Il re che parlava alle ninfe. Miti e storie di Numa Pompilio

Al cuore del mito di Numa Pompilio c'è la relazione intrattenuta dal secondo re di Roma con una misteriosa figura d

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Italian Pages [227] Year 2019

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Table of contents :
Indice
Premessa
I. L'identità complessa di una divina consigliera
II. La ninfa dal suono soave, ovvero come parlava Egeria
III. Altre Egerie alle origini di Roma
IV. Le leggi di Numa ed Egeria
Bibliografia essenziale
Elenco delle tavole
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Il re che parlava alle ninfe. Miti e storie di Numa Pompilio

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IMAGO IURIS VII

Collana diretta da Luigi Garofalo

IMAGO IURIS I.

Luigi Garo fa lo, Rubens e la 'devotio' di Decio Mure, 2011; nuova edizione 2017.

Il.

Laura Gutiérrez Masson, La percepci6n sensorial y la

intangibilidad en el derecho y en el arte pict6rico y poético, 2014. III. Jakob Fortunat Stag l, Mercurio al bivio. Le ric­

chezze di Asia offerte a Britannia, 2017. IV.

Alberto Tedoldi, Il processo in musica nel 'Lohen­ grin' di Richard Wagner, 2017.

V.

Tommaso Gazzolo, Una doppia appartenenza. Tul­

lio Ascarelli e la legge come interpretazione, 2018. VI.

Donato Carusi, Che farò quando tutto brucia? Una lettura politico-giuridica di Antonio Lobo Antunes,

2018. VII. Mario Lentano, Il re che parlava alle ninfe. Miti e

storie di Numa Pompi/io, 2019.

Mario Lentano

Il re che parlava alle ninfe Miti e storie di Numa Pompilio

�-

Paçwm Giundica

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di filologia e critica delle letterature antiche e moderne dell'Università di Siena. Copertina: Perugino, Lunetta con la Prudenza e Giustizia: parte sini­ stra (Numa Pompilio), Perugia, Palazzo dei Priori (Collegio del Cam­ bio). ©

2019.

Foto Scala, Firenze.

Le immagini sono state fornite dall'autore.

L 'editore resta a disposizione degli aventi dirli/o con i quali non

stato possibile comunicare e per

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2019

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978-88-3379-073-2

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di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro paga­

mento alla SIAE del compenso previsto dall'art. legge

22 aprile 1941 n. 633.

68,

commi

4

e

5,

della

Indice

Premessa

p.

7 16

Ringraziamenti

I. L'identità complessa di una divina ·

consigliera

19

l. Un poeta ne lla va lle delle Camene

19

2. Un'identità complessa

25

3.

31

L'Egeria di un cristiano . . .

4. ... e quella d i u n pagano

45

5. Un epilogo rinascimentale

66

Il. La ninfa dal suono soave, ovvero come parlava Egeria

79

l. Una delle Camene - o no?

79

2. Altre divinità dei carmi

90

3. Come parlava Egeria



111

4. Egeria al tempo della rivoluzione



123

III. Altre Egerie alle origini di Roma l. Donne e potere monarchico





137 137

2. La più antica 'first lady' della storia romana



146

6

Il re che parlava alle ninfe

3. Tanaquilla e Tullia

p. 153

4. Servio e la Fortuna



168

5. Egeria e le altre: matriarche o matrone?



176

.

187

l. Una rapida rassegna

.

187

2. Le cosiddette 'leggi di Numa'

.

198

3. Alla ricerca di un filo

.

203

4. Conclusione: ritorno a Egeria

.

210

Bibliografia essenziale

.

213

Elenco delle tavole

.

221

IV. Le leggi di Numa ed Egeria

Premessa

I Romani ce lebrano ed esaltano Romolo come fi­ g lio di dèi e raccontano che ancora bambino fu salvato in modo incredibile e nutrito in maniera prodigiosa; invece io sono di nascita mortale e fui nutrito e a llevato da uomini che voi ben cono­ scete 1 .

. Quando giunge nelle mani dei suoi primi biografi, da Cicerone a Livio nel mondo roma­ no, da Dionigi di Alicarnasso a Plutarco in quello greco, la figura di Numa Pompilio, re di Roma nel quarantennio successivo alla morte di Romolo, ha già perduto in effetti quasi com­ pletamente ogni tratto leggendario. A differen­ za del suo semidivino predecessore , figlio di una sacerdotessa di Vesta e del dio Marte, Nu­ ma ha una famiglia di origine come tutti, tre fratelli, una formazione culturale precisa , un percorso ordinato che lo porta a ricoprire, non senza resistenze , il seggio più alto della città sul Tevere, una vecchiaia e una morte del tutto

Plutarco, Numa, 5.6 (trad. di M. Manfreclini). Le parole sono tratte di discorso rivolto da Numa ai Romani venuti a offrirgli il regno della città.

8

Il re che parlavo alle n i nfe

convenzionali, una sepoltura ai piedi del Giani­ colo, talmente concreta e reale che qualcuno, secoli dopo, ritenne persino di aver portato alla luce la sua tomba durante i lavori di dissoda­ mento del terreno. Molto poco, insomma, per un uomo che pure ha tutti i tratti dell'eroe fon­ datore, artefice del secondo pilastro su cui pog­ gia la grandezza di Roma, quello della devozio­ ne religiosa: nessun vaticinio ne profetizza la nascita; quest'ultima non avviene nelle forme inconsuete o decisamente devianti proprie di fi­ gure come Enea o ancora Romolo; nessuna scomparsa del suo corpo al momento della morte né assunzione postuma fra gli dèi; nessu­ na esposizione alla natura selvaggia con annes­ sa figura di animale nutritore; niente che si lasci inquadrare nel convenzionale schema dei riti di passaggio così familiare alle biografie eroiche antiche . Certo, alcune fonti non mancano di ri­ cordare come il futuro re di Roma fosse nato proprio nel giorno in cui la città è stata fondata, il 21 aprile del 753: una circostanza nella quale era facile intravedere un segno soprannaturale di elezione e il presagio del ruolo che Numa avrebbe rivestito una volta divenuto adulto 2•

Plutarco, Numa, 3.6.

Premessa

Certo, prima della sua ascesa al trono Numa sposa Tazia, figlia di Tito Tazio, il re della sabi­ na Curi che era stato prima nemico, poi per qualche tempo co-reggente di Roma insieme con Romolo, e dunque sembra sperimentare anche lui quel passaggio del potere attraverso le donne che costituisce un tratto mitico e fol­ clorico molto diffuso nel racconto delle origini e che già si era verificato allorché Enea aveva preso in moglie la figlia di Latino, ereditando la funzione regale di quest'ultimo dopo la sua scomparsa, e altre volte si verificherà nella sto­ ria della Roma monarchica. Certo, a Numa ven­ gono presto attribuiti dei figli ai quali alcuni im­ portanti clan dell'aristocrazia repubblicana si af­ fretteranno a connettere la propria discenden­ za, per non parlare dell'analoga rivendicazione genealogica avanzata in piena età imperiale niente meno che dal principe-filosofo Marco Aurelio o di quella, molto più tarda , confezio­ nata da un biografo compiacente per il cardina­ le Camillo Pamphili, nipote di papa Innocenza x,

e confortata dall'assonanza fra il nome 'Pom­

pilio' e il cognome del prestigioso porporato 3•

Cfr. rispettivamente Scriptores historiae augustae , Marcus Aurelius. 1.6 (ripreso da Eutropio, Breviarium ah urbe

9

Il re che pa rlava alle n i nfe

lO

Ma si tratta di un ben magro raccolto, a fronte di biografie ben altrimenti modellate dall'elabo­ razione leggendaria come quelle, appunto, di Enea o di Romolo. Eppure al centro della storia di Numa c'è un nucleo narrativo che appare già a prima vi­ sta estremamente affascinante : quello che rac­ conta del legame privilegiato fra il re e una fi­ gura divina dal profilo sfuggente, la ninfa Ege­ ria , che svolge il ruolo di consigliera del so­ vrano e di ispiratrice della sua attività politica e legislativa , in particolare, ma non solo, in ambito religioso. Il mito doveva essere molto antico, e in ogni caso sembra già definito nei suoi tratti essenziali all'epoca in cui il poeta Ennio, che veniva dal Salento e che a Roma si era legato ad alcune figure di spicco dell'aristo­ crazia al potere, mise mano ai suoi Annali, fra il

m

e il

n

secolo a.C. Tra i frammenti del dotto

poeta ce n'è infatti uno che ha per protagoni­ sta proprio Egeria, colta in un momento di dia­ logo con un interlocutore che non può che es-

condita, H.9.1) e G. Simonetta, L. Gigli, G. Marchetti, Smzt 'Agw!se i11 Agone

a piazza Namna. Bellezza propor­

zione armonia nelle fabbriche Pamphili, Roma, 2003.

pp. 33-36.

Premesso

11

sere Numa: O/li respondit suavis sonus Egeriai, •A lui rispose la melodiosa voce di Egeria• 4 •

È

qui che la nostra ninfa fa la sua prima com­ parsa nella storia della letteratura latina , in un verso che intendeva comunicare al lettore, an­ che sul piano linguistico, l'idea della remota antichità in cui gli episodi che la vedevano protagonista si erano verificati: oltre al genitivo arcaico Egeriai, in luogo del classico Egeriae, faceva la sua comparsa anche il solenne pro­ nome o/li al posto di il/i, enfatizzato dalla sua collocazione a inizio di verso. Nei secoli successivi al poema enniano la leggenda del re e della sua divina consigliera diventa oggetto delle interpretazioni razionaliz­ zanti di storici e biografi: Dionigi di Alicarnasso ricorda come già il mitico legislatore di Creta , Minasse, pretendesse di intrattenere rapporti di familiarità con Zeus, del quale del resto si di­ ceva fosse figlio, e di avere con lui incontri re­ golari in una grotta del monte Ditte , lo stesso sul quale il futuro signore degli dèi era stato

Ennio, A 1males, v. 1 1 3 Skutsch (citato da Va rrone. De lingua !ati1w, 7 .42). Quando non diversamente specifi­ cato, tutte le traduzioni dei testi greci e latini vanno attri­ buite a chi scrive.

12

I l re che parlava alle ni nfe

allevato da bambino; proprio in quella grotta Minosse redigeva infatti i suoi testi di legge , che poi recava ai propri sudditi affermando di averli ricevuti direttamente dal dio. Il mede­ simo Dionigi cita il caso ancora più celebre del legislatore spartano Licurgo, che accreditò ad Apollo il suo elaborato sistema di norme, men­ tre Plutarco dal canto suo aggiunge la figura di Zaleuco, al quale le leggi destinate alla città di Locri furono invece suggerite in sogno da Atena 5• Si tratta di un motivo che si ritrova an­ che in altre culture , ad esempio nel racconto relativo a Mosè e alle leggi a lui dettate dal dio degli Ebrei sul monte Sinai, durante il viaggio verso la terra promessa, e che nella tradizione greco-romana sarà sfruttato non solo da grandi legislatori, ma anche da generali come Sci­ piane Africano, Gaio Mario o Sertorio, le cui audaci scelte militari si diceva fossero frutto di ispirazione divina 6. Quella di Numa sarebbe insomma una bugia pietosa, frutto di grande

Cfr. rispettivamente Dionigi di Alicarnasso, A ntiqu itates

romanae, 2 .6 1 . 2 e Plutarco, Numa, 4. 1 1 . Cfr. rispettivamente Livio, A b m·be condita , 29. 1 9 . 5 o Gellio, Noctes atticae, 6. 1 .6 per il caso di Scipione, Plu­ tarco, Marius, 17 per quello di Mario, ancora Plutarco ,

Serlorius, 1 1 . 2 per Sertorio.

Premessa

sapienza politica, tesa a far penetrare più facil­ mente le regole del culto religioso e quelle della vita civile in un popolo abituato sino ad allora solo all'attività militare e alla violenza della guerra, proprio per questo particolar­ mente apprezzata dal Machiavelli dei Discorsi e divenuta più tardi un riferimento ineludibile nel dibattito moderno sulla categoria di 'reli­ gione civile' 7• ·Da un altro punto vista, il mito di Numa ed Egeria ricorda anche le fiabe di magia e l'ana­ lisi che ormai circa un secolo fa ne fece il grande folclorista russo Vladimir Propp: Propp

Cfr. in particolare N. Machiavelli, Discorsi sopm la prima

deca di Tito Livio, 1 . 1 1 : •E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a mandare gli eserciti, a riunire la plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più ohligata , o a Romolo o a Numa , credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché, dove è religione, facilmente si possono intro­ durre l'armi e dove sono l'armi e non religione, con diffi­ cultà si può introdurre quella. E si vede che a Romolo, per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e mili­ tari, non gli fu necessario dell'autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere domesti­ chezza con una ninfa, la quale lo consigliava di quello che elli avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse•.

13

14

I l re che parlava alle n i nfe

mostrò infatti che in questa tipologia di rac­ conti l'eroe si trova spesso alle prese con un compito difficile e proprio per questo si im­ batte di norma in un aiutante, spesso una fi­ gura estranea al mondo umano, dal quale ta­ lora riceve un amuleto o un altro mezzo ma­ gico che gli consente di portare a termine una missione che risulterebbe altrimenti superiore alle sue forze8• E tale senza dubbio era l'obiet­ tivo che Numa si era prefisso, quello di trasfor­ mare Roma da città di rozzi guerrieri, dediti solo all'attività bellica, in un luogo pacifico, im­ prontato alla pratica del culto religioso e al ri­ spetto della parola data, quella Fides alla quale proprio Numa avrebbe consacrato un culto. Per non parlare di altri compiti difficili - pren­ diamo ancora a prestito la terminologia di Propp - che il re si trova ad affrontare, come quello di catturare gli dèi Pico e Fauno perché gli insegnino come stornare i fulmini di Giove o quello di distogliere lo stesso Giove dal ri­ chiedere sacrifici umani per far cessare una pe­ stilenza o ancora quello di mettere al sicuro lo

Si tratta della funzione che V. J. Propp, Mmfologia della jìa!Ja. trad. it., Torino, 1966 designa con il simbolo •z· e che descrive alle pp. 49-'>5.

Premessa

15

scudo che Marte ha fatto piovere dal cielo e al quale sarà legata da quel momento in avanti la stessa sopravvivenza della città. Numa si rivela una volta di più un eroe civilizzatore, ma per adempiere a questo compito l'aiuto a lui of­ ferto da Egeria risulta prezioso, anzi indispen­ sabile. Insomma, quello del 're che parlava con la ninfa' si presenta come un mito affascinante e cot:nplesso, ricco di implicazioni e insieme non privo di zone d'ombra ; e affascinante è la stessa figura di Numa, fondatore della religione romana ma anche legislatore nei campi più vari, dall'economia alla misurazione del tempo alle regole sul comportamento delle donne , cosicché un vasto gruppo di 'leggi regie' , come le chiamavano ancora i giuristi romani di età imperiale, veniva fatto risalire alla sua inizia­ tiva . Ed è anche per questo che i cristiani, come vedremo, si impegnarono a demolirne la figura e a farne il portatore di un sapere di ma­ trice diabolica, alternativo a quello di un altro legislatore politico-religioso che diveniva in­ tanto centrale

nell'immaginario del

nuovo

credo, l'ebreo Mosè. Infine, per tutte queste ra­ gioni la figura di Numa è stata variamente ri­ presa nella pittura e nelle altre arti figurative

16

I l re che parlava alle n i nfe

per alludere ad altri momenti fondativi e 'legi­ slativi' della storia europea moderna, in parti­ colare a partire dall'età delle rivoluzioni: del resto, al secondo re di Roma aveva dedicato una biografia proprio quel Plutarco che sarà una delle letture obbligate per i 'novatori' tardo-settecenteschi. Alla esplorazione di tali aspetti è dedicato il seguito di questo libro. Mario Lentano Inverno

2018-2019

Ringraziamenti

Questo libro costituisce il primo punto di approdo di un lavoro più ampio che sto conducendo sulle figure del secondo re di Roma e della sua divina consigliera ; nella sua versione definitiva , attual­ mente in corso di elaborazione, esso conterrà an­ che le necessarie pezze d' appoggio bibliografiche, che qui sono state in parte sacrificate in omaggio al carattere del la collana che lo ospita e al pub­ blico - auspicabilmente più vasto rispetto a quello dei classicisti di stretta osservanza - al quale esso spera di arrivare. Lo spunto iniziale della ricerca è

Premessa

venuto, come in tante altre occasioni, da una ri­ flessione del mio maestro Maurizio Bettini , che ringrazio altresì per aver letto e reso migliori, una volta di più, le mie pagine, pur non serbando ov­ viamente alcuna responsabilità per quanto di in­ sufficiente o inadeguato dovessero ancora conte­ nere . Con molti amici e colleghi ho contratto de­ biti di riconoscenza , per le indicazioni fornite o per l'aiuto prestato nel non sempre facile reperi­ mento della bibliografia: voglio qui menzionare a questo proposito Sergio Audano, Laura Bevilac­ qua , Graziana Brescia, Jackson Bryce, Alain Dere­ metz , G ianluca De Sanctis , G iorgio Ferri, Stefano Grazzini, R6bert Horka, Chris tine Kossaifi, Sonia Macrì,

Ida Gilda Mastrorosa , Angelo Meriani,

Paolo Monella, Cristiana Pasetto, Francesca Pre­ scendi, Celia E . Schultz, Mark Silk, Anna Maria Urso, Cristiano Viglietti. Sono infine molto ricono­ scente a Luigi Garofalo per la curiosità intellet­ tuale con la quale si è accostato al mio lavoro , per aver accettato generosamente di accoglierlo nella pregevole collana da lui diretta e per averne seguito in ogni sua fase l'allestimento con affet­ tuosa sollecitudine.

