Il postmoderno. La comunicazione, i luoghi, gli oggetti


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Il postmoderno. La comunicazione, i luoghi, gli oggetti

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Ivana Matteucci

IL POSTMODERNO La comunicazione, i luoghi, gli oggetti

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Teorie e Oggetti delle Scienze sociali 27

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Il postmoderno La comunicazione, i luoghi, gli oggetti

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2. Postmoderno e letteratura

I. Titolo

Aggiornamenti: —————————————————————————————————————————— 15 14 13 12 11 10 09 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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Indice Introduzione Tra modernità e postmodernità I

Sociologie della postmodernità 1. Il pensiero della postmodernità in Bauman 1.1. Postmodernità o modernità liquida 1.2. Dalla sicurezza alla libertà 1.3. Comunità politica e solidarietà 1.4. L’identità postmodernità e i suoi eroi: il flâneur, il vagabondo, il turista, il giocatore 1.5. Il tempo, lo spazio e la città 2. La sociologia dell’erranza in Maffesoli 2.1 Il nomadismo 2.2. Il glocale 2.3. Homelessness e rootlessness: senza casa e senza radici 2.4. Sociologie della postmodernità a confronto: Bauman -Maffesoli 3. Modernità radicale e globalizzazione. Sulle orme di Antony Giddens 3.1. Le due fasi della modernità 3.2. La globalizzazione 3.3. Principi democratici e comunicazione globale

II

La società del controllo informatico e la sorveglianza dei corpi 1. Società postmoderna e informazione 1.1 La sorveglianza elettronica: dalla sorveglianza politica alla sorveglianza economica 1.2 Le nuove tecnologie ‘persuasive’ e la questione della privacy 2. Corpi elettronici 2.1 La ‘mutazione somatica’ nella postmodernità 2.2 La costruzione sociale di corpi passivi

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INDICE

3. Le tecnologie della sorveglianza 3.1. La videosorveglianza 3.2. Le tecnologie comunicazionali 3.3. Le tecnologie biometriche 3.4. Le tecnologie di identificazione

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III Il neotribalismo digitale 1. Il tribalismo postmoderno 1.1. La nuova vita sociale 1.2. L’era delle tribù 2. Le comunità virtuali 2.1. L’illusione gruppale: comunione sociale e feeling of belonging 2.2. Comunità non strutturate: mud, chat, newsgroup

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IV Postmodernità e letteratura 1. Modernismo e postmodernismo 1.1. Testi letterari postmoderni 1.2. ‘Classici’ della letteratura postmoderna 1.3. ‘Contemporanei’ della letteratura postmoderna 2. Il postmoderno letterario in Italia 2.1. Temi caratteristici della letteratura e della cultura postmoderne 2.2. Italo Calvino: la sfida e la resa al labirinto 2.3. Umberto Eco e l’umorismo ritrovato 2.4. Il nuovo ‘giallo’ italiano tra tradizione e postmodernità

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V

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Postmodernità e cinema 1. Il cinema postmoderno: evoluzione 1.1. Il cinema verso il postmoderno 1.2. I primordi del cinema postmoderno 1.3. Il cinema postmoderno compiuto 1.4. Elementi chiave per una interpretazione del cinema postmoderno 2. Il cinema postmoderno: descrizione 2.1 Lo stile postmoderno 2.2. La narrazione postmoderna 2.3. Lo spettatore postmoderno

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INDICE

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2.4. La visione postmoderna 2.5. La spettatorialità postmoderna VI Spazi, luoghi e ambienti della postmodernità 1. Lo spazio urbano postmoderno 1.1. Il nonluogo 1.2. La città postmoderna come nonluogo 2. Il consumo urbano e le dinamiche spazio-temporali della città postmoderna 2.1. Paesaggi urbani vecchi e nuovi. Il cityscape e il townscape 2.2. La gentrificazione 2.3. Gotham city, città paradigma del postmoderno nel cinema

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VII L’architettura tra modernità e postmodernità 1. Il Movimento moderno 1.1. Il Movimento moderno: la storia 1.2. Il Movimento moderno: gli autori 2. Il Postmodernismo 2.1. Il Postmodernismo: la storia 2.2. Il Postmodernismo: gli autori 3. Reazioni al postmoderno in architettura

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Bibliografia

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Introduzione Tra modernità e postmodernità Il termine postmoderno, se vogliamo intenderlo alla lettera, implica un senso di posteriorità rispetto al moderno. Il prefisso post (come i sinonimi, dopo, al di là) starebbe infatti ad indicare un’epoca che segue la modernità (moderno = ‘nuovo’), e ne decreta la fine. In realtà non tutti gli studiosi la pensano in questa maniera: se alcuni rilevano un mutamento in corso e già in gran parte realizzato nelle nostre società e definiscono il nuovo scenario, ‘postmoderno’, altri ritengono che ci si trovi di fronte ad un mero artifizio terminologico per designare qualcosa che già esiste. Antony Giddens (1990) e Ulrick Beck (1986) sostengono le tesi della postmodernità come “radicalizzazione della modernità” o come “seconda modernità”. Secondo Giddens “non abbiamo superato la modernità; al contrario, siamo nel mezzo di una fase di radicalizzazione della modernità” (Giddens, 1994, p. 57), dove scorgiamo i segni concreti dell’affermarsi di modi di vita e di forme di organizzazione sociale che si discostano da quelli prodotti dalle istituzioni moderne. Beck utilizza il concetto di “seconda modernità” come processo in cui entrano in crisi le certezze della modernità e dove il rischio diventa l’orizzonte ineludibile delle nostre azioni. In particolare, nella società contemporanea, definita “società del rischio”, le conseguenze sconosciute o non volute dell’agire diventano dominanti e il rapporto rischi/opportunità viene spinto alle estreme conseguenze. In questi due casi non si parla di cambiamento di paradigma né di trasformazione epocale, ma semplicemente di una fase in cui gli aspetti più evidenti della modernità vengono estremizzati. Il rapporto tra modernità e postmodernità risente dell’assunzione di una impostazione che propende per la continuità oppure la discontinuità nell’analisi. I teorici della postmodernità privilegiano la discontinuità, sottolineano gli aspetti distintivi del postmoderno rispetto alla modernità, alcuni segnalando una frattura e spesso l’emergere di un nuovo paradigma nella cultura e nella società, altri privilegiando l’aspetto della crisi, della mutazione, del compimento del declino, e non della fine, rottura o superamento definitivo della modernità. Tra i più orientati alla discontinuità e all’affermazione di un nuovo paradigma troviamo sicuramente i sostenitori dell’idea di “società postindustriale” che dobbiamo a Daniel Bell (1974), e i

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IL

POSTMODERNO

teorici del postmodernismo, come movimento che riguarda prevalentemente aspetti di riflessione estetica, elaborato da Scott Lash (2000). Bell ha colto del postmoderno in particolare il passaggio dall’industria meccanica all’industria fondata sull’elettronica; Lash ha interpretato la postmodernità come un processo in cui prevale la de-differenziazione al posto delle differenziazione che caratterizza l’epoca moderna, e dove si afferma un nuovo “regime di significazione” caratterizzato dalla prevalenza dell’immagine sul discorso. Appare già evidente la difficoltà di una definizione unitaria ed esaustiva della postmodernità, in quanto ogni autore l’ha concettualizzata privilegiando alcuni aspetti della stessa. Jean Francois Lyotard (1979) nel definire il postmoderno, ha parlato di fine delle grandi metanarrazioni, o grandi modelli logici e discorsivi a cui l’uomo moderno ricorre per ordinare il mondo, a favore del prevalere di una pluralità di giochi linguistici. Michel Maffesoli (1988, 1990, 2005) ha sottolineato il ritorno al locale, alla comunità dalle forme neotribali, l’avvento di un bricolage mitologico con una edonizzazione delle pratiche che conduce al prevalere dell’estetica sull’etica. Zygmunt Bauman (1992) esprime i grossi cambiamenti ai quali è interessata l’identità nel suo processo di costruzione e di trasformazione. Raramente la postmodernità viene descritta come una forma del cambiamento sociale che spazza via l’ordine sociale tipico della modernità per instaurane uno nuovo, più spesso si propende, da parte dei più, per una idea di bricolage, ibridazione, mutazione in una sorta di ambivalenza tra continuità e discontinuità rispetto alla modernità. Tuttavia il processo di sviluppo che conduce verso la postmodernità non è lineare, ma vede in gioco contemporaneamente molteplici aspetti e dimensioni che deviano a volte anche fortemente dai caratteri della modernità, al punto da fare disperdere i nessi con la stessa, rendendo ancora più complessa la natura delle nostre società.

La modernità La postmodernità si definisce comunque in relazione alla modernità, sia che la rinneghi proclamandosi epoca nuova e diversa, sia che la accetti affermandosi come suo compimento e proseguimento. Serve dunque un breve excursus sulla modernità che ne delinei almeno i tratti salienti, che le sono stati riconosciuti come caratteri distintivi. Una analisi della modernità può essere svolta facendo riferimento ai maggiori sociologi che si sono occupati della società moderna, in quanto la sociologia si afferma proprio come scienza della modernità. La sociologia nasce dall’esigenza di scoprire la natura delle relazioni che tengono uniti i soggetti, dall’interrogativo sulla possibilità

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INTRODUZIONE. TRA

MODERNITà E POSTMODERNITà



dell’ordine sociale, nonostante gli sconvolgimenti cui sono state interessate le società a partire dalla decadenza delle società tradizionali o premoderne. Tutti i sociologi classici si sono cimentati sul tema del mutamento sociale e della transizione da un ordine sociale ad un altro. Tre concezioni sono importanti nell’analisi della modernità: quelle sviluppate rispettivamente da Karl Marx, Emile Durkheim e Max Weber. Ognuno di questi sociologi, nell’impostare una descrizione della società moderna, traccia un quadro che fa riferimento ad aspetti prevalenti riguardo alla dinamica della trasformazione sociale, alla concezione della società, al tipo di relazione tra i soggetti. Marx presenta la modernità come caratterizzata dall’avvento del nuovo modo di produzione capitalistico, capace di dissolvere i precedenti modi di produzione grazie alla sua superiore efficienza tecnologica e all’espansione dei profitti che alimenta. Egli individua nel modo di produzione capitalistico il primo motore del mondo moderno: il capitalismo è l’ordine sociale emergente della modernità. La rottura con il passato non è soltanto economica ma anche politica e culturale. Il modo di produzione capitalistico infatti differisce rispetto ai modi di produzione precedenti in quanto i lavoratori sono formalmente liberi e non schiavi, inoltre la vasta gamma dei mezzi di produzione come la terra, le fabbriche e anche la conoscenza e l’informazione, sono di proprietà privata. I rapporti di impiego tra il proletariato e la borghesia che detiene i mezzi di produzione, generano ineguaglianze e conflitti che – per Marx – sono destinati a sfociare in lotte di classe, come nuove forme di conflitto sociale. La tensione tra modernità e tradizione sta tutta nel conflitto sociale tra soggetti portatori di diversi progetti di società. Alcuni di loro sono destinati a far progredire la società verso un modello che prevede la scomparsa del presupposto disegualitario del capitalismo e l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte del proletariato. L’immagine della modernizzazione che ereditiamo da Marx dunque è legata alla forza dirompente del capitalismo e del mercato, al conflitto tra classi e forze sociali create e mobilitate per l’affermazione degli stessi. Questa immagine privilegia la discontinuità e sottolinea la mutazione delle forme storiche della società modernizzata. Se per Marx l’ordine sociale della modernità è quello capitalistico, per Durkheim l’elemento centrale è l’ordine industriale che genera enormi trasformazioni nella organizzazione e nella vita sociale, soprattutto in seguito alla divisione del lavoro che subordina la produzione ai bisogni umani. In Durkheim il rapporto di classe viene sostituito dai legami tra individui e la loro affiliazione a gruppi e associazioni. Tali legami con l’avvento della società industriale sembrano emergere organicamente nella vita quotidiana della gente, anziché essere imposti meccanicamente. Alla base della distin-

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POSTMODERNO

zione tra forma premoderna e forma moderna della società troviamo una opposizione ma anche un processo evolutivo che conduce dalla “solidarietà meccanica” delle società inferiori alla “solidarietà organica” di quelle superiori, differenziate per funzioni. L’accresciuta complessità della società industriale, la specializzazione, la differenziazione creano una maggiore interdipendenza e non autosufficienza, e un tipo di solidarietà definita organica. Il problema considerato da Durkheim fondamentale per la riflessione sociale è quello dell’integrazione sociale, e non del conflitto come per Marx, una integrazione che può essere garantita dalla interdipendenza delle funzioni diversificate, nella consapevolezza che tuttavia non sempre la società moderna è in grado di realizzare un sufficiente grado di integrazione degli individui. L’immagine della modernizzazione fornita da Durkheim è quella di un’evoluzione sospinta dalla divisione del lavoro che conduce ad un tipo di società di complessità superiore rispetto alle precedenti. Per Max Weber il principio dominante nelle società moderne è la razionalizzazione. Anche egli, come Marx e Durkheim, é impegnato a comprendere i cambiamenti indotti dalla rivoluzione industriale, ma mentre Marx aveva focalizzato il suo interesse sul cambiamento nei tipi di conflitto di classe e Durkheim sui cambiamenti nei legami, Weber si concentra sulle trasformazioni che investono l’agire e sui significati che stanno alla base dell’azione. Egli ritiene che, mentre nelle società preindustriali gli individui tendono a basare le proprie azioni sulle tradizioni, nelle società moderne essi hanno possibilità di scelta e prendono decisioni. Le persone cercano di agire razionalmente scegliendo i mezzi più efficaci per il conseguimento di scopi specifici. Esse agiranno sulla base del calcolo, ovvero valutando i costi e i benefici di ciascuna alternativa di azione, così da determinare il corso d’azione più conveniente. Gli scambi tra persone saranno quindi caratterizzati dal calcolo dei costi e dei benefici per il raggiungimento dei benefici voluti. La distinzione tra la “comunità” e la “società” è data dalla presenza di diversi tipi dell’agire: tradizionale e affettivo nella comunità, e razionale, fondato sul calcolo rispetto allo scopo o al valore, nella società, e dalla presenza di due tipi di dominio che ne derivano: il dominio legittimo tradizionale che si presenta nelle varie forme patriarcale, feudale, patrimoniale, carismatica e il dominio legale razionale che è pertinente alla modernità. Il tratto distintivo culturale della modernità è dato da un atteggiamento verso il mondo attivo ed intramondano, di dominio razionale, mentre premoderne sono la fuga e l’adattamento mistico. Le forme moderne del dominio sociale sono preposte per la realizzazione della più ampia razionalizzazione formale, che viene perseguita attraverso la burocrazia. Le burocrazie presentano infatti sei importanti proprietà: uffici, posizioni e ruoli separati dalle persone;

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MODERNITà E POSTMODERNITà



divisione del lavoro; autorità gerarchica; presenza di norme e regolamenti; impersonalità; progressioni nelle carriere, basate sulla qualificazione del personale e sui risultati, non sulle conoscenze o amicizie. L’immagine della modernizzazione che si può trovare nell’opera weberiana è un’immagine forte e ben articolata in teorie e modelli, radicata nella storia culturale e sociale dell’Occidente e contrapposta a quella degli altri paesi. Un ruolo a parte nell’osservazione e spiegazione sociale dei fenomeni che investono il vecchio mondo all’inizio del Novecento, viene svolto da un sociologo classico riscoperto solo più avanti, Georg Simmel. Questo autore, portava alla luce tutta una serie di fenomeni che avrebbero assunto rilevanza con il compimento della modernità alla fine del secolo: lo stile di vita urbano con una massa di stimoli che rende indifferenti le persone; il modificarsi delle coordinate spazio-temporali dell’esperienza; l’estensione del mercato del calcolo, che rende la mentalità insensibile alla qualità; la moda come suprema regolatrice del consumo e dello stile di vita; l’incessante costituzione di cerchie di riconoscimento da parte degli individui che giocano un ruolo importante nella costituzione sia dell’individualismo moderno che della società. Simmel affronta con estrema lucidità i contrasti, le ambivalenze i disagi della modernità. Se, ad esempio, la modernità per Simmel significa individualismo, essa però contiene anche una dinamica diametralmente opposta. Specializzazione significa infatti personalizzazione dell’attività produttiva ma può anche comportare spersonalizzazione, dato il carattere standardizzato delle singole mansioni che possono essere svolte dalle persone più varie. Tutti questi fenomeni non si ricompongono, in Simmel, in un modello alternativo di società moderna ma concorrono a definire una condizione sociale che riflette gli sviluppi estremi di tale società, cui recentemente si sono riferite le teorie della postmodernità. Come afferma Moscovici, in riferimento alla sociologia di Simmel, “la visione di una società composta da due sottoinsiemi: l’uno legato ai reticoli creati dagli individui che li fanno e li disfano in continuazione; l’altro alle rappresentazioni che essi condividono per modellare la realtà comune […] si addicono in particolare alla nostra società disindustrializzata, o, come si dice, postindustriale” (Moscovici, 1991, p. 361). Questa consapevolezza dei limiti della modernizzazione non era comunque del tutto assente neppure nei teorici fondatori delle visioni della stessa; essi infatti, nel momento in cui delineavano il progetto moderno, accennavano ai suoi possibili effetti perversi, alla possibilità della crisi. I pericoli di una alienazione generalizzata e di un congelamento del mutamento della società, provocati dalla “gabbia d’acciaio” in cui essa è racchiusa dalla burocratizzazione, mezzo di affermazione di una forma di dominio

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IL

POSTMODERNO

razionale-legale, in Weber; l’anomia, descritta da Durkheim come una condizione di mancanza di norme, che facilmente può prodursi in società ad elevato sviluppo industriale e che può condurre al suicidio, costituiscono alcuni esempi.

Ridefinire la modernità Alcuni studiosi si sono dedicati ad una rivisitazione delle immagini assodate della modernità, riformulandola in termini nuovi, che hanno rivalutato gli elementi critici e dinamici in essa contenuti. In queste teorie i processi di de-modernizzazione o iper-modernizzazione coesistono con quelli della modernizzazione e si alimentano a vicenda in direzione di una dialettica della modernizzazione avanzata. Gli autori che contribuiscono a fornire questa immagine della società sono Antony Giddens e Zygmunt Bauman. Secondo Giddens, per comprendere a fondo la modernità bisogna rompere con le prospettive sociologiche classiche che non permettono di cogliere il profondo dinamismo che la contraddistingue. Il dinamismo della modernità deriva da tre fattori: la separazione del tempo dallo spazio, la disaggregazione dei sistemi sociali, il carattere riflessivo dei rapporti sociali (Giddens, 1994, p. 28). Riguardo alla separazione del tempo e dello spazio Giddens fa notare come nella modernità si siano create le condizioni per una standardizzazione delle coordinate spaziali e temporali, e uno “svuotamento del tempo” cui ha fatto seguito uno “svuotamento dello spazio”. Lo spazio viene separato dal luogo permettendo i rapporti tra persone assenti e lontane: esso diventa sempre più “fantasmagorico”. La separazione del tempo e dello spazio e il loro costituirsi come dimensioni vuote, ha tagliato i nessi tra la vita sociale e la sua collocazione in contesti di presenza. Essa inoltre rappresenta il meccanismo che mette in azione quella specifica caratteristica della vita moderna che è l’organizzazione standardizzata. Infine la storia come appropriazione sistematica del passato per modellare il futuro ne ha ricevuto grande impulso. La disaggregazione, come delocalizzazione dei rapporti sociali e ristrutturazione in contesti spazio-temporali indefiniti, per Giddens, può meglio e in maniera dinamica spiegare le società moderne piuttosto che i concetti di differenziazione o specializzazione funzionale. Vengono distinti due tipi di meccanismi di disaggregazione associati alla modernità: la creazione di emblemi simbolici, come la moneta, e l’istituzione di sistemi esperti. La moneta è indispensabile per la natura del possesso e per l’alienabilità della proprietà nell’attività economica moderna, essa rende possibile qualsiasi tipo di transazione distanziata che i mercati comportano.

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INTRODUZIONE. TRA

MODERNITà E POSTMODERNITà



I sistemi esperti, così come gli emblemi simbolici, estraggono le relazioni sociali dalle immediatezze del contesto; un sistema esperto fornisce garanzie di aspettative attraverso lo spazio-tempo distanziato. La riflessività della vita sociale, uno dei caratteri più importanti della modernità avanzata, è diversa da quella delle società tradizionali, dove essa riguardava prevalentemente la motivazione e il controllo o monitoraggio dell’azione; nella modernità la riflessività pervade le stesse basi della riproduzione del sistema cosicché pensiero e azioni si rifrangono l’uno sull’altro: il discorso rientra nei contesti che analizza. Bauman definisce la società moderna come una società “liquida”, fluida, contraddistinta dai tratti della varietà, contingenza, ambivalenza. In questa società visioni del mondo e gruppi sociali diversi hanno guadagnato diritto di parola e di influenza; ai fenomeni culturali più disparati, dal consumo all’arte, alle teorie, viene riconosciuto naturalità, permanenza, perennità; i messaggi della cultura hanno significati contrapposti o mancano addirittura di significato; ogni bene di consumo si presenta come un segno o un simbolo di qualcosa d’altro; ogni forma d’arte e di comunicazione intende parlare a pubblici diversi. Nella società liquido-moderna nascono anche nuove incertezze, paura per la propria incolumità e insicurezza dell’esistenza, che sfociano in difficoltà ad amare il prossimo, colpevolizzazione di stranieri e devianti, meccanismi di esclusione e di etichettamento sociale. Bauman vede la società attuale come una società ancora stratificata in due dimensioni, o meglio, polarizzata. Vi è il mondo dei viaggiatori-turisti (il mondo senza peso dell’alta velocità, elettronico, computerizzato e flessibile) e il mondo dei viaggiatori-vagabondi (il mondo pesante, vischioso, inospitale). Vige una grande differenza di vissuto tra quelli “in alto” e quelli “in basso” (Bauman, 1999, p. 96) con conseguenze a tutti livelli. I primi sono convinti di viaggiare attraverso la vita, scegliendo le destinazioni e avendo accesso alla mobilità globale, i secondi sono obbligati a vivere in determinati posti e vengono mandati fuori dai luoghi dove vorrebbero vivere. I residenti del primo mondo vivono nel tempo: lo spazio non conta per loro, dato che possono attraversare qualsiasi distanza istantaneamente. I residenti del secondo mondo invece vivono nello spazio, gommoso, pensate, reale e dove il tempo non ha alcun potere; il loro tempo è vuoto, nel loro tempo non succede mai nulla (Ibidem, p. 99). I turisti e i vagabondi sono entrambi consumatori e i consumatori tardo-moderni o postmoderni cercano sensazioni, collezionano esperienze, vivono con il mondo un rapporto estetico, vedendolo come qualcosa che serve per alimentare la sensibilità, come una fonte di esperienze. Questo modo di porsi nei confronti del mondo li accomuna e li rende simili, anche se il vagabondo è un consumatore imperfetto ed è

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IL

POSTMODERNO

pieno di difetti, ma serve in quanto rappresenta l’alternativa alla vita del turista. Il termine “rischio” è uno di quelli a cui si è prestata più attenzione nel definire le società della modernizzazione avanzata in relazione a questo problema specifico. Il termine “fiducia” funge da contrappeso. Si parla di rischio intendendo ogni modo sistematico di fronteggiare pericoli e insicurezze indotte e introdotte dalla modernizzazione. Sono in particolare i processi della modernizzazione, lo sviluppo tecnologico e lo sviluppo scientifico, che in alcuni casi diventano motivo di rischio per la sopravvivenza individuale e collettiva, come nel caso di alcune applicazioni tecnologiche ad altissimo impatto ambientale, o del potenziamento delle applicazioni diagnostiche e farmacologiche in maniera superiore a quelle terapeutiche. Si tratta spesso di rischi globali e non solo individuali che derivano da eccessi nella produzione e nella ricerca scientifica. Per Beck “lo scenario anti-modernista che attualmente preoccupa il mondo […] non è in contraddizione con la modernità, ma è piuttosto espressione della modernizzazione riflessiva” (Beck, 2000, p. 16), dove la modernizzazione assume come referente se stessa. La società che scaturisce da questo processo è la “società del rischio”, definita come una fase di sviluppo della società nella quale i rischi sociali, politici, ecologici e individuali generati sotto l’impulso dell’innovazione eludono il controllo e le istituzioni protettive della società industriale. Ad un primo stadio, i rischi non sono oggetto di dibattito e di preoccupazione pubblica: essi vengono legittimati in quanto rischi razionali. In un secondo tempo, i pericoli della società industriale cominciano a dominare i dibattiti e a determinare conflitti politici. Il conflitto della società attuale verte sulla produzione e distribuzione del rischio e della minaccia. Sempre secondo Beck, i rischi oggi sono sociali e globali e non personali, derivanti da eccessi e non da difetti, sono effetti collaterali e perversi dei processi di una modernizzazione avanzata, non sempre sono percepibili direttamente dagli individui e sono distribuiti in modo indipendente dalla stratificazione sociale. In questa condizione sono a rischio anche le carriere e le biografie individuali, nonché la stabilità e la costituzione dell’identità delle persone. La preoccupazione, la paura, l’angoscia prendono il sopravvento sulla soddisfazione o il benessere nei modi di pensare e di agire degli individui; diventano necessarie forme di fiducia o di confidenza. Secondo Giddens (1994), con la scomparsa della comunità, e il ristrutturarsi della società secondo nuovi parametri spazio-temporali che generano incertezza, la fiducia diventa un meccanismo indispensabile per la riaggregazione. Si tratta di fiducia nei sistemi, che consiste in impegni anonimi la cui fede poggia su meccanismi di sapere, tecnologie in cui il pubblico non è competente; e di fiducia nelle

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persone, che implica impegni personali in cui si cercano degli indicatori della correttezza altrui. All’interno di questo dibattito Luhmann, che definisce il postmoderno come “forse una delle varie descrizioni del moderno solo in senso negativo da parte di una società che non crede più alla possibilità di fornire descrizioni corrette di se stessa” (Luhmann, 1995), introduce la distinzione tra “rischio” e “pericolo” (Luhmann, 1996). Il pericolo è riferibile alla sfera esterna all’individuo, all’ambiente, si tratta di un rischio assunto e determinato da altri, perciò si sottrae ad ogni controllo umano e del soggetto agente. Il rischio invece viene definito come un atto sociale imperniato sulla decisione, quando i danni futuri sono imputabili alla decisione dell’individuo. Le due categorie di rischio e pericolo rimandano ad un doppio livello di osservabilità. Per lo scienziato la perdita futura viene considerata come conseguenza di una decisione presa, in questo caso come un rischio da correre; per l’osservatore sociale, per chi osserva lo scienziato, come un pericolo causato dall’esterno. Nelle società complesse il rischio tecnologico prevale su quello naturale, è un rischio sociale e come tale è legato alla capacità riflessiva, e alla comunicazione autopoietica dei sistemi sociali.

Il postmoderno Nonostante la pluralità dei discorsi sul postmoderno, è possibile condensare il clima che lo avvolge in alcuni punti fondamentali. 1 – Indeterminazione. La società postmoderna è ricca di ambiguità, di controsensi e di rotture che si sperimentano nella conoscenza, nei linguaggi, e che tutti alimentano la nostra incertezza e la nostra indecisione. Ne sono un esempio le scritture di Barthes, i fraintendimenti di Bloom, la realtà dialogica di Bachtin, le allegorie di De Man, e tutte le altre espressioni letterarie ed artistiche che operano una “decomposizione” del testo. 2 – Frammentazione. Il postmoderno sconnette, scollega, valorizzando il frammento, la citazione, il rimando. Rifugge da qualsiasi forma di sintesi di tipo sociale, epistemica o culturale, da qualsiasi pensiero totalizzante e inglobante. Di qui la propensione per il bricolage, il collage, l’ibridazione, il paradosso, la paralogia. 3 – Delegittimazione. Questo processo investe tutti i codici dominanti, le autorità, le istituzioni, le convenzioni, le norme e le regole. L’imperativo è quello di decostruire, sovvertire, decontestualizzare, spaesare, demistificare qualsiasi ordine egocentrico, etnocentrico, soggettocentrico. 4 – Condizione di difetto del Sé. Nel postmoderno il senso del sé è mancan-

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te. I suoi confini diventano fluidi, la sua unità si converte in una pluralità di sfaccettature. Non ci sono ‘noccioli duri’ né caratteri duraturi né aspetti in profondità, la sostanza cede il posto alla superficialità, il contenuto alla forma. La forma è tutto, è tutto lì, in superficie. In conseguenza di ciò non vi sono nemmeno interpretazioni, ma solo il gioco del linguaggio che dissemina il senso nello stesso modo in cui disperde l’io. 5 – Impresentabilità dell’arte. L’arte postmoderna rifiuta l’icona e il suo effetto di realtà, contesta la mimesi e la rappresentabilità del reale. Alla rappresentazione o presentazione della realtà preferisce un rapporto con ciò che non è rappresentabile e non è dicibile, l’ineffabile, il mistero, il segreto, il silenzio, l’innominabile, tutti stati che rischiano l’impossibilità di una qualsivoglia articolazione e codificazione. 6 – Ironia. L’ironia rappresenta lo strumento con il quale il postmoderno si presenta in grado di oltrepassare il silenzio e la morte, attraverso il dialogo, nell’allegoria, nel dramma, senza con questo rinunciare alla contingenza e alla indeterminazione. 7 – Ibridazione. Ibridazione è trasmutazione dei generi nella parodia, nel burlesco. Si possono osservare forme promiscue ed equivoche, nell’arte, nella letteratura, nel sociale. I modi della rappresentazione si mescolano, perdendo i propri confini. In tutta la cultura si assiste ad una confusione di stili. 8 – Performance. Il testo postmoderno, sociale o verbale invita alla performance. La cultura postmoderna vive nel teatro; tutti gli eventi, perfino quelli drammatici, esibiscono una dimensione di teatralità. 9 – Costruzionismo. Il postmoderno afferma la costruzione della realtà ad opera dei soggetti nella loro interazione oppure nella loro libera espressione. Tale costruzione avviene nella forma di finzioni sia di tipo euristico che ad effetto, ed implica un sempre crescente intervento della mente nella natura e nella cultura. Infatti il costruzionismo informa tanto l’arte quanto la scienza. 10 – Immanenza. L’uomo estende se stesso diffondendo i propri sensi percettivi nei linguaggi, nei media, nelle nuove tecnologie. Già McLuhan descrisse gli strumenti della comunicazione di massa come estensioni dei nostri sensi; siamo ormai parte di un sistema semiotico, comunicativo immanente, e il nuovo linguaggio è ciò che detta le coordinate della nostra esistenza.

Il postmoderno filosofico Il postmoderno è nato e cresciuto in una quasi totale promiscuità tra universi disciplinari differenti. In campo filosofico si è cercato di raccogliere tutte

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queste declinazioni dello stesso all’interno di un’unica matrice utilizzando al tempo stesso il postmoderno come una categoria universale capace di cogliere lo ‘spirito del tempo’. In generale i filosofi della postmodernità rifiutano alcune idee-guida della modernità a favore di altre idee-guida affermate dalla postmodernità. Nella modernità hanno prevalso: a) una ragione ‘forte’ e ‘fondazionista’ e una tendenza a credere in legittimazioni assolute del conoscere e dell’agire, ipotizzando convergenze tra sapere e potere, teoria e prassi; b) una tendenza a concepire il tempo in termini di linearità e superamento, affermando il primato del ‘nuovo’ e del ‘presente’ che assume valore primario; c) la propensione a pensare l’umanità e la conoscenza in relazione a salvezza e progresso; d) la inclinazione a pensare in termini di ‘unità’ e di ‘totalità’, subordinando a queste categorie le varietà degli eventi e del sapere, favorendo le visioni ‘forti’ che puntano sulla centralità e sulla globalità di senso, e sulla vocazione alla razionalità del dominio e del controllo di cui sarebbe portatore l’Occidente. Nella postmodernità prevalgono: a) l’abbandono delle visioni totalizzanti, delle legittimazioni forti e assolute, dei fondamenti ultimi a favore di visioni molteplici, deboli e relative; b) l’affermazione dell’esperienza della fine della storia, cioè il tramonto del modo storicistico di pensare la realtà, il rifiuto di concepire la temporalità in termini di superamento; c) il rifiuto dell’idea di emancipazione attraverso la ragione e di compimento attraverso la storia e la filosofia, con prevalenza di visioni legate all’incertezza e alla provvisorietà; d) il passaggio dal paradigma dell’unità al paradigma della molteplicità con consapevolezza della pluralità e della polimorfia. Da cui, le pratiche culturali della rottura, frammentazione, regionalizzazione, dissociazione, ibridazione. Nella postmodernità, tutto ciò non viene praticato con un senso di nostalgia o rimpianto per il passato ma viene valutato come un fatto positivo, segno della avvenuta maturazione dell’uomo. Qui sta una delle maggiori novità del postmoderno rispetto alle epoche precedenti. I teorici del postmoderno trovano nei due filosofi Friedrich Nietzsche (1844-1900) e Martin Heidegger (1889-1976) due riferimenti ineludibili. Nietzsche con l’accento sul nichilismo e Heidegger con la dichiarazione della fine della metafisica, tracciano un’inversione di rotta rispetto alla tesi moderna di una coscienza progressiva, ottimistica, cumulativa. Il nichilismo è la consapevolezza di vivere ai vari livelli una crisi profonda da cui è difficile uscire; una crisi, che nasce dalla distruzione della costellazione di concetti della modernità. Il nichilismo è fine della metafisica e caduta degli ideali, perdita di centro e frantumazione di antiche identità, esperienza del negativo e impraticabilità di ogni sintesi dialettica o scientifica. La pretesa scientista che guarda alla storia come a una serie di fatti, è infondata poi-

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ché un tale atteggiamento obiettivante è un’illusione. Nel postmoderno il principio di realtà cede il posto al principio di fabulazione; non ci sono più fatti ma solo interpretazioni (Nietzsche, 1927). Il passaggio dalla modernità alla postmodernità avviene nel momento in cui si riconosce che non esiste la Storia, ma solo le storie; e allora si comprende che tutte le storie non sono altro che delle storie. Il postmoderno non vive nella storia ma nel presente astorico; il tempo sta tutto nella fruizione ludica ed istantanea della società presente. È a partire da Nietzsche che la modernità entra in crisi, essa era stata tutt’uno con il mito storicistico del Progresso, dove la Verità si dispiega unitariamente e linearmente in un processo in cui nulla va perduto, dato che ogni momento è sempre più ricco e più alto del precedente. Per Nietzsche la linearità è semplice mito e lo storicismo è una malattia. L’uomo superiore non vive nel divenire ma nell’eterno ritorno dell’identico, il quale però non è l’eternità, ma il divenire giocato e sognato come eterno. Al posto della Verità, vi sono le verità; al posto della Realtà, vi è la favola; il sogno sostituisce la veglia, e la morale è al di là del bene e del male. Verità e favola sono nozioni che si elidono a vicenda per cui l’uomo può solo sognare sapendo di sognare. Ogni pretesa di verità si afferma come volontà di potenza, dominio, ideologia, non c’è nulla che possa falsificare o verificare le varie interpretazioni al di là della volontà di affermazione. Il bisogno di verità nasce, secondo Nietzsche, dal bisogno di rassicurazione di fronte alle incertezze della vita, dal bisogno di trovare qualcosa di stabile per rispondere alla paura e all’ansia del divenire. Da questa necessità é nata la metafisica con la sua idea di essere, un essere stabile, sostanziale, con la sua destinazione all’eterno, la sua condanna del divenire e della sensibilità. Secondo Nietzsche, il postmoderno è legato all’avvento del nichilismo, che è caratterizzato dall’assenza dei valori o dalla presenza di valori rinunciatari, quali l’umiltà, la sottomissione, l’obbedienza, al posto di quelli positivi che tendono all’affermazione della vita. Responsabile di questa situazione è la metafisica, che ha portato ad una svalutazione di tutto ciò che è legato alla vita terrena a favore di un mondo ultraterreno che lo fonda, con la sua idea dell’essere stabile, sostanziale, presente ed eterno. La metafisica è però destinata a scomparire perché il mondo ultraterreno è sempre più difficile da attingere, già la modernità gli ha inferto un duro colpo radicalizzando certi suoi principi, quali quello di razionalità e quello di verità. Questa grande ricerca di verità infine la riduce ad un’invenzione umana, a un’illusione, una favola. L’uomo postmoderno è dunque un uomo che sa vivere in un mondo senza centro, senza alto nè basso. Di fronte alla perdita dei punti di riferimento che erano stati garantiti dalla metafisica, si possono comunque

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assumere, sostiene Nietzsche, due atteggiamenti: il “nichilismo reattivo” e il “nichilismo compiuto”. Il primo consiste in un atteggiamento nostalgico che cerca di colmare il vuoto causato dalla perdita dei valori cercando nuovi valori; il secondo è caratterizzato dall’accettazione del nichilismo, affermando la vita così com’è senza sovrapposizioni metafisiche. Il postmoderno è l’epoca del nichilismo compiuto caratterizzato dalla consapevolezza dell’assenza di fondamenti e del carattere fittizio di qualsiasi interpretazione del mondo, dove c’è posto solo per il gioco e l’erranza. Anche Heidegger manifesta l’esigenza di compiere una decostruzione della metafisica e dei suoi concetti fondamentali, quali quello di sostanza e di presenza. Se la metafisica ha finora cercato di dare delle risposte alla domanda ‘che cos’è l’essere’ facendo riferimento ad un unico principio stabile e sostanziale, la comprensione dell’essere, per Heidegger, è ciò che caratterizza l’uomo delineando una sua condizione esistenziale. Il comprendere è il modo di essere che consiste nella capacità dell’Esistere, che è un proiettare le proprie possibilità all’interno della situazione fondamentale di ‘Essere nel mondo’. Per l’uomo è dunque fondamentale riappropriarsi del proprio essere in quanto mortale e finito, per una comprensione autentica di sé. La comprensione dell’essere come sostanza che si produce nella metafisica, maschera una volontà di dominio che si ottiene con la tecnica, mentre, per Heidegger, il tentativo di riproporre un senso autentico dell’essere si può realizzare solo nel linguaggio, infatti il carattere universalmente linguistico dell’esperienza umana precede ogni metodologia linguistica, semiotica e semantica. Tutto infatti accade nel medium linguistico fatto di concetti ereditati, trasmessi, storici in cui si produce la nostra comprensione del mondo e si sviluppa la nostra stessa capacità di pensare. Pensare è interpretare, cioè riarticolare contenuti trasmessi, per cui il pensare ha un carattere storico ed ermeneutico. Per Heidegger, il linguaggio è ciò che ci fa essere; esso non è uno strumento a disposizione ma quell’evento che rende possibile l’essere dell’uomo. “Il linguaggio è la sede dell’evento dell’essere” (Vattimo, 1971, p. 123). Questa impostazione identifica la fine della metafisica con la posizione del linguaggio al centro dell’attenzione, non più, come nella metafisica, come uno strumento per comunicare e per manipolare l’essere già aperto nella semplice presenza, ma riconoscendo che è il linguaggio che procura l’essere alle cose: è la parola che nomina le cose originariamente e le rende accessibili anche nella presenza spazio-temporale. Il linguaggio diventa la forma eminente dell’esperienza della realtà stessa. In L’epoca dell’immagine del mondo (Heidegger, 1968, pp. 71-101) Heidegger espone cinque manifestazioni del mondo moderno: la scienza moderna, la tecnica meccanica, l’arte come estetica (per cui l’opera d’arte si trasforma

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in oggetto dell’esperienza vissuta, e l’arte viene interpretata come forma dell’espressione della vita dell’uomo), l’agire umano come cultura, la sdivinizzazione o disincantamento. L’essenza della scienza moderna è la ricerca, e la ricerca consiste in una investigazione attraverso un progetto rigoroso che si produce in un dominio dell’ente, della natura e della storia; si persegue la determinazione attraverso l’esattezza della misurazione con il numero e il calcolo; si riconducono infine i fatti isolati alle leggi e alle regole. Nelle scienze storiche il procedimento tende a cogliere, non diversamente da quelle naturali, ciò che è costante riconducendo la storia ad oggetto. La storiografia in quanto ricerca, oggettiva il passato con un complesso di effetti spiegabile e scopribile. “Natura e storia divengono oggetti di una rappresentazione esplicativa” (Ivi, p. 83). In Cartesio, per la prima volta, l’ente è determinato come oggettività del rappresentare e la verità si è trasformata in certezza del rappresentare. Questo processo culmina con l’assunzione del mondo ad immagine, dove l’essere dell’ente è rintracciato nell’essere rappresentato dell’ente, per cui immagine del mondo essenzialmente non significa una raffigurazione del mondo, ma “il mondo concepito come immagine”. Il mondo così è posto dinnanzi all’uomo come qualcosa di oggettivo che può rientrare nel suo dominio. Rappresentare diventa porre innanzi a sé e ricondurre a sé, al soggetto, ciò che viene rappresentato, cioè l’oggetto. La modernità conduce una guerra al mistero e alla magia in nome della ragione; in questo gioco il mondo viene privato di un’autonoma volontà e capacità di resistenza; per vincere esso doveva essere de-spiritualizzato, disanimato, espropriato della sua funzione di soggetto. Il “disincantamento” del mondo è stata l’ideologia della sua subordinazione per renderlo docile e legittimare un modello di dominio e di proprietà (Bauman, 2005, p. 220). L’uomo acquisisce il diritto all’iniziativa, alla paternità dell’azione prodotta in nome della cultura, il diritto a pronunciarsi sui significati, a costruire racconti. Abbandonato a se stesso il mondo non ha alcun senso, soltanto il progetto umano può iniettargli un significato e uno scopo. La postmodernità può essere pensata come quella che restituisce al mondo ciò che la modernità gli ha tolto, e può essere pensata come un re-incantamento del mondo. Ciò avviene in primo luogo smantellando l’artifizio moderno della ragione, prendendo coscienza del fatto che il disincantamento del mondo nasce dall’incontro tra l’atteggiamento di chi progetta e la strategia di una razionalità strumentale, da cui nasce un mondo spaccato tra soggetto dotato di volontà e oggetto che ne è privo. Il filosofo Vattimo ha fornito dei contributi interessanti alla problematica del postmoderno a cui egli ha dato un elevato valore filosofico. Secondo Vattimo il postmoderno si distingue dal moderno in quanto, mentre il mo-

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derno si qualifica in rapporto al concetto di storia, il postmoderno si definisce in relazione alla fine della storia. La modernità è l’epoca della storia, ovvero il periodo in cui, in antitesi alla visione ciclica e naturalistica propria delle società antiche, si afferma l’idea del nuovo visto come migliore, e l’essere è visto come novità e superamento. Nel moderno la storia del pensiero è interpretata come progressiva illuminazione e riappropriazione dei fondamenti. Si pensa alla storia come una realizzazione progressiva dell’umanità emancipata. La crisi dell’idea di storia porta con sé la crisi dell’idea di progresso: se infatti non c’è un corso unitario delle vicende umane, non si può neppure sostenere che esse procedono verso un fine, che realizzano un piano razionale di emancipazione. La modernità è quindi guidata dall’idea di storia con i suoi corollari: la nozione di progresso e quella di superamento (Vattimo, 1985, Introduzione). Il postmoderno invece si caratterizza non solo come novità rispetto al moderno ma anche come dissoluzione della categoria del nuovo, come esperienza della fine della storia intesa come corso unitario di eventi. La filosofia del Novecento è giunta alla conclusione che l’uomo non può cogliere il senso globale della storia ed anche che l’idea di progresso, quale secolarizzazione dell’idea teleologica di salvezza, è venuta meno. Tale crisi di un senso unico e assoluto a favore di sensi molteplici e relativi fa tutt’uno, per Vattimo, con l’abbandono delle categorie forti della metafisica tradizionale e con l’imporsi di una visione “debole” dell’essere che si ispira a Nietzsche e ad Heidegger. Da Nietzsche, Vattimo deriva l’annuncio della “morte di Dio” cioè la consapevolezza che le evidenze prime dei tempi passati non erano altro che forme di rassicurazione del pensiero in un orizzonte garantito. Da Heidegger egli assume la concezione epocale dell’essere, secondo cui l’essere non è, ma “accade” nel linguaggio, per cui il senso dell’essere si risolve nella trasmissione di messaggi linguistici tra le varie generazioni. Questa concezione dell’essere comporta una sua temporalizzazione, ovvero un suo indebolimento strutturale. In Heidegger all’idea di essere come eternità, stabilità, forza viene sostituita l’idea di essere come vita, maturazione, nascita e morte. Al metafisico “essere forte” subentra un postmetafisico “essere debole”. Il processo di indebolimento dell’essere, la fine della metafisica sono connessi all’avvento del nichilismo che, per Vattimo, è un nichilismo “debole” in cui né si vive di rimpianti né si ricerca il nuovo, ma ci si abitua a convivere con il niente ricercando nella nostra condizione delle positività da esperire. L’individuo postmoderno è colui che, dopo essere passato attraverso la fine delle grandi sintesi unificanti e rassicuranti, e dopo aver assunto fino in fondo la condizione debole dell’essere e dell’esistenza, ha imparato a convivere con se stesso e con la propria finitudine e infondatezza. Solo un soggetto di questo tipo può assu-

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mere la pratica attiva della non-violenza, della tolleranza, del dialogo, ossia di vivere in un mondo fluido e diversificato. Infatti, la pretesa di possedere la verità assoluta ha coinciso nella storia con la prevaricazione e l’esercizio della violenza. Nasce da qui la componente etica che si trova nel pensiero debole postmoderno di Vattimo, laddove l’indebolimento dell’essere viene a configurarsi non solo come destino ma anche come compito. La concezione unitaria e progressiva della storia è stata minata anche dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa che hanno moltiplicato i centri di raccolta e di interpretazione degli avvenimenti. Nella società postmoderna, secondo Vattimo, un ruolo determinante è esercitato dai mass media che caratterizzano questa società non nel senso di una società più consapevole di sé o più illuminata, ma come una società più complessa e persino più caotica: proprio in questo relativo “caos” risiedono le nostre speranze di emancipazione (Vattimo, 1989, p. 11). I mass media hanno prodotto una dissoluzione dei punti di vista centrali, favorendo una esplosione e moltiplicazioni di visioni del mondo, facendo sì che tutto, in qualche modo, diventi oggetto di comunicazione. L’effetto più immediato è quello di una realtà che è il risultato dell’incrociarsi di molteplici immagini e interpretazioni fornite dai media. La società postmoderna è anzitutto una società della comunicazione generalizzata prodotta dall’affermazione dei mass media. Essi riproducono e enfatizzano la mobilità dell’esperienza e la sua inesauribile ambiguità, l’effetto di spaesamento e la consumazione dei simboli, la seduzione del consumatore. Vi è tuttavia un fatto positivo nella comunicazione. Le culture locali, comunicando grazie ai nuovi mezzi, rivelano anzitutto se stesse, con sviluppi alternativi rispetto all’omologazione dominante. Le immagini plurime del mondo e della società prodotte dalle scienze umane e divulgate dai media contribuiscono all’autotrasparenza di questa società, alla fabulazione e al recupero del mito. La comunicazione è dunque sia fattore tecnico sia categoria interpretativa della società: la “trasparenza” è il suo valore positivo. Nella situazione di spaesamento provocato dall’oscillazione e la pluralità, che è anche liberazione delle differenze favorite dai media, può nascere un nuovo modo di essere per l’uomo. La società della comunicazione mediatizzata infatti è una società in cui prevale una logica ermeneutica che cerca la verità come corrispondenza, dialogo tra i testi, e non come conformità dell’enunciato ad uno stato di cose riconosciuto come dato definitivamente. Per Vattimo il postmoderno si caratterizza per una disillusione di fondo nei confronti del moderno basato sulla fede nella ragione e nella scienza, sulla superstizione del nuovo, sulla credenza nel progresso lineare e indefinito, sulla predilezione per le visioni totalizzanti della storia. Tuttavia questo non significa che si debba sposare

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una forma di decisionismo irrazionalistico o di minimalismo estetizzante: decisione, responsabilità, impegno possono trovare posto in una ragione di tipo ermeneutico non fondazionalista ma basata sulle istanze di finitudine, sfondamento e storicità.

I critici del postmoderno Fredric Jameson figura tra i più agguerriti critici del postmoderno. A suo dire, si può tracciare una distinzione radicale tra coloro che considerano il postmoderno come uno degli stili tra i molti disponibili e coloro che si sforzano di vedervi la dominante culturale della logica del tardo capitalismo (Jameson, 1989, p. 86). La concezione del postmoderno meramente stilistica esprime una sua valutazione positiva, adottando una celebrazione compiacente di tale nuovo mondo estetico. La concezione storica del postmoderno si impegna in un tentativo dialettico di pensare il nostro presente nella storia. Per Jameson, la logica del simulacro, con la sua trasformazione della realtà in immagini televisive, e del reale in pesudo-eventi, non solo replica la logica del tardo capitalismo, ma la rinforza anche. La distanza critica sembra decisamente abolita nello spazio postmoderno, dove viene eluso ogni senso del futuro e ogni progetto collettivo. Per rivendicare autenticità alle proprie posizioni, Jameson afferma che lo spazio postmoderno non è soltanto una fantasia o una ideologia, ma possiede una realtà genuinamente storica, affermandosi come terza fase di espansione capitalistica. Il postmoderno precisamente possiede, secondo Jameson, diverse caratteristiche, le quali si riassumono in una nuova mancanza di profondità che si estende a tutta la nuova cultura dell’immagine, dello spettacolo e del simulacro, copia identica di un originale mai esistito. Più precisamente sono stati messi in crisi cinque fondamentali modelli di profondità: il modello ermeneutico di interno/esterno; il modello dialettico di essenza ed apparenza; il modello freudiano di latente e manifesto o di rimozione; il modello esistenzialista di autenticità ed inautenticità; infine la grande opposizione semiotica tra significante e significato. La profondità è sostituita da superfici, una concezione di pratiche, discorsi e giochi testuali. Questo mancanza di profondità si estende anche alla storia dove produce un indebolimento della storicità; lo storicismo cancella la storia, in quanto saccheggio indiscriminato di tutti gli stili del passato, gioco, allusione stilistica indiscriminata. Il passato appare ormai come referente messo tra parentesi e quindi cancellato, di esso non restano che testi e spettacoli. La crisi della storicità impone, per Jameson, il problema della forma e l’organizzazione che possono assumere

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il tempo e la temporalità in una cultura sempre più dominata da una logica spaziale, che sfocia spesso nella schizofrenia, definita da Lacan come il collasso nella catena significante, dove l’esperienza è data da una serie di presenti puramente irrelati nel tempo. Le teorie del postmoderno hanno sottolineato la differenza al punto da creare disarticolazione nei testi, nei soggetti, nella società. Anche lo spazio è mutato, e l’iperspazio postmoderno trascende le capacità di orientarsi del corpo umano individuale, di organizzare percettivamente le cose che lo circondano, e di tracciare una mappa della sua posizione nel mondo esterno. L’annullamento di profondità che, per Jameson, è visibile nella pittura e nella letteratura postmoderne, è raggiungibile anche in architettura, in cui si rende oggi impossibile la percezione della prospettiva e del volume, mentre ci si impone di sviluppare nuovi organi, di espandere il nostro corpo in dimensioni quasi impossibili, per una nuova esperienza dello spazio costruito. L’intento complessivo dell’opera di Jürgen Habermas è quello di spiegare le patologie della modernità e di trovare rimedi laddove le critiche radicali del razionalismo occidentale hanno fallito, in quanto impigliate nella filosofia del soggetto. Esse infatti hanno sempre visto la razionalità come attributo di un soggetto solitario che si rapporta al mondo intendendo l’azione in modo strumentale come raggiungimento di uno scopo. Egli propende per una diversa forma della razionalità adatta alla società della comunicazione: quella dell’agire comunicativo (Habermas, 1986). Il progetto moderno, per Habermas, è rimasto incompiuto nel suo ideale illuministico di emancipazione; dal canto suo, il postmoderno, rigettando questo modello, abdica alle istanza progressiste del moderno e si qualifica come neoconservatorismo (Habermas, 1981). Il postmoderno rappresenterebbe quindi il tentativo di sbarazzarsi del progetto emancipativo della modernità, in ciò tendendo ad occultare le condizioni di alienazione e di contraddizione che caratterizzano la società contemporanea, e invitando all’accettazione dell’esistente. Il fallimento del progetto di emancipazione e di miglioramento di cui il moderno si è fatto portatore, è dovuto al prevalere della razionalità formale di tipo tecnicostrumentale che produce disagio sociale, alienazione e spersonalizzazione. A causa della pervasività e il potere di colonizzazione della ragione strumentale, completamente piegata a fini puramente tecnici, la sfera culturale, per meglio dire la sfera della comunicazione, perde il suo potenziale emancipativo. Le dottrine postmoderne e neoconservatrici, secondo Habermas, piuttosto che rivolgere la loro attenzione ai processi sociali, vanno contro gli aspetti rivoluzionari presenti in particolare nelle avanguardie artistiche, disinnescando il loro potenziale utopico, e riducendole alla mera dimensione estetica, proclamano un ritorno al premoderno. L’accentuarsi della dimen-

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sione estetica e poi l’appiattimento della dimensione etica su quella estetica, dato che quest’ultima si caratterizza per l’assenza di vincoli e di conseguenze, produce una mancanza di valutazione delle conseguenze dell’azione e una de-responsabilizzazione generale. Il ritorno al premoderno, praticato dal postmoderno, tende quasi a saltare la modernità piuttosto che a correggerla. Questa posizione comporta, osserva Habermas, una rivalutazione degli aspetti più irrazionali del pensiero, come l’immaginazione, il desiderio, la vitalità, la poesia. Il postmoderno filosofico esalta la frammentazione del soggetto, si pone come radicale antiumanismo, sostenendo l’assenza della ragione contro la ragione strumentale della modernità. Il risultato finale è la liquidazione del progetto moderno con il suo potenziale critico ed emancipativo a favore di spunti fortemente irrazionalistici e regressivi. Un altro rilievo critico praticato da Habermas nei confronti della cultura postmoderna, è la propensione per lo spettacolo e per la spettacolarizzazione, che esce da un ambito limitato di generi (cinema, televisione) per investire tutte le attività, dalla politica al mercato, dove la moda e il culto del nuovo guidano la produzione e il consumo. Collegata ai tratti filosofici menzionati, tra cui la perdita di fondamenti e di ordine, la crisi della ragione, del senso lineare della storia e della spiegazione scientifica, la cultura postmoderna abbraccia una lettura semiotica della realtà sociale caratterizzata dalla scissione tra significato e segno che lo rappresenta. Con la perdita di riferimento e fedeltà alla realtà dei messaggi, sopraggiunge una spettacolarizzazione della cultura e degli eventi trasmessi dai media, nonché un dominante e pervasivo valore simbolico, anziché di tipo funzionale, che prevale nelle scelte di consumo. In altre parole, le varie forme di spettacolo assumono autoreferenzialità, spettacolo di se stesse, venendo a mancare di qualsiasi referente esterno. Gli eventi sono anzi prodotti ai fini dello spettacolo e non sono dotati di alcuna realtà al di fuori di esso. Per Jean Baudrillard nella cultura postmoderna della celebrazione, del recupero, del revival, la storia diventa una enorme “riserva di spazzatura”, da salvare sotto l’imperativo ecologico del riciclaggio (Baudrillard, 1993). L’impressione che non avvenga più nulla di reale (o sciopero degli eventi) è un effetto dell’inflazione di avvenimenti diffusi in tempo reale dai nostri media ipertrofici. L’evento dei media non rientra più nella verità ma nella credibilità (cioè incertezza) che è l’autentico principio dell’informazione. Questa incertezza infetta e invade ogni storia, ogni attualità, ogni immagine; la realtà diviene incerta, paradossale, aleatoria, iperreale, filtrata dai media, disgiunta dalla propria immagine. “L’oggetto reale è annientato dall’informazione – non solo alienato ma abolito” (Ibidem, p. 79). L’immagine, e con essa l’informazione, non è legata ad alcun principio di verità o di realtà. “La pressione più

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alta dell’informazione corrisponde alla pressione più bassa dell’evento e del reale” (Ibidem, p. 80). In effetti nello spazio mediatico il tasso di diffusione è massimo ma l’indice di risonanza è nullo, così la televisione ci inculca l’indifferenza, la distanza, lo scetticismo, l’apatia incondizionata. In questo paesaggio Bagdad e Disneyland coesistono caoticamente, seppure con un senso ancora intelligibile. Un esempio di questa dominanza del simbolo sul messaggio, della rappresentazione sulla realtà è infatti rappresentato dai grandi parchi tematici in cui i consumatori vivono nella rappresentazione (Augé, 1990). Guy Debord, alla fine degli anni Settanta è stato uno dei primi a vedere la progressiva smaterializzazione della società d’oggi (Debord, 1997), in cui tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione, dove il mondo reale si cambia in semplici immagini. Infatti, “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini” [Ivi, § 4]. Per Debord lo spettacolo non è oggi un aspetto marginale ma rappresenta la struttura portante della società dei consumi, e il consumo, da materiale che era, diventa sempre più immateriale, consumo di spettacolo. Nell’epoca della fine del lavoro, la contemplazione dello spettacolo si sta sempre più sostituendo al lavoro, e il tempo di lavoro è tempo di consumo di immagini, che sono i media di tutte le merci, infatti lo spettacolo diventa, in Debord, l’altra faccia della merce, la sua esibizione. La società dello spettacolo integrato, che integra lo spettacolo diffuso dei paesi consumisti e lo spettacolo concentrato dei regimi dittatoriali, celebra infine la completa conversione del vero nel falso, la prevalenza del simulacro sul reale. Lo spettacolo, con i suoi codici, i suoi linguaggi, i suoi ritmi si appiattisce sulla percezione di un consumatore supposto pigro distratto e sovraccarico di stimoli, e investe tutte le forme di comunicazione, anche didattica e scientifica, piegandole ai propri formati espressivi. L’immagine e la didascalia prevalgono nei testi, l’impiego di tecnologie multimediali li rendono più coinvolgenti, tramutandoli in esperienze immediate. Le implicazioni sui soggetti sono importanti: sovraccarico simbolico e perdita di centro generano un soggetto decostruito dalla comunicazione, parlato anziché parlante, come suggeriscono i poststrutturalisti. Il fenomeno della cultura postmoderna dato dalla cultura popolare di spettacolo, si mostra interrelato con il consumo su base economico-sociale. Un tratto fondamentale della cultura postmoderna è infatti rappresentato dalla completa mercificazione della cultura: la produzione e distribuzione della cultura tende a diventare un servizio alle imprese o un tipo particolare di servizio retribuito offerto alle persone. Nasce una classe di addetti alla produzione di beni immateriali e all’espansione di un’economia della cultura

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(cioè dei beni culturali, dell’istruzione, del tempo libero, dei mass media) e di un’economia finanziaria molto sensibile all’intermediazione simbolica, all’interno di un’economia divenuta economia dei segni (Baudrillard, 1974). Anche secondo Bauman, nella società postmoderna il comportamento di consumo impegna la gran parte della vita pratica e cognitiva della popolazione e costituisce la ragione principale di integrazione sociale, relegando ad un ruolo secondario e marginale altre forme di legittimazione e di consenso. La seduzione e il principio del piacere che muovono i consumi rispettivamente dal lato dell’offerta e della domanda, hanno reso inutile la legittimazione razionale-legale dello stato e l’egemonia culturale degli intellettuali. Tuttavia, proprio per questo, l’attività intellettuale è più libera e indifferente rispetto al potere politico e viene lasciata aperta la possibilità per gli intellettuali di rendersi interpreti del pluralismo.

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I Sociologie della postmodernità 1. Il pensiero della postmodernità in Bauman 1.1 Postmodernità o modernità liquida La modernità è l’epoca della fiducia nel progresso e nella storia. In questa prospettiva il novum è sempre migliore dell’antiquum, il presente è prodotto e superamento del passato e si rivolge fiducioso al futuro. La ragione e l’innovazione scientifica promettono di guidare l’uomo verso una sempre più completa emancipazione da ogni catena ideologica, religiosa e naturale, permettendogli il dominio sulla sua esistenza. L’Illuminismo può considerarsi apice e ideologia di riferimento di questa concezione razionale e razionalizzante, che vuole creare e mantenere ordine tra gli uomini e nel mondo. Lo Stato, come meccanismo dell’ordine, diventa centrale nelle teorie sociologiche del periodo, concentrate sui mezzi più adatti a trasmettere disciplina e omogeneizzazione per ridurre i conflitti. Gli uomini illuminati sono consapevoli che l’unica risposta all’angosciante problema hobbesiano è il contratto sociale, e che solo nella società possono essere liberi e trovare un’identità. Tutte le azioni non omologate a questo contratto, sono antisociali e devianti, pericolose per la società. La postmodernità è innanzitutto una presa di coscienza dei limiti della modernità. Dopo le guerre mondiali del Novecento entra in crisi l’idea del progresso e della capacità dell’uomo di assumere un ruolo guida nel corso della storia. Declinano gli “ismi”o grand récits (secondo la definizione di Lyotard) che si ergevano a portatori della verità e interpreti della storia, e si arrogavano il diritto di guidare il processo emancipativo dell’uomo, verso un télos di cui si è ormai persa la speranza. L’uomo, ridimensionata la fiducia in se stesso e nella bontà della tecnica, ripensa il suo rapporto con la natura in un’ottica diversa dal dominio. Proprio questa esigenza di controllo aveva portato il moderno a razionalizzare il mondo, a disincantarlo e a reificarlo, mondando l’individuo dalla sfera religiosa e sacra. Questa reductio ad unum aveva comportato anche la cancellazione delle specificità locali e territoriali a vantaggio di una identificazione uniforme nello Stato sovrano. In contrasto con la modernità,

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dunque, il postmoderno afferma i valori della differenza e della tolleranza, della pluralità dei valori e delle verità, una riqualificazione del mondo quotidiano, la conciliazione con la natura, e il carattere veritativo dell’esperienza estetica, alternativa alla verità dell’esperimento scientifico. Secondo Bauman, la postmodernità è la modernità pienamente sviluppata e consapevole, che istituzionalizza apertamente il pluralismo, la varietà, la contingenza e l’ambivalenza che finora erano state occultate, ma che si erano sviluppate proprio mentre il moderno lottava per il pensiero unico e il mantenimento dell’ordine. L’idea dell’ordine come obiettivo è infatti gemella della consapevolezza della contingenza del mondo e della vulnerabilità degli esseri umani. L’allontanamento da Dio nel Rinascimento mette al centro l’uomo e il suo libero arbitrio, ma porta in sé anche un horror vacui che spinge l’azione umana verso la perfezione e verso la liberazione dall’imperfetto, nel tentativo di esorcizzare la paura del caos. La ricerca di struttura in un mondo improvvisamente privato di strutture, è un’azione razionale, impone che ci sia un progetto a precedere l’ordine. Così nella società si deve programmare una divisione dei ruoli e del lavoro, in cui ogni individuo si collocherà nel posto più adatto e funzionale all’ordine. Bauman suggerisce a questo proposito la metafora della pianificazione urbana, con lo studio di quartieri simmetrici, funzionali, geometrici, che rispecchiano l’ordine sociale, in cui lo spazio è sorvegliato per proteggere questo ordine dalla devianza di vagabondi e girovaghi. Dall’ossessione del controllo nascono metafore come il Panopticon di Bentham o il Grande fratello di Orwell, che pensano alla società come a un occhio vigile che controlla costantemente le mosse degli abitanti, inducendoli a non scostarsi dall’omologazione imperante1. In epoca postmoderna, la condizione sociale è svelata, non ha carattere sistemico, non è un insieme di parti che fungono e tendono all’equilibrio, ma è costantemente non equilibrata, è la somma di movimenti casuali di agenti autonomi, in cui l’ordine si può raggiungere al massimo a livello locale. Queste trasformazioni a livello locale, inoltre, non seguono razionalmente una stessa direzione e non sono riconducibili a un tutto organico. La metafora del progresso è soppiantata da quella del movimento browniano: “ogni situazione temporanea non è né un effetto necessario di quella precedente, né una causa sufficiente di quella successiva e dunque la condizione postmo1 “Eppure, tutti i residenti del Panopticon [...] sono felici. Sono felici perché vivono in un ambiente attentamente controllato e così sanno esattamente cosa fare. Non ci sono per loro le sofferenze della frustrazione e il dispiacere del fallimento. Il divario tra desiderio e dovere è stato colmato [...]. Il compito di colmare questo divario costituì in effetti il fulcro, il focus imaginarius della battaglia moderna per un ordine razionalmente concepito”. Z. Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, Armando, Roma 2005, p. 226.

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derna è sia indeterminata che indeterminante”2. Nel pensiero di Bauman, la centralità che la teoria sociologica moderna riservava a concetti come società, gruppo normativo (classe o comunità), socializzazione e controllo, è ora appannaggio di concetti quali habitat, socialità, auto-assemblaggio e autocostituirsi. L’habitat è il territorio in cui si stabiliscono sia la libertà, sia la dipendenza dell’azione. È un sistema complesso, che può subire l’influenza di fattori anche non statisticamente rilevanti, cronicamente indeterminato, i cui stati sono dunque contingenti. Da un lato non determina il comportamento di chi agisce, né definisce il significato delle sue azioni, dunque non è strutturante, ma, dall’altro, fornisce il campo (l’elenco dei fini e l’insieme dei mezzi) per le mosse dell’agente. Questo, attraverso una serie non strutturata di scelte tra i simboli offerti dalle molteplici agenzie, realizza il processo di auto-costituirsi, un graduale ma non conclusivo movimento di smontaggio e ri-assemblaggio, simile al già citato movimento browniano, in cui il solo fattore costante rimane il corpo. Questo gioco dialettico tra libertà (il “fai-da-te”) e dipendenza (da chi propone e dà autorità, esperti o massa, ai mutevoli simboli che servono alla auto-costituzione), è proprio della socialità, la modalità di procedere della odierna realtà sociale, che prende il posto della società rigidamente determinante. Bauman ha introdotto la suggestiva metafora della liquidità, caratteristica distintiva e compiuta nel/del tempo moderno in cui viviamo, che si oppone alla solidità della prima modernità. Difatti, lo stesso spirito moderno era animato dal desiderio di “fondere i corpi solidi” – come recitava il Manifesto del Partito Comunista – ovvero di smuovere una società ritenuta troppo stagnante e refrattaria al cambiamento, insensibile al passare del tempo e troppo legata alle tradizioni e credenze passate. La dissacrazione e la liquefazione dei corpi solidi dell’Ancien Régime serviva però a preparare il terreno ad altri corpi solidi, nuovi e ‘dunque’ migliori, in cui dominassero la razionalità e, in ultima analisi, la libera iniziativa imprenditoriale. Tuttavia, la rimozione degli ostacoli sospettati di limitare la libertà individuale di scegliere o di agire, attraverso la deregolamentazione, la liberalizzazione delle merci e dei 2 Z. Bauman, Sociologia e postmoderno, ivi, pp. 200-28. Le idee proposte nel saggio sono quattro: a) il termine “postmodernità” è esatto in quanto mette in evidenza la discontinuità e la continuità come due facce dell’intricato rapporto tra la situazione presente e quella precedente; b) la postmodernità con le sue caratteristiche (pluralismo istituzionalizzato, varietà, contingenza e ambivalenza) può essere interpretata come la modernità pienamente sviluppata; c) le differenze che distinguono la condizione postmoderna da quella moderna sono tali da giustificare una distinta teoria sociologica della postmodernità; d) la postmodernità è una condizione sociale essenzialmente vitale, pragmaticamente capace di mantenersi da sé e logicamente autosufficiente (pp. 200-1).

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mercati, la flessibilità del lavoro e della produzione, ha permesso al sistema e ai suoi liberi agenti di sfuggire a qualsiasi forma di coinvolgimento, di evitarsi a vicenda, anziché incontrarsi. La fuga, la velocità e il disimpegno sono le caratteristiche dell’epoca odierna, in cui i poteri di liquefazione cambiano obiettivo (dal ‘sistema’ alla ‘società’, dalla ‘politica’ alla ‘politica della vita’), oppure sono scesi dal livello ‘macro’ a quello ‘micro’ di coabitazione sociale”3. A fronte di “istituzioni zombie”, indebolite e scardinate dal loro ruolo, scompaiono gli obiettivi solidi attorno ai quali compattare le sofferenze individuali in un progetto collettivo per cambiare l’ordine nella società, che rivela i suoi aspetti di rigidità. Un ordine nel quale vince chi si svincola dagli altri, chi riesce ad essere leggero e adattabile per cogliere al volo le nuove opportunità, chi è software e con la stessa capacità impara e dimentica, per non essere appesantito dal passato e condizionato dai legami. Leggero come un fluido, che non ha una forma propria che leghi stabilmente i suoi atomi in uno spazio, ma che muta la sua conformazione al variare delle situazioni, con lo scorrere del tempo.

1.2 Dalla sicurezza alla libertà In particolare nei saggi La società dell’incertezza (1999) e Il disagio della postmodernità (2000), Bauman si chiede in che cosa si differenzia la società postmoderna da quella moderna e quali sono i principi che la regolano e i disagi che la percorrono. Il suo lavoro prende le mossa dall’opera di Freud Das Unbehagen in der Kultur (1929)4, una impietosa analisi della società moderna che, tra principio di piacere e principio di realtà, aveva scelto il secondo, ovvero l’ordine, la regolazione. “L’uomo civile – scriveva Freud – ha scambiato una parte delle sue possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”. Il disagio nasceva, secondo Freud da un eccesso di ordine e dalla sua inseparabile compagna: la morte della libertà. Immaginando un continuum ideale ai cui estremi si trovano ‘sicurezza’ e ‘libertà’, possiamo dire che la società moderna sostava decisamente sul primo polo. Il perseguimento collettivo degli ideali di bellezza, intesa come “cosa inutile che ci aspettiamo la società stimi”, pulizia (“ogni genere di sporcizia ci sembra incompatibile con la civiltà”) e ordine (“una sorta di coazione a ripetere, che in base ad

3 Z. Bauman, Sull’essere liquidi e leggeri, Prefazione a Modernità liquida, Laterza, Bari 2002, p. XIII. Nella Prefazione Bauman ci sollecita a considerare la “fluidità” o la “liquidità” come metafore pertinenti alla attuale e nuova fase della storia della modernità. 4 S. Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino 1978.

