passività nella nostra conoscenza67. Stranamente, nonostante la sua completa potenzialità, Prisciano assegna a questo logos anche una propria funzione cognitiva. Benché non possa mai conoscere l’essenza delle cose, tuttavia esso può considerare le proprietà esteriori e accidentali comuni alle cose sensibili, come forma, grandezza, e movimento. Comunque, tale conoscenza difficilmente può dirsi «scientifica»68. Questo logos «passivo» è, in un certo senso, la comprensione razionale che accompagna ogni attività sensitiva ed è sempre legato a essa. 2B. L’alienazione dell’anima umana dalla propria essenza, comunque, non è mai tale che essa possa perdere la sua identità. L’anima che va fuori di sé è identica all’anima che rimane in sé. Di conseguenza, il logos, per quanto sia andato fuori di sé e sia caduto nell’imperfezione, mantiene la possibilità di essere attualizzato e perfezionato, in quanto rimane sempre rivolto a sé. Questa perfezione può essere riguadagnata solo quando tale logos è di nuovo riempito degli oggetti della conoscenza. Certamente non può acquisire questi oggetti dalla percezione. Tut67 Cfr. p. 219, 11-12: e[stai ouj`n oJ me;n uJliko;" kai; dunavmei kai; paqhtikov", oJ e[xw rJevpwn kai; sumpefurmevno" tai`" deutevrai" gnwvsesin, oJ ajtelh;" kai; o{lo" e[xw. Cfr. p. 229, 3-8. 68 Cfr. p. 224, 22 ss.: ejpei; ginwvskei ge kai; tovte hJ yuchv, ajlla; ta; sum-bebhkovta th/` oujsiva./ Queste qualità accidentali sono l’oggetto della ma-
tematica non-filosofica: cfr. pp. 276, 28; 278, 12; 279, 12-14 e 283, 4 ss.
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tavia, le cose sensibili, che sono le ultime «tracce» delle forme ideali, possono risvegliare l’anima dalla sua ignoranza e alienazione. Essa ritorna a sé, e viene di nuovo in contatto con la sua vera essenza e con l’atto del pensiero che è latente in essa. Sotto l’influenza di questo logos «immanente», il logos «procedente» è ora attualizzato a sua volta e riempito di conoscenza. Ora esso può prendere parte agli oggetti intelligibili, che sono conosciuti sempre dal logos immanente (essenziale)69. Con questa attualizzazione, però, la «proiezione» verso l’esterno di questo logos non è ancora terminata. Il logos procedente, anche quando conosce, non diventa mai identico al logos permanente. Ci siamo occupati qui di uno specifico e irriducibile livello noetico che Aristotele designava come il nous abituale, cioè quella conoscenza che è acquisita dal logos mentre sta andando fuori di se stesso. Tale conoscenza è, come abito acquisito, distinta dalla sostanza che la produce, e deve dunque essere distinta dall’attività intellettuale che è immanente all’anima70. Possiamo chiamare tale logos, come fa Aristotele, «in potenza», sebbene non sia come il logos puramente potenziale, giacché ha già raggiunto una certa perfezione. In effetti, la conoscenza non è una caratteristica della sua essenza, ma solo un «abito» acquisito «da qualche altra parte» (eJtevrwqen), da un principio esterno a esso. Esso non pensa da sé, ma pensa solo Cfr. pp. 219, 11-21 e 229, 8-234, 19. Una caratterizzazione di questo particolare logos è data a pp. 229230. Cfr. p. 229, 19-21: hJ teleiovth" toivnun ejn tw/` proelqovnti oujc oi{a hJ 69 70
oujsiwvdh" ajlla; kata; probolh;n kai; deutevra meta; th;n oujsiwvdh kai; kata; e{xin: peri; ga;r th;n oujsivan, ajllΔ oujk oujsiva hJ e{xi" (cfr. p. 208, 21: e{xi" = probeblhmevnh diavqesi") – p. 263, 32: to;n e[xw me;n kai; ... proi>ovnta, telewqevnta de; kaq`Δ e{xin kai; probolhvn (cfr. p. 311, 17 ss.).
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in quanto è riempito di conoscenza dal logos permanente e in quanto può prendere parte alle forme ideali che sono presenti in esso71. Così, il logos procedente non è mai il principio autonomo del proprio pensiero; esso può pensare solo in quanto è dipendente dal logos permanente. Nondimeno, questa dipendenza non implica una totale passività. Poiché tale logos rimane durante la sua processione, in un certo senso, identico al logos permanente da cui è perfezionato, la sua attualizzazione non è ricevuta passivamente da un agente interamente esterno. Esso stesso contribuisce al proprio perfezionamento. La sua conoscenza è, fino a un certo punto, auto-attualizzazione72. Qual è quindi l’oggetto del pensiero per questo logos? Non le forme indivise e permanenti, che sono l’oggetto proprio del «logos essenziale», ma le forme in quanto sono procedute nella divisione, cioè gli oggetti sensibili e le forme da cui sono determinati. Di conseguenza, il pensiero, a questo livello, sarà sempre accompagnato da rappresentazioni sensibili73. «Perciò il logos dell’anima sembra, almeno a me, essere duplice e triplice, in quanto il secondo diviene alternativamente imperfetto e perfetto ed è dunque diviso in due»74. Così il nostro commentatore conclude la sua espo71 Cfr. pp. 219, 15-21 e 230, 5 ss. Dunque possiamo considerare il corpo vivente in atto come «avente vita in potenza». Il corpo infatti possiede vita non di per sé, ma come una proprietà avventizia (ejpeiswdiwvdh") dovuta alla presenza dell’anima: cfr. p. 87, 2-4. In questo senso particolare, anche uno stato attualizzato può dirsi «in potenza»: cfr. pp. 5, 10-11 e 219, 17 ss. sulle due forme di potenzialità. 72 Cfr. p. 230, 23-24: aujtenerghvtw" th;n eJtevrwqen paradevchtai teleiovthta e anche pp. 225, 30 e 236, 5. 73 Cfr. p. 234, 18: ta; oJrizovmena kai; ta; oJristikav. I particolari oggetti di questo logos sono discussi a pp. 230, 34-234, 19.
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sizione generale sulla vita razionale dell’anima, che egli procederà a illustrare ulteriormente sulla base del testo di Aristotele. Qual è il significato di una tale divisione del logos? Certamente non che l’anima umana razionale sia disintegrata in una molteplicità di logoi separati, che sarebbero legati soltanto esteriormente l’un l’altro. Come potrebbe essere ancora possibile il pensiero, senza l’unità e l’identità del soggetto pensante? Prisciano cerca di spiegare come la stessa anima possa avere «sostanze» (oujsivai) diverse, cioè come possa esistere a differenti livelli sostanziali, senza perdere la sua unità e la sua identità, il suo essere un «soggetto» (uJpokeivmenon). Seguendo Giamblico, egli osserva che il cambiamento non può essere confinato alle attività dell’anima. Vi deve essere una sorta di cambiamento e differenziazione dentro la sostanza stessa e, in questo senso, si può parlare correttamente di una pluralità di «sostanze» o «vite» entro l’anima razionale. Una volta in contatto con il corpo sensibile e con le vite inferiori prodotte in funzione di esso, l’anima razionale differenzia se stessa rilassando la sua essenza multiforme e indivisa e producendo una seconda e una terza «sostanza» dal suo interno. Quando l’anima è definitivamente separata dal corpo con la morte, le sue sostanze secondarie ritornano alla loro origine, e l’anima recupera l’originaria purezza della sua sostanza, senza alcuna divisione in un logos attivo o passivo75. Di conseguenza, le tre «sostanze» non possono essere intese come «soggetti» differenti (uJpokeivmena). Esse sono soltanto differenziate, in quanto proprio 74
p. 219, 27-29.
75 Cfr. p. 241, 5: th`"
oujsiva" ajdiavfqoro" eijlikrivneia. Il logos procedente è «mortale» dal momento che la probolhv dell’anima cessa di esistere con la separazione dal corpo: cfr. p. 247, 27-39.
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la stessa anima può realizzare la sua essenza razionale a livelli sostanzialmente diversi: rimanendo indivisa in se stessa, procedendo fuori di sé nella totale divisione, e ritornando su di sé e recuperando la propria unità76. Pertanto, possiamo comprendere anche perché la conoscenza umana sia caratterizzata da una tensione tra ricettività e attività. Con la processione, il logos umano è, infatti, alienato dalla sua propria essenza e la sua conoscenza dei concetti ideali si muta in una completa ignoranza. Questo logos è in uno stato di pura ricettività e potenzialità rispetto agli oggetti del pensiero. Tuttavia, poiché l’anima umana non perde mai interamente se stessa, ma rimane sempre anche permanente in se stessa, vi è in essa un logos che è sempre identico in atto con i concetti universali. Questo logos permanente agisce rispetto al logos procedente come il principio attivo che lo conduce dal suo stato potenziale al pensiero. Peraltro, se è stabilito che il logos permanente, come anche quello procedente, sono «forme sostanziali» proprio della stessa anima, ne segue che il soggetto pensante, rispetto a se stesso, è simultaneamente ricettivo e attivo. Tuttavia, in quanto l’anima è alienata da se stessa nella probolhv, i due logoi appaiono due princìpi distinti l’uno dall’altro. Dunque, si può affermare che la ragione umana «è perfezionata da se stessa come da qualcos’altro»: da se stessa, in quanto entrambi i princìpi sono uno solo, da qualcos’altro, in quanto essi sono diverCfr. p. 222, 20-22: eij kai; diavforoi aiJ oujsivai, ajllΔ ouj cwrizovmenai tw`/ uJpokeimevnw/, peri; de; mivan aiJ trei`" th;n prwvthn sunistavmenai, diaforouvmenai de; th`/ tou` eJno;" kata; diafovrou" lovgou" zwh`/ (cfr. p. 269, 1315) – p. 219, 29-32: ouj ... pavnth/ kecwrismevnwn tw`n lovgwn ajllhvlwn, ajllΔ wJ" peri; e{na to;n prw`ton tw`n duvo kai; ajpΔ aujtou` proi>ovntwn kai; peri; mivan ouj-sivan th;n prwvthn th`" deutevra" kai; trivth" oujsioumevnh". Cfr. il pas76
so citato nella n. 86.
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si77. Quando l’anima umana ritorna a sé dalla diffusione nel mondo sensibile, le forme ideali, che trova in sé, le sembrano qualcosa di strano, anche se esse hanno sempre fatto parte, in realtà, della sua essenza78. Nella sua ignoranza, cerca oggetti nella convinzione di non averli (wJ" mh; e[cousa). Se, invece, ritorna in sé e si identifica di nuovo con la sua essenza, da cui si era estraniata, allora trova ogni cosa in se stessa come un suo possesso (wJ" e[cousa)79. Dunque, il processo cognitivo è un auto-perfezionamento dell’anima per cui essa diviene gradualmente consapevole del contenuto ideale, a priori, che sta nella sua essenza. Nel pensare, l’anima tenta di superare la divisione e l’alienazione, che sono il risultato della sua uscita da sé. Ma anche quando è ritornata alla comprensione, non è sicura. La conoscenza è sempre minacciata dalla ricaduta nell’ignoranza, poiché l’anima non rimane mai puramente in se stessa. A causa della connessione dell’anima con il corpo, la vita razionale umana non può essere una contemplazione pacifica; è un incessante tentativo di preservare la propria identità minacciata. L’idea di fondo che sostiene questa intera analisi della vita razionale è che, nell’anima umana, pensare non è mai identico a essere. Cadendo in questo mondo in divenire e diviso, si verifica una rottura nell’anima tra il suo essere e la 77 Cfr. p. 236, 22: ... uJfΔ eJauth`" ... wJ" uJfΔ eJtevra" ... e p. 229, 17-19: te-leiouvmeno", a{ma te wJ" uJfΔ eJtevrwn tw`n menovntwn (scil. ei[dwn), h/`J proh`lqen eJteroiwqeiv", a{ma de; uJfΔ eJautou` ejpeidh; eiJ`" pw" kai; oJ aujto;" mevnei te kai; proeivsi – p. 225, 26: ouj ga;r e{tero" movnon, ajlla; kai; oJ aujto;" oJ rJuei;" tw`/ mevnonti nw`/ – p. 236, 15: dia; to; mh; duvo movnon, ajlla; kai; e{na pw" tovn te mev-nonta kai; proi>ovnta eij`nai nou`n. Cfr. p. 232, 36. 78 Cfr. p. 86, 21-23: ajfistamevnh pw" th`" oijkeiva" oujsiva" kai; ejpistrevfousa wJ" eij" eJtevran pro;" aujth;n, kai; toi`" gnwstoi`" kata; ajpovstasivn tina sunaptomevnh. 79
Cfr. p. 224, 9 ss.
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sua attività, una separazione tra quello che è nell’essenza e quello che essa fa80. Di conseguenza, l’anima non realizzerà immediatamente in atto tutto quello che è nell’essenza, poiché alcune delle sue attività possono rimanere incompiute. Inoltre, anche quegli atti, che vengono comunque compiuti dall’anima, sono separati dalla sua sostanza. Non perché essi siano capaci di esistere senza una sostanza che li supporta, ma perché gli atti compiuti non sono più identici alla sostanza, né appartengono a essa come una sua propria perfezione. Sono, per così dire, solo sospesi da essa81. Infatti, dal momento che l’anima umana è uscita dalla sua essenza, l’attività che essa produce è divisa anche dalla sostanza che la supporta. Quando l’anima conosce esplicitamente, deve considerare dinanzi a sé (rappresentare) i concetti ideali, che in realtà appartengono alla sua essenza, come cose distinte da essa, usando linguaggio e immagini sensibili. Per Prisciano, l’espressione «probavlletai lovgou"» non significa soltanto che l’anima «produce» concetti, ma anche che l’anima li proietta «fuori di sé», cosicché essi stanno «davanti» a essa82. In questa attività cognitiva e discorsiva, l’alienazione dell’anima non è superata, dal momento che il 80 Cfr. pp. 88, 8-11; 88, 38 ss.; 90, 26 ss.; 241, 14-15: uJpomevnei kai; to;n th`" ejnergeiva" ajpo; th`" oujsiva" merismovn wJ" kaiv pote; mh; ejnergei`n. Anche Metaphr., 29, 30: kai; tauvth/ memevristaiv pw" hJ yuch; tw/` mh; th`/ oujsiva/ eij`nai ejnevrgeia. Questa separazione dell’atto dalla sostanza è la prima
e la più importante divisione provata dall’anima nella sua discesa nel corpo: cfr. p. 89, 1 ss. Tale importante dottrina sicuramente risale a Giamblico: cfr., per es., SIMPLICIUS, In cat., 350, 29-31; 353, 21; 354, 1; In phys., 786, 17 ss.; 787, 12-16. 81 Cfr. p. 240, 13 ss.: hJ ... e[xw rJoph; ... th;n ejnevrgeian th`" oujsiva" ajpo-merivzei ... wJ" mhkevti oujsivan eij`nai th;n ejnevrgeian, ajlla; movnon ejxh`fqai ouj-siva". 82 I termini probavllomai, probolhv, problhtikov" sono usati frequentemente in questo commento. Non soltanto indicano «produrre, proporre, rea-
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soggetto pensante rimane separato dall’atto della conoscenza che è prodotto da esso stesso. Tuttavia, quando l’anima umana abbandona ogni «proiezione» fuori di sé e ritorna interamente in sé, la sua attività alienata torna a identificarsi con la sostanza da cui è proceduta. Il pensare diventa allora identico all’essere, come immanente perfezione appropriata dell’essenza intellettuale83. Possiamo quindi distinguere all’interno dell’anima una duplice attività razionale: da una parte, l’attività mutevole che va fuori della sostanza come distinta da essa, e, dall’altra parte, l’attività permanente che coincide con la sostanza84. Tale duplice attività è la manifestazione a livello cognitivo del fatto che l’anima umana, allo stesso tempo, procede fuori di sé e permane in sé. In realtà, questo era stato espressamente indicato da Prisciano nella sua opera precedente, la Metaphrasis, in cui troviamo considerazioni sull’anima che chiariscono molto di quanto è semplicemente presunto nell’In de anima85. In connessione con De anima 430 a 5, Prisciano esamina perché l’anima umana non pensi sempre, anche se non perde mai la facoltà di pensare. Una spiegazione in proposito deve essere vista nell’essenza «anfibia» dell’anima, che è coinvolta alternativamente nel sensibile e nell’intellettuale. Quando l’anima è totalmente diretta fuori di sé verso la realtà inferiore
lizzare», ma hanno anche la connotazione di «procedere, andare fuori di sé, proiettarsi all’esterno». Tale uso sembra essere peculiare a Prisciano. 83 Cfr. p. 240, 18-20: hJ eij" th;n ... oujsivan ajnadromh; ... eJnivzei kai; th;n ej-nevrgeian th`/ oujsiva/ dia; th;n ei[sw o{lhn strofhvn. Cfr. pp. 48, 18; 77, 2. 32. 84 Da una parte: hJ me;n kata; th;n ajpo; th`" oujsiva" proi>ou`san ejnevrgeian (ejxistamevnhn th`" oujsiva") – dall’altra parte: hJ de; kata; th;n movnimon kai; eij" e}n kai; taujto;n th`/ oujsiva/ th;n ejnevrgeian sunavgousa (suvndromo" th/` oujsiva)/ . Cfr. pp. 5, 8-15; 9, 5 ss.; 15, 29-32.
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(o{lw" ejx eJauth`" ajpoteivnesqai), cade nell’ignoranza. Solo quando ritorna in sé e dirige se stessa verso l’intelletto, inizia di nuovo a pensare. Questa è la soluzione che fu comunemente data a questo problema nella tradizione platonica. Tuttavia, chiede Prisciano, l’anima umana non è nessuna delle forme ideali prima che le pensi in atto? È pura potenzialità? In cosa differisce, allora, rispetto alla materia, che pure deve ricevere tutte le forme dall’esterno e non è nulla di per sé? Evidentemente, l’anima umana deve già essere «qualcosa» prima di pensare, dal momento che, quando pensa, produce da sé tutti gli oggetti del pensiero. Prima che l’anima conosca gli oggetti esplicitamente, in qualche modo è già essi. Il fatto che l’anima pensi solo in modo intermittente, pur possedendo nella sua essenza tutte le cose come idee a priori, si può spiegare solo se si accetta che l’attività dell’anima è divisa dal suo essere. L’anima possiede sempre le forme di tutte le cose come appartenenti alla sua sostanza (oujsiwvdw"), ma non sempre le ha in un atto consapevole di conoscenza (ejnerghtikw`"). Essere le cose non implica necessariamente il conoscerle. Dunque la divisione dell’anima si manifesta di nuovo nel fatto che essa non è più in atto in virtù del suo essere, ma deve produrre un’attività che procede, ed è separata, dalla sua sostanza. Tuttavia, Prisciano non sembra del tutto soddisfatto di questa spiegazione, a meno che, forse (eij mh; a[ra), non la si reinterpreti come segue: se l’essere non è uniforme nell’anima – da una parte, essa permane continuamente in sé, e, dall’altra parte, va fuori di sé in un cambiamento continuo – allora la sua attività si conformerà a ciò e sarà duplice86. L’anima umana sarà attiva nello stesso tempo su due livelli distinti: vi è una conoscenza articolata in modo 85
Cfr. pp. 29, 6-10; 29, 25-32.
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esplicito, che si realizza nella sua vita che procede e che cambia, e vi è un’attività intellettuale che, per così dire, è nascosta o latente nella sua permanente essenza87. Un aspetto rimane da chiarire. Che cosa si intende precisamente con l’attività cognitiva che sta nascosta (krufivw") nella sostanza dell’anima? Ciò si può comprendere nel modo che segue. Tutte le forme immateriali sono necessariamente del tutto intelligibili a loro stesse e, perciò, sono sempre piene di conoscenza e «intelletto»88. Se è così, allora anche i concetti ideali che appartengono all’essenza dell’anima – i cosiddetti oujsiwvdei" lovgoi – devono essere sempre oggetti di conoscenza. La loro perfezione sta proprio nel fatto di essere intelligibili. Anche quando l’anima umana non conosce espressamente questi concetti ideali, li possiede ancora sempre in atto, in quanto esiste in essa una specie di conoscenza che è la perfezione o «attualità» della sua sostanza (kata; th;n mevnousan kai; oujsiwvdh teleiovthta). Se diciamo ancora che l’anima è «in potenza», è perché non è compiuto nessun atto esplicito e articolato del pensiero che sia distinto dalla sua essenza (hJ kata; probolh;n ejnevrgeia)89. Di conseguenza, l’anima umana non cade mai nella totale potenzialità, poiché è sempre presente in essa una latente conoscenza intuitiva che coin-
86 p. 30, 3-7: eij mh; a[ra ejpi; th`" yuch`" oujc aJplou`n, oujde; monoeide;" ou[te to; eij`nai ou[te to; ejnergei`n, ajlla; to; me;n movnimon to; de; metaballovmenon, pe-ri; dh; th;n mevnousan th`" metaballomevnh" proi>ouvsh", katΔ ajmfotevra" th`" o{lh" qewroumevnh" yuch`" kai; dia; tou`to a{ma te menouvsh" kai; metabal-lomevnh". Cfr. In de an., pp. 219, 30; 222, 21 (citato in n.
