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Italian Pages 495 Year 1999
UNIVERSITÀ / 247 FILOSOFIA
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Il potere Per la storia della filosofia politica moderna A cura di Giuseppe Duso
Carocci editore
3a ristampa, giugno 2009 1a edizione, gennaio 1999 © copyright 1999 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel giugno 2009 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino ISBN
978-88-430-1732-4
Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.
Indice
I.
2. 3·
4·
5·
Premessa
II
Introduzione di Giuseppe Duso
I5
Parte prima. Ordine, governo, imperium
29
La repubblica prima dello Stato. Niccolò Machiavelli sulla soglia del discorso politico moderno di Maurizio Ricciardi Principi e ragion di stato nella prima età moderna di Maurizio Ricciardi Ordine della giustizia e dottrina della sovranità in Jean Bodin di Merio Scattola Il governo e l'ordine delle consociazioni: la Politica eli Althusius di Giuseppe Duso Ordine e imperium: dalle politiche aristoteliche del primo Seicento al diritto naturale eli Pufendorf di Merio Scattola
Parte seconda. Dal potere naturale al potere civi· le: l'epoca del contratto sociale
6.
Potere comune e rappresentanza in Thomas Hobbes eli Mario Piccinini 7
37 5I
6I
77
95
II3 I23
IL POTERE
7· 8.
9·
IO.
II.
Potenza e potere in Spinoza di Stefano Visentin Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke di Maurizio Merlo Rousseau e la questione della sovranità di Lucien Jaume
I43
Parte terza. Costituzione e limitazione del potere
I
Rivoluzione e costituzione del potere di Giuseppe Duso I limiti del potere: il contributo francese di Mauro Barberis
203
Parte quarta. Pensare il potere: la filosofia classi· ca tedesca
I2. 13·
Potere e libertà nella filosofia politica di Kant di Gaetano Rametta Diritto e potere in Fichte di Gaetano Rametta Potere e costituzione in Hegel di Massimzliano Tomba
I
57
I77
97
2I3
245 2 53
275 297
Parte quinta. Il potere tra società e Stato I5.
I6.
Il concetto controrivoluzionario di potere e la logica della sovranità di Sandra Chignola Costituzione e potere sociale in Lorenz von Stein e Tocqueville di Sandra Chignola Potere e critica dell'economia politica in Marx di Gaetano Rametta, Maurizio Merlo
8
34I
INDICE
Parte sesta. Compimento e crisi della sovranità !8.
20.
Max Weber: tra legittimità e complessità sociale di Luca Man/rin Diritto, decisione, rappresentanza: il potere in Carl Schmitt di Antonino Scalone Crisi della scienza politica e @osofia: Voegelin, Strauss e Arendt di Giuseppe Duso, Mario Piccinini, Sandra Chignola, Gaetano Rametta
Parte settima. Il potere oltre la sovranità? Tenta· tivi contemporanei 2!.
22.
2 3.
La prospettiva funzionalistica: potere e sistema politico in Niklas Luhmann di Bruna Giacomini Dal modello istituzionale-giuridico all'analitica del potere: Michel Foucault di Massimtliano Guareschi I tentativi di nuova fondazione: neoliberalismo, neocontrattualismo, comunitarismo di Pierpaolo Marrone
9
393
449
453
477
Premessa
Le caratteristiche particolari di questo volume richiedono alcune riflessioni preliminari sull'oggetto dello stesso, su problemi di metodo e sul tipo di utilizzabilità che esso può avere. n tema è costituito d.al concetto di potere, il quale, cosi come si configura nella nostra mente, non è un concetto eterno del pensiero, indicante una dimensione essenziale dell'esistenza degli uomini, ma piuttosto appare un'idea determinata, che si è venuta configurando nell'epoca moderna all'interno di precisi presupposti teorici. Quello di potere non è un concetto particolare, che ha una sua storia isolata, ma costituisce il punto focale della "filosofia politica moderna". La storia del potere viene ad essere intrecciata non solo con quella dei principali concetti politici e sociali, nei confronti dei quali funge da catalizzatore, ma anche con le più importanti riflessioni filosofiche che si hanno nell'epoca moderna. Allora le vicende del concetto di potere possono costituire una traccia importante, non unica ma, come si vedrà, particolarmente significativa, per seguire la nascita, lo sviluppo, la continuità e le rotture che si danno nella filosofia politica moderna. n presente volume non è un'antologia di contributi diversi indi. pendenti tra loro, ma è il frutto di un lavoro collettivo di ricerca. I singoli autori dei saggi, che hanno un'esperienza di ricerca diretta sui pensatori politici trattati, hanno naturalmente la responsabilità della lettura offerta, ma sono, per la gran parte, accomunati da una problematica condivisa, da un dibattito continuo, dalla vicinanza nel tipo di approccio metodologico usato, dall'attenzione al modo in cui il concetto di potere, assieme a tutti gli altri cui risulta legato, trova nei diversi autori fili comuni, elementi di continuità, oppure complicazioni e problematizzazioni. Dunque non si ha soltanto, in base alle competenze personali, un attento lavoro filologico interno ai pensatori trattati, ma anche una fondamentale attenzione alla genesi, ai mutamenti e alla sorte dei concetti nell'arco dell'epoca moderna. L'assunto di partenza, che può avere solo nel concreto lavoro la sua dimostraII
IL POTERE
zione, è che non sia possibile intendere la filosofia politica di un autore rimanendo semplicemente all'interno del suo testo, e non sia sufficiente nemmeno intendere il contesto del dibattito politico ad esso contemporaneo. Bisogna invece comprendere qual è la concettualità diffusa nel tempo, all'interno della quale si attua la riflessione dei pensatori politici: tale costellazione concettuale molto spesso non dipende da loro, né dai principi fondamentali della loro filosofia. È alla logica e al funzionamento dei concetti che sono attenti gli autori dei saggi di questo volume, mentre attraversano analiticamente i testi dei pensatori politici. I saggi si pongono dunque in un contesto di discussione omogeneo, che emerge in quella lettura complessiva a cui il volume è finalizzato. Evidentemente ben altro spazio richiede la comunicazione della ricerca fatta sugli autori in relazione al tema del potere e ai concetti della politica. I vari contributi sono connessi a saggi e volumi, in cui è apparsa e apparirà con più ampiezza il frutto della ricerca svolta. In questa sede ci si è proposti un altro fine: quello di offrire uno sguardo d'insieme, agile e complessivo, che possa servire come orizzonte di riferimento nel momento in cui si vada all' approfondimento di un filosofo, di un testo classico della filosofia politica, oppure ci si voglia rendere conto dello spessore storico e teorico di concetti che vengono usati nel linguaggio sociale e politico contemporaneo o anche nei lavori scientifici di tipo politico, sociologico o storico. Oggi si assiste alla proliferazione di lessici della politica, che hanno l'intento di precisare e determinare concetti che sono divenuti quanto mai sfuggenti ed oscuri, anche a causa del fatto che sono adoperati come armi di lotta politica o come mezzi per indicare una propria collocazione ideologica. L'analisi dei concetti politici può essere utile a tutti coloro che vogliono entrare in una dimensione di approfondimento critico nei confronti dei concetti che determinano oggi lo spazio dell'agire umano e che si ritrovano codificati nelle costituzioni contemporanee con lo scopo di legittimare il rapporto di obbligazione politica e il dovere di sottomissione alla legge. Nella consapevolezza che non è possibile intendere un concetto se esso viene isolato dagli altri, come forzatamente avviene nei lessici della politica, il presente volume intende fornire uno strumento di orientamento, ponendo attenzione al modo in cui i concetti funzionano in una costellazione complessiva, nella quale si trovano in relazione reciproca. Il volume ha anche lo scopo di offrire uno strumento didattico nell'università per lo studio del pensiero filosofico e politico e di 12
PREMESSA
quelle tematiche giuridiche, storiche e costituzionali che usano i concetti fondamentali che si sono formati nella filosofia o scienza politica moderna. La pretesa non è certo quella di offrire una rassegna completa, anche se schematica, del pensiero politico (in questa direzione molte sono le carenze), ma piuttosto il tentativo di offrire un quadro di orientamento che presenti alcuni nodi fondamentali della filosofia politica, nei quali i concetti si formano e mutano. Intento del volume è inoltre quello di fornire uno stimolo ad entrare nel movimento di pensiero degli autori e a dedicarsi alla lettura dei testi. A questo scopo i saggi, sia pure nella loro brevità, indicano una serie di passi e di testi fondamentali, che vengono attraversati nel lavoro interpretativo. Un altro elemento tipico della didattica a cui il testo è rivolto consiste nella stretta relazione in cui sono messe tra loro (come è evidenziato dall'Introduzione) la conoscenza storica del pensiero politico o della filosofia politica e un lavoro critico di comprensione del senso determinato, della logica, dei presupposti dei concetti che sono ancora oggi usati per pensare la politica, per parlare degli autori passati, per narrare o rappresentare avvenimenti storici. Diritto, ugua-
glianza, lzbertà, popolo, democrazia, società, Stato, sovranità, rappresentanza: tutti questi sono termini che vengono spesso adoperati o come concetti universalmente validi, come valori, o come indicatori di realtà oggettive e indiscusse. L'analisi dello spessore storico che i concetti hanno appare così intrecciato con la loro problematizzazione e ci pone di fronte al compito difficile di pensare il nostro presente.
Introduzione di Giuseppe Duso
La storia concettuale
Accanto ad una più consueta e sperimentata modalità del lavoro storiografìco indirizzato, per la comprensione del testo politico, alla ricostruzione del contesto costituito dagli avvenimenti del tempo o dai dibattiti teorici in cui esso è inserito, e dunque a una storia del pensiero politico, che si affianca e si integra con la storia delle istituzioni, è possibile pensare a un diverso lavoro, in cui l'analisi filologica è strettamente congiunta all'attenzione per i tempi lunghi, per gli assetti teorici che i termini implicano per essere significanti, per i momenti di svolta e di irruzione di nuove costellazioni di concetti, che vengono a mutare e a condizionare il significato dei termini, per il modo infine in cui si struttura quella realtà politica in cui i concetti funzionano e sono produttivi. I materiali che si riferiscono ad un tale intento storico-concettuale, sia che riguardino ampi periodi storico-dottrinali, sia che si limitino ad analisi di singoli autori, non sono tanto tesi ad evidenziare le dottrine e le proposte dei pensatori politici come costruzioni sistematiche a sé stanti, con le intenzioni che le sorreggono e l'efficacia che riescono ad avere, quanto piuttosto a comprendere il senso strutturale che i concetti assumono e il modo in cui essi funzionano all'interno del quadro complessivo nel quale si esprimono. Per determinare cosa si intenda per approccio storico-concettuale, in modo tale che l'espressione non abbia un significato vago, in un momento in cui da più parti si offrono strumenti di "storia dei concetti", è utile riferirsi alla lezione della tedesca Begriffsgeschichte come è stata proposta da autori come Otto Brunner, Werner Conze e Reinhart Koselleck, che insieme hanno dato vita all'opera monumentale dei Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexzkon zur politisch- sozialen Sprache in Deutschland, Stuttgart,
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IL POTERE
1972-1993 '. Tale riferimento ha cost1twto uno stimolo importante
per un lavoro di ricerca sui concetti politici che sta alla base anche dell'analisi del concetto di potere quale si presenta in questo volume. Ciò non comporta l'identificazione di un metodo a cui si aderisce: tra questi stessi autori ci sono differenze notevoli di impostazione, e uno scarto rilevante si può ravvisare anche tra la concezione che è stata all'origine dell'impresa del Lessico tedesco e la realizzazione che ne è di volta in volta risultata nella trattazione monografica dei concetti Tuttavia il riferimento a questa Begriffsgeschichte appare particolarmente utile per mettere a fuoco un approccio alla storia dei concetti e dei pensatori politici che si discosta da un modo spesso praticato di fare storia delle idee. La storia concettuale tende a mettere in questione un modo di parlare del pensiero politico e anche di fare storia in generale che non metta criticamente a fuoco i concetti che si usano nel lavoro storico. Spesso nelle storie delle idee politiche si intendono i concetti come qualcosa che ha valore universale, che coglie una costante delle relazioni che gli uomini hanno tra loro, e si tende poi a indicare le declinazioni storiche che tali concetti hanno avuto nel tempo. Per fare un esempio chiarificatore, anche se si riferisce ad un uso nei confronti del quale è aumentata l'avvertenza critica, ci si può riferire al concetto di "Stato" come determinante l'unione politica tra gli uomini, che si declinerebbe differentemente nella storia: nella polis dei Greci, nell'impero romano, nell'impero medievale, nelle città-stato, nel pluralismo feudale, nello stato dei ceti e infine nello Stato moderno. In questo modo, nonostante lo studio specifico dei singoli periodi e contesti, si rischia di veicolare elementi concettuali che caratterizzano il concetto di Stato proprio dell'epoca moderna, quali unità del territorio, omogeneità della legislazione, la legge intesa come comando del legislatore, una nozione dell'obbligazione politica che si chiarisce nel rapporto formale di comando-obbedienza, la distinzione di pubblico e privato: tutti elementi che, se determinano il concetto di Stato, che è Stato moderno, non sono adeguati ad intendere i rap2 •
I. Le voci del Lexikon, Progresso, Libertà, Politica e Democrazia sono state tradotte e pubblicate in volumi separati dalla casa editrice Marsilio (cfr. Koselleck, Mayer, 1991; Bleicken, Conze, Dipper, Giinther, Klippel, May, Meier, 1991; Sellin, 1993; Conze, Koselleck, Mayer, Meier, Reimann, 1993). 2. Per la discussione sul Lextkon cfr. Duso (1994); Schiera (1996); Dipper (1996). Rimando per la discussione sulla storia concettuale a Duso (1997); Chignola (1997); e ai precedenti Chignola (1990); Merlo (1990); Ornaghi (r990).
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INTRODUZIONE
porti tra gli uomini, quali si sono dati in epoche diverse e in assetti diversi dei gruppi umani. Lo stesso si dica per il concetto usato, anche in riferimento a realtà a noi lontane, di "società" o di "società civile". Con esso si vuole spesso indicare l'ambito di relazioni tra gli uomini di vario tipo, economico, morale, culturale, ma in ogni caso non politico. In tal modo si usa in realtà un concetto di "società civile", che è storicamente emerso solo tra la fine del Settecento e l'Ottocento. Esso è frutto di una determinata organizzazione dei rapporti tra gli uomini e di un determinato modo di intenderli, e risulta totalmente inadeguato e fuorviante al fine di comprendere le strutture dei gruppi umani proprie di tempi in cui tale separazione di ciò che è solo "sociale" e di ciò che è propriamente "politico" non è pensata né pensabile e in cui la politicità della società non ha il significato dell'inclusione in essa di un rapporto di potere quale viene a determinarsi nell'epoca moderna. Un'osservazione analoga si può fare per il termine di "democrazia", che si suole estendere agli antichi e ai moderni, magari con la distinzione che nel primo caso si tratterebbe di democrazia diretta, mentre nel secondo di democrazia rappresentativa. In tal modo non si tiene conto che nei Greci il termine riguarda una forma di governo, che può essere del demos (popolo) solo per il fatto che il demos è una parte della polis e, in quanto tale, può essere sovraordinata alle altre e dunque può avere l'iniziativa del governo; mentre nell'epoca moderna il termine di democrazia, pur essendo declinabile e declinato in modi assai diversi, ha, in ogni caso, rapporto con un concetto di potere che era prima impensabile, come pure con un concetto di popolo, inteso come totalità degli individui uguali, come grandezza costituente, a cui spetterebbe la determinazione della costituzione, che era altrettanto non presente né formulabile nelle epoche precedenti. Insomma il problema della moderna democrazia non può non implicare il concetto di sovranità, che è appunto al centro del presente volume. Un primo elemento caratteristico dell'approccio qui proposto alla storia dei concetti - elemento che viene non da un'aprioristica scelta metodologica, ma dal concreto delle ricerche precedenti sulla genesi della distinzione moderna di società civile e Stato, sulla sovranità, sulla rivoluzione, sui concetti che nascono all'interno delle moderne teorie del contratto sociale 3 - è allora la consapevolezza critica dei concetti che si usano, della loro nascita nella modernità (ciò sarà da verificare 3· Rimando specialmente a Duso (1987).
IL POTERE
anche nel nostro itinerario) e della determinatezza dei loro contenuti. Sulla base di una tale consapevolezza si può avere un più corretto approccio con le fonti proprie di una realtà diversa da quella moderna. Dal momento che i termini, che si adoperano per avvicinarsi alle epoche precedenti, non possono essere che quelli in cui si è inevitabilmente sedimentato un insieme di significati concettuali moderni (si pensi per esempio alla traduzione di testi politici greci e latini, ricordando che quelli latini arrivano fino al Sei e Settecento!), ciò significa che per un lavoro storico sul pensiero antico e medievale è indispensabile avere coscienza critica del pensiero moderno e della sua concettualità politica. Un secondo elemento - conseguente al primo - è costituito dalla differenza tra un lavoro di analisi del pensiero politico che si può fare su questa base e un modo di fare storia delle idee politiche che intenda i concetti o idee come grandezze unitarie e costanti, universali, che possono avere determinazioni storiche diverse proprio grazie ad un nucleo unitario che le caratterizza 4. Abbiamo bensi esempi in cui possiamo ravvisare un termine come ricorrente sia nell'antichità che nei giorni nostri per indicare i rapporti tra gli uomini. Non è il caso della parola "Stato", che non è terminologicamente rapportabile a polis o a civitas, o a respublica, o a regnum: ragion per cui è un'evidente trasposizione concettuale quella che si compie quando lo si adopera per riferirsi a entità politiche precedenti l'età moderna. Ma può essere il caso di "società", o "popolo", termini che difficilmente possono essere evitati per tradurre societas, populus e demos. Tuttavia, anche quando si può avere l'identità di un termine, ciò non significa che ci sia identità del concetto. N eli' analisi proposta, soprattutto nella Parte prima del volume, si vedrà come i concetti di popolo e di società che nascono con la scienza politica moderna sono nuovi e non modificazioni del concetto in rapporto ad un'accezione precedente. Ciò che rimane identico è il termine, non il concetto; la storia concettuale non è una storia delle parole e non si risolve in un'analisi del modo in cui nei diversi tempi sono stati usati i termini indicanti realtà sociali o politiche, anche se l'analisi dell'uso delle parole può essere utile in una storia concettuale. Spesso parole diverse indicano uno stesso contenuto, e parole identiche indicano, in contesti diversi, cose che non sono apparentabili tra loro. Se l'unità della parola viene scambiata per l'unità del concetto, per il nucleo che lo rende identico nelle diverse declinazioni storiche, in realtà si compie una surrettizia 4- Per questi due primi aspetti cfr. Koselleck ( r986l, in particolare il saggio Storia dei concetti e storia sociale.
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INTRODUZIONE
operazione consistente nell'attribuire a quel nucleo identico, che vale anche per esperienze passate, la struttura che è propria del concetto moderno. Quando ad esempio si scambia l'identità del termine di politica, che ritroviamo nell'opera di Aristotele come nell'uso comune e scientifico dei nostri giorni, con l'unità del concetto, sia pure di un concetto che ha una storia e contempla allora una politica degli antichi con una sua diversità e specificità nei confronti della politica dei moderni, in realtà si fa passare come nucleo permanente del concetto l'elemento del potere. Ma, come si vedrà, quello di potere è un concetto moderno che, così come è presente, più o meno consciamente, al nostro pensiero, non solo non è attribuibile alla maniera di intendere la politica e il rapporto tra gli uomini propri della tradizione della filosofia pratica ma, nel momento della sua genesi, è stato formulabile solo negando dignità e legittimità a quella tradizione. Giustamente si è sottolineato che la politica nel caso di Aristotele, in un contesto cioè nel quale la polis è per natura e l'uomo è "animale politico", riguarda più la natura dell'uomo e il problema del bene vivere che la politica in senso specifico 5. Ma ciò è vero perché quello che intendiamo come "politica" in senso specifico è la politica moderna, basata sul concetto di potere e sulla separazione del pubblico dal privato. Con questo riferimento al concetto di politica 6 ci avviciniamo al tema del presente volume. È infatti a partire dalla nascita della scienza politica moderna che avviene una frattura epocale nei confronti del precedente pensiero riguardante l'agire degli uomini. A partire da questo momento la politica avrà al suo centro il problema dell' ordine, inteso non più come un ordine delle cose che si tratta di comprendere, in quanto non dipende dalla nostra volontà, ma piuttosto come un ordine da costruire, eliminando il conflitto e realizzando una pace durevole. È in questo contesto che viene elaborato il concetto di potere, l'obbligazione politica, come si è soliti intenderla, tale cioè da implicare una forza propria del corpo politico superiore a quella di tutti gli individui, una forza che è garanzia di pace proprio in quanto ad essa tutti sono sottomessi. Un tale concetto di potere non può non comportare la necessità della legittimazione, della giustificazione razionale, giustificazione che è appunto la prestazione propria della scienza politica che nasce a metà del Seicento. Perciò la 5· Cfr. la voce Politica in Sartori (r987), p. 24r. 6. Cfr. su ciò il numero di "Filosofia politica", r, 1989 dedicato a Polt!ica, e in particolare, su questa direzione critica, Duso ( r 9 8 9).
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storia del potere è fatta iniziare con il momento in cui questo concetto è venuto effettivamente alla luce, condizionando il pensiero moderno della politica, e non comincia invece dal mondo antico, in cui ben diverso è il modo di intendere l'uomo e il suo agire. È in questo contesto che si ravviserà anche la nascita di una serie di altri concetti, senza i quali non solo quello di potere non avrebbe il suo significato determinato, ma non sarebbe addirittura pensabile: essi, che solitamente sono intesi come propri di un lessico opposto a quello del potere (si pensi a "diritti", "uguaglianza", "libertà"), appariranno come presupposti necessari della concezione del potere.