17

I L'identità complessa di una divina consigliera

l.

Un poeta nella valle delle Camene. All'inizio della sua terza satira il poeta Gio­

venale si rivolge a un vecchio amico, Umbri­ cio, che ha deciso di abbandonare Roma per trasferirsi nella solitaria Cuma: una scelta dalla quale Giovenale si dice turbato ma tutt'altro che sorpreso, di fronte al crescente degrado della vita in città e ai concreti pericoli che essa ormai comporta per la stessa incolumità perso­ nale dei suoi abitanti. I due amici attraversano conversando le antiche arcate della porta Ca­ pena, lasciandosi alle spalle il cuore antico del­ l'urbe, e qui Umbricio sembra per un attimo indugiare , quasi tentato di ritornare sui propri passi, ma è una tentazione prontamente vinta dallo spettacolo avvilente che si apre davanti agli occhi dei due osservatori: Qui, dove Numa fissava notturni incontri con la sua amica (e ora si danno il bosco della sacra fonte e il santuario in affitto ai Giudei, che come unico bagaglio hanno un cesto con della paglia;

I l re che parlavo alle n infe

20

ogni albero è infatti tenuto a pa gare il fitto all'era­ rio, e la foresta , da quando sono state cacciate le Camene , è ridotta a mendicare), scendiamo nella valle di Egeria, tra grotte che non sembrano natu­ rali. Quanto più s'intuirebbe la presenza della di­ vinità della fonte, se l'erba chiudesse ancora con verde orlo le onde , se i marmi non violassero il tufo nativo! 1

Si tratta di una pagina interessante per di­ verse ragioni. In primo luogo, nella chiusa del passo la contrapposizione fra il semplice tufo del monumento originario e i preziosi marmi che successivamente lo hanno ricoperto riman­

da a un motivo ricorrente del moralismo roma­ no, quello del contrasto fra i materiali poveri con cui erano realizzati un tempo i simulacri

Giovenale, Saturae, 3 . 1 0-20 (trad. di B. Sa ntorelli): Sed du m tota domus raeda componifur u na, l substitit ad veteres arcus madidamque Capenam. l Hic, 11bi noctur­ nae Numa constituebat amicae l (nunc sacri fmztis ne­ mus et delubra locantur l Judaeis, quorum cophinus fe­ nHmque S!tpellex; l onmis enlm populo mercedem pen­ dere iussa est l arbor et eiectis mendica! si/va Camenis), l in mllem Egeriae descendimus et spelzmcas l disslmiles veris. Quanto praesentius esser l numen aqu is, t•iridi si margine cluderet undas l berba nec ingenuum violarent marmora tofum. Il passo presenta qualche problema te­ stuale che non possiamo qui affrontare e che i n ogni caso non compromette l'intelligenza del suo significato complessivo.

tidentità complessa di una divina consigliera

degli dèi e gli edifici sacri e lo splendore di statue e templi eretti nelle epoche successive , un contrasto cui è sottesa l'idea che al minimo pregio degli antichi manufatti corrispondesse il massimo di venerazione prestato loro e vice­ versa che l'accresciuto valore dei primi si sia accompagnato al progressivo venir meno della pietà religiosa . In questo senso, le due trasfor­ mazioni del bosco di Egeria denunciate da Giovenale - l'insediamento in esso di una co­ munità giudaica proveniente dall'Oriente e l'applicazione del marmo che ha cancellato l'o­ riginario perimetro della sorgente - rappresen­ tano in fondo altrettante varianti del medesimo motivo: in entrambi i casi ciò che è antico, e per ciò stesso, agli occhi di Giovenale , moral­ mente superiore, viene rimpiazzato da un ele­ mento posticcio e sostanzialmente estraneo al­ le preesistenze cui si sovrappone. Le stesse Camene, titolari da tempo imme­ morabile dell'area sacra fuori porta Capena e ora scacciate dalla propria sede, rappresentano una sorta di contraltare divino di Umbricio, co­ stretto a sua volta ad abbandonare la propria città da condizioni di vita divenute ormai intol­ lerabili. E certo non è un caso che Giovenale abbia scelto per suggerire questo parallelismo

21

Il re che parlava alle ni nfe

22

proprio le Camene: divinità squisitamente itali­ che, come vedremo, figure di una religione in­ digena e non importata dalla Grecia o dall'O­ riente, e dunque ben adatte a fungere da pen­

dant di una figura , quella di Umbricio, che ri­ vendica orgogliosamente la propria identità di 'nativo', presentandosi come qualcuno che sin da bambino ha •respirato l'aria dell'Aventino• e la cui infanzia si è •nutrita di olive sabine•2• Tra il vecchio amico in procinto di abbandonare una Roma ormai invasa dai Greci e le antiche dee espulse dalla propria sede occupata ora dagli immigrati ebrei esiste insomma una corri­ spondenza profonda. Soprattutto, la pagina della terza satira rap­ presenta un esempio interessante del valore che all'interno delle culture umane i luoghi possono assumere in quanto reti di simboli ca­ paci di rimandare a vicende storiche , costrutti culturali, processi di definizione identitaria. Nel suo memorabile saggio sulla Memoria cultu­

rale, ]an Assmann ha scritto a questo riguardo che ogni civiltà elabora •quadri mnemonici

Giovenale,

Saturae, 3 .H4-H5: l!sque adeo nihil est quod nostra i nfantia caelum l hausit Aventini baca nutrita Sabirw?

!:identità complesso di uno divino consigliera

spaziali i quali fissano il ricordo anche e so­ prattutto in absentia•; si tratta di •luoghi i quali non costituiscono solo un teatro delle sue forme di interazione , ma anche i simboli della sua identità e dei punti d'aggancio per il suo ricordo•. La memoria di qualsiasi comunità dunque ·ha bisogno di luoghi, tende alla spa­ zializzazione•; d'altra parte il ricordo stesso è •Un atto di semiotizzazione•, un processo che attribuisce al passato un significato condiviso 3• In questo senso, l'intera area della porta Ca­ pena nella quale Giovenale ambienta la scena che abbiamo descritto rappresentava un vero e proprio scrigno di memorie: i suoi •vecchi ar­ chi>, come affettuosamente li definisce il poeta, si aprivano nel circuito delle antiche mura ser­ viane; nei suoi pressi si trovavano la vene­ randa struttura del tigillum sororium, la •trave della sorella•, legata al mito del plurimo duello fra Orazi e Curiazi e alla successiva uccisione di Orazia da parte del fratello uscito superstite dallo scontro, ma anche i sepolcri di grandi eroi repubblicani come gli Scipioni e i Claudi

.J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità poli t ica nelle p,randi cil'iltà antiche, Torino, 1 997 (ed. or. 1992). pp. 14 e 49.

23

24

Il re che parlava alle n i nfe

Marcelli e i numerosi edifici templari, tra i quali il santuario di Marte e quello consacrato alle Tempeste . Ma tale densa sintesi di storia della città in forma monumentale rischia di perdere il proprio significato nel momento in cui quei luoghi sono fruiti da chi ha smarrito o non ha mai posseduto i codici per decifrare i simboli che li costituiscono, quali sono ap­ punto i Giudei di Giovenale . Il bosco fuori porta Capena si lega a un momento fondativo della storia di Roma , rimanda agli spazi fre­ quentati dal re Numa nei suoi notturni conve­ gni con la divinità tutelare del luogo, Egeria 'dal suono melodioso' : ma quegli stessi alberi non dicono nulla ai suoi abitatori contempora­ nei, rappresentano una cornice anonima e priva di significato per una comunità che non solo è straniera, ma viene da sempre percepita come estranea alla memoria condivisa della città . La semiotizzazione di cui la cultura ro­ mana li ha investiti, per riprendere la categoria di ]an Assmann, è muta ai loro occhi.

È giunto allora il momento di guardare più da vicino cosa accadeva , in quel bosco, alle origini della storia di Roma, nel tempo remoto tra la fine dell'VIII e gli inizi del VII secolo a.C.

l'identità complesso di uno divino consigliera

2. Un 'identità complessa. I tratti del mito sono noti, ma conviene ugualmente riassumerli qui per comodità. Ege­ ria è una ninfa, forse una delle Camene o sen­ z'altro una dea, ricca di sapienza, che diviene amante o moglie di Numa, dopo che il re è ri­ masto vedovo di Tazia ; i convegni tra i due , che suscitano nei Romani d i volta i n volta scet­ ticismo o una curiosità un po' morbosa, hanno luògo di notte, in un bosco alle porte di Roma, dove sgorga una fonte perenne all'interno di una cavità o grotta che Numa stesso consa­ crerà poi alle Camene , a loro volta compagne di Egeria (tutti questi dati andranno poi esami­ nati uno alla volta , ma per il momento ci limi­ tiamo ad affastellarli senza discuterli) . La rela­ zione fra il saggio re e la sua compagna è strettamente legata all'attività di Numa come ri­ formatore e legislatore : tutte le misure assunte dal sovrano in campo religioso o giuridico due ambiti strettamente intrecciati nella cultura romana - derivano infatti dai consigli assennati che Numa riceve dalla sua ispiratrice divina . Egeria istruisce il re in particolare in merito ai riti graditi agli dèi e ai sacerdoti che devono presiedere a ciascuno di essi; in una circo-

25

26

Il re che parlava a l le n i nfe

stanza gli suggerisce anche il modo per con­ vincere i diffidenti Romani in merito alla realtà dei loro incontri, in un'altra quello per placare Giove, la cui ira è resa manifesta da una pesti­ lenza che imperversa nella città . Alla morte di Numa, scomparso più che ottantenne dopo quarant'anni di regno, la ninfa è infine prota­ gonista di un racconto di metamorfosi: Egeria abbandona Roma e cerca conforto al suo do­ lore nel bosco di Ariccia, consacrato a Diana ; qui infine si scioglie in pianto, dando origine a una sorgente e a un ruscello che sfociava poi nel lago di Nemi e che in età storica rientrava fra le pertinenze del grande santuario aricino. Cosa sappiamo su Egeria? Sino a questo momento l'abbiamo definita 'ninfa ' , seguendo le indicazioni delle fonti antiche, o piuttosto, come vedremo, una delle possibili indicazioni.

Nympha è un termine che i Romani desumono dal lessico religioso greco e che indica divinità minori, legate a elementi dell'ambiente natu­ rale come montagne, alberi, fiumi e soprattutto sorgenti, spesso menzionate in gruppo piutto­ sto che singolarmente . In questo senso l'area fuori porta Capena, con il suo bosco e la fonte d'acqua all'interno di una grotta, costituiva un ambiente che richiamava inevitabilmente agli

!:identità complessa di una divina consigliera

27

occhi dei Romani la presenza del soprannatu­ rale, e in particolare proprio quella di figure come le ninfe. Ma non si tratta dell'unica possibilità . Un passo del lessicografo Festo, che risale al

n

se­

colo d.C. ma trasmette materiali eruditi più an­ tichi, informa che •alla ninfa Egeria le donne gravide offrivano sacrifici, poiché si riteneva che essa facilitasse la fuoriuscita dell'embrione dall'utero• 4 • L'immagine del parto è espressa in questo lemma dal verbo egerere, propriamente 'portare fuori' : una voce la cui connessione con il ruolo attribuito alla divinità doveva pre­ sentarsi come ovvia all'orecchio dei Romani, specie se si considera che in latino gerere e il suo derivato gestare, dal quale provengono ter­ mini italiani come 'gestante' o 'gestazione', sono legati proprio all'ambito della gravidanza . A giudicare dalle parole di Festo, dunque, Egeria rientrava in quella vasta area del pan­ theon romano abitata dai cosiddetti 'dèi dell'at­ timo' , come li hanno chiamati gli studiosi mo­ derni, o piuttosto, per rispettare la terminologia

De ve,·bolum sign!fìcatu. p. 67 .25-26 Lindsay: Ege­ riae nymphae sac rificaban t praegnantes. quod eam pu­ tabant facile conceptum a/m egerere.

Pesto.

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Il re che parlava alle ni nfe

degli antichi, dei certi o dei minuti: una folla di figure divine (se ne sono contate almeno centoquaranta) chiamate a presiedere ogni mo­ mento della vita e per nostra fortuna conside­ rate abbastanza irritanti dagli autori cristiani di lingua latina da indurre questi ultimi a ricor­ darle polemicamente e a trasmetterne così la memoria sino a noi. Gli dei certi, va detto, non presidiavano in maniera uniforme tutti gli am­ biti dell'esperienza umana, ma si affollavano in particolare intorno ad alcune specifiche aree di crisi, come potremmo definirle, momenti della vita che per la loro delicatezza erano partico­ larmente esposti al rischio del fallimento e dunque bisognosi di una protezione divina rin­ forzata . I processi del concepimento e del parto costituivano naturalmente uno di questi momenti, e perciò intorno alla puerpera si af­ faccendava una molteplicità di 'piccoli dèi'. Per limitarsi a un solo esempio, Varrone cita la dea Numeries, invocata anch'essa al mo­ mento del parto affinché la puerpera potesse sgravarsi rapidamente; gli antichi, spiega l'eru­ dito, usavano infatti l'avverbio numero quando volevano dire che qualcosa era stata fatta velo­ cemente. Alla stessa dea , sempre secondo Var­ rone, era anche connesso il prenome Nume-

l'identità complessa di una divina consigliere

rius, evidentemente attribuito a un bambino nato senza difficoltà, proprio come si chiamava

Lucius un figlio venuto al mondo prima luce, cioè all'alba, e Manius chi fosse invece nato

mane, cioè di mattina'· La dea Numeries in­ somma esplicava la propria azione in una zona contigua a quella di Egeria, per certi versi anzi sovrapponibile ad essa, dato che la facilità del parto, cui quest'ultima presiedeva, è connessa in �odo molto stretto alla sua rapidità : lo sa­ peva bene la povera Alcmena, le cui doglie fu­ rono prolungate ad arte da Era per punirla di portare in grembo l'ennesimo figlio concepito da Zeus con una donna mortale. D'altra parte, la pertinenza della nostra Ege­ ria al campo degli dei certi è confermata anche da un altro aspetto. Le divinità che apparten­ gono a questa peculiare provincia della reli­ gione romana sono infatti caratterizzate dall'as­ soluta trasparenza dei loro nomi: a differenza degli dèi maggiori, come Apollo o Giunone, le cui denominazioni possono certo sempre es­ sere chiarificate attraverso la ricerca etimolo-

Il passo di Varrone è citato in Nonio,

doctriua,

11

De compendiosa

559.31-35 Lindsay, mentre su Lucius e Ma­

nius informa l'anonimo Liber de praenominibus, 5.

29

30

Il re che parlava alle ni nfe

gica ma si presentano di per sé opache, nel caso dei 'piccoli dèi' la loro identità si concen­ tra e si riassume nel solo nome , il quale pro­ prio per questo deve incorporare la maggiore quantità possibile di informazione . L'obiettivo viene raggiunto di norma attraverso l'aggiunta di semplici suffissi (-ina, -ona

o,

come nel no­

stro caso, -ia) al termine che esprime la por­ zione della realtà su cui quegli dèi agiscono, per cui Cunina è la dea della cuna o culla,

Ruminus e Rumina le divinità della ruma o mammella , Segetia la dea preposta alle segetes, cioè alle messi, e così via .

Né mancano

esempi, analoghi a quello di Egeria , in cui il nome deriva non già da un sostantivo, ma sen­ z'altro dal verbo che esprime l'atto su cui ve­ glia la relativa divinità : è il caso di Peifica, la dea che porta a compimento (peificere) l'atto sessuale tra i novelli sposi, o quello di Sentia, la divinità che presiede allo sviluppo del pen­ siero nel bambino e il cui nome è direttamente connesso al verbo sentire. Va detto comunque che il legame etimolo­ gico suggerito da Festa fra il nome di Egeria e l'atto di egerere, di 'portare a termine' la gesta­ zione , non è l'unico registrato dalle fonti anti­ che . Agostino, il grande padre della Chiesa la-

!:identità complessa di una divina consigliera

tina che polemizza a più riprese contro Numa Pompilio in quanto fondatore della religione 'pagana' e dei suoi riti, si occupa a sua volta del mito relativo ai rapporti fra il re e la sua di­ vina consigliera, solo che nel farlo riporta, per il nome della ninfa, una spiegazione del tutto diversa rispetto a quella che abbiamo esami­ nato sin qui ed estremamente interessante.