76). 87 p. 30, 7-9: a{ma te; ajei; ejnergouvsh" kata; th;n kruvfion kai; sumfuh` th`/ monivmw/ oujsiva/ ejnevrgeian (kata; th;n mevnousan kai; oujsiwvdh teleiovthta – p. 31, 4) kai; kata; th;n e[xw proi>ou`san kai; metaballomevnhn zwhvn (= ka-ta; probolhvn – p. 31, 4).
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cide con le idee universali, a priori90. Questa conoscenza è, in un certo senso, il respiro intellettuale del suo essere91. Grazie a questa intuizione, permanentemente presente, delle nozioni innate, l’anima può sempre arrivare alla conoscenza esplicita ritornando su di sé nel «ricordo». Questa spiegazione ci porta molto vicino alla posizione di Plotino, che abbiamo discusso nella prima parte del nostro studio. Si dovrebbe tuttavia notare che, secondo Prisciano (e Giamblico), anche questo atto permanente e questa intuizione innata sono caratterizzati da una certa separazione e alterità, poiché l’anima non permane mai puramente e semplicemente dentro di sé. Così, anche la sua intellezione permanente sarà toccata dalla potenzialità e le sue nozioni innate non saranno sempre immediatamente intelligibili. Con questa argomentazione nella Metaphrasis, Prisciano fornisce già l’idea principale, che svilupperà più tardi nel suo In de anima. Nell’ambito dell’attività razionale dell’anima, possiamo distinguere un momento che permane e uno che procede, che con la loro mutua opposizione rendono possibile il processo cognitivo. Tale tensione nell’intellezione è la manifestazione di una differenziazione ancor più fondamentale che avviene nell’essenza dell’anima. Senza dubbio, Prisciano trova questa visione dell’anima come «simultaneamente permanente e procedente» in 88 Cfr. Metaphr., 34, 14-21; 36, 13-23. Cfr. PLATO, Sophista, 248 E - 249 C. cfr. anche infra, p. 236. 89 Cfr. Metaphr., 31, 3-5. 90 Cfr. In de an., 262, 33-263, 25 e 240, 30-35. Cfr. l’interpretazione di Giamblico dell’immagine della tabula rasa citata da PS. PHILOP., In de an., 533, 25-35 (cfr. infra, cap. 7, n. 29). 91 Cfr. il passo seguente di Proclo che illustra l’opinione di Prisciano:
katΔ oujsivan me;n e[conte" tou;" lovgou" kai; oiJ`on ajnapnevonte" ta;" touvtwn
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Giamblico. Egli si lascia guidare da questa concezione nell’interpretazione di De anima, III, 4-6. Nei vari nove" di cui Aristotele parla in questo passo, Prisciano riconosce i diversi momenti che Giamblico distingueva nella vita razionale dell’anima92. Tuttavia, Giamblico aveva dato un’interpretazione del tutto diversa della noetica aristotelica. Come Prisciano abbia cercato di giustificare questo punto di vista divergente, è quel che esamineremo nel capitolo seguente.
gnwvsei", katΔ ejnevrgeian de; kai; kata; probolh;n oujk e[conte": th`" me;n ouj`n kaqΔ u{parxin ejn hJmi`n eJstwvsh" tw`n ei[dwn ejnnoiva" ... th`" de; kata; probolh;n ... tw`n lovgwn gnwvsew" (In Alc., 192, 2 ss.). 92 Va oltre lo scopo del nostro studio seguire Prisciano in tutti i tentativi di rendere conformi le diverse parti del testo di Aristotele con la sua visione dell’anima (cfr. p. 221, 33-34). Indichiamo soltanto lo schema generale della sua interpretazione: Introduzione allo skopov" di De an., III, 4-6 (pp. 221, 35-222, 30). I. Sul nous procedente e ancora imperfetto (pp. 222, 31-228 – De an., 429 a 13 - b 5). II. Sul nous procedente e perfetto. A. L’essenza di questo nous (pp. 229-230, 29 – 429 b 5-9). B. Gli oggetti propri a esso (pp. 230, 30-234, 19 – 429 b 10-22). C. La soluzione delle due aporie (pp. 234, 20-239 – 429 b 22- a 9). III. Sul nous essenziale o permanente. A. L’essenza di questo intelletto (pp. 240-248, 17 – 430 a 10-25). B. Gli oggetti propri a esso (pp. 248, 19-263, 25 – 430 a 26-431 a 4). Riassunto e
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Capitolo settimo
Conformarsi a Giamblico
1. L’interpretazione giamblichea della noetica aristotelica Prima di concludere la sua interpretazione della dottrina aristotelica del nous, Prisciano si chiede perché la sua spiegazione non sembri concordare con le opinioni di quei filosofi che più profondamente hanno meditato su questo problema1. «Bisogna anche esaminare come possiamo concordare con il divino Giamblico, che intese sia il nou`" dunavmei che il nou`" ejnergeiva/ in riferimento all’intelletto che è al di sopra dell’anima, o all’intelletto determinante o a quello impartecipato, mentre noi crediamo che entrambe le entità, di cui si tratta in questo testo, si riferiscano all’essenza dell’anima stessa, come abbiamo mostrato con le parole di Aristotele in molti luoghi del nostro commentario»2. Qui Prisciano dichiara con franchezza di essersi allontanato, nella sua interpretazione di De anima, III, 4-6, 1
p. 312, 9-12.
2 p. 313, 1-6: zhtei`sqw
de; kai; o{pw" tw`/ qeivw/ sumfwnhvswmen ΔI amblicw/, kai; to;n dunavmei nou`n kai; to;n ejnergeiva/ ejpi; tou` kreivttono" th`" yuch`" ajkouvonti h] tou` oJristikou` h] tou` ajmeqevktou, hJmei`" oijovmenoi ejpΔ aujth`" th`" yucikh`" oujsiva" ajmfovtera paradivdosqai, wJ" kai; ejx aujtw`n pollacou` tw`n ΔAristotevlou" rJhmavtwn uJpemnhvsamen.
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dall’esegesi di Giamblico, benché, per altro verso, egli ammetta di essere stato ispirato dalla concezione giamblichea dell’anima. Secondo questo testo, Giamblico identifica il «principio attivo», da cui il pensare dell’anima è attuato, con l’Intelletto Assoluto, che non è partecipato dall’anima. Esso è la causa eterna che permane in sé mentre determina tutte le forme intelligibili, con cui è identico nell’atto del pensare. Una tale interpretazione teologica appare già, come ricordato in precedenza, con Alessandro di Afrodisia. Presumibilmente, Giamblico, per sostenere la sua posizione, dovrebbe aver adoperato argomenti simili a quelli che troviamo in Alessandro. Egli avrebbe messo in risalto la differenza essenziale che esiste tra l’anima e l’intelletto. Se il principio attivo intellettivo fosse posto nell’anima, come potrebbe l’anima, che possiede sempre l’intellezione in atto, essere distinta dall’Intelletto? Ma come possiamo spiegare il motivo per cui Giamblico collocò anche il nou`" dunavmei a un livello superiore a quello dell’anima? In effetti, secondo Prisciano, egli intende questo intelletto come il principio che determina l’anima razionale. Ma, come si può considerare l’intelletto, che non conosce cambiamento o divisione, come qualcosa «in potenza»? In un passo precedente del suo commento, Prisciano respinge questa interpretazione di Giamblico, senza tuttavia menzionare il nome del divino maestro3. Aristotele sostiene che, se il pensare è analogo al percepire, sarà in qualche modo affetto (pavscein ti) dall’oggetto conosciuto. Una tale affermazione sembra entrare in conflitto con quanto Aristotele dice più oltre, e cioè che l’intelletto è impassi3
Cfr. pp. 222, 40-223, 14.
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bile4. Per evitare di dire che Aristotele si contraddice (ejnantiologivan pro;" eJautovn), «qualcuno» è dell’avviso, osserva Prisciano, che queste affermazioni diverse non si riferiscano allo stesso soggetto. Quando Aristotele parla di «passività», si riferisce o all’anima o all’intelletto di cui l’anima partecipa. Ma, quando parla dell’intelletto «che produce tutto», allora egli intenderebbe l’intelletto trascendente e impartecipato. Questa interpretazione – che non poteva essere accettata da Prisciano, non essendo consona allo scopo del De anima – può essere attribuita a Giamblico. Infatti, non solo il principio attivo della conoscenza è identificato con l’Intelletto Assoluto, ma troviamo qui di nuovo la strana opinione per la quale una certa «passività» esiste anche nell’intelletto partecipato dall’anima. Le occasionali osservazioni di Giamblico sul processo intellettivo, nel suo commento alle Categorie, possono fornirci qualche indicazione in più sulla testimonianza di Prisciano. Giamblico sottolinea, ad esempio, che la passività si può attribuire, in senso analogico, ai vari livelli della realtà. «Si può percepire una specie di recettività passiva nella ragione e nell’intelletto dell’anima rispetto agli atti più perfetti del pensiero»5. Pensare comporta pathos, dato che la ragione umana non possiede la sua perfezione di per sé, ma la acquisisce tramite la partecipazione a una forma più alta6. In un altro passo, Giamblico spiega che 4 5
Cfr. De an., 429 b 23; 430 a 18 e cfr. 429 a 13. SIMPL., In cat., 329, 16: kaqΔ eJtevran de; auj`qi" ajnalogivan kai; ejpi; tou`
lovgou kai; ejpi; tou` th`" yuch`" nou` qewrei`taiv ti" kata; pavqo" uJpodoch; tw`n teleiwtevrwn nohvsewn. 6 In cat., 329, 2: to; ejpivkthton ... kai; parΔ a[llou ejpeisio;n ...: to; wJ" uJ-liko;n uJpokeivmenon morfh`" te metalambavnon kai; duvnamin tou` teleiou`sqai e[con. Cfr. anche 30-34.
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l’anima razionale è «in potenza» quando entra in contatto con il mondo fisico e si allontana dall’intelletto-in-atto7. Questa «potenza» non è, tuttavia, una pura assenza di attualità, ma è anche il punto di partenza (ajformhv) per l’attualizzazione. Quando l’anima è resa perfetta dall’intelletto trascendente (cwristou`), è questa dynamis a portare l’intelletto dell’anima al pensare-in-atto8. In questi passi, viene confermato che, secondo Giamblico, il principio attivo del pensare trascende l’anima e la attualizza «dall’alto», anche se l’anima contribuisce al proprio perfezionamento. Tuttavia, il senso in cui non solo l’anima razionale, ma anche l’intelletto partecipato dall’anima, possano essere detti «in potenza», non è spiegato nei frammenti conservati da Simplicio9. Per una migliore comprensione, siamo dunque ricondotti al passo in cui Prisciano confronta la sua opinione personale con quella di Giamblico. Per Prisciano, il suo disaccordo con Giamblico è una seria difficoltà, dato che egli vuole seguire Giamblico inte7 In cat., 249, 7-9: kai; ejn th`/ yuch/` de;, kaqΔ o{son fuvsew" ejfavptetai tou` ejnergeiva/ nou` ajfistamevnh, kata; tosou`ton to; dunavmei qewrei`tai (cfr. 248, 35). Simplicio dà in questa sezione ta;" noerwtevra" tw`n ejxhghtw`n ejpibo-lav", che sono di fatto le considerazioni di Giamblico. Cfr. PRISCIANUS,
In de an., 241, 35 ss.: l’anima umana cade nella potenzialità solo in quanto procede nella «Natura» (eij" fuvsin proi?h)/ . 8 In cat., 249, 1-3: o{tan ga;r oJ th`" yuch`" nou`" uJpo; tou` cwristou` teleiou`tai, duvnamiv" ejstin hJ proavgousa to;n nou`n th`" yuch`" ejpi; to; noero;n eij`do" kai; th;n katΔ ejnevrgeian novhsin. Cfr. i passi analoghi di Priscia-
no riportati infra, p. 243. 9 Non è chiaro se il nou`" th`" yuch`" in questo brano possa essere identificato con il nous partecipato. Forse Giamblico forniva più informazioni in un altro passo del suo commento, trattando del problema della passività e dell’attività nel pensare. Sfortunatamente, però, Simplicio non ha trascritto quel passo, poiché riteneva che Giamblico si fosse allontanato troppo dall’argomento del trattato di Aristotele: cfr. p. 315, 1.
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ramente nel suo commentario, e non osa avanzare nessuna posizione che possa portarlo in conflitto con il suo maestro. Egli è ben consapevole della propria inadeguatezza rispetto al divino filosofo; si sente un principiante che ha ancora bisogno di fare molti progressi, in confronto a chi ha raggiunto i sommi vertici del sapere. Prisciano si rifugia nel fatto che ciascuno dei due si avvicina al problema da diversi punti di partenza, il che rende conto della loro interpretazione divergente della noetica aristotelica. Mentre Giamblico, dal suo elevato posto di osservazione, guarda dall’alto in basso, per così dire, le regioni inferiori, e dalle cause investiga gli effetti (aijtiatav), quelli che non hanno raggiunto tali sommità – fra i quali Prisciano include se stesso – devono cercare con fatica di elevarsi dall’analisi degli effetti alla contemplazione delle cause stesse10. Nonostante la differenza di punto di vista e di metodo (l’uno dall’alto, l’altro dal basso), il risultato del loro ragionamento è in qualche modo simile, poiché vi è una certa analogia tra gli effetti e le loro rispettive cause. Infatti, l’essenza degli effetti corrisponde alle specifiche proprietà e operazioni delle cause da cui essi sono prodotti: quel che la causa è, in quanto forma originaria, è anche il causato, ma per partecipazione e in un senso derivato (deutevrw"). Al contrario, è anche possibile, dalle caratteristiche degli effetti, dedurre come debba essere la causa stessa, la quale porta in sé tutte quelle caratteristiche, in quanto causa11. Pertanto, in un’indagine filosofica, si può risalire dal 10 In de an., 313, 6-10 (un simile apprezzamento di Giamblico è dato da OLYMPIODORUS, In Phaed., 57,6). Il confronto con la torre di guardia (w{sper ajpo; skopia`") ricorre già in PLATO, Rep. 445 D. 11 p. 313, 10-16. La causa anticipa in sé la forma del causato: cfr. pp. 36, 11-37, 2 e 120, 29-121, 2. Cfr. PROCLUS, El. Theol., prop. 18, In Parm., 787, 24 ss.
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causato alle cause, così come si può discendere dalle cause al causato. Giamblico, dunque, nella sua elevata contemplazione, ha esaminato come il rapporto potenza-atto si trovi nella causa stessa dell’anima razionale, cioè nell’intelletto che la determina, e ha lasciato a noi il compito di considerare questa relazione all’interno del causato, cioè nell’anima. Pertanto, osserva Prisciano, abbiamo da esaminare il passaggio dalla potenza all’atto prima all’interno dell’anima, e poi dobbiamo risalire da qui alla sua causa, l’intelletto. Come abbiamo visto, l’anima, in successione, rimane puramente in sé (cioè, in atto), procede da sé, inclina verso il basso proiettando vite inferiori (cioè, cade nella potenzialità), ritorna a sé, e riacquista la sua pura attualità. Partendo da questa analisi della vita razionale dentro l’anima, possiamo anche concludere, con Giamblico, che l’intelletto, che determina formalmente l’anima nella sua attività razionale (oJristikovn), debba essere, in quanto causa, qualificato in modo tale da rendere possibile un tale processo all’interno dell’anima. Dato che l’anima passa alternativamente dalla potenza all’atto e dall’atto alla potenza, dobbiamo presumere che anche l’intelletto che determina la sua essenza debba compiere questo processo a suo modo, ossia come causa. Naturalmente, non è come se l’intelletto fosse toccato dalla potenzialità; piuttosto, come causa formale, esso rende possibile questo cambiamento dentro l’anima12. Benché lo scopo del De anima sia principalmente quello di studiare l’anima nelle sue varie attività, Prisciano ammette che è possibile applicare alcune delle conclusioni che ha raggiunto sull’anima all’intelletto di cui essa partecipa. «Non che l’intelletto subisca lo stesso processo dell’anima, ma perché esso, 12
p. 313, 17-30.
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come causa determinante, produce proprio il modo in cui l’anima, determinata da esso, è e vive»13. Questa è una «difesa» (ajpoleloghvsqw) sufficiente, conclude Prisciano, contro il possibile rimprovero che egli abbia osato allontanarsi da Giamblico. Nonostante l’espresso intento apologetico di questo testo, il contenuto dell’interpretazione di Giamblico è chiaro. Come causa formale dell’anima, lo stesso intelletto partecipato sperimenta un passaggio dalla potenza all’atto. Naturalmente, in questo caso, il passaggio avviene in un modo particolare, senza alcuna passività, divisione, o cambiamento temporale. Sfortunatamente, il commentatore non ci dà nessuna ulteriore indicazione del senso in cui l’intelletto eterno, indiviso, possa essere pure «in potenza». Troviamo più dati su questo argomento nella sua opera precedente, la Metafrasi, a cui ora dovremo rivolgerci.
2. La noetica nella «Metafrasi» Nella Metafrasi, troviamo il primo tentativo di Prisciano di spiegare la dottrina aristotelica del nous. Quando si confronta l’ultima parte di questa parafrasi, che tratta dell’intelletto, con il commento a De anima, III, 4-6, è sorprendente che si trovi qui un’interpretazione della noetica aristotelica del tutto diversa, anche se l’autore impiega la stessa terminologia, e le relative formule, adoperate nel suo successivo commentario. Questa differenza nell’interpretazione non può certamente essere spiegata con il fatto che Prisciano commenta Teofrasto in un’opera, e Aristote13 p. 220, 17-19: ouj pavsconta a{per hJ yuchv, ajllΔ oJristikw`" ejnergou`nta tau`ta a{per hJ oJrizomevnh uJpΔ aujtou` yuch; e[sti te kai; zh`./ Cfr. p.
120, 32-34.