Potere e scienza politica moderna Alla base della nascita del nuovo modo di intendere l'uomo e la politica sta la denuncia della non scientificità della riflessione etica, che è anche politica, dell'antica praktiké epistéme, considerata priva di punti certi di orientamento e causa di disordine e conflitto. Non solo il mondo appare come uno scenario di lotte e di irrazionalità, ma anche il sapere filosofico riguardante l'ambito pratico, etico, appare privo di rigore e della capacità dunque di fondare un ordine duraturo. L'esperienza è elemento determinante per questo modo antico di intendere la scienza pratica, nella quale il problema della vita dell'uomo e quello del suo vivere in comunità non sono separati e affidati a discipline radicalmente diverse: l'esperienza è infatti necessaria per conoscere l'animo umano e la modalità dei rapporti tra gli uomini, elementi questi dell'agire umano non riduci bili ad un oggetto dall'esattezza matematica. Ma se la realtà è vista come un mondo di lotte e di sopraffazioni continue tra gli uomini, allora l'esperienza viene destituita di valore; è anzi necessario farne a meno per costruire con la pura ragione le regole dell'ordine, come fanno i geometri con l' oggetto della loro scienza. Quello dei geometri è un esempio preciso: come loro bisogna amministrare la disciplina etica, dando luogo a regole che valgono per tutti, eliminando perciò sia l'irregolarità dei rapporti esistenti tra gli uomini, sia le diverse opinioni sulla giustizia, le quali sono la causa di continui conflitti. Nasce così una nuova scienza: la scienza politica moderna, o filosofia politica, ché i due termini di @osofia e scienza non sono qui, e ancora per molto tempo, da distinguere o distinguibili. Questa nuova scienza vuole fornire, mediante l'universalità e il rigore del suo ragionamento, la base sicura per la realizzazione dell'ordine e l'eliminazione del conflitto tra gli uomini. Si tratta di un modo formale e giuridico di intendere il problema politico: infatti la nuova scienza si affermerà non tanto con l'antico 20
INTRODUZIONE
nome di politica, ma come la scienza nuova del diritto naturale, che prenderà il suo posto anche come disciplina accademica. La politica continuerà ad essere insegnata, ma il vero problema è ora quello dell'ordine, un ordine che non si trova nelle cose, nel mondo, nelle esperienze di vita degli uomini, ma che si tratta di creare sulla base di principi chiari, razionali, accettabili da tutti, al di là della diversità delle opinioni. Ora ciò che è giusto e ciò che non lo è devono essere determinati mediante una scienza oggettiva, che ha il carattere della formalità. Tutti gli elementi di questa costruzione sono formali: non dipendono dalla bontà dei contenuti di volta in volta da decidere, ma appunto dall'avere la loro giustificazione in una forma che, in quanto tale, ha le prerogative della certezza e della stabilità e crea lo spazio per le diverse e private opinioni. Tale formalità si manifesta nell'espressione della volontà degli individui che sta alla base della costruzione, nel processo che costituisce l'autorità, nella legge, che coincide con il comando di colui o coloro che sono autorizzati ad esprimerlo, nell'ubbidienza, in cui consiste l'obbligazione a cui tutti si sono, per propria volontà, sottomessi. Quando si tenta di fare una storia unitaria del potere dall'antichità ai nostri giorni 7 si rischia di omologare il modo di pensare la politica precedente la nascita della scienza politica moderna ai criteri di quest'ultima. Allora l'azione di governo, che per una lunga tradizione di pensiero è considerata naturale e necessaria per ogni forma di comunità, da quella domestica a quella civile, a causa della differenza dei suoi membri, e del fatto che c'è un problema oggettivo del bene comune non dipendente dalle volontà degli individui, viene intesa secondo l'ottica moderna del potere: cioè come una forma di dominio, di soggezione delle volontà dei governati nei confronti di quella dei governanti. Ma, come si vedrà, ben diverso è il significato del governo, che determina il modo di intendere la funzione di imperium fin nelle Politiche del primo Seicento: esso implica un quadro complessivo basato sui reali rapporti sociali che di volta in volta si danno, sull'esistenza di un cosmos, che è elemento di ordine, sulla disuguaglianza e sulla differenza delle qualità degli uomini, sulla necessità della virtù, che è la vera fonte del buon governo. Ma proprio questi elementi sono considerati dalla nuova scienza come causa di conflitto e di incertezza. Di contro alle antiche concezioni, con la nuova scienza viene af7. Ciò rischia di avvenire ad esempio anche nella voce Herrscha/t dei Geschichtliche Grundbegrijfe, contro il principio ermeneutico della frattura che si determina con
la nascita del mondo moderno.
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fermata l'uguaglianza degli uomini e il nuovo concetto di libertà, che consiste nel dipendere solo dalla loro volontà, nell'essere svincolati da obblighi e ostacoli in relazione all'espressione dei propri poteri naturali. Su questa base nasce il potere, un rapporto formale di comandoobbedienza, che si può instaurare solo sul fondamento logico di quei diritti di uguaglianza e libertà che diventano anche il suo fine. Il potere della società o di tutto il corpo politico è allora tale solo in quanto è legittimo, si basa cioè sulla volontà di tutti gli individui. È in questo momento, in cui scompare un mondo oggettivo in cui orientarsi e in cui viene assolutizzato l'elemento della volontà, che si presenta il problema - moderno - della legittimità. Nasce così la storia della sovranità moderna che non è legata al significato della majestas, quale si poteva riscontrare nei trattati di politica precedenti, o alle diverse potestates, che sono inserite in un ordine gerarchico. Qui il potere è unico e appartiene a tutto il corpo politico: comporta sottomissione, perché ciò è razionale ed è legittimato da quell' espressione della volontà di tutti che, nelle dottrine giusnaturalistiche, avviene nella forma del contratto sociale. L'appartenenza del potere alla totalità del corpo politico esclude che esso sia esercitabile da una persona per le sue qualità o prerogative: tutti gli uomini sono uguali, e perciò colui o coloro che eserciteranno il potere lo potranno fare solo in quanto da tutti autorizzati, solo cioè come rappresentanti del soggetto collettivo. Quest'ultimo di contro, non essendo naturale, ma formato sulla base delle volontà di tutti, e consistendo empiricamente nell'infinita moltitudine degli individui uguali, difficilmente potrà essere considerato come concretamente attivo se non attraverso l'espressione del volere e dell'agire del rappresentante. T al e concezione del potere comporta la separazione dell'azione pubblica e politica nei confronti dell'agire privato dei singoli. Questo inizio della scienza politica avrà il suo peso nella storia successiva e nelle problematiche che saranno di volta in volta poste: quella del soggetto che solo può costituire il potere, del potere cioè costituente; quella del controllo di un potere che sembra per sua natura assoluto, e perciò necessario e insieme pericoloso; quella della divisione dei poteri; quella della primarietà della società civile, che è considerata la base dell'istituzione statale. L'arco della scienza che nasce con Hobbes può essere visto giungere a un punto di compimento nella riflessione di un autore nel quale la struttura e lo scopo della scienza vengono a modificarsi assieme all'ambito delle sue possibilità. È il momento nel quale si consolida l'apparato delle scienze sociali, che progressivamente si approprieranno della scienza politica, relegando la filosofia politica a un ruolo marginale e, in ogni caso, diver22
INTRODUZIONE
so da quello della determinazione scientifica. Mi riferisco a Max Weber, la cui definizione del potere (Herrschafi), come rapporto formale di comando-obbedienza, implica necessariamente l'elemento della legittimazione, al punto che i diversi tipi del potere si distinguono tra loro in base alla diversa motivazione della legittimità. Tuttavia questa legittimazione non è più una fondazione razionale, ma piuttosto riguarda le forme di credenza socialmente riscontrabili. Da una parte la definizione weberiana appare possibile proprio in relazione a quel processo di razionalizzazione che ha preso il suo avvio dalla nuova scienza politica moderna 8 : essa appare illuminare l'arco della storia della sovranità moderna e tuttavia anche decretarne epocalmente la fine. Con Weber infatti la ragione scientifica perde il compito fondante proprio della prima scienza politica moderna; diviene piuttosto analisi della realtà, e il potere non appare allora più come il frutto della giusta costruzione razionale, ma come una realtà rintracciabile nei rapporti umani e da comprendere nelle modalità in cui si determina. Si ha così un ulteriore passaggio, che ci porta al modo contemporaneo di intendere il concetto di potere, come realtà onnipervasiva, che indica una dimensione dei rapporti umani. Esso appare essere oltre la sovranità moderna, che non è più rintracciabile in uno scenario in cui non solo si disloca e si frammenta, ma diviene un modo per l'espressione di rapporti di forza, ·di pura potenza, che non sono riducibili alla logica della costruzione teorica della filosofia politica moderna. Nell'arco di quella che è stata chiamata l'età dello jus publicum europaeum, cioè della costruzione giuridica del politico che connota la storia degli stati sovrani, il concetto di potere come sovranità sta al centro della scienza politica, che si configura essenzialmente come scienza di costruzione e di legittimazione del potere. È tale vicenda che si intende illuminare in questo volume, del quale sono, in tal modo, anche indicati i limiti. Molti altri sono i pensatori politici rilevanti, e molto altro c'è nella filosofia politica moderna oltre a questa concettualità legata alla moderna sovranità. Non solo ma, in relazione ai problemi che si pongono nella realtà politica e nella filosofia politi8. Nell'ottica di un approccio storico-concettuale i tipi del potere weberiani quello leglÙe, quello tradizionale e quello carismatico - appaiono non tanto tipi ideali validi per intendere il modo in cui il potere si è presentato nella storia, ma piuttosto come indicanti elementi che nascono nella modernità e sono significanti per il potere moderno, risultando invece fuorvianti per intendere realtà diverse, quale ad esempio quella feudale. Cfr. a questo proposito le penetranti osservazioni di Brunner ( 1987). Su ciò anche il capitolo sui tipi del potere in W eber in Duso ( 1988).
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ca odierna, tale storia ha solo il carattere di un lavoro preparatorio. Si pensi al modo in cui, già in Weber, nasce la coscienza del dislocarsi del potere dai suoi centri istituzionali, e alla perdita di capacità che i concetti politici moderni, di cui qui si tratta, hanno sia nella direzione della descrizione e comprensione della realtà sociale e politica, sia in relazione al compito di legittimazione che si rivela non solo nel pensiero politico, ma anche nella sua ricaduta nelle carte costituzionali. E tuttavia, proprio se rivolgiamo lo sguardo alle costituzioni, ci rendiamo conto che i concetti politici moderni (si pensi ai diritti degli individui, uguaglianza, libertà, popolo sovrano, rappresentanza, democrazia) restano ancora capisaldi della costruzione, elementi di legittimazione dell'obbligazione politica. Se è vero che i concetti politici che stanno alla base della dottrina dello Stato moderno sono già da tempo in crisi, tuttavia essi continuano ad essere usati, e forse il loro uso ci impedisce la comprensione di ciò che ci sta attorno. Il passaggio attraverso la loro logica e le loro contraddizioni può dunque costituire anche oggi un compito utile e necessario per la nostra coscienza critica. Pensiero e realtà politica
Altra caratteristica del presente volume - che è anche un limite o che in ogni caso delimita un territorio di indagine - consiste nel non analizzare tutto ciò che è stato chiamato filosofia politica, all'interno di una storia complessiva del pensiero, ma piuttosto ciò che si presenta come momento di comprensione delle strutture della realtà politica o che, pur in opposizione alla realtà coeva, trova in seguito un intreccio con i complessivi problemi costituzionali 9. Perciò è conferita rilevanza al giusnaturalismo e alla dottrina del contratto sociale, in funzione della comprensione della genesi del moderno: perché lì nascono i concetti che saranno propri della dottrina dello Stato successiva e che si incardineranno nelle moderne costituzioni. Perciò si terranno presenti, soprattutto nelle introduzioni alle diverse parti, i mutamenti degli assetti costituzionali, quali si determinano nella società cetuale, nello Stato unitario che si instaura con la Rivoluzione francese, nella crisi dell'unità, dell'ulteriorità e della superiorità dello Stato nei con-
9· Intendo qui il termine "costituzionale" e "costituzione" nel senso più ampio ed etimologico che ha il termine di Verfassung, quale risulta in Schmitt (1928) e nella corrente tedesca della Ver/assungsgeschichte.
INTRODUZIONE
fronti della società civile quale si presenta, a partire dal Novecento, nella complessità della costituzione contemporanea. L'intreccio tra concettualità e processi costituzionali ha tuttavia spesso tempi lunghi, che non sono percepibili con un metodo che lega il testo al suo immediato contesto. Si tenga presente, come esempio, la consapevolezza che nelle costituzioni moderne, a partire da quella francese del r79I, nella rappresentanza di tutta la nazione da parte dei deputati eletti su base ugualitaria, in sostituzione dell'antica rappresentanza per stati o ordini, che caratterizzava ancora l'ancien régime, appare un concetto di rappresentanza della totalità del popolo - dell'unità politica dunque - che fa la sua comparsa nella sua struttura logica, forse per la prima volta, nel Leviatano di Bobbes. Tale rapporto non si può cogliere se si legge il testo hobbesiano alla luce delle interpretazioni che lo relegano nello spazio di un pensiero assolutistico, a cui si contrapporrebbe un pensiero liberale e da cui porterebbe lontano il processo che ha il suo esito nelle moderne democrazie. Se si esaminano i concetti che sono in questo modo usati mediante un approccio storico-concettuale, tali quadri interpretativi vengono ad essere problematizzati ed emergono @i insospettati che legano posizioni diverse e apparentemente opposte. Tale esempio ci indica anche un modo di procedere in una tale storia: l'attenzione non è tanto rivolta all'influenza culturale e politica che i pensatori hanno avuto, o ai movimenti che da essi hanno preso origine, o alla recezione da parte dei contemporanei, o anche degli interpreti di epoche più tarde: non è dunque rivolta ad una storia culturale complessiva, ma piuttosto al modo in cui funzionano i concetti nel contesto dell'autore, a volte anche al di là delle sue intenzioni culturali e politiche e dei suoi propositi, e inoltre al modo in cui tali concetti reagiscono nei confronti di strutture politiche esistenti, e danno luogo a ricadute costituzionali, anche al di là di fili diretti e consapevoli di derivazione. Una storia del concetto di potere può. allora costituire anche una lunga via attraverso la quale i concetti moderni vengono problematizzati, perdendo il ruolo di presupposti necessari al rigore dell'uso scientifico della ragione. Allora risulta forse possibile riaccostarsi ad altri contesti - passati - di pensiero senza fraintenderli, riaprire il nostro pensiero al problema del giusto e del bene, al di là della soluzione formale della costruzione teorica moderna, spingendosi nello stesso tempo a pensare la realtà contemporanea, oltre quegli schemi concettuali che appaiono in crisi per quanto riguarda sia il compito della comprensione del reale, sia quello della legittimazione dell' obbligazione politica.
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BALL T., FARR J., HANSON R. L. (eds.) (I989), Polztical Innovation and Conceptual Change, Cambridge University Press, Cambridge. BIRAL A. (I99I), Per una storia della sovranztà, in "Filosofia politica", v, 1.
IL POTERE
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Parte prima
Ordine, governo, imperium
Per intendere quando sia da ravvisare la genesi del concetto di potere, nel senso di potere politico, bisogna avere chiara coscienza di ciò che con questo termine si viene ad indicare. In relazione al significato che si è sedimentato nel suo uso, si può riconoscere come elemento centrale la formulazione di direttive per l'azione di tutti i componenti di una società che si manifesta nella forma di comando - di un comando efficace, in quanto garantito dall'uso di una forza comune preponderante - e, di contro, l'attitudine di tutti coloro che si trovano nell'area di tale potere all'ubbidienza: non ad un'ubbidienza coatta, dovuta al fatto che si subisce semplicemente un atto di forza, ma un'ubbidienza volontaria, che sembra caratteristica della vita civile. Per comprendere se con questo concetto si esprima una dimensione universale, che da sempre ha determinato l'ambito politico, e se, conseguentemente, l'origine del concetto sia da porre nell'antichità, è utile verificare se esso sia presente e pensabile all'interno delle dottrine politiche della prima età moderna, che, in molti casi, sono ancora legate ad un modo di pensare la politica che ha le sue origini nella filosofia pratica greca. Bisogna cercare di capire cosa avviene realmente in quei contesti quando si pensano rapporti gerarchici nella società, nella civitas o nella respublica, quando si configura cioè una dimensione di comando e conseguentemente di sottomissione, che è spesso letta in chiave di "rapporti di potere". L'uso fatto del concetto di potere, a livello storiografico, si basa su un significato che è stato formulato nell'epoca moderna e che viene impiegato, proiettandolo nel passato, per intendere in modo omogeneo la storia del pensiero politico. Il potere è cioè inteso come una dimensione reale che si tratta di rintracciare nella realtà storica, identificando i modi in cui si è, di volta in volta, determinato. Tale uso implica, come vedremo, due tappe fondamentali, costituite dalla nascita della scienza politica moderna, con la sua costruzione fondante la dimensione della sovranità e, in seguito, dalla svolta epistemologica
IL POTERE
weberiana, con la quale la scienza perde il suo carattere di fondazione razionale per divenire "scienza di realtà". Usare tale concetto per periodi in cui si è manifest~to un modo radicalmente diverso di intendere l'uomo e la politica risulta fonte di fraintendimento dei contesti che sono posti ad oggetto della propria riflessione. Senza voler ridurre in uno spazio omogeneo realtà e dottrine diverse, si può tuttavia riconoscere, nello spazio che va dall'alto medioevo alla prima età moderna, un modo di pensare la politica che ha le sue radici nell'antichità e che non è omologabile al significato della politica qual è espresso dai concetti moderni. All'interno di questo modo di pensare la politica da parte di una lunga tradizione, se si manifestano rapporti di comando e sottomissione, essi non solo non possono essere intesi nella forma del potere, ma esprimono piuttosto un modo radicalmente diverso di intendere la natura degli uomini e il loro reciproco rapportarsi. Tale radicale diversità viene chiaramente alla luce quando ci si accorge che, alla nascita della scienza politica moderna, si sentirà il bisogno di giudicare non razionale e legittimo il pensiero politico di una millenaria concezione della politica, ai fini di costruire una società giusta che sarà resa possibile proprio dal concetto di potere politico, nel senso della sovranità moderna. Si può tentare di tratteggiare per sommi capi il quadro di pensiero in cui si dà una dimensione che, per distinguerla da quella del potere, potremmo chiamare del governo. In questo quadro l'uomo è considerato per sua natura un essere che vive in comunità, in rapporto con gli altri: la società non è costruzione artificiale, ma è piuttosto naturale, in quanto fine della natura umana. Essa allora non dipende dalla volontà dei singoli, i quali sono uomini proprio in quanto interni ad una realtà di vita in comune. Il rapporto di comunità ha un suo carattere di fine quando si configura come grandezza autosufficiente, quale poteva essere la polis in Aristotele e la civztas o respublica nelle Politiche che ancora si richiamano ad Aristotele nel primo Seicento. Se è naturale la dimensione sociale, è altrettanto naturale, in questo quadro, che si dia un'azione di governo, nel senso dell'unificazione e della guida della società. Ciò perché l'intero della società è formato di parti di diverse qualità, che hanno bisogno di uno sforzo continuo per armonizzare le differenze e renderle utili per tutti coloro che condividono una respublica, che sono legati da ciò che li accomuna. Tale necessità di un'azione di governo non riguarda solo la società, la comunità politica, ma anche l'anima dell'uomo, che essendo pure complessa e costituita di parti diverse, quella del pensiero, quella passionale, quella appetitiva, abbisogna della guida della parte su-
ORDINE, GOVERNO, IMPERIUM
periore dell'anima, di una guida che permetta la vita armonica dell'uomo. Il problema della giustizia riguarda allora insieme sia il singolo uomo sia la società: esso determina lo spazio etico che fa tutt'uno con quello politico: non c'è qui ancora separazione vera e propria tra morale e politica, tra ciò che è giusto per l'interiorità della coscienza e ciò che è giusto per la società. L'azione di governo non esprime semplice dominio su coloro che sono sottomessi: il governo si rivolge al bene della realtà comune, insieme di chi governa e di chi è governato, ed è un modo per mettere al servizio comune le doti e le qualità di chi governa. La guida, per essere efficace, comporta anche comando, ma questo non consiste in un rapporto formale, indipendente dai contenuti di volta in volta espressi. In altri termini non c'è un rapporto di comando e obbedienza che valga semplicemente per le funzioni proprie dell' autorità politica, da tutti riconosciuta. I governati non dipendono semplicemente dalla volontà di chi governa, ma governanti e governati dipendono insieme da un mondo oggettivo che non è basato sulla volontà. La metafora che bene illumina questo modo di intendere è quella, spesso utilizzata già nel mondo antico, del nocchiero della nave, del gubernator navem reipublicae. Il governo della nave è possibile in quanto c'è un mondo oggettivo, con i suoi punti di riferimento: i punti cardinali, le stelle, i venti, le correnti, tutto ciò insomma che permette di orientare la guida, che permette che ci sia guzda. E perché questa sia una guida buona, un buon governo, bisogna che il nocchiero sia dotato di esperienza e di qualità, di virtù che non sono distribuite ugualmente tra tutti. Oltre ad un cosmos reale in cui si è inseriti, il pensiero del governo implica anche che gli uomini siano differenti: che non sia l'uguaglianza la base della politica. Fuori di metafora: ci si riferisce alla nozione di governo in un contesto in cui si pensa al problema del bene e del vivere bene, all'ordine dell'anima, alle leggi, non intese nella forma dell'espressione di volontà di qualcuno, e - nel contesto medievale e della prima età moderna, quando questa immagine viene ripresa ed è ancora significativa - alla realtà della respublica, delle parti che la costituiscono, delle leggi fondamentali, e inoltre al "buon diritto antico" e alla verità rivelata nei testi sacri. L'azione di governo, anche se necessaria per l'intera comunità, è attribuibile alla persona di colui che governa e non esprime la volontà di tutti i cittadini, o di tutte le parti che costituiscono il corpo della repubblica; è piuttosto colui che governa ad esserne responsabile. Egli non incarna il popolo, ma questo ha possibilità di esprimersi nei suoi confronti, come mostrano i vari contratti di governo
IL POTERE