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una norma istituita una volta per tutte stabilisce il quando, il come e il dove un’azione debba essere svolta, in modo da evitare devianze e esitazioni”), richiedeva di piegare l’individualità alle regole generali, e anche conformismo e sacrificio delle pulsioni sessuali e aggressive in quanto principi non naturali ma prodotti dalla civiltà stessa. In loro nome, gli individui avevano rinunciato alla libertà individuale, guadagnando “protezione dalla sofferenza”. Le conseguenze di una società panoptica, basata sul controllo proveniente dall’alto e sull’irreggimentazione dell’istintualità, sono la monotonia, il susseguirsi regolare di routine prestabilite che generano noia ma mettono al riparo dal timore dell’imprevisto. Questo tipo d’amministrazione sociale offriva il conforto della stabilità, ma non era immune da altri mali. Ridurre la complessità non portava automaticamente alla felicità, ad uno stato di beatitudine. Era al contrario fonte di ben altri tormenti. “In una civiltà che sceglie di limitare la libertà in nome della sicurezza, l’incremento dell’ordine implica la crescita della frustrazione”5. La fabbrica fordista è una delle icone simbolo della modernità e ne riprodusse su scala ridotta e in ambito lavorativo il tipo di organizzazione che vigeva a livello generale e generalizzabile, in quanto “ridusse le attività umane a movimenti semplici, standardizzati e in grande misura preprogrammati, da seguire ubbidientemente e meccanicamente senza impegnare alcuna facoltà mentale e tenendo alla larga la spontaneità e qualsiasi iniziativa individuale”6. Lo stato di sorveglianza permanente al quale gli amministratori della società moderna sottoponevano gli amministrati è paragonato da Bauman, rifacendosi a Michel Foucault, al modello del Panopticon di Jeremy Bentham. Una struttura all’interno della quale i sorvegliati erano impossibilitati a muoversi, legati ai loro letti, celle o banchi di lavoro: confinati entro mura alte e spesse, vivevano con la possibilità di essere osservati in qualsiasi momento dai loro controllori. L’eventualità di essere visti, la certezza di essere costantemente monitorati, erano le molle che facevano sì che nessuno dei controllati si spostasse dal posto che gli era stato assegnato. Un’unica verità, un unico corpus di credenze e di valori e un’uniformità da difendere anche con le armi erano i principi, anzi il solo principio che spingeva i controllori a controllare in maniera maniacale che 5 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, p. 9. Secondo Bauman settanta anni dopo l’uscita del lavoro di Freud, la libertà individuale regna sovrana, diventando un vantaggio e una risorsa. 6 Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 15. La modernità della “teoria critica”, qui definita “pesante/solida/compatta/sistemica”, secondo Bauman, aveva una tendenza endemica al totalitarismo, in quanto nemica della contingenza, della varietà, dell’ambivalenza, dell’indocilità e della idiosincrasia.

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i confini non venissero infranti, che l’ordine non fosse minacciato, insidiato e infine messo a nudo quale semplice costruzione passibile in qualsiasi momento di essere modificato. Derive di questa visione del mondo sono stati i totalitarismi che hanno sconvolto il Novecento. La fase liquida della modernità ha frantumato le spinte uniformatrici della modernità pesante, ha sciolto i solidi principi su cui si basava la modernità solida, portando alla luce le contraddizioni e le differenze presenti nella società. La differenza avversata e combattuta nell’epoca precedente, trova oggi parimenti diritto di cittadinanza in nome della libertà individuale. La contemporaneità ha sgretolato l’unica verità suddividendola in un politeismo di principi e valori che non si riuniscono armonicamente, che non cantano all’unisono, ma producono piuttosto una cacofonia. Questo non significa che la società attuale sia più felice di prima né che abbia trovato la soluzione o l’equilibrio perfetto fra sicurezza e libertà, fra società e individuo. Significa piuttosto che ha accettato l’assenza di una soluzione a quello che appare destinato a restare uno dei sogni più sognato: riuscire a trovare il compromesso che permetta di avere libertà senza preoccupazioni e responsabilità. Nello scambio qualcosa si guadagna e qualcosa va irrimediabilmente perduto: la vecchia regola rimane vera oggi come un tempo. “Il disagio della postmodernità nasce da un genere di libertà nella ricerca del piacere che assegna uno spazio troppo limitato alla sicurezza individuale”7. Nella contemporaneità si sono invertiti i rapporti di forza fra i due poli: sicurezza e libertà. Gli abitanti della modernità liquida hanno una maggiore libertà individuale e una minore sicurezza. Si è verificato ciò che Freud aveva definito come autodistruttivo: il principio di realtà si è immolato sull’altare del principio di piacere. Gli ideali che prima la società perseguiva in maniera collettiva ovvero bellezza, ordine e pulizia non sono venuti meno. Spetta a ciascuno singolarmente portarli avanti. La responsabilità è ricaduta totalmente sulle spalle dell’individuo. Un individuo che non può più contare sulle certezze che avevano i suoi predecessori: lavoro, affetti, welfare state. La postmodernità è l’epoca della precarietà. Il posto fisso è sempre più un miraggio per i suoi abitanti, le competenze e la professionalità acquisite nel tempo non sono più una garanzia contro la disoccupazione, fare bene il proprio mestiere non è condizione sufficiente per non rischiare di finire nel baratro della povertà e dell’emancipazione. I legami interpersonali non sono più improntati alla lunga durata, all’amore unico e per sempre. Mentre i tagli allo stato sociale e la crescente privatizzazione economica non offrono più ancore di salvezza. 7

Z. Bauman, La società dell’incertezza, cit., p. 10.

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In questa condizione e con queste prospettive, il soggetto è costretto a scegliere di volta in volta in maniera individuale. Una scelta che tuttavia non è assoluta, non gli consente cioè di non scegliere. Ogni scelta comporta preoccupazione e incertezza circa gli esiti delle proprie decisioni, comporta paura di sbagliare poiché le eventuali conseguenze negative ricadrebbero ancora e interamente sulle spalle dell’individuo. Questa è l’altra faccia del destino di libertà dell’uomo contemporaneo: la totale responsabilità delle proprie azioni che non ammette scusanti o sconti. La colpa del fallimento ricade interamente sul singolo. Poco importano le circostanze esterne e l’insufficienza dei mezzi a disposizione che ciascuno ha per muoversi nel mondo, né la disuguaglianza nella distribuzione delle risorse. Più libertà e più piacere, significano anche meno sicurezza ovvero più incertezza. Dove l’incertezza non è ovviamente una prerogativa della postmodernità, ma nella nostra epoca a differenza delle precedenti è diventata una condizione permanente di vita. È il prezzo da pagare per essere liberi da controllori e vigilanti. L’insicurezza attuale è riconducibile, secondo Bauman, alla concomitanza di tre fattori: –





Il nuovo disordine mondiale causato dalla caduta del Comunismo e dalla conseguente fine della suddivisone del mondo in blocchi di potere che “spaventavano per le loro terribili possibilità”. Ma qualsiasi cosa abbia sostituito quella sinistra struttura fa paura adesso “per la mancanza di coerenza e orientamento”. L’indebolimento se non lo smantellamento delle relazioni interpersonali, dei rapporti di vicinato e dei legami familiari che una volta costituivano un rifugio in cui potersi ristorare e curasi le ferite inferte nelle battaglie della vita. Il mutamento legato al cambiamento della pragmatica delle relazioni interpersonali, guidate dallo “spirito del consumismo” porta a identificare l’altro come “potenziale mezzo per ottenere gradevoli sensazioni”. Queste dinamiche “non possono generare legami duraturi”, i legami che producono sono “a scadenza” e “a libera contrattazione”. La deregulation universale dell’economia, che garantisce al capitale e alla finanza una libertà pressoché illimitata a scapito di qualsiasi altra libertà o diritto che non rientrano nella sfera dell’economica. I tagli al welfare state, l’indebolimento della contrattazione sindacale e della legislazione sul lavoro hanno aumentato la distanza fra ricchi e poveri, creando nuove sacche di indigenza e aumentando le disuguaglianze fra i continenti, le nazioni e all’interno della società. Si è passati “dal progetto di una comunità custode dei diritti universali

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e di una qualità di vita accettabile e dignitosa” alla “investitura del mercato come garante della possibilità universale di arricchimento personale”. E mentre diminuiscono le risorse destinate alla spesa sociale, aumentando i costi di polizia, prigioni, servizi di sicurezza, in breve di tutte quelle istituzioni incaricate di rinchiudere e rendere invisibile il volto inaccettabile della postmodernità. Da questione sociale, infatti, la povertà è stata trasformata in un problema di ordine pubblico o medico-legale. Chi non ha niente e per questo non può partecipare al “banchetto del consumismo”, subisce un processo di emarginazione, “degradazione”, “criminalizzazione” e “medicalizzazione” messo in moto da tutti gli altri che ancora non sono stati toccati da questa sorte e che vogliono “rimuovere culturalmente l’importanza morale del povero e dell’afflitto”. Una libertà, quella postmoderna, che è dunque potenzialmente rivolta a tutti, ma che di fatto è riservata solo a chi ha le risorse, anche economiche, per poterla realmente esercitare. Non tutte le persone infatti possiedono mezzi sufficienti per passare dalla condizione di individui de iure a quella di individui de facto. E gli effetti psicologici di questo crescente divario economico-sociale non coinvolgono solamente i diseredati. Poiché, scrive Bauman, “pochi individui sono così potenti da essere sicuri che la loro casa, per quanto salda e resistente, non sia frequentata dallo spettro di un crollo imminente. Nessuna occupazione è garantita, non c’è posizione che non possa indebolirsi, non c’è capacità o abilità la cui utilità sia in grado di durare a lungo”8. Su tutti incombe lo spettro dell’indigenza, la paura di svegliarsi letteralmente una mattina e non avere più niente, né qualcuno a cui chiedere aiuto, data non solo la riduzione dei sussidi sociali ma anche la precarietà dei rapporti umani. Gli uomini contemporanei vivono in uno stato di perenne incertezza e insicurezza generalizzata.

1.3 Comunità politica e solidarietà Pensare a dei rimedi è possibile, per Bauman, ma solo partendo dal presupposto che la libertà individuale è un dato di fatto allo stato attuale ineliminabile. Non sono cioè immaginabili soluzioni che, per usare le sue parole, risolvano i problemi connessi alla condizione di autorealizzazione e libertà 8

Ivi, p. 63. La disuguaglianza tra continenti, nazioni e all’interno degli Stati raggiunge oggi proporzioni ieri impensabili, scrive Bauman.

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degli individui, uccidendo il paziente. Non rientrano fra le prospettive auspicabili, secondo Bauman, le fughe dalla realtà promesse dai nuovi fondamentalismi e comunitarismi. È impossibile essere contemporaneamente liberi e sicuri. Principio di realtà e di piacere, in altre parole, non possono governare insieme disponendo di uguali poteri. Ciò che invece gli individui possono fare è unire le forze nella “comunità politica”. Perché tutti abbiamo realmente la possibilità di esercitare la nostra libertà, occorre riprogettare e ripopolare lo spazio pubblico. Secondo Bauman, spetta alla politica ricomporre la contraddizione oggi esistente tra individuo in potenza e individuo in atto. E per farlo, la sfera pubblica deve cessare di essere quello che è diventata: “un maxischermo su cui le preoccupazioni private vengono proiettate e ingrandite senza per questo cessare di essere private o acquisire nuove qualità collettive”9. Di fronte alla fuga e al disimpegno delle autorità, il punto di incontro fra pubblico e privato, l’agorà, è stata colonizzata dalla politica della vita. La nozione di cittadino si è erosa. La sfera pubblica svuotata dei suoi significati originari, è diventata il luogo, forse l’unico, in cui condividere intimità, in cui dare vita a comunità deboli ed effimere composte da individui alla disperata ricerca di confrontare, seppure per un attimo, le loro preoccupazioni, una sorta di “temporanea aggregazione intorno a un puntello su cui molti individui solitari appendono le loro solitarie paure individuali”10. Il beneficio che si può trarre da questi incontri è constatare che ci sono molte altre persone che si trovano come noi in una condizione di incertezza e solitudine. Il rimedio teorizzato da Bauman presuppone la decolonizzazione del pubblico da parte del privato per creare una comunità politica guidata da tre principi fondamentali: “differenza”, “libertà” e “solidarietà”. Mentre i primi due principi godono di un certo favore nell’era postmoderna come testimoniano anche la spinta alla deregulation e alla privatizzazione, la terza è più difficile da realizzare perché la società non è in grado di generarla spontaneamente. Ma senza di essa non si dà libertà, perché non c’è libertà che possa sentirsi sicura senza la solidarietà, la quale, parafrasando Bauman, è l’unica via percorribile per ridurre la sensazione generalizzata di incertezza che pervade per intero il mondo contemporaneo. Privare di libertà i poveri, non accresce la libertà degli altri, ma al contrario ne mina il godimento, perché fa temere che la stessa sorte possa toccare anche a loro. L’unico 9 Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 33. Bauman sostiene che attualmente è il privato che sta colonizzando lo spazio pubblico. 10 Ivi, p. 30. Su questo tema si può anche vedere La (in) felicità dei piaceri incerti, in Z. Bauman, La società sotto assedio, Laterza, Bari 2005, pp. 123-167.

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modo perché la libertà intesa come “relazione sociale”, “capacità di fare”, “capacità di resistere” si realizzi appieno, è che tutti ne possano godere, poiché la libertà di ciascuno può essere garantita solo con gli sforzi congiunti di tutti. I benefici di questa azione collettiva sono generali: “Perché ogni individuo libero possa affrancarsi dalla paura della povertà e dell’indigenza, è necessario che tutti siano sgravati dalla povertà e dall’indigenza reali”11. Espletare questo compito non è semplice, il cammino è irto di rischi, ammonisce Bauman, ed è facile che un ideale si rovesci nel suo opposto. Ma la politica postmoderna ha il vantaggio di essere consapevole di questi pericoli e dell’impossibilità di trovare soluzioni perfette o studiare strategie garantite contro l’insuccesso. Questo, insieme alla tolleranza per la diversità, possono aiutare la società attuale a non commettere gli stessi errori in cui è caduta nella modernità: generare oppressione invece che libertà.

1.4 L’identità postmoderna e i suoi eroi: il flâneur, il vagabondo, il turista, il giocatore Nella fase solida della modernità l’identità era un progetto da portare avanti giorno dopo giorno, da costruire, dice Bauman, mattone su mattone come una casa. Si costituiva nello svolgere lineare e sequenziale del percorso di vita. Era la meta che attendeva l’uomo alla fine del suo cammino. Un progetto differito nel tempo che procedeva di pari passo con l’acquisire significato del mondo. Metafora dell’uomo moderno è, per il sociologo polacco, il pellegrino che passa la sua esistenza a percorrere la strada che lo condurrà alla meta, che vaga nel deserto sopportando sacrifici e differenze in vista di una ricompensa futura. Immerso in un tempo lineare, dotato di un passato e di un futuro, il pellegrino cammina nel mondo-deserto secondo un tracciato stabilito. E lungo la strada l’uomo-pellegrino e il mondo-deserto acquistano significato insieme, parallelamente. Il significato e l’identità sono il telos della sua esistenza, ciò che lo attende alla fine del suo percorso, la distanza che lo separa dal loro perseguimento è il motore che lo spinge ad andare avanti. Il pellegrino moderno sceglieva da giovane il suo progetto di vita, certo che nessun mutamento avrebbe sconvolto i suoi piani. La sicurezza e la fiducia nel futuro erano ciò che gli permetteva di procrastinare il piacere. “Salvare per il futuro” era immaginabile perché gli uomini confidavano nella solidità del mondo, nel fatto che il futuro avrebbe ripagato i loro risparmi con gli interessi. La vita era una concatenazione di eventi, collocati nel tempo e 11

Z. Bauman, La società dell’incertezza, cit., p. 23.

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correlati in base ad un rapporto di causa effetto. In altre parole, i pellegrini esperivano un mondo “ordinato, determinato, prevedibile, assicurato” e si muovevano in un tempo “direzionale, continuo e inflessibile”. La modernità liquida ha spazzato via il vivere-verso-il progetto, gli individui non puntano più alla costruzione di un’identità solida e in qualche modo cumulabile in quanto prodotto delle esperienze vissute in passato. Una identità di questo tipo sarebbe soltanto di intralcio in una società che non ha più una meta finale da raggiungere e in cui il rapido e continuo turnover delle regole del gioco esigono flessibilità e capacità di adattamento. In un mondo in cui fronteggiare il rischio e l’azzardo rappresenta la quotidianità, l’immagine del sé è frammentata, “una raccolta di istantanee” costruita intorno ad un eterno inizio. Il risultato è un’“identità a palinsesto”. Se il medium della modernità solida era l’album fotografico, quello della modernità liquida, scrive Bauman, è il videotape che consente di cancellare e ripartire ogni volta da capo. La vita postmoderna è, per il sociologo, come una successione di partite, l’una slegata dall’altra, senza memoria né consequenzialità. Il tempo non ha passato e non guarda al futuro, vive in un eterno presente costituito dal veloce succedersi di episodi l’uno totalmente indipendente dall’altro. Nella contemporaneità sono venute meno le certezze che erano alla base della vita come pellegrinaggio: avere un posto di lavoro, una famiglia e fare parte di un tessuto di rapporti sociali stabili e duraturi. Nella modernità liquida niente è per sempre. In questo quadro la miglior strategia è non stare mai fermi, riuscire a “portarsi velocemente nel luogo dell’azione” ed essere sempre pronti ad affrontare “le esperienze così come vengono”. Non è più possibile, o quanto meno è difficilmente coronato dal successo, uno stile di vita orientato al futuro, perde di senso la procrastinazione della gratificazione, dato che è impossibile sapere in anticipo cosa succederà domani. L’uomo postmoderno da pellegrino è diventato turista, giocatore, flâneur e vagabondo. La sua individualità è il risultato combinato degli elementi tipici di ognuna di queste quattro figure, che proprio la contemporaneità ha riabilitato, sottraendole all’emarginazione in cui erano confinate nel passato. Il flâneur o bighellone è colui che vive appunto la vita-come-un-bighellonare, che passeggia negli shopping malls e nei centri commerciali o nelle telecittà, dove la sua attività raggiunge l’apice nello zapping da un canale televisivo all’altro. Il vagabondo non ha una meta né un percorso prefissato, a differenza del pellegrino. Si muove spinto alle spalle dalle speranze deluse e tirato in avanti da quelle che non si sono ancora realizzate. Ad ogni passo decide quale sarà il successivo e la sua prerogativa è quella di rimanere un estraneo ovunque vada, di essere sempre fuori posto. La differenza rispetto

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al passato è che questo stile di vita non riguarda più solo una minoranza di persone, quella minoranza che non era riuscita a sistemarsi. Sono sempre di più i residenti, gli stanziali, che dalla sera alla mattina sono costretti a prendere atto che i loro luoghi di appartenenza non esistono più o sono diventati meno accoglienti di una volta. Sono sempre di più quelli che escono sconfitti dal tavolo da gioco e si ritrovano in un batter d’occhio nella condizione di chi non ha più niente, nemmeno la libertà di scegliere dove stare. I vagabondi della postmodernità non viaggiano per piacere e anzi farebbero volentieri a meno di farlo: “Si sono trovati in cammino solo perché qualcuno ha dato loro uno spintone sulla schiena sloggiandoli di casa, minacciando di sloggiarli, rendendo impossibile o insopportabile il restarvi”12. Ciò che vorrebbero, aggiunge Bauman, è potersi fermare: “avere una casa e starci senza dover tremare al pensiero dell’affitto non pagato”. Il turista è l’alter ego fortunato del vagabondo, colui che viaggia per piacere, alla ricerca di sensazioni sempre nuove e sempre più gratificanti. È colui che sceglie il viaggio, che è libero di scegliere di viaggiare e che si ferma in un posto fino a che non ne ha tratto anche l’ultima sensazione. È guidato da criteri principalmente estetici ed ha le risorse per comperare e pagare il diritto a non essere disturbato. Il turista non è costretto a subire ciò che è toccato in sorte al vagabondo condannato a vagare senza sosta e senza meta, la sua permanenza in un posto è determinata dai nativi. Sono loro che decidono quando deve andarsene, quando non è più gradita la sua presenza lì. L’andare di chi si muove per scelta è composto di episodi: ogni sosta è vissuta come l’unica e gli incontri con la gente del posto sono superficiali, condotti senza particolari obblighi di lealtà perché considerati come pezzi unici, irripetibili. Il turista reale o metaforico, non è un senzatetto come il vagabondo, parte alla ricerca di nuove avventure con la serenità conferitagli dall’avere una casa. Anche se, a mano a mano che l’essere un turista diventa una componente integrante del carattere, la casa perde i propri tratti distintivi, non solo perde concretezza, ma finisce con il non esistere nemmeno nell’immaginazione; diventa un postulato che rende piacevole la sua permanenza altrove, è ciò di cui ha bisogno per muoversi serenamente nel mondo. “Il turista ha imparato ad amare gli spazi vasti e soprattutto aperti. Il pensiero della porta che ha chiuso dall’esterno lo riempie di nostalgia: l’idea di una porta che non si possa spalancare dall’interno

12

Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Mondadori, Milano 2000, p. 102. Le figure del turista e del vagabondo sono considerate da Bauman delle vere e proprie metafore della vita postmoderna.

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lo riempie di spavento”13. Il turista e il vagabondo, in conclusione, secondo Bauman sono metafore delle differenziazioni sociali postmoderne, della crescente disuguaglianza nella distribuzione delle risorse, ma sono anche il simbolo della precarietà della società attuale, in cui ciascuno, in qualsiasi momento, può trasformarsi da turista a vagabondo. Il giocatore, infine, vive in un mondo che non conosce necessità né determinazione, le regole del gioco cambiano repentinamente prima che la partita sia terminata. Il mondo stesso è un giocatore. Nel confronto uomo-mondo ci sono solo le “mosse”, non esiste “né ordine né caos”, la strategia consiste nel cercare di prevedere cosa farà l’avversario e anticiparlo. Il tempo nel mondo-comegioco è scandito da una successione di partite slegate l’una dall’altra, a dominare sono il rischio, l’intuizione e il prendere precauzioni. I muri che circondano questo ambiente lo isolano dall’esterno, il risultato di ogni match non ha conseguenze durature e non pregiudica i successivi, perché alla fine tutto questo non è altro che un gioco da vivere sportivamente. I risultati non sono mai definitivi: alla fine di ogni partita il vinto spera di potersi rifare domani, il vincitore teme di poter perdere tutto da un momento all’altro. Scopo del gioco non è partecipare, ma vincere. Al suo interno non sono ammessi scrupoli morali: compassione, commiserazione e collaborazione sono abbandonati all’ingresso.

1.5 Il tempo, lo spazio e la città Nel saggio Modernità liquida Bauman scrive che “la differenza che fa la differenza” nella contemporaneità, e dalla quale discendono tutte le altre, è il mutato rapporto fra spazio e tempo. Un tempo unite a doppio giro e strettamente interrelate l’una all’altra, queste due dimensioni si sono progressivamente allontanate nella modernità. In passato, ‘lontano’ è stato sinonimo di ‘molto tempo’, e la risposta alla domanda “Quanto è distante il tal luogo?” era calcolata in base al tempo necessario per raggiungerlo. L’utilizzo di mezzi di trasporto umani (le gambe) o animali (i cavalli), permetteva di utilizzare i due concetti come funzioni l’uno dell’altro. Con l’arrivo del vapore e dei motori a combustione interna, e più in generale con l’utilizzo delle potenzialità meccaniche, ha preso il via un processo di progressiva emancipazione del tempo dallo spazio. La variabile temporale non era più funzione dello spazio, ma subordinata alle tecnologie sempre più veloci utilizzate per renderla pressoché pari allo zero. Nella fase solida o hardware della 13

Ivi.

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modernità, il tempo è diventato lo strumento attraverso il quale conquistare il territorio. Possedere spazio, arraffarlo e mantenerlo è stato l’ossessione e l’obiettivo dell’era pesante. La terra rappresentava ricchezza e potere, era il potenziale hardware alla base delle strategie di controllo e dominio. Conquistare più spazio possibile, colonizzare tutti i ‘punti vuoti’ del mondo era l’imperativo; ‘grande’ era sinonimo di potente, efficiente, solido. Allo stesso tempo, per controllare i propri domini e renderli omogenei era necessario anche standardizzare il tempo: “allorché si passò dalla fortificazione dello spazio, al suo addomesticando e colonizzazione, ci fu bisogno di un tempo rigido, uniforme e inflessibile”14. La velocità e l’accelerazione utili nell’accaparrarsi la terra, lasciavano il posto, una volta conclusa l’impresa, ad un tempo strutturato in intervalli regolari, prestabiliti che scandivano la giornata nelle fabbriche fordiste. La protezione del luogo dalle invasione degli intrusi, richiedeva la sua difesa con alte mura con fili spinati che impedivano agli abitanti stessi di lasciare la loro “prigione panoptica”. L’irreggimentazione del tempo era l’alleato della società del controllo. L’istantaneità della modernità leggera o software ha annullato la distanza che intercorre fra lontano e vicino. La possibilità di raggiungere qualsiasi punto nello stesso arco di tempo ha portato alla svalutazione dello spazio nel suo complesso, che cessa così di essere un valore da raggiungere e accumulare attraverso gli utensili forniti dal tempo. La simultaneità e l’istantaneità, lo hanno reso irrilevante: “Se tutte le parti di spazio possono essere raggiunte in qualsiasi momento, non c’è nessun motivo di raggiungere una di esse in un particolare momento [...] E c’è ancora meno motivo di sopportare i costi di una perpetua supervisione e amministrazione, di una laboriosa e rischiosa coltivazione di terre che possono essere facilmente raggiunte e altrettanto facilmente abbandonate in base ai propri mutevoli interessi topici15. Lo spazio non costituisce più una sfida né un obiettivo da raggiungere. Non denota potere né ricchezza ma il contrario. La modernità liquida ha liberato i ‘controllori’ del Panopticon dall’onore di dover essere sempre in presenza dei ‘controllati’ per poterli sorvegliare. Nella modernità pesante entrambi erano ancorati letteralmente al suolo. La condizione attuale si caratterizza invece per l’extraterritorialità del potere. L’annullamento del tempo necessario a raggiungere un determinato luogo ha reso qualsiasi punto del globo praticamente a portata di bit. È la fine del modello panoptico e l’inizio di 14

Z. Bauman, Modernità liquida, cit., pp. 129-30. Ivi, p. 133. Secondo Bauman la quasi istantaneità dell’epoca della modernità liquida o software inaugura la svalutazione dello spazio, infatti tutte le parti di spazio possono essere raggiunte all’istante, e nessuna ha un valore speciale. 15

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una nuova logica di potere basata sulla fuga, l’evasione, il distacco. La modernità liquida ha segnato la rivincita del nomadismo sulla sedentarietà e sulla territorialità: “la maggioranza sedentaria è governata dall’élite nomade ed extraterritoriale”. La ricchezza nella modernità liquida non è più testimoniata dalla quantità di spazio posseduto, ma dalla possibilità di poterlo percorrere a proprio piacimento alla velocità di un segnale elettronico. Gli amministratori non hanno più bisogno di essere fisicamente sul posto per gestire i propri possedimenti né puntano più ad acquisirne di durevoli nel tempo. La loro prerogativa è la capacità di viaggiare, senza portare con sé un bagaglio troppo grande che rischierebbe di diventare un freno e una zavorra, un limite nei confronti delle nuove opportunità che si possono presentare in qualsiasi momento. Prerogativa del capitale “leggero” è il dinamismo, l’essere continuamente in movimento. La grandezza, l’imponenza e la durabilità erano i sintomi del potere pesante; snellezza, leggerezza ed effimero sono i valori del capitalismo contemporaneo. In un mondo in continuo mutamento, l’obbiettivo non è accumulare beni durevoli, perché sarebbero d’ostacolo qualora si presentassero delle occasioni più allettanti. “Oggi è la pazzesca velocità di circolazione, di riciclaggio e di obsolescenza, di smaltimento e sostituzione che crea profitto, non la durata e l’affidabilità nel tempo del prodotto”16. Ribaltando una tradizione millenaria, oggi sono i poveri ad aggrapparsi con tutte le loro forze a ciò che hanno e a cercare di farlo durare il maggior tempo possibile, mentre i ricchi sono animati dalla ricerca del transitorio e rifuggono da ciò che può resistere nel tempo. La città è il luogo in cui avvengono gli incontri fra estranei: incontri senza futuro e senza passato. Occasioni spesso uniche e irripetibili che tuttavia non richiedono lo stesso atteggiamento che si usa con gli amici o i familiari. Non ci si aggiorna sulle pene e le felicità intervenute nel lasso di tempo in cui non ci si è visti, ma non si è nemmeno mossi dal totale disimpegno nei confronti dell’altro, poiché la gestione dei rapporti con gli sconosciuti richiede la conoscenza e l’utilizzo di ciò che Sennett definisce “buona creanza”17, ovvero l’arte di non essere indebitamente infastiditi dagli altri e di non infastidirli a nostra volta. La reciprocità e la condivisione di tali capacità e regole interiorizzate d’interazione con l’estraneo comportano inevitabilmente l’impossibilità che la buona creanza come la lingua possa essere “privata”. Essa non può che rientrare nell’ambito del quadro sociale. Conseguenza logica della sua adozione è l’esistenza di spazi pubblici con16

Ivi, p. XXI. Cfr. R. Sennett, Usi del disordine. Identità personale e vita nella metropoli, Costa & Nolan, Genova 1999. 17

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divisi dagli uomini in qualità di persone pubbliche che indossano, e questa è l’essenza della buona creanza, una maschera pubblica. Quali e quanti sono gli spazi pubblici delle città postmoderne? Per Bauman sono quattro: “luoghi etnici”, “luoghi fisici”, “nonluoghi”, “spazi vuoti”, riconducibili a due categorie opposte e complementari. Emblema della prima è La Défense parigina, “un enorme piazzale” fatto costruire da Mitterand: un luogo inospitale che non invita a fermarsi, percorso velocemente e ritmicamente dai passeggeri della metropolitana che passa vicina. Qui la strategia adottata per fronteggiare la diversità dell’altro è quella “andropoemica” che consiste letteralmente nel ‘vomitare’ l’alterità, vietando il contatto fisico, il dialogo e in breve qualsiasi tipo di rapporto sociale con essa. L’incarnazione contemporanea di questa logica sono i ghetti, la segregazione spaziale e la selezione degli accessi all’entrata. La seconda categoria è rappresentata dai “templi del consumo”, luoghi in cui gli individui si trasformano in consumatori, e in cui condividono lo spazio con altri consumatori, ma non interagiscono con loro. Tuttavia, in virtù del loro essere lì con lo stesso obbiettivo, cioè il consumo che resta tuttavia un “passatempo individuale”, hanno l’impressione rassicurante di fare parte di una comunità aproblematica basata su un sentimento altrettanto aproblematico di uguaglianza. “Le folle che riempiono i corridoi dei centri commerciali si avvicinano come nessun altro all’ideale immaginato di comunità che non conosce alcuna differenza”. Essere dentro questi “luoghi senza luogo” è condizione sufficiente per ignorare la diversità dell’altro, almeno per il periodo in cui l’individuo è al loro interno. Si tratta di spazi aperti alle diversità provenienti dall’esterno e allo stesso tempo purificati da quelle presenti all’interno, dove si realizza “un equilibrio pressoché perfetto fra libertà e sicurezza”. Rifacendosi a Lévi-Strauss, Bauman afferma che la strategia di gestione della diversità perseguita al loro interno è di tipo “antropofagica”, basata cioè sulla ‘fagogitazione’ dell’alterità, sulla sua ingestione e metabolizzazione in modo da annullarne la diversità. Se il primo spazio puntava, dunque, ad esiliare lo straniero, il secondo tende invece a neutralizzarlo. Queste due misure si rendono necessarie perché gli spazi considerati sono pubblici, ma non civili. Sono cioè luoghi in cui non si adotta la “buona creanza” per far fronte alla possibilità di incontrare l’estraneo. Queste strategie puntano, in conclusione, non all’acquisizione di questa arte di convivere, ma al suo annullamento, tendono cioè a farla diventare irrilevante. Il terzo tipo di spazio pubblico non civile della società liquida è il “nonluogo”. Quest’ultimo si caratterizza per l’assenza di ogni simbolo di “identità, relazione, storia”. Condivide l’inospitalità della prima tipologia, ma a differenza di quella non può che accettare “l’inevitabilità di una sua

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frequentazione” e di fronte a questa evidenza adotta la strategia tipica dei centri commerciali: azzerare le diversità di chi lo attraversa indicando a tutti norme uniformi di comportamento. “Chiunque si trovi lì deve sentirsi a casa propria, ma nessuno deve comportarsi come a casa propria”. Alcuni esempi di non-luoghi sono gli aeroporti, le autostrade, gli autogrill, le stanze d’albergo. L’ultima categoria di zone urbane descritta da Bauman sono gli “spazi vuoti” ovvero spazi privi di un significato. Si tratta delle aree escluse dalle mappe della città perché poco promettenti e insignificanti. Tuttavia, puntualizza Bauman, queste zone non possono essere considerate superflue. Scopo della loro esistenza è dare senso a tutti gli altri luoghi cittadini. “La vacuità del luogo è negli occhi di chi guarda e nelle gambe o nelle ruote di chi procede. Vuoti sono i luoghi in cui non ci si addentra e in cui la vista di un altro essere umano ci farebbe sentire vulnerabili, a disagio e un po’ spaventati”18.

2. La sociologia dell’erranza in Maffesoli 2.1 Il nomadismo Pochi autori ne parlano esplicitamente, altri lo citano, ma il nomadismo pervade tutta la riflessione sul postmoderno. In forme diverse e in ambiti diversi l’“erranza” è uno dei caratteri principali dell’epoca contemporanea19. Dalla filosofia all’arte, dalla letteratura all’architettura, la parola chiave è “citazione”. E cos’è la citazione se non il cosiddetto “nomadismo teorico”, viaggiare nella storia come se fosse un database? Michel Maffesoli, sociologo francese, ha dedicato a questo concetto un saggio intitolato proprio Del nomadismo. L’autore afferma che lo spirito nomade affiora solo quando la società è pronta ad accoglierlo: l’uomo è per sua natura errante e molteplice, ma in alcune epoche queste caratteristiche sono state represse per rincorrere il sogno della stabilità e dell’ordine del mondo. Nell’era moderna, per esempio, si sono esaltati valori quali l’individualismo e l’affermazione personale a scapito della tendenza naturale al non radicamento; nel postmoderno riemerge la tendenza al nomadismo. Per definizione il nomadismo è uno stile di vita di popolazioni non sedentarie, caratterizzato da spostamenti periodici o 18

M. Maffesoli, Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, Angeli, Milano 2000, p. 116. Gli spazi vuoti infatti, per Maffesoli, sono anzitutto spazi vuoti di significato. 19 Il ritorno della pulsione di erranza in tutti i campi, sostiene Maffesoli, richiama l’impermanenza di tutte le cose. M. Maffesoli, Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, cit., p. 35.

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ciclici. Il nomadismo è legato alle economie fondate sulla pastorizia, sulla caccia e sul raccolto. Tutti i gruppi umani furono nomadi fino al Neolitico, quando, con lo sviluppo delle tecniche agricole, iniziò un diffuso processo di sedentarizzazione. Il termine “nomade” (dal greco nomas, “chi si sposta per cambiare pascolo”) viene riferito a realtà molto diverse sul piano storico, geografico, economico e culturale. Con il nomadismo tutto il mondo apparteneva all’uomo, non esistevano confini di sorta, ci si spostava seguendo i percorsi delle mandrie di animali selvatici, si praticava caccia e pesca là dove esisteva una selvaggina relativamente sufficiente. Per il resto si viveva di bacche, radici, frutti. Con lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento il mondo viene suddiviso in forme di proprietà appartenenti a determinati clan o tribù, fino alle comunità di villaggio. I confini sono inevitabili. È il prezzo del relativo benessere. In questo modo, le tribù possono anche diventare nemiche, specie se una è dedita più all’agricoltura che all’allevamento e l’altra più a questo che a quella, o se addirittura una è dedita ad attività stanziali e l’altra pratica solo il nomadismo. Questa concezione implica già uno svolgimento di rapporti sociali interni alla tribù, il che ovviamente presuppone una differenziazione nella gestione della proprietà. Se all’interno di una tribù esiste la possibilità di schiavizzare qualcuno, allora esiste anche la possibilità di trasformare una parte della proprietà pubblica in proprietà privata. Le persone che ne restavano fuori venivano considerate da tutti i membri della tribù come persone di seconda categoria, i cui diritti erano limitati. Oggi il nomadismo è presente nella società ed è riconosciuto. La tecnologia e il progresso che nel Neolitico bloccarono lo stato di nomadismo dell’umanità, oggi ne facilitano la ripresa. L’individuo tende ad uno scopo altro e, dopo aver ottenuto ciò che voleva, continua a cercare, perché quello che ha raggiunto non era ciò che desiderava. Essere in un luogo e sognare l’altrove, all’infinito20: questa è la condizione dell’uomo odierno. Una eterna insoddisfazione, che però genera momenti di alto piacere: attimi che racchiudono l’essenza della vita, ed è per questi attimi che l’uomo postmoderno vive. Nella società contemporanea è difficile isolarsi dal mondo, ma è facile diventare anonimi nella massa. Ai giorni nostri è sufficiente passeggiare in una metropoli per diventare perfetti sconosciuti, essere nella propria città, ma sentirsi stranieri. Il paradosso di cui parla Maffesoli, si riassume nel “viaggiare intorno alla propria camera”. La vita che si fonda sull’ossimoro del “radicamento dinamico”; ovvero del partire dalle radici per viaggiare. 20

Per Maffesoli, il desiderio di erranza può essere visto come “sete dell’infinito”. Ivi, p.

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Maffesoli lo ribadisce più volte, c’è bisogno dei limiti per poterli superare e quindi c’è bisogno di un punto da cui partire. Come a sottolineare che l’uomo senza radici non esiste. Secondo il sociologo francese, la condizione del nomade, propria di ogni uomo, è la migliore per vivere pienamente. Non essere legati, anzi rompere i legami per sentirli più forti, ci permette di comportarci naturalmente con tutte le persone che incontriamo nel nostro errare. L’apertura mentale è conseguenza dell’erranza e viceversa. Non una prevalenza dell’istinto, ma una “disindividualizzazione”, ovvero generalizzazione dell’individualità; il risveglio delle virtù primarie dell’animale sociale. L’unica cosa che permane nel passare del tempo è il corpo, involucro, spesso inadeguato, che di volta in volta si adatta ai cambiamenti dell’anima di chi lo abita. La provvisorietà, la caducità delle cose è riconosciuta dal postmoderno; e contrariamente a quanto si faceva nell’epoca moderna, oggi la realtà si accetta così com’è senza rimpiangerla (nichilismo reattivo), ma sfruttandola al massimo (nichilismo compiuto). Lo spirito che anima l’uomo postmoderno, quindi, se vogliamo, è quello del carpe diem oraziano. Ogni momento è unico e irripetibile, bisogna viverlo con intensità affinché ci regali piacere. La condizione corrispondente al nomadismo produce delle trasformazioni importanti nei legami sociali. Già in Simmel l’essenza del sociale è fluidità, circolarità, eterno divenire. La solitudine, e non l’isolamento degli erranti produce una sincera solidarietà con coloro che si incontrano, nelle tribù ebraiche primitive e nelle corporazioni medioevali. Paragonato all’addomesticamento dell’epoca moderna, il Medioevo si costruisce sulla mescolanza, il movimento, il dinamismo. Sesso, abitazione, educazione, lavoro restano ambigui, polisemici, aperti all’avventura e non hanno la stabilità e la delimitazione propri del mondo moderno. L’incontro tra individui nella “causalità oggettiva” crea una certa corrispondenza mistica, dice Maffesoli, che svanisce quando le strade si dividono, ma che è forte più di un legame naturale. Insomma, per Maffesoli, si può parlare di una solitudine che favorisce l’integrazione nella comunità, una solitudine che non rimanda all’io empirico, ma “all’essere originale di cui ognuno fa parte”. Infatti, soltanto essendo liberi, si può comunicare, entrare in corrispondenza, vivere una connessione con il mondo sociale21. Nell’epoca contemporanea prevalgono i gruppi univincolati o secondari (Sorokim), ovvero quegli insiemi di persone legate solo da interessi comuni, che di solito non si conoscono personalmente. La frammentazione dell’esistenza è particolarmente accentuata anche a causa delle rivoluzioni tecnologiche; a partire dai trasporti, fino 21

lvi, p. 75.

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alle nuove forme di comunicazione. In questo mondo, l’io cerca di esprimersi nella sua molteplicità. Oggi è normale avere più case o più sedi di lavoro, il viandante non è più, come scrisse Platone “l’uccello migratore” che “deve essere accolto, ma solo al di fuori della città, non deve portare cambiamenti all’interno”. Le cause del nomadismo vanno ricercate non nel bisogno economico o nella pura funzionalità ma nel desiderio di evasione e di esperienze molteplici.

2.2 Il glocale L’uomo postmoderno vive in uno spazio glocale, o di “trascendente immanenza”; egli è in un posto e in tutto l’universo, il luogo è la sua base, il nonluogo la sua aspirazione; anche se si sposta solo a livello cognitivo, c’è una certa contingenza del sociale che è in continuo divenire. Maffesoli fa l’esempio del popolo ebraico. Gli ebrei sono costretti alla diaspora da generazioni, per questo vivono in un a-topos, ovunque si trovano continuano ad essere un popolo, mai radicati ma sempre integrati. Secondo Maffesoli, Simmel descrisse esattamente la condizione dello straniero nella società22, che sostanzialmente combacia con quella del nomade postmoderno. Lo straniero è utile ma resta fuori dalla porta; si trova in un continuo collegarsiscollegarsi con la società. La metafora usata da Simmel, ripresa da Maffesoli, è eloquente; il sociologo parla di “ponte” e di “porta”. Il viandante entra in contatto con una comunità attraverso il ponte; con essa instaura rapporti pragmatici con indifferenza e impegno proprio perché non ha legami. Una volta svolto il suo compito, dietro di lui si chiudono le porte della città, perché la sua condizione lo esclude dalla sovranità territoriale. In fondo, però, la vita è causa ed effetto della circolazione; gli scambi tra individui sono la vera ricchezza della società e, poiché la comunicazione può esserci solo quando c’è diversità, diventa necessario dare spazio alla molteplicità. Uscire da sé per incontrare gli altri: è questo secondo Maffesoli, il significato primo dell’ex-sistenza. Mettersi in continua relazione e intraprendere baratti con chi ci circonda. Lo straniero oggi è ciascun cittadino nella sua città; dunque tutti siamo potenzialmente nuovi nomadi, stranieri a noi stessi. Nella quotidianità entriamo in contatto con altri individui che un momento prima e un momento dopo sono semplicemente estranei, lontani; ma che sono parte del nostro mondo. Ai nostri vicini in questo modo dedichiamo 22

Cfr. G. Simmel,. Sociologia, Comunità, Milano 1989. Simmel in particolare associava gli estranei ai commercianti.

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una faccia della nostra molteplice essenza; la sfera che in quel momento ci ha permesso di entrare in contatto con loro, grazie, secondo Maffesoli, “all’arcaismo dell’avventura”, cioè alla capacità innata di immergerci in ogni situazione e imprevedibilmente lasciarcela alle spalle. Come ricorda Husserl, citato da Maffesoli, gli uomini sono essenze morfologiche vaghe, “inesatte”, né casuali, né causali, cangianti e mutevoli, “schizofrenici” (Jameson); nella maggior parte dei casi il cambiamento e la parcellizzazione della propria esistenza è vissuta con straordinaria euforia, ma può capitare di soffrire per questa condizione. L’erranza, infatti, può essere frutto di lacerazioni e inquietudini, e la ricerca della qualità può diventare un vagare senza senso. Per questo, ribadisce Maffesoli, senza radici non si può essere nomadi, altrimenti la “pienezza del vuoto” si trasforma in “eterno stato di bisogno”. Senza la suola che poggia saldamente a terra non può esserci la scarpa che stacca il piede dalla fissità del locale. Oggi si assiste al fenomeno per cui le frontiere ormai sono elettroniche, e i confini nazionali sono facilmente oltrepassabili. Ultimamente l’Unione Europea è stata allargata a nuovi membri, segno, oltre che di mutamenti politici, della smaterializzazione degli stati-nazione. La società contemporanea si nutre di nuovi culti e nuove tendenze; a parte le parentesi new age e nuove spiritualità, oggi si parla di “cultura del cammino” (tipica del Giappone). Grande successo hanno, infatti i riti dei pellegrinaggi, per esempio quello a Santiago de Compostela. Camminare per allontanarsi dalle preoccupazioni e contemporaneamente partire per guarire i mali dell’anima. Perdersi per ritrovarsi, allontanarsi per avvicinarsi. Quasi una dilatazione del tempo e dello spazio per godere al massimo la libertà dai vincoli. Si procede lungo il cammino, proprio come l’homo viator del Medioevo, per incontrare sconosciuti e sentirsi accolti, per riscoprire lo spirito unificante della razza umana. “Luogocentrismo orientale” e non “egocentrismo occidentale”. Non a caso nel postmoderno si è diffusa una certa ‘orientalizzazione’ della società. L’uomo si butta su altre religioni, proprio per autenticare lo stato di erranza che la società contemporanea sta vivendo; ci si avvicina ai culti orientali per dare un senso alla propria ricerca. Il Buddhismo è sempre più diffuso, perché riconosce che il cambiamento e l’erranza sono insite nell’uomo; lo stesso Buddha è venerabile in una multiforme natura, ha, infatti tre corpi. Anche i tradimenti e i divorzi rispecchiano la vittoria della natura schizofrenica dell’uomo su quella razionale imposta durante l’epoca moderna. Gli uomini hanno desiderio e opportunità di cambiare posizione quando vogliono. Sostanzialmente è lo stile di vita che è diverso. Maffesoli parla di “tropismo”, movimento di un organismo determinato dall’azione di uno stimolo esterno, ovvero del mondo, ovvero degli altri. L”‘eteronomia”, la

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dipendenza da leggi esterne alla volontà del soggetto, è il criterio che domina l’erranza dei nomadi. Quasi una “legge dell’imitazione” (Tarde), ma non esattamente così. Certamente è l’errante ad adattarsi all’altro che detta le regole, ma l’annullamento di sé da parte del nomade è attivo e consapevole. Il viandante si affida volontariamente nelle mani del suo prossimo. Tutto ciò segna la fine dell’individualismo, perché il sistema sociale fondato sull’individuo è saturo. La modernità ha portato al nomadismo. Il bisogno latente è esploso, e la volontà è prevalsa sugli obblighi. La società traccia dei percorsi definiti, l’uomo moderno li seguiva, quello postmoderno allontana la sua deambulazione dalle strade obbligatorie.

2.3 Homelessness e rootlessness: senza casa e senza radici Maffesoli elegge il postmoderno ad epoca pronta ad accogliere il nuovo nomadismo. Il sociologo afferma più volte che la natura umana è sostanzialmente nomade e che l’epoca moderna l’ha repressa; infatti nella modernità non c’erano i nomadi ma gli emigranti. Prescindendo dalla disputa intorno alla datazione del moderno e del postmoderno, alla fine dell’Ottocento e fino alla Seconda guerra mondiale milioni di persone, soprattutto europei emigrarono (e questo può intendersi come primo passo della fine dell’eurocentrismo) negli Stati Uniti d’America. La loro fu una vera e propria fuga, fatta forzatamente e con difficoltà; giunti a destinazione gli immigrati non si adattavano subito alla cultura ospitante, ma tendevano ad aggrapparsi ai valori “domestici”. Come scrisse anche Simmel, i ghetti non sempre sono imposti, spesso vengono creati dagli stessi ospiti per formare una piccola casa in patria straniera. Così per esempio hanno fatto gli italiani negli USA, si pensi a Little Italy, famoso quartiere newyorkese. Si trattava dunque ricreare il proprio habitat perché consapevoli dell’impossibilità, soprattutto per ragioni economiche, di ritornare al punto di partenza. I nuovi nomadi, come i ‘vecchi’, invece tendono alla decostruzione di ogni senso di identità fissa. Il nomadico è affine alla “contro-memoria” (Foucault), una forma di resistenza all’assimilazione o all’omologazione. Il nomade non ha destinazioni o patrie perdute e non si conforma a nessuna simbologia predefinita. È la sovversione delle convenzioni stabilite che definisce la condizione nomadica, non l’azione puramente fisica del viaggiare. Il nomade è letteralmente un viaggiatore “spaziale” che, di volta in volta, costruisce e smantella gli spazi in cui vive prima di procedere nel viaggio. Un viaggio che oggi è più virtuale che reale; le cosiddette ‘autostrade informatiche’ permettono di spostarsi a velocità impressionanti nel cyberspazio. L’esempio più eclatante è la rete di

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Internet che teoricamente collega tutti i computer del mondo. Il percorso nei siti, come quello nei paesi, può avere anche uno schema ripetitivo, ma non ha un traguardo definito e deciso. Homelessness e rootlessness, senza casa e senza radici. L’opposto del turista, l’antitesi dell’emigrante, il viaggiatore nomadico è interessato soltanto all’atto dell’andare, dell’attraversare. Il nomadismo è una forma di divenire continuo, è un insieme di trasformazioni senza prodotto finale. I soggetti nomadici seguono mappe per la loro stessa sopravvivenza; come ci ricorda Maffesoli infatti, l’errante sceglie consapevolmente di vivere in uno stato nomadico. Oggi i nuovi nomadi con l’erranza soddisfano uno dei bisogni primari dell’uomo. “Sopravvivere” per i nuovi nomadi non significa arrivare a stento alla fine del mese, ma vivere oltre; oltre i confini, oltre i legami, oltre il conformismo. Di qui l’importanza del “visitare” come il tentativo di condividere la stessa collocazione radicata. Questa modalità del “visitare” è esattamente opposta rispetto alla pratica consumistica della percezione dell’“altro” attraverso il posizionamento del soggetto come turista. La “visita” è uno scambio che richiede responsabilità e interesse. Secondo Maffesoli il nomadismo è un ritorno al premoderno, quasi saltando l’era moderna, che è riemerso adesso anche grazie alle potenzialità delle nuove tecnologie. L’epoca che viviamo ora è caratterizzata dalla rapidità, in tutti gli ambiti dell’esistenza. Tutto deve essere fatto velocemente. Il tempo è diventato il bene più prezioso, quello che tutti inseguono. Il dinamismo è esaltato dalle nuove tecnologie che ci hanno abituato all’immediatezza e alla fugacità dei contatti. L’uomo postmoderno è come il nomade alla ricerca di frutti, a cui lo paragona McLuhan, ma non alla ricerca della natura, bensì della cultura, ovvero di ogni produzione umana. Lo strumento privilegiato per questa operazione è certamente la tecnologia, che ci ha aiutato a superare i confini e le barriere, fino a formare un “rizoma” ovvero un insieme di diramazioni e collegamenti, una rete senza centro. Sulle sue direttive ognuno può errare, seguendo la danza che la sua volontà gli suggerisce. Un campo dove l’erranza diventa un modus operandi per vivere le sfaccettature dell’io. La società attuale ha bisogno di individui differenziati che siano tra loro a “distanza vincolata”, autosufficienti, ma anche in qualche modo dipendenti. Maffesoli immagina che il mondo sia una grande famiglia all’interno della quale sono obbligatorie le “dissomiglianze”. Lo stile di vita dell’uomo postmoderno potrebbe sembrare irresponsabile e privo di valori. Si è parlato di libertà sessuale, di ricerca del piacere, di amori passeggeri. Non sempre è così; Maffesoli afferma che il nuovo nomade non ha altra intenzione che quella di vivere la sua ex-sistenza, rispondendo ai bisogni della sua vera natura, oscurata dall’epoca moderna. È l’insoddi-

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sfazione che spinge all’erranza e alla variazione. L’homo viator si spinge al di fuori dei confini in cerca di piacere, fino a capire, continua Maffesoli, che tutto è relazione. Solo dividendosi ci si sente uniti, accogliendo il viandante come un fratello. È questa la base per abolire il razzismo. In realtà l’uomo va sempre alla ricerca di un sistema, di una struttura, che però sia instabile e fluttuante, per riscoprire quotidianamente e con sorpresa la novità degli affetti e delle relazioni, esaltando i piccoli momenti di un presente sempre rinnovabile. Il pensiero postmoderno sa che tutto torna e che non ci sarà mai niente di nuovo sotto il sole, per questo mantiene la realtà in una forma di perenne incompiutezza, dando valore a ciò che prima non lo aveva. Perit ut vivat. Morire e rinascere continuamente, per sopravvivere al territorio, finché non si arriva al porto, si prende coscienza e si riparte.

2.4 Sociologie della postmodernità a confronto: Bauman-Maffesoli Michel Maffesoli e Zygmunt Bauman si citano a vicenda quando parlano del ruolo e della figura di chi si occupa di sociologia oggi. Bauman ricorda che il sociologo deve assumere la modalità del “radicamento dinamico” (di cui parla Maffesoli) tipica del nomade che viaggia di luogo in luogo, reiterando l’“autodistanziamento” per continuare la sua erranza23. La sua condizione è simile a quella dell’esiliato che si trova in un posto ma non ne fa parte, che ha più case ma non una patria, e questa distanza e intimità insieme permettono la riflessione sulla condizione umana. Contemporaneamente, però, il sociologo deve riuscire a coltivare il pensiero, attività che richiede pause e riposo, e dunque distaccarsi dall’imperativo dell’individuo postmoderno di correre alla massima velocità. Dal canto suo Maffesoli, richiamando una definizione di Bauman, preferisce parlare di “sociologo della postmodernità” piuttosto che di “sociologo postmoderno”. C’è un appello rivolto ai sociologi, al relativismo, ad abbandonare i dogmatismi e le pretese dei concetti, e a rivolgersi all’“umiltà delle cose”. Il sociologo non è “chiamato ad ‘essere postmoderno’, ma a utilizzare come leva metodologica la nozione di postmodernità, per comprendere le relazioni e i fenomeni sociali allo stato nascente”24. Nonostante la citazione reciproca, gli esiti che raggiungono le teorie dei due autori sono di natura alquanto differente. A partire dalla nozione di ‘socialità’, che sostituisce quella di società, abbiamo già detto che, per Bauman, si tratta del gioco dialettico tra libertà dell’individuo (il 23 24

Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 247. M. Maffesoli, Note sulla postmodernità, Lupetti, Milano 2005, p. 42.

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fai-da-te) e dipendenza dall’habitat. Al contrario per Maffesoli il termine designa l’orientamento verso l’altro, struttura essenziale di tutta la vita sociale. La socialità sviluppa la congiunzione tra ragione e sensibile: l’esperienza dell’altrui, del suo vissuto attraverso il mio è il substrato dell’essere-insieme, condiziona i diversi investimenti nel quotidiano. In funzione della prossimità, a partire dall’esperienza vissuta, si costituisce il ‘gruppo’, oggetto d’analisi della sociologia di Maffesoli: un “noi fusionale” cui si aderisce per ideologia, per protezione o per associazione in vista di uno scopo. Maffesoli critica duramente quello che definisce il mito moderno dell’individualismo, che si perpetua ancora oggi, un concetto dai contorni indefiniti che viene utilizzato come deus ex machina per risolvere la complessità della situazione in cui viviamo. Così facendo si chiudono gli occhi di fronte all’evidenza che la vita è fatta del contrario dell’individualismo: sono le aggregazioni in folle che scandiscono la vita sociale. Esempi a questo proposito si possono ritrovare in vari ambiti: per gli assembramenti musicali, rave e techno-parade, per le comunioni religiose, le giornate mondiali della gioventù (a Roma come a Parigi), per lo sport, i mondiali di calcio, senza dimenticare i nuovi templi contemporanei: gli iper e supermercati, con i saldi, le loro ‘giornate di festa’ legate al consumo. In queste situazioni, l’individuo razionale e padrone di sé è assente, c’è una dinamica del perdersi nell’altro, una sorta di forma di trance. “Se l’ideologia individualista della modernità vede la sovranità della ragione, unico e uniformante collante sociale, l’epoca postmoderna invece è fatta di affetti, di sentimenti, di eccessi che riescono a dirigerci più di quanto riusciamo a dirigerli”25, dalla ‘pancia’ e dalle sue voglie più che dal ‘cervello’. Proprio i sentimenti più istintuali ed isterici che erano stati espulsi dalla pubblica piazza vi ritornano con insistenza: qui si celebrano nuovi riti dionisiaci, simili a quelli della civiltà greca e ai carnevali del Medioevo, che servono a integrare questa isteria in un equilibrio armonioso. Il nuovo modo di emanciparsi, la vera ribellione, “si esprime nelle effervescenze sportive, negli ambienti emozionali, in tutti gli assembramenti eccessivi in cui l’individuo si perde nella tribù”26; in questa ultima vi è una tale intensità ed eccitazione che fa sì che nessuno possa esistere se non nello sguardo dell’altro. Il nuovo legame sociale è fondato sull’emozione comune che pervade tutta la “tribù” postmoderna, che, senza

25

Ivi, p. 97. Ivi, p. 98. Maffesoli parla qui del “divenire moda del mondo”, parafrasando Martin Heidegger che ci mette in guardia dal “divenire immagine del mondo” in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 71-101. Maffesoli tuttavia non condanna ciò, ma ritiene che possa fare emergere una nuova cultura, un nuovo modo di essere-insieme. 26

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proiettarsi nel futuro, evitando l’allontanamento della gratificazione tipico del moderno, vive potendo gioire il più e il meglio possibile, del mondo che “si dà a vedere e a vivere”27. Anche Bauman parla del mito dell’individuo che ha guidato l’epoca moderna. In nome della liberazione dell’individuo, si sono progressivamente indebolite le strutture tradizionali e comunitarie, perché gli uomini potessero creare il proprio destino nel contesto affidabile e stabile dell’ordine. Ma l’indebolimento, la liquefazione delle strutture solide, rende difficile agli individui liberi trovare un fondo stabile in cui re-incagliarsi, su cui basare la costruzione della propria identità. Da qui scaturisce un profondo senso di incertezza, non certo un nuovo sentimento di comunione con gli altri. Anzi, le reti di sicurezza del proprio ambiente sociale e familiare sono ulteriormente indebolite dalla nuova prassi delle relazioni interpersonali, penetrate dallo spirito dominante del consumismo. In quest’ottica l’altro è un’eventuale fonte di esperienza piacevole, i legami generati dall’altro incorporano le formule “fino-a-ulteriore-avviso” e “revocabili-a-piacimento”. Come gli acquisti coi diritto di recesso, così la relazione con gli altri non comporta la concessione e l’acquisizione di diritti e obblighi che durino oltre la soddisfazione del cliente28. Contrariamente a quanto sostenuto da Maffesoli, nel pensiero di Bauman, gli spazi pubblici non diventano il luogo di rituali isterici in cui l’individuo si perde nella tribù, ma vengono privatizzati, non collettivizzati. In un mondo in cui l’incertezza riguarda i fini più che i mezzi, l’individuo è attratto da ogni tipo di consiglio o soluzione pragmatica che potrebbe aiutarlo a risolvere i suoi problemi. Così l’agorà viene invasa da problemi privati (uguali ai nostri) di personaggi pubblici, legittimandone il dibattito in pubblico. La sfera pubblica viene ridefinita come palcoscenico di commedie private, e l’interesse pubblico altro non è che il diritto di assistere alla rappresentazione. I temi della “politica della vita” portati alla ribalta, non hanno affatto un carattere collettivo: anche se così pubblicizzati questi problemi sono privati, e in privato ognuno ha la responsabilità di risolverli. Il motto che anima tutti questi esempi di vita e ricette di esperti è do it yourself. Una miriade di consulenti (agenzie) ci propone un’infinita gamma di valori, tra cui è nostra responsabilità esaminare, vagliare, scegliere. Non si tratta d’altro che d’applicare la modalità dello shopping alla nostra politica della vita. 27

Ivi, p. 99. Z. Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, cit. p. 236. Questi legami – afferma Bauman – non promettono né la concessione, né la acquisizione di diritti e obblighi. Inoltre la presenza e permanenza delle comunità diventano mercato-dipendenti, come tali, capricciose e imprevedibili. 28

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Siamo invitati a cercare la nostra strada e a seguire le nostre inclinazioni, ad acquisire la nostra identità attraverso il consumo29. Bauman è molto critico nei confronti del consumismo imperversante. Lo shopping è ben lungi dall’essere una forma di emancipazione attraverso il consumo. Se da un lato nella società dei consumi la dipendenza generalizzata da shopping si presenta come la conditio sine qua non della libertà di essere diversi, è l’articolo di massa lo strumento della differenziazione dell’individuo. L’identità unica e individuale si acquista solo tramite il prodotto che tutti comprano e può essere preservata solo attraverso lo shopping. Si conquista l’indipendenza arrendendosi. D’altro canto si può pensare allo shopping come a una sorta di “rito d’esorcismo”30, che serve a scacciare il senso d’incertezza che pervade l’individuo, a calmare quella sofferenza che non riesce a mettere veramente in comune con gli altri, visto il carattere eminentemente privato di ogni esperienza. Il processo di mercificazione, che fa apparire il mondo come un magazzino traboccante di beni di consumo, è recepito diversamente da chi ha le risorse necessarie per dare libero sfogo ai propri desideri e altrettanto facilmente si può liberare di ciò che non gli dà più soddisfazione, da una parte, e dagli spettatori coatti, incapaci di tenere il passo in questa corsa, e ancor più frustrati nella loro impossibilità di scelta all’interno della spettacolarizzazione di questi valori sugli schermi e nelle vetrine dei negozi, dall’altra parte. Se “lo stesso compito, condiviso da tutti, dell’autoidentificazione, deve essere compiuto da ciascuno in condizioni estremamente diverse, esso di fatto divide gli uomini e fomenta una competizione senza esclusione di colpi, anziché produrre una condizione umana omogenea, incline a generare cooperazione e solidarietà”31. Le divergenze di pensiero tra Bauman e Maffesoli riguardo il sociale si esprimono anche nell’elaborazione di concezioni differenti relativamente ai nuovi spazi e all’uso del tempo. Secondo Bauman, spazio e tempo sono vissuti diversamente dai corpi solidi e dai corpi liquidi. La modernità cerca di sciogliere il legame antico tra la dimensione spaziale e quella temporale per cui raggiungere un certo luogo richiedeva un certo tempo. Con la nascita di mezzi di trasporto sempre più veloci, il tempo diventa un attributo del viaggio, un utensile (secondo il detto: ‘il tempo è denaro’) da usare per tentare di superare la resistenza dello spazio. Grazie a mezzi sempre più rapidi gli Stati poterono perseguire le loro politiche di espansione territoriale, mentre nelle fabbriche fordiste il risparmio e il controllo sul tempo 29

Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, cit., pp. 74 ss. Ivi, p. 85. 31 Ivi, pp. 97-8. 30

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portò a ottimizzare le risorse e aumentare la produzione. Nel tempo della “modernità solida” il capitalismo hardware era ossessionato dall’acquisizione dei mezzi e, nello spazio gigantesco delle sue fabbriche, legava saldamente capitale, management, e lavoro. Tutto ciò, sostiene Bauman, cambia con l’avvento della “modernità leggera”: nell’universo software del viaggio alla velocità della luce, lo spazio è attraversabile all’istante: la differenza tra lontano e vicino è cancellata. Lo spazio non pone più limiti all’azione e alle sue conseguenze, ha perso il suo valore strategico. Per il capitalismo software, mentre il tempo come mezzo di ottenimento del valore tende a raggiungere l’infinito, il valore (di scambio) di un luogo diventa indifferente, e non c’è motivo di preoccuparsi e di investire denaro per assicurarsi il diritto d’accesso a tempo indeterminato a una certa parte dello spazio. La strategia passa dall’accumulazione e dal controllo dello spazio, alla tattica dell’extraterritorialità del capitale, all’istantaneità di adattamento e di fuga del management, che si svincola dall’offerta di lavoro locale32. Da tutte altre premesse si muove il discorso di Maffesoli. A suo avviso il rapporto tra spazio e tempo pende decisamente dalla parte dello spazio. Nell’epoca della fine della storia, in cui non ci si proietta verso un futuro, il tempo viene spazializzato nell’eterno presente, accentuando l’edonismo, la ricerca della jouissance qui ed ora, con l’esacerbazione dell’emozionale e del sensibile. Il legame non è più costruito sulla base di un ideale lontano, ma è il luogo, la comunanza di valori radicati, di cose quotidiane e concrete come la lingua, i costumi, la cucina e i simboli. Si intende infatti come spazio, anche la dimensione del mondo delle immagini, quello spazio di flussi affettivi, estetici ed estesici, colorati, sgargianti e dionisiaci che costituisce il nostro immaginario culturale. Questo legame concreto e spirituale (un “materialismo spirituale”) sarebbe “ciò che sta propriamente prendendo il posto del politico nelle sue diverse modulazioni”33, troppo astratte e disincarnate con la crisi e la frammentazione delle istituzioni sociali. Lo spazio crea la relazione perché funziona come réliance, costituisce la condizione della possibilità dell’esistenza umana a partire dall’esistenza sociale e naturale, permette che, specchiandomi negli altri, io mi riconosca e mi conosca come parte di una comunità che condivide sentimenti ed emozioni. La stessa ricerca contemporanea di religiosità è la nostalgia di un legame tribale, che nell’antichità, come ora, si basa sulla condivisione di un territorio reale o simbolico che permetta la comunione tra i suoi membri. Uno spazio della celebrazione di riti misterici antichi e attuali dove ci si osserva tra iniziati, 32 33

Cfr. ivi, pp. 52 ss. M. Maffesoli, Note sulla postmodernità, cit., p. 52.

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“ci si riunisce, si conosce l’altro e solo in seguito ci si riconosce”34. Maffesoli definisce “Alti Luoghi”, gli spazi in cui si riuniscono le masse, il cui apparente “essere-insieme-senza-scopo” (come l’assistere a partita di calcio, passeggiare in città, bere e chiacchierare in gruppo dopo il lavoro) ha un importantissimo peso emotivo. Dunque il semplice gironzolare in un centro commerciale crea la réliance tra gli adepti del culto del consumo. La comunità si aggrega e disaggrega in una serie di spazi dove celebra un dio locale, non importa quale, poiché risalta il contenitore, lo spazio che crea il legame tra gli iniziati, non il contenuto35. Secondo Bauman, invece, condividere uno spazio, non significa affatto creare un legame tra individui e vivere un’esperienza comunitaria, anzi certi luoghi, come i “templi del consumo”36, permettono una falsa esperienza collettiva. Per Bauman, la folla-comunità è insieme un’idealizzazione e una scorciatoia. Riprendendo le riflessioni di Ritzer e di Augé, il supermercato è un esempio di “luogo dell’altrove” o nonluogo che esiste di per sé, un’isola che non fa veramente parte dello spazio vissuto di una città, né rispecchia i caratteri della vita quotidiana degli individui. È uno spazio purificato in cui le differenze interne, al contrario di quelle esterne, sono addomesticate e igienizzate, e possono essere godute in un equilibrio perfetto tra libertà e sicurezza. Quell’equilibrio che la ‘realtà reale’ esterna non può dare. L’assenza di differenza, il sentimento del ‘siamo tutti uguali’ e ‘non c’è bisogno di negoziare dal momento che la pensiamo tutti allo stesso modo’, fa sì che, all’interno di questi templi, gli acquirenti possono trovare un’apparente scorciatoia per l’aggregazione: una situazione non problematica e ‘data’ che non si verifica mai nella realtà. Si vede o si spera di vedere nella folla una comunità. Questa immagine, tuttavia, è purificata da tutto quello che potrebbe far nascere differenze e conflittualità, un sogno in cui gli individui si rifugiano per codardia, per evitare di avere a che fare gli uni con gli altri37.

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Ivi, p. 80. Gli Alti-Luoghi – per Maffesoli – rappresentano nient’altro che un testo che viene continuamente scritto all’interno del quotidiano. 35 Cfr. ivi, p. 92. “Il contenuto non ha importanza. È in quanto contenente che tutto ciò risulta interessante”. 36 Z. Bauman, La società liquida, cit., p. 108 ss. Qui Bauman utilizza la metafora del “tempio” usata da Ritzer ritenendola assai appropriata. Il tempio del consumo è anche detto simile alla “nave” di M. Foucault, un pezzo di spazio galleggiante, racchiuso in se stesso e consegnato all’infinità del mare. 37 A questo proposito Bauman sottolinea come una comunità fatta di similitudine si possa considerare anche una proiezione dell’amor de soi postmoderno. Dunque nemmeno Maffesoli sembra immune dall’individualismo imperante.

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Maffesoli ammette sì, l’insito carattere chiuso delle comunità-tribù, ma sostiene che le personae circolano tra i diversi gruppi, esercitando in ognuno di essi una delle diverse maschere che formano la pluralità dell’“individuo frammentato”. Egli concepisce la megalopoli postmoderna come un complesso spazio mobile, un immenso Alto-Luogo, mosso da “una sotterranea agitazione multiforme”, il continuo transito delle tribù. Il punto di unificazione tra il travelling (girovagare) delle diverse personae nei molteplici spazi, è che si opera sempre in relazione agli altri, il sito è sempre con-vissuto38. In relazione a questo aspetto, Bauman osserva che la geografia della celebrazione e del loisir non comprende in realtà tutti gli spazi della città. Ci sono luoghi in cui non ci si addentra e in cui la vista di un altro essere umano ci farebbe sentire a disagio. Nelle mappe mentali delle masse impegnate a fare della propria vita un’opera d’arte esistono anche “spazi vuoti”39. Non insignificanti, ma visti come vuoti da chi li sente poco promettenti. Ogni abitante ha infatti una propria cartina geografica, in cui include alcune aree della città e ne esclude altre, dando significatività e brillantezza a ciò che ha scelto. Bauman sottolinea come esistano aree della città che i consumatori in cerca di piacere non visitano mai. Sono abitate da gente che “non è in grado di scegliere chi voglia incontrare e per quanto tempo, e che sperimenta il mondo come una trappola, non come un parco giochi”40. Prigioniere di un luogo da cui non possono uscire, ma in cui altri possono entrare, queste persone cercano di difendere il territorio sotto assedio e reagiscono con rabbia. Tali osservazioni sembrano profetiche visti i recenti avvenimenti nelle banlieues parigine, con i moti rabbiosi provocati dal sentimento d’impotenza delle minoranze ghettizzate. Con l’aumentare dell’insicurezza, cresce la tentazione di riparare nella comunità e di ripristinare vecchi e ‘innati’ confini, come quello dell’etnicità, per togliere problematicità all’incontro con gli altri. Parafrasando una metafora di Simmel sulle “porte” e i “ponti” che connettono e disconnettono i luoghi della città, si può dire che in città abbondino tanto le porte serrate quanto i ponti interrotti. La riflessione sulle contrastanti idee in merito alla postmodernità, può concludersi prendendo in considerazione l’‘ambivalenza’ del termine “vischiosità” (o viscosità), che assume significati opposti nelle teorie di Zygmunt Bauman e di Michel Maffesoli. Maffesoli parla di una positiva vischiosità 38

M. Maffesoli, Note sulla postmodernità, cit., p. 84. Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 114. 40 Z. Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, cit., p. 242. Molti di coloro che vivono nel ghetto possono usare la paura e la rabbia accumulata per evadere, o per trasformare, dice Bauman usando una metafora di Goffman, “la stampella in un bastone da golf”. 39

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del tribalismo41 che tampona il fallimento delle istituzioni (famiglia, lavoro, scuola, politica). Infatti le persone che ‘si perdono’ nella tribù, non solo vivono una comune esperienza estetica, ma entrano a far parte di una comunità solidale e di mutua assistenza, che permette loro di resistere agli accidenti e alle sciagure che l’esistenza può riservare. Ciò che ha in mente Bauman è invece il visquiez di Sartre, una sostanza che può invischiarci facendoci perdere il controllo su noi stessi, l’incubo di un liquido che si rivolta contro di noi, ci si appiccica, ci avvolge, ci risucchia42. La vischiosità è la perdita della libertà. La libertà è sempre relativa e si basa su una relazione di potere: quanto più posso imporre la mia volontà, tanto più sono libero. Dunque la vischiosità è la condizione subita da chi si sente impotente e travolto nel confronto con gli altri. La moltiplicazione dei media e della visibilità non ha regalato la democrazia e l’equa distribuzione della libertà. Tutt’altro. Così, mentre il contatto con gli estranei genera un’esperienza piacevole, esotica e una soddisfazione estetica negli emancipati-attraverso-la-seduzione, gli esclusi, coloro che si sentono dominati, vedono nell’estraneo un attentato alla propria sicurezza, temono di esserne travolti e dissolti. Chi non riesce a competere in velocità e liquidità, infatti ne viene travolto. Chi, in termini analoghi, non ha la possibilità di vivere pienamente la jouissance frenetica della globalizzazione, ne rimane schiacciato e localizzato. Questi meccanismi tendono a perpetuarsi e ad accentuarsi. Bauman sottolinea infatti come sia in corso una costante polarizzazione del potere, con il risultato di arrestare il processo d’individualizzazione per gli oppressi, a cui sono negati i mezzi per costruirsi un’identità e gli strumenti per divenire cittadini.