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le in un’altra. La concezione di Teofrasto del nous corrisponde strettamente a quella del suo maestro14. Basandosi su De anima, III, 4-6, Teofrasto cerca di chiarire il preciso significato dei termini e delle metafore usati da Aristotele per descrivere la relazione tra il principio di conoscenza attivo e quello passivo. Per esempio, se si chiama l’intelletto «in potenza», non si deve prendere questa attribuzione nello stesso senso del caso della materia. Mentre la materia è assoluta potenzialità e indeterminatezza, senza alcuna qualità positiva, l’intelletto è sempre «qualcosa di determinato» (tovde ti). L’espressione «in potenza» può avere qui soltanto un significato analogico, e deve essere intesa in modo appropriato15. Queste osservazioni di Teofrasto forniscono a Prisciano una gradita occasione per descrivere la dottrina neoplatonica del nous. È evidente, come anch’egli ritiene, che l’intelletto non è mai «in potenza» nello stesso modo della materia, che deve ricevere tutte le forme da fuori di sé. L’intelletto è già un eidos che abbraccia in sé tutte le «idee». Inoltre, è attivo da sé, e non ha bisogno di una causa esterna per poter conoscere i suoi oggetti, come invece nel caso della percezione sensoriale16. Tuttavia, se l’intelletto possiede davvero tutti gli oggetti conoscibili dentro di sé, in che senso si può spiegare la sua conoscenza come una transizione dalla «potenza» all’«atto»? Evidentemente, questi termini hanno qui un significato analogico appropriato alla realtà intellettuale: lhptevon oijkeivw", cioè noerw`"17. Cfr. G. MOVIA, Anima e Intelletto, Padova 1968, pp. 33-67. Metaphr., p. 26, 5 (fr. Ic Barbotin): kata; ajnalogivan ouj`n kai; to; dunavmei lhptevon (cfr. p. 30, 30) e p. 34, 29-31 (fr. X): lhptevon oijkeivw". 16 Sui diversi significati dell’espressione «in potenza» nel caso di materia, percezione, e intelletto, cfr. pp. 26, 7-14; 30, 30-31, 3; 34, 31-35, 3. 17 pp. 34, 30-35, 3. 14 15
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1. Che cosa significa essere «in atto»? Questa espressione indica che l’intelletto pensante è del tutto identico all’oggetto del pensiero in un’unità perfetta e indivisa18. Infatti, le pure forme immateriali sono da se stesse e per se stesse totalmente intelligibili (nohtav). La loro intelligibilità non è una proprietà acquisita, ma la perfezione propria (l’«atto») della loro essenza. Pertanto, il loro essere implica sempre il fatto di essere conosciute, anche se non da qualcos’altro, ma da loro stesse. Questi oggetti sono, dunque, indivisibilmente uniti al nous che li pensa o, meglio, sono essi stessi e da se stessi l’oggetto, come pure il soggetto, del pensare. Non vi è un’«alterità» che separi soggetto e oggetto19. L’intelletto è identico al suo oggetto non partecipando di esso – perché in questo caso si darebbe ancora una distinzione –, ma coincidendo in atto con le cose immateriali come loro propria determinazione (o{ro") e perfezione. Il fatto di essere intelligibili per sé stessi è, infatti, la perfezione più alta di questi oggetti. Per essere conosciuti, non hanno bisogno di un’illuminazione o di un’attuazione da parte di un altro intelletto esterno a loro stessi. La loro essenza è «auto-rivelatrice» (aujtofanwtavth uJpovstasi"); sono come «luci vivacemente splendenti» (uJpevrlampra fw`ta)20. Possiamo quindi dire che essi possiedono l’«intelletto» come loro perfezione immanente. È evidente che questo intelletto, in cui non si può trovare nessuna opacità, nessuna alterità, trascende comple-
18 p. 35, 4-5: kaqΔ e{nwsin ... ajmevriston kai; o{ron ajkraifnh` kai; teleiovthta hJnwmevnhn to; ejnergeiva/. 19 p. 36, 20: o{la diΔ o{lwn o[nta nohta; o{la diΔ o{lwn h{nwtai tw/` nw`/. Sull’identità di nou`" e nohtovn cfr. pp. 36, 17-24; 34, 14-18 e 26, 26-29. 20
p. 26, 18. 27.
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tamente il livello dell’anima. È, come lo chiama Prisciano, il nous «trascendente», il «primo», il «più alto»21. In questa caratterizzazione dell’Intelletto Assoluto, Prisciano certamente procede dalle stesse considerazioni di Giamblico, a cui si riferisce in seguito nel suo commento22. 2. Se questo è il significato di essere «in atto», cosa intendiamo, si chiede Prisciano, quando diciamo dell’intelletto che è tutte le cose «in potenza»? Certamente non che è assoluta privazione, come è la materia, poiché esso comprende nella sua essenza tutte le forme ideali, e non ha bisogno di riceverle da fuori di sé. L’espressione «in potenza», tuttavia, si riferisce al fatto che l’unità indivisa, che esiste tra l’intelletto e gli oggetti conosciuti, è rotta, e che la conoscenza è caratterizzata dall’«alterità». L’intelletto conosce i suoi oggetti come qualcosa di distinto da sé. Ciò implica chiaramente che l’intelletto è sceso al livello degli esseri che devono essere perfezionati. L’intelletto-inpotenza dipende da un principio intellettivo più alto, da cui è determinato nella sua conoscenza23. 2A. Questa alterità che penetra l’atto della conoscenza è, naturalmente, più chiaramente manifesta nel caso dell’anima razionale. A causa della temporalità della sua esistenza, essa perde l’unità indivisa con i concetti ideali che fanno parte della sua essenza. Può anche cadere nell’i21 oJ cwristo;" nou`" (26, 7. 20. 26; 32, 24) oJ prw`to" (26, 32; 35, 28. 31. 33; 36, 4) oJ kreivttwn (28, 27. 31; 37, 22) oJ o[ntw" nou`" (29, 23). 22 Cfr. In de an., 217, 26: teleiovth" ... o{ro" kai; aijtiva pavntwn e Metaphr., p. 35, 7: oJ pavntwn o{ro" kai; teleiovth". Cfr. anche Metaphr., p. 26, 13: eij`dov" ejsti kai; pavntwn eijdw`n periektikov" e IAMBLICHUS, In cat., 363, 23: e}n eij`dov" ejsti pavntwn eijdw`n perilhptikovn. 23 p. 35, 8-9: kata; de; th;n meqΔ eJterovthto" sunafh;n kai; th;n eij" to; oJri-zovmenovn pw" kai; teleiouvmenon uJpovbasin to; dunavmei.
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gnoranza, senza però essere completamente alienata da essi, poiché può raccogliersi in unità e contemplare di nuovo tutte le forme in sé. Tale contatto con gli oggetti di conoscenza può essere realizzato solo attraverso un continuo processo discorsivo, attraverso cui l’anima cerca di superare la sua divisibilità il più possibile, per poter coincidere con il conosciuto. Questo «svolgimento» (ajnevlixi"), in cui l’anima persegue continuamente un oggetto dopo l’altro, indica un «rilassamento» (calasmov") della sua unità con gli oggetti conosciuti. Quindi, l’anima è sempre dipendente per il suo pensare dall’Intelletto trascendente, la cui illuminazione attualizza e perfeziona il contatto cognitivo con gli oggetti. Rispetto a questo Intelletto, l’anima può propriamente essere considerata «in potenza»24. 2B. Non solo l’anima, ma anche l’intelletto partecipato dall’anima può essere caratterizzato come «in potenza» rispetto all’Intelletto Assoluto25. Sicuramente, l’«alterità» che separa il soggetto dal suo oggetto, e il «rilassamento» della loro unità, sono più ovvi nel caso dell’anima umana, poiché il pensare si verifica qui come un processo temporale. Tuttavia, Prisciano afferma che eJterovth" e calasmov" sono caratteristiche anche dell’intelletto partecipato, proprio perché esso è partecipato dall’anima26. A causa della sua relazione essenziale con l’anima discorsiva, con cui è, per così dire, «cresciuto insieme», questo intelletto è in qualche modo «fuoriuscito» dall’indivisibilità ed è sceso nella divisione27. Come risultato di tale «inclinazione» pp. 35, 9-16; 34, 25-28; 29, 7-13. pp. 29, 24; 34, 24; 35, 15; 36, 2. Questo intelletto è anche chiamato (con Teofrasto): yuciko;" nou`" (p. 26, 6. 12. 26). 26 p. 35, 15-19. Anche pp. 26, 14-29; 27, 15-20. 27 p. 26, 14 ss.: dia; th;n pro;" th;n yuch;n suggevneian, kai; dia; th;n ouj24 25
siwvdh pro;" aujth;n scevsin, kai; dia; th;n pro;" to; meristovn pw" ajpovneu-
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verso il basso, le forme ideali, comprese in questo intelletto, hanno perso l’intelligibilità immediata e perfetta che le pure forme trascendenti possiedono di per sé. Pertanto, l’intelletto partecipato è, come l’anima, dipendente nel suo pensare dal Primo Intelletto. Con l’illuminazione ricevuta dall’«alto», gli oggetti diventano perfettamente intelligibili per questo intelletto inferiore, che coincide con essi in un’unità indissolubile28. In quanto conosce le forme solo in dipendenza dall’Intelletto superiore, si può quindi dire che questo intelletto partecipato è i suoi oggetti «in potenza». Pertanto, Prisciano può affermare che Aristotele paragonava giustamente questo intelletto-in-potenza a una tabula rasa. Naturalmente, avverte Prisciano, non si può prendere questa metafora troppo alla lettera, come se l’intelletto fosse vuoto, senza avere in sé alcuna idea. Essa indica soltanto che l’intelletto non è capace di leggere le forme, che sono scritte nella sua essenza, a meno che non sia illuminato e perfezionato dall’Intelletto Assoluto29. Comunque, l’intelletto non riceve questa perfezione passivamente, come effetto di un principio esterno. Pur in-
sin, aujtov" te ajpo; th`" ... ajmerivstou ... uJpevbh noera`" oujsia" ... – p. 27, 17: uJ-poba;" ... kai; oiJ`on ejkfoithvsa" dia; th;n pro;" yuch;n oJmofuivan.
pp. 26, 20-29; 35, 28-29. Cfr. la testimonianza di Giamblico in PS. PHILOPONUS, In de an., 533, 25-35. Giamblico dice che Aristotele usava intenzionalmente la parola grammatei`on al posto del termine più neutro cartivon. Questo perché, come spiega Giamblico, non si parla comunemente di un grammatei`on quando non vi sono gravmmata incisi su di esso. Aristotele non vuole intendere che sopra non vi sia scritto nulla, ma che le lettere sono scritte male e sono difficili da leggere. Egli usa il termine a[grafo" con il significato di kakovgrafo". Nello stesso senso, la gente spesso chiama un attore con una voce scarsa (kakovfwno") semplicemente «senza-voce» (a[fwno"). Cfr. SIMPL., In cat., 393, 7-11, un passo tratto da Giamblico. Cfr. anche PROCLUS, In Eucl., 16, 8-10. 28 29
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clinando verso la divisione, rimane ancora un’essenza intellettuale che possiede in sé tutte le forme, e non ha bisogno di essere invogliato all’attività da qualcosa di esteriore a sé. Tuttavia, il pensare-in-atto è possibile solo in quanto è determinato nella sua attività dall’Intelletto Assoluto. Questa «determinazione» non è sopportata passivamente. È piuttosto il fondamento della sua attività intellettuale: aujtenerghvtw" oJrizovmenon. «Quindi esso [l’intelletto partecipato] non è né mosso dall’esterno, né perfezionato da qualcosa che non sia se stesso, ma si perfeziona con la determinazione ricevuta dal Primo Intelletto, perché è come il Primo, ma in un senso derivato»30. Quando Teofrasto dice che l’intelletto partecipato dall’anima «non è per nulla in atto prima di pensare», vuol dire in realtà – così interpreta Prisciano – che non coincide indivisibilmente con gli oggetti conosciuti «prima» di essere portato alla perfezione dall’Intelletto Assoluto. Il passaggio dalla «potenza» all’«atto» deve essere inteso come il raggiungimento di un’unità indivisibile nella conoscenza31. Ci si può chiedere in cosa questo intelletto differisca dall’anima razionale che ne partecipa, se esso è, come l’anima, caratterizzato da divisione e alterità, e dipende dall’Intelletto Assoluto per la sua attualizzazione. Vi è, invece, una differenza importante, osserva Prisciano. Per l’anima, il termine «prima» ha un significato temporale. Vi è un momento in cui l’anima è soltanto potenzialmente i suoi oggetti, e un altro in cui li possiede in atto, per poter poi di nuovo cadere nell’ignoranza. Questo cambiamento e questa estensione nel tempo sono esclusi nel caso dell’in30 31
pp. 35, 19-23; 27, 20-29, 1. pp. 35, 32-36, 1.
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telletto partecipato. Quando diciamo che esso è prima in potenza e poi in atto, non ci riferiamo a due stati diversi in successione temporale, ma facciamo soltanto una distinzione concettuale (katΔ ejpivnoian – 34,5) nell’analisi della sua intellezione. Di fatto, questo intelletto è sempre in atto! Quando ci riferiamo a esso come «in potenza», è per indicare il suo più basso stato ontologico e la sua diversità rispetto all’Intelletto Assoluto. In quanto è sceso a un certo stato di divisione, a causa della sua connessione con l’anima, esso è «in potenza». È «in atto» in quanto è ancora in contatto con il Primo Intelletto ed è perfezionato da esso, o meglio, in quanto perfeziona se stesso secondo la determinazione dell’Intelletto superiore32.
3. Confronto tra la «Metafrasi» e il «Commento» A. Nella Metafrasi come nel Commento al De anima sono distinti gli stessi livelli noetici: 1. L’Intelletto Assoluto, causa e determinazione di tutte le idee. 2. L’intelletto partecipato dall’anima, causa determinante del «dispiegamento» (ajnevlixi") razionale dell’anima. 3. Infine, la stessa anima razionale e la sua duplice attività cognitiva, l’una procedente fuori dalla sua sostanza, l’altra permanente in essa. Nonostante questo schema comune, l’interpretazione 32 p. 36, 1-5: to; de; privn, eij kai; ejpi; th`" yuch`", ajllΔ ou[te ge ejpi; tou` me-tecomevnou nou` cronikw`" ajkoustevon, kata; de; th;n u{fesin kai; to;n ejpi-noouvmenon cwrismo;n kai; kata; th;n aujtou` ijdiovthta: wJ" ga;r uJfeimevno" kai; wJ" aujto;" oJ dunavmei nou`" ou[pw ejntelevceia, ajllΔ h] tw`/ prwvtw/ sunavptetai uJpΔ ejkeivnou teleiouvmeno", ma`llon de; katΔ ejkei`non eJauto;n teleiw`n (cfr. p. 27, 20-24).
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dell’insegnamento aristotelico sul nous è abbastanza diversa nei due testi. Dimostreremo questa divergenza con alcuni esempi. 1. Secondo il Commento, il nou`" ejnergeiva,/ il principio attivo di conoscenza, appartiene alla struttura dell’anima razionale. È il logos permanente, da cui il logos procedente, il nou`" dunavmei, è attualizzato. Secondo la Metafrasi, il nou`" ejnergeiva/ non può essere immanente all’anima. È l’Intelletto Assoluto che è identico all’essere ideale. Sotto la sua influenza, l’intelletto partecipato, come anche l’anima stessa, sono portati al pensare in atto. In entrambe le opere, è indicato che questa «attualizzazione» non è un evento puramente passivo, poiché il principio intellettuale inferiore coopera attivamente alla perfezione ricevuta dal superiore. Si possono mettere a confronto i passi seguenti, in cui sono usate le stesse formulazioni per esprimere relazioni differenti: In de anima 230, 23 e 236, 5 (sulla relazione tra il logos permanente e quello procedente dentro l’anima): aujtenerghvtw" uJpo; tou` kreivttono" teleiou`tai aujtenerghvtw" th;n ejtevrwqen paradevcetai teleiovthta
Metaphrasis, 27, 20 (sulla relazione del partecipato con l’Intelletto Assoluto): eJauto;n sunavptwn tw`/ ejnergeiva/ nw/` kai; th;n ajpΔ ejkeivnou teleiovthta aujtenerghvtw" decovmeno"
e 28, 27-29, 1: aujtenerghvtw" oJrizovmenon uJpo; tou` kreivttono"... ...ta; ajpo; tou` kreivttono" aujtenerghvtw" devcetai
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Inoltre, gli stessi termini sono usati anche per spiegare come l’anima sia perfezionata dall’Intelletto Assoluto (cfr. p. 29, 11): eJauth;n prosavgousa tw`/ nw/` kai; aujtenerghvtw" kai; th;n ajpΔ ejkeivnou decomevnh teleivwsin.
2. Secondo il Commento, il nou`" dunavmei è il momento procedente dell’anima razionale. Che l’anima sia caratterizzata da potenzialità, è dato per certo anche nella Metafrasi. Tuttavia, come abbiamo visto, qui l’intelletto partecipato dall’anima è considerato anche un nou`" dunavmei. Per esempio, in quest’opera, Prisciano applica la metafora della tabula rasa all’intelletto partecipato nella sua relazione con l’Intelletto Assoluto. Nel Commento, invece, questo paragone indica come il logos procedente stia in relazione con il logos permanente dentro l’anima33. 3. Ancor più sorprendente è il fatto che, nella Metafrasi, Prisciano descriva la «processione» e la «discesa» dell’intelletto partecipato dall’Intelletto Assoluto proprio con le stesse tipiche espressioni che userà in seguito nel Commento per caratterizzare la processione dell’anima e la sua diversità dall’intelletto. Nella prima opera, Prisciano ammette che «alterità» e «rilassamento» si verificano «in qualche modo» nell’intelletto partecipato, anche se egli conviene che queste caratteristiche siano più manifeste nell’anima. D’altra parte, nel Commento, egli non attribuisce mai queste proprietà all’intelletto, ma sostiene ripetutamente che la «discesa nella divisione e nell’alterità» si 33 Metaphr., pp. 26, 29-27, 3; p. 35, 24-29; cfr. In de an., 236, 19 ss.; 243, 1-6; 244, 23.
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verifica per la prima volta a livello dell’anima. Confrontiamo i passi seguenti: Metaphrasis (sull’intelletto partecipato) 27, 15: dia; to; kecalasmevnon ... th`" eJnwvsew" ... uJpoba;" ajpo; th`" kaqarw`" kai; pavnth/ ajmerivstou ... eJnwvsew" (cfr. 26, 16 ss.) 35, 8-31: kata; th;n meq`Δ eJterovthto" sunafh;n kai; th;n eij" to; oJ-rizovmenovn pw" kai; teleiouvmenon uJpovbasin
In de anima (sull’anima) 84, 11: th;n yuch;n wJ" prwvtw" tou` ajmerivstou uJpoba`san 50, 6: zwh`" ou[sh" uJpobavsh" ... ajpo; nou` kai; to;n ajmevriston calasavsh" o{ron (cfr. 39, 10; 42, 22-30; 238, 25; 244, 36) 62, 7: tw`/ cala`sai kai; ejklu`saiv pw" th;n ajmevriston e{nwsin 218, 27: oJrivzetai ... eij" to; oJrizovmenon uJpoba`sa (cfr. 217, 34) 250, 8: meta; eJterovthto" ...
4. Nella Metafrasi si dice che l’intelletto inferiore, in quanto è perfezionato dal superiore, manifesta secondariamente tutte le caratteristiche che ha il superiore. Secondo l’interpretazione del Commento, è il «logos essenziale» dell’anima che è, in modo secondario, ogni cosa che è l’intelletto di cui partecipa34. Riassumendo, Prisciano, nel suo commento al De anima, studia principalmente la relazione tra i logoi permanente e procedente dentro l’anima, mentre, nell’opera precedente, adopera la stessa terminologia per esprimere la relazione che esiste tra l’Intelletto Assoluto e l’«intelletto psichico» (l’intelletto partecipato come anche l’anima partecipante).
34 Metaphr., pp. 27, 30; 29, 24; 34, 24; 35, 22; cfr. In de an., 240, 26; 244, 5; 249, 26; 250, 8; 259, 4-5 (cfr. 219, 27).
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B. Possiamo pertanto concludere che Prisciano interpreta la dottrina di Aristotele sul nous di De anima, III, 4-6 in modi molto diversi nelle sue due opere. Nella Metafrasi, si avvicina più al punto di vista di Giamblico, che identifica il principio attivo della conoscenza con l’Intelletto Assoluto. Nell’In de anima, concorda piuttosto con Plutarco e la scuola alessandrina, che intendevano l’intelletto-in-atto come immanente all’anima. Eppure, si possono portare i due testi a un accordo tra di loro? In effetti, questo è possibile, se ci si concentra non tanto sulla maniera divergente in cui il testo aristotelico è interpretato, quanto sulla visione generale del rapporto anima-intelletto che è assunta in entrambe le interpretazioni. La differenza tra le due opere può essere largamente spiegata in base ai differenti punti di vista, a partire dai quali è considerata la relazione anima-intelletto. Nel Commento, Prisciano, come abbiamo visto, parte dal basso, dall’anima razionale, e mostra come essa «cresca insieme» (sumfuomevnh), per così dire, con l’intelletto determinante, per mezzo della sua superiore attività intellettuale35. Da questa prospettiva, egli mette in evidenza che l’intelletto, anche se è partecipato dall’anima, trascende ogni potenzialità e divisione che caratterizza l’intellezione dell’anima. Prisciano non tratta qui dell’Intelletto Assoluto, né esamina come quest’ultimo si rapporti all’intelletto partecipato e all’anima36. Ma questo è proprio il tema più impp. 240, 21-25; 234, 1; 258, 29-31. Oltre a p. 217, 23-28, abbiamo alcuni riferimenti all’Intelletto assoluto a pp. 31, 18; 33, 19-21; 50, 1; 226, 10-12; 258, 14 e in particolare 312, 12: hJ ajkrovth" th`" yuch`" kinei`tai uJpo; tou` ejxh/rhmevnou aujth`" nou`, uJpo; 35 36
me;n tou` pantelw`" th`" yuch`" ejxh/rhmevnou wJ" poihtikou`, uJpo; de; tou` mete-comevnou uJpΔ aujth`" wJ" oJristikou`. Secondo l’ultimo passo, l’Intelletto
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portante della Metafrasi. Qui l’autore inizia la sua analisi dall’alto, dall’Intelletto Assoluto, mettendo in risalto in cosa l’intelletto partecipato differisca da esso. A causa del suo stretto rapporto con l’anima, l’intelletto partecipato anticipa alcune caratteristiche della vita psichica e così discende in qualche modo nella divisione. Da questo punto di vista, la differenza tra l’anima razionale e il suo intelletto determinante, che nel Commento sarà delineata così acutamente, si trova a essere affievolita. In confronto con l’Intelletto Assoluto, si può dire che sia l’intelletto partecipato che l’anima sono «in potenza». Pertanto, nella sua considerazione del nou`" dunavmei, l’autore può passare senza troppa difficoltà dall’anima al suo intelletto partecipante, e viceversa. «Tutto ciò è vero» conclude, «se si considera che il nous è l’essenza che è partecipata dall’anima o l’anima razionale stessa»37. Tuttavia, nella Metafrasi, la distinzione tra l’anima e il suo intelletto determinante continua a essere mantenuta, poiché solo l’anima è caratterizzata da temporalità, e, quindi, è affetta da divisione e alterità reali, mentre l’intelletto ha queste proprietà solo in un senso causativo38. Dunque l’intelletto partecipato svolge la funzione di termine medio tra l’Intelletto Assoluto totalmente indiviso e l’anima discorsiva. Pur essendo esso stesso indiviso, determina l’anima nel «dispiegamento» della sua vita razionale. assoluto è la «causa efficiente» dell’anima razionale, mentre l’intelletto partecipato è solo la sua causa formale. 37 p. 29, 16; cfr. anche p. 33, 1: fhmi; toivnun to;n dunavmei nou`n tovn te metecovmenon uJpo; th`" yuch`" kai; aujth;n th;n logikhvn e p. 34, 25: kai; aujth; hJ logikhv. Cfr. pp. 30, 25-31, 3: in questo passo che tratta dell’anima sono inserite alcune note sull’intelletto. 38 Cfr. Metaphr., p. 36, 3: kata; th;n aujtou` ijdiovthta e In de an., 313, 12: kata; th;n tw`n aijtivwn ijdiovthta. Sul significato di ijdiovth" cfr. supra, p. 150.
