Il pessimismo tedesco dell'Ottocento. Schopenhauer, Hartmann, Bahnsen e Mainländer e i loro avversari 9788822114587, 8822114582


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Italian Pages 611 Year 1994

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Il pessimismo tedesco dell'Ottocento. Schopenhauer, Hartmann, Bahnsen e Mainländer e i loro avversari
 9788822114587, 8822114582

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GIUSEPPE INVERNIZZI

IL PESSIMISMO TEDESCO DELL'OTTOCENTO SCHOPENHAUER, HARTMANN, BAHNSEN E MAINLANDER E I LORO AWERSARI

LA NUOVA ITALIA EDITRICE FIRENZE

Invernizzi, Giuseppe

II pessimismo tedesco dell'Ottocento. (Pubblicazioni della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università degli Studi di Milano ; 157. Sezione di filosofia ; 23). ISBN 88-221-1458-2 1. Pessimismo - Filosofia tedesca I. Tit. 193

Proprietà letteraria riservata Printed in Italy © Copyright 1994 by « La Nuova Italia » Editrice, Firenze 1" edizione: giugno 1994

Alla memoria di mio fratello Dino

INDICE

P.

i 17

Gap. I

Gap. II

Gap. Ili

Gap. IV

IL PESSIMISMO DI SCHOPENHAUER

1. 2. 3. 4. 5.

La metafisica di Schopenhauer La dinamica del volere e il prevalere del dolore Il tempo e la teleologia La fondazione del pessimismo La negazione del volere

LA PRIMA DIFFUSIONE DEL PESSIMISMO DI SCHO­ PENHAUER 1. Il pessimismo di Schopenhauer nelle prime recensioni del « Mondo come volontà e rappresentazione » 2. La presenza del pensiero di Schopenhauer nella cultura tedesca fino alla pubblicazione dei « Parerga e paralipomena » 3. Il successo dei « Parerga e paralipomena » e la polemica sulla vita di Schopenhauer

19

19 24 29 32 37 44 44 49 53

IL PESSIMISMO NEI DISCEPOLI DI SCHOPENHAUER 1. I primi due discepoli di Schopenhauer: Dorguth e la conversio­ ne a Schopenhauer di Frauenstàdt 2. Frauenstàdt e il pessimismo 3. Frauenstàdt critico della psicologia e dell'etica di Scho­ penhauer 4. Gli altri discepoli di Schopenhauer: Lindner, Gwinner, Asher

71 74

LA LETTERATURA CRITICA SUL PESSIMISMO DI SCHO­ PENHAUER FINO AGLI ANNI SETTANTA 1. I caratteri generali del dibattito intorno a Schopenhauer 2. Gli hegeliani e il pessimismo di Schopenhauer 3. Il teismo speculativo ed il pessimismo di Schopenhauer

79 79 84 93

60 60 66

Vili

INDICE

4. Un discepolo di Baader ed uno di Herbart avversati di Schopenhauer: Hoffmann e Thilo 5. Alcune critiche « storiche » alla filosofia di Schopenhauer 6. I critici « da sinistra »: Feuerbach e Bùchner 7. Francesco De Sanctis

PARTE SECONDA TRE FILOSOFI PESSIMISTI: HARTMANN, Gap. V

Gap. VI

98 102 109 115

BAHNSEN E MAINLÀNDER

119

IL PROBLEMA DELL'INCONSCIO IN HARTMANN

121

1. I caratteri generali della filosofia di Hartmann 2. Le prove induttive dell'esistenza dell'inconscio: l'inconscio nei fenomeni corporei 3. Le prove induttive dell'esistenza dell'inconscio: l'inconscio nel­ lo spirito umano

LA METAFISICA DI HARTMANN

1. Il problema della materia 2. Natura e genesi della coscienza 3. La metafisica dell'inconscio: i rapporti con il teismo e la tradi­ zione filosofica 4. Il nesso fra volontà e idea nell'inconscio e il « monismo concre­ to »

121 126 136

144

144 148 153 160

169

Gap. VII

IL PESSIMISMO IN HARTMANN

1. Il problema del pessimismo 2. Il bilancio eudemonologico e la critica delle illusioni 3. La negazione del mondo e l'escatologia

169 173 182

Gap. Vili

L'ETICA DI HARTMANN 1. Il problema della morale e la libertà 2. Gli istinti morali, la critica all'egoismo e all'eteronomia 3. La morale della ragione e il finalismo cosmico

187 187 193 199

Gap. IX

LA METAFISICA DI BAHNSEN 1. Sviluppo e caratteri della filosofia di Bahnsen 2. L'ontologia e il concetto di volontà/forza 3. La causalità, lo spazio e il tempo come condizioni del plurali­ smo degli individui

206 206 214

Gap. X

LA CONTRADDIZIONE E IL NICHILISMO 1. La natura della contraddizione e la logica 2. Contraddizione ed esperienza 3. Il nichilismo

232 232 236 242

Gap. XI

ANTROPOLOGIA ED ETICA 1. Il destino dell'uomo 2. Il determinismo e la morale 3. La filosofia della storia e la politica

244 244 248 257

223

INDICE

Gap. XII

Gap. XIII

LA FILOSOFIA DELLA REDENZIONE DI MAINLÀNDER

1. 2. 3. 4.

La personalità di Mainlànder La teoria della conoscenza La metafisica e il suo rapporto con la tradizione religiosa Il mondo come la via di Dio verso il nulla

ETICA E FILOSOFIA DELLA STORIA

1. 2. 3. 4.

Il determinismo, l'antropologia, la psicologia La « dottrina della felicità » La negazione della volontà dal punto di vista cosmico-storico Il socialismo di Mainlànder

PARTE TERZA LA DISCUSSIONE SUL PESSIMISMO NEGLI ANNI Gap. XIV

Gap. XV

Gap. XVII

263

263 266 275 282

290

290 295 303 307

SETTANTA-OTTANTA

313

LA PRESENZA DELLA FILOSOFIA DI SCHOPENHAUER

315

1. La filosofìa di Schopenhauer negli anni della discussione sul pessimismo 2. Schopenhauer « philosophus christianissimus »: Deussen ed Herrig 3. Noiré e Bilharz

DISCUSSIONI INTORNO ALLA FILOSOFIA DELL'IN­ CONSCIO

1. Il metodo della «Filosofia dell'inconscio» nel giudizio dei con­ temporanei 2. L'inconscio nella corporeità e nella psicologia 3. La metafisica, la filosofia della natura e il problema della nasci­ ta della coscienza 4. Venetianer e Peters Gap. XVI

IX

L'IMPOSSIBILITÀ DEL PESSIMISMO METAFISICO E LE

315 323 330

336 336 348 356 371

TEODICEE ALTERNATIVE

376

1. Il concetto di pessimismo e i suoi possibili significati 2. Il problema della valutazione del mondo 3. Le critiche al pessimismo metafisico di Schopenhauer ed Hartmann 4. Le alternative al pessimismo metafìsico: tentativi di teodicee 5. La critica di Fechner al pessimismo e la sua teodicea

376 379

IL PROBLEMA DEL PESSIMISMO EMPIRICO 1. La concezione del piacere e la possibilità del bilancio eudemonologico 2. La teoria delle illusioni e leggi psicologiche gè letali del bilan­ cio eudemonologico 3. Il valore eudemonologico dei singoli beni 4. La religione di Hartmann e il suo bilancio eudemonologico 5. Il valore eudemonologico della morale

387 395 399 407 407 414 417 426 433

INDICE

X

Gap. XVIII L'ETICA DEL PESSIMISMO

1. Il nesso fra etica e felicità 2. La fondazione metafisica dell'etica, l'autonomia e la libertà

Gap. XIX

Gap. XX

Gap. XXI

DUHRING E DUBOC

439

439 452

460

1. Il problema del pessimismo in Dùhring 2. Il «bilancio eudemonologico» di Dùhring 3. L'ottimismo di Duboc

460 464 477

NIETZSCHE, HEINRICH VON STEIN E FERDINAND LABAN

482

1. Il pessimismo nelle prime due fasi del pensiero di Nietzsche 2. Nichilismo e pessimismo nell'ultimo Nietzsche 3. Due « discepoli » di Nietzsche: Stein e Laban

482 494 507

PESSIMISMO E SOCIETÀ

513

1. Il significato politico-culturale del pessimismo nel giudizio dei suoi critici 2. La revisione del giudizio sul significato politico-sociale della filosofia pessimistica

BIBLIOGRAFIA 1. Testi

2. Letteratura critica

INDICI DEI NOMI

513 524

531 531

572

595

INTRODUZIONE

« Quando nella seconda metà del secolo scorso rifiorì lo studio di Kant, specialmente nel decennio fra il 1870 e il 1880 due erano le questioni che, oltre al problema-Kant, richiamavano su di sé in modo esclusivo l'in­ teresse filosofico: la questione del materialismo e quella del pessimismo » (Vaihinger 1923, p. 162). In effetti nel decennio indicato da Vaihinger ma anche per buona parte del decennio successivo - due autori « pessimi­ sti » - Schopenhauer ed Hartmann - hanno goduto di una popolarità ec­ cezionale, testimoniata dal numero enorme di libri, saggi, articoli, recensio­ ni che li riguardano direttamente o che discutono del pessimismo in gene­ rale. Tuttavia mentre il neokantismo e il materialismo sono stati e sono ancora frequentemente studiati dalla storiografia filosofica e mentre i temi filosofici da essi discussi sono ancor oggi presenti nel dibattito filosofico, non altrettanto può dirsi del pessimismo: questo episodio della storia della filosofia tedesca, pur in presenza di un rinnovato interesse per il secondo Ottocento, non è stato più preso in considerazione nel suo complesso nep­ pure da un punto di vista storico 1 . 1 Gottfried 1957 è una ricostruzione d'insieme dell'atmosfera « pessimistica » dell'Europa del XIX secolo che tocca solo marginalmente i contenuti propriamente filosofici del problema (cfr. anche Gottfried 1973, che sostiene la classica tesi secondo cui la diffusione del pessimismo sarebbe stata una conseguenza del fallimento della rivoluzione del 1848). Schòmel 1985, pur offrendo parecchi spunti interessanti, selezio­ na solo alcuni degli autori coinvolti nel dibattito e, soprattutto, non si occupa delle reazioni e delle critiche al pessimismo. Altre indicazioni si possono trovare in alcuni studi dedicati prevalentemente alla fortuna di Schopenhauer nella letteratura del XIX secolo: Krauss 1931, Arnold 1933, Hof 1970, Sorg 1975. Il libro di Ludwig Marcuse (Marcuse 1953) è più una interpretazione della situazione culturale del secondo dopo­ guerra che un libro sul pessimismo « storico ». I lavori più completi rimangono quelli ottocenteschi: Plùmacher 1888, Jouvin 1892 e Sully 1891.

INTRODUZIONE

Non è possibile affrontare fenomeni culturali di questa ampiezza sen­ za abbozzarne preventivamente, almeno a grandi linee, i contorni. Appa­ rentemente, la cosiddetta Pessimismus-frage sembrerebbe ridursi alla Wirkungsgeschichte delle filosofie di Schopenhauer e di Hartmann giacché, come si è accennato, gran parte del dibattito sul pessimismo ruota intorno a questi autori. In realtà la Pessimismus-frage è al tempo stesso qualcosa di meno e qualcosa di più della storia della fortuna di queste due filosofie. Qualcosa di meno, perché certamente il pensiero di Schopenhauer non si esaurisce nel pessimismo: temi quali l'interpretazione fisiologica del kantismo, il primato della volontà nella coscienza, la critica della possibilità di una scienza della storia, rientrano solo marginalmente o non rientrano affatto nella questione del pessimismo, come è provato dal fatto che la filosofia di Schopenhauer è riuscita in qualche modo a sopravvivere al­ l'esaurirsi dell'interesse per il pessimismo 2 . Lo stesso discorso, seppure in misura minore, vale per Hartmann; certamente infatti questo autore rag­ giunge l'apice della fama con la sua opera più nota, la Filosofia dell'incon­ scio, in cui il pessimismo svolge un ruolo importantissimo. Ma si farebbe torto ad Hartmann se si ignorassero gli importanti stimoli che egli ha offer­ to anche in altre direzioni, a partire dal concetto di inconscio, per giungere alle monumentali opere storiche ed alla poderosa Kategorienlehre, uno degli ultimi monumenti dello Spàtidealismus^. Qualcosa di più, perché filosofi pessimisti non sono stati solo Schopenhauer ed Hartmann: benché non si possa parlare in senso proprio di una « scuola » schopenhaueriana né tanto meno di una scuola hartmanniana, vi sono parecchi altri autori che riprendono e sviluppano il pensiero di questi filosofi. Fra di essi particolare rilievo posseggono due figure che, pur influenzate in modo decisivo dal pensiero del « saggio di Francoforte », hanno sviluppato dei sistemi filosofici originali in cui il pessimismo occupa una posizione assolutamente centrale: Bahnsen e Mainlànder. 2 Non esiste a tutt'oggi un'opera che studi in tutti i suoi aspetti la presenza di Schopenhauer nella cultura filosofica a lui seguente •- lavoro la cui necessità Vaihinger sottolineava fin dal 1876 (Vaihinger 1876, p. 207 s.). A parte Salzsieder 1928, - che si limita alle esplicite riprese della filosofia di Schopenhauer (ma basta scorrere il libro, di per sé incompleto, per rendersi conto della complessità del problema) -, indicazioni interessanti si trovano in Hiibscher 1973 e in Spierling 1984. 3 Manca naturalmente anche un'indagine sistematica sulla fortuna della filosofia di Hartmann. Quasi tutte le opere che trattano del sorgere della psicanalisi contengono tuttavia delle pagine dedicate ad Hartmann. Sull'influenza di Hartmann su Scheler cfr. W. Hartmann 1956.

INTRODUZIONE

)

Inoltre il discorso intorno alla Pessimismus-Frage risulterebbe larga­ mente incompleto se non si prendessero in considerazione gli awersari e i critici dei pessimisti, coloro che in moltissimi saggi, recensioni o volumi hanno variamente ripreso i problemi posti dal pessimismo, mettendone in discussione l'impostazione e le soluzioni offerte o, in qualche caso, svilup­ pando nuove forme di ottimismo. Finora si sono delineati per così dire i contorni esterni della Pessimismus-Frage. Si tratta ora di compiere un ulteriore passo e caratterizzare il contenuto concettuale della questione e in particolare di circoscrivere il significato del concetto di pessimismo. Come avviene per molti concetti filosofici, anche di esso è difficile dare una definizione che possa abbraccia­ re le molteplici valenze con le quali esso è stato impiegato, pur nell'arco di tempo relativamente limitato che qui interessa. Per offrire comunque un orientamento generale e al tempo stesso per sottrarsi all'onere di sempre problematiche definizioni, si può seguire la via di indicare in qualche mi­ sura rapsodicamente le tesi più caratteristiche sostenute dagli autori che si consideravano pessimisti 4 . Si può indicare come uno dei caratteri più generali dell'atteggiamento pessimistico una valutazione negativa della realtà nel suo complesso o quanto meno - di alcuni dei suoi aspetti più rilevanti per la vita dell'uomo. Questo atteggiamento si esprime in molte forme: uno dei motivi più ricor­ renti è la tesi che l'uomo è infelice, che il vivere da luogo inevitabilmente ad un sovrappiù di dolore, non compensato o giustificato da un aldilà consolatorc; se la felicità è il fine della vita umana, se ne ricava che la vita è senza scopo e senza senso. D'altra parte tale infelicità non dipende dalle particolari condizioni storiche o sociali in cui l'uomo si trova a vivere: benché alcuni dei pessimisti ammettano la possibilità di un progresso scientifico, tecnico, politico e sociale, e benché Hartmann e Mainlànder ritengano dovere per l'uomo dedicarsi ad esso con tutte le sue forze, i pessimisti sono concordi nel ritenere che tale progresso non possa mutare sostanzialmente la condizione umana e, anzi, quando realizzato, non possa che far risaltare con maggiore chiarezza la strutturale impossibilità per l'uomo di raggiungere la felicità. 4 Definizioni formali si possono naturalmente trovare nei vari lessici, dizionari, enciclopedie. Particolarmente pregevole è V. Gerhardt 1989. Si veda però anche il bril­ lante saggio che costituisce la voce « Pessimismus » in Mauthner 1923, voi. II, pp. 460502. Stàglich 1951, offre invece tutte le indicazioni necessarie per ricostruire la storia del termine pessimismo. Non mancano tentativi di utilizzare il concetto di pessimismo an­ che in riferimento ad epoche storiche diverse da quelle in cui esso si è affermato, cfr. ad es. Diels 1921.

4

INTRODUZIONE

In alcuni casi a questi tesi si accompagna un giudizio profondamente negativo sulla natura umana, cui si attribuiscono come caratteri dominanti l'egoismo, la rozzezza, l'insensibilità, l'inesauribile brama di denaro, piace­ re, potere. A questa antropologia si associa frequentemente la convinzione dell'impossibilità di un significativo innalzamento morale dell'uomo, con­ vinzione che si collega da una parte al determinismo sostenuto dalla mag­ gior parte dei pessimisti, dall'altra alla tesi secondo cui l'agire dell'uomo dipende dal suo carattere, considerato per lo più immutabile o modifi­ cabile in misura relativamente modesta. Spesso inoltre l'agire etico non viene considerato un valore in sé, ma solo nella misura in cui, muovendo l'uomo all'ascesi o all'impegno per il progresso, rende possibile il raggiun­ gimento della liberazione dall'esistenza, indipendentemente dal fatto che essa si compia a livello individuale (Schopenhauer) o a livello cosmico (Hartmamr). In vario modo queste tesi mettono capo a metafisiche ateistiche o per lo meno antiteistiche che vedono la realtà nel suo complesso come qualco­ sa di irrazionale, di ateleologico, frutto di un principio - la volontà - esso stesso irrazionale; la « creazione » del mondo è considerata come un erro­ re, una colpa commessa da tale principio, che può essere espiata dall'uomo solo attraverso l'annichilimento del mondo stesso, annichilimento che co­ stituisce il « fine » cui l'umanità deve aspirare. Tutto ciò si riassume nel principio secondo cui il non-essere è migliore dell'essere, un principio che è la radicale negazione del principio omne ens, in quantum ens, est bonum, condiviso da gran parte della filosofia occidentale. Il valore negativo che il pessimismo attribuisce ai vari aspetti della realtà dipende sempre, più o meno esplicitamente, dalla constatazione della inadeguatezza del mondo rispetto a ciò che si vorrebbe fosse, ad un dover essere che si constata non realizzato e non realizzabile: implicitamen­ te si presuppone sempre che il mondo dovrebbe consentire la felicità del­ l'uomo, il suo innalzamento morale, il raggiungimento della perfezione in­ dividuale e sociale, che dovrebbe rendere possibile l'eliminazione della sofferenza, che dovrebbe essere razionale, finalisticamente organizzato, privo di enigmaticità e di mistero. Questa esigenza di una corrispondenza fra quanto la ragione umana chiede e l'uomo concreto desidera e ciò che esiste o può realizzarsi, appare costituire l'elemento che lega specificamente il pessimismo ad una parte importante della tradizione filosofica, di cui per molti aspetti costituisce una contestazione. Il presupposto qui operante infatti sta alla base anche di quelle dottrine filosofiche che costituiscono i principali bersagli della pole-

INTRODUZIONE

5

mica pessimista: l'idealismo e il teismo. Anche tali filosofie pensano che la realtà debba essere qualcosa di comprensibile in termini razionali, che la vita dell'uomo debba avere un senso, che la storia debba realizzare un fine; solo che - a differenza dei pessimisti - ritengono che queste esigenze pos­ sano trovare soddisfazione. In quest'ottica, se le varie teodicee devono es­ sere viste come tentativi più sofisticati di riaffermare contro la realtà del male la validità del presupposto indicato in precedenza, si può anche dire che il pessimismo si configura come una globale contestazione di ogni ten­ tativo di teodicea, come il rifiuto di accettare qualsiasi giustificazione del­ l'esistenza del male 5 . La discussione di tali problemi speculativi occupa però solo una parte del dibattito intorno al pessimismo; infatti, benché tutti i pessimisti in un modo o nell'altro giungano a qualche forma di metafisica, il loro punto di partenza è sempre costituito dalla constatazione - o dalla dimostrazione della verità empirica del pessimismo. A questo scopo essi hanno sviluppato una specifica psicologia volontaristica e si sono impegnati in estese e spesso spregiudicate fenomenologie della « condizione umana », intese a mostrare la mancanza di valore della vita umana e la sua strutturale infelicità 6. L'im­ mediata presa di questi temi, la forma accessibile in cui essi sono stati trattati sono certamente all'origine del successo del pessimismo presso il pubblico, successo che in qualche misura condiziona la forma assunta da tutto il dibattito. Si ha infatti spesso l'impressione che i vari filosofi « di professione » appartenenti alla diverse scuole - teisti, hegeliani, herbartiani, neokantiani, teologici cattolici e protestanti - si sentano trascinati nella discussione di temi che essi erano soliti affrontare in modo meno diretto e comunque all'interno di più complesse costruzioni teoriche. Non può essere messo in dubbio che, da questo punto di vista, il presentarsi sulla scena filosofica del pessimismo abbia esercitato una rilevante funzio­ ne di stimolo in un ambiente filosofico in profonda crisi, diviso fra il culto del proprio passato e lo scientistico rifiuto della filosofia. Questa osservazione rimanda immediatamente ad un altro elemento che caratterizza la storia del pessimismo ottocentesco: con l'eccezione di Schopenhauer, che per un certo periodo fu almeno nominalmente libero 5 In proposito utilissimo è l'ampio Billicsich 1936, che non casualmente, nel terzo volume, dedica molto spazio a Schopenhauer, Hartmann e Nietzsche e a molti degli autori coinvolti nella Pessimismus-Frage. 6 Una tarda ripresa di questo pessimismo empirico è offerta da Kowalewski 1904, che sviluppa un'analisi piuttosto sofisticata, attraverso interviste di studenti e ragazzi, del modo in cui sono percepiti e ricordati i piaceri e i dolori.

6

INTRODUZIONE

docente a Berlino, tutti i pessimisti operano fuori dall'università. Il loro successo in misura determinante non è decretato dall'accademia, dalla « corporazione » filosofica, ma dal pubblico. La vicenda del pessimismo appare riproporre all'interno della cultura filosofica tedesca del secondo Ottocento qualcosa di simile a quel dualismo fra filosofia accademica e filosofia « popolare » caratteristico del periodo illuministico. Peraltro bisogna subito dire che l'aggettivo « popolare » viene riferito a vari tipi di produzioni filosofiche, non sempre nettamente distinte dalla filosofia accademica. In primo luogo vengono denominate « popolari » tutte quelle pubbli­ cazioni - non rare in quegli anni - mediante le quali gli « accademici » si propongono di diffondere fra il « grande pubblico » le loro idee oppure di « orientarlo » circa le questioni fondamentali. Si tratta di scritti in cui in modo programmatico un'esaustiva ed approfondita discussione dei vari problemi è sacrificata alla semplicità ed alla facilità di lettura: spesso in modo esplicito si rimanda il lettore per ulterióri approfondimenti alle cor­ rispondenti « opere scientifiche ». « Popolari » sono anche definiti gli articoli e i saggi che vengono pub­ blicati sui sempre più numerosi periodici non specialistici, sulle pagine culturali dei quotidiani, i cui autori sono spesso gli stessi professori di filosofia ma anche e soprattutto giornalisti o personaggi esterni all'accade­ mia, in genere inclini ad un atteggiamento critico nei confronti della Zunft filosofica. Questo genere di pubblicistica, sebbene non strutturalmente contrapposta alla produzione accademica, è in genere guardata con un misto di sospetto e timore da parte degli accademici, combattuti fra la tendenza a servirsi di essa per diffondere il proprio pensiero e il timore di vedere condizionato dall'esterno, da parte del potere della stampa, lo svol­ gersi del dibattito filosofico intraccademico. È poi in genere considerata appartenente al genere « popolare » la galassia dei pamphlet, dei « Programmi » delle varie scuole superiori, dei libri di filosofia - talvolta anche ponderosi - i cui autori sono dilettanti, intellettuali o filosofi comunque estranei alla vita universitaria. Benché queste pubblicazioni siano dirette più o meno esplicitamente al « grande pubblico » (visto non di rado come il tribunale d'appello cui ricorrere dopo la condanna in primo grado da parte del tribunale dell'università), esse non sempre hanno o quanto meno intendono avere il carattere di «popolarità» nel senso sopra chiarito. La denominazione di «popolare» in questi casi viene attribuita a tali scritti dai filosofi di professione con una connotazione esplicitamente negativa per indicare il loro modesto valore

INTRODUZIONE

7

scientifico. Solo nei confronti di questo genere di filosofia popolare la filo­ sofia accademica si pone dichiaratamente in un rapporto polemico, specie quando esso ottiene il favore del pubblico, come nel caso del materialismo e del pessimismo. Il problema si pone in modo particolarmente acuto perché in questi anni sembra aver luogo un graduale processo di scollamento fra pubblico e filosofia accademica: le questioni che essa tratta interessano poco, mentre altri autori non accademici passano di ristampa in ristampa, sono annun­ ciati, recensiti, discussi su riviste e giornali, diffondendo tra il pubblico idee considerate in generale perniciose e pericolose. Se non si tien conto di questa situazione, non si comprende perché nel caso che qui interessa - il pessimismo sia stato combattuto con tanta tenacia e in molti casi con tanto livore. Parimenti risulterebbe inspiegabile il costante interessamento per il pessimismo da parte di teologi, ma anche da parte di semplici pastori e sacerdoti. Anch'essi non si sarebbero sentiti in dovere di attaccare in modo così insistente il pessimismo, se avessero visto in esso solo uno dei tanti sistemi filosofici destinati ad esercitare la loro influenza solo all'interno di una ristretta cerchia accademica e non qualcosa in grado di mettere in crisi la fede cristiana di gruppi considere­ voli di persone. In prima istanza dunque la discussione intorno al pessimismo può es­ sere vista come un confronto-scontro fra filosofia accademica e filosofia «popolare» (il che non esclude naturalmente che anche nell'ambito della filosofia « popolare » vi siano stati molti autori avversi al pessimismo). In quest'ottica il pessimismo deve essere considerato come un fenomeno co­ munque relativamente ristretto, giacché va da sé che anche la filosofia po­ polare deve essere pensata come un tipo di produzione letteraria che coin­ volge una parte tutto sommato limitata della società tedesca, essenzialmente quelle classi medio-alte cui era possibile partecipare alla vita culturale del­ l'epoca, o attivamente, scrivendo e pubblicando libri, articoli, recensioni (gli « intellettuali »), o passivamente, acquistando e leggendo libri e riviste. Ovviamente inoltre fra costoro quelli che si interessavano della filosofia - anche di quella « popolare » - costituivano di nuovo una minoranza. Da un punto di vista dell'indagine storica la determinazione dei carat­ teri e dell'estensione di quella che si potrebbe chiamare la « partecipazione attiva » al dibattito intorno alla filosofia pessimistica non presenta partico­ lari difficoltà: è sufficiente considerare gli scritti che implicitamente o espli­ citamente fanno riferimento ai filosofi pessimisti. A tal fine tuttavia è indi­ spensabile almeno in prima istanza evitare di « selezionare » i vari autori,

8

INTRODUZIONE

decidendo aprioristicamente quali di essi siano i più significati, anche se questo rende necessario lunghe e spesso poco produttive letture: in molti casi infatti proprio gli autori meno originali offrono indicazioni decisive su importanti aspetti della questione. Circa la diffusione della filosofia pessimistica bisogna comunque evi­ tare di cadere nell'errore di sopravvalutare le dimensioni relative del feno­ meno, come se, nei vent'anni in cui più vivace fu il dibattito attorno al pessimismo, tutti gli intellettuali tedeschi non abbiano fatto altro che pen­ sare e scrivere intorno al pessimismo. Sarebbe assolutamente fuorviante, dal punto di vista complessivo della storia della filosofia, parlare di un'età del pessimismo nello stesso senso in cui si parla di un'età dell'idealismo o del positivismo, così come non si può dire che Schopenhauer o Hartmann abbiano dominato per un certo periodo la cultura filosofica nel modo in cui ciò era avvenuto a suo tempo con Kant o Hegel. Il pessimismo è un fenomeno culturale importante che richiama su di sé l'interesse di molti filosofi, ma non egemonizza e riorienta l'intera riflessione filosofica di que­ gli anni. Anche a prescindere dal relativamente autonomo procedere della filosofia accademica (sono gli anni in cui si va consolidando il neokanti­ smo), a fianco e talora in interconnessione con il pessimismo vengono di­ battuti ampiamente anche temi diversi, quali il darwinismo e il mate­ rialismo (in proposito è sufficiente ricordare il quasi contemporaneo tra­ volgente successo delle opere di Haeckel e di Strauss): la PessimismusFrage è la storia di una rilevante parte della filosofia extraccademica e del modo di rapportarsi ad essa da parte della filosofia accademica nella secon­ da metà dell'Ottocento, ma non è certamente la storia di tutta la filosofia tedesca del secondo Ottocento. Lo studio delle posizioni filosofiche dei pessimisti e soprattutto delle critiche dei loro awersari offre comunque uno spaccato molto interessante del livello « medio » di una parte considerevole del dibattito filosofico te­ desco di questo periodo. Che le opere dei pessimisti - per quanto nel complesso non sfigurino affatto di fronte a molta della produzione filoso­ fica « scientifica » dell'epoca - non siano in generale di un livello filosofico particolarmente elevato è ai nostri occhi del tutto evidente e del resto la storia ha da tempo fatto di esse giustizia. Quello che in qualche modo sorprende è l'impegno e la serietà con cui i loro awersari in molti casi discutono i problemi da essi sollevati e spesso risolti in modo avventuroso. Vien spontaneo domandarsi come mai la filosofia ufficiale tedesca, consi­ derata in grado pochi decenni prima di innalzarsi al livello eccelso della filosofia idealista, sia così improvvisamente decaduta e imbarbarita. Quasi

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inevitabilmente sorge il sospetto che molte ricostruzioni della filosofia del primo Ottocento siano in qualche modo « idealizzate », che la costante attenzione dedicata alle figure più significative di quel periodo abbia per certi aspetti finito per presentare un'immagine distorta e troppo positiva della realtà filosofica di quegli anni - ma questa è evidentemente nulla più che un'ipotesi. Bisogna poi considerare che il dibattito teorico intorno al pessimismo è pesantemente condizionato da evidenti e costanti preoccupazioni « ideologiche », che si manifestano nell'« imperativo categorico » di combattere comunque quelle posizioni che apparivano mettere in discussione in un modo o nell'altro il sistema dei valori tradizionali, la moralità, gli « ideali », la dedizione allo stato, l'adesione alla Chiesa, motivi che si presentano con un conformismo impressionante fra gli avversar! del pessimismo e - in modo sorprendente - fra gli stessi pessimisti. Da questo punto di vista la Pessimismus-Frage è anche un illuminante documento del modo di conce­ pire la filosofia e la sua funzione da parte di una « classe » di intellettuali che avevano assunto ormai una consolidata posizione e un ruolo ben pre­ ciso all'interno della società dell'epoca. Questo discorso conduce ad affrontare il problema degli almeno po­ tenziali fruitori di questo intenso dibattito: il pubblico, cioè i soggetti di quella che si potrebbe denominare « partecipazione passiva » alla Pessimismus-Frage. Come indicatore della diffusione della filosofia pessimistica si dispone di fatto di un solo dato oggettivo: il successo editoriale delle varie opere pessimistiche o antipessimistiche. Ma tale dato ha un valore solo indicativo, giacché è evidentemente impossibile stabilire se un libro acquistato sia sta­ to poi effettivamente letto, come è altrettanto impossibile sapere di quale tipo sia stata la lettura eventualmente compiuta. Per avere indicazioni sulla qualità di tale diffusione bisogna invece rifarsi sempre a fonti indirette, vale a dire alle testimonianze dei pessimisti e dei loro awersari. Ora, al di là di un certo accordo su alcuni motivi caratteristici, queste testimonianze sono spesso generiche, contraddittorie, fortemente condizionate dalla specifica posizione assunta dal loro autore nei confronti del pessimismo. Ci si trova così nella spiacevole situazione di mancare di dati precisi proprio riguardo alla questione per molti aspetti decisiva, quella cioè della reale incidenza della filosofia pessimistica nella società della Germania del secondo Ottocento. In questo ambito il discor­ so deve farsi di necessità estremamente prudente, per quanto intellettual­ mente insoddisfacente sia il rinunciare a conclusioni definitive.

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La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che accanto alla letteratura specificamente filosofica relativa al pessimismo esiste una copiosa produzione letteraria - specialmente poetica -, che in varie forme possiede dei caratteri che possono essere qualificati come pessimistici 7 . Oltre a raccolte di poesie ed aforismi dichiaratamente pessimisti 8, si posso­ no ricordare fra gli esponenti più significativi di questa letteratura Eduard Grisebach (1845-1906), Robert Hamerling (1830-1889), Friedrich Hebbel (1813-1863), Paul Heyse (1830-1914), Heinrich Leuthold (1827-1879), Hieronymus Lorm (1821-1901), Alfred Meissner (1822-1885), Wilhelm Raabe (1831-1910), Friedrich Spielhagen (1829-1911), Adolf Willbrandt (1823-1876). Per alcuni di questi autori è documentabile un preciso rap­ porto con la filosofia pessimistica, e quindi-le loro opere possono essere considerate documenti della fortuna del pessimismo 9. Un problema diverso è posto poi da quegli autori per i quali non è possibile fissare alcun nesso certo fra il loro pessimismo e quello filosofico. Accanto ad essi vanno poste anche altre figure per le quali invece è senz'altro da escludersi un influsso anche indiretto della filosofia pessimi­ stica, ad esempio Georg Bùchner (1813-1837), Christhian Dietrich Grabbe (1801-1836), Franz Grillparzer (1791-1872), Heinrich Heine (1797-1856), Nikolaus Lenau (1802-1850). Le opere di questi autori provano in modo indiscutibile l'esistenza di una Stimmung pessimistica indipendente dalla 7 Significativamente Mittner intitola una delle parti della sua storia della letteratu­ ra tedesca relativa al secondo Ottocento «Pessimismo e "Realpolitik" (1850-1890) » (Mittner 1978, voi. Ili, 1, 2, p. 579). 8 Cfr. Fereus 1877, Kemmer 1884, Lanzky 1887 (in quest'autore [1852-1940] è però predominante l'influsso di Nietzsche che frequentò nel 1884-1887). Un curioso esempio di reazione a questa letteratura è offerto da Maercker 1874, una sorta di ode, scritta per celebrare la fondazione della Società filosofica di Berlino, uno dei centri culturali più ostili al pessimismo. 9 II rapporto di questi autori con la filosofìa pessimistica e in particolare con Schopenhauer è già stato sufficientemente indagato e quindi non sarà ripreso in questo lavoro se non nel caso di autori come Hamerling e Lorm che hanno affiancato alle loro opere poetiche una produzione filosofica in senso proprio. Cfr. i già citati Krauss 1931, Arnold 1933, Hof 1970, Sorg 1975. Un caso particolare è costituito dall'influente forma di pessimismo sviluppata da Wagner. Nonostante la copiosa attività letteraria esplicata da Wagner, è impossibile i fissare termini del suo pessimismo facendo riferimento ai suoi scritti « filosofici », giacché in essi la presenza della filosofia di Schopenhauer è assai limitata. Si tratterebbe quindi di prendere in esame il pessimismo che si manifesta nelle sue opere musicali, con tutti i problemi che questo comporta. Si è quindi deciso di non dedicare a Wagner una trattazione analitica, limitandosi ad accennare alla sua po-^ sizione nell'ambito del capitolo su Nietzsche. Anche in questo caso del resto si dispone in Sans 1969 di uno studio completo ed aggiornato sulla questione.

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diffusione della filosofia pessimistica. Anche numerose altre testimonianze dell'epoca - molte delle quali contenute negli autori che partecipano alla Pessimismus-Frage - confermano questo fenomeno, parlando tra l'altro di un pessimismo delle classi inferiori, certamente escluse dalla fruizione delle opere filosofiche e in buona parte anche di quelle letterarie. Si deve quindi assumere che il pessimismo - qui evidentemente il termine va assunto con un significato quanto mai generale - sia stato almeno per una sua parte considerevole un fenomeno indipendente dalle forme più elevate della cultura 10. Non è compito di un'indagine che ha il suo centro il pessimismo filosofico studiare le ragioni storico-sociali del sorgere di una tale Stimmung u . Quello che qui interessa e che riconduce il discorso al tema dell'ampiezza del successo del pessimismo è invece il problema del nesso esistente fra questo pessimismo «di massa» e quello filosofico. La filosofia pessimistica è stata, per dirla con Hegel, «lo spirito del proprio tempo appreso in con­ cetti», oppure è stata un'effimera «filosofia alla moda», in generica conso­ nanza con l'« atmosfera spirituale » dell'epoca? Essa ha espresso davvero quella Stimmung pessimistica, o è stato un fenomeno di superficie, nato dal desiderio di un nuovo pubblico di avere a disposizione una filosofia facile, « leggibile » e, specie nel caso di Schopenhauer, non priva di valore lette­ rario? Si tratta insomma di decidere se in questo caso si può applicare la classica ipotesi marxiana dell'esistenza di un legame organico fra struttura e sovrastruttura, considerando la filosofia pessimistica come espressione di tale sovrastruttura, o se invece i caratteri della filosofia pessimistica rendo­ no impossibile o quanto meno bisognoso di limitazioni e correzioni l'im­ piego di questo schema. Per concludere, qualche indicazione circa il modo in cui è organizzato il libro. 10 Qualche autore, ad esempio Gottfried 1957, considera la Stimmung pessimistica addirittura come un fenomeno europeo e non solo specificamente tedesco. Una consi­ derazione analitica dei particolari caratteri assunti dal fenomeno dei vari paesi e del ruolo svolto in esso dalla filosofia pessimistica - in particolare dal pensiero di Scho­ penhauer - amplierebbe tuttavia eccessivamente il campo di indagine. In quanto segue - salvo pochissime eccezioni - ci si è conscguentemente limitati a considerare il pessimi­ smo tedesco, il che tra l'altro è reso possibile dal fatto che i corrispondenti sviluppi all'estero non sembrano mai aver influenzato in modo significativo le vicende interne alla Germania. 11 Ciò non esclude che in più occasioni si riferirà delle interpretazioni che i filosofi pessimisti e i loro awersari hanno dato delle possibili cause generali della Stimmung pessimistica.

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La prima parte studia gli sviluppi della filosofia pessimistica all'incirca fino al 1870 ed ha al suo centro le figura di Schopenhauer. Il primo capi­ tolo è ovviamente dedicato alla sua filosofia; in esso non si è proceduto ad un'esposizione dettagliata di tutte le parti del sistema - largamente noto -, ma ci si è limitati ad indicarne le linee fondamenti per concentrarsi subito sul suo pessimismo. Si è anche rinunciato ad una discussione della lettera­ tura critica più recente, per non anticipare molti dei temi che sono affron­ tati nei capitoli seguenti, dove spesso le critiche relative al pessimismo schopenhaueriano si inquadrano in interpretazioni complessive del suo pensiero. Questi scritti - troppo spesso considerati aprioristicamente «in­ vecchiati» - sviluppano quasi tutte le possibilità interpretative offerte dalla filosofìa schopenhaueriana, fra cui non poche di quelle sviluppate negli ultimi anni. I capitoli secondo, terzo e quarto trattano degli sviluppi del pessimi­ smo dalla pubblicazione del Mondo (1819) fino all'apparire della Filosofia dell'inconscio di Hartmann (1869). Il periodo preso in esame copre quindi l'arco di tempo che va all'incirca dagli anni immediatamente seguenti al congresso di Vienna fino alla unificazione della Germania. Il capitolo se­ condo studia la presenza della filosofia di Schopenhauer nella cultura tede­ sca approssimativamente fino al momento della sua affermazione, agli inizi degli anni cinquanta, il capitolo terzo considera l'atteggiamento assunto nei confronti del pessimismo da parte dei più immediati discepoli di Schopenhauer e in particolare da Frauenstàdt, mentre il lungo capitolo quarto si riferisce al periodo 1850-1870 e affronta la prima fase della di­ scussione intorno al pessimismo, ancora specificamente legata alla figura di Schopenhauer e al complesso della sua filosofia. La seconda parte è costituita in sostanza da tre piccole monografie che hanno per oggetto le figure di Hartmann (capp. V-VIII), di Bahnsen (capp. IX-XI) e di Mainlànder (capp. XII-XIII). In questo caso si è rite­ nuto utile dare un quadro più dettagliato dei sistemi filosofici di questi autori, non solo perché le loro filosofie, a differenza di quella di Schopenhauer, sono pochissimo note, ma anche perché - soprattutto nel caso di Bahnsen e di Mainlànder - il pessimismo è una componente così essenziale del loro pensiero, che risulta praticamente impossibile isolarlo dal resto. La terza ed ultima parte ha per oggetto la Pessimismus-Frage vera e propria, vale a dire il dibattito intorno al pessimismo svoltosi negli anni 70-80. Benché questa discussione abbia indiscutibilmente al suo centro la

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filosofia di Hartmann, sussiste ancora un vivo interesse per Schopenhauer, la cui filosofia è costantemente ripresa in monografie, saggi ed articoli belletristici ed è spesso contrapposta - in senso talvolta positivo, talvolta negativo - a quella di Hartmann. Poiché ormai il problema del pessimismo è considerato in modo indipendente dalla specifica angolazione nella quale si presenta in Schopenhauer ed è quindi sganciato dal complesso della sua filosofia, per concludere il discorso iniziato nella prima parte, è parso utile dare un cenno in uno specifico capitolo (cap. XIV) dei contributi più signi­ ficativi relativi alla filosofia di Schopenhauer nel suo complesso, capitolo nel quale sono fra l'altro considerate le figure di tre « discepoli » di Schopenhauer della seconda generazione, vale a dire Deussen, Bilharz e Noiré. Il capitolo quindicesimo costituisce in qualche misura il pendant di quello dedicato alla filosofia di Schopenhauer, giacché offre una rassegna degli atteggiamenti assunti nei confronti del sistema filosofico di Hartmann. Esso è reso necessario dal fatto che la discussione intorno al pessimismo passa attraverso tre fasi distinte, in una successione approssi­ mativamente cronologica; dapprima, sotto l'impressione del successo della filosofia dell'inconscio e seguendo ancora quella che si ritiene essere l'impostazione data da Schopenhauer al problema, il pessimismo di Hartmann è considerato prevalentemente nella sua dimensione metafisica, come una dottrina che trova la sua fondazione e il suo coronamento nella dottrina dei principi di Hartmann. Il riconoscimento dei limiti del sistema di Hartmann apre un'altra fase in cui prevale l'interesse per il pessimismo empirico, vale a dire per la « dimostrazione » della prevalenza del dolore sul piacere nella vita dell'uo­ mo - il famoso « bilancio eudemonologico » di Hartmann. Ad essa fa se­ guito un ultimo sviluppo - cronologicamente abbastanza ben delimitato che inizia con la pubblicazione da parte di Hartmann della fenome­ nologia della coscienza morale (1879); il problema dominante, anche se non mancano riprese dei temi del pessimismo metafisico ed empirico, di­ viene quello della possibilità di sviluppare un'etica fondandosi sui presup­ posti del pessimismo, e, in particolare, sul rifiuto di qualsiasi forma di eudemonismo. I capitoli iniziali della terza parte sviluppano questo schema: al capi­ tolo quindicesimo che, come accennato, prende in esame le critiche rivolte alla filosofia di Hartmann nel suo complesso, segue un capitolo dedicato al pessimismo metafisico, in cui fra l'altro si parla anche dei rinnovati tenta­ tivi di teodicee apparse in quegli anni e dell'originale ottimismo di Fechner

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(cap. XVI). Nel lungo capitolo diciassettesimo si affrontano le complicate discussioni relative al pessimismo empirico e, infine, nel capitolo diciotte­ simo si tratta del dibattito apertosi intorno all'etica del pessimismo. In questi tre capitoli il materiale è organizzato in funzione dei proble­ mi via via affrontati, cosicché i singoli autori sono chiamati spesso in causa a più riprese con un procedimento che, se per un verso consente di orientarsi in una discussione svoltasi naturalmente in modo disordinato ed anar­ chico, per l'altro rende arduo in qualche caso seguire la specifica prospet­ tiva in cui ogni autore si accosta al problema del pessimismo. Tale proce­ dimento consente però di evitare troppe ripetizioni e di non far crescere oltre ogni ragionevole misura la mole del volume. I capitoli diciannovesimo e ventesimo si occupano monograficamente di un gruppo di autori che con un grado di indipendenza maggiore hanno ripensato il problema del pessimismo. Al centro del primo di essi si trova la figura di Dùhring. Egli, nel quadro di un'insistita sottolineatura del si­ gnificato politico-sociale del pessimismo, delinea una visione « eroica » della vita la quale dovrebbe costituire un superamento del pessimismo in senso ottimistico. II capitolo ventesimo è invece dedicato in misura predominante a Nietzsche, la cui filosofia, al pari di quella di Dùhring, offre un altro superamento del pessimismo, reinterpretato insieme al nichilismo come categoria storica caratteristica della decadenza della civiltà occidentale. Accanto a Nietzsche sono discusse le posizioni di Stein e Laban, che si ricollegano, specie il secondo, alla filosofia di Nietzsche. Il capitolo conclusivo infine affronta specificamente il tema del rap­ porto fra pessimismo e società su cui si è insistito in questa introduzione: esso riassume e approfondisce le posizioni via via assunte dai vari autori e propone un'interpretazione complessiva del problema. Un cenno infine alla bibliografia. Essa è divisa in due parti: la prima registra i titoli degli autori coinvolti direttamente nel dibattito sul pessimi­ smo. Questa bibliografia, per quanto vasta, non pretende in alcun modo di essere completa. In questo senso essa non aspira a sostituire i lavori bibliografici di Laban, Plùmacher, Stàglich e Hùbscher. In essa sono stati inclusi anche dei titoli che non riguardano direttamente il pessimismo, ma che sono stati utilizzati per definire la posizione filosofica complessiva dei vari autori. La seconda parte della bibliografia è costituita dalla cosiddetta « letteratura critica »: in essa sono registrati, oltre ai titoli concernenti il pessimismo apparsi dopo il 1900 (tuttavia i titoli degli autori che hanno partecipato direttamente al dibattito sul pessimismo, anche se apparsi

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dopo il 1900, sono indicati nella prima sezione), anche gli altri lavori di carattere più generale che sono utili per approfondire i caratteri di questo periodo della storia della filosofia o i temi teorici affrontati nell'ambito della discussione intorno al pessimismo. Nel licenziare per la stampa questo volume, sento particolarmente il dovere di esprimere la mia gratitudine al prof. Arrigo Pacchi e al prof. Mario Dal Fra, che hanno seguito pazientemente la lunga elaborazione di questo lavoro, senza purtroppo poterne vedere la conclusione. Un partico­ lare ringraziamento è dovuto inoltre al prof. Enrico Rambaldi, che lo ha voluto presentare alla collana della Facoltà, e al prof. Giovanni Orlandi che, in quanto responsabile della collana stessa, si è assunto l'onere di seguire le varie fasi della stampa. Ovviamente la pubblicazione non sareb­ be stata possibile se i membri della commissione scientifica della Facoltà non avessero benevolmente giudicato meritevole di stampa questo lavoro. Ad essi e in particolare al rappresentante del Dipartimento di Filosofia, prof. Giovanni Piana, va la mia profonda gratitudine. Devo ringraziare inoltre il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Milano che ha finanziato una serie di missioni di studio in varie biblioteche tedesche e austriache (Amburgo, Bochum, Francoforte, Heidelberg, Erlangen, Norimberga, Vienna), e la Facoltà di Lettere e Filosofia che mi ha consentito di trascorrere un anno di congedo a Monaco di Baviera e, da ultimo, si è fatta carico delle spese di pubblicazione. Mi è impossibile ricordare tutte le persone che in vario modo hanno aiutato o agevolato la mia ricerca; non posso però non ringraziare i dott. Mare Fòcking (Berlino) e Florian Neumann (Francoforte) che mi hanno messo a disposizione la loro competenza e il loro tempo e per alcune ricer­ che bibliografiche particolarmente complesse.

PARTE PRIMA

IL PESSIMISMO FINO AL 1870

1. IL PESSIMISMO DI SCHOPENHAUER

1. LA METAFISICA DI SCHOPENHAUER.

Il tema del pessimismo fa il suo ingresso nel dibattito filosofico con l'opera di Arthur Schopenhauer. Nessun pessimista e nessun avversario del pessimismo mancherà di rifarsi in positivo o in negativo alla filosofia del « saggio di Francoforte »*. Benché Schopenhauer sia ben cosciente dello specifico carattere pessimistico della sua filosofia e di come esso ponga il suo pensiero in opposizione alla maggior parte delle altre filosofie (N, p. 143 = p. 213 e PP I, p. 141 = p. 191), bisogna rilevare che egli non indi­ vidua ancora nel pessimismo uno specifico campo d'indagine o una speci­ fica tesi da dimostrare sistematicamente: il suo pessimismo - o, meglio, quello che in seguito sarà considerato il suo pessimismo - risulta da alcune tesi centrali della sua filosofia, ma anche da una serie di analisi e punti di 1 Le vicende biografiche di Schopenhauer sono abbastanza note; è quindi suffi­ ciente richiamarne i dati fondamentali. Schopenhauer nasce a Danzica nel 1788 da un commerciante più che benestante, aperto alla cultura illuministica e di sentimenti repub­ blicani, che intende avviare il figlio alla stessa professione. In questa prospettiva durante l'infanzia e la giovinezza Schopenhauer viene fatto soggiornare a lungo all'estero (Fran­ cia ed Inghilterra) ed accompagna i genitori in numerosi viaggi, il che gli consente di acquisire un'ottima conoscenza sia dell'inglese che del francese. Trasferitosi con la fami­ glia ad Amburgo, solo dopo la morte del padre - forse suicida - avvenuta nel 1805, può dedicarsi agli studi. I beni lasciati in eredità consentono alla famiglia di vivere abbastan­ za agiatamente di rendita. La madre fissa la, sua residenza a Weimar dove apre un salotto frequentato fra gli altri da Goethe con il quale Schopenhauer entrerà più tardi in stretti rapporti. Sorge tuttavia presto un grave conflitto fra madre e figlio che porterà ad un'in­ sanabile rottura. Schopenhauer, dopo un'intensa preparazione privata, si iscrive nel 1809 all'università di Gottinga; dapprima si dedica agli studi di medicina poi, sotto l'influsso di Schulze-Enesidemo, alla filosofia. Nel 1811 si trasferisce a Berlino, dove può

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vista particolari, che spesso si rifanno a prospettive autonome o addirittura contrastanti. È così difficile ricondurre interamente la sua posizione ad uno degli specifici tipi di pessimismo che solo in seguito verranno definiti con precisione (metafisico, eudemonologico etc.). Egli in sostanza raccoglie un ricco materiale che toccherà agli autori seguenti reinterpretare ed elaborare sistematicamente. Del resto è spesso l'esistenza di varie e talora discordanti possibilità interpretative a garantire la vitalità del pensiero di ogni filosofo importante. Ad una lettura superficiale il pessimismo schopenhaueriano sembra essere la diretta conseguenza della sua metafisica che si presenta come una radicale antitesi della filosofia hegeliana: al posto di un principio razionale che si esplica teleologicamente nella natura e nella storia, Schopenhauer pone il principio irrazionale ed ateleologico della volontà che si manifesta senza regole e senza scopo nella realtà, nella quale, per di più, la fenome­ nicità del tempo rende impensabile qualsiasi sviluppo. Questo sembrerebbe suggerire un'esposizione di tipo « deduttivo » che mostrasse quale valore - negativo - assumono in quest'ottica la natura, la storia e, soprattutto, l'uomo. Un tal modo di procedere è tuttavia reso problematico da una più attenta considerazione della natura della metafi­ sica schopenhaueriana, cui è necessario dare un cenno. seguire fra gli altri Schleiermacher e Fichte, dai quali - specie dal secondo - rimane profondamente deluso. Ottenuta nel 1813 la laurea in absentia dall'università di Jena con la dissertazione La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, continua privatamente i suoi studi, dapprima collaborando con Goethe alla teoria dei colori (frut­ to di questi studi è il saggio La vista e i colori od 1816), poi dedicandosi interamente alla stesura del suo capolavoro // mondo come volontà e rappresentazione, portato a compi­ mento a Dresda nel 1818 e pubblicato nel dicembre dello stesso anno con la data del 1819. Dopo un primo viaggio in Italia, Schopenhauer nel 1820 inizia a Berlino la carrie­ ra accademica come Privat-Dozent. Le sue lezioni, per le quali Schopenhauer sceglie lo stesso orario delle lezioni tenute da Hegel, vanno praticamente deserte e Schopenhauer, dopo un secondo viaggio in Italia, decide nel 1831 di lasciare Berlino per trasferirsi a Francoforte dove rimarrà fino alla morte. Nel 1836 pubblica La volontà della natura e nel 1838-40 partecipa a due concorsi banditi rispettivamente dalla Reale società delle Scienze di Norvegia e dalla Reale società delle Scienze di Danimarca: ottiene il primo premio nel primo concorso, ma non nel secondo. Pubblica insieme i due saggi con il titolo / due problemi fondamentali dell'etica (1841). Nonostante l'insuccesso della sua opera, riesce a convincere l'editore Brockhaus a pubblicare una seconda edizione del Mondo, cui sono aggiunti dei Supplementi di estensione quasi pari al primo volume. Nel 1851 esce la sua ultima opera, i Parerga e paralipomena, che schiudono a Schopenhauer la via del successo. Circondato da un numero crescente di discepoli ed estimatori Scho­ penhauer muore nel 1860. Sulla biografia di Schopenhauer cfr. in particolare Hùbscher 1952 e 1973 e Safranski 1987. Per una visione d'insieme della ormai sterminata biblio­ grafia cfr. Hiibscher 1981 e gli aggiornamenti annuali sullo SJ.