3. Modernità radicale e globalizzazione. Sulle orme dì Antony Giddens 3.1 Le due fasi della modernità Per alcuni sociologi la modernità nasce con l’Illuminismo. Altri pensano che la modernità si è inizialmente definita in opposizione all’epoca immediatamente precedente, l’antichità. Altri ancora pensano che viviamo in epoca moderna e non postmoderna. Giddens la definisce “modernità radicale”, 41 M. Maffesoli, Note sulla postmodernità, cit., pp. 98-9. Parlando di tribù, in effetti – dice Maffesoli – ci si riferisce a nuove forme di solidarietà. 42 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1984, pp. 608-10, citato in Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, cit., p. 239.

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Beck parla di “tarda modernità”, di “società del rischio” o di “modernità riflessiva”, mentre Bauman la descrive come “modernità liquida”. Il termine modernità, viene utilizzato dal sociologo inglese Antony Giddens per riferirsi “alle istituzioni e ai modi di comportamento stabiliti nell’Europa post-feudale, modi ed istituzioni che hanno accentuato sempre più il loro impatto storico universale”43. La modernità quindi viene identificata con il “mondo industrializzato”, in cui le relazioni sociali sono implicate nell’uso diffuso di risorse materiali e tecnologiche dei processi di produzione. Altra fondamentale dimensione della modernità è quella del capitalismo, ovvero il sistema di produzione della merce che implica sia i mercati competitivi, sia le trasformazioni della forza lavoro. Una forma sociale prodotta dalla modernità, secondo l’autore, è anche lo Stato-nazione, un’entità socio-politica, che possiede forme molto specifiche di territorialità, capacità di sorveglianza e inoltre monopolizza il controllo effettivo dei mezzi di coercizione. Inoltre, un ulteriore aspetto che caratterizza l’era moderna rispetto ad ogni altro periodo precedente, è il dinamismo delle organizzazioni, non per il loro carattere burocratico, quanto per il monitoraggio riflessivo concentrato che esse consentono ed implicano. Secondo Giddens, per comprendere la natura della modernità dobbiamo rompere con le precedenti prospettive sociologiche e analizzare l’estremo dinamismo e la portata globalizzante delle istituzioni moderne che spiegano la natura delle loro discontinuità rispetto alle culture tradizionali. Questo dinamismo deriva da tre fattori: –



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Separazione da tempo e spazio. Mentre nella società premoderna lo spazio coincide con il luogo, con l’avvento della modernità si separa sempre più lo spazio dal luogo, favorendo i rapporti tra persone ‘assenti’ localmente distanti da ogni data situazione di interazione ‘faccia a faccia’. L’aspetto del dinamismo è quindi racchiuso nell’aggregazione e disaggregazione di persone, in contesti locali e globali, che si organizzano razionalmente a combinare tempo e spazio come esperienza mondiale44. Disaggregazione dei sistemi sociali. Ne distinguiamo due tipi. Il primo come creazione di emblemi simbolici quali la moneta, “la prostituta universale” secondo Marx, ovvero il mezzo che permette l’attuazione di transazioni tra agenti separati nel tempo e nello spazio. Il secondo riguarda la natura dei sistemi esperti, questi ultimi intesi come sistemi di realizzazione tecnica o di competenza professionale

A. Giddens, Identità e società moderna, Ipermedium libri, Napoli 1999, p. 20. Ivi, p. 23.

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che organizzano ampie aree negli ambienti materiali e sociali nei quali viviamo oggi. Tutti i meccanismi di disaggregazione, siano essi emblemi simbolici o sistemi esperti, si basano sulla fiducia, che gioca un ruolo fondamentale nelle istituzioni della modernità45. Riflessività della modernità. Nelle civiltà premoderne la riflessività resta limitata alla reinterpretazione, chiarificazione della tradizione. La riflessività della vita sociale moderna consiste nel fatto che le pratiche sociali vengono costantemente esaminate e riformate alla luce dei nuovi dati acquisiti in merito a queste stesse pratiche, alterandone così il carattere in maniera sostanziale46.

Giddens divide la modernità in due fasi: la “early modernity” e la “high modernity”. La prima si riferisce e considera i quattro aspetti istituzionali della modernità (sorveglianza, capitalismo, industrialismo e potere militare). Laddove nella “prima modernità” si trovano alcune tendenze globalizzanti, il sociologo ritiene sia solo con l’aprirsi della seconda fase della modernità, che la globalizzazione inizi realmente a decollare. Globalizzazione, riflessività sociale e diminuzione delle tradizioni sono i tre processi interrelati su cui pone le basi la modernità radicale. L’autore analizza il tema della modernità come un fenomeno a doppio taglio, un fenomeno contraddittorio, a due facce: da un lato offre agli esseri umani opportunità per condurre un’esistenza sicura e soddisfacente, condizioni migliori di qualsiasi sistema pre-moderno, dall’altro presenta un lato oscuro diventato molto evidente nel Ventesimo secolo. Secondo il sociologo inglese, lo sviluppo sociale non si sta allontanando dalla modernità per puntare verso un nuovo ordine. Non siamo usciti dalla modernità, piuttosto siamo entrati nella sua fase radicale: il mondo contemporaneo sta assistendo all’estremo dispiegamento delle contraddizioni e dei nodi critici racchiusi in quella che si potrebbe definire la “prima modernità”. Mentre è andata decrescendo l’idea di una riflessività assoluta e di evoluzionismo, Giddens ritiene che sia la globalizzazione il processo rappresentativo e dominante della modernità radicale. La modernità viene rappresentata con l’immagine di un “bisonte della strada”, di “un mostro di enorme potenza che collettivamente, come esseri umani, riusciamo in qualche modo a governare ma che minaccia di sfuggire al nostro controllo”47. L’immagine proposta mette in evidenza 45

Ivi, pp. 24-6. Ivi, pp. 27-8. 47 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994, p. 59. L’immagine del bisonte della strada lanciato a folle velocità è contrapposta, da Giddens, a quella di un’automobile ben guidata. 46

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l’imprevedibilità, il rischio, il clima di ambivalenza in cui stiamo vivendo. Il carattere imprevedibile della modernità esercita due influenze significative: le conseguenze non volute e la riflessività o circolarità del sapere sociale. Per quanto bene il sistema sia progettato e per quanto efficienti siano i suoi operatori, le conseguenze della sua introduzione e del suo funzionamento non possono essere previste fino in fondo. Tutto questo è dovuto alla complessità dei sistemi e delle azioni che costituiscono la società mondiale. Nelle condizioni della modernità, il mondo sociale non è mai stabile dal punto di vista dell’acquisizione del nuovo sapere intorno al proprio carattere e funzionamento: non possiamo controllare fino in fondo la vita sociale. L’impatto con questo fenomeno porta Giddens a definire “la modernità simile ad un mostro inarrestabile”. Per delineare dei futuri alternativi occorre creare dei modelli di realismo utopico, creando una teoria sociologicamente sensibile e geopoliticamente tattica, creando dei modelli di buona società, e che riconosca che la politica di emancipazione va collegata a una politica di autorealizzazione. Sarà sicuramente difficile seguire questo modello interamente, perché è difficile intrecciare distanza e vicinanza tra la sfera personale ed i meccanismi di globalizzazione ad ampio raggio. Giddens propone un’interpretazione dell’epoca attuale in termini di modernità radicalizzata, prendendo le distanze dalle concezioni relative all’avvento della postmodernità, nata per lo più dal pensiero post-strutturalista. Viene presentato il confronto tra i concetti di postmodernità e di modernità radicalizzata relativi alla dimensione spazio-temporale e al governo della complessità nel volume Le conseguenze della modernità. Da tale confronto emerge che mentre la postmodernità sposa un’epistemologia che si risolve nella complessità, la modernità radicale riconosce gli sviluppi istituzionali che generano frammentazione e smarrimento. La postmodernità si concentra sulla dislocazione, la modernità radicale vede lo smarrimento individuale in relazione con tendenze all’integrazione globale. La modernità radicale rende ancora possibili processi attivi di identità, mentre la postmodernità ritiene che l’io sia completamente dissolto o smembrato. La modernità radicale considera possibile un sapere sistematico, e, al contrario della postmodernità, ritiene che l’impegno politico, possibile e necessario, sia a livello globale che locale.

3.2 La globalizzazione Il tema della globalizzazione dei flussi comunicativi e socioculturali viene trattato ampliamente da Giddens. Partendo da diversi approcci di ricerca e

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da differenti oggetti di analisi, l’autore si interroga sulla natura e sui caratteri della nuova articolazione territoriale generata dall’avvento dei media e offre diverse interpretazioni della posta in gioco della globalizzazione. Insieme al declino dell’evoluzionismo, alla scomparsa della teleologia storica e alla consapevolezza di una riflessività assoluta e costitutiva, la globalizzazione rappresenta per Giddens uno dei tratti dominanti della modernità radicale. Frutto della separazione dello spazio e del tempo, la globalizzazione viene definita come “l’intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti facendo sì che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa”48. La globalizzazione, ben lungi dall’essere intesa da Giddens esclusivamente come un complesso fenomeno economico che porta ad una crescente e rapida integrazione mondiale, è piuttosto definita come quella matassa di fattori economici, sociopolitici, culturali che, nel loro reciproco intrecciarsi e annodarsi, hanno dato e stanno dando adito alla rete di relazioni e rapporti di interdipendenza che contraddistingue la società globale cosmopolita49. Questa rete di relazioni mondiali, attivata fondamentalmente dalla diffusione dell’economia di mercato e dalla tecnologia, sta ora, a detta di Giddens, “ridisegnando” la nostra vita in ogni suo aspetto, come fosse una sorta di combustibile che alimenta la trasformazione ad ogni livello. Quindi “è sbagliato pensare che la globalizzazione riguardi solo i grandi sistemi, come l’ordine finanziario mondiale” – scrive l’autore – “essa non tocca solo ciò che sta ‘fuori’, remoto e distante dall’individuo, ma è anche un fenomeno interno, che influisce sugli aspetti intimi e personali della nostra vita”50. In sostanza i processi di globalizzazione si manifestano come intersezione di esperienze, come intrusione della distanza nel locale. Giddens getta uno sguardo sia alla dimensione macrosociale, sottolineando alcuni processi di mutamento in seno all’ordine economico, politico e sociale globale, sia alla sfera microsociale puntando l’attenzione su alcuni aspetti legati alla vita intima e personale degli individui. Il globale entra nella vita quotidiana degli individui soprattutto attraverso i processi di mediazione dell’esperienza: rivoluzionando le nozioni tradizionali di tempo e 48

A. Giddens, Le conseguenze della modernità, cit, p. 71. Si tratta in realtà, dice Giddens, di un processo dialettico, in quanto gli eventi locali possono anche andare in direzioni opposte rispetto alle relazioni distanziate che li modellano. 49 A. Giddens, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 19-31. 50 Ivi, p. 24. Qui, tra l’altro, Giddens afferma che la comunicazione elettronica istantanea non è solo un modo per trasmettere più velocemente le informazioni, essa cambia la struttura stessa della nostra vita quotidiana.

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di spazio, i media elettronici hanno reso possibile lo stabilirsi di relazioni sociali indipendenti dai contesti locali di interazione. Eventi lontani possono divenire altrettanto o più familiari dell’universo di presenze locali con le quali l’individuo entra quotidianamente in contatto, e la distanza può dunque essere integrata nel quadro dell’esperienza personale. Ne esce un quadro frammentato, complesso e articolato entro cui Giddens si muove con sicurezza enunciando la necessità di andare incontro al ‘globale’ apportando nuove e consapevoli trasformazioni in seno alle vecchie istituzioni. Giddens vede la globalizzazione dispiegarsi in tutte le dimensioni istituzionali della modernità. I processi di mondializzazione investono l’economia capitalistica (estensione dei mercati, creazione di imprese multinazionali e di sistemi a larga scala), il sistema degli stati-nazione (rafforzamento di rapporti geopolitici strategici), l’ordinamento militare (possibilità di estensione dei conflitti a livello planetario, rischio nucleare), lo sviluppo industriale e tecnologico (distribuzione internazionale dei prodotti, creazione di reti tecnologiche planetarie). La globalizzazione si manifesta altresì come processo di unificazione. Attualmente, secondo Giddens, gli individui divengono membri di una comunità globale dalla quale nessuno può chiamarsi fuori. La comunità globale non nasce per effetto di un processo di omogeneizzazione culturale, ma come risultato della presa di coscienza di rischi globali (catastrofi ecologiche, minacce nucleari) e della partecipazione degli individui ad avvenimenti planetari. All’indebolimento del senso di appartenenza alla comunità nazionale corrisponderebbe il rafforzamento di un’identità globale, la cui costruzione sarebbe favorita essenzialmente dai media elettronici. Ma se lo sviluppo di relazioni sociali globali smorza il sentimento nazionalistico, simultaneamente esso può favorire la rinascita dei particolarismi locali e regionali. Il risultato non è per forza una serie di mutamenti che agiscono in direzione univoca, bensì le relazioni tra globale e locale si dimostrano come un gioco tra due forze reciprocamente opposte. Giddens ritiene molto importante confidare nei sistemi astratti con la loro natura riflessivamente mobile che fornisce l’occasione di incontri e rituali che consolidano la fiducia. Il carattere della modernità radicale viene analizzato e concentrato gran parte sulle dicotomie sicurezza/pericolo e fiducia/rischio. Quindi i rapporti di fiducia sono indispensabili ai fini dell’estesa trasformazione spazio-temporale associata alla modernità. Li possiamo così riassumere: fiducia nei sistemi, come forma di impegni anonimi basati su meccanismi del sapere che i profani in buona parte ignorano; fiducia delle persone, che implica degli impegni personali nei quali si cercano degli indicatori di correttezza altrui; reintegrazione, che si riferisce ai processi per mezzo dei quali gli impegni anonimi vengono consolidati o trasformati da quelli

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personali; noncuranza civile, aspetto fondamentale dei rapporti di fiducia nei vasti scenari anonimi della modernità. La fiducia, dunque, viene analizzata in tutte le sue sfaccettature: sia come stato di durevole identità dell’io e sia come stato ottimistico e positivo di relazioni con l’ambiente sociale e fisico. Se la fiducia non viene sviluppata, il risultato è un persistente stato di ansia esistenziale, e quindi uno stato mentale angoscioso e di paura.

3.3 Principi democratici e comunicazione globale Da un punto di vista politico-gestionale ciò che contraddistingue l’epoca moderna è l’affermarsi di principi democratici sia a livello politico sia a livello familiare. A sollecitare la diffusione negli ultimi trenta anni di politiche e modi di fare più democratici è stata, per Giddens, proprio la diffusione della comunicazione di massa. I media, tra cui soprattutto la televisione, hanno contribuito a fare emergere una società dell’informazione globale, veicolando messaggi che giungono indiscriminatamente in ogni casa. Per l’autore, oggi più che mai, i media dovrebbero in modo più consapevole favorire un’ulteriore “democratizzazione della democrazia”. La televisione, soprattutto, dovrebbe abbandonare la strategia di mercato dell’intrattenimento ad oltranza, e istillare negli individui una cultura civica più forte. Altra conseguenza della mondializzazione a livello politico è la progressiva delegittimazione dello Stato-nazione. Lo Stato-nazione, che nell’Ottocento è stato la forma politico-giuridico-economica più significativa, è stato, infatti, in parte defraudato di sue prerogative governative sia dal crescente potere sopranazionale di organizzazioni come l’UE, sia da una crescente delega a province e regioni di rilevanti funzioni gestionali ed economiche. Dalle argomentazioni riportate, si evince come la globalizzazione si dispieghi in tutte le dimensioni istituzionali della tarda modernità rendendo, di fatto, la nozione di famiglia, tradizione, natura, Stato, delle nozioni svuotate del loro significato originario. Ed è proprio in questo scollamento tra la realtà concreta in cui l’individuo si trova ad agire e gli ormai vecchi e non più funzionali modelli di comportamento offerti dalle istituzioni classiche, che Giddens individua la ragione del disorientamento e del disagio dell’uomo contemporaneo. L’uomo postmoderno si trova, insomma, a confrontarsi con un caso di anomia, con un vuoto normativo che si è venuto a determinare a seguito delle rapide trasformazioni politiche, economiche, socio-culturali che sono, ad un tempo, causa ed effetto dei processi di globalizzazione. Giddens rivaluta, anche a partire dal quotidiano, processi possibili di riappropriazione, impegno, integrazione. Allo smarrimento è possibile ri-

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spondere con percorsi strutturati di integrazione, all’anonimato passivo del “villaggio globale” è possibile sostituire identità attive; i sistemi esperti che caratterizzano ormai gran parte delle nostre azioni possono diventare inedite fonti di esperienza di cui appropriarsi. Tutto questo deve però collocarsi all’interno di un progetto politico che sappia coordinare locale e globale. Possiamo percepire i contorni di un nuovo e diverso ordine che è postmoderno, ma che possiede una sua specificità rispetto al significato attribuito dalla postmodernità stessa. La soluzione da porre ai problemi posti dalle trasformazioni in corso, non è, per Giddens, quella di un astorico ritorno al passato o quella di una brusca frenata al progresso verso il cosmopolitismo, quanto, piuttosto, quello di un ripensamento delle forme istituzionali in funzione del nuovo, sia a livello della rappresentanza politica sia a livello civile, con un rafforzamento del senso della democrazia. Pur non trascurando di mettere in evidenza stonature e problematiche inequivocabilmente presenti nei processi globali, prima tra tutte la crescente disuguaglianza tra paesi sviluppati e sottosviluppati, egli si schiera nettamente dalla parte di tutto ciò che è global. La globalizzazione allarga le nostre possibilità di scelta e, più che ‘uniformare’, offre la possibilità di una maggiore libertà d’azione, definisce nuovi modelli di convivenza e alimenta nuovi valori microsociali. La globalizzazione consente, insomma, quel relativismo culturale che solo nei paesi democratici può sussistere e che, un paladino della democrazia come Giddens, non può che auspicare e promuovere.

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II La società del controllo informatico e la sorveglianza dei corpi 1. Società postmoderna e informazione Le conquiste della tecnica hanno in questi anni rivoluzionato il modo di pensare e la convivenza umana. È in atto una rivoluzione epocale, se è vero che le grandi tappe della storia sono segnate dal passaggio dal nomadismo alla stanzialità, quando le tribù nomadi di pastori si sono convertiti all’agricoltura; dall’affermarsi della macchina a vapore che ha sostituito la fatica muscolare umana; dalla comunicazione di massa e ora dall’informatizzazione interattiva, resa possibile dalla combinazione informativa elettronica e telematica, la quale ha aumentato a dismisura l’informazione, modificata la stessa logica razionale e resa possibile la fruizione di mondi virtuali. La realtà non sembra più obbedire solo alle leggi dell’oggettività e ancora meno alle grandi periodizzazioni del passato delle filosofie della storia. Essa è divenuta frutto di infinite soggettività, che di essa si sentono creatrici. A questa esperienza narcisistica si uniscono però anche lo smarrimento per l’impossibilità di controllare le infinite variabili, la conflittualità, l’emergere del potere diffuso ed infine i condizionamenti stessi delle tecnologie usate. L’uomo viene a trovarsi a vivere in una realtà demitizzata, senza certezze e prospettive, in una cultura senza nome, in una parola nel postmoderno. Si assiste ad un profondo cambiamento nella vita e nella società, conseguente ai processi di informatizzazione e di telematizzazione che potenziano le capacità umane, annullano le distanze, offrono precise indicazioni per la programmazione, cambiano sostanzialmente i ritmi e i sistemi lavorativi. Il problema aperto riguarda gli effetti che questi radicali mutamenti producono nella liberazione e nella maturazione effettiva dell’umanità e nelle risposte che essi sono in grado o meno di offrire ai profondi interrogativi dell’uomo. Se cerchiamo di orientare la nostra indagine sull’origine e sullo sviluppo della società e sui cambiamenti radicali conseguenti, vediamo che le scoperte scientifiche sono state ordinariamente, nella storia dell’uomo, fonte di progressiva emancipazione e di sviluppo. La nostra epoca è segnata da un nuovo grande passaggio storico, conseguente alla trasmissione, alla me-

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morizzazione e al recupero dell’informazione tramite i processi informatici e telematici. Oggi, sono superate le invalicabili categorie dello spazio e del tempo: si può entrare in contatto con le informazioni che nel mondo si producono ed insieme si può confrontarle fra di loro e con quelle del passato. Si tratta di una autentica rivoluzione che trasforma radicalmente su scala planetaria il panorama sociale, culturale e politico. L’informazione diviene perciò la nuova ricchezza, il nuovo mercato, il nuovo lavoro, il nuovo potere, il nuovo sviluppo. Introdotta nelle case con la telematica, diventa anche forma alternativa di socializzazione del modo di vivere degli uomini. A sua volta, l’informazione genera nuove povertà, non dovute alla mancanza di beni materiali, ma all’esclusione dai circuiti informativi. A mano a mano che le tecnologie informatiche o dell’informazione si diffondono, scrive David Lyon, “i modelli di lavoro, la vita familiare, gli svaghi, il tempo libero e persino il modo in cui percepiamo noi stessi, in quanto esseri umani, sono tutti destinati a subire importanti trasformazioni. Questo processo di sfaldamento di tradizioni ed assetti sociali ormai dati per scontati è così generale da indurre molti ad invocare il concetto di ‘società dell’informazione’ come griglia interpretativa di quanto sta avvenendo”1. Qualcuno vede in questo rivolgimento socioculturale, chiamato post-industrialismo, l’inizio di una società nella quale l’uomo, emancipato dalla natura, può finalmente fare scelte in piena autonomia, proprio per un potere distribuito capillarmente e per il suo esercizio possibile a tutti. Altri invece parlano di nuova schiavitù a causa di una ‘tecnologia centrale’ nella mani di pochi. Altri infine, più realisticamente, ritengono l’espressione ‘società dell’informazione’ uno slogan che, in un momento di crisi, ha riacceso la tradizionale fede nel progresso tipica dell’Occidente. Lo sviluppo delle nuove tecniche è dovuto principalmente a due fattori, quello militare e quello commerciale, che hanno finito per coinvolgere gli Stati. Alla fine della seconda guerra mondiale si pensò che le società moderne dipendessero in gran parte dalla tecnologia, data l’esperienza esaltante dell’impiego dei radar e dei primi computer, fatta nel conflitto. Furono le guerre successive della Corea e del Vietnam a diffondere queste tecniche, e il programma di voli spaziali a perfezionarle. Si pensò così negli Stati Uniti a un futuro nel quale sarebbe stato possibile combattere le guerre senza uomini, con computer capaci di riconoscere la voce umana, di capire, di ragionare, di co-pilotare carri armati privi di equipaggiamento. Lo scudo stellare (SDI) non è estraneo a questo sogno, e la guerra del Golfo è stata un esempio parziale delle possibilità delle nuove tecnologie. Accanto al 1

D. Lyon, La società dell’informazione, Il Mulino, Bologna 1991, p. 31.

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fattore militare si è posto quello commerciale, che ha internazionalizzato i mercati e resi possibili i servizi a distanza, creando integrazioni verticali ed orizzontali fra le società. L’informazione anzi è divenuta essa stessa la più grande industria con il più grande mercato, data la nuova rilevanza dalle conoscenze sui beni materiali. Alla passata ricerca del possesso della proprietà privata si sostituì così il possesso delle informazioni e il loro controllo. Tali sviluppi finirono per coinvolgere gli Stati, preoccupati di adeguare le proprie difese militari e di sostenere la competitività dell’economia. La tecnologia è stata in quegli anni il motore primario nel miglioramento degli standard di vita e nella riduzione delle disuguaglianze sociali, ed ha creato una ‘nuova classe’ di ingegneri e tecnici, un nuovo modo di pensare funzionale al quantitativo, nuove dipendenze economiche e sociali, una modificazione della percezione estetica del tempo e dello spazio. L’introduzione e l’estensione delle tecniche informatiche e telematiche nel mondo hanno prodotto una vera rivoluzione in tutti i settori, dall’economia alla politica, alla cultura, alla società, all’antropologia. L’economia, è cambiata, sia nei ritmi produttivi sia nei consumi. Il lavoro, in gran parte automatizzato, ha portato l’uomo a funzioni prevalentemente di controllo ed ora sembra prospettare possibilità di decentramento a misura e a ritmi indubbiamente più umani. I mille servizi poi consentono ai produttori e ai consumatori controlli, scelte, forme di scambio molto agili e veloci. Per quanto attiene alla cultura, è indubbio che uno dei caratteri fondamentali della società dell’informazione è la possibilità di ottenere qualsiasi informazione a domicilio. Il computer entra in casa con una ‘interazione amichevole’ attraverso i passatempi, diviene poi l’informatore di ogni cosa e lo strumento per consultare lo scibile umano. Con tecniche raffinate, i libri a loro volta diventano multimediali e interattivi, coinvolgono i lettori, rispondono alle loro domande, offrono loro addirittura una realtà virtuale, sostitutiva della fantasia e dell’immaginario. I problemi sorgono circa la selettività delle notizie, quando si tratta di difendersi dalla cosiddetta ‘informazione spazzatura’, dalla possibile crescita di bisogni artificiali, dall’‘isolamento informato’ e da altri pericoli che sembrano svuotare di risultati qualitativi la grande offerta quantitativa. Dal punto di vista sociale, c’è da osservare che il sistema informatico telematico è per sua natura centralizzato, anche se i suoi servizi sono di massima estensione. Molti autori, perciò, denunciano il pericolo del cosiddetto “totalitarismo elettronico” (Foucault): le persone sono controllate tramite un’ipotetica torre centrale di controllo, secondo l’affermazione “sempre visti, senza mai vedere”, attraverso la carte di credito, le schede telefoniche, i biglietti del traffico, i moduli della sicurezza sociale, le impronte digitali, i registri delle biblioteche e così via. Le nuove

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tecnologie ripropongono il problema del potere, che in passato è stato risolto con la partecipazione critica, e che oggi richiede un’estensione generale, per quanto è possibile, della fruibilità diretta a tutti, di tali strumenti tecnologici, ed insieme la possibilità di poter verificare la trasparenza di una struttura informativa tendenzialmente a carattere monopolistico o oligopolistico. Vi è un nuovo equilibrio dinamico da creare nella società, nella quale sempre meno ha valore un potere centrale e sempre più si affermano reti, nelle quali le capacità di agire insieme diventa una nuova forma di potere. Si impone l’urgenza di una alfabetizzazione telematica, in modo da diminuire il gap fra addetti ai lavori e utenti, fra anziani e giovani. Le notizie colte al volo, di seconda o terza mano rappresentano un serio pericolo manipolativo o di distorsione. Se l’assenza di barriere all’accesso è la prima garanzia di democraticità, l’accesso ai contenuti da parte di tutti diviene l’obiettivo per una società democratica. Nel momento presente, in cui la globalizzazione passa attraverso le vie dell’informatizzazione interattiva, è indispensabile operare affinché non si creino nuove disuguaglianze e nuove forme di dominio. Gli ‘spazi’ del passato, luoghi di sicurezza e di identità come il paese e la casa, si sono rotti e nell’esperienza dello sradicamento affiora il gusto della trasgressione. Ciò consente di vivere in contemporaneità la globalizzazione, ma anche la difficoltà di fare spazio all’alterità, di accettare la diversità, rinunciando sia alla omologazione sia al rifiuto o alla soppressione. Una democrazia è debole se una persona si sente minata nei suoi diritti. Infatti, sostiene Bauman, “piuttosto che rendere omogenea la condizione umana, l’annullamento tecnologico delle distanze spazio temporali tende a polarizzarla. Chi opera nei pressi del potere finanziario (vero motore della globalizzazione) vive l’incorporeità del potere: non ha bisogno di luoghi deputati, è extraterritoriale e proprio per questo può isolarsi (in un nuovo apartheid) dal resto della popolazione che rimane tagliata fuori. La conseguenza è la fine degli spazi pubblici, la creazione di “nonluoghi”, direbbe Augé. Ma la conseguenza più tragica è che l’abolizione degli spazi pubblici implica anche la crisi dei luoghi ove si creano norme, ove i valori sono discussi, negoziati, elaborati. In assenza di luoghi pubblici i giudizi su ciò che è buono/bello/ giusto/utile... possono discendere solo dall’alto, da regioni imperscrutabili, da una élite lontana che non ha lasciato indirizzo di sorta e che rifiuta ogni interrogazione”2. In questa esperienza, ancora una volta si moltiplicano le possibilità, ma vengono meno sia la coerenza, sia il senso dell’agire secondo uno scopo. Potremmo dire che la nuova situazione richiede un supplemento 2

Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma 2001, p. 103.

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di etica, per dare un’anima a un uomo caricato di possibilità e quindi di responsabilità. L’interrogativo più inquietante infine è se l’informatizzazione interattiva modifichi l’uomo stesso, il suo modo di pensare e di agire. Già il diffondersi della comunicazione di massa aveva stimolato nell’uomo nuovi sviluppi antropologici. A parte la suggestiva ed insieme fantasiosa concezione di Marshall McLuhan, che vedeva gli strumenti del comunicare come protesi umane che ingigantivano l’utente3, sono evidenziate alcune tendenziali modificazioni di carattere antropologico: la prevalenza del sistema sensoriale visivo-cinesico su quello orale-uditivo; l’affermazione di relazioni artificiali su quelle interpersonali; il peso argomentativo del sentire sul dimostrare.

1.1 La sorveglianza elettronica: dalla sorveglianza politica alla sorveglianza economica Tutta una serie di consuetudini quotidiane sono sottoposte, che ne siamo consapevoli o meno, a ‘sorveglianza elettronica’: ritirare soldi col bancomat o usare la carta di credito, mandare un fax o fare una telefonata, prendere un libro in prestito in biblioteca, servirsi del telepass in autostrada o della tessera magnetica per affittare i film. In ognuno di questi casi, i computer registrano la scia dei nostri movimenti, consentendo controlli incrociati con altri dati a disposizione degli elaboratori. A questi atti della quotidianità bisogna aggiungere gli aspetti relativi all’uso delle reti informatiche, in cui, come è noto, la trasparenza comunicativa richiesta, di fatto permette anche a controllori di Stato e privati di venire a conoscenza delle nostre opinioni personali e delle nostre abitudini. Il controllo incrociato dei dati (computer matching), ormai prassi abituale di istituzioni governative, di gruppi finanziari e di marketing privati, è parte integrante della nostra vita, con possibili ricadute sui problemi relativi al controllo sociale. Partecipare alla postmodernità significa, dunque, essere sottoposti a forme, più o meno invasive, di sorveglianza. La paranoia antiutopica del Grande fratello sembra prendere nuovamente forza. Al suo fianco, un’altra grande metafora utilizzata in tempi recenti per analizzare un grande numero di contesti contemporanei è quella del Panopticon, il progetto Benthamiano, il cui obiettivo più im-

3

“Con l’avvento della tecnologia elettrica l’uomo estese, creò cioè al di fuori di se stesso, un modello vivente del sistema nervoso centrale [...]. Ogni invenzione in tecnologia è un’estensione o un’amputazione del nostro corpo, che impone nuovi rapporti o nuovi equilibri tra gli organi e le altre estensioni del corpo”. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 41.

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portante è secondo Focault: “Indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicuri il funzionamento automatico del potere. Far sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se è discontinua nella sua azione; che la perfezione del potere tenda a rendere inutile la continuità del suo esercizio; che questo apparato architettonico sia una macchina per creare e sostenere un rapporto di potere indipendente da colui che lo esercita; in breve, che i detenuti siano presi in una situazione di potere di cui essi stessi sono portatori”4. Quella che per Bentham era un’aspirazione, per Foucault è già una realtà sociale. Per lui, il Panopticon incarna la rete disciplinare della società, come la si può notare non solo nella prigione, ma anche nell’azienda capitalistica, nell’organizzazione militare e nella maggior parte delle istituzioni statali. È strano che Foucault non abbia fatto commenti, rispetto all’influenza della disciplina panottica, su come il potere amministrativo sia stato allargato e rafforzato dai computer, soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Eppure, effettivamente, di altro non si tratta che della perfetta applicazione del principio della disciplina tramite ispezione invisibile per mezzo della raccolta di informazioni. Ma il punto è proprio questo: possiamo considerare la sorveglianza elettronica come un potere panottico? Secondo il sociologo David Lyon va dedicata una attenzione particolare al fatto che la società vada organizzandosi secondo il modello del Panopticon, che, distaccandosi dall’originaria sua matrice carceraria, investe l’insieme delle relazioni sociali. “La sorveglianza è ormai la forma propria della società dell’informazione: una sorveglianza pervasiva, che si esercita su corpi profondamente mutati dall’immersione nel fluire delle comunicazioni elettroniche, e che si dirama e si diffonde ovunque, riproponendo il modello del Panopticon”5. Lo schema del Panopticon, istituzionalizza una relazione per la quale i sorvegliati non vedono e non controllano il sorvegliante, determinando così una condizione di permanente assoggettamento del singolo e della generalità dei cittadini, a poteri esterni, pubblici e privati. Di fronte a questa situazione, che in alcuni contesti si presenta già come strutturale, le strategie di contrasto sembrano a più d’uno inadeguate, e si prospettano ipotesi di razionalizzazione, anzi di sviluppo ulteriore della logica della sorveglianza, per andare oltre il Panopticon e scardinare l’assetto dei poteri ad esso legati. Se “la società della trasparenza” è ormai una realtà, l’unica mossa possibile sarebbe quella di sostituire alla sorveglianza ad una via 4

M. Foucault, Sorvegliarer e punire, Einaudi, Torino 1976, p. 223. Citato da S. Rodotà nella Prefazione a D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2002, p. VII. 5

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(sorveglianti-sorvegliati) un potere generalizzato di controllo, reso possibile dalle nuove tecnologie elettroniche e che includa appunto anche quello dei sorvegliati sui sorveglianti. Ma il passaggio dalla sorveglianza mirata a quella generalizzata, le raccolte di dati personali su scala di massa hanno già determinato la trasformazione di tutti i cittadini in potenziali sospetti, di fronte ai poteri pubblici, e l’oggettivazione della persona, di fronte al sistema delle imprese. La conservazione dei dati sul traffico telefonico, sulla posta elettronica, sulla navigazione in Internet è assicurata da soggetti privati, ma soprattutto per finalità di polizia e di giustizia. Le imprese attingono largamente a banche di dati pubbliche per le loro politiche commerciali, per le strategie nei confronti dei consumatori (in Italia sono utilizzabili per queste finalità anche le liste elettorali). Le forme di sorveglianza elettronica a cui siamo sottoposti quotidianamente quindi sono sostanzialmente di due tipi. Da una parte c’è la sorveglianza governativa, insita nello stato-nazione e ulteriormente rafforzata dal suo sviluppo ulteriore, il welfare-state. Una modalità, quest’ultima, che, per garantire diritti diffusi e distribuiti, ha accentuato il processo di controllo e catalogazione. Lo stato-nazione è la formazione che governa le nostre esistenze. Tutti noi alla nostra nascita acquisiamo una cittadinanza e dei privilegi politici, e siamo sottoposti ad una serie di vincoli che ci permettono di esercitare dei diritti. Ci sottoponiamo a determinati doveri, a determinate norme, sapendo che i privilegi che ne riceviamo in cambio sono maggiori rispetto alle limitazioni dei nostri comportamenti. Quello che quotidianamente noi facciamo è cedere parte della nostra libertà in funzione di una stabilità che altrimenti non avremmo. Paradossalmente, mentre il processo di globalizzazione sembra per certi versi mettere in discussione l’esistenza stessa degli stati-nazione, assistiamo ad un processo in cui la raccolta di dati sui cittadini da parte dello Stato tende ad aumentare, incrementando il potere dello Stato stesso. “La sorveglianza un tempo era limitata a questioni che si riferivano principalmente agli affari dello stato e alle attività svolte sul posto di lavoro. In entrambi i casi essa era al servizio di un’organizzazione burocratica [...] ora questi settori sono molto meno distinti e si sovrappongono e intersecano l’uno con l’altro”6. Dall’altra parte, abbiamo una sorveglianza di tipo commerciale. Questa tipologia di controllo è finalizzata al bombardamento commerciale, grazie all’uso intelligente e selezionato di indici economici, statisticamente elaborati in modo tale da produrre categorie sociologiche di acquisto che potranno essere raggiunte con pubblicità mirata e selettiva. Questo è un tipo di sor6

Ivi, p. 81.

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veglianza relativo alla capacità di consumo, che va a comporre dei profili elettronici, una vera e propria immagine digitale fatta di dati (la cosiddetta data-immagine) con conseguenze significative sulle aspettative e prospettive di vita dei cittadini in carne e ossa. I database vengono infatti venduti e rivenduti, tanto da creare un nuovo lucroso mercato. I dati relativi alle capacità di acquisto e consumo vengono incrociati con altri indici (per esempio il quartiere di residenza, il lavoro, l’assicurazione sanitaria ecc.) e quindi utilizzati per concedere fidi bancari e prestiti. Ponendo l’accento proprio su questa seconda forma di sorveglianza elettronica, David Lyon afferma che la metafora del Panopticon non è forse la più appropriata per descrivere il controllo contemporaneo. I metodi coercitivi per il mantenimento dell’ordine sociale all’interno degli stati-nazione capitalistici si sono ridotti fino al punto di assumere un’importanza solamente marginale. “Il semplice potere burocratico non sembra più essere lo scopo dei processi di sorveglianza”, l’ordine sociale viene preservato stimolando e incanalando il consumo e “per quanto molte pratiche di sorveglianza dei consumi possano riecheggiare metodi tayloristici o panottici, dobbiamo riconoscere che il principio-guida dell’ordine consumista è il piacere, non il dolore o la costrizione”7. Il punto di applicazione degli apparati di controllo sociale si è spostato sulla dimensione consumistica, e la divisione della società sembra ormai corrispondere alla ripartizione consumatori/non consumatori. La libertà diventa, per contrasto, libertà di consumo e le associazioni dei consumatori prendono il posto dei sindacati e dei partiti nella tutela degli interessi dei cittadini. Paradossalmente, le poche figure devianti diventano coloro che non consumano: “Il non-consumatore è un potenziale pericolo per gli equilibri sociali basati sulla partecipazione al mondo delle merci, ed è solo verso di essi, verso i poveri, potenziali criminali, che viene esercitato il controllo violento dello Stato, quello che prevede come ultimo stadio la restrizione fisica del soggetto deviante e quindi la prospettiva del carcere, mentre su tutti gli altri il controllo viene esercitato sui comportamenti consumistici e sul grado di partecipazione al mercato degli oggetti e del lavoro che ne consente l’accesso. Quindi occorre riflettere su questo aspetto apparentemente soft del nuovo ordine sociale della sorveglianza. Esso, pur risultando quasi impercettibile ai più – se non addirittura ben accetto – serve pure a perpetuare e accentuare le divisioni sociali. Nella società postmoderna non si può ignorare quanto il consumismo svolga un ruolo fondamentale nel tanto agognato mantenimento dell’ordine; 7

D. Lyon, L’occhio elettronico, privacy e filosofia della sorveglianza, Feltrinelli, Milano 1997, p. 220.

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l’integrazione sociale avviene tramite la dipendenza dal mercato. La gente viene sedotta ed indotta al conformismo dal piacere che trae dal consumo piuttosto che dalle minacce di un Grande fratello orwelliano. Non si tratta più di disciplina morale, come quella di cui parlava Foucault, bensì di disciplina strumentale. La sorveglianza dei consumatori è una forma particolare di controllo, più che esclusiva, inclusiva: la posta pubblicitaria, lo spam (pubblicità spazzatura), le telefonate delle aziende fatte direttamente al consumatore, tendono ad inglobare quest’ultimo, a manipolarne il comportamento in fase di scelte ed acquisti. Dalla pubblicità globale ai teleacquisti, il mercato diventa una rete onnicomprensiva, raggiunge diversi consumatori in tutte le parti del pianeta, riesce ad anticiparne gusti e preferenze tramite analisi di mercato facilitate dalla raccolta di informazioni sulla vita personale degli individui. E i dati stessi del consumatore, dati personali presenti sulle banche dati informatiche grazie all’utilizzo di carte di credito, smart card e fidelity card, diventano un prodotto prezioso per le aziende, un prodotto con un prezzo, identificabile attraverso il data mining8 ed immediatamente mercificabile. Quindi non più soltanto carcere e fabbrica, ma l’intera società, la società dei consumi, delle transazioni, è pervasa dal sistema gerarchico di una perfetta macchina panottica. Un sistema che vede da una parte i consumatori, fin troppo visibili, e dall’altra osservatori ed analisti praticamente invisibili, al di là dello schermo o del cavo telefonico. La vita quotidiana, le attività più banali, entrano a far parte di un processo di osservazione senza soluzione di continuità. Le aziende, in base ai redditi e agli stili di vita, programmano piani di marketing personalizzati in base ai differenti consumatori. Prima c’erano la produzione e il marketing di massa, oggi tutto è più individualizzato. Si tende ad una pubblicità più diretta, a tecniche di vendita personalizzata, con l’aiuto di escamotage come i club e le carte fedeltà, gli inviti mirati, le promozioni pubblicitarie postali, costruite appositamente secondo i gusti del potenziale o già acquisito cliente. Il mercato capitalistico è sempre più guidato dalla domanda, e dall’anticipazione di ciò che può costituire la domanda. Quindi l’azienda, invece di indirizzarsi su un mercato incerto e quindi rischioso, cerca di ‘customizzare’, personalizzare i prodotti, tentando di rivolgersi a nicchie scelte di mercato, in modo da sapere già in tempo cosa il consumatore sceglierà. Le infrastrutture informative, grazie a specifiche applicazioni che si avvantaggiano dei costi 8 Il data mining è un processo di estrazione di informazioni da banche dati tramite l’applicazione di algoritmi che individuano le informazioni e le rendono visibili, con l’obiettivo di selezionare quelle più significative, e renderle disponibili e direttamente utilizzabili nell’ambito del decision making.

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sempre più bassi relativi all’utilizzo di tecnologie informatiche, spingono verso quella che viene definita ‘informazione generata dalle transazioni’. I clienti, o potenziali tali, spesso senza averne consapevolezza, lasciano dietro sé molte tracce, scie dei loro consumi, delle loro preferenze, dei loro stili di vita, tracce elettroniche registrate presso i punti vendita. Alcune aziende utilizzano procedimenti che non hanno bisogno di associare il nome del cliente alle preferenze, poiché la gestione è più semplice. Ma le imprese, sempre più numerose, che utilizzano le carte fedeltà e registrano i dati delle carte di credito, fanno sì che i dettagli relativi agli acquisti siano riferibili all’identità del cliente. Un fattore molto importante, da tenere in considerazione, è che questo è un sistema che funziona grazie alla collaborazione del cliente: dal momento che i consumatori richiedono sempre più attenzione e più servizi, le strategie di marketing delle imprese di successo sono indissolubilmente legate all’utilizzo di un gran numero di informazioni dettagliate sul cliente. E quindi molti sistemi sono innescati dall’azione o dal comportamento dei soggetti a cui i dati appartengono. Azioni e comportamenti che sono tra i più normali e semplici frammenti della quotidianità di ognuno: telefonate dal cellulare, il ritiro di soldi tramite il bancomat, la prenotazione di un viaggio, la spesa al supermercato, l’acquisto di un vestito con la carta di credito. Gli usi commerciali di Internet sopravanzano ormai tutte le altre sue utilizzazioni, e la network society si sta identificando progressivamente con la dimensione commerciale, nella quale sono riconosciuti come diritti soltanto quelli legati alle transazioni riguardanti beni e servizi. L’accento è messo sul commercio elettronico, con spinte sempre più forti a far sì che il cyberspazio sia trasformato in un ambiente asettico, dove i consumatori, adulti o bambini, possano aggirarsi come in un gigantesco centro commerciale, senza che nessuno li distragga dall’attività di consumo, e dove l’interattività sia ridotta ad un perentorio “guarda e compra”. Non è soltanto lo spazio virtuale ad essere trasformato. Anche lo spazio reale, i tradizionali luoghi pubblici – strade, piazze, parchi, stazioni, aeroporti – vengono sempre più sottoposti ad un controllo capillare, scrutati implacabilmente, segnando così il passaggio da una sorveglianza mirata ad una generalizzata. È la stessa logica che presiede alla conservazione, per periodi sempre più lunghi, di tutti i dati riguardanti il traffico telefonico, la posta elettronica, la navigazione su Internet. La nostra vita quotidiana in città è l’espressione congiunta del nostro essere cittadini, lavoratori e consumatori. “I flussi di sorveglianza esercitano un effetto diretto sul paesaggio urbano. Il nuovo potere che si esplica nello spazio dei flussi richiede che la città abbia una certa forma, la quale assume un aspetto concreto in edifici specifici. [...] l’urbanizzazione guidata dal mercato è una violazione del senso

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comune ambientale e sociale”9. Uno dei segni più comuni della sorveglianza è l’occhio elettronico aereo delle telecamere a circuito chiuso, ed è questo l’aspetto più evidente dell’espandersi odierno della sorveglianza, sebbene siano sempre più comuni la miniaturizzazione e l’occultamento. Nelle strade cittadine, soprattutto in Gran Bretagna, le telecamere sono ormai un oggetto comune. Da quelle per la gestione e il controllo del traffico a quelle installate nei luoghi pubblici per far fronte al timore nei confronti del crimine. Le preoccupazioni per la privacy sembrano essersi drasticamente ridotte a causa dello stress per la sicurezza che la telesorveglianza dovrebbe verosimilmente garantire. Stiamo diventando una ‘società trasparente’ in cui la documentazione della nostra storia, della nostra identità, i nostri stati e comportamenti fisiologici e psicologici, è sempre più possibile. La quantità di informazioni sugli individui sta crescendo: le nuove tecnologie hanno il potere di rivelare il non visto, il non conosciuto, ciò che è nascosto o dimenticato.

1.2 Le nuove tecnologie ‘persuasive’ e la questione della privacy Le nuove tecnologie possono sollevare varie problematiche che comprendono l’ingiustizia, l’intrusione, l’assenza di consenso informato, l’inganno, la manipolazione, la possibilità di errori, il cattivo uso della proprietà e la diminuzione dell’autonomia del singolo. La questione della privacy, implicando il controllo dell’informazione personale, diviene quindi centrale rispetto a molte delle preoccupazioni sollevate dalle nuove tecnologie dell’informazione. Un esempio abbastanza inquietante (ma ce ne sarebbero moltissimi altri) riguarda i risultati dei test medici che, raccolti per scopi di diagnostica e di trattamento medico, possono essere venduti o altrimenti ottenuti da compagnie di assicurazioni o da multinazionali farmaceutiche che li useranno per i loro scopi. Negli USA si vendono liste che entrano in dettagli molto personali (naturalmente gli interessati possono chiedere di esserne esclusi). Nuove compagnie nascono e prosperano su questa nuova economia che fa della compravendita dei dati personali un lucro da cinquanta miliardi di dollari annui solo in USA, agenzie di investigazioni e forze di polizia scremano tabulati di telefonate avvenute sino a sei mesi prima e triangolano la posizione di telefoni mobili al momento della chiamata, mentre paesi come la California permettono a privati cittadini di consultare CD-rom dove sono registrati dati e fotografie di individui denunciati per reati sessuali. La Metromail, un’azienda del grande gruppo editoriale R.R. Donnelly & Sons, 9

D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, cit., p. 80.

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offre a chiunque una lista di quindici milioni di nomi su ‘Chi ha che cosa’, il più grande database sulle malattie esistente al mondo. I nomi di chi soffre di asma, diabete o ulcera sono messi a disposizione di chiunque per circa trecento dollari ogni mille nominativi. Anche se l’accesso ai database che contengono le informazioni sul nostro DNA dovrebbe essere protetto dalle agenzie incaricate, e il personale che le maneggia altamente selezionato, ci sono tecnologie di controllo sociale assai subdole, che apparentemente sfuggono anche le prerogative del legislatore. Un esempio di esse potrebbe essere la “captologia”. La captologia è una nuova area di ricerca nell’ambito della interazione uomo-macchina, che si occupa di studiare le influenze profonde che le tecnologie interattive esercitano nel nostro ormai quotidiano e pervasivo rapporto con esse, e risulta dalla sovrapposizione di teorie e tecniche provenienti da due aree disciplinari apparentemente diverse ma interrelate e incorporate nei mezzi interattivi, l’area della psicologia della persuasione e quella della computer science. La captologia studia appunto i ‘computer persuasivi’, e il suo ambito applicativo immediato è quello del controllo del comportamento. Poiché i computer, almeno per ora, non sembrano avere una propria intenzionalità, per definizione i computer persuasivi sono rappresentati dalle tecnologie interattive che implicano nel proprio design l’intenzionalità del progettista, dell’utilizzatore o di chi le fa adottare, di cambiare o modellare comportamenti o attitudini. Una tecnologia persuasiva, secondo questo approccio, è quindi una ‘macchina’ interattiva che ingloba nel suo funzionamento i principi della comunicazione persuasiva, quali troviamo in azione in ogni relazione sociale e che evidentemente funzionano anche nel rapporto con artefatti elettronici, come computer, televisioni e new media. Il carattere persuasivo sta nella percezione, spesso presunta, di essere noi stessi a scegliere e determinare i nostri comportamenti, quando in realtà sono i principi psicologici implementati nelle macchine che “ci conducono per mano” a fare scelte prestabilite entro una limitata gamma di opzioni. Considerati come ‘tools’, i computer persuasivi sono così oggetti pensati per affrontare meglio compiti quotidiani, poiché riducono le barriere cognitive per migliorare le nostre performance, ci aiutano a prendere decisioni informate ed a cambiare modelli mentali. Si tratterebbe quindi di tecnologie persuasive di per sé, visto che ci forniscono di desiderabili nuove capacità, ed è per questo che sono anche dette “tecnologie facilitanti”. Nell’approccio captologico, un esempio di computer persuasivo è costituito dalle cyclette che implementano software per la visualizzazione di scenari virtuali navigabili, continuamente modificati dai movimenti del guidatore. Dispositivi di questo tipo, motivandoci alla scoperta degli ambienti tridimensionali rappresentati

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sul monitor, riducono la noia dell’esercizio fisico e, mostrando sullo stesso schermo le calorie perdute per time-unit di esercizio, aiutano a stabilire una associazione diretta fra l’esercizio ed i suoi effetti, persuadendoci a continuarlo. Considerati come media, i computer sarebbero capaci di persuaderci, in quanto veicolano contenuti capaci di motivarci attraverso l’esperienza di oggetti e ambienti multisensoriali, aiutandoci a stabilire una stretta relazione fra scelte e risultati di esperienze vicarie di realtà lontane, complesse o inaccessibili. È il caso di molti giochi di avventura, dei simulatori o dei cosiddetti educationals. Quindi il computer è un ‘persuasore sociale’ quando adotta caratteristiche animate, riveste ruoli o agisce secondo norme sociali, fornendo supporto e sanzioni di carattere sociale. Qui l’intento persuasivo è affidato alle qualità del partner interattivo che dà consigli, fornisce alternative e regole di comportamento. Le tecnologie persuasive sono pensate per avviare, smettere, mantenere o modificare sentimenti, pensieri, comportamenti rispetto a un qualsiasi contenuto, e come tali ovviamente pongono questioni rilevanti dal punto di vista etico circa i gradi di libertà consentiti ad ogni individuo che si relaziona con esse, dando la misura del grado di accondiscendenza rispetto alle norme ed ai valori sociali in esse inglobate, trattandosi di tecnologie i cui effetti si dispiegano a livello individuale e collettivo. Il carattere persuasivo di tali tecnologie si fonda su meccanismi strutturati da leggi cognitive assai potenti, come il “rinforzo positivo” che fornisce una remunerazione, materiale, emozionale, sociale, dopo una performance adeguata, e realizzati da tecniche come quelle del condizionamento operante o del modellamento, soprattutto attraverso i meccanismi di imitazione simbolica che ci caratterizzano come specie. Basta considerare quanto spesso, durante la navigazione sul web o la registrazione di un nuovo software o di un servizio on-line, siamo indotti con colori e animazioni, offerte e ringraziamenti, ad avviare una relazione commerciale, a comprare prodotti ‘nuovi’, senza leggere licenze d’uso e caratteristiche tecniche, e così facendo fornendo dati su gusti ed attitudini alle aziende che li rivenderanno alle agenzie di marketing strategico, che ci riempiranno la mailbox di tanta indesiderata pubblicità. Così, se l’uso di tali macchine simboliche può essere orientato alla promozione di comportamenti responsabili dal punto di vista sanitario, della protezione dell’ambiente, della sicurezza personale, della riduzione del danno nelle terapie antiabuso, esiste anche un’area oscura dove esse vengono impiegate sul posto di lavoro, nel marketing diretto o nella comunicazione politica da persuasori con pochi scrupoli. Applicazioni particolarmente discutibili, le troviamo ad esempio nelle aziende che utilizzano software per monitorare i comportamenti degli impiegati e indurli ad un uso parco e professionale

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del web o della posta elettronica, o per diminuire il numero di pause-caffè, persuadendoli al conformismo e all’autodisciplina sul luogo di lavoro. In questo caso è chiaro che il meccanismo persuasivo fa leva sull’utilità attesa dall’individuo nell’evitare un comportamento ‘socialmente sanzionabile’ nell’ambito dell’organizzazione, ma che evidentemente ci rende meno liberi. Le intrusioni sono tante, spesso subdole e invisibili, mascherate da ragioni, a volte da promesse di benefici a volte da ragioni di sicurezza. Occorre capire il funzionamento delle tecniche utilizzate per il controllo sociale, per poi agire di conseguenza secondo il proprio sistema di valori. Una volta studiato un mezzo invasivo, si può scegliere di rinunciare ad una certa ‘comodità’ per timore di essere controllati, rinunciando però a spazi di libertà che la tecnologia ci ha offerto, oppure si può optare per un atteggiamento attivo di “controsorveglianza” verso coloro che hanno predisposto il controllo. Ad esempio, di fronte agli interminabili moduli di registrazione che ci vengono inviati per posta o che ci permettono di visitare pagine web di nostro interesse, si può scegliere di non compilarli, rinunciando così ad un servizio che ritenevamo utile, oppure di compilarli in modo strampalato, in modo da sviare le ricerche di mercato e essere considerati campione non utile ai fini dell’inchiesta. Si può scegliere di rinunciare a Internet, per non far conoscere a destra e a manca le nostre preferenze, se non le nostre conversazioni, oppure si possono usare software di navigazione anonima o sistemi di criptazione dei messaggi, ormai forniti gratuitamente da quanti hanno deciso di non rinunciare alle possibilità di comunicazione e ai nuovi spazi di libertà offerti dalla rete, limitandone al contempo il più possibile gli effetti negativi. Ormai in tutto il mondo stanno crescendo organizzazioni non-profit che si occupano di informare gli utenti del web sui sistemi di controllo sociale sulla rete e non, e di fornire gratuitamente consigli per contro-strategie e strumenti di protezione. Sono tante le azioni di controsorveglianza e di resistenza al controllo che i singoli individui possono intraprendere, e proprio le nuove tecnologie facilitano o consentono molte di esse, a partire dalla possibilità di reperire informazioni ‘alternative’ rispetto a quelle fornite dai media ufficiali; o a quella di contribuire personalmente a questi archivi virtuali di informazioni e di comunicare direttamente e in tempo reale con quanti si stanno muovendo nella stessa direzione. Le nuove tecnologie sono forse le più indicate per esplorare il non ancora che ci sta di fronte, allo scopo di comprenderlo e renderlo fertile per nuovi spazi autonomi di libertà, di cooperazione e di socialità, contrapposte al pensiero unico e alla logica di un’economia generalizzata. Un individuo non si accorge quasi mai di essere sorvegliato, in quanto la segretezza è uno dei cardini della sorveglianza, che per definizione si insinua

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all’interno della sfera privata di un cittadino. Chi mette in atto tecniche di controllo rifugge dalla pubblicità e dal clamore mediatico, che inficerebbe il proprio operato. Ci sono poi delle situazioni in cui la sorveglianza sembra manifesta, come nei controlli di routine degli aeroporti. Ma anche in quel caso, l’individuo non si rende mai conto di quanto sia ferrea la vigilanza su di lui e con quale scopo vengano usati i suoi dati personali, che in molti casi vengono spediti dall’altra parte del mondo per iniziare dei controlli preventivi. Siamo giunti alla globalizzazione della sorveglianza. Ci sono situazioni in cui la sorveglianza è davvero utile, come nel caso appena citato degli aeroporti, o negli stadi, o nei luoghi pubblici a rischio di attentati. Quando invece il controllo diventa dannoso? La sorveglianza è di per sé ambigua e oscilla in continuazione tra una positiva finalità di protezione e una di controllo coatto. Dopo l’11 settembre, la seconda opzione sembra avere preso il sopravvento sulla prima. Gli USA, hanno varato il Total Information Awareness (TIA), un gigantesco quanto costoso programma che incrocia dati raccolti dalle fonti più disparate. L’obiettivo dichiarato è quello di individuare in anteprima eventuali attacchi terroristici, ma per fare questo il TIA cataloga in continuazione dati di cittadini comuni e ignari, creando così un concreto rischio di “fascicolazione sociale”, dove le persone vengono segretamente catalogate in categorie predefinite, attraverso processi di sorveglianza automatici e standardizzati. Le conseguenze immediate di questa fascicolazione potrebbero essere innanzitutto un decadimento della sfera democratica. Uno Stato che cataloga i suoi cittadini è un’istituzione che esercita un potere pervasivo e accentratore. Aziende e governi sono quindi i principali responsabili della raccolta e catalogazione dei nostri dati personali, che vengono analizzati, come abbiamo visto, per capire che tipo di consumatori siamo, così da organizzare le proprie strategie commerciali, e ora anche che tipo di cittadini siamo per pianificare le strategie politiche. Dopo l’11 settembre la nostra è diventata una società della paura, governata da segretezza, timore e sospetto. Logicamente, in una situazione del genere, le tecnologie e le strategie di sorveglianza, presenti da tempo sul mercato, sono diventate un fulcro fondamentale per la gestione della dimensione sociale. Tutto questo è possibile grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie, e soprattutto della rete, che permette di interfacciare i dati a grande distanza e in tempo reale. Le nuove tecnologie hanno cambiato il concetto di libertà, che si è chiuso in una dimensione individuale. Le persone infatti affermano di essere preoccupate per le intrusioni nella loro vita privata, ma non hanno il minimo sentore delle conseguenze che questo potrà avere nella sfera sociale comune. La realtà è che le conseguenze nefaste della sorveglianza interessano soprattutto la sfera macrosociale, dalla creazione di una vita

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totalmente pubblica di chi è sorvegliato, alle più comuni discriminazioni razziali. Le regolamentazioni internazionali sono utili per creare un clima condiviso che evidenzi quanto è importante la trattazione dei dati personali nella società, ma è altrettanto importante educare e formare i cittadini, che fin dalla prima istruzione devono essere consci di quanto sia fondamentale il valore della loro privacy e dei propri dati personali. “Se nella società del sospetto tra popoli il controllo si rivela fondamentale, in quella della collaborazione serve a ben poco”10. Il mutamento sociale è proprio qui. La sorveglianza si trasferisce dall’eccezionale al quotidiano, dalle classi ‘pericolose’ alla generalità delle persone. La folla non è più solitaria e anonima. La digitalizzazione delle immagini, le tecniche di riconoscimento facciale consentono di estrarre il singolo dalla massa, di individuarlo e di seguirlo. Il data mining, l’incessante ricerca di informazioni sui comportamenti di ciascuno, genera una produzione continua di ‘profili’ individuali, familiari, di gruppo: di nuovo, la sorveglianza non conosce confini. Questa inarrestabile pubblicizzazione degli spazi privati, questa continua esposizione a sguardi ignoti e indesiderati, incide sui comportamenti individuali e sociali. Sapersi scrutati riduce la spontaneità e la libertà, rende difficile il salutare ritirarsi dietro le quinte, essenziale perché ciascuno possa trovare il giusto equilibrio tra il vivere in pubblico e il bisogno di intimità. Riducendosi gli spazi liberi dal controllo, si è spinti a chiudersi in casa, e a difendere sempre più ferocemente quest’ultimo spazio privato, peraltro sempre meno al riparo da tecniche di sorveglianza sempre più sofisticate. Ma se libertà e spontaneità saranno confinate nei nostri spazi rigorosamente privati, saremo portati a considerare lontano e ostile tutto quel che sta nel mondo esterno. Qui può nascondersi il germe di nuovi conflitti, e dunque di una permanente e più radicale insicurezza, che contraddice il più forte argomento addotto per legittimare la sorveglianza, appunto la sua vocazione a produrre sicurezza.

2. Corpi elettronici 2.1 La ‘mutazione somatica’ nella postmodernità Anche se è eccessivo, e persino pericoloso dire che noi siamo identificati con i nostri dati, è tuttavia vero che la nostra rappresentazione sociale è 10

D. Lyon, Massima sicurezza: sorveglianza e guerra al terrorismo, Cortina, Milano 2005, p.

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sempre più affidata ad informazioni sparse in una molteplicità di banche dati, ai ‘profili’ che su questa base vengono costruiti, alle simulazioni che permettono. Siamo sempre più conosciuti da soggetti pubblici e privati, attraverso i dati che ci riguardano, in forme che possono incidere sul principio di eguaglianza, sulla libertà di comunicazione, di espressione o di circolazione, sul diritto alla salute, sulla condizione di lavoratore, sull’accesso al credito e alle assicurazioni, e via elencando. Nella postmodernità, le persone, divenute entità disincarnate, hanno sempre più bisogno di una tutela del loro “corpo elettronico”. La nuova spinta verso la sorveglianza dopo l’11 settembre, ha rafforzato anche il ricorso alle tecniche biometriche, che fanno sì che il corpo si configuri sempre più come una password. Impronte digitali, riconoscimento facciale, iride, dati genetici rappresentano non solo strumenti di identificazione, ma elementi per classificazioni, per controlli ulteriori rispetto al momento dell’identificazione. L’individuo non è a conoscenza della sua data-immagine11, nè tantomeno sa quando questa viene utilizzata. Quello che appare rilevante negli ultimi anni è la tendenza della sorveglianza ad accrescere le informazioni riguardo gli individui e ad inserire nei suoi database anche dati sensibili. Ma il corpo può anche essere predisposto per essere seguito e localizzato permanentemente. Alcuni genitori, traumatizzati da rapimenti e violenze sui bambini, hanno chiesto che sotto la pelle dei loro figli venga inserito un chip elettronico proprio per potere sapere in ogni momento dove si trovano. La sorveglianza si affida così ad una sorta di guinzaglio elettronico, e il corpo umano viene assimilato ad un qualsiasi oggetto in movimento, controllabile a distanza con una tecnologia elettronica. “L’avanzare delle società sorvegliate ha molto a che vedere con la scomparsa dei corpi. I corpi scompaiono quando operiamo a distanza [...]. Nella stragrande maggioranza delle relazioni, in particolare quelle che dipendono dalla comunicazione informatizzata di dati, le persone concrete sono svanite”12. Le odierne tecnologie, i nuovi media, le realtà virtuali, il cyberspazio, trapianti, eutanasia, nuova cosmesi, chirurgia plastica, droghe intelligenti, protesi di materiali inorganici che attecchiscono nella nostra carne, e così via, stanno cambiando la nostra fisicità, il nostro modo di vivere, le nostre stesse strutture del pensiero. Si potrebbe obiettare che tutte le tecnologie innovative hanno avuto questo effetto, dalla ruota alla televisione. Ma il fatto nuovo è che le tecnologie odierne non si limitano più a potenziare il nostro 11

La data-immagine è una sorta di profilo digitale dei dati relativi ad un individuo, raccolto dalle amministrazioni pubbliche piuttosto che da società commerciali. 12 D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, cit., p.19.

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fisico o i nostri sensi. Esse agiscono in modo molto più determinante, perché giocano con lo strumento primario del nostro rapporto col mondo, l’oggetto su cui si basa la nostra identità di uomini: il corpo. Oggi più che mai, si rivela profetico un noto concetto espresso da McLuhan trentacinque anni fa, e che viene ad assumere un significato quasi letterale: “Ogni invenzione, o tecnologia, è una estensione o una autoamputazione del nostro corpo, che impone nuovi rapporti o nuovi equilibri fra gli altri organi e le altre estensioni del corpo”13. L’attestazione dell’identità personale nel corso del ventesimo secolo è mutata, si è passati dall’informazione pervalentemente stampata, richiesta dalla Stato, alla proliferazione dei dati memorizzati elettronicamente e richiesti dal business commerciale. Le informazioni astratte che riguardano i corpi o che da essi derivano, è tutto ciò che è ricercato dalla sorveglianza biometrica e da quella genetica. Per questo Lyon arriva a parlare di corpi che scompaiono: “Coscienza, anima, socialità, o qualunque altro attributo possa essere ritenuto parte dell’essere umano, non sono attualmente contemplati tra le necessità della sorveglianza come è qui intesa. Il corpo è semplicemente una fonte di dati, anche se si può pensare che esso riveli molto dell’individuo cui appartiene”14. La mutazione in atto del nostro corpo, in senso ovviamente culturale, non evoluzionistico, mai aveva assunto una accelerazione (quindi una visibilità) come oggi, e ci porta a scoprire un nostro ‘doppio’ tecnologico. Il bisogno di conoscere, controllare, catalogare, individuare, collocare, sembra rinviare immediatamente alla dimensione di una realtà sociale paranoide, un tessuto intensamente percorso da paure e tensioni difficilmente comprensibili. Il rapporto tra corpi e strategie di controllo si declina nell’ambito di un’infinita possibilità di relazioni. Controllare significa essenzialmente catalogare, il corpo è assunto in qualità di una carta geografica che in tal modo è possibile scrivere e riscrivere e da ultimo inventare. Nel linguaggio quotidiano, della parola ‘corpo’ si fa un vero e proprio abuso: indica generalmente la ‘parte materiale’ di una persona, è sinonimo di ‘fisico’; in questa accezione la si utilizza per dire, ad esempio, che una tale persona ha un bel corpo, così come si direbbe che ha un aspetto piacevole, oppure si dice che ha un cattivo rapporto col proprio corpo, magari perché non si piace. Già da questi semplici esempi si evince che il riferimento privilegiato è alla sfera estetica, e indica l’esteriorità. Non appena ci addentriamo nello specifico di questa indagine, diviene subito chiaro che un’analisi dei tanti fenomeni che riguardano, attualmente, il corpo (vale a dire, per fare degli 13 14

M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., pp. 64-5. D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, cit, p. 95.

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esempi concreti, chirurgia, e non solo plastica, installazioni, cyborg, robotica in generale, performance artistiche e così via), per quanto sia necessaria, non può certo bastare. Il problema posto dal corpo è una questione che tocca al cuore la nostra società, diventando emblematico di una frattura dell’identità, espressa da narcisismo, schizofrenia, alienazione, e in genere da tutti i mali tipici del nostro secolo, a cui si vanno ad aggiungere le tematiche del capitalismo, dell’individualismo, della mercificazione e, in una parola, della tecnica. I tempi del corpo differiscono dai tempi indotti dalle odierne tecnologie. All’innesto delle tecniche tradizionali, come pure al precedente rapporto uomo-macchina, nella società postmoderna, si è sostituita una diversa relazione, quella prodotta dall’interazione con le recenti cyber e biotecnologie. Tra i molti effetti di quella che possiamo considerare come una delle più radicali trasformazioni della storia umana, si possono indicarne alcuni particolarmente significativi: il ritmo del corpo viene accelerato dalle protesi attuali che intendono modificarne e controllarne ogni prestazione; il tempo del riposo è sostituito dal tempo del consumo; il bisogno di sottrazione e mutamento viene ad essere assoggettato alla logica del controllo e dell’omologazione. I punti sopra indicati danno vita ad un reticolo di situazioni, strategie e relazioni che intendono sempre più relegare il corpo e i suoi ‘eccessi’ entro una società regolata da imperativi che si esprimono a tutti i livelli dell’esistere. Se la vita, con le sue crepe e i suoi divenire, rappresenta l’incerto, questo rischio deve essere evitato con pratiche del controllo sempre più raffinate. È importante sottolineare come attualmente il controllo dei corpi non avvenga più nell’ambito delle “istituzioni totali”, piuttosto è l’intero assetto territoriale che è chiamato ad assolvere questa funzione. La frantumazione, la polverizzazione sono la regola attraverso la quale si tenta di gestire la situazione attuale. Sostiene a proposito Zygmunt Bauman: “Nella sua forma pura e non manipolata, la paura esistenziale che ci rende ansiosi e preoccupati è ingovernabile, irrefrenabile e perciò paralizzante. Il solo modo per non vedere la terribile verità è ridurre quell’enorme, schiacciante paura in frammenti più piccoli e maneggevoli, ridurre la questione cruciale della nostra impotenza a una serie di piccoli compiti ‘pratici’ che possiamo sperare di saper eseguire”15. I corpi ci paiono, dunque, ‘gettati nel mondo’ come elementi o fattori di rischio, come risorsa obsoleta, fragile, ma pur sempre essenziale. La potenza dei corpi finisce così con l’essere in conflitto con le pratiche e le relazioni innescate dai sistemi di controllo. Desideri, timori confliggono con 15

Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 71.