3. L 'Ègeria di un cristiano ... Proviamo dunque a seguire il ragionamento di Agostino, per come l'autore lo sviluppa in una delle sue opere dottrinariamente più com­ plesse, la Città di Dio, scritta all'indomani del sacco di Roma del 410 d.C. Di Numa Pompilio Agostino si occupa già in uno dei primi libri del suo capolavoro, laddove è impegnato a de­ molire il motivo del decisivo contributo divino alla grandezza di Roma e alla costruzione del­ l'impero, così familiare alla storiografia latina ; in questo contesto Agostino si imbatte inevita­ bilmente nella figura di Numa , che la tradi­ zione 'pagana' gli consegnava come uomo sa­ piente nelle cose divine e fondatore della reli­ gione romana:

31

I l r e c h e parlavo alle n i nfe

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Si crede che questi stessi dèi abbiano aiutato Numa Pompilio successore di Romolo, al punto che per tutta la durata del suo regno mantenne la pace e poté chiudere le porte del tempio di G iano, che di norma restano aperte durante le guerre

[

.

. . ). Certo bisognerebbe congratularsi con

un tale uomo per una così prolungata situazione di quiete, se solo l'avesse saputa impiegare per at­ tività salutari e , messa da parte la sua dannosis­ sima curiosità, avesse ricercato il vero dio con de­ vozione vera. In realtà non furono quegli dèi a procurargli quella quiete ; ma forse essi lo avreb­ bero ingannato meno facilmente se lo avessero trovato meno ozioso . Invece, quanto meno occu­ pato lo trovarono, tanto più furono essi stessi a occuparlo. Cosa poi egli abbia architettato e con quali artifici sia riuscito a legare a sé e alla città si­ mili divinità lo spiega Varrone e noi stessi, a Dio piacendo, ne tratteremo più accuratamente al mo­ 6 mento opportuno .

Agostino, De ciuitate Dei, 3.9 : Hi etiam Numam Pompi­

lium successorem Romu/1 adiu11iss e creduntur, ut foto re­ gni sui tempore pacem baberet et /ani portas, quae bellis patere assolent, c/auderet [ . . ] . Il/i l'ero bomini pro tanto otio gmtulandum fuit, si modo id rebus salubribus scis­ set impendere et perniciosissima curiositate neglecta, Deum verum uera pietate perquirere. Nunc autem non ei dii contuleru nt illud otium, sed eu m min us .fortasse decepissent, si otiosum minime repperissellf. Quanto enim minus eum occupatu m im•enerunt, tanto magis ipsi occupaverunt. Nam quid ille molitus sit et quibus ar­ tibus deos tales sibi ve/ il/i civita ti consociare potuerit, Varro prodit, quod, si Domino placuerit. suo diligentius dLçseretur loco. .

l:identità complessa di una divina consigliera

Il tono di questa pagina agostiniana , va detto, è decisamente sprezzante : Numa non venne affatto ispirato dal vero dio, alla cui ri­ cerca omise anzi colpevolmente di dedicarsi nonostante la lunga pace che caratterizzò il suo regno; al contrario, di quella pace appro­ fittarono le forze demoniache per impadronir­ si del sovrano. Colpisce poi nel ragionamento di Agostino il senso fortemente negativo as­ sunto dal termine curiositas, non a caso acco­ stato a un aggettivo come perniciosissima, an­ che se in questo il grande teologo non faceva che riprendere un uso già proprio degli autori cristiani che lo avevano preceduto. Per gli apologeti del nuovo credo infatti la curiosità non costituisce affatto una virtù , l'indizio di un'intelligenza protesa alla conoscenza del mondo e alla comprensione delle cose , ma al contrario designa spesso le vane elucubrazioni dei filosofi o rappresenta la premessa delle più diverse deviazioni dottrinarie o ancora la giustificazione del ricorso a pratiche 'diaboli­ che' come l'astrologia e la magia, fino a di­ ventare talora un semplice sinonimo di super­

stitio. Questa prima apparizione della figura di Numa nel De civitate Dei mette dunque su-

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Il re che parlava alle n i nfe

bito in chiaro la posizione di Agostino; ma l'autore , come promesso, torna nuovamente sul secondo re di Roma anche più avanti nel corso dell'opera, soffermandosi questa volta in particolare sulla natura della sua ispirazione . Numa , chiarisce adesso Agostino, non ebbe affatto l'assistenza di un •profeta di Dio• né venne inviato a lui alcun •santo angelo• che lo aiutasse a definire il suo complesso di norme religiose : le indicazioni sulle scelte da compiere e sulle leggi da adottare il vene­ rando re di Roma le riceveva bensì da una fonte soprannaturale, ma quest'ultima era rap­ presentata in realtà da illusorie presenze de­ moniache. Sin qui niente di nuovo, natural­ mente , si sa che i teologi cristiani dei primi secoli ricorrevano facilmente a questa sorta di 'derubricazione' degli dèi tradizionali al rango di demoni, inclini come tali a ingannare gli uomini con apparenze che avevano la sem­ bianza della verità . Oltre tutto, prosegue Ago­ stino, nel caso di Numa non si trattava nep­ pure di una diretta comunicazione con il di­ vino, perché le 'voci' che indicavano a Numa cosa dovesse •Stabilire e osservare in materia di riti religiosi> provenivano da immagini di dèi che apparivano sulla superficie dell'ac-

L:'identità complessa di una divina consigliera

qua 7• Numa , in altre parole , si dedicava a quella particolare pratica divinatoria che gli antichi chiamavano idromanzia, così definita , ormai alle soglie del Medioevo, da Isidoro di Siviglia: •L'idromanzia consiste nell'evocare le ombre dei demoni osservando uno specchio d'acqua, nel vedere le loro immagini inganne­ voli e nell'udire alcune parole che da esse provengono•R. Ecco dunque in cosa consiste la perniciosissima curiositas di Numa, quella sete di conoscenza che si rivolge però verso obiettivi deteriori e finisce per acquisire un sapere ingannevole e pericoloso. Ma cosa ne è di Egeria, in questa radicale riformulazione del mito? Presto detto:

De civitate Dei, 7.3'5: Na m et ipse Numa. ad quem nullus Dei propbeta. nullus sanctltS mzgelus mitte­ batur, hydromantiam facere compulsus est, ut in aqua videret imagines deorum ve/ potius ludificationes daemo­ num. a quibus audiret, quid in sacris constituere atque obseroare deberet. Quud genus divinationis idem Varro a Persis dici/ allatu m, quo et ipsum Numam et postea Pythagoram philosophum usum jùisse commemora/. Agostino,

Isidoro, E�ymologiae, H.9. 1 2: est enim hydromalllia in aquae inspeclione umbms daemonum evocare, et imagi­ nes ve/ ludijìcationes eorum videre. ibique ab eis aliqua audi re.

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Il re che parlava alle n i nfe

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Dal momento che Numa Pompilio egesserit, ov­ vero portò fuori dell'acqua per compiere le prati­ che dell'idromanzia , a lui fu attribuita come mo­ glie la ninfa Egeria, secondo la spiegazione che ne dà Varrone9•

La dea del parto facile è scomparsa, insieme con la ninfa che suggerisce al re le iniziative da assumere nella sua attività di legislatore: la leggenda di Egeria, e lo stesso nome comune­ mente attribuito alla compagna di Numa, sono nati in realtà dalla circostanza per cui quest'ul­ timo 'portava fuori' , egerebat si sarebbe detto in latino, l'acqua necessaria per le evocazioni demoniache . Del resto, l'idromanzia veniva praticata comunemente in un bacile , in greco

lékanon (da qui il nome più preciso di 'leca­ nomanzia'), che andava ovviamente riempito d'acqua per assolvere al suo scopo. Per rende­ re le cose ancora più chiare , anzi, Agostino si preoccupa persino di operare una traduzione intra-linguistica rispetto alla sua fonte varronia­ na, rendendo il verbo egerere, evidentemente

civitate Dei, 7.35: Quod ergo aquam egesse­ rit, id est exportaverit, Numa Pompilius. u nde bydro­ mantimz facerr?t, ideo nympbam Egeriam coniugem dici­ tur bahuisse, quem ad modum in supra dieta libro Var­ mnis exponitur.

Agostino, De

!:identità com plessa di una divina consigliera

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sentito ai suoi tempi come arcaico, con il più moderno sinonimo exportare. Resta la connes­ sione con la sfera dell'elemento liquido, quella che aveva fatto di Egeria una ninfa sia a Roma che nel bosco di Ariccia, e non c'è dubbio che questo abbia favorito la rilettura della vicenda attestata da Agostino, ma l'acqua si è trasfor­ mata in uno strumento posto al servizio di una pratica di matrice diabolica. S'intende che in mancanza dell'originale varrÒniano al quale il vescovo di Ippona di­ chiara di fare riferimento è difficile dire quanto della sua pagina provenga dal dotto reatino e quanto invece dalla riformulazione dei dati presenti in quest'ultimo e dal loro adattamento all'orizzonte

cristiano

di Agostino.

Sembra

chiaro comunque che anche Varrone propo­ neva una lettura razionalizzante della vicenda di Numa ed Egeria e che nel farlo imboccava una via decisamente diversa rispetto a quanti vedevano in quella vicenda una pia fraus, un inganno congegnato dal re per conferire auto­ revolezza alle norme da lui emanate e farle pe­ netrare più facilmente nei rozzi animi dei primi Romani. Per Varrone, gli dèi hanno davvero parlato a Numa, le sue decisioni in materia di diritto o di culti religiosi rivelano effettivamente

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Il re che parlava a l le n i nfe

una matrice divina ; ma questa interlocuzione avviene per il tramite di una pratica divinatoria come l'idromanzia . Era poi accaduto che l'atto di 'portare fuori' l'acqua necessaria allo svolgi­ mento di quella pratica , l'atto di egerere in­ somma, avesse dato origine a un certo mo­ mento all'idea che il re si incontrasse con una figura divina cui era stato attribuito un nome desunto dalle cerimonie compiute da Numa . Insomma, all'origine del personaggio di Egeria non c'era un'invenzione di carattere 'real-poli­ tico', ma un fatto di natura linguistica. C'è però un'ultima pista che vorremmo bre­ vemente percorrere prima di abbandonare le pagine che Agostino dedica alla figura dell'an­ tico re di Roma . A noi sembra infatti che l'insi­ stenza con la quale la Città di Dio prende le distanze dalla figura di Numa non discenda solo dalla volontà di demolire il creatore della religione tradizionale, con il suo apparato di santuari, culti, cerimonie e sacerdozi, ma an­ che dal fatto che alla sensibilità del grande teo­ logo cristiano quel venerando sovrano doveva presentare imbarazzanti affinità con il perso­ naggio biblico di Mosè : anch'egli un legisla­ tore , anch'egli un leader politico del suo po­ polo in un momento aurorale della sua storia ,

tidentitò complesso di uno divino consigliera

e soprattutto anch'egli ispirato dalla divinità in occasione dei ripetuti incontri che hanno luogo nel deserto del Sinai e in assenza di qualsiasi testimone, un aspetto quest'ultimo sul quale il testo biblico dell'Esodo insiste particolarmente e che trovava ancora una volta un puntuale parallelo nella natura segreta dei convegni fra Numa ed Egeria, anch'essi sottratti agli sguardi curiosi dei Romani 10• A ben vedere , anzi, l'analogia tra il re ve­ nuto dalla Sabina e il condottiero ebraico non riguardava solo la loro biografia, ma il conte­ nuto stesso delle norme che all'uno e all'altro erano state dettate. A sottolinearlo, già due se­ coli prima di Agostino, era stato il più antico scrittore cristiano in lingua latina, il cartaginese Tertulliano, il quale ne dava peraltro una spie­ gazione piuttosto bizzarra : a suo dire, infatti, quelle somiglianze dimostravano la formidabile capacità 'mimetica' del diavolo e la sua abilità nel riprodurre , in un contesto idolatrico, le forme del culto cristiano e persino gli oggetti 1"

La Bibbia ricorda a questo proposito come si vietasse persino alle greggi di pascola re ai piedi del monte dov e

sarebbe avvenuta la rivelazione: cfr. H.>.:odus. 1 9. 1 2- 1 3 e 2 1-24.

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Il re che parlava alle n infe

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materiali necessari per il suo svolgimento, in­ somma quella che i teologi definivano imitatio

diabolica 11 • È probabile perciò che quando Agostino si trova a sua volta ad affrontare la vicenda di Numa, egli intenda anche suggerire che la figura del secondo re di Roma e quella del legislatore degli Ebrei, ad onta delle loro apparenti analogie , non sono in alcun modo comparabili, esattamente come l'apoteosi di Romolo, della quale pure Agostino si occupa, non ha niente a che vedere con l'ascensione del Cristo. A questa volontà di ribadire le di­ stanze rimanda appunto l'affermazione , posta non a caso proprio in apertura di discorso, se­ condo la quale Numa fu costretto a ricorrere all'idromanzia per il fatto che a lui •non veniva inviato alcun profeta di Dio né alcun santo an­ gelo•. Qui però le cose si complicano. Il testo dell'Esodo è infatti molto esplicito nell'affermare che le norme della legge furono rivelate a Mosè direttamente dal dio ebraico, senza l'intervento di alcun mediatore. Ecco in­ fatti come il racconto biblico narra lo svolgi­ mento dei fatti: in un primo tempo la divinità 11

Tertulliano. De praescriptione haereticorum, 40.6-7.

!:identità complessa di una divina consigliera

parla a lungo, enumerando una serie di regole che muovono dal ben noto decalogo, ma com­ prendono anche una minuta regolamentazione della vita sociale e religiosa della comunità , quindi il testo si conclude affermando che •quando [il Signore] ebbe portato a termine questo genere di discorsi sul monte Sinai diede anche a Mosè due tavole della testimonianza , in pietra , scritte dal dito di Dio• 12• La rivela­ zione procede dunque in due tappe, prima at­ traverso la comunicazione orale del volere di Jahvè, quindi attraverso la messa per iscritto di quel volere; al patriarca spetta solo il compito di procurare , per così dire, il supporto mate­ riale per questa attività di scrittura, mentre sarà la divinità stessa a fissare su di esso le proprie parole , e per di più in un modo che l'autore biblico immagina in termini molto concreti: Dio utilizza infatti direttamente il proprio dito per incidere le tavole. Del resto, anche dopo che Mosè ha infranto in un accesso d'ira le due lastre, furibondo perché durante la sua as-

"

Exodus, 3 1 . 1 8 (nella traduzione della Vulgata di Giro­ lamo): dedil quoque Masi conpletis huiuscemodi sermo­

nihus in monte Sinai duas tabulas testimonii lapideas scriptas digito Dei (ripreso in Delllerrmomium, 9. 10); cfr. anche E"wdus, 24. 1 2; 34. 1 8: Deuteronomium, 10. 1 -2.

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Il re che parlava alle n infe

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senza gli Ebrei si sono costruiti un vitello d'oro al quale hanno iniziato a prestare culto, e si rende dunque necessario procedere a una nuova redazione della legge, è sempre la divi­ nità a richiedere due nuove tavole, identiche alle precedenti, aggiungendo: •lo scriverò su di esse le parole già contenute nelle tavole che tu hai spezzato• 13• Tuttavia , nel successivo sviluppo del pen­ siero ebraico questa formulazione originaria dovette andare incontro a un processo di ese­ gesi documentato già nel cosiddetto Libro dei

giubilei, un testo non canonico risalente alla fine del

n

secolo a.C. e ben noto agli autori cri­

stiani dei primi secoli, nel quale si afferma che la divinità dà istruzione a un angelo - chia­ mato 'angelo della presenza' e caratterizzato da una speciale intimità con Dio - affinché detti a Mosè le parole della legge . I frutti di questo processo affiorano nella cultura del

1

secolo d.C. tanto in ambito giudaico, con Giu­ seppe Flavio, quanto nel contesto più stretta­ mente cristiano testimoniato dal canone neoL'

Exodus, 34. 1 : Ac dei n ceps praecide ait tihi duas tahulas tapideas instar priorum et scriham super eas t•erba quae habuerunt tahulae quas .fregist i .