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Anche se l’approccio del Commento è diverso, la precedente interpretazione di Prisciano non è del tutto assente, come possiamo dedurre da varie osservazioni occasionali. Per esempio, Prisciano dice che tutte le caratteristiche che troviamo in un «modo più divino e più alto» (kreittovnw") nell’intelletto impartecipato appaiono «secondariamente» (deutevrw") nell’intelletto partecipato e, infine, «in un senso derivato» (uJfeimevnw") nell’anima39. Questo schema «dall’alto» suggerisce che c’è già nell’intelletto partecipato una specie di discesa (uJpovbasi") dall’indivisibilità alla discorsività dell’anima. Infatti, come termine medio, questo intelletto deve essere in qualche modo proporzionato (suvmmetro") all’anima che partecipa di esso40. In realtà, anche nel Commento, Prisciano non sempre riesce a tracciare una netta distinzione tra l’anima e l’intelletto da cui essa è determinata. Perché se questo intelletto, come è detto, determina l’anima non da lontano (diΔ ajpostavsew"), ma crescendo insieme a essa (sumfuvsew" ajmevsou) e stabilendo l’anima in sé senza alcuna distinzione41, ciò non implica che esso anticipi, in un certo senso, alcune delle caratteristiche dell’attività cognitiva dell’anima, quali alterità, divisione, e persino potenziap. 258, 14 ss. Cfr. p. 42, 35: kai; oJ metecovmeno" uJpo; yuch`" (nou`") metaxuv: ouj ga;r ajsuvmmetro" uJpo; yuch`" meteivceto. Il termine ajsuvmmetro" indica che vi è una sproporzione tra i termini estremi, che devono pertanto essere connessi da termini medi. Cfr. DAMASCIUS, Commentaire du Parménide, I, p. 1, 3 ss.: aij suzeuvxei" ... dia; pollw`n givgnontai mesothvtwn, a{te ajsummevtrwn o[ntwn tw`n a[krwn ... e PROCLUS, In Tim., I, 405, 24: l’intelletto partecipato è suvmmetro" rispetto all’anima. 41 p. 312, 36-37: ouj diΔ ajpostavsew", ajlla; sumfuvsew" ajmevsou ... tw`/ eJ-dravzein ejn eJautw/` kai; teleiou`n ouj kecwrismevnw". Cfr. p. 240, 21: hJ ajkrovth" th`" yuch`" ajmevsw" sumpevfuke th`/ uJpe;r aujth;n noera`/ oujsiva/. Cfr. supra, p. 214, n. 59. 39 40
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lità? «Sia l’anima razionale che l’intelletto partecipato da essa sono chiamati in potenza e materiali»42. Questa affermazione all’inizio del Commento richiama l’interpretazione data nella Metafrasi. Si tratta tuttavia di una frase isolata. In nessun luogo del Commento Prisciano esamina il senso in cui anche l’intelletto partecipato possa essere detto dunavmei. Questo problema, egli crede, è fuori luogo in un trattato psicologico. C. Il confronto delle differenti interpretazioni che Prisciano dà della noetica aristotelica ci fa tornare al nostro punto di partenza, il passo del Commento in cui egli confronta il proprio punto di vista con quello di Giamblico. In effetti, nella Metafrasi, Prisciano sembra seguire Giamblico molto da vicino: non solo egli identifica il principio attivo di conoscenza con l’Intelletto Assoluto, ma considera pure l’intelletto partecipato come nou`" dunavmei. Una tale interpretazione Prisciano avrebbe potuto trovarla, con ogni probabilità, soltanto in Giamblico, il quale sosteneva la posizione che anche il nou`" dunavmei trascendesse l’anima. Pertanto, possiamo ipotizzare abbastanza facilmente che Prisciano, nella parte della Metafrasi che tratta dell’intelletto (che abbiamo abbozzato nel § 2), riproduca alquanto fedelmente la dottrina di Giamblico del nous. Nel successivo Commento, Prisciano si allontana considerevolmente dall’interpretazione di Giamblico. Partendo dalla visione dell’anima sviluppata dal filosofo siriano, egli cerca di rinvenire i momenti, che Aristotele distingueva nel processo del conoscere, all’interno della vita razionale dell’anima. La terminologia che egli aveva adoperato 42 p. 11, 13: kai; hJ logikh; yuch; kai; oJ metecovmeno" uJpΔ aujth`" nou`" du-navmei te kai; uJliko;" levgetai.
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nella Metafrasi per esprimere la relazione esistente tra l’Assoluto e il secondo intelletto, viene trasferita alla tensione dentro l’anima stessa. Nondimeno, con questa «applicazione», Prisciano è convinto di rimanere perfettamente conforme al pensiero di Giamblico, come dice espressamente. Il divino filosofo aveva investigato la transizione dalla potenza all’atto a livello dello stesso nous, ma aveva lasciato a noi il compito di ricavare come questa relazione si applicasse all’anima: divdwsin hJmi`n kai; ejpi; th`" yuch`" tauvthn noei`n43. Prisciano sceglie una tale interpretazione perché giudica correttamente che Aristotele abbia preso in considerazione, nel suo trattato, solo l’anima. Il confronto tra questi due testi di Prisciano ci fornisce l’opportunità di ricostruire la concezione di Giamblico sull’anima e sul suo rapporto con l’intelletto. Infatti, la differenza di concezione tra le due opere di Prisciano dipende dalla diversa posizione che egli assume rispetto a Giamblico. Nell’opera precedente, segue piuttosto fedelmente il modo di pensare del divino maestro; nel Commento al De anima, cerca di portare la sua visione in accordo con lo scopo del trattato aristotelico, di cui era venuto a conoscenza principalmente attraverso il commento di Plutarco. Di conseguenza, nella Metafrasi, troviamo la dottrina di Giamblico ancora immune dalla «trasformazione» e dall’«adattamento» che subirà più tardi nel Commento.
43
p. 313, 17-19.
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Conclusione
Nel tardo pensiero greco, incontriamo un solo filosofo che sia davvero allo stesso livello di Platone e di Aristotele, e che abbia influenzato il pensiero europeo tanto profondamente come loro. Si tratta di Plotino. Troviamo nella sua filosofia una sintesi originale dell’intero regno di intuizioni della tradizione filosofica greca e, allo stesso tempo, il precipitato di un’intensa esperienza personale di vita. La sua rilevanza è stata così chiaramente dominante che l’opera dei Neoplatonici successivi è stata a lungo adombrata. Ciò non dovrebbe indurci a dimenticare che il Neoplatonismo dopo Plotino passò attraverso un importante processo di sviluppo, e che, per più di tre secoli, le successive generazioni di filosofi elaborarono questa dottrina in un’opposizione sempre più aspra contro il Cristianesimo, che alla fine la assorbì e la neutralizzò come ideologia pagana. Quest’ultima evoluzione non è senza importanza. Infatti, è soprattutto attraverso questa forma più matura e sistematicamente costituita – come meglio conosciamo dall’opera di Proclo – che il Neoplatonismo influenzò il pensiero successivo. Un ruolo importante nella formulazione finale del Neoplatonismo venne svolto, senza dubbio, dal filosofo siriano Giamblico, il quale può essere detto, a buon motivo, il «secondo fondatore della Scuola». Ciò è 251
confermato dal presente studio, in cui abbiamo esaminato la sua dottrina dell’anima, il principio centrale di ogni Weltanschauung platonica. Anche qui Giamblico introdusse numerose correzioni e modifiche nella dottrina dei suoi predecessori, modifiche che sono tutte caratteristiche della maniera e della direzione in cui il Neoplatonismo si svilupperà in seguito. Certamente, troviamo in lui la stessa fondamentale visione dell’anima di Plotino e di Porfirio: l’anima è una pura sostanza incorporea, interamente separabile dal corpo e, come automovente, principio incorruttibile della sua vita, che lega il mondo sensibile all’intelligibile. Egli rimproverava, però, i suoi predecessori, di aver attribuito all’anima un posto troppo alto nell’ordine ontologico. Essi erano giunti a enfatizzare il carattere spirituale e trascendente dell’anima a tal punto che non la si poteva più distinguere adeguatamente dalle regioni superiori – gli dèi, l’intelletto, le idee, e persino il Bene. E infatti, sebbene Plotino abbia fatto procedere l’anima dall’Intelletto, come «ipostasi» inferiore e separata, vi sono alcuni passi nella sua opera in cui questa distinzione non è così chiara. Quando l’anima è considerata nella sua pura essenza, libera dalle aggiunte dovute alla sua discesa nel sensibile, Plotino tende a descriverla come una parte consustanziale della realtà intellettuale. Una simile tendenza «monistica» si può osservare anche in Porfirio. Giamblico, per contro, sviluppa il sistema in un’altra direzione, come un’«architettura» complessa e chiaramente articolata, in cui un distinto livello ontologico corrisponde a ciascuna distinzione concettuale. I vari gradi della realtà sono separati in modo più netto l’uno dall’altro: l’Uno, l’Essere, l’Intelletto, l’Anima. Mentre Plotino considerava l’anima come quella grande «viaggiatrice» nello schema ontologico, che, secondo la facoltà di volta in volta attua252
lizzata, poteva divenire qualsiasi cosa, Giamblico assegnava all’anima un posto fisso e definito chiaramente. Benché l’anima possa assimilarsi al superiore come anche all’inferiore, essa non può mai oltrepassare i limiti che sono dati con il suo stato ontologico. Anche all’interno del dominio psichico, Giamblico si sentì costretto a distinguere i vari gradi e a separarli l’uno dall’altro. Plotino considerava il mondo psichico come uno e omogeneo: tutte le anime sono consustanziali, non importa quanto diverse possano essere le loro attività. L’anima del mondo, le anime dei pianeti e delle stelle, le anime umane e animali, tutte formano una sola vita infinita, l’Anima, che si estende sopra il mondo intero ed è presente in ogni luogo senza perdere la propria unità. Secondo Giamblico, al contrario, le varie anime sono suddivise in classi e specie, che differiscono essenzialmente l’una dall’altra e formano reciprocamente un sistema gerarchico in cui l’inferiore sta sempre sotto l’autorità e l’influenza del superiore. Dunque, le anime distinte non possono essere considerate come tante «modalità» di una sola anima; anzi, esse procedono, come tante indipendenti entità partecipate, dall’anima assoluta, che è essa stessa im-partecipabile1. Nella misura in cui le distinzioni tra le anime si radicano nella loro essenza e, in definitiva, nel posto che occupano nel processo di emanazione, non è possibile il passaggio da una classe a un’altra. Pertanto, un’anima umana non può mai entrare nel corpo di un animale2. E, al contrario, non può mai raggiungere la perfezione degli dèi. Giamblico prende decisamente posizione contro la prete1 Cfr. PROCLUS, In Tim., II, 105, 15-19 (= fr. 50) e 143, 21-24 e 240, 2-28. 2 Cfr. NEMESIUS, De nat. hom., 117, 5-6 e AENEA GAZAE, Theofrastus, P. G. 85, coll. 892-893.
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sa, a suo avviso, empia, di Plotino, che proclamava che l’anima umana fosse consustanziale alle anime divine, e attribuiva a essa la stessa perfezione. Al contempo egli respinge anche la posizione di Plotino, secondo cui una parte dell’anima umana rimane sempre al di sopra, immutabile, in una eterna contemplazione delle Idee. Esattamente all’opposto, Giamblico ritiene che l’anima umana scenda del tutto e interamente nel divenire e che nulla in essa sfugga al cambiamento tipico del mondo psichico. Visto il posto più basso che l’anima occupa nella realtà, egli esclude anche che essa possa trovare la possibilità dentro di sé di ascendere al divino, sostenuta soltanto dai suoi poteri intellettuali. Contro Plotino, Giamblico sostiene che l’anima non possa trovare salvezza senza l’aiuto e la grazia degli dèi. La contemplazione teoretica deve andare insieme al compimento di atti e riti sacri che sono stati istituiti dagli dèi stessi. Il filosofo non è soltanto un teologo (colui che rivela il divino), ma anche un teurgo (colui che compie atti divini). È degno di nota quanto Giamblico qui sia andato vicino alla critica che venne formulata in alcune cerchie cristiane contro la dottrina platonica dell’anima3. La dottrina di Giamblico venne ripresa ed elaborata sistematicamente nella scuola ateniese, specialmente da Proclo. Quasi tutte le proposizioni sull’anima, presenti negli Elementi di Teologia, possono essere ricondotte a 3 L’obiezione più importante, fatta dai pensatori cristiani contro la visione platonica dell’anima, è che l’anima è considerata un’essenza quasi perfetta, impassibile e immortale come Dio stesso. Cfr., per es., TERTULLIANUS, De anima, XXIV, 1; IUSTINUS, Dialogus cum Tryphone, I, 5; V, 1-VI, 2; IRENAEUS, Adv. haereses, II, 34, 2 e 4 (P.G. 7, 835 B-C e 837 A-B); ARNOBIUS, Adv. nationes, II, 15-36, pp. 88-108; AUGUSTINUS, Epistula CLXVI, PL 33, 721. Cfr. E.L. FORTIN, Christianisme et culture philosophique au cinquième siècle, Paris 1959, pp. 96 ss.
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Giamblico. Tuttavia, Proclo si differenzia da Giamblico in un aspetto importante. Giamblico sosteneva che l’anima umana, nella sua discesa nel corpo, subisse un cambiamento sostanziale. Per il suo rapporto con il corpo e la sua preoccupazione per i bisogni corporei, l’anima procede fuori di sé e si intreccia alla vita irrazionale, venendo così alienata dalla sua essenza. Questa alienazione, però, non è completa, né definitiva. Poiché l’anima permane sempre in sé, può superare questa alienazione ritornando in sé. Ma neanche questa identità che ne risulta è perfetta: è sempre minacciata dalla ricaduta nell’alterità. Dunque, l’anima continuamente procede fuori di sé nel cambiamento e, allo stesso tempo, rimane ancora se stessa. Essa è identità-in-cambiamento, sé-in-cambiamento. Permanenza, processione e reversione, non sono eventi accidentali, ma rappresentano un processo che tocca la vera essenza dell’anima: l’anima rilassa la sua unità, si differenzia nella molteplicità, si aliena da sé, si raccoglie e così ri-trova se stessa. In questo modo, l’anima umana è davvero, nella sua intera ousia, qualcosa che diviene e non diviene, che è diviso e indiviso, che cambia e permane identico. Proprio per questo, essa è precisamente il medio tra l’Essere indivisibile e il divisibile mondo del divenire. L’idea che l’anima subisca un cambiamento sostanziale era inedita nella tradizione platonica e fu anche per lo più respinta nella scuola neoplatonica. Questa dottrina tanto originale si riaffaccia di nuovo solo negli ultimi rappresentanti del Neoplatonismo, Damascio e Prisciano di Lidia. Damascio impiega questa dottrina nella sua interpretazione del Parmenide. Nella terza ipotesi di questo dialogo, Platone parla dell’Uno che cambia continuamente da uno stato al suo opposto e fornisce un’analisi del cambiamento 255
temporale. Come Proclo, Damascio vede in questo Uno un’allusione allo stato ontologico dell’anima umana. Egli pone la questione se i molteplici cambiamenti, a cui questo Uno è soggetto, abbiano rapporto solo con le varie attività dell’anima, oppure se venga in tal modo alterata anche la sua sostanza. Dopo una lunga discussione della teoria di Proclo, egli difende alla fine la posizione di Giamblico. Proclo aveva cercato di spiegare la tensione che sperimentiamo tra divenire e essere, tempo e eternità, affermando che l’anima, benché eterna e immutabile nella sua sostanza, cambia e diventa temporale nei suoi atti. In questa visione, però, ogni cambiamento diviene accidentale, qualcosa che si verifica in superficie, mentre il vero «nucleo» dell’anima rimane invariato, sezionando così l’anima in parti che sono e parti che divengono. Naturalmente, Damascio conviene sul fatto che il cambiamento nell’anima si evidenzi per lo più nelle sue attività sempre mutevoli. Ma come possono cambiare queste attività, si chiedeva, se la sostanza da cui procedono rimane totalmente invariata? D’altra parte, come può cambiare la sostanza, se essa è, per definizione, ciò che preserva l’identità e permane durante il cambiamento? In cosa allora l’anima differisce dal corpo sensibile, che scorre incessantemente nel divenire, senza essere capace di conservare il proprio eidos? Damascio sottolinea che l’anima, nonostante il suo cambiamento sostanziale, rimane una numericamente, e preserva la sua identità, perché è la sola sostanza che cambia se stessa. Come auto-movente, l’anima possiede il suo essere proprio in questo continuo auto-cambiamento. La sua essenza non è fissata immutabilmente e può essere realizzata a un grado maggiore o minore partecipando di differenti livelli di realtà. Questo non significa che l’anima possa divenire qualunque cosa, poiché la sua auto-determinazione rimane 256
ristretta all’ambito della struttura essenziale della sua esistenza (eij`do" th`" uJpavrxew"). Anche se la soluzione che Damascio offre non è del tutto soddisfacente, l’importanza del suo argomento sta nel fatto che egli riconosce chiaramente che l’applicazione tradizionale delle categorie di sostanza e di accidente risultava inadeguata a spiegare i cambiamenti propri dell’anima umana. La dottrina che Giamblico sviluppa nel suo trattato Sull’anima, suscitò anche l’ammirazione di Prisciano di Lidia, che vi trovò il Vorverständnis appropriato, necessario per spiegare il trattato di Aristotele Sull’anima in modo conforme alla verità. Confrontando le due opere di Prisciano, in cui sono date interpretazioni diverse della noetica aristotelica, possiamo stabilire la maniera in cui Prisciano sviluppa la dottrina di Giamblico, applicandola al testo commentato. Egli prende le mosse dall’idea basilare di Giamblico, secondo cui l’anima subisce un cambiamento sostanziale quando scende nel corpo per renderlo un essere vivente. Producendo vite inferiori, attraverso cui diventa intrecciata al corpo, l’anima procede fuori dalla sua essenza e diviene alienata da sé. Tuttavia, pur procedendo, rimane stabile in se stessa, perché ritorna sempre a sé. Il fatto di essere simultaneamente estraniata da sé e presente a se stessa si rende manifesto soprattutto nella vita razionale dell’anima. Nell’atto del conoscere, l’anima cerca di acquisire, gradualmente e con difficoltà, la comprensione dell’essenza delle cose. Non è necessario che tale comprensione sia cercata fuori di sé, poiché i logoi di tutte le cose sono presenti nella sua stessa essenza. Tuttavia, poiché, uscendo da sé, si aliena dalla sua stessa essenza, la sua comprensione dei concetti universali si deteriora in mera potenzialità: l’anima non è più conscia di ciò che porta in sé. Ma quando ritorna in sé e non dirige 257
più le sue attività verso l’esterno, lasciandole diventare identiche alla sua propria essenza, allora conosce gli esseri in atto. In quanto l’anima è fuori di sé, è «intellettoin-potenza». In quanto permane in sé, è «intelletto-in-atto». La conoscenza è dunque un auto-perfezionamento dell’anima, per cui essa è, allo stesso tempo, ricettiva e attiva rispetto a se stessa. Nella conoscenza, l’anima passa dall’alienazione all’unione con se stessa, e può così vincere l’alterità che minacciava la sua identità. Prisciano cerca anche di comprendere in termini giamblichei la relazione tra l’anima e l’intelletto. L’intelletto di cui l’anima partecipa è considerato come il principio determinante o la causa formale della razionalità dell’anima, ossia ciò che la rende una sostanza pensante. In quanto esso determina l’anima nel suo passaggio dalla potenza all’atto, può anche conoscere una certa alterità e potenzialità. Per questo, Giamblico vedeva, in questo intelletto partecipato, il nou`" dunavmei come distinto dall’Intelletto Assoluto, che egli identificava con il nou`" ejnergeiva./ Questa identificazione, benché accettata nella Metafrasi, è invece respinta da Prisciano nel Commento al De anima. Il nostro studio ha mostrato la rilevanza di Giamblico nello sviluppo del Neoplatonismo e soprattutto la sua influenza durante l’ultimo periodo dell’Accademia Ateniese, in cui spesso è preferito a Proclo. È alla luce di questa influenza, che possiamo rispondere alla questione riguardante la relazione che esiste tra Prisciano e Damascio. Come sappiamo da Agazia, entrambi fecero parte del gruppo di filosofi che emigrarono in Persia dopo la chiusura dell’Accademia. Prisciano fu un discepolo di Damascio, come lo fu Simplicio? Probabilmente no, perché Prisciano non cita mai il suo nome. D’altra parte, le loro rispettive dottrine sull’anima hanno molto in comune. Per quanto ov258
via possa essere la loro affinità, difficilmente si può spiegare con l’ipotesi della dipendenza di uno dall’altro. Abbiamo infatti stabilito che entrambi svilupparono la dottrina del cambiamento sostanziale dell’anima ognuno in modo unico e originale. Damascio diede particolare attenzione al problema di come l’identità dell’anima possa essere preservata anche quando cambia la sua sostanza, e vide la soluzione in una distinzione tra la «forma della partecipazione» e la «forma della hyparxis». Non troviamo nulla del genere in Prisciano, che si occupò soprattutto di come l’anima, nel processo di conoscenza, simultaneamente proceda da sé e permanga in sé. Pertanto, la nostra conclusione è che ciò che è comune nel loro insegnamento sull’anima debba essere spiegato attraverso la loro dipendenza, distinta ma diretta, da Giamblico, nei cui confronti entrambi provarono grande ammirazione. Le considerazioni offerte da Giamblico, Damascio e Prisciano sull’anima come sé-in-cambiamento sono ancora opportune. Certamente, essi non ebbero a loro disposizione una terminologia adeguata per esprimere questa problematica – una situazione destinata a persistere per alcuni secoli ancora. Le categorie di «sostanza» e «atto» continuarono a essere impiegate nel tentativo di occuparsi di questo intrattabile problema. Così, Descartes si sentì obbligato a inferire l’esistenza di una res cogitans dall’atto del pensare. Anche Leibniz lottò con un simile problema quando introdusse una distinzione tra l’identità reale (basata su «une unité substantielle») e l’identità morale (basata sulla coscienza). L’unità sostanziale dell’anima sarebbe crollata solo sotto la critica di Kant, in congiunzione con gli Empiristi inglesi. Da allora in poi, il problema sarebbe stato posto fondamentalmente in termini di autocoscienza. Tuttavia, fu solo il rifiuto definitivo della dico259
tomia corpo-anima nell’uomo, da parte della filosofia moderna, che rese possibile articolare adeguatamente l’identità-in-cambiamento che è propria dell’uomo in quanto essere psicosomatico. Può ben essere che soltanto ora siamo in grado di cogliere le vere implicazioni della definizione platonica dell’anima come «il medio tra il divisibile e l’indivisibile».