(Herrscha/tsvertrage) che caratterizzano la realtà europea tra alto medioevo e prima età moderna. Chi è governato non è soggetto passivo, ma esprime anche una propria politicità, una partecipazione alla cosa pubblica: nonostante la sottomissione al governo, ha la possibilità e spesso anche il dovere di chiedersi se si tratti di un buon governo, se i comandi corrispondano a quel mondo oggettivo sopra indicato, che va dalla volontà di Dio al diritto (che non è creato dal governante, ma costituisce una realtà superiore e oggettiva), alla realtà e alla dignità delle parti (queste sono i membri della società) che costituiscono il corpo sociale. E, in molti casi, il pensiero del governo è collegato a quello della resistenza: alla possibilità o dovere di resistere alla tirannia, a ciò che, in base a quell'insieme di cose che servono per intendere l'orientamento, può essere considerato cattivo governo. Spesso, come nel caso di Althusius, il popolo è realtà superiore, nei suoi organi collegiali, a colui che governa, e lo può perciò giudicare e deporre. Tale presenza politica del popolo accanto e di fronte a chi governa, è possibile in quanto esso è composto di parti, all'interno delle quali i singoli uomini hanno la loro dimensione politica, in rapporto cioè all'appartenenza ad una delle diverse parti e al peso, allo status, che in essa esercitano. Tale modo di intendere la realtà della respublica è bene simboleggiato dall'immagine ricorrente, nell'iconografia delle opere politiche, della repubblica come un corpo, nel quale le parti anatomiche corrispondono alle diverse parti della società: il principe, il senato, i giudici, il ceto militare, le corporazioni dedite al lavoro. Il buon funzionamento del corpo comune corrisponde al buon funzionamento delle parti, e un funzionamento armonico è possibile in quanto c'è una guida delle diverse parti del corpo. Se tale quadro caratterizza ancora le dottrine politiche del primo Seicento, che trovano nella filosofia pratica di Aristotele un punto di riferimento, con Machiavelli era già apparsa nella scena del pensiero politico una diversa comprensione della natura umana che non giustifica più le differenze di posizione nel governo in base a una natura differenziata e strutturata gerarchicamente. La natura umana risulta, nel quadro del suo pensiero, caratterizzata da una costitutiva conflittualità, e così la comunità politica: principato civile e repubblica devono essere in grado di offrire una risposta a questa situazione. L'insistenza sulla necessità e sulle forme dell'agire del principe non inaugura una dimensione in cui si sviluppa una mera espressione di potere e di dominio né, d'altra parte, tende a fondare su base razionale l'obbligazione politica, ma è piuttosto legata al problema del governo 32
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di una condizione politica, che può essere sbilanciata alternativamente verso un governo principesco o verso uno popolare. Il legame con una tradizione di pensiero in cui si pensa all'agire politico dei cittadini e alla virtù civile non è ancora rotto. Paradossalmente, nonostante l'insistenza sulla centralità dei percorsi della conservazione, l' antimachiavellismo, che contraddistingue il discorso della ragion di Stato, non può evitare di prendere le mosse proprio dall'acquisizione dell'ormai indiscutibile ineluttabilità del mutamento. Esso è segnato perciò dal tentativo di riaffermare il primato e l'esclusività della figura politica del principe grazie a pratiche di governo che, attraverso la sistematizzazione dell'attività amministrativa, saranno fondamentali per i due secoli successivi. In questo modo tale figura finisce per essere, almeno in parte, sottratta all'universo compositivo in cui la tradiziòne del cosiddetto aristotelismo politico la collocava: la pru,denza politica perde l'originario carattere che rivestiva nel contesto aristotelico, facendosi modo di produzione del disciplinamento politico, arte utile ad ottenere obbedienza dai sudditi. Inizia da qui il processo di astrazione attraverso il quale il termine Stato giungerà ad indicare l'intero corpo politico; tuttavia la ragion di stato è ancora identificata con l'azione di governo, con l'arte di governo, ed è perciò legata ad un mondo plurale segnato dalla differenza, nei confronti del quale appare spesso come un paradigma di conservazione, di difesa dalle alterazioni e dalle corruzioni. In questo contesto non si è ancora determinata quella dimensione omogenea sulla quale nasce il concetto di potere con la formalità che lo caratterizza, e sulla quale si costituiscono gli elementi formali fondamentali dello Stato moderno: appare perciò indebito legare la ragion di stato ad una più recente concezione della potenza dello stato o dello statalismo. Un momento fondamentale per la nascita del potere, nel senso moderno della sovranità, è solitamente ravvisato in Bodin. In effetti nel suo pensiero la plurale e composita realtà della repubblica non viene più concepita come in sé ordinata: non è più possibile un governo che implichi l'esprimersi politico delle varie parti della comunità politica: è necessaria, per sfuggire l'incombente anarchia, una puissence souveraine, che è al di là della costituzione e si manifesta come neutra nei confronti dei dissidi religiosi. È vero che questo potere assoluto, sciolto dai vincoli delle leggi civili, resta sottoposto alle leggi divine e morali, ma scompare la possibilità di organi che possano giudicare il detentore di tale potere, ed eventualmente opporsi a lui: la decisione sovrana risulta svincolata da un complesso quadro di ordine e di diritto. Tuttavia la sua assolutezza non nega la natura plu33
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rale della società, composta di ordini, comunità e corporazioni: è proprio tale composizione plurale, che tende a produrre anarchia e disordine, a dover essere mantenuta, diretta e governata, richiedendo a tal fine una potenza unitaria sovrana. Il carattere di assolutezza che caratterizza la sovranità in Bodin non si basa sulla dimensione omogenea e unitaria che sarà propria del potere moderno e ha il carattere del mantenimento di una realtà costituita piuttosto che quello di un assoluto potere costituente. Non rappresenta perciò ancora una rottura definitiva e radicale con le dottrine precedenti. Ciò che non si trova in questo contesto è l'elemento che caratterizzerà la forma politica moderna e che la legittimerà: il fatto cioè che il potere sia basato sull'uguaglianza di tutti i membri della società individualisticamente intesi e sull'espressione della loro volontà e che, di conseguenza, l'espressione di volontà del sovrano sia intesa come l'espressione della volontà di tutti. Il riferimento alla sovranità di Bodin, in positivo per accettarla o in negativo per rifiutarla, diviene un tratto caratteristico delle politiche del Seicento, che nella prima metà del secolo rimangono fondamentalmente fedeli agli schemi aristotelici. Anche all'interno di questa tradizione si va tuttavia consumando un lento avvicinamento alle posizioni della nuova scienza politica, che viene sancito dalla fondazione della disciplina del diritto naturale e dalla sua parte dedicata alla politica, il diritto pubblico universale. Ma la rottura nei confronti dell'antico modo di intendere la società avviene con Pufendorf, che introduce in Germania la logica della costruzione hobbesiana e inaugura la scienza del diritto naturale. Con Pufendorf può così dirsi compiuto il destino della disciplina politica antica e con essa dell'intera filosofia pratica, perché la politica viene relegata al ruolo di dottrina degli affari di governo, chiamata ad applicare le indicazioni di scienze teoriche, e d'altra parte vengono espunti dal sapere politico gli elementi che ne avevano caratterizzato la storia degli ultimi secoli, primo fra tutti la convinzione che l'uomo sia un essere naturalmente politico, portato a mettere in comune i suoi beni materiali e morali, e che su questa particolare costituzione dell'uomo si fondi la società politica e il sapere che la concerne. L'uomo è sì caratterizzato dalla socialitas, tuttavia la società civile appare possibile solo mediante l'imperium, che ora assume un significato nuovo: non è più guida e governo, ma potere, nel quale si esprime il soggetto collettivo, la civitas, le cui azioni, uniche ad essere politiche, sono intese come diverse e separate da quelle dei cittadini, ormai ridotti ad una dimensione privata. 34
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I
La repubblica prima dello Stato. Niccolò Machiavelli sulla soglia del discorso politico moderno di Maurizio Ricciardi
L'opera di Machiavelli deve essere situata in un'epoca in cui «si fondavano e si distruggevano repubbliche e principati», essendo ormai «trascurata la legalità del Medioevo»; in un periodo in cui «l'Italia non era logica»; quando, nonostante tutti i rivolgimenti, compresa la sconfitta dell'impero universale con il suo legame esclusivo con la religione, «i nuovi signori chiedevano di continuo la legittimazione imperiale» r. Quello machiavelliano è quindi un discorso preso tra due epoche, al punto che gli stessi termini in esso impiegati sembrano avere sovente abbandonato ogni consolidata chiarezza, senza avere ancora raggiunto la specificazione concettuale che diverrà caratteristica del discorso politico dell'età moderna 2 • Machiavelli è consapevole del pericolo di «trovare modi e ordini nuovi che si fusse cercare acque e terre incognite», così come è convinto che la qualità del suo discorso consiste nel battere una via che non è stata «ancora da alcuno trita» (D I, Proemio A, I). Questa volontà di innovare concerne «modi e ordini» della politica e, sul piano storico, assume come avvenute almeno due mutazioni decisive: quella che a partire dalla rivolta fiorentina dei Ciompi nel I 3 78 aveva modificato la struttura interna della cittadinanza e quella determinata dalla discesa in Italia di Carlo vm che, nel I494, due anni dopo la morte del Magnifico, aveva ridisegnato i rapporti tra gli stati. Machiavelli vuole quindi ridelineare le coordinate temporali e spaziali all'interno delle quali «tutte le repubbliche si sono governate e si governano» (D I, n, 24). Il risultato di questo sforzo sarà l'indicazione di uno stato che non ha ancora le caratteristiche specifiche dell'unitaria e astratta compagine di potere, destinata ad affermarsi nei secoli successivi, ma mantiene nel proprio r. Ferrari (1973), p. I6r. 2. Sul linguaggio politico di Machiavelli cfr. De Vries (1957); Chiappelli (1952) e Condorelli (1923). Sul passaggio all'età moderna e sul concetto di soglia epocale cfr. Blumenberg (1992).
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IL POTERE
significato il rimando a una moltitudine che può governarsi o deve essere governata. D'altra parte lo stesso concetto machiavelliano di popolo non si riferisce né a un corpo civico differenziato al suo interno ma ricomposto nel quadro organico della res publica, né tanto meno a un insieme indifferenziato di cittadini o di sudditi, rimandando piuttosto al complesso di posizioni sociali che, all'interno della repubblica o del principato, si oppone al predominio politico degli ottimati. Nei confronti del pensiero politico e statuale che si affermerà nel secolo successivo, la dottrina di Machiavelli ha dunque, allo stesso tempo, un carattere preliminare ed eccentrico. Essa rappresenta da un lato un luogo di passaggio dalla considerazione medievale a quella moderna dei compiti del principe e del potere monarchico, dall'altro un'alternativa e un'interruzione nella comprensione pratica del reggimento repubblicano. I. I
Il tempo dell'azione La mutazione dei tempi impone di negare la falsa memoria del passato che rischia di rendere illegittimo il presente. Spesso infatti gli uomini si ingannano sul reale valore delle cose passate, dipendendo nel loro giudizio da "storie" spesso menzognere, ma anche e soprattutto da una predisposizione, per così dire, antropologica che li porta a essere comunque insoddisfatti del presente e a utilizzare il passato per appropriarsi del futuro, seguendo il proprio desiderio. «Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani insaziabili perché, avendo dalla natura di potere e volere desiderare ogni cosa e dalla fortuna di potere conseguitarne poche, ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane e uno fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati e desiderare i futuri, ancora che a fare questo non fussono mossi da alcuna ragionevole cagione» (D n, Proemio, 2 r). Si è così di fronte ai termini fondamentali dell'universo politico di Machiavelli: la dura verità che comunque si nasconde dietro l'immaginazione delle cose, l'insaziabile desiderio umano di appropriarsi di tempo, spazio e oggetti, la fortuna che, sia come mutamento sia come persistenza, impedisce la piena disponibilità di quegli oggetti del desiderio. A questi termini si devono aggiungere «la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna», perché proprio la virtù - opposta al vizio e alla fortuna - consente di stabilire quale sia la vera natura dei tempi e la conseguente linea di condotta che è possibile tenere; essa rappresenta quel "bene" che, se
I. LA REPUBBLICA PRIMA DELLO STATO
non raggiunto, deve essere insegnato «ad altri, accioché, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amato dal Cielo possa operarlo» (ivi, 25). È quindi «più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di epsa» (P xv, p. 2 53). Se si ha di mira un'azione politica degna del successo, si devono leggere i tempi e il loro continuo mutamento, anche se la realtà non è del tutto disponibile all'azione consapevole e virtuosa, ma piuttosto almeno parzialmente indisponibile e sottomessa al dominio della fortuna. La coppia concettuale costituita da fortuna e virtù stabilisce il campo di tensione all'interno del quale vengono definite le possibilità d'azione individuale e collettiva. Infatti, se la seconda è l'antidoto alla totale supremazia della prima, è anche vero che la virtù rimane vincolata all'effettualità della cosa che le si presenta come dura necessità di una situazione data 3. Sebbene talvolta lo stesso Machiavelli abbia condiviso la convinzione opposta 4, alla fortuna si può reagire e la qualità della risposta già definisce una soglia che organizza le alternative del discorso politico. Mettendo in primo piano la fantasia, il modo di procedere e la natura dell'uomo, la torsione impressa da Machiavelli al concetto classico di virtù approda sia alla progettualità sia al desiderio che devono produrre la capacità e i modi di adeguarsi ai tempi. Ma soprattutto essa giunge a distinguere la facoltà tradizionalmente individuale di cogliere l'occasione da una virtù diversa che si rivela nell'adesione di molti alle molteplici emergenze della contingenza. Seguendo l'esemplare destino di Roma, si possono quindi distinguere le repubbliche alle quali «sono state date da uno solo le leggi e ad un tratto» da quelle che «le hanno avute a caso ed in più volte e secondo li accidenti» (D r, rr, 3). La virtù del popolo romano non si incarna in una figura specifica, ma attraversa diacronicamente la storia di Roma, stabilendo la differenza specifica di questa repubblica rispetto a tutte le altre 5. La virtù civile e militare dei Romani fu dunque più importante delle contingenti e favorevoli condizioni di partenza per fare loro (. r8. Sulla religione civile di Machiavelli cfr. Tenenti ( 1969); Preus ( 1979) e Sasso (r98o'l, pp. 507-17.
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re. Grazie a questa lettura della religione civile dei Romani, il modo straordinario può acquisire la vigenza di un'istanza che dall'interno rinnova perché, pur confermando i principi, le azioni che esso ispira sono «cose notabili e nuove» (D rn, xxxrv, r 5) che, soprattutto, devono essere ripetute in continuazione, se si vuole evitare che qualcuno, approfittando della corruzione che ineluttabilmente cresce all'interno della repubblica, giunga a «pigliare autorità in una repubblica e mettervi trista forma» (D III, viii, r8). L'azione politica dei cittadini stabilirebbe così il polo opposto all'agire politico possibile all'interno di una gerarchia di ordini fondata sui comportamenti singolari ed esemplari di un individuo eccezionale, solitario dominatore della fortuna.
Vzta Niccolò Machiavelli (r469-1527) inizia la sua carriera politica a Firenze nel 1498 in corrispondenza dell'ultimo slancio del mondo repubblicano italiano prima dell'affermazione dello Stato moderno. Fino al r 512 svolge un'intensità attività di amministratore, commissario militare e ambasciatore presso le più importanti corti italiane ed europee. Dopo il ritorno dei Medici a Firenze, in coincidenza con la sua disgrazia politica, scrive le sue opere più importanti.
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Principi e ragion di stato nella prima età moderna di Maurizio Ricciardi
2.1
Lo spazio dello stato Ancora nel secolo di Machiavelli, la domanda da lui posta sulle condizioni che avrebbero permesso alla repubblica di accettare la sfida del mutamento dei tempi, predisponendosi ad accrescere il dominio sullo spazio grazie alla virtù della moltitudine, così com'era avvenuto nella Roma repubblicana, riceve una risposta profondamente diversa. Nel I 5 89, con il libro Della ragion di Stato di Giovanni Botero, inizia un'intensa opera di ridefinizione della figura politica del principe e del rapporto da lui stabilito con il territorio e con i suoi sudditi '. In maniera quasi sempre ostile a Machiavelli, non solo in Italia >, una lunga serie di trattati torna ad affrontare il retaggio della storia antica, scegliendo -ora di confrontarsi con Tacito piuttosto che con Tito Livio 3, ma soprattutto chiarendo fin dai suoi inizi che, tra le opzioni che si offrono all'agire del principe - la conservazione, l'ampliamento o la fondazione - la ragion di stato privilegia decisamente la sicurezza garantita dalla prima 4. I. Cfr. Ferrari (I992) e De Mattei (I979). De Luca (I68o) può essere posto a chiusura di tutto il percorso: non solo perché dà ormai per scontate le attribuzioni dei principi - «solamente quei Signori, o dominanti, i quali sieno assoluti sovrani, e indipendenti, senza curare i nomi, ovvero i vocaboli, con cui sieno chiamati» - ma soprattutto perché, criticando la ragion di stato, dà anche per definita la natura del governo politico, preferendo rivolgersi alla definizione di quello civile ed economico. 2. Cfr. Stolleis ( I 990) e Zarka ( I 994). 3· Toffanin Cr972l. 4· Botero ( I589), ed. I997, p. 7 afferma che pur essendo la ragion di stato «notizia de' mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio», essa concerne maggiormente . 9· Chittolini (1994). ro. Ammirato (r594l, ed. 1599, p. 234. rr. Cfr. i saggi raccolti in Baldini (r995l.
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IL POTERE
lare a quella aristocratica, a quella mista. Esso finisce per suggerire che principe e suddito condividono la stessa inaffidabile natura, aprendo problematicamente alla connessione tra individualismo e potere assoluto che sarà una delle caratteristiche genetiche dello stato moderno 12 ; allo stesso tempo proprio l'antropologia negativa giustifica sia la disputa sulle innumerevoli varianti di ragion di stato, sia l'opera legittima e incessante di disciplinamento di cui diverrà oggetto la socialità dei sudditi. Giusto Lipsio non solo dichiara la precedenza nel tempo del principato, stabilendo esplicitamente l'alternativa tra libertas repubblicana e potere principesco, ma sostiene anche che la maggior parte degli uomini preferisce un giusto principe alla libertà, perché è comunque «arduo che vi sia nello stesso luogo potenza e concordia» '3. La separazione tra governante e governati non è quindi solo necessaria, ma anche utile di fronte alle divisioni che caratterizzano sia i rapporti interni che quelli esterni delle strutture politiche: essa non viene pensata nell'interesse dello specifico individuo che funge da principe, ma viene agita in nome di un fine superiore che è la pace '4. L'argomento a favore della tranquillità e dell'ordine, cioè della forma diversa che assume il riferimento a un bene comune '5 al quale paradossalmente si riconosce la necessità di essere obbligati, si fonda sulla garanzia offerta da una disciplina unificante che renda i sudditi cittadini dello stato, fino a sostenere che sia «male minore qualche oppressione o tirannia», piuttosto che una perdita di quella disciplina ' 6 • 2.2
Il principe e i suoi sudditi
Il discorso della ragion di stato si installa dunque all'interno del vuoto aperto dalla riconosciuta necessità di ridurre a unità le riconoscibili frazioni che si contrappongono. L'avere di fronte uno scontro in atto mostra il governo principesco come garante della conservazione 12. Schnur ( 1979). 13. Lipsius (1589), ed. 1599, n, 2. Su Lipsio e il repubblicanesimo cfr. Van Gelderen (1990), ma cfr. anche Oestreich (1989). 14. «E così torna a vantaggio della pace che sia conferita a uno solo ogni potestà» (Lipsius, 1589, ed. 1599, n, r). Botero (1589), ed. 1997, p. 18 scrive: «La conservazione di uno Stato consiste nella quiete e pace de' sudditi». 15. Malvezzi (1636), p. 73 scriverà: «Il bene pubblico è un nome spetioso, si cerca in ordine al privato, altrimenti vi coopererieno gli huomini così bene sotto un Principe, come sotto la Repubblica». 16. De Luca (168o), xr, 9·
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2. PRINCIPI E RAGION DI STATO NELLA PRIMA ETÀ MODERNA
della pace. Il movimento dell'acquisizione politica è infatti accidentato e insicuro, in quanto assicurato esclusivamente da una forza che non può essere controllata a priori, mentre la conservazione può appoggiarsi sull'esperienza di ciò che è conosciuto e può essere trasmesso in maniera controllata, in modo da non diventare a sua volta elemento della forza. Infatti: «S'acquista con forza, si conserva con sapienza, e la forza è comune a molti, la sapienza è di pochi» '7. Ciò non significa che la forza in quanto modalità di espressione politica venga bandita dall'orizzonte del discorso, ma che anch'essa deve sottostare alle procedure di delimitazione che ora definiscono lo spazio concreto dell'agire politico. Per questo anche i sudditi vengono classificati tanto dal punto di vista delle loro convinzioni religiose, quanto da quello della loro specifica collocazione sociale. Vengono considerati dal punto di vista della loro ricchezza e del loro ceto, nel momento in cui le due determinazioni ancora non coincidono, e alla seconda viene ancora riconosciuto un plusvalore politico, la cui legittimazione non deriva solo dall'appartenenza del principe al ceto nobiliare, di cui è l'elemento più eminente, ma soprattutto dal riconoscimento della sua virtù esclusiva nel gestire le cose politiche. Il fatto è che questa virtù deve essere ormai con sempre maggiore attenzione puntellata da conoscenze specifiche, che dal carattere sapienziale a esse ascritto da Botero giungeranno a prendere il nome di scienza; la «scienza regia» ' 8 dimostra la sua sempre minore "naturalità" e, in definitiva, il suo sporgersi progressivo nello spazio dell'artificialità consapevole, dello strumento fabbricato e utilizzato in vista di un fine '9. La situazione di profonda inquietudine politica impone di fare ricorso alla prudenza - «che Tacito chiama paura» 20 - come insieme di saperi e di pratiche che consente di dominare il presente, mettendo a frutto la conoscenza del passato. La prudenza produce un'economia del tempo, nella quale il conosciuto deve servire a governare ciò che non si può o non si riesce ancora a conoscere, si tratti dell'animo dei sudditi o delle cose della guerra, così come deve stabilire
17. Botero (1589), ed. 1997, p. 10. r8. Mattei (r624l, ed. 1719, p. 7· 19. , cfr. Matteucci (I976l, p. 2I5. 2. Cfr. rispettivamente Hayek ( I 946); Hayek (I 960), specie pp. 54 -70; Hayek (I973l, specie pp. 8-34. In Hayek (I96o), p. 56, si legge anzi che «Frenchmen like Montesquieu and, later, Benjamin Constant and, above ali, Alexis de Tocqueville, are probably nearer to what we have called the "British" than the "French" tradition». Poiché peraltro autori inglesi come Hobbes e Bentham appaiono talvolta più vicini alla tradizione francese, in Hayek (I973l verrà abbandonato qualsiasi riferimento di carattere nazionale. I.