!:'identità complessa di una divina consigliera

testamentario. Così, in un discorso alle truppe riferito nelle Antichità giudaiche il re Erode af­ ferma che gli Ebrei hanno appreso •le dottrine più belle e le leggi più sante da angeli inviati

da Dia> 14; negli Atti degli apostoli è invece Ste­ fano, considerato dalla tradizione cristiana il primo martire della nuova fede, che ricorda ai propri aguzzini come essi abbiano ricevuto la legge per mano degli angeli e in un altro punto, ancora più espressamente , come Mosè non fosse che un •mediatore tra l'angelo che gli parlava sul monte Sinai e i nostri padri• 15• Infine, il tema ritorna in almeno un paio di oc­ casioni nell'epistolario paolina, in particolare nella Lettera ai Galati, dove si afferma che la legge ·fu promulgata per mezzo degli angeli at­ traverso un mediatore• (si tratta, come si vede, delle stesse parole contenute negli Atti) e nella

''

Giuseppe Flavio,

Antiquitates iudaicae, 1 1 . 1 36: Tj].!ÒlV ÒÈ -rà

Killtma tòlv .Soy]latrov Kaì tà òcnpì cruJ.mapicnaTat l eù9ùç yEVoJ.t.évcp J.mcnayoryòç TOÙ �iou. Itidem ex sempitern is Homeri car­

minibus intelleRi datur. non deos caelestes cum viris j011ibus conlocutos nec aqfuisse puRnmUibus 11el iuvisse, sed jamiliaris genios eu m isdem z>ersatos. quorum ad­ miniculis freti praecipuis Pythagoras enituisse dicitztr et Socrates Numaque Pompilius et sttperior Scipio et, ttt quidam existimant, Marius et Octavianus, cui Augusti vocabulum delatu m est primo, Hermesque Temzaxirmts et Tyaneus Apollonius atque Plotinus, ausus quaedam super hac re disserere mystica, alteque monstrare, qui­ btts primordiis bi genii animis conexi mortalittm eas tamquam gremiis suis susceptas tuentur, quoad licitum est, docentque maiora.

!: i dentità complessa di una divina consigliera

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Possiamo prendere le mosse da Seneca , il quale definisce il genius (e la iuno, che ne co­ stituisce l'equivalente femminile) un ·dio peda­ gogo•, assegnato dai maiores a ogni singolo in­ dividuo. Si tratta di divinità che non apparten­ gono alla schiera degli dèi maggiori, precisa il filosofo, ma semmai a quelli di second'ordine, gli stessi che la scanzonata teologia di Ovidio considerava una sorta di equivalente celeste della plebe romana 20• Una generazione più tardi la fede nell'esistenza del genio personale è oggetto della sferzante ironia di Plinio il Vec­ chio, che coglie in essa uno dei tanti indizi della sconfinata presunzione umana e osserva come per questa via la popolazione divina fini­ sca per diventare persino più numerosa di quella mortale, ·dal momento che ognuno da sé stesso ricava altrettanti dèi, adottando per sé una giunone o un genio• 21 • Infine, nel '0

m

se-

Seneca, .Epistulae ad Luciliu m, 1 1 0. 1 : Sepone in praesen­

tia quae quibusdam placent, unicuique nostru m paeda­ gogum dari deum, 110n quidem ordinarium. sed b une iriferioris notae ex eorum numero quos Ovidius ait 'de plebe deos ·. Ita tamen boe seponas volo ut memineris maiores nostros qui crediderunt Stoicos fuisse; singulis enim et genium et iunonem dederunt. 21

Plinio il Vecchio, Naturalis bistoria, 2 . 1 6 : Quam oh rem

maior caelitum populus etiam qua m bomiuu m inteii!?!Ji

Il re che parlavo alle n infe

50

colo d.C. Censorino, il dotto autore del De die

natali, definisce il genio come il dio •sotto la cui tutela ogni uomo nasce e vive•, il cui nome deriva •O dal fatto di provvedere alla nostra na­ scita , o dal fatto di nascere insieme con noi o ancora

dal fatto che

quando veniamo al

mondo ci prende in carico e ci protegge•. Più avanti, Censorino precisa che il genio •ci è stato posto accanto come custode permanente, che non si allontana da noi neppure per un brevissimo lasso di tempo, ma ci accompagna dal ventre materno sino all'ultimo giorno della vita• 22• Contemporaneamente, una tradizione di stampo più spiccatamente filosofico, che aveva la sua remota matrice nel Timeo platonico, preferiva identificare il genio con l'anima razio­ nale, quella scintilla di intelligenza divina che

potest, cum singuli qu oque ex semet ipsis totidem deos faciant Iunones Geniosque adoptando sibi. --

Censorino, De die natali, 3. 1 e 5: Genius est deus, cuius

in tutela ut quisque natus est viuit. Hic sive quoa ut ge­ namur curat. s ive quod una genitu r n obiscum, s il•e etiam quod nos genitos suscipit ac tutatur. certe a ge­ nendo genius appellatur. [ . . . ] genius autem ita nohis ad­ siduus obse/1.'ator adpositus est. ut ne puncto quidem temporis longius abscedat, sed ab utero matris acceptos ad extremum uitae diem comitetur.

!: i dentità complesso di uno divino consigliera

rappresenta la componente immateriale celata in ogni essere umano: a Roma se ne fa inter­ prete già Varrone, che spiega in questo modo la diffusa credenza nel genio personale, asse­ gnato a ogni singolo individuo 23. Del resto, una simile identificazione appare anche in contesti dottrinariamente assai meno impegna­ tivi, come in quel passo dell'Aulularia di Plauto in cui l'avaro Euclione si rammarica delle ristrettezze che da sempre ha imposto alla sua vita affermando che così facendo ha lui stesso ·defraudato il suo animo e il suo ge­ nio• 24. Ecco dunque di cosa parlava ai propri in­ timi l'imperatore Costanzo: se il genio nasce e muore insieme con la persona alla cui tutela è stato preposto, allora la sua scomparsa non può che essere un presagio della morte immi­ nente di quest'ultima , anzi ne costituisce il preannuncio più chiaro ed esplicito. Non a caso anche Giuliano, nella notte che preede la 23

La citazione varroniana , come sempre, si legge in Ago­ stino, De ciz •itate Dei, 7 . 1.3 : a/io loco Genium dici/ esse uniuscuiusque animum rationalem et ideo esse sinRulos sinRulorum . La fonte platonica è costituita da Timaeus, 90 a-d.

"

Plauto, Aulularia. 724-725.

51

I l re che parlava a l le n i nfe

52

sua scomparsa, vedrà il genio allontanarsi da lui in aspetto lugubre 25• Nella tradizione dei se­ gni premonitori re lativi alla morte di questo o quel principe è del resto comune il fatto che tale morte sia anticipata da eventi che riguar­ dano non direttamente l'imperatore ma un suo doppio, ad esempio una statua o un busto che cadono o sono colpiti dal fulmine: come se in­ sieme all'individuo, e anzi subito prima di lui, iniziassero progressivamente a scomparire le tracce esterne della sua presenza e del ruolo da lui giocato nel mondo, il versante pubblico, per così dire , della sua identità . Nel caso di Costanzo, poi, si trattava del genio dell'impera­ tore , che la cultura romana aveva valorizzato sin dall'epoca di Augusto, facendone oggetto di culto o divinità da invocare nei giuramenti. Il mondo dei geni e delle giunoni è comun­ que un aspetto decisamente affascinante della religione romana . Nell'orizzonte della cultura 'pagana' infatti essi non sono legati solo ai sin­ goli individui, ma anche a formazioni sociali più ampie : così, se il personaggio di un· mimo 2'

Ammiano Marcellino, Historiae, 2 5 . 2 . 3 (si tratta in questo caso del genius publicus del popolo romano, sul quale diremo qualcosa più avanti).

L:'identità complessa di una divina consigliera

di Decimo Laberio, attivo in età cesariana, sembra invocare il genio come •padre della nostra famiglia•, da fonti epigrafiche sappiamo dell'esistenza di geni delle legioni o dei soda­ lizi professionali; inoltre, già a partire dall'età repubblicana e poi soprattutto durante l'impero ricorre spesso la menzione del genio pubblico o genio del popolo romano, comunemente rappresentato con l'attributo della cornucopia . Ma non era il solo mondo umano, nelle sue di­ verse espressioni individuali e sociali, a godere della protezione dei geni: il genio, spiega in­ fatti il commento di Servio a Virgilio, è sì un

deus naturalis, e dunque una divinità legata alla nascita, ma a possedere un proprio genio sono anche le cose e i luoghi 26: il dio tutelare degli esseri umani si inserisce insomma in un

continuum divino più ampio che investe senza eccezione tutti gli elementi della realtà . La notizia serviana trova conferma in una pluralità di attestazioni, letterarie o epigrafiche: se una donna tradisce il vincolo matrimoniale, ad esempio, di lei si può dire che ha disono'6

Servio Danielino, Georgica. 1 .302: genium dicebant anti­ qui naturalem deum u n iuscuiusque foci vel rei !Je/ bo­ minis.

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Il re che parlava alle n i nfe

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rata il genio del letto coniugale, che a Roma del resto si chiamava proprio lectus genialis; quanto alla dimensiò ne spaziale , di cui resta traccia nell'espressione genius loci, tuttora co­ mune in italiano, è ancora Servio a ricordare che •non c'è luogo senza genio• - un'espres­ sione che Edgar Allan Poe pose in esergo al suo racconto L 'isola della fata -, tanto che i te­ sti parlano di un genio dei fiumi o delle valli, delle colonie e dei municipi, ma anche della patria o delle province, di tutte le città e natu­ ralmente in particolare di Roma 27• A quest'ultimo riguardo converrà anzi la­ sciare Servio e rivolgersi a una diversa fonte, il poeta cristiano Prudenzio, contemporaneo di Ammiano Marcellino, e alla virulenta polemica da lui condotta contro il senatore Simmaco, strenuo campione della religione tradizionale . Ecco in particolare come Prudenzio sintetizza la posizione di Simmaco in merito al genio della città di Roma: r

Cfr. rispettiva mente G io v e na le . Saturae. 6.22; Festo , De

l'erbomm si&nifìcatu. p. 84.6-7 Li ndsay: A/ii gel{iltm esse putantnt uniuscuiusque loci deum e soprattutto Servio, Aeneis, '5 . 9 '5 : nullus focus sine ge11io ( a proposito del verso incertus geniu mne loci fam ulunme parentis).

!:identità complessa di una divina consigliera

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Come ai bambini, al momento della nascita , dice, toccano in sorte anime diverse, così ad ogni città l'ora e il giorno nei quali le mura iniziano per la prima volta a sor­ gere assegnano un fato o un genio, che governa il loro 28 regno .

Dunque anche il genio delle città, al pari di quello individuale , nasce insieme con esse, e più precisamente nel momento in cui se ne ti­ rano su le mura: è quello infatti l'atto fondativo di un nuovo centro urbano, come emerge an­ che dal racconto sulla nascita di Roma . Ma non basta : non solo la città nel suo insieme ,

Prudenzio, Contra Symmachum, 2 . 7 1 -74 : Sicut variae

nascentibus, inquit, l contingunt pueris animae, sic ur­ bibus adfert l bora diesque suus, eu m primum moenia surgunt, l autfatum aut !Wnium, mius moderamine l'f!­ gnent. Il punto viene ripreso più avanti, 2.370-374: Sed sollers orator ait fata/iter urbe m l sortitam quonam ge­ nio proprium exigat aevu m . l Cu nctis nam populis seu moenibus inditur, inqu it, l aut fatum aut genius, no­ strarum more a 1 2 imarum, l quae sub dispari/i subeu nt nova corpora sorte. Prudenzio ha di mira in entrambi i casi un passaggio della terza Relatio di Simmaco, 8 (Suus enim cuique mos, suus ritus est: oarios custodes urbibus cultus mens diz•ina distribuii; ut animae nascentibus, ita populis fata/es geuii diuidu ntur>; la tirata del poeta cristiano si chiude qu indi a 2.386 con l'affermazione che il genio nusquam est nec fuit umquam.

I l r e c h e parlava alle n i nfe

56

ma ogni singolo edificio di essa, per quanto umile , è dotato del proprio genio, circostanza che Prudenzio trova naturalmente ancora più irritante: E poi, perché fingete che il genio di Roma sia uno soltanto, quando invece siete soliti assegnare un proprio genio alle porte, alle case, alle terme, alle stalle? Per ogni articolazione della città, per ogni suo luogo avete immaginato migliaia di geni, perché nessun angolo rimanesse senza la propria ombra 29•

Sembra di sentire già Agostino, con la sua serrata polemica contro la proliferazione divina della religione tradizionale, che investe persino gli aspetti più sordidi e meschini della realtà, e la sua ironia nei confronti di un pantheon tan2/igiolll.' m­

!:'identità complessa di una d ivina consigliera

invocare per assicurare il buon esito dei lavori di manutenzione dell'area sacra alla dea Dia, i sacerdoti menzionano ripetutamente anche la

iuno di quest'ultima e specificano i sacrifici che ad essa vanno destinati, distinti da quelli previsti per la dea 3'. Ad apparire particolarmente interessante in questa elaborata costruzione culturale è l'idea che le diverse articolazioni della realtà, dagli spazi naturali a quelli urbani, dalle cose agli in­ dividui, abbiano in qualche modo una natura duplice, un'identità plurale: essi sono al tempo stesso la loro manifestazione esteriore, visibile, e il loro doppio nascosto, che alla prima aderi­ sce perfettamente, al punto da nascere e mo­ rire con essa, proprio come l'ombra di cui par­ lava Prudenzio. Quello dei Romani sul mondo è uno sguardo binoculare , che coglie nel me­ desimo tempo i due livelli in cui si articola la realtà , o, per meglio dire , i due versanti del medesimo livello. Il divino si sovrappone all'u­ mano con una precisa corrispondenza uno-a­ uno, senza lasciare soluzioni di continuità o ·11

Cfr. Marzia le, tpigrammata. 7 . 1 2. 9- 1 0 e i documenti va­ gliati da J . Scheid , Quando fare è credere. I riti sacrijìcali

dei Romani, trad. it. , Roma-Bari, 201 1 , p. SO e nota 1 6 .

59

Il re che parlava alle n infe

60

aree non presidiate : nessuna 'crisi della pre­ senza' potrebbe darsi in un sistema nel quale la rete della tutela si estende in modo così ca­ pillare sull'intera realtà, e del mondo si può dare una descrizione nel linguaggio della reli­ gione senza lasciare fuori nessuno dei suoi ele­ menti. Quanto poi al genio e alla giunone de­ gli dèi, essi appaiono come un aspetto ulte­ riore di quella che Maurizio Bettini ha definito l'identità distribuita delle divinità antiche, l'arti­ colarsi della loro potenza in una serie di espressioni e manifestazioni al cui vertice ideale si pone la personalità del singolo dio 32• Tutto ciò, ne siamo convinti, è molto affa­ scinante, ma ancora non spiega il rapporto che il testo di Ammiano Marcellino dal quale ab­ biamo preso le mosse istituisce fra Numa e il proprio genio e neppure il fatto che quest'ul­ tima figura finisca per occupare il posto che nella tradizione precedente era attribuito alla ninfa Egeria. La cultura romana, lo abbiamo vi­ sto, riflette a lungo sul genio, ne fa il compa­ gno dell'individuo o il depositario del suo de­ stino; ma in nessun caso ad esso sembra asse·"

M. Bettini, Il dio elegante, cit ., pp. 1 6-23.

l'identitò complesso di uno divino consigliera

gnato il ruolo di consigliere . Il fatto è che in Ammiano appare ormai acquisita l'identifica­ zione tra la figura del genio e quella del de­ mone, identificazione che in ambito latino era consolidata almeno dall'epoca di Apuleio, in pieno

11

secolo d.C . ; e il demone , come nel

caso ben noto di Socrate , viene spesso de­ scritto alla stregua di una voce in grado di gui­ dare il comportamento del soggetto, che è an­ che l'unico capace di percepirla, distogliendolo dal fare scelte o dal compiere azioni a vario ti­ tolo inopportune o riprovevoli 33• In età impe­ riale questa demonologia si è inspessita e com­ plicata e i demoni appaiono ormai a tutti gli effetti alla stregua di figure intermedie fra il cielo e la terra, anche dal punto di vista della loro collocazione spaziale : essi infatti, come spiega Apuleio, si muovono ·fra l'altezza dell'e­ tere e la vile bassezza terrena•, in un continuo andirivieni fra alto e basso, latori di preghiere che vengono dagli uomini e di prestazioni che scendono dagli dèi, figure della mediazione in!!

L'identità fra genio e demone è argomentata in Apuleio,

De deo Socratis, 1 5 , il quale si esprime come se fosse il primo a suggerire un'equivalenza del genere; ma il sofi­ sta africano era stato con ogni probabilità preceduto al­ meno da Varrone, cfr. Agostino, De civitate Dei, 7.6.

61

I l re che parlava alle n infe

62

somma, che Apuleio designa a più riprese con il termine interpres34• Nella cultura romana, in­ cline a pensare il mondo divino secondo le ca­ tegorie della familia, questa stessa idea di in­ termediazione può anzi essere articolata anche in termini genealogici: così, il grammatico Au­ fustio affermava che il genio è ·figlio degli dèi e padre degli uomini•, sottolineando mediante il ricorso a un differente codice metaforico la posizione di cerniera occupata da questa figura divina 3�. Ai demoni/geni in particolare è affidato se­ condo Apuleio il compito di •determinare tutte le rivelazioni• e di •regolare i diversi prodigi della magia e i presagi di ogni genere• 36• Se onorato con la dovuta devozione, inoltre, il de­ mone personale •sarà per noi un consigliere nelle situazioni incerte , una guida profetica nelle difficoltà, un protettore nei pericoli, un ·"

Cfr. in particola re Apuleio, De dea Socratis, 6 e De Pla­

tone et eius dogmate, ·"

1 . 12.