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l’imperativo ottimistico dell’uomo produttivo e della mercificazione che ne caratterizza ogni aspetto del vivere. Dei corpi si è sempre tenuto conto. Oltre cento anni fa, l’antropometria criminale sosteneva che le loro forme, in particolare quelle della testa, avrebbero potuto rivelare automaticamente la predisposizione al crimine da parte di un individuo. Oggi lo sviluppo delle nuove tecnologie biometriche, indica che il corpo stesso può essere direttamente scrutinato e interrogato come fonte di informazioni per la sorveglianza. Il termine ‘biotecnologie’ viene impiegato nel dibattito scientifico e filosofico in modo non univoco. Nell’accezione più tecnica il termine viene ad indicare le sole tecniche di correzione e di manipolazione della materia vivente che, come tali, sono una pratica antica. Nel dibattito scientifico attuale tuttavia si incontra un uso ancor più restrittivo: la parola biotecnologie è associata quasi esclusivamente ai più recenti sviluppi della genetica. La creazione di embrioni in vitro, il perfezionamento della diagnosi prenatale e pre-impianto in utero, la disponibilità crescente di test genetici con la nascita della medicina predittiva e prospettica, i primi tentativi di terapia genica, la creazione di piante ma anche di animali transgenici a scopo di ricerca e farmacologico, per trapianti e clonazioni, la decifrazione del genoma umano, lo sviluppo della ricerca sulle cellule staminali di embrioni ottenuti con fertilizzazione in vitro, o creati con inserzione del nucleo di una cellula adulta in un ovulo il cui nucleo è stato rimosso, sono esempi tra i più noti. Nell’accezione più ampia invece, il campo denotato viene ad includere non solo le tecnologie biomediche, ma anche le nuove tecnologie ottiche ed informatiche che controllano, con modalità sempre più invasive e spersonalizzate, l’intero arco della nostra esistenza. Nel confronto coi nuovi scenari aperti dal progresso scientifico e tecnologico, è stata sviluppata la riconcettualizzazione foucaultiana del potere moderno incentrata sulla nozione chiave di “biopotere”. Tale nozione ridefinisce il potere moderno come un potere il cui esercizio si esplica a livello del ‘bios’, della presa in gestione della vita, attraverso l’attuazione di un ordine che, articolandosi intorno all’asse normale/patologico, riproduce in forme sempre diverse la distinzione fra ciò che deve vivere e ciò che deve morire. Nell’orizzonte del biopotere, il dare la morte non significa solo il caso limite dello sterminio fisico, ma anche tutto ciò che può essere morte indiretta: espulsione, rigetto, discriminazione e moltiplicazione dell’esposizione al rischio. L’uso estensivo del termine sembra ulteriormente giustificato dall’intreccio, ormai indissolubile, fra tecnologie biomediche e tecnologie informatiche, com’è dimostrato, ad esempio, dal proliferare di grandi banche dati computerizzate che sfruttano le nuove possibilità di identificazione delle persone sulla base del loro DNA. Negli USA si sono

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andate moltiplicando, nel giro di pochi anni, le banche dati in cui vengono raccolti campioni biologici di sangue e sperma per rilevare informazioni sulla ‘identità genetica’ dei cittadini, ad uso dell’esercito, della polizia e delle varie agenzie di controllo sociale, pubbliche e private. In Gran Bretagna, dove è già prassi l’archiviazione del DNA delle persone arrestate, si prevede di arrivare alla schedatura di almeno tre milioni di persone, imputate di reati più o meno gravi. Un altro esempio significativo, in questo senso, è offerto anche dalla rivoluzione informatica in campo medico, che ha portato al consolidarsi della telemedicina, ossia dell’utilizzo della rete come contenitore di dati e di documenti di tipo biomedico, di sistemi decisionali e prognostici, di protocolli e di linee guida; una rivoluzione che sta modificando in profondità la pratica clinica tanto a livello della diagnostica che delle decisioni terapeutiche. La maggioranza degli Stati occidentali sta attuando politiche per sviluppare l’implementazione di tessere sanitarie elettroniche, nelle quali può essere contenuta tutta la storia delle malattie di un individuo. Le possibilità offerte da questo sistema sarebbero immense. Attraverso studi statistici e comparando la storia di un individuo con altre, si potrebbe scoprire quali individui siano più propensi a sviluppare certe malattie, applicando così terapie di prevenzione, e curando milioni di persone. Al tempo stesso però si possono realizzare sistemi di controllo e sorveglianza sempre più accurati e discriminatori. Immaginare, ad esempio, che le compagnie assicurative possano avere accesso a determinate informazioni, vuol dire che ad alcune persone, soltanto perché maggiormente predisposte ad una malattia, potrebbe venire negata la possibilità di tutelarsi. Su un diverso versante, si può menzionare l’influenza avuta dall’avvento del computer e dagli studi delle cosiddette ‘cyberscienze’ sulla riconfigurazione dei modi di pensare l’organismo nella biologia molecolare e nella biologia dello sviluppo, una riconfigurazione che ha dato luogo, nell’ambito di queste discipline, ad una trasformazione concettuale e tecnologica di notevole rilievo. Nella forma delle applicazioni di terapia genica, le biotecnologie molecolari aggiungono all’idea di decodificazione del corpo, quella della sua riprogrammabilità.

2.2 La costruzione sociale di corpi passivi Per una convergenza di fattori di diversa natura si sta diffondendo un’immagine fortemente ‘costruttivistica’, che è frutto e moltiplicatore di credenze nella possibilità di plasmare a piacimento i nostri corpi e con essi le nostre identità, quale espressione anche (seppur non solo) di un’unicità biologica.

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“A trasformarsi sono i modi in cui ci immaginiamo la sopravvivenza, l’identità nostra e altrui, la riproduzione e, per loro tramite, il nostro stesso corpo, un’entità così ovviamente materiale alla quale tuttavia non siamo in grado di pensare se non attraverso rappresentazioni mentali offerte dalla cultura. Per questa via si definisce un altro anello di quel circuito coevolutivo che lega organismi umani, sistemi tecnologici e sistemi socioculturali, in cui la tecnologia forma da sempre un anello essenziale dell’evoluzione della specie umana sotto il profilo sociale e culturale non meno che sotto il profilo biologico”16. Il discorso contemporaneo, che sta cambiando la nostra esperienza e percezione del corpo, che ci invita a immaginare le nuove molteplici possibilità, ma ci impedisce di riconoscere, e quindi di elaborare psicologicamente i limiti intrinseci alla nostra natura di esseri incarnati, in definitiva finisce per veicolare una riproposizione, in chiave nuova e più sofisticata, del vecchio dualismo mente/corpo. Le espressioni culturali del dualismo mente/corpo sono multiformi; cambiano nelle diverse epoche e nei diversi contesti socio-culturali, ma ciò che caratterizza la storia del pensiero occidentale è la predominanza di una visione dicotomica, antagonistica, del rapporto fra il sé e il corpo in cui si incarna. Il corpo è prevalentemente rappresentato, e percepito, in un rapporto di disgiunzione/connessione con il self: quello che rimane come elemento costante nel susseguirsi dei mutamenti storici è la costruzione del corpo come qualcosa di separato dal vero sé, come qualcosa che costituisce, più che una risorsa e un punto di partenza, una minaccia all’espressione della propria natura migliore (anima, mente, spirito, libertà interiore, contro istinto, appetito, sede di ciò che è incontrollabile, ambiguo, oscuro, minaccioso per la nostra volontà e libertà). Da qui il costante sforzo della cultura occidentale di stabilire una gerarchia fra corpo/non-corpo, dove il non-corpo è in genere considerato il termine superiore, l’elemento attivo e dominante (in senso normativo) rispetto a ciò che è passivo, schiavo di passioni e desideri. Attivo/passivo è allora la seconda grande polarità di questa vicenda: spirito attivo/corpo passivo. Vi sono due concezioni dell’identità personale, della costruzione di sé, sottese a due possibili modi di leggere la costruzione sociale del corpo: l’uno propone un’immagine regolativa di identità nomadi, molteplici, multiformi e fluide in fuga perenne da ogni determinazione, mentre l’altra è compatibile con un concetto di identità narrativa, ancora in grado di assolvere alla fondamentale funzione di integrare, nell’unità di una biografia dotata di senso soggettivo, le diverse esperienze costituenti la trama complessa di una vita individuale. Quello che occorre sottolineare è la funzione di copertura 16

P. Borgna, Sociologia del corpo, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 73-4.

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ideologica che può svolgere il diffondersi della credenza nella possibilità di scegliersi liberamente la propria identità, reinventandola di continuo fuori da ogni schema prestabilito. Non solo questa nuova ‘mitologia’ impedisce il riconoscimento dei limiti biologici, psicologici e culturali che definiscono l’orizzonte di possibilità di ogni autorealizzazione, ma occulta anche il fatto che, nelle società occidentali postindustriali, in realtà vengono selezionate alcune capacità e valorizzati alcuni modelli di identità e di personalità a scapito di altri. Lo sviluppo tecnologico favorisce l’inclusione nel mondo dell’occupazione solo di chi è fornito di determinate qualità. In un possibile elenco di attitudini richieste, potrebbero rientrare, oltre che un’intelligenza logica e analitica, la disponibilità ad adattarsi a tecnologie sempre nuove, a situazioni e mansioni in rapido cambiamento, a persone nuove richiedenti risposte differenziate, a luoghi diversi e lontani, a comunicazioni sempre meno personali e sempre più condizionate da strumenti, codici, pseudonimi, semianonimati, messaggi privi di spessore corporeo. Alcune persone saranno avvantaggiate nello sforzo di inserirsi in un universo ipertecnologizzato, mentre chi è privo di determinate capacità e di determinati requisiti si vedrà precluso l’accesso al mercato del lavoro e al benessere; ma anche i più fortunati saranno esposti al rischio, sempre incombente, di deriva della vita interiore. Secondo Giddens l’economia che ruota intorno al breve periodo e che richiede massima flessibilità non genera sicurezza ma piuttosto ansietà e spaesamento17. Un altro ordine di questioni, riguarda quelle più direttamente attinenti alle nuove pratiche mediche ed ai connessi pericoli, già attuali e concreti, di promozione di nuove e più insidiose forme di discriminazione sociale. A questo livello, acquista centralità il tema del rapporto fra la nostra identità genetica e la nostra identità biografica. Guardano gli sviluppi più recenti delle scienze bio-mediche, ci si comincia a interrogare sulla direzione in cui sta andando non solo l’ingegneria, ma anche la diagnostica genetica, sulle aspettative e sui timori che suscitano i suoi continui progressi e la messa a punto di test sempre più informativi sulla nostra costituzione biologica. L’esistenza delle tecnologie per la riproduzione assistita ha concorso a ristrutturare i concetti di maternità/paternità e del loro legame con il corpo. La loro combinazione con le biotecnologie molecolari (tecnologie che permettono l’analisi e la manipolazione delle grosse molecole biologiche) ha reso inoltre possibile la diagnosi pre-impianto di gameti ed embrioni, consentendo la riduzione fino al novanta per cento del trasferimento e dell’eventuale im17

Cfr. A. Giddens, Modernity and self-identity: Self and society in the late modern age, Polity Press, Cambridge 1991.

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pianto in utero di embrioni affetti da patologie trasmissibili, o nel caso delle coppie sterili di embrioni non in grado di impiantarsi. Dai progressi delle conoscenze in ambito genetico e dalle loro applicazioni tecnologiche, ci si possono attendere grandi benefici, sotto il profilo profilattico e terapeutico, che ci permetteranno di eliminare profonde sofferenze prima ineliminabili, ma vi sono alcuni possibili rischi che destano preoccupazione: a.

b.

il rischio che il diritto alla salute si trasformi nell’obbligo di essere sani e quindi nell’imposizione di forme di regolamentazione, di sorveglianza e di controllo del corpo, ovvero si trasformi nell’imposizione di criteri di normalità, tali da creare nuove forme di discriminazione; il rischio, collegato al precedente, che il discorso sulla prevenzione perda di vista la sua finalità, che è quella di migliorare la qualità della vita dei singoli, e si rovesci in un processo di più o meno occulta medicalizzazione dell’esistenza, frammentandola in una serie di età e di situazioni a rischio, che potrebbe rendere ancora più difficile, emotivamente e cognitivamente, pensare la propria continuità biografica.

Le tecnologie biomediche costituiscono uno degli strumenti che danno forma al controllo sociale medico e alla sorveglianza medica sulla società. Questo discorso acquista spessore se si passa a considerare gli sviluppi della medicina prospettica, dei test genetici capaci di predire l’insorgenza di malattia incurabili che si manifesteranno solo molto più tardi (le cosiddette malattie ad insorgenza tardiva), o capaci di individuare i geni predisponenti a malattie comuni non genetiche in particolari condizioni. In quest’ultimo gruppo rientrano le malattie cardiovascolari, certe forme di tumore, di diabete ecc.. , e la lista si allunga ogni giorno. Si tratta però, per questo secondo gruppo, solo di predisposizioni: la comparsa futura di una data malattia in un individuo dato non è inevitabile, o meglio altamente probabile, perché dipende da più fattori, compresi quelli ambientali e dalla struttura genetica individuale nel suo complesso. Il problema in questo caso è quello di impedire, o di regolamentare l’accesso a questo tipo di informazioni da parte di terzi, se vogliamo evitare forme di discriminazione lavorativa e assicurativa nei confronti dei diversi soggetti diagnosticati a rischio. Rispetto a questi rischi, alcuni passi avanti sono stati fatti, almeno a livello europeo, con l’inclusione fra i diritti fondamentali, non contrattabili in nome di logiche efficientistiche e di interessi del mercato, del diritto alla riservatezza di quei dati personali che sono compresi nel nucleo duro della privacy; in particolare

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delle informazioni relative alla salute ed al genoma dei singoli individui che, più di ogni altra categoria di dati sensibili, sono alla base di pratiche diffuse di esclusione e di emarginazione nei confronti dei malati, attuali e potenziali. Garantire la segretezza dell’informazione costituisce, tuttavia, solo un aspetto della questione, perché poi ci dobbiamo anche chiedere quanto la conoscenza della propria predisposizione genetica a determinate malattie, ed il percepirsi come soggetti a rischio, si rifletta su, e condizioni la genesi e lo sviluppo del proprio senso di sé, della propria autostima e identità in società come le nostre, nelle quali la fragilità psichica e l’insicurezza ci tormentano, e in cui le certezze di immagine e di accettabilità sociale vengono sempre più a dipendere dalla nostra capacità di adeguarci ai modelli dominanti di bellezza, efficienza corporea, salute, normalità fisica e psichica. Nelle odierne società liberaldemocratiche, ben intenzionate, è comunque latente il razzismo in quanto disagio nei confronti di chi viene identificato con un corpo imperfetto, anormale, inferiore, differente rispetto a un sottinteso modello di normalità. C’è chi rivendica in questo frangente, l’emergere di un nuovo diritto, quello all’ignoranza, invocato a difesa della libera costruzione e definizione del senso di sé. Perché in questione è proprio il rispetto del diritto di ogni vita umana a trovare la propria strada e ad essere una sorpresa per se stessa. Ed è su questa linea che negli ultimi anni si è andato consolidando non solo il diritto all’autodeterminazione, alla scelta consapevole e informata in campo biomedico, ma anche un nuovo diritto morale, il diritto al caso (ed è questo un orientamento europeo) in una duplice accezione: di diritto alla differenza, ovvero ad un’identità genetica non predeterminata da altri (con l’eccezione di alcuni situazioni, espressamente previste, di gravi anomalie genetiche diagnosticabili in fase prenatale); e di diritto a non sapere, ossia alla non conoscenza delle proprie predisposizioni genetiche, come condizione della libera formazione di sé, facendo salvo il più generale principio dell’autodeterminazione informativa. L’importanza della formazione di un’opinione pubblica più informata, o almeno non del tutto disinformata, o manipolata è un’esigenza che si pone con forza. Ciò sembra richiedere, comunque, come precondizione, l’esistenza di un contesto articolato di discussione pubblica, sui rischi e sui costi fisici e psicologici, oltre che sui benefici, connessi all’uso delle nuove tecnologie, sui condizionamenti economico-sociali che vi stanno dietro, ma anche sulla non trasparenza dei motivi profondi dettanti molte delle nostre scelte in questo campo. Nel presente, pratiche assai più consolidate, ma che destano meno attenzione delle avanzate applicazioni biotecnologiche, sono quelle relative al ‘benessere’ del corpo affidato a beauty farm, a protesi e al fitness, che in

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maniera meno clamorosa ma ben più capillare, danno forma a propositi di modificazione del corpo. Si parla così di corpi flessibili intendendo cioè i corpi come oggetto di scelte e di opzioni. “Noi diventiamo responsabili per il progetto (design) dei nostri corpi, ed in un certo senso siamo costretti a diventarlo quanto più sono post-tradizionali i contesti in cui ci muoviamo”18. Pratiche come il body building, ovvero l’allenamento che prevede l’utilizzo di pesi esterni al fine della definizione dei muscoli e del fisico, la body art che è l’etichetta con la quale si indicano forme diverse di marcatura del corpo, dal piercing ai tatuaggi; la chirurgia estetica, sono tutte pratiche di modellamento del corpo. In tale continuo lavoro di costruzione del sé, l’attenzione verso il corpo diviene un compito, un dovere primario assolto dal proprietario del corpo, come in una necessità di autoformazione e autoaffermazione che fronteggia l’incertezza originatasi dal progressivo declino delle organizzazioni che in epoca moderna esercitavano il controllo sull’intero corso della vita degli uomini. L’autocontrollo irrigidisce gli schemi e perimetra i luoghi entro i quali devono essere contenuti, desideri, emozioni, bisogni. Nell’ambito dell’educazione occidentale, il sé e la sfera dei desideri che lo riguardano, sembra essere al centro di ogni preoccupazione, di ogni cura, di ogni tecnica educativa, eppure ciò che si invera tramite automatismi perversi è spesso in realtà il suo azzeramento, la riduzione programmatica di ogni suo sentire. L’esaltazione di un’epoca amante del corpo, in cui il corpo è considerato un tramite fondamentale per l’autorealizzazione va vista con un certo sospetto. “Le immagini e le associazioni per cui modellando il proprio corpo si modella la propria vita sono in realtà un appello alla volontà, a volere il potere e il controllo e finiscono per riprodurre una relazione antagonistica con il corpo”19.

3. Le tecnologie della sorveglianza La sorveglianza postmoderna è una manifestazione di potere i cui segni sono sempre meno visibili e non manifesti, o per lo meno celati e mimetizzati. L’occhio stesso, senso del controllo per eccellenza, cede il passo e viene affiancato da nuovi sensi. La sorveglianza infatti sfrutta e analizza ogni senso. Le conversazioni si sentono e si analizzano, le modulazioni della voce vengono registrate per diventare chiavi di accesso, il tatto diventa un’impronta, un segno. Il corpo stesso si trasforma in un insieme di dati con caratteristiche 18 19

P. Borgna, Sociologia del corpo, cit., p. 129. S. Bordo, Il peso del corpo, Feltrinelli, Milano 1997, p. 123.

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biometriche uniche per ogni individuo, diventando così non solo l’oggetto del discorso del controllo, ma anche uno strumento con il quale si entra nella società del controllo. “Il corpo diventa la password d’accesso ai vari settori che regolamentano la nostra esistenza”20. Le tecnologie utilizzate sono talmente diversificate che si possono raccoglierle in quattro gruppi: –



– –

videosorveglianza (CCTV): le cosiddette TV a circuito chiuso, che registrano i nostri movimenti ogniqualvolta ci troviamo in un luogo pubblico come un bar, un aeroporto o una discoteca; tecnologie comunicazionali: veri e propri strumenti di intercettazione delle nostre comunicazioni, sono spesso usate per raccogliere dati sui nostri gusti o preferenze quando navighiamo su Internet; tecnologie biometriche, che usano i dati estratti dal nostro corpo, come la scansione dell’iride o la mappatura del nostro volto; tecnologie di identificazione, che raccolgono dati quando usiamo la carta di credito, facciamo la spesa con i punti-sconto, telefoniamo col cellulare.

3.1 La videosorveglianza Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un incremento spaventoso dei sistemi a circuito chiuso (CCTV). Li possiamo vedere agli angoli delle strade, sotto i portoni, nelle stazioni della metro e dei treni, negli aereoporti, nelle università e nelle scuole, agli incroci dei semafori, lungo i varchi elettronici, sulle autostrade. Da qualunque agenzia vengano utilizzate, pubblica o privata, il loro scopo è monitorare una particolare area. Gli organi di polizia utilizzeranno tali sistemi con lo scopo di prevenire il crimine, e così le banche e i centri commerciali. La flessibilità tecnologica permessa da questi sistemi li fa anche diventare però strumenti in grado di monitorare l’attività dei dipendenti, tanto che Lyon arriva a definire come “una situazione di trasparenza” quella in cui operano i lavoratori. Le aziende di trasporti possono utilizzare sistemi di videosorveglianza a distanza per prevenire incidenti o prestare soccorsi tempestivi lungo le arterie di comunicazione. Il funzionamento di tali sistemi, qualunque ne sia l’applicazione, è però sempre lo stesso. L’area da sorvegliare viene suddivisa in tante parti in base al raggio d’azione delle telecamere, al loro grado di fuoco, ed in ogni parte viene inserita una o più telecamere in maniera tale da evitare i ‘coni d’ombra’, ossia delle zone di 20

D. Lyon, L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza, cit., p. 162.

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non visibilità dove le telecamere, anche muovendosi, non riescono ad arrivare. Le immagini che le diverse telecamere catturano confluiscono in un centro di controllo che ha a disposizione uno o più monitor per visualizzarle tutte. La trasmissione delle stesse avviene utilizzando sistemi via cavo o via radio. Attraverso questo sistema l’area viene costantemente monitorata. Le telecamere infatti sono così tecnologicamente avanzate da essere in grado di vedere anche in condizioni di scarsa visibilità. Gli impieghi e le capacità delle tecnologie della videosorveglianza sono molteplici e variano a seconda della loro applicazione e, soprattutto, in base al collegamento o meno con altri strumenti. In molti casi infatti le telecamere sono associate a particolari software che permettono di effettuare determinati tipi di analisi. Anche in questo caso infatti il concetto basilare è quello di prevenire particolari incidenti, e i sistemi a circuito chiuso, integrati agli strumenti informatici, permettono a questi ultimi di effettuare simulazioni, calcolare probabilità, o semplicemente segnalare anomalie: le immagini vengono catturate, comparate con altri dati, e portano alla classificazione, comparazione, predizione dell’evento. Nelle stazioni metropolitane inglesi viene utilizzato un sistema di rilevazione e controllo dei flussi denominato Cromatica21, in via di sperimentazione anche in Italia. Il sistema permette di monitorare il grado di affollamento della metropolitana, e allerta in caso di anomalie, come un sovraffollamento od un comportamento non idoneo. Sono i colori dello schermo a cambiare d’intensità, da qui il nome, quando avviene una anomalia, come quando qualcuno si trattiene troppo a lungo sui binari o va in luoghi dove l’accesso non è consentito. Il sistema dovrebbe essere in grado anche di prevenire i potenziali suicidi, calcolando che questi tendono a perdere una o più metro prima di compiere l’estremo gesto. Sistemi quali il PNC britannico o l’N-System giapponese servono alle polizie per monitorare il flusso del traffico, vedere chi commette infrazioni, ma soprattutto, per individuare possibili veicoli rubati. Entrambi i sistemi sono stati installati in seguito ad eventi che hanno fatto insorgere nell’opinione pubblica la necessità di un maggior controllo da parte delle autorità. Il loro funzionamento avviene comparando le targhe dei veicoli, catturate dalle telecamere, che transitano lungo le strade, con quelle dei veicoli che risultano essere rubati che sono inseriti nei loro database. Per rispondere a particolari esigenze si sono anche creati i sistemi di riconoscimento facciale. Essi permettono in pratica di riconoscere un individuo in base alle caratteristiche biometriche del suo volto. Vengono usati da particolari imprese come banche o aziende ad elevata sicurezza, mentre 21

D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, cit., p. 82.

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dagli apparati di polizia questi sistemi vengono utilizzati per identificare le persone che transitano, o che sono transitate, in determinati luoghi: negli aeroporti o nelle stazioni per verificare che non vi siano possibili terroristi, negli stadi per individuare i colpevoli di atti vandalici e così via. Anche nell’adozione di tali sistemi possiamo vedere l’applicazione della strategia dell’emergenza, in quanto sono stati implementati massicciamente dopo potenziali minacce. Il fenomeno hooligans per citare un esempio o la paura degli attentati dopo l’11 settembre che ha incrementato l’utilizzo dei sistemi di riconoscimento facciale nei principali aereoporti mondiali. Grazie all’utilizzo di tali sistemi le polizie possono individuare i colpevoli di alcuni reati, se le telecamere erano presenti, e altresì esse possono monitorare gran parte della popolazione urbana scovando possibili ‘sospetti’. Quello che infatti deve essere evidenziato è che, nel momento in cui ognuno di noi si trova in un luogo in cui vengono adottati sistemi basati sul riconoscimento facciale, la sua immagine verrà sottoposta a scansione e incrociata con tutte quelle contenute all’interno dei database. L’incremento dell’utilizzo di sistemi di videosorveglianza non è comunque dovuto solo ad applicazioni di polizia, ma è dovuto in particolar modo alle imprese commerciali o a semplici privati che cercano di tutelarsi. Così nei supermercati vengono inserite le telecamere per prevenire ed individuare i furti, ma al tempo stesso esse monitorano sia il lavoratore e sia il consumatore abituale. In molti casi l’applicazione dei sistemi di videosorveglianza viene utilizzato per individuare particolari tipologie di individui che risultano essere non graditi in un determinato luogo. Nei centri commerciali ad esempio il sistema serve per allontanare le bande giovanili da quell’area, e spostare così in un altro luogo la possibile criminalità, mentre nelle metropolitane è utilizzato per allontanare i barboni o coloro che chiedono l’elemosina. Uno degli aspetti da rilevare infatti è il fattore discriminate che i sistemi di videosorveglianza possono comportare. L’attuale costituzione delle città sembra basarsi sulla creazioni di aree d’accesso che includano i consumatori, ma “fungano da deterrente ai vagabondi, e di comunità isolate dal contesto sociale situate in fortezze iperprotette”22. A Lione in Francia vengono utilizzati per fare in modo che gli homeless non entrino nel centro cittadino, così come a Victoria negli USA le tecnologie di videosorveglianza possono essere utilizzate per escludere da queste aree proprio quella frangia di popolazione più emarginata e così riversarla in altre zone, magari meno visibili come le periferie, e sottoporla poi ad un controllo di tipo diverso, più rigido. I sistemi di videosorveglianza comportano un’erosione sistematica 22

Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, cit., p. 137.

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della privacy individuale e possono essere utilizzati per escludere o includere determinate tipologie di individui in alcune aree, verificando sempre che chi si trovi in un luogo abbia le caratteristiche per restarci.

3.2 Le tecnologie comunicazionali Le nuove tecnologie però non sono solo a supporto della polizia, spesso recano con sé la nascita di nuove tipologie di reati che devono essere fronteggiati: si passa dalla pedofilia informatica alla semplice pirateria, dalla violazione di server alle truffe in rete. Il flusso dei dati inoltre è globale, travalica le frontiere nazionali ed è pertanto indispensabile che si crei una rete di dati tra le varie polizie che permetta lo scambio di flussi di informazioni. Gli Stati, per arginare i vantaggi che la rete consente anche alle organizzazioni criminali, cercano di adottare strumenti normativi in grado di contenere il fenomeno. Tuttavia la natura della rete, prettamente democratica, basata sullo scambio orizzontale delle informazioni e sulla libera circolazione delle stesse, crea particolari problemi ai governanti. Non potendo censurare il web ogni Stato reagisce in base alla sua natura politica. Nei regimi autoritari l’utilizzo delle nuove tecnologie, anche se riservato a pochi, è strettamente sorvegliato. Si veda il caso cinese, dove le imprese collaborano con lo Stato per incrementare la sua capacità di monitorare le comunicazioni in rete, in quanto il web rappresenta uno dei pochi strumenti che i dissidenti politici possono utilizzare. Nei regimi democratici invece si attuano restrizioni normative realizzate secondo i canoni di una strategia dell’emergenza; ovvero viene gettato il panico riguardo l’accrescersi di determinati fenomeni e si cerca di regolamentare la rete. Riprendiamo ad esempio l’allarme sulla pedofilia. Negli USA per rispondere al fenomeno nel 1995 venne varato il Communications Decency Act, poi dichiarato incostituzionale l’anno successivo dalla District Court di Philadelphia, in quanto considerato in contrasto con il Primo Emendamento della costituzione americana che tutela la libertà di manifestazione del pensiero. Ora gli Stati si sono resi conto che i tentativi di controllare Internet censurandolo, producono gridi d’allarme da parte di tutte le organizzazioni che si occupano di libertà civili, pertanto sono passati a sviluppare sistemi in grado di monitorare ciò che avviene nella rete delle telecomunicazioni. I nuovi applicativi sono in grado di identificare le tracce della comunicazione soprattutto se si parla del web. La stragrande maggioranza di queste tecnologie, permette di analizzare milioni di comunicazioni al giorno semplicemente usando delle parole chiave specifiche. Quando un utente utilizza in un discorso una determinata parola, questi programmi sono in grado di

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far scattare un campanello d’allarme. Ne è un esempio il software Carnivore dell’Fbi che, operando in collaborazione con i service provider 23, registra tutto il traffico delle e-mail e smista le informazioni desiderate basandosi su campionamenti e parole chiave. Il problema da risolvere in questo caso è quello di poter riuscire ad utilizzare le informazioni ottenute per poter incriminare qualcuno. La maggior parte degli Stati democratici infatti sancisce la riservatezza delle comunicazioni personali, e questa può essere violata soltanto con un’esplicita richiesta da parte degli apparati polizieschi e quelli giudiziari. Pertanto sistemi di controllo indiscriminato e sistematico sarebbero definiti incostituzionali. Ed è attraverso l’emanazione di leggi eccezionali, che viene risolto il problema. Negli USA il 24 ottobre 2001 in seguito agli attentati alle torri gemelle, il Presidente vara il Patriot Act: − − − − −

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permette intercettazioni telefoniche su un individuo, invece che su un numero di telefono specifico, senza necessità di mandati separati per numeri diversi; autorizza le forze dell’ordine che si occupano della criminalità comune a monitorare e intercettare le e-mail e i siti Internet visitati da una persona, senza dimostrarne al giudice la necessità; autorizza il governo a intercettare le comunicazioni elettroniche di un “hacker” senza ordine del tribunale se c’è il consenso del proprietario del computer attaccato; autorizza gli agenti federali ad acquisire la documentazione su cosa leggono o cercano gli utenti di biblioteche, librerie e altre imprese o istituzioni; autorizza lo scambio d’informazioni, permettendo che le informazioni su attività terroristiche raccolte dalla polizia o presentate davanti a un “grand jury” federale siano trasmesse alle agenzie d’intelligence; amplia il programma di monitoraggio degli studenti stranieri a istituzioni come scuole di volo, corsi di lingua o di formazione professionale; triplica il numero di agenti – compresi quelli di dogane e immigrazione – lungo le frontiere USA; richiede la raccolta del Dna di terroristi già riconosciuti colpevoli.

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Si tratta della struttura commerciale o organizzazione che offre agli utenti l’accesso a Internet con i relativi servizi; in italiano è anche detto “fornitore d’accesso”.

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In Italia assistiamo alla creazione del Decreto-legge 24 dicembre 2003, n. 354 che obbliga i service provider, le compagnie telefoniche e, più in generale, tutti i fornitori d’accesso alle telecomunicazioni, a mantenere per la durata di cinque anni tutti i dati relativi alle comunicazioni telefoniche, via sms, via Internet e via email. Il decreto-legge non riguarda i contenuti delle comunicazioni ma, come viene rilevato, è quindi proprio sotto il profilo di merito che il decreto appare inadeguato, anche al di là dei suoi specifici contenuti. Infatti, nonostante dal decreto sia esclusa la registrazione dei contenuti delle comunicazioni, con la telematica, soprattutto nel caso dei dati del traffico Internet, una chiara distinzione fra contatti e contenuti viene meno. Poiché i ‘contatti’ riguardano il numero del chiamante, del chiamato, la data e l’ora e la zona per i telefoni mobili ma anche altri dati come il tragitto di una comunicazione, mittente e destinatario, numero dei caratteri inviati per e-mail, la loro registrazione può essere usata per ricostruire gli interessi e la rete delle relazioni sociali di ciascuno. Tali informazioni possono pertanto essere finalizzate ad una proliferazione dei soggetti da cui è possibile ricavare i loro dati sensibili, cioè le opinioni politiche e religiose, lo stato di salute e l’orientamento sessuale, ma anche le abitudini d’acquisto e altri comportamenti sociali e personali. Lo Stato in questi contesti non fa altro che continuare in una raccolta sistematica di informazioni sulla popolazione che finisce per essere totalmente schedata, oltre a considerare il fatto che il flusso dei dati è ormai globale, visto che le informazioni passano fra i vari paesi. Si pensi ad esempio al fatto che, con la creazione del Patriot Act, gli USA hanno obbligato tutte le compagnie aeree che atterrano nei loro territori a fornire l’elenco dei passeggeri e le relative informazioni al riguardo (che comprendono anche le preferenze alimentari) alle autorità competenti, nonché l’imposizione – per tutti coloro che si rechino nel paese per oltre novanta giorni – di lasciare le loro impronte digitali.

3.3 Le tecnologie biometriche Un dispositivo di riconoscimento biometrico è, in generale, un apparecchio che permette di autenticare in modo automatico l’identità di un essere umano vivente, attraverso l’analisi di una caratteristica fisiologica o particolarità del comportamento. Si tratta, in altre parole, di rilevare sul momento un’impronta caratteristica dell’individuo e di confrontarla con l’immagine corrispondente acquisita in precedenza al fine di verificarne i punti di coincidenza. Le parti del corpo umano che più si prestano a questo scopo sono: il volto (tratti caratteristici, configurazione dei vasi sanguigni,

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ecc.), l’occhio (retina ed iride), la mano (geometria, configurazione dei vasi sanguigni, ecc.), le dita (impronte digitali, forma, ecc.). Le particolarità del comportamento più considerate sono la scrittura (firma, ritmo della digitazione), il parlato, il battito cardiaco. Le prime, in genere, sono caratteristiche uniche ed immutabili; le altre, invece, sono suscettibili di cambiamenti in relazione alle condizioni personali ed ambientali. Assai promettenti appaiono anche l’orecchio, le labbra e persino l’odore che emana dal corpo umano. Tre sono i compiti essenziali di un dispositivo biometrico: l’apprendimento dell’impronta, il confronto sul momento, l’interazione verso l’esterno. La generazione (una tantum) dell’impronta individuale comprende l’acquisizione dell’immagine relativa alla caratteristica fisiologica o comportamentale, la sua elaborazione, compressione e memorizzazione. Il riconoscimento vero e proprio avviene confrontando l’impronta rilevata al momento sull’individuo da identificare con la corrispondente registrata in precedenza. L’interfaccia verso il mondo esterno riguarda sia l’aspetto operativo (interazione uomo-macchina) sia la connessione fisica ed elettrica con il resto del sistema. L’impronta è acquisita tramite speciali sensori (ottici, ultrasonici, termici, ecc.) presenti nel dispositivo stesso, oppure mediante l’analisi di alcuni fattori legati al comportamento individuale (attività, pause, ecc.) o, ancora, sfruttando entrambe le tecniche. L’immagine catturata è poi elaborata e compressa con l’ausilio di particolari algoritmi dando così origine al template (in chiaro o crittografato). La dimensione può variare da poche decine di bit a migliaia di byte. L’impronta di riferimento è memorizzata nel database del dispositivo per le successive comparazioni oppure è registrata sulla tessera di identificazione (in genere una carta con microchip) per il raffronto diretto in fase di riconoscimento. Se l’apparecchio dispone di un archivio impronte, l’accertamento dell’identità può avvenire secondo due differenti modi: per verifica diretta o attraverso il processo d’identificazione. Nel primo caso il confronto è effettuato tra l’impronta reale e quella memorizzata nel database, il cui ‘indirizzo’ è fornito dal soggetto stesso attraverso la digitazione di un PIN o il codice registrato nella tessera personale, prima di procedere al riconoscimento. In altre parole, il dispositivo verifica se l’utente è ‘chi dice di essere’. Il coinvolgimento richiesto è rilevante (e ciò determina una maggiore durata dell’operazione) ma il tempo necessario al sistema per prendere una decisione è molto breve. Nel secondo caso l’apparecchio esegue un confronto tra l’impronta rilevata al momento e ciascuna posizione dell’archivio. Esso, insomma, verifica se il soggetto è ‘uno fra i tanti conosciuti’ dal sistema, compiendo un processo simile a quello del cervello umano. La risposta è meno rapida (dipende dalle dimensioni del template, dal numero di impronte memorizzate, dai criteri di ricerca in

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archivio, ecc.) ma il riconoscimento è più sicuro e le modalità operative molto più semplici. Le apparecchiature che non dispongono di un archivio impronte (per la quantità dei soggetti in gioco o per altre ragioni) possono effettuare il riconoscimento paragonando l’immagine rilevata al momento con l’impronta memorizzata sulla carta di identificazione personale. Alcuni dispositivi biometrici presenti sul mercato effettuano esclusivamente la verifica (con o senza database), altri solo l’identificazione; altri ancora operano in entrambi i modi. La polizia per verificare l’esattezza delle identità fornite, cerca sempre di più di usare strumenti biometrici. Le tecnologie di riconoscimento e di classificazione hanno fatto miracoli negli ultimi anni, sotto la spinta del potere politico sempre più interessato all’applicazione su larga scala di tali informazioni. E le applicazioni a scopo di controllo sociale non si fanno attendere. La raccolta dei dati biometrici non avviene in maniera identica per tutta la popolazione, gli USA, ad esempio, la applicano a tutti i cittadini che non appartengono ai suoi ventisette alleati, e a tutti i delinquenti. Per quanto riguarda la scansione dell’iride, sono in corso sperimentazioni sui prigionieri, a dimostrazione che le guerre all’estero servono da laboratorio per il controllo sociale sul piano nazionale. La biometria, infatti, dopo essere sperimentata su immigrati e nemici, viene applicata sugli stessi cittadini americani sin dalla scuola. L’Europa non è comunque da meno, e nei confronti degli immigrati adotta politiche analoghe a quelle americane, anche per le richieste (gradite) degli stessi Stati Uniti. L’Unione Europea nel 1997 ha approvato un programma per la raccolta delle impronte digitali che riguarda tutti i richiedenti asilo. Quello che appare evidente è che questa raccolta dati avviene in maniera asimmetrica ed è fortemente stereotipata. Già oggi Germania e Inghilterra sperimentano alle loro dogane le tecnologie di identificazione biometrica. In Italia, il proliferare della videosorveglianza anche nei luoghi pubblici si accompagna sempre più spesso all’uso di tecniche biometriche di identificazione (per esempio, sui treni e nelle strade). Quello di identificare le persone sulla base di caratteristiche fisiche uniche, si sta espandendo sempre più oltre i tradizionali campi di applicazione, quelli militari, per diventare uno dei pilastri della sicurezza civile. Dalla lettura metrica delle vene della mano per usare il bancomat in Giappone, alle impronte digitali prelevate nelle discoteche olandesi per incastrare i disturbatori della quiete pubblica; dalla scansione del volto in alcuni casinò di Las Vegas per difendersi dai bari di professione, all’esame della retina negli uffici immigrazione dei Paesi Bassi, il corpo umano si sta trasformando sempre più in una password con garanzia di inalterabilità e irriproducibilità. E la ricerca prosegue imperterrita: è al vaglio, all’università britannica di

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Leicester, anche un progetto di riconoscimento attraverso le impronte dell’orecchio, da mettere a disposizione degli archivi della polizia. Ma il dilagare delle tecnologie biometriche non mancano di suscitare polemiche e proteste di cittadini e associazioni per i diritti civili: ci si chiede quanto le finalità di identificazione, sorveglianza e sicurezza delle transazioni possano giustificare qualsiasi utilizzazione tecnologica del corpo umano e quanto questa prassi sia compatibile con il rispetto della riservatezza dell’individuo. Il problema principale è come proteggere le banche dati contenenti informazioni biometriche ed evitarne illeciti trattamenti. Per ora, in mancanza di una normativa specifica in materia, il metro cui rifarsi si basa sui due principi fondamentali del codice della privacy: la necessarietà e la proporzionalità delle modalità di trattamento. Ci si interroga anche su quanto queste tecniche servano effettivamente a prevenire immigrazione clandestina e terrorismo. Molti esperti pensano che il passaporto biometrico, pur aiutando a verificare che la persona che esibisce il documento corrisponde a quella indicata nel documento stesso, non serva all’identificazione vera e propria: se un terrorista, insomma, si crea una falsa identità e poi si fa rilasciare tutti i documenti per entrare in America, le tecniche biometriche non potranno certo scoprirlo. E poi le tecnologie stesse non sembrano essere sviluppate a tal punto da rendere il riconoscimento sicuro al cento per cento. Gli scanner di impronte digitali, per esempio, si possono burlare con estrema facilità: uno studioso giapponese ha dimostrato che è possibile prelevare le impronte semplicemente da un bicchiere, elaborarle al computer e trasferirle su gelatina, ottenendo una percentuale di successo dell’ottanta per cento su varie marche di sensori.

3.4 Le tecnologie di identificazione Abbiamo visto che l’utilizzo di carte sconti, raccolte punti e carte di credito consente alle aziende di raccogliere informazioni sempre più dettagliate sulle abitudini di consumo e le preferenze degli acquirenti, in modo da potere formulare azioni mirate per riuscire meglio a vendere i propri prodotti. Molte delle informazioni le aziende le prendono anche direttamente dagli apparati statali: numeri di previdenza, residenza anagrafica, numeri di telefono. Negli USA questo sistema è prassi consueta. In Canada attraverso il PIPEDA (Personal Information Protection and Electronic Documents Act) il governo ha obbligato le aziende che lavorano nella regione a ottenere, in maniera esplicita o meno, il consenso degli individui alla distribuzione e al trattamento dei propri dati. Le nuove tecnologie permettono un’espansione massiccia dei settori da cui

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ottenere informazioni e nuove modalità per farlo. Uno dei punti chiavi per le aziende diventa sapere in anticipo, data la crescente globalizzazione dei consumi, chi è affidabile o meno. Grazie all’utilizzo di carte magnetiche, di chip, e al controllo incrociato dei dati, le aziende riescono a raggiungere questo scopo. Con l’utilizzo delle carte di credito le aziende possono procurarsi informazioni personali sulle preferenze d’acquisto, e al tempo stesso esse rappresentano un segno di riconoscimento, una quasi carta d’identità, che ci classifica come consumatori, quindi affidabili. L’espansione dell’utilizzo delle carte di credito per effettuare pagamenti, così come quello delle ‘carte fedeltà’ delle compagnie petrolifere o dei supermercati, se dal consumatore viene vista come una comodità, una possibilità di girare senza contanti e di rateizzare le spese o ottenere sconti e premi, alle aziende permette di ottenere informazioni dettagliate su quali prodotti preferiamo, dove siamo soliti fare spese, in quale misura siamo soliti utilizzare la carta. Attraverso lo scambio dei dati fra le diverse imprese commerciali, i produttori riescono a capire da chi viene preferito il prodotto, da quali ceti sociali, e le aree dove vende di più; questo permette loro di pianificare politiche aziendali adeguate per allargare i consumi. Ma il salto avanti che le carte comportano riguarda l’individuo. Infatti, se da un lato le categorie in cui si è inseriti diventano sempre più precise, dall’altro la raccolta dei dati individuali permette alle aziende di sapere con precisione a chi rivolgersi per vendere il loro determinato prodotto. Si possono effettuare campagne pubblicitarie mirate, sapendo chi escludere e chi includere nella vendita. Le carte di credito quindi rafforzano il potere delle statistiche, rendendole sempre più vicine alla realtà, e accrescono il sapere sugli individui permettendo alle aziende di parlare al singolo piuttosto che alla massa. Questo aspetto è centrale per il settore dei mass media. Lo sviluppo di sistemi digitali quali il decoder, per le aziende che operano nel settore, permette di non parlare più ad un’audience generalizzata, ma di parlare ad un pubblico, specchio della società, composto da individui. La potenziale personalizzazione della visione, dal telespettatore è vista come una liberazione in quanto ognuno può crearsi il proprio palinsesto, e non è più lui ad adattarsi alla visione, ma è essa che si adatta al tempo che lui vuole dedicargli, nel momento in cui vuole farlo. Il decoder inoltre permette l’accesso a determinati servizi, parlare con le pubbliche amministrazioni, effettuare acquisti, avere informazioni su determinati settori, che dal telespettatore vengono percepiti come un valore aggiunto. Il vantaggio per le imprese è rilevante in quanto, non solo riescono a sapere con precisione, non come con l’Auditel, chi guarda cosa e in quale momento, fornendo indicazioni basilari per indirizzare e progettare in futuro nuovi programmi, ma

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riescono ad avere informazioni sui contenuti da noi preferiti. La raccolta dati attraverso il decoder digitale viene così aggiornata con importanti riferimenti culturali. Altresì, gli svantaggi sembrano non apparire evidenti. Lo sviluppo di questi sistemi, che offrono la possibilità di personalizzare il palinsesto, tende a basarsi sulla possibilità di semplificare la vita del telespettatore. La tendenza in atto è quella di fornire ad esso informazioni sui programmi da vedere, basandosi sui gusti precedentemente esposti. Questo comporterebbe la fine della probabilità dell’imprevisto, ossia trovare inaspettatamente un programma possibilmente interessante per noi, e può comportare un impoverimento culturale, in quanto tutto ciò che è altro dai nostri ‘gusti’ verrebbe escluso dall’offerta. Ma, in particolare, per il settore di nostro interesse “questo comporta un’intensificazione della sorveglianza diminuendo ancora la privacy dell’individuo facendo lentamente diminuire la soglia che separa il pubblico dal privato”24. Sicuramente la crescente convergenza in atto fra più media in uno (pc che permettono di guardare la televisione e i film, televisori che possono navigare in Internet, decoder digitali con hard disk), che sta trasformando le nostre case, comporterà un aumento delle informazioni raccolte su di noi, ma, nel presente, non tanto quanto quello reso possibile da tutti gli strumenti mobili che circondano le nostre esistenze, e dall’utilizzo della rete. Le tecnologie mobili hanno la straordinaria capacità di abbattere la barriera spaziale e mettere in comunicazione soggetti o reti fra loro distanti. Gli scenari che si prospettano realizzabili vedono la rete come ambiente unico di collegamento fra i vari dispositivi in nostro possesso, oppure vedono questi ultimi come interfacce in grado di porci in relazione ogni volta con l’ambiente desiderato. Quello che in entrambi i casi si prospetta è un mondo in cui le tecnologie portatili, quali cellulari, pc, palmari, e simili, siano esse racchiuse in un unico dispositivo o rimangano separate ed indipendenti, diventino maggiormente importanti nelle nostre esistenze. Strumenti di comunicazione indispensabili. Su quello che questo futuro scenario possa comportare per l’incremento della sorveglianza, noi possiamo soltanto speculare. Formulare ipotesi che possano essere più o meno verosimili. Ma se invece ci soffermiamo sul momento attuale possiamo individuare delle tendenze in atto e capire meglio il presente. Analizzando le tecnologie di comunicazione mobile quale il cellulare possiamo notare un grande salto in avanti delle possibilità commerciali delle aziende, nell’adozione di sistemi di terza generazione (UMTS). Prima di essi il telefono si configura solo come uno strumento di comunicazione. Le aziende 24

D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, cit., p. 158.

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possono ottenere informazioni importanti quali la rete di relazioni che noi abbiamo, l’utilizzo che facciamo del telefono, la quantità di traffico generata. In questi casi possono far rientrare noi in determinate categorie e farci partecipi di determinate offerte. Inoltre forniscono, come abbiamo evidenziato, informazioni preziose su di noi all’apparato statale. Ma niente più. L’avvento dei cellulari di terza generazione comporta invece un cambiamento radicale, in quanto il telefono si trasforma: diventa strumento di svago con la possibilità di vedere programmi televisivi, mezzo attraverso il quale collegarsi con la rete, in pratica diventa multimediale. E questa multimedialità implica sia una serie di servizi in più che noi possiamo avere, sia l’aumento dei fornitori di questi servizi. Questo comporta una ridefinizione delle strategie aziendali; agli inserzionisti vengono venduti i nostri numeri di telefono per mandarci della pubblicità. L’aspetto da sottolineare è che la multimedialità del telefono, come nel caso dei decoder digitali, permette di ottenere informazioni che riguardano le nostre preferenze culturali. I cellulari UMTS incrementano in maniera significativa la raccolta dati e migliorano il profilo che le aziende hanno su di noi. Inoltre essi permettono la localizzazione precisa della nostra posizione. In questa maniera le informazioni, sarebbe meglio chiamarle pubblicità, da noi ricevute, riguarderanno l’area in cui ci troviamo in quel momento. Passando di fronte ad un negozio potremmo venire informati delle offerte che ci sono all’interno perché rientriamo in una delle categorie a cui è abbinata la vendita di quel prodotto. Quello che appare preoccupante in questo, non è tanto la lesione della privacy, in quanto speriamo spetti sempre al soggetto la decisione se accedere o meno a questi servizi, quanto la capacità dei database di aumentare il loro potere di conoscenza su di noi, essendo essi una tecnologia, come abbiamo potuto osservare, fortemente discriminante. Il potere di conoscenza delle aziende viene aumentato non soltanto grazie ai cellulari, ma anche da altri strumenti di rilevazione. Sistemi quali il Gps (Global Positioning System), se sono utilissimi sia per le aziende sia per gli automobilisti per rintracciare l’automobile in caso di furto, forniscono però con estrema precisione informazioni in tempo reale sulla nostra posizione. Il Gps è un sistema che permette di sapere la posizione occupata nello spazio da un qualsiasi dispositivo ad esso collegato. È composto da ventiquattro satelliti che orbitano attorno al pianeta, da sei centri di controllo situati nel globo e da una serie di antenne posizionate a terra. Le antenne a terra captano i segnali trasmessi dai diversi dispositivi mobili e li trasmettono ai satelliti, questi li ritrasmettono alle stazioni di monitoraggio che a loro volta li mandano ad una centrale situata a Falcon nel Colorado. Attraverso questo scambio di dati il sistema riesce a calcolare la longitudine, la latitudine e l’altezza in cui si trova uno dei dispositivi.

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Questo esempio ci mostra benissimo la flessibilità tecnologica dei sistemi di sorveglianza e il fatto che gli stessi possano comportare un diverso tipo di controllo per diversi tipi di persone. I sistemi Gps permettono alle aziende di controllare la posizione di un utente in un determinato luogo e, in base alla creazione dei profili di cui abbiamo abbondantemente parlato, offre di indirizzare le spese dello stesso quando si trova in una determinata zona. Per la stragrande maggioranza i sistemi Gps sono strumenti che rendono possibile l’incremento della raccolta dei dati personali. Lo sviluppo di carte per i trasporti pubblici dotate di chip, ci potrebbe rendere individuabili anche quando prendiamo i mezzi pubblici. Le smart card contengono un microprocessore incorporato e una memoria. Dispongono inoltre di un sistema di archiviazione protetta per i dati, incluse le chiavi private e i certificati con chiave pubblica. Anche le carte di credito come le carte di fedeltà possono rientrare in questa categoria, ma le smart card hanno un utilizzo molto più ampio. La loro caratteristica è infatti quella di potere contenere nel proprio chip una serie di informazioni che possono essere costantemente aggiornate. La quantità delle informazioni varia dalla capacità di memoria della scheda. Questa caratteristica permette alle smart card di essere utilizzate in maniera diversa da varie agenzie con funzioni diverse a seconda dei loro scopi. In Canada vengono utilizzate dal Ministero della sanità come tessera d’identificazione sanitaria, inserendo al loro interno la cartella clinica del soggetto, in maniera tale da fornire ai diversi enti coinvolti con il paziente, ospedali o anche farmacie, con precisione ogni sua informazione e somministrare le giuste terapie. Possono essere utilizzate dalle amministrazioni per permettere ai cittadini di accedere a determinati servizi, come il pagamento delle imposte o la richiesta di certificati, inserendo al loro interno le informazioni ad essi relative. Vengono utilizzate nei cellulari di terza generazione per permettere di verificare che il telefono utilizzato funzioni solo con quel tipo di scheda, in maniera tale da impedirne utilizzi impropri. Le nostre esistenze si prestano ad essere costantemente monitorate, sia in casa che fuori, dalle aziende. La crescente personalizzazione è affrontata dalle società cercando di cambiare la modalità di trasmissione dei propri messaggi. Non si può più parlare ad un pubblico unico, considerato massa omogenea, ma bisogna parlare agli individui. La rete offre la possibilità di valutare l’efficacia della pubblicità. L’efficacia del messaggio pertanto non viene più calcolata in base al cost per impression (il costo totale che è stato sostenuto per la comunicazione del messaggio diviso per il numero di consumatori raggiunti da esso) ma verrà sostituita dal cost response. Nelle società postmoderne, saranno le risposte generate al messaggio da parte dei consumatori a determinare il ‘costo/contatto’, di conseguenza l’oggetto di

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transazione pubblicizzato cesserà di essere in prima istanza il prodotto, ma sarà la pura informazione sul cliente, che porterà in un secondo momento, e in un altro luogo all’acquisto. Bisogna fare in modo di contattare il consumatore. Avere un rapporto diretto con lui. La rete si presta ad essere il luogo in cui l’interazione fra consumatore e azienda può avvenire. Le strategie attuate per rendere possibile la comunicazione si prestano ad essere sia di tipo orizzontale che verticale. In entrambi i casi si cerca di contattare il maggior numero di persone che rappresentano il target di riferimento con un costo minimo e viene attuato il viral marketing. Il principio è che la comunicazione deve tendere a propagarsi come un virus nella rete. Attraverso i forum, le chat, i newsgroups, le newsletter, si cerca di utilizzare quello che viene comunemente chiamato “passaparola”: le aziende possono incentivare direttamente la discussione su determinati temi creando propri spazi di aggregazione, oppure possono lanciare un prodotto in spazi di discussione già esistenti sperando che il messaggio si diffonda scatenando un effetto a valanga. Nei portali le strategie orizzontale e verticale vengono utilizzate in maniera simultanea: un tema viene lanciato dall’azienda e lo si lascia commentare dagli utenti facendolo diffondere grazie a loro. In questa maniera, dalle loro discussioni, si possono ottenere preziose informazioni riguardo le preferenze del target di riferimento. Tanti metodi possono essere attuati per raccogliere informazioni sugli utenti, e questo rende evidente come la rete offra alle aziende la possibilità di avere maggiori dati con cui creare statistiche, tassonomie e migliorare i profili. Una delle prime cose da evidenziare del processo di navigazione dell’utente, in relazione alle tecniche di profiling, è che questo è costantemente monitorato. Ogni computer infatti una volta connesso alla rete viene fornito di un indirizzo IP che lo identifica, e quest’indirizzo viene comunicato a tutti i server a cui di volta in volta ci si appoggia. È la nostra chiave d’accesso e riconoscimento. Grazie a ciò si afferma la tecnica dell’analisi dei click: quali siti sono stati visitati, attraverso quali collegamenti, quali sono i banner maggiormente cliccati e così via. Le aziende attraverso questi dati possono sia ottenere importanti informazioni riguardo il posizionamento di un proprio annuncio nel web, sia verificare il percorso di un utente nel tempo, infatti la maggior parte dei siti tende a conservare nel proprio database le visite dell’utente. Siti come Google ad esempio mantengono tutte le ricerche che un utente ha effettuato nell’arco degli ultimi cinque anni, mentre altre aziende quali Internet Profile sono in grado di fornire ai propri clienti informazioni su chi ha visitato il sito e il tempo di permanenza in esso. Come abbiamo potuto vedere con la rete cade la differenza fra contatti e contenuti, in quanto anche solo sapere quale sito abbiamo visitato comporta sapere anche a quali

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contenuti abbiamo accesso. In questa maniera i profili che vengono creati riguardo i navigatori sono pieni di riferimenti culturali. Basti pensare che i giornali on-line riescono a sapere con precisione quali articoli un utente ha letto e quali sono state le immagini che hanno catturato la sua attenzione. Possiamo avere programmi quali il Word o PowerPoint che, attraverso i GUID (Globally Unique Identifier), riescono a registrare ogni documento che viene creato al computer e a collegarlo con l’identità reale della persona che lo ha generato. Inoltre la maggioranza dei programmi tende ad essere fornita di spyware che altro non sono che software in grado di monitorare le attività svolte dall’utente. Il semplice Windows Media Player raccoglie tutte le informazioni relative ai cd ascoltati, alla musica scaricata, ai Dvd visti, in pratica a tutti i file aperti con il lettore, e ogni volta che ci colleghiamo alla rete, li invia al proprio server di riferimento. Tutto questo solleva seri interrogativi riguardo alla privacy in rapporto al potere delle aziende. Infatti, l’art. 23 del Codice in materia di protezione dei dati personali prevede che l’utente debba ogni volta esercitare il proprio assenso al trattamento delle informazioni da lui fornite, mentre, nel caso esposto, il trattamento comincia ogni volta che l’utente utilizza il programma considerando implicito l’assenso. In entrambi i casi è lecito il sollevarsi dei dubbi relativi alla fuga di dati sensibili. Un aspetto preoccupante del problema è infatti che la maggior parte di questi programmi funziona in maniera indipendente dall’attività dell’utente, essi sono inoltre completamente invisibili allo stesso. Nel momento in cui amministrazioni pubbliche, privati, siano essi aziende o semplici commercialisti, utilizzino questi software, i nostri dati potrebbero essere scambiati senza che noi, né tantomeno chi li detiene, ne possiamo essere a conoscenza, o abbiamo le capacità di impedirlo. Un ulteriore aspetto da rilevare della questione è che in molti casi i governi non riescono ad arginare il fenomeno, o collaborano con le aziende produttrici di software, in quanto esse forniscono il know-how necessario a loro per ampliare le maglie di controllo sulla vita dei cittadini. Oppure possono essere proprio le aziende a fornire informazioni ai governi quando vedono pratiche non lecite. La strategia dell’esclusione/inclusione grazie al web viene migliorata significativamente in quanto si estendono i settori in cui si possono ottenere informazioni sugli individui, sui loro interessi, e sulla rete delle loro relazioni. Ultimo aspetto da evidenziare per quello che riguarda la rete è lo scenario che si sta profilando. Uno dei principali problemi che affliggono gli utenti è quello della ricerca delle informazioni. Ogni volta che effettuiamo una ricerca attraverso un motore siamo impressionati dalla mole di pagine che si presenta di fronte ai nostri occhi. Tutte queste pagine devono essere da noi visualizzate per capire se l’informazione che ci serve è presente o

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meno al loro interno, in quanto la ricerca che abbiamo effettuato si basa solamente su parole chiave. In parole povere, la struttura del web semantico permetterebbe di sapere quali sono i contenuti di ciascun documento che è presente nella rete. Se a questo aggiungiamo ciò che abbiamo visto in precedenza, possiamo vedere come ogni nostro singolo documento, ogni nostra mail, potrebbe essere classificata in base al contenuto. Lo scenario è inquietante se solo lo trasferiamo da uno Stato democratico ad uno totalitario: uno Stato potrebbe condannare qualcuno solo perché in un documento in Word ha scritto che è contrario alle politiche governative. Il problema, lungi da riguardare solo l’utente, sembra preoccupare anche le aziende. La continua violazione della privacy a cui è sottoposto il navigatore negli ultimi tempi sta emergendo con vigore e vengono attuate misure di protezione. Sono sempre maggiori gli utenti che utilizzano sistemi anonimi per non essere ‘tracciati’. Come avvertono gli esperti di marketing questo comporta da un lato l’accrescersi dei costi per ottenere le informazioni, dall’altro la perdita di fiducia da parte del consumatore nei confronti dell’azienda. Le aziende hanno informazioni sempre maggiori sugli individui, mentre gli stessi non sono a conoscenza di nessun aspetto circa il trattamento delle informazioni da loro fornite, né tantomeno delle modalità attraverso le quali vengono fornite. L’asimmetria delle relazioni che si riscontra nelle società postmoderne e che vede ai vertici le aziende, soprattutto quelle di software, in quanto detentrici sia del sapere tecnologico che di quello sugli individui, non può che portare ad un aumento massiccio della sorveglianza e del potere delle aziende stesse.

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III Il neotribalismo digitale 1. Il tribalismo postmoderno Le dinamiche operanti negli ultimi decenni nell’ambito delle relazioni sociali si caratterizzano come tipicamente postmoderne. È all’opera una sorta di “tribalismo di ritorno”, in cui si pone in essere quella forza, per Maffesoli la “potenza societale” che precede e fonda il potere nelle sue diverse forme. Dopo il dominio del principio del logos, della razionalità, di una ragione scientifica e unitaria, assistiamo al ritorno del principio dell’eros. Siamo nuovamente dinanzi all’eterna lotta tra Apollo e Dioniso. Il tribalismo, quale fenomeno culturale, s’inquadra all’interno del generale fenomeno di un ritorno esacerbato dell’arcaismo. Il pensiero maffesoliano, almeno in principio, ha faticato ad imporsi in quanto turbava la sensibilità progressista degli osservatori sociali che nelle sue teorie leggevano un ritorno all’oscurantismo, una predilezione per delle categorie, quelle di tribù e comunità, lontane dall’ideale illuminato della modernità. La tendenza contemporanea, fotografata dai fenomeni che oggigiorno viviamo (rave parties, moltiplicazione di sette e movimenti religiosi, creazione di comunità virtuali) è quella di una socialità che ignora il fine da raggiungere, il progetto da realizzare e predilige entrare nel piacere d’essere insieme, nell’intensità del momento, nella gioia di questo mondo così com’è. Un modello non moderno, ma arcaico di socializzazione in cui il relazionale prevale sul razionale, l’affettivo sul cognitivo, il gruppo sull’individuo, il locale sul globale. In questo ‘inselvatichimento’ della vita risiede la vitalità del postmoderno che mette in scena il ritorno del barbaro, del primitivo come forme di rivitalizzazione di ciò che tendeva ad imborghesirsi, ad istituzionalizzarsi. Alla struttura patriarcale verticale si sta sostituendo una struttura orizzontale fondata sulla fratellanza, un modello in cui il ‘fanciullo eterno’ può dispiegare il suo aspetto un po’ ludico un po’ anomico. Il neotribalismo postmoderno oppone all’attore, l’adulto forte e razionale, la figura del ‘fanciullo eterno’ che attraverso i suoi modi d’essere, la sua musica riafferma la fedeltà a ciò che è. Ovviamente, il legame strutturale tra Dioniso, tribalismo e nomadismo accentua l’aspetto pagano, ludico, disordinato dell’esistenza, il

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ritorno del barbaro in una società asettica e razionalizzata. Frederic le Play dice: “Le società perfette restano incessantemente sottomesse a un’invasione di piccoli barbari che fanno riaffiorare senza sosta tutti i cattivi istinti della natura umana”1. Ci sono momenti in cui si osservano processi di passaggio culturale, uno slittamento dalla polis al tiaso, da un ordine politico a un ordine fusionale. Lontano da un etnocentrismo particolare generalizzato, quello in cui i valori di un cantone si erigevano a modello per tutti tipico della modernità, il tribalismo riafferma l’importanza del sentimento d’appartenenza a un luogo, a un gruppo.

1.1 La nuova vita sociale La vita sociale caratterizzata dallo stare insieme, e subordinata all’esistenza di un sentimento comune, rinnova oggi l’importanza dell’ideale comunitario. Si partecipa, si corrisponde ad un ethos comune. Secondo Maffesoli ciò che è privilegiato non è quello a cui ciascuno volontariamente aderisce (prospettiva contrattuale e meccanica) ma piuttosto quello che è emozionalmente comune a tutti (prospettiva sensibile e organica). Ciò che caratterizza il neotribalismo è dunque la dimensione comunitaria della socialità. In epoca moderna invece la società si costituisce razionalmente sulla base di un contratto2. Secondo J.-J. Rousseau, infatti, ognuno cedeva una parte della propria libertà a favore della sopravvivenza del gruppo. L’affettività e l’emotività, che come vedremo rappresentano il collante del tribalismo postmoderno, erano presenti in forma latente e comunque pronte a riaffiorare. La razionalizzazione dell’esistenza tendeva ad evacuare l’esperienza etica attraverso l’universalizzazione delle reazioni e delle situazioni puntuali. La riscoperta della socialità nel postmoderno dipende da due fattori di notevole importanza: la crisi dello stato-nazione e la globalizzazione. Maffesoli nota come ogni qualvolta le istituzioni abbiano attraversato momenti di crisi si siano create comunità di base. La crisi dell’unità insita nei concetti di Dio, Stato, Nazione e per ultimo quello di globalizzazione che sembrava incarnare la reductio ad unum preannunciata da Comte a proposito della società, pone l’individuo in una situazione di assoluta incertezza. L’assenza di punti di riferimento lo induce a cercare forme alternative in grado di guidarne gli orientamenti e di soddisfarne il bisogno di sicurezza. Il mondo e l’individuo 1

Citato da Charles Maurras in Dictionnaire politique et critique alla voce ‘education’, p. 401. 2 Cfr. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individuo, Armando, Roma 1988.

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NEOTRIBALISMO DIGITALE

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non possono più essere pensati a partire dalla reductio ad unum. Bisogna riprendere il meccanismo di partecipazione magica: agli altri (tribalismo), al mondo (magia), alla natura (ecologica). Non si tratta più di barricarsi nella propria mente, in un’identità intoccabile, ma al contrario si tratta della perdita di sé, di processi di dispersione che pongono l’accento sull’apertura, sul dinamismo. All’imperativo categorico kantiano, imperativo morale, attivo, razionale si sostituisce un “imperativo atmosferico” (Ortega y Gasset), una ambiance dove importa solo la dimensione trans-individuale, collettiva. Cade il principio d’individuazione quale asso nella manica di ogni organizzazione e teorizzazione sociale. Il tribalismo appare in maniera radicale una dichiarazione di guerra allo schema unitario che ha segnato l’Occidente. La crisi dell’individuo come sua ultima forma, e di conseguenza dell’identità quale suo modo d’espressione, prepara lo slittamento postmoderno dall’individuo (che esercita la funzione in sistemi contrattuali) alla persona (che recita un ruolo nelle tribù affettive). L’universalismo del soggetto e della ragione lascia il posto a ragioni ed affetti locali, situazionali. Non è più la verticalità del cervello che prevale, ma il risveglio della persona nella sua interezza. È il “pensiero del ventre” che guida e sa considerare i sensi, le passioni e le emozioni comuni. Dunque di fronte alle crisi le persone reagiscono riscoprendo una socialità che viene investita di una valenza emotiva fortissima. Alla crisi epocale della razionalità si sostituisce un’ondata di emozionalità che pervade la nostra società. Quello a cui assistiamo è un evento in un certo senso paradossale, una sorta di ‘reincantamento del mondo’, che avviene grazie proprio a quella tecnologia che nella modernità era stata il mezzo di razionalizzazione dell’esistenza. Nella definizione delle nuove dinamiche sociali è quindi l’affetto ad avere un ruolo fondamentale: è la “comunità emozionale” (Gemeinde) di Max Weber. Si tratta di una ‘categoria’, ovvero di qualcosa che non è mai esistito in quanto tale, ma che può servire come rivelatore di situazioni presenti. La comunità emozionale si distingue per l’aspetto effimero, l’assenza di un’organizzazione e la struttura quotidiana. La socialità che esprimono non può essere oggetto di una distinzione binaria, in quanto queste forme di aggregazione sociali hanno contorni indefiniti: assistiamo alla sostanziale sostituzione di un sociale razionalizzato con un sociale a dominante empatica. La socialità si esprime in una successione di ambiance, sentimenti, emozioni; assume caratteri che superano la logica dell’identità. Tra gli individui si forma un “legame di reciprocità” (Simmel), un legame in cui l’incrocio tra azioni, situazioni, affetti si configura come un tutto. Da ciò deriva la metafora della “dinamica della tessitura e statica del tessuto sociale” secondo la quale la forma societaria si configura come creazione a

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partire dalle forme semplici della vita, dai fatti quotidiani dell’esistenza, alla stregua della forma artistica come risultato della molteplicità dei fenomeni reali o ‘fantasmatici’. In questa prospettiva la vita comune diviene forma pura, valore in sé, “impulso di socialità”, può essere considerata come un’opera collettiva, opera d’arte. Così come esistono società economiche o politiche, anche il ludico, il banale assurge a divenire realtà, una coesistenza sociale che Maffesoli indica col termine di socialità, “forma ludica della socializzazione” (Geselligkeit). Il ludico è ciò che non ha finalità pratiche, è l’essere insieme in sé per sé, privo di qualsiasi determinazione e qualificazione, frutto della spontaneità e della vitalità. È ciò che garantisce ad ogni cultura la sua forza e la sua solidità specifica. La riscoperta della socialità procede di pari passo con la valorizzazione di elementi che nella modernità erano stigmatizzati e considerati negativamente. L’essere gomito a gomito, la prossimità divengono il fulcro di una nuova modalità dello stare insieme. Mentre nella modernità si dava centralità alla dimensione economica, politica, razionale oggi si ritorna alla ‘cultura’ nel senso letterale del termine. L’immaginario e l’immateriale assumono un ruolo fondamentale, così come la comunicazione diviene fattore di riconoscimento e identificazione attorno al quale si formano le comunità. La comunicazione assume il ruolo che in passato hanno svolto l’economia e la sociologia. Questo sentire comune, questa capacità di vibrare all’unisono, tipica delle conformazioni sociali contemporanee, questa convivialità di sentimenti ed emozioni, rappresentano ciò che Maffesoli indica col termine di “potenza” per differenziarlo dal potere burocratico freddo e razionale tipico delle istituzioni. Bisogna precisare però che l’emozione di cui si parla non può essere assimilata a qualunque pathos: permanenza e instabilità sono i caratteri attorno ai quali si sviluppa l’emozionale. I valori dionisiaci di questa tematica sono dunque ben lungi dal rappresentare un’estrema forma dell’attivismo borghese, non vanno erroneamente inseriti all’interno della marcia lineare dell’umanità, in quanto ciò che predomina nell’atteggiamento di gruppo è la disindividualizzazione, il caso, il dispendio3. La distinzione potere/potenza in seno all’analisi sui nuovi gruppi è rivolta proprio ad evitare tali aberrazioni. Nella modernità l’eccessivo accento posto sulla disumanizzazione, sul disincanto del mondo e sulla solitudine generata ha impedito di vedere le reti di solidarietà che si andavano formando nel suo sostrato. L’esistenza sociale è alienata, sottomessa alle ingiunzioni di un potere multiforme, ciononostante, esiste una potenza affermativa che ripete il “gioco rinnovato del solidarismo 3

Cfr. M. Maffesoli, L’ombra di Dioniso, Garzanti, Milano 1990.