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valutare il contributo francese-rivoluzionario al liberalismo e al costituzionalismo; il difetto particolare consiste nell'occultare la derivazione francese-rivoluzionaria di alcune delle dottrine oggi considerate liberali e/o costituzionalistiche per antonomasia, quali quelle di Constant e di madame de Stael. Qui di seguito si cercherà di rimediare soprattutto al secondo difetto, anche se con un occhio rivolto al primo. N el PAR. I r. I, dedicato al pensiero francese da Montesquieu a Sieyes, si delineeranno tre tratti distintivi delle tradizioni liberali e costituzionalistiche rispettivamente francese e inglese, ricorrendo all' opposizione hayekiana fra evoluzionismo e costruttivismo: opposizione che si rivela suscettibile di impieghi ben diversi da quelli per cui è stata forgiata dal suo autore. Nei paragrafi successivi invece si applicheranno i tre tratti distintivi individuati nel paragrafo precedente al costituzionalismo liberale di Constant e di madame de Stael: cercando di mostrare come, in entrambe le fasi nelle quali può dividersi la loro produzione politica - quella repubblicana, cui sarà dedicato il PAR. 1 1.2, ma anche quella monarchica, cui sarà dedicata il PAR. I r. 3 - essi prendano le distanze dalla tradizione inglese, e s'inscrivano piuttosto nella tradizione francese. II. I
Tra Francia e Inghilterra
Nel delineare i caratteri distintivi delle tradizioni liberali e costituzionalistiche rispettivamente inglese e francese, si partirà dall'ipotesi che liberalismo e costituzionalismo siano posizioni (non esclusivamente, ma certo) tipicamente moderne; che le due tradizioni in questione, anzi, costituiscano altrettante varianti di ciò cui spesso si allude in termini di modernità politica. La locuzione "modernità politica", certo, non si presta a definizioni univoche; agli scopi di questo lavoro, peraltro, si assumerà che essa designi una concezione del potere e/o delle istituzioni come risultato dell'azione umana mirante alla massimizzazione del self interest: concezione notoriamente già reperibile in Hobbes, ma che oggi costituisce il perno di quell'analisi economica della politica che ha dominato il dibattito politologico degli anni Settanta e Ottanta 3. Le tradizioni liberali e costituzionalistiche rispettivamente inglese 3· In questa sede si possono solo menzionare alcune opere rappresentatative di tale approccio, come Downs (r957l; Buchanan, Tullock (r962l; Brennan, Buchanan (I985).
214
I I.
I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
e francese-rivoluzionaria, ricostruite in base all'opposizione evoluzionismo/costruttivismo, si lasciano appunto leggere come due possibili declinazioni della modernità politica: come altrettante versioni della concezione del potere come risultato dell'azione umana autointeressata. Qui di seguito si fornirà una presentazione di tali tradizioni che è - oltreché schematica - anche ingannevolmente simmetrica: occorrerebbe sempre ricordare infatti che le due tradizioni sono non solo cronologicamente sfalsate, ma anche diversamente rapportate alla modernità. In particolare, la tradizione inglese pretende di svilupparsi senza soluzioni di continuità a partire dal costituzionalismo medievale, mentre la tradizione francese-rivoluzionaria vorrebbe rompere completamente con il passato 4. Per la tradizione evoluzionistica inglese o meglio britannica (inglese e scozzese), il potere è - anche e soprattutto - un prodotto dell'azione umana inintenzionale: i migliori esempi di istituzioni spontanee (evolutesi spontaneamente), accanto al linguaggio, al mercato e alla moneta, sono proprio la common law e la costituzione inglese, considerate entrambe come prodotti inintenzionali di azioni umane intenzionalmente rivolte ad altri scopi. Per la tradizione costruttivistica francese-rivoluzionaria, invece, il potere è - o dovrebbe essere - il prodotto dell'azione umana intenzionale: i migliori esempi di istituzioni costruite (consapevolmente progettate) sono appunto il diritto legislativo e le varie costituzioni postrivoluzionarie francesi, considerati come risultati di azioni umane intenzionalmente rivolte a produrli. In questo paragrafo, i tratti caratteristici delle tradizioni liberali e costituzionalistiche rispettivamente inglese e francese verrano schematizzati in tre opposizioni concettuali, che nei paragrafi successivi ci serviranno poi da criteri distintivi per ricondurre all'una o all'altra tradizione il costituzionalismo liberale di Constant e di madame de Stael. Le tre opposizioni sono tutte riconducibili alla modernità politica, ovvero alla concezione del potere come risultato - inintenzionale o intenzionale - dell'azione umana autointeressata. La prima opposizione, infatti, riguarda lo stesso carattere spontaneo o costruito delle costituzioni; la seconda attiene al carattere corporativo o individuale degli interessi ammessi al gioco costituzionale; la terza vette sul carattere di bilancia o di regola della strategia di limitazione del potere adottata. r. Per la tradizione inglese, come si è anticipato, le costituzioni han4· Cfr. Galli ( 1996), specie pp. 58-9, n. 6. Sulla difficoltà di concepire un costituzionalismo liberale tedesco, cfr. almeno Fioravanti ( 1979), specie p. 368.
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no carattere spontaneo, per la tradizione francese carattere costruito. N ella tradizione inglese, in particolare, si parla di una sola costituzione, che la Gloriosa Rivoluzione del I688-89 si sarebbe limitata a fissare definitivamente, e che originerebbe spontaneamente dal conflitto di interessi sociali e politici, attraverso un meccanismo non identico ma comparabile alla mano invisibile teorizzata da Adam Smith. Quest'ultimo, in una sezione della Theory of Mora! Sentiments ( 1759), ipotizza che gli individui, perseguendo intenzionalmente il proprio interesse, producano inintenzionalmente l'interesse generale, in un modo che l'autore stesso paragona all'operare della Divina Provvidenza. Orbene, un meccanismo analogo è intravisto, da teorici sia inglesi sia continentali, nella costituzione inglese. Che la costituzione britannica non sia stata fabbricata da alcuno, ma si sia evoluta spontaneamente, è idea che non si ritrova solo in scrittori sei-settecenteschi come Edward Coke, William Blackstone ed Edmund Burke~ ma che viene ammessa, sia pure a denti stretti, anche da studiosi ottocenteschi di ascendenza benthamiana, come John Austin e Albert V. Dicey. È però soprattutto in scrittori continentali come Montesquieu e de Lolme che il meccanismo operante nella costituzione inglese si configura come una sorta di mano invisibile istituzionale. In particolare Montesquieu - l'autore che ha fornito lessico e temi all'illuminismo francese, e che ha influito sulla stessa costituzione americana - accenna a un meccanismo del genere già nelle pagine dedicate dall'Esprit des lois (I748: d'ora in poi EDL) all'onore come principio della monarchia. Scrive infatti Montesquieu: «l'onore fa muovere tutte le parti del corpo politico; esso le lega per mezzo della sua stessa azione: e succede che ognuno vada verso il bene comune credendo di andare verso i propri interessi particolari» (EDL, t. I, p. I49). Ma la mano invisibile istituzionale gioca un ruolo importante anche nel libro undicesimo, in cui si trova il famoso capitolo sesto dedicato alla costituzione inglese. Montesquieu formula anzitutto quello che diventerà un autentico punto di non ritorno del costituzionalismo liberale, ovvero l'idea che il potere tenda per sua natura a diventare abusivo: «È una esperienza eterna che ogni uomo fornito di potere sia portato ad abusarne; egli si spinge sino a dove non trova dei limiti L .. l Perché non si possa abusare del potere occorre dunque che, per la stessa disposizione delle cose, il potere arresti il potere» (EDL, t. I, p. 293).
Com'è noto, il libro undicesimo è il luogo classico della teoria della separazione dei poteri: espressione che peraltro non deve la sua fortuna a Montesquieu ma all'articolo I 6 della costituzione del I 79 I, 2I6
I I. I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
per il quale «ogni società nella quale non sia assicurata la garanzia dei diritti, e non sia fissata la separazione dei poteri, è priva di costituzione». In base a tale teoria, ogni regime politico consterebbe di tre poteri (il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario) che andrebbero affidati a organi rigorosamente distinti: situazione che peraltro non si verifica nella costituzione inglese raffigurata da Montesquieu, in cui sia i due poteri strettamente politici (l'esecutivo e il legislativo), sia il giudiziario, potere considerato politicamente nullo, sono in realtà amministrati da organi fittamente intrecciati fra loro 5. Il fatto è che, com'era chiarissimo già a Cari Schmitt, la costituzione inglese raffigurata da Montesquieu garantisce la libertà dei cittadini non tanto tramite la separazione, quanto attraverso il bilanciamento dei poteri 6 • Si pensi ai tre organi che congiuntamente formano il sovrano inglese (il cosiddetto King in Parliament) e altrettanto congiuntamente esercitano la funzione legislativa: ovvero il monarca, la Camera dei Lord, espressione del clero e della nobiltà, la Camera dei Comuni, espressione dei ceti non privilegiati. Ognuno di tali organi tende spontaneamente ad accrescere il proprio potere; così facendo, peraltro, finisce per scontrarsi con la tendenza uguale e contraria degli altri, innescando quel meccanismo di pesi e contrappesi che garantirebbe la libertà degli inglesi (cfr. ancora EDL, t. I, p. 302).
Ora, se fu la teoria della separazione dei poteri ad avere un' enorme influenza sulle formulazioni costituzionali successive, a partire da quelle americane e francesi-rivoluzionarie, è invece la teoria del bilanciamento fra i poteri a spiegare l'accoglienza ricevuta in Francia dal modello inglese. Come ha mostrato un importante filone della critica montesquiviana - che peraltro si è limitato a riprendere opinioni correnti nel tardo illuminismo francese - Montesquieu non differisce dagli altri scrittori illuministi solo per la sua sostanziale estraneità alle tematiche giusnaturalistiche e contrattualistiche, ma soprattutto per la sua appartenenza a una tradizione aristocratica e antiassolutistica tipicamente francese, ostile alla centralizzazione e favorevole alla rivitalizzazione dei corpi intermedi fra l'individuo e lo Stato 7. Ora, benché Montesquieu non possa certo ridursi a tale tradizio-
5. Cfr. Eisenmann (I 9 3 3), Eisenmann (I 952) e, su entrambi, il commento di Troper (I985l. 6. Cfr. Schmitt (I928), pp. 244-9. 7· Si possono citare in particolare: A!thusser ( I959) e Tarello ( I976l, pp. 2628. Molte delle forzature di questa interpretazione sono state corrette nella quinta parte di Todorov (I989l.
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ne, è però vero che l'accoglienza prima tiepida, poi ostile, ricevuta dalla sua teoria della costituzione inglese negli ambienti dell'illuminismo francese sarebbe difficilmente comprensibile ove si ignorassero i significati politici fondamentalmente retrogradi che a questa furono attribuiti. Nel bicameralismo - per citare solo l'aspetto della costituzione inglese che verrà più contestato in Francia- spesso non si vide nient'altro che il tentativo di fornire un canale istituzionale agli interessi corporativi della nobiltà: tentativo che verrà sempre coerentemente osteggiato dai teorici filoassolutisti della borghesia francese, i fisiocratici, e che troverà un qualche seguito solo negli anni immediatamente precedenti l'Ottantanove, in quella che viene talvolta chiamata la rivoluzione nobiliare. Certo, l'idea montesquiviana di un bilanciamento dei poteri (balance des pouvoirs, ba/ance of powers) ritornerà, in forma di checks and balances, anche presso i costituenti americani, e segnatamente in molte pagine del "Federalist" ( 1787-88): ma con almeno due varianti, che indicano anche altrettante direzioni in cui guarderanno pure i costituenti francesi. In primo luogo, la costituzione federale americana, benché per più versi tributaria del modello inglese, è interamente progettata: le istituzioni spontaneamente sviluppatesi in Inghilterra, cioè, vi sono sì riproposte, ma anche razionalizzate. In secondo luogo, la ba/ance of powers funziona esclusivamente fra gli organi costituzionali: in una società egualitaria come quella americana, né il presidente né il Senato né la Camera dei rappresentanti possono più venire concepiti come espressione di diversi ceti o classi sociali. Vedremo al punto 2 come questa seconda variante diventerà uno dei tratti distintivi del costituzionalismo francese-rivoluzionario, oltreché del costituzionalismo moderno in genere (in quanto opposto a quello medievale). Qui si deve considerare la seconda variante: ricordando che, in un paese privo di tradizioni costituzionali come la Francia, nel quale quindi tutti i limiti del potere tendevano ad esaurirsi nelle regole sulla trasmissione ereditaria del trono, l'unica costituzione concepibile dovesse essere non solo scritta, ma intenzionalmente progettata. Tutto il costituzionalismo rivoluzionario francese, in effetti, pensa che le costituzioni debbano essere costruite calcolando attentamente gli interessi dei partecipanti al gioco costituzionale, e diffidando di meccanismi spontanei quali la mano invisibile istituzionale. Una volta appreso come gli interessi individuali si combinino spontaneamente, in effetti, cosa vieta di combinarli artificialmente, traendone gli effetti desiderati? Una volta ammesso, con Montesquieu, che tutti i partecipanti al gioco politico tendano ad accrescere 218
I I.
I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
il proprio potere, cosa vieta di strumentalizzare le loro ambizioni per far marciare la macchina costituzionale nel senso desiderato dall'artefice? Così, quegli stessi costituenti francesi che - per influenza delle idee fisiocratiche o smithiane - potrebbero ammettere la mano invisibile in ambito economico, la rifiutano invece in ambito costituzionale: accettano la mano invisibile individuale, cioè, e respingono quella istituzionale. È vero del costituzionalismo francese-rivoluzionario, insomma, quanto François Furet ha detto del pensiero francese in generale: che esso ignora la produttività del conflitto 8 • 2. Questo generale atteggiamento costruttivistico, o antievoluzionistico, è peraltro solo il primo aspetto distintivo della tradizione francese rispetto a quella inglese; come si è anticipato, ve n'è almeno un secondo, relativo al tipo di interessi ammessi al gioco costituzionale. Nella tradizione inglese non sembrano esservi vincoli al tipo di interessi ammesso al gioco politico: può trattarsi indifferentemente di interessi individuali (come ad esempio I' ambizione personale di un uomo politico) o di interessi corporativi (propri di un gruppo, di un ceto o di una classe). La mano invisibile istituzionale, anzi, sembra operare proprio fra organi che esprimono interessi corporativi: in particolare il monarca, che finisce per esprimere soprattutto gli interessi della Corte, e la Camera dei Lord, espressione degli interessi del clero e della nobiltà. La tradizione francese-rivoluzionaria, invece, si presenta al contempo come egualitaria, nel senso che non ammette distinzioni di ceto, e individualistica, nel senso che ammette solo interessi rigorosamente individuali. La differenza fra interessi individuali e interessi corporativi, anzi, viene fissata sin da Qu'est-ce que le Tiers-État ( r 789: d'ora in poi QTE): che può considerarsi una sorta di programma dell'intera Rivoluzione francese, dalla convocazione degli Stati generali sino al colpo di stato di Brumaio. L'autore di questo celebre testo è il già menzionato Sieyes: ovvero il personaggio che non è solo il principale rappresentante della tradizione costituzionalistica francese-rivoluzionaria, com'era pacifico già per i contemporanei, ma che è anche, come gli studiosi hanno sostenuto più di recente, il maggiore ispiratore della tradizione lzberale francese 9.
8. Cfr. Furet ( 1978), pp. 49-50. 9· Per questa interpretazione di Sieyes, si deve rinviare soprattutto ai lavori di Pasquale Pasquino: in particolare Pasquino (r987l; Pasquino (r989l; Pasquino (1993), specie pp. 4-6 e Pasquino (I998). Ma cfr. anche Furet (r988), vol. I, p. 292.
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T orneremo fra un attimo sulla teoria politico-costituzionale di Sieyes; qui bisogna osservare come egli distingua l'interesse generale o comune, somma degli interessi di tutti gli associati, sia dagli interessi particolari o corporativi, condivisi solo da un gruppo, corporazione o ceto, sia dagli interessi personali o individuali di ciascuno (QIE, p. 86). Lo scopo di questa distinzione è del tutto trasparente: Sieyes vuole sostenere che «l'assemblea d'una nazione va costituita in modo tale che gli interessi particularì vi restino isolati e che l' opinione dei rappresentanti vi sia sempre conforme all'interesse generale» (ibid.). Al gioco costituzionale, insomma, vanno ammessi solo l'interesse generale e quello individuale: il costituente può strumentalizzare gli interessi individuali al conseguimento dell'interesse generale, ma non può fare altrettanto con gli interessi corporativi. Che gli interessi particolari, quali quelli del clero o della nobiltà d' ancien régime, vadano dunque rigorosamente esclusi dalla sfera pubblica diverrà in effetti un regola generalissima della grammatica costituzionale rivoluzionaria, cui si sforzeranno di adeguarsi persino i sostenitori francesi della costituzione inglese. Lo stesso monarchien JeanJoseph Mounier, quando propone alla Costituente il bicameralismo inglese, è costretto a presentare la Camera dei Lord non come un organo rappresentativo della nobiltà, ma come un semplice ingranaggio della macchina costituzionale: se il principio per cui gli interessi particolari devono essere esclusi dal gioco costituzionale incontra un'eccezione da parte dei monarchiens, questa riguarda semmai il monarca (o la Corte), in omaggio alla legittimità tradizionale di questo 10 • A determinare il fallimento del modello inglese alla Costituente, com'è stato spesso riconosciuto, fu proprio il sospetto che dietro il bilanciamento dei poteri, il bicameralismo e il diritto di veto reale proposti dai monarchiens vi fosse il disegno di restituire influenza alle forze sociali sconfitte dalla Rivoluzione. A venire rifiutata, cosi, fu ·persino la versione della balance adottata dai costituenti americani: anche contro di essa venne sempre avanzata la stessa obiezione, e cioè che introdurre nella costituzione dei poteri portatori di interessi in çonflitto equivaleva ad ammettere nello Stato interessi particolari, irriducibili a quello generale. I costituenti rivoluzionari francesi non compresero mai sino in fondo perché costituzioni interamente pro10. Cfr. Mounier (1789), p. 44: «Les membres de la Chambre des Pairs n'ont aucun rapport avec ce que nous appellons un ordre de noblesse: leur famille ne forme pas une classe distincte et séparée des autres citoyens». Sulla posizione dei monarchiens cfr. Pasquino (1990), Gueniffey (1994), specie p. 81, Furet, Halévy (1996).
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I I. I LIMITI DEL POTERE; IL CONTRIBUTO FRANCESE
gettate, e basate sull'uguaglianza dei cittadini, dovessero fare ricorso al vecchio ed equivoco espediente della balance rr. Sempre in QTE Sieyes operava un'altra distinzione, per più versi collegata alla precedente: quella fra l'insieme di tutti i francesi, chiamato societé civtle o nation, e cui viene attribuito il potere costituente (pouvoir constituant), e l'organizzazione politica francese, chiamata Etat o établissement politique e titolare dei poteri costituiti (pouvoirs contitués). Questa distinzione fra società e Stato ha evidenti valenze rivoluzionarie: azzerando la legittimità tradizionale del monarca, essa configura le nazioni come libere di darsi i governanti che vogliono, se non come altrettanti «individui fuori da ogni legame sociale o, come si dice, nello stato di natura» (QTE, p. 69). Questa stessa distinzione, peraltro, non serve solo a scopi costituzionalistici, autorizzando la Francia a darsi una nuova costituzione: serve anche a scopi specificamente liberali. N ella Reconnaissance et exposition raisonnée des Droits de l'Homme et du Citoyen ( r 789: d'ora in poi RER), Sieyes puntualizza infatti che «non si costituisce la nazione, ma la sua organizzazione politica [ ... ] La nazione è l'insieme degli associati [ ... l I governanti, al contrario, formano [ .. .J un corpo politico di creazione sociale» (RER, p. r3l. La nation, in altri termini, si costituisce anteriormente allo Stato, in base agli interessi economici dei consociati; lo Stato nasce quindi limitato, come una macchina consapevolmente costruita per svolgere le funzioni delegategli dai consociati. In questo modo, tra l'altro, i rapporti fra i principali organi costituzionali - legislativo ed esecutivo possono venire fraseggiati non più in termini di balance, ma di specializzazione delle funzioni: il legislativo è fatto per volere, l'esecutivo per agire secondo la volontà del primo. Il testo che meglio illustra le ragioni del rifiuto del modello inglese, e la proposta di un modello alternativo, qualificato come francese e naturale a un tempo, è costituito dai due grandi discorsi pronunciati da Sieyes alla Convenzione durante la discussione della costituzione dell'anno m (r795: d'ora in poi DS). Opponendo al système de l'équilibre degli anglofili il système du concours, o de l'umté organisée, Sieyes chiarisce perché l'intero costituzionalismo rivoluzionario tenda
II. In qu.esto senso, cfr. Vile (r967l, p. 199: «the threat of monarchie and aristocratic privilege remained, and the theory of checks and balances must be inevitably associateci with it». La riproposta della ba/ance in versione americana, avanzata per esempio da Adams ( r 792), specie vol. r, p. 4, si scontrò con l'obiezione menzionata nel testo almeno a partire da Livingstone (I 789), specie p. 3 I, per finire con Destutt De Tracy (r8o6), pp. 173-4.