Citato in Festo, De wrhorum

sign(jìcatu.

p . R4.4-S Lind­

say. ·'"

Apuleio, De dea Socratis, 6 (Per bus eosdem. ut Plato in

Symposio autu mat, cuncta denu n l ia ta et maf?orum ua­ ria miracula omnesque praesagiorum species ref?ztntu r. tra d . di B. M. Cagl i > . che sta q u i riprendendo Platone .

Conviuium,

202 d-e.

tidentità complesso di uno d ivino consigl iera

aiuto nelle necessità, che può intervenire , ora con sogni, ora con segni premonitori, ora an­ che palesemente, se il bisogno lo richiede, per allontanare i mali e promuovere il bene• - una lista di attributi che potrebbe senza difficoltà descrivere la funzione attribuita a Egeria nel mito di Numa 37• Lo stesso Ammiano parla dei geni come di figure che non solo prendono in carico le anime mortali - e con una particolare affezione, quasi stringendole in grembo -, ma hanno anche la funzione di impartire loro un insegnamento riguardo le verità più importanti: qualcosa che si avvicina molto, ancora una volta , alle suggestioni offerte a Numa da Ege­ ria, che hanno appunto il tratto di un insegna­ mento sapienziale e della rivelazione di saperi arcani o remoti, pertinenti al mondo divino e alle forme della venerazione che ad esso oc­ corre prestare. Del resto, nella platonica Apolo­

gia di Socrate i demoni sono definiti dal filo­ sofo figli di dèi, ma figli bastardi, nati dall'u­ nione con creature inferiori come le ninfe; 37

Cfr. Apuleio, De deo Socratis, 16: in rebus i n cert is pro­ spector. dubiis praemonito1� periculosis tutat01� egenis opit ula tor, qu i tibi queat tum i nsom niis, tum signis, tum etiam fwtasse coram, eum u slts postulat, ma/a az >erru n ­ care.

63

Il re che parlava alle ni nfe

64

quanto a Plutarco, che come pensatore fu a sua volta vicino al platonismo, questi nella Vita

di Numa presenta Egeria al suo lettore proprio con l'appellativo di 'demone' 38. E chissà che anche la memoria di questa pagina di Platone , e magari di quella plutarchea , abbia offerto al greco Ammiano uno spunto ulteriore per acco­ stare a Socrate la figura di Numa , che proprio con una ninfa si intratteneva. In questa sua estrema ed estenuata incarna­ zione, ormai al tramonto della cultura 'pagana' , Egeria h a dunque smarrito quasi del tutto i tratti con i quali era familiare alla tradizione re­ pubblicana , o meglio è andata incontro a un processo di metamorfosi che ha riplasmato in profondità la sua figura adattandola alle cate­ gorie filosofico-religiose della tarda antichità . Egeria non è più una dea , e neppure lo stru­ mento di una pietosa menzogna messa in campo da Numa a fini politici; persino il nome 311

Cfr. rispettivamente Platone , Apologia Socratis, 27 c-e e Plutarco, Numa, 4.2. Nel

De.furtuna romanorum,

321 b,

ancora Egeria è definita da Plutarco •ttna d e l l e ninfe driadi· e ·demone sapiente•. ' Demone' in riferimento a Egeria si legge del resto già in S trabone , 5 .3. 1 2 e in Dionigi di Alicarnasso, 2.60. 5 .

Geograpbia,

A11fiquitates romanae.

L:'identitò complessa di una divina consigliera

della ninfa è scomparso. La sapienza dell'an­ tico re di Roma resta certo di matrice divina, ma essa viene attinta indirettamente, attraverso la mediazione di quel vero e proprio doppio divino che è il genio personale, in un oriz­ zonte religioso che giudicava ormai inaccetta­ bile l'idea di un rapporto diretto, persino di tipo coniugale, fra una dea e un mortale, che del resto creava disagio già a Plutarco. Quanto poi la lettura demonologica che ab­ biamo trovato in Ammiano possa aver influen­ zato quella , quasi coeva , che ci è nota invece da Agostino e che chiama in causa gli inganni diabolici legati alla pratica dell'idromanzia , è superfluo dirlo; le due letture potrebbero per­ sino essere considerate altrettante varianti della medesima interpretazione, elaborate da intel­ lettuali schierati sui fronti opposti della dialet­ tica culturale fra cristianesimo e religione tradi­ zionale, dialettica nella quale la figura di Numa, proprio in quanto padre fondatore del culto 'pagano', giocava inevitabilmente un ruolo di primo piano. In mezzo tra le due c'è soprattutto il radicale cambio di segno che in­ veste le figure dei demoni, attestato in pagine del De civitate Dei che saranno decisive per la teologia cattolica dei secoli successivi e che

65

I l re che parlava alle n i nfe

66

polemizzano duramente proprio con Apuleio: i messaggeri di verità arcane e i benevoli media­ tori fra cielo e terra di quest'ultimo sono diven­ tati ormai, per gli adepti del nuovo credo, scimmie di Dio e illusionisti degli uomini 39•

5. Un epilogo rinascimentale. La vicenda di Egeria e delle sue metamor­ fosi ha peraltro un epilogo che ci porta per un attimo molto oltre i limiti cronologici della cul­ tura romana, ma che vale la pena di raccon­ tare, perché mostra la vitalità di una figura de­ cisamente minore del pantheon antico e al tempo stesso le difficoltà incontrate allorché fu necessario per la prima volta cercare di defi­ nire il suo aspetto esteriore. Nel febbraio del 1566 i solenni festeggia­ menti per le nozze di Francesco de' Medici, fi­ glio del duca di Firenze Cosimo

I,

e Giovanna

d'Austria, figlia dell'imperatore Ferdinando

I,

celebrate i n Santa Maria del Fiore, culminarono in una sontuosa processione, o mascherata, se­ condo il lessico dell'epoca . La sfilata era com·19

Cfr. in patticolare i capp. 1 6-22 dell'ottavo libro.

!:identità complessa di una d ivina consigliera

posta da ben ventuno carri allegorici e vedeva la presenza di oltre cinquecento figuranti, im­ pegnati a rappresentare tra l'altro numerose di­ vinità del pantheon antico: secondo l'annota­ zione di un testimone contemporaneo, era come se l'intera platea degli dèi 'pagani' fosse •venuta di cielo in terra per onorare le sopra­ dette nozze• 40• Com'è facile immaginare, l'alle­ stimento dello spettacolo richiese una minu­ ziosa preparazione , che coinvolse artisti ed eruditi di primo piano sotto la direzione di Giorgio Vasari e secondo un programma ico­ nografico che le acquisizioni più recenti ten­ dono ad attribuire all'umanista Baccio Baldini, protomedico di Cosimo

1

e futuro bibliotecario

della Laurenziana . Per nostra fortuna i dettagli della processione ci sono noti grazie al Di­

scorso sopra la mascherata della genealogia degl'Iddei de ' gentili, pubblicato appena un mese dopo l'evento dallo stesso Baldini e il cui titolo arieggia intenzionalmente quello delle Genealogie deornm gentilium di Boccac-

''0

Desumo la citazione da N. Lepri. Note sulla composizione dei carri nella GenealoRia, in 'Studi italiani', 2 5 , 20 1 3 , p. 99.

67

Il re che parlava alle n i nfe

68

cio, la prima summa moderna della mitologia classica. Tra le altre informazioni, il Discorso con­ tiene una dettagliata spiegazione delle raffigu­ razioni allegoriche, con grande spiegamento di citazioni erudite, volte a dare conto delle scelte operate dagli allestitori e ad assicurare per eia­ scuna di esse un solido ancoraggio nelle fonti antiche: sappiamo così che sul carro consa­ crato alla Luna compariva, tra i vari perso­ naggi, proprio Egeria, •la quale invocavan le donne antiche quando eran gravide, percioché con l'aiuto suo credevon partorir più agevol­ mente• 41 . Ma in che modo veniva raffigurata Egeria nella mascherata fiorentina? Su questo punto specifico, a dire il vero, la tradizione classica non offriva alcun precedente cui gli eruditi che lavorarono alla mascherata potessero ispirarsi: nonostante l'ampia diffusione letteraria del mito di Egeria, infatti, il mondo romano non 41

Desumo questa e l e successive citazioni d e l Discorso bal­ diniano da D . Acciarino, Tbe key in tbe band: features of

birlh in tbe Renaissance imagery of Lucina, in Nascere, rinascere, ricominciare. Atti del convegno internazio­ nale di studi, L 'Aqu ila, 1 7 e 18 giugno 2015, a cura di L. Benedetti, G . Simonetti, L'Aquila, 2017, pp. 77-92.

�identità complessa di una divina consigliera

sembra aver lasciato alcuna rappresentazione della ninfa amata da Numa e l'indice del mo­ numentale Lexicon iconographicum mytholo­

giae classicae è sotto questa voce desolata­ mente muto. Ecco però che nella processione allegorica descritta da Baccio Egeria col?pariva recando •in mano una chiave [ . ] percioché l'a­ . .

priva la via al parto•: un dato che il Discorso giustificava rimandando al medesimo lemma di •Festo Pompeio• che anche noi conosciamo, quello nel quale si fa di Egeria una dea cui sa­ crificavano le partorienti al momento del trava­ glio, ma che risulta in realtà assente dal testo del lessicografo antico 42•

È lecito dunque chie­

dersi da dove Baldini desumesse questo detta­ glio, che manca nella fonte sulla cui autorità pure il Discorso dichiara di fondarsi. La rispo­ sta è stata fornita recentemente da Damiano Acciarino, il quale rimanda a una seconda e di­ versa voce, anch'essa proveniente dall'opera di 42

Della chiave parla anche una seconda descrizione della mascherata, dovuta con ogni prohabil ità alla mano di G iovan Battista Cini e apparsa nel 1 568 in appendice al­ l'edizione giuntina delle Vite di Vasari (vol. m . 2 , p. 965) :

•con splendida e variata veste , con una chiave in mano, la Dea Egeria , invocata anch'ella in soccorso dalle pregnanti donne•.

69

Il re che parlavo alle ninfe

70

Pesto ma distinta da quella relativa a Egeria, laddove il lessicografo ricordava come nel mondo romano fosse •consuetudine donare alle donne una chiave, per alludere simbolica­ mente alla facilità del parto•: una consuetudine della quale sono stati indicati paralleli anche nel folclore moderno 43• Del resto, nell'Europa del Rinascimento il lessico festino era ben noto agli ambienti dotti, già prima che ne venisse pubblicata , nell'anno 1500 , l'editio princeps a stampa. Gli umanisti impegnati nell'allestimento del corteo nuziale, insomma, non avevano fatto al­ tro che accostare due testi originariamente autonomi ma entrambi allusivi ad altrettanti re­ ferenti - uno di carattere cultuale , l'altro meta­ forico - in grado di significare un concepi­ mento rapido e il più possibile agevole. Del resto - ma questo i dotti al servizio di Cosimo non potevano saperlo -, scavi archeologici an­ che recenti hanno dimostrato come a Roma le chiavi potevano rientrare tra le offerte desti­ nate a divinità femminili protettrici delle na·•·1

Festo. De verbontm sip,nificatu , p. 49. 1 -2 Lindsay: Clauim co1zsuetudo erat mulierihus donm·e ob sip,ll ((icandam pmtus fa c ilitatem.

!:'identità complesso di uno divino consigliera

scite : così accade tra l'altro a Palestrina , dove nel medesimo deposito resti di chiavi sono stati rinvenuti accanto a due uteri votivi, molto comuni in questo genere di contesti. Il risultato di tale accostamento fu che anche Egeria venne dotata di quello che gli antichi avreb­ bero chiamato un insigne, cioè di un elemento iconografico capace di rendere immediata­ mente riconoscibile l'identità di una certa im­ magine divina, per via del suo spiccato valore semiotico: come la clava e la pelle di leone , che rimandano univocamente a Eracle, oppure lo scudo, la lancia e l'elmo, che quando sono riferiti a un personaggio femminile consentono di identificarlo con la dea guerriera Atena . Gli

insignia anzi, per essere più precisi, nel nostro caso erano addirittura due, perché insieme con la chiave la Egeria fiorentina recava in mano anche una •pietra pregna•, come la definisce Baldini: si tratta della cosiddetta aetites, chia­ mata dagli antichi appunto lapis praegnans, cioè di una pietra cava contenente al suo in­ terno un sassolino che poteva essere fatto ri­ suonare •come se si trovasse in un utero• e che costituiva dunque una sorta di doppio della donna gravida. Su di essa i dotti umanisti potevano trovare ripetute informazioni nell'en-

71

72

Il re che parlava alle n infe

ciclopedia di Plinio il Vecchio o anche nella fonte dichiarata di quest'ultimo; inoltre, di que­ sto minerale e delle sue prodigiose virtù si par­ lava tanto nella tradizione dei lapidari quanto nella trattatistica medievale e moderna , com­ preso il fortunato manuale sulle 'gemme' del poligrafo veneziano Lodovico Dolce, la cui prima edizione venne pubblicata a Venezia nel 1 56 5 , appena pochi mesi prima della masche­ rata fiorentina 44• Naturalmente , anche in questo caso spetta agli allestitori della 'genealogia' e alla loro eru­ dizione creativa l'attribuzione della pietra pre­ gna alla figura di Egeria, attribuzione della quale non c'è alcuna traccia nelle fonti antiche. Può essere che la scelta di abbinare quest'ul-

Sulla aetite cfr. Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 10. 1 2

(Est autem lapis iste praegnans intus a/io, cum quatias, velut in utero sonante, trad. di E. GiannarellD; 30. 1 30 (ci­ tato infra, nota 46) ; 36. 1 49- 1 5 1 ; in generale sull'idea che esistano pietre in grado di partorire 36. 1 34 ; per altre ' pie­ tre gravide' 37. 1 54 (ciite), 37. 163 (gassinnade) e 37. 180 (peanitide o geanide). Di pietre che partoriscono parlava anche la fonte dichiarata di Plinio, il natura l ista greco Teofrasto, il cui opuscolo Sulle pietre era apparso per la prima volta a stampa nel 1 497 per i tipi di Aldo Manuzio. Cfr. infine L. Dolce, Libri tre ne i quali si tratta delle di­

verse sorti delle Gemme, che produce la Natura, Venezia , 1 565, p. 43r (•Da alcuni è anco detta pietra pregna•).

!:identità complessa di una d ivina consigliera

73

tima alla chiave intendesse semplicemente ren­ dere più esplicita la pertinenza della ninfa alla sfera della gravidanza e del parto: chiave e pietra, in altri termini, sarebbero sostanzial­ mente equivalenti dal punto di vista del loro valore semiotico, in quanto entrambe rimande­ rebbero alla

medesima

identità

di Egeria ,

quella appunto di dea legata all'ambito del concepimento. Ma mi sentirei anche di sugge­ rire una diversa p9ssibilità. Se si leggono con attenzione le pagine pliniane sulla pietra aetite, infatti, si scopre che la funzione ad essa rico­ nosciuta non è tanto quella di agevolare la fuoriuscita del feto, semmai il contrario: il natu­ ralista specifica infatti che una donna deve to­ gliere la pietra solo al momento del parto e che essa non può sgravarsi se la aetite non sia stata

preventivamente

allontanata

dal

suo

corpo 45• La 'pietra pregna' ha pertanto la fun­ zione di continere partus, cioè di tenere bloc­ cato nell'utero il bambino fino a quando non sia giunto per lui il momento giusto per venire •�

Plinio il Vecchio, Naturalis hLçtoria, 36. 1 5 1 : Aetitae gravi­ dis adalligati mulieribus ve/ quadripedibus pelliculis sa­ crificatorum animalium continent partzts, non nisi par­ turiant removendi; alioqui volvae excidunt. Sed nLçi par­ turientibus aujerantur, omnino non parimzt.

Il re che parlava alle n infe

74

alla luce: in altri termini, si tratta di un tali­ smano teso a prevenire i rischi di aborto o di parto prematuro 46• Più che speculari, e dunque ridondanti, la chiave e la pietra poste in mano a Egeria sarebbero dunque complementari: l'una propizia l'apertura della matrice al mo­ mento giusto, l'altra la mantiene chiusa sino a che quel momento non sia arrivato.