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Nel primo libro del Mondo Schopenhauer muove da un'impostazione rigorosamente idealistica, espressa nella proposizione che apre l'opera: « il mondo è mia rappresentazione ». Il mondo empirico non è costituito dalla realtà in sé delle cose, ma dalle rappresentazioni che l'uomo ha in sé in quanto soggetto conoscente: esistere ed essere rappresentato sono da que­ sto punto di vista espressioni equivalenti (W I, pp. 3-5 = pp. 29-31). Ri­ chiamandosi a Kant, Schopenhauer afferma inoltre che le cose, nel divenire oggetti per un soggetto, assumono le forme a priori che si trovano in que­ st'ultimo, vale a dire lo spazio, il tempo e la causalità (l'unica categoria kantiana che viene salvata, reinterpretata come una facoltà dell'intelletto operante già a livello dell'intuizione) 2. Conseguenza di queste tesi è il ca­ rattere inevitabilmente condizionato del sapere rappresentativo, che quindi non consente di giungere a ciò che sta dietro ai fenomeni. Quello che per Schopenhauer è il problema fondamentale lasciato insoluto dalla filosofia kantiana - la determinazione della natura della cosa in sé - non potrà mai essere risolto facendo ricorso al sapere rappresentativo ed alle sue forme. Esiste tuttavia per Schopenhauer un fenomeno con caratteri peculiari che consente, per così dire, di aprire una breccia nella barriera della rap­ presentazione e di giungere alla cosa in sé: il nostro corpo. Noi conosciamo ogni suo atto dall'esterno, come un oggetto fra gli oggetti, ma conosciamo tali atti anche dall'interno, nell'autocoscienza, e qui li cogliamo come atti della nostra volontà. Ogni atto del corpo è il rendersi visibile, l'« oggettità » della nostra volontà. D'altra parte non solo gli atti del corpo, ma anche ciò che ne è condizione, cioè le sue varie parti e il corpo stesso in generale, deve essere una manifestazione della volontà. Si deve allora dire che la volontà è l'essenza del corpo, ovvero, in termini kantiani, che la volontà è ciò che appare nel corpo, la cosa in sé. Il nesso corpo-volontà diviene così la chiave per comprendere l'intima natura della realtà: infatti anche per gli altri esseri che noi conosciamo soltanto come rappresentazio­ ni si deve supporre per analogia una costituzione analoga a quella dell'uo­ mo (W I, pp. 118-126 = pp. 152-161). L'aposteriori presente nelle rappresentazioni - in ultima analisi le varie forze che agiscono su di noi - deve essere reinterpretato in base all'identità fra cosa in sé e volontà raggiunta mediante l'analisi della corporeità. Così la conoscenza della cosa in sé, benché sia data nel modo più immediato e più 2 W I, pp. 9-15 = pp. 36-42. Sul rapporto fra la « filosofia trascendentale » schopenhaueriana e quella kantiana cfr. soprattutto la nota « Critica della filosofia kantiana » in W I, pp. 491-609 = pp. 539-660.

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esauriente nell'autocoscienza, si completa e si arricchisce anche mediante lo studio della natura, quindi per via oggettiva 3 . Bisogna infatti tener presente - e questo punto è della massima importanza per la filosofia di Schopenhauer - che i fenomeni non sono qualcosa di separato dalla volontà, quasi fossero creature dotate di un'esistenza autonoma, ma sono la volontà stessa nel suo manifestarsi, nel suo divenire oggetto della rappresentazione. D'altra parte Schopenhauer assume assiomaticamente che spazio, tempo e causalità, in quanto forme soggettive del conoscere, necessaria­ mente non toccano all'in sé della realtà, alla volontà. Essa quindi è fuori dal tempo, dallo spazio e dalla causalità, è una ed immobile. Si tratta però di un'unità non numerica, ma metafisica e ciò consente a Schopenhauer di sostenere che essa è interamente presente in ogni fenomeno (W I, p. 151 s. = p. 187 s.). Questo vale tanto per i fenomeni empirici quanto per quelle forme immediate dell'oggettivarsi della volontà che sono le idee, che Scho­ penhauer, riferendosi a Fiatone, considera le forme, i modelli atemporali delle cose, le quali, entrando nello spazio e nel tempo, danno origine alla molteplicità degli individui (W I, pp. 199-217 = pp. 237-256). Tale modo d'intendere il nesso fra la cosa in sé e il fenomeno chiarisce anche il senso in cui per Schopenhauer si può parlare della volontà come cosa in sé. Egli infatti, restando fedele alle sue premesse fenomenistiche, sa bene che anche l'identità corpo-volontà, da un punto di vista strettamente gnoseologico, non ci porta al di là del sapere rappresentativo, e che quindi la volontà non può essere conosciuta nel suo in sé: in quanto conosciuta, per definizione essa è conosciuta come fenomeno, giacché non si sottrae alla relazione soggetto-oggetto e rimane soggetta quanto meno alla forma della temporalità: « essa è... una cosa in sé soltanto relativa, cioè nel suo rapporto con il fenomeno » 4 . La volontà-cosa in sé di Schopenhauer non è dunque l'Assoluto, il che solleva Schopenhauer dall'onere di dover dare una risposta a molti problemi caratteristici delle filosofie idealistiche come e perché l'Assoluto si fenomenizzi, che cosa sia l'Assoluto prima o 3 Alla questione è dedicato tematicamente lo scritto La volontà nella natura. Que­ sta prospettiva si esprime nella tesi secondo cui «microcosmo e macrocosmo si spiegano a vicenda e, una volta spiegati, risultano sostanzialmente la stessa cosa» (PP II, p. 20 = p. 31). Essa corregge almeno in parte il sostanziale antropocentrismo (o antropomorfi­ smo) della filosofia schopenhaueriana, secondo cui la vera comprensione della realtà si raggiunge non trattando l'uomo come un microcosmo, bensì l'universo come un macantropo (cfr. W II, p. 739 = p. 784). 4 GBr, p. 290 s. Qui Schopenhauer polemizza con Frauenstadt. Sulla vexata quaestio della conoscibilità della cosa in sé e sui problemi ad essa collegati, sulla quale tornerà tante volte in seguito la critica, ci permettiamo di rinviare a Invernizzi 1984.

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dopo il suo fenomenizzarsi, come possa rimanere uno nel molteplice, per­ ché non si arresti, nel suo fenomenizzarsi, al mondo ideale. Questi proble­ mi sono francamente dichiarati da Schopenhauer come irrisoluti e irreso­ lubili nell'ambito della sua filosofia 5 . Tutto ciò che si può dire riguardo alla volontà nel suo essere in sé si limita ad una sorta di teologia negativa, che consiste, come si è visto, nel negare ad essa le forme che sono caratteristi­ che del mondo fenomenico. In che senso allora si può continuare a chiamare metafisica (« metafi­ sica immanente ») la filosofia di Schopenhauer, se essa programmatica­ mente non vuole andare al di là dell'esperienza? Che cosa essa aggiunge alla conoscenza scientifica del mondo che rimane nell'ambito del fenome­ nico? Benché Schopenhauer non si soffermi molto sul particolare statuto della sua filosofia, è abbastanza chiaro che essa deve essere vista come una metafisica nel senso che essa sviluppa un'interpretazione complessiva della realtà, procede ad una sua « decifrazione », si configura insomma come una sorta di « ermeneutica generale » del mondo 6. Ciò che essa vuoi mo­ strare è che, se si vuoi comprendere il senso della realtà, se ci si vuole rapportare in modo corretto ad essa, tale realtà va vista come espressione di qualcosa di analogo a ciò che sperimentiamo in noi come volontà. Po­ nendosi in questa prospettiva si penetra nell'« enigma » (Ràtsel) del mon­ do, si coglie il suo significato (Deutung) e, di conseguenza, ci si pone nelle condizioni di comprendere il senso dell'esistenza umana (W I, pp. 507,113 = pp. 555, 113). Di qui la denominazione apparentemente paradossale di « scienza empirica » che Schopenhauer attribuisce alla sua metafisica: essa è empirica perché non va al di là del dato, del fenomeno, ma rimane me­ tafisica perché tratta del senso complessivo della realtà (W II, p. 204 = p. 223). Con questo è evidente che la sua filosofia lascia aperto lo spazio per un'ipotetica trascendenza in senso tradizionale, la cui possibilità non può essere in alcun modo negata, ma che per definizione si sottrae del tutto alla conoscenza 7 . 5 Cfr. il noto capitolo conclusivo del Mondo (« Epifilosofia »), W II, pp. 736-742 = pp. 781-788 e le numerose professioni di « scetticismo » nelle lettere, GBr, pp. 217 s., 286, 288 s., 290 s. 6 Per l'espressione « decifrazione » (Entzifferung) cfr. W II, p. 202 = p. 222. Della filosofia di Schopenhauer come ermeneutica generale parla anche Spierling 1984, p. 59. 7 Non si può tuttavia sostenere che Schopenhauer rimanga sempre fedele a questa prospettiva: in qualche caso egli sembra indubbiamente piegare verso una forma siste­ matica vicina a quella dei sistemi idealistici - si pensi in particolare alla filosofia della natura -, il che spiega e in qualche misura giustifica i fraintendimenti dei critici ed anche dei discepoli.

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2. LA DINAMICA DEL VOLERE E IL PREVALERE DEL DOLORE.

Se questa è la natura della metafisica schopenhaueriana, nell'affronta­ re il tema del pessimismo risulta più conveniente o - comunque - più utile per comprendere adeguatamente la posizione di Schopenhauer procedere per così dire induttivamente, considerare cioè gli elementi « pessimistici » sui quali Schopenhauer si basa per sviluppare la sua visione complessiva della realtà. Il primo e probabilmente più rilevante dato su cui si fonda il pessimi­ smo schopenhaueriano è costituito dall'interpretazione che egli offre della dinamica del volere. Anche in questo caso, in conformità con il doppio percorso che Scho­ penhauer segue per giungere a determinare l'essenza della realtà, il modo di esplicarsi della volontà può essere considerato o dal punto di vista oggettivo (della natura) o dal punto di vista soggettivo (psicologico). Dal primo punto di vista, secondo Schopenhauer la natura si presenta come un infinito tendere (Streben), ovvero come una gradazione di forze gravita, elasticità, chimismo ecc. - che culminano nella forza vitale, la quale sta alla base degli organismi viventi 8. Si può quindi dire che la volontà vuole soprattutto ed essenzialmente la vita, al punto che Schopenhauer considera pleonastico determinare ulteriormente la volontà come volontà di vita (W I, p. 324 = p. 366). La vita è vista come un continuo scambio di materia - immediato o mediato - fra gli organismi e il mondo inorganico (PP II, p. 173 = p. 211). Il mantenimento della vita è quindi reso possibile da un continuo ed inces­ sante soddisfacimento di bisogni, cosicché la volontà di vita si rivela come una generale tendenza alla soddisfazione di bisogni (W I, p. 385 = p. 430, e PP II, p. 306 = p. 376). Dal punto di vista soggettivo il bisogno e la sua (eventuale) soddisfa­ zione si traducono nei sentimenti di piacere e dolore, che sono propri degli animali e dell'uomo - gli unici a possedere la sensibilità. Considerato che nell'uomo, grazie allo sviluppo più completo dell'apparato conoscitivo, la percezione del piacere e del dolore avviene in modo di gran lunga più chiaro, e considerato infine che solo nell'uomo questi sentimenti ci sono direttamente accessibili, l'analisi della dinamica dolore-piacere viene con­ dotta facendo esclusivo riferimento ad esso, tanto più che « ciascuno ritro-

8 Sul finalismo apparentemente implicito in questa posizione cfr. sotto.

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vera facilmente nella vita dell'animale le stesse condizioni, soltanto più de­ boli, espresse in gradi diversi » (WI,p. 366 = p. 410, e W I, p. 339 = p. 382). Ogni bisogno, ogni mancanza è percepito come dolore e sofferenza. La volizione è pensabile solo in presenza di un bisogno: « la base di ogni volere è bisogno, ossia dolore, a cui l'uomo è vincolato dall'origine, per natura » (W I, p. 367 = p. 412). In questo contesto Schopenhauer avanza la tesi del carattere negativo del piacere: « qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suoi chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre negativo, e mai positivo » (W I, p. 376 = p. 421). Con ciò Scho­ penhauer non vuoi dire - cosa di cui molti critici poi lo accuseranno - che l'uomo non provi piacere nella soddisfazione di un bisogno. Il piacere è una realtà negativa in primo luogo perché può aver luogo solo dopo che si sia avvertito un bisogno, una sofferenza, come è provato dal fatto che molti « beni» - ad esempio la salute, la giovinezza, la libertà - non sono ricono­ sciuti come tali, non danno luogo a piacere, finché non li si ha perduti e quindi se ne avverte la mancanza (W I, p. 377 = p. 421, W II, p. 660 = p. 701). Inoltre il piacere non rappresenta un punto d'arrivo, in quanto la volontà, per sua natura, si rivolge immediatamente ad altro, giacché « nes­ sun appagamento possibile potrebbe bastare a calmare la sua sete, a porre uno scopo finito alla sua brama ed a riempire l'abisso senza fondo del suo cuore » (W II, p. 657 = p. 698). Con la soddisfazione di un bisogno « nient'altro ci si può guadagnare se non d'essersi liberati da una sofferenza o da un desiderio: quindi ci si trova come prima del loro inizio e non meglio » (W I, p. 367 = p. 412). L'inconsistenza della soddisfazione e quindi del piacere è confermata dal fenomeno della noia - una condizione di radicale infelicità -, che su­ bentra quando l'uomo non avverte bisogni: contro di essa, nota Scho­ penhauer, « come contro altre universali calamità vengono prese pubbliche precauzioni, e già per ragion di stato; perché questo male, non meno del suo estremo opposto, la fame, può spingere gli uomini alle maggiori sfre­ natezze: panem et circenses vuole il popolo » (W I, p. 369 = p. 414). In linea generale Schopenhauer identifica la felicità con il piacere: una vita in cui i bisogni e le loro soddisfazioni si succedessero con regolarità, vale a dire senza che sussistesse un eccessivo intervallo di tempo fra la percezione del bisogno e la sua soddisfazione e fra la sua soddisfazione e il sorgere di un nuovo bisogno, sarebbe una vita relativamente felice 9. 9 W I, p. 370 = p. 414. Dato il carattere negativo del piacere, una vita assoluta­ mente felice è viceversa impensabile nel quadro della psicologia schopenhaueriana.

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La possibilità di una vita di questo tipo è in primo luogo messa in discussione sul piano biologico dall'esistenza della morte. L'uomo infatti non solo è un continuo volere, ma è esso stesso essenzialmente volontà di vita, cosicché i singoli bisogni non sono che casi particolari del voler con­ tinuare ad esistere: la morte dunque, da questo punto di vista, deve essere considerata come un'estrema e radicale insoddisfazione della volontà: « La vita stessa è un mare pieno di scogli e di vortici, cui l'uomo cerca di sfug­ gire con la massima prudenza e cura; pur sapendo che quand'anche gli riesca con ogni sforzo ed arte, di scampare, perciò appunto si accosta con ogni suo passo, ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al totale e irrepa­ rabile naufragio: alla morte » 10. Tuttavia per dimostrare l'impossibilità della felicità Schopenhauer pone l'accento, oltre che sulla morte, sulle difficoltà che gli uomini incon­ trano nel soddisfare i propri bisogni e sulle sofferenze che da esse derivano. Già la soddisfazione dei semplici bisogni primari deve essere pagata a caro prezzo dalla maggioranza degli uomini. In questo contesto il conservatore Schopenhauer accenna alle misere condizioni che caratterizzano la vita delle classi sociali più povere, specialmente dei lavoratori delle fabbriche (W II, p. 663 = p. 705). Citando un celebre passo del Mercante di Venezia di Shakespeare, Schopenhauer nota che questi uomini, per sopravvivere, sono costretti ad alienare i mezzi attraverso cui possono sopravvivere e quindi ad alienare la propria persona 11 . Ulteriori sofferenze sono prodotte negli uomini dalla lotta che si svol­ ge fra gli individui allo scopo di soddisfare i propri bisogni e desideri; l'homo homini lupus hobbesiano caratterizza anche per Schopenhauer l'at­ teggiamento naturale reciproco degli uomini (W I, pp. 175 e 393 = pp. 212 e 439). L'uomo, nel soddisfare il proprio volere, nega il volere degli altri individui, e da origine ad una quantità di dolore specularmente eguale 12 . Quando poi l'ostilità reciproca degli uomini è imbrigliata all'interno dal­ l'organizzazione statale, esso trova modo di manifestarsi nelle guerre fra gli stati, cui Schopenhauer, alieno da ogni nazionalismo, non attribuisce altro significato che quello di furti in grande stile (PP I, p. 484 = p. 615). Questa situazione è comune a tutti gli esseri viventi cosicché si deve parlare di una « irreconciliabile lotta senza fine che fra di loro si combat10 W I, p. 368 = p. 413. Sul diverso significato che la morte assume in una prospet­ tiva metafisica cfr. sotto. 11 PP II, p. 260 = p. 321. In condizioni ancora peggiori si trovano gli schiavi, privati istituzionalmente del possesso della propria persona, cfr. PP II, p. 106 = p. 132.

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te » (W I, p. 182 = p. 218). Il mondo è un « arena di esseri angustiati e tormentati i quali esistono solo divorandosi l'un l'altro, dove quindi ogni animale carnivoro è il sepolcro vivente di mille altri, e la sua propria con­ servazione è una catena di morti crudeli » (W II, p. 666 = p. 708). Prospettive migliori circa il raggiungimento della felicità si aprono a quei pochi che, in condizioni di soddisfare senza difficoltà i bisogni primari, possono dedicarsi all'attività intellettuale, preclusa per le ragioni che si son viste alla maggior parte degli uomini (W I, p. 370 s. - p. 414). Nei Parerga e paralipomena, specialmente nella sezione intitolata « Aforismi sulla saggezza della vita », Schopenhauer mostra una certa fidu­ cia nella possibilità di raggiungere un accettabile grado di felicità attraverso l'attività intellettuale. Ciò si fonda su un insistito richiamo al valore dell'in­ teriorità dell'uomo, che è al sicuro dai colpi della fortuna e offre beni (relativamente) più durevoli e sicuri (PP I, p. 351 s. = p. 447 s.). Tale interiorità si esplica essenzialmente, come si è accennato, nella conoscenza; questa, come ogni componente dell'uomo, ha la sua base nella volontà, e precisamente è l'espressione della sensibilità che, insieme alla forza ripro­ duttiva ed all'irritabilità, costituisce una delle forze fisiologiche fondamen­ tali. Posto che la sensibilità è la forza più specifica dell'uomo, si può affer­ mare che i piaceri che da essa derivano sono i più alti. Ma v'è di più: nelle forme più alte della conoscenza, l'intelletto opera senza mescolanza della volontà, il che significa senza dolore; di qui il grande valore eudemonologico dei « piaceri spirituali » 13 . 12 Schopenhauer ritiene che in linea teorica sia possibile per l'uomo soddisfare la propria volontà senza danneggiare gli altri; un tale comportamento è caratteristico del primo livello della moralità, la giustizia (cfr. W I, pp. 393 ss. = pp. 439 ss.). D'altra parte, dato il carattere monistico della sua filosofia, secondo cui la volontà non ha niente fuori di sé mediante cui soddisfare i propri bisogni, ogni soddisfacimento di un aspetto par­ ticolare della volontà (della volontà di un singolo individuo) sembra dover comportare necessariamente la negazione di un altro aspetto della volontà (almeno di un livello più basso della sua affermazione, per es. della volontà degli animali). Infatti la volontà ine­ vitabilmente divora se stessa: da questo punto di vista sembra impossibile sostenere l'esistenza di un comportamento "giusto" nel senso sopra indicato (cfr. PP II, p. 342 = p. 422 nota), benché per l'assenza di sensibilità nei gradi inferiori di obiettivazione della volontà, tali negazioni non diano luogo al dolore. Come si vedrà, lo stesso Schopenhauer del resto considera ogni volere come qualcosa di intrinsecamente riprovevole (cfr. PP II, p. 334 = p. 412). 13 Sul tema dell'indipendenza del puro conoscere dalla volontà Schopenhauer insiste particolarmente nell'ambito dell'estetica, dove, come si vedrà, a questa forma di conoscenza è attribuito un significato etico-metafisico: essa è un primo e provvisorio passo sulla via della negazione della volontà. Da un punto di vista sistematico, come la critica rileverà più volte in seguito, questa tesi schopenhaueriana presenta notevoli dif-

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La portata di questa considerazione tutto sommato ottimistica dell'at­ tività intellettuale è peraltro ridotta da una serie di elementi. La conoscenza pura infatti, oltre ad essere accessibile solo a quel ristretto numero di indi­ vidui in cui le forze spirituali sono particolarmente sviluppate, è in sé qual­ cosa d'innaturale e conscguentemente eccezionale. La facoltà conoscitiva infatti è per sua natura subordinata alla volontà. Schopenhauer considera suo merito essenziale quello di aver rovesciato la tradizionale concezione che poneva nella razionalità l'essenza dell'uomo e quindi subordinava la volontà all'intelletto 14 . L'intelletto è in toto un « attrezzo » che la volontà si foggia per soddisfare meglio i propri bisogni e quindi non è, in condizioni normali, in grado né di operare liberamente né tanto meno di guidare l'uomo secondo le sue proprie leggi: chi decide è la volontà (W II, p. 236 - p. 255). La volontà inoltre domina sull'intelletto non solo dall'esterno, ma ne condiziona anche il funzionamento interno, mediante l'azione perturbatrice delle passioni. L'intelletto « deve far violenza alla sua propria natura, diretta verso la verità, costringendola a ritenere per vere, contro le sue proprie leggi, cose che non sono vere né verosimili, e spesso sono appena possibili, per calmare, tranquillizzare ed addormentare anche per un mo­ mento l'inquieta ed indomita volontà » (W II, p. 243 = p. 262). Solo così è spiegabile il permanere fra gli uomini di idee assurde, fra le quali Scho­ penhauer annovera in primo luogo le varie concezioni ottimistiche della realtà, la cui origine non può essere che l'« autolode ingiustificata del vero creatore del mondo, cioè della volontà alla vita, la quale compiacentemente si specchia nella sua opera» (W II, p. 671 = p. 731). Di fondamentale importanza per la morale è l'offuscamento che impedisce alla maggior parte degli uomini di cogliere il carattere fenomenico dell'individualità, da cui derivano tutte le sofferenze che gli uomini si infliggono reciprocamente (W II, p. 690 = p. 734).

fìcoltà: non è facile comprendere infatti come Schopenhauer, dopo aver sottolineato più volte la derivazione dalla volontà della conoscenza e dopo aver parlato di « piaceri » del conoscere - il piacere è una soddisfazione della volontà -, possa negare la presenza della volontà nelle forme più alte del conoscere. Va rilevato tra l'altro come con la sua teoria del « bisogno metafisico » Schopenhauer presenti l'intera metafisica come una risposta ad un bisogno, il che, di nuovo, sembra rimandare inequivocabilmente alla volontà. 14 Cfr. in particolare il cap. XIX del secondo volume del Mondo, dove questa tesi è dimostrata con ricchezza di argomentazioni. Cfr. anche GBr, pp. 393 ss.

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3. IL TEMPO E LA TELEOLOGIA.

Schopenhauer affianca a queste considerazioni di tipo eudemonologico altre notazioni che invece sembrano basarsi su una sorta di implicito platonismo, secondo cui solo l'eterno e il durevole ha valore. Egli infatti si riferisce insistentemente allo scorrere del tempo per sottolineare la man­ canza di significato dell'esistenza umana; esso è «la forma mediante la quale quella nullità delle cose appare come loro caducità; poiché per esso tutti i nostri godimenti e le nostre gioie sotto le nostre mani si perdono nel nulla, e noi dopo stupiti ci chiediamo, che cosa ne sia avvenuto » (W II, p. 658 = p. 699). Per altri aspetti è proprio la fenomenicità del tempo - il suo non inerire all'essenza della realtà - a condurre Schopenhauer a considerazioni pessimistiche: si deve in particolare escludere che la situazione dell'uomo possa radicalmente mutare, in altre parole che nel mondo possa darsi au­ tentico progresso. Per Schopenhauer la verità fondamentale della filosofia è che «in ogni tempo è sempre la stessa cosa » (W II, p. 506 = p. 542). La storia quindi non da luogo a reali mutamenti; i fenomeni, i singoli avveni­ menti sono diversi, ma la loro sostanza è sempre la stessa; la sua divisa è quindi « eadem sed aliter» (W II, p. 508 = p. 544). La felicità terrena « è sempre una cosa vuota, illusoria, caduca e triste, che né- costituzioni e legislazioni, né macchine a vapore e telegrafi possono mai essenzialmente migliorare » 15 . La natura fenomenica del tempo serve anche a spiegare il costante sacrificarsi dell'individuo per la conservazione della specie. La specie è il correlato empirico dell'idea, l'obiettivazione immediata della volontà. L'in­ sieme degli individui che la costituiscono non è altro che il moltiplicarsi all'infinito nel tempo e nello spazio dell'unica idea (W I, p. 325 = p. 367 e W II, p. 554 = p. 591). Come e quanti individui esistano nel mondo feno­ menico è per l'obiettivarsi dell'idea irrilevante. Ciò che importa è che gli individui, data la loro durata limitata nel tempo, quando periscono, siano rimpiazzati da altri, perché l'esistenza di individui è la condizione necessa­ ria del suo oggettivarsi. Il fine dell'individuo è quindi la generazione di una discendenza; di qui la cura particolare che la natura dedica ad esso finché 15 W II, p. 507 = p. 543. L'unico vantaggio che Schopenhauer attribuisce al pro­ gresso tecnico e in particolare alle ferrovie è quello di alleviare la fatica degli animali da tiro! (cfr. PP II, p. 399 = p. 494). In questo ambito è evidente la radicale opposizione di Schopenhauer alla filosofia hegeliana (cfr. W II, p. 505 = p. 451 s.).

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giunga alla generazione, abbandonandolo poi senz'altro alla distruzione (W I, p. 325 s. = p. 367 s.). Anche per la specie umana vale la stessa logica. Tuttavia questa funzione elementare assume nell'uomo - data la sua mag­ giore complessità - il carattere specifico del rapporto amoroso fra i due sessi. Riconducendo la dinamica dei sentimenti alla sua finalità biologica, Schopenhauer, in pagine molto note, mostra l'illusorietà dei sentimenti e, conscguentemente, l'impossibilità per l'uomo di raggiungere anche in que­ sto ambito la sperata felicità 16. Il tema platonico della mancanza di valore di tutto ciò che diviene si congiunge in Schopenhauer con il rifiuto della natura teleologica della re­ altà - uno dei motivi tradizionalmente più sfruttati per giustificare il dolore del mondo e quindi per difendere l'ottimismo. In proposito tuttavia la posizione di Schopenhauer è assai articolata e complessa. In prima istanza la concezione schopenhaueriana della teleologia sem­ bra riproporre semplicemente le più note tesi di Kant: la finalità, come la causalità, appartiene alla facoltà conoscitiva dell'uomo e quindi ha valore solo soggettivo (W I, pp. 631 ss. = pp. 681 ss.). Così Schopenhauer da una parte afferma con vigore l'esistenza del finalismo all'interno del mondo fenomenico, diffondendosi sulla teleologia che governa gli esseri viventi e difendendo l'esistenza delle cause finali, dall'altra nega che il finalismo possa essere riferito alla cosa in sé (W II, pp. 371 ss. = pp. 401 ss.) - non per caso Schopenhauer considera impossibile la prova fisico-teleologica (N, p. 38 s. = p. 74, W I, p. 632 s. = p. 682 s.). Il carattere fenomenico della teleologia risulta evidente dal fatto che qualsiasi sviluppo è percepito come tale solo grazie al tempo. Posto invece che la volontà si obiettiva negli esseri viventi con un atto atemporale, ne consegue che l'organismo sorge compiu­ to in ogni sua parte e in esso non esiste quello sviluppo verso la perfezione, quel coordinamento fra mezzi e fini che l'uomo percepisce come il disten­ dersi dell'unità dell'organismo nel tempo (N, p. 55 s. = p. 94 s.). Qualche problema maggiore presenta invece un'interpretazione in tal senso anche di quella che Schopenhauer chiama teleologia esterna, cioè l'appoggio e l'aiuto reciproco che gli organismi ricevono dalla natura inor­ ganica e dagli altri organismi. Qui « dobbiamo ammettere, che fra tutti quei fenomeni dell'unica volontà abbia luogo un generale e reciproco adat­ tarsi ed accomodarsi » (W I, p. 190 = p. 226). Anche in questo caso, se si 16 Cfr. il celebre capitolo XLIV del secondo volume del Mondo (« Metafisica del: l'amor sessuale», W II, pp. 643 ss. = pp. 674 ss.), in cui si sottolinea fra l'altro il contrasto fra gli interessi dell'individuo e quelli della specie (W II, p. 638 = p. 679).

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considera l'obicttivarsi della volontà come qualcosa che avviene al di fuori del tempo, questo apparente finalismo svanisce: la volontà non si oggettiva prima in un fenomeno e poi, tenendo conto della compatibilita con il feno­ meno precedente, in un altro: essa si manifesta « immediatamente » in tut­ ta la realtà. La compatibilita fra i vari fenomeni - che ha il suo modello nel mondo ideale sottratto alla lotta che divora il mondo fenomenico - non può essere neppure interpretata come una prova a favore della saggezza e della razionalità della volontà, giacché essa definisce solo le condizioni minime perché sia possibile l'affermazione della volontà. Il mondo fenome­ nico, ben lungi dall'essere leibnizianamente il migliore possibile, è il peg­ giore possibile, nel senso che un'organizzazione anche di poco peggiore non consentirebbe al mondo di sussistere 17 . Schopenhauer tuttavia non sembra accontentarsi di questa restrizione essenzialmente epistemologica del finalismo alla soggettività del mondo fenomenico; egli sembra piuttosto intenzionato, muovendosi sulle linee di quella metafisica interpretativa che gli è propria, ad affermare positivamen­ te l'assenza del finalismo nella volontà. Così egli riprende anzitutto la tesi seconda cui la volontà, nel suo fenomenizzarsi, non mostra alcun fine ulti­ mo: di ogni volizione ed esplicazione delle forze è possibile chiedersi il fine o la causa, ma non della volontà, che sta alla base tanto delle volizioni quanto delle esplicazioni delle forze (W I, p. 194 = p. 231). Ciò è provato anche dal fatto che, considerando la dinamica del volere e in particolare il modo di operare delle forze naturali, si osserva che il raggiungimento di un fine particolare non fa cessare in alcun modo il volere: se anche tutta la materia fosse concentrata in un unico punto, la forza di gravita continue­ rebbe a cercare di esplicarsi, anche di fronte al raggiungimento di quello che potrebbe essere pensato come il suo fine ultimo (W I, p. 195 = p. 232). Schopenhauer ritiene così di poter concludere che «la mancanza d'ogni finalità e d'ogni confine s'appartiene all'essenza della volontà in sé, che è una tendenza infinita » (W I, p. 195 = p. 232).

17 W II, p. 667 = p. 709. Anche in questo caso per non fraintendere la posizione di Schopenhauer, bisogna tener conto dei limiti che egli pone al sapere metafisico: certamente egli non crede che la tesi che questo mondo sia il peggiore dei mondi pos­ sibili sia scientificamente dimostrata; essa è ai suoi occhi poco più che un artificio reto­ rico - paradossale rovesciamento della posizione di Leibniz. Così non pare legittimo obiettare che il sostenere che la volontà è capace di realizzare un mondo « migliore » di quello che non potrebbe sussistere, implichi nella volontà stessa almeno un barlume di razionalità: come si è visto Schopenhauer rifiuta programmaticamente di affrontare questi problemi speculativi.

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Rimarrebbe l'alternativa di considerare il mondo nel suo complesso come un fine in se stesso (Selbstzweck), supponendo cioè che lo scopo della volontà sia semplicemente la sua affermazione. Questa tesi è però resa improponibile dalla realtà del dolore: se il mondo fosse un fine in se stesso, non solo i dolori dovrebbero essere compensati dai piaceri, ma addirittura non vi dovrebbe essere nessun dolore (W II, p. 661 = p. 703). Lo stesso discorso vale se si volesse considerare la vita dell'uomo come fine ultimo: dato la sofferenza che anche in essa domina « sarebbe lo scopo più sciocco che mai sia stato posto » (PP II, p. 306 = p. 326). Presupposto implicito di queste argomentazioni sembra essere l'idea che l'affermazione del volere, per essere giustificata come un fine in sé, dovrebbe rendere possibile la soddisfazione della volontà, ovvero la felicità. In questo modo Schopenhauer sembra reintrodurre il parametro eudemonologico anche per fis­ sare il valore della teleologia. Con ciò tuttavia la trattazione schopenhaueriana del problema del finalismo non è ancora conclusa. Schopenhauer in alcuni passi reintrerpreta il carattere antieudemonistico della realtà, visto in generale come argo­ mento decisivo contro il finalismo, come indizio di un « finalismo » di livello superiore, pur avvertendo che con queste considerazioni egli si muove in un ambito decisamente « trascendente », dove si può parlare di teleologia solo « figurativamente » o con « un'espressione parabolica » (HN I, pp. 133 e 219). Sembra infatti che il mondo sia organizzato per produrre la sofferenza (PP II, p. 312 = p. 382), ma, dato che il dolore non può essere il fine ultimo della realtà, si deve concludere che il mondo non può essere che un mezzo per un fine superiore: la negazione della volontà.

4. LA FONDAZIONE DEL PESSIMISMO.

È indispensabile a questo punto approfondire quello che si potrebbe chiamare il problema della fondazione del pessimismo. In altre parole si tratta di chiarire quali sono e come sono fondati quei « valori » che dovreb­ bero essere realizzati e la cui assenza giustifica la condanna del mondo stesso, condanna che Schopenhauer esprime nella tesi che il mondo - con­ siderato spassionatamente - non dovrebbe esistere, ovvero che il non essere del mondo sarebbe in sé più positivo - o comunque meno negativo - del suo esistere (W II, p. 531 = p. 568, PP II, p. 320 = p. 397). Questo riferimento al dover essere sembra implicare che il pessimi­ smo schopenhueriano abbia quanto meno uno stretto legame con la morale

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e in effetti Schopenhauer insiste a più riprese sulla necessità di considerare la realtà nel suo complesso dal punto di vista del suo significato morale (PP I, p. 21 = p. 41, e N, p. 141 = p. 211). È di conseguenza necessario tracciare un quadro della dottrina etica di Schopenhauer, considerando in partico­ lare in essa il problema della fondazione dei valori. Nella sua riflessione sull'agire umano Schopenhauer, come sempre, prende le mosse dai dati empirici per cercarne la spiegazione metafisica. In questa prospettiva il dato fondamentale è costituito dal sentimento di re­ sponsabilità che ogni uomo avverte per le proprie azioni, pur essendo con­ vinto di non poter agire diversamente (E, pp. 93 ss. = pp. 142 ss.). Schopenhauer trova la spiegazione di questa apparente contraddizio­ ne in una ripresa della dottrina kantiana della libertà intelligibile. Il senso di necessità che accompagna l'agire umano ha la sua ragione d'essere nel determinismo che regna nel mondo fenomenico: ogni atto è infatti conse­ guenza necessaria di un determinato motivo e quindi, come ogni altro fe­ nomeno, è sottoposto inevitabilmente alla legge di causalità nella forma specifica della legge di motivazione. Ma - e questo serve ad introdurre la spiegazione del senso di respon­ sabilità - il carattere fenomenico della legge di motivazione è di per sé sicuro indizio della sua non applicabilità alla cosa in sé: la volontà, in quan­ to cosa in sé, è libera: la « scelta » dei vari modi in cui manifestarsi e questione ancor più importante - la « scelta » di volere (fenomenizzarsi) o di non volere non dipendono da motivi. Si è accennato al fatto che la volontà si esprime in prima istanza nelle forme atemporali delle idee. Anche il manifestarsi della volontà nell'uomo segue le stesse regole, tuttavia con la particolarità che, secondo Schopenhauer, ciascun uomo è un atto indivi­ duale della volontà, in altri termini un'idea (W I, p. 189 = p. 225). L'idealità dell'uomo - il suo essere in quanto sottratto al tempo - è costituita dal suo carattere, vale a dire da un'originaria commistione di alcuni istinti o impulsi fondamentali (Grundtriebfedern) 18. Posto allora che l'uomo, come si è det­ to, propriamente non è altro dalla volontà, ma coincide con la volontà 18 Cfr. E, pp. 209 ss. = pp. 214 ss. Questi istinti, quando il carattere entra nel tempo, si esplicano reagendo con la stessa necessità che caratterizza l'operare delle forze naturali ai motivi che via via si presentano e dando così origine alle diverse azioni: secondo un'espressione che Schopenhauer ripete più volte operati sequitur esse. Cfr. E, p. 57 = 102; 71 s. = p. 118; WII, p. 677 = p. 720 e WII, p. 693 - p. 737). Schopenhauer parla di tre impulsi fondamentali: l'egoismo (che vuole il proprio bene), la cattiveria (che vuole il male altrui), e la compassione (che vuole il bene altrui). Riguardo ad un possibile quarto istinto, quello ascetico, cfr. sotto.

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stessa, si comprende come Schopenhauer possa sostenere che il carattere, in quanto opera della volontà, sia al tempo stesso opera dell'uomo e come quindi l'uomo debba essere considerato moralmente responsabile di esso: in questa che si potrebbe chiamare autocreazione del proprio carattere consiste per Schopenhauer la kantiana libertà intelligibile 19. Date queste premesse risulta chiaro perché l'etica di Schopenhauer, nella misura in cui essa tratta dell'uomo in quanto fenomeno - l'unico oggetto di conoscenza in senso proprio -, si presenti come descrittiva e non come prescrittiva. Essa non può avere altro fine che quello « d'interpreta­ re, spiegare e riportare al suo ultimo fondamento il modo di agire degli uomini », vale a dire di individuare gli istinti fondamentali che guidano l'agire dell'uomo e di chiarire le modalità secondo cui si esplicano. Essa non è quindi la scienza « che indica come essi devono agire » e quindi non possiede la « forma imperativa » 20. Ciò non comporta tuttavia che essa sia nel suo complesso avalutativa, giacché, come si è visto, la natura del carat­ tere da cui dipendono interamente le azioni dell'uomo, è una libera scelta della quale l'uomo è responsabile. Si tratta ora di precisare che forma assumono in questo contesto i concetti tradizionali dell'etica. Alcune interessanti indicazioni si ricavano in primo luogo dall'analisi del concetto di bene. Criticando ogni pretesa di una determinazione assoluta di tale concetto, Schopenhauer afferma che esso « è essenzialmente relativo, e indica la conformità di un oggetto con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà » (W I, p. 425 s. = p. 472 s.). Si tratta di una chiara impostazione soggettivistica: qualcosa è buono non in sé, ma perché è oggetto di un desiderio o soddisfa un biso­ gno. Da questa determinazione per così dire esterna del bene Scho­ penhauer passa senza difficoltà a spiegare in che senso si parli di una per­ sona "buona", di una "buona" azione: anche in tale caso questi concetti 19 PP I, p. 225 nota = p. 284 e W II, p. 637 = p. 720. Sulla libertà intelligibile cfr. W I, pp. 337 ss. = pp. 380 ss. dove tra l'altro si possono trovare rimandi alle altre opere di Schopenhauer - in particolare a E - in cui il tema è trattato più diffusamente. Scho­ penhauer insiste molto sul fatto che la coincidenza fra singolo uomo e volontà è condi­ zione fondamentale per garantire l'aseità e quindi la responsabilità morale dell'uomo stesso, il che non può invece avvenire nel teismo, dove la responsabilità dell'agire umano ricade necessariamente sul suo creatore, cioè su Dio. Questa teoria schopenhaueriana, come si vedrà in seguito, pone molti problemi, in particolare non è chiaro in che senso si possa attribuire responsabilità ad un essere - sia esso la volontà o l'uomo - privo di coscienza. Quanto al rapporto fra l'individualità e la molteplicità degli uomini e l'unicità della volontà cfr. sotto. 20 Si veda in proposito la critica del sollen kantiano; E, pp. 120 ss. = pp. 118 ss.

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sottintendono il riferimento ad una volontà; ad esempio una persona è considerata buona se è disponibile a soddisfare i desideri degli altri o a lenire i loro mali (W I, p. 426 = p. 473). Se si tiene presente che la volontà è un inarrestabile tendere che, rag­ giunta una soddisfazione, immediatamente si indirizza verso un altro og­ getto, risulta chiaro che tanto per l'individuo quanto per la volontà-cosa in sé è impossibile parlare di un sommo bene: esso dovrebbe configurarsi come uno specifico oggetto di desiderio che, una volta raggiunto, dovreb­ be dar luogo ad un appagamento definitivo del volere (W I, p. 427 s. = p. 474 s.). L'unico modo di far cessare questa eterna insoddisfazione va ricer­ cato allora non in un determinato oggetto, ma in un altro modo d'essere della volontà stessa: essa consiste in ciò che Schopenhauer chiama negazio­ ne o soppressione del volere, « che unica per sempre placa e sopprime la sete del volere, unica da quella pace la quale non può più essere turbata, unica redime dal mondo ». In questo senso, ma « in modo tropico e figu­ rato », la negazione del volere può essere detta il summum bonum della volontà (W I, p. 428 = p. 475). Benché Schopenhauer non sviluppi ulteriormente questi pensieri dan­ do l'impressione di considerare la questione del significato del termine « bene » un problema unicamente verbale (egli conclude questo paragrafo con un brusco «jetzt zur Sache »), questo è un punto importante per la sua filosofia, giacché offre gli elementi per dare almeno una parziale risposta al problema del fondamento della condanna del mondo. Si è visto infatti che il carattere generale del mondo è quello di non consentire alla volontà durevole soddisfazione. Se ora risulta che solo ciò che soddisfa il volere è buono (e inversamente ciò che non lo soddisfa cattivo), si comprende per­ ché il mondo possa essere detto cattivo. Se d'altra parte si considera che il mondo è l'affermazione della volontà e null'altro, e che tale affermazione è un atto libero, risulta chiaro come Schopenhauer possa senz'altro attribu­ ire al mondo un « significato morale » e condannarlo in foto anche moral­ mente 21 . Il mondo, in quanto atto libero della volontà, è un errore, un peccato, perché non consente alla volontà stessa di raggiungere il bene, la 21 Alla tesi del « significato morale » per Schopenhauer si oppongono quanti attri­ buiscono al mondo solo un « significato fisico », « l'errore più funesto, nato dalla mas­ sima perversità dello spirito ». Questa posizione è implicita nei sostenitori del panteismo di tipo spinozistico, secondo cui il mondo è necessariamente, non deriva da un atto libero e quindi non da spazio ad un (non-)dover essere e in quanti considerano il mondo fine a se stesso, non prendendo in considerazione la possibilità che esso sia un mezzo per un fine superiore, il raggiungimento della negazione del volere (PP II, p. 107 = p. 133).

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sua soddisfazione o comunque una condizione in cui la quantità di soffe­ renza sia inferiore a quel grado zero che è proprio del non-volere. Sebbene dunque Schopenhauer nelle sue argomentazioni a favore del pessimismo presenti per lo più il male e il dolore come disvalori immediatamente per­ cepiti come tali, e sebbene nulla vieti di costruire un'etica che abbia come primum il disvalore, è così possibile, nei termini della sua filosofia, dare al pessimismo - almeno nel suo aspetto eudemonologico - una fondazione a partire da una formulazione tradizionale dell'etica, che abbia alla sua base un concetto positivo di bene. Ciò detto si comprende anche perché, se la negazione del volere deve essere considerata come l'unica possibile libera­ zione dal male e se la negazione del volere significa il non essere del mon­ do, il non essere del mondo sia assiologicamente da preferirsi al suo essere. In questa prospettiva il concetto di bene assume un significato diverso e quasi opposto a quello precedentemente indicato: esso non è più ciò che soddisfa direttamente la volontà, bensì ciò che "soddisfa" la volontà, facen­ do cessare con il volere anche la sua eterna insoddisfazione. Tale significato assume importanza decisiva nell'etica di Schopenhauer, giacché diviene di fatto il parametro fondamentale in base al quale giudicare il valore dell'agi­ re dell'uomo. Ne II fondamento della morale, tuttavia, ove si trova l'unico passo in cui viene data una definizione di ciò che ha valore morale, Schopenhauer sembra percorrere altre vie. Egli afferma infatti che morale è ogni agire non egoistico. Comportamenti non-egoistici sono quelli in cui l'individuo agi­ sce non in vista di un suo vantaggio, ma per il bene degli altri 22. Le ragioni per cui tali azioni posseggono valore morale non sono spiegate in questo contesto: la questione è liquidata con l'affermazione che il loro valore è autoevidente 23 . Lo stesso Schopenhauer afferma in una lettera a Becker che per avere un « chiarimento ultimo » circa il valore della morale, biso­ gna rifarsi al Mondo (GBr, p. 220). Risulta allora che l'altruismo è moral­ mente apprezzabile, perché presuppone il superamento dell'illusione del principium individuationis - che è un prodotto dell'affermazione della vo­ lontà - e rappresenta quindi un passo in dirczione della negazione del 22 E, pp. 203 ss. = pp. 207 ss. Schopenhauer considera egoistico ogni comporta­ mento che abbia di mira l'interesse dell'individuo in quanto tale. Non è egoistico invece quel comportamento che ha in vista il vantaggio di tutti gli individui e cioè della volontà nel suo complesso (cfr. GBr, p. 221). 23 E, p. 204 = p. 208. Nel seguito si indica come possibile ulteriore elemento per decidere del valore morale di un'azione « l'approvazione della coscienza » verso noi stessi che essa produce (E, p. 205 = p. 208 s.).

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volere (W II, pp. 695 e 700 = pp. 739 e 744). Inoltre colui che si dedica alla virtù, deve necessariamente farsi carico di dolori e sofferenze tali che, an­ cora, « la rettitudine diviene un mezzo di promozione alla rinunzia della volontà di vita ». Il vero altruismo - il perfetto esercizio di virtù - compor­ ta per Schopenhauer tali rinunzie che esso può essere forse con ragione sostituito all'ascesi come mezzo più adatto per giungere alla soppressione del volere (W II, p. 695 s. = p. 740 s.). A riprova del carattere derivato del valore morale dell'altruismo, si può notare che se si interpreta la negazione del volere come il fine dell'uomo, le sofferenze - in quanto favoriscono lo sviluppo della coscienza dell'inutilità del volere - devono essere viste me­ tafisicamente come un bene 24 . Se ne può dedurre che una loro riduzione, quale è prodotta dall'aiuto al prossimo, non può essere giudicata come univocamente positiva. Se dunque soggettivamente l'altruismo - in quanto implica necessariamente una limitazione della propria volontà - è un valore indiscutibile, oggettivamente esso non costituisce un valore assoluto.

5. LA NEGAZIONE DEL VOLERE.

Risulta a questo punto delineata nelle sue componenti fondamentali la struttura del pessimismo schopenhaueriano. Non resta che da precisare il significato e la portata della negazione del volere, alla luce della quale il pessimismo sembra assumere un aspetto meno tragico; pare infatti sussiste­ re la possibilità di una liberazione, di una redenzione del mondo. La negazione del volere non è per Schopenhauer una « fiaba filosofica », bensì in primo luogo un fatto empirico, constatabile nella vita degli asceti e dei santi, anche se comunque si tratta di casi estremamente rari e largamente minoritari riguardo alla massa degli uomini (W I, pp. 452 e 454 = pp. 500 e 502). Secondo il consueto metodo di Schopenhauer il filosofo ha il compito di illustrare questo fatto e, per quanto possibile, di offrirne una « spiegazione » metafisica. Bisogna però osservare che qui più che in altre occasioni Schopenhauer sottolinea i limiti strutturali della facoltà co­ noscitiva dell'uomo, per cui molte delle difficoltà che sono poste da questa dottrina in seguito tanto discussa sono destinate necessariamente a rimane­ re senza risposta in quanto trascendenti (GBr, p. 217 s.). 24 PP II, p. 340 = p. 419 e W II, p. 730 = p. 775. Cfr. anche tutto il cap. XLIX di W II (pp. 729 ss. = pp. 774 ss.), « L'ordine della salvezza », dove viene sviluppata la speciale teleologia cui si accennava sopra.

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La negazione della volontà sorge dalla acquisita conoscenza dell'intrinsecità del dolore all'affermazione della volontà e dalla coscienza del­ l'unità di tutti i fenomeni, coscienza che rende manifesta l'illusorietà di un'eventuale felicità individuale (W I, p. 447 s. = p. 495 s.). Non si tratta di una conoscenza teoretica o, come dice Schopenhauer, « astratta » (W I, p. 452 s. = p. 500 s.), ma di un'intima convinzione che può anche prescin­ dere da una sua chiara espressione concettuale. Ciò spiega perché non necessariamente il filosofo è un santo e, viceversa, non ogni santo è filosofo (W I, p. 453 = p. 501). D'altra parte essa può essere prodotta - e questo è il caso più frequente - anche dall'esperienza diretta del dolore, ciò che Schopenhauer chiama la « seconda navigazione » (W I, p. 463 s. = p. 512 s. e W II, p. 735 = p. 779). L'acquisizione di questa convinzione agisce sulla volontà come un « quietivo », cioè produce la conversione dal volere al non volere: l'individuo non vuole più, non risponde più positivamente ai motivi ed agli stimoli che riceve dall'esterno (W I, p. 448 = p. 496). Sorge spontanea la domanda se sia legittimo, nei termini della filosofia schopenhaueriana, che ha un suo caposaldo nell'identificazione della cosa in sé con la volontà, parlare di una volontà che cessa di volere e quindi, apparentemente, di essere se stessa. Alla questione, già sollevata da Frauenstàdt, Schopenhauer risponde ribadendo che la determinazione della cosa in sé come volontà non è una determinazione assoluta, ma vale solo per la cosa in sé in quanto si manifesta nell'esperienza. È quindi pensabile che la sua essenza non si esaurisca nel volere (GBr, p. 291 e W II, p. 740 = p. 785). Su queste basi Schopenhauer si sente di sostenere che la negazione del volere non implica un autoannichilimento del fondamento della realtà: ciò che è revocato è solo l'atto del volere (PP II, p. 331 = p. 408 s.). Sussiste tuttavia un'altra difficoltà: perché si possa parlare di negazio­ ne del volere è necessario che essa divenga in qualche modo oggetto di conoscenza, cioè che si fenomenizzi, il che sembra implicare un suo ricade­ re nell'ambito dell'affermazione del volere. Schopenhauer sostiene in pro­ posito che la negazione del volere non si fenomenizza pienamente, ma soltanto « si annuncia » nel momento in cui essa entra nel mondo fenome­ nico (GBr, p. 293). Altrove egli afferma che il sopravvenire della negazione del volere è conosciuto solo negativamente, come venir meno, in un deter­ minato individuo, delle leggi proprie del mondo fenomenico, in particolare della legge di motivazione (GBr, p. 216 s.). Se riguardo alle questioni precedenti Schopenhauer tenta almeno un abbozzo di risposta, esplicitamente agnostico si dichiara invece riguardo al problema di come sia possibile, in una volontà che per definizione è estra-

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nea al tempo, parlare di un passaggio, di un mutamento dal volere al non volere. Interrogato in proposito da Becker, Schopenhauer risponde secca­ mente che si tratta di eventi (Vorgànge) che si svolgono all'interno della volontà ed egli non è in grado di « scrivere la storia della cosa in sé » perché non la conosce (GBr, p. 217 s.). Come questo passaggio abbia luo­ go rimane per l'uomo un fatto misterioso, che può essere illustrato solo metaforicamente, facendo ad esempio riferimento al linguaggio teologico che descrive il subentrare nell'uomo della grazia (W I, p. 478 = p. 526). Esso non può comunque essere pensato nei termini di un rapporto di causa-effetto (la conoscenza e il dolore come "cause" della negazione del volere), perché con ciò sarebbe soppressa la libertà di tale mutamento (W I, p. 467 = p. 515). Ne consegue che la soppressione del volere non può assumere la forma di una prescrizione morale (W I, p. 336 = p. 379). Schopenhauer presenta in vari passi la negazione del volere non come una conversione che si compie una volta per tutte, ma piuttosto come un processo che si esprime in specifici comportamenti. Ciò perché l'uomo, nel momento in cui si volge al non volere, non cessa di vivere e quindi entra in contraddizione con se stesso, con quella parte della volontà che continua ad affermarsi nel suo corpo (W I, p. 449 = p. 497). Si tratta allora di « morti­ ficare » la volontà attraverso l'ascesi, che si esprime nella castità e nella povertà, le quali negano due dei più forti istinti (W I, p. 451 = p. 499). Si tratta di una continua e dura lotta, sempre esposta al rischio di una ricaduta nell'affermazione del volere (W I, p. 462 = p. 511). Fino a quando l'indivi­ duo sussiste - fino alla sua morte - non è lecito parlare di una completa soppressione della volontà( (W II, pp. 700 e 737 = pp. 744 e 782). Lo stesso Schopenhauer afferma che è solo al momento della morte che l'individuo che ha negato il volere esce dal ciclo delle affermazioni del volere 25 . Anche questa teoria pone non poche difficoltà. Sembra infatti che qui 25 W II, pp. 698 s. = pp. 742 s. La posizione di Schopenhauer riguardo al destino cui va incontro l'uomo con la morte è complessa. Egli nega tassativamente l'immortalità personale in senso tradizionale: la coscienza individuale è legata al cervello e si dissolve con il dissolversi del cervello stesso. A questa forma d'immortalità se ne sostituisce però un'altra che si basa sull'identità dell'uomo con la volontà-cosa in sé, per definizione immutabile e quindi immortale (W II, p. 223 s. = p. 241 s.). D'altra parte, dato che almeno per l'uomo, l'individualità sembra possedere una radice extra-fenomenica (si è visto sopra che ogni uomo è un'idea), Schopenhauer afferma, pur con molte cautele, una sorta d'immortalità delle singole volontà individuali che ad ogni rinascita riceverebbero con un nuovo corpo un nuovo intelletto; in proposito egli fa riferimento ai miti della metempsicosi e della palingenesi (W II, pp. 574 ss. = pp. 612 ss.). Si spiega così perché solo l'individuo che muoia dopo aver negato la volontà cessi interamente di esistere.