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a configurare i rapporti fra esecutivo e legislativo nei termini non della balance el o della mano invisibile istituzionale, ma piuttosto della specializzazione e della divisione del lavoro. Se il legislativo deve limitarsi a volere e l'esecutivo ad agire, è anche perché qualsiasi bilanciamento fra i due potrebbe giustificarsi solo con qualche differenza d'interessi sociali o corporativi degli organi. Lo stesso Sieyes di Termidoro dell'anno rn, peraltro, si accorge che la balance potrebbe anche funzionare - diversamente che in Inghilterra, e come negli Stati Uniti - escludendo dal gioco costituzionale gli interessi particolari: «non parlo di quanto vi è di superstizioso e di disonorevole per l'umanità nell'istituzione di una camera nobiliare [ ... l Questi vizi profondamente radicati [ .. .] non ineriscono essenzialmente al système des contrepoids; infatti non si ritrovano in quello stabilito in America» (DS, p. 19). Cosi, nei DS fa capolino un terzo criterio distintivo fra tradizioni inglese e francese, e un criterio, quel che più conta, suscettibile di distinguerle anche quando i due precedenti non lo permettano: come nel caso di quei monarchiens che adottano una concezione costruttivistica della costituzione e una concezione individualistica degli interessi ammessi al gioco costituzionale. 3. Il terzo criterio distintivo fra tradizioni costituzionalistiche e liberali rispettivamente inglese e francese è relativo alla strategia di limitazione del potere adottata. Posto che il potere tenda a diventare abusivo e che debba quindi essere limitato - com'era pacificamente ammesso dopo Montesquieu, e come il T errore aveva provveduto a ricordare a tutti - vi sono almeno due possibili strategie di limitazione del potere, che restano implicite in gran parte del dibattito costituzionale rivoluzionario per diventare però del tutto esplicite in Sieyes e in Constant. Queste due strategie sono state tematizzate recentemente da Bernard Manin distinguendo &a un liberalismo e/o un costituzionalismo della bilancia, o dei contro poteri, e un liberalismo e/o un costituzionalismo della regola o del mercato ' 2 • Nella tradizione inglese viene adottata la strategia della bilancia: la limitazione del potere, cioè, appare affidata al meccanismo spontaneo dei contropoteri. Gli unici limiti al potere, in altri termini, derivano dalla stessa composizione di questo - sono cioè non esterni ma interni - perché solo il potere, in fondo, è in grado di limitare il potere. È proprio questo, in effetti, uno dei significati della teoria
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II. I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO PRANCESE
della sovranità o dell' onnipotenza del Parlamento che passa con diverse accentuazioni da Coke a Blackstone sino ad Austin, trovando la sua definitiva consacrazione nell'opera di Dicey. Che il Parlamento sia sovrano, in effetti, significa anche che non possono darsi limiti esterni al suo potere, come quelli fissati da una costituzione scritta, ma solo limiti interni: non è una regola a !imitarne il potere, ma solo il bilanciamento che si realizza fra i suoi organi. Nella tradizione francese, o piuttosto continentale, viene adottata invece la strategia della regola: la limitazione del potere, cioè, appare affidata a una norma superiore - la stessa costituzione - che ne fissa i titolari e, soprattutto, gli ambiti di esercizio. Si è detto spesso, non senza fondamento, che l'idea della superiorità della costituzione sulla legge ordinaria si è affermata con difficoltà in Francia, per via del cosiddetto legicentrismo francese: atteggiamento che potrebbe più perspicuamente chiamarsi, nei termini di Raymond Carré de Malberg, concezione della legge come espressione della volontà generale. È anche vero, però, che l'idea di una sovralegalità costituzionale è presente sin dall'inizio nel pensiero di Sieyes, vero fondatore del diritto pubblico francese, in termini di una chiarezza che, almeno sul piano giuridico, non verrà eguagliata neppure da Constant. Nel discorso del 2 Termidoro dell'anno m, in particolare, Sieyes critica la strategia della bilancia (il già menzionato système de l'équzlibre o des contrepoids) e adotta espressamente la strategia della regola (il système du concours, o dell' unité organisée). Ai sostenitori della balance egli imputa di dover ricorrere al gioco spontaneo dei contropoteri proprio per il fatto di non aver previamente limitato la somma totale del potere: «allora, spaventati dall'immensità dei poteri che hanno appena accordato ai medesimi rappresentanti L .. ] essi immaginano di attribuire a\ un secondo organo rappresentantivo la stessa massa di poteri, oppure attribuiscono loro un diritto di veto reciproco» (DS, p. I 8). Sieyes ritiene invece che occorra prima limitare il potere, stabilendo gli ambiti nei quali esso può esercitarsi, e poi costruirlo nel modo più funzionale a questa limitazione. In questo modo, il Sieyes dei DS non formula soltanto la teoria della limitazione della sovranità che è di solito attribuita a Constant, ma mostra quale sia il possibile sbocco istituzionale della strategia della regola: quel controllo della costituzionalità delle leggi che peraltro doveva trovare qualche attuazione in Francia solo ai giorni nostri. Dopo aver opposto, nel discorso del 2 Termidoro, la strategia inglese della bilancia a quella francese della regola, nel discorso del r8 Termidoro Sieyes propone infatti l'istituzione di un organo competente, fra l'altro, a controllare la conformità delle leggi alla costituzione: «vi 223
IL POTERE
sarà, sotto il nome di giurì costituzionale (jurie constitutionnaire) un corpo di rappresentanti [ ... ] con la specifica competenza a giudicare sui ricorsi per violazione della costituzione che vengano avanzati contro le decisioni del legislativo» (DS, p. 30). È appena il caso di notare come le tradizioni costituzionali inglese e francese (o meglio britannica e continentale) continuino ancor oggi a opporsi proprio su questo: mentre in Gran Bretagna, non foss' altro per la mancanza di una costituzione scritta e rigida, il Parlamento resta soggetto solo ai propri bilanciamenti interni, in molti paesi del continente una costituzione siffatta fissa le competenze del legislatore, permettendo così il controllo della costituzionalità delle leggi da parte di una Corte costituzionale. Per il resto, che le due tradizioni possano fruttuosamente integrarsi è mostrato dallo stesso Hayek: che benché si presenti come il maggiore sostenitore odierno della tradizione evoluzionistica britannica, in The Po!ttical Order of a Free People ( 1979) avanza un progetto di costituzione minuziosamente costruito in vista della limitazione del potere statuale. 11.2
Constant e madame de Stael: il costituzionalismo repubblicano
Delineati questi criteri distintivi fra tradizioni britannica e francese, occorre ora impiegarli per accertare a quale delle due sia prevalentemente riconducibile il costituzionalismo liberale di Constant e di madame de Stael. Sino agli anni Settanta, per la verità non vi sarebbero stati dubbi: a giudicare dalle loro opere edite, entrambi potevano essere tranquillamente ascritti al novero degli anglofili di lingua francese, come Montesquieu, de Lolme, i monarchiens e lo stesso padre della Stael, Jacques Necker. Nel caso di Constant in particolare, la gran parte dell'opera pubblicata nel corso della Restaurazione, eccezion· fatta per pochi scritti giovanili, presentava l'immagine di uno scrittore fortemente impegnato a ottenere il radicamento in Francia di istituzioni monarchico-costituzionali all'inglese. Tutto è cambiato, peraltro, a seguito della riscoperta, verificatasi negli anni Sessanta, e della pubblicazione, avvenuta a partire dai Settanta, degli inediti repubblicani di entrambi: nel caso di madame de Stael, il Des circonstances actuelles qui peuvent terminer la Révolution et des principes qui doivent fonder la république en France (in realtà già pubblicato nel 1906, ma ripubblicato in edizione critica nel 1979: d'ora in poi CA); nel caso di Constant, soprattutto ·i Fragments d'un ouvrage abandonné sur la posszbzlité d'une constztution républicaine dans un grand pays (postumo, 1991: d'ora in poi FCR) e i Principes de 224
I I.
I LIMITI DEL POTERE: IL CONTRIBUTO FRANCESE
politique applicables à tous les gouvernements (postumo, 1980: d'ora in poi PP). Questi inediti, tutti databili fra fine del Direttorio e inizio dell'Impero, hanno finito per cambiare anche l'interpretazione degli scritti già noti. Se nel caso di madame de Stael la (ri)pubblicazione di CA ha rivelato quella che può considerarsi la più articolata formulazione dell'ideologia repubblicano-direttoriale, nel caso di Constant la lettura di FCR e PP ha definitivamente fugato quell'immagine di politico moderato o conservatore trasmessa dagli scritti della Restaurazione: oggi non si può più ignorare, ad esempio, che i testi filomonarchici pubblicati dopo il ritorno dei Borboni sono spesso nient'altro che collages di brani ricavati dagli inediti fìlorivoluzionari e fìlorepubblicani. Orbene, ciò non costringe solo a ripensare ex nova i rapporti di Constant e di madame de Stael con le tradizioni inglese e francese: obbliga anche a distinguere fra la loro produzione repubblicana, cui sarà dedicato questo paragrafo, e la loro produzione monarchica, cui sarà dedicato il successivo. In entrambi i paragrafi verrà peraltro adottato lo stesso schema: alle dottrine sia repubblicana sia monarchica di Constant e di madame de Stael, cioè, verranno applicati i criteri distintivi fra tradizioni inglese e francese individuati nel PAR. rr.r, ovvero: a) carattere spontaneo oppure costruito della costituzione; b) carattere corporativo oppure individuale degli interessi ammessi al gioco costituzionale; c) carattere di bilancia oppure di regola della strategia di limitazione del potere adottata. Si deve appena ricordare che Constant e madame de Stael, almeno nel periodo direttoriale, costituiscono un sodalizio intellettuale molto stretto, tale da tollerare l'impiego di brani dell'uno nella redazione dei testi dell'altro '3. Questo lascia già supporre che le posizioni dei due fossero contigue: anche se qui si vedrà che non erano identiche. Per quanto riguarda il punto a, consideriamo, anzitutto, l' atteggiarsi della dottrina repubblicana di Constant e di madame de Stael rispetto al carattere spontaneo o costruito della costituzione. Qui vi è relativamente poco da dire: è infatti noto come entrambi gli autori e non solo nel periodo repubblicano - abbiano sempre optato per una costituzione scritta e progettata; solo il Constant della Restaurazione, come vedremo nel prossimo paragrafo, tornerà sulla questione in termini volutamente ambigui. È il caso di sottolineare sin dall'inizio, peraltro, che nel periodo repubblicano l'atteggiamento di entrambi è quello rigorosamente costruttivista della tradizione francese: IJ. Cfr. in particolare Omacini (I990-9rl.
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IL POTERE
chiunque abbia anche solo sfogliato il CA di madame de Stael, in particolare, sa quanta fiducia nelle capacità costruttive della ragione si esprima, talora anche ingenuamente, nelle sue pagine. Non bisogna farsi fuorviare, a questo proposito, dalla distinzione recentemente proposta da Marcel Gauchet tra una concezione del potere come causa della società (pouvoir cause), attribuita ai controrivoluzionari, e una concezione del potere come semplice effetto della società (pouvoir ef/et), attribuita a Constant: distinzione che potrebbe far pensare al costituzionalismo di quest'ultimo come a una sorta di sociologismo, nel quale le istituzioni diventano la registrazione di un assetto sociale dato r4. Constant si esprime effettivamente in termini di pouvoir cause e di pouvoir effet in un passo del suo primo scritto politico, il De la force du gouvernement actuel ( 1796: d'ora in poi FG) che ritorna anche nell'ultimo, i Mélanges de littérature et de politique (1929): ma si tratta di un passo che resta nel solco del costruttivismo rivoluzionario. «l re, i grandi e i loro sostenitori- si legge appunto in FG, p. 77 - prendono il potere per una causa mentre non è che un effetto, e poi tentano di servirsi dell'effetto contro la causa». Ad essere criticata, qui, sembra però soprattutto l'idea secondo la quale, come aveva scritto lo stesso Montesquieu, > (Riehl, r86ra, p. 238). Ma per l'apologia riehliana della ganze Haus in relazione ai processi di "scorporazione" che aprono la questione sociale cfr. anche Riehl, (r86rb), pp. 443-4 e ss. 14. Tocqueville, Ricordi, pp. 78-9: «quanto più studio l'antico stato del mondo e quanto più osservo nei particolari il mondo dei nostri giorni, nel considerare la prodigiosa varietà che vi si trova non solo nelle leggi, ma nei principi stessi delle leggi, e le diverse forme che ha preso e che mostra, anche oggi, checché se ne dica, il diritto di proprietà sulla terra, sono tentato di credere che quelle che vengono chiamate le istituzioni necessarie non siano sovente se non le istituzioni alle quali ci si è abituati, e che in materia di costituzione sociale il campo del possibile sia ben più vasto di quanto immaginano gli uomini che vivono in ogni società>>. I 5. Cfr. H. T aschke, Der Personlichkeitsbegriff bei Stein: die individuelle Personlichkeit und die organische Staatspersonlichkeit, in Taschke (1985 ), pp. 221-76.
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COSTITUZIONE E POTERE SOCIALE IN LORENZ VON STEIN E TOCQUEVILLE
traddizione tra l' «irrefrenabile anelito in direzione del completo dominio sull'essere esterno», e l'infìnita limitatezza individuale. Libertà è il «lavoro» con cui l'uomo si adopera a compensare la propria «individuale indigenza», elaborando in termini di cooperazione l' «assoluta contraddizione» che il singolo è. Teso alla realizzazione della propria destinazione - fatta della concretizzazione della propria libertà per mezzo di un'indefinita estensione dell'umano dominio sulla natura -, e impedito nell'esecuzione della propria missione di autodeterminazione dalla scarsità dei propri mezzi, l'uomo si trova necessariamente affidato alla «comunità», che ne potenzia l'individuale debolezza. «Tempo e forza illimitati» vengono offerti al singolo dall' «illimitata pluralità» degli uomini, per il conseguimento della propria Bestimmung e per lo scioglimento della contraddizione apparentemente insolubile in cui lo getta l'originaria destinazione alla libertà. Personificata come «volontà ed azione», e così definitivamente emancipata dalla debolezza di singoli che la compongono, la comunità, «la cui esistenza è in funzione delle personalità, che comprende le personalità e che prende il suo concetto dall'essenza della personalità», assume necessariamente una «vita personale» e, «rispetto ad una tale volontà autonoma» appare come «quello che noi chiamiamo Stato» (GsBw r, xm-xv; OSr, pp. ror-3). Come la libera autodeterminazione dell'uomo si afferma rispetto ad una materia inerte che ad essa oppone una continua resistenza, allo stesso modo l'azione dello Stato incontra, nell'oggetto che essa deve determinare, una resistenza altrettanto irriducibile. L'arbeztender Staat steiniano definisce le proprie logiche in base alla medesima tensione che destina la singola personalità all'elaborazione della propria contingenza, confrontandosi con l'altro da sé del proprio libero desiderio. Ciò rispetto a cui lo Stato indirizza, personificandole, volontà ed azione della comunità, mantiene infatti quelle caratteristiche di autonomia e di irriducibilità, che animano l'opposizione originaria, da cui discende l'antologia dinamica e conflittuale, sulla quale si fonda la Bewegungslehre di Stein ' 6 . L' «oggetto che si è sottomesso alla volontà r6. Per la formulazione coeva di un concetto "dinamico" di costituzione, che, in polemica con la "statica" idealista di un Rousseau o di un Platone, componga le gesellschaftliche Krii/te allo Stato, L. A. von Rochau, Grundsiitze der Realpolitik. Angewendet au/ die staatliche Zustande Deutschlands (1853), hrsg. und eingel. von H. U. Wehler, Ullstein Berlin, Wien, Frankfurt/M. 1972, pp. 25-8. Per l'interpretazione della Soziologie steininana come Bewegungslehre, cfr. E. R. Huber, Lorenz von Stein und die Grundlegung deridee des Sozialstaats, in Huber (1965l, pp. 127-43, p. 133. Sulla logica di definizione, in Stein, della soggettività dello Stato in relazione alla società e all'autonomia dell'individuo (ovvero nel solco del "paradigma hobbesiano" del diritto
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dello Stato» non può dunque essere da esso «dissolto» né destituito della propria autonomia. All'azione della comunità su se stessa, che si personifica nello Stato, corrisponde specularmente «la vita autonoma di tutti i singoli», inscalfibilmente mossa da leggi proprie, che ne assicurano la riproduzione ed il progresso (Stein, GsBw I, p. xvr; 05r, p. 104). I processi di scambio tra ciascuno dei singoli ed il mondo esterno permangono allora a fianco dello Stato, ed acquisiscono una differente e nuova qualità. processo in cui si realizza la «lotta» - che è «vita» - tra la «personalità» ed il «mondo esterno», che essa si impegna a «sottomettere», «non appena diventa un'attività ordinata e pianificata» - ovvero indirizzata alla Erarbettung di beni, e di per ciò stesso definita da forme di cooperazione che la sostengano - è il «lavoro». «La destinazione degli uomini spinge quindi anche il lavoro degli uomini all'unificazione. È l'unità nell'elaborazione dei beni umani. Questa appare in un primo tempo come casuale ed arbitraria per il singolo. Ma invece essa è altrettanto autonoma e potente quanto la volontà che si manifesta nello Stato» (Stein, GsBw I, p. xvi; 05r, p. 104). È all'interno di una medesima traccia ontologica che si costituiscono le logiche, differenti e consonanti, della società e dello Stato. Se quest'ultimo rappresenta il «quadro» giuridico ed istituzionale in cui si personificano «volontà ed azione» della comunità allo scopo di preservare l'originaria Bestimmung dell'uomo alla libertà, la società, «questa unità organica della vita umana, condizionata dalla distribuzione dei beni, regolata dall'organizzazione del lavoro, mossa dal sistema dei bisogni» (GsBw r, p. xxvm; 05r, p. n6), e quindi necessariamente permeata di illibertà date dagli immediati effetti sociali della divisione del lavoro, offre una controspinta decisiva, pur mantenendone ed inverandone la dinamica, al movimento della libera autodeterminazione umana. È sul terreno della società che si afferma il diritto - come /orma della libera appropriazione/elaborazione dei beni, che denaturalizza il mondo e lo ritrascrive a partire dall' organicità del nesso proprietàlibertà-forma giuridica, ed è in esso, che l'illibertà mette radici, a partire dalla necessaria "limitazione" che la divisione del lavoro sociale, ovvero l'assunzione di un rigido Laujbahn per la vita di ciascuno, opera sulle potenzialità di autodeterminazione del singolo (GsBw I, xxr; 05r, p. 109). Un effetto, quest'ultimo, che assume il proprio
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borghese): B. Willms, Lorenz von Steins politische Dialektik, in Schnur (1978), pp. 97123; Koslowski (1989), pp. 19 ss.
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più autentico significato a partire dagli effetti di «rinaturalizzazione» della dipendenza, determinati dalla diseguale distribuzione della proprietà e del capitale '7. n lavoro assolve dunque ad un doppio compito, nella logica della "scienza sociale" steiniana. Da un lato, fondando l'antecedenza del diritto privato su quello pubblico, permette a Stein di assumere, in perfetta assonanza con Hegel, l'assoluta modernità della proprietà privata come modo della compiuta denaturalizzazione del mondo, che viene «frantumato» dalla reificazione liberatoria dell'istanza appropriativa e così ritrascritto in termini formali, che ne riscattano l'immanente Rechtslosigkeit ' 8 ; dall'altro scandisce l'autonomia del "movimento" molecolare interno alla società, rispetto allo Stato '9. All'instaurarsi dell'epoca del lavoro libero (ovvero alla decomposizione dell'organismo servile-cetuale), corrisponde la nascita della società dei privati ed il definirsi della sua autonomia rispetto allo Stato (BdA, pp. 84-5). n lavoro consente dunque a Stein di individuare la cerniera della mobilità sociale. La costante fibrillazione del tempo dell'acquisizione - indipendentemente dalle strettoie della stratificazione sociale realizzate dalla casuale, e proprio per questo inscalfìbile, distribuzione dei beni in proprietà - coincide con il tempo della libertà, scandito dal molecolare traffico della proprietà privata. Equilibrio tra società e Stato, in una prospettiva teorica che assegna all'influenza della prima sul secondo la formazione del diritto come emblema di un'egemonia sociale 20 , si darà soltanto laddove non si produca una nuova "feuda17. Stein, GsBw I, xxm; OSr, pp. III: «L'ordinamento della comunità umana, la quale si basa sul movimento dei beni e sulle leggi di questo, è quindi essenzialmente sempre ed invariabilmente l'ordinamento della dipendenza di coloro che non posseggono nulla da coloro che posseggono (die Ordnung der Ahhangigkeit derer, welche nicht besitzen, von denen, welche besitzen). Sono queste le due grandi classi che appaiono necessariamente nella comunità, e la loro esistenza non è mai potuta essere annullata da alcun movimento della storia né da alcuna teoria». Sul tema dr. Ricciardi (1995). 18. G. W. F. Hegel, Grundlinien der Phzlosophie des Rechts, parr. 61-2 e 42. Sul tema, dr. l'importante De Sanctis (1986b), pp. 82-148, in particolare pp. 89 ss.; nonché Marcuse (1965), pp. 151 ss. 19. Stein GsBw I, xvm; OSr, 107: «L .. ] in tale unità il diritto mantiene autonomi gli atomi di questo movimento, ossia le singole proprietà, mentre le esigenze comunitarie la fanno sorgere esternamente, e la natura interna della singola produzione le conferisce un determinato organismo». Della riduzione dell'etica a «Wissenschaft von der Mechanik cles menschlichen Lebens» basata su meccanismi sociali di Molecularabtraction parla del resto- a proposito di Ahrens- anche Glaser (1864), p. 13. 20. Cfr. ad es. Stein GuZ, p. 222: «Qualsiasi concetto giuridico del diritto civile è perciò sempre e necessariamente un concetto economico». La citazione è inserita in
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lizzazione" del diritto costituzionale, che blocchi l'espansione dei diritti individuali, ed all'interno di un assetto della società in cui l'esistenza di una forte classe media garantisca un'elastica e potente saldatura nell'articolazione stessa del corpo sociale 21 ; La società, il cui principio è !'"interesse", definisce, a partire dalle dinamiche acquisitive del lavoro, lo spazio di una genealogia dell'individuo proprietario, di cui il "proletario" rappresenta la contraddizione immanente 22 • Lo Stato, attraverso i propri meccanismi di "governo", rappresenta !"'attiva" concretizzazione dell'idea di uguaglianza, nella forma di un'indifferenziata apertura a tutti e ciascuno della possibilità di ascesa e di riconoscimento sociale, che venga garantita, come diritto e grazie all' azione amministrativa, a livello costituzionale. La "scienza dello Stato" (Staatswissenschaft) si fa così concretamente "filosofia dell'azione" (Philosophie der Tat) (SuC, p. 304; GuZ, pp. r 14-6): incaricandosi di una cruciale missione di stabilizzazione degli squilibri sociali, ed incaricandosi di contrastare l'azione sovversiva del movimento operaio con il definire, per mezzo dell'amministrazione, strategie di integrazione e di ininterrotto intervento sul terreno della società, essa può ottenere di riunire in sé l'aspetto "progressivo" e la lucidità della filosofia (che riconosce l'irresistibilità dei processi in corso e la non dilazionabilità del conflitto tra capitale e lavoro), con il compito di "governo" e di azione profìlattica, che spetta tradizionalmente alle scienze dello Stato. Ribadire l'imprescrittibilità della un testo che assume, molto significativamente, come lacuna fondamentale della
Rechtswissenscha/t tedesca, la mancanza di una distinzione "forte" tra dititto pubblico e privato (ivi, p. 22ol. 21. Stein, DuA, pp. 80-1: «La classe media non è perciò solo e semplicemente un corpo autonomo tra la classe superiore e quella inferiore [. . .] quanto piuttosto il gradino naturale di passaggio tra l'una e l'altra». 22. Stein elabora la propria nozione di "proletario" (il processo di costituzione della cui soggettività politica data in Francia dalla Rivoluzione di luglio) a partire dalla differenza che lo oppone al "povero". Quest'ultimo infatti non lavora, mentre il proletario «può al contrario lavorare e lo vuole, di buon grado, bene e molto. Egli vuole però per questo suo lavoro un salario che il lavoro da solo non può ottenere, mentre invece lo possono ottenere solo capitale e lavoro assieme» (SuC, p. 55; ma cfr. anche OSr, 74). Ciò che nella condizione proletaria viene perduta, è la funzione "abilitante" del lavoro, la sua potenzialità emancipativa in relazione ai diritti di cittadinanza e all'autodeterminazione individuale, nella misura in cui esso renda possibile l'acquisizione di proprietà (BdA, 92-3). Sulla transizione dalla considerazione del "pauperismo" come problema di "economia morale" all'elaborazione "scientifica" della questione sociale: Pankoke (1970); Pankoke (1990); Himmelfarb (1984); Himmelfarb (1992); Ewald (1986); Gozzi (1988); Procacci (1993); Procacci (1989); Castel (1995).