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Appendice Dopo trent’anni… uno sguardo retrospettivo
Dalla pubblicazione di The Changing Self (1978, PhD 1974), gli studi sul Neoplatonismo hanno fatto grandi progressi, in particolare attraverso nuove edizioni annotate e traduzioni dei testi principali1. Tuttavia, nonostante la gran quantità di letteratura secondaria, la tesi generale del mio libro mi sembra tenere dopo trenta anni. Pertanto, invece di fare una revisione completa dell’intero libro, preferisco aggiungere alla presente traduzione italiana un’appendice, in cui discuto nuovi elementi che possono confermare, mettere in discussione o precisare la mia tesi. Nella traduzione italiana, si è rispettato il testo e le note originali (con la correzione di piccoli errori), eccetto nella parte su Damascio, in cui tutti i riferimenti sono stati adattati alle nuove edizioni del De principiis e dell’In Parmenidem di L.G. Westerink e J. Combès nella «Collection des Universités de France» (collection G. Budé), Les Belles Lettres, Paris, rispettivamente 1986-1991 e 1997-2003. Tali nuove edizioni, con traduzione francese, ampie intro1 Per un quadro critico generale degli studi recenti sul Neoplatonismo, cfr. C. STEEL / CH. HELMIG, Neue Forschungen zum Neuplatonismus (19952003), «Allgemeine Zeitschrift für Philosophie», 29 (2004), I, pp. 143-62; II, pp. 225-47.
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duzioni e annotazioni, hanno rivoluzionato la nostra comprensione del pensiero di Damascio; non adattare a esse la versione italiana sarebbe stato imperdonabile.
Parte prima: Giamblico Il trattato di Giamblico Sull’anima sopravvive in frammenti nell’antologia di Giovanni Stobeo. Per il mio lavoro, ho fatto uso dell’edizione di Stobeo curata da Wachsmuth e dell’eccellente traduzione francese annotata di A.J. Festugière, pubblicata in appendice al suo La révélation d’Hermès Trismégiste, vol. 3, Paris 1953. Nel 2003 John Finamore e John Dillon hanno pubblicato Iamblichus, De Anima. Text, Translation, and Commentary, Leiden-Boston-Köln 2002. Tale volume contiene il testo greco e la traduzione inglese delle sezioni pervenute del De anima, seguite da un commento. Sono stati collazionati in una Appendice i testimoni dell’opera perduta di Giamblico, tratti dallo Pseudo-Simplicio e da Prisciano, con testo greco, traduzione inglese e commento2. L’introduzione fornisce uno sguardo generale sulla vita e le opere di Giamblico, un’analisi del De anima, e discute l’identità dello PseudoSimplicio. Tale nuova edizione integra molto validamente nuovo materiale proveniente da recenti ricerche, ma di fatto non supera l’opera pionieristica di Festugière, da cui dipende fortemente, sia per le emendazioni all’edizione di Wachsmuth (che è stata ristampata), sia per le annotazio2 Nella mia introduzione, p. 19, n. 44 sollevo la possibilità di recuperare frammenti del trattato perduto di Giamblico nell’opera di Pietro Atanasio. Da allora, D. O’Meara ha esaminato l’opera di questo studioso, ma senza trovare nulla: cfr. il suo articolo, The philosophical Writings, Sources and Thought of Athanasius Rhetor (ca. 1571-1663), «Proceedings American Philosophical Society», 121 (1977), pp. 483-549.
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ni. Per quanto riguarda i frammenti di Prisciano e di Simplicio, sono state ristampate le edizioni dei commenti di Berlino (con, ahimè, un apparato caotico, pieno di errori); la traduzione inglese risulta spesso inferiore a quella già pubblicata nella serie «Ancient Commentators on Aristotle». Non è stato necessario, dunque, modificare sostanzialmente la mia presentazione delle idee di Giamblico, contenuta nella prima parte. Il commento di Finamore e Dillon fornisce, comunque, alcuni nuovi argomenti di cui intendo trattare in questa appendice. Che Giamblico sia stato il primo a difendere la dottrina del cambiamento sostanziale dell’anima particolare, è una tesi ora comunemente accettata. Cfr. l’indagine bibliografica su questo tema condotta da C. Luna nella sua annotazione di DAMASCIUS, In Parm., IV, p. 2, n. 2 (note compl.; pp. 148-49). L’innovativa dottrina di Giamblico venne adottata da Damascio e da Prisciano. Sulle possibili anticipazioni di questa dottrina in Plotino, Porfirio e Agostino, e sulla sua influenza su Ierocle e Simplicio, cfr. I. HADOT, Simplicius. Commentaire sur le ‘Manuel’ d’Epictète, Leiden-New YorkKöln 1996, pp. 100-7. Un’altra testimonianza sulla dottrina di Giamblico, non ancora messa a frutto nel mio libro, si trova nel mio contributo al volume L’âme: modèle et image, in H.J. BLUMENTHAL e E.G. CLARK (eds.), The Divine Iamblichus, Bristol Classical Press, Bristol 1993. Muovendo da un’analisi di PROCLUS, In Parm., II, 743, 25-746, 40, sostengo in questo scritto che Proclo segue strettamente Giamblico nelle sue speculazioni su immagine e paradigma. Giamblico assume una posizione a metà strada fra quella di Numenio e quella di Porfirio: si richiama a Porfirio rifiutan263
do di ammettere delle immagini nell’intelligibile, ma lo critica poiché egli colloca la partecipazione esclusivamente nel campo delle cose sensibili: «Come dunque? Diremo forse che solo le cose sensibili e fenomeniche siano delle immagini? Ma Platone stesso ha chiamato il tempo “immagine” dell’eternità. Ora quel che il tempo è all’eternità, l’anima è all’intelletto [...] così che l’anima avrà la funzione di immagine in rapporto all’intelletto» (PROCLUS, In Parm., 744, 34-745, 3). Non bisogna dunque meravigliarsi che Platone parli, nel Timeo, non soltanto della generazione del mondo, ma anche della generazione dell’anima, benchè quest’ultima sia per essenza ingenerata. L’anima è il primo principio che prende parte al tempo e al divenire. Se l’anima è il primo principio che abbia subìto la divisione, ed è la prima delle realtà in divenire, essa è anche ciò che è primariamente «immagine». Mentre la natura intelligibile è soltanto paradigmatica, il mondo corporeo non ha esistenza se non come immagine. Ma l’anima che è «insieme indivisibile e divisibile è anche allo stesso tempo paradigmatica e iconica affinchè essa conservi per questo aspetto la medietà che la contraddistingue (i{na kai; tauvth/ diaswvzh/ th;n mesovthta ...)» (PROCLUS, In Parm., 745, 15-18). Come abbiamo dimostrato in Il Sé che cambia (pp. 45-46), Giamblico spesso conclude un’argomentazione facendo risultare la medietà caratteristica dell’anima da questa specie di formula; ed è proprio l’impiego di questa formula da parte di Proclo a rivelare che egli segue qui ancora l’argomentazione di Giamblico. Tale nuova testimonianza di Proclo rappresenta un contributo importante al fine di comprendere meglio la dottrina originale sull’anima professata da Giamblico. La tesi del cambiamento sostanziale è collegata a un’altra tesi (rivolta contro Plotino), secondo cui l’anima scende 264
interamente nel mondo del divenire e nessuna parte di essa rimane al di sopra e sfugge al cambiamento. Su questo tema, tuttavia, devo aggiungere alcune precisazioni. Sembra infatti che Giamblico abbia distinto diversi tipi di anime particolari3. Le anime della classe più alta godono senza interruzioni dello stato felice che Plotino attribuisce a tutte le anime: esse non scendono mai interamente. Ciò è quanto si apprende da Damascio. Nel suo commento alla terza ipotesi del Parmenide, che nella sua interpretazione tratta dell’anima particolare che scende nel mondo del divenire, Damascio pone il problema seguente: «che cos’è il diacosmo delle anime particolari che risulta dalle conclusioni, giacché intanto vi sono delle conclusioni in quanto vi sono ordini di tali anime?» (DAMASCIUS, In Parm., IV, p. 1, 11-12). Come spiega più avanti lo stesso Damascio, è stato Siriano il primo a sollevare questo problema. Siriano ha sempre insistito sul fatto che non si devono attribuire tutte le conclusioni della seconda ipotesi alla stessa realtà (l’Uno che è). Le differenti deduzioni corrispondono ai differenti livelli dell’Uno-che-è, dalle supreme divinità intelligibili alle classi inferiori dei corpi divini. Proclo assume questo principio come base della sua interpretazione (cfr. PROCLUS, Theol. Plat., I, 11). Siriano si chiede se non si possa applicare questo stesso principio ermeneutico nell’interpretazione delle ipotesi successive. Si consideri la terza, in cui si trovano sei deduzioni; esse non possono caratterizzare lo stesso tipo di anima, ma devono corrispondere a sei differenti tipi di anime. Siriano aveva visto giusto, ma non ha sviluppato questa interpretazione. Proclo lo ha fatto, e, 3 Il primo ad attrarre la mia attenzione su questo problema è stato R. M. van den Berg in una conferenza a Liverpool su Giamblico. Cfr. il suo articolo The Myth of the Winged Charioteer according to Iamblichus and Proclus, «Syllecta Classica», 8 (1997), pp. 15-30.
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seguendo la sua ispirazione, Damascio ha distinto sei tipi di anime (DAMASCIUS, In Parm., IV, p. 23, 17-21). Di particolare interesse per la mia argomentazione è il primo gruppo di anime particolari, che corrispondono alla prima deduzione: «esso partecipa all’essere (oujsiva") e non partecipa di esso» (PLATO, Parm., 155 E 7-8). Damascio spiega lo stato di queste anime come segue: «La prima specie indicata per la partecipazione [all’essere] è la più elevata fra quelle. Essa, scendendo nella generazione, tuttavia non discende, come dice il grande Giamblico nel suo scritto Sulla migrazione dell’anima fuori dal corpo. Questa specie dunque discende e risale senza subire il divenire (ajgenhvtw"); soltanto essa partecipa all’essere e non vi partecipa, poiché è in contatto con l’intelligibile oppure non lo è; la discesa di tali anime non fa che introdurre la loro presenza in questo mondo»4.
A prima vista queste affermazioni su Giamblico sembrano entrare in contraddizione con gli altri passi di Giamblico, in cui egli prende posizione contro Plotino, e difende il fatto che le anime umane scendano interamente nella generazione. Si potrebbe essere indotti a credere che Giamblico introduca qui una categoria di anime divine (cfr. Dodds, El. Theol., p. 309, n. 2), ma il contesto rende chiaro che egli ha in mente una classe delle anime umane. Queste anime discendono nel mondo senza tuttavia su4 DAMASCIUS, In Parm., IV, p. 24, 1-7: ’En me;n dia; tou` metevcein to; ajkrov-taton aujtw`n, o{per kai; katio;n eij" gevnesin o{mw" ouj kavteisin, w{" fhsin oJ mevga" ΔI avmblico" ejn tw`/ Peri; yuch`" metanastavsew" ajpo; swvmato": tou`to ouj`n ajgenhvtw" katio;n kai; ajniovn, metevcei movnon oujsiva" kai; ouj metevcei: suvnestin ga;r tw`/ nohtw/` movnon h] ouj suvnestin, kai; hJ kavqodo" tw`n toiouvtwn yucw`n parousivan movnon ejmpoiei` pro;" ta; th`/de. Cfr.
l’eccellente nota ad locum di C. Luna con commenti sul titolo dell’opera di Giamblico citata (p. 159).
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bire il processo del divenire. Solo la seconda classe di anime entra già nel divenire, come si apprende dalla seconda deduzione di Parmenide: «l’Uno, quando acquisisce o perde l’essere, viene a essere (givgnetai) e cessa di essere (apovllutai)» (PLATO, Parm., 156 A 4-B 1). Sembra, dunque, che Giamblico abbia ammesso che alcune anime umane più alte possano limitare la loro discesa nel regno del divenire appena a una presenza, senza soffrire alcun cambiamento sostanziale o danno. Su questa categoria di anime traiamo qualche informazione in più da una sezione del suo trattato Sull’anima, che si è conservata in Stobeo, I, 49, t. I, p. 379, 22-24 Wachsmuth (p. 56, 19-21 Finamore-Dillon). Giamblico esamina attentamente vari tipi di discesa di anime e differenti ragioni per l’incarnazione. Alcune anime, dice, «discendono per la salvezza, purificazione e perfezione del mondo di quaggiù». Tali anime restano «immacolate nella loro discesa». Probabilmente si devono identificare queste anime con quelle che egli menziona in seguito, «che sono state in compagnia degli dèi nella contemplazione delle Forme». Secondo il mito del Fedro «qualunque anima sia divenuta seguace di un dio, e abbia visto qualcuna delle verità, non subirà danni fino al giro successivo, e se riesce a far ciò ogni volta, rimarrà illesa per sempre» (PLATO, Phaedrus, 248 C). Questo passo del mito del Fedro ha posto sempre qualche difficoltà ai Platonici. Come si può accettare che alcune anime sfuggano completamente all’incarnazione? In un frammento superstite del suo commento al Fedro, Giamblico fornisce la seguente spiegazione: si può dire che le anime non scendono «a causa della forma della loro vita che origina una discesa che non implica generazione e che non spezza il suo legame con il regno superiore» (IAMBLICHUS, In Phaedr., fr. 7 ed. Dillon). Questo 267
passo costituisce un interessante parallelo con la citazione riportata da Damascio. Possiamo concludere dunque che Giamblico abbia ammesso che alcuni tipi di anime possano limitare la loro «discesa nel corpo» appena a una presenza nel corpo, senza subire alcun danno. Quando stanno nel corpo, queste anime rimangono in contatto con l’intelligibile. Secondo le stesse parole di Giamblico, tali anime sono «rivolte contro il regno del divenire (ajpovstrofoi hj`san th`" genevsew")» (In Phaedr., fr. 7 ed. Dillon); esse mantengono una connessione «ininterrotta (ajdiavkopon)» con il mondo intelligibile (In Phaedr., fr. 5 ed. Dillon); restano «senza passioni e senza essere private dell’intellezione» (STOBAEUS, Anth., p. 379, 23-24 Wachsmuth; p. 56, 10-12 Finamore-Dillon). Tutto ciò corrisponde esattamente allo stato delle anime plotiniane che non discendono interamente nella generazione, ma mantengono sempre una parte al di sopra, che non è mai privata del pensiero. Dello stesso Plotino, Porfirio dice che egli potrebbe mantenere il suo pensare ininterrotto (ajdiavkopon) (PORPHYRIUS, Vita Plotini, 8, 11). Ma allora abbiamo esagerato erroneamente la differenza fra Giamblico e Plotino? O è Giamblico a non essere coerente con se stesso? Non credo. Quel che Plotino ritiene sia il carattere di ogni anima umana, è per Giamblico il privilegio di una categoria superiore di anime, che discendono per «la salvezza, purificazione e perfezione» di questo mondo. Come scrivono Finamore e Dillon: «Iamblichus must have envisioned thinkers such as Pythagoras and Plato»5. Con la loro vita esemplare e con la loro dottrina filosofica essi sono venuti in questo mondo come be5 J. FINAMORE / J. DILLON (eds.), Iamblichus, De Anima. Text, Translation, and Commentary, Leiden-Boston-Köln 2002, p. 162.
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nefattori e salvatori. Si apprende di più su questa categoria di anime in PROCLUS, De malorum sub., capp. 21-22: cfr. PROCLUS, On the Existence of evil, translated by J. Opsomer and Carlos Steel, London 2003, pp. 72-73 (con annotazioni).