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il corpo sia visto come qualcosa che sussiste indipendentemente dalla vo­ lontà o che si prospetti un dissidio all'interno dell'unica volontà individua­ le che parrebbe in parte volere e in parte non volere. La necessità di ammettere una scissione all'interno della volontà si ripresenta se si cerca di comprendere il rapporto che sussiste fra gli indivi­ dui che negano il volere e quelli che, al contrario, continuano ad affermar­ lo. Se il mondo è l'affermazione del volere e null'altro e se la volontà è interamente presente in ogni individuo, la sua soppressione in un singolo individuo dovrebbe produrre il completo annichilimento del mondo feno­ menico. In effetti Schopenhauer sembra in alcuni passi far propria questa tesi e innalzare così alla dignità di un atto metafisico la soppressione del volere: « Non più volontà, non più rappresentazione, non più mondo » (W I, p. 486 = p. 535). La negazione della volontà in questa prospettiva sembra configurarsi come un evento che non riguarda l'individuo, ma che redime l'intero mondo, che realizza quel suo non-dover-essere che si è visto assiologicamente preferibile. La tesi dell'annichilimento del mondo fenomenico è però empirica­ mente contraddetta dal fatto che la negazione della volontà, che Scho­ penhauer assume essersi già realizzata in alcuni individui, non ha compor­ tato il venir meno di tutta la realtà empirica. Quando Frauenstà'dt gli chie­ de come mai un santo - un solo individuo che abbia soppresso completa­ mente la volontà - non dia luogo alla redenzione di tutto il mondo, Scho­ penhauer fa appello al problema trascendente e quindi filosoficamente ir­ resolubile del rapporto fra la volontà e i singoli atti che danno luogo alle varie individualità, in questo caso i caratteri dei singoli uomini: non si può sapere « a quale profondità giungono le radici dell'individualità nella cosa in sé » 26. In un'altra lettera egli comunque interpreta l'annichilimento del mondo cui darebbe luogo la negazione del volere in termini assiologici: per il santo il mondo diviene un nulla relativo, nel senso che perde ogni signi­ ficato e valore (GBr, p. 217). Solo se, ipoteticamente, tutti gli uomini ne­ gassero la propria volontà, il mondo - tutti gli esseri viventi ed anche la realtà inanimata - cesserebbe di esistere (W I, p. 449 = p. 497). Anche la dinamica psicologica della negazione del volere presenta tuttavia dei problemi di non facile soluzione. Si è detto che tale negazione si esprime nel comportamento ascetico. Ciò tuttavia implica in qualche misura un agire dell'uomo e quindi, ancora, un'affermazione del volere, 26 Cfr. GBr, p. 291 s. Il passo citato dallo stesso Schopenhauer nella lettera si trova in W II, p. 737 = p. 782.

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anche se in questo caso esso non avrebbe quei caratteri d'intrinseca nega­ tività che sono propri dell'affermazione della volontà. Questa difficoltà risulta in tutta la sua evidenza là dove Schopenhauer, integrando la dottri­ na degli istinti fondamentali dell'uomo, ipotizza l'esistenza di un originario istinto ascetico, la tendenza cioè a mortificare la propria volontà (W II, p. 697 nota = p. 741). Dato che gli istinti fondamentali sono gli elementi costitutivi del carattere e dato che il carattere è la forma particolare che assume la volontà di vita nell'uomo, si dovrebbe allora concludere che la volontà di vita, anche prima del subentrare della sua negazione, ha in sé la tendenza ad annullarsi, una conseguenza questa difficilmente conciliabile con la tesi secondo cui la negazione della volontà - l'atto libero che si contrappone all'atto altrettanto libero con il quale l'uomo si pone come individuo volente - è qualcosa che rovescia e sopprime completamente il carattere precedente dell'uomo (W I, p. 477 s. = p. 525 s.). Comunque sia da intendersi la negazione del volere, Schopenhauer constata empiricamente che l'uomo che l'ha raggiunta, già durante la vita fenomenica, viene a trovarsi in una condizione di assoluta calma, serenità e beatitudine (W I, p. 461 = p. 509 e W I, p. 486 = p. 535). Benché allora, secondo quanto s'è visto, la completa soppressione della volontà - il passag­ gio dal velie al nolle - si realizzi solo con la morte, già durante la vita fenomenica l'uomo muta radicalmente la sua condizione. Questo nuovo modo d'essere non può essere comunicato e la filosofia al riguardo non può esprimersi che in forma negativa (W II, p. 701 = p. 745). Esiste tuttavia una particolare esperienza che può fornire qualche indicazione positiva al ri­ guardo, vale a dire la mistica. L'esperienza dei mistici, al di là delle forme necessariamente simboliche o mitologiche in cui è espressa e delle differenze dovute al tempo ed al luogo, mostra una tale omogeneità da non poter non richiamare l'attenzione del filosofo (W I, pp. 452 s. e 485 = pp. 500 s. e 534). Schopenhauer tuttavia non procede ad una sistematica « demitizzazione » della mistica allo scopo di pome in luce il nocciolo razionale. Né può essere altrimenti, perché un'esposizione non mitica del contenuto della mistica implicherebbe nell'uomo la capacità di conoscere ciò che non è fenomeno: anche una ipotetica perfetta rivelazione ci risulterebbe incomprensibile (GBr, pp. 286 e 291). A ciò si aggiunge che la mistica è per sua natura un'esperienza del tutto soggettiva e quindi assolutamente non verificabile, cosa che rende i suoi contenuti sempre un po' sospetti (HN III, p. 352). Nonostante queste difficoltà Schopenhauer circoscrive con sufficiente chiarezza i possibili contenuti della mistica e insieme lascia intendere quali dei suoi aspetti devono essere considerati senz'altro mitologici. Intanto la

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mistica è definita come la « coscienza dell'identità del proprio essere con tutte le cose o col nucleo del mondo » (W II, p. 704 s. = p. 748). Il modo d'essere dell'individuo che ha negato il volere è quindi caratterizzato in primo luogo dalla coscienza della propria identità con il fondamento della realtà, conseguente al completo superamento del prindpium individuationis: l'uomo « si ritrova come l'essere unico ed eterno » (W II, p. 702 = p. 746). Quest'identità fra soggetto ed essenza della realtà è ciò che distingue la mistica - anche quella religiosa in senso tradizionale - dalla posizione del teismo che pone Dio fuori dall'uomo 27 . L'esperienza mistica, conseguentemente non deve essere vista come una conoscenza - che presuppone la scissione fra il soggetto e l'oggetto -, ma come una coscienza, la quale può essere considerata come un modo d'essere superiore alla conoscenza. Schopenhauer ipotizza addirittura per l'uomo dopo la morte una condizione di coscienza che sarebbe « uno stato superiore a quella forma [la conoscen­ za] » (PPII, p. 292 = p. 361). Ma naturalmente, come si dice in due lettere che discutono di tale passo, non è possibile affermare positivamente l'esi­ stenza di una tale forma di coscienza né tanto meno precisarne i contenuti 28. Anche l'esperienza mistica, come la negazione del volere, cui del resto è strettamente legata, apporta all'uomo gioia e serenità. Nei termini della filosofia schopenhaueriana tuttavia le positive ragioni di tale beatitudine non sono facilmente comprensibili, se non supponendo che la soppres­ sione del volere e il conseguente immergersi nell'essenza della realtà sve­ lino all'uomo una nuova realtà positiva. Benché questa strada sia stata in seguito più volte percorsa dalle varie interprelazioni religiose del pensiero 27 W II, p. 703 = p. 747. Cfr. anche PP II, p. 107 = p. 133 dove Schopenhauer contesta la legittimità di ch'iamare la condizione della negazione del volere Dio. Convie­ ne ricordare che Schopenhauer ritiene tanto il panteismo quanto il teismo posizioni insostenibili. Il panteismo è qualcosa di assurdo perché pretende di identificare Dio con un mondo dominato dal dolore e dalla sofferenza (W II, p. 678 = p. 721) ed è moral­ mente dannosissimo, perché implica, come si è visto, il riconoscimento della perfezione del mondo e quindi dell'inutilità di una sua redenzione (W II, p. 406 s. = p. 436). Il teismo invece, benché in sé non sia contraddittorio, è insostenibile perché inconciliabile con il dolore del mondo (cfr. HN III, p. 57: « Se un Dio ha fatto questo mondo, io non vorrei essere Dio: il suo dolore mi strazierebbe il cuore »), con la responsabilità morale dell'uomo (cfr. sopra) e con l'immortalità dell'uomo nei termini sopra indicati, impos­ sibile se l'essere dell'uomo ha avuto inizio nel tempo (cfr. PP I, pp. 129 ss. = pp. 175 ss.). 28 GBr, pp. 249 e 280. Si deve rilevare tuttavia che in alcuni passi Schopenhauer indica in una condizione di pura conoscenza, analoga per molti aspetti alla contempla­ zione estetica, lo stato che l'uomo raggiunge con la negazione del volere (cfr. in partico­ lare W I, p. 486 = p. 536). Evidentemente egli si riferisce qui ad una condizione di ancora parziale negazione del volere.

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di Schopenhauer, va rilevato che nessuna indicazione in questo senso si trova nei suoi scritti. La difficoltà di precisare il contenuto e il significato dell'esperienza mistica è probabilmente il motivo per cui Schopenhauer non attribuisce all'aldilà - come potremmo chiamare per comodità la condizione che si realizza con la soppressione della volontà - una funzione costitutiva nella sua filosofia. La negazione del volere ha valore in quanto è l'unica via per sottrarre l'uomo alle sofferenze di questo mondo e può per questo essere indicata come il fine dell'uomo anche a prescindere dalla condizione cui condurrà l'uomo durante questa vita prima e dopo la morte poi - fosse anche il puro nulla. In questa prospettiva si comprende come Scho­ penhauer consideri la sua filosofia, nonostante le numerose domande che in essa rimangono senza risposta, come sufficiente a portare un messaggio di conforto all'umanità e ad indicare una dirczione all'agire dell'uomo 29. Alla luce di quanto si è ora visto si può tornare ancora una volta al problema del pessimismo e considerare in che modo la dottrina della ne­ gazione del volere si inserisca nel quadro prima delineato. Si può osservare in primo luogo che l'esistenza di un modo d'essere intrinsecamente positi­ vo della cosa in sé rimane ipotetico e non trova precisi riscontri nell'interpretazione complessiva della realtà. La filosofia di Schopenhauer, rimanen­ do immanente, non si allontana dalla convinzione che il mondo sia qualco­ sa d'irrimediabilmente negativo, un passo falso, un errore della volontà, per il quale non esiste riscatto e per il quale non si può sperare niente di meglio che il suo cessare d'esistere. Da questo punto di vista quindi la possibilità della negazione della volontà non modifica significativamente il quadro complessivo del pessimismo schopenhaueriano. Dal punto di vista dell'individuo invece la possibilità di arrestare l'eter­ no ciclo dell'affermazione della volontà e di sottrarsi così alla sofferenza costituisce certamente un motivo di conforto e una parziale mitigazione del pessimismo: la condanna all'esistenza non è una condanna senza appello. Bisogna però tener presente, come si è già detto, che la via della negazione del volere è di fatto aperta a pochi e ciò restringe di non poco « la zona di luce » (GBr, p. 219) che essa introduce nel pessimismo schopenhaueriano. Schopenhauer sembra inclinato a credere che l'umanità, la storia nel suo complesso non saranno mai redenti: la volontà di vita continuerà ad af­ fermarsi e quindi a perpetuare all'infinito il tragico destino del mondo. 29 Cfr. PP II, p. 333 = p. 411. Cfr. anche l'importante capitolo conclusivo del secondo volume del Mondo (W II, pp. 736 ss. = pp. 781 ss.).

2. LA PRIMA DIFFUSIONE DEL PESSIMISMO DI SCHOPENHAUER

1. IL PESSIMISMO DI SCHOPENHAUER NELLE PRIME RECENSIONI DEL « MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE ». La prima reazione al pessimismo di Schopenhauer da parte della cultura tedesca è documentata nelle recensioni al Mondo (1819) l . Benché in esse - con l'eccezione di quella di Jean Paul - il pessimismo non sia visto come l'elemento caratteristico della nuova filosofia, cominciano a delinear­ si qui, in forma incompleta o frammentaria, alcuni degli atteggiamenti che diverranno in seguito canonici. È interessante rilevare come non vi sia nessun hegeliano fra gli autori di tali recensioni, sebbene esse siano state tutte pubblicate intorno al 1820, cioè negli anni in cui, con la chiamata di Hegel a Berlino, l'hegelismo stava per affermarsi definitivamente. La recensione dello schellinghiano Ast, la prima ad essere pubblica­ ta 2 , si segnala oltre che per le critiche rivolte a parecchie dottrina di Scho­ penhauer (per es. alla separazione fra soggetto ed oggetto, propria di un kantismo ormai superato dai tempi) per il rifiuto dell'identificazione del­ l'essenza del mondo con la volontà. La volontà può essere solo una funzio­ ne dell'essenza del mondo, vale a dire del Geist, non un cieco tendere, ma un procedere guidato da conoscenza e ragione, e questo tanto nel mondo, quanto nell'uomo (ibid., pp. 56-59). Del resto, secondo lo stesso Scho­ penhauer, la volontà non ha parte alla contemplazione delle idee, che per 1 Tutte le recensioni alla prima edizione del Mondo sono state ristampate in Piper 1916. Su di esse Gebhardt 1926, Pasquinelli 1961, pp. 262-276, Hubscher 1966, p. 37 s., Vecchiotti 1976, pp. 15-23, Spierling 1984, pp. 105-118. 2 Ast 1819, Friedrich Ast (1778-1841) è l'autore del noto lessico platonico.

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Ast costituiscono l'essenza della realtà: è conscguentemente insostenibile che ciò che viene a mancare nell'attività più propria dell'uomo - la con­ templazione - possa costituire la sua essenza (ibid., p. 65 s.). All'antropo­ logia schopenhaueriana, che vede nel volere comunque un male, Ast contrappone quindi la propria, secondo la quale, accanto a due tipi d'intui­ zione - quella sensibile e quella soprasensibile (che ha per oggetto appunto le idee) -, bisogna ammettere due tipi di volontà, una indirizzata al sensi­ bile, ai bisogni dell'esistenza terrena, l'altra all'intelligibile. Fra queste due forme di volere non deve esistere tuttavia separazione o conflitto, bensì continuità, giacché il sensibile, il finito, è il medium per l'intelligibile, l'in­ finito. Non si tratta quindi di eliminare il volere sensibile, ma di subordi­ narlo al volere intelligibile « come mezzo e organo ». Quanto alla negazio­ ne del volere, alla completa rassegnazione proposta da Schopenhauer, essa non è un ideale morale accettabile, ma piuttosto un segno di debolezza morale e di Schwàrmerei (ibid., pp. 78-81). Anche Herbart, nella sua celebre recensione 3 , attacca il fondamento metafisico del pessimismo di Schopenhauer, giudicando insostenibili le argomentazioni mediante le quali prima si afferma l'identità di corpo e volontà, poi si estende per analogia tale determinazione a tutto il cosmo: « Avesse Schopenhauer applicato una piccola parte dell'acume, che egli mostra talvolta contro Kant, anche all'esame della sua propria dottrina! » (ibid., p. 108). Del resto la tesi che la radice ultima del soggetto sia la volontà non è per Herbart originale, in quanto già presente nella Sittenlehre di Fichte; per questa ed altre dottrine la nuova filosofia, a parere di Herbart, non si distacca di molto dagli altri sistemi speculativi, ai quali pure Schopenhauer vorrebbe contrapporsi: « mutato nomine, de te nanatur fabula » 4 . Questa Schwàrmerei celebra poi il suo trionfo nel quarto 3 Herbart 1820. La recensione era stata richiesta ad Herbart (1776-1841) diretta­ mente dall'editore Brockhaus (cfr. il relativo carteggio di Gebhardt 1926 e in Fritzsch 1910). Cronologicamente la critica di Herbart è preceduta da una breve recensione (Anon. 1819), che non contiene nulla di interessante per il tema del pessimismo. L'in­ tervento di Herbart è stato considerato in seguito la parola definitiva sul valore della filosofia di Schopenhauer, cosicché si è più volte rimproverato a Schopenhauer di non averne tenuto conto in alcun modo tanto in N quanto in W II. Schopenhauer dava invece di essa e del suo autore un giudizio assai differente: egli l'aveva letta una sola volta nel 1820, e mai più presa in considerazione in seguito (cfr. GBr, p. 238). Sull'insieme delle critiche di Herbart a Schopenhauer cfr. Erpelt 1916 e Salzsieder 1928, p. 17 s. 4 Ibid., p. 114 s. La stessa assimilazione di Schopenhauer con i sistemi idealistici postkantiani si ritrova in Herbart 1822. Herbart osserva fra l'altro che Schopenhauer, supposto che non conoscesse quest'opera fichtiana, avrebbe dovuto quanto meno astenersi dal criticare con tanta veemenza un autore a lui noto in maniera così incom-

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libro: « II carro degli dei indiani insieme agli infelici che si fanno volonta­ riamente da esso travolgere apre il corteo e Madame de Guyon si trova nel seguito: risuona una costante melodia di tormenti, supplizi, di mortificazio­ ne della volontà » (ibid., p. 110). Una presa di posizione a favore o contro l'ottimismo per Herbart « è al di fuori della sfera di una prova rigorosa »; comunque egli si dichiara ottimista per Gesinnung: i dolori ed i disagi che ci derivano dalla natura sono sopportabili; quelli che invece sono causati dall'uomo e dalla vita sociale devono essere eliminati dall'impegno morale di ciascuno. L'umanità può essere paragonata ad una coltivazione di fagio­ li: le singole piante, se mancano di sostegno, si avvinghiano l'un l'altra, si soffocano e non riescono ad alzarsi da terra; se invece possono aggrapparsi a sostegni adatti, si sviluppano regolarmente. Gli uomini dunque hanno bisogno di chi sappia offrire loro sostegno ed indirizzarli, non di « filosofi del paese dei sogni (Wolkenkukusheim) » (ibid., p. 116 s.). Una lunghissima recensione può essere considerato anche il libro di Ràtze, che offre la prima estesa discussione dell'antropologia e dell'etica di Schopenhauer 5 . Dopo aver molto lodato lo stile e la profondità del Mondo, Rà'tze osserva come la metafisica in esso contenuta non sia in sé pessimisti­ ca e quindi non richieda affatto l'etica che Schopenhauer le fa seguire (ibid., p. VI). La volontà-cosa in sé, che per Ràtze è una ripresa di una dottrina già presente in Bòhme, non può avere quei caratteri negativi che le sono attribuiti, giacché altrimenti non potrebbe obicttivarsi in nessun degli aspetti positivi che pur si riscontrano nella realtà, siano essi le idee, oggetto della rasserenante contemplazione estetica, oppure le azioni detta­ te dalla giustizia o dalla compassione (ibid., p. 9). Applicando la sua con­ cezione della volontà all'uomo però Schopenhauer compie un errore fon­ damentale: « In questo sistema la volontà viene giudicata solo come un desiderare (Begehren) cieco, incessante, sempre in preda al bisogno, mai soddisfatto, un desiderare che è indipendente dalla ragione. Perciò la legge pietà (ibid., pp. 105-107). Schopenhauer conosceva invece la Sittenlehre che aveva letto e commentato, cfr. HN II, pp. 347 ss. 5 Ràtze 1820. Johann Gottlieb Ràtze (1764-1839), insegnante a Zittau, è autore di numerosi volumi. A parte uno scritto su Schleiermacher, nessun altro autore post-kantiano oltre a Schopenhauer è preso in considerazione. Sulla figura di Ràtze cfr. Casula 1966, pp. 85-87 e 109-112. Insieme con Jean Paul, Ràtze è il recensore relativamente più apprezzato da Schopenhauer che lo ricorda con favore in N, p. 144 = p. 214. Sembra d'altra parte che Schopenhauer, attribuendo almeno in via ipotetica all'individualità dell'uomo un carattere metafìsico (cfr. sopra), abbia tenuto conto di un'obiezione di Rà'tze, il primo a rilevare la contraddizione esistente fra la tesi dell'unità della volontà e il suo simultaneo negarsi in alcuni individui ed affermarsi in altri (ibid., p. 49).

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morale è vista come qualcosa che contraddice la libertà, e perciò non è riconosciuto alcun sommo bene » (ibid., p. 17). La negazione di un volere morale e razionale (un wollen che è insieme un sollen), in sostanza della ragion pratica kantiana, sta alla base di tutti gli altri errori e difficoltà che si incontrano nel Mondo e sui quali Ràtze si diffonde. La legge morale è immanente al volere e unicamente il sottomettersi ad essa rende pensabile una vera libertà, che non è quella che si esplica nella negazione del volere. La legge rende comprensibile il miglioramento morale, che consiste nella subordinazione degli impulsi sensibili all'intelligibile; mediante tale subor­ dinazione è possibile dare un giusto posto nella vita dell'uomo a questi impulsi, senza ricorrere al sacrificio totale della negazione del volere, un ideale morale innaturale ed estraneo al cristianesimo, il quale chiede all'uo­ mo il sacrificio solo quando è necessario (ibid., pp. 20-44). Non interessano qui gli ulteriori sviluppi dell'opera di Ràtze, che pre­ sentano l'accoglimento della religione rivelata come la condizione necessa­ ria per il raggiungimento della perfezione morale. Importa piuttosto sotto­ lineare come questo autore, a differenza di Herbart, abbia colto nella sot­ tolineatura dell'irrazionalità del volere umano - ovvero nella totale subor­ dinazione della ragione alla volontà - tipica dell'antropologia schopenhaueriana, il momento di rottura con Kant e con la tradizione idealistica. Nella recensione di Beneke, che considera insieme con il Mondo an­ che il libro di Ràtze, i temi del pessimismo di Schopenhauer trovano una risonanza molto modesta 6 . Anche Beneke, che pur apprezza l'importanza attribuita alla psicologia da Schopenhauer, come Herbart rifiuta l'identifi­ cazione di volontà e corpo e l'estensione per analogia a tutto l'universo di tale identità. Beneke, che interpreta senz'altro la filosofia schopenhaueriana come una metafisica tradizionale, nega che attraverso la coscienza si possa andare al di là del mondo fenomenico, poiché qualsiasi discorso relativo alla cosa in sé, in quanto sottoposto al principio di ragione, appar­ tiene al mondo della rappresentazione (ibid., pp. 125-132). Una volta di6 Beneke 1820. La recensione da origine a una replica di Schopenhauer, che rim­ provera a Beneke, oltre all'anonimato della recensione - peraltro all'epoca diffusissimo -, un uso scorretto delle virgolette nelle citazioni dei passi del Mondo. Fallito il tentativo di un incontro personale pacificatore con Schopenhauer, Beneke replica a sua volta difendendo il suo operato (cfr. Schopenhauer 1821). Sulle critiche di Beneke a Schopenhauer cfr. Erpelt 1916 e Salzsieder 1928, p. 18 s. Friedrich Eduard Beneke (1798-1854) può essere considerato come Schopenhauer una vittima dell'hegelismo. Psi­ cologista ed antispeculativo, con l'accusa di epicureismo viene privato nel 1822 della venia legendi dall'università di Berlino e può tornare a Berlino solo nel 1827, dove però non otterrà mai un posto di professore ordinario. Su Beneke cfr. Pettoello 1992.

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mostrata l'insostenibilità della parte teorica del sistema, Beneke conclude la sua recensione con una rapida esposizione dell'etica, in cui egli trova modo di definire « mitologia » la negazione della volontà. Per la valutazione dell'etica egli si affida al libro di Rà'tze, con il quale sembra concordare nell'essenziale, benché lo giudichi di valore nettamente inferiore al Mondo e non privo di contraddizioni (ibid., pp. 140-147). Un cenno merita anche la recensione di Krug perché, quantunque piuttosto confusa ed imprecisa nella parte espositiva, è il primo esempio di quell'atteggiamento conciliante e comprensivo verso il pensiero di Schopenhauer ed il suo pessimismo che sarà assunto più volte in seguito da altri sostenitori del teismo d'ispirazione cristiana 7 . Così Krug, passando sotto silenzio tutte le determinazioni anti-teistiche della volontà, vorrebbe vede­ re in essa la volontà di Dio: egli vorrebbe che Schopenhauer sostenesse la tesi che « II mondo è volontà divina e rappresentazione divina » (ibid., p. 175). Anche l'etica del Mondo, una volta liberata dall'inaccettabile deter­ minismo e fatalismo, potrebbe essere riletta senza grandi difficoltà in senso cristiano. Krug infatti interpreta la negazione della volontà come la nega­ zione della volontà dell'individuo, in vista di una subordinazione alla vo­ lontà universale: sarebbe sufficiente allora vedere nella volontà universale quella divina per poter leggere nel Mondo le parole evangeliche: « Sia fatta non la mia ma la tua volontà » (ibid., p. 171 s.). Fra le prime reazioni alla filosofia di Schopenhauer va infine ricordata la « recensione » di Jean Paul che, nella sua brevità - essa non vuole offrire né un'esposizione né una critica del Mondo, ma solo documentare l'im­ pressione suscitata nel poeta dalla sua lettura -, sottolinea la centralità del motivo pessimistico, un pessimismo che Jean Paul, con la sua sensibilità poetica, sembra cogliere più nell'atmosfera complessiva della nuova opera che in specifiche dottrine. Data la sua brevità, conviene citarla per intero: « II mondo come rappresentazione e volontà (sic) di Schopenhauer, un'opera filosofica di genio, ardita, dai molteplici aspetti, piena di perspi­ cacia e di profondità, ma di una profondità sconsolata ed immensa, para­ gonabile al melanconico lago della Norvegia, cupamente cinto di ripide rocce, stando sul quale non si scorge mai il sole, bensì, nella sua profondità, solo il ciclo stellato di giorno (den gestirnten Taghimmel), e sopra il quale 7 Krug 1821. Wilhelm Traugott Krug (1770-1842), successore di Kant a Kònigsberg ed all'epoca della recensione professore a Lipsia, propugnatore di un « sintetismo trascendentale », è conosciuto soprattutto per la sua polemica con Hegel. Scho­ penhauer, pur apprezzandone l'opposizione ad Hegel (P I, p. 194 = p. 256), lo conside­ rava un corruttore della filosofia kantiana (P II, p. 360 = p. 444).

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non si muove né volatile né onda. Per fortuna io posso solo lodare, ma non sottoscrivere il libro ». In nota, riferendosi all'immagine del lago, Jean Paul aggiunge: « L'im­ magine dell'ultima riga i lettori dell'originale libro la troveranno calzante, perché i suoi esiti si smarriscono spesso nell'immobilità del foismo e del quietismo » 8.

2. LA PRESENZA DEL PENSIERO DI SCHOPENHAUER NELLA CULTURA TEDESCA FINO ALLA PUBBLICAZIONE DEI « PARERGA E PARALIPOMENA ».

Nel periodo che va dalla pubblicazione della prima edizione del Mondo (1819) a quella dei Parerga e pamlipomena (1851) non esiste alcun dibattito degno di tal nome intorno alla filosofia di Schopenhauer ed al suo pessimismo. Solo pochissimi autori si occupano in questi anni del suo pen­ siero, spesso di sfuggita ed in modo superficiale. Questo silenzio può essere spiegato anche senza ricorrere all'ipotesi di una « congiura » dei professori di filosofia ai danni di Schopenhauer 9. Infatti ai giudizi per lo più critici delle recensioni al Mondo - in nessuna delle quali mancavano peraltro si­ gnificativi apprezzamenti - si era aggiunto lo sdegnoso atteggiamento as­ sunto da Schopenhauer che assai poco aveva fatto per modificare la situa­ zione, rinunciando quasi subito alla possibilità di una carriera accademica e non dando alle stampe più nulla fino al 1836, anno della pubblicazione della Volontà nella natura 10. La situazione filosofica della Germania andava in quegli anni modifi­ candosi rapidamente: dopo la morte di Hegel ed il fallito tentativo di Schelling di sostituire alla filosofia hegeliana la propria nella capitale della 8 Jean Paul 1821. Per « foismo » Jean Paul (1763-1825) intende il pensiero india­ no. Schopenhauer apprezza molto la recensione, giudicandola l'unica veramente favore­ vole alla sua opera (HN IV,1, p. 145) e citandola più volte nell'epistolario come autore­ vole riconoscimento del valore letterario e filosofico del suo capolavoro (cfr. GBr, pp. 118 s., 138, 197). 9 Era questa, come si sa, la spiegazione che Schopenhauer dava del suo insuccesso (cfr. ad es. GBr, pp. 239 e 247). Il tema è anche ripreso più volte nelle opere pubblicate, cfr. ad es. W I, p. XXVII = p. 20. 10 Sulle prospettive accademiche di quegli anni cfr. Hùbscher 1973, p. 225. Per quanto riguarda N, essa viene recensita favorevolmente ma brevemente per incarico di Brockhaus da Gustav Hartenstein (1808-1890), herbartiano (Hartenstein 1836). Questo autore pubblica in seguito anche una recensione di E (Hartenstein 1841) e della seconda edizione di W (Hartenstein 1844). Tali recensioni, per la mancanza di ogni approfondi­ mento critico, lasciano del tutto insoddisfatto Schopenhauer (GBr, p. 209).

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Prussia, sempre più insistenti si facevano le critiche al pensiero speculativo ed alla filosofia hegeliana in particolare, divorata del resto al suo interno dalle polemiche fra destra e sinistra. GK herbartiani ed i propugnatori della psicologia empirica (Beneke e Fortlage), Feuerbach ed i materialisti (Bùchner, Moleschott, Vogt), e - su sponda opposta - i teisti speculativi (Weisse, Ulrici, Wirth), più tardi i propugnatori del « ritorno a Kant », tutti, pur divisi su moltissime questioni, erano concordi nella critica all'hegelismo. È comprensibile che anche Schopenhauer, anti-hegeliano da sempre, dovesse venir prima o poi riscoperto e coinvolto nel dibattito. Un primo segnale è offerto da due recensioni che accolgono I due problemi fondamentali del­ l'etica, del 1841, con la sua introduzione violentemente anti-hegeliana. Nella prima di essa, firmata Spiritus lenis e significativamente intitolata // giudizio universale sulla filosofia hegeliana, Schopenhauer è celebrato come il definitivo affossatore della filosofia hegeliana 11 . Ad essa risponde l'hege­ liano Carové, che attacca con veemenza la filosofia di Schopenhauer, accu­ sandola di confusioni e di contraddizioni - non una Tebe dalle cento porte, ma un crivello con cento buchi o un mantello sforacchiato che lascia vede­ re ciò che non si vorrebbe. Per l'eccentricità delle sue posizioni Scho­ penhauer è poi chiamato un « Ornithorynchus paradoxus » 12 . Nonostante tutto è però ad un hegeliano che la filosofia di Scho­ penhauer deve il primo importante riconoscimento ufficiale: Rosenkranz ne fornisce una breve esposizione nella sua Geschichte der Kant'schen Phi11 Mundt 1841. L'autore della recensione dovrebbe essere proprio Theodor Mundt [1808-1861], scrittore e giornalista e dal 1850 professore a Berlino, nella sua giovinez­ za vivace avversario dell'hegelismo; così almeno dice Friedrich Kòppen in una lettera a Marx del 3.6.1841 [MEGA, III, 1, p. 361], da cui si apprende fra l'altro che lo stesso Kòppen aveva parlato occasionalmente a Marx del « verrùckter Dr. Schopenhauer »; nell'occasione egli invita Marx a tener conto eventualmente anche di Schopenhauer nel suo progettato scritto in difesa di Hegel contro Trendelenburg; Schopenhauer non è però più ulteriormente citato nelle opere e nelle lettere di Marx; Franziska Kugelmann tuttavia, in una testimonianza che si riferisce al 1867, racconta di un giudizio di Marx tutto sommato positivo riguardo all'etica di Schopenhauer, autore che sarebbe stato ingiustamente e superficialmente condannato (Marx 1977, p. 255 s.). 12 Carové 1841. Friedrich Wilhelm Carové (1789-1852), cattolico, era stato allievo di Hegel fin dagli anni di Heidelberg; per le sue posizioni politiche, gli fu impedita la carriera accademica, nonostante l'appoggio di Hegel, che l'avrebbe voluto con sé a Berlino. Per dare un'immagine complessiva della filosofia schopenhauriana Carové si occupa anche di N, senza però toccare mai il tema del pessimismo. La recensione irritò particolarmente Schopenhauer in quanto egli era in rapporti personali con Carové (cfr. GBr, pp. 347 e 349). Anche Ludwig Braunfels (1810-1885) nel recensire brevemente E, pur non dimostrandosi particolarmente favorevole a Schopenhauer, mette in risalto la sua critica ad Hegel (Braunfels 1841).

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losophie, dodicesimo e conclusivo volume dell'edizione delle opere di Kant da lui curata insieme a Schubert 13 . In queste pagine Schopenhauer è ap­ prezzato non tanto come metafisico - nei confronti della filosofia della volontà anzi Rosenkranz è molto critico, giacché la condanna come un « magismo » - quanto come convinto sostenitori di una Lebensansicht che muovendo da un amaro disprezzo del mondo culmina in un « grandioso, genuino misticismo », i caratteri del quale peraltro non vengono ulterior­ mente approfonditi. In Rosenkranz tuttavia, più che il contenuto dell'espo­ sizione - in seguito egli affronterà più analiticamente il tema del pessimi­ smo -, colpisce la posizione attribuita all'ancor sconosciuto Schopenhauer, l'« eremita della filosofia kantiana », che è collocato dopo la fioritura del­ l'idealismo classico, come figura conclusiva di quel periodo storico 14. Pur nella brevità dell'esposizione qualcosa di analogo avviene anche nella fortunata storia della letteratura tedesca di Joseph Hillebrand: anche in questo caso Schopenhauer, un pensatore posto sullo stesso piano di Fichte e Schelling, viene visto come l'ultimo esponente del periodo ideali­ stico, dal quale tuttavia si distingue per l'accoglimento - giudicato negati­ vamente - di elementi del pensiero orientale 15 . Delle tre recensioni dedicate alla seconda edizione del Mondo (1844), soltanto quella di Fortlage è di un certo interesse per il rilievo che in essa vien dato al pessimismo 16. Dopo aver sottolineato l'interesse morale che 13 Rosenkranz 1840, pp. 475-481. Karl Rosenkranz (1805-1879), hegeliano di cen­ tro, autore della celebre Hegels Leben (Rosenkranz 1844), era dal 1833 professore ordi­ nario a Konigsberg, dove occupava la cattedra che prima era stata di Kant e di Herbart. Fra Rosenkranz e Schopenhauer era intervenuto alcuni anni prima uno scambio episto­ lare, quando quest'ultimo, venuto a conoscenza del progetto di una nuova edizione delle opere di Kant, era riuscito a convincere i due curatori a pubblicare come testo base della Critica della ragion pura non quello della seconda ma quello della prima edizione (GBr, pp. 165 ss.). Su Rosenkranz e Schopenhauer cfr. Salzsieder 1928, p. 35 s. 14 Rosenkranz, che era stato criticato dai colleghi per l'eccessivo rilievo dato a Schopenhauer, scriveva in seguito, quando il successo di Schopenhauer era ormai dive­ nuto un fatto indiscutibile: « Credo di essermi guadagnato il merito di aver assegnato a quest'uomo per la prima volta il posto che gli tocca nella nostra storia della filosofia, mentre fino ad allora lo si era trattato come una curiosità » (Rosenkranz 1854, p. 135). 15 Hillebrand 1845, voi. Ili, pp. 384-385 e 245-250. Hillebrand (1788-1871), va­ riamente influenzato da Leibniz, Jacobi ed Hegel, era professore a Giessen. 16 Fortlage 1845; le altre due recensioni sono di Kòppen 1845, e di Hartenstein 1844 (cfr. sopra nota 10). Karl Fortlage (1806-1881), all'epoca di questa recensione era Prwat-Dozent ad Heidelberg; divenne poi nel 1846 professore a Jena dove rimase fino alla morte. Caratteristica della sua filosofia è la compresenza di una forte componente psicologico-empirica - derivata da Beneke - con un panteismo trascendentale, talora sconfinate nella Schwàrmeret, derivato da Fichte. ^n un più tardo saggio (Fortlage 1857),

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anima l'opera di Schopenhauer, Fortlage affronta il problema del suo pes­ simismo, un carattere che potrebbe riuscire sgradito a non pochi lettori. Ma - si domanda Fortlage - non erano forse pessimisti anche i primi cri­ stiani? Comunque «... anche se pessimista, è uno spirito buono e cristiano quello che parla in Schopenhauer ». Infatti il pessimismo schopenhaueriano non si estende a tutta la realtà - che anzi nell'aldilà regna l'eterna giu­ stizia -, ma riguarda soltanto l'esistenza terrena, cui altri filosofi alla moda rimangono troppo legati. La filosofia di Schopenhauer, benché talora po­ lemica verso i dogmi della religione, deve essere considerata senz'altro re­ ligiosa e propugnatrice di un ascetismo troppo spesso dimenticato. Anche la sua etica sostiene con grande vigore tesi ben note che appaiono parados­ sali solo ad una società divenuta superficiale ed immorale. Dovendo sce­ gliere fra lo schierarsi a favore o contro Schopenhauer, Fortlage si porreb­ be senza esitazioni al suo fianco 17 . Una posizione degna di interesse è anche assunta nei confronti della parte teorica della filosofia di Scho­ penhauer. Pur riconoscendone gli innegabili debiti verso la Kant e Fichte, Fortlage la considera il primo esempio di un nuovo modo di pensare più saldamente legato all'esperienza. In particolare il procedimento impiegato da Schopenhauer per giungere alla cosa in sé è visto come una conferma indiretta della necessità di porre alla base di ogni costruzione filosofica delle solide indagini psicologiche. Anche in questo ambito tuttavia - ac­ canto ad osservazioni critiche penetranti - non mancano disinvolte propo­ ste di correzioni. Ad esempio, una volta riconosciuta la legittimità di usare il termine Wille per indicare l'essenza della vita intcriore dell'uomo, si suggerisce di sostituirlo con il termine Seele che renderebbe impossibile ogni equivoco 1S. riferendosi alle due monografie su Schopenhauer di Bàhr e Cornili (cfr. sotto) Fortlage offre un eloquente esempio dei suoi sforzi di conciliare materialismo e spiritualismo, osservazione empirica e sviluppi speculativi (su Fortlage e Schopenhauer cfr. Salzsieder 1928, p. 66 s.). 17 Fortlage 1845, pp. 574-586. Della problematica negazione del volere, Fortlage si occupa più a fondo in Fortlage 1852, pp. 407-423; a suo avviso tale dottrina - cui lo stesso Schopenhauer non attribuirebbe un valore scientifico assoluto - è insostenibile in quanto implica che la volontà annichili se stessa, la propria sostanza. È meglio quindi sostituirla con la dottrina più tradizionale che vede il fine della morale nella subordina­ zione degli istinti alla ragione (Schopenhauer dava un giudizio sprezzante di questa esposizione, considerandola opera di un incapace e superficiale prodotto della Buchmacherei, GBr, p. 283). 18 Fortlage 1845, pp. 587 e 596. Perplessità suscitano in Fortlage anche l'identifi­ cazione degli atti del corpo con la volontà, l'estensione per analogia a tutto il mondo della determinazione della volontà come cosa in sé e la superiorità/indipendenza della

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3. IL SUCCESSO DEI « PARERGA E PARALIPOMENA » E LA POLEMICA SULLA VITA DI SCHOPENHAUER. Solo grazie all'interessamento del discepolo Frauenstàdt Schopenhauer riesce a trovare un editore per i suoi Parerga e paralipomena che, come si è detto, escono nel 1851. Nonostante il titolo sibillino, l'opera ottiene una vasta eco nella stampa e ha subito successo. Da allora in poi il pensiero di Schopenhauer si diffonde sempre di più fra il pubblico, che continuerà a considerarlo il pessimista per eccellenza anche quando il dibattito filosofico si sposterà sulla versione del pessimismo sviluppata da Hartmann 19. Le recensioni ai Parerga e paralipomena non sono particolarmente numerose, ma appaiono in gran parte su periodici di larga diffusione, la cui influenza sul pubblico proprio in quegli anni andava considerevolmente aumentando 20. Oltre all'opuscolo-recensione dell'altro discepolo Dorguth e ad una recensione molto critica di Immanuel Fichte, di cui si parlerà in seguito, si contano altre sei recensioni-annunci: i loro autori, benché non unanimemente favorevoli a Schopenhauer, ne riconoscono i grandi meriti di scrittore, la chiarezza espositiva e la leggibilità, di molto superiore a quella degli altri filosofi dell'epoca e, soprattutto, dell'immediato passato. Così Frauenstàdt, dopo un'estesa esposizione dell'opera, conclude la sua recensione con un enfatico « Sì, Schopenhauer ha ancora un grande futu­ ro », e Karl Gutzkow intitola il suo brevissimo annuncio Un pensatore autonomo, titolo in cui è evidente l'intenzione di sottolineare l'originalità di Schopenhauer e la sua indipendenza dalle varie scuole 21 . Il successo dei Parerga e paralipomena si riflette immediatamente sulle altre opere, delle quali si rendono presto necessarie nuove edizioni 22. Frauenstàdt, da parte volontà nei confronti dell'intelletto. In questo periodo brevi note sul pensiero di Scho­ penhauer appaiono anche in alcune storie della filosofia generali scritte o riedite in quegli anni (Th.A. Rixner, W.G. Tennemann, E. Reinhold); cfr. Hiibscher 1981, pp. 271 ss., che riporta anche quasi per intero questi testi. 19 II successo è provato fra l'altro dal susseguirsi delle edizioni delle opere di Schopenhauer, con tirature che non saranno mai neppure lontanamente accostate dagli altri pessimisti: ad es. di Schopenhauer 1891 furono vendute fino alla morte di Grisebach (1906) 200.000 copie (cfr. Sorg 1975, p. 42, nota 1). 20 Cfr. Nipperdey 1983, pp. 587-594 e più in generale Winterscheidt 1970. 21 Frauenstàdt 1852; Gutzkow 1852, p. 80. Le altre recensioni sono Kilzer 1852, Oxenford 1852, cui si aggiungono due recensioni anonime (Anon. 1851 e 1852). 22 La terza edizione di W è del 1859 (ancora curata da Schopenhauer); G è riedita nel 1864 (3 a ed.); N nel 1854 e nel 1867; F nel 1854 e nel 1869; E nel 1860; PP nel 1862 e nel 1873. La prima edizione complessiva delle opere di Schopenhauer, curata da Frauenstàdt, è del 1873/74 (cfr. sotto).

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sua, compendia la « nuova » filosofia nelle Lettere sulla filosofia schopenhaueriana (1854) e si sforza di renderla accessibile ad un pubblico ancor più vasto approntandone un'antologia (Frauenstadt 1862), cui fa segui­ to la pubblicazione del Nachlass (Frauenstadt 1864) e di un lessico della filosofia schopenhaueriana (Frauenstadt 187Ib). Molto rumore suscita anche l'articolo dell'inglese Oxenford, che viene presentato come un implicito rimprovero alla cultura tedesca per aver ignorato per tanto tempo un filosofo così significativo 23 . La crescente popolarità di Schopenhauer subisce però una battuta di arresto subito dopo la sua morte (1860) con la pubblicazione del testamen­ to. Il fatto che tutte le sue sostanze dovessero essere devolute al fondo per l'aiuto degli invalidi, delle vedove e degli orfani dei soldati prussiani caduti nella repressione dei moti del '48, suscita molta impressione fra coloro che nella filosofia di Schopenhauer avevano sì trovato un conforto per le loro delusioni politiche, ma che non per questo erano disposti a rinnegare inte­ gralmente i loro ideali, di cui spesso ancora in quegli anni pagavano le conseguenze con l'esilio o subendo persecuzioni poliziesche di vario tipo. Si pensi al gruppo di intellettuali che si trovavano a Zurigo insieme a Wagner ed a cui non era estraneo De Sanctis. Ai sentimenti di costoro da voce con un breve ma veemente articolo ancora Gutzkow, in quel periodo osservato speciale della polizia in quanto esponente della « Giovane Germania » e, particolare forse non irrilevante, per parte sua alla ricerca di donazioni per costituire una progettata fonda­ zione Schiller. A suo modo di vedere il testamento rivela la vera indole dell'uomo Schopenhauer e con essa della sua filosofia: « Schopenhauer non voleva nient'altro che la sua filosofia ed in generale l'ordine. Lavoro intellettuale, quietistico ordinamento indiano in caste nelle forme traman­ date della vita sociale e per tutto il resto, nel caso si passasse la misura, polvere e piombo ». Egli non è stato certo un eroe del pensiero; la sua etica è fondata « sul melanconico coraggio del rentier ». Anticipando le linee delle più elaborate interpretazioni politiche della filosofia di Schopenhauer che saranno sviluppate in seguito, Gutzkow può quindi sostenere che il pessimismo e il quietismo servono in realtà solo a difendere i privilegi e gli interessi particolari del loro propugnatore (Gutzkow 1860). 23 Oxenford 1853. L'articolo, tradotto da Lindner, viene pubblicato sulla « Vossische Zeitung » e inserito da Frauenstadt nelle sue BSP. Esso insiste più che sui meriti intrinseci di Schopenhauer, sulla sua opposizione all'idealismo, valutata positivamente. John Oxenford (1812-1877) fu autore di numerosi testi teatrali, traduttore di Goethe, Calderon, Molière e, dal 1850, critico teatrale del « Times ».

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Due anni dopo la polemica intorno all'uomo Schopenhauer è rinfoco­ lata dalla pubblicazione della prima estesa biografia del filosofo ad opera di Wilhelm Gwinner, l'esecutore testamentario di Schopenhauer (Gwinner 1862). A parte un'esposizione non troppo felice del pensiero di Scho­ penhauer, il libro si dilunga con molti dettagli su notizie ed aneddoti bio­ grafici indubbiamente utili per una più completa conoscenza del filosofo, ma non certo adatti a farne risaltare la grandezza morale. D'altra parte il tono complessivo dell'esposizione fa sorgere il sospetto che dietro il profes­ sato intento di difendere Schopenhauer, si nasconda il desiderio, forse in­ consapevole, di ridimensionarne un po' la figura. È indicativo in proposito il passo in cui Gwinner delinea il programma del suo lavoro. « Per conser­ vare al carattere di quest'uomo il posto che gli spetta davanti al mondo, si dovrebbe poter mostrare come, ragazzo, entrò nella vita guardando smarrito come la macchina del mondo fosse tenuta in movimento dalla fame e dal piacere sessuale; come, giovinetto, affrontò timidamente il mon­ do, tenendo nascosto il suo proprio mondo intcriore; come, da uomo, si pose di fronte ad esso estraneo e nemico - a vulgo longe longeque remotus, solutus omni foedere -; come da vecchio, alla fine, riconobbe il mondo molto al di sotto di sé e come i suoi chiari occhi lampeggianti si spensero in orgogliosa rassegnazione. Si dovrebbe poter rendere comprensibile da un punto di vista morale la triste solitudine, la sconfinata desolazione della sua esistenza, l'indicibile disprezzo per l'umanità, la durezza del suo or­ goglio con il quale egli circondò il suo cuore come con una corazza che minacciava d'indurire il suo cuore stesso » (ibid., p. 117). Così lo Schopenhauer di Gwinner si presenta nel suo complesso come un solitario egoista, unicamente preoccupato di se stesso, del proprio be­ nessere e, oltre a ciò, perseguitato da angosce e fobie tali da far dubitare della sua stessa salute psichica 24 . L'eco dell'opera di Gwinner è subito vastissima. Gutzkow in partico­ lare non si lascia sfuggire l'opportunità per tornare sulla questione Scho­ penhauer che dopo il suo articolo relativo al testamento gli aveva provo­ cato non poche preoccupazioni: la biografia - benché scritta da un disce24 Le « particolarità » del carattere di Schopenhauer (le sue crisi d'angoscia mani­ festatesi già nella prima infanzia, la sua costante paura di essere derubato, il suo timore di contrarre dei contagi), il suo comodo modo di vivere (ogni giorno pranzo nel miglior albergo di Francoforte, riposo pomeridiano ed alla sera teatri e concerti), così come vengono descritti da Gwinner, diverranno in seguito un classico nella letteratura schopenhaueriana e saranno ripresi infinite volte con accentuazioni più o meno negative nei confronti di Schopenhauer.

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polo - fornisce ai suoi occhi la conferma indiscutibile di quanto il testa­ mento aveva già fatto sospettare 25 . Egli pronuncia una condanna senza appello della personalità morale di Schopenhauer. Odioso nel suo disprezzo per gli uomini con i quali non di meno temeva di confrontarsi, come mostra la sua fuga da Berlino, ipo­ crita nel predicare un ascetismo che egli era ben lungi dal praticare (« Era un monaco, ma un monaco che non si lasciava sfuggire nessun piacere della vita, neppure uno! » [ibid., p. 273]), egli non è stato costretto né a bere la cicuta, né a salite su un rogo, « ma il sentimento comune del nostro ordi­ namento morale universale, il nostro universale sentire civile, pervaso nel profondo dall'amore cristiano, devono rigettarlo apertamente per sempre come un loro personale nemico e devono evitare con orrore il suo nome ». Quanto alla sua filosofia - immagine speculare del suo carattere - il farla penetrare nella vita nazionale, nell'educazione dei giovani sarebbe una « sciagura nazionale » (ibid., p. 255). Non meno ostile a Schopenhauer è un altro articolo-recensione del libro di Gwinner, apparso anonimo sugli « Historisch-politische Blàtter », che dopo aver dato grande risalto agli aspetti negativi della vita del filosofo, si limita a constatare come tale vita mostri a un tempo quali siano le origini della sua dottrina e quali siano i suoi frutti (Anom. 1862d). Anche Moritz Busch (1821-1899), che a suo tempo aveva partecipato ai moti del '48, ma che in quegli anni si stava convertendo a Bismarck, dopo essersi soffermato a più riprese sulla codardia di Schopenhauer, che si era sottratto ai suoi doveri di cittadino, guardandosi bene dall'impegnarsi nella guerra di libe­ razione, fa risalire il suo pessimismo alla disposizione naturale - ma pato­ logica - del suo carattere ed alle sue vicende biografiche. Così « il libro è la storia di una malattia, che viene presentata con il tono di un vangelo ». Quanto al contenuto specifico della sua filosofia - apprezzata solo da dilet25 Gutzkow 1862. Fra l'altro Bàhr aveva minacciato un processo per diffamazione nei confronti di Gutzkow, in quanto questi aveva parlato nell'articolo precedente di una causa fra Schopenhauer e sua madre, causa invece mai esistita. Gutzkow (1811-1878), che abitò per un certo periodo a Francoforte, vide più volte Schopenhauer, ma, a quan­ to pare, non ebbe mai contatti personali con lui, neppure quando Schopenhauer presente Gutzkow - si recò in casa del futuro suocero di Gutzkow, il console generale di Svezia e Norvegia, per protestare per il ritardato invio della medaglia dovutagli dal­ l'Accademia norvegese (Gutzkow 1875, pp. 127-129). Sui rapporto fra Schopenhauer e Gutzkow cfr. anche Eulenberg 1930. Incidentalmente è interessante notare come Gutz­ kow, che stava gradualmente spostandosi su posizioni filo-prussiane, riformula le accuse rivolte al testamento di Schopenhauer, riconoscendo che i soldati protagonisti delle repressioni dei moti del '48 avevano fatto il loro dovere (ibid., p. 253).