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proprietà privata contro i socialisti; e, contro i conservatori, l'irresistibilità del processo storico dell'uguaglianza innestatosi, con il lavoro salariato, sulla crisi del mondo signorile-cetuale, significa operare un passaggio teorico che assuma definitivamente nella difesa dell' autonomia della società (ovvero nella garanzia delle possibilità emancipative del lavoro, incentivate da un intervento amministrativo dello Stato, che favorisca istruzione e credito) lo scopo fondamentale dell'azione dello Stato. Se nella società feudale manca la distinzione tra società e Stato e dunque una distinzione giuridicamente assicurata e protetta tra sfera privata e sfera pubblica- ciò che occorre evitare è una "rifeudalizzazione" della modernità in cui tale distinzione possa essere fatta saltare da una presa in ostaggio dello Stato da parte delle classi che si siano assicurate il dominio sociale. Al socialismo vittorioso ed al capitalismo sfrenato Stein oppone, nel solco della tradizione liberale, la difesa costituzionale di individualismo proprietario, libertà borghese e forma giuridica quali istituti di "abilitazione" (per i singoli, ovviamente, e non per la totalità della classe proletaria) al diritto di cittadinanza. L'"individuo medio" di cui si tratta di assicurare la riproduzione sociale in epoca democratica z3 va educato al lavoro emancipativo che ne realizza l'autonomia - e distolto, grazie all'impegno riformista dello Stato, dai sogni e dalle pratiche rivoluzionarie. Al di sotto del circuito dell'integrazione politica del sociale permarrà un'area residuale di "miseria" abbandonata al paternalismo e alle pratiche governamentali della beneficenza e della carità privata: l'elaborazione "scientifica" della questione sociale muove da un modello di integrazione centripeta, che si fonda sul potere d'attrazione della libertà acquisitiva e sull'inscrivibilità del singolo, in quanto "proprietario" - almeno della propria forza-lavoro -, nel tracciato ascendente della Civilisation borghese 4. 2
16.5 Pour le pauvre la mort est sans prestige... : la democrazia e lo specchio americano
La transizione tra il mondo "aristocratico" e la "democrazia" coincide, per Tocqueville, con l'evanescenza del tradizionale concetto di virtù politica. La fine dei prejugés che vincolavano i singoli ad uno 2 3. Sulla nozione di «homme moyen» come cardine di un'antropologia democratica e quale punto di snodo delle scienze sociali, cfr. Quételet ( 1991 ), pp. 491 ss. 24. De Sanctis (r986bl, pp. 122 ss.; Garcia Pelayo (1949), pp. 84 ss.
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specifico status apre uno spazio di égalité imaginaire, che ritrascrive in termini esplicitamente contrattuali il rapporto tra servo e signore. n rapporto di obbligazione, che non riconosce più alcuna differenza naturale tra chi comanda e chi obbedisce, muove da un rovesciamento drastico degli schemi percettivi: logicamente antecedente è ora il "sentimento" d'uguaglianza (ovvero il riflesso identitaria che si produce nell'uno e nell'altro en se regardant nello specchio concavo del contratto), mentre la differenziazione funzionale viene agita in termini che temporalizzano, rendendola perciò mobile e revocabile, la prestazione d'opera. "Perché dunque il primo ha il diritto di comandare e che cosa obbliga il secondo ad obbedire? L'accordo momentaneo e libero delle due volontà. Per natura non sono affatto inferiori l'uno all'altro, lo divengono provvisoriamente per effetto del contratto. Nei limiti di questo contratto uno è il servitore, l'altro il padrone; fuori di esso essi sono due cittadini, due uomini" (DArr, 3, Chap. v; SPII, p. 674). Lo schema di socializzazione generato dall'indifferenziata estensione della forma salariale in tempo di democrazia - «OÙ chacun travaille pour vivre» (Tocqueville, DAII, 2, Chap. xvm; SPII, p. 643), ed in cui mobilità sociale e flessibilità di impiego rendono tendenzialmente definitiva la "rivoluzione permanente" che la modernità è procede da una decisa assunzione della logica identitaria che sta alla base dell'omogeneità sociale democratica. L'estensione e l'irresistibilità del processo dell'uguaglianza, che spazza via ogni traccia di ethos aristocratico, obbliga a ricostruire il tessuto delle relazioni di cittadinanza a partire da una nozione dinamica ed inclusiva di costituzione 2 5, che assuma a proprio presupposto la rivoluzione antropologica dell' égalité democratica. Etres nouveaux e perfettamente «generici» che non conoscono stabili differenze di status, né fissità di gerarchia sociale WAII, 3, Chap. v; SPII, p. 673), gli uomini dell'età democratica, compiutamente denaturalizzato il legame sociale che si tratta ora di reinventare a partire dal principio di uguaglianza, riconoscono solamente nel reciproco impegno contrattuale il quadro dei diritti e dei doveri in grado di riavvicinarli dopo averli isolati gli uni dagli altri. 25. Tocqueville DAr, I, Chap. m; SPn, p. 73: «È facile dedurre le conseguenze politiche di un tale assetto sociale. Non è possibile credere che l'uguaglianza non finisca per penetrare anche nel mondo politico come altrove. Non si può concepire che gli uomini siano assolutamente uguali in tutto, tranne che in un unico punto. Essi finiranno pertanto con l'essere uguali in tutto». TI che equivale alla necessità di «dare i diritti politici a tutti i cittadini». Per un'elaborazione dinamica della nozione di costituzione cfr. Grimm (1994'), pp. 45 ss.
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Permanente diventa, proprio per questo, l'opera di ritessitura del sistema di relazioni che l'in-differenza dei singoli tende costitutivamente a scindere e a decomporre: il «lavoro» della democrazia consiste di una forzata tensione istituente, che permea la temporalità democratica con una costante riproduzione dell'istante in cui viene stretto il patto sociale 26 . Alla "virtù" aristocratica subentra in età democratica l'idea dei "diritti", punto di snodo fondamentale per l'allargamento del processo di reciproco riconoscimento alla sfera dei rapporti pubblici: «l'uomo che obbedisce alla violenza si piega e si degrada; ma quando si sottomette al diritto di comandare che egli riconosce al suo simile, si eleva in qualche modo al di sopra di quello stesso che lo comanda» (DAI, 2, Chap. VI; SPII, p. 282), Una progressiva ed irrimandabile estensione del godimento dei diritti politici rappresenta per Tacqueville il primo motore di una pedagogia della libertà che permetta di ricollegare democrazia e partecipazione politica, disinteressato attaccamento alle istituzioni ed esprit de cité 2 7. «Sono ben !ungi dal pretendere che, per arrivare a questo risultato, si debba di colpo accordare l'esercizio dei diritti politici a tutti gli uomini, ma dico che il mezzo più potente, e forse il solo che ci resta, per interessare gli uomini alla sorte della loro patria, è farli partecipare al governo della cosa pubblica. Ai giorni nostri, lo spirito civico mi sembra inseparabile dall'esercizio dei diritti politici; e penso che ormai si vedrà aumentare o diminuire in Europa il numero dei cittadini in proporzione all'estensione di questi diritti» (DAI, 2, Chap. VI; SPII, p. 28rl. Esercizio dei diritti politici, alla cui estensione "lavori" l'impegno riformista dello Stato, e proprietà privata, la cui fruizione è virtualmente alla portata di tutti con il compimento dell'erosione della società feudale da parte della Rivoluzione 28 , rappresentano la traccia per la 26. Cfr. Manent (r982l, pp. 44-5 ss.; Id., Tocqueville: le libéralisme devant la démocratie, in Manent (r987l, pp. 221-41. 27. Sul tema: Hennis (r984l, pp. 87-u6, pp. 101 ss. 28. A. Tocqueville, articolo (anonimo) La majorité ne veut pas de révo!ution et pourquoi (in "Le Siècle", 1843), SNDP, pp. 41-4, p. 4Y «L'Antico regime è perito in mezzo al disordine più grande che sia mai esistito, e sotto lo sforzo delle passioni più rivoluzionarie che abbiano mai agitato il cuore dell'uomo. Da questo disordine e da queste passioni rivoluzionarie, che cosa è scaturito? Lo stato sociale più naturalmente nemico delle rivoluzioni che si possa concepire. È noto che i proprietari fondiari formano tra tutte le classi quella più moderata nelle abitudini e più amica dell'ordine e della stabilità. Ora il risultato finale della Rivoluzione è stato quello di far entrare quasi tutta la nazione in questa classe. Ha spartito il suolo tra diversi milioni di individui [ ... l Ciò ha prodotto due risultati ben distinti che occorre considerare nel loro insieme: non c'è nulla che dia più fierezza e indipendenza della proprietà fondiaria e
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possibile inscrizione dei singoli individui nello spazio della cittadinanza democratica. Come per Stein - e per la corrente più "progressista" del liberalismo ottocentesco - i processi di integrazione politica della società dei privati possono essere pensati soltanto a partire dall' assunzione di un modello identitaria - quello di una coincidenza democratica da sempre già compiuta, fatta della perfetta adesività tra libertà e proprietà - che esorcizzi il problema degli elementi potentemente dissodativi di cui si intesse il concetto stesso di democrazia sociale 2 9. L'assunzione del modello democratico americano, in cui un'assestata egemonia della classe media ha esorcizzato sin dagli inizi qualsiasi rischio di rivoluzione facendo «penetrare l'idea dei diritti politici fino all'ultimo dei cittadini» e mettendo «l'idea del diritto di proprietà alla portata di tutti gli uomini» grazie all'originaria diffusione della proprietà privata (division des biens), induce T ocqueville ad una sorta di errore di prospettiva. L'immagine che il "rispecchiamento" francese nel modello americano restituisce a Tocqueville è quella di un futuro di stagnazione e di tranquilla deriva, che potrà essere scossa soltanto dall'improvvisa apparizione in Europa dello spettro del comunismo. Allora, il fatto che «in America non vi sono proletari» (DAr, 2, Chap. vr; SPn, p. 283) non potrà più essere invocato per affermare il carattere immediatamente inclusivo della democrazia. Né la questione di quello spettro potrà essere esorcizzata dissociando semplicemente, con un ultimo richiamo all'esempio americano, uguaglianza democratica e socialismo, allo scopo di affermarne la radicale eterogeneità 3o. L'ostinazione con cui Tocqueville difenderà, ancora una volta, le istituzioni governamentali della beneficenza e della pubblica carità, a fronte della ribadita imprescrittibilità delle leggi dell'economia che assegnano il proprio ruolo di subalternità alle classi operaie, frutto della "distorsione" di immagine per mezzo della quale l'idea americana di democrazia oscura la genesi rivoluzionaria della libertà europea, rappresenta la forma estrema con cui può essere pensata l'onda lunga ed che disponga meglio gli uomini a resistere ai capricci del potere; ma neppure c'è nulla cui l'uomo si attacchi con maggior ardore, e spesso con maggiore debolezza che alla proprietà fondiaria, né che tema maggiormente di perdere nelle grandi agitazioni politiche. Una popolazione composta da piccoli proprietari fondiari si mostra dunque volentieri frondista e oppositrice; ma non se ne può immaginare alcuna che sia meno disposta a violare le leggi e a rovesciare il governo>>. 29. Cfr. Gauchet (1996), pp. 15 ss.; Ricciardi (1995). 30. A. Tocqueville, Contro zl diritto al lavoro. Discorso alla Camera del 12 settembre 1848, SNDP, pp. 178-9.
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espansiva della libertà dei moderni e, con crescenti perplessità e disillusione, esorcizzato il problema della rivoluzione.
Vite e opere
A. de Tocquevzlle Nasce a Parigi il 29 luglio r8o5 da famiglia di antica nobiltà normanna. Dopo gli studi giuridici a Parigi, entra in magistratura nel r827. Tra il 1831 ed il 1832 compie con l'amico Beaumont il viaggio di studio in America, che sta alla base dei due volumi sulla democrazia americana. Lunghi viaggi di documentazione verranno effettuati in Italia, Svizzera, Algeria, Inghilterra, Germania ed Italia, lungo tutto il corso della sua vita. Nel 1838 viene eletto all'Académie des Sciences morales et politiques, nel 1841 all'Académie française. Dal r 839 deputato dell' arrondissement di Valognes, conserva il suo mandato all'Assemblea costituente anche dopo la Rivoluzione di febbraio. Nel 1849, sotto la presidenza di Luigi Bonaparte, viene nominato ministro degli affari esteri della Repubblica francese. Si ritira dalla vita politica dopo il colpo di Stato del dicembre r851. Muore a Cannes nel 1859.
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L. von Stein Nasce il 15 novembre r8r5 a Eckenforde, nello Schleswig-Holstein. Dopo gli studi presso il Collegio Militare Christians-Pflegheim, si iscrive ai corsi di giurisprudenza e filosofia dell'Università di Kiel. Tra il r839 ed il r84r lavora presso la Cancelleria di Copenhagen e collabora agli "Hallische Jahrbiicher". Nel r84r soggiorna a Parigi. Dal r843 è nuovamente a Kiel, dove tiene corsi di diritto pubblico. Dopo un nuovo soggiorno a Parigi, nel r848, per seguire il corso degli eventi rivoluzionari, partecipa, come «candidato della sinistra», alla Landesversammlung per il Parlamento di Francoforte. Perde, nel r85r, il posto all'Università, dopo la fine dell'esperienza rivoluzionaria dei Ducati, «per aver militato nell'estrema sinistra». N el I 855 accetta la chiamata presso l'Università di Vienna. Dal r86o, e per venti anni, vi insegnerà economia, scienza delle finanze e scienza dell'amministrazione. Nel r 868 viene insignito dell' eiserne Krone e nominato cavaliere dall'Imperatore d'Austria. Nel r878 ottiene la nomina a membro dell'Imperiale Accademia delle Scienze di Vienna. È membro anche dell'Institut de France, dell'Accademia di Mosca e Pietroburgo, e dottore honoris causa dell'Università di Bologna. Ritiratosi dall'insegnamento per raggiunti limiti di età nel r885, muore a Vienna il 2 3 settembre r89o.
Opere Der Begri/1 der Arbeit und die Principen des Arbeislohnes in ihrem Verhdltnisse zum Socialismus und Communismus, in "Zeitschrift fiir die gesamte Staatswissenschaft", Bd. 3, Heft 2, r846, pp. 233-90 ( =BdA); ristampa a eu-
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TASCHKE
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Potere e critica dell'economia politica in Marx
J7.I
Filosofia politica e potere nel giovane Marx di Gaetano Rametta I
7. I. I. Critica alla filosofia hegeliana del diritto
e problema della democrazia La critica di Marx a Hegel è centrata sulla scissione tra società civile e Stato, e investe al tempo stesso la collocazione storico-concettuale del pensiero hegeliano r. Nella ricostruzione del giovane Marx sulla genesi della moderna separazione tra società civile e Stato, la Rivoluzione francese appare come il momento in cui tale scissione si compie 2 • Da un lato, la "società" s'impadronisce del potere politico nella forma del "terzo stato", che si qualifica e afferma come "nazione"; dall'altro, tale movimento conduce alla definitiva e radicale spoliticizzazione della sfera "sociale", che in tal modo sorge per la prima volta come dimensione autonoma e separata. Si genera così la dicotomia tra sfera "privata" e sfera "pubblica", bourgeois e citoyen. Concentrando nello Stato le funzioni politiche, la società si attua per la prima volta come sfera indipendente dallo spazio pubblico, nella quale gli uomini, dissolti gli antichi vincoli cetuali, si affermano storicamente come indivzdui privati. La modernità della filosofia politica di Hegel consiste, secondo il giovane Marx, nel fatto di concepire la scissione come momento strutI. Sempre utile, sul rapporto del giovane Marx con Hegel, Cian (1977). Per un inquadramento storico-interpretativo della marxiana "critica della politica", cfr. Bongiovanni ( 198Ù 2. Cfr. PE, pp. 381 ss.; CFH, pp. 86-8, 93 ss. Di quest'ultimo testo, cfr. anche l'edizione Finelli, Trincia (1981), con ampio commentario. Sull'interpretazione marxiana della Rivoluzione francese, nell'ampio quadro di un dibattito politico e storiagrafico che dura ormai da due secoli, cfr. Hobsbawm (1991).
IL POTERE
turale dello Stato moderno, tentando in pari tempo di ricondurre tale separazione a unificazione dialettica. Ma il pensiero hegeliano mancherebbe il suo scopo proprio in rapporto alla mediazione tra società civile e Stato. Per dimostrarlo, Marx svolge una critica dettagliata della concezione hegeliana del potere legislativo, e in particolare della dottrina dei ceti e della deputazione cetuale 3. Esse sarebbero gravate da due "collisioni" 4: la prima è quella tra il legislativo e il complesso della Verfassung. TI legislativo, in luogo di essere attuazione compiuta dell'universale nella forma della legge, sarebbe nient'altro che la riproposizione, all'interno stesso della compagine dello Stato, della spaccatura e dell'opposizione tra universale e particolare, tra Stato e società. La seconda collisione avverrebbe invece tra i diversi momenti interni al legislativo, e si scinde a sua volta in a) conflitto tra governo e ceti; b) conflitto tra deputazione e «individui, corporazioni e cerchie» della società civile. Poiché nel legislativo si riproducono semplicemente le contraddizioni che si sarebbero dovute "unificare" nel corso della "mediazione" dialettica, Marx giunge a diagnosticare la sostanziale Formlosigkeit dello Stato hegeliano 5 e definisce la concezione dei ceti come un'espressione di «romanticismo» politico 6 • Questi ultimi, infatti, non potendo ricomporre la frattura tra società civile e Stato, indicherebbero nient'altro che un'aspirazione e una tendenza destinate a rimanere prigioniere della loro velleitaria impotenza. La catastrofe del pensiero hegeliano conclude per Marx l'intera parabola della filosofia politica moderna, centrata sulla monopolizzazione delle funzioni della sovranità da parte dello Stato. Dalla critica della metafisica idealistica della sovranità, culminante nell'uno del monarca 7, si tratta per Marx di discendere - o risalire - alla dimensione democratica della pluralità come momento irriducibile, e in pari tempo irrappresentabile, della praxis politica. Da questa prospettiva la democrazia, nel modo in cui viene pensata dal giovane Marx, appare come il frutto di un'operazione critica rispetto all'intero assetto della filosofia politica moderna, ivi compreso quel pensiero della volontà generale che, da Rousseau ai giacobini, era comunque rimasto incluso all'interno di una problematica della sovranità e del potere come forme di attuazione dell'unità politica. La posizione "democra3· 4· 5· 6. 7·
Cfr. CFH, pp. 73 ss. Ivi, pp. 67 ss. e pp. 71 ss. lvi, p. 77 («mancanza di /orma»). lvi, p. 107. Cfr. CFH, pp. 30 ss.