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e della reciprocità”. A seconda delle epoche dunque prevale un tipo di sensibilità che regola i rapporti con l’alterità e che permette di rendere conto del passaggio dalla polis al tiaso, dall’ordine politico a quello della fusione. Il primo privilegia l’individuo e le associazioni contrattuali che instaura, il secondo la dimensione affettiva. Da una parte il sociale con finalità pratiche proprie, dall’altro una massa dove si cristallizzano organizzazioni di ogni ordine, puntuali, effimere, situazionali. Il ruolo della potenza dunque, riprendendo lo schema utilizzato per la descrizione della figura di Dioniso, sembra non cessare mai. La spiegazione di questa inevitabilità di tale forza, di tale voglia di vivere risiede forse nell’aforisma di Durkheim: “Se l’esistenza continua a durare è perché, in generale, gli uomini la preferiscono alla morte”4. In queste parole si può leggere la presenza latente di un vitalismo arcaico la cui azione può essere o segreta, o discreta, o manifesta. È la crisi dei poteri, di ciò che hanno di sovrastante, di astratto che permette la rivalutazione del dionisiaco. L’alternanza tra potere estrinseco e potenza intrinseca dà vita all’alternanza tra un periodo ottico, in cui prevale la messa a distanza e un’epoca tattile, in cui interessa solo la prossimità. Nelle numerose manifestazioni di oggigiorno, dalla saturazione del politico al fallimento del mito progressista, dall’importanza dell’edonismo alla rivalutazione dell’immagine, si può intravedere la risurrezione di ciò che si può chiamare la ‘potenza irreprimibile’. L’ombra di Dioniso ritorna nella nostra società per smuovere una società in declino, plana sull’universo razionalizzato e asettico della modernità, preserva la dimensione orgiastica, “il suo brulicare è segno di animalizzazione, ma anche di animazione”. Se da un lato c’è declino delle grandi strutture istituzionali dall’altro c’è uno sviluppo che in generale possiamo identificare con le comunità di base che si formano su una realtà prossemica di cui la natura è la forma compiuta. Simmel mostra che “l’attaccamento alla natura”, “il fascino della potenza” si trasformano in religione. Stricto sensu c’è comunione nella bellezza e nella grandezza. La religione è ciò che lega, la natura di tale legame deriva dalla prossimità, dal fatto di essere gomito a gomito. A differenza del carattere ‘estensivo’ della storia tesa verso un fine che ha caratterizzato la sensibilità occidentale, la natura favorisce l’in-tensione (intendere), con l’investimento, l’entusiasmo, il calore che ciò presuppone. Il vitalismo, nella sua dirompente forza creativa, si configura come l’unica alternativa al declino, alla morte della modernità. Sulla base di tali considerazioni l’idea di comunità di Maffesoli si fonda sull’unione di etica ed estetica5. Egli parla addirittura di etica dell’estetica 4 5

È. Durkheim, Pedagogia e sociologia ed. Canova, 1968, p. 96. Cfr. M. Maffesoli, Nel vuoto delle apparenze, per un’etica dell’estetica, Garzanti, Milano 1993.

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come una sorta di comportamento in cui affetto ed emozione svolgono un ruolo fondamentale nell’ambito dell’organizzazione sociale. Tale associazione (etica ed estetica) deriva dalla necessità di distaccarsi dalla morale del politico. La morale, infatti, è razionale, universale, intesa come applicabile in ogni luogo; al contrario l’etica, già nella sua derivazione etimologica, si configura come il cemento (ethos), è il legame nel suo senso più elementare. Alla morale sovrastante e astratta, Maffesoli oppone un’etica empatica, prossemica. La storia può promuovere una morale, mentre lo spazio favorisce un’estetica e secerne un’etica. Mentre la società è rivolta verso la storia da fare, la comunità consuma la sua energia nella propria creazione. È questo che crea il legame tra etica comunitaria e solidarietà. Tale legame è rafforzato dallo sviluppo e dalla ripetizione del rituale, diviene il collante, dà consapevolezza al gruppo, conforta il sentimento che il gruppo ha di se stesso. Il rituale assicura il perdurare del gruppo. La reliance estetica fondata sul gusto, sulla passione, sulla forma non ha alcuna finalità pratica, è priva di orientamenti esterni. Questa estetica crea a sua volta un’etica, “una morale senza obblighi né sanzioni”, una morale interna che ha le sue leggi nella semplice forma dell’aggregazione, che trova consapevolezza esclusivamente nella prossimità, nell’essere membro del corpo collettivo. La prospettiva estetica, facoltà comune di sentire, di provare, s’impone come l’unica in grado di descrivere molte situazioni e atteggiamenti sociali: il neotribalismo che rifiuta di riconoscersi in qualunque progetto politico ed ha come unica ragione d’essere il desiderio di un presente vissuto collettivamente. Attualmente, per esser precisi, non si tratta del “desiderio ardente e incrollabile di essere in accordo con il gruppo” quanto di un’ambiance nella quale siamo immersi. L’appartenenza a realtà sopra-individuali, come mostra Scheler nella sua etica della simpatia, è una forma inglobante che privilegia la funzione emozionale, nonché i meccanismi d’identificazione e di partecipazione. Da questo punto di vista, come vedremo più avanti, la struttura architettonica di internet non ha fatto altro che accentuare l’inglobamento dell’individuo all’interno di una matrice comune in cui la semplice presenza è fonte di uno stretto sentimento di partecipazione ad una gruppalità, la comunità virtuale. La fusione che la rete accentua sorregge la teoria dell’identificazione, dell’uscita estatica da sé a cui assistiamo anche nelle adunate sportive o nello sviluppo dell’immagine, e che segna la fine del principio d’individuazione. La fluidità del neotribalismo si riscontra anche nella rete in cui attraverso varie sedimentazioni si costituisce un’ambiance estetica in cui possono realizzarsi ‘condensazioni istantanee’ fragili sì, ma oggetto di un forte investimento emozionale. Il ritorno alla comunità sembrerebbe ad un primo approccio in contraddizione rispetto alle tendenze

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alla mondializzazione-globalizzazione. Lo stesso sviluppo di internet sembrerebbe annullare le distanze e ridurre le possibilità di aggregazioni locali o comunque ristrette. La grande entità che è entrata in crisi non è però il gruppo, quanto l’idea di stato-nazione, un concetto base di una modernità ormai finita. Il fenomeno della globalizzazione non è omnicomprensivo, tocca aspetti economici, tecnologici e commerciali, ma non riguarda le comunità che si basano su legami di altro genere, principalmente emotivi. Il tribalismo di cui parla Maffesoli, il cui concetto procede di pari passo con l’idea di comunità, si basa sull’intreccio di elementi quali lo spirito religioso, il localismo, la natura e la prossimità. Siamo dunque nell’epoca in cui la caduta delle grandi utopie illuministe ha lasciato il posto alla logica del toccare, in cui la socialità emerge come religiosità, termine che va preso nel suo senso più semplice di reliance e quindi nell’accezione di religare, collegare, unire. Questa religiosità procede a fianco di altre forme di de-istituzionalizzazione, sorretta dallo sviluppo tecnologico che nella modernità ne aveva sminuito la portata. La logica economica, privilegiando il progetto politico e l’atomizzazione dell’individuo, non ha potuto assolutamente dare smalto all’immaginario collettivo. Ciò ha condotto al conosciuto disincanto del mondo, senza considerare né dare alcun peso all’immaginario e alla forza della collettività. Il piccolo gruppo, al contrario, come possiamo vedere nelle manifestazioni di oggi, si fa portatore di un nuovo simbolismo, è l’anima che incarna una rinascita culturale della vita sociale.

1.2 L’era delle tribù Le peculiarità in seno al tribalismo postmoderno si possono elencare in tre categorie ben distinte: – – –

la contrapposizione sociale/socialità, la socialità elettiva, la legge del segreto.

La contrapposizione sociale/socialità: nel primo caso c’è un gruppo stabile (partito, associazione, società) che produce una funzione mediante una struttura meccanica che s’impone all’individuo. Si tratta di un’organizzazione razionale della vita sociale cui corrisponde una diffusione del sapere verticale dall’alto (stato, istituzioni) al basso. Al sociale della modernità si oppone nell’epoca postmoderna la socialità, il ritorno dell’immaginario, del bisogno di stare insieme, cui corrispondono forme di comunicazione oriz-

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zontali, di cui internet con la sua struttura reticolare è l’esempio lampante. È la persona che decide il ruolo all’interno della propria tribù. La persona cambia costumi di scena e a seconda delle proprie inclinazioni (culturali, religiose, sessuali), ogni giorno prende parte alle svariate recite del theatrum mundi. In ciò si nota la distinzione tra la stabilità sociale, individuale o in seno alla società, e la mobilità-fluidità del neotribalismo. Ciò che maggiormente emerge è il fatto che non è più l’individuo che conta, ma la persona. Il principio d’individuazione perde ogni determinazione soprattutto se notiamo la moltiplicazione degli atteggiamenti di gruppo nella nostra società. In alternativa al principio d’autonomia esiste un principio di allonomia (la legge viene dall’esterno) che si fonda sull’adeguamento, sull’articolazione organica all’alterità sociale e naturale. Questo principio contravviene in maniera totale al modello attivista che plasmò la modernità. Il secondo aspetto del tribalismo è la socialità elettiva: ciò significa che la logica dell’identità slitta verso quella dell’identificazione, per cui ciò che assume senso non sono gli individui nella loro autenticità quanto le relazioni che instaurano. Si tratta dello slittamento dall’individuo, dall’identità stabile che esercita la sua funzione, in insiemi contrattuali, alla persona che recita dei ruoli nelle tribù affettive. La logica della rete, l’insieme delle relazioni con i processi di attrazione e repulsione dell’alterità sono stati in passato temperati dal correttivo politico. La tematica del quotidiano mostra oggi come il problema essenziale del dato sociale sia il relazionismo, è la reliance stessa ad essere più importante degli elementi collegati. La logica di sviluppo della società è sottesa alla struttura a rete, non segue una dinamica meccanica, ma diviene sulla base di incontri, situazioni, esperienze. Il dato di fatto di tale dinamica è quello di apportare una maggiore qualità all’aspetto relazionale, poiché, a differenza di quanto avveniva nella modernità, in cui l’intenzionalità era rivolta verso l’avvenire, era estensiva, nella postmodernità la relazione diviene più intensiva, rivolta e vissuta al presente. La legge del segreto: le tribù creano meccanismi di protezione verso l’esterno tali che assumono caratteri similari a quelli utilizzati dalla mafia. In particolar modo il segreto è uno dei maggiori mezzi per confortare il gruppo e per aumentarne il grado di coesione. Il fatto di condividere un’abitudine, un’ideologia determina l’essere-insieme e permette che esso funga da protezione verso qualsiasi imposizione. La condivisione segreta dell’affetto inoltre permette di resistere ai tentativi omogeneizzanti e preserva il gruppo dall’uniformità. Le tendenze in atto nell’ambito dell’utilizzo del segreto all’interno dei gruppi tribali, riguardano da un lato la saturazione del principio d’individuazione, dall’altro lo sviluppo della comunicazione. La ‘maschera’ conforta il legame comunitario, il suo utilizzo garantisce il

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riconoscimento in quanto portatrice di simboli (esempio della duplicità). Ritorna la distinzione tra sociale e socialità, per cui il primo si fonda sull’associazione razionale d’individui con identità precisa ed esistenza autonoma (principio d’individuazione), la seconda si basa sull’ambiguità fondamentale della struttura simbolica. L’autonomia non è prerogativa dell’individuo, non è competenza individuale ma si sposta verso la tribù.

2. Le comunità virtuali Sebbene le teorie di Maffesoli si possano adattare in generale a qualsiasi tipo di comunità, appare evidente come le sue riflessioni, in particolar modo il presenteismo, la dimensione emotiva e l’esser-insieme come finalità, descrivano adeguatamente le comunità virtuali, in particolar modo quelle effimere come i MUD e le chat. In un certo senso internet sembra rafforzare le tesi del sociologo francese, in quanto la struttura reticolare del cyberspazio rappresenta il luogo ideale in cui si può sviluppare una gruppalità caratterizzata da un forte coinvolgimento emotivo e da legami relativamente superficiali. La rete che permette una comunicazione basata sull’hic et nunc appare come l’ultima scoperta postmoderna il cui successo risiede nella capacità di rispondere alle esigenze emergenti di relazioni, di emotività, di comunicazione. Il sentimento di appartenenza tribale è confortato dallo sviluppo tecnologico, le cui peculiarità strutturale ne alimentano il carattere di fluidità e di dinamismo. La struttura reticolare di internet, in particolar modo la sua interattività, crea il modello di un nuovo villaggio globale. Le messaggerie informatiche creano una matrice comunicativa dove appaiono, si fortificano e muoiono gruppi che ricordano le strutture arcaiche delle tribù o dei clan dei villaggi. Queste nuove forme aggregative assumono un carattere effimero, usando un termine filosofico ‘si esauriscono nell’atto’. Ogni tribù ha una durata variabile in base al grado di coinvolgimento dei partecipanti. L’elemento rituale costituisce la religiosità ambientale di questi gruppi, la sua ripetizione attenua l’angoscia propria del presentismo. Come il progetto, il futuro, l’ideale non servono più da cemento della società; il rituale, confortando il sentimento d’appartenenza, può giocare questo ruolo e garantire ai gruppi di esistere. Le reti dunque sono divenute il palcoscenico in cui si esibiscono diversi tribalismi che segnano il tessuto sociale. Le comunità virtuali accelerano i cambiamenti che accompagnano il passaggio alla postmodernità, dalla verticalità all’orizzontalità, testimoniano come le società contemporanee non facciano perno sull’individuo razionale ma su micro-organizzazioni sociali in cui il sé si perde nell’altro e si scioglie nelle

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differenti tribù di cui fa parte. L’interattività in particolar modo rovescia la struttura piramidale della modernità, la sua tendenza ad oscurare le diversità e ad inscriverei soggetti sociali in progetti a lungo termine in nome dell’ideologia e della ragione astratta. Il virtuale, quale nuovo paradigma della postmodernità, non è isolato dal reale ma è potenzialità di nascita di nuove realtà. Le comunità virtuali sono dunque generatrici di nuove realtà che si fondano sulla formazione di legami e di relazioni sociali che condividono desideri e bisogni comuni: un desiderio di socialità e di solidarietà rafforzato dal contatto e dalle relazioni interindividuali su internet, un bisogno di valorizzare se stessi, integrarsi ed essere riconosciuti da una comunità. La definizione di comunità presenta numerose difficoltà di collocazione, in quanto nella stessa parola si contrappongono significati differenti, ma soprattutto perché è passibile di controverse definizioni in base all’ambito al quale ci si riferisce. Nel linguaggio comune, col termine di comunità ci si potrebbe riferire ad un determinato luogo fisico (una città, un paese) così come ad un gruppo di persone che, dividendo lo stesso spazio fisico, sono unite dalle stesse regole comuni. In ogni caso bisogna considerare rispettivamente due aspetti, da un lato quello territoriale, il luogo fisico determinato all’interno del quale un insieme di soggetti interagiscono, dall’altro proprio l’interazione quotidiana diviene il collante che permette di definire l’identità di una comunità, l’esistenza di azioni giornaliere che accomunano un collettivo. Oltre a questi due aspetti vanno poi considerate nella determinazione del concetto di comunità, il senso di appartenenza, l’aspetto coesivo, la solidarietà fra individui. Tutti questi elementi caratterizzano il tratto sociale delle comunità, rappresentano una sorta di humus vitale, una forza impalpabile ma l’unica in grado di creare vincoli e legami d’appartenenza durevoli, fattori di una convivenza intima confidenziale ed esclusiva. Il tratto sociale caratteristico della comunità è la comprensione del fatto che è “un modo di sentire comune e reciproco, associativo, che costituisce la volontà propria di una comunità”. Tale comprensione va intesa nel senso d’unità d’intenti, consenso, comunità di sentire. Una comunità trova la propria forza nella capacità d’ogni individuo di sentirsi parte di un organismo vivente, indirizzato da regole tacite di natura non contrattuale ma spontaneamente accettate. Le comunità sono il corpo di relazioni sociali, sono reti di interazioni. La facilità di spostamento e di comunicazione determinatasi con le moderne tecnologie informatiche ha provocato un deterioramento della componente spaziale in merito alla determinazione di una comunità. Infatti, mentre fino a non molto tempo fa la possibilità di condividere uno stesso spazio fisico rappresentava un fattore determinante per essere parte di una comunità, oggigiorno emergono nuovi e variegati aspetti in grado di

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unire dei soggetti. In particolar modo l’estrema velocità con cui viaggiano le informazioni sulla rete permette ad un grande numero di persone di potersi raggruppare attorno ad interessi comuni. Senza la necessità di condividere una stessa area geografica dunque è possibile esser parte di una comunità, esserne coscienti, sviluppare vincoli d’appartenenza, rapporti di responsabilità verso il gruppo e i suoi partecipanti. Allo stesso modo l’appartenenza ad una collettività può essere determinata dalla condivisione di valori, siano essi etici o politici, in grado di creare ugualmente identità di gruppo e consapevolezza di unità. Anche se le differenti applicazioni in grado di sviluppare la tendenza alla socialità e alla ‘gruppalità’ su internet hanno eliminato la fisicità quale fattore coesivo, il senso d’appartenenza ad una comunità si rafforza e vive dell’interazione quotidiana. In questa ottica s’inseriscono le comunità virtuali, quali gruppi di persone entrate in contatto mediante la rete e che creano rapporti di comunicazione e relazioni interpersonali. Le comunità virtuali si definiscono per quattro elementi fondanti: a) b) c) d)

il contatto tramite internet, ovvero una comunicazione mediata da computer condivisa da tutti gli attori partecipanti; un insieme di due o più persone; il senso d’appartenenza, la consapevolezza di appartenere ad un gruppo; una rete di relazioni tra membri.

Solitamente le comunità virtuali non si caratterizzano per la creazione di vincoli duraturi e costanti. A differenza di gruppi e società infatti le tecniche di aggregazione in rete non presentano carattere di stabilità e solidità. La condivisione di interessi fra i membri di una comunità li lega maggiormente a gruppi mutanti, che si creano nell’hic et nunc e che spesso scompaiono con la stessa facilità con cui si creano. Solo in alcuni casi, quelli puramente tecnici come le comunità scientifiche, si hanno modalità di cooperazione e compartecipazione verso finalità comuni in grado di cementare un’identità sociale forte e resistente. Normalmente invece ciò che unisce le persone in comunità è il fatto di percepire/esperire uno stile comune, condividere necessità o qualche interesse nonché la possibilità di sperimentare il self ed arricchire la propria identità personale tramite una proiezione dell’io nel gruppo. Secondo Hegel, la società è la legge del giorno, la comunità è la legge della notte. In questa immagine risiede una brillante illuminazione riguardo alle caratteristiche tipiche delle relazioni umane. Infatti come afferma Tönnies: “Le relazioni tra volontà umane danno luogo ad associazioni che

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possono essere concepite o come vita reale e organica e questa è l’essenza della comunità, o come formazione ideale e meccanica e questo è il concetto della società”6. Da ciò emerge che le comunità virtuali posseggono sia le istanze che caratterizzano le comunità che quelle della società. Infatti nella rete convivono sia comunità di natura strettamente economico-commerciale, con tratti ben definiti, struttura gerarchica, partecipazione formale, che comunità basate su reti d’affinità, su semplici interessi comuni. In quest’ultimo caso emergono elementi solidaristici, i rapporti sono regolati da istanze di tipo affettivo e comunitario. Una differenziazione tra comunità reali e virtuali è possibile sulla base della mancanza della compartecipazione fisica. L’assenza del contatto fisico determina a sua volta una presunta fragilità delle comunità virtuali, in quanto provocherebbe una sorta di dilatazione dei conflitti interni tra membri, incapacità di rimarginare le ferite. Tale debolezza, sia strutturale sia intrinseca alle comunità virtuali, rappresenta un vantaggio, perché, in realtà, permette di stabilire i vincoli comunitari non sulla base di rapporti di potere, ma sulla base di scelte libere basate su affinità di interessi; dunque, in questa prospettiva, tale debolezza si trasforma in un valore positivo. Non è possibile avere comunque una definizione univoca e organica di comunità virtuale, in quanto vi sono smisurate possibilità di applicazione. Bisogna infatti considerare le loro affinità/differenze rispetto a quelle reali sulla base delle prerogative e delle rispettive funzioni che le diverse comunità in rete assumono. Se ne possono catalogare tre differenti: 1)

2)

3)

funzione strumentale – si tratta delle comunità scientifiche e delle teleorganizzazioni in cui le relazioni sono dirette all’assolvimento di compiti e finalità comuni; funzione di creazione di relazioni sociali – finalità prevalentemente ludica che si caratterizza per l’espressività e l’esteriorizzazione dell’io. È assolta dai giochi di ruolo (MUD) e nelle chat line; sperimentazione delle identità – finalità, anche questa prevalentemente ludica, comporta l’espressione di identità nuove e parallele alternative rispetto a quelle reali.

Le comunità maggiormente diffuse sono quelle con finalità ludiche. In questi casi bisogna parlare di tecnosocialità fluttuanti più che di comunità vere e proprie, in quanto presentano elementi che nulla hanno a che vedere con le comunità tradizionali. Le comunità scientifiche e le associazioni 6

Cfr. F. Tönnies, Comunità e società, Comunità, Milano 1963, p. 168.

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si presentano come comunità strutturate, con obiettivi comuni e dunque maggiore aderenza alle comunità reali.

2.1 L’illusione gruppale: comunione sociale e feeling of belonging La comunicazione tramite la grande rete permette l’accesso ad un numero sempre crescente di utenti che, accomunati dalla condivisione di messaggi e informazione, vanno a costituire una collettività di dimensioni smisurate e costantemente in espansione. Tutti gli utenti che in un determinato momento sono connessi alla rete costituiscono una sorta di collettività, che potremmo definire, per le sue dimensioni una ‘massa mediatica’ dotata di una propria configurazione basata su modelli di appartenenza e identificazione culturale. Tutti i mezzi di comunicazione di massa, dalla radio alla televisione ad internet stimolano, così come l’aggregazione, lo scioglimento di masse d’individui, che vanno in tal modo configurandosi come veri e propri contesti culturali, gruppi fluttuanti e instabili che condividono ideali, forme di regressione o devozione nei confronti di presunti leader. Il carattere labile di questa forma di gruppalità di massa, che è da distinguere dalle comunità virtuali per il suo carattere d’insieme e totalizzante, risiede nel fatto che la sola semplice connessione rappresenta il mezzo attraverso il quale accedervi. Si tratta della comunità di internet, priva di limiti numerici, di confini spaziali, virtuale in quanto impalpabile e impercettibile, di quell’insieme di individui che per vari motivi utilizzano la rete, e che ricordano i capannelli di gente riunite nell’ascolto della radio o della tv divise tra un sentimento di spasmodica attesa, magia, entusiasmo e un radicale rifiuto della novità. La situazione mentale di chi accede alla grande rete è quella di entrare in un oceano avvolgente e omnicomprensivo, quella di partecipare allo sviluppo di un sistema di comunicazione universale, in un rapimento estatico derivante, oltre che dal superamento dei limiti della corporeità spaziotemporale, dalla possibilità di entrare in contatto con la totalità degli esseri viventi. Seppure in maniera virtuale, questa rimane potenzialmente una possibilità realizzabile che stimola in maniera esasperata la fantasia individuale e il carattere seducente della rete. Una delle caratteristiche delle masse mediatiche, siano esse dipendenti dalla tv dalla radio o da internet, resta l’attivazione di una fame smodata d’informazione, un atteggiamento maniacale e compulsivo, una ricerca allucinata e sfrenata d’onnipotenza avvertita come facilmente raggiungibile. La ricerca, la caccia divengono elementi fondanti di una società che riscopre, seppure con i caratteri frenetici e innaturali della velocità del bit, la dimensione del nomadismo. L’uomo moderno è nomade

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cacciatore nella misura in cui la sua allucinazione richiede la soddisfazione di onnipotenza comunicativa. La frenetica ricerca di informazione, la cura maniacale della comunicazione, lo fa navigare ininterrottamente nell’universo virtuale. Immobili dinanzi allo schermo, percorriamo distanze che forse mai eguaglieremo fisicamente. In questa sfrenata ricerca, i soggetti rischiano spesso di percepirsi immersi e sommersi nell’anonimato collettivo, troppo numerosi per allacciare relazioni interindividuali che permettano loro di sentirsi esistere. La presenza virtuale rischia di divenire lo specchio dell’assenza fisica. La partecipazione inconsapevole, ma ugualmente percepita ad una comunità di estensione talmente vasta fa sì che non sia possibile allacciare relazioni interpersonali durature, alimentando quel senso di dispersione alla base dello smembramento della personalità. Su internet la vastità delle opportunità che ci troviamo dinanzi aumenta l’insicurezza e le paure individuali, non ci fa esistere come persone ma come automi spinti dall’inerzia della connettività e dall’inevitabilità dell’informazione. La percezione della grande rete come grande campo gruppale dipende fondamentalmente dalla sua vastità, dall’eccesso della sua estensione che espone inevitabilmente ad uno stato di ebbrezza e di galleggiamento, dalla velocità dell’interazione che provoca una sospensione della percezione temporale. Inoltre bisogna considerare la sensazione quasi magica che provoca il monitor in quanto finestra sul mondo, che permette un contatto e possibilità di azione sul territorio come se virtualmente potessimo agire universalmente. La caduta vertiginosa all’interno del continuum spazio-temporale del cyberspazio porta ad una perdita di realtà, alla percezione di una minaccia per la personalità, alla quale numerosissimi utenti rispondono con l’aggregazione in piccole comunità, gruppi mediatici che si collocano come delle isole organizzate e strutturate nell’oceano della rete mediatica. Si registra dunque l’incapacità da parte di molti utenti di sfruttare l’interattività dei collegamenti telematici, ma ancor più di esercitare il controllo su uno spazio vissuto come incontrollabile. Queste paure inducono l’utente a trovare e partecipare a forme di aggregazioni ristrette appunto, delimitate e strutturate. Occorrono degli spazi più limitati, più personali, spazi non solo per essere e basta, bensì per essere qualcuno per qualcun altro. La necessità di un ambiente di cooperazione limitato ripropone l’aspetto della spazialità quale componente fondante di una buona comunità. Nell’ambiente virtuale l’assenza del vincolo fisico, prerogativa essenziale perché si potesse parlare di massa e fare in modo che questa potesse costituirsi in termini tradizionali, è rimpiazzata da nuovi vincoli che caratterizzano i confini di una comunità. Non si tratta più di monti, fiumi, quartieri. Sono vincoli linguistici e culturali, interessi, argomenti, valori che costituiscono il terreno comune attorno al quale un

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insieme di persone può raccogliersi e sviluppare quel senso di appartenenza tipico di una comunità. Si parla sì di confini mentali, impalpabili ma pur sempre in grado di alimentare quel sentimento d’appartenenza in cui ogni individuo si rifugia e cerca una protezione di tipo materno. Il bisogno d’identificazione in un insieme di relazioni di gruppo nasce da una necessità d’appartenenza, dal bisogno di partecipazione, dalla paura di smarrimento dell’identità. L’aggregazione in comunità ristrette è un’azione di difesa nei confronti della tendenza smembrante e dispersiva del cyberspazio, una delimitazione delle proprie competenze/ambiti d’azione entro confini telematici ben definiti senza i quali l’individuo si percepirebbe inutile e anonimo. Mentre in un primo momento l’approccio alla rete s’identifica in termini di rifugio illusionale, assume caratteri di dipendenza, in un secondo momento il rapporto individuo/rete sembra configurarsi nei termini di una partecipazione identificata strutturata e definibile. La costituzione di gruppi in rete è sintomo della latente voglia di comunicare dell’uomo, che in un ambito in cui cambiano contesti e modalità dello stare insieme mantiene comunque aspetti relazionali tradizionali. Si passa da una fruizione individualistico/narcisistica dell’utente solitario ad una vera illusione gruppale, una fruizione in cui lo stare insieme diviene portatore di valori comunemente condivisi, rappresentazione dell’io, identificazione della personalità del singolo nel gruppo. Secondo Lèvy “una comunità virtuale si costruisce su affinità di interessi e conoscenze, sulla condivisione di progetti, in un processo di cooperazione e di scambio, e tutto ciò indipendentemente dalla prossimità geografica e dalle appartenenze istituzionali”7. Un significato tradizionalmente legato all’idea di comunità è il senso d’appartenenza, l’esistenza di un sistema di valori condiviso e accettato dai membri del gruppo. Proprio l’appartenenza dunque, il feeling of belonging è l’elemento che sociologicamente distingue una concezione tradizionale di comunità da quella virtuale, telematica. Un ulteriore aspetto che contraddistingue le comunità virtuali indifferentemente dalla presenza fisica è il concetto di comunione sociale che lega i gruppi telematici, aspetto sul quale punta Howard Rheingold nel suo cult-book Comunità virtuali. Le comunità virtuali vengono identificate come “nuclei sociali che nascono nella Rete quando alcune persone partecipano costantemente a dibattiti pubblici e intessono relazioni interpersonali”8. L’autore inoltre presenta tre diversi tipi di beni che vanno ad integrare la formazione di comunità in rete: 7

P. Lévy, Il virtuale, Cortina, Milano 1997, p. 124. H. Rheingold, Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel cyberspazio, Sperling & Kupfer, Milano 1994, p. 93. 8

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capitale sociale di rete, la capacità delle comunità di colonizzare socialmente spazi nuovi, accogliendo sempre nuovi membri; capitale delle conoscenze, l’insieme delle competenze, abilità e informazioni degli individui messe a disposizione della comunità; comunione sociale, lo spirito di vicinanza e condivisione che i membri provano vivendo in comunità.

Nonostante il carattere eterogeneo, vivo, frizzante che traspare non bisogna comunque correre il rischio di una generalizzazione degli aspetti dei gruppi telematici. Sebbene molti parlino di una rinascita della democrazia, di un confronto vivo interessante e multiculturale bisogna considerare il fatto che in gran parte dei casi le relazioni che si instaurano in rete si stabiliscono tra utenti socialmente e culturalmente simili. Maldonado ci mostra come tali relazioni si sviluppino: “tra anime gemelle, ossia tra coloro che cercano il contatto, ed eventualmente il conforto o la collaborazione, tra simili. Ecco perché le comunità virtuali si configurano come un punto di ritrovo (o di rifugio?) in cui si coltivano soprattutto le affinità elettive. […] Per il loro alto grado di omogeneità, tendono a essere decisamente autoreferenziali”9. L’autoreferenzialità rappresenta un aspetto decisamente innovativo e stimolante in quanto garantisce un’incondizionata accettazione da parte del gruppo. La disponibilità totale del gruppo a cui si appartiene a rispondere a bisogni e difficoltà, se da un lato stempera il carattere di libera accettazione che si riscontra in molte chat I.R.C. o mud, dall’altro mostra come tali aggregazioni, a livello psicologico si configurino come luoghi di conforto, realizzino relazioni compensatorie dell’impoverimento di quelle reali. Internet diviene in alcuni casi il catalizzatore di emozioni e sentimenti, configurandosi come un vero facilitatore sociale in grado di sopperire alle carenze individuali in ambito di socialità. Nonostante alcuni casi limite comunque le comunità virtuali esistenti possono identificarsi come delle piazze, spazi pubblici telematici di confronto e discussione aperti a nuovi utenti. Queste forme di gruppalità sono agorà elettriche, che risvegliano il senso greco del termine, in cui si assiste ad una rivitalizzazione dello spirito liberale, puramente dialettico, ad una rinascita della parola e della costruzione cooperativa e simbiotica di un nuovo sistema sociale.

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T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997, p. 20. Secondo Maldonado alcuni autori credono di vedere nell’attuale tendenza all’aggregazione attorno a un tema, qualcosa di simile all’aggregazione attorno a un totem.

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2.2 Comunità non strutturate: mud, chat, newsgroup Le comunità non strutturate sono internamente instabili, fluide, temporanee in quanto strutturalmente aperte, ovvero non usufruiscono di un argomento o di finalità omogeneo ma, come i canali I.R.C., si aprono o si chiudono a seconda della presenza o meno di utenti all’interno. Le modalità di comunicazione adottate sono di tipo sincrono, il tono è informale, gli scambi veloci immediati su argomenti poco specifici e superficiali. Non posseggono un contesto di azione comune, un argomento condiviso in grado di creare un background d’interazione dal quale partire, ma la comunicazione avviene per spinte e slanci individuali e segue dunque percorsi autarchici e incontrollabili. Le comunità non strutturate comprendono quelle che si creano sui Multi-User-Dungeons (giochi di ruolo), sui canali I.R.C. (Internet Relay Chat) e nei newsgroup (bacheche elettroniche su cui ognuno può affiggere messaggi pubblici). Mentre i mud e l’I.R.C. presuppongono forme di comunicazione sincrona, i newsgroup sono asincroni in quanto ognuno può intervenire con tempi dilatati e sfalsati. La differenza sostanziale tra queste tre forme di comunicazione riguarda il fatto che i mud e i canali I.R.C. tendono a fuoriuscire dalla tradizionale definizione di comunità, in quanto per motivi differenti, gli individui creano dei sé virtuali ridefinendo completamente il contesto in cui operano. Che si tratti di MUD o di esperienze di chat, ogni partecipante indossa una maschera, definisce la propria identità tramite frammentazione in spaccati differenti. Le bacheche virtuali invece presentano una totale aderenza alla realtà in quanto, pur seguendo le necessità dei soggetti, le direttive che ogni partecipante ha intenzione di intraprendere rispondono a esigenze reali partendo da problemi reali. Nelle comunità in cui si sperimenta la fantasia della finzione e dell’anonimato avviene un’alterazione della percezione della realtà sociale con conseguente perdita dei confini fra reale e virtuale. La caratteristica dei MUD in particolare è quella di far entrare in contatto l’individuo con altre persone ricreandone completamente le sembianze, fisiche o ideali che siano, e il contesto di interazione. Si tratta di veri e propri luoghi virtuali paralleli, in cui ognuno può mettere alla prova la propria identità allargandone i confini simbolici, facendola interagire con aspetti che nella vita reale sarebbero inibiti. Durante queste interazioni puramente mentali e ideali, gli altri divengono un prolungamento dell’io. Le chat line e i MUD divengono il teatro di trasfigurazioni soggettive in personalità ideali o doppioni irreali. La conduzione di una vita parallela, sotto forma di maghi, gnomi o quant’altro provoca una continua problematizzazione delle categorie mentali dei singoli al punto da rendere indefinita la linea di demarcazione tra il reale e

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il virtuale. Il carattere fluido e mutante di queste forme di socialità, più che a delle comunità porterebbe a pensare a delle reti socio-telematiche. Le reti si presentano rispetto al sistema sociale come delle entità autonome fluide e distaccate. Il confine sfumato ne accentua l’imprevedibilità, la creatività, l’informalità e la continua dispersione dei soggetti. Una rete è sì composta da soggetti ma riesce a prescinderne, è completamente autonoma nei suoi processi di autogenerazione. Allo stesso modo l’informazione viaggia in maniera circolare e autonoma tra gli utenti, è continuamente valorizzata. Anche le relazioni sociali si generano e si rigenerano, non hanno valenza strutturale ma il loro interscambio sancisce la co-produzione della vita sociale: in particolar modo suscitano coinvolgimento affettivo, intimità tra i partecipanti, scambio reciproco di servizi e informazioni. Per il forte senso d’appartenenza che creano, questi gruppi rappresentano un esempio dei nuovi tipi di legami sociali che caratterizzano la società comunicazionale. Si parla addirittura di gruppi neo-tribali come elemento centrale della società postmoderna. Nel ‘tribalismo’ digitale è l’appartenenza stessa ad essere il cemento del legame sociale. Come si nota oggigiorno, la tendenza a creare gruppi, forme d’aggregazione sociale, si basa sulla semplice accettazione di interessi o opinioni comuni. La moda, la musica, l’accettazione di situazioni comuni sono in grado di determinare appartenenze solidaristiche con gradi di partecipazione emotiva e affettiva rilevanti. La presenza nell’assenza stessa è portatrice di dinamiche relazionali fortemente vincolanti in quanto fortemente libere e disinibite. Il sentire insieme coagulatosi entro un ambiente definito, dà luogo ad una socialità diffusa e afinalistica. È una socialità nuova e in qualche senso incoerente e insensata poiché trova nella semplicità della prossimità, nello stare insieme in un medesimo posto, il proprio significato che si esaurisce nell’istante senza dar luogo a legami duraturi. Quella che emerge è una cultura del sentimento in cui razionalità e contratto lasciano spazio ad emozioni e sentimenti. L’aggregazione assume una dimensione puramente ludica, produce gruppi instabili ma che si rinnovano continuamente. Il provare emozioni insieme conduce ad aggregazioni e riaggregazioni continue, che vivono sull’istante eterno. L’interazione tra gli individui, che come abbiamo visto si concretizza nell’essere insieme, vede un ritorno al locale che genera nuovi miti e molteplici identificazioni nelle quali l’identità si frantuma e si struttura diversamente. Entrato in crisi il principio d’individuazione, la condizione dell’individuo postmoderno colta nelle svariate moltiplicazioni, mostra un’identità concepita come processo e non più come ricerca di una totalità, diviene l’instaurazione di una presenza virtuale degli individui a se stessi e all’umanità per generare un altro esistente possibile. L’architettura liquida

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del cyberspazio permea l’uomo della sua fluidità e ne acuisce le capacità di adattamento e le istrioniche possibilità d’essere.

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IV Postmodernità e letteratura 1. Modernismo e postmodernismo Il dibattito culturale sul postmoderno sviluppatosi negli anni Sessanta ha portato ad una ‘rivoluzione’ intesa in due sensi: come allontanamento dalla ricerca di unitarietà di senso tipica del moderno, e come ‘rotazione’ e recupero del passato, uscendo dal concetto di ‘linearità’ della storia. In letteratura, come in molti altri campi, il passaggio dal modernismo al postmodernismo non è avvenuto troppo chiaramente. Non c’è una data fissa cui fare riferimento, un’opera che segni un passaggio. È difficile definire il postmodernismo anche perché, per tutta una serie di motivi, è difficile definire il modernismo: primo fra tutti il fatto che la parola ‘moderno’ implichi un indice temporale per sua natura mobile, legato al presente in atto. Si definivano ‘moderni’ già nel Medioevo, sebbene in un’accezione negativa (“nani sulle spalle di giganti”). È vero che all’incirca dalla seconda metà del Settecento sono venute a crearsi tutta una serie di trasformazioni economiche, sociali, intellettuali, politiche che hanno creato un arco ben definito e riconoscibile nella storia. I teorici del postmoderno, seguendo le orme di maestri come Foucault, Derrida, Lyotard, hanno spesso presentato una visione antitetica al moderno inteso come l’epoca delle grandi narrazioni, del mito del progresso necessario e infinito, del dominio della tecnica, dove la ragione occidentale avrebbe attinto i suoi trionfi. La visione mutata ovviamente risente della tradizione del ‘pensiero negativo’ di Nietzsche e Heidegger. Per quanto riguarda in particolare Jacques Derrida, il panorama culturale e le componenti che agiscono sulla sua formazione sono genericamente quelle della Nietzsche-Renaissance degli anni Sessanta. Le indagini genealogiche nietzscheane costituiscono in quegli anni la chiave con cui il cosiddetto ‘poststrutturalismo’ giunge a incrinare il carattere apollineo del formalismo strutturalista. I principi, che nello strutturalismo assumono una funzione eminentemente ordinatrice (come la distinzione tra significante e significato), vengono così nel poststrutturalismo, e in particolare nel decostruzionismo derridiano, ‘distorti’, diventando piuttosto principi entropici, di disordine, di disorganizzazione, di liberazione del desiderio

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dalle repressioni del ‘sistema’. Il carattere paradossale della decostruzione costituisce una connotazione che ha da più parti suggerito un accostamento con le avanguardie artistiche, e in particolare con il dadaismo. La decostruzione non vuole comunque essere, nell’intento di Derrida, uno tra i tanti discorsi apocalittici sulla fine, e in particolare sulla fine della filosofia, quanto piuttosto un tentativo di delimitazione del discorso filosofico. Anche lo stile è volutamente asistematico e spesso distante dal modo tradizionale dell’argomentazione filosofica (si pensi a testi soprattutto degli anni Settanta come Glas1): ci si serve di un linguaggio fortemente idiomatico e di un uso, spesso ironico, della citazione. Glas si presenta come una sorta di affascinante, ma perturbante bricolage intertestuale: un testo costruito su due colonne, sulla sinistra vi è un testo di Hegel, sulla destra quello di Genet, ma la presenza di Genet non si limita ad una colonna, perché sorpassa la linea per entrare nel commento ad Hegel. Si assiste cioè ad una continua contaminazione tra la fonte e il testo di commento, ricco di citazioni e frammentato. Volutamente il procedere decostruttivo si configura esplicitamente come una commistione di linguaggi (filosofico, psicoanalitico, fenomenologico, politico) tra cui è difficile individuare quello dominante.

1.1 Testi letterari postmoderni Diverso sembra comunque essere il discorso per quanto riguarda la letteratura. Il postmodernismo non è un movimento, è piuttosto una condizione ontologica del testo (e dell’autore). Come sappiamo, si è iniziato a parlare di postmoderno in ambito architettonico, con la ribellione al razionalismo funzionalistico del Bauhaus e della sua scuola, ma il modernismo letterario ha visto un corso differente. Occorreva trovare una lingua che fosse la lingua della novità, della trasgressione sperimentale. In questo senso forse il postmodernismo sembra aver ridotto questa carica eversiva del linguaggio, riconducendone le espressioni nella provincia più ospitale del figurativo e della rappresentazione narrativa. Riferendosi in particolare all’Ulysses di Joyce2, Franco Moretti sostiene che “L’immaginazione modernista – rispetto al romanzo ottocentesco – è incomparabilmente più libera, ironica e sorprendente. Il modernismo letterario e artistico appare come una componente essenziale della grande trasformazione simbolica che ha avuto ruolo

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Cfr. J. Derrida, Glas, Galilée, Paris 1974. J. Joyce, Ulisse, Mondadori, Milano 1988.

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nelle società occidentali contemporanee”3. Il senso dell’esistenza non è più ricercato nella vita pubblica, politica, o nel lavoro: si sposta nel mondo del consumo e della vita privata. Come nel caso dell’Ulysses dove Joyce intende sviluppare il piano del discorso, a spese di quello della storia. Sia il postmodernismo che il modernismo partono quindi dal presupposto che il romanzo realistico non sia in grado di rappresentare la realtà. Se il romanzo ottocentesco era realista (nel senso che rappresentava una realtà sociale elementare), tratto saliente della narrativa novecentesca sembra diventare dunque l’antirealismo: il modernismo sostituisce le rappresentazioni realistiche con il rigore formalista e il flusso di coscienza, mentre il postmodernismo, dopo Derrida e Barthes, frammenta e decostruisce la rappresentazione, la coscienza e la forma. Ma l’innovazione non esclude il realismo. In realtà nel romanzo contemporaneo realismo e innovazione sono diventati due imperativi congiunti. Emerge l’impossibilità di rappresentare in modo unico la realtà. David Lodge4 infatti sostiene che la storia della letteratura (inglese) debba essere vista come la continua oscillazione fra tendenze moderniste e realistiche. Il modernismo in letteratura era sinonimo di sperimentazione simbolista e metaforica, contrapposta alla letteratura antimodernista, realistica e metonimica. Per cui fino a quel momento quello che sembrava innovazione era spesso un ritorno ai principi e alle procedure di una fase precedente. A spezzare il ritmo ciclico della letteratura sarebbe comparsa un certo di tipo di arte avant-garde, che non può essere identificata né come modernista né come antimodernista, ma bensì postmodernista – essa infatti continua l’opera critica della letteratura modernista sulla capacità mimetica della letteratura tradizionale e condivide la prospettiva innovativa del modernismo, ma persegue questi scopi con mezzi diversi e particolari. Cerca di andare oltre il modernismo, o attorno, o dentro, e spesso è critica verso di esso come lo è verso l’antimodernismo.

1.2 ‘Classici’ della letteratura postmoderna Proprio dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento si assiste ad una proliferazione dei linguaggi chiusi e settoriali, da quelli delle scienze sociali a quelli politici. In tutta l’arte occidentale trionfa l’impossibilità di comunicare: da Beckett con Waiting for Godot (Aspettando Godot)5 al teatro di Harold 3

F. Moretti, Segni e stili del moderno, Einaudi, Torino 1987, p. 242. D. Lodge, The Modes of Modern Writing: metaphor, metonimy, and the tipology of Modern Literature, Arnold, London 1977. 5 S. Beckett, Aspettando Godot, Einaudi, Torino 1956. 4

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Pinter, dagli autori ai teorici italiani e americani, l’unica costante sembra essere l’impossibilità di capire e di farsi capire – la sensazione comune degli autori della prima metà del Novecento è che il tempo vada troppo veloce, la società cambi troppo in fretta e il mondo sia troppo grande per avere un linguaggio comune. Il libro di Doris Lessing The Golden Notebook (1962) parla della frammentazione del linguaggio e conseguentemente del pensiero, mentre The Time of the Angels di Iris Murdoch (1966) parla della frammentazione del cosmo dopo la morte di Dio, chiaramente ricollegandosi a Nietzsche. La letteratura quindi si libera. I prodromi, del resto, erano già nel modernismo. La citazione non è plagio, già T.S. Eliot (nel saggio Tradition and Individual Talent, 1920) è consapevole di riportare una fonte autorevole allo scopo di puntellare lo sfacelo e l’irrazionalità del mondo contemporaneo attraverso i ‘monumenti’ della letteratura. Per Joyce sono invece i ‘documenti’ quelli su cui operare una continua revisione e parodia. Nel postmodernismo prevale una sorta di sconforto alla Harold Bloom: non si può più sostenere che le idee siano innate e originali, tutto è già stato detto o scritto, e queste fanno parte del nostro background. L’arte allora diventa un’opera di rilettura, revisione e collage, dove i testi sono in continuo dialogo fra loro. Nascono forme nuove e estreme di sperimentazione, ma, a differenza di quelle moderniste queste riscoprono il dato personale. La scena inglese è influenzata dal noveau roman francese e dalla metafiction americana. William Borroughs inventa la scrittura creativa (il cut up), tecnica che consiste nel suddividere (materialmente a sforbiciate) un testo in frasi per poi riassemblarlo a piacimento, allo scopo di trovare in esso il nostro significato personale. Questo perché una vera struttura casuale in un testo letterario può essere introdotta solo attraverso mezzi meccanici. Un mezzo simile è anche quello di B.S. Johnson, che con The Unfortunates (1969), introduce della spontaneità genuina nel suo testo, consegnando nelle mani del lettore un libro nella forma di fogli sparsi, che egli é invitato a ordinare nel modo che preferisce. La maggior parte degli intellettuali proclama la morte della coerenza, la natura illusoria dei sistemi classificatori, provvisori e instabili in quanto creazione dell’uomo. Secondo Lodge, ad ogni modo, Samuel Beckett può essere considerato uno dei primi importanti autori postmoderni. Certo Beckett ha fatto il suo apprendistato all’ombra del modernismo, in particolare con studi su Joyce e Proust. È in particolare col primo che il suo stile inizialmente ha maggiore affinità, probabilmente perché ha anche lavorato presso di lui come segretario. Le caratteristiche principali della letteratura postmoderna possono essere identificate in questi aspetti: la contraddizione, la permutazione, la discontinuità, l’eccesso. Allo stesso modo sono postmoderne: la commistione

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di generi, la rivisitazione del passato, la citazione, il nonsenso. Ad esempio, in The French Lieutenant’s Woman (La donna del tenente francese), del 1969, John Fowles presenta dei finali alternativi alla storia, fra cui il lettore può scegliere. Al posto del finale chiuso del romanzo tradizionale, in cui i misteri vengono spiegati e le vicende risolte, e del finale aperto modernista, soddisfacente ma non definitivo, abbiamo finali multipli, falsi epiloghi, conclusioni troncate o parodistiche. Allo stesso modo, sia la scrittura metaforica modernista che quella metonimica tradizionale abbisognano di selezione, ovvero di lasciare qualcosa fuori. La letteratura postmoderna invece tenta di aggirare la selezione, come nel citato romanzo di Fowles, incorporando tracciati alternativi, o più radicalmente, come nel racconto di Jorge Luis Borges Tlön, Uqbar, Orbis Tertius6, in cui i libri contengono una singola trama con tutte le loro possibili alternative, o come nel libro che scrive Ts’ui Pen ne Il giardino dei sentieri che si biforcano7, in cui egli non sceglie nessun finale in particolare, ma simultaneamente tutti: da ogni situazione se ne generano così infinite che a loro volta si dipartono in direzioni diverse, all’infinito. Borges immagina l’impossibile ma senza esplicitarlo materialmente, liberando così l’immaginazione. La sua opera ha influenzato tutta la cultura postmoderna, tra quelli che si sono chiaramente ispirati a lui ci sono Julio Cortázar, Italo Calvino, Osvaldo Soriano, Umberto Eco, Leonardo Sciascia, John Barth, Philip Dick, Gene Wolfe, Paul Auster e moltissimi altri (Umberto Eco, ne Il nome della rosa da il nome di Jorge ad uno dei protagonisti, il bibliotecario, chiarendo poi, nelle postille, che il nome va riferito esplicitamente a Borges). In questo filone si colloca appunto anche l’opera di un altro argentino, Julio Cortázar, che con Rayuela (Il gioco del mondo) del 19638 crea il primo vero romanzo fai-da-te: Rayuela è infatti composto da più di trecento paragrafi e accompagnato da una tavola d’orientamento, che propone al lettore una lettura dei capitoli secondo una sequenza diversa da quella convenzionale, lasciando al lettore la scelta fra le due. Questo significa però che l’epilogo del romanzo è indecidibile (ve ne sono almeno due possibili). Dalla tavola d’orientamento inoltre Cortázar invita il lettore a cercare anche altre letture possibili, visto che il libro per la sua struttura si presta a più riletture. Se ciò non bastasse, il libro è diviso in tre parti a seconda degli spostamenti del protagonista: con la dicitura Dall’altra parte sono identificati i capitoli

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In J. L. Borges, Finzioni, Einaudi, Torino 2005. Nell’opera Il giardino dei sentieri che si biforcano Borges affronta alcuni dei suoi temi tipici: il labirinto, il tempo, i libri. 8 J. Cortázar, Rayuela, Julio Cortázar editore, 1963; Il gioco del mondo, Einaudi, Torino 2002. 7

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ambientati a Parigi, e con Da questa parte, quelli che si svolgono a Buenos Aires. Chiama invece Da altre parti i capitoli che secondo lui il lettore può tralasciare senza rimorsi di coscienza. Fra gli autori ritenuti ‘classici’ del postmoderno occorre ricordare Philip K. Dick, notissimo in Italia negli anni Ottanta per la sua produzione di fantascienza, ma autore anche di fantasy e di narrativa realistica. Fu parte integrante dell’ondata postmodernista, assieme ad altri autori di fantascienza e non. Anticipando il genere cyberpunk esplorò l’anomia della California settentrionale in molti suoi lavori; scartando la visione ottimistica e semplicistica della fantascienza dell’età dell’oro, dedicò grande attenzione all’impatto dei media sulla società e la politica. Le sue opere sono caratterizzate da un’irrequieta interrogazione sui temi della realtà (con riprese originalissime delle riflessioni filosofiche sull’ontologia), della simulazione e del falso, della teologia cristiana (in special modo la meditazione paolina e luterana), della storia e della società degli Stati Uniti, e più in generale su quel nodo di idee e problemi noto come postmoderno o tardo capitalismo. Divenne veramente famoso al grande pubblico solo dopo i primi adattamenti cinematografici delle sue opere (come Blade Runner di Ridley Scott). I suoi lavori sono caratterizzate da un senso della realtà costantemente eroso, con protagonisti che spesso scoprono che i loro cari (o anche loro stessi) sono segretamente robot, alieni o esseri soprannaturali. È negli anni Sessanta che crea capolavori considerati oggi pietre miliari non solo nella fantascienza moderna, come il romanzo vincitore del Premio Hugo The Man in the High Castle (La svastica sul sole pubblicato anche come L’uomo nell’alto castello)9, una distopia che raffigura un mondo dove gli Alleati hanno perso la Seconda guerra mondiale, dominato da nazismo e imperialismo giapponese. Importante risultato narrativo è il romanzo Ubik10, col quale Dick manifesta tutte le proprie affinità con gli scrittori postmoderni più prestigiosi. Le opere realistiche di Dick, dapprima ignorate o incomprese dai fan della fantascienza, sono comunque degne della massima attenzione, e alcune di esse tengono testa al suoi migliori romanzi fantascientifici, come l’ultimo The Transmigration of Timothy Archer (La trasmigrazione di Timothy Archer)11. Il postmodernismo in quanto movimento a-temporale non conosce nemmeno una fine, o perlomeno non l’ha conosciuta finora. Gli autori

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P. K. Dick, La svastica sul sole, La Tribuna, 1965; L’uomo nell’alto castello, Fanucci, Roma 2001. 10 P. K. Dick, Ubik, mio signore, La Tribuna, 1972; Ubik, Fanucci, Roma 2003. 11 P. K. Dick, La trasmigrazione di Timothy Archer, Mondadori, Milano 1993; Fanucci, Roma 2006.

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contemporanei sono anzi consapevolmente postmoderni e sperimentatori. Il dialogo è multiforme e multistratificato (tanto che il romanzo postmoderno è stato a volte definito anche Neobarocco), le opere letterarie dialogano fra loro e dialogano con altri generi.

1.3 ‘Contemporanei’ della letteratura postmoderna Sono molti gli autori e le autrici contemporanei che possono essere definiti postmoderni. Questo perché la commistione di stili e di voci caratteristica del postmodernismo è stata recepita anche come il modo migliore per raccontare le storie di chi prima non aveva voce, in particolare della letteratura femminista e postcoloniale. Infatti il postmodernismo non solo consente, ma prevede il rovesciamento del discorso dominante, del discorso del colonialismo o del discorso maschile e dell’ideologia patriarcale. Avremo quindi l’India descritta da Salman Rushdie ne I figli della mezzanotte, contrapposta alla visione tradizionale inglese proposta da Kim di Kipling, dove l’alterità non è un valore negativo. Oppure l’utilizzo della fiaba come strumento per contrapporsi all’eccesso di razionalizzazione e strumentalizzazione della società capitalistica, come in Haroun and the Sea of Stories (sempre di Rushdie), o nella Neverending Story (La storia infinita) di Michael Ende, dove la fiaba si mescola alla science fiction e al fantasy. Nella società multiculturale gli autori sono sempre più spesso capaci di parlare due voci, quella della società e la cultura che li hanno accolti, e quella del loro paese d’origine, come ad esempio l’americano di origine greca Geoffrey Eugenides (vincitore del premio Pulitzer per la letterata con Middlesex). Fra le autrici ‘femministe’ contemporanee, vanno ricordate la canadese Margaret Atwood e Angela Carter, prolifica autrice di romanzi e fiabe, estremamente visionari e sovversivi, come The passion of the new Eve12, Nights at circus (1984) e The bloody chamber13, una barocca riscrittura delle fiabe dei fiatelli Grimm. Nella storia che dà il titolo alla raccolta, la Carter riscrive la fiaba di Barbablù, usa i tratti dell’erotismo e dell’horror per descrivere il Marchese che ha scelto come sposa la protagonista vedendo in lei “a potentiality for corruption that took my breath away”14. Lungo il corso della narrazione fra i due si instaura un rapporto che fa venire in mente al lettore i ruoli di un gioco sado-masochistico. Già prima che gli affari del Marchese lo portino 12

A. Carter, The passion of the new eve, Virago Press, UK 1977. A. Carter, La camera di sangue, Feltrinelli, Milano 1984. 14 Ivi, p. 11. 13

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lontano dal castello intuiamo che egli deve avere un’attitudine perversa nei confronti del sesso, anche se non viene chiaramente esplicitato. Alla fine della parte più tradizionale della storia (come nella versione di Perrault, la protagonista fa cadere la chiave che si macchia di sangue, e viene scoperta) la giovane in difficoltà è però salvata dalla madre, che accorre a cavallo in una scena stile western, e non da un uomo (anzi, l’uomo di cui si è innamorata la protagonista è cieco e più indifeso di lei). Fra gli autori postmoderni contemporanei troviamo Antonia S. Byatt, autrice inglese vincitrice dal Booker Prize con Possession: a romance nel 1990. La Byatt scrive romanzi colti, che contengono una vasta moltitudine di allusioni: alla teoria letteraria, alla tradizione fiabesca e folkloristica di paesi diversi, e alla letteratura di periodi che vanno dal Medioevo al nostro secolo. Quasi tutte le opere della Byatt sono postmoderne nel senso che riflettono coscientemente sulla scrittura e il senso della narrazione. In quasi tutti i suoi romanzi, infatti, protagonisti e personaggi principali sono insegnanti, scrittori, biografi, studenti, insomma persone che hanno a che fare tutti i giorni con la scrittura e la lettura. Si può dire che nella narrativa della Byatt vi è la volontà di re-interrogarsi sul modulo mimetico, sempre però con la consapevolezza ontologica, tipica della postmodernità, che l’atto della rappresentazione per l’artista implica dubbi perturbanti sulla rappresentatibilità del reale. In particolare in Babel Tower15, la protagonista è una giovane laureata a Cambridge in letteratura inglese, Patricia Potter, che vive a Londra negli anni della Swinging London. Sullo sfondo assistiamo alla messa in scena delle produzioni del Theatre of Cruelty da parte del genio di Peter Brook nel Marat/Sade, e dopo da Genet. Il libro combina osservazione e ricerca, dato che riflette in parte l’esperienza di quegli anni della stessa Byatt. Il romanzo è il terzo di un ciclo di quattro sullo stile della proustiana à la Recherche du temps perdu, vi è l’idea di una storia che dura l’intero arco della vita del protagonista, cui si dà un senso attraverso il racconto. Il quartetto segue le vicende di una famiglia dello Yorkshire (madre, padre, due sorelle e un fratello) e in particolare di Frederica, la minore e più ambiziosa delle due figlie. I primi due romanzi sono The Virgin in the Garden (La vergine nel giardino) e Still Life (Natura morta), mentre il quarto è intitolato A Whistling Woman (La donna che fischia), la scrittura si divide fra lo stile – realistico alla maniera di George Eliot o Proust – e i temi che si rivelano spesso più ‘sperimentali’. Uno dei temi che si sviluppa lungo tutti e quattro i romanzi è la relazione tra linguaggio e realtà, linguaggio e vita sociale, linguaggio e idee. Tralasciando gli eventi personali della protagonista (oltremodo complessi), 15

A.S. Byatt, La torre di Babele, Einaudi, Torino 1997.

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è interessante notare come le nuove teorie appaiano in questo momento a Londra come una sorta di incomprensibile pastiche, la sperimentazione artistica è cosi estremizzata da perdere spesso senso. Si rivela come tutto il mondo intellettuale negli anni Sessanta si preoccupi del linguaggio, anche inteso come silenzio. Come in molti altri suoi romanzi è presente un racconto dentro il racconto, una seconda narrazione, subordinata a quella principale ma che diventa quasi parallela. Del tipo di Babel Tower è il libro Babbletower (La torre del balbettio), una fantasia distopica scritta da un giovane artista, Jude Mason, conosciuto dalla protagonista nella scuola d’arte dove insegna letteratura. Le due trame sono collegate fra loro dal simbolismo e dai soggetti. In Babbletower (sottotitolato Una favola per i bambini del nostro tempo) è raccontata la storia di un gruppo di uomini e donne idealisti che si rinchiudono in una torre lontana dalla civiltà (Parigi), dove imperversa la rivoluzione francese nelle sue accezioni più crudeli, per fondare una comunità utopica in un luogo chiamato La Tour Bruyarde, per vivere una vita in cui tutti siano uguali e tutti si dedichino al proprio piacere. Ma Culvert, il leader della compagnia, isolato dal resto del mondo civile, diventa sempre più tirannico nell’attuare il suo programma di “liberazione del desiderio” verso limiti sempre più lontani e spaventosi. Gli anni Sessanta furono un periodo in cui si dava per scontato che il comportamento spontaneo e ‘naturale’ fosse positivo, ma Babbletower di Jude Mason dimostra che se gli uomini fossero lasciati liberi di seguire tutte le loro passioni, sarebbe impossibile impedire loro di ferire, uccidere, stuprare e torturare gli altri. Lo stile delle due narrazioni è in contrasto fortemente: mentre la Byatt utilizza il linguaggio piano del romanzo descrittivo inglese, le narrazioni interne sono spesso ispirate ad altri generi letterari o altre forme di ‘narrazione’. Nel caso sia di Babel Tower che di Babbletower l’ispirazione viene sia dal contemporaneo The Lord of the rings di Tolkien che da Il marchese De Sade, in particolare da Le 120 giornate di Sodoma (il protagonista dell’opera di De Sade si chiama in effetti Curval) – dove una compagnia di libertini si ritira in una torre e taglia il ponte che la collega al resto del mondo – ma ovviamente anche dalla Torre di Babele biblica, dalla punizione divina con cui Dio aveva separato gli uomini con linguaggi differenti. Lo stile del racconto ricorda insieme le ambientazioni cortesi di Chaucer e una certa atmosfera volgare da The Miller’s Tale. Chiaramente il libro di Mason viene denunciato per oscenità e si apre un processo, il riferimento è agli importanti processi degli anni Sessanta a opere che avevano sconvolto l’opinione pubblica, come Lady Chatterley’s Lover (L’amante di Lady Chatterley) di D.H. Lawrence e il ciclo dei Tropici di Henry Miller.

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2. Il postmoderno letterario In Italia Il postmoderno è un concetto formulato in un primo tempo all’estero da pensatori come Hassan, Lyotard, Habermas e Jameson. Nel ripercorrere le prime questioni sul postmoderno letterario si può utilizzare come principale teorico di riferimento, Ihab Hassan16, il quale anzitutto oppone modernismo e postmodernismo. Il postmoderno, sostiene Hassan, nasce in contrapposizione a una serie di concetti quali ordine, tassonomia, gerarchizzazione, identità, modello, presenza, definibile, decifrabile e rimanda piuttosto a temi come anarchia, ibridazione, dispersione, decostruzione, traccia, indeterminazione e differenza. Sempre secondo Hassan si possono enucleare cinque proposizioni relative al postmoderno che cercano di delinearlo senza pretendere di essere esaustive. a)

b)

c)

d)

e)

Il postmodernismo dipende dalla violenta “transumanizzazione” della terra, dove si mescolano e si richiamano le parti e l’intero verso una nuova era; Il postmodernismo deriva dall’“estensione tecnologica della coscienza”, cui contribuiscono computer e nuovi media. Il risultato è una visione della coscienza come informazione e della storia come happening; Il postmodernismo si rivela, allo stesso tempo, nella “dispersione dell’umano”, cioè del linguaggio, nell’immanenza del discorso e della mente; Il postmodernismo, quale modalità di cambiamento letterario, potrebbe distinguersi dalle avanguardie più vecchie (cubismo, futurismo, dadaismo, surrealismo) come pure dal modernismo. “Il postmodernismo ispira un diverso tipo di adeguamento tra arte e società”; In quanto fenomeno artistico e filosofico, edonistico e sociale il postmodernismo si rivolge verso forme giocose, desiderative, disgiuntive, dislocate o indeterminate, verso un discorso di frammenti ed un’ideologia della frattura, una volontà di disfacimento e un’invocazione di silenzi. Va verso tutto ciò ma implica anche il contrario e l’antitesi.

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Cfr. I. Hassan, Cultura, indeterminazione e immanenza: margini dell’età (postmoderna), in C. Aldegheri e M. Sabini (a cura di), Immagini del postmoderno, Cluva, Venezia 1983, pp. 131-67.

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L’introduzione del postmoderno in Italia viene spesso descritta come un processo interdisciplinare che coinvolge una pluralità di voci che vanno dall’architetto Paolo Portoghesi, al critico d’arte Achille Bonito Oliva, al filosofo Gianni Vattimo. Mentre gli esponenti appena nominati si mostrano, se non del tutto favorevoli, in ogni caso aperti ai vari contenuti del postmoderno, nel campo della letteratura i critici sembrano invece molto più restii ad accogliere in mezzo a loro il postmoderno. C’è chi, ad esempio, considera il postmoderno come una reale minaccia per ogni tipo di ragione critica e lo identifica tra l’altro soprattutto con il “pensiero debole” di Gianni Vattimo. Generalizzando, si può supporre che il dibattito sul postmoderno in Italia rimanga segnato da una opposizione fondamentale nata dalla crisi del marxismo, che è quella fra (neo)marxisti, che provano a ripostulare una nuova razionalità critica e dialettica, e (neo)ermeneutici, che, come Vattimo, ritengono che l’ermeneutica sia l’unica via non metafisica per comprendere l’esistenza in una realtà pluralistica. Non c’è dubbio che la crisi della letteratura e della critica letteraria abbia un connotato sociologico, ovvero sia diretta conseguenza di un cambiamento di costume. Tale rivoluzione era già preannunciata dal Pasolini ‘corsaro’ dei primi anni Settanta e definita alienante prima di tutto per la popolazione giovanile. Da quel momento la vita culturale italiana è cambiata, dirigendosi verso l’eclettismo dei metodi interpretativi e verso la spettacolarizzazione della cultura, tesa a confrontarsi con il mercato globale e con i nuovi mezzi di comunicazione. L’ideologia e la tradizione postmodernista, elogiata nei suoi primi anni di vita, da filosofi come Vattimo alla luce di una sperata ricostruzione dell’umanesimo e della nascita di una “società trasparente”, non convince i marxisti, freudiani, strutturalisti. Di certo tuttavia comincia un periodo nuovo che ancora non ha nome e che richiede impegni e responsabilità diversi. Nella letteratura si assiste, oggi, ad una crisi dei metodi: lo scrittore che un tempo animava i dibattiti politici e culturali, e dalla cui penna fuoriusciva il desiderio di cambiare le sorti del mondo, si è estinto, o meglio ha acquisito un suo ruolo, ma ha perso la sua funzione: non c’è più un Calvino, una Morante, un Volponi. Il viatico che conduce alla riappropriazione di un umanesimo culturale è quello di un’ermeneutica materialista che privilegia il punto di vista relativo degli interlocutori, in cui a contare siano il dialogo e il conflitto, consapevoli che solo in questo modo si conserverà una base di sapere comune e una tensione alla totalità. La speranza risiede nella nuova generazione di intellettuali, figli dell’errore, ma coscienti di esperienze tragiche da evitare nel futuro.

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2.1 Temi caratteristici della letteratura e della cultura postmoderne Il postmoderno letterario presenta dunque i temi tipici della perdita di centro, del disorientamento e dell’indebolimento della soggettività; è dimessa qualsiasi armonia e composizione a favore della dissonanza e della molteplicità. La letteratura postmoderna è intrisa di equivocità e di doppiezza, i cui correlati sono l’ironia e la parodia. Questi i temi centrali e ricorrenti: −

indebolimento del pensiero, cioè crisi delle filosofie cosiddette ‘forti’ che vogliono capire e cambiare il mondo; riscoperta di Nietzsche e di Heidegger; − fine della distinzione tra arte sperimentale e arte di massa; − scomparsa del ‘soggetto’ e scoperta dei ‘media’: si cominciano ad usare metodi narrativi che riprendono le modalità espressive della televisione, degli audiovisivi, della pubblicità, ecc. − gusto per il pastiche, il rifacimento e la contaminazione di testi altrui, la commistione non contraddittoria di stili e linguaggi diversi; − ricorso continuo alla citazione, alla riscrittura di altri testi; − rivisitazione della storia passata come affresco decorativo; − concezione della letteratura come gioco combinatorio ed esperienza di ‘mondi possibili’ (Le città invisibili, Se una notte di inverno in viaggiatore, Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino). In generale, nell’immaginario letterario, il sentimento di instabilità tipico del postmoderno si manifesta in una serie di ‘luoghi’ comuni a più autori: • il labirinto: immagine della complessità e del disorientamento (Jorge Luis Borges, Umberto Eco, Italo Calvino); • la biblioteca: immagine del sapere, del mondo ridotto a linguaggio (Il nome della Rosa di Umberto Eco); • il complotto: il potere con le sue trame oscure che l’uomo non sa decifrare (Il pendolo di Foucault di Umberto Eco); • il già visto, il già detto, il già letto: la consapevolezza che tutto è già stato fatto per cui si può arrivare solo al rifacimento manieristico accompagnato da quel senso di saturazione e malinconia che danno le situazioni quando si ripetono; • il viaggio nel tempo e l’alterazione sistematica dei rapporti fra il tempo della storia e il tempo del racconto.

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2.2 Italo Calvino: la sfida e la resa al labirinto Il postmoderno trova la sua maggiore visibilità nella narrativa, ma è importante segnalare linee di discontinuità sostenute da vari gruppi o autori di tendenza. L’affermazione del fenomeno si registra a finire degli anni Settanta, quando viene pubblicato Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) di Italo Calvino e Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco. La fase si estende fino agli albori degli anni Novanta. Da quella data in poi sembra essersi aperta una nuova fase, tanto da far parlare addirittura di post-postmodernismo, una fase che vede senz’altro l’affermarsi di un postmodernismo critico, in cui si avverte la sensazione drammatica di saturazione dell’universo culturale precedente. Il panorama narrativo italiano ha individuato in Ti con zero (1967) (in particolare nel racconto Il conte di Montecristo), Le città invisibili (1972) e Se una notte di inverno un viaggiatore (1979), di Italo Calvino tre opere imprescindibilmente postmoderne. Qui lo sdoppiamento dell’individualità, il decentramento spaziale e il disorientamento temporale hanno fornito una nuova ‘possibilità’ di libro. L’adesione di Calvino al postmoderno avviene con Le città invisibili, dove lo scrittore si isola in un laboratorio, un osservatorio specializzato che diventa luogo protetto dal caos del presente. Il postmoderno in letteratura si connota subito per la commistione dei generi, il pastiche stilistico, il linguaggio inteso come ‘discorso’ e separato dalle cose, l’idea di letteratura come gioco ironico e parodico. L’intertestualità è talora esplicita quando si richiamano opere del passato, come Il Milione di Marco Polo, implicita quando comporta citazioni nascoste e allusive. Anche gli altri due romanzi del periodo postmoderno sono inscritti nell’intertestualità, e cioè Il castello dei destini incrociati (1969) e il già citato Se una notte d’inverno un viaggiatore. L’intertestualità rende la scrittura autoriflessiva e metatestuale. La metatestualità diventa allora nozione portante della letteratura postmoderna, laddove si esalta il carattere artificiale della letteratura. Un’impostazione antinarrativa si è collocata nello spazio della letteratura degli ultimi anni. Le città invisibili è un’opera antinarrativa, a metà strada tra un romanzo ibrido e un romanzo allegorico. La scrittura viene vista come un’arte combinatoria, un gioco in cui si delineano immagini nuove, il cristallo, il labirinto, il gioco degli scacchi, la biblioteca. Le Città invisibili rappresenta uno dei testi di Calvino considerati più postmoderni dalla critica, per quella che Foucault definiva la dimensione dell’“eteroclito”, cioè di quegli spazi o zone dove domina la legge del radicalmente discontinuo, del giustapposto e dell’incompatibile. Il tema postmoderno della città s’intreccia a quello delle relazioni di viaggio narrate da un viaggiatore visionario, che riecheggia Il Milione di Marco Polo e tutte le opere e gli scrittori che, nei secoli, si sono ispirati a lui.