Parte seconda: Damascio Il mio studio sulla dottrina dell’anima di Damascio si basa su un’analisi della sua interpretazione della terza ipotesi del Parmenide. Questo testo estremamente difficile mi ha procurato non pochi problemi. Abbiamo ora a disposizione la nuova edizione di quest’opera con traduzione e annotazioni nel quarto volume dell’edizione di WesterinkCombès, pubblicata nel 2004. Quest’ultimo volume è stato preparato per la pubblicazione da Concetta Luna, alla quale dobbiamo anche ottimi indici e annotazioni. Tale nuova edizione rappresenta in ogni senso un eccellente complemento alla seconda parte del mio libro. Non riassumo quanto ho imparato da essa, ma rinvio il lettore a tale edizione6. Tuttavia, vorrei precisare la tesi che ho difeso nel mio libro su due punti. Non mi sono reso conto che Damascio non ha difeso sempre la posizione di Giamblico sul cambiamento sostanziale dell’anima. L’importante nota complementare di C. Luna, IV, p. 12, n. 2 (pp. 148-49) mi ha convinto ora che Damascio ha adottato solo in un secondo momento le idee di Giamblico. Nel De principiis egli condivide ancora le idee di Siriano e di Proclo circa l’immutabilità dell’anima (cfr. De princ., I, pp. 34, 1-8; 59, 20-23). Ma, verso la fine 6 Su qualche punto ho idee diverse da quelle dell’editore: cfr. il mio resoconto di prossima pubblicazione su «Gnomon», 2006.
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del trattato, Damascio sembra esprimere dei dubbi su questa posizione. Nel contesto di una discussione sugli esseri immobili, egli nota che vi è anche nelle forme corporee e nelle anime «un carattere immutabile secondo la loro sostanza», anche se esse non sono eterne in senso stretto: «in quanto immortali, in effetti, le anime non ammettono né una qualche aggiunta né una qualche soppressione, né, in una sola parola, qualche cambiamento. Poiché la loro sostanza o è eterna, come vogliono il più delle volte i filosofi, oppure appartiene al divenire, pur essendo del tutto immutabile. Infatti, è necessario riconoscere che esiste anche un divenire di questo tipo, e che tutto l’immutabile non è necessariamente eterno» (DAMASCIUS, De princ., III, p. 76, 2-7).
Con la particella «oppure» (h]) Damascio introduce una visione alternativa alla dottrina comune dei «filosofi» che considerano l’anima una sostanza eterna. Si può intendere l’anima come sia generata che immutabile. Non è chiaro se Damascio qui alluda all’opinione di Giamblico sulla mutevolezza dell’anima. Dopotutto, anche Proclo potrebbe essere stato d’accordo sul fatto che l’anima sia tanto generata quanto immutabile. Comunque, è interessante che Damascio ravvisi un’altra possibilità per comprendere il carattere immutabile dell’anima. Per un’ulteriore indagine su come qualcosa possa essere sia gevnnhto" che immutabile, Damascio fa riferimento ad altre opere (ejn a[lloi"). Come indica Combès nella sua nota a p. 76, n. 6 (nota compl. p. 201), potrebbe trattarsi di un riferimento al perduto commento al Timeo. Infatti quest’opera viene citata nell’In Parmenidem ogni qualvolta Damascio difenda la tesi che l’anima sia mutevole anche nella sua sostanza. Cfr. In Parm., IV, pp. 10, 24; 12, 2-3; 41, 15; 42, 18. Per spiegare come l’anima possa restare identica in un 270
cambiamento sostanziale, Damascio si richiama alla distinzione fra u{parxi" e mevqexi": «l’anima preserva la forma della sua esistenza (eij`do" uJpavrxew"), ma cambia la forma della sua partecipazione sostanziale (oujsiwvdou" meqevxew") (cfr. Il Sé che cambia, pp. 176-177). Damascio usa quest’ultima espressione tre volte: cfr. In Parm., IV, p. 45, 1820; p. 47, 5-7; p. 47, 20. Avevo notato che Simplicio la usa due volte nel suo commento alle Categorie. Tuttavia, vi sono altri paralleli oltre a quelli che ho indicato nelle note al mio libro, p. 177: cfr. C. Luna, In Parm., IV, p. 47, n. 2 (note compl. p. 171). Così Proclo (In Alc., 205, 17) scrive che le cose inferiori non ricevono dalle Forme soltanto il nome, ma anche la loro «partecipazione sostanziale», meta; th`" oujsiwvdou" meqevxew". Quest’uso si trova anche in DIONYSIUS, De div. nom., 148, 18. Un parallelo ancor più stretto (non menzionato da C. Luna) è PROCLUS, In remp., I, 264, 2-3: to; me;n ga;r eij`do" th`" ejn aujtoi`" uJpavrxew" eJstwvsh" ai[tiovn ejstin, to; de; meriko;n ij-divwma th`" metabolh`". Proclo discute la natura dei corpi
celesti: mentre i corpi sublunari sono più individui in una sola specie, la specie e il singolo particolare sono nel caso dei corpi celesti realmente identici. Comunque, anche in questo caso si può fare una distinzione fra «la forma della loro esistenza stabile» e «il particolare carattere del loro cambiamento». Proclo usa l’espressione th`" uJpavrxew" eij`do" anche in altri contesti per indicare il tipo di essere che una cosa può acquisire. Così, in Theol. Plat., I, p. 31, 16-19; III, p. 9, 711; V, p. 48, 15-17. La troviamo impiegata nello stesso senso in PHILOPONUS, De aeternitate mundi, 427, 23-24: «la ragione dell’esistenza di una cosa particolare è la sua forma e sostanza» (oJ de; th`" uJpavrxew" eJkavstou lovgo" eij`do" aujtou` ejstin kai; oujsiva). Allo stesso modo in AMMONIUS, De 271
interpretatione, p. 67,11-12: to; e}n tw`n toiouvtwn lovgwn eij`do" uJpavrxew" mia`" dhlwtikovn.
Parte terza: Prisciano e il suo commento «Sull’anima» La terza parte del mio libro esamina la dottrina dell’anima di Prisciano Lido, il quale è, a mio avviso, l’autore del commento Sull’anima, tradizionalmente attribuito a Simplicio. Al tempo della pubblicazione, il mio convincimento circa tale attribuzione era così forte che non ritenni necessario sviluppare ulteriormente gli argomenti presentati nello studio condotto insieme a F. Bossier nel 1972. In seguito ho avuto l’opportunità di sviluppare le nostre argomentazioni nell’introduzione alla mia traduzione inglese del commento a De anima II, 5-12. Cfr. Priscianus. On Theophrastus on Sense-Perception, tradotto da Pamela Huby; ‘Simplicius’. On Aristotle. On the Soul 2. 5-12, tradotto da Carlos Steel, London 1997, pp. 105-40. La mia argomentazione si articolava in due parti: 1) Il commento non è opera di Simplicio; 2) Il commento deve essere attribuito a Prisciano di Lidia. La prima tesi è oggi generalmente accettata dagli studiosi, con l’eccezione di Ilsetraut Hadot. La seconda, con mio stupore, è ancora riguardata con un certo scetticismo. Questa appendice mi offre l’opportunità di chiarire la mia posizione riguardo al recente dibattito sulla questione dell’attribuzione.
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1. Il commento non è opera di Simplicio Questa tesi è oggi generalmente accettata, e sono stati avanzati anche nuovi argomenti per corroborarla7 o per respingere confutazioni8. L’unica eccezione è rappresentata da Ilsetraut Hadot, un’autorità sull’opera e il pensiero di Simplicio9. Anche se ha accettato inizialmente la mia tesi, la Hadot in seguito ha ritrattato le sue posizioni e recentemente ha pubblicato un articolo polemico in cui tenta di confutare gli argomenti contrari all’autenticità10. Così chiude il suo articolo: «in the last analysis, in the whole of C. Steel’s argumentation, there is not one decisive argument which would allow us to conclude that the commentary on the De anima attributed by direct and indirect tradition to Simplicius, is inauthentic». Non è questo il luogo per sferrare una polemica contro tale articolo, anche 7 Cfr. M. PERKAMS, Doppelte Entelecheia. Das Menschenbild in «Simplikios» Kommentar zu Aristoteles «De Anima», «Elenchos», 24 (2003), pp. 57-91, in particolare pp. 84-89. J. FINAMORE / J. DILLON, Iamblichus. De Anima cit., pp. 18 ss.: «let us state at the outset that we are in complete agreement with Steel that this works is not by Simplicius». Cfr. anche C. LUNA, nella sua recensione di R. THIEL, Simplikios und das Ende der neuplatonischen Schule in Athen, Stuttgart 1999, «Mnemosyne», 54 (2001), pp. 482505, in particolare n. 54: «je crois, en réalité, que les arguments présentés par C. Steel pour nier l’attribution de ce commentaire à Simplicius et en proposer l’attribution à Priscien sont irréfutables». 8 Cfr. M. RASHED, Traces d’un commentaire de Simplicius sur la Métaphysique à Byzance?, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 84 (2000), pp. 275-84. 9 Cfr. I. HADOT (ed.), Simplicius. Sa vie, son oeuvre, sa survie, Berlin-New York, 1987; Simplicius, Commentaire sur le ‘Manuel’ d’Epictète, LeidenNew York-Köln 1996 (l’importante introduzione dottrinale offre la migliore esposizione degli argomenti di I. Hadot contro la mia visione). 10 Cfr. I. HADOT, Simplicius or Priscianus? On the Author of the Commentary on Aristotle’s De Anima (CAG XI): A Methodological Study, «Mnemosyne», 55 (2002), pp. 159-99.
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se esso presenta spesso una visione distorta delle mie argomentazioni. Mi limiterò a quell’argomento, che è a mio avviso il più decisivo, ma… che, con mia sorpresa, non è neanche menzionato da Hadot, ed è ben lontano dall’essere confutato da lei. L’argomento è abbastanza semplice. Gli autoriferimenti che l’autore del commento fa alle sue precedenti opere non corrispondono a quanto si trova nelle opere indubitabilmente autentiche di Simplicio. Nel commento Sull’anima l’autore si riferisce esplicitamente alle sue opere precedenti sei volte. Due riferimenti sono al commento alla Metafisica: essi sono difficili da verificare poiché tale commento non si è conservato. Vi sono alcuni riferimenti problematici a quest’opera, ma è stato dimostrato che non si possono attribuire a Simplicio11. Vi è un riferimento a una Epitome della Fisica di Teofrasto: non si conosce di Simplicio nessun’opera del genere; secondo me, si tratta di un riferimento alla Metafrasi di Prisciano. Rimangono tre riferimenti espliciti a un commento alla Fisica. Se fosse realmente Simplicio l’autore del commento Sull’anima, non sarebbe stato difficile trovare nel suo voluminoso commento alla Fisica il passo cui si riferisce nel suo In de anima. E invece, come ho dimostrato nel mio studio, non troviamo nessuna conferma di questi riferimenti ben precisi nel commento alla Fisica. Dopo aver letto la confutazione di Hadot (in cui non si fa parola di questi problematici riferimenti!), ho verificato attentamente tutti gli altri riferimenti alla Fisica di Aristotele nell’In de anima; anche se l’autore non si richiama esplicitamente al suo commento al testo, si può supporre che egli abbia espresso nel suo commento ad locum idee simili. Ma di nuovo non si trova alcuna conferma dei rife11
Cfr. l’articolo di M. RASHED citato nella n. 8.
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rimenti nel commento di Simplicio. Non esaminerò tutti i riferimenti alla Fisica (circa 25!); mi limiterò agli esempi più significativi. In de an., 36, 11-12: «Sempre ciò che origina cambiamento è caratterizzato dalla stessa forma di ciò che cambia (kata; to; eij`do" i{statai tou` kinoumevnou), come egli dice nel terzo libro della Fisica: “il cambiamento sarà sempre di un certo tipo”». La particolare espressione kata; to; eij`do" i{statai ricorre sette volte nell’In de an., ma non è mai usata da Simplicio, neanche nella sezione del commento in cui spiega il testo aristotelico qui citato, III, 2, 202 A 9. La stessa espressione si trova una volta in Prisciano! In de an., 59, 24-30: «Che le cose periscano attraverso la privazione, ce lo insegna lo stesso Aristotele nel primo libro della Fisica. La forma di ciò di cui vi è privazione non ammette essa stessa privazione (poiché niente ammette il suo opposto), né ciò che partecipa connaturalmente (sumfuw`") della forma, come il fuoco non ammette il freddo, dato che partecipa connaturalmente del suo opposto. Così qualunque cosa perisca, perisce a causa dell’esistenza che ha ricevuto in modo avventizio (ejpikthvtw")». Troviamo nel commento di Simplicio a Fisica A 9 una lunga discussione sulla privazione, ma egli non usa mai le stesse espressioni per spiegare ciò che può essere soggetto alla stevrhsi". Ciò che è ancor più degno di nota è che anche la frase kata; stevrhsin hJ fqorav, che si suppone riassuma le visioni di Aristotele in A 9, non viene usata da Simplicio, non solo ad locum, ma in tutta la sua opera. Anche l’espressione ejpikthvtw" non è mai usata da Simplicio in tutta la sua opera. Ma solo nell’In de anima troviamo venti esempi di questo avverbio, e vi è in Prisciano un esempio nello stesso contesto: 21, 14-15: kata; th;n th`" zwh`" me275
tavlhyin ejpikthvtw". Allo stesso modo sumfuw`" ricorre 18
volte in questo commento, e solo due volte nel Simplicio autentico, ma in un contesto completamente diverso. In de an., 112, 5-9: «La causa efficiente è quella che costituisce una cosa per generazione, giacché Aristotele non chiama causa efficiente quella che fa esistere una cosa senza generazione, ma causa finale (“Esti me;n to; poihtiko;n to; dia; genevsew" uJpostatikovn, wJ" to; a[neu genevsew" ouj poihtiko;n ajlla; to; teliko;n). Avendo ricercato nell’VIII
libro della Fisica che cos’è ciò che dà agli elementi il loro movimento naturale, egli mostra che è ciò che li fa esistere (to; uJposth`san)». Qui di nuovo l’idea non è estranea a Simplicio (cfr. commento a Fisica 8, 4, 254 B 33-256 A 2: pp. 1362-63); ma la terminologia è ben diversa. Non troviamo mai Simplicio far uso del termine uJpostatikovn nella sua definizione della causalità efficiente e finale. In de an., 130, 29-34: «È proprio delle qualità passive trovarsi in modo trasformato (kata; troph;n) e passivo in ciò che le riceve. Tutte le cose che vengono a essere hanno bisogno di esse per rendersi adatte alla ricezione delle forme, ma, una volta predisposte, non sono più perfezionate in modo passivo, ma dalle forme attraverso la loro presenza attiva (ejnerghtikh;n parousivan)… Come è spiegato nell’VIII libro della Fisica». Come nota già Hayduck, il riferimento non è al libro VIII, ma al libro VII 3, 245 B 9-246 B 3. La visione espressa nell’In de an. non è, naturalmente, originale, è dopotutto un riassunto dell’argomentazione di Aristotele. Ma originale è di nuovo la formulazione, di cui non possiamo trovare nessun parallelo nel commento alla Fisica. Vi è un altro riferimento allo stesso passo del libro VII: cfr. In de an., 123, 15 ss. 276
«Aristotele fornisce anche la differenza fra il cambiamento dell’anima dall’ignoranza alla conoscenza e quello dal possesso all’esercizio: il primo è prodotto da insegnamento e apprendimento, da cui deriva un certo cambiamento corporeo, come è detto nel VII libro della Fisica, il secondo attraverso la subitanea proiezione di concetti da se stessa» (kata; th;n ajfΔ eJauth`" ajqrovan tw`n lovgwn probolhvn).
L’espressione tw`n lovgwn probolhv è di nuovo caratteristica dell’In de an. (9 volte). Simplicio la usa due volte in una citazione di Giamblico (In cat. 350, 30; In phys., 786, 18). Mai, però, nella spiegazione di Fisica, VII, 3. Anche se l’autore dell’In de an. può aver adottato quest’uso dalla sua lettura di Giamblico, egli non si riferisce a Giamblico nel passo sopra citato, ma ad Aristotele nel modo in cui egli lo intende. Non sorprende forse che egli non spieghi Aristotele in questo stesso modo ad locum nella Fisica? Al contrario, Prisciano ama particolarmente questa espressione, tanto che la usa cinque volte nella sua breve Metafrasi. Come abbiamo notato più volte, il vocabolario tecnico impiegato dall’autore del commento al De anima è in effetti spesso molto differente da quello usato da Simplicio nelle sue opere autentiche, benché entrambi gli autori provengano dalla tarda scuola neoplatonica. Ai numerosi esempi discussi nel mio studio del 1997 – che non sono stati presi sul serio da I. Hadot – potrei aggiungerne molti altri. Così, l’espressione eijdhtik... aijtiva o ai[tion non ricorre mai in Simplicio, mentre la troviamo 27 volte nell’In de an., e a essa possiamo aggiungere l’espressione eijdhtikhv ajrchv (3 volte), eijdhtikhv oujsiva (5 volte), eijdh-tikhv ejnevrgeia (6 volte e anche una volta in Prisciano!). L’espressione kritikhv ejnevrgeia ricorre 26 volte nell’In de an., e mai in Simplicio. Il termine tecnico neoplatonico aujqu277
povstaton (38 volte in Simplicio) è sorprendentemente as-
sente nell’In de an. Divergenze nel vocabolario tecnico fra opere differenti si possono spiegare per il diverso contenuto o scopo delle opere (questo è l’argomento di I. Hadot). Ma perché Simplicio eviterebbe l’uso di eijdhtikhv aijtiva nel suo commento alla Fisica? Inoltre, come ho mostrato nel mio articolo, vi sono molte differenze nel vocabolario non tecnico. Aggiungerò alcuni nuovi esempi che ho notato solo di recente. Un esempio rilevante è l’uso del verbo uJpantavw nel senso di “andare contro”, “obiettare”, “contraddire criticamente”: questo verbo è usato 127 volte da Simplicio nei suoi scritti autentici; non lo troviamo mai nell’In de an., benché vi siano molte occasioni per usarlo. Ma l’autore dell’In de an. preferisce altre espressioni. Il verbo dihvrqrwtai nel senso di “è stato spiegato” è usato 7 volte nell’In de an., mai in Simplicio (ma una volta in Prisciano!). L’autore dell’In de an. usa 9 volte uJfei`tai con genitivo (nel senso di “essere inferiore a”): mai in Simplicio. Egli preferisce anche forme del verbo uJpostrwvnnumai (18 volte), che non ricorre mai in Simplicio. ΔEfarmovttw è impiegato 38 volte in Simplicio, in particolare per indicare l’identità del motore e del mosso nell’automovimento; mai nell’In de an. C’è bisogno di altri argomenti? Nell’In de an. abbiamo 14 esempi dell’espressione avverbiale kai; prov" ge. In tutta l’opera di Simplicio non è mai usata (eccetto kai; prov-seti ge in una citazione di ARCHYTAS, In phys., 378, 14). È inutile dare ancora altri esempi. So che un’enumerazione di esempi non è mai una prova sufficiente. È necessaria un’informazione statistica più sofisticata per fare di questo argomento sul vocabolario una piena dimostrazione. Tuttavia, non si può negare che l’autore dell’In de an. esprima le sue visioni in un linguaggio che, benché gene278
ralmente neoplatonico, lo separa non solo da Simplicio, ma da quasi tutti i membri della scuola più tarda. Solo con Prisciano vi sono alcune somiglianze notevoli.