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17. POTERE E CRITICA DELL ECONOMIA POLITICA IN MARX
tica" del giovane Marx, infatti, non può essere identificata con quella di Rousseau e della sua "volontà generale", poiché quest'ultima, come dimostra l'esperienza giacobina che ne è il più compiuto tentativo di dispiegamento rivoluzionario, non solo non toglie, bensì al contrario porta a realizzazione storica effettuale la concentrazione della sovranità nello Stato inteso come suprema realizzazione dell'unità politica. Per questo aspetto, la pratica politica democratica a cui allude il giovane Marx non è più riconducibile alla concettualità moderna della sovranità e del potere. Se per sovranità s'intende il monopolio della decisione pubblica, la rappresentazione efficace dell'unità politica, la capacità d'imporre obbedienza mediante la minaccia ed eventualmente l'uso legittimo della forza, allora la critica a Hegel del giovane Marx non è tanto, o soltanto, rilevante in rapporto a un determinato assetto di pensiero, bensì piuttosto, e soprattutto, come sintomo di un'ambizione, espressione di un movimento che aspira ad una diversa esperienza della dimensione politica, senza avere ancora a disposizione lo strumentario concettuale per poter fare di più che indicare una direzione di ricerca. Ma perlomeno tale direzione è chiara: si tratta di mostrare come il potere moderno sia tutt'altro che l'estinzione del dominio dell'uomo sull'uomo, bensì piuttosto, nell'impossibilità di presupporre l'ordine cosmico-gerarchico all'interno del quale era possibile concepire un "governo", sia il dispositivo in grado di mantenere la diseguaglianza e le funzioni di comando e obbedienza, in un contesto in cui non è più possibile ricondurre queste ultime a una naturale "gerarchia" delle anime. Il potere moderno, che si vuole legittimo perché costruito sull'eguaglianza che esclude il dominio dell'uomo sull'uomo, sarà perciò stesso privato di ogni e qualsiasi legittimità dal momento in cui venga svelato come funzione e fattore di una diseguaglianza che consente all'uomo di dominare sull'uomo. Ciò significa che, dall'interno della sovranità moderna, emerge la traccia di un'esperienza della politica che la sovranità ha dovuto porre alle proprie origini per costituirsi in forma legittima, ma in pari tempo occultare e distruggere per instaurarsi come potere dotato di forza efficace. Se il potere si svela come nient'altro che la forma moderna del dominio, allora si tratta di rivendicare l'effettualità dell'agire politico a un'istanza diversa da quella del potere. La democrazia sarebbe dunque da leggere alla luce di questa istanza e di questa cr#ica, poiché nella torsione che ad essa fa assumere il giovane Marx si dovrebbe azzerare l'equazione tra ordine politico e produzione dell'unità politica, che proprio l'esperienza giaco-
IL POTERE
bina aveva condotto alla sua massima esasperazione. Qui, tuttavia, l'impianto della critica democratica all'assetto filosofico-politico moderno trova il suo punto di crisi. Perché è evidente che l'assunzione della democrazia in questa accezione implica come risolto il problema dell'ordine politico, dalla cui problematicità era partita la stessa scienza politica dell'età moderna. Questo sarà il motivo per cui Marx non potrà più accontentarsi della messa in evidenza della pluralità come presupposto essenziale e rimosso della sovranità e del potere moderni, bensì dovrà indirizzarsi a una forma qualificata della pluralità, tale da istituirsi come unità non in quanto verrebbe rappresentata, ma perché così dovrebbe esistere nella sua costituzione reale. Tale pluralità qualificata, che non si rappresenta come unità, e tuttavia non dà luogo a un'irrelata e monadica diversità di azioni e d'interessi, è ciò che Marx tenterà di esprimere nella nozione di "classe". Quest'ultima sarà determinata nella sua unità non in quanto sia costituita una volta per tutte, bensì nella misura in cui si dispieghi come processo strutturato di unificazione. I7. r. 2. Dai Manoscritti del
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Il potere moderno s'istituisce solo a prezzo di distinguere e separare da sé una sfera, la "società", che perciò stesso appare, dal punto di vista dello Stato, priva di rilevanza "politica". Ora, per il Marx che ha attraversato la critica della filosofia del diritto hegeliana, si tratta di operare una più sottile strategia di smarcamento e riqualificazione: smarcamento dall'assetto moderno, che trova in Hegel il suo punto di massima condensazione e "compimento"; riqualificazione della propria posizione di pensiero in rapporto alla modernità e alla critica di questa. Da questo punto di vista, Marx non si limita a invertire le relazioni tra società civile e Stato, a teorizzare, cioè, una relazione tra "struttura" e "sovrastruttura" che ne rovesci i rapporti di priorità ma mantenga inalterata la grammatica dell'opposizione; e neppure "sostituisce" al dominio "idealistico" della dimensione politica o statuale il dominio "materialistico" delle relazioni economico-produttive o "sociali". La specificità dell'operazione marxiana, piuttosto, consiste nello smantellare la struttura stessa dell'opposizione, e nello spostare così drasticamente il piano del discorso e della stessa concettualità politica. Così facendo, del resto, egli non fa che sviluppare i risultati della critica precedente alla moderna nozione di sovranità, che non comporta solo l'espropriazione delle capacità decisionali e di azione poli-
17.
POTERE E CRITICA DELL'ECONO~!IA POLITICA IN MARX
tica che il giovane Marx attribuiva agli «individui in quanto tutti» 8 , ma produce anche un effetto di occultamento rispetto alla natura eminentemente politica di questa stessa operazione teorica. Da un lato, la società viene concettualmente rappresentata come impolitica, per incorporare nello Stato le funzioni connesse alla sovranità. Dall'altro, attraverso la neutralizzazione così prodotta, si ottiene il risultato di spoliticizzare la conflittualità sempre più dirompente all'altezza dei rapporti "sociali". Criticare la distinzione tra "Stato" e "società civile" significa invece mostrare il carattere eminentemente politico, e occultante sotto il pro@o conoscitivo, di quella distinzione, al tempo stesso mettendo in luce la politicità costitutiva e strutturale della cosiddetta "società". Con questa mossa, Marx opera una rivoluzione che è in pari tempo politica ed epistemologica. Infatti, dal momento in cui entra in crisi la pretesa di identificare nello Stato l'organo supremo del "potere" in veste di "unità politica" e "sovranità", queste ultime vengono meno anche come categorie portanti del discorso scientifico 9. Così, nella parabola che dalla Introduzione del r 844 alla Crztica della filosofia del diritto hegeliana e dai Manoscritti economico-filosofici del r844 conduce alla redazione del Manifesto, si consuma uno spostamento dell'intero impianto concettuale, imperniato sulla distruzione dell'assetto dicotomico pubblico/privato. La politica deborda dallo Stato investendo in pieno la società, e siffatto "deragliamento" della dimensione politica investe non soltanto la "teoria" ma anche la strutturazione reale del nesso potere-società vigente nell'assetto costituzionale degli Stati moderni. Entro questa cornice si dispone la critica della proprietà e dell'alienazione del lavoro operaio ro. In effetti, lo Stato moderno garantisce giuridicamente l'istituto della proprietà, e con ciò stesso la possibilità di scambiare forza-lavoro con salario. Tuttavia, dal momento in cui si assuma la dimensione statuale come l'unica propriamente politica, si potrà presumere come nulla anche la rilevanza politica di siffatto
8. Cfr. CFH, p. r 30. 9· Per una prospettiva sulle problematiche epistemologiche, che vada anche al di là dei testi che stiamo commentando, ancora utile appare il rimando ad alcuni contributi presenti nel dibattito italiano degli anni Settanta come Rovatti (1973); Curi (1975); Veca (1977). Particolare attenzione al linguaggio "giuridico" in Marx presta Guastini (1974l. Per la connessione tra le nozioni di "critica" e "critica dell'economia politica", cfr. infine Randère (1973). IO. Cfr. MEF, in particolare pp. 193-205 (sul "lavoro alienato") e pp. 209-35 (sulla critica della proprietà privata).
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scambio, si potranno "fingere" come politicamente insignificanti il concetto e la realtà stessa del lavoro salariato. Con ciò, l'intera sfera delle relazioni economico-sociali appare spoliticizzata; soprattutto, privo di rilevanza politica appare il rapporto tra capitale e lavoro salariato, nella sua concreta configurazione materiale, che trova il luogo della sua attuazione storicamente determinata nella fabbrica moderna. L'economia si potrà pretendere scienza "neutrale", perché neutrali e spoliticizzati appaiono i rapporti che ad essa spetterebbe di "descrivere" obiettivamente. Allo stesso modo, la codificazione giurzdica, che trova nella sovranità dello Stato la garanzia della propria vigenza, potrà apparire essa stessa luogo di neutrale regolazione dei rapporti tra organi dello Stato e diritti degli individui, visto che le istituzioni da cui essa promana sono legittime rappresentanti della sovranità, che spetta alla totalità del popolo come depositario della "volontà generale" ''. Dal momento in cui la dimensione "sociale" si trovi investita dalla logica del politico, saltano invece le neutralizzazioni operate dalla filosofia politica moderna, così come s'incrina la pretesa neutralità del diritto e della scienza economica "borghesi". Ma un pensiero che assuma fino in fondo questa scoperta deve innanzitutto riarticolare il proprio assetto logico e discorsivo; il che significa, in via preliminare, riarticolare la propria relazione con la "realtà". È il concetto marxiano di "ideologia", che impone allo stesso Marx di ripensare drasticamente la «posizione del pensiero nei confronti dell'oggettività» ' Se il pensiero è parte integrante della realtà, infatti, la realtà non potrà più essere intesa come qualcosa di indipendente dal pensiero, ma verrà modificata ogniqualvolta un pensiero tenterà di fornirne un sapere adeguato. Si tratta perciò di produrre una nuova forma di scienza, un nuovo orizzonte discorsivo e categoriale, che assuma fino in fondo la politicizzazione radicale che investe ormai ogni ambito dell'esistenza, dal momento in cui il politico ecceda lo Stato, e lo Stato emerga come istanza non più sufficiente né privilegiata di messa in forma del potere politico, e di attraversare e di approfondire la crisi irreversibile di siffatta complicità tra Stato, potere e rappresentazione dell'unità politica. Ora, secondo Marx, vi è una logica ben precisa, a cui la crisi dell'assetto teorico-politico della modernità si può ricondurre. Se al2 •
r r. Siamo evidentemente al cuore della nozione marxiana di ideologia, su cui il rimando obbligatorio è aii'Ideologùz tedesca. 12. Per la matrice hegeliana di tale formulazione, rimandiamo ai paragrafi 25 ss.
dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche.
I7.
POTERE E CRITICA DELL ' ECONOMIA POLITICA IN MARX
l'origine della crisi della statualità moderna era il debordamento della politica dall'orizzonte della statualità, diventa necessario comprendere le radici del debordamento dallo Stato dei conflitti politici. Qual è il nuovo orizzonte, all'interno del quale lo Stato stesso si trova coinvolto come parte in causa? Non tanto la "società", bensì il "motore mobile" di una nuova qualificazione della totalità delle relazioni sociali e statuali - soltanto questo potrà essere la leva archimedea per una riarticolazione complessiva del discorso scientifico e dell'azione politica. Siffatta leva è quanto dovrebbe esprimere la nozione di "classe", di quella classe "operaia" che, da sotto le ceneri del discorso filosofico-politico della modernità, emerge come "soggetto", nel duplice senso di a) soggiogata al dominio statuale-sociale; ma proprio perciò, anche, b) di essere l'unica in grado di svelare nella sua verità, cioè nella sua menzogna, l'assetto scientifico-discorsivo della filosofia e dell' economia politica moderne. Ma prima di approfondire il discorso in questa direzione 3, è opportuno soffermarsi sulla funzione categoriale della nozione di classe, per evidenziarne la valenza critica e destrutturante in rapporto al discorso della filosofia politica moderna, ma anche rispetto all'assetto interno del pensiero di Marx in questa fase. Anzitutto, la "classe" degli operai si darà laddove si darà lavoro salariato. Nel concetto di lavoro salariato, infatti, è già implicito il suo essere al tempo stesso origine e funzione del processo di accumulazione del capitale. Ma se la fabbrica moderna è il luogo storicamente determinato di costituzione in classe del "proletariato", tuttavia a tale primato della fabbrica non si accompagna né può concettualmente accompagnarsi la ipostatizzazione di un soggetto-sostrato metafisicamente presupposto. n "proletariato" non è, da questo punto di vista, il rovesciamento materiale della nozione hegeliana dello "spirito" come «sostanza che in pari tempo è soggetto» '4. Se si limitasse ad essere questo, verrebbe comunque mantenuta la funzione che, nella lettura marxiana, era stata occupata dallo "spirito" hegeliano come macrosoggetto e centro d'imputazione dei processi storici. Il punto, invece, è che la critica della scienza politica moderna non si limita a sostituire il titolare di una funzione che verrebbe "conservata" in quanto tale, nel senso per cui prima (in Hegell soggetto sarebbe stato lo "spirito", mentre ora 1
13. Per maggiori specificazioni sul discorso marxiano in riferimento ai concetti di "classe" e di "critica dell'economia politica", rimandiamo alla parte di questo saggio sviluppata da M. Merlo. 14. Secondo la celebre formulazione hegeliana della Prefazione alla Fenomenologia
dello spirito.
IL POTERE
(in Marx) soggetto diventerebbe il suo corrispettivo "materiale", cioè la classe. La concentrazione degli operai nella fabbrica moderna è la condizione materiale in base alla quale si producono le pratiche di costruzione dell'identità collettiva, ma questi processi di costituzione e di unificazione del proletariato in "classe" non possono portare alla costituzione di un soggetto conforme a quello della sovranità statuale moderna, poiché questo significherebbe ricadere all'interno della logica del potere e dell'unità politica. La connotazione propria del concetto di "classe" dovrebbe dunque tenere assieme l'unità del nome collettivo e la molteplicità delle pratiche e dei "soggetti" che della classe costituiscono l'articolazione materiale. Il "partito comunista" del Manz/esto è l'espressione e l'esito di questa tensione '5. Proprio perciò, esso non può venire ricondotto alla nozione della rappresentanza moderna. Se costitutiva di quest'ultima è la dialettica autore-attore, in cui l'attore è colui che compie le azioni di cui non è autore, mentre l'autore (il popolo "sovrano") è l'autore di azioni che però non compie egli stesso ' 6 , bensì fa impersonare dall'attore, è evidente che il "partito" non può essere "rappresentante" senza perdere lo specifico di ciò che Marx tenta di pensare, nella nozione di classe, come ulteriore rispetto alla scienza politica moderna. D'altra parte, sembra difficile anche ricondurre la teorizzazione del Manz/esto alla categoria, formulata da Voegelin nel nostro secolo, della rappresentanza "esistenziale". Infatti, anche nella rappresentanza di tipo esistenziale il rappresentante produce una reductio ad unum del molteplice, ovvero costitusce in "soggetto" il molteplice che trova in esso unità d'azione e di decisione, e dunque operatività politica, nel momento stesso in cui della capacità di agire politicamente si trova spogliato '7. Infine, non è nemmeno possibile pensare il partito come organizzazione dotata di mandato "imperativo" da parte della classe, poiché il mandato "imperativo" presupporrebbe come già costituito il soggetto che dà il mandato, mentre da una lato la classe non può diventare "soggetto" senza perdere la materialità della propria costituzione; e d'altra parte, all'interno della stessa concettualità politica moderna, il concetto di mandato "imperativo" è in se stesso contraddittorio, 15. Cfr. al riguardo il CAP. n del Manifesto del partito comunista (dall'emblematico titolo Proletan· e comunisti). 16. Cfr., in questo volume, l'Introduzione di G. Duso alla Parte seconda. 17. Anche su Voegelin, rimandiamo in/ra, in questo volume, al CAP. 20.
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17. POTERE E CRITICA DELL ECONOMIA POLITICA IN MARX
poiché o il soggetto che dà il mandato è già costituito e perciò capace di agire politicamente, e dunque non ha bisogno di essere rappresentato; oppure non è costituito, e allora non si capisce chi potrebbe dare "imperatività" al mandato dell'eventuale rappresentante. Allo stesso modo, insufficiente appare la determinazione del rapporto politico interno alla classe qualora essa ricorra alla coppia comando-obbedienza. Questa coppia si trova strettamente connessa alla precedente, poiché soltanto il rappresentante può legittimamente pretendere obbedienza; solo chi riconosce di essere rappresentato dal rappresentante è tenuto a fornire obbedienza nei confronti dei comandi - delle leggi - emanati dal primo. Ma come sappiamo, proprio questa è la logica del potere moderno, contro il cui dispositivo di autolegittimazione già si era rivolta la critica del giovane Marx. Né dicotomia tra attore e autore, dunque, né polarità di comando e obbedienza possono descrivere adeguatamente le relazioni interne alla costituzione materiale della classe. Tanto meno adeguato sarà il tentativo di leggere nel proletariato l'istanza di una emancipazione della società contro lo Stato: innanzitutto, perché come abbiamo più volte mostrato, ciò che Marx mina dalle fondamenta è la struttura dell'opposizione che presuppone a suoi poli la "società" da un lato, lo "Stato" dall'altro; in secondo luogo, proprio perché il proletariato emerge come concrezione, in pari tempo storico-materiale e categoriale, nella quale conflagrano e si dissolvono tutte le principali distinzioni che sorreggevano la grammatica del discorso filosofico-politico moderno: la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, tra ambito del politico e ambito dell'economico, tra sfera sociale e sfera statuale. È perciò che a Marx appare velleitario ogni tentativo di impostare l'azione politica del proletariato in chiave "riformistica", cioè come problema di allargamento della sfera dei diritti, come conquista di progressivi spazi di emancipazione "sociale", e così via. Nessuna "emancipazione" è possibile nel "sociale" poiché quest'ultimo è il prodotto, in pari tempo scientifico e politico, del discorso teorico e delle pratiche politiche che hanno istituito, attraverso i quali si è istituito, il potere moderno. Ma è perciò, anche, che la "classe" emerge come irrappresentabile e indisponibile alla presa dei concetti che hanno organizzato il discorso della filosofia politica moderna. Sullo statuto del "partito" si riflette dunque il carattere problematico che investe la concettualizzazione della classe. Quest'ultima, infatti, è sempre espressa per differenza tra il concetto proprio del discorso scientifico e la sua concreta materialità, che ne inibisce qualun371
IL POTERE
que forma di reductio ad unum: cosicché, allo stesso modo che il discorso scientifico non può fare a meno di siffatto concetto, eppure al tempo stesso è costretto a desostanzializzarlo e a delocalizzarlo, l'irrappresentabilità della classe si riflette sullo statuto politico, eppure in fondo non padroneggiabile teoricamente, del partito. Non abbiamo semplicemente aporia, perché quest'ultima è stata evidenziata come forma specifica della filosofia politica moderna e del suo esito idealistico-hegeliano; d'altro canto, la dislocazione in senso materialistico della concettualità scientifica marxiana, che intende dare conto delle modificazioni che si vanno effettualmente dispiegando all'altezza dei processi storici e categoriali, è sempre al di qua, o al di là, della presa sulla "classe", proprio perché la classe non è né può essere "oggetto". È alla luce di questa impasse, cui corrisponde sul piano storico la sconfitta operaia del I 848, che andrà interpretato lo sviluppo del progetto marxiano di critica dell'economia poLitica. 17.2
Il significato politico della critica dell'economia politica di Maurizio Merlo
I 7. 2. r. Società borghese e spazio delle classi Nel suo esilio londinese, seguendo da vicino il movimento cartista degli operai inglesi, Marx volge per un momento lo sguardo indietro, alle "cosiddette" rivoluzioni del I848. La rappresentazione delle classi si è dissolta, l'antagonismo tra proletariato e borghesia si è polarizzato e concentrato in «guerra civile latente o aperta», e tuttavia tale rapporto tra classi come forze collettive personificate appare a Marx ancora essenzialmente simmetrico. Perciò queste rivoluzioni sono solo «miseri episodi [ ... ] piccole rotture e lacerazioni nella crosta dura della società europea». Esse tuttavia hanno annunciato l' emancipazione del proletariato, cioè «il mistero [. .. ] della rivoluzione di questo secolo» (Marx, I984a). Discontinuità e asimmetricità dello spazio delle classi impongono di mutare radicalmente il quadro concettuale. Inizia la lunga via che dai Grundrisse porta al Capitale: la messa a nudo della «base produttiva, reale» dell'uguaglianza e della libertà che «si mostrano come disuguaglianza e illibertà». Eguaglianza e libertà, natura contrattuale del rapporto di salario, convergenza di interessi individuali in interesse collettivo si rivelano mera illusione, che solo la silenziosa coazione, implicita e fattuale, del rapporto economi-
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7.
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co alimenta. Ma non si tratta soltanto di una critica immanente allo scarto tra illusione e realtà: il progetto di critica dell'economia politica intende mostrare la base reale della rappresentazione del pubblico come sfera in cui gli individui, spogliatisi dell'astrazione di cui vengono investiti nei rapporti di mercato come proprietari di merci, entrano in rapporto come soggetti eguali e liberi ' 8 . È lo stesso concetto di società civile a risultare acritico. Il porsi in maniera aconcettuale dal punto di vista della società, «non significa altro che trascurare le differenze che appunto esprimono il rapporto sociale (rapporto della società borghese h (Marx, 1969a, r, p. 242). La forma di dominazione di questa è specifica: una duplice centralità di società e Stato che è ambivalente - poiché rende conto, duplicandola, dell'opposizione tra pubblico e privato - ma. necessaria - in quanto forma giuridica dell' appropriazione privata di lavoro altrui, mascherata dalla parvenza di contratto salariale. Questa doppia centralità pare rivestire carattere di forma politica strutturale della società borghese, se questa si identifica con il capitale stesso, con le condizioni della sua riproduzione. Tuttavia essa non satura la determinazione politica del progetto di critica dell'economia politica come trasformazione radicale del quadro concettuale. In una prima, rozza accezione, l'economia è "politica" in quanto scopre nei fenomeni concorrenziali e nella costituzione delle grandezze economiche la modificazione di rapporti di dominio, nell'accumulazione del capitale e nell'equivalenza del valore la logica dello sfruttamento. La ricchezza borghese appare come merce - nelle forme sociali del diritto e della rappresentazione economica - agli individui, tutti egualmente costituiti come soggetti indipendenti che scambiano, mediante contratto tra proprietari eguali, valori equivalenti, cioè prodotti di lavori "privati", indipendenti gÌi uni dagli altri. Ma allora la critica deve indicare "innanzitutto i limiti dell' autorappresentazione della società borghese in una scienza (l'economia politica) che pare a Marx procedere "necessariamente" da una forma scientifica alla propria dissoluzione per effetto diretto dell'emergenza dell'antagonismo di classe '9. Questa dissoluzione prende la forma dell'economia "volgare" che, limitandosi alla parvenza dei rapporti economici nella società borghese, si pretende non politica. L' incipit concettuale marxiano si costituisce in rottura con questo impianto categoriale. Non a caso i Grundrisse iniziano con il denaro r8. Poggi (1973), p. 209 e pp. 216 ss. Sui Grundrisse, Negri (1979). 19. Marx (r987l, p. 508, lettera a Weydemeyer del marzo 1852. Marx (1974),
p. 8o.