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Qui i temi della postmodernità sono rintracciabili in questi aspetti: − − − −

l’utilizzo ‘forte’ della metafora, dell’immagine, della suggestione evocativa che segna il crollo dei confini ontologici, per cui la fantasia e la metafora stessa divengono realtà; la metafora della duplicità tra immagine e realtà, in cui non è possibile distinguere quale sia l’immagine e quale la realtà; la perdita, nella spazialità, di punti di riferimento orientanti, e quindi il concetto dello spazio come labirinto; il tema del caos e dell’impossibilità di organizzarlo, reso da Calvino attraverso l’uso della figura retorica dell’elencazione ‘disorganizzata’, in cui cioè vengono assemblati elementi disomogenei e privi di condiviso senso logico.

Di seguito un brano esemplificativo tratto dal romanzo: Ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in un filo cremisi o indaco o amaranto che attraverso un lungo giro ti fa entrare in un recinto color porpora che è il tuo vero punto d’arrivo. Ogni abitante di Eudossia confronta all’ordine immobile del tappeto una sua immagine della città, una sua angoscia, e ognuno può trovare nascosta tra gli arabeschi una risposta, il racconto della sua vita, le svolte del destino (p. 97).

Il labirinto è figura-principe della contemporaneità che si presenta come magma informe e privo di significato. Per Calvino si tratta di entrare nel labirinto, cioè essere all’altezza della problematicità e della complessità dell’oggi, di non restare prigionieri del suo fascino, ma di sforzarsi di conoscerlo e di uscirne. È questa la sfida al labirinto. Robbe-Grillet aveva precedentemente fornito questa definizione di labirinto spaziale, che sintetizza la molteplicità e la complessità della cultura contemporanea. La letteratura del labirinto ha una doppia possibilità: da un lato la necessità di affrontare la complessità del reale; dall’altra il fascino del labirinto in quanto tale. Il perdersi nel labirinto rappresenta l’assenza di via d’uscita nella condizione dell’uomo. Per Calvino la letteratura diventa allora passaggio da un labirinto a un altro, trovando così quest’unica possibilità. Il tema del labirinto appare centrale in molti autori postmoderni: Calvino, ma anche Gadda, Borges, Queneau, Musil, e soprattutto l’appena citato Robbe-Grillet che aveva pubblicato nel 1959 il libro Dans le labyrinthe (Nel Labirinto17). La resa al labirinto contrapposta alla

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A. Robbe-Grillet, Nel labirinto, Boringhieri, Torino 1983.

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sfida, nasce dal fascino stesso del labirinto, che porta a perdersi e a compiacersi. È quanto accade non solo in Calvino ma in alcune neo-filosofie ispirate al nichilismo postmodernista. Per Calvino bisogna fare i conti con il labirinto. Pertanto è impossibile fare finta che esso non esista, ma bisogna confrontarsi con la problematicità che esso comporta. Sfidare il labirinto ogni giorno. Il labirinto di Le città invisibili di Calvino si incontra con una mappa complessa com’è quella del mondo possibile a cui fa riferimento. Una rivoluzione della percezione spazio-temporale. Lo sterminato impero di Kublai Kan sconfina in una dimensione planetaria, in un universo geograficamente indifferenziato. All’interno del labirinto si crea l’illusione del movimento. L’era postmoderna sancisce la metamorfosi del viaggio che aveva inaugurato l’era moderna. L’impero è “uno zodiaco di fantasmi e della mente”. Lo spazio si contrae fino a identificarsi con la scacchiera e con l’atlante. Regno dell’informe. Identificazione tra realtà e finzione. Lo spazio dell’impero è posto sotto il segno del molteplice e del contraddittorio, peculiarità di un universo labirintico. L’immagine del labirinto viene ancora di più in risalto in un’opera come Il castello dei destini incrociati dove il puzzle delle forme si esaurisce in se stesso. Calvino sembrerà allora distaccarsi dall’ideologia postmodernista dichiarando la resa al labirinto. L’opera Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino è un capolavoro in cui si vedono tutti gli aspetti delle proposte per il successivo millennio fatte da Calvino nelle Lezioni americane. È un romanzo cosiddetto postmoderno poiché cerca di dare una vista analitica alla letteratura, girando attorno a se stesso. Il testo esamina il processo di leggere, il lavoro e la preparazione necessaria per scrivere e leggere un romanzo e prende in giro il ‘lettore’ e il concetto di letteratura. Calvino parlando della sua opera dice: …è un romanzo sul piacere di leggere romanzi; protagonista è il lettore, che per dieci volte comincia a leggere un libro che per vicissitudini estranee alla sua volontà non riesce a finire. Ho dovuto dunque scrivere l’inizio di dieci romanzi d’autori immaginari, tutti in qualche modo diversi da me e diversi tra loro.

Protagonista del romanzo diventa allora il lettore stesso che assume, nel processo della scrittura, un ruolo centrale: oggetto del romanzo diviene la prospettiva del lettore (circolarità ermeneutica). Aspetti di carattere postmoderno possono essere riconosciuti in: −

l’abilità di scrittura che tende a effetti di sorpresa, quasi virtuosismi letterari, attraverso un gioco combinatorio (da qui la definizione di ‘postmoderno neoclassico’ per Calvino);

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il tema del labirinto, della realtà complessa e caotica, poliforme e inafferrabile razionalmente, davanti alla quale la leggerezza e l’ironia del gioco si propongono come l’unico possibile atteggiamento intellettuale e conoscitivo; il concetto dell’impossibilità di orientarsi nella complessità del reale: all’uomo sfugge la totalità, e nel migliore dei casi riesce a possederne un’immagine parziale, frammentata, monca; il tema ricorrente della biblioteca, della libreria, dell’ammasso di volumi, di carta, di parole che esprime in modo molto efficace il disorientamento dell’uomo postmoderno nel labirinto segnico della società massmediatica. Come appare evidente nel brano che segue:

Già nella vetrina della libreria hai individuato la copertina col titolo che cercavi. Seguendo questa traccia visiva ti sei fatto largo nel negozio attraverso il fitto sbarramento dei libri che non hai letto che ti guardavano accigliati dai banchi e dagli scaffali cercando d’intimidirti. Ma tu sai che non devi lasciarti mettere in soggezione, che tra loro s’estendono per ettari ed ettari i libri che puoi fare a meno di leggere, i libri fatti per altri usi che la lettura, i libri già letti senza nemmeno il bisogno d’aprirli in quanto appartenenti alla categoria del già letto prima ancora di essere scritto. E così superi la prima cinta dei baluardi e ti piomba addosso la fanteria dei libri che se tu avessi più vite da vivere certamente anche questi li leggeresti volentieri, ma purtroppo i giorni che hai da vivere sono quelli che sono. Con rapida mossa li scavalchi e ti porti in mezzo alle falangi dei libri che hai intenzione di leggere ma prima ne dovresti leggere degli altri, dei libri troppo cari che potresti aspettare a comprarli quando saranno rivenduti a metà prezzo, dei libri idem come sopra quando verranno ristampati nei tascabili, dei libri che potresti domandare a qualcuno se te li presta, dei libri che tutti hanno letto dunque è quasi come se li avessi letti anche tu. Sventando questi assalti, ti porti sotto le torri del fortilizio, dove fanno resistenza i libri che da tanto tempo hai in programma di leggere, i libri che da anni cercavi senza trovarli, i libri che riguardano qualcosa di cui ti occupi in questo momento, i libri che vuoi avere per tenerli a portata di mano in ogni evenienza, i libri che potresti mettere da parte per leggerli magari quest’estate, i libri che ti mancano per affiancarli ad altri libri nel tuo scaffale, i libri che ti ispirano una curiosità improvvisa, frenetica e non chiaramente giustificabile. Ecco che ti è stato possibile ridurre il numero illimitato di forze in campo a un insieme certo molto grande ma comunque calcolabile in un numero finito, anche se questo relativo sollievo ti viene insidiato dalle imboscate dei libri letti tanto tempo fa che sarebbe ora di rileggerli e dei libri che hai sempre fatto finta di averli letti mentre sarebbe ora ti decidessi a leggerli davvero (pp. 5-6).

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In Se una notte d’inverno un viaggiatore torna la strategia della metatestualità e l’impostazione antinarrativa. Il narratore comincia a parlare con il ‘lettore’, protagonista del romanzo, questo comincia a leggere il romanzo dal titolo Se una notte d’inverno un viaggiatore, ma dopo un capitolo il meta-romanzo finisce bruscamente e un’altra volta il narratore parla con il ‘lettore’. In ogni capitolo il lettore si interromperà, cosicché risulterà leggere dieci inizi di romanzo, inizi non connessi, con i quali il romanzo proseguirà rotto e ininterrotto, su due livelli indipendenti, senza intersezione alcuna fino al penultimo capitolo. La metà dei capitoli è numerata (quella che racconta del lettore), l’altra metà (gli inizi di romanzo) ha invece un titolo. I capitoli numerati creano il filo narrativo del romanzo che mantiene collegati gli uni agli altri. Ogni capitolo intitolato è aperto, non vi è una fine della storia, le parole si interrompono bruscamente, così il filo narrativo può assumere controllo un’altra volta e preparare il lettore per la prossima storia indipendente. Questo metodo scrittorio ci mostra una tecnica unica di rapidità con la quale l’autore costruisce il romanzo e scandisce il tempo mantenendo scorrevole la storia. Con troppi particolari invece, o con lo sviluppo preciso di ogni storia, il lettore non potrebbe continuare con il suo ruolo nella lettura sicura. Se avesse tempo di abituarsi all’azione della storia in progresso, il tentativo del romanzo di procedere velocemente, e di mantenere il lettore confuso, fallirebbe.

2.3 Umberto Eco e l’umorismo ritrovato Fra i primi teorici del postmoderno, Hassan18, in uno dei suoi testi, parla di una nozione cardine: il gioco, definito come campo di pulsioni della coscienza, campo di informazioni, desideri e memorie, privo di centro ordinatore e dominante, che porta alla visione della storia come happening. E ancora fra le proposizioni paratattiche sulla cultura del postmoderno troviamo che, in quanto fenomeno artistico e filosofico, erotico e sociale, il postmodernismo si rivolge verso forme giocose, desiderative, disgiuntive, dislocate e indeterminate, verso un discorso di frammenti, un’ideologia della frattura, una volontà di disfacimento, un’invocazione di silenzi, pur implicando i loro contrari e le loro relative realtà antitetiche. La scrittura invisibile, l’inchiostro del tempo diventa allora leggibile come storia: molto di questo, e non solo, lo ritroviamo in Umberto Eco, definito da molti critici uno dei più consapevoli teorici del postmoderno. Il suo romanzo Il nome della rosa, pubblicato nel 18

Cfr. I. Hassan, Cultura, indeterminazione e immanenza: margini dell’età (postmoderna), cit..

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1980, ha avuto un successo internazionale straordinario, e costituisce ormai un ‘classico’ della letteratura postmoderna. Nel suo testo il gioco finzionale produce sin dall’inizio effetti di rimandi, come in un gioco di specchi. La storia nasce dalla traduzione di un testo, di cui si è perso l’‘originale’, testo che era frutto di una serie di innesti storici complicati, tradotto e definito da Eco come “oscura versione neogotica francese di una edizione latina seicentesca di un’opera scritta in latino da un monaco tedesco sul finire del Trecento”. Tradotto poi in numerosissime lingue, Il nome della rosa è un opera in cui la commistione di lingue e la sovrapposizione storica si intrecciano e si ibridano, creando caratteri e temi tipici del postmoderno. Per Eco, questa impostazione viene dalla poetica delle avanguardie, in cui si ritrova il gusto dell’atmosfera medievale, non come ritorno al passato, ma come sviluppo attuale di un tempo ancora abitato. Consapevole che del passato “non si ci può sbarazzare”, Eco sostiene che questo possa rivivere attraverso un atteggiamento ironico e giocoso. Ironia, gioco metalinguistico sono del postmoderno. Secondo il semiologo, ogni epoca ha il proprio postmoderno, perché ogni epoca riesce ad annullare significati, rivestendoli di nuovi valori e credenze. Così egli afferma che la risposta moderna al postmoderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché questo porterebbe al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente. Così dire ad una donna “Ti amo disperatamente” può diventare una dichiarazione originale, ma solo se viene espressa con falsa innocenza, se la donna sta al gioco; se citare Liala significa mostrarsi e dare il giusto significato, solo così i due interlocutori avranno accettato la sfida del passato, giocando coscientemente al gioco dell’ironia. Solo così “saranno riusciti ancora una volta a parlare d’amore”. Ma questo atipico modo di pensare può anche ribaltarsi: ironia e gioco metalinguistico, attraverso il postmoderno, possono anche non essere capiti, se, qualitativamente parlando, si prendono le cose sul serio. Così in uno stesso artista possono ugualmente convivere, o seguirsi a breve distanza, il moderno e il postmoderno, non attraverso una negazione, piuttosto attraverso un ripensamento, una valutazione ironica del tutto nuova. Eco sostiene che il passato ci sta addosso e ci condiziona, e che non si può evitare di riscrivere, così spiega i tre modi possibili di riscrittura: − −

il primo modo è il romance, la storia di un altrove, la scrittura di un passato qualunque come costruzione favolistica, per dare sfogo all’immaginazione (dal ciclo bretone a Tolkien); il secondo è il romanzo di cappa e di spada, creato da Dumas padre, che sceglie un passato reale e riconoscibile, popolandolo di

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personaggi già conosciuti, ai quali fa compiere azioni o imprese sconosciute, nuove o semplicemente normalissime; l’ultimo è appunto il romanzo storico, in cui non serve che i personaggi siano esistiti, ma che le loro azioni siano conformi a quel periodo in cui vivono, alla loro epoca; anche se le vicende e i personaggi sono inventati, quello che fanno ci aiuta a capire la storia.

Questo terzo punto secondo Eco è fondamentale, perché è nel romanzo storico che si possono individuare nel passato le cause di ciò che è avvenuto nel futuro e disegnare il processo per cui quelle cause si sono avviate lentamente e hanno prodotto i loro effetti.

2.4 Il nuovo ‘giallo’ italiano tra tradizione e postmodernità Esiste ancora nella categoria ‘giallo’ la distinzione e contrapposizione tra letteratura ‘alta’ e forme narrative popolari. Alcuni critici, ad esempio, fanno una distinzione tra letteratura gialla ‘artigianale’, che non viene analizzata in quanto letteratura tout court, e il giallo letterario di Sciascia o Eco. Ciò che sorprende maggiormente è questo bisogno di mantenere il regno della letteratura al di sopra di qualsiasi altro piano, tanto più difficile quando si pensa alla centralità attuale di questioni editoriali e di marketing. Rimane poi quel fenomeno sociale costituito dall’interesse stabile, continuato e forte del pubblico nei confronti della narrativa gialla a partire dal secolo scorso, che dovrebbe fare riflettere sul fascino e la validità di questo tipo di narrativa; per spiegarlo si è interpretato il giallo come mito, come modello rassicurante in una società sempre più violenta e alienante. Una delle caratteristiche anomale ma forti del giallo italiano è il suo tendere alla letteratura. Il giallo ha in Italia una tradizione nascosta tra le pieghe della letteratura – esempi macroscopici sono Gadda, Sciascia, Tabucchi, Eco, ma la critica non se ne occupa in quanto narrativa gialla, se non marginalmente. Questo ha creato un duplice problema. Da un lato, davanti al fenomeno della rinascita del romanzo italiano negli scorsi decenni, non è stato dato spazio sufficiente alla questione, fondamentale soprattutto negli anni Novanta, della proliferazione del giallo e dei prestiti delle sue strutture e tecniche narrative in romanzi che non sono polizieschi. In secondo luogo, è mancato un dibattito approfondito sulle caratteristiche della nuova generazione di giallisti e sulle ragioni della loro scelta di questo tipo di narrativa. La discussione terminologica precedente voleva essere un pretesto per far emergere il grado di flessibilità con cui vengono definite la scrittura

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POSTMODERNO

gialla e le strutture narrative che la contraddistinguono. Il giallo viene usato oggi come strumento che garantisce la tensione e l’interesse del lettore, ma anche come veicolo privilegiato per indagini diverse – storiche, sociali, esistenziali – e per una ricerca di identità nella complessa e frammentata realtà contemporanea. È un ritorno alla narratività che riesce a catturare nelle sue trame complesse la diversità e pluralità del reale e può contare su due secoli di tradizione letteraria sua propria, con cui giocare con rimandi intertestuali ironici (si pensi all’ispettore più famoso d’Italia negli ultimi anni, Salvo Montalbano di Camilleri, che spesso legge libri gialli di Simenon ma “capendoci poco”). Ci sono poi nel giallo contemporaneo, soprattutto francese e italiano, numerosissimi elementi tipici del postmoderno in letteratura. Uno degli esponenti del nouveau roman policier, le cui opere vengono analizzate in termini di postmodernità, è Daniel Pennac che con il ciclo della famiglia Malaussène ha avuto uno straordinario successo di critica e pubblico in Italia. Pennac sceglie il genere giallo all’insegna della rivisitazione ironica delle forme narrative del passato, in un gustoso pastiche di altri generi letterari, ed accanto al gioco narrativo vengono esplorati la multietnicità e il plurilinguismo di una Parigi contemporanea tanto frammentata quanto pluralistica. Non è un caso che si possa parlare di giallo postmoderno in Italia, se si pensa che una delle opere che ha reso possibile la rinascita del romanzo in Italia negli anni Ottanta è appunto un giallo e uno dei romanzi postmoderni per eccellenza, Il nome della Rosa (1980) di Eco. Gli anni Ottanta e Novanta hanno visto in Italia una straordinaria rinascita del romanzo e delle forme narrative tradizionali, con intrecci ben definiti, gusto per la descrizione del personaggio, attenzione al dialogo che, sotto l’influsso del cinema e della televisione, è diventato più vicino al parlato ed ha perso quell’eccesso intellettualizzante che rendeva i dialoghi nella narrativa italiana troppo astratti e remoti – si pensi a quelli di Sciascia, caratterizzati da architetture sintattiche complesse su cui fondare interrogazioni morali e filosofiche. Su questa struttura si innesta il ritrovato gusto del narrare e la riscoperta di generi tradizionali che, in un’ottica postmoderna, vengono citati e rivisitati con passione, ironia, con un ritrovato gusto di raccontare delle storie, ma in modo nuovo e con prospettive diverse, in cui il tempo narrativo è scomposto (vedi Guccini & Macchiavelli in Macaronì o I misteri della Vigàta ottocentesca di Camilleri). In questi proliferano intrecci che si innestano sulla trama principale, si aggrovigliano polifonie di voci narranti (Lucarelli in Almost Blue e Fois in Sempre caro) e, infine, ci troviamo di fronte al caos di lingue (Camilleri ne è l’esempio più ovvio, soprattutto ne La mossa del cavallo in cui l’impenetrabile dialetto genovese sembra avere anche un risvolto ironico-polemico sul pregiudizio italiano nei confronti dei dialetti

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POSTMODERNITà

E LETTERATURA

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meridionali e del siciliano in particolare), culture, tradizioni diverse e tutte presenti contemporaneamente. La presenza della storia, tipica del giallo-denuncia italiano, è anch’essa giocata su piani diversi. Storia ufficiale vicino a quella che non lo è, ma capace di illuminare le menzogne della prima o aiutare a chiarirne i meccanismi, senza dare risposte univoche del suo sviluppo, ma creando ipotesi e diversioni che mettono l’accento sul dubbio e sulla riscrittura nelle versioni ufficiali degli eventi. Camilleri mette al centro di tante sue storie ottocentesche le reticenze e menzogne della storia ufficiale e Lucarelli, nella serie del commissario De Luca (per quanto gli omicidi che inizialmente appaiono legati alla contingenza storica risultino poi esserne privati) gioca su un triplice livello di tensione: quella esterna che caratterizza gli eventi storici stessi, quella personale del protagonista e quella del mistero da risolvere, costruendo una sottile quanto oppressiva atmosfera di dubbio sull’interpretazione di Fascismo, Resistenza, Comunismo e dei loro eroi. Ma questa centralità della storia in un’ottica critica è giocata su un tono lontano da quell’impegno politico e sociale troppo scoperto che la narrativa gialla italiana aveva fatto suo negli anni Settanta, in cui la denuncia aveva intenti didascalici ed era spesso sorretta dall’ideologia marxista. Nei gialli storici di Camilleri, Lucarelli e Fois l’accento è posto sulla problematicità del giudizio storico. Spesso nel testo ci sono date precise e inserzioni di articoli di giornale per dare maggiore realismo, come in una sorta di romanzo-documento, ma anche perché si è capito che la storia va indagata con gli stessi mezzi di un’indagine gialla: è un puzzle in cui ogni dettaglio va scrutinato attentamente ed è anche immagine della realtà frammentaria che ci circonda. Se la pagina scritta è specchio che aiuta a riflettere attraverso la riproduzione del disordine contraddittorio della realtà contemporanea e delle incertezze epistemologiche dell’esperienza moderna, lo strumento migliore per questa analisi è proprio il giallo, grazie al suo rigore logico, vero e presunto che sia. Paul Auster, all’inizio di The New York Trilogy19, spiega il fascino del giallo per uno scrittore postmoderno che vive in un mondo di oggetti discreti, ormai certo che non ci siano essenze irriducibili da conoscere, ma che può ancora indagare la realtà attraverso una delle caratteristiche del giallo: l’importanza di ogni minimo dettaglio. Questa particolarità narrativa è una possibile risposta alla scelta di tanti scrittori del giallo come meccanismo conoscitivo capace di dare un senso alla struttura pluricentrica del reale. Auster dice:

19

P. Auster, The New York Trilogy, Penguin Books, Harmondsworth 1990.

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POSTMODERNO

Since everything seen or said, even the slightest, most trivial thing, can bear a connection to the outcome of the story, nothing must be overlooked. Everything becomes essence; the centre of the book shifts with each event that propels it forward. The centre, then, is everywhere, and no circumference can be drawn until the book comes to its end. In effect, the writer and the detective are interchangeable. The reader sees the world through the detective’s eye, experiencing its proliferation of details as if for the first time. He has become awake to the things around him, as if, because of the attentiveness he now brings to them, they might begin to carry a meaning other than the simple fact of their existence. Finché tutto è visto o detto, anche il minimo, le cose più futili, possono creare un collegamento al finale della storia, niente deve essere trascurato. Tutto diventa essenza; il centro del libro scivola con ogni evento che lo spinge oltre. Il centro allora, è ovunque, e nessuna circonferenza può essere tracciata prima che il libro finisca. Infatti lo scrittore e il detective sono interscambiabili. Il lettore vede il mondo attorno all’occhio del detective, sperimentando la scoperta dei dettagli come se fosse la prima volta. Lui si rende conto delle cose attorno, come se, grazie alla sua attenzione, lui ora può raggiungere queste cose, e loro possono iniziare a portarlo al significato, quello oltre al semplice fatto della loro esistenza.

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V Postmodernità e cinema

1. Il cinema postmoderno: evoluzione Il cinema, quale arte nata e sviluppatasi nel postmoderno, ha un posto di primo piano all’interno degli studi di numerosi pensatori, tra questi Walter Benjamin ha dedicato al cinema ricerche di notevole interesse. Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin osserva il “cambiamento qualitativo della sua natura” cui è soggetta l’opera d’arte, che diventa una formazione con funzioni completamente nuove, “attraverso il peso assunto dal suo valore di esponibilità”1. Il cinema si configura come qualcosa di ben più realistico della pittura, come risultato di una completa compenetrazione tra il mezzo e la realtà. Il lavoro del regista è speculare ma differente rispetto a quello del pittore; mentre quest’ultimo osserva la realtà da una distanza naturale, il regista ne penetra i tessuti e la scompone, tanto che l’immagine che si otterrà sarà “multiformemente frammentata”. La pittura non è mai riuscita a riproporre l’opera d’arte alla ricezione collettiva simultanea, cosa che invece riesce benissimo al cinema. “In nessun luogo più che nel cinema la reazione dei singoli si rivela preliminarmente condizionata dalla loro immediata massificazione”2. Nonostante ciò, afferma Benjamin, i dadaisti si avvicinarono notevolmente all’impresa; l’opera d’arte diventa infatti un proiettile che mira all’osservatore e assume una qualità tattile atta a sconvolgere lo spettatore. Egli non può concedersi il tempo per riflettere. Lo stesso processo avviene nel cinema in cui è il montaggio a non lasciare il tempo allo spettatore; il mutamento dei tempi, dei luoghi, dell’azione e delle inquadrature investe lo spettatore a scatti. Non appena quest’ultimo coglie l’immagine visivamente, essa si è già modificata. Non può venir fissata. Il flusso associativo dello spettatore viene interrotto dal continuo mutare delle immagini. Da qui deriva un senso di shock fisico ancora più soverchiante rispetto a quello dell’arte dadaista.

1 2

W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 28. Ivi, p. 38.

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POSTMODERNO

La tesi di Benjamin spiega non solo il legame strettissimo tra il cinema e il postmoderno, ma anche il fatto che si può affermare l’esistenza di un cinema postmoderno. Il progresso tecnico, ma anche tematico, che ha coinvolto il cinema ha reso il discorso di Benjamin ancor meglio adattabile. I film di oggi sono infatti molto più frammentati di quanto non fossero all’epoca in cui egli scrive, e il montaggio ha acquisito sempre maggior potere, un potere che rende i film delle vere e proprie opere postmoderne. Secondo Laurent Jullier il concetto di postmodernità nel cinema non delinea un periodo che viene dopo la modernità, né può delinearsi come un progresso. Lo stile postmoderno nel cinema adotta figure che in gran parte sono note al cinema dei decenni precedenti, solo che le stesse vengono sistematizzate in modo proprio. Tuttavia è possibile dare delle definizioni di massima di ciò che si configura come cinema postmoderno. Anzitutto il cinema postmoderno è fun. Più che raccontarci delle storie esso ci rapisce, ci prende alla pancia bombardandoci di immagini-sensazioni, e alla testa bombardandoci di allusioni e strizzatine d’occhio. Il cinema postmoderno predilige le scenografie sferiche, infatti sostiene che tutti i punti di vista si equivalgono: lo spazio non è lateralizzato ma viene esplorato in modo endoscopico e immersivo. Il cinema postmoderno esibisce la tecnica che gli è propria ostentando schermi giganti, altoparlanti visibili, oppure sceglie l’opzione opposta, allora usa come modello il video amatoriale o le attualità televisive3. Il cinema postmoderno è irridente nei confronti del confine tra ciò che appartiene alla storia, il diegetico, e ciò che non gli appartiene, l’extradiegetico. Questo cinema ama il double coding e infatti funziona doppiamente, operando su più livelli, almeno due: la partecipazione senza malizia ovvero il piacere infantile, e lo straniamento metalinguistico. Infine il cinema postmoderno rinuncia all’idea di progresso artistico, ma non a quello di novità che diventa frutto della combinazione dei vari prestiti intertestuali. Esso assume la grande varietà delle citazioni pescando in ogni tempo e spazio senza darsi limiti. “Ciò che è importante nel postmoderno è essere cool, contro venti e maree”4.

3

Cfr L. Jullier, Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino 2007. Ivi, p. 15. Secondo Jullier i rapporti ludici e complici tra l’artista postmoderno e il pubblico possono essere descritti sulla base di quattro livelli: 1) lo stile ‘classico’ che racconta storie a un pubblico che le prende come tali; 2) lo stile ‘moderno’ che consiste nell’attirare l’attenzione sulla situazione stessa, lo straniamento che passa per la possibilità della menzogna e della derisione; 3) lo stile ‘postmoderno’ che racconta la storia come nel passato ma suggerendo con discrezione che si è più maliziosi, che ci si vuole divertire; 4) lo stile smart, dove si riciclano figure classiche (1° livello) e figure moderne (2° livello). 4

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E CINEMA

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1.1 Il cinema verso il postmoderno Si può affermare che la svolta decisiva del cinema verso il postmoderno si sia verificata intorno agli anni Settanta; si tratta di una svolta che potremmo definire una vera e propria rivoluzione postmoderna. Come è spesso capitato nella storia del cinema è Hollywood ad esserne protagonista. Cambiano i ruoli all’interno della realizzazione di un film: il regista, da mero artigiano esecutore della volontà del produttore, diventa un autore che ha finalmente il meritato potere sull’opera cinematografica. È da questa rinnovata libertà che nasce quella che dai critici è stata definita la New Hollywood: si scatena una rottura nei confronti delle regole della vecchia Hollywood, una rottura che coinvolge tutti i livelli (formale, tematico, produttivo distributivo ecc.). Il cinema postmoderno prende le mosse dai più grandi autori degli anni Settanta, quali Stanley Kubrick, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Robert Altman ecc. Grazie ai loro capolavori, questi grandi registi sono divenuti fautori della rottura con le regole classiche della vecchia Hollywood, anche se registi quali Alfred Hitchcock, Elia Kazan, Nicholas Ray e Dennis Hopper possono essere considerati dei veri e propri precursori della crisi. La rivoluzione di questi ultimi tre registi si era però concentrata per lo più sull’aspetto tematico tralasciando l’aspetto meramente tecnico. Basti pensare a Easy Rider di Dennis Hopper, il più famoso film on the road della storia del cinema, girato nel ’69, alle porte degli anni Settanta, gli anni della rivoluzione postmoderna. Easy Rider introduce alcune tra le tematiche più care al postmoderno cinematografico quali, ad esempio, la marijuana, la musica pop, la protesta hippy, il pacifismo e la crisi del mito americano. Tuttavia, qui la rivoluzione non è ancora soverchiante come lo sarà negli anni Settanta; sebbene vi siano molte scene complesse, quasi allucinatorie, basate su un montaggio a dir poco bizzarro, la sperimentazione tecnica è giustificata da un evento nella narrazione: la condizione del protagonista. Lo stesso discorso vale per Elia Kazan e Nicholas Ray. Le pellicole del primo (Un tram che si chiama desiderio del ’51, Fronte del porto del ’54 e Baby Doll del ’56) sono attraversate da una violenza e un erotismo mai visti al cinema sino agli anni Cinquanta; i personaggi cominciano ad assumere una negatività fino ad allora sconosciuta. Il linguaggio e la tecnica, però, non vengono minimamente sfiorati da questi nuovi valori, e i film di Kazan restano eleganti e ‘classici’ senza mettere in alcun modo in discussione i principi formali e gerarchici di Hollywood. Anzi è evidente il loro rimando alla staticità teatrale, all’ordine delle unità spazio-temporali, tant’è vero che alcuni film del regista sono tratti da pièces teatrali di Tennesse Williams. Nicholas Ray, con il cult Gioventù bruciata del ’55, dà spazio ad un aspetto della società americana

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che il cinema aveva sempre evitato: il disagio giovanile. Anche in questo caso, però, il regista resta legato alla struttura narrativa classica, alle unità spazio-temporali e alla teleologia. Alfred Hitchcock è forse il regista che, già in tempi non sospetti, si è avvicinato alla duplice rottura sia nelle forme che nei contenuti; le sue pellicole, per le loro innovative trovate formali, somigliano a dei sogni ad occhi aperti (si pensi soprattutto a La donna che visse due volte). Non è raro inoltre che egli cerchi un rapporto intenso con lo spettatore, fatto unico per quegli anni, anche a costo di ingannarlo raccontando fatti non veri (in Paura in palcoscenico, ad esempio, Hitchcock narra la storia da un falso punto di vista, svelando la verità soltanto al termine del film). Le tematiche che attraversano il cinema di Hitchcock non reggono il passo; non solo il genere resta sempre lo stesso anche se viene rinnovato dall’interno, ma le tematiche finiscono per essere subordinate alle scelte tecniche. In questo caso, dunque, forse avviene esattamente il contrario di quanto visto per Hopper, Kazan e Ray; la rottura è più formale che tematica.

1.2 I primordi del cinema postmoderno La frattura totale avviene negli anni Settanta. È proprio in quegli anni che si gettano le basi per la nascita di un cinema che può definirsi a pieno titolo postmoderno. Precursore è Stanley Kubrick, che già nel ’68 realizza un caposaldo del cinema postmoderno, 2001-Odissea nello spazio5, favola fantascientifica sul destino della umanità. 2001-Odissea nello spazio è un’opera che rompe con tutte le regole classiche sia dal punto di vista formale che da quello tematico. Kubrick riscrive il genere fantascientifico, un genere che era considerato di serie B, dando ad esso una dignità nuova; il risultato è quello di un’opera profonda e filosofica sull’umanità e sulla tecnologia, sulla crisi della razionalità onnisciente, in sintesi, sul postmoderno. Domina l’antinarrazione che si basa su una quasi totale assenza di dialoghi. Si pensi ad alcune scene fatte di solo musica e immagini come la famosa danza delle navicelle nello spazio, o a sequenze irreali come i dieci minuti di luci e colori psichedelici che accompagnano il protagonista nel suo viaggio spaziale. Si tratta indubbiamente di scene, non solo sconosciute negli anni Sessanta, ma soprattutto talmente innovative da risultare incomprensibili persino oggi. 5

Nel 2001, un misterioso oggetto di origine intelligente viene scoperto sulla Luna. A seguito di questo rinvenimento, una squadra di astronauti viene inviata in missione verso Giove; a supervisionare le operazioni, un computer di ultima generazione, l’infallibile HAL 9000.

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E CINEMA

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Il senso del film, infatti, passa attraverso le immagini e i suoni, rendendo 2001-Odissea nello spazio una pellicola d’incontro tra la complessità postmoderna e la semplicità tipica del muto. Le citazioni si moltiplicano, non togliendo però forza e unicità al film. Anche l’architettura delle scenografie è tipicamente postmoderna, un’architettura che non bada più alla funzione, alla semplicità, ma che dà vita a complessi percorsi che esulano dal tempo e dallo spazio. Non si può negare infatti che la struttura delle navicelle rappresenti un labirinto che, con la sua indecifrabilità, vuole sottrarsi ad ogni dimensione (il labirinto richiama inoltre la struttura di questo film e, in generale, di molte pellicole postmoderne). Domina la circolarità, evidente nella scena finale del film in cui il protagonista invecchia rapidamente fino a morire. La sua morte lo ritrasformerà in un feto pronto a rinascere e a dar vita all’umanità, ancora una volta. Dietro il film vi è infatti la teoria dei corsi e ricorsi storici; non è un caso che il film terminerà esattamente come è iniziato. Tre anni dopo, nel ’71, Kubrick realizza un altro film che potrebbe essere definito postmoderno, Arancia meccanica6. L’immensa portata filosofica di questo film, non inferiore a quella di 2001-Odissea nello spazio, è però subordinata al tema più rappresentativo della postmodernità, la violenza come forza anarchica in grado di stravolgere ogni forza razionale. La violenza percorre tutto il film diventandone il leit-motiv, filo conduttore tematico e formale. Dominano infatti effetti tecnici che deformano la realtà, soprattutto nei suoi aspetti temporali, si pensi all’accelerazione del montaggio durante le scene di sesso o al contrario il ralenti nelle scene di violenza. Le citazioni si infittiscono senza però togliere originalità al film. Kubrick cita soprattutto se stesso, sia il suo film precedente, 2001-Odissea nello spazio, sia Arancia meccanica stesso. Ma la violenza non raggiunge mai il realismo, al contrario, punta all’iperrealtà, alla spettacolarizzazione della violenza, una violenza che non offende ma che risulta sempre irreale anche se ossessiva. È l’ironia che attraversa tutto il film a dare questo effetto di iperrealtà, un’ironia che si rivela nell’uso originalissimo della musica classica, soprattutto Beethoven. Arancia meccanica è caratterizzata da personaggi negativi, violenti; il protagonista, il personaggio più violento di tutti, riuscirà ad allontanarsi dalla violenza ma finirà per diventarne vittima, e infatti, come cura, sarà costretto a vedere film violenti, in pratica a rivivere e a subire la sua stessa violenza. 6 Alex è un giovane delinquente che passa la vita a compiere atti illegali con i suoi fedeli compagni. Tra furti, lotte tra bande e stupri, Alex commette un omicidio e, incastrato dai compagni, non più così fedeli, verrà arrestato. Si presterà per un esperimento di riprogrammazione della mentalità, il programma Ludwig.

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Nuovo ed insolito per la struttura narrativa è Nashville7, capolavoro realizzato da Robert Altman nel ’75. Il rigore della costruzione hollywoodiana cede il passo ad una struttura in espansione, a macchia d’olio, basata sul non-sense e sulla casualità. Si tratta di una cronaca americana attraverso la quale il regista esprime l’anima di un popolo; è un film senza indulgenze sulla politica americana, un film sulla nevrosi che mira a mostrare come il sogno americano sia diventato un incubo. È un film sugli Stati Uniti d’America e su come la società americana si sia trasformata in una società dello spettacolo (il riferimento a Jameson è evidentissimo). Con ventiquattro personaggi sulla scena, Nashville è un film corale che vuole fornire un quadro del degrado della società americana. La stessa coralità tipica del cinema postmoderno si ritrova in un capolavoro più recente di Altman, America oggi8 del ’93. Come Nashville, America oggi è un film frammentato, basato su di un impianto corale che fa sì che il film si estenda in largo e non in profondità. Anche qui dominano i personaggi negativi e la pellicola diventa un triste spaccato della società americana. Il titolo originale del film, Short cuts, ovvero “brevi montaggi”, rende bene l’idea della frammentarietà di questo film. Taxi Driver9 (1976) di Martin Scorsese riesce bene a dare forma alla rottura postmoderna; Scorsese si serve di una struttura narrativa completamente nuova che esula dalle unità spazio-temporali. La storia, sebbene sia narrata da un unico punto di vista, si basa su falsi raccordi temporali e logici (vengono narrati anche gli eventi che il protagonista non può conoscere) e anche su un uso innovativo del linguaggio filmico. Ad esempio, il film è percorso da lunghe scene interamente in ralenti che hanno lo scopo di marcare visivamente la follia del protagonista. Il risultato è un film frammentato in totale opposizione rispetto al modello classico hollywoodiano. Scorsese stesso dichiarò: “Taxi driver trae ispirazione dall’idea che i film siano una sorta di sogno ad occhi aperti e lo shock di uscire dal cinema può essere terrificante”. La scenografia non è più quella statica dei teatri di prosa, ma quella

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A Nashville si sta tenendo l’annuale festival della musica country. Star affermate e stelline in cerca di fama si affannano per trovare il successo o per non perderlo, mentre John Triplette, portaborse del candidato alla Casa Bianca Hal Phillip Walker, organizza un grande spettacolo in vista delle elezioni. 8 Una squadriglia di elicotteri si butta in picchiata su Los Angeles per spargere un potente pesticida. Inizia così il racconto del film in cui si sommano le vite e i destini dei ventidue personaggi principali, mentre nella metropoli si aspetta il terribile terremoto che tra breve dovrebbe colpirla. 9 Il veterano del Vietnam Travis Bickle lavora la notte, come tassista. I suoi viaggi attraverso i bassifondi della decadente, grottesca New York notturna lo portano ad esecrare i delinquenti che la popolano e a compatire, e cercare di salvare, le loro vittime.

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dinamica della metropoli postmoderna, con i suoi grattaceli, le sue strade periferiche percorse dalle minoranze e dalla violenza e dalle piazze alienanti. Anche qui, come in Arancia meccanica sarà la violenza a dominare, soprattutto nel finale; Scorsese darà vita ad una delle scene più violente della storia del cinema, non smorzata dall’ironia presente invece in Arancia meccanica. Il protagonista, tipico eroe negativo, violento e folle, sarà trasformato in un eroe positivo, un ribelle che ha ripulito New York dal male e dalla violenza. Il finale, però, viene costantemente rimandato; Scorsese si diverte a giocare con lo spettatore, ingannandolo ma, nello stesso tempo, spingendolo ad un percorso interpretativo particolarmente complesso. Altro capolavoro e al contempo caposaldo del cinema postmoderno è indubbiamente Apocalypse Now10 del ’79 di Francis Ford Coppola, il film più delirante mai realizzato sul Vietnam. Il budget da kolossal è utilizzato da Coppola per dar vita ad un film d’autore imbottito di citazioni colte: cinematografiche (Sciopero di Ejzenstein), letterarie (Cuore di tenebra di Conrad) e musicali (Wagner). Anche in questo film il montaggio svolge un ruolo fondamentale, rendendo Apocalypse Now un film discontinuo, frammentato sebbene però non si alteri minimamente la cronologia degli eventi. Dominano i valori ed i personaggi negativi e la pellicola assume, nella sua complessità, una portata filosofica immensa che, come è evidente, caratterizza le opere postmoderne, almeno quelle degli anni Settanta.

1.3 Il cinema postmoderno compiuto Gli anni Novanta rappresentano gli anni più floridi per il cinema postmoderno, grazie alle opere di Quentin Tarantino, Spike Lee e Paul Thomas Anderson ad Hollywood, e alle opere di Pedro Almodovar, Emir Kusturica e Lars Von Trier in Europa. Gli anni Novanta segnano anche l’ascesa del cinema delle minoranze, un’altra caratteristica del postmoderno che, a differenza del moderno, non mira ad un appiattimento delle differenze ma anzi vuole preservarle (da qui la fortuna di registi quali Spike Lee, Emir Kusturica, Zhang Yimou). Negli anni Novanta, però, il postmoderno perderà, da un lato il suo mordente e al sua forza sociale, e dall’altro la sua portata filosofica. Il postmoderno finirà con l’accentuare il suo lato ironico

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Il capitano Willard è investito di una missione segreta: recarsi in Cambogia e porre fine al comando del colonnello Kurtz che nella giungla ha creato un vero e proprio regno nel quale è venerato come un dio.

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e citazionistico e i film postmoderni diventeranno dei complessi pastiches sempre più violenti. Il cinema di Tarantino, in particolare Le Iene11 del ’92 e Pulp Fiction12 del ’94, fornisce in questo senso uno degli esempi più chiari. Si tratta di un cinema pulp, che rivaluta i film di serie B e che predilige la citazione rispetto all’originalità. Dominano gli elementi trash che si fondono con la violenza, una violenza che risulta sempre eccessiva; si pensi soprattutto all’uso del sangue. Non si può non accennare a concetti quali l’iperrealismo e la spettacolarizzazione che pervadono il cinema di Tarantino. Ma è soprattutto la citazione ad essere protagonista, una citazione che richiama un ruolo attivo dello spettatore. L’interesse dello spettatore postmoderno non si ritrova più tanto nella vicenda narrata, quanto invece nello stile, nel modo in cui la vicenda viene raccontata. Lo spettatore è tenuto ad essere sia competente (per capire le citazioni) che ingenuo (per sentirsi protagonista dello spettacolo a cui assiste). Le pellicole di Tarantino si mostrano come veri e propri labirinti narrativi, all’interno dei quali lo spettatore è invitato a trovare l’uscita. Con la loro struttura frammentaria, dissociata, il loro open ending, o addirittura la scomparsa dell’ending, Le Iene e Pulp Fiction si configurano come film ogni volta diversi, a seconda dei momenti e degli spettatori. Molto spesso il film non termina con i titoli di coda; sono anzi questi ultimi a inaugurare un percorso complesso di interpretazione da parte dello spettatore. L’aspra carica sociale degli anni Settanta si ritrova invece nel cinema di Lars Von Trier, cinema tanto violento quanto quello di Tarantino, in particolare in film come Le onde del destino13 del ’96 e Dancer in The Dark14 del 2000. Le caratteristiche tipiche del postmoderno si osservano tutte: l’as11 Il malavitoso Joe Cabot ingaggia cinque uomini per mettere a segno il colpo perfetto; il piano è studiato alla perfezione e nessuno dei componenti della banda sa nulla degli altri. Eppure, subito dopo la rapina, i nostri si trovano gli sbirri alle calcagna in un batter di ciglio... 12 Le vite di un pugile, di due gangster, di un boss e della sua pupa, di uno spacciatore e di una coppia di rapinatori si sfiorano e collidono in una serie di eventi imprevedibili e paradossali. 13 La giovane e ingenua Bess s’innamora di Jan, che lavora su una piattaforma petrolifera. Il loro matrimonio è felice, ma Jan deve trascorrere lunghi periodi di tempo alla piattaforma, lontano dalla sposa, e Bess, straziata dalla nostalgia, prega perché il marito possa tornare per sempre accanto a lei. E il suo desiderio si avvera: in seguito ad un incidente, Jan resta completamente paralizzato. 14 È il 1964, Selma è emigrata con suo figlio dall’Europa dell’Est in America. Lavora notte e giorno per salvare suo figlio dalla stessa malattia che affligge lei e che la renderà cieca. Il segreto della sua energia di vivere è il suo amore per i musical. Quando la vita è troppo dura, le basta fingere di trovarsi nel meraviglioso mondo dei musical, dove riesce a trovare la felicità che il mondo non riesce a darle.

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senza di fine, la circolarità, l’ironia, il citazionismo; il tutto è completato ed amplificato dall’uso del digitale, di un montaggio complesso e caotico che rende questi film di difficile lettura per un pubblico abituato alla struttura narrativa classica. La violenza degenera spesso in una malsana crudeltà sadica che dipinge un mondo ancor più degradato rispetto a quello dipinto dai registi degli anni Settanta. Il cinema postmoderno è un cinema citazionistico. La citazione diventa in questo contesto ben preciso lo spunto per la costruzione dell’intera struttura narrativa. La citazione può essere verbale, legata cioè alle parole pronunciate dai personaggi, o visiva, legata cioè alle immagini che è possibile vedere sullo schermo. La loro combinazione porta alla citazione situazionale, in pratica alla ripetizione, più o meno fedele, di situazioni cinematografiche già viste al cinema, frantumate all’interno del nuovo contesto narrativo. La citazione non risulta così più essere un ‘a parte’ avulso dallo svolgimento della vicenda raccontata, ma parte essenziale di essa, trave portante di tutto il processo narrativo. Il cinema di Quentin Tarantino, in particolare, Pulp Fiction, fornisce in questo senso uno degli esempi più chiari di un cinema che predilige la citazione rispetto all’originalità. Inevitabilmente il gioco ai rimandi citazionistico, o meglio la sua preponderanza all’interno della struttura narrativa, comporta il passaggio da una narrazione tradizionale a una ‘narrazione meta’, in grado cioè di riflettere sull’atto stesso del narrare. Ogni citazione comporta infatti uno sguardo all’indietro rivolto verso un diverso modo di raccontare, di utilizzare il mezzo cinematografico. Il cinema postmoderno si rivolge al passato per trovare il suo ‘nutrimento’, un nutrimento che viene analizzato, frammentato, parodiato, messo in discussione attraverso il gioco con le sue convenzioni proprio all’interno del nuovo processo narrativo15. I grandi predecessori di Pulp Fiction sono dichiarati dallo stesso regista: i polizieschi della Nouvelle Vague francese di Godard, Truffaut e Melville; gli ‘spaghetti western’ ed i film americani di serie B degli anni Settanta. Molte scene ripropongono trame già note: Vincent Vega deve uscire con la moglie del capo, ma non la può toccare; il pugile che non trucca l’incontro… Solo la terza storia è meno classica: è un omaggio ai film di Joe Silver che cominciano quasi sempre con due killer che vanno in un posto ad uccidere qualcuno per poi separarsi. La stessa scenografia ha dei rimandi evidenti alla storia del cinema, in particolare ai film Linea rossa 7.000 con James Caan e A tutto gas con Elvis Presley. In questi film ci sono due particolari che Quentin ha voluto copiare. Dal film di Elvis ha preso la struttura di un locale in 15

F. Pirovano, L’itinerario dello spettatore postmoderno nei film di Quentin Tarantino, www.fucine. com.

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cui c’erano macchine tagliate a metà e tavoli incastrati dentro. Dal film di Caan, invece, ha preso la grande pista elettrica con cui giocano i clienti di un locale per piloti automobilistici16. A questo punto è chiaro come l’interesse dello spettatore postmoderno non sia più tanto da riferirsi alla vicenda narrata, alla trama del film, quanto al modo in cui la vicenda viene raccontata, cioè allo stile. Lo stile diventa dominante rispetto alla trama, il messaggio non è più contenuto nel testo ma nel ‘mezzo’ stesso, nel contemporaneo sfruttamento e svelamento delle possibilità del mezzo cinematografico. Ecco che allora la narrazione cinematografica postmoderna, rendendo palese e facilmente identificabili i processi narrativi che portano alla sua formazione, tenta continuamente di impegnare lo spettatore, il lettore, l’ascoltatore, all’interno del processo di produzione del significato. L’ascesa repentina del ‘ruolo dello spettatore’ comporta, o meglio sembrerebbe comportare, una parallela e contraria discesa del ‘ruolo dell’autore’. Questo è vero solo in parte, perché è proprio l’autore a decidere quanto e quale spazio concedere al gioco con lo spettatore, ma soprattutto con quale tipo di spettatore giocare, e a che livello di conoscenza dello spettatore stabilire le regole del gioco (citazioni cinematografiche più o meno ‘colte’, più o meno individuabili all’interno del testo). I testi del cinema postmoderno si mostrano come veri e propri labirinti narrativi, all’interno dei quali lo spettatore è calato e invitato a trovarne, in maniera più o meno autonoma, l’uscita. Il punto in cui lo spettatore viene calato e la porta del labirinto sono già stabiliti in precedenza, ma il percorso tra questi due punti è quasi completamente lasciato all’immaginazione-azione dello spettatore. In questo contesto risulta chiaro il perché questo ‘labirinto narrativo’ sia popolato da un surplus di visioni, da una serie di ‘corridoi a specchio’ capaci di mettere in moto quel gioco al rimando citazionistico che costituisce un ulteriore livello della narrazione. Un livello che risulta ben omogeneizzato all’interno della stessa narrazione, non essenziale al suo godimento, ma di forte attrazione, di irresistibile seduzione per lo spettatore cinefilo chiamato a mettere in discussione la sua conoscenza della storia del cinema, per sentirsi realizzato e perso in questa camera degli specchi17. Il gioco citazionistico messo in moto dalla narrazione non è tanto riferito al particolare, ma a una citazione globale, situazionale. Lo spettatore si sente immerso in una situazione che gli sembra di avere già vissuto cinematograficamente, formata da un insieme di referenti filmici frantumati e filtrati in un’unica materia narrativa. Il cinema di Tarantino non è un cinema fatto 16 17

Intervista a David Wasco, production designer di Pulp Fiction, Cecchi Gori Home Video. R. Nepoti, Spettatore postmoderno?, www.fucine.com.

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di citazioni che emergono dal contesto narrativo come elementi a parte, ma al contrario la struttura narrativa, le situazioni proposte sono citazioni, elementi comunemente condivisi del già visto e del già sentito18. Il film di Tarantino agisce direttamente sul proprio spettatore, uno spettatore che non vibra tanto agli avvenimenti narrati (effetto fiction) quanto alle variazioni di ritmo, di intensità e di colore delle immagini e dei suoni.

1.4 Elementi chiave per una interpretazione del cinema postmoderno Si possono a questo punto tracciare alcuni elementi chiave che permettono di riconoscere e distinguere l’azione della postmodernità e il suo influsso nel cinema, con particolare rifermento all’opera Pulp fiction di Quentin Tarantino. −





Rifiuto della gerarchia. Si tratta del rifiuto sistematico, a volte parodiato, a volte più serio di qualsiasi tipo di autorità precostituita. Tutto è messo in discussione, dall’unità del linguaggio, al concetto di tempo, alla stessa unità della struttura narrativa. Anche il ruolo canonico dell’autore è oggetto di revisione. (Nel film Pulp Fiction di Quentin Tarantino è evidente il rifiuto dell’unità della struttura narrativa e della linearità del tempo di narrazione. Si procede in modo circolare, saltando da una storia all’altra e ritornando, ciclicamente, sui personaggi presentati all’inizio: Vincent e Jules, che si ricollegano alla coppia di rapinatori che apre la vicenda). Sollecitazione di ‘sensazioni forti’ nello spettatore. Ciò avviene attraverso l’adozione del ‘film-concerto’, caratterizzato dalla presenza decisiva della musica come principio fondamentale della sua costruzione e contraddistinto da un insieme di figure stilistiche tendenti a provocare nello spettatore un “bagno di sensazioni” che dà “l’impressione di galleggiare al centro di un magma i cui suoni, soprattutto i suoni gravi dalla grande dinamica, toccano direttamente, come l’acqua del bagno – e anche in un modo molto più intrusivo di essa – il suo corpo intero”19. Di qui l’importanza, per il cinema postmoderno, di proiezioni ad alto livello tecnico: schermo grande, immagine

18 F. Pirovano, L’itinerario dello spettatore postmoderno nei film di Quentin Tarantino, www.fucine. com. 19 G. De Vincenti, Moderno e postmoderno: dagli indici stilistici alle pratiche di regia, www.fucine. com.

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perfettamente definita, sistema acustico perfetto. Per molti studiosi del cinema, Star Wars segna, nel 1977, la nascita del cinema postmoderno anche perché è il primo film presentato commercialmente con il sistema Dolby. (Il regista Tarantino, più volte criticato per l’uso fin troppo realistico della violenza, in Pulp Fiction coinvolge lo spettatore in un turbine di emozioni, che tocca il punto più alto nella scena dell’iniezione di adrenalina direttamente nel cuore di Mia). Mancanza di un punto di vista. Un’immagine senza punto di vista non può generare un giudizio sul mondo. La parola d’ordine è ‘dove sono?’ I luoghi hanno un’aria di déjà-vu, come nei sogni. Difficile per lo spettatore immedesimarsi in uno dei protagonisti ed ancora più difficile riuscire a dare un giudizio su di essi, assumendo un punto di vista particolare. Le scene sono presentate allo spettatore attraverso gli occhi di tutti i personaggi ed attraverso quelli dello stesso regista che, dietro la macchina da presa, segue i suoi attori, li squadra da tutte le angolature, quasi li coglie di sorpresa durante il compiersi delle azioni. Assenza di dieresi. Le figure stilistiche e le tecniche più recenti (per esempio, l’insistenza dello zoom e del carrello in avanti, e l’invenzione della steadycam) hanno lo scopo di svincolare il rapporto tra spettatore e film, passando dalla proiezione spettatoriale ad un universo di finzione, che era propria del cinema classico. Lo spettatore non viene proiettato nella finzione della vicenda: si sente coinvolto, sopraffatto dalle immagini, ma non si sente parte di esse. È consapevole del suo ruolo di spettatore, pur essendo sollecitato da emozioni continue. L’assenza di una linearità nel racconto contribuisce a mantenere desta la sua attenzione e, quindi, ad allontanare la sua presenza all’interno della scena. Forte componente di oralità. I dialoghi contribuiscono a dare linearità ad una narrazione che, invece, sembra non voler procedere in modo coerente. Inoltre, forniscono un apporto alla rappresentazione realistica della vita dei personaggi, dei killer in particolare. Utilizzazione delle immagini di sintesi. La realtà virtuale è in ogni senso improntata all’immersione, in quanto, grazie anche all’eliminazione del fuori campo e del montaggio, rende pressoché esclusivo l’ambiente presentato dal medium rispetto a quello reale che circonda colui che percepisce l’immagine. (In Pulp Fiction non ci sono immagini digitali. Il film, tuttavia, è caratterizzato dalla presenza di ‘oggettive raddoppiate’, in cui l’im-

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magine contiene al suo interno altre immagini, come nella scena di Mia che segue su numerosi schermi i movimenti di Vincent Vega, appena entrato nel suo salotto). Ricorso sistematico alla citazione, alla intertestualità, alla contaminazione, all’ironia, alla riscrittura di altri testi e rivisitazione dei generi. (In Pulp Fiction ci sono chiari riferimenti al film Linea rossa 7.000 con James Caan, al film A tutto gas con Elvis Presley e a Kiss me deadly di Robert Aldrich. In particolare, il ballo di John Travolta con Mia richiama alla mente dello spettatore il famoso film La febbre del sabato sera che vede come protagonista lo stesso attore). Tendenza al pastiche, mescolanza di diversi registri espressivi, formali e di contenuto, non contraddittori fra loro. (È tipica del cinema classico la storia del killer che si innamora della donna del suo capo, che deve uscire con lei, starle vicino, ma non toccarla e, soprattutto, non farle accadere nulla. Così come appartiene alla tradizione la storia del pugile che non vuole truccare l’incontro, memore dell’onore e dello spirito di sacrificio tramandatogli dal padre). Tema del labirinto, complotto, torre di Babele, assurdità dei valori ‘forti’ ed insignificanza della vita. Le storie si intersecano tra di loro, costruendo un vero e proprio labirinto. (La coppia di rapinatori che organizza il colpo ad un ristorante si trova nello stesso locale in cui vanno a mangiare Vincent e Jules dopo il recupero della valigetta di Marsellus. Il pugile in fuga, dopo l’uccisione di Vincent, incontra Marsellus ma, entrambi, devono difendersi dal poliziotto violentatore. Mia viene soccorsa nella casa dello spacciatore da cui Vincent aveva comprato la droga che l’ha portata all’overdose, ecc.). Deresponsabilizzazione dell’autore e responsabilizzazione del lettore/spettatore rispetto alla mancanza di significato ultimo dell’opera che, viceversa, esprime ancora la vacuità ovvero il nulla (nulla di nuovo si può dire, tutto è già stato detto). Lo spettatore è sottoposto ad una ginnastica, gioiosa, irreligiosa e crudele, per tentare di comprendere i testi del discorso e la trama del film. Si tratta di testi e di storie, perciò, non solo difficilmente accessibili e comprensibili, ma anche difficilmente riassumibili. Ironia. In assenza di un principio cardinale dominante o di un paradigma al quale rifarsi, non rimane che rivolgersi al gioco, al dialogo, all’allegoria, alla self reflection. In una sola parola all’ironia e all’autoironia.

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(I due killer, Vincent e Jules, nel tragitto verso la casa delle vittime, parlano di hamburger e delle differenze linguistiche tra America ed Europa per riferirsi ai prodotti dei diversi fastfood. Si tratta di un normalissimo dialogo tra due colleghi che si recano sul posto di lavoro, ma l’amara ironia della scena emerge dal fatto che Vincent e Jules non fanno un ‘normalissimo’ lavoro, stanno per uccidere quattro ragazzi). Perdita della teleologia. Si assiste ad una quasi totale mancanza di scopi e obiettivi precisi della narrazione. Non esiste più un finale catartico e risolutore, addirittura a volte non esiste più neppure ‘un’ finale. Molto spesso ci si trova di fronte a un finale aperto, un finale che in maniera sempre più frequente non coincide più con il termine del momento della fruizione. (La circolarità della narrazione riporta lo spettatore alla rapina iniziale. Stavolta, però, si sofferma su due personaggi, Vincent e Jules, che sono già morti nella scena precedente, ma che erano presenti nel momento in cui i due rapinatori pensavano di organizzare il colpo nel ristorante). Circolarità. Tende a scomparire la progressione temporale, a favore della ripetizione. La narrazione non è più protratta verso un finale teleologico ma si chiude circolarmente su se stessa. Il concetto stesso di tempo viene sezionato e analizzato nei suoi minimi termini: passato, presente e futuro sono considerate come categorie precostituite e fortemente gerarchizzate e pertanto rifiutate in toto. Frammentazione. Ogni segmento narrativo del testo è da considerarsi allo stesso livello di importanza rispetto a tutti gli altri. Non esiste più una gerarchia narrativa; il postmoderno crede solo nei frammenti e pertanto il suo intento è quello di creare delle narrazioni il più possibile frammentarie e disconnesse. In questo modo aumenta in maniera esponenziale e autocosciente il grado di difficoltà della comprensione dell’opera. Molteplicità. Può essere raggiunta sovrapponendo o giustapponendo in diversi modi immagini o materiali provenienti da ambiti distinti, cercando di omogeneizzare ciò che per definizione tradizionalmente non può esserlo. Nothingness. Caos e nulla diventano valori positivi in quanto in grado di dare spazio all’immaginazione, alla creatività, alle diverse soggettività. Partecipazione-azione. L’indeterminatezza chiama in causa direttamente la partecipazione dello spettatore/lettore. I vuoti appo-

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sitamente lasciati ‘devono’ essere colmati. Il testo postmoderno, verbale, cinematografico o figurativo, invita alla partecipazione. Si presenta come un testo che esige di essere riscritto, rivisitato, analizzato dal fruitore, a sua volta non più spettatore passivo ma personaggio attivo all’interno del processo di comunicazione.

2. Il cinema postmoderno: descrizione 2.1 Lo stile postmoderno Il postmoderno cinematografico si caratterizza anzitutto per certo stile che esso viene ad assumere. Sono due i fattori che definiscono lo ‘stile’ cinematografico: il modo di costruire l’inquadratura e il movimento della macchina. Per quanto riguarda tali due fattori, per riuscire a capire il cinema postmoderno, dobbiamo partire dall’analisi delle differenze con i modelli precedenti. Esaminiamo dunque alcune delle caratteristiche del cinema classico: L’oggettiva. Non esiste angolazione, la ripresa è attuata frontalmente in modo neutro. Viene usato il principio del centering, che comporta che ciò su cui deve concentrarsi l’attenzione dello spettatore, occupa la parte centrale del quadro e se i punti d’interesse sono più d’uno, essi si collegano tra loro in modo da risultare o simmetrici o paralleli (articolazione destra/sinistra, o alto/basso). Lo spettatore è un testimone esterno dei fatti, osserva qualcosa come se stesse guardando dalla finestra, lo sguardo è di nessuno (es. Casablanca di Curtiz del 1943). La soggettiva. Lo spettatore vede con gli occhi del protagonista, percepisce dunque delle sensazioni forti, è più coinvolto nella storia. In Notorius film di Hitchcock del 1946, tale aspetto è chiarissimo, infatti quando la protagonista viene drogata e la sua vista si annebbia, anche lo spettatore vede sullo schermo delle immagini sfuocate. Non più dunque uno spettatore esterno, ma sempre più protagonista. Lo sguardo è del personaggio. L’oggettiva irreale. L’occhio è ora dell’autore, un occhio che vola sopra la storia sapendo però di tanto in tanto entrarci prepotentemente. Ne è un esempio L’infernale Quilan di Welles, in cui, grazie anche al lungo piano sequenza iniziale, lo sguardo dell’autore segue in continuità la storia. Il movimento della macchina è molto elaborato, virtuosistico, si assiste ad un’implicita esaltazione della tecnica cinematografica. Vi è un continuo subordinarsi e poi essere autonomi, lo spettatore conosce più elementi dei personaggi. Sempre presente è l’occhio implicito della telecamera.

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L’inquadratura interpellazione. Il personaggio guarda direttamente in macchina, si rivolge a noi, ci chiama direttamente in causa. Un forte esempio di ciò è presente in Psiycho di Hitchcock del 1960. Tale inquadratura viene spesso accentuata con la presenza di una voce fuori campo. Lo sguardo, anche se per interposta persona, è dell’autore, che usa il personaggio. Vediamo ora cosa succede nel postmoderno. Prendendo come primo esempio il film Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese del 1991, ci si accorge che lo sguardo non può venir facilmente assegnato. Non ci si trova di fronte a delle soggettive, ma non si è in presenza neppure di oggettive irreali, perché lo sguardo non vola sopra la storia, ma a tratti sembra che chiami in causa lo spettatore. Le inquadrature non si possono classificare, lo sguardo è metaforico, l’immagine è inafferrabile. Un altro esempio che si può riportare è Terminator 2 di Cameron del 1991. In questo film lo spettatore può credere di trovarsi di fronte a delle inquadrature oggettive, è testimone passivo della realtà, ma in verità questa realtà in molte scene non esiste, è stata costruita, aggiunta in postproduzione. Il montaggio digitale venne introdotto nel l989 e, a volte, come nel caso di Terminator 2, è visibile, lo spettatore ne è cosciente, mentre in altri casi è invisibile, come nel film Titanic. Nel postmoderno, dunque, per forza di cose dobbiamo fare i conti con la tecnologia che è ormai entrata in maniera preponderante nel cinema. Non possiamo, per comprendere questo periodo, rifarci alle categorie tradizionali, perché non trovano più un adeguato riscontro nelle opere postmoderne. Nell’esaminare il periodo classico e moderno ci si è resi conto di come le immagini possano, in maniera approssimativa, venir racchiuse in due categorie, ossia quelle oggettive e soggettive. Nel postmodernismo, invece, ci troviamo di fronte a quelle che chiameremo oggettive dense o oggettive raddoppiate, e soggettive vuote. L’oggettiva raddoppiata. È un’immagine che contiene al suo interno altre immagini. Queste immagini possono essere contenute in maniere diverse. Per la presenza di schemi all’interno dell’oggettiva, si assiste ad un proliferare di immagini, con i personaggi che spesso guardano le immagini interne, ma che poi guardano anche la camera. Un esempio significativo è a tal proposito Basic Instinct, ci troviamo qui di fronte a delle scatole cinesi, ad una scrittura che si moltiplica. Non va però perso il patto narrativo e il racconto mantiene comunque la sua continuità. Abbiamo anche la presenza di altre immagini convocate in absentia, immagini virtualmente presenti, ricalcate da altre immagini e che esplicitamente portano lo spettatore a qualcos’altro. In Pulp Fiction, film di Tarantino, ci troviamo immersi in molteplici immagini. Sono delle oggettive, però quello che viene registrato non è la realtà, ma la storia, viene creato un museo all’interno del film. Vengono riprodotti vestiti,

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musiche, ambienti. Registi come Tarantino inseriscono queste immagini acriticamente, senza uno scopo chiaro e esplicito. La soggettiva vuota. Qui si tende, per il movimento della macchina da presa, a segnare la presenza di qualcuno, qualcuno che in realtà non appare. Ciò avviene sia grazie al movimento della macchina, che alla posizione in cui questa viene posta. La macchina da presa viene collocata o troppo in alto, o troppo in basso, si tende volutamente ad esagerare, si trascende tutto ciò che era consueto nel cinema precedente, o dalla nostra percezione della realtà. Vengono spesso ripresi dei dettagli in maniera molto minuziosa, ma questi non aggiungono significato alla storia, non forniscono allo spettatore informazioni rilevanti, sono aggiunti in più. Un esempio è il rito della vestizione presente in molti film; questo non ci dice nulla di nuovo e i particolari sono ripresi così da vicino che non possono neppure riportarci alla realtà. La realtà nel cinema postmoderno viene spezzettata, ma non ricomposta; le inquadrature raggiungono dei numeri elevatissimi e la macchina da presa può ormai occupare qualsiasi posizione, posizioni che sono spesso volutamente anomale. I movimenti prima proibiti sono ora resi possibili da una tecnologia sempre più potente. Il cinema postmoderno è il terreno in cui maggiormente è avvenuto il contagio tra forme mediali diverse (spot, videoclip, computer).

2.2 La narrazione postmoderna Nella scrittura classica avevamo uno stile trasparente-neutro, perfettamente funzionale al racconto, fedele al soggetto e alla sceneggiatura. Il racconto veniva presentato in modo neutrale, imparziale, ingabbiato dentro le griglie stereotipate del genere. In un secondo momento nel racconto classico si inseriscono momenti di incandescenza e di marcatura della storia, grazie a virtuosistici interventi di regia che mirano a sottolineare il tono drammatico (o brillante, o ironico) in senso tensionale o distensionale per ottenere un maggiore coinvolgimento emotivo dello spettatore, per attirarlo ancor più dentro il percorso tensionale del racconto (es. effetto suspense). Qui troviamo registi che raccontano una storia in modo trasparente ma con scelte non più neutre, o per lo meno non sempre neutre. Queste scelte più marcate hanno il fine di intensificare o la drammatizzazione della storia o l’effetto di verosimiglianza del racconto. Con l’avvento del cinema autoriale della modernità la scrittura si fa discorso personale. Il saggio prevale sul racconto. La scrittura diviene opacametalinguistica. Si esaspera la parzialità dei propri punti di vista, si esaltano

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le manipolazioni del montaggio. Viene attuata una decostruzione e ricostruzione della macchina narrativa cinematografica. Fare film diventa un modo per parlare di cinema. Importante è il momento della ripresa e il montaggio finale, non più la sceneggiatura. Si fa largo uso di procedimenti stranianti, di esibizioni dell’artificio. L’interruzione sistematica dell’azione, la ripetizione, l’introduzione di didascalie, le anticipazioni sugli sviluppi narrativi, l’utilizzazione di racconti, interviste, citazioni, gli sguardi in macchina, la presenza della macchina da presa in campo sono tutti procedimenti per far sì che l’attenzione dello spettatore sia spostata dal ‘che cosa’ al ‘come’. Questi interventi però non hanno l’esigenza di essere rifunzionalizzati all’interno della storia, come invece vedremo accadere nella scrittura postmoderna. Nel cinema americano degli anni Ottanta e Novanta la centralità passa dall’oggetto guardato (scrittura trasparente del cinema classico), dall’io che guarda (scrittura opaca del cinema della modernità), all’atto stesso del guardare. Qui nasce la scrittura postmoderna, la scrittura della contaminazione fra stili diversi: neutralità e accensione, opacità e trasparenza si fondono e si confondono per sedurre lo spettatore attraverso abili giochi di scrittura. La contaminazione produce scintille, rende incandescente la scrittura. Ma tutto questo dentro i limiti di un’accettabilità sociale, seppure allargata. Si osa, sapendo di potere osare, si cercano punti di vista impossibili, sapendo di poterlo fare senza che il regime finzionale della narrazione venga meno. Il racconto torna ad essere il centro della scrittura filmica, anche se questa scrittura appare spesso come virgolettata. Si scrive con la consapevolezza dichiarata e disvelata che si sta scrivendo. Il regista apre parentesi nel racconto per inserire e mettere in scena piccoli teatrini conversazionali. Si recupera la storia, il piacere del racconto, ma, dopo la lezione della modernità, a un livello di consapevolezza diverso, funzionale alla relazione-contatto con uno spettatore disincantato e di mestiere, considerato come partner attivo del gioco. Il cinema è ancora sogno, ma questa volta l’illusione è consapevole, denunciata, messa in scena (come l’incipit di Pretty Woman) e ludicamente accettata. Per quanto, invece, concerne il fattore della narrazione, un dato di fatto inequivocabile, che ritroviamo nei film della postmodernità, è appunto il ritorno della narrazione, del desiderio-piacere di tornare a raccontare storie, liberi da preoccupazioni ideologiche, da sperimentalismi tipici delle avanguardie artistiche e dall’ossessiva ricerca del novum che ha caratterizzato la modernità. Il cinema postmoderno manifesta infatti un ritorno della narrazione a tutto campo; una narrazione però che ha perso ogni caratteristica del racconto classico di genere per assumere connotazioni di debolezza, leggerezza, dispersione, commistione, frammentazione. Il narratore nei film

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della postmodernità assume spesso un ruolo defunzionalizzato, tipico di un narratore debole. Questa debolezza si esplica nella moltiplicazione dei punti di vista, nella frammentazione della visione. Se da una parte assistiamo ad un recupero della storia, dall’altra è altresì vero che questo recupero si accompagna alla rappresentazione di un io narrante consapevole di una duplice inadeguatezza, non solo nel rappresentare una visione coerente del mondo, come era nel cinema classico, ma anche nel portare avanti un regime di antinarrazione tipico del cinema della modernità.