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tanti - Busch ritiene che non valga la pena di occuparsene più da vicino. L'epoca presente è antispeculativa, è soprattutto avversa al quietismo di Schopenhauer che nei suoi colori orientaleggianti è e rimane estraneo allo spirito del popolo tedesco (Busch 1862). Il caso-limite dello sfruttamento polemico della biografia schopenhaueriana è infine costituito da Noack, del quale si parlerà più oltre. Altri interventi, ad esempio quelli di Hoffmann, Reichlin-Meldegg e Wirth - autori sui quali si tornerà in seguito -, sono più equilibrati, quanto meno non si basano esclusivamente sulla biografia per attaccare Scho­ penhauer. Esemplare in proposito è l'articolo di Hermann Marggraff, ap­ parso sui « Blà'tter fùr literarische Unterhaltung », una rivista che annove­ rava fra i suoi collaboratori parecchi personaggi favorevoli a Schopenhauer e in particolare Frauenstàdt; l'autore certo ammette che un'immagine morale migliore del filosofo di Francoforte sarebbe stata desiderabile, ma non ritiene che ci si debba servire della biografia per condannare la filoso­ fia di Schopenhauer o per frenarne la diffusione (Marggraff 1862). Non manca infine anche chi si schiera apertamente a difesa di Scho­ penhauer. È il caso di un articolo anonimo apparso sulla rivista « Stimmen der Zeit », in esplicita polemica con Gutzkow: dopo aver sostenuto la so­ stanziale concordanza fra la dottrina cristiana e la filosofia di Scho­ penhauer - anche il cristianesimo è ascetico e pessimistico -, l'anonimo autore afferma che non esiste una sostanziale contraddizione fra la dottrina di Schopenhauer ed il suo modo di vivere, né si può rimproverare al filo­ sofo di Francoforte le comodità della sua vita, quando si pensa che esse non erano fine a se stesse, ma dovevano servire a garantire la possibilità di un libero svolgimento della riflessione filosofica (Anon. 1862). La polemica raggiunge il suo apice con l'intervento dei due discepoli berlinesi di Schopenhauer, Otto Lindner e Frauenstàdt. Essi, insieme, dan­ no alle stampe un grosso volume che nelle loro intenzioni doveva costituire un completamento e una rettifica della biografia di Gwinner e una difesa dalle accuse di Gutzkow (Frauenstàdt-Lindner 1863). Fin dalla prefazione, a firma di Frauenstàdt, dichiarata è la polemica con Gwinner: il suo lavoro, lungi dal porre in giusta luce la figura e la dottrina di Schopenhauer, è « così lacunoso, che al posto di opporsi all'errato modo di giudicare Scho­ penhauer, piuttosto lo favorisce. Al libro di Gwinner possono richiamarsi fiduciosi tutti quegli oppositori di Schopenhauer che già da lungo tempo si sforzano di metterlo da parte come un originale. Infatti, a prestar fede a Gwinner, Schopenhauer continua ad essere una curiosità, una rarità, pieno delle più strane singolarità e bizzarrie, che mai si possano acquisire » (ibid. ,

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p. Ili s.). Per Lindner è assurdo giudicare la filosofìa schopenhaueriana in base alla vita del suo fondatore; non è la biografia la chiave dell'opera: « il principio che la sua (di Schopenhauer) biografia dia la chiave per la sua filosofia è tanto ingiusto quanto il principio che dal calcolo della quantità di carne mangiata da Mozart durante la composizione del Don Giovanni e della quantità di champagne bevuta si possa ricavare la qualità della sua musica » (ibid., p. 46). In secondo luogo Lindner ritiene di poter dimostra­ re comunque - in particolare pubblicando una serie di lettere di Scho­ penhauer, fra cui un buon numero indirizzate a lui - che la figura morale di Schopenhauer delineata da Gwinner non corrisponde alla realtà (ibid., p. 67). Frauenstàdt combatte invece soprattutto la tesi di Gutzkow di una contraddizione tra la filosofia di Schopenhauer e la sua vita: è sbagliato voler giudicare il valore morale di una persona in base al suo comporta­ mento esterno, e d'altra parte Schopenhauer, se lo scopo della sua vita era il compimento del suo lavoro filosofico, è stato in ciò veramente un asceta. Se Schopenhauer non ha fatto propria la negazione del volere, ciò non è in contraddizione con la sua dottrina, perché - come Frauenstàdt ribadirà più volte - la sua etica non è prescrittiva ma descrittiva (ibid., pp. 335-340). Ingiustificata è poi la pretesa di far derivare il suo pessimismo dalla sua vita. Esso ha invece precise ragioni teoriche (ibid., pp. 305-307). Al di là della polemica, la parte del volume curata da Frauenstàdt ha comunque il merito di mettere a disposizione del pubblico - seppure in una forma tutt'altro che ineccepibile da un punto di vista filologico - una notevole quantità di materiale fino ad allora rimasto inedito ed in partico­ lare estratti dal Nachlass, un resoconto dei colloqui con Schopenhauer svoltisi durante la sua permanenza a Ffancoforte e le lettere inviategli dal filosofo. Tanto Frauenstàdt quanto Lindner tuttavia non smentiscono nessuno dei fatti raccontati da Gwinner, né sono in grado di presentare elementi tali da modificare sostanzialmente il ritratto di Schopenhauer da questi deline­ ato. Gwinner anzi potrà replicare alle accuse rivolte alla sua biografia affer­ mando che sono proprio Frauenstàdt e Lindner a deturpare l'immagine del filosofo, dando alle stampe delle lettere il cui tono, scusabile forse in una conversazione o in un carteggio privato, ne rendeva del tutto sconsigliabile la pubblicazione 26. 26 Gwinner 1863. La pubblicazione di questo scritto produce una definitiva rottu­ ra dei rapporti tra Frauenstàdt e Gwinner, il quale, per parte sua, giudicava assai nega-

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La risposta di Gwinner è l'ultimo intervento significativo riguardo alla vita di Schopenhauer da parte di coloro che l'avevano conosciuto personal­ mente in modo approfondito. Da quel momento in poi non appaiono più testimonianze dirette o documenti capaci di modificare significativamente il quadro delineato dai discepoli. La biografia di Schopenhauer, pur se più volte ripresa in considerazione per spiegare aspetti particolari della sua filosofia - specialmente il pessimismo - cessa di essere argomento di di­ scussione in sé, salvo che nel più tardo opuscolo di Karl von Seidlitz, che basandosi sugli scritti di Gwinner, Frauenstàdt e Lindner tenta di dimo­ strare la malattia mentale di Schopenhauer (« mania di grandezza ») 27 .

tivamente la produzione filosofica di Frauenstàdt (cfr. Frùhm-Borch 1930, pp. 208 e 228). Nel volgere di pochi anni vengono pubblicate anche le lettere agli altri discepoli di Schopenhauer (Asher, von Doss, Becker), di cui Gwinner si servirà nella seconda edizione della sua biografia. Anche Dilthey, pur con molto distacco ed equanimità, partecipa alla polemica, recensendo sia la biografìa di Gwinner sia l'opera di LindnerFrauenstàdt (Dilthey 1862 e 1862b). Dilthey è d'accordo con Gwinner circa il valore morale dell'uomo Schopenhauer; questo tuttavia, a suo giudizio, non avrebbe nessun influsso sulla valutazione della sua filosofia se non fossero proprio i suoi discepoli a proporre « una glorificazione fuori luogo della sua persona » (p. 358), che, in quanto evidentemente ingiustificata, non può che nuocere alla fama della sua filosofia. Più che della condotta dell'uomo Schopenhauer Dilthey è impressionato dall'epistolario pubbli­ cato da Frauenstàdt, la cui « nullità » contrasta singolarmente con l'elevatezza delle opere di Schopenhauer e che quindi, di nuovo, non pup che danneggiare la sua fama (p. 369 s.). Dilthey critica inoltre in particolare l'imperizia filologica con cui Frauenstàdt ha pubblicato il Nachlass, che rendono il libro, da un punto di vista scientifico, di scarsissimo valore (p. 359). 27 Seidlitz 1872. Karl von Seidlitz (1798-1885) era un medito attivo a Dorpat, in Estonia. La sua interpretazione di Schopenhauer è combattuta da Asher 1872. Asher tuttavia concordava con gli oppositori di Schopenhauer nel dare un giudizio negativo della personalità del filosofo (cfr. Asher 1864); contro Seidlitz si pronuncia anche Frauenstàdt, ESW, pp. CLXXX-CLXXXV.

3. IL PESSIMISMO NEI DISCEPOLI DI SCHOPENHAUER

1. I PRIMI DUE DISCEPOLI DI SCHOPENHAUER: DoRGUTH E LA CONVERSIONE A SCHOPENHAUER DI FRAUENSTÀDT. A partire dal 1840 comincia gradualmente a crearsi intorno a Schopenhauer una cerchia di « discepoli », che senza mai configurarsi come una vera e propria scuola, viene a costituire, almeno a giudicare dall'esterno, un gruppo abbastanza chiaramente identificabile. Per quanto qui interessa specificamente, va però subito detto che nessuno di essi - con l'eccezione di Bahnsen la cui filosofia sarà trattata a parte - accoglie in modo incondi­ zionato il pessimismo di Schopenhauer. Il primo nome che va ricordato è quello di Dorguth, un curioso per­ sonaggio più anziano di Schopenhauer, che, dopo una carriera nella giusti­ zia, comincia a pubblicare lavori filosofico-giuridici solo dopo il pensiona­ mento 1 . Dopo un fugace e sfortunato tentativo di avvicinarsi a Feuerbach, egli si volge a Schopenhauer, le cui opere - almeno la Volontà nella natura e la Quadruplice radice - conosce già dal 1838 2. Escono così, dal 1843 al 1854, vari opuscoli dedicati interamente o in gran parte al « saggio di Fran1 Su Friedrich Ludwig Dorguth (1776-1854) cfr. Schemann 1893, pp. 475-478, Borch 1913, Gruber 1914, oltre alle indicazioni offerte da Hiibscher in GBr, passim. Negli anni 1843-1845 Dorguth entra in rapporti epistolari con Rosenkranz, di cui Dor­ guth era conterraneo. Questi, come farà Feuerbach, ad un certo punto interromperà bruscamente il carteggio, cfr. Sange 1913. 2 La prima opera di Dorguth (Dorguth 1837) è recensita da Feuerbach (Feuerba­ ch 1838). Dorguth scrive a Feuerbach tre lettere, l'ultima delle quali, lunghissima, ottie­ ne una risposta in cui l'esasperato Feuerbach accusa apertamente Dorguth di essere confuso e contraddittorio (cfr. SW, XIII, pp. 6-19). Le prime citazioni di Schopenhauer si trovano in Dorguth 1838.

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coforte ». Si tratta però di opere di scarso valore, confuse nello stile e nel pensiero. Dorguth vede in Schopenhauer più che un maestro un filosofo che conferma autorevolmente la verità della sua filosofia, un empirismo più o meno materialistico che non esclude peraltro il ricorso alla dialettica e l'ammissione di un finalismo universale. Si potrebbe quindi vedere in Dor­ guth, con un po' di buona volontà, un esponente dell'interpretazione em­ piristica di Schopenhauer. Questi saggi, giudicati assai negativamente dallo stesso Schopenhauer che non apprezzava affatto il suo Urevangelisi, con­ tengono un solo cenno al pessimismo, che Dorguth sbrigativamente critica, affermando che « la vita dell'uomo non avrebbe potuto essere altrimenti, se doveva avere interesse, ...e che la natura non sperpera i propri mezzi per andare al di là del suo fine » 3 . Di maggior rilievo è invece la figura di Julius Frauenstàdt, la cui atti­ vità letteraria accompagna per lungo tratto il dibattito sul pessimismo 4 . 3 Dorguth 1845, p. 13. Per il giudizio di Schopenhauer su Dorguth cfr. ad es. GBr, p. 213. Delle opere di Dorguth si può anche ricordare il confronto istituito in Dorguth 1849, p. 3, fra Schopenhauer e Kaspar Hauser (1812P-1833), il misterioso giovane com­ parso improvvisamente a Norimberga nel 1828 dopo un'infanzia trascorsa nell'isola­ mento ed attorno alle cui origini - forse nobili - molto si discusse in quegli anni. Dor­ guth 1852 è in pratica una lunga recensione di PP. 4 Christian Martin Julius Frauenstàdt nasce nel 1813 in Posnania, figlio di un commerciante di origine ebraica convertitosi alla religione cristiana. Immatricolatesi nel 1833 all'Università di Berlino, si dedica dapprima alla teologia, poi alla filosofia. Nel 1836 Frauenstàdt si imbatte per caso in W, che legge avidamente (Frauenstàdt 1863, p. 133 s.). Frauenstàdt non diviene però subito schopenhaueriano, giacché i suoi primi lavori, pubblicati ancora da studente, hanno ancora un carattere dichiaratamente hege­ liano. Addottoratesi nel 1839 o nel 1840 (non si conosce né l'anno preciso, né il titolo della dissertazione), si dedica ad un'intensa attività pubblicistica che lo porta a collaborare con numerosi periodici. Frauenstàdt deve però seguire il destino comune a molti intellettuali dell'epoca ed impiegarsi come precettore. Al seguito di famiglie nobili, è dapprima in Russia, poi in Germania. In questo periodo, nell'inverno 1846/47 e nel settembre del 1847, durante due soggiorni a Francoforte ha la possibilità di conoscere personalmente Schopenhauer e d'intrattenersi con lui più volte. Da questo momento egli diviene un aperto sostenitore del pensiero del « saggio di Francoforte », dal quale riceverà in eredità il Nachlass ed i diritti di pubblicazione delle opere. La rivoluzione del 1848 trova Frauenstàdt, di sentimenti liberali, a Berlino, dove apre un gabinetto di lettura, che ottiene un certo successo fino al novembre di quell'anno. Dopo due anni trascorsi ancora come precettore, dal 1851 Frauenstàdt può realizzare finalmente, pur fra molte difficoltà, il suo desiderio di vivere con i proventi della sua attività letteraria: tra l'altro, attraverso Schopenhauer era entrato in contatto con Lindner, redattore della « Vossische Zeitung », giornale di cui Frauenstàdt diviene assiduo collaboratore. Soffe­ rente specie per una malattia agli occhi e costretto ad un'estenuante attività di recensore (il numero delle recensioni pubblicate sui « Blàtter fiir literarische Unterhaltung » è enorme; in particolare Frauenstàdt recensisce praticamente tutta la letteratura su Scho-

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È interessante seguire almeno nelle sue linee generali lo sviluppo del pensiero di Frauenstàdt fino alla sua completa adesione alla filosofia di Schopenhauer, perché esso spiega le particolarità della sua lettura della filosofia del maestro. Frauenstàdt si presenta dunque sulla scena filosofica come un hegelia­ no impegnato nelle discussioni sul rapporto fra filosofia e religione svilup­ patesi subito dopo la morte di Hegel e culminate con la pubblicazione della Vita di Gesù di Strauss (1835). La sua prima opera affronta il proble­ ma della conciliazione della libertà dell'uomo con la sua dipendenza, in quanto creatura, da Dio - il vecchio tema della predestinazione -, e quello della conciliazione fra panteismo (Dio come sostanza del mondo) e perso­ nalità di Dio (Dio come separato dal mondo), problemi che la filosofia (hegeliana) ha finora lasciati insoluti e che paiono a Frauenstàdt assoluta­ mente irresolubili. Frauenstàdt per il momento si limita ad enunciare i problemi, evitando di prendere partito per la filosofia hegeliana o per i dogmi cristiani 5. Lo stesso atteggiamento si ripropone in relazione al problema della Menschenwerdung Gottes, oggetto del secondo libro di Frauenstàdt 6. Frauenstàdt ritiene che il divenire uomo di Dio non possa essere giustifica­ to (compreso concettualmente) dalla filosofia. La filosofia sostiene il pan­ teismo, l'immanenza di Dio, ma una tale posizione non è conciliabile con la rivelazione che vuole invece una separazione di Dio dal mondo, condi­ zione questa per l'esistenza di un rapporto religioso fra l'uomo e Dio. Non rimane dunque che affermare la totale separazione tra filosofia e religione e « ritornare dal credo ut intellegam al credo quia absurdum » (ibid., p. V). Che Frauenstàdt in questi anni non intenda abbandonare la filosofia hegeliana è mostrato dalla opera seguente, in cui si trova fra l'altro la prima penhauer apparsa fino alla sua morte), Frauenstàdt si spegne nel 1879. Non esiste una bibliografìa completa dei numerosissimi articoli e recensioni sparsi su riviste e giornali. Hùbscher 1981 infatti elenca solo gli articoli direttamente riguardanti Schopenhauer, che costituiscono solo una piccola parte dei lavori di Frauenstàdt. A Frauenstàdt è dedicato Berger 1911, non sempre preciso ed attendibile. Da segnalare anche Hartmann NSH, pp. 7-11 e 121-174 e Peters 1883, pp. 131-150. 3 Frauenstàdt 1838. L'opera contiene anche una lettera dell'hegeliano di destra Georg Andreas Gabler (1786-1853), che cerca di dare una risposta sua personale ai problemi affrontati da Frauenstàdt. Frauenstàdt invia l'opera a Feuerbach alle cui posi­ zioni si sente vicino (SW, XIII, p. 19 s.). Non si ha notizia di ulteriori contatti fra i due. 6 Frauenstàdt 1839. Discutendo le posizioni di Strauss, Schaller e Gòschel, Frauenstàdt tratta del tema specifico dell'incarnazione come di un caso particolare del problema speculativo più generale del rapporto finito-infinito, immanenza-trascendenza.

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citazione di Schopenhauer 7 . In tale scritto infatti sono riproposti i temi centrali dell'hegelismo - l'Assoluto, la critica della critica kantiana alla prova ontologica, la « teodicea » hegeliana - ed una discussione della filo­ sofia della religione di Steffens (Steffens 1839), in cui, rifiutata la subor­ dinazione della filosofia alla religione, pur con molte esitazioni viene avan­ zata la tesi che la teologia, nella misura in cui vuole essere scienza, « deve avere il criterio della sua verità nell'universale, nella filosofia » (ibid., pp. 105-143). Una prospettiva considerevolmente diversa si fa luce due anni dopo nel libro che intende offrire il resoconto delle lezioni berlinesi di Schelling, cui Frauendstàdt premette una sintesi della sua posizione. Religione e filo­ sofia non si distinguono per il contenuto (la prima sostenitrice del teismo, la seconda del panteismo), ma per la forma: a differenza della filosofia, che è puro sapere teorico, la religione è infatti un prodotto dei bisogni pratici dell'uomo ed insieme una risposta ad essi: la verità delle sue rappresenta­ zioni va mostrata non in sé, ma in rapporto alla verità ed alla naturalità dei bisogni che le hanno prodotte (ibid., pp. 4-7). Pur dichiarandosi «buon cristiano » e rifiutando di essere collocato nella Linke Sette (ibid., p. V), Frauenstàdt accoglie quindi le tesi di Feuerbach: la teologia è antropologia, il dogma va risolto nella sua genesi, nel bisogno che ne sta alla base. Esclu­ sa la possibilità di una critica teorica alle rappresentazioni religiose - pro­ prio perché non sorgono sul terreno della teoria -, si apre la possibilità di una conciliazione fra religione e filosofia a livello antropologico: accettabili per la filosofia saranno quelle religioni che non contraddicono l'esperienza (Frauenstàdt fa sempre più frequentemente riferimento a un criterio di verità empirica) e che nascono da bisogni veri, non da un inaccettabile senso di debolezza da parte dell'uomo (ibid., pp. 13-16, 32). Insieme con la concezione della religione in quest'opera muta con­ siderevolmente anche quella della filosofia. Servendosi di un kantismo piuttosto rozzo, Frauenstàdt afferma che tanto il panteismo quanto il tei­ smo sono filosoficamente insostenibili, giacché applicano ad un preteso mondo dell'in sé ciò che vale solo per il mondo fenomenico, vale a dire la categoria di sostanza (panteismo) e la categoria di causalità (teismo). Si tratta di trovare una terza via, ancora diversa da quella delineata da Schel7 Frauenstàdt 1840. Frauenstàdt chiama Schopenhauer « uno dei più profondi conoscitori e critici di Kant » e gli augura maggior fortuna di quella fino ad allora ottenuta (pp. 50-52). Nondimeno in quest'opera come in quella seguente non sono riscontrabili prove significative di un influsso filosofico di Schopenhauer.

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ling nelle lezioni berlinesi, che possa dar luogo a una metafisica non contraddittoria 8. Dopo un silenzio di sei anni Frauenstàdt si ripresenta infine alla ribal­ ta filosofica come convinto seguace di Schopenhauer. Egli dedica il suo nuovo libro al grosser Màster, cui esprime con enfasi la sua venerazione 9. Il nuovo lavoro ha ancora per argomento il rapporto fra religione e filosofia e non rappresenta quindi da questo punto di vista una rottura con i prece­ denti scritti. Anzi Frauenstàdt appare qui mosso da forti preoccupazioni teologiche, giacché conclude la dedica affermando: « Possa essermi riusci­ to, in unione con Lei (= Schopenhauer), di contribuire un poco a salvare la perla del vero cristianesimo dalle macerie della teologia in cui essa giace sepolta (ibid., p. XII) ». L'opera si apre con la riproposizione della teoria schopenhaueriana che vede nel bisogno metafisico dell'uomo la comune origine di religione e filosofia. Frauenstàdt interpreta però tale dottrina alla luce della spiega­ zione antropologica della religione da lui adottata sulle orme di Feuerbach. A differenza di quest'ultimo tuttavia - più volte criticato in queste pagine (ibid., pp. 21, 48, 72) -, egli sottolinea come la religione non sia un pro­ dotto della fantasia e del sentimento, ma della morale (ibid., p. 13 s.). Rifiutando inoltre di nuovo la possibilità di una filosofia che si ponga come sapere assoluto, Frauenstàdt riconduce anche la filosofia all'antropologia e con ciò si pone nelle condizioni di fare della capacità di soddisfare il biso­ gno morale l'unico e comune metro di valutazione tanto per la religione quanto per la filosofia. D'altra parte la filosofia, giacché servendosi della sola ragione non è in grado di andare al di là del mondo naturale, se vuole soddisfare il bisogno metafisico dell'uomo, deve necessariamente acco­ gliere in sé il sovrarazionale. Non per caso la principale religione, il cristia­ nesimo, con la sua dottrina morale del rinnegamento di se stessi, appare 8 Frauenstàdt 1842, pp. 33-67. L'abbandono del panteismo da parte di Frauen­ stàdt deve essere avvenuto piuttosto improvvisamente, perché ancora nel 1841 egli di­ fende la causa del panteismo e cerca di favorire una « tregua » con i teisti (Frauenstàdt 1841). Poco dopo, in un altro articolo egli si schiera ancora dalla parte della panteismo, apprezzando in particolare la posizione di Schopenhauer - qui citato per la seconda volta - che evitando di parlare di Dio nel suo sistema, si è messo al sicuro dagli attacchi dei teisti. Quanto al resto, Schopenhauer è qui apparentato a Krause per il suo essersi tenuto in disparte ed è considerato l'autore dell'unica « pura filosofia », giacché né Schelling né Hegel né Krause ne hanno data una (Frauenstàdt 184Ib). 9 Frauenstàdt 1848, p. VII s.; egli dichiara tra l'altro di avere imparato di più da dieci pagine delle opere di Schopenhauer che da dieci libri di Fichte, Schelling, Hegel ed Herbart.

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pazzia alla ragione. Filosofia e religione sono dunque simili anche nell'a­ vere un contenuto sovrarazionale o addirittura contrario alla ragione (ibid., p. 9 s.). In questo modo Frauenstàdt delinea la possibilità di un completo accordo fra le due tradizionali antagoniste, accordo costruito, per quanto riguarda la filosofia, sulla sua incapacità di risolvere in modo apodittico i tradizionali problemi della metafisica e, per quanto riguarda la religione, su un'interpretazione così estesa del concetto di forma da includere in sé anche molti dei più tradizionali contenuti della religione, per esempio l'esi­ stenza di Dio 10. Sembra così che in definitiva Frauenstàdt aspiri ad una sintesi fra un cristianesimo interpretato letteralmente solo nel suo aspetto morale ed una filosofia - quella di Schopenhauer -, che, pur considerevol­ mente ridimensionata nelle sue pretese razionalistiche, costituisca l'interpretazione autentica della dogmatica cristiana. Su queste basi, nel prosieguo Frauenstàdt svolge un'estesa critica delle varie forme di teologia e di filosofia della religione, nel corso della quale, oltre a ripresentare le obiezioni al teismo ed al panteismo già sviluppate nell'opera precedente, insiste sul fatto che ogni teologia - in quanto teistica - deve essere ottimistica ed eudemonistica e quindi inconciliabile con il senso ultimo - pessimistico - del cristianesimo. Il cristianesimo deve quin­ di essere per sua essenza « a-teistico » n . Se questa prima presa di posizione a favore di Schopenhauer passa quasi del tutto inosservata 12 , la stessa cosa non avviene per un articolo pubblicato da Frauenstàdt sui « Blàtter fiir literarische Unterhaltung », una rivista popolare edita da Brockhaus, allora abbastanza diffusa (Frauen­ stàdt 1849). L'articolo esce nel novembre del 1849 quando, con il definiti -

10 Frauenstàdt è al riguardo molto prudente, ma il suo pensiero traspare comun­ que abbastanza chiaramente. Ad esempio egli afferma che la fede in Dio, se non serve a fondare la morale, è immorale ed anticristiana, mentre l'ateismo, nella misura in cui consente una morale veramente autonoma, è da considerarsi « nel più alto grado morale e cristiano » (p. 41). Più avanti, concludendo la critica della teologia, egli propone come compito futuro della riflessione teologica quello di « conservare ciò che è sovrarazionale dell'etica cristiana, ma di lasciar perdere, in quanto puro involucro (Schale), ciò che è contrario alla ragione nella dogmatica cristiana» (p. 84). 11 Ibid., pp. 15-94. Per la critica all'ottimismo teistico cfr. in particolare pp. 66-70. Per l'a-teismo del cristianesimo cfr. pp. 70-72. L'opera è inviata a Schopenhauer che in una lunga lettera se ne dichiara complessivamente soddisfatto, pur non lesinando criti­ che talora anche aspre, cfr. GBr, pp. 227-229. 12 Cfr. la brevissima recensione Anon. 1848 (che comunque accusa l'opera di as­ surdità e arretratezza).

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vo scioglimento del superstite troncone della Dieta che si era rifugiato a Stoccarda, le vicende della « rivoluzione » del 1848 potevano considerarsi definitivamente concluse. Nel suo saggio Frauenstàdt « recensisce » i vari autori che fino a quel momento si erano occupati di Schopenhauer. Nel discutere le obiezioni rivolte alla dottrina del maestro da parte dei vari Rosenkranz, Fortlage, Hillebrand e Jean Paul, egli ha modo non solo di mostrare che non pochi autori - e fra di essi alcuni nomi di rilievo - ave­ vano creduto necessario dedicare la loro attenzione a Schopenhauer, igno­ rato dai più, ma anche di riproporre alcuni dei punti più significativi della filosofia schopenhaueriana.

2. FRAUENSTÀDT E IL PESSIMISMO. Per quanto paradossale possa apparire, l'opera in cui per la prima volta Frauenstàdt si dichiara apertamente schopenhaueriano e che propria­ mente precede ancora la fase di più attiva « militanza », è quella in cui egli appare più vicino al pessimismo. In particolare in essa si sostiene che il fine ultimo e l'unica, vera salvezza sono per l'uomo la negazione del volere: « Non v'è alcun altra salvezza, che la totale negazione della volontà di vita » (Frauenstàdt 1848, p. 95). Se si guarda infatti agli altri scritti del periodo schopenhaueriano si ha la sorpresa di incontrare un Frauenstàdt sostanzialmente avverso al pes­ simismo. Lo stesso Frauenstàdt, nella tarda Einleitung all'edizione com­ plessiva delle opere di Schopenhauer, dichiara di aver spesso combattuto il pessimismo e addirittura, rifiutando un luogo comune della critica scho­ penhaueriana allora corrente, afferma che Schopenhauer ha avuto suc­ cesso non per il suo pessimismo ma, al contrario, nonostante esso (ESW, p. CHI). In effetti l'avversione di Frauenstàdt a questo aspetto del pensiero del suo maestro risale quantomeno alle Lettere - lo scritto che nelle sue intenzioni, fin dal titolo, doveva svolgere nei confronti della filosofia di Schopenhauer la stessa funzione a suo tempo esercitata nei confronti della filosofia di Kant dalle Lettere di Reinhold 13 . In particolare, commentando 13 I BSP furono letti da Schopenhauer, che se ne dichiarò complessivamente sod­ disfatto, pur lamentando un'esposizione troppo sintetica del sistema e un ordine espo­ sitivo non troppo rigoroso (GBr, p. 329). Egli rispedì a Frauenstàdt un esemplare dello scritto « commentario critico et perpetuo exornatum », come di consueto pregandolo tuttavia di non replicare alle sue obiezioni. Becker ne aveva invece dato un giudizio assai meno positivo (D XV, Nr. 500). Schopenhauer si era dichiarato d'accordo con Becker,

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in una nota un passo dell'articolo di Oxenford in cui l'autore inglese carat­ terizza Schopenhauer come un « dichiarato pessimista » che propugna la liberazione dal mondo, egli afferma che una tale interpretazione è « asso­ lutamente unilaterale » (BSP, p. 10 s.). Più esplicitamente, in un articolo del 1860, sostiene la necessità di purgare la filosofia di Schopenhauer dal pessimismo e dal conseguente quietismo, che anche nell'antologia del 1862 sono presentati come ostacoli per la diffusione del pensiero del « saggio di Francoforte » (Frauenstàdt 1860, p. 873 s. e 1862, p. XXII). Frauenstàdt tuttavia mostra una notevole incertezza circa la reale na­ tura del pessimismo schopenhaueriano, di cui egli parla spesso, ma senza mai affrontare a fondo il problema I4 . In una prima serie di passi Frauen­ stàdt sembra preoccupato di rivendicare la positività delle disposizioni personali che avrebbero condotto Schopenhauer al pessimismo. Così, po­ lemizzando ancora con Gutzkow, egli rifiuta la tesi che sia stato l'odio verso il mondo a condurre Schopenhauer al pessimismo: è piuttosto l'amo­ re per il mondo a far rifiutare a Schopenhauer il mondo così come è e, al limite, a far sorgere in lui disprezzo nei suoi confronti (BSP, p. 41). Altro­ ve, nel rifiutare che il pessimismo dipenda da una determinata situazione storica, Frauenstàdt sostiene che la causa del pessimismo è da porsi piutto­ sto nel genio di Schopenhauer che, valutando il mondo con una misura troppo grande, come tutti i geni, ha sviluppato in sé un certo grado di malinconia (NBS, p. 271). Per quanto concerne invece il valore specificamente filosofico del pessimismo, in conformità alla sua convinzione di una derivazione pratica della metafisica, Frauenstàdt tenta in prima istanza d'interpretare il pessi­ mismo come l'estrapolazione di una morale di rinuncia al mondo, mentre l'ottimismo deriverebbe da un atteggiamento positivo verso il mondo, ov­ vero, in termini schopenhaueriani, dall'affermazione della volontà (Frauen­ stàdt 1863, p. 323). Questa interpretazione è rifiutata da Schopenhauer giustificando la sua approvazione dell'opera di Frauenstàdt con la necessità di favorire comunque gli sforzi di tutti coloro che in un modo o nell'altro richiamavano l'attenzione del pubblico sulle sue opere (GBr, p. 336). Le recensioni tuttavia nel complesso valuta­ rono l'opera come un'esposizione abbastanza fedele della filosofia del maestro (cfr. Anon. 1854, Reichlin-Meldegg 1854). 14 Nelle opere di Frauenstàdt sono spesso rifusi, in forma più o meno modificata, i numerosissimi articoli e recensioni che egli andava infaticabilmente pubblicando su varie riviste in quegli anni. Ciò spiega il continuo ricorrere di argomenti ad hominem, la loro struttura poco organica e le oscillazioni di pensiero che in esse si manifestano, cosicché è diffìcile ricostruire un sistema filosofico unitario ed addirittura un'interpretazione unitaria di Schopenhauer.

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durante un colloquio con lo stesso Frauenstàdt e non viene più ripresa altrove (Frauenstàdt 1863, p. 181). Frauenstàdt avanza allora l'ipotesi che, da un punto di vista teoretico, il pessimismo di Schopenhauer abbia la sue radici nella contrapposizione platonico-kantiana fra sensibile/fenomenico e intelligibile/cosa in sé: Scho­ penhauer avrebbe dato a tale contrapposizione una valenza morale, identi­ ficando il sensibile con il male e l'intelligibile con il bene (Frauenstàdt 1863, pp. 305 s.). Questa spiegazione, che indubbiamente coglie alcuni aspetti del pessimismo schopenhaueriano, non sembra tuttavia conciliabile con la let­ tura complessiva che Frauenstàdt offre della dottrina della volontà. Anche in questo caso sono compresenti in Frauenstàdt prospettive contrastanti. Dopo aver tentato un recupero speculativo della filosofia di Schopenhauer, stroncato dal maestro, Frauenstàdt infatti sembra abbando­ nare ogni preoccupazione teologica e farsi paladino di una teoria naturali­ stica della volontà: la volontà è infatti vista semplicemente come un'attività inconscia che dall'interno plasma ed organizza la realtà 15 . Tuttavia il punto in cui Frauenstàdt si distacca in modo più marcato dalla dottrina del maestro è costituito dall'interpretazione realistica della teleologia, un punto decisivo anche per la questione del pessimismo 16. I presupposti di questo sviluppo si trovano nel rifiuto via via sempre più deciso dell'idealismo di Schopenhauer a favore del realismo: già nelle Lettere Frauenstàdt sostiene l'opportunità di dare al termine fenomeno due significati diversi, secondo che lo si intenda come semplice rappresen­ tazione/contenuto di coscienza o come quel qualcosa in più della rappre­ sentazione, che non è vero essere, cosa in sé, ma pure sussiste come reales Ding anche indipendentemente dal suo essere percepito (BSP, pp. 270274). Tale interpretazione conduce fatalmente all'abbandono della idealità di spazio e tempo: anch'essi dovranno essere necessariamente concepiti 13 NBS, pp. 23-32. Per la critica di Schopenhauer all'interpretazione speculativa cfr. sopra, cap. I, nota 4. Quanto allo statuto epistemologico di questa nuova interpre­ tazione della volontà, Frauenstàdt sembra far proprio una prospettiva grosso modo positivistica, secondo cui la metafisica è semplicemente una generalizzazione - e non un'interpretazione - dei risultati delle scienze. Prendendo le distanze da Schopenhauer, egli infatti insiste sul fatto che tra scienze e filosofia (metafisica) esiste solo una differen­ za quantitativa e non qualitativa (le scienze si occupano di fenomeni particolari - inda­ gandone anche l'essenza, non solo le leggi che li governano -, la filosofia dei fenomeni nella loro generalità [NBS, p. 21 s.]). 16 Solo in Frauenstàdt 1854, pp. 86-89, viene ripresa l'interpretazione kantiana (soggettivistica-idealistica) della teleologia (cfr. le critiche di Ulrici 1854, specialmente p. 103; sulla discussione Frauenstàdt-Ulrici cfr. Kamata 1988, pp. 72-84).

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come reali, se reale è ciò che in essi è contenuto 17 . Per quanto concerne la teleologia è evidente a questo punto che lo sviluppo di un organismo se­ condo un fine non è solo un modo del soggetto di rappresentarsi la realtà, ma è qualcosa di reale, che sussiste indipendentemente dal soggetto cono­ scente. L'assenza di un'intelligenza ordinatrice non costituisce per Frauenstàdt un problema, giacché anzi un principio immanente come la volontà - a quanto pare in grado di volere finalisticamente pur mancando di coscienza - gli pare in grado di superare le difficoltà lasciate insolute tanto dalla fisicoteologia quanto, specialmente, dal materialismo 1S . Inevitabilmente, l'affermazione dell'esistenza del finalismo pone le premesse per la critica di un aspetto decisivo del pessimismo schopenhaueriano, critica che però Frauenstàdt articola a fatica, fra contraddizioni ed incertezze. Frauenstàdt sembra anzitutto ritenere che si possa parlare di finalismo per singoli aspetti della realtà, ma non per il mondo nel suo complesso. Ciò risulta dalle obiezioni che nei Eliche egli rivolge alla tesi schopenhaueriana secondo cui, a prescindere dal finalismo riscontrabile all'interno del mon­ do, è l'universo nel suo complesso ad essere ateleologico. Prendendo in considerazione la natura formale del pessimismo e dell'ottimismo, Frauen­ stàdt osserva che entrambe le dottrine pretendono di dare un giudizio di 17 NBS, pp. 110-116. Frauenstàdt del resto condivide l'opinione di parecchi altri critici, secondo cui la prospettiva realistica è già implicitamente presente nella filosofia di Schopenhauer; egli prova questa tesi riferendosi in particolare alla teoria delle idee che sussistono indipendentemente dal soggetto conoscente nella loro molteplicità e di­ versità - il che implica lo spazio - e che si obicttivano gradualmente nei fenomeni - il che implica il tempo. 18 BSP, p. 206. Cfr. anche NBS, pp. 172-186, dove Frauenstàdt si impegna in una lunga ma confusa difesa di un finalismo basato su una volontà inconscia. Frauenstàdt, abbandonato l'hegelismo, si è costantemente interessato delle scienze naturali e del materialismo, dedicando a questi temi due libri (Frauenstàdt 1855 e 1856). Nel primo di essi in generale considera positivamente l'influsso delle scienze naturali su poesia, reli­ gione e filosofia. Nel secondo apprezza del materialismo il metodo scientifico induttivo, il monismo anti-spiritualistico (per spiritualismo Frauenstàdt intende una dottrina che ponga un'entità spirituale separata dal mondo, vale a dire principalmente il teismo; non è spiritualistica viceversa una dottrina che, al pari di quella di Schopenhauer, faccia della materia il fenomenizzarsi di un'entità non materiale) e l'ateismo, inteso nel senso indi­ cato in precedenza. Egli tuttavia contrappone al sensualismo ed all'empirismo l'apriori­ smo, al cieco meccanicismo la forza vitale e il finalismo e avanza riserve nei confronti della psicologia e della morale del materialismo. Quest'opera fu letta e commentata per lettera da Schopenhauer, che ne apprezzò in particolare l'idea di presentare la sua filo­ sofia come « unica salvatrice dal materialismo ». Come sempre, nelle due lettere che trattano del libro non mancano critiche anche severe a Frauenstàdt (GBr, pp. 392-393 e 395-396).

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valore sul mondo in base alla sua conformità o non conformità ad un fine. Ma - obietta Frauenstà'dt - l'uomo non può sapere né se il mondo abbia un fine né tanto meno quale esso sia: « che cosa ti da il diritto di applicare la tua misura morale alla volontà universale e di pretendere che essa debba conformarsi ad essa? In base a quali ragioni tu, essere limitato e finito, fai del tuo ideale l'ideale del mondo e ti elevi a giudice sopra la volontà uni­ versale? Non è una pretesa fuori luogo? ». Con questo tipo di argomenta­ zione Frauenstàdt pare prendere partito per una posizione agnostica circa la possibilità di fondare per questa via il pessimismo o l'ottimismo, ma subito dopo egli presenta un'altra argomentazione completamente diversa, di tipo speculativo che contraddice la posizione precedentemente assunta. Secondo Frauenstàdt, posto che la volontà è illimitata ed « onnipotente », è difficile immaginare che essa possa non raggiungere il fine che si prefigge. Finché essa vuole il mondo, esso esiste così come è voluto dalla volontà e, in quanto tale, deve essere necessariamente buono. Se così non fosse la volontà lo distruggerebbe (Frauenstàdt 1869, pp. 301-304). Nella più tarda Einleitung ci si trova di fronte ad un quadro ancora diverso. Qui Frauenstàdt, nel replicare a quanti, specie fra gli hegeliani, vedevano una contraddizione fra l'ammissione della finalità e della legalità del mondo e il pessimismo, sostiene che finalità e legalità sono unicamente caratteri formali, che lasciano impregiudicato il valore intrinseco dell'uni­ verso: Frauenstàdt - che qui pare avvicinarsi ad Hartmann - afferma che un cosmo perfettamente finalizzato potrebbe dare luogo comunque a un sovrappiù di dolore e d'infelicità per i suoi abitanti (ESW, p. XCI). Sembra allora che un mondo finalisticamente organizzato non necessariamente debba essere buono. Nelle Nuove Lettere infine, dove la questione è ancora una volta ri­ presa, Frauenstàdt si impegna a fondare in positivo un finalismo universa­ le. Posto infatti che tra la volontà e i singoli fenomeni sussiste un rapporto analogo a quello esistente fra la specie e gli individui, è impossibile che ogni fenomeno abbia un fine e che invece la volontà ne sia priva. Se la finalità non si trova nella specie, tanto meno potrebbe trovarsi negli indi­ vidui. È necessario quindi ammettere anche per la volontà un fine. Tale fine, dato che la volontà è l'in sé, si troverà al suo interno e sarà costituito dalla soddisfazione del suo volere, il che, di nuovo, sembra implicare che il mondo, in quanto soddisfa la volontà, sia buono 19. 19 NBS, pp. 93-97. Egli rimprovera conscguentemente a Schopenhauer di non aver spiegato perché la volontà si preoccupi solo della sopravvivenza della specie e non

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3. FRAUENSTADT CRITICO DELLA PSICOLOGIA E DELL'ETICA DI SCHOPENHAUER. Nella critica della psicologia schopenhaueriana Frauenstadt trova al­ tri elementi per opporsi al pessimismo. Egli prende le mosse da una ricon­ siderazione complessiva del rapporto intelletto/volontà. Già nelle Asthetische Fragen egli interpreta la contemplazione estetica come un piacere (in questo caso Wohlgefallen e non Lust) che necessariamente deve deri­ vare dalla soddisfazione di un bisogno, di un desiderio (Begehren). A dif­ ferenza di Schopenhauer Frauenstadt parla però di un desiderare egoistico e di un desiderare non egoistico: il piacere estetico è precisamente la sod­ disfazione di un desiderio di quest'ultimo tipo. Sottolineando il carattere disinteressato della contemplazione estetica, della cui positiva realtà lo stesso Schopenhauer è convinto, Frauenstadt afferma così implicitamente l'esistenza di un piacere che non è toglimento di dolore e critica così la tesi schopenhaueriana del carattere negativo del piacere (Frauenstadt 1853, p. 19). Nelle Nuove Lettere la questione è ripresa in rapporto ad un'obiezione di Thilo, secondo cui esisterebbe una contraddizione fra l'asserita superio­ rità della volontà sull'intelletto e la possibilità da parte di quest'ultimo, nell'estetica, di liberarsi della volontà e, nella negazione del volere, di im­ porsi addirittura ad essa. Frauenstadt, dopo aver ribadito che anche secon­ do lo spirito della filosofia di Schopenhauer la contemplazione estetica è un atto cui partecipa la volontà, estende le sue considerazioni all'etica e sostiene che la stessa negazione del volere, benché introdotta dall'intellet­ to, resta pur sempre un atto della volontà (NBS, pp. 48-52). Ne consegue - e ciò come si vedrà ha la sua particolare importanza per la riforma del­ l'etica di Schopenhauer proposta da Frauenstadt - che ciò che appare come un conflitto fra intelletto e volontà è in realtà uno scontro tra i due tipi o livelli di volontà presenti nell'uomo: la volontà animale, egoistica, e anche di quella degli individui (ibid., pp. 269-282). In sostanza - si potrebbe dire Frauenstadt lamenta la mancanza di una convincente « teodicea » che spieghi la presen­ za nella realtà di elementi apparentemente afinalistici. Con quest'ultima presa di posizio­ ne Frauenstadt sembra riawicinarsi a quell'abbozzo di teodicea che egli aveva tracciato in un'opera del 1858. In essa il fondamento del mondo è descritto come « un'essenza in sé duplice, in cui domina immediatamente la scissione, il male, i quali tuttavia, giacché l'unità, il bene, l'armonia costituisce la sua più profonda essenza, gradualmente, e in grado sempre più elevato, saranno da essa separati » (Frauenstadt 1858, p. 165). Questa posizione si inserisce nella tradizione idealistica e in particolare sembra riprendere alcu­ ne tesi di Schelling, dove il male è presentato come una condizione necessaria per lo sviluppo dell'Assoluto stesso.

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la volontà guidata dall'intelletto e quindi razionale. Il fine che l'uomo deve raggiungere è il trionfo della volontà razionale su quella animale. Va da sé che in questa prospettiva la soddisfazione della volontà razionale produce un piacere positivo e, al limite, la felicità 20. Sulla teoria della negatività del piacere ritorna ancora la Einleitung, dove Schopenhauer è difeso dalle critiche di Bona Meyer. Frauenstàdt osserva che per comprendere correttamente il senso di tale dottrina biso­ gna tener presente che il negativo ha sempre in Schopenhauer un valore relativo. Nel caso del piacere esso è un nulla solo relativamente al dolore ed al bisogno, ma non in sé. Esso è negativo solo nel senso che non è percepito immediatamente, ma solo indirettamente, vale a dire attraverso la negazio­ ne del dolore; in sé tuttavia è qualcosa di positivo. Da questa interpretazione, in sé legittima, Frauenstàdt trae tuttavia conseguenze in aperto contra­ sto con la filosofia schopenhaueriana. Il dolore infatti viene reinterpretato finalisticamente come condizione indispensabile per il piacere; la fugacità del piacere stesso e il bisogno sono visti come stimoli necessari all'azione ed allo sviluppo delle facoltà dell'uomo (ESW, p. CVI). Sembra invece che Frauenstàdt consideri giustificato l'aspetto morale del pessimismo schopenhaueriano. Come si è visto, già considerando il pessimismo metafisico Frauenstàdt aveva rilevato come esso si basasse in ultima analisi su una valutazione morale negativa della realtà. Questa tesi, limitata all'ambito antropologico, viene avanzata nel libro pubblicato con Lindner e riproposta tanto nelle Nuove Lettere quanto nella Einleitung. È stata la considerazione del dolore che gli uomini si producono reciproca­ mente, della loro malvagità, del loro egoismo a spingere Schopenhauer al pessimismo (ESW, p. CX e NBS, p. 271). L'esistenza dell'uomo è quindi in sé un peccato morale e in ciò Schopenhauer non si distacca dalle principali religioni _(ESW, p. CIX, e NBS, pp. 276-277). Ma questa condizione umana - si domanda Frauenstàdt - è in sé immutabile - nel qual caso ci si troverebbe di fronte ad un pessimismo assoluto - o sussiste la possibilità di una via d'uscita? La risposta di Scho­ penhauer è costituita dalla dottrina della negazione della volontà: una volta negata la volontà di vita - questa è l'interprelazione di Frauenstàdt -, que­ sto mondo con tutta la sua miseria verrà meno e ne sorgerà invece un altro di esso migliore (NBS, pp. 287-289).

20 NBS, pp. 62-66. Su queste linee tradizionali, come si vedrà, si muove Frauenstadt 1866.

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La dottrina della negazione della volontà è tuttavia per Frauenstàdt del tutto insostenibile ed egli, con l'eccezione del libro del 1848, la combat­ te costantemente tanto da un punto di vista teoretico quanto da un punto di vista pratico. Per Frauenstàdt è assurdo pensare che l'essenza del mondo - la volontà - possa negare se stessa: si deve allora supporre che il volere sia solo un aspetto della cosa in sé, ma ciò contraddice la tesi centrale della filosofia schopenhaueriana. D'altra parte, il supporre che la volontà-cosa in sé possa recedere dal volere significa per Frauenstàdt estendere troppo quell'antropomorfizzazione della metafisica che pure, entro limiti ragione­ voli, è accettabile: « La volontà universale agisce come un uomo che si pente di un'azione compiuta senza prevedere le sue conseguenze e che quindi revoca ». Inoltre, dato il carattere fenomenico dell'individuazione, la negazione della volontà in un individuo dovrebbe comportare l'annichilimento del mondo, cosa che invece non avviene. Né vale attribuire un carattere trascendente all'individuazione, perché ciò sposta solo la questio­ ne senza risolverla 21 . Anche da un punto di vista psicologico la dottrina è insostenibile: il non volere è sempre un volere e non ha senso conscguen­ temente distinguere fra motivo e quietivo (NBS, p. 51 s.). È tuttavia soprattutto l'aspetto pratico della dottrina che Frauenstàdt non si sente di condividere, benché in due occasioni egli difenda l'etica di Schopenhauer sostenendo che essa non può esercitare alcun influsso nega­ tivo, in quanto è per sua natura descrittiva e non prescrittiva (BSP, p. 324 e Frauenstàdt 1856b, p. 154). Egli si oppone ad un astratto ascetismo ed afferma che il problema non è quello « di affermare o di negare la vita, ma di affermarla o negarla nel modo giusto, vale a dire di affermala quando ciò è conciliabile con la giustizia e con la virtù, di negarla, quando è in contra­ sto con esse » (Frauenstàdt 1862, p. VI s.). Egli giudica invero positiva­ mente la dottrina della compassione, benché ritenga che essa trovi giusti­ ficazione solo nel quadro di un realismo che distingua effettivamente gli individui fra di loro 22, ma sostiene che il vero problema dell'etica consiste nell'elevare la volontà, nello sviluppare le sue componenti più alte e nobili, che tendono non verso il sensibile, ma verso il bello, il vero e il buono 21 BSP, pp. 333-339 e 121. Sulla questione Frauenstàdt aveva già discusso per lettera con Schopenhauer cfr. GBr, p. 288 s., senza però essere soddisfatto dai chiari­ menti offerti dal maestro: in Frauenstàdt 1863, p. 553, nota, proprio in riferimento alle lettere schopenhaueriane, egli parla della dottrina della negazione del volere come del « tallone d'Achille della filosofia schopenhaueriana ». 22 In caso contrario risulterebbero giustificate le accuse di cripto-egoismo rivolte a tale dottrina ad esempio da I. Fichte (BSP, p. 322 e BFS, pp. 263-265).

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(Frauenstàdt 1863, p. 319). Quanto un tale ideale etico sia lontano dalla filosofia di Schopenhauer è facile vedere, e ciò risulta ancor più evidente se si prende in considerazione l'opera in cui Frauenstadt senza più riferirsi a Schopenhauer sviluppa la propria filosofia morale, il cui principio fon­ damentale è quello, non certo pessimistico, della aptitudo rerum, che Frauenstadt dichiara di riprendere da Samuel Clarke: « II fine delle azioni morali coincide con il fine immanente oggettivo delle cose, con quello stes­ so fine alla cui realizzazione sono destinati nell'ordine naturale » (Frauen­ stadt 1866, p. 55). Anche nell'etica l'« ortodosso » Frauenstadt finisce quindi per abbandonare i tratti più caratteristici della filosofia schopenhaueriana.

4. GLI ALTRI DISCEPOLI DI SCHOPENHAUER: LlNDNER, GwiNNER, AsHER.

Il contributo dato dagli altri discepoli alla discussione del pensiero di Schopenhauer è più modesto e, conscguentemente, anche il loro apporto al dibattito sul pessimismo non è particolarmente significativo; in ogni caso in nessuno di essi questo aspetto del pensiero di Schopenhauer è accolto sen­ za riserve. La figura di Lindner, che tanto si era reso meritevole presso il maestro i per suoi articoli sulla « Vossische Zeitung » (Lindner 1862), si caratterizza per la sua completa estraneità ad ogni problematica religiosa 23 . Lindner considera illegittimo parlare a qualsiasi titolo di un Wille an sich (ibid., pp. 213 e 333) e ciò toglie le premesse per qualsiasi pessimismo metafisico. Egli condivide viceversa il pessimismo antropologico di Schopenhauer che sin­ tetizza nel contrasto fra la tendenza naturale-egoistica - dell'uomo a realiz­ zare se stesso (tendenza per cui è accolta la denominazione volontà) e le condizioni di vita esterne, i dolori, le malattie, infine la morte - che rendo­ no impossibile tale realizzazione. Questa contraddizione non pare tuttavia a Lindner insuperabile: anche a suo modo di vedere non si tratta tanto di 23 Ernst Otto Lindner nasce a Breslavia nel 1820; si abilita in filosofia all'università di Berlino ma nel 1846 gli viene tolta la venia legendi in quanto « persona pericolosa, non-cristiana e immorale » (Gruber 1913, p. 9); di tendenze nazional-liberali, nel 1846 diviene caporedattore della sezione esteri della « Vossische Zeitung » e dal 1863 fino alla morte (1867) direttore dello stesso giornale. Si occupa specialmente di musica, pubbli­ cando tra l'altro una storia dell'Opera di Amburgo (Lindner 1855) e un grosso volume di saggi di estetica musicale, uno dei quali compendia gran parte della filosofia di Scho­ penhauer (Lindner 1964). Sulla sua figura cfr. Hiersemenzel 1867.

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negare la volontà di vita in foto, quanto di realizzare un innalzamento morale che neghi la volontà individuale a favore degli altri, siano essi la famiglia, la comunità cui si appartiene, lo stato (ibid., pp. 198-200 e 209 s.). Profondamente condizionata dalla fede dell'autore è invece l'interpretazione che Gwinner da del pensiero di Schopenhauer 24 . Gwinner non accetta che il fondamento della realtà sia una volontà inconscia. Ma anche in tale ipotesi, non ne conseguirebbe necessariamente quel pessimismo cosmico che Gwinner individua in Schopenhauer: « perché anche una volontà cieca dopo che, come avviene in Schopenhauer, si è dotata dell'oc­ chio della conoscenza, dopo che si è obicttivata nella vita autocosciente, attraverso tutte le Irrungen non dovrebbe poter giungere a un fine buo­ no? » (ibid., p. 12). La filosofia di Schopenhauer non deve essere comun­ que apparentata con il naturalismo o il materialismo come i suoi avversar! vogliono dare a credere, bensì, posto che tratto distintivo della volontà è la libertà, le va riconosciuto un essenziale carattere etico che essa attribuisce non solo all'uomo ma all'intero universo. Proprio questo impegno morale spiega il successo di Schopenhauer, che si è ben guardato dal costruirsi Phantasienschlòsser (ibid., pp. 15-20). Quanto al pessimismo empirico esso è per Gwinner una visione della realtà certamente unilaterale, ma pure indice di una grande sensibilità al dolore degli altri 25 . Esso è d'altra parte un ammonimento contro il materialismo trionfante, è l'affermazione della necessità di una redenzione (Erlòsung), è un richiamo alla vera missione (Bestimmung) dell'uomo. In questo senso deve essere apprezzato anche dal 24 Gwinner espone nel modo più chiaro le sue posizioni sul pessimismo di Scho­ penhauer in un discorso tenuto per il centenario della nascita di Schopenhauer (Gwin­ ner 1888). Wilhelm von Gwinner (1825-1917), nato e residente a Francoforte, aveva studiato filosofia a Tùbingen; incontra Schopenhauer nel 1847, ma comincia a frequen­ tarlo solo dal 1854, fino a divenirne esecutore testamentario e più tardi biografo. Gwin­ ner può essere definito solo impropriamente un discepolo di Schopenhauer, giacché filosoficamente egli rimane sempre legato a Schleiermacher ed a Baader, al quale cerca invano di avvicinare Schopenhauer. La sua attività letteraria tocca peraltro solo margi­ nalmente temi filosofici; la sua opera più importante è un grosso volume dedicato al Pausi di Goethe (Gwinner 1892). Estraneo ai rivolgimenti politici del 1848, conserva fino alla morte una profonda religiosità venata di misticismo: secondo Gebhardt « un mondo senza Dio era per lui qualcosa di inconcepibile » (Gebhardt 1919, p. 219). Segue con un certo distacco la fortuna del pensiero di Schopenhauer, lamentando i caratteri assunti dal dibattito intorno al pessimismo; in due lettere in particolare da un giudizio sprezzante di Hartmann - « scimmiesco imitatore del suo precursore » - e della sua PSB - « una pagliacciata veramente vergognosa, ovvero una ciarlataneria berlinese »; cfr. Frùhm-Borch 1930, pp. 244 e 234 s. 25 Ibid., p. 22. Qui Gwinner si oppone seppure di passaggio alla teoria negativa del piacere.