È una sup­

posizione che non abbiamo, purtroppo, possi­ bilità di verificare sui resoconti relativi alla ma­ scherata del 1 566 (ma rimetto la questione agli specialisti) ; se però l'ipotesi cogliesse nel se­ gno, occorrerebbe riconoscere agli allestitori della mascherata stessa una cura dawero ecce­ zionale nella definizione di ogni suo dettaglio. Ma non abbiamo ancora finito con la raffi­ gurazione di Egeria con la chiave, poiché la più che plausibile ipotesi di Damiano Accia­ rino citata in precedenza può essere forse ulte­ riormente ritoccata. Se si torna infatti al De ver­

borum signiftcatu di Festo è possibile notare che il lemma sulla chiave che si usava donare 16

Come ancora Plinio chiarisce in 30. 1 30: Lapis aetites ili aquilae repe11us nido custodit pa11us contra omnes abor­ tuum illSidias. Cfr. anche Eliano. De natura animalium. 1 .35.

l'identità complessa di una divina consig liera

alle donne come oggetto beneaugurante in vi­ sta del parto è immediatamente preceduto da un'altra voce, che recita così: Le parole claudere e clavis sono di origine greca . Si riteneva che questo ambito fosse posto sotto la protezione di Portunus, che veniva rappresentato con una chiave in mano ed era considerato il dio 4 delle porte 7 .

Eccolo, dunque, il dio che reca in mano una chiave, per rendere immediatamente evi­ dente la sua natura di numen la cui provincia è rappresentata appunto dalle porte (e dai por­ ti, visto che i due termini si confondono nel la­ tino arcaico e che il tempio di Portunus si tro­ vava a Roma in portu Tiberina). A questo pun­ to, è lecito supporre che la notizia fornita da Baccio Baldini sia frutto dell'incrocio non di due, ma di tre lemmi festini, un aspetto, que­ sto, pienamente coerente con quella •tortura degli antichi scrittori> di cui parlava Aby War­ burg proprio in riferimento al Discorso: dalla

•7

Festo , De verhnrum sip,nificatu, p . 4 8 . 2 5 - 27 Linclsay: Claudere et clav(� ex Graeco descendit, cuius rei tute/cnn penes Portunum esse putahant. qui clavim mamt tenere finp,ebatur et deus putaballlr esse portantm. Cfr. anche gli scoli veronesi

a

Virgilio, Aeneis, 5 . 24 1 .

75

Il re che parlavo alle n infe

76

voce su clavis veniva la notizia sull'uso di re­ galare una chiave alle matrone come augurio di un parto felice, da quello su claudere/clavis l'idea di una divinità recante una chiave come segno della propria funzione all'interno del pantheon 48• Il fatto è che di Egeria, come si è detto, il mondo romano non ci ha lasciato rappresenta­ zioni figurative, ma solo informazioni prove­ nienti da fonti letterarie o erudite, perdipiù scarne e talora contraddittorie fra loro. A Festo, che era un grammatico, bastava suggerire la connessione etimologica fra il verbo egerere e il nome Egeria perché il suo lettore appren­ desse tutto quanto gli occorreva sapere in me­ rito alla ninfa amata da Numa; quando però, in pieno Rinascimento, qualcuno volle mettere in scena il personaggio di Egeria, quel lemma era diventato del tutto insufficiente , perché c'era adesso bisogno di qualcosa che rendesse iden­ tificabile la dea a uno spettatore , e non più a un lettore . Il mutamento del canale comunica­ tivo imponeva insomma la necessità di tra4"

La citazione di Warburg proviene da S. Pierguidi, Baccio Baldini e la •mascherata della genealogia degli dei•, in 'Zeitschrift fii r Kunstgeschichte', 70, 2007, p. 347, nota l .

!:identità complessa di una divina consigliera

smettere il medesimo contenuto informativo Egeria è una dea che agevola il parto - attra­ verso un codice che non era più linguistico ma simbolico, o meglio semiotico, secondo il mo­ dello antico degli

insignia deornm. E la

chiave , evidentemente, funzionava perfetta­ mente a questo scopo, sia perché già nella cul­ tura romana aveva questo valore, al punto da essere considerata un dono particolarmente in­ dicato per una puerpera , sia perché nello stesso folclore europeo poteva fungere proprio da elemento che richiamava 'analogicamente' la facilità del parto. Fu così, a distanza di secoli dal tramonto degli antichi dèi e in un contesto culturale pro­ fondamente mutato, che anche Egeria ebbe fi­ nalmente le sue 'insegne' .

77

II La ninfa dal suono soave , ovvero come parlava Egeria

l.

Una delle Camene - o no? Tutti gli scrittori antichi che parlano di Ege­

ria la mettono in relazione con un gruppo di divinità, le Camene, anch'esse abitatrici del bo­ sco frequentato da Numa Pompilio nei suoi convegni notturni con la ninfa consigliera. Che Egeria sia una di loro, a dire il vero, lo so­ stiene una sola fonte , per di più non precisa­ mente identificabile: sono i generici 'altri' cui allude Dionigi di Alicamasso, allorché contrap­ pone la loro opinione a quella di chi invece ri­ teneva Egeria una ninfa 1 • Tuttavia, se non l'ap­ partenenza , quanto meno la stretta connes­ sione fra Egeria e le Camene è ribadita costan­ temente nei testi a nostra disposizione. Per l'O­ vidio delle Metamorfosi, ad esempio, Numa riuscì a insegnare le arti della religione e della pace a un popolo assuefatto alla guerra •grazie alla ninfa sua moglie e sotto la guida delle Ca-

Dionigi di Alicarnasso. Antiqu itates mmanae, 2.60.5 .

80

I l re che parlavo alle n infe

mene•; per lo stesso poeta, questa volta nei

Fasti, Egeria è la dea •cara alle Camene•; Livio, a sua volta, afferma che Numa consacrò alle Camene il luogo nel quale conversava con Egeria perché lì avevano luogo gli incontri fra le une e l'altra; e abbiamo già visto come Gio­ venale lamentasse che le Camene fossero state sgarbatamente cacciate dal bosco situato nella •valle di Egeria• 2• Infine Plutarco, nella biogra­ fia che dedica al secondo re di Roma, afferma almeno in un caso - le iniziative da assumere allorché uno scudo di bronzo cadde dal cielo proprio nelle mani del re - che Numa si mosse seguendo le indicazioni ricevute •da Egeria e dalle Muse•, le dee greche delle arti con le quali ormai da tempo le Camene erano state identificate , mentre in un altro punto acco­ muna sotto la medesima , poco empatica defi­ nizione - la •messinscena di Numa• - il rac-

Cfr. rispettivamente Ovidio, Metamorpboses, 1 5 .482 ( co­

n iuge qui felix nympba ducibusque Camenis); Fasti, 3 . 275 (Egerla est quae praebet aquas, dea grata Came­ nis, in riferimento alla Egeria venerata acl Ariccia); Livio, A b urbe condita, 1 . 2 1 .3 (Numa Camenis eum locu m sa­ cravit. quod earum ibi concilia cum coniuge sua Egeria essent) . Del bosco consacrato alle Camene parla anche Plutarco, Nu ma, 13.4. Per il testo di Giovenale cfr. supra, cap. I. nota l .

Lo n i nfe del suono soave, ovvero come parlavo Egeric

conto della sua relazione segreta con Egeria e degli incontri con le Muse-Camene 3• Sembra dunque chiaro che le nostre fonti da un lato distinguano tra Egeria e le Camene, dall'altro suggeriscano l'esistenza di un rap­ porto molto stretto, di tipo sia spaziale che funzionale, tra queste figure divine . Alle Ca­ mene anzi lo stesso Numa aveva dedicato una piccola edicola di bronzo, che in seguito, col­ pita dal fulmine, venne dapprima collocata nel tempio dedicato agli dèi Honos e Virtus e più tardi, all'inizio del

n

secolo a . C . , nel santuario

di Ercol�, che da allora in avanti fu noto come tempio 'di Ercole e delle Muse' 4 • Se dunque vogliamo mettere meglio a fuoco la figura di Egeria, sarà opportuno sapere qualcosa di più sulle compagne divine cui la ninfa appare così intimamente legata . Quello delle Camene è in effetti un profilo divino piuttosto complesso, che la riflessione degli antichi connette a due ambiti differenti, relativi rispettivamente al mondo delle acque

Cfr. rispettivamente Plutarco, Numa, 1 3 . 2 e 8 . 1 0. Su que­ sto secondo passo dovremo tornare per altre ragioni più avanti. Servio. Aeneis, 1 .8.

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82

I l r e che parlava alle ninfe

sorgive e a quello del canto. In primo luogo, sappiamo che l'acqua della fonte che sgorgava nel bosco delle Camene era attinta quotidiana­ mente dalle Vestali, le antichissime sacerdo­ tesse tenute a un rispetto assoluto della vergi­ nità per tutti i trent'anni del loro servizio alla dea, e da queste utilizzata per la pulizia del loro santuario: era anzi l'unica che potesse im­ piegarsi a tale scopo, e ciò proprio in ottempe­ ranza a una prescrizione stabilita da Numa 5 . Forse per questo si riteneva che l'acqua delle Camene , come veniva chiamata , avesse poteri curativi e che in ogni caso il suo sapore fosse particolarmente gradevole al gusto 6• Un pas­ saggio piuttosto complesso di Varrone, sul quale dovremo tornare , suggerisce poi che ben a ragione ninfe e Muse sono spesso iden­ tificate fra loro, come dimostra il fatto che i poeti invocano indifferentemente le une e le altre come matrici della propria ispirazione: an­ che le Muse infatti hanno la propria sede nelle acque che zampillano dalle sorgenti, •come ri­ tennero anche quanti consacrarono una fonte

Plutarco, Numa, 13.4. Cfr. rispettiva mente Frontino, De aquae ductibus m·bis Romae, 1.4 e Yitruvio, De arcbitectura, 8.3. 1 .

la n i nfa dal suono soave, owero come pa rlava Egeria

alle Camene•; Varrone aggiunge poi che a que­ ste ultime divinità •Si è soliti sacrificare non con il vino, ma con acqua e latte• 7 • Infine, l'i­ dentificazione con l'acqua aveva propiziato l'interpretazione allegorica delle Camene , se­ condo una dottrina teologica di carattere fisico, sviluppata già in ambito greco, che faceva cor­ rispondere gli dèi del pantheon tradizionale ad altrettanti elementi della natura: così, se Giove coincide con ·la sostanza fervida• e sua moglie Giunone invece rappresenta la materia aerea, se la Magna Mater, nome romano della dea frigia Cibele , significa in realtà la terra , le Ca­ mene possono ben corrispondere all'acqua un volgare escamotage intellettuale , a giudizio dei polemisti cristiani, con il quale i 'pagani' tentavano di occultare, nobilitandoli, gli aspetti più imbarazzanti del loro pletorico politeismo, facendone una sorta di mappa dell'universo naturale in forma divina o di descrizione fisica

La citazione varroniana si legge nel commento di Servio a Virgilio, Eclogae, 7 . 2 1 : nam et in aqua consistere di­

cuntur. quae de fontibus manat, sic ut existimaueru nt qu i Camen is fontem consecrarunt; nam eis non vino, sed aqua et lacte saCt?fìcari so/et. Per un esame più am­ pio e una citazione più estesa di questo passo cfr. infra.

83

Il re che parlava alle n infe

84

del mondo attraverso una tassonomia reli­ giosa 8. Non meno nutrito è però il corpus delle in­ terpretazioni erudite che connettono il nome delle Camene all'ambito del canto (chiamia­ molo provvisoriamente così). Come spesso ac­ cade nelle culture antiche, tale connessione viene certificata in primo luogo attraverso un accostamento di carattere etimologico, forse ar­ bitrario ma per noi comunque interessante; si sa, del resto, che per gli antichi l'etimologia è un procedimento cognitivo che mira non tanto a identificare la matrice linguistica più remota di un termine, quella che noi chiamiamo ap­ punto 'radice', quanto a scoprirne il significato più autentico, l'identità più vera e profonda . Ecco dunque che già Varrone legava il teo­ nimo Cam-ena al verbo can-ere, 'cantare' ma anche 'profetizzare ' , •con la trasformazione di

Adt•ersus Marcionem, 1 . 1 3 . 4 : !psa quoque vulgarls superstitto communis idololatriae, cum in simu­ lacris de nominibus et fabulis veterum mortu01-u m pu­ det, ad interpretationem naturalium refugit, et dedecus suum ingenio obumbrat, flgurans Iovem in substantiam fervidam et Iunonem eius in aeream, secrmdum sonum Graecoru m vocabulorum, item Vestam in ignem, et Ca­ menas in aquas, et Magnam Matrem in terram semina­ Ila demessam, lacertis aratam, lavacrls rigatam. Tertulliano ,

La n i nfa dal suona soave, owero come pa rlava Egeria

m in n•: un fenomeno, quest'ultimo, che non turbava in nessun modo lo studioso antico, per il quale i processi di derivazione linguistica possono ammettere, tra l'altro, proprio simili casi di mutamento che investono un singolo fonema 9• Ciò che peraltro non impediva allo stesso Varrone di proporre, in un altro capitolo della medesima opera Sulla lingua latina, una differente etimologia , che faceva di Camena l'esito di un originario Casmena > Carmena, a sua volta legato a carmen 10• Con il che , va detto, restiamo pur sempre nell'ambito seman­ tico del çanto e della profezia, poiché carmen era connesso dagli antichi proprio a canere (questa volta probabilmente a ragione) . Qui però il fenomeno fonetico ipotizzato da Var­ rone è diverso rispetto al caso precedente, per­ ché prevede due tappe : una sorta di 'rotaci­ smo' che porta la s originaria del teonimo Ca­

smena a mutarsi in r (in realtà il rotacismo si verifica in latino, com'è noto, solo per s inter­ vocalica) e la successiva caduta di quest'ultima lettera.

Varrone, De lingua latina, 6.75. 10

Varrone, De lingua latina, 7. 26-27.

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Il re che pa rlava alle n infe

86

L'autorità di Varrone fece scuola presso i dotti delle età successive : nel suo commento alle Bucoliche di Virgilio, Servio dichiara che le Camene derivano il loro nome a cantu, •dal fatto di cantare•; Macrobio, contemporaneo di Servio, postula un'origine etrusca delle Ca­ mene , ma al tempo stesso ne propone un'eti­ mologia latina, connettendo ancora una volta il nome di queste divinità al verbo canere; Ago­ stino, nel medesimo De civitate Dei del quale ci siamo più volte serviti nel capitolo prece­ dente, fa a sua volta di Camena la dea che in­ segna ai bambini a cantare e la accosta a Nu­ meria, legata invece all'apprendimento dell'arit­ metica 1 1 • Più complesso, infine, il lemma di Pe­ sto: •Le Camene, cioè le Muse , prendono il loro nome dai carmi, o perché cantano le lodi degli eroi antichi o perché sono le signore della mente casta• u. Qui infatti le etimologie sono ben due, la prima delle quali ripropone il 11

"

C fr. rispettivamente Servio,

Eclogae, 3 .'i 9 ; Macrobio , Comme11tarium in Sum nium Scipionis, 2 . 3 . 4 ; Agostino , De civitate Dei, 4 . 1 1 . uerhunon signijìcatu, p. 3H. l 2 - 1 3 Lindsay: Ca­ menae Musae a carmin ibus suni dictae, ve/ quod ca­ nunt antiquoru m laudes. z•el quod sint castae mentis praesides. Festo, De

La n i nfa dal suono soave, owero come po rlava Egeria

già visto accostamento con l'idea del canto, in questo caso più specificamente declinato nella direzione della poesia epica (le laudes anti­

quornm), l'altra invece appare priva di paralleli nelle fonti superstiti. In realtà, quando impieghiamo il De verbo­

rum significatu non dovremmo mai dimenti­ care che quello che noi leggiamo non è il les­ sico originario composto in età augustea dal grammatico Verrio Fiacco, ma un suo com­ pendio, di due secoli posteriore e integrato con ulteriore materiale erudito, e talora un compendio del compendio, redatto alla fine ' dell'vm secolo dal dotto longobardo Paolo Diacono, attivo presso la corte carolingia di Aquisgrana; ed è inevitabile che in tutti questi passaggi il testo dei diversi lemmi si sia disco­ stato, poco o molto, dalla sua redazione origi­ naria .

È verosimile insomma che la voce di

Verrio Fiacco parlasse inizialmente di Casme­

nae, accogliendo quella che secondo Varrone era la grafia più antica del termine : in questo modo si spiega sia l'etimologia che connette il nome delle divinità ai carmina, anch'essa, come abbiamo visto, già presente in Varrone attraverso la trafila Casmena > Carmena, sia quella, del tutto isolata , che fa invece delle

87

I l re che pa rlava alle n infe

88

Camene le divinità che tutelano la mente ca­ sta1 3• Quest'ultima provincia d'azione delle nostre dee viene infatti dall'ipotesi che in Casmenae siano identificabili non una ma due matrici linguistiche, cas- e -men, interpretate come al­ trettanti residui o monconi della locuzione ca­

sta mens. Per citare un caso analogo, anche il termine monumentum veniva spiegato dai La­ tini allo stesso modo, riconducendo la prima parte del vocabolo al verbo moneo, la se­ conda al medesimo sostantivo mens, sicché il termine veniva spiegato come 'ciò che monet

mentem', cioè 'che risveglia la memoria' ; e ve­ dremo tra breve un'altra voce, il nome pro­ prio Agrippa, interpretato ancora ricorrendo a una segmentazione della parola che ne fa l'e­ sito di due diverse componenti lessicali. Resta pur sempre il fatto che il nesso fra le Camene e la mente casta, al di là della sua plausibilità linguistica, almeno agli occhi degli antichi, ap­ pare poco omogeneo con il profilo di queste divinità che si sta pian piano delineando sotto '3

La grafia Casmenae è del resto nota al lessico di Festa, cfr. pp. 59.4-5

e

222.25-26 Lindsay.