2.3 Lo spettatore postmoderno Lo spettatore nel cinema postmoderno si trova irretito in un gioco in cui non vale più la regola dell’identificazione passiva più o meno vissuta emotivamente (che invece era ricercata nella scrittura classica in genere, soprattutto nel decoupage classico) e neppure quella della partecipazione attiva come nella scrittura opaca. Infatti Godard e gli autori della modernità chiedevano allo spettatore di diventare osservatore, gli chiedevano uno sforzo per capire, interpretare ed effettuare una chiusura personale del discorso. Nella scrittura contaminata invece l’identificazione dello spettatore non è più né passiva, né attiva. Semplicemente è dissimulata nelle pieghe della narrazione. L’essere chiamato in causa dentro la diegesi è simulatorio di un percorso possibile, ma non praticato fino in fondo. Lo spettatore viene sedotto grazie ad una sua costante messa in scena. Lo spettatore è ora immerso totalmente nel film, infatti le caratteristiche principali dell’immagine postmoderna sono: la densità, la sovraeccitazione, l’assenza di significati, di progetti estetici, la seduzione, la finzione. Nel cinema postmoderno non si assiste all’ansia di rendere consapevole della finzione lo spettatore. Egli viene invece coinvolto in un grande gioco, non deve sentirsi vittima nei confronti dell’immagine, ma la deve far sua, deve goderne, si deve immergere in un mondo in cui la realtà è sparita e esiste solo l’immagine, che spesso è addirittura immagine dell’immagine. Siamo ora nel campo della pura emozionalità, la razionalità è sparita. Partecipiamo, non più come per il cinema moderno, facendoci trasportare da motivazioni ideologiche, ma ci facciamo sedurre, emozionare. L’uso di giochi di simulazione e di interventi stranianti (interpellazioni simulate, contaminazioni dei generi, cornici, giochi al raddoppio, cinema nel cinema, ecc.) svolgono una funzione analoga a quella che nel teatro di Brecht hanno le scritte, gli striscioni le proiezioni che invitano lo spettatore a non immedesimarsi nell’azione, ma a riflettere sulla propria condizione

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spettatoriale. Il regista lancia allo spettatore avvertimenti e richieste di intervento facendone elemento attivo nell’elaborazione del testo, pur senza interrompere quell’identificazione passiva nelle vicende del racconto che lo porta a coinvolgersi emotivamente in esso, quindi a piangere o ridere con i personaggi, a vivere con loro il lieto fine. Significativo, a questo proposito, è il fenomeno rilevante del citazionismo, in particolare della citazione come forma di rinvio, di allusione, di ammiccamento ad uno spettatore di mestiere. La serie, il remake, la citazione come riporto, sono segnali precisi di una autoriflessività della scrittura. Molti film postmoderni sono costruiti come mosaico o assorbimento e trasformazione di un altro testo anteriore. Essi realizzano così una modalità di scrittura di secondo grado in cui l’enunciatore può abbandonarsi senza sensi di colpa ai piaceri proibiti del plagio e della frenesia citazionistica. Ma accanto, e spesso insieme, a questa autoriflessività convive anche un’anima più spettacolare, più pirotecnica e anche in un certo qual modo più commerciale. Nei film della postmodernità si creano zone in cui la scrittura si fa scrittura eccitata, funzionale soprattutto ad esaltare se stessa. Scrittura in fibrillazione che però non arriva mai a mettere in discussione il regime funzionale del racconto o l’andamento stesso della narrazione. È questo il regno dell’iperrealismo, in cui l’eccessività spazio-temporale diviene cifra stilistica e ricerca estetica. Temporalità dilatate nella tecnica del rallenti, oppure estremamente contratte da un montaggio serrato, veloce, dinamico; spazi frammentati, abbondanza di dettagli di oggetti e ambienti e di particolari del corpo umano, spesso trasformato in un protocollo di dettagli privi di un sistema di riferimento globale, spingono la scrittura nella direzione di una ricerca lungo i limiti del visibile. La valorizzazione del dettaglio serve a spostare l’attenzione dalla linearità del racconto al meraviglioso, allo spettacolare. Essa si manifesta infatti attraverso uno sguardo estremamente ravvicinato della macchina da presa all’oggetto, nell’ossessività del punto di vista che mette a fuoco brandelli di una realtà restituita attraverso processi di pianificazione ed esaltazione dei dettagli e dei particolari. Il dettaglio, il particolare non sono più parte di una totalità, indizi di un sistema in cui sono inseriti e a cui rinviano. Essi sono pienamente autoreferenziali, rinviano solo a se stessi, alla propria capacità enfatica: perfetti simulacri della società postmoderna. Il rischio di uno smarrimento etico del soggetto recettore è molto forte, poiché la totalità della persona e del reale viene subordinata a visioni parziali, frantumate, dispersive che cancellano ogni tipo di istanza progettuale forte. Lo sguardo viene in qualche modo de-responsabilizzato rispetto ad una visione d’insieme, rispetto a un centro prospettico unificante. Il ‘più’ di verità o di realtà crea un effetto di distanziazione ludica

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dall’avvenimento mostrato, che non va certo nella direzione di una maggior comprensione e conoscenza dell’oggetto.

2.4 La visione postmoderna Sia nel caso del dettaglio spaziale che nel caso della frammentazione temporale, il ‘tu’ che il discorso pone è un ‘tu’ iper-voyeuristico, punto estremo e luogo privilegiato del vedere senza essere visto, del vedere dal buco della serratura, trattandosi sempre però di una visione parziale, pur nella sua completezza localistica. In questo caso uno dei motivi di fascino del mezzo cinematografico fin dalle sue origini, cioè il poter vedere, il poter spiare senza essere visti, trova la sua massima espansione e nel contempo il suo limite massimo nell’‘oggettiva iperreale’. Infatti il meccanismo voyeuristico, proprio del cinema, finisce per avvicinarsi in modo pericoloso nella comunicazione iperreale ai confini dell’osceno. Come già sottolineato in precedenza, lo sguardo dello spettatore è proposto in bilico fra un ritrovarsi liminale (che è al livello della soglia della coscienza o della percezione) e il rischio di uno smarrimento inteso come perdita della visione dell’oggetto, perché già troppo vicino e quindi in parte sfocato, almeno dal punto di vista cognitivo, e come perdita di quella distanza critica che sola può permettere al fruitore della visione di cogliere il reale nella sua inesauribile complessità e nella sua indefinita totalità. Distanza critica che è già stata cancellata proprio all’interno della comunicazione visiva di tipo pornografico. Ci troviamo quindi in presenza di testi che, attraverso protesi tecnotroniche sempre più sofisticate, cercano di cogliere il meraviglioso, che la realtà ampiamente e iterativamente ispezionata con sguardi ‘normali’ (oggettiva, ecc.) non sembra concedere più. Il cinema contemporaneo di connotazione iperrealista stimolato anche dalle nuove abitudini al consumo determinate dal linguaggio pubblicitario e televisivo, un linguaggio estremamente iperbolico, dilatato o contratto, sembra produrre e mettere in scena nuove possibilità linguistiche e di emozioni, rivolte per lo più alla fascinazione, intesa come ricerca di una bellezza strategica, e quindi alla ricerca del meraviglioso che incanta. Si viene così a creare una saldatura fra l’esperienza delle avanguardie americane nel campo delle arti e le teorie del simulacro sull’universo delle comunicazioni di massa all’insegna però di una seduzione artificiale, decontestualizzante, che si contrappone alle possibilità trasgressive che le nuove immagini sembrano possedere, a favore invece di una cultura dell’accumulo che costringe la coscienza della storia a pura cronaca. Infine si deve mettere l’accento

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sul fatto che la cancellazione della distanza, dianzi accennata, produce paradossalmente una sorta di censura dello sguardo. Il poter vedere tutto da vicino, la ridondanza di immagini ravvicinate, l’assenza dei campi medi e lunghi nel cinema postmoderno, sulla falsariga della pubblicità e della neotelevisione, sembra creare un senso di onnipotenza dello sguardo, mentre in realtà questo modo di vedere porta ad escludere tutto quello che c’è intorno al particolare inquadrato a tutto schermo. Lo sguardo diventa sguardo programmato per vedere un’unica realtà: proprio e solo quella che il film vuole che lo spettatore veda e non altro. Nello sguardo ravvicinato delle oggettive iperreali lo spettatore è costretto ad un unico modo di vedere, il suo sguardo non può sfuggire all’oggetto. Lo sguardo della macchina da presa diventa sguardo di angeli, sogno ad occhi aperti, sguardi di cyborg, sguardi virtuali, sguardi inorganici. Lo spettatore viene proiettato nel vedere/sapere/credere di oggetti come proiettili, frecce, ecc. Assume punti di vista non umani. Possiamo veramente dire che la realtà vista con occhi normali non soddisfa più. Questi occhi di macchine da presa che vedono ovunque senza più distinzione tra esterno e interno, tra estremamente vicino ed estremamente lontano, proprio mentre sembrano esaltare il ruolo della visione e della percezione, in realtà affermano solo i limiti e la cecità di uno sguardo de-soggettivizzato, che vive l’esperienza della non appartenenza. Tutto sembra estremamente artificiale, come se fossimo collocati all’interno di un perfetto e spettacolare videogioco. Le inquadrature rinviano a un punto di vista neutro, meccanico, che ricerca in modo automatico il proprio bersaglio, libero da ogni regola, che non sia quella dell’esattezza per colpire con efficacia. La moltiplicazione di punti di vista inerti, privi di identità, così come il progressivo sfaldamento della soggettività, indicano un perdere se stessi, un sentirsi tramite, un passaggio in qualcosa che ci è estraneo. Esibizionismo iconico, estremismo sensitivo, reificazione degli sguardi, frammentazione dei soggetti: sembrano essere queste le nuove misure, le nuove regole, a cui il prodotto cinematografico postmoderno obbedisce, in sintonia speculare con l’aria che tira nella società e nella cultura odierna. In questo modo i registi della postmodernità si divertono a creare una vasta gamma di sguardi che possiamo definire postreali, in quanto il realismo lascia il posto al metarealismo e al surrealismo (sovrappiù di reale). La scrittura si fa pirotecnica, parossistica, con il risultato di porre l’accento sul supporto dell’immagine più che sul suo contenuto, di investire di intensità il significante più che il significato, di trasformare in vittima lo spettatore più che l’oggetto della sua osservazione. Questa scrittura apre all’irrappresentabile, allarga a dismisura i confini del visibile, a volere vedere addirittura dal di dentro, abbattendo le barriere dentro-fuori/interno-esterno.

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Un esempio a riguardo si può trovare nel film di Almodovar Kika (1994) in cui la macchina da presa arriva ad essere una protesi permanente del corpo umano, un suo prolungamento, un tecno-innesto. Spesso queste scelte di regia sono assolutamente gratuite, cioè puramente funzionali a promuovere effetti ludico-visivi al fine di stupire, meravigliare, affascinare, come accade nei film più commerciali. Qualche volta invece assumono connotazioni di ricerca poetica sulle possibilità dello sguardo. Vi è da parte del regista comunque una sorta di autocompiacimento quasi narcisistico in queste accensioni della scrittura. Sul versante spettatoriale il fine diventa quello di eccitare lo spettatore, di mantenere lo spettatore in uno stato perenne di eccitazionesospensione fondata non tanto sulla storia, ma sull’immagine che sollecita un sentire forte più che un sapere, una ricerca esasperata di sensazioni estreme, di emozioni limite. Fare emozionare, stupire con effetti speciali, ammiccare con citazioni, è più importante del messaggio trasmesso, della storia raccontata. Quest’ultima spesso è solo un pretesto per mettere insieme immagini forti, estreme, veloci, che colpiscono l’occhio più che il cuore o la mente dello spettatore. I film assomigliano sempre più a videogiochi: l’aspetto ludico è dominante. Le sale cinematografiche si trasformeranno ben presto in videogiochi (sistema Imax) dove lo spettatore sarà sempre più coinvolto sensorialmente dentro il flusso di emozioni che le immagini trasmettono. La comunicazione diventa comunione emozionale, che si realizza soprattutto a livello epidermico-sensitivo. La visione di un film sarà sempre più simile alla visione di uno spettacolo pirotecnico: cascate di luci e colori che colpiscono l’occhio, rumori sempre più assordanti colpiscono l’orecchio. Dunque alcuni principi possono essere riassunti quali punti di riferimento per quanto riguarda l’audiovisivo postmoderno. –



In primo luogo possiamo dire che in questo tipo di scrittura domina il principio della contingenza. Nelle storie deboli della postmodernità tutto può accadere per caso, l’occasionalità predomina. Non ci sono e soprattutto non servono spiegazioni razionali, motivazioni logiche, ricerca di causalità. Non interessa il prima e il dopo, la causa e l’effetto, ma solo il simultaneo casuale. Prevalgono le strutture itineranti e casuali. In questo caso il passaggio dal caso al caos è semplice. In secondo luogo là dove il principio della contaminazione si afferma come il principio del tutto incluso, del tutto che può convivere in un unico contenitore, nascono prodotti all’insegna dell’ibridismo, mutanti in continua oscillazione tra genere maschile e femminile (scambio di ruoli, confusione dell’identità sessuale, ecc.), tra genere

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animato e inanimato (il cyborg, ossia l’uomo-macchina, le protesi come tecnoinnesti), tra normalità e trasgressione, tra salute e follia, tra ordine disordine, tra basso e alto, fra trash e sublime. In terzo luogo nei film postmoderni vige anche il principio dell’accumulo e del collezionismo. Tante sparatorie poco realiste, tanto sangue, tanto sesso. Si offre una visione del mondo come quantità, elenco, collezione, accumulo di oggetti, storie, personaggi, chiacchiere in orizzontale senza profondità, generi cinematografici, citazioni dalla storia del cinema. Ma soprattutto collezione (intesa come accumulo casuale) di sensazioni estreme, di emozioni limite, di visioni estatiche. Si dice che l’oggetto artistico postmoderno ha una funzione allucinatoria e, per estremo, l’effetto estetico diventa effetto estatico (estasi come uscita da se stessi, ecstasy).

Possiamo infine affermare che in questo modo il rapporto fra mondo finzionale del racconto e mondo reale viene drammatizzato, narrativizzato. Si crea una tensione non risolta tra finzione e realtà che produce un regime di indecidibilità tipico delle componenti culturali della società postmoderna: devo credere o non devo credere, devo accettare o non accettare la storia che mi viene raccontata, so che non è vera, mi viene anche detto, eppure si continua a raccontarmela. Se osserviamo quanto accade in televisione, la risposta non può essere che questa: la fine della modernità, la morte dell’illuminismo e la fine dei grandi racconti di emancipazione affidati alla razionalità ci hanno lasciati orfani e allora ecco affacciarsi le piccole storie del quotidiano. Vere o false che siano non importa, perché comunque rispondono a un nostro bisogno. Il sapere e il credere vengono progressivamente sostituiti dal sentire. Cinema e televisione di questo fine millennio raccontano storie da vivere emotivamente, più che da accogliere razionalmente, da ‘toccare’ con i sensi più che da sapere o da credere. Non a caso l’Auditel televisivo è un misuratore di faticità, cioè di contatti, più che di percezioni (inerenti a processi di attenzione), cognizioni (inerenti a processi di trasmissione del sapere) e assiologie. Una cosa appare certa: l’orizzonte culturale in cui ci muoviamo vede il primato del sensibile sul sensato.

2.5 La spettatorialità postmoderna Compito di chi studia la produzione filmica è porsi metaforicamente dallo stesso punto di vista dello spettatore, farsi interprete delle pratiche del vedere e delle variazioni, modificazioni, trasformazioni che le modalità rela-

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tive al vedere subiscono nel tempo. Se è accettabile l’ipotesi di un cinema postmoderno, sarà accettabile anche l’ipotesi di uno spettatore postmoderno. Ovvero l’ipotesi di uno spettatore in cui competenze, comprensione, memorizzazione, partecipazione affettiva, proiezione-identificazione siano andate e vadano tuttora modificandosi in relazione alle nuove modalità di linguaggio. Al variare delle strategie discorsive messe in opera dal cinema corrisponderebbe – in altre parole – una progressiva metamorfosi dello statuto spettatoriale, del modo di recepire e perfino di percepire il film. Benché la questione sia molto più complessa, i punti da prendere in considerazione per un primo approccio sono soprattutto quattro: a) b)

c) d)

il mutato rapporto tra produzione di senso e produzione di affetti; l’influenza della televisione in rapporto al variare delle modalità di percezione-ricezione del pubblico (l’adeguamento spettatoriale ai nuovi codici narrativi e rappresentativi); la perdita del soggetto; la produzione di ideologie.

È stato detto che il cinema postmoderno comincia quando il B-movie accede allo statuto di film d’autore, mediante un potenziamento economico-tecnologico che promuove nello spettatore il piacere della spettacolarità, recuperando inoltre, in modi inediti, la narratività negata dal ‘cinema moderno’. È il “genere completamente nuovo di film commerciale” di cui parla Fredric Jameson nel suo libro Il postmoderno. Con un vistoso ritardo temporale (diventa postmoderno quando le altre arti lo sono già da tempo: vedi la pittura pop, citazionista, neofigurativa..), il cinema si riaccosta alla serialità (come gestione delle aspettative del pubblico), scopre il revival, ripropone i generi (infrageneri, intertestualità basata sulla pratica continua del riferimento, del rifacimento, della citazione e del riconoscimento), impone allo spettatore competenze di tipo tecnologico (gli effetti speciali), facendole funzionare come veicolo di piacere. Mentre nell’audiovisivo si diffonde sempre più la contaminazione dei linguaggi, diventando linguaggio essa stessa, il metalinguaggio diventa l’ultima frontiera della sperimentazione e della riflessione teorica. La teoria comincia a esaminare con attenzione i temi contigui della serializzazione, della ripetizione, della riproposta, del rifacimento. Umberto Eco reimposta il discorso sull’estetica del seriale e le sue declinazioni. Omar Calabrese promuove un’estetica “neobarocca”, dove la corretta lettura della produzione estetica si fonda sulla coppia schemavariazione. Occorre soffermarci sul nuovo statuto dello spettatore che si va configurando in relazione a tutto ciò, seguendo i punti elencati sopra.

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a) Il fenomeno più notevole dal punto di vista filmologico – il più allarmante, forse, di certo il meno indagato – riguarda il ridisegno del rapporto tra produzione di senso e produzione di affetti. Roger Odin osservava che, in un gran numero di film americani (I predatori dell’Arca perduta, Guerre stellari, le serie Mad Max e Rocky...), il ruolo della fiction non era proposto frontalmente: più che sui modi della produzione di senso, quei film funzionavano (e funzionano) sui modi della produzione di affetti. Con i nuovi film le cose si svolgono in maniera differente: la struttura ternaria cede il passo a una struttura duale: il film agisce direttamente sul proprio spettatore, uno spettatore che non vibra tanto agli avvenimenti narrati (effetto fiction) quanto alle variazioni di ritmo, di intensità e di colore delle immagini e dei suoni. Il luogo del film si sposta così dalla storia alle vibrazioni diffuse nella sala dal complesso plastico-musicale che agisce come tale. Questo complesso, ormai, regola il posizionamento dello spettatore senza passare per la mediazione di un terzo simbolizzante. Il fatto è che la comunicazione, qui, non ha più per oggetto privilegiato la produzione di senso ma la produzione di affetti. Ove gli affetti prevalgono sul senso, le immagini sullo schermo restano nitide, ma lo spettatore è lasciato in una indecisione cinica: non si sa che cosa significhino, e non è neppure certo che significhino qualcosa. b) Se ciò è avvenuto, è stato per molte e diverse ragioni: ma di certo i modelli di narrazione, di palinsesto e di fruizione televisiva si possono collocare tra le cause principali della mutazione. All’inizio degli anni Ottanta proliferarono i canali televisivi, cominciando a produrre un universo della visione frammentario e sovreccitato di cui il telecomando diventò presto lo strumento e il simbolo. Nel magma polisemico dello zapping si velocizzavano i ritmi, i corpi e le forme si mescolavano in un movimento contino e ipnotico, riaffiorava perfino una forma di libera associazione. La televisione disperdeva il testo a favore del contesto (il palinsesto), formando un tessuto di immagini incongruo e neobarocco. Mentre il cinema mutuava dalla tv alcuni formati narrativi (ad es. il sequel), lo spettatore, anche adulto, cominciava a sedere nella sala cinematografica con la stessa disposizione di un telespettatore munito di telecomando. Lo spettatore totale televisivo, insomma, determina la confezione dei prodotti filmici e, di rimbalzo, la nuova forma cine-televisiva che ha inconsapevolmente richiesto, diventa il suo nuovo immaginario collettivo. Nei ‘riti distratti’ della televisione e della videoregistrazione si consuma l’abolizione della distanza critica tra il film e lo spettatore, che viene inglobato nell’immagine. I blockbuster diffondono la visione distratta e frammentaria, passibile di essere continuamente interrotta, ripresa, replicata, della videocassetta. Si impone una nuova modalità di

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lettura (in senso quasi letterale) dell’immagine, che al cinema era sconosciuta e che presenta diverse analogie con la lettura del testo scritto. Nel cinema postmoderno, dove impera il revival, il cinema precedente è diventato un magazzino, un fornitore di fiducia cui rivolgersi per reperire miti e temi utili al confezionamento di nuovi prodotti (anche per i giovani letterati che riutilizzano il mito-cinema non esistono limitazioni estetiche, né etiche: tutto è fungibile, ri-utilizzabile: il cinema diventa spazio di discorso narrativo, nel senso barthesiano di scorreria). Frattanto, il cinema di Hollywood diventa sempre più pubblicità di se stesso (è dato allo spettatore con una serie ininterrotta di anticipazioni) e promuove i programmi di marketing che l’industria gli costruisce intorno. La diffusione dell’immaginario prodotto dalla televisione intensifica i modelli ripetitivi anche nei film originariamente destinati al grande schermo (quando il cinema non li mutui direttamente dalla tv: vedi i vari the movie di serie televisive come Mission Impossible, Il Santo, X-Files, The Avengers). Le variazioni del modo di narrare televisivo, rispetto a quello del ‘cinema classico’, sono assai più vistose di quanto possa apparire ad una osservazione disattenta. Nella serialità televisiva, per fare un esempio, la funzione accentratrice del protagonista non si limita a mettere in moto un meccanismo di riconoscibilità: sminuisce anche l’importanza delle altre funzioni narrative. In tv inventare una serie non significa inventare una storia ma un personaggio, che affida la propria differenza a una fisionomia o a un comportamento estremamente caratterizzati (Il tenente Colombo, Kojak). Il personaggio affeziona il pubblico alla serie di cui è protagonista, mentre le sue gesta si propongono con modalità linguistiche differenti da quelle cinematografiche. Basti pensare che il prodotto seriale televisivo deve permettere anche alla casalinga o a chi fa lavori in proprio di seguire la vicenda, pur disponendo di una attenzione molto limitata da dedicare alle immagini e alla consequenzialità diegetica. Così la narrazione si modifica, ponendosi a un livello intermedio tra quella cinematografica (l’uso intensivo del primo piano) e quella radiofonica (la prevalenza dei dialoghi, sovente ripetitivi) – anche in rapporto, naturalmente, a motivazioni di carattere economico. Seguendo l’esempio della produzione seriale televisiva, ma con la disponibilità di mezzi economici ben più larghi, il nuovo ruolo che si è dato il cinema hollywoodiano è innanzitutto quello di individuare e offrire al pubblico uno spunto, un modello di successo, un prototipo da sviluppare e riprodurre in serie. Così, l’emulazione della tv priva il film della sua tradizionale unicità, compiutezza, ‘chiusura’: lo condanna alla ripetitività e ad una perdita di autonomia che significa destituzione del narrativo. Fanno eccezione i pochi film postmoderni che mettono in scena la mutazione, come Strange Days. Kathryn Bigelow ci introduce in un nuovo scenario an-

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tropologico e ci racconta proprio la mutazione che, secondo Paul Virilio, caratterizza il postmoderno: il passaggio da un’ottica passiva a un’ottica attiva, a un nuovo modo di sentire realizzato attraverso una macchina (qui lo Squid, collegato direttamente alla corteccia cerebrale). c) Altra mutazione di rilievo primario è quella che riguarda la dissoluzione del soggetto. Da una parte la metamorfosi è andata di pari passo con la diversa concezione del corpo che, negli ultimi decenni, si è fatta sempre più strada nella cultura americana (e più in generale nella cultura occidentale), concezione di cui il cinema si è precocemente autoeletto veicolo privilegiato. Dall’altra, il fenomeno potrebbe essere collegato alla schizofrenia strutturale della società post-fordista e al modello di moltiplicazione-scissione dei ruoli in uno stesso individuo come condizione di vita e di lavoro. In ogni caso il pensiero e l’estetica del postmoderno hanno liquidato la nozione di soggetto unitario, riducendo sempre più il corpo a materia senza altro referente che se stessa, quindi oggetto delle più audaci manipolazioni. Su questa base comune, è cresciuto un paradigma articolato di nuovi modelli cinematografici: lo splatter, il cyber-movie, la combinazione tra cartoon e immagini dal vivo, la moltiplicazione di corpi del protagonista, i film di realtà virtuale, i film con computer graphics, i film metafisici (e, in un certo modo, anche il cinema di Quentin Tarantino e dei suoi epigoni). Proponendo con insistenza crescente visioni dell’eccesso, prevedendo l’eccesso nel loro codice genetico, i nuovi film producono aspettative di eccesso e modificano le attese spettatoriali (vedi lo stesso Salvate il soldato Ryan). d) Dalla dissoluzione del soggetto derivano, in parte, le conseguenze ideologiche cui abbiamo fatto cenno all’inizio. La situazione attuale ci invita a ripensare i rapporti, sul piano percettivo, tra il film come luogo della produzione del senso e il film come prodotto di ideologie derivate da una certa formazione sociale; tra le immagini e le società che le producono. La questione investe sia l’identità individuale del singolo spettatore, sia l’identità del corpo sociale in cui questi vive. Secondo alcuni, la visione frammentata corrisponderebbe alla frammentazione e alla dispersione della società, oltrechè di uno spettatore ormai spogliato – dalle aggressioni del nuovo universo mediologico – di una identità certa e della possibilità di autoidentificazione. A ben guardare è stata proprio la reazione alla soggettività dissolta che ha prodotto, unitamente alla ricerca di nuovi strumenti di consenso generale, la falsa coscienza del ‘politically correct’. Il trucco ai danni dello spettatore postmoderno è fatto: sia che questi si affidi all’ideologia del ‘politically correct’, sia che segua (ma appare ovvio che l’opzione non è affatto esclusiva) l’ideologia prodotta dai palinsesti televisivi, rassicurante forma simbolica della immodificabilità del sociale. Il sapere di potere guardare la stessa cosa

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ogni giorno alla stessa ora presenta la routine come ideologia dello spettatore e come ideologia dello spettacolo. L’ideologia del cinema postmoderno coincide con la fine dell’ideologia, almeno nel senso in cui il termine era tradizionalmente connotato. All’estetica dell’opera d’arte è subentrata gradualmente l’estetica del trash, del resto culturale: riciclaggio e frullato di frammenti, detriti, cristallizzazioni di una cultura dove tutto è presente nello stesso tempo, senza gerarchie, immediatamente e liberamente fruibile dalle varie materie dell’espressione. La televisione e la pubblicità sono state gli strumenti principali per accelerare il processo di contaminazione e omogeneizzazione delle immagini (ma anche la musica è frammentaria, rappresenta una cultura spezzata in frammenti). Un cinema postmoderno non più agganciato a valenze etiche o morali, o comunque non più deputato a trasmettere in modi simbolici i valori dominanti di una società, non può rappresentare che la discontinuità delle percezioni, la frammentarietà, l’atomizzazione, la proliferazione degli elementi eterogenei presenti nella nuova cultura. È come un grande zapping (l’abitudine televisiva, dicevamo, ha frantumato la narrazione) che mette in scena la frammentazione culturale.

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VI Spazi, luoghi e ambienti della postmodernità 1. Lo spazio urbano postmoderno La trasformazione della cultura lascia segni tangibili anche nei luoghi dove viviamo. Jameson evidenzia questa totale colonizzazione della natura da parte della cultura e la conseguente mercificazione della stessa cultura, attraverso alcuni corollari: l’esaltazione del mercato (avvertito come affascinante e attraente), la commistione di mercato e media, tra merce e sua immagine (nella pubblicità) e l’abolizione di ogni distanza critica. Per Jameson, il postmoderno presenta “una nuova mancanza di profondità, che si estende anche alla ‘teoria’ contemporanea, e a tutta una nuova cultura dell’immagine e del simulacro; un conseguente indebolimento della storicità, sia in relazione alla storia pubblica che alle nuove forme della nostra temporalità privata, la cui struttura ‘schizofrenica’ determina nuove forme di sintassi o di rapporti sintagmatici nelle arti a dominante temporale”1. Tutto diventa culturale, vale a dire immagine superficiale e quasi fotografica, che ripete se stessa in un gioco di rimandi e citazioni in cui ciò che si perde è il referente ultimo, quello oggettuale. La televisione, il computer e l’immagine sono i nuovi simboli di una cultura che, abolendo la profondità (sia spaziale che temporale), trasforma tutto (natura e inconscio compresi) in immagine, vissuto superficiale e cangiante. L’accumulo grandioso delle merci e il loro scambio rapidissimo nei super e ipermercati, nuovi luoghi di culto del feticismo postmoderno, trovano il loro pendant dialettico negli accumuli altrettanto immensi della spazzatura e dei rifiuti che si raccolgono soprattutto nei grandi centri urbani. L’organizzazione spaziale urbana subisce i processi di ibridazione, frammentazione e appiattimento tipici della postmodernità. La città è una megalopoli infinita senza centri e periferie, crocevia di culture, di razze, di lingue diverse, luogo della mercificazione totale, della riduzione dello spazio ad immagine, di impensabili incontri casuali. Ciò che colpisce maggiormente

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F. Jameson, Il postmoderno, o la logica del tardo capitalismo, Garzanti, Milano pp. 17-18.

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nei nuovi scenari spaziali è che non c’è più alcuna prospettiva; sparite le strade, sparito ogni profilo di riferimento, perdiamo la capacità di porci dentro lo spazio e farne una cartografia cognitiva: lo spazio si decentra, non può essere visualizzato, nessuno vi può trovare una propria posizione.

1.1 Il nonluogo Il “nonluogo” è l’espressione felicemente utilizzata dall’antropologo francese Marc Augé2 per descrivere quella condizione tipicamente postmoderna degli spazi adibiti al trasporto, al transito, al commercio, al tempo libero, privi di storia, in cui gli uomini si incontrano senza realmente entrare in contatto tra loro, senza la possibilità di una relazione né di una identificazione che permetta loro di riconoscersi e di vivere lo spazio come proprio. La postmodernità, che gli sembra “prolungare, accelerare e complicare gli effetti della modernità come era stata concepita nel XVIII e nel XIX secolo”3, sarebbe l’effetto combinato di un’accelerazione della storia, di un restringimento dello spazio e di una individualizzazione dei destini. Questa caratteristica dei luoghi riguarda più in generale la nostra società e in particolare quello spazio tipicamente urbano che tradizionalmente conferisce all’uomo quello che possiamo definire senso di appartenenza e, in termini politici, cittadinanza: la città. Sin dai tempi della Grecia classica la polis è lo spazio dell’incontro e della parola, dell’identità e della memoria, con i luoghi simbolo della discussione e della politica (l’agorà), della difesa (l’acropoli), della preghiera (il tempio), al tempo stesso simboli e rituali che scandivano la vita del cittadino e lo facevano sentire parte di una comunità. La cittadinanza era considerata un privilegio concesso – e concedibile – a pochi, segno distintivo rispetto agli apolidi, la cui condizione era considerata inferiore, e agli stranieri, che non a caso venivano definiti “barbari” (coloro che balbettano)4. La storia, l’identità e la relazione sono i parametri che nel corso del tempo hanno finito per identificare le città come luogo di incontro e di memoria, architettonicamente caratterizzate dal centro e dai monumenti, simboli che, per tutta la modernità, sono rimasti invariati. Ma oggi, osserva l’antropologo francese, sono in atto dei processi di uniformazione e di spettacolarizzazione che ci allontanano sia dal paesaggio rurale tradizionale, sia

2 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eléuthera, Milano 1993. 3 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 49. 4 Cfr. ivi, pp. 27-32.

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dal paesaggio urbano nato nell’Ottocento. Marc Augé si chiede se la nostra società non stia distruggendo il concetto di luogo, così come si è configurato nelle società precedenti. Il luogo infatti ha tre caratteristiche: è identitario, e cioè tale da contrassegnare l’identità di chi ci abita; è relazionale, nel senso che individua i rapporti reciproci tra i soggetti in funzione di una loro comune appartenenza; è storico, perchè rammenta all’individuo le proprie radici. I luoghi antropologici, tradizionali e moderni, possono essere ben descritti dalle nozioni di centro e monumento. Per esempio, la Casa Bianca e il Cremlino sono contemporaneamente luoghi monumentali, centri di potere, simboli di uno Stato, metafore di una ideologia. Due tendenze si stanno delineando: da un lato, l’uniformità dei nonluoghi, dall’altro, il carattere artificiale delle ‘immagini’. Tutte le caratteristiche del luogo antropologico infatti mancano alle strutture che nella nostra società contemporanea sono adibite al trasporto, al transito, al commercio, al tempo libero. Strutture pensate non per l’uomo specifico, conosciuto ed identificato come diverso rispetto agli altri, ma per l’uomo generico, individuato dal numero di un documento o di una carta di credito. Sono strutture architettoniche configurate per ospitare un commercio muto, un mondo lasciato ad individualità solitarie, tutte assolutamente uguali. Per poter accedere ed utilizzare le strutture della nostra contemporaneità basta che la persona rispetti alcune regole, poche e ricorrenti, uguali per un centro commerciale, un parcheggio interrato, una autostrada o una macchina che eroga denaro. Ci si fa riconoscere come utenti, si attende il proprio turno, si seguono le istruzioni, si fruisce del prodotto, si paga. L’identificazione è resa possibile dal passaporto, dalla carta di credito, da un riconoscimento astrattamente sociale. Un nonluogo potrebbe essere in qualsiasi città poiché assolutamente slegato dalla tipicità del territorio che lo circoscrive, un luogo in cui l’individuo svanisce, diluendosi nella solitaria e silenziosa massa dei passeggeri/consumatori, ognuno teso al soddisfacimento di una esigenza, i cui punti cardine sono la partenza e l’arrivo, la scelta (indotta) e l’acquisto. Non esiste nulla tra questi due momenti, solo ‘velocità’. I cartelli indicatori, i pannelli luminosi per le informazioni, i check in, i check out, gli svincoli, i sottopassi, sono tutti strumenti strumentalizzanti l’apprensione dello spazio stesso. L’uomo non vive il non-luogo, al contrario è vissuto da esso perdendo le funzioni di soggetto. Il passeggero ‘è portato’, non apporta nulla allo spazio del non-luogo che lo trasporta, si fa da questo riconoscere attraverso i documenti d’identità, le carte di credito e altre tessere magnetiche che lo riducono a codice alfanumerico. Dal punto di vista architettonico i non luoghi sono gli spazi dello standard. Sono strutture dove nulla è destinato al caso, dove si è concretizzato

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il sogno dell’ergonomia, della efficienza, del confort tecnologico. La loro quasi inevitabile omogeneizzazione è il prezzo pagato in termini figurativi. I nonluoghi sono identici a Milano, a New York, a Londra o a Hong Hong. Gli utenti poco si curano del fatto che i centri commerciali sono tutti uguali. Anzi apprezzano la ripetizione delle infinite strutture così simili tra di loro. L’utente sa, infatti, che troverà in qualsiasi città la catena dei suoi ristoranti preferiti o il suo albergo, e sarà certo degli standard di servizio a lui offerti. Similmente sa che qualunque aereoporto o autostrada vale un’altra e può tranquillamente avventurarvisi ovunque si trovi. Per sentirci in un contesto sociale – nota Augé – non ci rimane che guardare lo spettacolo degli altri che camminano e, a loro volta, ci osservano: uno spettacolo dove attori e spettatori si confondono in un reciproco e continuo scambio delle parti.

1.2 La città postmoderna come nonluogo Lo spazio è ciò che al tempo stesso esprime l’identità del gruppo e conferisce senso a quella stessa identità. La città è formata da coloro che in essa vivono e lavorano, cioè tutta la comunità, persone che hanno occasione di incontrarsi e parlare tra di loro, stabilendo rapporti significativi. È proprio questo significato sociale a rappresentare la condizione minima necessaria perché possa svilupparsi un principio di senso per coloro che vivono il luogo, la città. Lo spazio è anche memoria, non solo perchè è irto di monumenti, ma anche perchè la città è la rete di intersezione tra le tracce della storia collettiva e le storie individuali di ogni giorno. Ogni abitante della città stabilisce un particolare rapporto con gli spazi, che offrono testimonianza della storia più profonda e collettiva. E gli abitanti finiscono per stabilire tra loro legami di familiarità, frutto della appartenenza comune, della condivisione dello stesso spazio e delle stesse abitudini di vita. Per esempio, ogni giorno moltissime persone prendono la stessa metropolitana, utilizzano le medesime coincidenze, scendono alla stessa fermata. Alla memoria contribuisce anche l’esistenza materiale e sensibile della città: i paesaggi, gli odori, i suoni, i colori. Questa dimensione sensoriale svolge un ruolo innegabile: in una città ritroviamo, come ci mostrano gli esempi di grandi scrittori, ciò che vi avevamo lasciato. Il romanzo, ma anche il cinema, hanno largamente utilizzato questo tema. Per Augé la città postmoderna perde i connotati del cosiddetto luogo antropologico, un luogo fisico fatto di cose funzionali ai bisogni individuali e collettivi di crescita interiore, di lavoro e di vita. Questa fisicità si esprime anzitutto nella caratteristica della “geometricità” attraverso cui è possibile ri-

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condurre tutto a tre forme spaziali semplici: la linea, l’intersezione e il centro: tutte forme identificate da un passare, da un incontrarsi e da un sostare. Le rotte individuali dei sentieri intersecano altre rotte individuali nei crocevia per poi tutte confluire nei centri d’incontro, le piazze e i luoghi d’interesse collettivo. L’uomo dunque vive lo spostamento nel luogo antropologico, come bisogno di informare il paesaggio e di scambiare con i propri simili i dati relativi a questa informazione spazio-temporale. L’uomo che vive il luogo antropologico è dunque il “viaggiatore”, un uomo che è in quanto viene percepito dal territorio, e questa percezione viene segnata dalle forme spaziali semplici che costituiscono la geometria del territorio stesso. Questa dimensione si perde negli aeroporti, le catene alberghiere, le autostrade, i supermercati: non luoghi, nella misura in cui la loro vocazione principale non è territoriale, non è di creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie. Marc Augé identifica gli elementi salienti dell’idea di nonluogo definendolo come spazio non identitario, non relazionario né storico. Un luogo che potrebbe essere ovunque poiché assolutamente slegato dal territorio che lo circoscrive, un luogo in cui l’individuo svanisce, diluendosi nella solitaria e silenziosa massa dei passeggeri, dei consumatori, ognuno teso al soddisfacimento di una esigenza, i cui punti cardine sono la partenza e l’arrivo, la scelta e l’acquisto. Tutti i rapporti vengono vissuti nel crisma della competizione, non c’è dunque spazio per la memoria, per la storia, per la percezione sensoriale. Nel nonluogo non v’è incrocio, l’uomo non vive il nonluogo, al contrario è vissuto da esso. In questo contesto perde le funzioni di soggetto e diviene mero ingranaggio di un meccanismo, non apporta nulla allo spazio del nonluogo ma si fa da questo riconoscere attraverso i documenti d’identità, le carte di credito e altre tessere magnetiche. A questa dimensione a-storica e a-relazionale si aggiunge quella spettacolare: nella postmodernità sempre più la città si va organizzando come spazio fatto di immagini, non più di memoria e di incontro. Uno spazio pensato per essere visto, fotografato, filmato e proiettato su uno schermo. Ogni notte le località più prestigiose, i monumenti cittadini più famosi, vengono illuminati per i visitatori. Sempre più ci viene proposto in forma di spettacolo quello che noi stessi ci aspettiamo: delle immagini. I responsabili di alcune agenzie di viaggio stanno già pensando di fare visitare anticipatamente ai loro clienti le località più interessanti, che verranno riprodotte in forma tridimensionale su internet. Questi spazi si assomigliano tutti e sono effettivamente già stati visti dal consumatore alla televisione o su qualche dépliant pubblicitario delle agenzie turistiche. Si tratta allo stesso tempo di spazi ridondanti e ‘troppo

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pieni’. Le grandi catene alberghiere circondano gli aeroporti ed evitano al passeggero ‘in transito’ di dover deviare fino alla città per trovare un hotel. Negli ipermercati più importanti sono presenti tutti i servizi, in particolare le agenzie di viaggio e le banche. La radio e la televisione funzionano ovunque, ivi comprese le stazioni di servizio lungo le autostrade, che si trasformano anch’esse in complessi turistici con ristoranti, negozi e spazi di gioco per i bambini. In aperta campagna nascono nuovi mondi, rappresentazioni virtuali della realtà, come i parchi di divertimento. Disneyland ne costituisce l’archetipo, con le sue finte strade, una finta città americana, falsi saloon, un finto Mississipi, un falso castello della Bella Addormentata, luoghi fittizi all’interno dei quali si muovono vari personaggi disneyani. Ma anche altri luoghi di svago, i club vacanza, persino le città private che sorgono in America o le zone residenziali fortificate e controllate che vengono costruite nelle città del terzo mondo, senza legame con il resto della città, formano quelle che Augé definisce “bolle di immanenza”. Le bolle di immanenza non sono altro che i nonluoghi, costituiti anche dalle grandi catene di alberghi o dai centri commerciali che riproducono sempre gli stessi arredi, diffondono la stessa musica, propongono i medesimi prodotti in ogni angolo del mondo. A differenza delle grandi città moderne, esse formano dei mondi chiusi, contrassegnati da riferimenti plastici, architettonici, musicali e testuali, che ci consentono di orientarci al loro interno. I nonluoghi sono caratterizzati dal fatto che al loro interno mancano le modalità di rapportarsi agli altri, ma costituiscono delle parentesi che possono essere aperte o chiuse a piacere, versando la tariffa prevista. Alle tradizionali forme geometriche che configuravano la città si vanno sostituendo nuove figure: il cerchio, la ripetizione, l’eco. I satelliti girano attorno alla terra, la osservano, la fotografano. I satelliti fissi sono utilizzati per captare le immagini che vengono trasmesse dalla parte opposta del globo. Una rete di rapporti commerciali avvolge la terra, l’arredo richiama un altro arredo, la pubblicità richiama un’altra pubblicità, la copia celebra la copia. Così la finzione diventa ancora più spinta: non si limita più a creare delle parentesi, ma affronta direttamente la realtà con l’intento di trasformarla. I nonluoghi vivono della stessa atmosfera in ogni angolo del mondo. Si potrebbe anzi pensare che i nonluoghi si misurano proprio a partire dalla loro ‘capacità di essere finzione’. Questo processo di trasformazione della città ha anche dei riflessi sociali. Uno dei problemi che si manifestano con particolare importanza in Francia, ma anche in Europa e altri paesi del mondo, è il problema delle periferie urbane e del tessuto urbano al di fuori del centro cittadino. In queste periferie si concentrano i nonluoghi del

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consumismo, il traffico, i grandi centri commerciali, gli aeroporti, gli svincoli autostradali, i depositi, le pubblicità aggressive, le stazioni di servizio ecc. Sono queste le zone dove si riscontra il numero più elevato di disoccupati e dove si concentra la popolazione degli immigrati. Queste periferie sono talvolta considerate modelli di anti-urbanismo, in tutti i vari significati del termine. Una frontiera separa questi spazi degradati dalla città-finzione, che talvolta viene offerta in spettacolo a coloro che stanno fuori dalla città. Negli spazi del troppo-pieno anche gli esseri umani sono troppi. Le strade e le piste di decollo si ingorgano. Le file di attesa si allungano. Gli spazi del passaggio, del transito, sono quelli in cui vengono mostrati con più insistenza i segni del presente: pannelli pubblicitari, ostentati palazzi dello spettacolo, dello sport, del consumo che all’uscita dell’aeroporto aderiscono alla città, ne fanno cedere le difese e la penetrano. Gli spazi del vuoto sono strettamente mescolati a quelli del troppo pieno. Il nonluogo si percepisce, a seconda dei momenti, come un troppo-pieno di passeggeri, o come un vuoto di abitanti. In un certo senso, il pieno e il vuoto stanno l’uno di fianco all’altro. Terreni incolti, abbandonati, zone apparentemente senza utilizzazione precisa circondano la città o vi si infiltrano, rendendo incerta la definizione di dove comincia e dove finisce la stessa. In alcune città sudamericane le bidonville o i quartieri poveri talvolta si infiltrano vicino a isolati che sono invece il centro della “surmodernità”, difesi da barriere e guardiani. Il vuoto si insedia tra le vie di circolazione e i luoghi di vita, o tra ricchezza e povertà, un vuoto che a volte viene decorato, a volte si lascia in stato d’abbandono, un vuoto dove a volte trovano rifugio i più poveri5. Qui trovano anche un senso la rovina e le macerie, un senso dato esclusivamente dal sentimento del tempo che passa e che sfugge alla storia. Tutto ciò è funzionale ad un’epoca che privilegia il presente e soprattutto l’immagine e la copia, dove le rovine e le opere del passato sono esclusivamente espressione dell’assenza, alimentando la coscienza della mancanza e il puro desiderio. Nella metropoli globale, fatta di centri storici e distretti del divertimento, di aeroporti e discoteche, di motel, stazioni di servizio e centri commerciali – tutti spazi ‘lisci’ della più recente ipermodernità – si fa esperienza urbana partendo da ciò che mai avremmo pensato diventasse merce, il piacere. Dando uno sguardo alla situazione attuale, omologate e ‘risolte’ dall’equazione ‘perfetta’ (mondo = città), ultimo lascito della parabola postmoderna, quelle 5 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, cit. pp. 85-100. Qui Augé definisce la rovina come “il tempo che sfugge alla storia”, si tratta di commistioni di natura e cultura, paesaggi che perdono il loro significato del passato e emergono nel presente con il solo significato del tempo che passa. Ivi, pp. 94-5.

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città-mondo, da cui proprio la postmodernità ha eliso l’antico ruolo di modelli culturali, sopravvivono in forme eterogenee, sparse in numerose realtà urbane del pianeta, nelle quali si scorgono le ambizioni di emancipazione da condizioni di vita disagiate, ma anche gli entusiasmi per una nuova, anche se tardiva, modernità. Da un lato, il mondo intero si sta trasformando in un’unica ‘città’, come conseguenza di una progressiva urbanizzazione e del sempre più massiccio collegamento virtuale di tutti i grandi centri urbani. Nel contempo, però, ogni città tende a diventare essa stessa un ‘mondo’, del quale sconta anche tutti i grandi problemi, per la presenza o la circolazione di gente proveniente da ogni angolo del pianeta e per la penetrazione diffusa e incessante di informazioni6. Entrambe queste trasformazioni determinano una continua ‘tensione’ tra le due realtà, un reciproco ‘scambio’ in un effetto di ‘respirazione urbana’. In questo mondo-città, Augé vede l’‘umanità’ trasformarsi sempre più in ‘società’ e osserva, per contro, la mancanza di uno “spazio pubblico planetario”, un luogo di raccolta dove possano essere rappresentati e dibattuti i problemi comuni; uno “spazio di incontro”, dove ci sia per tutti la possibilità di accesso alla cultura e all’informazione e realizzare a livello globale le istanze di una “democrazia urbana”. La città è l’ambiente eminente del postmoderno, e l’architettura e l’urbanistica sono caratterizzate da eclettismo, pluralismo, fusione vivace e ironica di tradizioni e stili. Non esiste più la città residenziale, statica e produttiva, comunità politico-naturale dove abitavano le grandi classi e i grandi soggetti collettivi, detentori, a loro volta, di grandi progetti e grandi conflitti. La città non è più solo spazio, ma diventa ambiente. “La città è un discorso, e questo discorso è realmente un linguaggio” (R. Barthes), che coinvolge, assorbe e rappresenta l’esistenza degli uomini che vi vivono, è “vitalità confusa”, varietà di vite e di sogni, complessità e difficoltà, è “architettura delle forme anziché della forma” (R. Venturi). La città diviene un luogo “non più della funzione ma della finzione” (C. Jencks), rappresenta la fantasia, l’immaginazione, il palcoscenico ove liberamente si esprime il gioco, è teatro ma anche emporio, enciclopedia, labirinto. È l’esperienza di una centralità vuota e dissipata: il centro, visto come dominio della razionalità e dell’ordine, viene cancellato dalla mappa della città i cui confini sono dissolti. La città che meglio rappresenta questa nuova condizione è Los Angeles, città postmoderna per eccellenza, estremamente intricata da percorrere, refrattaria a qualsiasi descrizione convenzionale, che sembra sempre allargarsi 6

Augé cita a questo proposito la Metacity virtuale di Paul Virilio: “La città antica si trasforma progressivamente in Metacity, un’agglomerazione paradossale dove le relazioni di prossimità immediata cedono il passo alle interrelazioni di distanza”.

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a rete lateralmente in una spazialità illimitata, costantemente in movimento e incomprensibile. Guardando Los Angeles dall’interno, con atteggiamento introspettivo, si finisce con il vedere solo frammenti e istantanee, luoghi fissi di una comprensione miope che per impulso viene generalizzata a rappresentare il tutto. Anche sapendo dove focalizzare la vista, trovare un punto di partenza non è facile, Los Angeles è dappertutto, è globale nel senso pieno della parola in quel suo presentarsi ovunque anche sullo schermo. È una città senza profondità, che al limite possiede lo spessore di una pellicola, quella cinematografica, una pellicola su cui si può imprimere ciò che si vuole e renderlo credibile. Los Angeles ha prodotto tanto “immaginario” a livello mondiale perché lì qualsiasi prodotto dell’immaginazione è più verosimile e assume immediatamente la forza della realtà.

2. Il consumo urbano e le dinamiche spazio-temporali della città postmoderna Tra i fenomeni che hanno segnato il passaggio dalla città industriale alla città post-industriale vi è l’assunzione di un peso sempre maggiore dei processi di consumo. Già all’inizio degli anni Sessanta, il consumo costituisce uno dei più forti principi organizzativi della metropoli, fenomeno da attribuirsi al crescere dell’influenza della circolazione sulla produzione delle merci. L’uso della metropoli tende a fondersi sempre di più con il suo consumo e l’unica teologia possibile è quella del capitale. Esso fa scaturire dalla deterritorializzazione fisica ed immaginaria della metropoli, nuovi ghetti in cui le stesse infrastrutture allestite per favorire lo sviluppo del consumo di merci possono fungere da elementi reclusori (autostrade, svincoli, ferrovie, mancanza di trasporti e di connettività fognaria, elettrica, telefonica, ecc.). La stessa metropoli pubblicitaria, una forma complessa di prêt à porter urbanistico, declinata sulle modalità dell’esposizione prima e dell’informazione poi, allestisce la merce come veicolo di relazione e di attrazione sociale. Gli spazi, così, sono subordinati all’accesso ai beni e ai servizi, materiali ed immateriali. Per questo motivo, oggi l’estetica ha raggiunto una notevole rilevanza all’interno delle pratiche di consumo. La pubblicità, il marketing e tutte le scienze che cercano di studiare l’essere umano in quanto homo consumens, si basano proprio sul presupposto che il piacere sia un potente motore economico e che l’estetica sia il terreno dell’addomesticamento del gusto e dell’educazione di massa. Un ruolo collaterale nel sollecitare queste modalità, lo svolgono anche le tecnologie legate alla rete ed alla virtualità, che contribuiscono a diffondere

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una percezione della metropoli come interconnessione planetaria e allo stesso tempo luogo immateriale, aperto al gioco dei segni. Il ruolo delle strade e degli edifici diviene quello di una specie di fondale tridimensionale. Come la comunicazione broadcasting è divenuta, sotto l’impulso del capitale pubblicitario e dell’organizzazione conseguente dei programmi, comunicazione di flusso, facendo saltare i palinsesti, allo stesso modo la metropoli diviene un flusso informazionale, coerente nei suoi assunti fondativi con la teologia del capitale. Il consumo, di là dalla dimensione economica della transazione e del possesso, diviene la rappresentazione del potere deterritorializzante del capitale sul tessuto metropolitano, ridotto a supporto, a palcoscenico funzionale a questa dinamica. Da un lato abbiamo dinamiche disgreganti e parcellizzanti, in cui l’individuo scompare nella metropoli informazionale e pubblicitaria, riducendo lo statuto di cittadino a quello di consumatore ed utente, dall’altro dinamiche aggregative, che, sempre attraverso il consumo, tendono però a far prevalere l’aspetto relazionale su quello funzionale. Attualmente lo scenario metropolitano è allestito su diversi piani: esplosione dell’abusivismo e dell’autocostruzione; estensione uni/in-forme della periferia come luogo sintomatico della perdita di forma dello spazio; innervatura tra tecnologie telematiche. La speculazione edilizia e l’abusivismo sono due facce delle dinamiche di riduzione del tessuto urbano a liscia superficie per l’interazione di merci e servizi con l’uomo consumatore: nel caso della speculazione edilizia attraverso l’asservimento dello spazio a funzione (centri commerciali, centri direzionali, zone residenziali private, ecc.), nel caso dell’abusivismo e del degrado attraverso la privazione delle forme. In entrambi i casi si assiste alla scomparsa della città come luogo di mediazione e di conflitto sedimentabili. L’esito di tutto ciò è dato sia dalle downtown militarizzate, supersorvegliate, ricche e sfavillanti, del tutto funzionali alle logiche di mercato e di consumo, sia dalle sconfinate periferie, fatte di sottrazione dello spazio in quanto forma articolabile, in cui bidonville, favelas, slums, mostrano l’irrazionalità di un abitare in cui il nesso fra società, politica e metropoli è saltato. “Lo spazio senza tempo è uno spazio privo di gerarchie, dove la sinistra non si distingue dalla destra e il centro dalla periferia: perché non si danno più né centri né asimmetrie e scale di valori. Così nella metropoli postmoderna al centro urbano si sostituisce il centro commerciale, anzi, la pluralità dei centri commerciali, dove la gente si incontra e si ammassa come un insieme di compratori-consumatori il cui unico rapporto è il mondo sgargiante e colorato delle merci esibite [...]. La colonizzazione del mondo della vita da parte dell’astratto, sempre più diffuso e totalizzante, conduce, dunque a una mutazione antropologica, per la quale cambia il modo di

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percepire e di sentire del singolo”7. Influenzata dalle pratiche del consumo, muta anche la percezione del tempo. La contrazione dei tempi del ciclo produttivo nei settori trainanti dell’economia induce una accelerazione parallela negli scambi e nei consumi, la quale postula, a sua volta, radicali mutamenti – sia temporali che spaziali – nelle modalità di circolazione delle merci e nelle modalità di acquisto da parte dei consumatori. Le città tendono così a diventare degli immensi contenitori di beni, servizi e immagini che devono essere organizzati (o ri-organizzati, come nel caso dei centri storici di antiche città) per il consumo dei beni immessi sul mercato. Ciò sta determinando una radicale ridefinizione delle strutture temporali della vita urbana: la cittànon-stop è il modello di riferimento al quale tendono piccoli e grandi centri urbani. Sintesi tra le più efficaci delle temporalità multiple tipiche dello scenario metropolitano postmoderno sono gli shopping malls. In essi si può comprare praticamente tutto ciò che il mercato offre, in una dimensione temporale compressa e multifunzionale. Il tempo speso negli shopping malls cresce costantemente, anche perché, probabilmente, non è mai sufficiente per cogliere tutte le innumerevoli opzioni che vengono offerte. Mentre la compressione spazio-temporale svuota di significato i tragitti che legano i differenti luoghi della città, nei centri commerciali i percorsi danno l’impressione di riconquistare un significato. Tanto più che, attualmente, i centri commerciali tendono a superare la separazione spazio-temporale necessaria alla specializzazione funzionale che li connotava all’inizio, per aspirare a diventare delle vere e proprie città alternative, fuori dalle mura. Oggi sembrano cioè proporsi non più solo come spazi specializzati del consumo di beni materiali, ma come i luoghi del tempo di non-lavoro tout court. La diffusione dei centri commerciali – dentro e fuori dalle ‘mura cittadine’ – si accompagna così ad una radicale ristrutturazione dei quadri temporali della vita quotidiana della città. Non si tratta soltanto della questione degli orari dei negozi, basti pensare alle nuove arterie che vengono costruite per un più facile e veloce accesso per i consumatori e i lavoratori dei centri commerciali. L’ampliamento delle fasce orarie di apertura (giornaliere, settimanali e annuali) mobilita energie sociali per il consumo ininterrotto, ma cancella anche l’idea stessa di ritmo come alternarsi regolare di differenti stati dell’attività umana. Parallelamente scompaiono le frontiere tra feriale e festivo, giorno e notte: tutto é invaso dal consumo.

7

R. Finelli, Alcune tesi su capitalismo, marxismo e ‘postmodernità’, in L. Cillario, R. Finelli, Capitalismo e Conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’era telematica, Manifestolibri, Roma 1998, pp. 11-40, pp. 20-1.

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2.1 Paesaggi urbani vecchi e nuovi: il cityscape e il townscape Dal dibattito più recente sulla città e sul postmoderno, è emerso il delinearsi di un fenomeno nuovo, e del tutto particolare nelle sue connotazioni, che viene definito appunto postmodern urbanism. Esso può essere interpretato sia come l’insorgenza di nuove forme di sviluppo urbano, sia come il risultato del fallimento della logica moderna di costruzione dello spazio urbano.Una serie di nuovi approcci architettonici postmoderni emerge più o meno contemporaneamente all’inizio degli anni Settanta con l’intento di rivitalizzare il tessuto delle vecchie aree centrali della città attraverso un rinnovato interesse nei confronti della cosiddetta heritage preservation – cioè del recupero del patrimonio storico e artistico di alcune parti della città – e attraverso nuovi approcci nell’urban design e nella progettazione dello spazio sociale, detto anche community planning . L’architettura postmoderna si riferisce letteralmente a tutto ciò che viene dopo il modernismo, ma in realtà si tratta piuttosto di un consapevole e ricercato revival di elementi appartenenti a stili passati, e questo è esattamente ciò che è accaduto nei processi di rivitalizzazione, di recupero storico artistico e di ridefinizione dell’urban design. Il design postmoderno è per definizione onnicomprensivo ed eclettico al tempo stesso, anarchico e caratterizzato dalla sovrapposizione di elementi appartenenti ad altre epoche e ad altri stili. Ne consegue quindi che la sua definizione dipende in buona parte dall’occhio dell’osservatore8. David Ley9, nel suo lavoro su False Creek a Vancouver, ha identificato sei temi architettonici che caratterizzano in senso postmoderno la riutilizzazione di alcune aree urbane centrali: le proporzioni umane, l’orientamento a favore dei pedoni, il pluralismo (di colori, materiali e design), la presenza di motivi di tipo storico, regionale e vernacolare, il riconoscimento del contesto locale e l’attenzione per il pittoresco. Edward Relph nel codificare i cosiddetti spazi postmoderni opera invece una distinzione divenuta ormai popolare tra geografi e urbanisti: quella tra cityscape e townscape. Il primo, tipica manifestazione della progettualità urbana moderna, si caratterizza per:

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Il postmoderno può essere: populista e middle-class (Venturi, 1966) oppure patrizio ed elitario (Rossi, 1985); conservatore (Krier, 1985) o progressista (Frampton, 1985); anti-urbano (Jameson, 1984; Davis, 1985) o pro-urbano (Albertsen, 1988, Krier, 1985). 9 D. Ley, Styles of the times: liberal and neo-conservative landscapes in inner Vancouver, 1968-1986, Elsevier, 1987.

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la linearità degli spazi urbani e la creazione di veri e propri canyon tra i grattacieli del downtown e di distese infinite di monotoni paesaggi suburbani, tutti uguali e privi di identità; il gigantismo delle sue strutture; l’ordine razionale e la flessibilità dei suoi paesaggi, che tendono alla monotonia e alla noia pur di essere efficienti; la violenza estetica degli interventi con l’ingombrante presenza di autostrade e viadotti e la distruzione sistematica dell’ambiente; una visione seriale di tipo discontinuo associata al dominio sullo spazio urbano assegnato all’automobile.

Il postmodern townscape, al contrario, appare assai più attento alla componente estetica, alla complessità e alla dimensione locale. Celebra la differenza, il pluralismo culturale e lo stile, e si caratterizza per la presenza di: − − − − −

i quaintspace, cioè spazi pensati per sembrare esteticamente pregevoli ed accoglienti; le decorazioni sulle facciate, soprattutto nelle aree pedonali, che tendono non solo ad essere ricche di dettagli per renderle ‘particolari’, ma anche farle apparire ‘antiche’; lo ‘stile’, che possa attirare i ricchi e gli amanti dello chic e della moda; i richiami alla dimensione locale che possono tradursi in molti casi in una deliberata ricostruzione della storia e della geografia urbana; una netta divisione tra spazi per i pedoni e spazi per le automobili, per rimediare agli scompensi creati dall’atteggiamento pro-automobile adottato dalla progettualità modernista.

Questo processo di profonda trasformazione e di volontaria diversificazione dello spazio urbano sembra riguardare un grande numero di città importanti, le quali esprimono quasi un’ansia nell’accentuare qualsiasi differenza valorizzabile e visibile, sempre nel quadro tuttavia di un ordine sociale ben consolidato. Infatti le identità di carattere etnico sono enfatizzate con l’organizzazione di festival ed eventi culturali, coi ristoranti ‘etnici’, con le insegne delle strade. La storia locale viene riscoperta, i monumenti principali vengono restaurati e spettacolarizzati attraverso particolari sistemi di illuminazione, villaggi ‘originali’ sono ricostruiti sia a scopo culturale che ricreativo, distretti ‘storici’ vengono individuati e riconosciuti tali sotto il

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profilo istituzionale e normativo, tradizioni ormai morte e sepolte vengono riesumate per organizzare manifestazioni di vario tipo e di diverso significato culturale; dappertutto si celebrano anniversari, il centenario o il bicentenario della fondazione della città o della nazione. L’urban design ridisegna molte strade e interi quartieri, mentre altri progetti puntano a rivitalizzare vecchie vie e a riportarle agli antichi splendori.

2.2 La gentrificazione I canoni del postmodern urbanism possono essere sintetizzati da tre termini: heritage preservation (cioè il recupero e la tutela degli spazi storici), revitalisation (cioè la rivitalizzazione di aree in declino grazie a investimenti freschi e all’emergere di nuovi mercati immobiliari) e urban design. Ma tutti e tre questi termini rientrano in quel fenomeno che più genericamente viene definito “gentrificazione”. La gentrificazione rappresenta la risposta in termini geografici, economici e culturali al declino urbano che ha colpito molte città nel secondo dopoguerra. Il Dictionary of Human Geography la definisce “un processo di ‘rigenerazione’ di un quartiere urbano associato all’arrivo di gruppi sociali ad alto reddito, un processo che tende ad allontanare i gruppi a reddito più basso che lo abitavano precedentemente e che generalmente implica un sostanziale recupero e miglioramento delle condizioni degli edifici deterioratisi nel tempo. Questi quartieri sono di solito facilmente accessibili dal centro e sono caratterizzati dalla presenza di costruzioni datate e di un certo valore storico”10. La gentrificazione tuttavia è anche all’origine di processi speculativi, tanto che può essere spesso assimilata a termini come ‘invasione’ e ‘successione’. I primi ‘gentrificatori’ infatti acquistano appartamenti o case in cattive condizioni in un’area limitata e vi apportano sensibili migliorie o addirittura li riportano allo stato originario; in virtù dell’accresciuta attrattiva dell’area, arrivano poi altri acquirenti che progressivamente trasformano lo stato socio-economico dell’intero quartiere (spesso costituito da poche strade); e ne innalzano sensibilmente il valore immobiliare. Da fenomeno spontaneo legato alle scelte individuali di pochi, si è trasformato peraltro negli ultimi anni anche in strategia promossa dai governi (sia centrali che locali) con l’intento di ‘rigenerare’ le aree centrali della città (inner city areas). I loro tentativi di attrarre nuovi e ricchi residenti in queste aree – molti dei 10

R. J. Johnston et al., The Dictionary of Human Geography, Cambridge University Press, New York 1984, pp. 216-17.

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quali relativamente giovani e senza figli – ha implicato la costruzione di nuovi appartamenti e nuove case ad alta densità abitativa e molto costosi, e la conversione di edifici precedentemente destinati ad usi non residenziali (come i magazzini del waterfront) in palazzine per abitazioni di lusso. La gentrificazione inoltre può essere considerata come il prodotto della confluenza tra strategie immobiliari di respiro anche internazionale e il desiderio della ‘new middle class’ di professionisti che cavalcano la nuova economia dei servizi, di appropriarsi di un particolare ‘contesto’, per stabilire in qualche modo anche sotto il profilo materiale uno spazio nel quale trovarsi rappresentata. Lo spazio gentrificato appare immediatamente individuabile: case d’epoca caratterizzate da una patina di vissuto e spesso decadenti sono ripulite, ridipinte e riparate nei minimi dettagli; vengono poi fornite di nuove porte, di cassette delle lettere in ottone, ringhiere in ferro lavorato, piante alle finestre, in modo da sembrare al tempo stesso vecchie e nuove. Il geografo canadese parla addirittura di vere e proprie operazioni di invecchiamento (aging) e di contemporaneo rinnovamento (newing). Ad ogni modo, passeggiando per viali, piazze e waterfront ‘rimessi a nuovo’ si ha l’impressione di una ‘città che si è rifatta il trucco’, recuperando peraltro una certa visibilità nazionale e internazionale e, grazie alle sue ‘vetrine gentrificate’, ha rivalutato il passato in chiave commerciale e ha riaffermato l’identità locale. Questo fenomeno viene definito come una sorta di do-it-yourself urban design di chiara impronta postmoderna, frutto della convergenza di politiche di valorizzazione della rendita urbana, e dell’interesse, da parte della new petit bourgeoisie, nei confronti di contesti in grado di fornire una sorta di supporto fisico-spaziale alla loro ricerca di ‘distinzione’. Questi ambienti, per sortire tale effetto, devono perciò parlare il linguaggio della storia e della cultura, ammantandosi così di significati che li coinvolgono, che prescindono dalla più generale commercializzazione. Osservato da un’altra prospettiva, il fenomeno potrebbe essere interpretato come un vero e proprio ‘confezionamento’ di paesaggi da consumare, di paesaggi che offrono lo sfondo materiale e anche culturale a tutta una serie di consumi ‘distinti’, una sorta di mix tra linguaggi globali e frammenti ripuliti e reinterpretati della memoria locale. La gentrificazione, per il geografo americano Neil Smith, viene di solito presentata dai media come una sorta di battaglia per conquistare e civilizzare la nuova frontiera urbana. In realtà, mentre l’industria delle costruzioni spinge per realizzare nuovi insediamenti e ‘riabilitare’ quartieri decadenti ma collocati in posizione strategica o importanti sotto il profilo simbolico per la loro storia, gli abitanti molte volte si organizzano per resistere ad un fenomeno che spesso trasforma o addirittura fa scomparire la comunità preesistente.