2. Il commento è opera di Prisciano di Lidia I miei principali argomenti per l’identificazione dell’autore dell’In de an. con Prisciano Lido sono: 1. Il riferimento dell’autore dell’In de an. (136, 26-29) alla sua precedente Epitome della Fisica di Teofrasto, che deve essere identificata con la Metaphrasis in Theophrastum di Prisciano. Oltre a questo riferimento esplicito, ce n’è un altro indiretto in 286, 27-32. 2. Aspetti stilistici e vocabolario peculiare che entrambe le opere hanno in comune. 3. Le due opere presentano dottrine distintive in comune ed entrambe sono profondamente ispirate dalla dottrina di Giamblico sull’anima. Nella loro introduzione, Finamore e Dillon discutono questi argomenti. Secondo loro, gli aspetti comuni (2 e 3) non provano necessariamente che le due opere abbiano lo stesso autore. Si possono spiegare, essi credono, se si ammette che i due autori abbiano composto i loro commenti usando lo stesso testo di Giamblico, il suo trattato Sull’anima. Non è un’ipotesi nuova, ma una che io stesso ho avuto per lungo tempo in mente. Contro di essa ho avanzato tre argomenti (cfr. Steel [SIMPLICIUS, On Aristotle On the soul 2. 512, London 1997], p. 135). 1. Un accurato confronto dei passi paralleli nelle due opere (e in particolare l’autoriferimento alla Metafrasi) dimostra che l’autore dell’In de anima sta lavorando con il 279
testo della Metafrasi davanti a sé (e non sta usando una terza fonte comune). 2. I passi paralleli non sono sezioni isolate, come nel caso in cui due autori usino indipendentemente una terza fonte: troviamo caratteristiche stilistiche e dottrinali attraverso tutte le due opere, il che si può spiegare solo con l’identità del loro autore. 3. Anche se le due opere dipendono da Giamblico, essi non lo citano mai letteralmente. Pertanto le loro principali caratteristiche stilistiche comuni non si possono spiegare con la terza fonte comune. Finamore e Dillon (18-24) dichiarano di rifiutare gli argomenti, a partire dall’ultimo nella sequenza, che essi fraintendono. Come essi stessi affermano, molti autori neoplatonici citano le loro fonti liberamente. Perciò «the fact that the two authors do not give accurate quotations from Iamblichus should not be used for evidence that they are the same person». Io sarei d’accordo con questa conclusione, ma il punto essenziale della mia argomentazione era un altro. Quando due autori utilizzano liberamente una fonte, questa non può spiegare il motivo per cui essi hanno in comune tante somiglianze stilistiche all’interno di tutte le loro opere. Questo terzo argomento, comunque, non è il mio argomento principale contro la “common source hypothesis”. Il primo rimane il più importante: l’autoriferimento all’epitome della Fisica di Teofrasto. Un confronto meticoloso del testo dell’In de anima con le sezioni corrispondenti della Metaphrasis dimostra che l’autore dell’In de anima sta di fatto utilizzando la sua precedente opera Metaphrasis per sviluppare la sua argomentazione. Il modo in cui riassume, ristruttura, riformula la versione precedente del suo argomento è simile alla pratica accademica di uno studioso che ricicla una versione più vec280
chia di un argomento in un capitolo di un nuovo libro. Questa ipotesi può essere confermata da uno studio comparativo di altri passi paralleli. Quali argomenti contro l’identità dell’autore, Finamore e Dillon (come anche Hadot) indicano alcune differenze nella dottrina fra le due opere. Tali differenze esistono, ma la più importante è stata ampiamente esaminata nel mio libro: la divergente interpretazione dell’intelletto agente e potenziale in De anima, III, 4-5. Come ho dimostrato nel capitolo 7, sembra che l’autore della Metaphrasis segua da vicino Giamblico nella sua dottrina dell’intelletto, mentre l’autore dell’In de anima prende le distanze da Giamblico e offre una lunga spiegazione per la sua interpretazione alternativa (cfr. In de an., 313, 1 ss.: questa testimonianza è sorprendentemente assente nell’edizione di Dillon e Finamore). Dunque io riconosco pienamente che vi siano divergenze di dottrina fra le due opere; tuttavia, esse non minano l’ipotesi di una paternità comune. Al contrario, il fatto che entrambi i testi, benché scritti con lo stesso stile e usando lo stesso vocabolario tecnico, presentino ancora visioni differenti, è più una prova che essi provengono da uno stesso autore, e non da una stessa fonte comune. La differenza nell’interpretazione della noetica aristotelica si può spiegare con uno sviluppo intellettuale dell’autore, che si è allontanato in qualche modo da Giamblico nel suo commento In de anima (forse perché era influenzato anche dal commento di Plutarco di Atene). Infine, se non attribuiamo il commento al De anima a Prisciano, qual è l’alternativa, se si ammette che non è nemmeno opera di Simplicio? Dovremmo inventare un altro commentatore neoplatonico sconosciuto, che scrisse all’inizio del sesto secolo nella scuola di Atene, che fu in281
fluenzato da Damascio, che scrisse commenti alla Metafisica e alla Fisica, e soprattutto che fece un riassunto della Fisica di Teofrasto, un testo inusuale in un curriculum scolastico (non vi sono altri esempi… se non Prisciano). Egli mostra una grande ammirazione per Giamblico, ciò che non è in sé tanto insolito, ma utilizza anche estesamente il trattato Sull’anima del filosofo siriano, che non è citato da nessun filosofo a parte Prisciano. Inoltre, anche se non fosse Prisciano stesso, questo autore avrebbe in comune con Prisciano alcune peculiarità stilistiche e terminologiche. Come si vede, l’anonimo commentatore che abbiamo descritto non è altro che un doppio di Prisciano. Che cosa guadagniamo con questa complicazione? Non è molto più semplice accettare la prova che l’autore dei due testi sia la stessa persona? Perciò, io credo che l’ipotesi che ho difeso insieme a F. Bossier nell’articolo del 1972 regga più che mai. Su questo punto, non ho nulla da correggere nel mio libro. Oltre alle polemiche sull’attribuzione del commento Sull’anima, la Hadot aveva anche un altro cheval de bataille. Secondo lei, il Simplicio autentico difende la stessa visione dell’autore dell’In de anima sul cambiamento sostanziale dell’anima. Fa di ciò anche un argomento a favore della sua difesa della tradizionale attribuzione del commento a Simplicio. Mi si lasci dire di nuovo che il fatto che Simplicio e l’autore dell’In de anima abbiano o non abbiano la stessa idea sul cambiamento sostanziale, non è in sé un argomento sufficiente contro o a favore dell’autenticità dell’In de anima. Ma, oltre a tale questione, vale la pena esaminare se Simplicio abbia adottato dal suo maestro Damascio la tesi del cambiamento sostanziale dell’anima. Nella sua edizione del 1996 del commento di Simplicio all’Enchiridian, la Hadot dedica una lunga se282
zione della sua introduzione per sostenere (contro Steel che aveva dedicato a ciò solo tre righi nell’addendum a p. 313) che Simplicio difende la stessa dottrina di Damascio sull’anima razionale. Non ho problemi nell’accettare che vi siano «traces de la doctrine de Damascius» nei commenti di Simplicio (i passi studiati dalla Hadot alle pp. 8083 sono stati analizzati nel mio libro [1997]: cfr. pp. 11415). Tuttavia, quelle sono le uniche “traces”. Simplicio conosceva la dottrina dell’anima di Damascio, si riferisce a essa anche nel suo Corollarium de tempore, In phys., 778, 32-36, ma non la adotta egli stesso (questo testo – sorprendentemente – non viene esaminato da I. Hadot). Ma vi sono più che semplici tracce. Secondo I. Hadot, «la doctrine de Damascius est dévéloppée d’une manière très succincte dans le commentaire sur le Manuel d’Epictète» (pp. 83-100). Il suo argomento si fonda su un’interpretazione di una sezione nella lunga digressione sull’origine del male, XXV, 245-273. In questo testo, Simplicio distingue nella realtà tre livelli riguardo al bene. Al primo livello stanno gli esseri che sono buoni di per sé (aujtoa-gaqovthte") (le forme divine intelligibili). Al secondo, stanno le cose buone prodotte dal primo: esse non sono buone di per sé, ma per partecipazione: eppure «dimorano nel bene in modo perpetuo». Al terzo livello troviamo le cose che possono deviare dal bene: a questo livello è possibile il male. In effetti, la produzione degli esseri non poteva limitarsi a quelli della seconda categoria. La perfezione del mondo richiede l’esistenza degli esseri di terza categoria, anche se ciò implica il rischio che il male s’introduca nel mondo. Così, dopo i corpi eterni sono stati prodotti gli esseri che sono capaci di generazione e di corruzione. Allo stesso modo, dopo le anime che sono sempre fisse nel bene (le anime divine), sono state prodotte le anime che pos283
sono essere deviate dal bene: sono le anime umane, che possono dirigersi verso le cose in alto o verso quelle in basso. Niente di originale in questa struttura tripartita degli esseri. Simplicio segue l’argomento, divenuto classico, di Proclo: cfr. De mal. subs., cap. 7 e le annotazioni di Opsomer-Steel. Eppure I. Hadot vuole assolutamente ritrovarvi la dottrina di Damascio sul cambiamento sostanziale dell’anima. Essa si basa sulla conclusione di quella sezione in cui Simplicio offre un argomento di tipo cosmologico per la necessità di tale ordine tripartito. Come egli stesso dice (sempre seguendo Proclo), è impossibile che gli esseri primari e secondari siano gli ultimi: poiché, se dopo di essi non seguisse nessun livello, essi stessi sarebbero gli ultimi, senza alcun potere di creazione, e dunque essi stessi sarebbero soggetti alla generazione e alla corruzione. Bisogna dunque che esistano degli esseri di terzo rango, che siano il risultato ultimo della processione e che non producano più niente. Simplicio conclude il suo argomento: «come gli esseri primi sono immutabili nelle loro essenze e nei loro atti, e gli intermedi sono immutabili nelle loro essenze, ma possono cambiare localmente nelle loro parti, era impossibile che gli ultimi non venissero prodotti, sotto la luna, sotto la dipendenza di rivoluzioni celesti, avendo ormai la possibilità sia di cambiare nella loro essenza sia di ricevere delle disposizioni contrarie alla natura». I. Hadot considera questa conclusione come un riassunto dei tre ordini che ingloba tanto le anime che i corpi (cfr. il suo quadro a p. 96). Ne conclude che le anime umane che si trovano nel terzo ordine possono anch’esse «changer dans leur essence», essendo soggette alla generazione e alla corruzione. Questa interpretazione fa violenza al testo 284
che non parla che di corpi: i corpi celesti, che sono «immutabili nella loro essenza, ma cambiano di luogo» e i corpi sublunari corruttibili12. Ovviamente io non nego che per Simplicio le anime umane si trovino al terzo posto in confronto alle prime bontà, proprio come i corpi sublunari si trovano al terzo posto in rapporto a quelle bontà. Ma non bisogna concluderne che le anime umane si trovano nella stessa situazione ontologica dei corpi sublunari. Un filosofo neoplatonico (inclusi Giamblico e Damascio) non avrebbe mai ammesso che le anime razionali umane «siano state prodotte sotto la luna sotto la dipendenza di rivoluzioni celesti, avendo la possibilità di cambiare la loro essenza» (XXV, 271-273: ta; e[scata uJpo; selhvnhn ajpo; th`" tw`n oujranivwn peritroph`" kai; katΔ oujsivan h[dh metabavllonta kai; para; fuvsin diatiqevmena). Nonostante l’eccellente dossier che I. Hadot ha raccolto, io non sono per nulla convinto dalla sua tesi secondo cui Simplicio avrebbe accettato la dottrina di Damascio sul cambiamento sostanziale dell’anima. Al contrario, come abbiamo notato, c’è anche un passo nel quale egli si mostra molto reticente di fronte a una tale dottrina (cfr. supra, p. 188, n. 87). Questa distanza rispetto alla speculazioni di Damascio si manifesta anche in molte altre questioni (la dottrina del tempo, per esempio).
12 La stessa Hadot si vede costretta ad ammettere che sta manipolando un po’ il testo: cfr. n. 92 a p. 93 in cui spiega che Simplicio «simplifie parce qu’il écrit pour des débutants».
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Bibliografia a cura di L. I. Martone
Per questa edizione italiana, la bibliografia è stata aggiornata sia per le fonti primarie sia per la letteratura secondaria. Si è voluto distinguere questa bibliografia in tre sezioni: la prima (Fonti primarie) è divisa per autori e contiene le edizioni e le traduzioni dei testi di riferimento, con l’indicazione sia di eventuali ristampe o riedizioni dei testi adoperati originariamente dall’Autore, sia delle nuove edizioni e traduzioni disponibili; la seconda (Studi) riporta la letteratura secondaria dell’edizione originaria, seguita dalla traduzione dell’Addendum apposto a essa dall’Autore stesso; la terza, infine, contiene un aggiornamento bibliografico degli studi condotti dal 1978 a oggi, attinenti alle tematiche e agli autori trattati in questo libro. 1. Fonti primarie [Anonimi]: [ANONYMUS], Prolegomena to Platonic Philosophy, introd., text, transl. and indices by L.G. WESTERINK, North Holland, Amsterdam 1962. [PORPHYRIUS?], In Parmenidem, ed. P. HADOT in Porphyre et Victorinus, Etudes augustiniennes, Paris 1968, 2 voll., in part. vol. II, pp. 59-113 («Collection des etudes augustiennes. Antiquité», 33). [PORFIRIO?], Commentario al «Parmenide» di Platone, saggio introd., testo con apparati critici e note di commento a cura di P. HADOT, trad. e bibliografia di G. GIRGENTI, Vita e Pensiero, Milano 1993 («Pubblicazioni del Centro di ricerche di metafisica. Temi metafisici e problemi del pensiero antico», 22). 287
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Indici
Indice delle parole greche
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187,86. ajlloivwsi" : 153,17; 178-188. a{lmata: 191. ajmevqekto": 118; 198-199;
229,2. ajmetavblhto": 75,67; 112. ajmfivbio": 84,12; 144. ajnamavrthto": 60-61. ajnavmnhsi": 53; 70. ajnevlixi": 203-204; 216,65. ajnermavtisto": 165,38. ajpavqeia: 60; 78; 91. ajpaqhv": 55,23; 60; 70,55; 78;
83; 91; 110; 152. ajparavllakto": 89. ajpovrroiai: 175. ajpovstasi": 222,78; 248.
ajscevtw": 39,22. ajtomovw: 208. aujgoeidhv": 153; 173-174. aujqupovstato": 36,18; 141. aujtenerghvtw": 219,72; 241-
243. ajutogevnhto": 178. aujtokivnhto": 105-106; 156;
159; 167. aujtometavblhto": 178. aujtotelhv": 36,18. gevnesi": 81-83; 113-115; 160;
185-189. genhtov": 82; 164. deutevrw": 214; 233; 245; 248. diavkosmo": 107. diaspavw: 86; 143-144,43;
159,28. diastrofhv: 91 (cfr. 83,9-10). diativqemai (diavqesi"): 177-
189. diaforevomai: 89,22; 103. divoti - o{ti: 205. duvnami": 93,29.31; 97; 175-
176,62. 327
ejgcronivzw:162. eijdhtiko;" o{ro": 201. eijdopoievw: 201. eij`do": 42,31; 176-189; 194; 200-212; to; eij`do" th`" uJpavrxew": 176-189; 194; 257; to; eij`do" th`" oujsiwvdou" meqevxew": 176-189. ei[dwla: 143. e}n ajriqmw`/ / ei[dei: 166-167;
kaqistavnein levxin: 6,9. kakuvnw: 67; 70,55; 81-83;
109,68. katavstasi": 207. klh`ro": 135 (cfr. 189,88). kovllhsi": 148,3. kreivttona gevnh: 36; 36-37,19;
37; 130-136. kreittovnw": 248 (cfr. 21,51). kruvfio": 223.
180-181,73; 181,75; 188. e}n kai; pollav: 127,8; 139-140. ejnevrgeia: vedi oujsiva. ejntelevceia: 80; 201-202,11. ejxaivfnh": 130; 141-164. ejxhghtaiv: 22-23,54. e{xi": 83-87; 183,81; 218,70. (katΔ) ejpivnoian: 242. ejpistrevfw: 19,43; 106; 222,78. ejpistrofhv: 102-103,50. eJteroiovomai: 103. eJterovth": 239; 245. eJtevrwqen: 218. e[ti: 143.
lovgo": 58; 59-60,34; 86-88;
zwaiv: 88,19; 95; 95-96,33;
monoeidhv": 87,17; 88; 88,20;
113; 213-228. mevqexi": vedi eij`do". metabolh; katΔ oujsivan: 152-189 (cfr. metabavllw: 88,
19; 225-226,86; 226,87). mevtra th`" yuch`": 70. mevnein: 56,25; 56-57,26; 100, 42; 101-102; a{ma mevnei kai; proveisi: 102; 222,77. monhv: 103. movnimo": 88,19.20; 103; 225-
226,86; 227,87. 97,36; 155,21.
225-226,86.
qeovw: 170. qrauvw (para-): 90. ijdiovth": 114,77; stoiceiwvdh" –: 146; katΔ ijdiovthta: 136;
150.
35; 199; 210; 215; 229250; 258.
ijdivw" poiovn: 208. kavqarsi": 57. kaqΔ h{n -
uJfΔ
206,29.30; 246,36. 328
neu`si": 95,32. nohtov": 35; 237. nou`": 52; 65-66; 197-213; – dunavmei: 35; 210; 216-219; 229-250; 258; – ejnergeiva/:
hJ"` : 206;
oi[koqen: 153. oJmoeidhv": 37; 152,16. oJmoiomerhv": 31-34.
oJmoouvsio": 32,9; 42. oJrivzw: 22,52; 200-208; 241-
245. oJristikov":
22,52; 200-208; 234. o{ro": 200-208; 237. ojpadov": 136. oujsiva: 160; 181-184; 220; dra/` eij" th;n oujsivan: 177,65; 187,86; katΔ oujsivan metabolhv: 151-189 (cfr. 115); katΔ oujsivan versus katΔ ejnevrgeian: 81-83; 89-91; 149-157; th/` oujsiva/ ejnevrgeia: 215; merismo;" th`" ejnergeiva" ajpo; th`" oujsiva": 223, 80-82; 224, 83-84; hJ oujsiva pavscei: 149,7; 153,18; ejnevrgeiai oJmoeidei`" tai`" oujsivai": 85,14; 89; 152,16. oujsiovw: 81-82; 170. oujsiwvdh": 215; – lovgo": 58,29; 215; 226; – mevqexi": 176189; – metabolhv: 164; – nou`": 215; oujsiwvdw" - ejnerghtikw`": 225. pedavw: 55; 83,9. poiovth": 116-119. poiovn: 117; ijdivw" –: 208. poluduvnamo" - poluouvsio": 96. pragmateiwvdh": 127 (cfr. 5,6). pragmateiva: 20,45; 35,16. proaivresi": 59-61. probavllomai (-w): 22,52; 106; 223-224,82; – zwav": 9596,33; 155,21; – lov-gou":
223. problhtikov": 223-224,82.
probolhv: 98; 108; 113,75;
216; 221-223; 226. proi>evnai: 56,25-26; 106; 119;
216; 222,77. provodo": 103; 108. (ejk) pruvmnh": 156,22. rJophv (rJevpw): 22,52; 95,32. saleuvw: 180,72. stomovw: 172. suvmmetro": 248. sumplevkw: 97,38; 216,65-66. sumfuvomai: 246 (suvmfusi":
248). sunamfovteron: 161. suvnoro": 142. sfairovw: 173-174,59. schmatismov": 175. teleiovth": 201-202,11; 226;
243. teleiovw: 216-222; 242,32; 243;
243-244. to; toiovnde: 183. tolmavw: 48,3; 151,13; 164. u{parxi": 183,78; kaqΔ u{parxin: ` 176-177; 179; 227,91; eijdo" th`" uJpavrxew": 176-189;
194; 257. uJpobaivnw ejk tou` ajmerivstou:
203,16; 245. uJpovbasi": 91; 248. uJpokeivmenon: 183,80; 220. (kaqΔ) uJpovstasin: 142,38; 150. uJJfeimevnw": 248 (cfr. 21,50-
51). uJfhvghsi": 5,6. uJfizavnw: 103; 152,15.
329
fqorav: 179-180,71; 185. fqoropoiov": 173. calavw
330
(calasmov"): 89,22;
100; 103; 179-180,71; 203,15; 239; 245. cwristov": 19,43; cwrisqei;": 99,40.
Indice dei nomi e dei concetti principali*
Accademia: 3; 12; 25; 193. affermazioni e negazioni: 138140. Agazia: 3; 258. Agostino: XVII,12; 44,34. 35; 57,26; 254,3. Alessandria: 25; 193; 246. Alessandro di Afrodisia: 2223; 187,86; 199; 210; 213,56; 230. alienazione (dell’anima): 103104; 216-218; 221-224. alterazione (dell’anima): 177189. Amelio: XVIII; 11,22; 31; 3739; 128; 130. Ammonio: XX; 5,6; 21-26; 193; 201,10; 212,50. Anassagora: 34.
Andolfo M.: XII,4. anima: definizione: 29-46; posizione intermedia, divisa e indivisa: 35-36; 44-45; 70; 78; 94; 99; 111-112; 115116; 139-145; 255; 260; vita ambivalente: 144-145; 169-172; non consustanziale al divino: 35-36; 40; 44-45; 70; diversa dalle classi superiori: 36-38; 130-136; diversa dall’intelletto: 35; 39-43; determinata dall’intelletto: 198212; relazione con il corpo: 17; 92,28; 95-98; 152-153; 204-206; entelechia: 8082; auto-movimento: 105107; 156; 159-160; 167-
* Il punto e virgola separa i riferimenti a pagine diverse; la virgola separa il numero di pagina da quello relativo alle note in quella stessa pagina; il punto separa i riferimenti a note diverse nella stessa pagina. I riferimenti alle opere sono dati in corsivo. Per esempio: Proclo, 8, 6.7; 12, 22.26 significa che i riferimenti a Proclo si trovano a p. 8, nota 6 e nota 7 e a p. 12, nota 22 e nota 26. In Alc. 84: 60 significa che un riferimento a In Alc., 84 è dato a p. 60.