Lo n i nfa dal suono soave, owero come pa rlavo Egerio

i nostri occhi; va detto però che esso venne forse favorito dallo stretto rapporto istituito proprio da Numa fra la sorgente delle Ca­ mene e le sacerdotesse Vestali, per le quali il possesso di una casta mens era non solo una auspicabile qualità morale ma soprattutto un indispensabile requisito rituale; se l'acqua di quella sorgente era l'unica che le Vestali po­ tessero impiegare, e che attingevano quotidia­ namente, era facile stabilire un nesso fra la di­ vinità che presiedeva a quell'acqua e le virtù di quante se ne servivano; di qui a trovare confenna di questo nesso nella stessa etimolo­ gia della parola il passo era evidentemente breve. In sintesi, dunque: Egeria , la consigliera di­ vina di Numa, è una figura che compare inva­ riabilmente in stretta connessione - spaziale , cultuale, performativa - con le Camene, figure riconducibili alla duplice sfera dell'acqua da un lato, del canto e del carmen dall'altro, e che in alcuni casi era senz'altro identificata con una di esse. Ma qui le cose, come sempre accade quando si maneggiano costrutti religiosi og­ getto di una lunga stratificazione culturale , si complicano.

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Il re che parlava alle n i nfe

90

2. Altre divinità dei carmi. Nella cultura romana esisteva infatti almeno un'altra divinità, o un gruppo di divinità, legata all'ambito del carmen, questa volta con una trasparenza etimologica che non sembra la­ sciare spazio al dubbio: stiamo parlando di

Carmenta, nota anche nella forma Carmentis o, al plurale, Carmentes. Una figura molto an­ tica del pantheon romano, se da essa prendeva nome una porta Carmentale che si apriva nelle mura serviane , al pari della porta Capena sulla quale ci siamo intrattenuti nel capitolo prece­ dente, nonché una festa , i Carmentalia, cele­ brata in due tempi 1'11 e il 15 di gennaio, e un

jlamen Carmentalis, un sacerdote cioè appar­ tenente a un antichissimo collegio, quello dei flamini, la cui istituzione era attribuita da una parte della tradizione proprio a Numa . Al nome di Carmenta sarebbero legati poi quello con cui erano chiamati nel latino più antico i fornitori di responsi (carmentes) e quello di coloro che ne trascrivevano i vaticini, i car­

mentarii. La consapevolezza del fatto che Carmenta fosse una figura divina molto antica si manife­ sta tra l'altro nella presenza di questa dea al-

La n i nfa dal suono soave, owero come pa rlava Egeria

l'interno del mito romano delle origini: qui Carmenta è la madre del re arcade Evandro, fuggito dalla sua terra in seguito a una torbida vicenda di sangue e insediatosi per primo nel sito del colle Palatino, lo stesso sul quale sa­ rebbe sorta un giorno la città di Roma. Ecco cosa racconta a questo riguardo l'anonima Ori­

gine del popolo romano, un testo redatto in età tardo-imperiale ma fondato su materiali storia­ grafici ed eruditi assai più antichi: Sotto il regno di Fauno, circa sessant'anni prima dell'arrivo di Enea in Italia, l'arcade Evandro, fi­ glio di Mercurio e della ninfa Carmenta , giunse nel medesimo luogo insieme con la madre. Alcuni hanno scritto che quest'ultima dapprima fu chia­ mata Nicostrata , poi Carmenta , dal termine car­

men, evidentemente perché, conoscitrice eccel­ lente delle lettere e capace di prevedere il futuro, usava vaticinare in versi, al punto che secondo l'opinione prevalente non è stata lei a prendere il nome dai carmina, ma questi ultimi ad essere chiamati così per il fatto che fosse lei a pronun­ ciarli 1 4 .

In effetti, il rapporto fra Evandro e Carmen­ ta presenta più di un tratto di rassomiglianza con quello fra Numa ed Egeria, come vedremo ,,

Pseudo-Aurelio Vittore, OriRO wmtis romanae, 5 . 1-2.

91

Il re che parlava alle n i nfe

92

meglio nel prossimo capitolo: anche Carmenta viene spesso identificata come una ninfa; an­ che Carmenta è una consigliera , impegnata a guidare il percorso del figlio nel tragitto dalla Grecia all'Italia e a indicargli la sede nella qua­ le fondare la propria città, oltre a vaticiname la futura grandezza; inoltre , anche di Carmenta resta traccia nella toponomastica di Roma, at­ traverso il nome della già citata porta Carmen­ tale ma anche la presenza nelle sue vicinanze di un'ara consacrata da Evandro alla madre t s . Ancora , al pari di Egeria anche Carmenta è in certa misura una figura civilizzatrice, alla quale in particolare veniva accreditato il merito di avere portato con sé dalla Grecia e introdotto in Italia le lettere dell'alfabeto 16• Senza contare il fatto che per una parte almeno della tradizio­ ne Carmenta era non già la madre, ma la mo­ glie di Evandro, una variante che la accosta ul­ teriormente alla posizione occupata da Egeria accanto a Numa 17•

" 16

Virgilio, Aeneis, 8.337 con il commento ad loc. di Servio. Su questo in particolare cfr. Igino, r"abulae, 277, ripreso da Isidoro, Etymologiae, 1 .4 .

17

Così Plutarco, Romulus, 2 1 . 2 .

Lo n i nfa dal suono soave, owero come pa rlavo Egerio

La singola figura di Carmenta si screzia ta­ lora, come abbiamo accennato, in una pluralità di Carmente : ed ecco che accanto alla dea fanno la loro apparizione due compagne o, se­ condo altre versioni, due sorelle, Porrima e

Postverta (o Postvorta), che avevano seguito Carmenta nel suo viaggio dall'Arcadia al Lazio. Sono le dee dell'avanti e dell'indietro, così po­ tremmo rendere i loro nomi, chiamate in que­ sto modo perché ai vati sono note tanto le cose passate quanto quelle future, o, per adot­ tare l'elegante formulazione ovidiana, perché ·l'una ritengono canti ciò che è stato in pas­ sato, l'altra tutto ciò che è destinato a venire in futuro•. Doveva trattarsi anche in questo caso di figure molto arcaiche, e forse ormai dimenti­ cate in età augustea, poiché nel presentarle Ovidio promette al suo lettore che se presterà attenzione ai versi in cui ne parla potrà impa­ rare •nomi mai prima uditi• 18• Del resto, in altre fonti le due dee sono considerate compagne particolarmente appropriate non già di Car­ menta, ma del dio più antico del Lazio, Giano, che nell'iconografia era raffigurato come bi18

Il passo ovidiano cui facciamo riferimento è Fasti, 1 . 63 1 636.

93

I l re che parlavo a l le n i nfe

94

fronte proprio per la sua capacità di guardare contemporaneamente sia al passato che all'av­ venire . Anzi, in questo frangente l'autore che riporta la notizia, l'erudito tardo-antico Macra­ bio, afferma che questa peculiare effigie ha an­ che il valore di un'allegoria politica, perché in­ dica una virtù, quella di conoscere il passato e di congetturare il futuro, che è particolarmente necessaria a un re '9• Qui però è opportuno, prima di andare avanti, sviluppare alcune considerazioni di ca­ rattere generale, che ci mettano in guardia dal rischio di trarre conclusioni affrettate . Noi cre­ diamo infatti che sarebbe scorretto tracciare una distinzione troppo netta fra i carmina cui presiedono le Camene , e che sembrano avere a che fare in primo luogo con il canto e la poesia , se è vero che i Romani assimilarono a un certo momento quelle divinità alle Muse greche , e i carmina di cui invece si occupa Carmenta, relativi piuttosto alla sfera della pro­ fezia e del vaticinio. Le diverse culture non segmentano tutte il reale nello stesso modo, non fissano tutte nel medesimo punto le faglie 19

Macrobio. Satu rnalia, 1 .7 . 20. Cfr. anche 1.9.4.

Lo n i nfe del suono soave, owero come pa rlavo Egeric

95

tra un dominio e l'altro dell'esperienza, come dovremo vedere anche altre volte nel corso di queste pagine ; e quello che a noi potrebbe sembrare appartenente a campi diversi - la poesia da un lato, le predizioni dall'altro - era percepito dagli antichi come affine, nella mi­ sura in cui veniva sussunto sotto il medesimo termine carmen. Quest'ultimo ha del resto in latino un campo di applicazione davvero molto vasto: nei diversi autori, carmen può designare infatti le leggi .delle

xn

Tavole [ . . . ] , gli elogia, gli oracoli

dei Fauni e dei vati, i libri profetici, le formule di consacrazione dei templi

[

. . .

], quelle di maledi-

zione contro città nemiche [ . . . ], quelle dei Feziali

[. . .) ;

le formule di devotio

[

.. .

) e di giuramento

[

...

);

le neniae e le laudationes funebres; le preghiere ufficiali di collegi sacerdotali, come il Carmen Sa­

tiare e il Carmen Aroale, e le preghiere del culto privato a cui era tenuto il pater familias

[.

. .

); i

Carmina Convivalia e i Carmina Triumpbalia; le formule magiche , dette anche successivamente

carmina, le defixiones, i proverbi, i canti dei la­ voratori, dei bambini, le canzoni d'amore, i Fesce­ nini, le formule medicinali, etc .

'"

20•

M. T. Camilloni, Le Camene, in ' Bollettino di studi latini', 28, 1998, pp. 3-1 1 , in patticolare pp. 3-4 .

96

Il re che parlavo alle n infe

Non c'è che dire, si tratta di un elenco dav­ vero impressionante, e soprattutto, almeno dal nostro punto di vista, terribilmente eterogeneo: cos'ha a che fare una prescrizione delle

XII

Ta­

vole, il più antico codice romano di leggi scrit­ te, con le preghiere di venerandi collegi sacer­ dotali come quelli dei Salii o dei Fratres arva­

les? E quale nesso può mai sussistere tra le for­ mule di consacrazione dei templi e le lauda­

tiones funebres, i discorsi pronunciati durante le solenni esequie di un aristocratico? Eppure per i Romani queste espressioni linguistiche così diverse erano tutte qualificabili come car­

mina. In passato anzi non sono mancati stu­ diosi, anche di primissimo piano, che hanno considerato il carmen alla stregua di un vero e proprio genere letterario, o senz'altro del pri­ mo genere letterario praticato a Roma, caratte­ rizzato da fenomeni fonici come allitterazioni e parallelismi e più antico persino del saturnia, il verso con il quale furono scritti i primi poemi della letteratura latina, che avrebbe finito poi per soppiantarlo. In realtà, a Roma il carmen non è mai esistito come genere letterario: a di­ mostrarlo è sia il fatto che le sue presunte ca­ ratteristiche formali - allitterazioni e paralleli­ smi - sono presenti anche in testi che i Latini

La n i nfa dal suono soave, owero come parlava Egeria

non definivano affatto carmina, sia la convin­ zione, costantemente ribadita dagli stessi Latini e che non c'è ragione di mettere in dubbio, se­ condo cui il saturnia costituiva la loro più anti­ ca forma espressiva 2 1 • Tutto questo non fa però venir meno il pro­ blema di capire quali caratteristiche dovesse avere un testo - in senso ampio: molti dei car­

mina elencati in precedenza erano destinati in realtà a un'esecuzione o a una circolazione esclusivamente orali - per poter rientrare nella nozione di carmen. Evidentemente si tratta di una tipologia espressiva che si distacca dagli scambi verbali quotidiani e correnti, per loro natura volatili e informati, e questo non solo per la presenza di alcune caratteristiche este­ riori come l'uso di un particolare tipo di lin­ guaggio, di espressioni formulari, di ripetizioni e così via, ma anche, o forse soprattutto, per il suo spiccato valore peiformativo: il carmen, in altre parole, sembra qualificarsi come un tipo di parola potente, pronunciata da un locutore dotato di autorevolezza e capace di produrre

"

Ho attinto per questa pagina a un lavoro di Maurizio Bel­ tini sulla nozione di carmen attualmente in corso di stampa .

97

98

Il re che parlava alle n infe

effetti sulla realtà . E certo non c'è dubbio che il carmen di una norma legislativa, ad esempio la lex horrendi carminis che veniva attribuita dalla tradizione al re Tullo Ostilio e si appli­ cava a Roma nei casi di alto tradimento, preve­ dendo la morte per fustigazione del colpevole , oppure quello di una formula magica o tera­ peutica, quello con cui si invitava la divinità protettrice di una città nemica a trasferirsi a Roma o ci si consacrava agli dèi inferi per la salvezza del proprio esercito nella cerimonia della devotio, o ancora il testo di un giura­ mento o di una preghiera - non c'è dubbio, dicevamo, che tutti questi carmina erano chia­ mati a produrre un profondo mutamento della realtà circostante . Insomma, quando il latino evoca la nozione di carmen ciò che i parlanti sembrano avere in mente non è tanto un certo

contenuto, in verità piuttosto mutevole, quanto semmai due aspetti che stanno a monte e a valle rispetto al contenuto stesso, e cioè la pre­ senza di una determinata veste formale e la ca­ pacità di incidere sul contesto nel quale il car­

men viene proferito. Questo elemento è presente anche negli al­ tri esempi di carmina che abbiamo menzio­ nato. A proposito della laudatio Junebris, ad

Lo n i nfa dal suono soave, owero come parlavo Egerio

99

esempio, lo storico greco Polibio sottolineava come il suo effetto, al pari- di quello dell'intera cerimonia delle esequie al cui interno era inse­ rita, fosse proprio quello di suscitare in chi ascoltava una formidabile spinta a eguagliare la gloria del defunto, in una sorta di pedagogia civile particolarmente incisiva ed efficace. An­ che in questo caso, dunque , le fonti sono at­ tente a sottolineare non solo il contenuto, ma anche l'impatto che questa particolare forma di parola pubblica esercitava su quanti ne frui­ vano 22. E le cose non stanno diversamente quando si considerano gli usi più strettamente letterari del termine . Prendiamo ad esempio il più antico poema epico latino, opera del cam­ pano Gneo Nevio e noto comunemente con il titolo Bellum poenicum: un testo che metteva in versi un'esperienza ancora fresca nella me­ moria collettiva, la lunghissima guerra contro Cartagine combattuta intorno alla metà del

m

secolo a . C . , cui tra l'altro lo stesso Nevio aveva preso parte in qualità di soldato ausiliario. u

Polihio,

È

Historiae, 6. 54. 1 -3. Rientra in questa tipologia an­

che la uenia. che per Festo . De verhoru m siRil ((icatu . p. 1 5 5 . 27-2H Lindsay. est carmen quod in jimere lau­ dandi gratia cantatur ad tihiam.

Il re che parlavo alle n infe

1 00

infatti molto probabile che il nome originario dell'epos neviano fosse Carmen belli poenici, e dunque 'Il carmen della guerra punica' . An­ che in questo caso, si sbaglierebbe a pensare che una simile definizione alludesse solo agli aspetti formali dell'opera neviana, che era un poema in saturni e appariva certamente molto elaborata dal punto di vista letterario, come ancora emerge dai pochi frammenti superstiti; al contrario, il fatto stesso che un'opera sulla prima guerra punica venisse composta e fatta circolare mentre si combatteva la seconda , il terribile conflitto annibalico, suggerisce che an­ che Nevio si proponesse, attraverso il suo car­

men, di esercitare un effetto sui suoi ascolta­ tori, di spingerli a sostenere il difficile impegno bellico richiamando alla memoria una guerra che aveva comportato analoghe sofferenze ma dalla quale i Romani erano usciti alla fine vin­ citori. A questo servono dunque le laudes anti­

quorum, quegli •elogi degli eroi antichi· che Pesto, come si ricorderà , considerava parte della provincia sulla quale hanno giurisdizione le Camene; del resto, Greci e Romani erano pienamente consapevoli del valore psicagogico e terapeutico della poesia (e della musica che

La ni nfa dal suono soave, owero come parlava Egeria

ad essa si accompagnava) e le fonti sottoli­ neano spesso la sua capacità di indurre all'a­ zione - ma anche di allentare la tensione, invi­ tando alla gioia o al godimento dei piaceri, in­ somma ancora una volta di produrre effetti sulla realtà . Per concludere con un ultimo esempio, aprendo il terzo libro delle sue Geor­

giche si scopre che secondo Virgilio la poesia ha il potere di •soggiogare con il canto le menti sgombre•, cioè, come spiega il com­ mento di Servio a questi versi, di liberarle dai loro pensieri abituali e insieme di incantarle con la forza dell'arte , che il poeta augusteo de­ finisce ·appunto carmen 23• Rispetto alla que­ stione dalla quale eravamo partiti, possiamo dunque essere certi che la cultura romana non istituiva alcuna frattura fra i carmina governati dalle Camene e quelli che ricadono invece sotto la tutela delle Carmente , per quanto al nostro sguardo possa trattarsi di prodotti molto diversi. Il nesso etimologico fra Carmenta e carmen è comunque fuori discussione: la ninfa sembra anzi rientrare in una categoria di divinità ro'3

Virgilio, GeotRica, 3.3, con il commento ad /oc. eli Servio.