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credente come via per avvicinare l'incredulo alla fede. Ma a Schopenhauer, come a Mosè, non è stato concesso di entrare nella terra promessa (ibid., pp. 23-29). Anche David Asher, la cui formazione e il cui sviluppo intellettuale ricordano per qualche aspetto quelli di Frauenstàdt, si accosta a Scho­ penhauer spinto da interessi prevalentemente religiosi 26. Lo studio della filosofia tedesca (Hegel, ma anche Kant, Mendelssohn e Jacobi) lo conduce in prima istanza ad una forma di scetticismo che si accompagna ad un fideismo non privo di ambiguità. Nella sua prima opera, infatti, egli dichia­ ra la filosofia incapace di giungere a conclusióni positive circa Dio, l'im­ mortalità dell'anima e la libertà, sostiene la completa separazione fra fede e sapere e insiste più che sui contenuti positivi della fede, sul valore della ricerca della verità, dell'anelito ad essa (Asher 1860, p. 61). Parlando di questo scritto in seguito dirà che in quegli anni egli si era allontanato del tutto dalla fede dei suoi padri (Asher 1885, p. 34). In questa situazione ha luogo l'incontro con la filosofia di Scho­ penhauer: come per Frauenstàdt, il pensiero del « saggio di Francoforte » rappresenta la via d'uscita dallo scetticismo filosofia) e insieme lo strumen­ to per ridare un fondamento razionale alla fede religiosa 27 . Asher infatti fin dal 1854 giunge alla conclusione che esiste una sostanziale identità di vedu­ te fra mosaismo e schopenhauerismo (Asher 1885, p. 35). Tale tesi tuttavia viene resa pubblica solo nel suo ultimo libro, uscito nel 1885: gli scritti che viene pubblicando in questo spazio di tempo in qualche modo preparano il terreno al suo ultimo lavoro, giacché criticano della filosofia di Scho­ penhauer - di cui pure Asher si dichiara entusiastico seguace - gli aspetti inconciliabili con la religione ebraica. Già nell'opuscolo del 1855, in cui egli per la prima volta dichiara la sua adesione a Schopenhauer, viene messa in discussione la dottrina della negazione del volere: Schopenhauer contraddice in essa i fondamenti della 26 David Asher (1818-1890), di origine ebraica, dopo aver soggiornato a lungo in Inghilterra (per qualche tempo è membro attivissimo della comunità ebraica di Manchester), visse a Lipsia come insegnante di lingue nella locale scuola commerciale. Non esiste nessun lavoro dedicato specificamente ad Asher. Fra i suoi scritti merita una menzione Asher 187 Ib, che fu letto da Darwin il quale ne trasse la citazione di Scho­ penhauer inserita all'inizio del cap. 20 de L'origine dell'uomo. Come Frauenstàdt, Asher ha recensito quasi tutta la letteratura schopenhaueriana dell'epoca, anche se tali recen­ sioni sono spesso brevissime. 27 Fra Schopenhauer ed Asher si sviluppa a partire dal 1855 un carteggio piuttosto intenso, che lo stesso Asher ha pubblicato (Asher 1865, rist. in Asher 1871). Asher conosce personalmente Schopenhauer nel 1853 (cfr. Asher 1854).

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sua filosofia, in quanto passa dal che cosa del mondo, dall'individuazione della sua essenza, al dove, al suo fine, riproponendo quindi prospettive idealistiche altrove criticate (Asher 1855, p. 6). La volontà-cosa in sé non può essere rappresentata antropomorficamente come soggetta a mutamen­ to e non è neppure sostenibile che la negazione della volontà nei singoli uomini (fenomenici) possa condurre al rovesciamento della volontà-cosa in sé (ibid., p. 14 s.). Nell'opera seguente, che vuole essere una reinterpretazione del Faust di Goethe alla luce della filosofia di Schopenhauer, è ancora il pessimismo ad essere messo sotto accusa: esso « è una verità, ma non tutta la verità ». Si tratta di superarlo, ma la via indicata da Schopenhauer - quella del­ l'ascesi - è impercorribile; forse la soluzione può essere invece trovata in un libro « vecchio di mille anni » (Asher 1859, p. 71). Anche in due recen­ sioni degli anni seguenti Asher si richiama al pessimismo, una volta per affermare la necessità di scindere il pessimismo teorico dall'atteggiamento pratico, che non deve essere di rassegnazione, ma di impegno nel mondo, un'altra per dichiararsi d'accordo con il tentativo di Hartmann - per altri aspetti giudicato molto negativamente - di coniugare il pessimismo eudemonologico con l'ottimismo evoluzionistico (Asher 1874c e Asher 1876b). Nell'ultima opera di Asher, pubblicata come si è detto nel 1885, la sintesi fra ebraismo e filosofia di Schopenhauer è preparata da una ricon­ siderazione del rapporto fra religione e filosofia, che pone fra di esse solo una diversità di forma, non di contenuto (Asher 1885, p. 16). Conforme­ mente alla tesi del libro, Asher procede quindi ad una succinta esposizione della filosofia di Schopenhauer, in cui tutti i suoi aspetti più « scabrosi », quali la negazione del volere, l'irrazionalità della volontà, la dottrina del valore solo negativo del piacere, sono passati sotto silenzio. Quanto al pes­ simismo vero e proprio, Asher sostiene qui che esso non costituisce una parte essenziale del sistema e quindi può essere eliminato senza danni (ibid., pp. 60 e 67). Con il pessimismo vien meno.la ragione principale in base alla quale Schopenhauer si opponeva all'ebraismo, che pure non co­ nosceva e non comprendeva correttamente (ibid., p. 61). Se Schopenhauer avesse studiato senza prevenzioni il mosaismo avrebbe visto che il suo prin­ cipio fondamentale è la vita, la sua difesa e la sua propagazione, e che tale vita è opera della volontà divina, un concetto che è presente oltre che nel Pentateuco anche in parecchi autori ebraici e in particolare in Avicenbron (ibid., pp. 70-76). Dunque la volontà di vita schopenhaueriana è prefigura­ ta nell'ebraismo e insieme con essa la dottrina della compassione quale fondamento della morale e quella della negazione della sopravvivenza in-

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dividuale (ibid., pp. 80 e 83 s.). Asher può così concludere che Scho­ penhauer, seppure inconsciamente, « insegna l'ebraismo » e che l'israelita ortodosso « quando comincia la preghiera del mattino, recita la filosofia di Schopenhauer in versi » 28.

28 Ibid., p. 90. Le stesse preoccupazioni religiose -r ma in questo caso da un punto di vista cattolico - sono presenti nell'esposizione di Schopenhauer offerta da Georg Christian Weigelt (1816-1885), predicatore della comunità dei Vecchi Cattolici di Amburgo (Weigelt 1854). L'autore legge Schopenhauer in una prospettiva che ricalca a grandi linee quella a suo tempo sviluppata da Rà'tze. In particolare sostiene che la nega­ zione della volontà è accettabile solo se la si intende in senso cristiano, vale a dire in funzione del raggiungimento della suprema beatitudine; da questo punto di vista essa è « per suo fondamento ed essenza la più forte affermazione della volontà di vita » (ibid., I, p. 155). L'esposizione del pensiero di Schopenhauer - come quello degli altri filosofi - è condotta ad un livello modestissimo, tale che questo scritto non meriterebbe neppu­ re di essere citato, se Schopenhauer - incredibilmente - non ne avesse dato un giudizio estremamente positivo, citandolo più volte nell'epistolario e vedendo addirittura in Weigelt un possibile nuovo « evangelista » (GBr, pp. 332, 334, 335, 337, 338).

4.

LA LETTERATURA CRITICA SUL PESSIMISMO DI SCHOPENHAUER FINO AGLI ANNI SETTANTA

1. I CARATTERI GENERALI DEL DIBATTITO INTORNO A SCHOPENHAUER.

Si è detto che con la pubblicazione dei Parerga e paralipomena (1851) Schopenhauer ottiene finalmente la fama ed il successo da tempo deside­ rati. Contemporaneamente cresce notevolmente il numero degli scritti che si occupano di Schopenhauer, scritti che tuttavia continuano prevalente­ mente ad essere ostili alla sua filosofia. Si ha così l'impressione che sia il successo di pubblico a « costringere » i filosofi a tornare su un « caso » altrimenti considerato come chiuso. Non per caso il pensiero di Scho­ penhauer, benché divenuto tema di qualche corso universitario 1 e perfino di un concorso bandito a Lipsia 2 , non riesce a penetrare stabilmente all'in1 Per quanto si sa, i primi due corsi sulla filosofia di Schopenhauer furono tenuti nel 1857: il primo a Bonn da Peter Knoodt (1811-1889), teologo cattolico, vicino al teismo speculativo di Anton Gùnther (1783-1863), scomunicato nel 1872 (cfr. GBr, p. 418), il secondo a Breslau da G.W. Kòrber (1817-1885). Kòrber aveva informato per lettera Schopenhauer del suo corso, ricevendone una cortese risposta (GBr, p. 418 s.). Kòhnke 1986, pp. 610 ss. offre una tabella dei corsi aventi per oggetto i « classici » tenutesi nelle università di lingua tedesca fra il 1862 ed il 1890: fino al 1870 si registrano 13 corsi riguardanti Schopenhauer (nello stesso periodo vi sono 33 corsi su Hegel, 47 su Kant; purtroppo non sono indicati i corsi su Fichte e Schelling). Dal 1870 al 1890 il numero dei corsi su Schopenhauer aumenta notevolmente (in totale 91, contro i 29 riguardanti Hegel ed i 435 riguardanti Kant). 2 II concorso venne bandito nel 1856 su suggerimento di Weisse; ad esso parteci­ parono Seydel 1857 - fortemente critico e risultato vincitore (su di esso si tornerà fra breve) -, e Bà'hr 1857, che Schopenhauer giudicò « la cosa più approfondita che mai sia stata detta su di me » (GBr, p. 410). In effetti il lavoro conduce un'acuta analisi della gnoseologia schopenhaueriana ed affronta il problema centrale della conoscibilità della cosa in sé, dando una lettura rigorosamente kantiana della filosofia di Schopenhauer

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terno dell'università. Nessuno dei suoi discepoli, almeno fino a Deussen, insegnerà la sua filosofia da una cattedra 3 . Dei numerosi scritti che riguardano Schopenhauer, pochi trattano unicamente del pessimismo: nella maggior parte dei casi questo tema è inserito con più o meno rilievo in trattazioni complessive dell'intero siste­ ma. In esse si ripetono con regolarità una serie di giudizi ed obiezioni concernenti la filosofia di Schopenhauer nel suo complesso o sue dottrine particolari che gradualmente divengono dei veri e propri loci communes della critica e che nel loro insieme definiscono l'opinione allora corrente riguardo a Schopenhauer. Al fine di evitare di riprendere queste critiche ogni volta che si ripresentano nei singoli autori - studiati invece analitica­ mente per quanto concerne l'atteggiamento assunto nei confronti del pes­ simismo - è conveniente presentare sinteticamente un quadro d'insieme di queste critiche, utilizzando come filo conduttore le influenti pagine dedica­ te a Schopenhauer da Trendelenburg - che fra l'altro non si occupa del pessimismo e che quindi non sarà ripreso nel seguito 4 . Quasi unanime è anzitutto l'apprezzamento del valore letterario delle opere di Schopenhauer, cui viene in generale riconosciuta chiarezza d'esposizione e leggibilità. Per lo più si ritiene che siano stati questi carat­ teri a renderlo popolare anche fra il grande pubblico (De Sanctis, Dilthey, I. Fichte, Haym, Michelet, Noack, Rosenkranz, Seydel) 5. (carattere fenomenico dell'autocoscienza, inconoscibilità della cosa in sé in quanto tale etc); esso trascura invece pressoché completamente il tema del pessimismo (sulla posi­ zione di Bàhr cfr. Salzsieder 1928, pp. 47-55). Karl Georg Bàhr (1834-1893), figlio di Johann Karl Bàhr (1801-1869), pittore e professore all'Accademia di Dresda, anch'egli seguace della filosofia schopenhaueriana (cfr. Bàhr 1863, sulla teoria dei colori), studia­ va all'epoca diritto; si incontrò più volte con Schopenhauer, lasciando un resoconto scritto dei colloqui (cfr. Gè, pp. 230-270). A parte una breve recensione del libro di Sey4el (Bàhr 1859), egli non ha in seguito più pubblicato nulla sulla filosofia di Scho­ penhauer. Sulle vicende del concorso cfr. Hùbscher 1958. 3 Sul progetto, nato nella cerchia degli esuli politici che facevano riferimento a Wagner, di istituire presso l'Università di Zurigo una cattedra di filosofia schopenhaue­ riana, mai giunto in porto, cfr. GBr, p. 389 e relative note. 4 Trendelenburg 1862, voi. II, pp. 101-122 (la prima edizione, del 1840, non si occupa esplicitamente di Schopenhauer). Adolf Friederich Trendelenburg (1802-1872), dal 1837 ordinario a Berlino* fu per lungo tempo una delle personalità dominanti in quell'università. In quanto segue l'indicazione delle pagine si riferisce a quest'opera; degli altri autori in cui le varie critiche si ripresentano, per non appesantire eccessivamente l'esposizione, ci si limita a segnalare fra parentesi senza ulteriori indicazioni i nomi. 5 Per questa ragione dagli anni cinquanta in poi Schopenhauer ottiene un posto stabile anche nelle varie storie della letteratura tedesca; fra i primi esempi di tale tenden­ za si possono citare Gottschall 1855, voi. II, pp. 68-74, e Schmidt 1856, voi. Ili, pp. 374-

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Altrettanto frequentemente a queste lodi si contrappone una valutazione molto critica di Schopenhauer in quanto filosofo sistematico: il suo sistema - come Herbart ha mostrato a suo tempo - è globalmente insoste­ nibile e pur non mancando di intuizioni geniali, acute e profonde, può essere considerato al massimo un « paradosso » o una « curiosità » della storia della filosofia (ibid., p. 121, Bùchner, Cornili, Dilthey, I. Fichte, Gruppe, Haym, Hoffmann, Rosenkranz, Seydel, Ulrici, Wirth, Zeller). L'insostenibilità del sistema è dimostrato dalle presunte « contraddizioni » in esso contenute, sulle quali si insiste all'infinito, perseverando in un metodo critico che a suo tempo aveva già suscitato le ire di Schopenhauer. Più nei particolari, una delle contraddizioni più di sovente segnalata è quella fra le componenti idealistiche e quelle realistiche del Mondo, Essa viene individuata in molti degli snodi fondamentali del pensiero schopenhaueriano; anzitutto, in termini generali, si osserva che, posto che il mondo è rappresentazione e che come tale è qualcosa di perfettamente compiuto ed autosufficiente, non si capisce per quali motivi e su quali basi si dovrebbe cercare qualcosa che stia dietro o a fondamento delle rappre­ sentazioni (Bùchner, Cornili, Haym, Hoffmann, Thilo); si osserva inoltre che Schopenhauer non rimane fedele alla sua concezione dell'idealità/soggettività dello spazio e del tempo, ammettendo una temporalità anteceden­ te al sorgere del soggetto - i vari gradi di oggettivazione della volontà anteriori al sorgere del primo soggetto conoscente - ed una molteplicità ancora indipendente dal soggetto - le idee (ibid., p. 115, Cornili, Dilthey, Noack, Thilo); infine questa stessa contraddizione è operante in quello che nella storia della critica è passato sotto il nome di « circolo di Zeller »: da una parte la rappresentazione sarebbe un prodotto del cervello, dall'altra lo stesso cervello sarebbe una rappresentazione (Zeller 1873, p. 885 s.). Per altri versi questa contraddizione sta alla base anche del procedi­ mento - infinite volte criticato - con il quale Schopenhauer giunge ad indivi­ duare nella volontà la cosa in sé: anche qui egli - illegittimamente - trasfor­ merebbe il dato fenomenico della conoscenza che il soggetto ha di alcuni suoi specifici contenuti di coscienza in qualcosa di transfenomenico, appun­ to la volontà-cosa in sé. Se d'altra parte, come alcuni passi del secondo

376 (Schopenhauer giudica in modo diametralmente opposto le due opere, dichiarando­ si soddisfatto solo di Gottschall, cfr. GBr, p. 381) (Rudolf Gottschall [1823-1909] ap­ parteneva con Gutzkow alla Giovane Germania; dal 1865 fu redattore dei BflU fino al 1887 e nel 1877 fu reso nobile dall'imperatore per i suoi meriti di scrittore; recensì in seguito parecchie opere dei filosofi pessimisti).

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volume del Mondo fanno supporre, la volontà non è da considerarsi cosa in sé a pieno titolo, allora le pretese di Schopenhauer di aver « superato » Kant risultano ingiustificate (Haym, Hoffmann, Michelet, Noack, Ulrici, Zeller). Ancor più inaccettabile appare a molti la tesi - fondata sul noto pro­ cedimento analogico - secondo cui la volontà è il fondamento di tutta la realtà, una tesi alla cui base starebbe un'indebita antropomorfizzazione della realtà stessa. Se il concetto di forza deve essere sussunto sotto il con­ cetto di volontà, Schopenhauer dovrebbe mostrare quale differenza speci­ fica sussiste fra quest'ultimo concetto - per definizione più generale - e quello di forza, cosa che è impossibile, giacché la volontà è specificamente diversa dalla forza e può essere innalzata a principio metafisico solo pre­ scindendo arbitrariamente dai caratteri empirici per mezzo dei quali ci è nota. Schopenhauer così va incontro ad una « amfibolia » del concetto di volontà, una volta intesa come realtà psicologica, una volta intesa come realtà metafisica 6. Quanto alla volontà intesa come principio metafisico irrazionale, la contraddizione fondamentale di Schopenhauer consisterebbe nel fatto che ad essa viene poi di fatto attribuita la capacità di oggettivarsi in un mon­ do in cui sono presenti, almeno in un certo grado, ordine e finalità (ibid., p. 115, I. Fichte, Haym, Hoffmann, Rosenkranz, Seydel, Thilo, Ulrici). A livello antropologico, la pretesa schopenhaueriana di fare della vo­ lontà - di una volontà ben si intende irrazionale e « cieca » - l'unico ele­ mento originario dell'uomo da luogo a tutta un'altra serie di contraddizioni concernenti il rapporto intelletto-volontà. Intanto appare ai più incom­ prensibile come l'intelletto possa essere prodotto da qualcosa che è in sé radicalmente estraneo ad ogni razionalità (ibid., p. 119, De Sanctis, Hoff­ mann). L'esigenza di vedere nell'intelletto qualcosa di originariamente ete­ rogeneo ed autonomo rispetto alla volontà sarebbe d'altra parte confusa­ mente - ed incoerentemente - percepita da Schopenhauer, il quale da un lato ammette, nella contemplazione estetica (Thilo), un'attività dell'intellet6 Trendelenburg 1862, voi. II, p. 110 (Bùchner, Gruppe, Haym, Michelet, Noack, Ulrici, Zeller). Come si vede, nella critica di questi anni domina pressoché incontrasta­ tamente l'interpretazione speculativa - metafisica in senso tradizionale - di Scho­ penhauer, a partire dalla quale risulta relativamente facile criticare il « sistema » schopenhaueriano. Solo qualche autore intrawede la possibilità di una lettura del tipo deli­ neata nel primo capitolo: così Bartholmèss, Haym, lo stesso Trendelenburg e più tardi Dùhring parlano della volontà come di una « metafora », termine che però viene da essi impiegato in un senso negativo, per indicare la distanza del discorso schopenhaueriano da una riflessione autenticamente filosofica.

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to del tutto libera dalla volontà, dall'altro attribuisce all'intelletto la capa­ cità di farsi in qualche misura signore della volontà, spingendola ad autonegarsi (Haym, Bartholmèss). Per quanto riguarda l'etica poi, continuamente criticata è la dottrina della libertà e dell'immutabilità del carattere, che viene in alcuni casi vista come un determinismo mascherato o come un abbandono dell'uomo al cieco volere (ibid., p. 109, Cornili, De Sanctis, Kiy, Noack), in altri come un salto nella mistica che comunque non lascia spazio ad un vero agire morale (Cornili, Bùchner, I. Fichte, Haym, Hoffmann) 7 . La stessa dottrina della compassione, non sostenuta da una reale distinzione fra gli individui, non sarebbe in ultima analisi che una forma di criptoegoismo, del tutto assimilabile agli altri comportamenti egoistici - e quindi immorali - dell'in­ dividuo (Bartholmèss, I. Ficthe, Hoffmann, Kiy, Seydel). Infine il sistema di Schopenhauer toccherebbe l'apice della contraddittorietà nella dottrina della negazione del volere. Si osserva che la nega­ zione del volere è concepibile pur sempre solo come un atto di volontà e che quindi una vera e propria negazione del volere non può darsi. D'altra parte è considerato ingiustificato il rifiuto schopenhaueriano del suicidio, l'unica concreta negazione della volontà di vita che l'uomo ha a disposizio­ ne (Hoffmann, Noack). Da un punto di vista metafisico poi, tale dottrina implicherebbe l'assurdo di un'essenza del mondo che nega se stessa - ces­ sando così di essere l'essenza del mondo, di un mistico ritorno all'uno in cui però questo uno si identifica con il puro nulla (ibid., p. 120, De Sanctis, Haym, Noack). 7 Un'estesa confutazione della dottrina schopenhaueriana della libertà è offerta da Liebmann 1866, pp. 65-101. Otto Liebmann (1840-1912), dal 1882 professore ordinario a Jena, è considerato uno degli iniziatori del neokantismo (Liebmann 1865 contiene fra l'altro un'esposizione del sistema schopenhaueriano: Schopenhauer - che non rappre­ senta un reale superamento delle posizioni di Kant, cui quindi bisogna tornare - è visto qui come il polo opposto di Hegel, giacché in esso alla « autocrazia del pensiero » si sostituisce una « autocrazia della volontà » [pp. 155-203]). Per quanto riguarda la dot­ trina della libertà, Liebmann mostra in primo luogo che essa, facendo dipendere tutte le azioni dell'uomo dall'atto atemporale e trascendente della costituzione del carattere e del soggetto stesso, non spiega la responsabilità morale: « io, in quanto persona raziona­ le, devo essere responsabile di qualcosa che è avvenuto senza che ne sapessi niente » (Liebmann 1866, p. 69). Con la responsabilità cade anche la possibilità di parlare della coscienza morale, della lode, del biasimo, del bene, del male (ibid., pp. 71-77). Dopo aver sostenuto che è assurdo porre la libertà nell'essere (p. 79 s.), Liebmann si impegna in una lunga discussione del determinismo empirico schopenhaueriano, che dopo aver insistito molto sulla modificabilità del carattere, si conclude con la tesi che esso è inso­ stenibile, senza peraltro spingersi ad affermare che esiste indeterminismo (pp. 82-101).

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II materiale offerto da queste critiche viene naturalmente sfruttato in modo diverso e con fini diversi dai singoli autori, ciascuno dei quali si pone in un'ottica particolare di fronte a Schopenhauer. In generale tuttavia sono individuabili tre grandi linee di tendenza che possono utilmente essere uti­ lizzate per organizzare l'esposizione che segue. Per usare una metafora che ebbe tanto successo in riferimento ai dibattiti interni alla scuola hegeliana, si potrebbe dividere anche la letteratura critica su Schopenhauer in una « de­ stra »j un « centro » ed una « sinistra »: nella destra si possono fare rientrare - naturalmente con una certa approssimazione - quegli autori che si accosta­ no a Schopenhauer guidati prevalentemente da preoccupazioni religiose o metafisiche in senso tradizionale, coloro che insomma considerano particolarmente negativo in Schopenhauer tutto ciò che si oppone alla religione cristiana in tutte le sue possibili interpretazioni, inclusa quella relativamente « laica » dell'hegelismo. Spesso queste preoccupazioni teoriche si accompa­ gnano a quelle per i possibili influssi negativi che la diffusione del pensiero schopenhaueriano potrebbe esercitare sulla coscienza nazionale tedesca, distogliendola dal grande compito dell'unificazione nazionale. Il centro può essere invece rappresentato da quanti si limitano ad una comprensione sto­ rica o ad una critica interna di Schopenhauer, senza cioè giudicare la sua filosofia sulla base di parametri teorici precostituiti. Alla sinistra invece si possono collocare quegli autori - essenzialmente i sostenitori del materiali­ smo - che, pur apprezzando complessivamente più degli altri Scho­ penhauer, e pur considerando il suo successo come un sintomo significativo della bancarotta della religione e della speculazione, gli rimproverano di non essere andato sufficientemente avanti nella sua critica della filosofia del pas­ sato e del presente, mantenendo in qualche modo un impianto metafisico e rinnegando nella sua etica e nel suo pessimismo le premesse eudemonistiche e deterministiche che pure aveva saputo così acutamente sviluppare. Particolarmente interessante è anche l'intervento di De Sanctis che - per quan­ to da un punto di vista non materialistico - articola maggiormente l'interpretazione « politica » di Schopenhauer già accennata da Gutzkow.

2. GLI HEGELIANI E IL PESSIMISMO DI SCHOPENHAUER.

Si è visto che Schopenhauer deve una parte non indifferente del suo successo al fatto di essere stato incluso nella Geschichte der Kant'schen Philosophie di Rosenkranz. Anche per tale motivo è opportuno iniziare questa rassegna dagli hegeliani.

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Erdmann ha sempre manifestato un certo interesse per Schopenhauer, pur respingendone il pessimismo 8. Ciò che caratterizza la sua posizione è lo sforzo di collocare nella storia della filosofia Schopenhauer - insieme con Herbart 9 - in una posizione che logicamente precede Hegel; per Erdmann infatti la specificità del suo pensiero, che comunque mette capo ad un ide­ alismo panteistico, consiste nell'aver criticato le posizioni della filosofia dell'identità e della Wissenschaftlehre richiamandosi a Kant e preparando così in qualche misura la sintesi hegeliana. Quanto al successo attuale, dal punto di vista di Erdmann esso deve essere visto come una conseguenza delle discussioni apertesi intorno alla filosofia hegeliana: essendo messa in dubbio la validità del « superamento » hegeliano di quelle due posizioni, è naturale che ci si rifaccia a Schopenhauer, giacché la sua filosofia contiene delle critiche alle componenti di cui il sistema hegeliano è il « risultante » 10. Più articolata è l'analisi della filosofia di Schopenhauer offerta da Michelet 11 . In essa è evidente lo sforzo di ridimensionare la presunta ori8 Johann Eduard Erdmann (1805-1892) fu hegeliano di destra e professore ordi­ nario di filosofia dal 1838 all'università di Halle; benché autore di moltissime opere - si dedicò in particolare alla logica hegeliana -, è noto soprattutto come storico della filo­ sofia. Una bibliografia degli scritti di Erdmann si trova in B. Erdmann 1893; cfr. anche Glockner 1931. Su Erdmann e gli altri hegeliani interessanti informazioni sono offerte da Cesa in Lxibbe 1974. 9 Sembra che sia stato I. Fichte a richiamare l'attenzione di Erdmann su Scho­ penhauer. Fichte aveva affermato la somiglianzà di fondo fra Schopenhauer ed Herbart (cfr. sotto). Erdmann 1852 sviluppa un'« antitesi » fra le filosofia dei due autori (moni­ smo contro pluralismo, volontà contro rappresentazione, immutabilità del carattere contro possibilità di una sua formazione, pessimismo contro ottimismo, acosmismo con­ tro ateismo) che hanno in comune unicamente il loro richiamarsi a Kant. Questa « dia­ metrale opposizione » per Erdmann tuttavia rende comprensibile come la loro posizione nella storia della filosofia sia «molto simile» (Erdmann 1834, voi. VII, p. 120; sul rapporto Schopenhauer-Herbart cfr. anche Erdmann 1856). Sull'interpretazione di Schopenhauer sviluppata da Erdmann cfr. Salzsieder 1928, p. 33 s.; sul senso della polemica con I. Fichte cfr. Kamata 1988, pp. 56-63. L'antitesi-parallelismo fra Herbart e Schopenhauer è divenuto poi un motivo ricorrente nella critica: oltre agli autori che saranno citati in seguito cfr. Suhle 1862, pp. 8 s. (lo scritto si occupa in particolare del problema della causalità e non tratta mai del terna del pessimismo) e Wyneken 1869. 10 Erdmann 1852, pp. 221 s. Per la definizione di «idealismo panteistico» cfr. Erdmann 1896, voi. II, p. 527. Schopenhauer apprezza l'articolo in cui viene contrap­ posto ad Herbart (« Erdmann mi tratta del tutto onestamente », GBr, p. 299), mentre, non senza qualche ragione, da un giudizio complessivamente negativo delle pagine dedicategli in Erdmann 1834: « non si dice una parola sul fatto che io sono specifica­ mente diverso dagli altri, ma sono messo come un malfattore fra gli altri malfattori » (GBr, p. 326). 11 Karl Ludwig Michelet (1801-1893), fra i più noti discepoli di Hegel, fu profes­ sore all'Università di Berlino dal 1829 ed hegeliano di destra (specie nell'ambito del

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ginalità del saggio di Francoforte, anzitutto accostato a Feuerbach per la sua antropologizzazione della filosofia (Michele! 1855, p. 43): la filosofia schopenhaueriana è presentata come uno spiritualismo tutto sommato ab­ bastanza tradizionale che riduce materia e pensiero a determinazioni di un'entità che sta alle loro spalle e che in quanto tale non sembra in grado di opporsi efficacemente al materialismo (ibìd., pp. 50-54); essa non fa che riproporre la volontà kantiana, servendosi poi largamente di Fichte per passare dal teoretico al pratico (ibid., pp. 49, 227 s., 241); addirittura l'ar­ ticolarsi delle varie parti del Mondo ricorda il procedimento impiegato da Hegel nella Fenomenologia (ibid., p. 54). Michelet individua però chiaramente nel pessimismo un carattere specifico della filosofia di Schopenhauer, che da ad essa un particolare colore: « Non si può disconoscere che si nasconde in questa filosofia qualcosa di originariamente demoniaco e titanico; ed egli lotta con tutte le sue forze per superarlo » (ibid., p. 242). Alla base di questo pessimismo sta un'originale interpretazione dell'Assoluto come di qualcosa di nega­ tivo, negatività che non offre quindi sbocchi alla (necessaria) negazione del finito: « solo nella negazione egli vede il fine supremo della vita. Il positivo, l'affermativo è per lui solo un finito che deve essere superato » (ibid., p. 243). Michelet invece dichiara di rimanere fedele alla prospettiva hegeliana, secondo cui il male è condizione necessaria dell'affermazione del bene e come tale va superato. Il pessimismo - la presa di coscienza del male del mondo - è conscguentemente condizione necessaria dell'im­ pegno attivo nel progresso del mondo: poiché tale impegno è vita ed atti­ vità e poiché esse possono realizzarsi solo nel superamento degli ostacoli (del male), Michelet giunge ad affermare che egli è ottimista perché è pes­ simista; ne consegue - paradossalmente - che tanto maggiore è il male, tanto più grande può essere il bene: quo peius, eo melius; così - e l'esem­ pio non può essere casuale - la massima realizzazione della libertà deve essere preparata della « più alta miseria del proletariato ». In definitiva, pessimismo ed ottimismo non si escludono l'un l'altro, ma il primo è il necessario presupposto del secondo (Michelet in Aa.Vv. 1879, pp. 50-52). Quanto al resto, Michelet rileva che Schopenhauer è molto più cristiano di quanto voglia ammettere nel negare valore al mondo sensibile e nello svi­ luppare una morale che si oppone all'egoismo; peccato che il suo mesproblema del rapporto fra filosofia e religione), benché egli si collocasse nel « centro­ sinistra ». Per la sua polemica con Hartmann cfr. sotto. A Schopenhauer egli dedica un lungo Vortmg presentato alla « Società filosofica » di Berlino (Michelet 1855).

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saggio morale si concluda in un quietismo, che è senz'altro una dottrina « rovinosa » 12. Rosenkranz ritorna più volte su Schopenhauer e in particolare sul problema tutto hegeliano della sua collocazione storica; in un saggio del 1854 egli muove dalla considerazione della crisi della filosofia tedesca: manca in essa una figura dominante, nonostante che i tedeschi vogliano un Kaiser o quanto meno un Bundestag; ebbene, supposto che il Bundestag filosofia) possa essere costituito dalla triade dei teisti speculativi (Ulrici, I. Fichte, Weisse), si può supporre che Kaiser della filosofia tedesca debba divenire Schopenhauer, il cui successo appare ormai indiscutibile. In ogni caso per Rosenkranz tale « commedia » non interessa il pubblico, ma è un « mistero delle scuole e delle università » (Rosenkranz 1854b, p. 45 s.). Dopo aver negato valore al sistema schopenhaueriano 13 , Rosenkranz si sofferma in particolare sull'etica, che nell'accentuazione del ruolo della volontà pare rifarsi direttamente a Kant. Ma anche da questo punto di vista il valore di Schopenhauer risulta assai modesto. Essa, ponendo al suo cen­ tro la compassione, spiega ma non fonda l'agire morale, cosicché si com­ prende come essa possa condurre a una « stagnazione sentimentale » che, con la negazione del volere, ci fa immergere « nel beato abisso del nulla ». Schopenhauer così non porta in alcun modo a compimento la morale kan­ tiana, così ricca di stimoli per innalzare e nobilitare l'uomo, ma piuttosto mette capo a un « completo annichilimento della filosofia kantiana » (ibid., pp. 52-56). Se tutti divenissero schopenhaueriani, si produrrebbero un'in­ voluzione della vita civile, un abbassamento della morale, la distruzione 12 Michelet 1855, pp. 247-249. Il saggio è giudicato da Schopenhauer « una por­ cheria » (Sanerei) (GBr, p. 378). Sulla posizione di Michelet, cfr. Salzsieder 1928, pp. 2427 e Kamata 1988, pp. 84-88. 13 Rosenkranz 1854b, p. 49 s. Altrove Rosenkranz dirà che « la genialità è l'ele­ mento specifico di Schopenhauer, ma la genialità non basta là dove si tratta di provare la verità » (Rosenkranz 1870, p. 271). In altri scritti Rosenkranz sembra tuttavia rivalu­ tare almeno in parte il valore filosofìco di Schopenhauer, facendo della sua filosofia una necessaria manifestazione dello Zeitgeist: « Per quanto la speculazione di Schopenhauer sia stata qualcosa di morboso, essa era pur sempre speculazione e corrispondeva ad un diffuso atteggiamento di disinganno, di delusione e di contraddizione intcriore con la situazione reale » (Rosenkranz 1862). In un saggio del 1872 poi egli giudica Scho­ penhauer come l'ultimo grande filosofo (Rosenkranz 1872, p. 572). Qui Rosenkranz accenna anche ad Hartmann ed a Bahnsen i cui sistemi sono considerati semplicemente sviluppi della filosofia schopenhaueriana (pp. 572 e 574). Rosenkranz, dal 1870 quasi cieco, non ha mai discusso a fondo la filosofia di Hartmann; da una lettera del 1871 si apprende però che egli considerava la PU un'insostenibile confusione di schopenhauerismo e leibnizismo, una « contraddizione di tragedia e commedia » (Sange 1915, p. 12).

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della cultura. Schopenhauer è così un filosofo « profondo e geniale, ma paradossale e morboso ». Sarebbe un grave sintomo della presenza di una « disperazione » di massa, se il suo pensiero dovesse ulteriormente diffon­ dersi: non c'è bisogno del lamentoso suono di flauti della sua filosofia, ma degli squilli di tromba dell'imperativo categorico, che appassioni alla lotta contro la miseria e la sofferenza della vita (ibid., pp. 57-60). Nella Logica il problema del pessimismo è invece affrontato facendo ricorso al bagaglio concettuale dell'hegelismo: esso ha le sue premesse nel­ l'eliminazione dal principio della realtà dell'elemento razionale, tesi che ha fatto divenire Schopenhauer « il beniamino di tutti i tedeschi apatici e stan­ chi del mondo, giacché per lui il mondo è l'irrazionalità reale (die reale Unvernunft), l'anarchia costituita ». Egli è « nichilista », « giacché la totale astrazione da ogni affermativo in quanto affermazione del nulla è il suo supremo risultato » (Rosenkranz 1858, voi. II, pp. 326-329). Scho­ penhauer, a differenza di Hegel, non coglie il valore del dolore e della sofferenza come necessari punti di passaggio verso l'infinito, e ciò non è che « il rovescio della medaglia dello smisurato desiderio di piacere in cui la nostra epoca è precipitata ». In queste righe non è difficile cogliere una prima eco della diffusione del pessimismo « eudemonologico » di Hartmann (Rosenkranz 1870, pp. 273 e XIII). La più estesa trattazione del pessimismo schopenhaueriano da parte hegeliana è offerta da un'operetta di Victor Kiy, che, per quanto di valore piuttosto modesto, è indicativa del modo in cui un certo hegelismo comin­ ciava a pensare di poter neutralizzare il pensiero di Schopenhauer 14. Kiy si dichiara apertamente hegeliano ed afferma che tale filosofia, nonostante il discredito in cui è caduta, è pur sempre sostenuta dai migliori. Si tratta di applicare alla realtà le categorie hegeliane, migliorandone soprattutto l'aspetto morale. Ciò può avvenire grazie alla filosofia di Schopenhauer, una volta che essa venga depurata da quel pessimismo che non le è affatto connaturato (ibid., pp. 1-4). Laddove l'ottimismo (Hegel) parte dall'universale e spesso finisce con il negare il particolare, senza indicarne il vero significato, il pessimismo muove dal particolare, dall'individuo, ed estende a tutta la realtà il male che trova in esso; esso è quindi nella sua essenza qualcosa di soggettivo, una sorta di « egoismo teoretico » (ibid., p. 5 s.). Tale egoismo teoretico si 14 Kiy 1866. Di questo autore non è stato possibile rintracciare alcun dato biogra­ fico. Egli si professa discepolo di Rosenkranz, dichiara di essere stato da lui aiutato nella stesura del suo lavoro e cita spesso le sue opere.

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manifesta anzitutto in un idealismo unilaterale, che pretende di trovare un'immediata corrispondenza fra la propria rappresentazione del mondo il proprio ideale, la propria idea del bene - ed il mondo stesso. Senza la mediazione del concetto ciò naturalmente non avviene e, di conseguenza, il mondo viene giudicato cattivo (ibid., pp. 6-9). Ve poi, alla base di questo pessimismo, un realismo unilaterale, che attribuisce valore positivo alla realtà nella misura in cui essa soddisfa i nostri desideri soggettivi; la stan­ chezza del desiderio, l'impossibilità di trovare oggetti che ci diano piacere conduce di nuovo alla svalutazione della realtà (ibid., pp. 9-11). Infine l'ultima radice del pessimismo è l'individualismo che generalizza a tutta la realtà la propria insoddisfazione e le proprie sofferenze (ibid., pp. 11-13). Kiy riconosce non di meno l'esistenza di una radice oggettiva del pes­ simismo: le contraddizioni della realtà. Esse, in generale, in quanto costitu­ iscono l'essenza della storia della natura e dello spirito, vengono tolte, ma in alcuni casi ciò sembra non avvenire (Kiy parla di « contraddizioni nega­ tive »): si hanno così « contraddizioni negative » dal punto di vista della ragione (il falso), dal punto di vista della natura (il male fisico), dal punto di vista dello spirito (il male morale). Kiy, dopo aver liquidato sbrigativa­ mente i primi due tipi di contraddizioni (in particolare egli sottolinea come il male non esista per la natura, ma solo per il pensiero che soggettivamente riflette sulla natura stessa - ad esempio gli animali per Kiy non hanno sensibilità e comunque la loro sofferenza è controbilanciata dal costante raggiungimento del fine del loro essere, la vita), si sofferma sul male mora­ le, che viene senz'altro interpretato come l'opporsi dell'individuo al fine della sua specie e, in ultima analisi, del tutto: « l'egoismo pratico, il male morale, è di conseguenza il punto di partenza fondamentale del pessimi­ smo; è l'unica vera fonte del dolore del mondo. Senza l'egoismo pratico, senza il male morale il concetto di pessimismo sarebbe del tutto vuoto di contenuto» (ibid., pp. 14-22). Poste queste premesse, risulta facile per Kiy valutare pregi e difetti del pessimismo schopenhaueriano: a parte la falsa interpretazione del male naturale (ibid., pp. 44-50), Schopenhauer è rimasto pessimista perché non ha saputo superare veramente l'egoismo (ibid., p. 42 s.). Schopenhauer ha anzitutto reso totalmente irrazionale il volere, negando la finalità dell'agire e la vera soddisfazione che deriva dal raggiungimento di un fine (ibid., pp. 51-53); ha poi negato la libertà dell'uomo, rendendo impossibile l'agire razionale (ibid., pp. 53-57); ha conscguentemente negato ogni valore agli sforzi individuali e collettivi intesi a migliorare la condizione degli uomini, pur ammettendo l'esistenza del finalismo e del progresso (ibid., pp. 61-67).

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L'unica via d'uscita che egli propone (la negazione del volere) dipende dalla mancata comprensione della vera natura dell'agire etico, che non si esplica nella compassione, ma nell'amore, che è sì un sentimento, ma un sentimento guidato dalla coscienza e dalla ragione (ibid., pp. 67-75). È sufficiente quindi eliminare l'errore di fondo della filosofia schopenhaueriana (l'irrazionalità del volere sia come principio metafisico sia come prin­ cipio antropologico) per togliere le basi al suo pessimismo e poter apprez­ zare il messaggio positivo della sua filosofia: l'unità della realtà che si tra­ duce necessariamente in una fondazione metafisica del legame d'amore esistente fra tutti gli esseri. Kiy conclude la sua rilettura hegeliana di Schopenhauer prospettando la possibilità di un'interpretazione teologica della sua filosofia, che anche nella sua forma originale lascia aperta la questione della natura del fondamento ultimo e trascendente della realtà (ibid., pp. 76-78). L'ultimo importante intervento « hegeliano » è quello di Rudolf Haym, considerato per molto tempo « il meglio che sia stato scritto sul cosiddetto filosofo di Francoforte » 15 . Esso è condotto con un'ampiezza di informazione ed un rigore di analisi che lo rendono ancor oggi di utile lettura e si risolve in un spieiata destructio dell'uomo Schopenhauer e della sua filosofia. Haym procede anzitutto ad un'estesa critica del sistema schopenhaueriano in cui egli espone con notevole acutezza e chiarezza quella che gli appare l'infinita serie di contraddizioni, di ingiustificati passaggi argomen­ tativi di cui soffre tale filosofia. Si tratta per esplicita dichiarazione dello stesso Haym di una critica tutta interna a Schopenhauer: « La nostra critica di questa costruzione ha fatto leva il meno possibile su elementi esterni; mediante le sue stesse premesse essa si distrugge dalle fondamenta, e non è esagerato dire che neppure una sola pietra rimane sull'altra» (ibid., p. 77). Questo modo di procedere ed i risultati cui esso giunge consentono ad 13 Haym 1864. Il giudizio citato è di Ulrici 1864, p. 298; cfr. anche Hoffmann 1864b, p. 147: « lo scritto merita il più grande riconoscimento e la più estesa diffusio­ ne ». Rudolf Haym (1821-1901) ebbe una carriera accademica molto travagliata, costel­ lata da scontri con il potere politico, divenendo ordinario solo negli anni Settanta. Fu soprattutto uno storico e si dedicò infaticabilmente alla storia della cultura tedesca del romanticismo. Rimase comunque un attento ed acuto osservatore della vita filosofica di quegli anni, come dimostra fra l'altro il saggio su Hartmann di cui si parlerà in seguito. Fondò nel 1858 con Treitschke i « Preussische Jahrbùcher », l'organo quasi ufficiale dei liberal-nazionali. Sulla sua specifica posizione nei confronti di Hegel cfr. Losurdo 1983, soprattutto pp. 11-28, con ulteriori indicazioni bibliografiche. Sull'interpretazione di Schopenhauer cfr. Salzsieder 1928, pp. 223-226 e Kamata, pp. 97-109.

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-, j.

Haym di non impegnarsi filosoficamente in soluzioni alternative e di non sbilanciarsi neppure circa la rilevanza filosofica delle questioni trattate da Schopenhauer; egli mantiene la critica su un terreno per così dire neutrale, evitando perfino di riformulare le posizioni di Schopenhauer in un linguag­ gio filosofico « scientificamente » più corretto. Solo in un punto, parlando della negazione della volontà, Haym fa ricorso alla strumentazione concet­ tuale dell'hegelismo, sostenendo che tale dottrina dimostra l'autocontraddittorietà del concetto di volontà così come viene sviluppato da Scho­ penhauer: « [II suo sistema], muovendo da questa volontà come dall'in sé, constata esso stesso che questo concetto è una contraddizione che si toglie da sé e che la soluzione di questa contraddizione è il nulla... Così questo sistema si conclude con un dichiarato nichilismo e con la contraddizione » (#«/., pp. 74 e 77). Il problema che tale filosofia pone è allora quello di capire come Schopenhauer possa essere rimasto così a lungo in tali contraddizioni. Si tratta di approfondire la genesi di questo sistema (ibid., p. 180), non prima peraltro di aver illustrato la sistematica distorsione del pensiero di Kant operata da Schopenhauer 16. Haym, servendosi delle pagine del Nachlass appena pubblicato da Frauenstàdt, ricostruisce la biografia intellettuale di Schopenhauer, sottolineando a più riprese i suoi inconfessati debiti verso le filosofie di Fichte, Schelling e Jacobi. Particolare attenzione egli dedica alla cosiddetta « filosofia della coscienza migliore » che occupa un posto rile­ vante negli appunti giovanili di Schopenhauer; essa, nel suo dualismo, gli appare un documento inconfutabile dell'originaria sensibilità romantica di Schopenhauer: « Quando leggiamo i suoi manoscritti giovanili ci sembra di essere trasportati indietro nell'epoca della fioritura della prima scuola ro­ mantica » (ibid., p. 203). Queste note d'altra parte, nei loro incerti tentativi di identificare riflessione filosofica ed arte, nella mancanza di ogni sviluppo ed elaborazione concettuale, mostrano chiaramente l'origine eminente­ mente soggettiva della filosofia di Schopenhauer: « Egli interpretò il mon­ do sulla base di se stesso; la sua individualità è per lui la chiave specifica per la comprensione dell'intera natura: c'è da stupirsi allora che la prova 16 In questa sezione Haym riprende motivi ormai correnti nella letteratura critica su Schopenhauer: oltre a costruire contro i precetti kantiani una metafisica fantasiosa e con evidenti contenuti mistici, oltre ad aver negato il progresso sostituendolo con un movimento ciclico « il cui centro è il nulla », egli ha snaturato la volontà kantiana, privandola del contributo della ragione, ha fisiologizzato la teoria della conoscenza kan­ tiana, distruggendo con la sua etica anche il suo trascendentalismo e ripiombando in un empirismo di stampo lockiano (ibid., pp. 80-91).

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per porre la volontà a fondamento di tutto l'essere si ricolleghi all'indivi­ duo? » (ibid., p. 211). Con il raggiungimento del sistema-la pubblicazione del Mondo - cessa in Schopenhauer ogni sviluppo: « Tutto ciò che segue ha solo un interesse patologico. Alla storia dello sviluppo del sistema segue la storia della sua malattia, e sempre più chiaramente si manifestano in essa, sempre più sgradevoli ed urtanti, i caratteri della personalità di Scho­ penhauer» (ibid., p. 216). Haym ripercorre le varie tappe della vita di Schopenhauer dopo il 1819 per mostrarne l'egoismo, il rancore verso gli altri filosofi a lui contemporanei, il crescente isolamento fino al suo tardivo successo. Le conclusioni che ricava da questa analisi costituiscono un pa­ radossale rovesciamento dei termini del dibattito che si era svolto fra Gwinner e gli altri discepoli di Schopenhauer: vi è completo accordo naturalmente in negativo - fra la vita e le opere del « saggio di Francofor­ te»; esse si confermano e chiariscono reciprocamente (ibid., p. 232). Per fortuna di questa filosofia è rimasto e rimarrà poco in Germania; non nell'ambito della scienza, dove essa si è mostrata completamente in­ fruttuosa - un tema questo forse mutuato da Dilthey -, non nell'ambito della morale, dove propone un ideale del tutto contrario allo spirito dei tempi ed al progresso dell'umanità, ideale che può forse trovare discepoli e continuatori nella terra da cui essa trae origine, ovvero l'India. Haym si guarda bene quindi dall'accreditate la tesi che Schopenhauer debba il suo successo alla situazione storica presente: esso è un prodotto del passato, di quell'epoca romantica di profonda lacerazione ed impotenza che il popolo tedesco ha per fortuna ormai superata. Non rimane che apprezzarlo per quello che veramente fu: « un dilettante nel senso eminente della parola ». « Ciò che in futuro la storia della filosofia dovrà narrare, non è ciò che ha insegnato, ma che c'è stato un tempo in cui, dopo la distruzione dei grandi sistemi scientifici, un sogno vivamente sognato ed ingegnosamente presen­ tato è stato preso per filosofia » 17 .

17 Ibid., p. 243. Non si può concludere la rassegna della critica hegeliana senza accennare a Kuno Fischer (1824-1907). Benché quasi coetaneo di Haym, egli si è occu­ pato diffusamente di Schopenhauer solo nel 1893 dedicandogli un'ampia ma in fondo non molto originale monografia nell'ambito della sua Storia della filosofia (Fischer 1898; su di essa cfr. Beste 1919, Groener 1918, Salzsieder 1928, pp. 40-47; cfr. anche K. Fischer 1892, che riprende l'ormai tradizionale tema del rapporto fra la vita e là filosofia di Schopenhauer). Il suo contributo più significativo al dibattito intorno al pessimismo del periodo che qui interessa sono le poche righe che egli dedica a Schopenhauer nel secondo volume di quella stessa opera, contrapponendolo a Leibniz e mettendo in rela­ zione il sorgere di tale sistema con il fallimento del 1848 (Fischer 1855, pp. 395 e 466;

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3. IL TEISMO SPECULATIVO ED IL PESSIMISMO DI ScHOPENHAUER.

Gli esponenti del teismo speculativo sono, fra i filosofi tedeschi del­ l'epoca, quelli che hanno affrontato con maggior impegno i problemi me­ tafisici posti dal pensiero di Schopenhauer. Questo vale anzitutto per Immanuel Fichte 18. Egli, dopo un'esposizio­ ne piuttosto negativa dell'etica di Schopenhauer, nel corso della quale non si fa cenno al pessimismo ed alla dottrina della negazione del volere 19, ritorna sul sistema di Schopenhauer nel suo complesso nella replica all'ar­ ticolo di Erdmann 20. Schopenhauer ha in comune con tutti sistemi posthegeliani il volontarismo, ma nello svilupparlo egli commette l'errore foncfr. al riguardo la vivace reazione di Schopenhauer in GBr, p. 368), una tesi che sarà ripresa più estesamente dallo stesso in Fischer 1898, p. 8 s., e da moltissimi altri autori. Attorno agli anni settanta comunque Fischer dava un giudizio positivo di Scho­ penhauer, tanto da consigliarne la lettura ai suoi studenti (Glockner 1934, p. 12). Al contrario considerava in modo totalmente negativo Hartmann per il suo assurdo insiste­ re sul bilancio piacere/dolore (cfr. la lettera a Strauss del 18 giugno 1871 in Glockner 1938). 18 Immanuel Hermann Fichte, figlio del più noto Johann Gottlieb, nato a Jena nel 1796, studia a Berlino dal 1813 al 1818 - qui, a suo dire, avrebbe conosciuto personal­ mente Schopenhauer - e si dedica prevalentemente alla filologia; si abilita nel 1819 ma abbandona quasi subito Berlino, perché sospetto di tendenze liberali. Riprende ad inse­ gnare prima a Saarbrùcken (1822), poi a Dùsseldorf. Dal 1829 stringe amicizia con Weisse e, contemporaneamente, sposta sempre più i suoi interessi verso la filosofia. Nel 1836 è professore a Bonn e dal 1842 ordinario a Tùbingen fino al 1863, anno in cui si ritira dall'insegnamento in seguito ad una serie di sventure familiari. Muore nel 1879. Fichte appartiene insieme a Weisse (dal quale però nel 1867 prende le distanze), Ulrici e Wirth al cosiddetto « teismo speculativo », i cui caratteri sono esposti programmatica­ mente in Fichte 1833. Nel 1837 inizia la pubblicazione della celebre « Zeitschrift fiir Philosophie und spekulative Theologie » (dal 1847 esce con il titolo « Zeitschrift fùr Philosophie und philosophische Kritik »), rivista che diviene per parecchi anni l'organo ufficiale del « teismo speculativo ». Sulla figura di Fichte e sul teismo speculativo in generale cfr. Ravera 1974 e De Vitis 1978. Sulla particolare prospettiva in cui egli si accosta a Schopenhauer, visto come un potenziale alleato nella rivendicazione della libertà e indipendenza dell'individuo contro l'idealismo assoluto cfr. Kamata 1988, pp. 50-56 e 63-71; cfr. anche Salzsieder 1928, pp. 19-21. , 1S> Fichte 1850, voi. I, pp. 394-415. Fichte fa riferimento esclusivamente ad E. Schopenhauer qui, come si è detto (cfr. sopra), viene accostato ad Herbart, provocando la replica di Erdmann. 20 Fichte 1852. Fichte riconosce il carattere antitetico delle filosofie di Scho­ penhauer ed Herbart e conclude il suo- intervento dichiarando la sua netta preferenza per quest'ultimo, per il cui pensiero ci si può aspettare un successo futuro (p. 240 s.). Quanto a Schopenhauer, pur riconoscendone la profondità di pensiero, Fichte afferma che il suo sistema è lacunoso ed insostenibile specie per il suo idealismo che riduce tutta la realtà a sogno (p. 231).

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damentale di separare la volontà dalla ragione, mentre in essa deve essere presente un elemento razionale, foss'anche inconscio. Al posto del Wille sarebbe conscguentemente più opportuno che Schopenhauer ponesse come principio della realtà una Weltseele (ibid., p. 234). Per quanto riguar­ da l'etica poi Fichte ritiene che alla compassione si debba sostituire l'amo­ re, che deve fondarsi in Dio. Proprio la mancanza dell'amore in Scho­ penhauer sta alla base del suo pessimismo: Schopenhauer non ama il mon­ do, lo odia e quindi lo vuole annichilire. Esso non è dunque altro che la manifestazione della sua « ipocondria » 21 . Nella Anthropologie il tema del volontarismo schopenhaueriano è ri­ preso con specifico riferimento all'uomo; Fichte qui assume un atteggia­ mento più favorevole a Schopenhauer, la cui concezione dell'uomo - a cui fondamento non starebbe l'intelletto bensì la volontà - gli appare nella sostanza assai simile alla sua. Fichte ritiene che alla base dell'individualità debba essere posto un Trieb, termine che egli considera senz'altro equiva­ lente a Wille: « non ha torto Schopenhauer quando sostiene che l'ultimo ovvero il primo sostrato di tutti i fenomeni è "la volontà (l'istinto) di vita" e che essa precede 1'"intelletto", l'intelligenza cosciente vera e propria » 22 . Il limite di Schopenhauer consiste però nel riproporre - sia pure con segno rovesciato - il dualismo fra intelletto e volontà. È infatti impensabile una volontà che sia puro volere, giacché il volere di per sé può essere solo qualcosa di limitato e determinato; di qui la necessità di attribuire alla volontà un'attività di pensiero inconscia e di pensarla come originariamen-

21 Ibid., pp. 236-238. La stessa interpretazione psicologica del pessimismo scho­ penhaueriano è riproposta nella breve recensione ai Parerga e paralipomena, Fichte 1853b, in cui si afferma che la nuova opera non aggiunge niente di filosofìcamente rilevante alla filosofia schopenhaueriana, ma chiarisce ancor di più le origini personali del pessimismo: Schopenhauer è e rimane « un problema patologico-psicologico ». 22 Fichte 1856, pp. 579-581. In generale, da un punto di vista antropologico, il volontarismo schopenhaueriano viene svolto in due direzioni contrastanti: alcuni autori - è il caso di Fichte - tendono a sottolineare la dimensione naturalistica-fisiologica di questa prospettiva (in questo senso è da vedersi la sostituzione del termine Wille con Trieb), altri ne sfruttano invece prevalentemente la carica polemica nei confronti di una supposta tradizione intellettualistica che farebbe capo naturalmente a Cartesio; in que­ st'ottica, motivo ricorrente è la sostituzione della formula cogito ergo sum con la formula volo ergo sum. Gli esponenti più significativi di questa seconda linea interpretativa sono Feuerbach e Bahnsen, ma il motivo ritorna anche in altri autori minori, cfr. ad esempio Anon. 1854b, p. 204 e Pomtow 1854, p. 18 nota (questo sconosciuto autore cerca di delineare un'antropologia volontaristica secondo cui la volontà è il principio unitario che si trova dietro alla materia ed allo spirito; Pomtow sostiene anche di essere giunto a queste conclusioni prima ed indipendentemente da Schopenhauer).