331
168; auto-costituita: 141145; individualità: 37-40; homoiomeres: 33; 40; discende interamente: 4777; 99-102; 163-164; discende nella divisione: 202-203; 244; non pensa mai ininterrottamente: 8991; 214-216; 221-225; sua proiezione: 90; 95-100; 213; alienazione: 102-104; 216; 221-224; corruzione: 82-83; cambiamento sostanziale: 80-90; 94; 147189; coincidenza di opposti: 99; 160-163; permane e procede: 98-105; 223; Sé-in-cambiamento: 94108; la stessa e non più la stessa: 94-108; 221-222; eterna e temporale: 157164; distinzione fra la forma dell’esistenza e le partecipazioni sostanziali: 176-189; 194; molteplicità di sostanze: 24,60; 86; 9597; 220; struttura triadica: 106-108; ritorno: 98-100; 103-108; processione: 95100; 106-108; una per numero o per specie: 166169; 176-180; suo posto nelle ipotesi del Parmenide: 130-146; non eidos ma logos: 203-204; duplice attività razionale: 224-227; 243; anime divine: 47-49; 95; 108,66; 131-132; 165; 183,81; anima impartecipata: 108; 253. 332
Aristarco: 5,7. Aristotele: De anima, interpretazione di Prisciano in funzione della dottrina di Giamblico: XXI; 5-8; interpretazione di III, 4-6: 7; 53; 74; 197-250; II, 1, 412 a 26: 80-82; altri riferimenti: 9,16; 73,62; 84,13; 89,21; 90,25; 92,26-28; 99,40; 167,45; 173,58; 204,21; 208,38; 213,56; 231,4; Cat., 3 b 33 - 4 a 9: 185,82; 4 a 10: 167,46; 182,76; 7 b 25: 72-73; De caelo I, 11: 81,5; 82,8; De gen.: 167,45; Eth. Nic.: 200,9; Metaph.: 42,31; 73,62; 81,4; 166,43; Meteor.: 166,44; Phys., V, 1: 186,84; VII, 2-3: 185-187; Top.: 166,43; 200,9. Armstrong A.H.: 49,8. Arnobio: 40,24; 254,3. Asclepio (fil.): 201,9.10. Atanasio: vedi Pietro Atanasio. Atene, Scuola di: 3; 12; 25; 193; 254; 258. atti: vedi sostanza. auto-movimento: vedi anima. Barbanti M.: XVII,13. Becchius D.: 57,26. Beierwaltes W.: 107,64. Beutler R.: 23,54; 66,48. Bidez J.: 11,21. Bielmeier A.: 67,49. Blumenthal H.J.: XVII, 12;
20,45; 23,54; 67,48; 74,66; 263. Bonitz H.: 200,9. Bossier F.: X,2; 3,1; 106,62; 272; 282. Bréhier E.: 42,30; 107,63. Bywater I.: 8,14; 10,20. Calcidio: 69,53. Cameron A.: 11,21; 25,61. Chaignet A.: 75,67; 156,23; 180,71. Clark E.G.: 263. classi, superiori – che trascendono l’anima: 36-39; 130-136; 265. Combès J.: XXIV; 123,1; 126,5; 138,30; 269-270. Cornford F.M.: 129,14. corpo, celeste – 20,46; 21,47; 47; 173-175; luminoso – 153-155; 173-174. coscienza: 49-53; 72. Cremer F.W.: 37,19. Crisippo: 13. Cristianesimo: 12; 251; 254,3. Dalsgaard Larsen B.: 11,21; 13,27.30. Damascio: VI; XV; XVII,12; XVIII; XIX,14; XX,15; XXI; XXIV; vita, 24-25; influenza di Giamblico: 25; 77; 189-194; 255-256; dottrina sull’anima: l’anima discende interamente (contro Plotino), 74-77; una sostanza in cambiamento (contro Proclo), 147-189; teoria del
tempo, 150-152; 157-164; 192; rapporti con Prisciano, 3; 194; 258-260; In Parmenidem: in generale, 25; 123-125; interpretazione della terza ipotesi, 126137; §§ 397-415: 132-189; § 398: 126-137; § 399: 138-146; § 400: 147-157; §§ 400 e 413: 164-189; § 405: 157-164; De princ.: in generale, 25; 123; §§ 1718: 206,29; §§ 66-67: 145,47; altri riferimenti: 93,31; 106,62; 150,10; 152,16; 178,66; 181,74; 183,78; 192,98; 248,40; In Phaed.: 18,41; 124,2; 134,24; 144,45; 170,52; 182,76; In Phil.: 34,13; 124,2; 150,10; In Tim.: 144-145; 149; Vita Isidori: 193,99.100. D’Ancona C.: VI; XIII,5. Davide: 11,22; 12,25. Descartes R.: 259. Dessippo: 185,82. Deuse W.: 55,22. d’Hoine P.: XXV. Dillon J.M.: XV; 11, 21; 13, 30; 59,32.33; 115,78; 134, 22.23; 149,5; 262; 263; 269; 273,7; 279-281. Diogene Laerzio: 60,34.35. Dionigi Areopagita: XX. Dodds E.R.: 12, 27; 74; 107, 63; 174,59. Dörrie H.: 16, 36; 33, 10; 44, 36; 45.39; 74. Düring I.: 20,45. 333
Enea di Gaza: 253,2. Ermia: In Phaedr., 122: 109, 68; 131-132: 67,49; 159160: 67-68; altri riferimenti: 93,31; 106,62; 140,35; 148,5. Erodoto: 75,67. Esposito C.: VII. Esposito M.: 4,3; 312. eternità e tempo sperimentati dall’anima: 111-112; 157164. Evrard M.: 67,48. Eunapio: 11,22. Eusebio: 44,35. felicità: 61-64; 69. Festugière A.J.: 15; 32-33; 59,32.33; 215,63; 262. Filopono: vedi Giovanni Filopono. filosofia: 17. Finamore J.: 262; 263; 268; 273,7; 279-281. Fortin E.L.: 254,3. Galeno: 20,45; 69,53. Giamblico: VI; XI: XIV-XVI; XVIIIXIX; XXII; XXIV; vita e opere, 11-14; posto nel Neoplatonismo, 11-14; 192-194; 251-259; teoria dell’anima, 29-46; 54-66; 78-116; sua critica di Plotino assunta dai tardi Neoplatonici, 6677; influenza sull’opera di Prisciano, 4-10; 19-22; 7880; 258-259; influenza su Damascio, 189-194; 258334
259; interpretazione della noetica aristotelica, 73; 79; 199; 210; 229-235; 249250; interpretazione del Parmenide, 37,19; 128; 130-132; criticato da Damascio, 132-137; percezione sensoriale, 9-10; 19; 20,46; 21,47; sulla luce, 23-24; sulla qualità, 116119; sul tempo, 191-192; De anima (frammenti in Stobeo): 5; 14-22; 29-46; 56-58; De myst.: 4,5; 37,19; 40.26; 67,49; 93,30.31; 95,32.33; 97,36; 135,25. Giorgio Pachimere: 57,26. Giovanni Filopono: XX; 4; 19,44; 23,56; 24,58.60; 32,9; 53; 92,28; 96,35; 116,83; 153,18; 174,59; 186,84; 187,86; 201,10; In de anima: 24; 71; influenza di Proclo, 24,60; 193; sull’intelletto agente (contro Plotino), 52-53,17; 71-72; 197,1; 199,5; 212,50. Giovanni Lido: 14,31; 115,78 Giuliano: 12; 55,22; 93,31; 115,78. Giustino: 254,3. Gnostici: 50; 54. Guglielmo di Moerbeke: 124,4. Hadot I.: X,3; XVII,12; 263; 272; 273; 273,9.10; 274; 277-278; 281-284; 285,12; 313. Hadot P.: 32,10; 34,11; 44,34.
Hamelin O.: 198,2. Harder R.: 43,32. Hayduck M. 18,42; 276. Hegel G.W.F.: 107. Helmig Ch.: XXV; 261,1. Henry P.: 57,26. Hicks R.D.: 8,12; 208,38. Ierocle: XVII,12; 84,12; 137,28. intelletto agente: vedi intelletto. intelletto: tre livelli, 197-198; impartecipato (assoluto), 198; 237-238; 242-249; partecipato, 198-212; 239249; principio determinante dell’anima, 202-211; unico intelletto comune per tutte le anime, 207-209; intelletto agente, 53; 210211; 229-250; attività e passività, 214-219; 221; intelletto umano, vedi ragione. Ireneo: 254,3. Isidoro: 24; 193. istante: 130; 142-164. Jahn A.: 135,25. Jonas H.: 42,27. Kalbfleisch C.: 73,64. Kant I.: 259. Klibansky R.: 124,4. Leibniz W.G.: 259. Leone M.: XXV. Linguiti A.: VI; XVII,12.13.
Lloyd A.C.: XVII,12; 12,27; 209,40. logos: vedi ragione. Luna C.: VI; 263; 266,4; 269; 271; 273,7. Merlan Ph.: 53,18. Michele Psello: 19,44; 40,24; 110,70. monopsichismo: 38. Montoya Saenz J.: 198, 2; 206, 30. Movia G.: 236,14. Nardi B.: 209,40. Nemesio: 14,31; 30,3; 36,17.18; 39,22; 52,16; 253,2. Neoplatonismo: sviluppo dopo Plotino, 11-14; 26; 193; 251-254. Niewöhner F.: 126,5; 129,14. Numenio: 31; 39-40. Olimpiodoro: 12,26; 30,3; 34,12; 172,56; 174,59; 233,10. Omero: 6,7; 48,5. Oracoli Caldaici: 40,24; 93,31. O’Meara D.: 262,2. O’Neill W.: 5,6. Pachimere Giorgio: vedi Giorgio Pachimere. passioni: 59-60. Perkams M.: 273,7. Piccolomini F.: X. Pietro Atanasio: 19,44; 262. Pitagora: 12; 44. 335
Pitagorici: XV; 13; 34,13; 201, 10. Platone: XIII, 9; XV; XVII-XIX; il suo vero insegnamento sull’anima, 37-39; 45-46; 70; Timeo, sulla costituzione dell’anima (35A): 45-46; 81,6; 82,7; 113-115; 125; 144-146; Tim. 43D: 55; 76-77; 69E: 61,39; Parmenide, interpretazione nel Neoplatonismo, 123-130; la seconda ipotesi, 127128; 135; la terza ipotesi, 129-146; Fedro (mito): 4849,5; 64-67; 81,6; 90,24; 109; 135,26; Fedone: 18,42; 65,44; 87,17; 148,3; Sofista: 143,41; 226,88; Simposio: 134; Leggi X: 37; 148,5; 154,20: Repubblica: 65,44; 233,10. Plotino: V; XI; XII,4; XIII, 5-9; XIV,10-11; XV; XVII,12; XVIII; 12; 32,9; 37,20; 41-42,27; 42,28; 42,29-31; 43,32; 45,39; 47,1; 48,2-5; 49,68; 50, 9-11; 51, 12-14; 52,16.17; 53,19; 58,30.31; 60,36.37; 61,38.39; 63,41; 65,45; 66,46.47; 73,64; 80,3; 84,12; 91,25; 97,37; 110,71; 127,8; 140,35; 154,20; 165,38; 172,5657; 173, 58; 174, 59; 180, 72; 210,41; 211,48; 251253; dottrina dell’anima criticata da Giamblico, 31; 37-43; 46; tesi sull’anima non discesa, 47-54; respin336
ta da Giamblico e dai tardi Neoplatonici, 54-77; 99102; sulla relazione animacorpo, 97-104; interpretazione del Parmenide, 127131; commenti a Enn., I, 1, 3: 110; I, 4: 62-64; IV, 3, 12: 47-53; IV, 8: 47-53; V, 3, 3-4: 65-66. Plutarco: XVIII. Poimandres: 42,30. Porfirio: XVII,12; XVIII; 6,7; 11, 21; 16; 34; 34,12; 39,23; 44,34.35; 54; 80,3; 95,32; 97,38; 101,48; 127,8; 128, 9; 130; 153,18; 154,20; 252; rapporti con Giamblico, 11-12; sua dottrina sull’anima criticata da Giamblico, 31; 43-44; sulla relazione anima-corpo, 97-98. Porro P.: XXV. Praechter K.: 13. Prisciano: VI; X; XVII; XXI-XXIV; vita, opere, metodo, influenza di Giamblico: 3-10; 16-24; 78-79; 249-250; 257-258; rapporti con Damascio, 3; 24-25; 194; 258-259; interpretazione della noetica aristotelica (De an. III, 4-6), 197-250; differenze con Giamblico, 229-235; 250; In de anima e Metaphrasis, 3-10; 2123; 78-79; 242-250; saepe; alcuni passi discussi alle pp. 56 e 78-108: In de an., 5, 38-6, 17; 19, 16-27; 89, 33-90, 25; 94, 34-95, 2.24;
219-220, 21; 238, 4-29; 240, 33-241, 26; 244, 2631; Met., 29-32; alle pp. 197-213: In de an., 217, 23-221,34; alle pp. 213228: In de an., 221, 35263, 30; alle pp. 224-226: Met., 29-30; alle pp. 229235 e 250: In de an. 312313; alle pp. 235-249: Met., 26-29; Solutiones: 4; 16-19; commento alla Metafisica: 199. Proclo: XV-XVI; XVIII-XX; 5,6.7; 11,22; 12,26; 16; 21,50; 24,60; 32,9; 34,12; 35,15; 38,21.22; 39,23; 71,58; 81-82,6; 92,28; 93,29.31; 95,32; 106,62; 107,63; 108,65; 109,67.68; 110,72; 111,73; 113, 74.75; 114, 76.77; 115,78.80; 116, 81.82; 146,51; 153-154, 19; 173-174,59; 177,64; 183,78; 198-199,3; 200201,9; 208,37; 227,91; 233, 11; 240,29; 248,40; 251; 253,1; 255; influenza su Prisciano, su Filopono, 2324, 193; sulla luce, 24,58; contro la dottrina dell’anima di Plotino, 55; 68-70; sul Parmenide, 123-143; la sostanza dell’anima immutabile ed eterna, 108-116; 149-151; 158-161; respinta da Damascio, 149-164; Giamblico preferito a Proclo, 190-193; El. Theol., §§ 106-107: 110; §120: 68; §§
190-193: 111-112: §209: 154; In Alc., 84: 92-93; In Alc., 226-228: 69-70; 109, 68; 110,69; In Tim., II, 119-132: 113-116; III, 231 e 245: 38,22; 54,22; III, 330-331: 71,57; 110; III, 333-335: 54-66; 109; In Parm., col. 948: 52,15; 57,27; 69,51; col. 1157: 177; Plat. Theol., I, 26: 3436; Comm. alle Enneadi: 98,39; 110; 153-154. Psello: vedi Michele Psello. Pseudo-Filopono: 22,54; 5253,17; 66-67,48; 71,58; 73,63; 197,1; 199,5; 212,50; 227,90; 240,29. qualitativo, cambiamento: 184-188. qualità, natura della: 116119. Rashed M.: 273; 274,11. Reale G.: XII,4. Rist J.M.: 49,8; 54,20; 59,33. Romano F.: VI; XVII,13. Rosan L.J.: 209,40. Ruelle C.: 123,1; 134,23. Saffrey H.D.: 125,4; 126,5. Sambursky S.: 191,94. Schwyzer H.: 117,86; 127,8. sensoriale, percezione: 9-10; 19; 21,46-47; 173. Simplicio: X; XVII, 12; XX, 16; 22, 53 (In cat.); 24,58; 34, 13; 72-74 (In cat., 190191); 82,8; 84,12; 95,32; 337
95-96,33; 102,49; 106,62; 116,83; 116-119 (In cat., 218-219; 288-289); 130, 16; 151,11; 158,25; 162 (In phys., 798-799); 175176,62; 176,63 (In de caelo, 112-115); 177,65; 185189 (In phys., 1066-1081); 191,93 e 192,96 (In phys., 795, 4-17); 191, 94-95; 199, 5; 208,38; 212,50; 223,80; 231-233 (In cat., 248-249; 329); 238,22; 240,29; 258; inautenticità del commento al De anima, 3; sul cambiamento sostanziale dell’anima: 185-188. Siriano: XVIII; 34,13; 39,23; 67,49; 128-129,11; 129,12; 130-132; 149,5; 193. Smith A.: 54,21. Sorabji R.: VI. Steel C.: V-VII; IX; X,2; XI; XV; XVII,13; XVIII; XX,16; XXI-XXV. Stobeo: estratti dal De anima di Giamblico, 14-15; 23-46 (I, 365-366); 38 (I, 372373); 40 (I, 458, 3-8); 58 (I, 458, 10-22). Stoicismo: 13; 59-63; 172,56; 208,38. sostanza-facoltà-attività: 1718; 91-94; 108-116; 149157; 176-188; cambiamento sostanziale, 80-91; 94; 147-189; 263; partecipazione sostanziale, 176-189; 194; separazione fra sostanza e attività, 80,3; 214; 221-227. 338
Suda: 11,21-22. Szlezák Th.A.: XIII,9. tabula rasa: 240,29; 244. Taylor A.E.: 129,14. Temistio: 8-9; 19,44; 2223,54; 199,5; sull’intelletto agente (In de an., 99-103), 210-211. tempo: 110-112; 150-151; 157-164; 192. Teodoro di Asine: 11, 22; 39, 22; 54. Teofrasto: 8-10; 83-88; 236; 241. Tertulliano: 254,3. Theiler W.: 60,36. Tommaso d’Aquino: 209,40. Torstrik A.: 8,12. Trotta, A.: XIII,9. Trouillard J.: 146,51. [l’]Uno e gli Altri: 126-143. van den Berg R.M.: 265,3. Verbeke G.: 185,83; 209,40. Wachsmuth C.: 15,34; 262. Wahl J.: 129,13. Wallis R.T.: 13,27; 33,10. Warren E.: 50,11. Westerink L.G.: XXIV; 16,35; 19,44; 34,12; 98,39; 123,1; 124,2; 126,5; 148-149,5; 269. Zeller E.: 19,44; 73,63. Zenone di Cizio: 59-60,34. Zenone di Elea: 126.
Indice del volume
Presentazione di Pasquale Porro
V
Introduzione all’edizione italiana di Lucrezia Iris Martone
IX
Introduzione
3
Parte prima: Giamblico I. Giamblico e la tradizione platonica sull’anima
29
II. L’anima non discesa
47
1. La posizione plotiniana, p. 47 - 2. La critica di Giamblico, p. 54 - 3. Gli effetti della critica di Giamblico, p. 66
III. L’anima: identità in cambiamento
78
1. L’anima cambia nella sostanza, p. 80 - 2. Permanere se stessi durante il cambiamento, p. 94 - 3. La posizione di Proclo, p. 108 - 4. Nota. La teoria di Giamblico sulla qualità, p. 116
Parte seconda: Damascio IV. L’interpretazione dell’anima nella dialettica del «Parmenide»
123
1. La terza ipotesi del «Parmenide» sull’Uno, p. 126 2. Il posto dell’anima all’interno della dialettica dell’Uno, p. 138
339
V. L’anima come autocambiamento
147
1. Una sostanza in cambiamento, p. 147 - 2. L’istante: eternità nel tempo, p. 157 - 3. Identità in cambiamento, p. 164 - 4. L’influenza di Giamblico, p. 189
Parte terza: Prisciano VI. La vita razionale dell’anima
197
1. Anima e Intelletto, p. 197 - 2. Momenti strutturali della ragione umana, p. 213
VII.Conformarsi a Giamblico
229
1. L’interpretazione giamblichea della noetica aristotelica, p. 229 - 2. La noetica nella «Metafrasi», p. 235 3. Confronto tra la «Metafrasi» e il «Commento», p. 242
Conclusione
251
Appendice Dopo trent’anni... uno sguardo retrospettivo
261
Parte prima: Giamblico, p. 262 - Parte seconda: Damascio, p. 269 - Parte terza: Prisciano e il suo commento «Sull’anima», p. 272 - 1. Il commento non è opera di Simplicio, p. 273 - 2. Il commento è opera di Prisciano di Lidia, p. 279
Bibliografia
287
Indice delle parole greche
327
Indice dei nomi e dei concetti principali
331