1 01

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Il re che parlava a l le n i nfe

mane il cui nome è caratterizzato proprio dal suffisso -ta e della quale fanno parte nume­ rose altre figure del pantheon arcaico come

Genita, la dea che presiede alla generazione , o Tacita, la Musa cui lo stesso Numa avrebbe dedicato un culto, o ancora Moneta, appella­ tivo che Giunone aveva ricevuto per aver indi­ cato ai Romani, attraverso una misteriosa voce proveniente dal suo tempio sul Campidoglio, la necessità di espiare un terremoto che aveva colpito la città attraverso il sacrificio di una scrofa gravida. Tacita era considerata anzi da Plutarco proprio una delle Camene : una 'Musa del silenzio' , come è stata definita , quasi una sorta di grado zero di quel canto dal quale le dee traevano il proprio nome . In tutti questi casi la divinità porta a compimento l'azione indicata nella radice verbale che forma il suo nome : generare (gen-, radice di gigno), stabi­ lire il silenzio (tac-, radice di taceo), mettere in guardia (mon-, radice di moneo). Anche se nel caso di Carmen-ta la prima parte del nome è composto non da un tema verbale , ma dal sostantivo stesso che fissa l'ambito di pertinenza della dea , se ne può dedurre che quest'ultima fosse percepita appunto come co-

Lo n i nfa dal suono soove, owero come po rlovo Egerio

lei che realizza il carmen, che pronuncia il va­ ticinio 24 . Alla luce di quanto abbiamo detto, appare dunque piuttosto sorprendente il fatto che le due Carmente, che fossero le compagne della madre di Evandro o le divinità del corteggio di Giano, venivano ricondotte da fonti diverse a tutt'altro contesto rispetto a quello della profe­ zia. Se per Agostino le Carmente dovevano il loro nome al fatto di •vaticinare il futuro ai bambini che nascono• 25, e dunque a una fun­ zione localizzata in un momento specifico del­ l'esperienza umana ma attinente pur sempre alla sfera della profezia , Plutarco ritiene invece che Carmenta presieda alle nascite e che per questo sia venerata anche dalle madri, o addi­ rittura che il suo culto sia stato istituito proprio dalle matrone romane per celebrare la nascita

"

Alle fonti è nota anche un'a ltra eti mologia , attestata in Plutarco, Romulus, 2 1 .3 e Quaestiones romanae, S6, se­ condo cui Carmen/a è colei che caret mente, cioè che è priva eli senno, con riferimento alla possessione divina che la porta a vaticinare in una sorta eli trance: una inter­ pretazione che si può accostare , per la tecnica etimolo­ gica con cui è costruita , a quella eli Festo che ricondu­ ceva Ca(s}mena al nesso casta mens.

"

Agostino, De civitate Dei, 4 . 1 1 : qua e fata 1zascentihus

canunt et oocantur Carmentes.

1 03

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abbondante di figli seguita alla soluzione di una crisi che le aveva indotte a negarsi ai rap­ porti sessuali con i loro maritF6• D'altro canto, una parte dell'erudizione antica metteva in re­ lazione Carmenta con un altro e diverso gruppo di divinità, le Parche, anch'esse a loro volta legate tanto alla sfera del vaticinio quanto a quella del parto: secondo Varrone - non ci si dorrà mai abbastanza di aver perduto l'opera integrale di questo straordinario conoscitore del sapere religioso arcaico - i nomi con cui queste tre dee erano conosciute a Roma,

Parca, Nona e Decima, derivavano rispettiva­ mente dal parto (Parca < partus) e dai due mesi della gravidanza, il nono e il decimo ap­ punto, nei quali esso correntemente si verifi­ cava, almeno secondo il modo di contare e il sapere medico degli antichF7• A sorprendere è però soprattutto un paragrafo delle Notti atti-

"'

Si tratta di informazioni reperibili rispettivamente in Plu­ tarco, Romulus, 2 1 . 2 e Quaestiones rornanae, S6.

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Su Carmenta come una delle Parche cfr. ancora Plutarco,

Quaestiones roma nae, 56; per le Parche varroniane Gel­ lio, Noctes atticae, 3 . 1 6 . 9- 1 0 . Va rrone in rea ltà parla in questo contesto di Tria Fata e non di Parcae; sarà un al­ tro emdito, il lessicografo Cesellio Vindice , a citare espressamente Nona e Decima come nomi delle l'arche (cfr. Gellio. Noctes atticae, 3 . 1 6 . 1 1 ) .

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che di Aulo Gellio, che una volta di più attinge alla sterminata enciclopedia di Varrone: Quelli che nascevano per i piedi, e non per la te­ sta , dal momento che quel genere di parto era considerato particolarmente difficile e doloroso

(aegerrimus), erano chiamati 'Agrippa ' , con un termine nato dalla fusione dei due concetti di 'do­ lore' (aegritudo) e ' piede ' (pes). Varrone d'altro canto dice che nell'utero il feto poggia sulla parte più alta della testa , mentre ha i piedi verso l'alto, sicché la sua natura non sembra quella di un uomo, ma quella di un albero. Infatti definisce 'piedi' e 'gambe' i rami dell 'albero, 'testa ' le sue radici e il suo ceppo . •Quando dunque•, afferma , •in modo innaturale capita che il feto abbia una presentazione podalica, per di più con le braccia distese, allora le donne si sgravano con partico­ lare difficoltà ; per stornare questo pericolo, a Roma furono dedicati altari a due Carmente, l'una chiamata Postverta, l'altra Prorsa, derivando il loro nome e la loro sfera d'influenza rispettivamente dal parto normale e da quello rovesciato• 28•

Ci sono molti aspetti interessanti in questa pagina gelliana, a partire dalla interpretazione del cognome Agrippa, piuttosto diffuso a Ro­ ma , come legato alle particolari circostanze della nascita, al fatto cioè che il bambino così .!8

Gellio,

Noctes atticae,

16.16.

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chiamato era 'nato per i piedi ' . Una situazione che i Romani consideravano non solo, ben a ragione, particolarmente critica per la puerpe­ ra, ma anche sommamente ominosa, al punto da ritenere che quanti erano venuti alla luce in questo modo fossero destinati a una sorte infelice - non diversi peraltro, in questa loro persuasione, da quanto hanno pensato moltis­ sime culture umane in ogni parte del mondo. Un altro elemento affascinante nella pagina di Gellio è l'idea che il feto, questa volta nella sua ordinaria presentazione cefalica, sia simile agli alberi e che questi ultimi a loro volta rap­ presentino degli uomini capovolti, con la testa infitta nel terreno e le gambe, costituite dai ra­ mi, che si protendono invece verso il cielo: un'immagine che convive con l'altra e specula­ re che fa invece dei rami altrettante braccia e definisce l'insieme delle fronde 'chioma' , con­ nettendolo dunque metaforicamente alla capi­ gliatura umana. Purtroppo però di questi spunti offerti da Gellio non abbiamo qui agio di occuparci, per­ ché il nostro interesse si concentra sulle due di­ vinità , Prorsa e Postverta/Postvorta, che se­ condo Varrone governano le due opposte mo­ dalità di presentazione dell'embrione nell'utero

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materno. Al di là della differenza tra le forme

Porrima, presente in Ovidio e in Servio, e Prorsa, preferita da Varrone , si tratta sicura­ mente della medesima figura divina , della quale anzi è nota da Macrobio anche una terza e ulteriore variante, Antevorta, che normalizza in qualche modo la coppia attraverso una forma etimologicamente più trasparente ri­ spetto a Porrima e Prorsa e soprattutto perfet­ tamente speculare a Postvorta 29• Solo che quei medesimi nomi sono, a seconda dei casi, legati al fatto di conoscere ciò che è avvenuto in pas­ sato e ciò che accadrà in futuro oppure al fatto di presiedere al parto cefalico o a quello poda­ lico. Una situazione , va detto, piuttosto imba­ razzante , che gli storici delle religioni hanno spesso cercato di risolvere distinguendo tra una funzione originaria delle due dee , perlopiù identificata nel loro legame con la sfera del puerperio, e una invece secondaria o derivata o posticcia, insomma disponendo le identità plurime di Antevorta e Postvorta lungo un asse cronologico e una prospettiva di carattere evo­ lutivo. Soluzione che non è realmente tale, per-

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Macrobio, Satumalia, 1 .7 . 20 .

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ché dopo aver dislocato in momenti successivi della storia culturale il cangiante profilo delle due Carmente resterebbe pur sempre da spie­ gare cosa abbia determinato o favorito il pas­ saggio dall'uno all'altro. C'è però un dato che non può non colpire chi abbia seguito sin qui il nostro discorso: e cioè che la duplicità funzionale delle Carmente ricorda molto da vicino quella che le fonti anti­ che attribuiscono proprio a Egeria , al tempo stesso divinità tutelare delle nascite , al punto che le donne gravide celebravano sacrifici in suo onore , e ninfa dotata di virtù profetiche, o almeno depositaria di una sapienza arcana, la stessa che mette a disposizione di Numa . In qualche modo questi due ambiti sembrano rien­ trare in un orizzonte comune, tra di essi la cul­ tura romana istituisce un nesso piuttosto stretto. Non meno duplice ci è apparsa del resto la si­ tuazione delle Camene, divinità dell'acqua sor­ giva, al punto da prestarsi a fungere da allegorie di quest'ultima , e al tempo stesso signore del

carmen ed equivalenti latini delle Muse greche . Anche in questo caso è difficile pensare di risol­ vere il problema affermando che le Camene fos­ sero originariamente legate all'acqua per poi di­ ventare , o diventare anche , patrone della poe-

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sia: 'originariamente' è anzi una parola che do­ vrebbe essere bandita dallo studio delle culture, antiche o moderne, perché si tratta di un'indica­ zione sottratta per definizione a qualsiasi possi­ bilità di verifica - l'origine è qualcosa che si po­ stula, ma non si conosce . Converrà semmai prendere atto, come ha fatto oltre un secolo fa uno dei massimi conoscitori della religione ro­ mana, Georg Wissowa , che nella cultura la tina gli ambiti dell'acqua sorgiva , del parto e del car­

men, nei suoi diversi significati, si presentano spesso come strettamente legati 30 • A questo riguardo vale anzi la pena di ricor­ rere un'ultima volta a Varrone : il quale si chiede anche lui, in una pagina che abbiamo già parzialmente citato in precedenza, perché i Romani avessero prescelto come equivalente delle Muse greche proprio divinità come le Ca­ mene, legate alla sfera dell'acqua e dunque as­ similabili semmai alle ninfe . La risposta di Var­ rone, che conosciamo attraverso una citazione di Servio, era la seguente: Le ninfe e le Muse sono la medesima cosa : infatti di queste ultime si dice che abbiano la propria

.lO

G . Wissowa , ReliRiou u nd Kultus der R6mer, Munchen, 1 902, pp.

179- 184.

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sede nell'acqua che promana dalle sorgenti, e questa fu anche l'opinione di quanti consacrarono alle Camene proprio una fonte. D'altra parte, i sa­ crifici in loro onore sogliono essere celebrati non con il vino, ma con acqua e latte , e per ottime ra­ gioni: infatti il movimento dell'acqua produce mu­ sica , come vediamo accadere nell'organo idrau­ lico. Bisogna sapere che secondo il medesimo Varrone le Muse erano soltanto tre: una che nasce dal movimento deJI'acqua; l'altra che coincide con il suono prodotto dalla percussione dell 'aria; la terza che consiste ne Ila sola voce 3 1 •

Ecco dunque le nove Muse greche essersi ri­ dotte a tre Camene latine ; ed ecco soprattutto spiegato, almeno a giudizio di Varrone, il loro rapporto con l'acqua, qui vista come un ele­ mento capace di produrre un'eco sonora attra­ verso il proprio movimento. In effetti, se si

Servio, l:'cloRCU!, 7 . 2 1 : ut au le m poetae invocent llym­ phas. sicut hoc loco. item in fine •extremum bune A re­ thusa mihi concede laborem•, haec ratio est, quod se­ cundum Varnmem ipsae sunt nymphae quae et nmsae: nam et i11 aqua consistere dicu ntur, quae de fontilms manat, sicut existimaveru nt qui camenisfontem conse­ craru nt; nam eis non vino, sed aqua et lacte sacrificari solet: nec inmerito: nam aquae motus musicen ej)ìcit, ltf in hydraulia t•idemus. Sane sciendum, quod idem Varro tres tantttm musas esse com memorar.· u nam, quae ex aquae nascitur motu; alteram, quam aeris icti e.fficit so­ nus; te11iam, quae mera tantum voce consisti!.

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scorrono le testimonianze letterarie latine relati­ ve a corsi d'acqua o sorgenti, è facile notare che i Romani sono molto più propensi di noi a valorizzare i suoni che essi generano, dai •fiumi risonanti• di Catullo alle •acque chiacchierine• dell'oraziano fons Bandusiae al •mormorio• del ruscello che sgorga ad Ariccia proprio dalla fonte di Egeria 32• Ne risulta ribadito il valore fo­

nico del carmen, lo stesso che anche la cultura romana sottolineava facendo di questo termine un derivato del verbo canere: le Muse varronia­ ne sono divinità del suono, con qualunque mezzo esso venga prodotto, acqua, aria o sem­ plice emissione vocale. Questa pagina ci offre anzi il destro per porre un'ultima questione al­ l'apparenza divagante, ma in realtà legata a doppio filo al discorso che abbiamo condotto sin qui e soprattutto al peculiare profilo divino della ninfa Egeria.

3. Come parlava Egeria. La domanda è questa : in che forma la dea offriva suggerimenti e indicazioni a Numa 32

Cfr. rispettivamente Catullo, Liher, .34 . 1 2 ; Orazio, Car­

mina, 3 . 1 :U 'i-16; Ovidio, Fasti, .3.273.

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Pompilio? Sui contenuti di quelle indicazioni siamo infatti piuttosto bene informati, essi coincidono, come già sappiamo e come ve­ dremo meglio nell'ultimo capitolo, con le norme introdotte da Numa in materia di ammi­ nistrazione del culto, di leggi e regole della vita associata, di ammonimenti offerti al re per uscire da questa o quella situazione di crisi. Ma cosa possiamo dire invece sull'aspetto for­ male, o persino sonoro, che assumeva l'attività consultiva svolta da Egeria? Se la ninfa era le­ gata così strettamente a divinità del carmen come le Camene , se la sua dimensione era quella dell'acqua, a sua volta così vicina alla sfera del suono, dobbiamo infatti presumere che quell'aspetto assumesse un ruolo significa­ tivo nella definizione della sua identità. In effetti, abbiamo già visto come la più an­ tica attestazione di Egeria nella cultura latina , quella presente negli Anna/es di Ennio, allu­ desse proprio al suo suavis sonus, alla musi­ cale piacevolezza della sua voce 33• Ennio, anzi, non utilizza la parola vox o un suo equiva­ lente , ma parla appunto di suono: le parole di

"

Cfr. supra. pp. l 0-1 1 .

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Egeria diventano immediatamente musica, se ne sottolinea per prima cosa la qualità sonora e il godimento che ad essa si associa . Un im­ portante studioso moderno degli Anna/es ha persino ipotizzato che il verso di Ennio inten­ deva forse suggerire un'identificazione tra la voce di Egeria e il mormorio prodotto dalle ac­ que della sorgente cui la ninfa era legata, un po' come nell'oracolo greco di Dodona la voce di Zeus si manifestava direttamente nel crepitio delle foglie di una quercia sacra agitata dal vento: una tesi affascinante ma purtroppo indi­ mostrabile 34• C'è però un dato del quale possiamo essere certi: anche se disgraziatamente non posse­ diamo il seguito della pagina enniana , i versi suçcessivi a quello che ci è stato preservato da Varrone e che contenevano la risposta data a Numa dal •suono soave• di Egeria erano esa­ metri. Questo è ovvio, naturalmente , tutti gli

Anna/es utilizzano il metro che proprio Ennio aveva per primo introdotto a Roma per sosti­ tuire nella poesia epica l'arcaico saturnia dei suoi predecessori; ma al tempo stesso tale cirY