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te individualizzata. D'altra parte questa assolutizzazione della volontà va corretta sul piano metafisico, ponendola come l'attività di un soggetto, ovvero di una Seele, l'unica concezione che è in grado di spiegare il finali­ smo del mondo 23 . La più estesa ed impegnata discussione del pessimismo di Scho­ penhauer - nel corso della quale sono ripresentate tutte le critiche prece­ denti - è tuttavia condotta da Fichte in una delle sue ultime opere (Fichte 1873), pubblicata all'età di settantasette anni 24 . Fichte riconosce anzitutto l'importanza storica del pessimismo e di Schopenhauer: « noi esercitiamo un atto di giustizia, se riconosciamo allo scopritore o al rinnovatore di questa concezione del mondo (se. il pessimismo) l'importante merito per il presente di richiamarci a quei problemi e di farci sentire con caustica acu­ tezza la loro dolorosa profondità» (ibid., p. 25). Nel prosieguo però egli ribadisce il carattere « soggettivo » di tale filosofia, cosicché sarebbe forse meglio occuparsi dell'uomo Schopenhauer che della sua filosofia (ibid., p. 26 s.). Per Fichte infatti un pessimismo « oggettivo», autenticamente filosofico, è qualcosa di autocontraddittorio. Nella misura in cui afferma che il mondo non è come deve essere, che non corrisponde a determinati valo­ ri, esso deve infatti ammettere l'esistenza di un ideale cui commisurare il mondo, un Seinsollendes che in quanto tale - se vuoi essere qualcosa di oggettivo - deve essere anche un Seinmùssendes; insomma nella misura in cui il pessimismo afferma la non corrispondenza del mondo agli ideali dell'uomo, esso pone immediatamente « la certezza di una realtà più alta, di un mondo migliore »; con questo il pessimismo non fa che riproporre il tema classico della teodicea - il problema di conciliare la realtà mondana con la realtà trascendente - e dimostra la sua povertà filosofica, giacché esso in definitiva si limita a indicare il problema senza risolverlo (ibid., p. 28). D'altra parte v'è un'intrinseca contraddizione nell'affermare l'assurdi­ tà, l'irrazionalità della realtà, giacché con ciò si sostiene che « ciò che deve

23 Ibid., pp. 582-584. Per Fichte questi difetti lasciano supporre che il successo di Schopenhauer tanto desiderato ed ora ottenuto non potrà essere che qualcosa di effime­ ro. Schopenhauer, che da parte sua aveva una pessima opinione dell'uomo e del filosofo I. Fichte, giudicato ancora peggiore del padre (GBr, p. 300), riteneva che la sostituzione di Wille con Trieb fosse un mezzo per appropriarsi della maggiore scoperta della sua filosofia occultando il « furto » (GBr, p. 394). 24 Nell'opera si tratta diffusamente anche di Hartmann. Fichte però, conforme­ mente alla sua posizione filosofica, ritiene più significativo dell'atteggiamento pessimisti­ co la filosofia di Schopenhauer; per questa ragione questo scritto è trattato in questo capitolo.

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essere » (das Seinmùssende - la realtà) è al tempo stesso « ciò che non deve essere » (das Nichtseinsollende): « questo è qualcosa di ipocondriaco, non di filosofico » (ibid., p. 202). Per tali ragioni il successo di Schopenhauer, se è davvero prodotto dal suo pessimismo, dalla sua capacità di convincere della nullità dell'esistenza, non può essere un successo filosofico, ma « per­ sonale » (ibid., p. 207). Resta non di meno dovere dei filosofi combattere tale dottrina, perché essa è falsa e pericolosa, in quanto ateistica ed in quanto ha la capacità di fare molti proseliti, data la forma avvincente con cui è esposta (ibid., p. 32). Anche per Wirth il successo di Schopenhauer è dovuto unicamente al suo ateismo, giacché il pubblico apprezza più chi distrugge che chi costrui­ sce 25. Wirth tuttavia apprezza nella sua filosofia l'opposizione agli idealisti che si manifesta, direttamente, nella chiara affermazione dei limiti della conoscenza e, indirettamente, nel pessimismo, che deve essere visto come una reazione o forse meglio come una conseguenza del panteismo; anche per il panteismo infatti la realtà empirica ed in particolar modo gli indivi­ dui sono una pura apparenza, manifestazioni di un'astratta sostanza, cui in certi casi non si riconosce neppure la coscienza: « per quanto si può vede­ re... in esso (se. Schopenhauer) viene chiaramente alla luce la vera conse­ guenza della concezione unilateralmente idealistica e pantelstica dominan­ te nel secondo periodo della filosofia tedesca, e questa conseguenza è un nichilismo che fa svanire il vero sapere e addirittura la possibilità di vivere, di fronte al cui vuoto il sentimento e la fantasia cercano scampo nella mistica oscurità dell'aldilà» (ibid., pp. 152-154). Assai più ricca ed articolata è l'analisi del pensiero schopenhaueriano sviluppa da Seydel nel suo libro vincitore del citato concorso sulla filosofia di Schopenhauer 26. 25 Wirth 1861, p. 148. Johann Ulrich Wirth (1810-1879), anche lui editore dal 1847 della « Zeitschrift » con Fichte ed Ulrici, è il meno significativo dei teisti specula­ tivi; anch'egli antihegeliano, fu variamente influenzato da Schleiermacher e soprattutto dal tardo Schelling. Su Wirth e Schopenhauer cfr. Salzsieder 1928, pp. 31-33. 26 Seydel 1857. Rudolf Seydel (1835-1892), era allievo di Weisse; abilitatosi a Lip­ sia nel 1860, divenne professore straordinario nel 1867, occupandosi in particolare di storia delle religioni e di filosofìa della religione. Per i suoi interventi su Hartmann cfr. sotto. Il libro su Schopenhauer, che associa ad acute analisi una certa tendenza a rileg­ gere Schopenhauer attraverso le categorie dell'idealismo e del teismo (cfr. ad es. p. 82 dove si pone come scopo dell'etica di Schopenhauer quella di mostrare « la triplice possibilità per l'uomo di possedere l'Assoluto, nella conoscenza, nell'intuizione, nell'agire etico »), fu giudicato da Schopenhauer « una miserabile compilazione » (GBr, p. 415). Sulla sua interpretazione di Schopenhauer cfr. Salzsieder 1928, pp. 78-86 e Kamata 1988, pp. 89-94.

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Egli da anzitutto un giudizio fortemente negativo del successo di Schopenhauer: la diffusione del suo pensiero è qualcosa di pernicioso, che ha indebolito la fede nei grandi ideali e ha reso sospettosi nei confronti di chi li propone (ibid., p. V). Storicamente la filosofia di Schopenhauer di­ pende in misura preponderante da quella del primo Fichte ed in partico­ lare dalla Missione del dotto, che apre il periodo della filosofia basata sulle grandi intuizioni, destinato ad estendere la sua influenza anche sulla lette­ ratura d'inizio Ottocento (Seydel cita il Faust di Goethe). Da questo punto di vista Schopenhauer appartiene al passato ed è quindi comprensibile che la sua filosofia sia piena di contraddizioni irrisolte (ibid., pp. 1-7). Poste queste premesse, Seydel da Corso ad un'analisi delle varie parti del sistema di Schopenhauer, che egli divide in logica, fisica ed etica, all'in­ terno della quale si trova un'approfondita discussione del pessimismo. Essa si apre con questa definizione del pessimismo: « Chiamiamo pessimismo la mancanza di ogni ideale. Esso, come lo scetticismo, è un punto di vista impossibile, poiché nega se stesso ». In ambito etico al pessimismo corri­ sponde il quietismo, anch'essa una posizione in sé autocontraddittoria ed insostenibile. Questi tre atteggiamenti sono strettamente legati l'un l'altro e « sono la negazione dell'Assoluto, che permane nella pura negatività, diame­ tralmente opposta a tutto ciò che è stata chiamata religione, l'irreligiosità per eccellenza nei suoi tre possibili aspetti; infatti lo scetticismo è la pura ne­ gazione della fede, il dubbio puro e semplice, il pessimismo è la pura nega­ zione della speranza, la disperazione pura e semplice, il quietismo la pura negazione dell'amore, l'indifferenza pura e semplice» (si noti il riferimento a fede, speranza, carità [amore], le tre virtù teologali). Insieme, essi costitui­ scono quello che si potrebbe chiamare « diabolismo » (ibid., pp. 101-102). La contraddittorietà di queste posizioni può essere mostrata ripren­ dendo la tradizionale confutazione dello scetticismo: come allo scetticismo si può obiettare che esso tiene per vero quanto meno la non esistenza della verità, così si può obiettare al pessimismo che esso quantomeno considera come ideale la sua mancanza d'ideali ed al quietismo che esso pone come norma dell'agire il non^agire. Ma c'è di più: nella misura in cui il pessimista giudica il mondo « pessimo », egli può farlo solo riferendosi ad un parame­ tro ideale, che, appartenendo al mondo stesso, dimostra che il mondo non è il peggiore possibile (Seydel interpreta il termine pessimismo alla lettera); infatti « il fatto che nell'uomo, che possiede la più grande intelligenza e la più forte volontà nella creazione a noi nota, si trovi il parametro assoluto per giudicare del reale, il fatto che egli possa essere pessimista, confuta ogni pessimismo ». D'altra parte l'ideale stesso non può che derivare dalla

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realtà e ciò non si spiegherebbe se essa fosse così negativa come il pessimi­ smo sostiene (ibid., p. 102). Questo è confermato dalle posizioni di Scho­ penhauer, che non è un vero pessimista perché ammette l'esistenza di molti elementi positivi nella realtà, quali la bellezza della natura, il genio, la gioia e la serenità che si provano nell'ascesi (ibid., p. 107). Con questo Seydel non vuole negare l'esistenza del male, ma altro è tener conto di esso e cercare di spiegarlo e superarlo, come hanno sempre fatto il giudaismo ed il cristianesimo ed anche Fichte, altro è arrestarsi ad esso dome invece fa Schopenhauer; eppure, ammettendo la teleologia, egli era nelle condizioni per sviluppare un'adeguata teodicea (ibid., p. 103 s.). L'errore di fondo di Schopenhauer consiste nell'assolutizzazione della volontà individuale, la cui soddisfazione egoistica è assunta come unico possibile parametro della felicità; la stessa negazione del volere, che, data la sua ininfluenza suSi'Urwille, sarebbe più logico sostituire con il suicidio, ha un contenuto essenzialmente egoistico. Viceversa la vera negazione della volontà deve essere compiuta nel senso di un superamento dei propri inte­ ressi individuali a vantaggio degli altri uomini e nella prospettiva di « un darsi all'Assoluto » in cui consiste la vera felicità (ibid., pp. 106 e 112-114). Allora alla compassione si sostituisce l'amore per i propri doveri, per gli altri uomini, per Dio 27 .

4. UN DISCEPOLO DI BAADER ED UNO DI HERBART AWERSARI DI SCHO­ PENHAUER: HOFFMANN E THILO.

Hoffmann e Thilo, per molti aspetti così diversi, convergono nel porre al centro della loro critica di Schopenhauer il suo ateismo, visto al tempo stesso come fondamento e conseguenza del pessimismo. 27 Ibid., p. 114 s. Christian Hermann Weisse (1801-1866), il maestro di Seydel, si è occupato di Schopenhauer in modo più superficiale degli altri teisti speculativi. Egli aveva criticato il rilievo attribuito a Schopenhauer da Rosenkranz 1840, « colpa » per la quale Schopenhauer aveva rifiutato di riceverlo, cfr. GBr, p. 373; in Weisse 1856, p. 891, Schopenhauer è definito « un discepolo della filosofia dell'identità schellinghiana » ed è visto come un oppositore del materialismo che tuttavia, negando l'Assoluto, giunge a risultati ancor più sconfortanti di quelli di Feuerbach; Schopenhauer è anche citato due volte in Weisse 1855, voi. I, e 1858, p. 632 s. (cfr. al riguardo il giudizio di Scho­ penhauer, GBr, p. 369). Quanto ad Hermann Ulrici (1806-1884), egli, sulla linea di Fichte e Wirth, sostiene contro Schopenhauer che il finalismo del mondo rende neces­ sario ammettere a suo fondamento un principio intelligente e cosciente (Ulrici 1854). Assimilabile nella sostanza a quella dei teisti speculativi è l'interpretazione di Scho-

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Hoffmann, che si segnala per il costante interesse dedicato alla filoso­ fia schopenhaueriana, è un nemico giurato di Schopenhauer, cui non per­ dona gli sprezzanti giudizi espressi su Baader 28 . Dopo aver ripreso punti­ gliosamente tutte o quasi le obiezioni correnti contro la filosofia di Scho­ penhauer, Hoffmann si sofferma particolarmente su quello che egli ritiene l'errore di fondo della filosofia di Schopenhauer, vale a dire il suo natura­ lismo, che lo apparenta al materialismo e fa della volontà qualcosa di simile alla natura naturans spinoziana (Hoffmann 1862, p. 117). La sua è una penhauer sviluppata da Christian-Jean-Guillaume Bartholmèss (1815-1856), professore a Strasburgo e teologo protestante. Pur riconoscendo a Schopenhauer il merito di aver sottolineato contro Hegel la necessità di tener conto della volontà come principio del­ l'universo - « una protesta che non passerà inosservata » (Bartholmèss 1855, p. 254) Bartholmèss critica la separazione fra volontà e ragione, che da luogo ad una concezione del mondo in cui il « Dio di Schopenhauer » risulta in definitiva ancor meno degno d'amore del Dio di Hegel (ibid., p. 265). D'altra parte, una volta identificata la volontà con l'Assoluto, ne deriva che buone devono essere le sue realizzazioni, cosicché parados­ salmente Schopenhauer non è in grado di giustificare la presenza del male del mondo (ibid., p. 261); insostenibili sono quindi il suo «fatalismo irrazionale» ed il «cieco imperio » della volontà, che renderebbero fra l'altro improponibile ogni morale (ibid., p. 260). C'è da sperare che Schopenhauer rinunci al suo pessimismo e con esso al doppio titolo di « moderno Egesia e Buddha cristiano » (ibid., p. 255) (per la reazione di Scho­ penhauer a questo scritto cfr. GBr, p. 377). Un cenno merita anche l'intervento dello storico conservatore Heinrich Leo (1799-1878), che in un breve articolo ripropone an­ cora una volta la tesi della necessità di sostituire la volontà schopenhaueriana con il Dio del teismo (Leo 1862). Il fatto che un celebre storico che si occupava solo marginalmen­ te di filosofia si sia sentito in dovere di prendere la parola su Schopenhauer prova ancora una volta la larga diffusione della filosofia schopenhaueriana. 28 Franz Hoffmann (1804-1881), professore a Wùrzburg, è il più importante disce­ polo di Baader, di cui ha curato la pubblicazione delle opere (Baader 1851). L'interesse di Hoffmann per Schopenhauer può essere stato stimolato proprio da Baader che parla di Schopenhauer in modo piuttosto positivo, lodandone la chiarezza e coerenza (Baader 1851, voi. Ili, p. 366 e voi. IX, p. 82) e consigliandone la lettura (ibid., voi. Ili, p. 366, nota); egli peraltro di fatto non tratta mai approfonditamente della filosofia di Scho­ penhauer; solo in un passo afferma che Schopenhauer ed Hegel concordano nell'attribuire ad ogni creatura la condizione di colpa (Baader 1851, voi. Ili, p. 429). Hoffmann polemizza con Schopenhauer già nelle introduzioni ai voli. V e VII delle opere di Baader, accusandolo di ateismo e rigettando la sua interpretazione del cristianesimo, giudicata assurda (rispettivamente pp. XXV-XLII e XXXVI-XLVI). L'avversione di Hoffmann è poi rinfocolata dalla pubblicazione delle lettere in cui Schopenhauer esprime senza riser­ ve il suo disprezzo per Baader (« un poveraccio » [Tropf] e, dopo Hegel, « il più ripu­ gnante imbrattacarte » [GBr, pp. 363 e 389]; sui rapporti fra Schopenhauer e Baader cfr. Vaternahm 1951) e si estende anche a Frauenstàdt, che, recensendo l'edizione delle opere di Baader, aveva senza troppi riguardi negato ad esse ogni valore filosofico (Frauenstàdt 1868): cfr. Hoffmann 1867, voi. II, pp. XII-XXX. Per i numerosi saggi dedicati a Scho­ penhauer ed alla letteratura critica che lo riguarda cfr. la bibliografia; il saggio più inte­ ressante è Hoffmann 1862, che dimostra una lettura accurata ed approfondita del Mondo.

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visione immanentistica della realtà, che negando ogni trascendenza ed ogni aldilà, non può che portare a una condanna del sensibile, e quindi al pessimismo ed anzi al nichilismo 29. Schopenhauer non si rende conto che l'affinamento della sensibilità umana fa crescere sì il dolore, ma anche la gioia che deriva dall' agire morale; ma una tale dimensione è rimasta natu­ ralmente celata ad un filosofo sostanzialmente immorale, che vede nel­ l'edonismo, nel raggiungimento del massimo piacere, l'unico fine della vita dell'uomo (ibid., p. 131). Date le premesse, l'uomo di Schopenhauer non può che desiderare quante più vite possibili, avendo a disposizione, in casi disperati, la via del suicidio (ibid., p. 131). Eppure l'idea della giustizia eterna e del peccato, presente in Schopenhauer, gli offriva i mezzi per un ripensamento complessivo della sua visione del mondo 30. Il contributo di Thilo alla critica del pessimismo non mostra viceversa alcun risentimento per i giudizi tutt'altro che positivi espressi da Scho­ penhauer nei confronti di Herbart 31 . Egli comincia con l'inquadrare la fi­ losofia di Schopenhauer nello sviluppo della speculazione tedesca seguito a Kant; essa ha caratteri essenzialmente antireligiosi, che sono già presenti in Kant (con la negazione del valore delle prove teoretiche dell'esistenza di Dio) ed in Fichte (con una religione etica soggettiva che nega l'esistenza oggettiva di una divinità garante dell'ordine morale), ma che si dispiegano completamente solo in Schelling ed Hegel, il cui panteismo elimina ogni differenza fra bene e male, toglie ogni valore all'impegno morale e si con­ clude in un ottimismo assoluto (ibid., pp. 321-333). Proprio contro questa « religiosità » e questo ottimismo si è levato giustamente Schopenhauer: « Sono perciò ragioni etiche... quelle che fanno permanere questo pensato­ re nell'ateismo. A buon diritto si può pertanto chiamare la sua concezione del mondo un ateismo etico » (ibid., p. 333). 29 Ibid., p. 129 s. Sull'ateismo e l'irreligiosità si insiste particolarmente anche in Hoffmann 1863b. 30 Ibid., p. 134 s. Altri critici si spingono ancora più avanti nel tentativo di un recupero non solo religioso ma addirittura teistico di Schopenhauer, prefigurando le posizioni che saranno poi sviluppate con maggior autorevolezza da Deussen: si veda in proposito Spiegel 1863 e 1865, che nel quadro di un'esposizione molto « oggettiva » della filosofia di Schopenhauer insiste molto sui suoi punti di contatto con il cattolice­ simo e Nagel 1861, che sfruttando l'agnosticismo di Schopenhauer circa la cosa in sé considerata a prescindere dal suo fenomenizzarsi, vi ricava lo spazio per una teologia negativa di tipo tradizionale. 31 Christfried Albert Thilo (1813-1894), herbartiano, fu membro del concistoro supremo di Hannover e si occupò soprattutto di filosofia della religione. Thilo aveva recensito anche la terza edizione di G e la seconda edizione di E (Thilo 1867).

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Anche Thilo procede ad una serrata critica della filosofia di Schopenhauer, che riprende ed amplia i temi già indicati da Herbart nella sua recensione (ibid., pp. 334-345). Schopenhauer è un monista che cade ne­ cessariamente in tutte le aporie caratteristiche di questa forma di metafisica e che cerca senza successo di subordinare l'intera vita psichica allo Streben del volere. In conclusione il sistema di Schopenhauer è in sé « assai poco solido »; resta da vedere che tipo di etica può essere costruito su un fonda­ mento così « friabile » (ibtd., pp. 350-356). Thilo riconosce dapprima l'intima coerenza dell'etica di Scho­ penhauer: una volta ammesso che il volere, in qualunque forma si presenta, è in sé male, una volta negate l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio, non rimane che porre come fine dell'uomo la negazione della volontà. Contro ogni tentativo di recupero religioso immediato o mediato della fi­ losofia di Schopenhauer, Thilo si premura a questo punto di sottolineare che « questa visione del mondo... né ha posto in sé per i concetti principali della religione, né rimanda, fuori di sé, ad essi » (ibid., pp. 1-15). Si tratta ora di domandarsi se la tesi schopenhaueriana dell'essenziale negatività del volere è giustificata, ovvero si tratta di affrontare la questione del pessimi­ smo. Per Thilo la posizione di Schopenhauer è giustificata solo se si assume come termine di riferimento l'ottimismo di Leibniz e dei panteisti, secondo cui il mondo è perfetto così com'è ed il male è un'illusione, al punto che, secondo tali prospettive, l'eliminazione anche di un piccolo male lo rende­ rebbe meno perfetto (ibtd., pp. 15-17). L'alternativa al pessimismo per Thilo non è costituita solo da tali modelli di pensiero: esiste una terza via che riconosce la realtà del male, l'imperfezione attuale del mondo, ma che non le considera come qualcosa d'immutabile, una via che, a differenza di quanto avviene in Schopenhauer, distingue fra essere ed accadere (geschehen], il primo immutabile, il secondo dipendente herbartianamente dalle relazioni che vengono a crearsi fra i vari esseri, queste ultime mutabili e modificabili dall'impegno degli uomini. Se ci si pone in quest'ottica, si è in condizione di evitare la conclusione di Schopenhauer secondo cui « non è possibile nessun'altra liberazione dal peccato e dal male che attraverso l'annichilimento dell'essenza di questo mondo » (ibtd., pp. 18-21). Per Thilo questa terza via conduce ad un ottimismo che, seppure non provabile scientificamente, può essere sufficientemente garantito dalla di­ mostrazione dell'esistenza di Dio. Thilo così - ricollegandosi ad Herbart ripropone la prova dell'esistenza di Dio fondata sul finalismo ed a partire da questo fondamento teologico sviluppa una teodicea che riprende temi della teodicea leibniziana (Dio non poteva creare un mondo perfetto), ma

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se ne distacca per affermare che le imperfezioni del mondo non hanno la loro radice nell'essenza delle cose ma nelle loro relazioni, suscettibili di sviluppo e perfezionamento; così, una volta posta l'esistenza di un Dio sommamente buono, v'è da supporre che il mondo raggiungerà la sua perfezione attraverso la storia (dell'uomo) e lo sviluppo (della natura) (ibid., pp. 22-30). Da questo punto di vista risulta evidente l'inadeguatezza del messag­ gio etico schopenhaueriano, con il suo invito al quietismo ed alla negazione totale della volontà. Negare il volere significa infatti far precipitare la per­ sona nel nulla ed il nulla in quanto tale non può essere né buono né cattivo. La volontà va certo radicalmente mutata, ma l'uomo deve rinascere, non cessare di esistere; in caso contrario l'etica non offre nessun conforto, nes­ sun bene positivo, quali invece si possono trovare nell'agire, nel perfezio­ narsi, nella fiducia in Dio. La filosofia di Schopenhauer, in conclusione, oltre che fragile teoricamente, risulta del tutto insoddisfacente anche da un punto di vista etico 32 .

5. ALCUNE CRITICHE « STORICHE » ALLA FILOSOFIA DI SCHOPENHAUER. Se nei filosofi finora considerati la valutazione della filosofia di Scho­ penhauer risente in misura marcata dei loro presupposti teoretici, gli autori 32 Ibid., pp. 31-35. A differenza di altri autori che criticano il pessimismo da un punto di vista religioso, Thilo non attribuisce nella sua critica nessun ruolo significativo alla speranza di una felicità ultraterrena. Simile nella sostanza all'interpretazione di Thilo ma assai più rozza e malevola è la critica di Schopenhauer sviluppata da Anton Karsch (1822-1892), medico ma anche dottore in filosofia (Schopenhauer ne conobbe solo un riassunto inviategli da Frauenstàdt, GBr, p. 398). Anche qui dopo un inizio in cui si loda la chiarezza di Schopenhauer e si apprezza il suo empirismo e la sua attenzio­ ne ai risultati delle scienze, inizia una sistematica quanto rozza distruzione del suo siste­ ma. Rifiutato l'idealismo sulla base di un realismo di un'ingenuità sconcertante (« è fuor di dubbio che... alla nostra intuizione di questo mondo corrisponde un mondo esterno reale esattamente tale, da noi indipendente, e non v'è la minima ragione di dubitare della realtà di questo mondo » [Karsch 1855, p. 235]), Karsch definisce la metafìsica di Scho­ penhauer un monismo spiritualistico e non un panteismo, giacché manca di ogni riferi­ mento a.Dio ed anzi si sforza con il suo pessimismo di dimostrare la non-esistenza di Dio. Essa però non sa dar conto del finalismo, che costituisce « l'indistruttibile fonda­ mento della prova fisicoteologica » (p. 240). La sua etica poi mette capo all'egoismo, anzi a un « crasso » egoismo, che ha come sola possibile conseguenza quella di spingere a cercare in tutti modi di soddisfare il più possibile la volontà. La negazione del volere non è sostenibile teoreticamente né è stata praticata da Schopenhauer, il cui comodo modo di vivere fa supporre che l'intera sua filosofia sia solo uno « scherzo » (p. 242).

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riuniti in questo paragrafo - pur diversissimi fra loro - si caratterizzano per un approccio che prescinde da punti di vista teoretici predeterminati o almeno da espliciti riferimenti a qualcuna delle « scuole » tradizionali: essi si muovono piuttosto nell'ottica di un'analisi interna del pensiero di Scho­ penhauer, analisi che affronta spesso il problema della collocazione storica di Scopenhauer e si arricchisce talora di una più articolata indagine delle fonti. Queste analisi « storiche » nella loro generalità mettono capo non di meno a giudizi assai severi nei confronti della filosofia di Schopenhauer; addirittura nel caso-limite rappresentato da Noack, l'indagine storica si accompagna ad una critica che, quanto a radicalità e virulenza, non ha nulla da invidiare a quella di Haym. L'intenzione di una valutazione storica pacata e distaccata è predomi­ nante nei contributi di Dilthey, i quali fra l'altro hanno un marcato intento espositivo (l'ultimo saggio dedicato a Schopenhauer è praticamente una biografia intellettuale del «saggio di Francoforte») 33 . Dilthey riconosce anzitutto il larghissimo successo della filosofia di Schopenhauer « quale nessuno dei precedenti sistemi tedeschi ha avuto, paragonabile a quello che ottennero Rousseau in Francia e Hume in Inghilterra »; esso non ri­ guarda i dotti, ma il vasto pubblico, i commercianti, gli ufficiali, gli « uo­ mini di mondo ». Fra costoro la filosofia di Schopenhauer soddisfa quel « bisogno metafisico » che precedentemente trovava risposta nella religio­ ne. Viceversa i dotti, che nella filosofia hanno sempre cercato la scienza o quantomeno una riflessione sulla scienza, non potevano e non possono trovare interessante Schopenhauer: esso infatti « si trovava completamente al di fuori dello sviluppo delle scienze positive» (Dilthey 1864, p. 53). Questo limite - sembra sostenere implicitamente Dilthey - era proprio anche dei grandi sistemi idealistici, ma essi, oltrepassando gli argini natu­ rali della riflessione filosofica, ed invadendo il terreno delle scienze empiriche, hanno fecondato il terreno inondato, specialmente per quanto ri­ guarda il pensiero storico. Nulla di ciò avviene in Schopenhauer, giacché « fino ad oggi assolutamente nessun dotto impegnato in qualche ricerca scientifica veramente fruttuosa in qual si voglia ramo del sapere umano si è volto a questa filosofia, si è potuto servire dei suoi principi nel condurre il suo lavoro » (Dilthey 1862b, p. 356 e 1864, p. 54). Questo dipende dal carattere eminentemente « soggettivo » della filo­ sofia di Schopenhauer, dal suo essere fondata sull'intuizione, su concetti 33 Cfr. Dilthey 1862, 1862b, 1864. In questi scritti Dilthey (1833-1911) ripete non di rado gli stessi concetti, talvolta anche con le stesse parole.

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frettolosamente generalizzati e non accuratamente definiti, insomma dalla mancanza di elaborazione e precisione, particolarmente avvertibili nell'am­ bito della dottrina della volontà, che manca del supporto di un'articolata e ben fondata psicologia; Di qui « quella straordinaria e costante trasforma­ zione del personale e del soggettivo dell'esperienza psicologica in idee me­ tafisiche, cosa che costituisce al tempo stesso lo specifico fascino e l'errore fondamentale del suo metodo » (Dilthey 1862b, pp. 359-361). Dilthey ri­ tiene pertanto che si possa parlare solo con molte riserve di un empirismo di Schopenhauer, giacché in esso manca il rigore dell'induzione, la pruden­ za delle inferenze, l'indagine delle leggi: in esso, senza mediazione, si passa dal dato al principio ultimo, basandosi su una generica concordanza fra i dati empirici ed il principio medesimo (ibid., p. 361 s.). La soggettività della filosofia schopenhaueriana si manifesta con tutta evidenza nel suo pessimismo, che si fonda sulla dottrina del dolore come componente intrinseca del volere. Per Dilthey un tale modo di vedere è giustificato solo quando si rimane nell'ambito del singolo, isolato uomo, impegnato a soddisfare i suoi bisogni particolari; viceversa se si pensa ad una volontà dedita all'universale come Hegel e Schleiermacher hanno inse­ gnato, si può immaginare come ci si possa in qualche misura liberare dalla schiavitù del volere, sentirsi liberi e sperimentare quella « felicità del vole­ re » di cui tanti esempi ci sono dati nel mondo. Ma Schopenhauer - vittima della distorta visione del mondo caratteristica del romanticismo - non rie­ sce ad elevarsi al di sopra dell'individuo e del particolare, come dimostra il suo totale disinteresse per la storia che trova paradigmatica espressione nella preferenza da lui espressa per il monaco asceta piuttosto che per l'individuo cosmico storico 34 . Quanto alla dottrina della negazione del volere, Dilthey ritiene che essa sia un'assurdità ma che in qualche modo sia stata inserita nel sistema controvoglia da Schopenhauer, il quale avrebbe forse preferito porre come ideale morale non l'asceta, ma il genio che ha realizzato nell'intelligenza, nella distaccata contemplazione delle cose la liberazione dal volere. Una tale conclusione sarebbe stata tuttavia incompatibile con la dottrina scho34 Dilthey 1862b, p. 365 s. Un interessante tentativo di individuare in Scho­ penhauer i presupposti che giustifichino lo studio della storia è compiuto da Jansen 1863: se l'individuo è solo fenomeno e l'unica vera realtà è il tutto, una scienza che illustri il costante nesso che collega fra loro individui e popoli non può non contribuire all'elevamento morale - al diffondersi della compassione - dell'umanità (pp. 48-59). Per quanto riguarda il pessimismo l'autore vede poi nel disprezzo del mondo un significati­ vo punto di contatto fra Schopenhauer ed il cattolicesimo (p. 10).

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penhaueriana della secondarietà dell'intelletto rispetto alla volontà: la vera liberazione dell'uomo doveva necessariamente toccare il suo nucleo centra­ le, appunto la volontà (Dilthey 1862b, p. 367 s.). Nella stessa prospettiva vanno visti i puntuali contributi di Zeller 35 . Collocato Schopenhauer insieme con Herbart fra gli oppositori dell'ideali­ smo, egli sottolinea che il suo pessimismo è piuttosto di tipo metafisico che di tipo empirico - Zeller scrive queste pagine quando già Hartmann aveva pubblicato la Filosofia dell'inconscio - e non può soddisfare nessuno, né quelli che credono nella lotta e nell'impegno personale, né quelli che con­ cordano con lui sulla negatività di questo mondo, ma desiderano un aldilà in cui trovare conforto, un'esigenza a cui l'ateismo e l'irreligiosità di Scho­ penhauer non può dare soddisfazione (Zeller 1873, p. 883 e 1862, p. 3248). Nella monografia di Cornili il problema della collocazione storica della filosofia di Schopenhauer assume una forma del tutto particolare, a causa della originale - ma non troppo chiara - lettura che viene offerta dello sviluppo fìlosofico del XIX secolo 36. Cornili vuole dimostrare che Schopenhauer rappresenta un importante documento dell'evoluzione della filosofia da concezioni in cui il fondamento della realtà è qualcosa che sta dietro ai fenomeni, sottratto alle forme di spazio e tempo (così intende Cornili l'idealismo metafisico), a concezioni in cui il fondamento della re­ altà è fatto coincidere o comunque è toccato dalle forme fenomeniche (re­ alismo). Schopenhauer, che proprio per questo è divenuto « filosofo alla moda » (ibid., p. IX), oscillando fra le due alternative, talora così realista da sfiorare il materialismo, ha prodotto un sistema fìlosofico intimamente contraddittorio, sistema che « è la più fedele espressione di un tempo, lacerato nel profondo, insoddisfatto, pervaso dal Weltschmerz » 37'. Questa 35 Eduard Zeller (1814-1908) è noto soprattutto per la sua monumentale storia della filosofia greca. Fu però anche uno dei fautori del ritorno a Kant; cfr. al riguardo Kòhnke 1986, passim. Si è interessato di Schopenhauer, prima che in Zeller 1873, in un articolo apparso anonimo (Zeller 1862). 36 Cornili 1856. Il libro fu letto da Schopenhauer che, pur riconoscendo in esso l'assenza di ogni pregiudiziale ostilità nei suoi confronti, diede dell'opera un giudizio pesantissimo, accusando Cornili di crassa ignoranza (GBr, p. 396 s.). Poco è noto su Adolph Johannes Cornili, nato nel 1823 ed all'epoca della stesura di questo lavoro Privaf-Dozent ad Heidelberg. Egli è autore anche di un ponderoso volume (420 pp.) che prende posizione nel dibattito intorno al materialismo (Cornili 1858). Su Cornili e Scho­ penhauer cfr. Salzsieder 1928, pp. 67-78. 37 Ibid., p. XIII. Non è molto chiaro come Cornili rilegga la storia della filosofia sulla base di questo dualismo realismo/idealismo; non si comprende ad esempio chi siano i campioni dell'idealismo (non si fa infatti riferimento alla triade degli idealisti, ma si accenna solo a non meglio precisati sistemi della « restaurazione filosofica » contro cui

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interpretazione di Schopenhauer si sostanzia in un'esposizione del suo si­ stema in cui con insistenza ossessiva si mostrano le infinite contraddizioni che derivano da quest'ambiguità di fondo. Lo stesso pessimismo è visto come una conseguenza di questa lacera­ zione teorica: « Come deve essere lacerato un pensiero che invece di accor­ dare alla natura umana il diritto di aspirare alla soddisfazione dei suoi bisogni, allo sviluppo delle sue disposizioni, vede nel mondo fisico solo male ed egoismo e nel mondò più elevato dell'intelligibile, che dovrebbe innalzare l'uomo nel regno della moralità, vede posto solo l'invito alla ri­ nuncia, addirittura all'autonegazione » (ibid., p. 140). Questo stesso pessi­ mismo è d'altra parte qualcosa di contraddittorio, giacché, accanto al di­ sprezzo del mondo, v'è l'odio per gli uomini e l'amore per gli animali. Anche in questo caso Schopenhauer non giunge ad alcuna conciliazione con se stesso, né con la filosofia, né con la natura. La sua ascesi rimane qualcosa d'insoddisfacente, che non tranquillizza né il cuore né l'intelletto (ibid., pp. 148-150). La critica di Noack a Schopenhauer presenta due momenti distinti e contrastanti 38. Le prime testimonianze dell'incontro di Noack con Scho­ penhauer - a quanto pare mediato da Reiff e Planck - che si trovano nei suoi libri giovanili dedicati alla filosofia della religione, mostrano un atteg­ giamento tutto sommato positivo nei confronti della sua filosofia: essa è qui vista come un possibile superamento della filosofia hegeliana, giacché, ponendo come principio la volontà, introduce quell'elemento dinamico che manca allo spirito hegeliano 39. reagirebbe il romanticismo), né chi rappresenti la conclusione del passaggio al realismo (vi sono infatti in Cornili spunti materialistici, ma anche riferimenti al teismo, che Cor­ nili sembra apprezzare più del materialismo). 38 Ludwig Noack (1819-1885), formatesi come ecclesiastico ma sempre tenuto in forte sospetto per la sua scarsa ortodossia - era considerato da qualcuno un hegeliano di sinistra -, divenne alla fine professore a Giessen; fu dapprima vicino all'hegelismo, interessandosi specialmente alla filosofia della religione (Noack 1847) e condirigendo con Michelet gli « Jahrbiicher fùr spekulative Philosophie und die philosophische Bearbeitung der empirischen Wissenschaften » (rivista considerata un organo della filosofia hegeliana). A quanto sembra, si allontanò in seguito in modo sempre più marcato dalla speculazione, condividendo la necessità di un « ritorno a Kant » e dedicandosi prevalen­ temente a lavori di storia della filosofia ed alla psicologia (la rivista « Psyche », da lui fondata nel 1858, doveva appunto servire a discutere in forma quasi popolare tematiche psicologiche). Sulla sua interpretazione di Schopenhauer cfr. Salzsieder 1928, pp. 27-31. 39 Noack 1863 e 1854; sulla svolta volontaristica dell'hegelismo di Noack, cfr. Wirth 1854, pp. 305-308. In tutti questi casi Noack non cita però per nome Scho­ penhauer, il quale tuttavia è soddisfatto di questi indiretti rimandi alla sua filosofia specie delle pp. 1-29 di Noack 1853 -, per quanto compiuti nello Hegel/argon (GBr,

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In seguito egli, in una serie di articoli, svolge una serie di feroci attac­ chi contro l'uomo Scopenhauer e la sua filosofia, il cui intento è quello di mostrare che tale pensiero è il prodotto di una mente malata e che quindi non possiede alcun valore. Nel primo di essi la teoria della volontà come principio del mondo è senz'altro definita « l'idea fissa » di Schopenhauer, che si presenta insieme ad altre assurdità, quali la tesi dell'impossibilità di una soddisfazione del volere, la melanconia che vede dovunque sofferenza e lacrime, l'ipocondria che vede tutto avvelenato e corrotto dal peccato, l'abulia, necessaria conseguenza della melanconia e della ipocondria (Noack 1859, p. 18). L'etica di Schopenhauer ha come fine il nulla del buddhismo (essa pone il mondo « non solo a testa in «giù, ma sull'abisso del nul­ la ») e forse ha la sua origine nell'infelice vita sessuale di Schopenhauer, un vecchio scapolo che conosce solo l'amore dei postriboli e non quello del matrimonio 40. Se ne deve concludere che « il pessimismo, che vede nella vita dell'uomo solo sofferenza e nel mondo solo una valle di lacrime, appar­ tiene alla patologia, è uno stato morboso dell'anima » (ibid., p. 41). Nel terzo articolo - un autentico pamphlet contro Schopenhauer Noack si sforza di avvalorare la tesi della malattia mentale di Scho­ penhauer attraverso una dettagliata e malevola ricostruzione della sua vita, tutta tesa a mostrarne le stranezze e le incoerenze. Noack giunge così a ribadire il carattere soggettivo e patologico della riflessione schopenhaueriana (nel precedente articolo Noack aveva sostenuto che essa « occuperà in una futura storia della pazzia umana un posto del tutto speciale » [No­ ack 1860, p. 144]) ed in particolare del pessimismo. Una volta depurata la filosofia schopenhaueriana dal pessimismo, egli ha buon giucco nel mo­ strarne la dipendenza da Fichte e Schelling, autori così ingiustamente cri­ ticati da Schopenhauer. Tale estesa « riduzione alle fonti » - che costituisce la componente più valida della critica di Noack - ha il merito di offrire una p. 305) e senza riferimento all'etica, all'estetica ed al pessimismo (un giudizio assai meno positivo Schopenhauer lo da invece in HN, IV,2, p. 7). Schopenhauer infatti nota che per ogni lettore sarebbe risultato facile individuare le fonti di tali dottrine, giacché lo stesso Noack aveva offerto un'esposizione succinta ma completa della filosofia di Scho­ penhauer in due sue opere precedenti (Noack 1851 e 1853b). Noack peraltro indica nelle opere teoriche come fonti del suo volontarismo Jakob Friedrich Reiff (1810-1879) - professore a Tubinga che ebbe fra i suoi uditori Bahnsen (cfr. sotto) - e Karl Christian Planck (1819-1880), discepolo di Reiff. 40 Ibid., pp. 40 e 44. In Noack 1860, che contrappone la figura di Schopenhauer a quella di Georg Christian Daumer (1800-1875), prima avversario del cristianesimo poi convertitosi al cattolicesimo (costui si era fra l'altro occupato abbastanza diffusamente della teoria della tragedia di Schopenhauer in Daumer 1859), Noack avanza l'ipotesi che l'odio di Schopenhauer per le donne fosse dovuto ad un'omosessualità più o meno latente.

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puntuale indicazione e discussione delle tesi che Schopenhauer avrebbe mutuato dai due « sofisti ». Al di là della corrosiva ironia dell'esposizione, questi interventi costituiscono purtuttavia uno dei primi seri tentativi di inserire con precisione Schopenhauer nello sviluppo della filosofia tedesca del diciannovesimo secolo 41 . Per Noack dunque Schopenhauer va anzitutto considerato come or­ ganicamente collegato al romanticismo: egli ha cercato in varie occasioni di fondare la filosofia sull'esperienza, ma non ha avuto il coraggio di portare alle estreme conseguenze questa posizione, abbandonando l'empirismo proprio nei momenti cruciali della costruzione del suo sistema (Noack 1862, p. 88, 1859b, voi. II, p. 360). La dipendenza da Fichte si riscontra in primo luogo nel primo volume del Mondo e nella concezione antropologica della volontà del secondo libro, che tuttavia deve molto anche a Kant (Noack 1862, pp. 92 e 107, 1859b, voi. II, p. 363). La filosofia della natura è invece tutta schellinghiana - la volontà nella^ natura non è molto diversa dalla Weltseele schellinghiana (Noack 1862, p. 244,1859b, voi. II, p. 365) -, dalle cui Ricerche sulla libertà Schopenhauer ha del resto preso l'identifica­ zione della volontà con il principio metafisico supremo (Noack 1862, p. 92). Anche la contrapposizione fra una tendenza egoistica ed una tendenza altruistica del volere corrisponde alla distinzione schellinghiana fra Wille des Grundes e Wille der Liebe, solo che, in un momento di ipocondria, Schopenhauer ha sostituito a quest'ultimo principio la negazione del vole­ re, riducendolo a « caricatura » (Noack 1862, p. 96, 1859b, voi. II, p. 372). Noack svolge anche un esteso confronto fra Schopenhauer ed Hegel con l'intento di mostrare che « nella loro radice, nelle loro concezioni di fondo i sistemi di Hegel e Schopenhauer non sono fra di loro in un'opposizione così radicale come una considerazione superficiale può far pensare » (No­ ack 1862, p. 244). Noack - in qualche modo ritrattando le sue precedenti affermazioni - si sforza di mostrare che molto di quanto si ritiene specifico di Schopenhauer si trova già in Hegel: anche nel suo sistema si parla della volontà e perfino della negazione della volontà - beninteso non nel modo radicale ed assurdo di Schopenhauer. Se Hegel è stato unilaterale nel suo tentativo di far derivare tutto dal pensiero, in una unilateralità di senso inversò è caduto Schopenhauer, cercando la chiave della realtà nel volere, « un'astrazione altrettanto vuota » (ibid., pp. 244-248). 41 Noack 1862. In forma abbreviata - ma forse più efficace - queste posizioni sono anticipate nel ponderoso studio dedicato a Schelling (Noack 1859b). Cfr. anche Noack 1877, pp. 801-813.

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6. I CRITICI « DA SINISTRA »: FfiUERBACH E BlJCHNER.

È noto che Ludwig Feuerbach, negli ultimi anni della sua vita, si de­ dicò a lungo alla filosofia del saggio di Francoforte, tanto che, secondo Cesa, « è difficile sopravvalutare l'influenza, sia pure in negativo, del filo­ sofo del pessimismo sull'ultimo Feuerbach » 42 . L'aspetto più vistoso dell'influsso di Schopenhauer su Feuerbach è costituito dall'accentuazione del ruolo della volontà nell'antropologia dei suoi ultimi scritti morali, che si manifesta anche in un vocabolario che ricorda di frequente quello schopenhaueriano (Feuerbach in due occasioni usa addirittura l'espressione Wille zu Ieben 4ì ). Naturalmente Feuerbach non è interessato in alcun modo alla metafisica della volontà di Scho­ penhauer, che viene chiamata indirettamente in causa solo per denunciare i negativi influssi che essa può esercitare nell'ambito dell'antropologia o per criticare il carattere astratto del concetto di volontà pura: un volere indeterminato è un'assurdità, è semplicemente un volere il nulla, cioè un non volere, mentre la volontà reale è sempre un volere qualcosa di deter42 Cesa 1978, p. 121. A quanto pare, il primo fugace incontro di Feuerbach (18041872) con Schopenhauer risale al 1838, nel corso del burrascoso carteggio con Dorguth (cfr. sopra). Di Schopenhauer Feuerbach riprende poi a parlare nel 1859 con Wilhelm Bolin, che in seguito ha pubblicato importantissimi contributi su Feuerbach e che, dal 1877, divenne amico di Bahnsen. Bolin gli invia nel 1861 I due problemi fondamentali dell'etica (SW XIII, p. 268) che Feuerbach legge con grande interesse: pur non dando mai corso al progetto di un lavoro monografico su Schopenhauer (Rawidowicz 1931, p. 295), Feuerbach tratta abbastanza diffusamente di Schopenhauer in due dei suoi ultimi scritti: Feuerbach 1866 e 1874. Sul rapporto fra Feuerbach e Schopenhauer cfr. soprat­ tutto Rawidowicz 1931, pp. 285-303 e Juliusberger 1926. 43 SW X, pp. 98 e 242. Non è facile peraltro precisare i limiti della conoscenza delle opere di Schopenhauer da parte di Feuerbach, giacché alcuni passi fanno sorgere il dubbio che egli non abbia letto - o che quantomeno abbia letto affrettatamente - il capolavoro schopenhaueriano. In un passo per esempio (SW X, p. 109 s.) egli sottolinea la dipendenza dell'attività intellettuale - anche nelle sue espressioni più alte, quali il « bisogno metafisico » - dal GlUckseligkeitstrieb (dalla volontà), il che lo conduce al­ trove a riproporre la trascrizione volontaristica del cogito cartesiano (« non "io penso dunque sono" ma "io voglio dunque sono" esprime l'intima essenza dell'uomo » [SW X, p. 291]): ciò che colpisce è che qui egli sembra annoverare Schopenhauer fra gli awersari di questo punto di vista, dapprima intendendo il citato « bisogno metafisico » come indipendente dall'istinto di felicità, poi sostenendo che il voler distaccare l'attività conoscitiva dalla volontà significa ridurre la volontà alla schopenhaueriana « Wille der Nichts will». Non è così da escludersi - mancano tra l'altro nei suoi scritti esplicite citazioni dal Mondo - che, oltre ad E, egli abbia conosciuto gli altri aspetti del pensiero di Schopenhauer attraverso qualche esposizione di seconda mano (lo stesso Bolin si era accostato a Schopenhauer anzitutto attraverso Frauenstàdt [SW XIII, p. 232]).

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minato (SW X, pp. 124 e 101). D'altra parte un volere determinato, una volontà che vuole qualcosa, non è pensabile senza il tempo (SW X, p. 101 s.), un motivo che Feuerbach riprenderà nel quadro della discussione del concetto di libertà e che inoltre è strettamente legato alla critica dell'idea­ lismo schopenhaueriano. Un'altra prova dell'importanza di Schopenhauer per l'ultimo Feuer­ bach è offerta dal capitolo finale di Spiritualismus und Materialismus, de­ dicato alla critica dell'idealismo: qui Feuerbach si riferisca quasi esclusiva­ mente a Schopenhauer, il cui idealismo probabilmente appariva più peri­ coloso perché - come Feuerbach coglie acutamente - strettamente collega­ to con i risultati delle scienze e con il materialismo 44 . Le obiezioni al­ l'idealismo che Feuerbach sviluppa in questo contesto - pur non mancan­ do di una certa rozzezza - ripropongono i classici motivi della filosofia feuerbachiana precedente, anche in questo caso riesposti in un linguaggio marcatamente volontaristico: il problema dell'esistenza del mondo esterno non si risolve da un punto di vista teoretico, ma da un punto di vista pratico, dal punto di vista del volere; non si può infatti volere qualcosa se questo qualcosa non possiede un'esistenza indipendente dal soggetto vo­ lente (SW X, pp. 216 ss.). La volontà è per Feuerbach essenzialmente volontà o istinto di felicità (Glùckseligkeitswille, Glùckseligkeitstrieb} (SW X, p. 230), un tema sul quale Feuerbach insiste moltissimo, negando che l'agire dell'uomo possa mai essere guidato da un istinto diverso da questo « istinto degli istinti » (SW X, p. 108); in particolare egli si sforza di dimostrare che tale istinto è operante anche nel caso estremo del suicidio (SW X, pp. 91 s. e 234 s.), e che persino il buddhismo - che pone il fine dell'uomo nel raggiungimento del non essere - fonda la sua dottrina su questo principio 45 . Circa la natura della felicità Feuerbach offre una definizione tutto sommato classica nell'ambito della tradizione materialistica e d'altro canto sostanzialmente concordante con la posizione di Schopenhauer. Dopo aver affermato che il benessere si realizza nella soddisfazione dei bisogni, ovve­ ro nell'unità di soggetto ed oggetto (SW X, p. 222), Feuerbach definisce la felicità come « la sana, normale condizione di un essere, la condizione di 44 Feuerbach definisce in questo contesto Schopenhauer « un idealista infettato dall'epidemia del materialismo » (SW X, p. 220). In una lettera a Bolin del 1864 poi Feuerbach afferma esplicitamente che in Schopenhauer la questione dell'idealismo si traduce in una questione di fisiologia (SW XIII, p. 303). 45 SW X, p. 241 s. Stranamente Feuerbach in questo contesto non fa cenno alla dottrina schopenhaueriana della negazione del volere.