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Bisogna peraltro considerare il fatto che la gentrificazione è anche un sintomo di processi economici di portata globale; infatti, se la conversione di quartieri tradizionali in quartieri gentrificati ad uso e consumo della service class è un fenomeno che risale già agli anni Sessanta e Settanta, esso ha assunto una dimensione del tutto nuova negli anni Ottanta a causa delle modalità dell’espansione economica globale di quel decennio, della ristrutturazione delle economie nazionali e urbane – sempre più orientate verso i servizi, il turismo, il consumo (piuttosto che verso la produzione) -, e anche dell’emergere di una nuova gerarchia di world cities, di national cities e di regional cities. È particolarmente interessante osservare che anche la cosiddetta ‘industria culturale’ è stata profondamente coinvolta in questo processo, e difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti, considerando il fatto che ad esser promossi e ‘commercializzati’ sono il paesaggio, la storia, la memoria, l’identità. L’industria culturale ha infatti contribuito in maniera decisiva al successo di queste operazioni offrendo i temi e la legittimazione per la creazione di aree urbane esclusive ma al tempo stesso vagamente casual, in virtù dei codici culturali che le hanno rese effettivamente attraenti per la service class. In altre parole, rappresentando e sponsorizzando un determinato quartiere come una sorta di mecca culturale, la cosiddetta culture industry ha contribuito ad attirare turisti, investitori, consumatori, e ad alimentare così il processo stesso della gentrificazione. Il developer cui si attribuisce la paternità sotto il profilo progettuale di questa trasformazione dello spazio urbano è James Rouse, tanto che in alcuni casi il postmodern urbanism definisce come rousification la trasformazione di alcune aree centrali a scopi commerciali e culturali. La Rouse Corporation, infatti, fu la prima a realizzare un festival marketplace, cioè la conversione di una vecchia area destinata nel passato a funzioni industriali e commerciali in un ambiente neo-tradizionale, in un nuovo tipo di shopping mall urbano che combinava sia al suo interno che al suo esterno la presenza di negozi, ristoranti, banchetti per la vendita di prodotti freschi e souvenir e forme di intrattenimento di vario genere. Gli archetipi di questa modalità di conversione dello spazio urbano sono certamente il Faneuil Hall Market Place di Boston e l’adiacente Quincy Market, i quali hanno inventato un modo interamente nuovo di pensare gli spazi identitari della città, con la deliberata commistione di evocazioni storiche e iniziative commerciali, con la ricostruzione nostalgica di luoghi della memoria, con l’adozione di un linguaggio standardizzato come quello della gentrificazione e il recupero di alcune suggestioni di carattere locale. La stessa formula ha poi trovato applicazione in altri tre casi noti in tutto il mondo per il loro successo sotto il profilo della redditività degli inve-

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stimenti, ma anche perché celebrati dal turismo nazionale e internazionale e diventati luoghi in cui ha trionfato un certo concetto di paesaggio urbano come oggetto da consumare: in particolare Ghirardelli Square di San Francisco, l’Harbourplace di Baltimora e South Street Seaport a New York. La cosiddetta ‘rivitalizzazione urbana’ che passa attraverso questi progetti comprende necessariamente una creative partnership tra i settori privato e pubblico e punta sostanzialmente a riconvertire attività industriali ormai da tempo in declino o aree portuali dismesse, in nuove attività economiche capaci peraltro di regalare una sorta di nuovo orgoglio alle aree centrali delle città. È noto peraltro che la presenza di historical landmarks, cioè di testimonianze del passato e della memoria locale, e la water exposure, cioè la presenza dell’acqua (di mare, di fiume o di lago) e di un fronte urbano che la valorizzi, sono considerati elementi cruciali per il successo di questo tipo di iniziative, in quanto l’ambiente commerciale che si cerca di ricreare si richiama molto spesso in maniera esplicita alle grandi città portuali del passato. La proliferazione di spazi gentrificati è peraltro anche associata alla crescente domanda di luoghi caratterizzati da stile, da forme architettoniche armoniose e differenziate, in grado di offrire ‘distinzione’ ai proprietari e ai fruitori. Il discorso urbano della gentrificazione, il cosiddetto urban design, risponde infatti alle aspettative in termini di spazi e di habitus della service class, di quella nuova borghesia, la quale costruisce la propria identità e il proprio senso di appartenenza attraverso la conoscenza e il consumo di luoghi e di prodotti che richiamino e che sappiano di passato, di tradizione, di stile, di distinzione appunto. Se a questo si aggiunge il fatto che la standardizzazione di massa del periodo fordista (nelle abitazioni, nella grande distribuzione, nella produzione dello spazio urbano) è stata progressivamente sostituita dalla cosiddetta ‘personalizzazione del consumo’, si comprende allora come le forme più prestigiose (anche se spesso celatamente massificate) di consumo richiedano un’associazione tra il prodotto e il contesto in cui questo viene acquistato; tale contesto deve offrire sensazioni e atmosfere che abbiano un valore riconosciuto nella cosiddetta cultura globale della nuova borghesia dell’immagine. John Urry chiama “estetismo cosmopolita” questa ricerca del gusto globale che incide in maniera significativa sui processi comunicativi che contraddistinguono la competizione tra città nel mondo, un estetismo caratterizzato più che dal consumo di cose, dal consumo di esperienze. Lo spazio gentrificato diventa quindi una sorta di riferimento materiale per la rete di significanti che lotta globalmente per emergere, per stupire, per aggiungere ancora valore alla propria collocazione nel mercato globale; ma diventa anche una sorta di interpretazione locale del discorso globale sulla storia, l’identità e la cultura, un’interpretazione che per avere legittimità e

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successo ha tuttavia bisogno di luoghi nei quali concretizzarsi, nei quali affondare le proprie radici (storicamente legittime o meno). Come conseguenza di questo atteggiamento che tende a coprire con un velo di storicismo la nuova funzionalità di alcune aree urbane strategiche e soprattutto la dialettica che interessa i suoi attori sociali più incisivi (le agenzie ad hoc, le lobby economiche, le amministrazioni locali, il capitale nazionale e internazionale, ecc.), si può immaginare una configurazione urbana che alterna spazi esplicitamente funzionali a spazi (segregati, purificati, esibiti) caratterizzati da un’apparente rottura tra la forma esterna e la funzione. Attraverso i luoghi gentrificati si sviluppa, dunque, un discorso sulla città che corrisponde a delle precise coordinate ‘storico-paesaggistiche’, le quali tendono a riprodurre in tutto il mondo un paesaggio (gentrificato) identico nella natura dei messaggi che trasmette e nel linguaggio utilizzato. Ma al tempo stesso questo ‘discorso’ sulla città assume una dimensione locale e quindi speciale e unica nel suo genere. La gentrificazione è quindi un fenomeno di trasformazione urbana per così dire sempre uguale, eppure sempre diverso perché reinterpreta, secondo un determinato codice ben collaudato, le coordinate storico-culturali dei contesti locali che cerca di recuperare e valorizzare. La tendenza a porre un’attenzione tutta nuova sul passato e sulla storia è poi associata ad una sorta di ansiosa ricerca di identità e alla nostalgia per ciò che caratterizza parte della cultura occidentale contemporanea, ed entrambe sono probabilmente attribuibili alla complessa transizione dalla società fordista a quella post-fordista, transizione che produce un diffuso senso di insicurezza. La nostalgia per un passato mitizzato e raffigurato come più semplice e rassicurante rispetto al presente va peraltro di pari passo con il processo di ‘invecchiamento’ (aging) di alcune aree urbane strategiche; un processo che, ricoprendo con una patina di antico, palazzi, strade e il paesaggio di intere ‘isole urbane’, ricorda da vicino la trasformazione temporanea di alcune parti di città in set cinematografici per i film che sviluppano la loro trama nel passato e che quindi hanno bisogno di rimuovere dal paesaggio tutti gli elementi moderni. Ma il recupero dei quartieri storici consiste anche in un’operazione di rinnovamento (newing), cioè nella pulizia degli esterni degli edifici, nella sostituzione dei materiali obsoleti e consunti dal tempo (con l’eccezione di qualche particolare altamente evocativo, magari esposto alla vista dei passanti e dei visitatori), nella ricostruzione delle parti mancanti – spesso sulla base di documentazione storica e di lunghe ricerche – e nella eliminazione di elementi per così dire ‘anacronistici’ come ad esempio le insegne di plastica o le ‘aggiunte’ che possono deturpare l’aspetto esterno delle case. Allo scopo di rafforzare questo ‘effetto speciale’, aree storiche sono completamente restaurate e ‘landscaped’ (cioè rese omogenee sotto il profilo

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paesaggistico) con tutta una serie di accorgimenti tecnici adottati per rafforzare la ‘passatezza’ di un ambiente restituito a nuova vita. Il risultato è perciò la costruzione di veri e propri historic district, contesti progettati per sembrare vecchi e nuovi allo stesso tempo. Gli historic district sono peraltro bomboniere turistiche di grande successo nelle quali si assiste spesso ad un proliferare di ristoranti e boutique che puntano ad una clientela esterna attratta dall’atmosfera del quartiere; in altri casi, ospitano musei e gallerie d’arte, caffè alla moda e/o tematici, oppure lo studio di designer, avvocati e liberi professionisti in genere. Beacon Hill, il distretto storico di Boston, è un caso esemplare al proposito: sembra infatti proprio un set cinematografico. Il ‘landscaping’, cioè la costruzione ricercata e armoniosa di un tema forte e chiaro attraverso la cura del paesaggio fin nei minimi dettagli, di un quartiere come Beacon Hill rappresenta una tipica espressione del postmodern urbanism, fenomeno che concentra la sua attenzione su particolari frammenti di città e che, sulla separazione simbolico-funzionale tra questi e il resto della città, costruisce la sua fortuna. Ma gli esempi si sprecano anche in Europa, pur con caratteristiche differenti: basti pensare ai frammenti gentrificati di Amsterdam, a Kazimierz, il quartiere ebraico di Cracovia dove Spielberg ha girato Schindler’s List, al centro storico di Varsavia, a Pienza in Toscana, alla parte ‘veneziana’ di Grado sulla costa adriatica. Queste isole gentrificate giocano un ruolo sempre più importante nella costruzione dell’identità urbana e nel modo di pensare la città stessa. I salotti urbani ammantati di atmosfere passate e di consumismo presente e luccicante sono sempre più visti come la vera vetrina della città, i luoghi in cui attraverso la spettacolarizzazione degli elementi più rappresentativi del paesaggio urbano si tende a riaffermare un determinato senso d’identità e una determinata interpretazione del passato e della storia della città. La gentrificazione di queste aree, inoltre, sembra aver spostato nell’ultimo decennio gran parte delle strategie di rinnovamento urbano lontano dalla periferia e dalle zone in genere che non sono in grado di offrire queste caratteristiche. Tuttavia, questa progettualità a frammenti non solo è il frutto della riflessione sulla città che il pensiero postmoderno ha sviluppato nell’ultimo decennio e mezzo, ma è anche l’esito di un rapporto tra comunità e spazio urbano, che, in virtù della rivoluzione telematica e della globalizzazione dei processi economici e culturali, ha completamente riformulato le proprie coordinate: da un lato, alimentando paure e nostalgie per un passato più sicuro e ordinato; dall’altro, ripensando la città e la sua progettazione per funzioni e sempre meno come organismo rappresentabile e gestibile attraverso metafore meccanicistiche. Non bisogna trascurare peraltro il fatto che la competizione tra città e regioni si gioca oggi sia sul piano economi-

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co-funzionale, sia su quello simbolico e culturale. Queste isole urbane di storia e cultura sono anche diventate uno spazio strategico per catalizzare investimenti pubblici e privati, inaugurando così una nuova stagione nella dialettica sociale tra poteri istituzionali e non nella costruzione della città e del suo futuro. La stessa logica spaziale interessa peraltro una serie di altri ambiti segregati come gli shopping mall e i parchi tematici, che nel loro insieme contribuiscono a configurare una città sempre più frammentata, percorsa da molteplici geografie che ne ricompongono parzialmente i frammenti e che la collegano con l’esterno.

2.3 Gotham City, città paradigma del postmoderno nel cinema Da una ventina d’anni a questa parte il cinema americano ha sempre più privilegiato lo spazio metropolitano da Blade Runner a L’esercito delle 12 scimmie, da Atto di forza a Men in Black, e Matrix. La città rappresentata è sin troppo visibile, tuttavia mantiene una sua qualità di invisibilità sotterranea che mostra i suoi rifiuti e le sue macerie epocali, ma che ne fa specchio per allodole, schermo che nasconde la sua vera realtà. I due Batman di Tim Burton ne sono una splendida esemplificazione, rappresentando il cinema postmoderno, superinclusivo e citazionista, ma anche neobarocco e decadente, soprattutto nella raffigurazione della metropoli, che diventa in esso l’immagine concretizzata della strutturale schizofrenia del nostro tempo. Lo scenografo Anton Furst ha chiarito: “Ho fatto un mélange di vari stili, c’è un pizzico di architettura carceraria, ci sono i grattacieli di Chicago, l’art nouveau spagnola, il costruttivismo russo, il nazismo del Terzo Reich: insomma un pot-pourri, un miscuglio di stili quasi dadaista [...] È una fantasia verosimile. Gli scenari di Gotham City sono stati costruiti pensando ai peggiori aspetti di New York”11. Come ha scritto Massimo Causo12, i personaggi dei due film sono appendici di un corpo unico. E questo corpo non è un’individualità, un ente, né una setta, una società, un sodalizio: esso è invece lo spazio. Uno spazio che vede molti personaggi, ma mai un protagonista, un eroe con cui possiamo tradizionalmente e facilmente identificarci. Si tratta anzi di un conflitto e di una sopraffazione di un’identità sull’altra attraverso un’invasione concreta dello spazio dell’altro, un vero e proprio suo divoramento.

11 M. Monteleone, Luna-dark. Il cinema di Tim Burton, Genova, Le Mani, 1996, cit. da www. griseldaonline.it. 12 M. Causo, Un unico corpo espanso in “Cineforum”, 318, Ottobre 1992, cit. da www. griseldaonline.it.

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Non v’è dubbio che l’ispirazione che il regista trae dal mondo animale (pipistrelli, gatti, pennuti e via dicendo) presuppone una critica di natura politica, con rimandi a un’America regredita ad istinti beduini, a pulsioni aliene allo spirito del sociale. Nella metropoli burtoniana si nota subito un contrasto fra alto e basso, ed ancor più importante e caratteristico, una indistinzione fra l’interno e l’esterno. La verticalità e l’altezza si sposano a una qualità massiccia e imponente, mentre la topografia lascia spazio allo spazio in una disposizione solitaria di grattacieli ed edifici che di certo è riflesso dell’isolamento e della cupezza dei singoli personaggi principali, che comporta una connotazione di fallimento e naufragio. Gotham City è di certo una città immaginaria, una finzione. Ma proprio per questo essa acquista l’importante funzione di critica del reale. Se nella realtà postmoderna, come scrive Gobetti, la città è uno spazio in cui “l’inquinamento segnico”13 ha escluso o azzerato ogni possibilità di significato attraverso l’affastellamento e la confusione dei modelli e dei dati, non può meravigliare che tale programmatica frammistione abbia portato ad un accantonamento, ad una stasi del senso. E l’immaginario ha facile gioco per trionfare sul reale, per sostituirlo attribuendosi un processo di significazione. Paradossalmente la metropoli più realistica, più ‘sensata’, è quella costruita in studio, perché l’autenticità, nell’epoca postmoderna, è quella dell’artificio, dell’immaginazione. Ecco allora che la maschera, unico, vero protagonista della saga batmaniana, diviene invece forma riassuntiva ed esemplare di quella qualità di ‘artefatto’ che è ormai diventata la cifra dell’umano, immagine della natura stessa della metropoli e di ciò che questa nasconde. Se la metropoli è il luogo dell’incertezza dell’effetto visivo, allora è proprio la maschera a divenire unico possibile collegamento con la verità. La Gotham City di Burton è un labirinto, una delle forme del mondo infero e dunque della morte. I traumi personali subiti hanno lasciato i personaggi in una condizione infantile, hanno bloccato la loro evoluzione, li hanno consegnati a un non-tempo. Non vi è progressione temporale a Gotham City, ma solo iterazione del passato. E la metropoli, lungi dall’essere uno sfondo indifferente, ne è coinvolta e partecipe. Il viaggio dei suoi protagonisti in essa non può che identificarsi in un passaggio dall’infanzia alla fine. Nei due Batman si coglie il tentativo, da parte dei protagonisti, di riscattare la decomposizione, la frammentazione, la decadenza che si rispecchiano nella metropoli: il Joker intende ricreare, riformare il suo viso orrendamente grottesco; Batman si richiude nel suo costume-corazza che, oltre che ma13

N. Gobetti, La superba corona degli ubriachi di Efraim: nobody, nessun corpo nel cinema di Tim Burton in “Garage”, 4, Giugno 1995.

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scherarlo, sembra quasi proteggerlo dalla contaminazione di quel mondo, rappresentando nel contempo l’altra e più cupa parte di se stesso. Maschera o costume, il modo in cui si appare diventa quindi, specchio della propria dimensione inferiore. Allo stesso modo la metropoli si presenta, per dirla con Roy Boyne a proposito della postmodernità, con ‘multiple fractures’14 il cui collante nei due Batman è, appunto, il dominante tono di cupezza notturna. Come ha affermato lo stesso regista, in Gotham City gli uomini regrediscono ad uno stadio animale in un mondo trasformato in arena, laddove gli edifici si antropomorfizzano, incanalando il disagio di una società che soltanto nell’esteriorità e nelle forme rappresentative di se stessa trova modo di esprimersi e di identificarsi. Ma più importante e caratterizzante è la contaminazione di interni ed esterni, spazi rappresentati in modo indistinto che fanno della propria apparenza anche la propria sostanza, come si trattasse di una maschera che, non diversamente da quella del protagonista titolare, rende visibile ciò che sembrerebbe nascondere. Dunque la metropoli e Batman sono due facce della stessa medaglia. Ambedue puro décor dall’aspetto cupo, essi hanno in comune solitudine e malinconia connesse con il rimosso. Nel secondo Batman in particolare ciò che brulica sotto la superficie della metropoli è idealmente all’origine del modo stesso in cui la città si presenta. Infine ancora una volta, così per Batman come per Catwoman, dalla morte rinascerà la vita.

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R. Boyne, Fractured Subjectivity, in C. Jenks, Visual Culture, Routledge, London-New York, 1995.

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VII L’architettura tra modernità e postmodernità

Il distacco tra modernismo e postmodernismo si avverte soprattutto nel campo dell’architettura, l’arte sociale strettamente legata all’economia, ai mutamenti storici, politici e culturali. L’architettura è stata l’arte che sin dall’inizio ha meglio precisato le differenze sostanziali intercorrenti tra modernità e postmodernità.

1. Il Movimento moderno Il Movimento moderno, chiamato Razionalismo prima e Funzionalismo poi, è nato negli anni Venti-Trenta, grazie all’opera di quattro grandi architetti: Mies Van der Rohe, Gropius, Le Corbusier e Lloyd Wright. Le sue peculiarità sono: a) l’assenza d’ornamentazione, il rifiuto del vincolo decorativo: la forma è solo una conseguenza della funzione; b) l’abolizione di materiali compositi abituali, ossia mattoni e pietra, e l’accettazione di nuovi materiali, come l’acciaio, il vetro ed il cemento; c) il culto della semplicità, ben espresso nel motto degli anni Trenta “less is more” (il meno è più), di Mies Van der Rohe; d) la adozione di criteri razionali, astratti, prescrittivi; e) il tentativo di rompere con la tradizione; f) la separazione dalla realtà e dai bisogni della società, l’indipendenza da ogni imposizione esterna. Si parla di ‘morte della bellezza’, in quanto tutti gli oggetti devono essere unicamente funzionali e non si bada a ciò che concerne il gusto, l’estetica. Gli interventi architettonici sono freddi, astratti e dogmatici, si riconoscono per uniformità e monotonia. Non esiste nessun legame col contesto, piuttosto abbiamo edifici disumani, scarni, inabitabili, anonimi, spersonalizzati, che rispecchiano la pretesa universalistica e cosmopolita del Modernismo, in cui sono azzerati i codici tradizionali e quelli locali. Possiamo definire il moderno un movimento avanguardista, antistorico, antitradizionalista e forse anche antiumanista. Nel Movimento moderno sono comprese generalmente quel complesso di espressioni architettoniche che iniziano a fine Ottocento e proseguono per buona parte del XX secolo, tese al rinnovamento dei caratteri, della

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progettazione e dei principi dell’architettura, e che si identificheranno poi, nel momento della loro massima espressione, negli anni Venti e Trenta con l’International Style. Il fulcro di tale movimento si è manifestato nei congressi CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture moderne). Uno dei padri del Movimento moderno è considerato William Morris, che aveva dettato i principi di rinnovamento dell’architettura già nel XIX secolo. Attorno al 1900 poi, diversi architetti in tutto il mondo cominciarono a sviluppare nuove soluzioni architettoniche in risposta alla mutata realtà sociale e alle nuove possibilità tecnologiche, fattori che avevano avuto nella seconda parte dell’Ottocento un notevole sviluppo. Lo scopo principale era quello di operare un taglio netto con il passato e proiettarsi trionfalmente nel presente, se non addirittura nel futuro. Il Movimento moderno diviene International Style negli anni Venti, uno stile architettonico che detterà canoni comuni per l’architettura universale, cioè validi a progettare in ogni luogo ed ad ogni latitudine l’ambiente costruito. In questo si scontrerà con l’“architettura organica” di Frank Lloyd Wright, sostenitrice non di principi prestabiliti ma, invece, dell’ineludibile lettura ed interpretazione del luogo, dello spazio e del tempo. Nel 1927, con l’Esposizione di Stoccarda organizzata dalla tedesca Werkbund, l’International Style si presenta con forza in tutte le sue componenti: infatti, sotto la supervisione di Ludwig Mies Van der Rohe si realizza un quartiere di abitazioni permanenti su un’altura alla periferia della città, il Weissenhof. I migliori architetti d’Europa vengono chiamati a progettare e costruire le case in questo quartiere, oltre a Mies medesimo, vi sono i tedeschi Peter Behrens, Walter Gropius, J. Frank, R. Cocker, L. Hilberseimer, A. Rading, A. Scheneck, Bruno Taut, gli olandesi J.J.P. Oud, Mart Stam, il francese Le Corbusier ed il belga V. Bourgeois. L’esposizione di Stoccarda presenta al pubblico per la prima volta il Movimento moderno in forma unitaria. Si mettono in evidenza i programmi collegiali e le tendenze comuni per incidere e progettare l’ambiente costruito, con i molti studi che provengono da luoghi, tempi e sensibilità diverse. La manifestazione ha un grandissimo successo popolare con migliaia di visitatori che attraversano giornalmente il quartiere sperimentale. A seguito di questi incontri di lavoro si chiariscono i principi fondamentali del movimento e si elaborano gli scritti teorici, così Bruno Taut nel suo libro del 19291 riassume i caratteri del movimento moderno in questi cinque punti:

1 B. Taut, Modern Architecture, London, New York 1929.

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La prima esigenza in ogni edificio è il raggiungimento della migliore utilità possibile. I materiali impiegati e il sistema costruttivo devono essere subordinati a questa esigenza primaria. La bellezza consiste nel rapporto diretto tra edificio e scopo, caratteristiche dei materiali ed eleganza del sistema costruttivo. L’estetica di tutto l’edifico è nel suo insieme senza preminenza di facciate o piante o particolare architettonico: ciò che è funzionale è anche bello. Come le parti vivono nell’unità dei rapporti reciproci, così la casa vive nel rapporto con gli edifici circostanti: la casa è il prodotto di una disposizione collettiva e sociale.

Da qui nascono definizioni delle architetture che si inquadrano nel movimento: − −



L’architettura razionale si rivolge in modo del tutto consapevole alla ragione dello spettatore, deve comunicare chiarezza, sapere e conoscenza. L’architettura funzionale punta sui vantaggi funzionali, razionalmente dimostrabili, anziché sulle valutazioni del gusto e si rispecchia nella definizione di Le Corbusier della casa come “macchina per abitare”. L’architettura internazionale, che è definita così da Walter Gropius: “[…] nell’architettura moderna è chiaramente percepibile l’oggettivazione di ciò che è personale e nazionale. Una moderna impronta unitaria, condizionata dai traffici mondiali e dalla tecnica mondiale, si fa strada in ogni ambiente culturale [...] fra i tre cerchi concentrici – individuo popolo, umanità – il terzo e maggiore abbraccia gli altri due; di qui il titolo architettura internazionale”.

1.1 Il Movimento moderno: la storia Negli Stati Uniti d’America il Movimento moderno nasce con la Scuola di Chicago dove si formano per la ricostruzione della città distrutta dall’incendio del 1871, due generazioni d’ingegneri e tecnici, che realizzano per primi un nuovo tipo di costruzione, il grattacielo (nel 1885), la cui espressione più significativa è il Reliance Building (Burnaham & Root 1890-1895). Alla scuola di Chicago appartiene Louis Sullivan (1856-1924), che è la figura più

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rappresentativa e che manifesta le sue teorie progettuali con scritti e non solo con le opere (tra le maggiori è L’Auditorium di Chicago, 1887). Nel suo studio, si forma Frank Lloyd Wright, che sarà l’architetto più significativo del Movimento moderno in America. Questi rappresenterà l’avanguardia e supererà l’architettura dei suoi contemporanei guardando l’Europa anche se con la volontà sempre di distinguersi e creare un stile ‘americano’. La carriera di Wright sarà lunghissima, costruirà più di trecento edifici e la sua ‘architettura organica’ influenzerà tre generazioni di architetti al di là ed al di qua dell’Oceano. Nel 1932 viene organizzata da Philip Johnson al Museum of Modern Art di New York una esposizione memorabile il cui titolo è International Style. Il catalogo della mostra è scritto dallo stesso organizzatore assieme a Henry Russell Hitchcock e raccoglie edifici dal 1922 al 1932. Johnson nomina, codifica, promuove, sottotitola l’intero movimento e gli architetti che ne fanno parte, definendone i motivi ed i valori. Da questo lavoro nasce uno Style che trascende le identità regionali, nazionali, continentali e che diviene appunto “internazionale”. Un altro architetto europeo che arriva negli Stati Uniti nel 1923 è Richard Neutra. Questi riuscirà ad inserirsi nella realtà americana con grande successo proponendo i canoni del Movimento moderno. Allievo di Adolf Loos, ha lavorato nello studio di Erich Mendelson. La sua produzione è varia e combina un semplice rigore tecnico di chiare strutture di metallo e di fine intonaco a effetti di luce estendendo nelle sue case lo spazio architettonico dentro il paesaggio. L’ambiente costruito di Neutra si inserisce drammaticamente in mezzo a sensazionali ambienti naturali con il chiaro intento di accostare e paragonare l’opera dell’uomo senza alterazioni alla natura. Con l’avvento in Germania del Nazionalsocialismo negli anni Trenta, avviene un rigetto da parte del governo tedesco dell’architettura moderna che si pensa sia degenerata e bolscevica. Questo significa che intere generazioni di architetti sono forzate a lasciare l’Europa. Accanto ai più famosi Walter Gropius e Marcel Breuer, che si stabiliscono alla Harvard Graduate School of Design e Ludwig Mies Van der Rohe che va a Chicago, arrivano negli Stati Uniti anche altri insegnanti del Bauhaus ed altri architetti europei. Così l’influenza della scuola tedesca si estende negli Stati Uniti e Gropius tenta di adattarla ed integrarla alle caratteristiche del mondo nuovo, come negli studi sulla prefabbricazione delle case unifamiliari. Ludwig Mies Van der Rohe è chiamato nel 1938 a dirigere la sezione di architettura dell’Illinois Institute of Technology e nel suo programma di insegnamento si rileva immediatamente quella che sarà la filosofia della sua attività americana. Mies è alla ricerca di un rigore architettonico che il repertorio moderno sembra avere

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L’ARCHITETTURA

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perduto in alcune delle sue superficiali realizzazioni. Da un lato ricerca nella osservazione ed applicazione dei materiali da costruzione valori elementari, dall’altro è alla ricerca simbolicamente della sezione aurea tra gli elementi e le strutture nei suoi edifici. Così, prima del Campus dell’università di Chicago del 1939, e poi nei grattacieli tra cui il Seagram Building a New York del 1956, usa l’acciaio e il vetro e studia il particolare architettonico, il ritmo, la proporzione, la texture, il giunto tra gli elementi, le finiture; il tutto teso alla ricerca di un armonia come in un antico tempio greco. Il Movimento moderno aveva rielaborato la cultura dell’architettura e del costruire dapprima in Europa ed in America realizzando uno ‘stile internazionale’, che dopo la seconda guerra mondiale si era espanso anche in altri paesi, come il Giappone ed il Brasile. La rivoluzione del razionalismo era stata tale che si era perduto ogni vincolo sentimentale e occasionale con l’originaria struttura sociale, economica e produttiva. Le Corbusier sosteneva che, per riordinare la città moderna, v’era la necessità di rovesciare la “follia della casa unifamiliare”, espressione di una “emarginazione abitativa”, e creare un nuovo “abitare collettivo”. Il grande maestro progettava nella pratica una sua vecchia teoria, quella della “macchina per abitare”, che era una modificazione del concetto stesso del vivere la casa come unità abitativa facente parte di un tutto, il quartiere e la città. Le tesi erano troppo avanti e non riuscirono ad adattarsi all’ambiente europeo. La morte dei grandi maestri poi, e la ricostruzione del secondo dopoguerra, che condusse ad un nuovo boom edilizio, portarono ad uno svuotamento dei contenuti delle forme architettoniche del Movimento moderno, ed ad una loro banalizzazione e facile sfruttamento da parte della speculazione edilizia. Tutta questa situazione portò ad una reazione che generò nuovi tendenze architettoniche contrarie ai principi del funzionalismo. In questo contesto di critica si ebbero le esperienze brasiliane ed anche le esperienze indiane di Le Corbusier. I progettisti di Brasilia, la nuova capitale del Brasile, Oscar Niemeyer ed Edoardo Costa, usarono i canoni ed il linguaggio del razionalismo internazionale il curtain wall (pannello), il brise soeil (frangisole), i pilotis (pilastri), che però divennero forme applicate in modo convenzionale, svuotate da un reale aggancio alle esigenze proprie di quella realtà. La città progettata ex novo appare così formalisticamente bella in astratto, simbolica ma vuota, priva della vitalità che deve essere propria dell’ambiente urbano. Le Courbusier al contrario tenta di calarsi nell’ambiente locale, che sente decisamente diverso da quello europeo o nordamericano, di abbandonare ogni campione definito e di ricavare dalla tangibilità nativa una nuova architettura. Ci riuscirà solo in parte interpretando a suo modo alcuni simboli della tradizione indiana, ma lasciando sulla pianura del

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Capitol il segno di un coraggiosa espressione del grande talento personale, isolato nel contesto della città. L’altra edilizia, infatti, realizzata a Chandigarh da altri progettisti europei o indiani, se paragonata alle opere del maestro, accentua la sua limitatezza e meccanicità nella ripetizione di alcuni temi convenzionali che dovevano essere una reinterpretazione di figure ricorrenti tradizionali. In queste opere in ‘cemento a vista’ estremamente plastiche e fortemente espressive dell’ultimo Le Corbusier, già adottate per Unités d’Habitation di Marsiglia, molti intravedono il superamento del razionalismo e leggono i segni di quello che sarà il Postmodern.

1.2 Il Movimento moderno: gli autori Le Corbusier (1887-1965) Pioniere nell’uso del cemento armato, è stato uno dei padri dell’urbanistica. Egli ha saputo organizzare le sue idee in schemi e codificazioni estremamente precisi, vicini al razionalismo cartesiano; era anche convinto che esistesse la formula della perfezione e che fosse contenuta nel purismo e nella semplicità del linguaggio. Le Corbusier ha portato avanti l’idea di una produzione standardizzata, basata su un modulo replicabile all’infinito, grazie alla quale le abitazioni sono costruite allo stesso modo di un’automobile in una catena di montaggio. C’è una struttura portante su cui può venir costruito qualsiasi edificio; quest’ultimo è quindi simile ad una “macchina per abitare”, con “sanguigna rudezza e polemica astinenza da ogni finitura gradevole”. Ciò però rende l’architettura troppo standardizzata e priva di una certa estetica, in quanto viene abolito ogni ornamento: non si bada alla bellezza architettonica, ma alla vivibilità delle strutture. Nel suo testo del 1922, Verso un’architettura2, Le Corbusier ha smontato il discorso tradizionale ed inventato un’altra sintassi, esponendo i cinque principi-base del nuovo modo di concepire lo spazio architettonico e di costruire un’abitazione: •



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i pilotis: gli alti piloni puntiformi, in cemento armato, elevano la costruzione separandola dal terreno e dall’umidità: l’area disponibile può essere utilizzata come giardino, garage o per far passare le strade; il tetto-giardino (o tetto a terrazza): l’erba e le piante hanno una funzione coibente nei confronti dei piani inferiori e rendono lussureggiante e vivibile il tetto, su cui si può anche realizzare una

Le Corbusier, Verso un’architettura, Longanesi, Milano 1958.

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piscina; il calcestruzzo armato rende possibile la fabbricazione di solai particolarmente durevoli, poiché è resistente alla trazione, generata dalla flessione delle strutture; il plan libre (pianta libera): lo scheletro portante in cemento armato elimina la funzione delle murature portanti; la facciata libera: essa non è più costituita da murature con funzioni strutturali, ma semplicemente da una serie di elementi orizzontali e verticali i cui vuoti possono essere tamponati a piacimento, sia con pareti isolanti che con infissi trasparenti; la fenêtre en longueur (o finestra a nastro): la facciata può essere tagliata in tutta la sua lunghezza da una finestra che ne occupa la superficie desiderata, permettendo una straordinaria illuminazione degli interni ed un contatto più diretto con l’esterno.

Questi canoni sono stati applicati in una delle sue più celebri realizzazioni, Villa Savoye a Poissy, nei dintorni di Parigi (1929-1931). Proprio quest’opera dimostra quanta varietà è possibile ottenere pur rispettando la guida normativa sopra esposta. La volumetria esterna di Villa Savoye è molto semplice e schematica: un basso parallelepipedo tagliato su ogni lato da più finestre orizzontali, sorretto da sottili pilastri e sormontato da corpi semicircolari disposti asimmetricamente. La pianta della casa nasce da una maglia quadrata di pilotis, aventi fra loro una distanza che deriva dall’arco di curvatura di un’automobile che gira all’interno di essa per introdursi nello spazio destinato al garage. Nel pianterreno, oltre alla rimessa auto, c’è un alloggio di servizio ed il vestibolo da cui parte una scala ed una rampa. Il piano superiore contiene su tre lati l’appartamento e sul quarto un grande tetto-giardino, che viene così descritto dall’architetto: “Il vero giardino della casa non sarà sul suolo, ma al di sopra di esso a tre metri e cinquanta: questo sarà il giardino sospeso dove il suolo è secco e salubre, dal quale si vedrà tutto il paesaggio, assai meglio che non dal basso”3. La rampa porta dalla suddetta terrazza al piano di copertura della casa, dove si stagliano i corpi curvilinei del solarium e della scala. Quanto al rapporto con l’ambiente, Le Corbusier scrive: “la casa si poserà nel mezzo dell’erba come un oggetto”4, segno di un distacco con tutto ciò che la circonda. Tuttavia, se la scarna volumetria ed il freddo rapporto con la natura rientrano senza dubbio nell’intenzionalità dell’autore, alcuni aspetti particolari dell’opera trasformano ed arricchiscono i suoi lati schematici e programmatici. Per esempio, le quattro facce non 3 4

Ivi, p. 197. Ibidem.

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sono, come sembrano, tutte uguali fra loro: due di esse hanno i pilotis a filo di parete, mentre le altre due realizzano la vera e propria facciata libera. Inoltre c’è una ancora più precisa volontà conformatrice, data dalla posizione asimmetrica dei corpi sovrastanti l’edificio, che formano un gruppo a sé stante e conferiscono una nota di varietà ed ambiguità al tutto, così da rendere ogni visuale di prospetto diversa dall’altra. È presente anche una deroga al principio funzionalista per cui l’esterno dovrebbe rispecchiare fedelmente l’interno, in quanto la facciata corrispondente alla terrazza-giardino è simile alle altre. Tale inosservanza, cui forse un Gropius o un Mies Van der Rohe non avrebbero mai consentito, è la prova migliore del modo di progettare di Le Corbusier che procede per immagini. Secondo quest’ultimo, lo spazio architettonico interno ed esterno deve sì corrispondersi, ma non al punto da scompaginare un’immagine prefigurata, in nome non solo di una logica funzionale, ma anche in nome di una logica della fantasia. Mies Van Der Rohe (1886-1969) A differenza di Le Corbusier, Mies non ha lasciato molti scritti e non ha elaborato nessuna teoria o ‘testamento’, ma è certa la sua identificazione in una cultura ad impronta razionalista, che ricerca soluzioni chiare, precise, e che ritiene che l’essenza della realtà stia nella sua estrema purezza formale. Egli è considerato uno dei più strenui oppositori della complessità in architettura, per il fatto di aver passato la vita a togliere, semplificare, ridurre, discriminando l’essenziale dal superfluo con inflessibile rigore. Questo riduzionismo formale estremo tuttavia non ha mortificato l’intensità espressiva, ma l’ha concentrata in pochi punti fondamentali, fino ad un raffinato minimalismo. Secondo lui, una volta liberata da ogni preoccupazione descrittiva e narrativa, la sua architettura poteva essere il massimo della funzionalità e dell’aderenza alla destinazione d’uso: “Ambienti di lavoro luminosi, ampi, ordinati, non suddivisi, ma solo articolati come l’organismo dell’azienda. Massimo effetto col minimo spreco dei mezzi [...]. Le strutture in acciaio nella loro essenza sono strutture a scheletro [...] la costruzione ad armatura portante di una parete non portante. Dunque edifici pelle ed ossa”. Sono due i punti di questa frase da mettere in rilievo: 1.

2.

Massimo effetto col minimo spreco dei mezzi. Segna la nascita di un nuovo linguaggio espressivo, indica la ricerca di un essenziale universale ed indifferenziato, con una radicale riduzione di ogni carattere e di ogni tipicità; Edifìci pelle ed ossa. Dove la pelle è di vetro e le ossa di acciaio, a

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rappresentare un’architettura fragile come il vetro e forte come il ferro, che per la prima volta si propone orgogliosamente ed umilmente nella sua nudità. L’uso del vetro in senso strutturale, a sostituzione delle divisioni e dei tamponamenti esterni, costituisce un’innovazione assoluta, non solo dal punto di vista tecnologico, ma a livello concettuale, dato che sovverte il tradizionale rapporto pieno-vuoto, luce-ombra, quella tensione plastica sulla quale si è retto il linguaggio architettonico di tutti i tempi. Il vetro è illusione, astrazione, emozione, fantasia, crea immagini ingannatrici, genera una falsa realtà, rifrange e moltiplica specularmente la luce emanando leggerezza e spiritualità, realizza l’aspirazione alla continuità ed alla compenetrazione tra interno ed esterno. Mies è attratto dai grandi grattacieli in costruzione, da quegli scheletri strutturali che nella loro provvisoria ed incompiuta essenzialità lasciano leggere la genesi mentale del progetto: interessa più il viaggio che l’arrivo, più il processo generativo che il risultato, più il divenire che l’essere.

2. Il Postmodernismo Nascono negli anni Sessanta in Europa e in America, in antitesi ai principi del Funzionalismo, nuove ricerche architettoniche che vogliono nel complesso superare l’eccessivo rigore del razionalismo anche se battendo strade diverse. Da citare brevemente sono: −





le esperienze dell’architettura radicale collegate all’astratto e all’utopico: quella inglese di Archigram di P. Cook, che propone una nuova e megastrutturale forma di spazio architettonico di città fantascientifica, e quella italiana del Superstudio di A. Natalini, che è considerata da alcuni la ‘negazione’ dell’architettura del Movimento moderno; la mistificazione dei valori nella vita sociale comporta inevitabilmente l’impossibilità di una produzione artistica capace di rappresentare un significato, data la precarietà della sua situazione; la cultura dell’high tech, espressione di un’architettura straordinariamente tecnologica, che traspare, interagisce con l’esterno, è portatrice di messaggi metaforici, il cui esempio più significativo è il Centre Pompidou di Renzo Piano a Parigi; il postmodern, che rovescia il pensiero razionalista, considerando autonoma rispetto alla funzione, la forma architettonica dell’ambiente

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costruito, ed anche la tipologia delle architetture come non espressione della forma, reclamando all’architettura la valenza simbolica della storia; altri movimenti, che sono uno sviluppo dei precedenti, come il neorazionalismo, il decostruttivismo, il pluralismo moderno.

Il superamento del Movimento moderno tuttavia sembra espresso, prima che da queste esperienze, proprio da quei maestri, che ne erano stati i padri fondatori come il Le Corbusier o il Ludwig Mies Van der Rohe delle ultime opere, nelle quali alcuni critici hanno ravvisato, in quella forma così perfetta della simmetria e del ritmo compositivo, il linguaggio del neoclassicismo. Gli architetti moderni possono essere definiti tali in quanto hanno operato in una società di massa, in un mondo altamente industrializzato e in una cultura fortemente antistoricista. Tuttavia, il presente è irrimediabilmente legato al passato perciò per il progettista lo stacco da ciò che non è ‘adesso’ non esiste; la modernità non è una scelta stilistica, ma una condizione, perché le opere rispecchiano necessariamente l’epoca in cui hanno preso forma.

2.1 Il Postmodernismo: la storia Il crollo teorico dell’architettura del Movimento moderno ha portato a un’angosciosa ricerca del tempo perduto. Per alcuni anni abbiamo visto proliferare sforzi storiografici di tutti i tipi volti a ristabilire una sorta di codici obiettivi, transtorici in cui le tipologie e i modelli dovevano servire da fondamento sia per la conoscenza dei luoghi in cui si doveva operare, che come riferimenti a come avrebbe dovuto configurarsi la nuova costruzione. Questa recherche del tempo passato è la conseguenza di una mancanza della storia come realtà avvolgente in cui il soggetto si sente rassicurato e collegato ad un mondo più ampio e obiettivo. La recherche del passato è lo storicismo reazionario dell’architettura dell’identità e della differenza, comunemente chiamata postmoderna. Non deve stupire il fatto che nel campo della filosofia il problema dell’identità e della differenza sia stato uno dei temi che maggiormente ha richiamato l’attenzione del pensiero contemporaneo. Da Heiddeger a Derrida, ad Habermas a Vattimo, questo è un punto fondamentale direttamente legato al problema del soggetto e alla possibilità di fondamenta ontologiche nel pensiero postmoderno. ‘Ripetizione’ e ‘differenza’ nella recente architettura hanno significato problematicità costante per cui ogni nuova opera doveva inserirsi proprio nell’incrocio di questi due termini chiave opposti l’uno all’altro.

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L’architetto contemporaneo, nella sua solitudine si confronta individualmente con la storia: tramite l’analisi del luogo, della propria memoria, i suggerimenti autobiografici, egli troverà un simulacro di traccia a partire dalla quale stabilire quella differenza che aggiri la ripetizione, negherà il primato dell’originale in confronto alla “rimemorizzazione” della sua immagine (Deleuze). Il passato invece, che non può essere distrutto, demonizzato, diventa un serbatoio di elementi, di stilemi che può essere utile recuperare perché viviamo, vivevamo già allora, in una società del benessere, in una società che voleva rilassarsi e quindi non vivere nel culto dell’economia, della funzionalità come era quella di mezzo secolo prima, delle avanguardie pure e dure dei primi del Novecento; era arrivata l’ora di concedersi una distensione e quindi di scoprire che il passato aveva un suo fascino, nel momento in cui il passato ritornava grazie a tutte le immagini rese possibili dall’industria culturale: le dispense illustrate, i videodischi, i cd-rom. Per la rapidità sempre crescente con cui le idee si comunicano, ci si concentra sul dibattito teorico, più che sulla realizzazione pratica. Oggigiorno i valori risultano in qualche modo impoveriti da questa rapidità di diffusione e discussione delle idee, e a un certo livello questo diventa problematico. La realizzazione di un’opera di architettura non è solo il rapido trasmettersi di un’ idea, ma qualcosa che richiede anni di tempo e di energie e certo dura più del tempo necessario ad un’informazione per andare da un luogo all’altro. Il significato che assume ogni realizzazione in architettura deve andare al di là del tempo e dell’ideologia corrente. Dopo il secondo conflitto mondiale, nel generale senso di sfiducia verso quella civiltà che aveva portato guerra e distruzione, gli artisti non sentono più il bisogno di trasmettere al futuro ciò che producono, non vogliono più lasciare il segno del proprio operato, non vogliono più rispecchiare la società del loro tempo, perché troppo grandi sono state le atrocità che ha prodotto. Essi vogliono tornare alla ‘normalità’ delle tecniche dei mezzi espressivi del linguaggio visuale con i suoi elementi fondamentali. Il Postmoderno pertanto rifiuta il rigore e la purezza di forme che caratterizzavano l’architettura dei grandi maestri moderni (Le Corbusier, Gropius), riproponendo un deciso ritorno alla decorazione e alla ricerca di forme più libere. Charles Jencks, architetto paesaggista americano, noto per i suoi scritti su questo movimento5, vede l’architettura postmoderna come un “complesso fluire” di elementi e significati da precedenti elementi e significati che abbiano storiche motivazioni. Recentemente affermava: “In molti aspetti il Movimento moderno ha privilegiato la semplificazione innata nei suoi principi. 5

Uno dei più famosi è The Language of Post-Modern Architecture, New York 1977.

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Il postmodernismo è basato su una differente visione, che accorda cose che emergono da altre cose e questo processo è generalmente formulato sotto i termini di una complessa teoria [...] un’architettura della complessità basata su significati [...] socialmente e politicamente motivati”. Il libro di Charles Jencks, The language of postmodern architecture enuncia con sconcertante banalità, ma con risultati dirompenti nell’addormentato panorama della critica, la tesi di fondo di questo passaggio verso l’architettura e il design contemporanei: “postmoderno è tutto ciò che viene dopo il modernismo”. La cultura contemporanea ha ormai accettato la contraddizione come condizione esistenziale, in ogni settore si manifesta l’impossibilità di giungere ad una sintesi omnicomprensiva e perfetta della realtà, persino la matematica sembra aver perso le proprie fondamenta razionali, come emerge dal teorema di incompletezza di Godel. Nel contrapporsi alle esemplificazioni cui è giunto il movimento moderno (inteso ormai come pratica accettata e diffusa), il testo di Venturi (altro grande teorico del postmoderno), Complessità e contraddizione in architettura, se pur critico, si pone in una condizione di complementarità e di dialogo nei confronti dei maestri. Venturi va alla ricerca di elementi complessi e contraddittori anche all’interno delle opere prodotte dal movimento moderno, riconoscendo in tali contraddizioni il veicolo portatore di un sentimento poetico ed espressivo universale. Tale sentimento si manifesta da sempre, in ogni epoca, anche in architetture minori o spontanee, ed è l’espressione tipica di ogni fase di manierismo. Sin dal Cinquecento italiano, ogni autore cerca attraverso molti esempi di mostrare la propria idea di complessità e contraddizione in architettura. Il Movimento postmoderno nacque soprattutto nei paesi anglosassoni ed in special modo nell’America Settentrionale, dove i postmoderni si schierarono contro la rigidità degli assiomi del Movimento moderno, cercando un superamento di quell’ordine architettonico internazionale visto da taluni come disumano. L’artista pop inglese Peter Blake scrive un libro nel 1960 dal titolo provocatorio: La forma segue il fiasco, che parafrasa la celebre frase La forma segue la funzione (form follows function) attribuita a Louis Sullivan, che voleva la forma di ogni edificio come la diretta conseguenza della funzione che esso doveva svolgere. Il già citato Robert Venturi, pubblica nel 1972 Imparando da Las Vegas (Learning from Las Vegas), e specifica una alterazione del linguaggio della Pop Art con l’assunzione di elementi classici. In aperta disputa con le regole dell’lnternational Style conia il motto: “Meno è una noia” (Less is a bore), polemicamente ripreso dal celebre detto di Ludwig Mies Van der Rohe: “Meno è più” (Less is more). Dice in uno scritto: “L’architettura dovrebbe accordarsi con allusioni e simbolismi ed i suoi riferimenti dovreb-

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bero derivare da relazioni con il contesto sociale e storico degli edifici [...] io amo la complessità e la contraddizione in architettura”. Cade quindi anche un altro postulato modernista coniato da Adolf Loos: “ornamento è delitto”, che focalizzava la bellezza degli edifici nella loro forma strutturale e volumetrica e non nelle decorazioni che vi si applicavano. L’architetto americano Charles Jencks constata nel citato Linguaggio dell’architettura postmoderna la ricomparsa di un’architettura antropomorfica, che nasce dalla combinazione di classico e vernacolare. Quindi individua, addirittura, una data precisa di fine del Movimento moderno: il 15 luglio 1972, coincidente con la demolizione, per le sue condizioni di inabitabilità, di un quartiere costruito negli anni Cinquanta nella città di Saint Louis, nel rispetto degli indirizzi dei CIAM. Nel 1978 venne realizzata una delle opere più significative del postmoderno: Piazza Italia di Charles Moore (19251993), incaricato dalla comunità italo-americana di New Orleans di progettare uno spazio comunitario, che ricordasse le origini del gruppo sociale. Nell’opera v’è la citazione, il frammento storico, attraverso rielaborazione della fontana, struttura architettonica tipica dell’architettura italiana, dove alcuni hanno voluto anche rivedere una reinterpretazione della Fontana di Trevi. Appare poi il richiamo al particolare architettonico e ad un elemento storico, come il colonnato. La fontana infatti si svolge in altezza con una serie di cinque colonnati curvilinei ed autonomi, che costruiscono portici e nicchie seguendo la circolarità della piazza: ognuno di essi, posto ad altezza diversa rispetto agli altri, ridisegna un particolare e diverso ordine architettonico (Dorico, Tuscanico, Ionico, Corinzio e Composito), quasi un cammino dentro la storia. C’è infine il riferimento simbolico al tema: l’Italia, il cui stivale geografico forma una gradinata all’interno della fontana e diviene parte integrante e centrale della piazza. Alcuni non riconoscono pienamente Moore come architetto postmoderno; certo è comunque che quest’opera, pur riportando elementi tipici moderni come l’articolazione spaziale della piazza (due semicerchi sfalsati), rappresenta un superamento dei rigidi schemi dell’International Style.

2.2 Il Postmodernismo: gli autori Gehry (1929-) Gehry si pone fuori e contro il rigore formale ed etico dell’architettura del Movimento moderno. Le sue opere di maggior prestigio sono il Guggenheim Museum di Bilbao ed il Walt Disney Concert Hall di Los Angeles. Il museo, inaugurato il 18 ottobre 1997 da re Juan Carlos dopo quattro anni di

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lavori, sicuramente è l’architettura contemporanea più popolare, insieme al Sidney Opera House, ed è considerato un capolavoro dell’architettura del Novecento. È stato realizzato su 24.000 metri quadrati, in un’area che si affaccia sul fiume Nervión. Per la precisione, si erge massiccio e metallico sulla riva sinistra della Ria. La sua ambiguità formale – un po’ navetta spaziale, un po’ mostro onirico dalle scaglie lucenti – trasmette un’idea di libertà, di dialogo con la luce, con il vento, con il cielo. Non esiste la tirannia dell’iconicità; invece è chiaro il riscatto dall’oggettualità intesa come immobilità e staticità. È un’opera d’architettura che somiglia ad una scultura e ne ricerca gli stessi effetti plastici, anche se su scala gigantesca. Le forme acquisiscono autorevolezza e peculiarità anche grazie a questo sovradimensionamento. Inoltre, nel Guggenheim si rispecchia in modo manifesto la vocazione assemblativa e la poetica del riciclo dell’artista: l’uso del cheapscape è, secondo Gehry, culturalmente superiore a quello di materiali nuovi ed appositi; egli propende per il recupero di contesti degradati, senza che nulla motivi la mancata scelta di aree idonee, identificate appositamente come più rappresentative nel tessuto urbano. Esternamente la costruzione si presenta come un ammasso di blocchi che sembrano sbocciare come i petali di una rosa. Gran parte della superficie esterna è in titanio, accoppiato all’acciaio galvanizzato, mentre il rivestimento è in pietra, a cui si aggiunge il doppio cristallo termico delle vetrate. La superficie metallica ricurva crea incredibili giochi di riflessi ed ombre, che conferiscono all’edificio un aspetto sempre diverso al variare della luce. Caratteristiche, le sue geometrie arcuate, le prospettive sbilenche, le superfici apparentemente non finite. Sulla sponda del fiume le masse sinuose scendono gradatamente, insinuandosi sotto il ponte della Salve, aldilà di esso s’impennano a formare una sottile torre inclinata, in pietra. Caotico e complesso soltanto all’apparenza, l’edificio del Guggenheim Museum di Bilbao è estremamente funzionale. È disposto su tre livelli, più un ultimo di volumi tecnici per i sistemi di condizionamento, le torri di refrigerazione e gli impianti d’elevazione. Il tutto ruota attorno ad un atrio monumentale, che raggiunge i cinquanta metri d’altezza ed è coronato da una cupola di metallo, che si spalanca sul fiume con grandi vetrate. L’atrio è stato studiato per diffondere la luce del giorno nelle sale situate ai vari livelli. Da questo spazio si può accedere ad una terrazza, affacciata su un laghetto artificiale. Un sistema di corridoi, ascensori trasparenti, scale e passerelle sospese porta ai diversi piani ed alle gallerie. Alle spettacolari forme esteriori corrisponde, all’interno, un’architettura più neutra per facilitare la comprensione delle opere d’arte in mostra. Nove le sale ricavate negli spazi in pietra, dalla forma regolare. Dieci quelle realizzate negli spazi in titanio, dalla pianta più irregolare.

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II Walt Disney Concert Hall, sede della Filarmonica di Los Angeles, occupa una superficie di 75.000 mq, in cui sono dislocati una sala concerti da 2.380 posti, un parcheggio da 2.500 posti, uno spazio pre-concerto (per spettacoli organizzati e non), un gift shop, un ristorante ed un grande giardino. Ultimato nel 2003, tutto in acciaio inossidabile ed in calcare francese, si colloca all’interno della maglia regolare della città, ma subito la rompe ponendo gli ingressi, differenziati sia per forma che per funzione, sui quattro angoli, in diagonale invece che sugli assi principali. Come nel Guggenheim Museum di Bilbao, le forme non sono pure ed i materiali poveri, come quelli delle periferie urbane (ad esempio la rete metallica, la lamiera ondulata). Gehry così dimostra per l’ennesima volta di non aver paura di creare fratture o caos. L’opera è caratterizzata da molti ‘segni funzionali’, come il recinto che posteriormente racchiude la sala, il foyer aperto, il giardino accessibile, l’organizzazione della maglia strutturale, ecc. I vari blocchi funzionali sono assolutamente indipendenti dalla forma o dall’organizzazione spaziale e distributiva che assumono all’interno del complesso. A livello strutturale, l’edificio risulta dalla fusione di due sistemi costruttivi in contrapposizione: uno a maglia regolare con pilastri in cemento a passo costante e l’altro con setti portanti e pilastri posizionati in modo quasi imprevedibile. Alla stessa maniera, le vele aprono e frammentano il prospetto lungo le due vie principali, mentre sugli altri due lati si contrappone un basamento regolare fatto di mattoni, così da ottenere un senso di scollamento e di rottura. Un altro spunto suggerito dalla lettura delle piante è l’assoluta contraddizione tra la frammentarietà di tutto l’impianto e la purezza geometrica strutturale e funzionale della sala. Qui, infatti, la simmetria regna sovrana e l’organizzazione assiale, scandita dagli elementi della sala, inserisce il Walt Disney Concert Hall nella tipologia dei teatri a pianta centrale. Gli assi governano ogni cosa: l’organo, gli accessi, la distribuzione dei settori, ecc. L’ampio spazio è dominato dalla presenza di un organo, che sovrasta la sala in contrapposizione alle grandi aperture della parete opposta, le quali, insieme all’illuminazione naturale dall’alto, permettono l’uso della sala anche durante il giorno. Evidente il tentativo di integrazione dell’edificio con il tessuto della città, realizzato soprattutto grazie al foyer, l’ingresso principale aperto e permeabile del Walt Disney Concert Hall. Esso è disperso lungo la strada e rimane aperto anche durante il giorno; è utilizzato per conferenze e dibattiti legati agli spettacoli, per programmi educativi e per piccole improvvisazioni: proprio per questo è considerato il “soggiorno della città”, che amplia il ruolo sociale della musica e sollecita l’uso creativo del pubblico. Non è delimitato da pareti, ma da un susseguirsi interminabile di valenze architettoniche, con l’effetto creato dalla penetrazione della luce che muta momento dopo momento. Il

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rifiuto totale di qualsiasi forma razionale porta l’osservatore dal piano della prospettiva a quello della a-prospettiva. L’impressione iniziale può essere di disorientamento, ma subito ogni elemento si colloca entro un preciso schema distributivo. Sintetizzando, si può dire che l’involucro esterno è un momento dinamico della città che si rivolge al pubblico della strada per catturarlo e, con movimento centripeto, proiettarlo verso una sala costruita da solide certezze volumetriche. Parlando degli interni, sulla pavimentazione sono presenti percorsi a zig-zag, apparentemente casuali, abilmente privi d’ufficialità, che guidano il visitatore, attraverso una serie di colonne, in uno spazio puro ed ermetico dove domina la simmetria. Si va perciò da un’ambientazione vagamente urbana ad un interno perfetto: Gehry segue una poetica di divisione tra volumi chiusi e spazio permeabili. Johnson (1906-2005) Il caso di Johnson, noto per il suo uso del vetro, è particolare, poiché nel corso della sua lunga vita egli è passato indenne attraverso i vari movimenti architettonici del Novecento. Una ricerca continua lo ha visto assorbire e rielaborare gli stimoli più significativi delle correnti artistiche dello scorso secolo, alla luce di una cultura eclettica e mai provinciale. Negli anni Trenta si unì all’apprezzamento americano, ma anche internazionale, del minimalismo architettonico, ed in particolare del lavoro di Le Corbusier, Gropius e Mies van der Rohe. La Glass House, primo capolavoro costruito nella sua tenuta di New Caanan, era una struttura in vetro senza muri interni con al centro un grande camino in mattoni. L’impatto sul mondo dell’architettura fu immediato e Johnson cominciò ad ottenere una serie di commesse di grandissimo prestigio, che lo portarono alle grandi opere moderniste degli anni Cinquanta e Sessanta che ridisegnarono lo skyline di New York: il giardino interno del MoMA, la fontana centrale del Lincoln Plaza, il New York State Theatre. Johnson cominciò ad essere considerato il decano dell’architettura americana sin dagli anni Settanta. Delle grandi opere costruite insieme a John Burgee, molti considerano il suo capolavoro la Avery Fisher Hall (sede attuale della New York Philarmonic) e soprattutto la Cattedrale di Cristallo di Los Angeles, realizzata con oltre diecimila pannelli di vetro su una intelaiatura di cemento, terminata la quale dichiarò, con la solita volontà di spiazzare, che “aveva cominciato a provare odio e noia nei confronti del vetro”. È il periodo in cui iniziò a promuovere appassionatamente il decostruttivismo e sorprese nuovamente il mondo architettonico con il palazzo dell’AT & T di New York (1984), ora Sony Building, sul tetto del quale disegnò una forma ondulata che suggerisce in eguale misura la solidità classica di un tempio greco e l’idea di sinuosità.

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È un dato di fatto che il successo dell’architettura postmoderna negli Stati Uniti sia dovuto principalmente a questo progetto di Johnson. Robert Venturi (1925-) Complessità e contraddizione in architettura è il libro-manifesto dell’architettura postmoderna, scritto nel 1966 dallo statunitense Robert Venturi. Egli pensa che la contraddizione sia una condizione esistenziale, poiché in ogni settore si manifesta l’impossibilità di giungere ad una sintesi omnicomprensiva e perfetta della realtà. Seppur critico verso il Movimento moderno, del quale non accetta la perfezione, la simmetria armonica e l’essenzialità della funzione e della forma, si pone in una condizione di complementarietà e di dialogo nei confronti dei maestri. Venturi però rifiuta l’esemplificazione “less is more” di Mies, contrapponendogli “less is a bore” (il meno è una noia). L’architettura “... deve perseguire la difficile unità dell’inclusione piuttosto che la facile unità dell’esclusione. More is not less”6. Venturi, quindi, non rinuncia alla ricerca dell’unitarietà complessiva dell’opera architettonica e alla non frammentazione, ma si rende conto che la complessità nasce dall’accettazione dei problemi posti dalla realtà e dalla ricerca di una risposta che assecondi e moltiplichi le soluzioni. Il riduzionismo semplifica, ma allo stesso tempo deforma, quindi l’autore preferisce recuperare esperienze diverse, da assommare in costruzioni variabili, dinamiche, condizionate dal contesto. All’osservatore non è più data un’opera dal significato unico e compiuto, ma un oggetto dalle differenziate possibilità interpretative. L’ambiguità è una caratteristica fondamentale dell’espressione artistica ed è descrivibile dalla congiunzione ‘o’: in alcune opere, gli elementi costitutivi si basano sul paradosso insito nella percezione e nel processo di significazione (si pensi ad Escher), ossia generano una discrepanza fra fatto fisico ed elemento psichico. La contraddizione rispetto all’ambiguità crea un contrasto più netto, una tensione drammatica che si sintetizza attraverso la percezione simultanea di molteplici livelli. Un esempio è la casa Shodhan di Le Corbusier, che è chiusa e tuttavia è aperta. Ci sono anche altre categorie di contraddizione, come simmetrico e tuttavia asimmetrico, piccolo e tuttavia monumentale, frammentario e tuttavia fluido, duale e tuttavia unitario, centrale e tuttavia direzionato, ecc... Venturi tratta anche l’elemento convenzionale. L’architettura non è solo eccezionalità, anzi deve contenere l’oggetto banale, anonimo, commerciale, giacché è l’unico a disposizione nella realtà, in questa società: ecco il realismo di Venturi, il suo interesse per quello che è ordinario e popolare. Il 6

R. Venturi, Complessità e contraddizioni in architettura, Dedalo, Bari 1980.

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compito dell’architetto è utilizzarlo in modo complesso e contraddittorio al fine di ottenere un’unitarietà dell’insieme: l’architettura complessa e piena di compromessi deve perciò essere anche unitaria. Dopo decenni dominati dal Funzionalismo, si sviluppa un concetto costruttivo che mette nuovamente in primo piano la forma.

3. Reazioni al postmoderno in architettura Il Decostruttivismo è un movimento architettonico spesso contrapposto al movimento postmoderno. I suoi metodi in reazione al razionalismo vogliono de-costruire ciò che è costruito. Il teorico del Decostruttivismo è il filosofo francese Jacques Derrida e la nascita del fenomeno è avvenuta con una mostra organizzata a NewYork da Philip Johnson, nella quale per la prima volta appare il nome di questa tendenza architettonica rivoluzionaria, che fu definita Deconstructivist Architecture. Alla mostra del 1988 si esposero i progetti di Gehry, Libeskind, Koolhaas, Eisenman, Hadid, Tschumi e del gruppo Coop Himmelblau. In questa esposizione veniva estrapolata un’architettura senza geometria (la Geometria Euclidea), senza piani ed assi, con la mancanza di quelle strutture e particolari architettonici, che sono sempre stati visti come parte integrante di questa arte. Una ‘non architettura’, quindi, che si avvolgeva e svolgeva su se stessa con l’evidenza e la plasticità dei suoi volumi. La sintesi di ciò è una nuova visione dell’ambiente costruito e dello spazio architettonico, dove è il caos, se così si può dire, l’elemento ordinatore. Comune alla ricerca dei decostruttivisti è l’interesse per l’opera dei costruttivisti russi degli anni Venti che per primi hanno infranto l’unità, l’equilibrio e la gerarchia della composizione classica per creare una geometria instabile con forme pure disarticolate e decomposte. È questo il precedente storico di quella destabilizzazione della purezza formale che gli architetti decostruttivisti esasperano nelle loro opere, attuando così un completamento del radicalismo avanguardistico costruttivista. Da ciò scaturisce la cifra ‘de’ anteposta al termine costruttivismo, che sta a indicare la ‘deviazione’ dall’originaria corrente architettonica presa a riferimento. Il risultato formale sono volumi deformati, quasi post-atomici, tagli, asimmetrie, assenza di canoni estetici tradizionali. Dopo il periodo postmoderno, il decostruttivismo (per ironia, entrambi i movimenti seppur antitetici, sono stati promossi da Philip Johnson) riconduce la ricerca architettonica nel filone iniziato dal Movimento moderno. Alcuni critici ritengono, comunque, il decostruttivismo un esercizio puramente formale, dove sono assenti quei temi sociali che erano propri del Movimento moderno. Molti annoverano

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tra i maggiori architetti decostruttivisti Frank O. Gehry, noto per il Guggenheim museum di Bilbao, anche se Gehry stesso ha sempre dichiarato di non sentirsi decostruttivista. Il decostruttivismo è forse l’ultimo degli ‘stili internazionali’ in architettura. Nella prima metà degli anni Novanta, si registra una linea minimalista in controtendenza al dominante decostruttivismo. Lo testimonia nel 1992 la vittoria del progetto di Yusoke Fujiki al concorso avente per tema una casa senza stile, promosso dalla rivista Japan Architect. Nel 1995 Terence Riley organizza al MoMA la mostra Light Construction. C’è voglia di purezza, semplicità, semplificazione, e di reazione agli eccessi figurativi degli anni Ottanta per superare l’estetica della frammentazione, del caos, dei frattali. Tra i precursori della tendenza minimalista vi sono gli spagnoli Abalos e Herreros. Quarantenni, Abalos e Herreros hanno incontrato, nel corso della loro formazione universitaria, due figure contro le quali sono stati costretti a fare i conti: Aldo Rossi e Robert Venturi. Li accusano di aver tradito i valori disciplinari, nel paradossale tentativo di perseguirli attraverso l’ossessiva attenzione ai segni. L’architettura parlata, fondata sull’assoluto prevalere del significante, si è trasformata spesso in un’architettura di carta, piena di tensioni nostalgiche e pronta a precipitare nel titanismo alla Ben Hur di Leon Krier. Meglio, allora, rifiutare lo storicismo postmoderno e tornare al moderno, alla sua tradizione disciplinare, più poetica, meno autocommiserante, ma solo dopo averla vista con un occhio immorale, o, meglio, disincantato (cioè realmente postmoderno) che permette di sottrarre all’ansia modernista il suo substrato macchinista. Dal rifiuto del macchinismo deriva il sospetto per ogni concezione che vede l’edificio come un organismo in cui l’esterno riflette l’interno e viceversa. Gli oggetti della nostra società – pensiamo alla Twingo o a uno Swatch – rifuggono la profondità. Ecco allora il bisogno della ripresa di una tradizione che possiamo far risalire a Valéry, il quale sosteneva che ciò che è di più profondo è proprio la superficie, la pelle, o, se vogliamo, ai filosofi Rorty, Deleuze e Jamenson. Oppure, ancora, agli artisti del filone pop e minimalista, da Andy Warhol a Jeffrey Koons. La seconda conseguenza di un approccio modernista disincantato è il rifiuto del particolare ineffabile. Cioè dell’ansia di disegnare ogni dettaglio, sia pure il più insignificante. Gli architetti minimalisti sfruttano l’esperienza tecnologica che si accumula nel tempo lavorando with the intellectual and inventive energy of others; evitano l’ingenuità di dover ogni volta ripartire da zero. Pop – come diceva Andy Warhol – is liking things. Da qui anche l’accettazione del semplice e l’abolizione del complesso. D’altronde la nostra società moderna tende alla trasparenza, alla disapparizione, alla dematerializzazione, che in architettura si traduce in disin-

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canto verso lo spazio urbano, inteso, nella sua configurazione tradizionale. Che senso ha, infatti, progettare piazze, ispirate da modelli medioevali o rinascimentali, quando è mutato anzitutto l’uomo che tali spazi occupava? Nessuno, se non quello della regressione nostalgica. E, viceversa, che senso ha opporsi titanicamente a una società dei consumi di cui, nonostante tutto, divoriamo avidamente i prodotti? Nessuno, perché la battaglia è ipocrita e perdente. Ecco allora che emerge il bisogno di individuare una alternativa che si distacchi tanto dalla nostalgia passatista quanto dal ribellismo avanguardista. La filosofia di Richard Rorty, sostiene come sia possibile guadagnare frammenti di libertà individuale, pur all’interno dell’ideologia totalizzante della civiltà moderna, ma a condizione di perdere il mito della propria centralità, per acquisire dimensioni periferiche e laterali. In termini architettonici, ciò può essere fatto individuando all’interno dei luoghi del consumo, spazi di libertà e trasgressione – àreas de impunitad – dove prevalga la soggettività, contro i modelli egemonici e il carattere nomade e felicemente parassita del nostro ego, contro la forzata collettivizzazione dei gusti e delle intelligenze. La circolarità, l’approccio sistemico della realtà (a discapito di quello lineare causa-effetto) teorizzato dai postmoderni potrebbe qui avere piena attuazione.

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Teorie e Oggetti delle Scienze sociali

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Biografia, storia e società. L’uso delle storie di vita nelle scienze sociali, a cura di M. I. Macioti F. Ferrarotti, Max Weber. Fra nazionalismo e democrazia Vivere in società. Tendenze della teoria sociologica, a cura di L. Bovone e G. Rovati F. Montezemolo, Senza volto. L’etnicità e il genere nel movimento zapatista A. De Paz, Fotografia e società. Dalla sociologia per immagini al reportage contemporaneo D. Pitteri, Enunciato e testo. Differenze e affinità fra linguaggio scritto e linguaggio orale L. Guzzetti, La frode scientifica. Normatività e devianza nella scienza D. Bertasio, Solitudine e condivisione nell’arte R. Serpieri, Leadership senza gerarchia. Riflessioni sul management scolastico R. Cavallaro, La sociologia dei gruppi primari B. Spirito, L’individuo sociale Il Ministero Virtuale. La pubblica istruzione in rete, a cura di P. Landri e R. Serpieri A. Carlo, L’arte come dramma sociale Il malessere del Welfare, a cura di G. Vicarelli G. Baroni, A. Rondini, L’Orlando comprato. Manuale di Sociologia della Letteratura S. Tabboni, Lo straniero e l’altro Image Lab (a cura di), Comunicazione e brand: il caso di Piero Guidi C. Bordoni, Società digitali. Mutamento culturale e globalizzazione G. Cersosimo, Donne e alcol. L’equilibrio desiderato R. Cavallaro, Storie senza storia. Indagine sull’emarginazione calabrese in Gran Bretagna R. Rao, La costruzione sociale della fiducia. Elementi per una teoria della fiducia nei servizi W.E.W. Du Bois, Negri per sempre. L’identità nera tra costruzione della sociologia e “linea del colore” 24. A. De Simone, L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel 26. B. Spirito, Le gemelle dizigotiche. Introduzione alla conoscenza sociologica 27. I. Matteucci, Il postmoderno. La comunicazione, i luoghi, gli oggetti

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el panorama della postmodernità, dimensione culturale che caratterizza la nostra epoca, si delineano svariati scenari che rompono con i tradizionali modelli a cui la modernità ci aveva abituati. I caratteri assunti dai diversi oggetti della comunicazione esprimono appieno la complessità della cultura postmoderna. Sinergia tra arcaismo e tecnologia, pervasività del digitale, sviluppo di nuove forme di conversazione e di interazione in rete, riscrittura delle coordinate spazio-temporali, improbabili combinazioni di mondi reali e mondi fittizi, moltiplicazione delle identità, sono alcuni degli aspetti che questa opera cerca di analizzare, andando alle radici del pensiero postmoderno, per indagarne i fondamenti, e mostrandone anche gli effetti e i prodotti nei diversi ambiti della società. Con la postmodernità si inaugura una nuova estetica legata al ‘sentire’, le relazioni sociali appaiono ‘liquide’, le ‘scritture’ si destrutturano fortemente, i luoghi perdono consistenza e i tempi si frantumano, la realtà si smaterializza fino alla virtualità, gli ambienti urbani si ricompongono ‘citando’ il passato. Questo lavoro tenta di cogliere tutte queste trasformazioni e di interpretarle in maniera critica, offrendo un quadro della società contemporanea fortemente plasmata dalla cultura postmoderna.

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vana Matteucci è professore associato presso la Facoltà di Scienze motorie dell’Università di Urbino “Carlo Bo” dove insegna Sociologia della comunicazione. Presso la Facoltà di Sociologia insegna Sociologia della postmodernità. Ha curato la traduzione dell’opera Frame Analysis di Erving Goffman, e ha pubblicato La costruzione sociale della realtà. Da Goffman ai nuovi media. Ha scritto La comunicazione del benessere. I corpi e gli oggetti della postmodernità ed altri saggi sui temi delle immagini sociali del vivere sani e della rappresentazione sociale del benessere.

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