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come forma-valore e non con l'universale lavoro, perché la sostanza della società borghese è direttamente potere sociale nella sua forma più evanescente, la /orma-denaro, in cui la sovranità politica si aggira ora come un fantasma. Rappresentante materiale universale della ricchezza, il denaro è il sovrano delle merci, esercita un dominio assoluto. In esso prodotti e attività sono risolti in valori di scambio, dissolti «tutti i rigidi rapporti di dipendenza personali (storici) nella produzione». Il denaro costituisce l'unico "nesso sociale" tra individui reciprocamente indifferenti: è esso la comunità, né può sopportarne una superiore. Marx rovescia un'ironia hobbesiana sulla rappresentazione borghese dell'interesse generale: esso non è che interesse dei privati elevato a determinato interesse sociale (Marx, r969a, I, p. 96). La società non è forma unitaria né totalità composta, in equilibrio, bensì bellum omnium contra omnes, una !apologia dei rapporti di forza. L'unità prodotta dagli individui-guardiani di merci appare «qualcosa di estraneo e di oggettivo [ ... ] non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che esistono indipendentemente da loro e nascono dall'urto degli individui reciprocamente indifferenti» (ivi, p. 98). In maniera omologa al dispositivo logico del patto, l'esteriorità del nesso sociale nella forma denaro si presenta come forma generale e astratta del prinàpio generale dei rapporti di dipendenza personali sussunti in rapporti materiali. In quanto valore di scambio reificato il denaro possiede qualità sociale perché «gli individui hanno alienato, sotto forma di oggetto, la loro propria relazione sociale» (ivi, p. roz). Perciò la sovranità della forma-denaro opera la coniazione del sociale come rete di frammenti individuali meccanicamente incrociati in un'algebra monetaria che ne supporta la rappresentazione giuridica. Nei processi di aggettivazione e spersonalizzazione del potere, la moneta tiene dunque il luogo del sovrano: essa è la forma universale, evanescente di una configurazione politica e sociale che, ben !ungi dall'essere compiuta, è piuttosto «una massa di forme antitetiche», un rapporto estraniato di cui i singoli individui («dominati da astrazioni») sono meri supporti. Nel venir meno della sostanza dei rapporti comunitari (ma essa persiste come illusione), la moneta è forma minimale di un legame sociale che consiste nella scissione come forma del rapporto tr!l individui e tra questi e le strutture politico-economiche. « fondato sulla rappresentazione di una volontà centrale si veda anche Breuer (r99r), pp. 9-ro.
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caratteristiche di un capo; esso si palesa, all'opposto del potere legale-razionale, come personale e straordinario, cioè limitato nella sua durata perché detenuto da una persona fisica. Il potere tradizionale si fonda sulla credenza in un insieme di regole del passato la cui validità riposa sul costume e/o sulla consuetudine: è ordinario e personale, nel senso che la credenza, riferita direttamente alle norme di carattere tradizionale, legittima un'autorità individuale avente prerogativa di comando in base ad esse. Ai tre tipi corrispondono modalità differenti di esercizio del potere e quindi generi diversi di amministrazione 7. I tre tipi di potere sono concetti «tipico-ideali» (le forme categoriali ritenute da W eber specifiche delle scienze storico-sociali): essi esplicano la loro funzione nella comprensione di fenomeni risultanti più o meno vicini ad uno o all'altro dei tipi e nella maggior parte dei casi non coincidenti con uno di essi. In particolare viene negata la riconoscibilità di un potere reale esclusivamente burocratico, in quanto quest'ultimo ha «inevitabilmente, alla sua testa, almeno un elemento non puramente burocratico» (ES r, p. 2r6l. Secondo Weber la decisione politica, riconducibile alla configurazione del potere carismatico e dotata di una razionalità diversa da quella amministrativa, completa ed eccede necessariamente il potere burocratico. Oltre ad un uso metastorico dei tipi di potere da parte dell'autore, se ne può ravvisare uno più direttamente riferito alla realtà del suo tempo: il tipo legale-razionale viene utilizzato per la comprensione dell'elevato grado di burocratizzazione raggiunto dallo Stato in epoca contemporanea e quello carismatico viene impiegato, nella riflessione sulle componenti plebiscitarie della democrazia di massa, per interpretare il potere, instaurato per acclamazione ed eventualmente legittimato elettoralmente, di capi capaci di conquistare la fede delle masse. Nella tarda proposta politica della democrazia plebisdtaria del capo (Fiihrerdemokratie) (PCP, pp. 98-9; SP, pp. 365-70), centrata sull'elezione diretta della massima carica dello Stato, può peraltro essere visto il tentativo da parte di Weber di trovare una conciliazione tra razionalità e decisione politica 8 . Quanto al rapporto della teoria weberiana del potere con la tradizione filosofico-politica, le diverse interpretazioni possono essere raggruppate a fini espositivi in due settori. Nel primo rientrano gli studi che a diverso titolo sostengono la novità della posizione di W e7. È nota l'affermazione di W eber secondo cui (ES n, p. 252). 8. Cfr. in argomento Mommsen (1993), pp. 591 ss.; Mommsen (1974); Cavalli (r98rl, pp. 203 ss.
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ber: in essa non entrerebbe più in discussione l'autorità politica come tale, in una cornice teorica che ne giustifichi la titolarità o l'esercizio da parte di uno o più soggetti, bensì le modalità del suo riconoscimento 9; Weber prenderebbe le distanze da una nozione dello Stato come àmbito della politica, definendo la stessa in relazione ad un potere che non troverebbe necessariamente nello Stato la sua esplicitazione ro. La seconda linea interpretativa insiste sul condizionamento storico della concettualità politica weberiana e ravvisa nella problematica del riconoscimento del potere un elemento interno alla forma politica moderna: i tipi di potere risulterebbero dipendenti dal contesto culturale moderno e in relazione ad esso assumerebbero quindi significato n; tanto il concetto di «potere» che quello di "legittimità" troverebbero definizione in rapporto ad una concezione della unitarietà del potere politico propria soltanto della modernità 12 ; il potere politico moderno sarebbe fin dall'inizio fondato, grazie all'artificio contrattualistico, sulla volontà dei soggetti sottoposti al potere stesso; nel rapporto tra il tipo legale-razionale e quello carismatico emergerebbe la reciproca implicazione tra la razionalità della costruzione politica moderna e l'elemento necessariamente personale intrinseco alla decisione politica '3. Tale opzione interpretativa implica una presa di posizione determinata rispetto alla metodologia dell'analisi weberiana:
9· Bobbio (r98rl; Th. Wi.irtenberger, voce Legztimitiit, Legalztiit, in Brunncr, Conze, Koselleck (1972), Bd. 3., p. 735· IO. Rossi ( 1988l. L'internità della politica allo Stato nella visione weberiana è sostenuta invece da V. Sellin (voce Polittk, in Brunner, Conze, Koselleck, I972, Bd. 4., pp. 872-3). TI. Hintze (199ol, pp~ 148 ss. 12. Brunner ( 198 7). Secondo Brunner la teoria weberiana della legittimità si inserisce in una prospettiva di pensiero tipica della Germania del secolo XIX. n potere legale-razionale si riferirebbe al modello dello Stato amministrativo-burocratico; il potere carismatico costituirebbe lo strumento di comprensione delle forze rivoluzionarie che interrompono l'esercizio ordinario dell'obbligazione politica e al contempo producono nuove forme di potere; il potere tradizionale, infine, verrebbe pensato in riferimento al principio monarchico, specialmente negli aspetti per cui esso fa valere la propria legittimità richiamandosi, in contrapposizione alla sovranità popolare, ad un (indimostrato) carattere tradizionale. I3. Duso (I 9 88). Con attenzione alla signifìcazione moderna del termine Duso traduce pertanto la Herrscbaft weberiana con >. Consigliamo in questo caso il confronto con l'edizione in lingua originale. r6. Diverso è l'uso del concetto di «Sovranità>> che Weber pone in essere in riferimento ad alcune sette protestanti in quanto organismi extrautoritari (RS, p. 215; ES n, pp. 52 3-4). In merito alla libertà della setta dal potere statale egli afferma, del resto, che essa non ha nulla a che fare con la teoria dello Stato di Rousseau (ES n, p. 528).
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p. 258). In contrapposizione alla tradizione di pensiero nella quale la società veniva definita per via negativa in rapporto allo Stato, in quanto momento non politico, W eber considera lo Stato stesso come una forma di agire sociale. D'altronde, utilizzando raramente il concetto di «società» (Gesellscha/t) e ponendo a tema della sua analisi gli atti associativi (Vergesellschaftungen), egli prende distanza da una visione unitaria della società come insieme di tutti gli individui ancora presente nell'opera di un esponente della scienza sociale del suo tempo quale Ferdinand Tonnies '7. Weber giunge ad affermare che lo stesso comando può avere effetto su soggetti diversi secondo modalità di influenza differenti e può trovare obbedienza in soggetti diversi per ragioni diverse. La bilateralità del rapporto di potere era già contemplata dalla teoria costituzionale e amministrativa, in forza del principio per cui un soggetto pubblico può essere sovraordinato ad un altro secondo alcune competenze e ad esso subordinato secondo altre competenze; Weber ritiene però sempre ammissibile che un soggetto, anche privato, nella sua relazione con un altro soggetto, possa risultare dominante sotto un determinato aspetto della relazione e dominato sotto un aspetto diverso della medesima (ES n, pp. 25r-2l. La ricchezza del quadro teorico weberiano traspare nella distinzione tra il «potere costituito in virtù di una costellazione di interessi» e il «potere costituito in virtù dell'autorità» (ES n, p. 247), normalmente compenetrantisi a vicenda. Ad essa fa capo la visione del reciproco condizionamento tra razionalità politica e razionalità economica, che trova una delle sue maggiori espressioni nella qualificazione dello Stato occidentale moderno come «impresa istituzionale» e nel parallelo riconoscimento dell'impresa come specifico soggetto economico occidentale (ES n, p. 470; SR, p. 6; SE, p. 243) ' 8 • Fondamentale è inoltre la distinzione tra potere politico e «potere ierocratico», da cui procede la differenziazione dello Stato dalla Chiesa, come gruppo di potere che avanza la pretesa del monopolio della coercizione psichica mediante concessione o rifiuto di beni sacri (ES I, p. 53). La categoria di "Chiesa" assume rilievo tanto nell'analisi delle sinergie tra fenomeni politici e religiosi (ES n, pp. 471-529), quanto nella complessiva disamina degli sviluppi culturali (p. es., limitatamente all'Occidente moderno, SR, pp. 145 ss., 197 ss.). 17. Swla differenza tra le posizioni di Weber e di Téinnies: M. Riedel, voce Gesellschaft, Gemeinschaft, in Brunner, Conze, Koselleck ( 1972), Bd. 2., pp. 858-9.
Sull'assenza del concetto di "società" nella riflessione di Weber: Tyrell ( r 994). r 8. In argomento Marcuse (T 967).
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Le osservazioni storiche weberiane, che vengono svolte a partire dal riconoscimento di atti associativi fondamentali caratteristici di ogni gruppo sociale in ogni periodo storico, rimangono sostanzialmente estranee alla rideterminazione del concetto di "costituzione" (Ver/assung) a partire dalla quale Otto Hintze tentava nell'epoca di W eber l'articolazione di un sapere storico forte '9. Se nella riflessione weberiana va perduta la storicizzabilità delle relazioni sociali 20 , forse proprio per questo, tuttavia, essa perviene all' evidenziazione di specificità che in una rigida distinzione tra contesti culturali moderni e premoderni rischierebbero di essere trascurate. Basti qui ricordare l'interesse che continuano a suscitare gli studi weberiani sulla città europea medioevale (GHG; SES, pp. 323-35; ES n, pp. 553-669; SE, pp. 126-8, 276-94), come luogo di sviluppo di forme economiche e pratiche giuridiche su cui si innesterà, più tardi, la genesi dello Stato moderno r. Marcate sono le differenze del ragionamento weberiano sulla democrazia diretta rispetto alla linea di pensiero che la concepiva come forma di governo caratterizzata dalla detenzione e dall'esercizio del potere da parte del popolo: essa è per Weber una forma di amministrazione contraddistinta dalla forte limitazione dei rapporti di potere e viene considerata primariamente un «caso limite tipologico» (ES r, pp. 286-7, rr, pp. 252-6). Problematico è però, per quanto già osservato, anche il riconoscimento nella sua teoria del potere della democrazia rappresentativa in senso tradizionale, cioè come forma di Stato contraddistinta dalla detenzione del potere da parte del popolo e dall' esercizio del medesimo da parte dei suoi rappresentanti. Weber pose in essere un approfondito esame e una critica della situazione istituzionale dell'Impero tedesco Oa forma assunta da tale critica nella fase più matura è testimoniata da SP, pp. r67-242, 2932
19. L'attenzione di Weber per la costituzione è centrata, negli scritti di natura più marcatamente teorica, sulla critica della «costituzione in senso giuridico>>, che esprime la divisione formale dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario (Gewaltenteilung) (ES I, p. 28o, r, p. 292l; il riferimento ad una enschafislehre, Suhrkamp, Frankfurt a. M., pp. 390-414·
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In merito agli orientamenti della più recente ricerca su W eber si veda inoltre Manfrin (1996), Un quinquennio di studi su Max Weber. I. Dimensioni e implicazzoni concettuali del dibattito, in "Filosofia politica", x-1, pp. 107-32; Id. (1998), Un quinquennio di studi su Max Weber. n. Tendenze della letteratura critica, in "Filosofia politica", xn-I, pp. 135-54.
Diritto, decisione, rappresentanza: il potere in Carl Schmitt di Antonino Scalone
[. .. ] un soffio diventa suono solo se lo si fa passare attraverso la strettoia di una canna C(lrl Schmitt, La viszbzlità della Chiesa
19.1
La crisi dello Stato e il riemergere del problema del potere (Hel·rscbaft)
È noto come nella sua fase finale la riflessione weberiana ruoti intorno al tema della crisi e della trasformazione dello Stato e come uno dei fuochi di tale riflessione sia la nozione di Herrscha/t plebiscitaria. L'irruzione sulla scena politica delle grandi masse popolari organizzate in partiti e il ruolo crescente svolto da esse - circostanza rispetto alla quale il primo conflitto mondiale, come mostrano la traumatica fine dell'impero guglielmina e le vicende convulse della repubblica dei consigli, ha costituito un potente acceleratore - hanno reso in breve del tutto obsoleta la forma costituzionale vigente. In particolare, il Parlamento non sembra più il luogo della decisione politica ma, tutt'al più, il luogo nel quale vengono ratificate decisioni prese altrove. In questo quadro si inseriscono le note analisi di Weber sul carattere cesaristico della democrazia contemporanea e sulla centralità che di conseguenza viene ad assumere il problema della selezione dei capi. Ciò però non sembra collocare la nuova realtà politica e costituzionale al di fuori dell'orizzonte concettuale della modernità: al contrario, proprio perché ancora caratterizzata dalla nozione di Herrscha/t, essa appare riconducibile alla dimensione rappresentativa propria della forma politica moderna, costituendone in qualche modo il compimento '. I. Ha scritto Bobbio (r98rl, p. 220, con riferimento alla nozione di Stato avanzata da Weber in La politica come professione: «[Essa] rientra nella tradizione classica del pensiero politico perché riprende idealmente (dico "idealmente" non essendoci alcun riferimento a Hobbes nelle opere di Weber) la spiegazione che Hobbes dà dello Stato [. .. ]. Si può dire allo stesso titolo che per Hobbes lo stato è, con le parole di Weber, il monopolio della forza legittima, così come per Weber è, con le parole di
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Da questo punto di vista, si può affermare che - al di là delle differenze 2 - la riflessione sul potere di Cari Schmitt costituisca uno sviluppo ed una radicalizzazione di taluni aspetti di quella weberiana, tanto che in Schmitt qualche interprete ha potuto ravvisare se non un "legittimo discepolo", almeno un "figlio naturale" di Weber 3. Non è un caso che le critiche weberiane e quelle schmittiane nei confronti del parlamentarismo siano in larga misura omologhe. Ma se Weber attribuiva pur sempre al parlamento il compito di formare e selezionare i capi politici, Schmitt ritene che, essendosi esaurita ogni fiducia nei suoi fondamenti spirituali, esso non possa più rispondere in alcun modo ai problemi politici di un'epoca dominata dalle grandi masse e dalla forza fascinatrice del mito (cfr. LHP). Egli avverte una forte discontinuità rispetto al xrx secolo: le trasformazioni del plesso politica/economia in direzione dello Stato totale e la necessità di controllare i processi entropici determinati dal proliferare dei centri di potere e dallo stabile organizzarsi delle parti ripropongono in termini inediti il problema della Herrschaft. La soluzione proposta, direttamente riconducibile all'antecedente weberiano 4, è quella di un presiHobbes, il detentore esclusivo del potere coattivo». Sul problema dell'internità del pensiero politico weberiano all'orizzonte concettuale moderno e ai suoi legami con la tradizione giusnaturalistica inaugurata da Hobbes, cfr. altresì Duso (r988), pp. 5582. Per un'analisi più articolata del concetto weberiano di potere, rimandiamo inoltre al saggio di Manfrin nel presente volume (cAP. r8). 2. Eiscrmann ( 1994), pp. 77 e 84, ha messo in luce la distanza fra il punto di vista "sociologico" e descrittivo di Weber, mirante alla determinazione delle nozioni di diritto e Stato all'interno di una teoria generale dell'agire sociale e quello politicogiuridico di Schmitt, mirante a cogliere drammaticamente l'elemento di debolezza della forma-Stato moderna, quello attraverso cui avrebbero fatto irruzione, svuotandola dall'interno, liberalismo e positivismo giuridico (cfr. in/ra, PAR. 19.zl. È lo stesso Schmitt, d'altronde, che in Teologùz politica sviluppa il suo concetto di forma giuridica - strettamente connesso alla nozione di decisione (cfr. in/ra, PAR. 19.3) - differenziandolo criticamente dalla razionalità giuridica weberiana, eccessivamente caratterizzata in direzione della «riflessione specialistica>>, della «regolarità>> e «calcolabilità>> e del «perfezionamento tecnico nel senso della prevedibilità>> (TP, p. 53l. Sull'argomento, cfr. altresì Portinaro (r982l, soprattutto p. 159, e Galli (1996), il quale sottolinea che se il pensiero di Weber resta legato ad una (p. roo), e quindi alla «tradizione tedesca dello Stato di "potenza"» (p. ror), Schmitt, che nel giovanile WS (zbzd.), realizza una prestazione più radicalmente decostruttiva della «mediazione razionale>> (p. roz), rappresentata dalla forma-Stato moderna. · 3· Cfr. l'intervento di]. Habermas in Stammer (r965), trad. it. p. 107. 4· Mommsen (1974'), trad. it. pp. 565-6 scrive: «La teoria schmittiana dell'autorità plebiscitaria del presidente del Reich come rappresentante, di contro al pluralismo dei partiti, della volontà politica collettiva del popolo costituisce uno sviluppo unilaterale, ma del tutto intrinseco al loro spirito - delle richieste weberiane>>. Egli
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dente della repubblica super partes in grado di porsi, forte dell'investitura popolare, quale custode della costituzione e della decisione politica fondamentale in essa racchiusa. Diversamente, l'alternativa è una compagine statale debole, incapace di prendere decisioni, ostaggio di questo o quel gruppo di potere, sempre sull'orlo della dissoluzione o, peggio, della guerra civile (cfr. SE). 19.2
La critica al liberalismo e al positivismo giuridico Sulla base di quanto detto, si può comprendere la polemica schmittiana nei confronti del liberalismo e del positivismo giuridico. Il primo, come risulta dal celeberrimo Der Begriff des Politischen, è incapace di esprimere un autentico pensiero politico. Infatti esso pone l'individuo come terminus a quo e terminus ad quem e la sua ragion d'essere consiste nel limitare un potere già dato in nome della difesa «della libertà borghese e della proprietà privata» (CP, p. 156). È chiaro che un pensiero di questo tipo risulta del tutto inutilizzabile nel momento in cui a divenire problematica è la stessa unità politica. È largamente nota la tesi avanzata da Schmitt in questo saggio, secondo la quale criterio specifico del politico sarebbe la distinzione amico/nemico (cfr. CP, p. ro8) 5. Con ciò Schmitt non intende individuare una sostanza metastorica, ma proporre uno strumento atto a ripensare ciò di cui il liberalismo appare strutturalmente incapace di dar conto: da un lato la genesi della forma-Stato, dall'altro, come suoi presupposti necessari, l'ostilità interumana e la possibilità del conflitto. A tal fine soccorre altresì il riferimento a Hobbes, «pensatore dawero grande e sistematico» e alla sua «concezione "pessimistica" dell'uomo» (CP, p. 149).
D'altronde, la pretesa liberale di negare o neutralizzare il politico non ne evita la cogenza: «Come realtà storica - scrive Schmitt - il liberalismo si è sottratto al "politico" altrettanto poco di ogni altro mutamento umano, ed anche le sue neutralizzazioni e spoliticizzazioritiene inoltre che l'equazione schmittiana sovrano/Stato d'eccezione sia già implicita· mente presente in Weber (cfr. 564n.l. 5. Tale distinzione- dice Schmitt- assume il suo "significato reale" dal fatto di riferirsi «in modo specifico alla possibilità reale dell'uccisione fisica>> (CP, p. n6), giacché