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benessere o buona salute, la condizione in cui un essere può soddisfare senza impedimenti ed effettivamente soddisfa i bisogni e gli istinti appar­ tenenti alla sua essenza e alla sua vita individuale e caratteristica » (SW X, p. 231). Poco più oltre Feuerbach ripropone un motivo più specificamente schopenhaueriano, presentato però come « una verità triviale »: perché una tale condizione possa essere apprezzata come felicità, perché l'uomo possa apprezzare i beni di cui gode, è spesso necessario che tali beni vada­ no perduti (SW X, p. 240 s.). Feuerbach così sembra accostarsi alla conce­ zione schopenhaueriana della natura negativa del piacere, come pare con­ fermato da un altro passo in cui si dice che il volere è messo in movimento solo dalla presenza di un male: « dove non v'è male, non v'è volontà » (SW X, p. 111). In questo contesto tuttavia Feuerbach non nomina Schopenhauer, né approfondisce la questione, cui spesso si erano riferiti i critici del pessimismo. Feuerbach comunque, che pur dichiara di non misconoscere affatto « l'infinita miseria della vita umana » (SW XIII, p. 234), non sembra avere dubbi circa la possibilità per l'uomo di giungere ad un'almeno parziale felicità. Riferendosi al buddhismo egli infatti afferma che la sua visione pessimistica - della vita è la manifestazione di una tendenza alla felicità « morbosa, esaltata, fantastica, che non vede il bene al di là del male, ol­ traggiata e ferita dai mali che sono congiunti ad ogni bene, ed in particolare dal male della caducità, dell'alternarsi della morte e del rinascere dei go­ dimenti della vita » (SW X, p. 243). Feuerbach non sembra interessato ad un'estesa ed analitica confutazione del pessimismo e solo di passaggio sono individuabili alcuni spunti antipessimistici. Il più significativo di essi con­ siste nel rovesciamento del tradizionale valore negativo attribuito al tempo come fonte della caducità delle cose umane. Feuerbach osserva in sostanza che lo scorrere del tempo, se fa svanire gli elementi positivi della vita, fa parimenti venir meno anche quelli negativi, cosicché esso deve essere visto come un « rimedio » contro le sofferenze dell'uomo (SW X, p. 254 s.). Schopenhauer è invece chiamato direttamente in causa in relazione al problema della libertà. Feuerbach, come è prevedibile, da un giudizio molto negativo della dottrina della libertà trascendentale, « un pensiero che non sta in nessun nesso con gli altri miei pensieri » e che è in contrasto con l'esperienza (SW X, p. 138). Quanto al celebre operari sequitur esse, che dovrebbe giustificare la responsabilità che ciascuno sente per le pro­ prie azioni, esso mette capo a una « teoria dell'imputazione soprannaturale e fantastica » (SW X, p. 139). Viceversa egli concorda pienamente con Schopenhauer circa il determinismo empirico (SW X, p. 131) e, entro certi

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limiti, con la sua teoria dell'immutabilità del carattere (SW XIII, p. 269, e X, p. 130). Egli però, facendo riferimento ancora al tempo - che porta ad un continuo mutare delle condizioni che determinano una certa azione -, si sforza di mostrare come tale determinismo non debba essere inteso nel senso di un'immutabilità dell'agire umano (SW X , pp. 132 s.). L'agire umano è determinato a soddisfare i suoi bisogni, ma tali bisogni possono trovare soddisfazione in vari modi e proprio qui - secondo Feuerbach - si inserisce lo spazio del contingente, del casuale: l'uomo deve necessaria­ mente vestirsi (deve possedere quantomeno una camicia), ma può anche soddisfare questo suo bisogno procurandosi al posto della semplice cami­ cia un abito: nella scelta fra abito e camicia - quando è possibile - si manifesta « il sentimento della libertà » (SW X, p. 126 s.). Feuerbach è peraltro più interessato ad un diverso modo - meno spe­ culativo - di affrontare il problema. Ciò che egli sta più a cuore è infatti sviluppare il concetto di libertà come libertà dal bisogno e dal dolore: « La volontà non è libera, ma vuole essere libera. Libera non nel senso di un'in­ determinata "infinità" e mancanza di limiti, come vanno fantasticando i nostri filosofi sopranaturalisti e speculativi, nel senso di una libertà senza nome e senza senso, ma libera solo nel senso e nel nome dell'istinto di felicità, libera dal male, di qualunque tipo esso sia. ... Una libertà senza felicità, una libertà che non è libertà dai mali della vita - si intende da quelli eliminabili - ... è una parola vuota, senza senso » 46. La stessa esigenza di concretezza sta alla base tanto dell'apprezza­ mento quanto delle critiche espresse da Feuerbach nei confronti dell'etica di Schopenhauer. La sua dottrina della compassione come fondamento della morale viene anzitutto positivamente contrapposta « ai vuoti principi morali filosofici » degli altri filosofi speculativi tedeschi. Schopenhauer è riuscito infatti « con verità e chiarezza » a ricondurre al metro della com­ passione tutto l'agire morale ed a mostrare che la stessa giustizia non si fonda sull'« idea » o sul dovere, ma sulla compassione (SW X, p. 276 s.). Ma anche qui Schopenhauer è almeno in parte rimasto vittima della spe­ culazione, giacché da una parte ha fondato la compassione su di un prin­ cipio metafisico (SW XIII, p. 269), dall'altra - simmetricamente - ha cer­ cato di distaccare questo principio dall'unico suo possibile fondamento: l'istinto di felicità (SW X, p. 277). Schopenhauer infatti, benché abbia 46 SW X, p. 231 s. Probabilmente per questi motivi Feuerbach, in una lettera a Bolin, si dichiara insoddisfatto dello scritto di Schopenhauer sulla libertà, che « lascia da parte una quantità di questioni » (SW XIII, p. 283).

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sviluppato tutte le premesse di un coerente edonismo (bene e male sono ricondotti a piacere e dolore), è poi ricaduto nell'errore di bandire l'edoni­ smo e l'egoismo dalla morale (SW XIII, p. 268 s.). Ciò lo ha naturalmente condotto a conseguenze paradossali. Infatti nella dottrina della compassio­ ne di Schopenhauer si cela una contraddizione di fondo: nella misura in cui Schopenhauer afferma che la vera moralità consiste nella negazione del­ l'istinto di felicità, egli rende oggettivamente immorale l'agire compassio­ nevole, che aiuta il prossimo a liberarsi dai dolori e quindi, a soddisfare il volere. « Se la negazione della "volontà di vita" è una virtù per me, perché io devo morire per gli altri, affinchè possano vivere, ovvero affinchè possa­ no affermare quell'istinto da me negato? Non significa questo morire per l'immoralità in base a ragioni morali? Se è una virtù privarsi del proprio mantello, io, mentre mi fregio della virtù, do all'altro insieme a questo mantello il mio vizio ». Se Schopenhauer fosse stato veramente coerente, se avesse voluto trarre le dovute conseguenze dall'indifferenza per il proprio dolore (la negazione dell'istinto di felicità) che egli pone come fine supre­ mo della morale, avrebbe dovuto richiedere nei confronti delle sofferenze altrui non la compassione, ma la stessa indifferenza che egli chiede per le proprie 47 . In positivo Feuerbach si impegna a costruire una teoria della compas­ sione che, nel quadro della riaffermazione dell'eudemonismo come unico possibile principio della morale, viene fondata su un'interpretazione del­ l'istinto di felicità come di qualcosa che può realizzarsi solo nel rapporto con l'altro (il modello di tale rapporto è l'amore fra uomo e donna) e che quindi percepisce immediatamente come una negazione della propria feli­ cità le sofferenze altrui. Feuerbach distingue così « fra un egoismo cattivo, inumano, senza cuore, ed un egoismo buono, partecipe, umano; fra un amore di sé spontaneo, schietto che trova soddisfazione nell'amore degli altri, ed un amore di sé arbitrario, premeditato, che si soddisfa nell'indif­ ferenza o addirittura nella malvagità verso gli altri » (SW X, p. 277 s.). La perfezione morale tuttavia l'uomo non la raggiunge abbandonandosi alla pura istintualità, ma mediante il controllo degli istinti e delle inclinazioni, mediante la « testa », la « conoscenza », la « coscienza »: attraverso di esse

47 SW X, pp. 287 e 277 s. L'argomentazione di Feuerbach - peraltro non nuova nella letteratura critica - pare confermare una conoscenza non molto approfondita del pensiero di Schopenhauer. Feuerbach non sembra notare che, come si è visto, per Scho­ penhauer il valore essenziale della compassione non consiste tanto nell'aiuto che essa reca agli altri, quanto nella negazione della volontà di vita che essa richiede.

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«l'uomo si trasforma, si coltiva, si sviluppa, addirittura sviluppa spesso qualità che non solo gli altri, ma anche lui stesso non avrebbe mai creduto di avere, che si trovano - anche se forse solo apparentemente - nella più grande contraddizione con le qualità fino ad allora mostrate... »; tuttavia « come avviene per le mie azioni libere, le mie trasformazioni avvengono solo all'interno, solo al di qua degli insuperabili confini che definiscono questa mia determinata essenza » (SW X, p. 130 s.). È evidente qui il ri­ chiamo alla dottrina schopenhaueriana del carattere (innato e acquisito), che Feuerbach ripropone, dando tuttavia maggior spazio alle possibilità di sviluppo - ma non di trasformazione radicale - dell'uomo. Dei tre sostenitori del « materialismo volgare » solo Bùchner prende posizione pubblicamente su Schopenhauer 48. Bùchner inizia con l'osser­ vare che il successo di Schopenhauer dipende essenzialmente dalla debo­ lezza dei suoi awersari, dalla « confusione filosofica » di quegli anni, segui­ ta alla crisi della speculazione 49. Non di meno Schopenhauer rappresenta qualcosa d'importante nella scena filosofica dell'epoca, non già per il suo sistema, ma per il metodo impiegato nel suo lavoro filosofia) e per la gran­ de massa di conoscenze scientifiche di cui si serve. Del tutto condivisibili - nella sostanza se non nella forma - sono i suoi attacchi ai filosofi prece­ denti, ormai divenuti patrimonio comune, cosicché il suo pensiero, una volta depurato da ciò che di errato contiene, potrà esercitare un positivo influsso sul futuro sviluppo della filosofia tedesca (ibid., pp. 1-3). Per Bùchner tuttavia gli « errori » di Schopenhauer non sono pochi né di poco conto: inaccettabile è l'individuazione della volontà come principio del mondo, come inaccettabile è il suo idealismo, con tutte le contraddizioni 48 Ludwig Bùchner (1824-1899), fratello del drammaturgo Georg, si laureò in medicina ed iniziò la carriera accademica all'università di Tùbingen, dalla quale fu però sospeso nel 1855. Si dedicò allora alla professione medica, continuando tuttavia un'in­ tensa attività pubblicistica. La sua opera più nota - il « catechismo » del materialismo tedesco - è Kraft una Staff (Bùchner 1876), giudicata malissimo da Schopenhauer e criticata estesamente da Frauenstàdt nel suo libro sul materialismo. Schopenhauer fu in particolare molto irritato dal sommario giudizio che Bùchner aveva espresso su di lui in riferimento alla questione del « magnetizzatore » Regazzoni e dal fatto che egli aveva posto come esergo di un capitolo un passo di N, attribuendolo però a Kant (GBr, p. 377). Nella quarta edizione si trovano tuttavia due giudizi favorevoli su Schopenhauer (pp. LXXXVire 267). Specificamente dedicato a Schopenhauer è Bùchner 1858. 49 Sul motivo della crisi dell'idealismo come ragione del successo di Schopenhauer insiste particolarmente anche O.F. Gruppe (1804-1876), autore considerato vicino alle posizioni di Beneke in Gruppe 1855, pp. 151-156. Egli tende tuttavia a dare di Scho­ penhauer un giudizio molto più negativo di Bùchner, insistendo in particolare sulla componente patologica di Schopenhauer e del suo pessimismo.

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che esso comporta (ibid., pp. 4-11); anche il suo empirismo va profonda­ mente riformato, giacché il ricorso alle scienze è spesso solo strumentale, e serve solo a offrire conferme a concezioni metafisiche preconcette; inoltre egli in alcuni casi sostiene teorie superate e bizzarre, come quella della forza vitale, del magnetismo animale, dello spiritismo; ne consegue che in definitiva il suo rapporto con la scienza è « abbastanza infruttuoso » (ibid., pp. 87 e 93). D'altra parte, benché abbia a più riprese attaccato il materia­ lismo, egli ne ha riconosciuto l'intima forza, attribuendo alla materia l'eter­ nità e facendo del pensiero il prodotto della materia stessa (ibid., p. 88). Particolarmente apprezzati sono poi le critiche al panteismo ed al teismo e la negazione dell'immortalità dell'anima: la filosofia di Schopenhauer è senza dubbio atea ed irreligiosa (ibid., pp. 93 e 125 s.). Quanto all'etica Bùchner, liquidata la libertà trascendentale, non ha difficoltà a vedere in Schopenhauer un sostenitore del determinismo, che rifiuta ogni etica intel­ lettualistica, ogni astratta idea del bene e si fa paladino del « sensualismo ». Egli d'altra parte pone giustamente nell'egoismo l'unica molla dell'agire umano (anche per Bùchner la compassione deve essere vista come un allar­ gamento dell'egoismo) (ibid., pp. 128-132). Singolarmente Bùchner non fa cenno in alcun modo al pessimismo né alla dottrina della negazione del volere: egli si limita ad osservare che in Schopenhauer v'è una grande sen­ sibilità al dolore degli uomini 50.

7. FRANCESCO DE SANCTIS. Come accennato sopra, questo capitolo si conclude prendendo in esa­ me la posizione assunta nei confronti di Schopenhauer da Francesco De Sanctis. Può destare qualche sorpresa il fatto che De Sanctis sia collocato subito dopo il materialisti, giacché tale egli non era certo - semmai, se proprio si vuole dare un'etichetta alla sua posizione filosofica, egli era in senso lato un hegeliano -; questa posizione è tuttavia motivata dal fatto che la sua interpretazione di Schopenhauer è esplicitamente di tipo ideologicopolitico ed inaugura un modo di affrontare il problema-Schopenhauer che

50 Ibid., p. 130. Appartiene al gruppo degli interventi « da sinistra » anche il breve articolo di Eduard Lòwenthal (1836-1917, propagandista di una religione immanentisti­ ca e naturalistica, incentrata sul progresso del benessere dell'umanità) che ha per tema soprattutto la filosofia del diritto di Schopenhauer, criticata in particolar modo per la sua approvazione della pena di morte (Lòwenthal 1860).

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avrà seguito soprattutto nel marxismo e celebrerà il suo discutibile trionfo nell'interprelazione di Lukacs 51 . Il saggio di De Sanctis - un immaginario dialogo fra De Sanctis stesso ed un suo discepolo in viaggio verso Zurigo - ha come sfondo il fallimento della rivoluzione napoletana del '48, cui il discepolo avrebbe in maniera più o meno diretta partecipato, a ciò spinto dalla « filosofia » (De Sanctis 1858, p. 138). Più oltre vengono date indicazioni più precise circa questa « filosofia »: gli autori cui il giovane si è dedicato, con l'intenzione di « ca­ povolgere il mondo con la bacchetta dell'idea», sono Schelling, Hegel, Gioberti e Rosmini, Leroux, Lamennais, Cousin (ibid., p. 144). La dura realtà della reazione, impersonata da Giuseppe Campagna, il famoso « bir­ re » del governo borbonico, lo ha però presto « convcrtito » (la conversio­ ne è rappresentata dal taglio della barba, a quel tempo simbolo di idee liberaleggianti, impostogli da Campagna [ibid., p. 138]): egli è ora disilluso verso la filosofia, inutile per trasformare il mondo (« due cannonate hanno fatto fuggire le idee ») e - quel che è peggio - sempre pronta, al momento opportuno, a cambiar bandiera, a trovare giustificazioni per ogni situazio­ ne storica (ibid., p. 139 s.). Come si vede De Sanctis presenta così, trasfe­ rendolo nella situazione italiana, il prototipo del potenziale discepolo di Schopenhauer: reduce del Quarantotto, antiidealista, ostile alla filosofia ufficiale; egli dovrebbe essere quindi ben disposto ad accettare il verbo schopenhaueriano, che ha uno dei suoi punti di forza nella critica della filosofia idealistica 52. Bisogna riconoscere che l'esposizione della filosofia schopenhaueriana, cui è dedicata la parte centrale e più estesa del dialogo (ibid., pp. 141184), al di là del tono ironico con il quale è condotta, è svolta con scrupolo e chiarezza; De Sanctis dimostra inoltre una buona conoscenza delle prin­ cipali obiezioni rivolte contro Schopenhauer, obiezioni che sono riprese 51 Francesco De Sanctis (1817-1883) studiò Schopenhauer durante il suo esilio zurighese, quando era professore al Politecnico di quella città; fra le molte personalità di spicco che risiedevano in quegli anni a Zurigo (Mommsen, Vischer, Moleschott), si trovavano molti ammiratori e conoscitori di Schopenhauer, primi fra tutti Wagner, Herwegh e Paul Armand Challemel-Lacour, personaggi che De Sanctis conobbe perso­ nalmente e frequentò abbastanza intensamente. Sulle circostanze che diedero origine al saggio cfr. Croce 1902; sull'interpretazione desanctiana di Schopenhauer cfr. anche Ceppa 1983, pp. 23-28. 52 Ibid., pp. 143-149. De Sanctis, nel sottolineare l'empirismo di Schopenhauer, che si occupa solo del « come » del mondo e non del « che », nota un po' ambiguamente che questa filosofia in qualche modo « abdica » alle sue funzioni tradizionali e lascia ai « preti » il compito di spiegare « cosa è il mondo, onde viene, dove va » (ibid., p. 140).

LA LETTERATURA CRITICA SUL PESSIMISMO DI SCHOPENHAUER

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puntualmente e con rigore (inconoscibilità della volontà intesa come cosa in sé in senso proprio, impossibilità di fare derivare intelletto e ragione da un principio irrazionale [« è un miracolone più grosso di quello di san Gennaro»], insostenibilità della dottrina della libertà, il suicidio come necessaria conseguenza del pessimismo [ibtd., pp. 156, 160 s. 167 s., 178]); se si tien conto del fatto che tali obiezioni erano ben note a Schopenhauer - che ovviamente le considerava infondate - ci si può spiegare perché egli abbia tanto apprezzato questo riassunto del suo sistema, esposto « in succum et sanguinem » (GBr, p. 447 s.). Tuttavia le questioni di filosofia teoretica hanno per De Sanctis un interesse relativo; ciò che gli sta a cuore è invece il significato politico di tale filosofia e, in primo luogo, l'atteggiamento politico dello stesso Scho­ penhauer: « Qui sta il nodo. Una filosofia per me è vera o falsa, benedetta o maledetta, secondo che mi accosta o mi discosta da Campagna» 53 . Al riguardo, le posizioni di Schopenhauer non possono lasciare adito a dubbi: in ogni campo l'accordo con Campana è perfetto, tutti gli ideali cari al liberalismo ed ai movimenti nazionali e democratici dell'Ottocento sono « astrazioni, concetti vuoti », la forma di governo migliore è la monarchia - ben si intende non costituzionale -, la repubblica è una forma che appare solo eccezionalmente nella storia, che favorisce il materialismo, l'ignoranza, la brutalità. D'altra parte lo stato ha solo il compito negativo di evitare i torti, « è un commissario di polizia, e non un medico »; è impossibile chie­ dere allo stato la liberazione dal male che Schopenhauer, al pari di Leopar­ di, vede dominare ogni aspetto della vita (ibid,, pp. 172-177). Schopenhauer, tuttavia, non ha sostenuto un pessimismo assoluto, senza speranza di liberazione: « da questo inferno, che chiamasi vita, ha saputo cavar fuori il paradiso: e qui è veramente che spicca un volo d'aqui­ la ». De Sanctis si riferisce ovviamente alla dottrina della negazione del volere, che lo interessa non tanto per la discutibile costruzione metafisica che ne sta a fondamento, quanto, di nuovo, per le conseguenze pratiche che ne derivano. L'ascesi, la contemplazione del Wille appaiono infatti a De Sanctis una comoda scusa per giustificare la propria estraneazione dal mondo e dalla storia, scusa tanto più comoda perché non necessariamente a questo atteggiamento deve accompagnarsi una vita ascetica - Scho­ penhauer ne ha dato lui stesso l'esempio (ibtd., p. 180 s.). 53 Ibid., p. 172. Si può notare qui un improvviso mutamento di atteggiamento da parte del « discepolo »: egli qui torna a chiedere alla filosofia quell'impegno politico che in precedenza aveva indicato come la causa principale della sua disaffezione verso di essa.

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CAPITOLO QUARTO

Su queste basi De Sanctis conduce il confronto fra Schopenhauer e Leopardi. Pur riconoscendo la superiorità filosofica del primo, De Sanctis non ha dubbi nel dichiarare appassionatamente (« Ora mi fai una faccia tragica » fa dire al discepolo per sottolineare la serietà di ciò che sta per dire) la sua preferenza per il secondo, preferenza non tanto giustificata dalla diversità delle due dottrine, quanto dall'effetto che produce la lettura di Leopardi; « perché Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore... e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti... E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al quarantot­ to, senti che te l'avresti trovato accanto, confortatore e combattitore». Viceversa - e qui De Sanctis pare riprendere uno dei motivi più caratteristici della polemica antischopenhaueriana: l'accusa di quietismo - Scho­ penhauer è indifferente alla vita, alla libertà, ama l'ozio, cosicché la sua filosofia « avrebbe ridotta l'Europa all'evirata immobilità orientale, se la libertà e l'attività del pensiero non avesse vinto la ferocia domenicana e la scaltrezza gesuitica ». Si tratta quindi di una filosofia che Campagna sareb­ be ben lieto di veder condivisa dai suoi concittadini, se la sua diffusione non fosse ostacolata proprio dalla presenza del pensiero leopardiano, giac­ ché « se caso, o fortuna, o destino volesse che Schopenhauer facesse capo­ lino in Italia, troverebbe Leopardi che gli si attaccherebbe a' piedi come una palla di piombo, e gl'impedirebbe di andare innanzi ». Non senza una certa forzatura De Sanctis recupera così Leopardi ai suoi ideali risorgimen­ tali e, contrapponendolo a Schopenhauer, ne fa il campione di un pessimi­ smo che non si esaurisce nella contemplazione del male del mondo, ma che spinge all'azione ed all'impegno politico 54 .

54 Ibid., p. 184 s. Alla luce di queste conclusioni, si deve quindi, d'accordo con Croce 1902, p. 362, ritenere senz'altro ingiustificato l'entusiasmo di Schopenhauer per il De Sanctis. Egli da sì un'esposizione abbastanza buona della filosofia schopenhaueriana, ma certo non « ne riconosceva con entusiasmo la verità » come pensava Scho­ penhauer (GBr, p. 450). Croce, a conferma della sua interpretazione, ha anche pubbli­ cato una lettera di De Sanctis in cui Schopenhauer e Wagner sono inequivocabilmente definiti dei « cialtroni » (lettera a Camillo De Meis del 26 febbraio 1858 in Croce 1914, p. 243).

PARTE SECONDA

TRE FILOSOFI PESSIMISTI: HARTMANN, BAHNSEN E MAINLANDER

5. IL PROBLEMA DELL'INCONSCIO IN HARTMANN

1. I CARATTERI GENERALI DELLA FILOSOFIA DI HARTMANN.

Il dibattito intorno al pessimismo raggiunge il suo culmine con il pre­ sentarsi sulla scena fìlosofica di Eduard von Hartmann. La sua Filosofia dell'inconscio, pubblicata nel 1869, ottiene al suo apparire un grande suc­ cesso che rende celebre il suo giovane autore fino ad allora sconosciuto 1 . 1 Le informazioni sulla biografìa di Hartmann sono fornite in primo luogo da Hartmann stesso nel saggio Mein Entwickelungsgang (1875d). Interessante anche Heymons 1882 e Kern - von Hartmann 1943, che da informazioni di prima mano sulla personalità di Hartmann (l'autrice del saggio è una delle figlie di Hartmann). Da queste fonti dipendono le biografie che si trovano all'inizio della maggior parte delle monogra­ fie su Hartmann. La più completa è quella offerta da Drews 1902. Eduard von Hart­ mann nasce a Berlino nel 1842; il padre era capitano di artiglieria. Precoce e brillante a scuola - istituzione che però non ama - si dedica con passione alla matematica ed alla fisica, ma non disdegna la filosofia (legge Fiatone, Hegel, Schopenhauer) e la letteratura romantica. Si accosta anche alle arti, prendendo lezioni di pittura e di musica (pianofor­ te). Nel 1858, a sedici anni, lascia il ginnasio per seguire la carriera militare, nella spe­ ranza di divenire « et» ganier Mann ». Poco amato dai compagni, si occupa come il padre di artiglieria, ma non trascura le sue letture di filosofia e scienza. Nel luglio del 1861 l'episodio che segna l'ulteriore corso della sua vita: una « contusione al ginoc­ chio », complicata dall'insorgere di un « forte reumatismo », gli provoca un'infermità che di fatto gli impedisce di camminare: Hartmann è così costretto ad abbandonare la carriere militare e trascorrerà la maggior parte della sua vita ritirato in casa, preferibil­ mente sdraiato su di un divano. Dopo alcuni tentativi infruttuosi di dedicarsi alla pittura ed alla musica, Hartmann si volge alla filosofia. A prescindere da alcuni saggi giovanili che rimangono inediti (ora in parte pubblicati in Hartmann 1912b), il suo primo lavoro importante è appunto la Philosophie des Unbewussten. Il successo dell'opera fa sì che gli giungano le offerte di ben tre cattedre universitarie, rispettivamente dal Ministero prus­ siano, da Lipsia e da Gottinga, offerte che declina per motivi di salute, ma forse anche per conservare la sua indipendenza. Come più tardi egli stesso noterà, l'essere rimasto

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Questo successo, giunto forse troppo presto e inaspettatamente, non è sta­ to più ottenuto da nessuno degli scritti successivi di Hartmann. Così egli è ricordato nella storia della filosofia solo per quest'opera che, pur costituen­ do certamente un contributo originale, era da lui considerato lavoro giova­ nile, inferiore agli altri lavori sistematici posteriori. Dei quattro periodi in cui Hartmann stesso divide la sua attività lette­ raria, saranno prese in considerazione particolarmente le opere apparte­ nenti ai primi due periodi (Hartmann dal 1880 in poi cercherà di separare sempre più il suo destino da quello del dibattito sul pessimismo); in questa prima parte si darà una presentazione complessiva del sistema di Hart­ mann, utilizzando soprattutto la Filosofia dell'inconscio e la Fenomenologia al di fuori dell'università influirà negativamente sulla diffusione e l'incidenza della sua filosofia, perennemente fatta oggetto dell'accusa di dilettantismo. Infatti al successo di pubblico corrisponde un'opposizione crescente da parte dei filosofi di professione. Alla polemica segue, a partire dagli anni ottanta, un sostanziale disinteresse sia da parte dei dotti che da parte del pubblico. Fra i filosofi di un certo rilievo solo Carrière, Lasson e Volkelt continuano ad interessarsi al suo lavoro (cfr. Hartmann 1902c). Hartmann da parte sua, libero da preoccupazioni economiche, continua infaticabilmente a sviluppare la sua riflessione filosofica pubblicando un gran numero di opere e saggi (cfr. nota seguente). La sua vita non presenta avvenimenti esterni di particolare rilievo; bisogna solo ricordare i due suoi matrimoni: dapprima sposa Agnes Taubert nel 1871, che egli è accanto negli anni agitati della discussione sul pessimismo, pubblicando anche alcuni scritti a sostegno delle posizioni del marito, e che morirà nel 1877 lasciandogli una figlia; in seguito, nel 1878, egli si unisce in matrimonio con Alma Lorenz da cui ha un figlio e tre figlie, una delle quali è scomparsa pochi anni fa, dopo una lunga collaborazione con la Schopenhauer-Gesellschaft. Ritiratesi a vivere nei sobborghi di Berlino, Hartmann conclude la sua esistenza nel 1906, praticamente dimenticato da tutti: al suo funerale, nella totale assenza di autorità e di rappresentanti ufficiali del mondo accademico, sono presenti solo il teologo Otto Pfleiderer ed il filosofo August Dòring (di entrambi si parlerà in seguito). Il suo pensiero durante e dopo la sua vita trova un numero piuttosto ristretto di sostenitori e discepoli: a parte Bahnsen, che si considererà comunque più un alleato che un discepolo di Hartmann (ma fra i due si produrrà presto un'insanabile rottura), si possono ricordare Peters, Venetianer, in seguito allontanatesi da Hartmann per le sue prese di posizioni antisemitiche. Raphael Koeber, che visse a lungo in Giap­ pone, Olga Plùmacher, morta nel 1895, autrice di due opere cui si farà più volte riferi­ mento in seguito, Max Schneidewin (1843-1931), fra l'altro autore di un'antologia tratta dagli scritti di Hartmann, e, naturalmente,la prima moglie Agnes Taubert si limitano per lo più a divulgare ed -eventualmente a difendere il pensiero di Hartmann, senza appor­ tarvi sviluppi originali. Il discepolo più significativo è Arthur Drews (1865-1935), che oltre ad importanti lavori storici su Hartmann (Drews 1880, 1902 e 1907) e sulla filoso­ fia tedesca del secondo Ottocento (Drews 1893), tenta una rilettura volontaristica del pensiero moderno nel suo complesso (Drews 1897) e sviluppa sulle basi del « monismo concreto » una sorta di nuova religione (Drews 1906 e 1934). Hellenbach e Du Prel sono anch'essi marcatamente influenzati da Hartmann, ma il loro pensiero è caratteriz­ zato prevalentemente dall'interesse per l'occultismo e lo spiritismo (cfr. sotto).

IL PROBLEMA DELL'INCONSCIO IN HARTMANN

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della coscienza morale; delle molteplici precisazioni, correzioni e integrazio­ ni che egli svilupperà nel corso del dibattito sul pessimismo degli anni ottanta si parlerà nei capitoli della terza parte 2. La Filosofia dell'inconscio dichiaratamente intende costruire una me­ tafisica a partire dai risultati delle scienze naturali 3 . È quindi abbastanza 2 Hartmann divide la sua attività letteraria in quattro periodi: il primo periodo (1868-1878) abbraccia la PU, i primi lavori relativi alla teoria della conoscenza, alla filosofia della religione, alla storia della filosofia, e una serie di scritti polemici. Al secon­ do periodo (1868-1887) appartengono tre grandi opere storico-sistematiche concernenti l'etica, la filosofia della religione e l'estetica: la PSB (1879), Hartmann 1882 e 1882c, Hartmann 1886 oltre a NSH e ZGB che qui interessano particolarmente. Al terzo peri­ odo (1887-1895) appartengono invece principalmente lavori di storia della filosofia e un gran numero di interventi su questioni di attualità politica e sociale. Il quarto periodo (1896-1906) si segnala soprattutto, oltre che per un altro gruppo di importanti opere storiche - in particolare GM -, per la monumentale Kategorìenlehre, (1896), opera che, sviluppando un'imponente « filosofia dello spirito » di trasparente ispirazione hegeliana, rappresenta certamente il più significativo contributo teorico di Hartmann dopo la PU (cfr. Hessen 1924 e 1943, Petraschek 1926). In questi anni Hartmann procede anche ad una sistemazione definitiva del suo pensiero in SP, che compendia i risultati di tutta la sua riflessione. Una bibliografia quasi completa delle opere di Hartmann si trova in Hartmann 1912, che comprende 453 numeri. La letteratura critica relativa ad Hartmann è vastissima specie negli ultimi decenni del secolo scorso; di una buona parte di essa si darà conto nella terza parte. Meno numerose sono le opere nel nostro secolo, anche se non manca chi lo considera « il più grandejilosqfo tedesco » (Bùsing 1942. p. 5). Fra le monografie d'insieme vanno segnalate, oltre al citato Drews 1902, Braun 1909, Ziegler 1910, Rintelen 1924; Schnehen 1929, Huber 1954, Darnoi 1967; interessanti anche Weismùller 1985, Gerratana 1988. Gebhard 1984 è molto utile per inquadrare il pensie­ ro di Hartmann nel contesto della riflessione filosofica e letteraria della sua epoca. 3 Come spesso avviene per le opere di successo, le vicende della pubblicazione della PU sono piuttosto singolari. Hartmann l'aveva scritta fra il Natale del 1864 e la Pasqua del 1867 ma, probabilmente non troppo convinto dagli esiti del suo lavoro, non pensava ad una sua immediata pubblicazione. Egli si rivolge invece a Karl Heymons, proprietario della casa editrice Duncker, per pubblicare Hartmann 1868b. Heymons, acconsentendo quasi contro voglia a stampare il saggio, riceve in visione anche il mano­ scritto della PU, che suscita invece il suo vivo interesse. Sentito il parere di Leopold von Ranke, egli decide così di pubblicare oltre al saggio su Hegel, anche la PU. Il lungo sottotitolo, anche se chiarificatore delle intenzioni dell'autore (Populàre physiologischpsychologisch-philosophische Untersuchungen ùber Erscheinung una Wesen des Unbewussten una Entstehung una Bedeutung des Bewusstseins, seguito dal motto: Spekulative Resultate nach induktiv-naturwissenschaftlicher Methode) viene semplificato per consi­ glio di Ranke in Versuch einer Weltanschauung ed abbandonato nelle edizioni seguenti. L'opera esce nel novembre del 1868 con la data del 1869 in una tiratura di 1000 esem­ plari; già nel settembre del 70 si rende necessaria un'altra edizione (1250 copie) cui seguono in rapida successione le edizioni del 71, del 72 e del 73 (ciascuna di 1500 copie; nel 1873 due edizioni). Dal 73 in poi la fortuna della PU comincia a declinare benché nuove edizioni si susseguano regolarmente fino al 1913. Numerose sono anche le tradu­ zioni in lingua straniera. Nel corso delle varie edizioni il testo della PU viene più volte

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ovvio che Hartmann, discutendo dei vari metodi utilizzabili per la ricerca filosofica, dichiari improduttive tanto la deduzione quanto la dialettica hegeliana, contrapponendo ad esse il metodo induttivo, caratteristico delle scienze della natura. Fra i suoi vantaggi (superiore capacità persuasiva ri­ spetto al metodo deduttivo, corrispondenza all'andamento naturale del processo conoscitivo dell'uomo, naturale sfiducia dell'uomo nelle costru­ zioni intellettuali) particolare rilievo attribuisce Hartmann al fatto che esso può condurre se non altro ad un accordo sui risultati raggiunti ad un livello intermedio del processo induttivo, laddove, nel metodo deduttivo, il venir meno di un elemento della catena dimostrativa conduce necessariamente alla rovina di tutto il sistema, un motivo questo cui egli si rifarà in più di un'occasione nei passaggi più arrischiati delle sue argomentazioni, per sal­ vare comunque almeno in parte il valore della sua impresa 4 . Hartmann pone come fine della ricerca l'individuazione delle cause, mentre solo eccezionalmente impiega il concetto di legge. Questo ha come conseguenza immediata una precisa limitazione della portata epistemologica del metodo induttivo: ogni effetto infatti può in linea di principio avere sempre una causa diversa da quella individuata; ne consegue che la ricerca delle cause ha sempre un carattere ipotetico, che non può in nessun caso sperare di giungere alla certezza ma solo alla probabilità. La probabilità delle cause diminuisce con l'allungarsi della catena causale: il « coefficiente di probabilità » di una causa è sempre più alto di quello della sua causa (PU I, p. 5 s.). Hartmann rileva tuttavia che le scienze e le filosofie che si sono servite unicamente del metodo induttivo si sono dovute arrestare molto prima dei modificato, seppure in modo non decisivo, fino all'edizione del 1873, che rispetto alla prima edizione risulta accresciuta di circa 160 pagine. Dall'edizione del 1873 - che viene stereotipata - Hartmann non interviene più sul testo, ma aggiunge correzioni ed integra­ zioni in forma di note stampate alla fine di ogni volume. La settima edizione reca in appendice Hartmann 1875. A partire dalla decima edizione l'opera si arricchisce di un terzo volume che ripubblica la famosa autocritica del 1872 (Hartmann 1872, cfr. sotto) e Hartmann 1875f. L'edizione del 1904 - l'ultima curata da Hartmann e nel seguito utilizzata - contiene l'ampia ed importante prefazione che offre fra l'altro la periodizzazione dell'attività letteraria di Hartmann cui s'è sopra fatto riferimento. La traduzione italiana del termine Unbewusstes con « inconscio » può risultare per qualche aspetto fuorviante per gli echi freudiani che il termine suscita oggi e che non trovano sempre corrispondenza nel testo di Hartmann; d'altra parte la possibile traduzione alternativa (« incosciente ») scelta per es. da Faggi 1890, è però ancora meno soddisfacente ed è sconsigliabile per l'inevitabile effetto ironico che tale termine produce quando viene usato come sostantivo. 4 PU I, pp. 7-10; sul metodo di Hartmann cfr. in particolare Jessel 1907.

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principi ultimi, la cui determinazione costituisce pur sempre il fine della riflessione filosofica. Tali principi sono accessibili all'uomo solo per via mistica - sulla natura di tale mistica si tornerà più oltre; la riflessione con­ cettuale non può far altro che chiarirne il contenuto e renderlo comunica­ bile anche ad altri. Il problema è allora quello di trovare la via per superare l'abisso che separa la speculazione dai risultati della scienza empirica, un'impresa cui si può guardare con speranza di successo, dato l'alto livello di sviluppo ormai raggiunto tanto dalle scienze naturali quanto dalla spe­ culazione (Hartmann si riferisce alle grandi figure della tradizione filosofi­ ca del primo Ottocento tedesco: Fichte, Schelling, Hegel, Schopenhauer). Scienza e filosofia sono simili a due minatori che scavando l'uno in dirczio­ ne dell'altro sentono ormai ciascuno i colpi dell'altro: non resta che far cadere l'ultima barriera di roccia. Si tratta, in altre parole, di compiere la sintesi fra scienza e speculazione, rispettando i vincoli che esse si pongono reciprocamente: Hartmann considera falsa ogni speculazione che contrad­ dica i risultati della scienza empirica e, viceversa, false tutte le spiegazioni scientifiche dei fatti empirici « che contraddicono i risultati rigorosi di una speculazione puramente logica » (PU I, pp. 10-12). In questo modo Hart­ mann si distacca in modo marcato da altre contemporanee concezioni di stampo positivistico (Spencer, Wundt) che attribuiscono alla filosofia uni­ camente il compito di generalizzare i risultati della scienza. Qui l'oggetto specifico della filosofia - i principi ultimi - è raggiunto per una via autono­ ma rispetto alle scienze. Queste ultime devono solo confermare i risultati della speculazione e tale conferma è intesa come « l'elevare queste convin­ zioni finora solo soggettive a verità oggettiva » (PU I, p. 11). Questa con­ ferma si raggiunge sì per via induttiva, ma, dato le considerazioni prece­ denti sulla validità dei risultati ottenuti mediante l'estensione verso l'alto di tale metodo, l'induzione di fatto svolge un ruolo subordinato. Il motto dell'opera «Speculative Resultate nach inductiv-naturwissenschaftlicher Methode » andrebbe così tradotto con « risultati speculativi confermati con il metodo induttivo delle scienze della natura » piuttosto che con « risultati speculativi ottenuti secondo il metodo induttivo delle scienze della natu­ ra ». Il concreto svolgimento della riflessione di Hartmann - nonostante la ricchezza dei dati empirici presi in considerazione - mostra poi di fatto una netta prevalenza della speculazione sulle scienze naturali, al punto che non di rado si ha l'impressione che un'esposizione puramente deduttiva a par­ tire dai principi ultimi avrebbe giovato alla filosofia di Hartmann. Comunque sia, la struttura della Filosofia dell'inconscio è nelle sue linee generali abbastanza chiara: nella prima sezione (A) si prendono in

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CAPITOLO QUINTO

esame una serie di fenomeni della vita organica con l'intenzione di dimo­ strare che essi non possono essere spiegati in termini meccanicistici e quin­ di richiedono una causa psichica, ovvero, secondo Hartmann, spirituale. Una volta mostrato che, schopenhauerianamente, ogni attività psichica va concepita in termini di volontà e rappresentazione, si conclude che, in assenza di una coscienza, tale attività psichica deve essere pensata come inconscia. Nella seconda sezione (B) l'oggetto dell'indagine è lo spirito umano: qui si tratta di mostrare che il suo modo di operare - in particolare l'attività della coscienza - conduce all'ipotesi dell'esistenza di un'attività spirituale inconscia dietro o al di sotto della coscienza stessa. Nella terza parte (C), intitolata « Metafisica dell'inconscio », vengono sistematizzati e completati mediante la speculazione i risultati raggiunti nelle due sezioni precedenti; l'inconscio è elevato a principio unico di tutta la realtà che deriva da esso mediante una complessa cosmogonia. In questo contesto si apre il discorso sul pessimismo: Hartmann dimostra che il non-essere, la non-esistenza del mondo è eudemonologicamente preferibile alla sua esi­ stenza e quindi delinea una sorta di filosofia della storia che deve mostrare come lo sviluppo del mondo conduce o almeno possa condurre al suo annichilimento 5 .

2. LE PROVE INDUTTIVE DELL'ESISTENZA DELL'INCONSCIO: L'INCONSCIO NEI FE­ NOMENI CORPOREI.

Si è accennato che il meccanicismo è l'avversario da sconfiggere per giungere ad affermare l'esistenza dell'inconscio nei fenomeni corporei. Il primo passo su questa via è rappresentato dalla dimostrazione dell'esisten­ za di una finalità oggettiva nel mondo. Per agire finalistico Hartmann, basandosi sull'esperienza intcriore, intende un agire in cui qualcosa viene realizzato non per sé ma come mezzo per giungere a qualcosa d'altro. Si tratta ora di far vedere che anche nella natura ed in particolare nei feno5 Non sempre felice è peraltro la distribuzione della materia nelle varie sezioni: così nella prima e nella seconda sezione si trovano argomenti che ci si aspetterebbe di trovare nella sezione metafisica (ad es. il rapporto fra volontà e rappresentazione o la filosofia della storia) e, viceversa, nella sezione metafisica Hartmann si dilunga su que­ stioni che certamente avrebbero trovato una collocazione migliore nelle sezioni prece­ denti (ad es. il problema dell'origine dell'ereditarietà dei caratteri o le condizioni fisiologiche del sorgere della coscienza). Inoltre la teoria della conoscenza è esposta quasi per accidens a metà della seconda sezione.

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meni della vita organica è possibile trovare qualche cosa di simile (PU I, p. 37 s.). In primo luogo Hartmann dimostra che i fenomeni organici non sono spiegabili se non supponendo l'intervento di una causa spirituale. Se la causa fosse materiale, essa dovrebbe trovarsi fra le circostanze materiali che precedono il prodursi di ogni determinato fenomeno (Hartmann pensa che sia relativamente agevole individuare, isolandole, tutte tali circostanze). Mediante una complessa strumentazione matematica mutuata dal calcolo delle probabilità si tratta allora di valutare la probabilità che una di queste circostanze sia la causa cercata (PU I, pp. 38-42). Hartmann fa l'esempio della causa del covare degli uccelli: è poco probabile che la causa del rimanere nel nido sulle uova sia la presenza e la forma dell'uovo, la costituzione corporea dell'uccello o la temperatura del nido (sono queste per Hartmann tutte le circostanze materiali che debbono essere prese in considerazione per spiegare la cova). Tale probabilità dimi­ nuisce ancora nel caso di fenomeni ancor più complessi che, per realizzarsi, richiedono come condizioni altri fenomeni per i quali, ciascuno preso iso­ latamente, le probabilità che le circostanze materiali contengano la loro causa è già bassa (Hartmann propone qui come esempio lo svilupparsi dell'organo visivo). Quanto più bassa è la probabilità che il fenomeno sia prodotto da cause materiali, tanto più alta diviene quella che la sua causa sia spirituale: Hartmann giunge a concludere che, nel caso dello svilupparsi della vista, tale probabilità è dell'ordine di 0,99988, cioè quasi il cento per cento 6. Parlare di una causa spirituale vai quanto dire - come si vedrà meglio poi - rifarsi ad una volontà determinata da una rappresentazione. E tale rappresentazione non è qui, ancora con un altissimo grado di probabi­ lità, il mezzo, ma il fine. Per tornare all'esempio sopra citato della cova, esso sarà il fine di crearsi una discendenza e così di perpetuare la specie (PU I, pp. 43-46). Questa « dimostrazione » dell'esistenza della finalità pone il proble­ ma di spiegare il rapporto fra cause meccaniche (materiali) e cause finali (spirituali): Hartmann afferma piuttosto sbrigativamente che il finalismo non modifica la legalità meccanica della natura; in seguito sarà costretto 6 PU I, pp. 38-43. Il ragionamenti di Hartmann è abbastanza semplice: posto che la probabilità che ciascuna delle condizioni sia prodotta da una causa materiale sia 9/10, nel caso di 13 condizioni - tante sono per Hartmann quelle necessarie al sorgere dell'oc­ chio - la probabilità dell'esistenza di una causa spirituale sarà eguale a 1 - 0,254, ovvero 0,746. Dato che tuttavia la probabilità di una causa materiale deve essere posta fra 0,5 e 0,25, si ha come risultato rispettivamente 0,9999985 e 0,99988.

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dalla critica a tornare sull'argomento, ma qui egli ritiene sufficiente qual­ che accenno, giacché dichiara di non attribuire particolare importanza al capitolo, inutile per quanti siano già convinti dell'esistenza del finalismo e non del tutto convincente per quanti rifiutano la teleologia (PU I, pp. 36 e 47). Come ulteriore premessa alla dimostrazione dell'esistenza dell'incon­ scio Hartmann deve provare che ogni attività psichica, in tutti gli esseri viventi, si riduce a volontà e rappresentazione. La dimostrazione di questa importante tesi - perfettamente schopenhaueriana - è distribuita in due capitoli diversi, che fra l'altro si occupano di altre questioni 7 . Dapprima Hartmann mostra come si possa estendere il concetto di volontà dell'uomo a tutti gli esseri viventi ed anche a parti particolari di essi (il midollo spinale e i gangli). Lo sviluppo della scienza ha infatti ormai dimostrato che fra gli uomini e gli animali sussiste solo una differenza di grado, da cui consegue che anche le loro attività psichiche devono distinguersi solo quantitativa­ mente. Se allora per l'uomo si parla di volontà, altrettanto si dovrà fare per gli animali 8. Né reggono le obiezioni di quanti sostengono che l'agire degli animali si riduce a un riflesso a stimoli esterni. A prescindere dal fatto che ogni agire riflesso è a ben vedere un agire volontario, e, viceversa, ogni agire volontario è un agire riflesso 9, l'osservazione del comportamento degli animali non lascia in dubbio circa il fatto che anch'essi si propongono di raggiungere determinati scopi, li perseguono con passione, modificano i propri piani in relazione al mutare delle circostanze, in altre parole « vo­ gliono » (PU I, p. 52 s.). Ma Hartmann si spinge ancora più in là: se lo stesso tipo di comportamento volontario è constatabile in esperimenti con animali ed insetti decapitati, bisogna supporre la presenza nei corpi di 7 II cap. I, che tratta de « La volontà inconscia nelle funzioni autonome del mi­ dollo e dei gangli », e il cap. IV, che si occupa de « II legame fra volontà e rappresen­ tazione ». 8 PU I, p. 51 s. La tesi che l'attività psichica dell'uomo si riduca al volere (e al rappresentare) è presentata qui come apodittica. Solo più oltre (nel cap. B, III) Hart­ mann si impegna a mostrare che il sentimento non è una funzione originaria, ma deriva da volontà e rappresentazione. 9 Nel cap. V (« L'inconscio nelPagire riflesso », pp. 109-122) Hartmann dimostra attraverso numerosi esempi che lo stimolo che da luogo all'agire riflesso non giunge direttamente al nervo motorio, ma ad un centro recettivo che lo trasmette al nervo motorio, producendo una risposta che non è meccanica, ma finalizzata ed in grado di adattarsi di volta in volta al mutare delle circostanze, ciò che prova anche in questo caso l'esistenza di una volontà. D'altra parte quello che tutti concordano nel chiamare agire volontario, nell'uomo, trae esso pure origine da uno stimolo (il motivo); di qui l'identità dei due tipi d'azione.

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varie volontà collegate a parti diverse dal cervello, vale a dire, di volta in volta, il cervelietto, il midollo spinale, i gangli nervosi (PU I, pp. 53-56). Del resto anche nell'uomo ci sono movimenti volontari del tipo sopra ac­ cennato (il battito del cuore, i movimenti dello stomaco e dell'intestino, il tono delle vene e delle arterie, gran parte dei processi vegetativi) che pure non dipendono dalla volontà conscia centrale. Bisogna quindi ipotizzare anche qui altrettante volontà nei centri nervosi che governano questi mo­ vimenti (PU I, pp. 56-59). Un'ultima precisazione è necessaria per giustificare questa estensione del concetto di volontà: bisogna distinguere - sulle orme di Schopenhauer - fra volontà (Wille) ed arbitrio (Willkur), quest'ultimo soltanto specifico dell'attività psichica cosciente dell'uomo. La presenza della coscienza non costituisce lo specifico della volontà e quindi la sua assenza non deve im­ pedire di considerare volontarie quelle attività che si compiono senza il concorso di una coscienza analoga a quella centrale umana. Gli altri termi­ ni che potrebbero essere impiegati al posto di volontà, Begehren e Trieb, presentano degli inconvenienti tali (in particolare indicano più la tendenza ad un'azione che la causa dell'azione stessa) da sconsigliarne l'uso (PU I, pp. 59-61). Si tratta ora, in contrasto con Schopenhauer e, come si vedrà in segui­ to, con Bahnsen, di mostrare che l'attività psichica è originariamente costi­ tuita non solo dal volere, ma anche dal rappresentare. Ogni volere infatti è un volere qualcosa, quindi un volere determinato; non esiste e l'uomo non può trovare in sé un puro Streben senza contenuto; il puro volere è una astrazione senza realtà. Ogni atto di volontà si configura come la realizza­ zione del passaggio da una condizione (presente) ad un'altra; ma perché si possa voler modificare la situazione in cui ci si trova, bisogna che essa sia presente al soggetto volente e che, insieme, sia presente la nuova situazione che si vuoi raggiungere. Quest'ultima tuttavia non può essere presente realtter, poiché in questo caso non sarebbe più da realizzare: essa deve esiste­ re quindi nel soggetto volente idealiter, vale a dire come rappresentazione, e ciò può ben avvenire in quanto la volontà è essa stessa un'entità spirituale (PU I, pp. 100-103). Una volta poste queste premesse - esistenza e natura dell'agire finali­ stico, riduzione dell'attività psichica a volontà e rappresentazione - si è nelle condizioni di seguire le varie tappe attraverso cui Hartmann prova induttivamente l'esistenza di un'attività psichica inconscia. Il primo fenomeno corporeo che Hartmann prende in considerazione è il processo attraverso cui si realizzano i movimenti volontari - o, forse

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meglio, arbitrari - del corpo 10. Ad esempio nel caso del sollevamento di un dito, si tratta di spiegare il processo mediante il quale la volontà (conscia) opera sulla corrispondente terminazione nervosa che fa agire i muscoli coinvolti nel movimento desiderato. Il processo è problematico giacché la coscienza non ha in sé la rappresentazione di tale terminazione, ovvero, paragonate le varie terminazioni ai tasti di una tastiera, non sa quale tasto premere 11 . Escluso che tanto un collegamento di tipo meccanico, quanto il ricordo delle sensazioni muscolari che accompagnano un determinato movimento (Muskelgefùht) possano fornire una spiegazione soddisfacen­ te 12 , non rimane che pensare ad una volontà inconscia che funga da elemen­ to di mediazione fra la volontà conscia e la terminazione nervosa: è essa che, eccitata dalla volontà conscia, opera sulla terminazione giusta, che le è nota attraverso una rappresentazione, anch'essa naturalmente inconscia 13 . Ben altro peso è attribuito al capitolo dedicato agli istinti, la cui esi­ stenza è per Hartmann la prova decisiva a favore dell'inconscio. Hartmann infatti ne parla tanto in riferimento al mondo animale quanto, nella secon­ da parte dell'opera, in riferimento all'uomo. Inoltre anche due altri feno­ meni naturali - la forza risanatrice (Naturheilkraft] e la forza plasmatrice (Bildungstrieb] - sono spiegati negli stessi termini dell'istinto. 10 A rigore il primo tema affrontato in questa parte è l'esistenza di coscienze au­ tonome nei gangli e nel midollo spinale, il cui contenuto, in quanto sfugge alla coscienza centrale, da luogo ad un « inconscio relativo »; lo stesso Hartmann non attribuisce in seguito grande importanza a questo capitolo, perché esso non prova l'esistenza di un inconscio in senso proprio (PU I, pp. 51-61). 11 PU I, pp. 62-64. Hartmann in questo contesto sembra muoversi nell'ambito di una concezione tradizionale - dualistica - del rapporto corpo-mente. Nel seguito si vedrà come in realtà Hartmann faccia riferimento da una parte ad una concezione della coscienza come determinata dagli atomi materiali e dall'altra ad una concezione dinamicistica - che si rivela in ultima analisi spiritualistica - degli atomi, tesi che mettono capo ad un monismo antitetico al dualismo qui sostenuto. 12 PU I, pp. 64-66. La spiegazione meccanica richiederebbe che le singole volizio­ ni si trovassero in luoghi diversi del cervello, in diretto contatto con le terminazioni, il che è difficile da credere, giacché l'uomo compie anche movimenti complessi, che inte­ ressano più terminazioni. D'altra parte in una prospettiva materialistico-evoluzionistica un tale collegamento meccanico dovrebbe essere stato costituito ed in seguito ereditato a partire da una condizione in cui esso era assente; per il sorgere del meccanismo sareb­ be quindi comunque necessario ricorrere ad una spiegazione non meccanicistica. Quan­ to al sentimento muscolare non si vede come esso possa aiutare la volontà nella scelta della terminazione giusta. 13 PU, p. 66 s. In un'aggiunta del 1890 Hartmann riconosce lo scarso valore di queste argomentazioni e dichiara che avrebbe volentieri eliminato questo capitolo, se non fosse stato per l'impegno assunto di non mutare nulla nel testo dell'edizione del 1873, posto alla base di tutte le edizioni seguenti (PU I, p. 454 s.).

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Hartmann offre dell'istinto la seguente definizione, che segue da vici­ no quella hegeliana (Enciclopedia, § 360): « L'istinto è un agire finalizzato senza coscienza del fine». L'agire istintuale non può essere spiegato né come conseguenza dell'organizzazione corporea, né come conseguenza di un'organizzazione meccanica del cervello o dello spirito. Contro la spiega­ zione materialistica Hartmann osserva che esistono istinti diversi in corpi eguali (anche qui egli naturalmente fa riferimento alla macrostruttura dei corpi) e, viceversa, istinti eguali in corpi diversi. Se d'altra parte una certa struttura corporea dovesse essere la causa di un determinato comporta­ mento istintuale, tale causalità dovrebbe esplicarsi nel senso di benessere percepito dall'individuo nell'utilizzo di un determinato organo; ma anche ammesso che, ad esempio, un ragno provi una qualche forma di piacere dallo svuotamento delle sue ghiandole sericigene, ciò non spiega perché il ragno per raggiungere tale piacere debba costruire una tela. Ancor meno comprensibili in questa prospettiva sono quegli istinti che comportano il sacrificio dell'individuo (PU I, pp. 68-71). Quanto alla possibilità di un meccanismo cerebrale o spirituale, espressione con la quale Hartmann intende una struttura che risponda in modo costante e quindi « meccanico » a stimoli esterni, una tale ipotesi, di nuovo, non spiega perché stimoli esterni eguali diano luogo a comporta­ menti istintuali diversi. Inoltre le risposte si adattano all'infinito variare delle circostanze: una spiegazione meccanistica condurrebbe all'assurda ipotesi dell'esistenza di un numero infinito di possibili collegamenti mecca­ nici. Ancora, l'ipotetico meccanismo psichico dovrebbe essere spiegabile in termini di piacere/dolore; ma come pensare che la prospettiva del rag­ giungimento di un determinato piacere sia il motivo della risposta, quando l'esito del comportamento istintuale è sconosciuto all'animale o, addirittu­ ra, si risolve nel sacrificio dell'individuo? (PU I, pp. 71-75). Non rimane che pensare all'esistenza di una volontà inconscia che conosce e vuole un determinato fine - che essa si rappresenta inconscia­ mente - e che, a tale scopo, sceglie i mezzi necessari e li adatta alle circo­ stanze (PU I, p. 75 s.). Con particolare impegno Hartmann mostra che la conoscenza - la rappresentazione inconscia - che sta alla base dell'agire istintuale è radicalmente diversa dalla conoscenza dell'intelletto e della sensibilità: non esiste infatti negli uomini e negli animali alcuna proporzio­ ne fra le capacità intellettuali e quelle istintive, giacché insieme ad un intel­ letto limitato si trovano spesso prestazioni istintuali enormemente com­ plesse (ad esempio il modo in cui alcuni insetti - cui non si riconosce-una facoltà intellettiva molto sviluppata - si costruiscono il bozzolo). Soprattut-

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to alcune delle conoscenze fondamentali che devono guidare gli istinti sono completamente inaccessibili all'intelletto, perché si riferiscono a si­ tuazioni future. Bisogna quindi attribuire agli animali una sorta di « chia­ roveggenza » (Hellsehen), che deve essere qualcosa di più di un semplice presentimento, in quanto è in grado di indirizzare con precisione la volontà inconscia. È essa che fa sì che gli animali accumulino scorte di cibo per prepararsi al letargo od emigrino prima che il freddo sia giunto, che evitino i loro nemici naturali, la cui pericolosità essi non hanno mai sperimentato, e che mettano in atto i complicatissimi comportamenti che precedono e seguono l'accoppiamento 14 . Con tutto ciò Hartmann non nega che l'organizzazione corporea svol­ ga un ruolo importante nel comportamento istintuale: egli anzi ammétte di buon grado l'esistenza di « predisposizioni » (Pràdispositionen) psichiche e fisiche di tipo meccanico, che facilitano il lavoro dell'inconscio. Ma al ri­ guardo valgono numerose limitazioni che conservano all'inconscio un po­ sto di assoluta preminenza 15 . Affrontando il tema degli istinti nell'uomo Hartmann, nel corso di una ricca fenomenologia dell'istintualità umana, si preoccupa soprattutto di mostrare la loro indipendenza dalla coscienza (queste pagine del resto appartengono alla seconda parte della Filosofia dell'inconscio}. Hartmann analizza dapprima quegli istinti che egli chiama repulsivi: la paura della morte, il pudore, la vergogna, il ribrezzo. Essi non dipendono dalla co­ scienza, perché sono presenti sempre e ovunque, anche quando la coscien-

14 PU I, pp. 77-91. Hartmann moltiplica al riguardo gli esempi tratti dal regno animale, rendendo la lettura dell'opera facile ed interessante. Eccone due: le larve di sesso maschile del cervo volontà, a differenza di quelle di. sesso femminile, si scavano nel legno un nascondiglio con uno spazio sufficiente a far posto anche alle corna, che l'in­ setto possiederà alla fine del suo sviluppo. Un tale comportamento non può essere spiegato come conseguenza di una riflessione cosciente, perché le larve non hanno pos­ sibilità di sapere quale forma assumeranno da adulti. Gli orbettini, mentre afferrano come capita tutti gli altri rettili, attaccano la vipera cercando di morderla dietro la testa, per evitare il morso velenoso. Anche in questo caso essi non hanno alcuna esperienza diretta né dell'innocuità del morso degli altri rettili, né della pericolosità di quello della vipera. 15 PU I, p. 76 s. Secondo Hartmann tutte le modificazioni e gli adattamenti degli istinti sono opera diretta dell'inconscio; le predisposizioni che sono ereditarie sono pro­ dotte dalla forza plasmatrice che richiede, come si vedrà, l'intervento dell'inconscio; tutti i comportamenti istintuali che si concludono con la morte dell'individuo non pos­ sono sedimentarsi in predisposizioni e quindi richiedono sempre l'intervento diretto dell'inconscio; le predisposizioni rendono possibile un istinto, ma non lo necessitano: perché esso abbia effettivamente luogo è sempre necessario un intervento dell'inconscio.

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za è a livelli bassissimi o è inserita in culture diversissime (culture che sono un prodotto della coscienza) o quando mancano le condizioni perché essa possa dirigere l'agire (Hartmann cita il caso di ciechi che tengono moltis­ simo al loro ordine personale). Simili a questi sono gli istinti «prefigurati­ vi», quali si manifestano nella tendenza dei bambini a prefigurare nei loro giochi i ruoli che ricopriranno da adulti. In tutti questi comportamenti l'inconscio persegue, in varie forme, la conservazione dell'individuo (paura della morte, ribrezzo, istinti prefigurativi) o della specie (pudore) (PU I, pp. 177-181). Ancora da ricondursi al fine della conservazione della specie sono i complessi comportamenti istintuali dei genitori nei confronti dei figli, cui sono dedicate parecchie pagine. Essi non possono essere ricondotti a scelte razionali e o determinazioni culturali - Hartmann è al riguardo alquanto sbrigativo e parecchie delle sue affermazioni non sarebbero certo condivise dagli antropologi, ad esempio la tesi dell'esistenza di un istinto innato nel­ l'uomo a « metter su casa » (einen Hausstandzu grùnden) - e la loro natura istintuale è confermata dal loro perfetto accordo con l'organizzazione bio­ logica della specie: ad esempio l'amore per la prole è tanto maggiore quan­ to più i discendenti hanno bisogno delle cure dei genitori per raggiungere l'autosufficienza; i genitori posseggono un istinto ad insegnare ai figli tanto maggiore, quanto minore è il bagaglio istintuale innato con cui essi vengo­ no al mondo (PU I, pp. 183-189). Istinti sono anche la simpatia, la compas­ sione, la gratitudine. Si tratta di istinti « riflessi », nel senso che dipendono dal dato sensibile (il vedere la gioia o il dolore altrui) e dipendono - ma si tratta qui di un fugace accenno - dal legame metafisico che unisce tutti gli essere viventi ló. Nella trattazione dell'istinto sessuale Hartmann riecheggia il celebre capitolo schopenhaueriano sulla « Metafisica dell'amor sessuale », e ben­ ché non « rasenti la pornografia » come ancor oggi sembra a qualche stu­ dioso (Darnoi 1967, p. 41), certamente assume un atteggiamento disincan­ tato e naturalistico. La difficoltà che Hartmann si trova qui a fronteggiare consiste nel fatto che l'esercizio della sessualità appare avere un fine con­ scio ben preciso, vale a dire la ricerca del piacere. Ma se si osserva il com­ portamento degli animali, risulta chiaro che il piacere - assente nella ses­ sualità di molti esseri viventi - non può costituire lo specifico dell'attività sessuale, come è provato dal fatto che l'uomo può procurarsi gli stessi 16 PU I, p. 181 s. Sulla compassione, la sua radice metafisica ed il suo legame con la morale cfr. sotto.

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piaceri anche al di fuori dell'accoppiamento. L'idea che proprio nell'atto sessuale si raggiunga il piacere più alto deve essere interpretata come « un'esca » (Kòder) di cui l'inconscio si serve per facilitare l'esplicazione dell'istinto, che potrebbe essere ostacolata dall'alto livello di coscienza presente nell'uomo (PU I, pp. 190-194). Un altro aspetto della vita sessuale sembra però chiamare direttamen­ te in causa la coscienza, vale a dire quel complesso fenomeno che lega due persone in un rapporto amoroso. Hartmann riconduce all'istinto anche la scelta di una specifica persona, mostrando che le ragioni di tale scelta sfug­ gono interamente alla coscienza ed anzi sono spesso in aperto contrasto con ogni riflessione razionale. Questo è inoltre confermato dal fatto che il fine dell'amore, il soddisfacimento del proprio desiderio sessuale con l'amata, si sottrae normalmente alla coscienza dell'innamorato che anzi nega categoricamente che la sua passione abbia un fine cosi banale. Ma quale può essere l'interesse dell'inconscio a una scelta così specifica? Esso vuole che si formi una coppia che possa generare una discendenza il più possibile corrispondente all'idea di uomo, e per giungere a questo unisce o individui di per sé vicini a quest'idea o individui che risultino complemen­ tari in rapporto ad essa 17 . La struttura argomentativa impiegata per risalire dall'istinto all'incon­ scio è utilizzata anche in riferimento alla forza risanatrice naturale, la cui trattazione è di nuovo ricca di esemplificazioni tratte dalla biologia e dalla fisiologia. Hartmann considera anzitutto i casi più eclatanti di riparazione o riproduzione di organi o membra perduti o addirittura di sviluppo di un nuovo individuo completo a partire da una sua parte (il caso dell'idra pla­ naria). Tali fenomeni non possono essere spiegati altrimenti che supponen­ do presente nell'individuo o in una sua parte - nella forma di una rappre­ sentazione inconscia - l'idea del genere cui esso appartiene; è guardando a tale idea che la volontà inconscia costruisce o ricostruisce l'individuo (PU I, pp. 123-128). L'efficacia della forza risanatrice sembra affievolirsi nell'uomo, dove essa non è più in grado di ricostruire membra perdute o anche soltanto gravemente danneggiate. Essa però da comunque buona prova di sé man-

17 PU I, pp. 194-206. Hartmann ritiene comunque che il disvelamento della vera natura del rapporto amoroso non diminuisce il suo valore morale, ma che anzi, il mo­ strare che il suo vero fine non è l'egoistico piacere reciproco ma la prole, contribuisce ad accrescerne la dignità. Sull'illusione della felicità prodotta dall'amore cfr. ancora sotto.

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tenendo l'uomo in salute, difendendolo dagli attacchi esterni ed interve­ nendo attivamente nei complessi fenomeni che hanno luogo in occasione della guarigione di ferite o di fratture. Anche in tali casi, a parere di Hartmann, l'esistenza di un finalismo che diriga i vari fattori che, ad esempio, concorrono alla ricostruzione di un tessuto danneggiato non può essere messa in discussione (PU I, pp. 128-137). Questo tema è poi ancora ripreso nella lunga analisi del rapporto fra Naturheilkraft e malattia. In essa fra l'altro Hartmann precisa che, per quanto di natura spirituale, la forza del­ l'inconscio è limitata e quindi può essere piegata da circostanze esterne sfavorevoli, dando così origine a fenomeni che, dal punto di vista dell'indi­ viduo, appaiono possedere un carattere disteleologico (PU I, pp. 138-144). Questo discorso può essere ripetuto a maggior ragione per la forza plasmatrice, nella cui trattazione sono ripresi molti dei temi trattati in pre­ cedenza. In fondo l'istinto non è diverso da un riflesso: come in quest'ul­ timo, anche qui ci si trova di fronte ad una risposta ad uno stimolo esterno modulata finalisticamente. E il riflesso non è in sé diverso dalla forza risanatrice naturale: la risposta del riflesso non è altro che lo sforzo dell'orga­ nismo di conservare la sua integrità ed equilibrio di fronte a qualcosa di estraneo. La forza risanatrice, da parte sua, non può che esplicarsi superan­ do la situazione sfavorevole all'organismo, e per far questo essa deve creare - o ricreare - qualcosa di nuovo, come avviene nel Eildungstrieb. Quest'ul­ timo, a sua volta, non può sviluppare l'organismo se non conservando le condizioni di partenza, operando cioè come forza risanatrice. Infine è la forza plasmatrice che da all'istinto i mezzi per potersi esplicare: come po­ trebbe ad esempio un ragno tessere la sua tela se il suo corpo fosse sprov­ visto delle filiere? Non resta che riconoscere l'esistenza di un unico princi­ pio per spiegare tutti questi fenomeni, così simili e così legati l'un l'altro: l'inconscio (PU I, pp. 158 s. e 165-170). Per quanto riguarda più specificamente il Eildungstrieb, esso tende a realizzare in ogni individuo l'idea della specie e tale idea deve essere pre­ sente nell'organismo come rappresentazione inconscia. Ad esempio come spiegare la formazione nel feto di occhi e polmoni che solo al momento della nascita potranno essere utilizzati, senza far riferimento all'inconscio che guidi lo sviluppo dei vari stadi, da intendersi come mezzi per la realiz­ zazione del fine (nel caso citato un apparato visivo e respiratorio perfetta­ mente funzionante al momento della nascita) (PU I, p. 164)? Naturalmente non è da escludersi che l'inconscio si serva anche di meccanismi, ma la loro esistenza no» mette in discussione il suo diretto intervento; del resto - e di questo argomento Hartmann si serve a più riprese nella sua polemica con-

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tro il darwinismo - il fatto che un fenomeno dai caratteri indiscutibilmente finalistici sia spiegabile facendo ricorso unicamente a cause meccaniche non risolve in alcun modo il problema: rimane infatti da spiegare come sia sorto un meccanismo in grado di operare finalisticamente 18 .

3. LE PROVE INDUTTIVE DELL'ESISTENZA DELL'INCONSCIO: L'iNCONSCIO NELLO SPIRITO UMANO.

Finora Hartmann ha preso in considerazione prevalentemente feno­ meni che appartengono al mondo materiale - sia pur organico - e che si svolgono senza il concorso della coscienza. Quando la coscienza appare coinvolta - l'istinto nell'uomo -, essa viene messa fuori gioco, mostrando la sua incapacità di fornire una spiegazione soddisfacente dei fenomeni consi­ derati. La conclusione cui le varie analisi conducono è, come si è visto, sempre la stessa: i fenomeni considerati possono essere spiegati solo suppo­ nendo il concorso di una realtà spirituale e inconscia. Ora invece Hartmann studia fenomeni tradizionalmente considerati « spirituali » ed appartenenti alla sfera della coscienza. Egli si sforza di mostrare che questi processi non si svolgono interamente alla luce della coscienza e che quindi, per compren­ derli in modo esauriente, di nuovo bisogna ammettere un'attività inconscia. Hartmann si trova di fronte ad un compito nel complesso più agevole, giacché l'esistenza dello spirituale in questo contesto non ha bisogno di essere provata (un caso particolare è costituito da quelle parti in cui l'incon­ scio appare come una realtà sovraindividuale). Nel loro insieme le argomen­ tazioni di Hartmann appaiono meno azzardate, almeno fin quando non le si pone in relazione con la teoria della coscienza di Hartmann, che « mate­ rializzando » la coscienza stessa e contrapponendola in modo radicale all'in­ conscio, rende assai problematiche alcune delle posizioni qui sostenute.

18 PU I, p. 171 s. Hartmann si occupa in questo contesto anche del tema della finalità esterna, cioè, schopenhauerianamente, del finalismo che governa i rapporti fra i vari esseri viventi. Per giudicare della finalità di qualcosa si deve conoscere il fine che essa deve raggiungere. Ora per Hartmann, che anticipa una tesi che sarà dimostrata in seguito, il fine del mondo organico è l'accrescimento del livello di coscienza. Così a partire dal regno vegetale e da quello animale si può costruire una sorta di storia natu­ rale in cui si mostra come tutte le specie siano perfettamente organizzate per rendere possibile un sempre più alto livello di coscienza, che raggiunge ovviamente il suo vertice nell'uomo. L'esistenza di disteleologie va spiegata con la lex parsimoniae che l'inconscio segue nel produrre i vari esseri viventi (PU I, pp. 159-162).

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II primo tema affrontato da Hartmann è quello dei sentimenti, un tema di grande importanza per la sua filosofia e per il suo pessimismo in particolare. Hartmann esordisce affermando che tutti i sentimenti hanno come costituenti elementari i sentimenti di piacere e di dolore; gli stati d'animo più complessi derivano dalle diverse combinazioni di tali elemen­ ti, assumendo coloriture qualitative particolari, in relazione alle rappresen­ tazioni cui sono legati (PU I, pp. 210-213). Piacere e dolore devono essere spiegati come effetti della soddisfazio­ ne o dell'insoddisfazione (temporanea o permanente) di una volizione, come l'esperienza dimostra nel caso di volizioni consce. Con questo Hart­ mann afferma la priorità del volere sul sentimento, una posizione giustifi­ cata dal fatto che, come si è visto, la volontà è già di per sé di volta in volta determinata in una certa dirczione 19. Hartmann tuttavia non nega la realtà psicologica di sentimenti che si manifestano alla coscienza senza una diretta connessione con la percezione del successo o dell'insuccesso di un atto volitivo 20. Anzi proprio questo tipo di sentimenti egli utilizza come prima prova dell'esistenza dell'incon­ scio: posto che tutti i sentimenti sono il riflesso di una volizione e posto che nei casi qui considerati la volizione non è presente alla coscienza, bisogna ipotizzare l'esistenza di una volizione inconscia. Quindi « 1) dove non si è consci di alcuna volontà, nella cui soddisfazione potrebbe consistere un piacere o un dolore che viene percepito, questa volontà è inconscia; 2) l'oscuro, l'inesprimibile, l'indicibile dei sentimenti trova la sua origine nel non essere conscio delle rappresentazioni che li accompagnano » (PU I, p. 217). Come di consueto, Hartmann presenta a sostegno di questa tesi un grande numero di esempi, riferendosi in particolare a quei sentimenti di

19 PU I, p. 215 s. Per Hartmann un determinato atto volitivo è il tentativo coronato o meno da successo -, di passare da una determinata situazione di insoddisfa­ zione o di soddisfazione del volere, ad un'altra rispettivamente di soddisfazione o di .maggiore soddisfazione. La nuova situazione, nel caso del volere inconscio, è presente alla volontà nella forma della rappresentazione inconscia, il cui contenuto, da cui dipen­ de la particolare dirczione che prenderà il volere, è determinato dalla struttura logica della realtà (cfr. sotto) ed è quindi indipendente dai sentimenti di piacere e dolore. Lo stesso avviene nel caso della volizione conscia: la nuova situazione cui si aspira è presen­ te nella forma della rappresentazione conscia come promessa di un piacere maggiore. Anche in questo caso il sentimento non è anteriore alla volontà, in quanto la speranza che la nuova situazione sia più favorevole dal punto di vista del piacere dipende dal­ l'esperienza di precedenti volizioni. 20 Una ricca fenomenologia dei sentimenti è offerta da Hartmann in SPG, voi. IV, pp. 19-26.

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piacere che si manifestano quando l'uomo porta felicemente a compimento un agire istintuale (PU I, pp. 217-224). Un tipo di argomentazione analogo è sviluppato anche in riferimento al carattere, definito come il modo specifico in cui la volontà di ciascun individuo reagisce alle diverse classi di motivi. Ogni volizione è secondo Hartmann la risposta della volontà ad un motivo. Gli uomini tuttavia non reagiscono in modo eguale a motivi eguali ed è impossibile per ciascuno spiegare perché egli sia più sensibile di un altro ad un determinato motivo. Né la questione si risolve osservando che i motivi più efficaci di solito sono quelli che producono in noi l'aspettativa di un piacere più grande: resta infatti non chiarita l'origine delle diverse aspettative di piacere. Si può osservare poi ancora che in molti casi l'uomo .non sa se non post factum quale sia la sua reazione ad un determinato motivo. Si deve concludere che nel processo della volizione conscia è presente alla coscienza il termine iniziale (il motivo) ed il termine finale (l'azione), ma non ciò che li collega, appunto la volontà, che bisogna dunque di nuovo supporre inconscia (na­ turalmente si tratta anche in questo caso di una volontà determinata da rappresentazioni inconsce) (PU I, pp. 225-229). Anche i fenomeni artistici offrono ad Hartmann una via per risalire all'inconscio. In polemica con l'estetica idealistica, ove il giudizio estetico è visto come valutazione del dato empirico in rapporto ad un parametro ideale innato, e con l'estetica empiristica, ove il giudizio estetico è risolto nelle condizioni oggettive del suo sorgere, Hartmann sostiene che l'ideali­ smo non riesce a dar conto della molteplicità dei fenomeni del bello, l'em­ pirismo non spiega la sua dinamica soggettiva. Lo specifico del giudizio estetico consiste nel proiettare fuori di noi, attribuendolo all'oggetto, una sensazione di bello che troviamo in noi. Questa sensazione - Hartmann si ricollega qui agli studi di Helmholtz sulla percezione musicale (Helmholtz 1863) - ha la sua base nella sensazione piacevole derivante dal funziona­ mento regolare dell'organo percettivo. Ma di tale regolarità di funziona­ mento l'uomo non ha alcuna coscienza: il giudizio estetico ha quindi a suo fondamento un processo inconscio 21 . La creazione artistica poi rimanda in modo ancor più indiscutibile all'inconscio, una tesi questa già sostenuta esplicitamente da Schelling. Nel genio l'opera d'arte si presenta alla co­ scienza senza essere cercata, talvolta compiuta in ogni sua parte. Questo 21 PU I, pp. 233-238. Si può rilevare che qui Hartmann dimostra solo l'esistenza di un processo inconscio relativo, perché, come si vedrà in seguito, il Lust, per essere percepito, richiede sempre l'esistenza di una coscienza - almeno di grado inferiore.

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fenomeno, variamente denominato ispirazione, fantasia, furor poeticus, che consente all'artista di uscire dalla routine e di creare qualcosa di veramente originale, non è altro che l'attività dell'inconscio 22 . L'inconscio svolge un ruolo di grande rilievo nella conoscenza percet­ tiva, nel pensiero, nella mistica. Il capitolo sulla percezione è quasi per intero una discussione dell'estetica kantiana. Con quella parte della Critica Kant ha prodotto un « cambiamento totale » nella filosofia affermando che lo spazio - Hartmann, come si vedrà fra poco, ritiene che il tempo non possa essere considerato negli stessi termini dello spazio - non è ricevuto passivamente dall'anima, ma è un suo prodotto. Il fatto che questa conce­ zione non sia stata ancora universalmente accolta è dovuta a quattro gravi errori in cui Kant è incorso. Anzitutto egli dal fatto che lo spazio ed il tempo siano un prodotto dell'anima ha tratto la conseguenza che essi esi­ stono solo nel pensiero, in altri termini si è fatto sostenitore di una conce­ zione idealistica, seguito in ciò da Fichte e da Schopenhauer. Per opporsi a questa tesi Hartmann dimostra in primo luogo l'esistenza del mondo esterno, servendosi di argomentazioni tutto sommato tradizionali 23 . Una volta ammesso un mondo esterno diverso da quello dell'io è necessario supporre in esso tante « diversità » quante ne troviamo nel nostro io. Deve esistere dunque nel mondo esterno fuori di noi qualcosa di almeno paral­ lelo allo spazio ed al tempo che si trovano in noi. E anzi a priori probabile, per la lex parsimoniae che regna in natura, che lo spazio in noi sia eguale 22 PU I, pp. 238-248. Una volta attribuita all'inconscio la capacità di produrre il bello, Hartmann non ha difficoltà a ricondurre allo stesso inconscio la produzione del bello in natura, di cui - nota polemicamente Hartmann - la teoria materialistica di Darwin non può dare alcuna spiegazione soddisfacente (PU I, pp. 248-252). 23 L'esistenza del mondo esterno è provata dalle seguenti considerazioni: 1) La vivacità delle rappresentazioni sensibili è superiore a quella delle rappresentazioni pro­ dotte dal nostro spirito. 2) Per avere un'impressione sensibile non basta avere i sensi « aperti » verso l'esterno. 3) Le rappresentazioni si susseguono nello spirito secondo una certa logica, le impressioni sensibili invece no. 4) Le impressioni derivanti da diver­ si sensi per lo più si confermano a vicenda. 5) Spesso la successione di impressioni di nessi di causa ed effetto fuori di noi è diversa dalla successione reale, nel senso che percepiamo prima l'effetto e poi la causa; ma se causa ed effetto sono sensazioni e null'altro, come potrebbe una sensazione antecedente essere causata da una seguente? 6) L'esistenza di molti individui che comunicano tra loro grazie ai corpi è spiegabile solo supponendo l'esistenza di un mondo esterno comune. 7) Le rappresentazioni « in­ terne » possono essere richiamate a piacere, quelle « esterne » no. Hartmann, come di consueto, ritiene che sulla base di queste argomentazioni, l'esistenza di un mondo ester­ no debba essere considerata non certa, ma solo probabile (PU I, pp. 282-286). Hart­ mann ha sviluppato e articolato in molte opere il suo « realismo trascendentale »: cfr. Hartmann 1871b, 1875b, 1875c, 1889, 1891e, 1894b, 1896b.

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a quello fuori di noi (PU I, p. 286 s.). Ci sono inoltre molte ragioni a posteriori per sostenere la realtà dello spazio: la corrispondenza fra le leggi spaziali, determinate in relazione alle nostre rappresentazioni dello spazio, e ciò che si sa essere il mondo esterno, le conferme reciproche che si danno vicendevolmente tatto e vista ed infine il fatto che solo tatto e vista diano sensazioni spaziali, il che risulterebbe poco comprensibile se lo spazio fosse una determinazione del soggetto rappresentante e non del mondo esterno (PU I, p. 287 s.). Il secondo grave limite della posizione kantiana è l'oscurità in cui è stato lasciato il modo in cui sorgono nel soggetto le rappresentazioni spa­ ziali. Di qui la necessità di elaborare una spiegazione soddisfacente della percezione, spiegazione che conduce di nuovo all'ipotesi dell'inconscio. Il punto di partenza del processo di costruzione dello spazio soggettivo è costituito dal materiale che i sensi - in particolare la vista - inviano al cervello. Escluso che il nervo visivo nelle sue terminazioni cerebrali ripro­ duca la disposizione spaziale delle modificazioni retimene, bisogna suppor­ re che l'immagine spazializzata sia prodotta da un'interazione fra l'attività dell'anima ed i caratteri di intensità e qualità dei messaggi sensori. La di­ versa intensità delle impressioni sensoriali non può tuttavia essere di alcuna utilità nel dar luogo alla spazializzazione; bisogna quandi riferirsi alla qua­ lità ed Hartmann, rifacendosi alla teoria dei « segni locali » di Lotze, sostie­ ne che sono tali segni a fornire quelle differenze qualitative a partire dalle quali viene creata la rappresentazione spaziale. Esiste nondimeno un'etero­ geneità completa fra segni locali e le rappresentazioni spaziali quali appa­ iono alla coscienza. È quindi necessario pensare all'intervento di un'attività spirituale che colmi l'abisso che separa i messaggi sensoriali qualificati lo­ calmente dalle rappresentazioni spaziali vere e proprie 24 . La mancata tematizzazione dell'intervento produttivo dell'inconscio è il terzo grande errore di Kant: egli si è trovato nella necessità di presentare l'intuizione spaziale come qualcosa di dato, a priori, il che è stato respinto a ragione da molti (PU I, p. 287 s.). L'ultimo grave difetto dell'estetica kantiana viene infine individuato nell'insostenibile equiparazione di spazio e tempo, laddove quest'ultimo non è per Hartmann prodotto dall'inconscio come lo spazio, ma è perce­ pito immediatamente nella sua oggettività come durata delle vibrazioni delle cellule cerebrali (PU I, pp. 298-300).

24 PU I, pp. 288-297. Cfr. Lotze 1852. Hartmann ha presente anche Wundt 1862.

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Lasciato Kant, Hartmann tratta ancora dell'intervento dell'inconscio nel coordinamento delle immagini percepite dai due occhi, nella costruzio­ ni della terza dimensione e si sofferma poi in particolare, riprendendo la posizione di Schopenhauer, sulla proiezione verso l'esterno in un oggetto della rappresentazione mediante il principio di causalità, applicato anch'es­ so in modo inconscio (PU I, pp. 303 ss.). Anche analizzando le varie attività del pensiero non è difficile per Hartmann mostrare in parecchi casi l'esistenza di processi almeno in parte non consci 25 . Ciò avviene ad esempio nel processo del ricordare, che per Hartmann significa far emergere una rappresentazione da collegare ad una rappresentazione presente. Qui la coscienza non ha presente preventiva­ mente la rappresentazione da richiamare né la sceglie facendo riemergere tutte le rappresentazioni possedute, perché questo porterebbe ad un col­ lasso della coscienza stessa. Bisogna quindi supporre che la scelta della rappresentazione adatta avvenga inconsciamente, ovvero ad opera dell'in­ conscio (PU I, p. 261 s.). Un tipo di intervento diverso da parte dell'inconscio è rilevabile nel processo mediante cui si divide una rappresentazione nelle sue varie parti. Scopo essenziale della divisione è trovare l'eguale in rappresentazioni di­ verse e questo modo di procedere, tipico per Hartmann delle generalizza­ zioni scientifiche - vien fatto l'esempio della gravitazione universale, rico­ nosciuta da Newton eguale in fenomeni diversi -, è una sorta di ispirazio­ ne, ancora opera dell'inconscio (PU I, pp. 263 s.). Questi due esempi sono sufficienti per dare un'idea del metodo che Hartmann segue in questo contesto, applicandolo poi a processi di pensie­ ro quali il riconoscere, l'unificare, il fissare rapporti di eguaglianza o di causalità e, in generale, l'argomentare nelle sue molteplici forme. Nel corso di tale trattazione egli si dimostra fine osservatore di processi psicologici; l'esistenza di un'attività di pensiero che si svolge al di sotto del livello della coscienza risulta nel complesso convincentemente dimostrata 26.

25 Anche in questo caso Hartmann non si limita ad argomentare la presenza del­ l'inconscio, ma si sforza di sviluppare valide ed originali soluzioni ad una serie di pro­ blemi tradizionali, quali la natura della memoria, l'essenza dell'argomentazione etc. Ciò rende piuttosto confuso il procedimento che dovrebbe condurre in modo specifico al­ l'inconscio. 26 PU I, pp. 264-280. Per quanto concerne le varie forme di ragionamento, secon­ do Hartmann l'attività dell'inconscio è particolarmente evidente nelle argomentazioni ellittiche. Quanto all'intuizione, questo modo di procedere, tipico dell'inconscio, che giunge al risultato immediatamente, è nella sua struttura identico a quello dimostrativo

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La più alta manifestazione dell'inconscio nell'uomo ed insieme la più alta forma di conoscenza è offerta dalla mistica, che per Hartmann non si identifica in foto con la religione, non ha a che fare con l'ascesi e con il ritirarsi dalla vita attiva, né con la capacità di compiere miracoli, né con forme di espressione immaginifiche e barocche. Essa, nella sua essenza, consiste nel manifestarsi alla coscienza di contenuti, senza che essi siano voluti dall'attività cosciente. Dato che ogni accadimento, anche psichico, deve avere dietro di sé una volontà, bisogna concludere che anche in que­ sto caso è operante l'inconscio. In senso lato anzi ogni attività psichica che si compie con l'ausilio dell'inconscio può essere considerata mistica. Misti­ che quindi non sono solo le dottrine dei santi e dei profeti che vengono presentate come rivelate da Dio, le filosofie che contrapponendosi al razio­ nalismo illuministico hanno rivalutato l'intuizione e la fede (Hamann e Jacobi), l'intuizione intellettuale di Fichte e Schelling, la produzione artisti­ ca, ma anche i fenomeni di chiaroveggenza di cui s'è parlato in riferimento agli istinti degli animali (PU I, pp. 311-315). In generale poi ogni filosofia, nella misura in cui è qualche cosa di originale, non è nel suo nucleo fonda­ mentale una costruzione logica, ma l'esplicitazione in termini razionali di un'intuizione mistica, tanto più che uno dei temi centrali della riflessione filosofica, il rapporto fra l'individuo e l'Assoluto, ha dei legami strettissimi con un contenuto di coscienza che, a differenza di tutti gli altri che posso­ no essere raggiunti o almeno esplicati in termini razionali, può rendersi presente all'uomo solo per via mistica, vale a dire nel sentimento (Gefùhl) dell'unità fra l'individuo e l'Assoluto (PU I, p. 315). Questo sentimento, che costituisce lo specifico della religione, può tuttavia facilmente degene­ rare, quando si pretende di annullare l'individuo nell'Assoluto, il che può avvenire solo con la morte dell'individuo, oppure, in senso inverso, quando si desidera che l'Assoluto si identifichi con l'individuo, una pretesa questa ancor meno facilmente realizzabile (PU I, pp. 316-318). Per concludere la « fenomenologia » dell'inconscio, non rimane che dare un cenno al suo manifestarsi in due fenomeni collettivi, rispettivamen­ te il linguaggio e la storia. Secondo Hartmann, che si rifa in particolare a Schelling, il linguaggio, in quanto condizione del pensiero, deve essere sorto anteriormente al pensiero stesso e quindi alla coscienza; non può vero e proprio, in quanto gli elementi che compongono i vari passaggi sono egualmente presenti,.seppure inconsciamente (PU I, pp. 272-275). La presenza costante dell'incon­ scio nel ragionamento è poi dimostrata dal fatto che gli uomini seguono nella maggior parte dei casi regole logiche ben precise senza conoscerle in alcun modo.

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essere quindi il prodotto della riflessione. Del resto è impensabile che un'opera così complessa ed al tempo stesso così organica sia il prodotto di un singolo individuo. Bisogna allora pensare - e qui Hartmann ritiene di non fare altro che esplicitare quanto è implicito nel pensiero dei maggiori linguisti tedeschi del XIX secolo: Humboldt, Heyse, Steinthal, - a uno Sprachbildungsinstinct, ovviamente inconscio, presente in ogni individuo ed in grado di armonizzare finalisticamente la creatività linguistica di tutti e di indirizzarla secondo i bisogni del pensiero e della comunicazione (PU I, pp. 254-260). Non molto originale è il capitolo in cui Hartmann dimostra la.presenza dell'inconscio nella storia. Hartmann ritiene che come nella natura an­ che nella storia sia individuabile uno sviluppo finalistico che conduce l'umanità verso un progressivo miglioramento, non in senso eudemonologico, giacché al contrario come si avrà modo di vedere, essa diviene sempre più infelice, ma nel senso di un crescente sviluppo delle sue facoltà intellet­ tuali. Ma come può avvenire ciò se assolutamente preponderante è il nu­ mero di coloro che perseguono fini particolari ed egoistici? La risposta di Hartmann è eguale nella sostanza a quella di Hegel, se si accettua il fatto che al posto dell'astuzia della ragione in questo caso si parla di ciò che si potrebbe chiamare l'astuzia dell'inconscio, che guida dall'esterno il corso della storia 27 .

27 PU I, pp. 322-330. Hartmann delinea anche una sorta di storia universale dello sviluppo spirituale dell'umanità, le cui tappe fondamentali sono, dopo la costituzione della famiglia, nell'ordine, lo stato, la chiesa e la società.

6. LA METAFISICA DI HARTMANN

1. IL PROBLEMA DELLA MATERIA.

Hartmann, che ritiene con la prima e la seconda parte della sua opera di avere sufficientemente provato l'esistenza dell'inconscio e di averne chiarito la natura, nella terza e conclusiva parte procede a sviluppare siste­ maticamente la sua metafisica, con l'intenzione di mostrare la possibilità di dar ragione anche dei principali problemi metafisici nei termini della teoria dell'inconscio. L'esposizione può essere organizzata intorno a quattro nu­ clei tematici principali: il problema della materia, quello della coscienza, la metafisica vera e propria (natura dell'inconscio-Assoluto, origine del mon­ do, derivazione del molteplice dell'uno) e, da ultimo, il problema del fine dell'universo e del destino dell'uomo (con il conseguente pessimismo), che sarà trattato nel capitolo seguente. Hartmann presenta la sua teoria della materia come un approfon­ dimento (Vertiefung] dei risultati delle scienze naturali. Egli condivide la teoria atomista ma ritiene che si debbano ammettere due tipi fondamen­ tali di atomi, quelli corporei, che si attraggono reciprocamente, e quelli eterei, dotati invece di una forza repulsiva. Gli atomi eterei costituiscono una sorta d'involucro degli atomi corporei, impedendo che la forza di at­ trazione che caratterizza questi ultimi li faccia concentrare tutti in un punto, e occupano quindi lo spazio esistente fra le molecole di atomi cor­ porei. L'opposizione fra gli atomi corporei e quelli eterei è di tipo polare e di conseguenza, per rendere spiegabile l'equilibrio delle forze nell'uni­ verso, bisogna supporre che il loro numero sia eguale. D'altra parte, per evitare la difficoltà di supporre un infinito in atto, bisogna anche pensare

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che il numero degli atomi sia finito 1 . Hartmann affronta poi la questione decisiva dell'esistenza o meno nell'atomo, oltre che della forza, anche di una componente materiale. Egli nota che l'idea dell'esistenza di un sostrato materiale trae origine da una considerazione ingenua delle nostre percezioni sensibili, che, viceversa, considerate senza pregiudizi, non attestano altro che l'azione di forze sui nostri sensi. La spontaneità dell'inferenza dalle percezioni sensibili ad una causa materiale spiega la difficoltà di liberarsi da questo pregiudizio. Facil­ mente confutabile d'altra parte è la tesi secondo cui a priori non sarebbe pensabile una forza realmente esistente che non faccia riferimento ad una materia. A priori, vale a dire in forza del principio di contraddizione, non v'è alcuna ragióne per negare l'esistenza reale ad una forza ed è piuttosto il concetto di materia che è in sé impensabile, perché manca di un conte­ nuto specifico, riducendosi le sue determinazioni tradizionali a determina­ zioni della forza (ciò che si oppone, ciò che è impenetrabile etc.). Pensare poi che negli atomi esista un centro materiale - e quindi esteso - a partire dal quale fare operare la forza, presenta difficoltà insuperabili, giacché la forza si riferisce sempre a un punto matematico inesteso. L'ammissione della materia in definitiva non risolve il problema della natura degli atomi ed anzi lo complica 2 . La concezione dinamica, che annovera qualificati precursori in Leibniz e Schelling, invece spiega adeguatamente come sia possibile l'interazio­ ne fra gli atomi ed in generale ogni altro problema. Rimane la questione di come debba essere pensato il punto d'uscita della forza, ovvero il centro degli atomi, una questione la cui soluzione Hartmann rimanda a più oltre, nel quadro della discussione del problema più generale del rapporto fra forza e spazio (PU II, pp. 113-117). Quanto alla natura della forza, si possono distinguere in essa il puro tendere (Streben) dal modo determinato di tale attività, ovvero da ciò che può essere detto il suo contenuto, il suo oggetto, il suo fine. Se si tien conto dell'immaterialità della forza, non sussistono difficoltà nel vedere in essa una realtà spirituale analoga a ciò che in noi chiamiamo volontà. Così Hartmann 1 PU II, pp. 96-106. In due aggiunte del 1875 Hartmann si mostra più possibilista circa l'esistenza degli atomi eterei (PU II, p. 484 s.), mentre nella prefazione del 1904 (PU I, p. LV) la teoria è esplicitamente abbandonata e sostituita con l'ipotesi secondo cui gli atomi corporei sono dotati contemporaneamente di forza attrattiva e repulsiva. 2 PU II, pp. 106-113. Hartmann con queste e con altre argomentazioni che è superfluo riferire riprende le tradizionali difficoltà che sorgono nelle concezioni « materialistiche » degli atomi.

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può affermare che anche gli atomi sono riconducibili a volontà e rappresen­ tazione, ovvero a manifestazioni dell'inconscio (PU II, pp. 117-119). Da questo punto di vista risulta ora agevole spiegare che cosa sia e come sorga lo spazio: esso esiste dapprima idealmente come rappresenta­ zione inconscia che determina l'esplicarsi della forza-volontà degli atomi e poi realmente, una volta avvenuta tale esplicazione. Lo spazio è quindi costituito nel suo insieme dal reciproco entrare in contatto e limitarsi delle forze-atomi. Se poi è la forza a produrre lo spazio, il suo centro, il suo punto d'uscita deve trovarsi al di fuori dello spazio; di qui l'illegittimità di porre il problema del centro spaziale dell'atomo, fatta salva ovviamente la legittimità di fissarne uno immaginario per le necessità dello studio della natura (PU II, pp. 120-122). La risoluzione degli atomi in manifestazioni di un'attività spirituale con la conseguente eliminazione della materia è per l'economia complessiva del sistema di Hartmann di grande importanza, perché, eliminando il classico dualismo materia/spirito, rende plausibili i vari interventi dell'inconscio nella corporeità che sono stati esaminati nella prima parte della Filosofia dell'inconscio. L'intervento dell'inconscio non ha per oggetto una realtà toto genere diversa quale potrebbe essere quella materiale, ma una realtà che è in definitiva anch'essa spirituale e quindi gli è omogenea (PU II, p. 119). Nel suo « approfondimento » filosofico della concezione della materia Hartmann prospetta anche la necessità d'interpretare monisticamente le molteplici forze che costituiscono gli atomi come particolari determinazio­ ni di un'unica forza. Se infatti esse non sono in sé spazializzate, non v'è ragione di pensare che esse siano originariamente sostanze separate. Se così fosse d'altra parte, a meno di ammettere qualcosa di simile alla leibniziana armonia prestabilita, non si spiegherebbe come potrebbero agire l'una sull'altra. Inoltre non si potrebbe comprendere come le varie determina­ zioni spaziali ideali di ciascuna forza - che antropomorficamente si potreb­ bero chiamare « soggettive » - potrebbero accordarsi « oggettivamente » nella costituzione di un unico spazio. Conviene quindi supporre che le varie forze non siano realtà a sé stanti a tutti gli effetti, ma particolari determinate attività di un'unica forza, appunto l'inconscio 3 . Quale che sia la radice metafisica degli atomi tuttavia Hartmann li considera nello sviluppo del suo pensiero come realtà - almeno relativa3 PU II, p. 123. In due aggiunte del 1904 (PU II, pp. 493-497) Hartmann presenta lo spazio come una volizione dell'Uno-Tutto all'interno del quale si dispongono le forze atomiche, che in definitiva quindi non creano lo spazio ma lo riempiono soltanto.

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mente - autonome, che costituiscono gli elementi primi di cui sono com­ posti i corpi complessi, come risulta dalla sua teoria dell'individuo. Tale teoria, la cui trattazione è distribuita in vari capitoli 4 , può essere conside­ rata da due punti di vista; o partendo dall'alto, cioè mostrando come dall'Uno-tutto si sviluppi la molteplicità degli individui, oppure partendo dal basso, cioè mostrando come a partire dagli individui semplici, appunto gli atomi, vengano a costituirsi gli individui complessi. Hartmann individua preventivamente cinque caratteri definitori del concetto di individuo: 1) unità spaziale; 2) unità temporale (continuità del suo agire); 3) unità della causa (interna); 4) unità del fine; 5) unità dell'azio­ ne reciproca delle sue parti (PU I, pp. 124-126). Negli atomi, in cui risul­ tano soddisfatte le condizioni l)-4), ma non la 5), in quanto essi sono per definizione privi di parti, la costituzione in individui si identifica con il loro sorgere ed è fondata sull'unità della particolare attività dell'inconscio che ne sta all'origine 5 . Se gli atomi sono individui, di necessità gli individui « polimeri » sono « somme » di altri individui. Ed infatti per Hartmann ciascun individuo non è qualcosa di chiuso in sé, ma può divenire parte di un individuo di livello superiore. Fra l'atomo e l'individuo di livello superiore possono al­ tresì sussistere individui polimeri intermedi. In proposito Hartmann si di­ lunga in esemplificazioni che si riferiscono agli individui organici - gli unici individui in cui si realizzano tutte le condizioni sopra indicate - per mostra­ re che molte delle loro parti - le cellule, i centri nervosi su su fino ai vari organi - hanno tutti i titoli per essere considerati a loro volta individui 6. Anche gli individui spirituali coscienti, il cui carattere definitorio è l'unità della coscienza, dipendono da individui di livello inferiore. Dato

4 Dell'individuazione si occupa il cap. IV della seconda parte (con particolare riferimento al carattere dell'uomo), il cap. VI (che chiarisce il concetto d'individuo) ed il cap. XI (in riferimento alla dimensione più specificamente metafisica degli individui) della terza parte. 5 PU II, p. 148 s. Hartmann ammette che in casi particolari si possa parlare d'in­ dividualità anche in assenza di qualcuna delle condizioni indicate. Così ad esempio sono da considerarsi individui anche vari gruppi (uno sciame di api, un popolo) pur in assen­ za di una continuità spaziale (PU II, p. 505). 6 PU II, pp. 130-147. Sfruttando a suo modo i risultati della fisiologia dell'epoca Hartmann distingue cinque livelli di individui organici, vale a dire - in ordine di cre­ scente complessità - le plastidule, le parti differenziate all'interno della cellula, le cellule, gli organismi pluricellulari, gli organismi polimeri veri e propri (PU II, p. 505). Secondo Hartmann questa teoria non è altro che una riproposizione, su una base scientifica più approfondita, della teoria delle monadi leibniziana, con la differenza che mentre per

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che, come si vedrà tra poco, l'esistenza di una coscienza dipende dagli atomi, condizione della loro esistenza è l'esistenza di un individuo organico 7 . Ci si può domandare ora che cosa faccia sì che un gruppo di atomi o, più in generale, di individui di livello inferiore venga a costituire un indi­ viduo superiore, giacché conformemente al suo concetto, un individuo non si riduce alla somma delle sue parti. La soluzione prospettata da Hartmann chiama in causa ancora una volta l'elemento spirituale: ogni individuo composto da più parti si costituisce come tale nella misura in cui alle varie attività dell'inconscio che si esplicano negli atomi e negli individui inferio­ ri, se ne aggiunge un'altra in grado di coordinare ed integrare le attività dei livelli inferiori, che per comodità Hartmann chiama nel seguito anima 8.

2. NATURA E GENESI DELLA COSCIENZA. Veniamo ora a una delle parti più discusse - e discutibili - della Filosofia dell'inconscio: la spiegazione della genesi della coscienza. Hart­ mann si premura anzitutto di precisare che la coscienza non va identificata con l'autocoscienza, definita come «la coscienza del soggetto della mia attività spirituale », vale a dire della causa di tale attività. L'autocoscienza è dunque un caso particolare della coscienza, la coscienza di un determi­ nato oggetto; bisogna che esista già la coscienza perché si abbia l'autoco­ scienza. Il carattere secondario di quest'ultima è d'altra parte confermato dal fatto che la rappresentazione del soggetto non è sempre presente alla coscienza - solo il filosofo, attraverso la riflessione, ne avverte la necessità (PU II, p. 29 s.). Leibniz ciascun individuo-monade è una sostanza a sé, per Hartmann esso è solo un'at­ tività particolare dell'unica sostanza, una posizione questa che pare avvicinarlo a Spinoza. 7 PU II, pp. 128-130. Anche gli individui spirituali coscienti possono a loro volta essere parti di individui coscienti di livello superiore, una precisazione da tener presente, perché, come si vedrà, ciascun atomo è in ultima analisi un individuo di tale tipo. 8 PU II, pp. 154 e 256. Hartmann sviluppa così una concezione dell'individuo che si potrebbe dire « piramidale ». In individui molto complessi, composti da numerosi o numerosissimi individui di livello inferiore (ad es. le cellule) si devono supporre presenti oltre alle attività specifiche dell'inconscio nei singoli atomi, altre attività non direttamen­ te legate agli atomi che organizzino e coordinino le attività atomiche nelle plastidule, poi, ancora, altre attività che dalle plastidule facciano sorgere gli organismi intracellulari, poi, ancora, altre attività per le cellule, poi per gli organismi pluricellulari, infine per l'organismo polimero nel suo complesso. Si ripresenta qui il problema - già toccato in riferimento al finalismo - di chiarire il modo in cui le attività che costituiscono via via gli organismi complessi si rapportino alle attività atomiche.

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Neppure l'operare con le forme della sensibilità è il carattere specifico della coscienza: anche l'inconscio - in alcuni casi - conosce attraverso spa­ zio e tempo. Allo stesso modo né il ricordare né il confrontare tra di loro le rappresentazioni è essenziale alla coscienza: vi è spesso coscienza senza che questi processi abbiano luogo (PU II, pp. 29-31). Per giungere a definire l'essenza della coscienza e chiarirne la natura il modo di procedere più sicuro consiste allora nel richiamarsi alle scienze naturali. Esse mostrano in modo indiscutibile che non esiste coscienza sen­ za cervello o, più in generale, senza materia 9. Riferire la coscienza alla materia tuttavia, nei termini del sistema di Hartmann, significa riferirla a quella specifica attività costituita da volontà e rappresentazione che da luogo alla materia. Poiché ciò che da realtà alle cose è la volontà e null'altro, si deve supporre che la coscienza derivi in qualche modo dalla volontà stessa. D'altra parte se le rappresentazioni - che costituiscono il contenuto della coscienza - sono presenti anche nell'attività inconscia, ciò che distin­ gue la coscienza dall'inconscio non può essere la rappresentazione in sé, ma un suo modo d'essere particolare. Il problema è allora quello d'indivi­ duare quale sia tale carattere e di spiegare in che modo esso derivi dall'in­ conscio (PU II, p. 32 s.). A questo punto Hartmann anticipa la soluzione del problema, soluzio­ ne che mostra quali siano i reali motivi ispiratore della sua concezione della coscienza. D'altra parte la formulazione che ne viene data qui è nella sostan­ za imprecisa, tanto che lo stesso Hartmann, nel seguito, dovrà ritornare su di essa per rettificarla. Apprendiamo dunque che la specificità della rappre9 A questa conclusione Hartmann giunge attraverso una serie di considerazioni sulla posizione e sul ruolo del cervello all'interno dell'organismo: esso è il più alto pro­ dotto dell'attività plasmatrice naturale, ha una grande attività organica al suo interno (vi affluisce molto sangue etc.), ma non ha un significato immediato per il resto del corpo, che, entro certi limiti, può sopravvivere anche senza di esso. Tutto ciò fa pensare che esso debba svolgere una funzione speciale. D'altra parte è individuabile una precisa correlazione fra la struttura del cervello e l'attività di pensiero: a parità di qualità (vale a dire a parità di circonvoluzioni cerebrali), quanto più grosso è il cervello, tanto mag­ giori sono le capacità intellettuali di un individuo; quanto più il pensiero viene esercita­ to, tanto migliori divengono le prestazioni intellettuali, il che non si spiegherebbe se il pensiero fosse di natura esclusivamente spirituale. L'attività di pensiero comporta con­ sumo di energia e stanca l'organismo; danni organici al cervello o modificazioni del suo equilibrio chimico (droghe etc.) pregiudicano l'attività di pensiero. Infine anche quelle attività intellettuali che sembrano essere più indipendenti dall'attività organica (sogni, ritorni della coscienza dopo la morte) ad un più attento esame si rivelano anch'esse condizionate dal cervello. Tutto ciò prova che la coscienza dipende dal cervello, ma non prova - e qui Hartmann si distacca dal materialismo - che si risolva interamente nell'at­ tività del cervello (PU II, pp. 16-28).

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sentazione cosciente consiste nel suo sussistere indipendentemente da una volontà che la voglia realizzare, anzi addirittura in opposizione ad essa. In altri termini, la rappresentazione cosciente ha i caratteri di una « emancipa­ zione » dalla volontà. Con ciò, aggiunge Hartmann, si pongono le premesse per la redenzione del mondo, un'affermazione quest'ultima che svela più di ogni altra l'ispirazione schopenhaueriana di tutta la teoria (PU II, p. 33). La rappresentazione cosciente è fatta derivare dal modo d'interagire degli atomi fra di loro. Si è visto che la realtà spaziale è costituita dalle forze atomiche che in sé si estenderebbero all'infinito se, nel loro espandersi, non incontrassero le forze degli altri atomi egualmente tendenti all'infinito. Le varie forze esercitano quindi le une sulle altre un'opposizione che ne limita l'espandersi. A causa di essa la forza-volontà di ogni atomo non realizza interamente il suo contenuto, la sua rappresentazione (l'espandersi all'infinito) e questa non-realizzazione si caratterizza come un ritorno della forza dalla periferia verso il centro dell'atomo. Come di fronte ad ogni negazione del proprio volere, la volontà si oppone ad essa e tale opposizio­ ne all'opposizione delle altre volontà - che assume la forma di uno « stu­ pore » o « meraviglia » e che è d'altra parte troppo debole per vincere le altre forze - è propriamente il momento del sorgere della coscienza: il « ritorno della volontà in se stessa assume la forma della rappresentazione, che, entro certi limiti, può essere detta non volontà della volontà » 10. La coscienza risulta in definitiva un insieme di rappresentazioni non dipendenti dalla volontà, senza un soggetto che le percepisca, a meno che, 10 PU II, p. 37 s. Qui la teoria della « emancipazione » della rappresentazione riceve una prima correzione: non si può dire infatti che la rappresentazione sorga del tutto indipendentemente dalla volontà: essa è infatti pur sempre il risultato di un atto del volere, un atto che in questo caso non raggiunge il suo scopo. Quanto al resto, tale spiegazione - che per molti aspetti richiama la posizione di Fichte (l'Io che diviene cosciente nella misura in cui si scontra con il non-lo) - non chiarisce in che modo il processo dinamico dell'esplicarsi della forza, una volta limitato, debba dar origine ad una realtà qualitativamente diversa (ideale) quale è la rappresentazione (Hartmann fra l'altro sottolinea più volte la diversità radicale della natura della rappresentazione con­ scia da quella della rappresentazione inconscia). La difficoltà è del resto acutamente sentita dallo stesso Hartmann che vi torna a più riprese nelle sue opere, senza peraltro modificare in modo significativo la posizione qui esposta. Nella Kategorienlehre egli presenta il mondo della rappresentazione cosciente come qualcosa che si rapporta al mondo reale « in modo perpendicolare », come i numeri immaginari al sistema dei numeri reali (Hartmann 1896c, voi. I, p. 35). Si deve infine rilevare come questa teoria conduca necessariamente ad ammettere l'esistenza di una coscienza - seppure rudimen­ tale - in ogni atomo. Questa tesi, proposta dapprima in forma dubitativa nella prima edizione (PU II, p. 122 s.), è poi chiaramente affermata nelle aggiunte (PU II, p. 492) e nella tarda introduzione (PU I, p. LV).

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come farebbe supporre la definizione formale che finalmente Hartmann da della coscienza - « lo stupore (Stupefaction) della volontà riguardo all'esi­ stenza della rappresentazione da lei non voluta e pure dolorosamente pre­ sente » - non si finisca con l'attribuire alla volontà, per definizione incon­ scia, la coscienza stessa 11 . In quanto la rappresentazione è una non-soddisfazione della volontà, essa è necessariamente collegata ad un sentimento di dolore, anzi in ultima analisi si riduce ad esso 12 . Poiché inoltre, come si è accennato e come si vedrà meglio fra poco, i dolori (e piaceri) sono diversi fra loro soltanto quantitativamente, per giungere a rappresentazioni complesse e qualitati­ vamente determinate quali si incontrano nella coscienza, deve aver luogo una trasformazione del quantitativo nel qualitativo, trasformazione che si realizza attraverso un complesso lavoro di elaborazione e sintesi compiuto a vari livelli dalle diverse attività psichiche 13 . Dalla sua teoria della coscienza Hartmann ricava una serie di impor­ tanti corollari. In primo luogo egli afferma che le attività spirituali non materializzate non possono da sole produrre coscienza, perché, esplican­ dosi al di fuori di uno spazio comune, non sono nelle condizioni di entrare in opposizione reciproca. Perché la coscienza abbia luogo bisogna che esse si riferiscano a degli atomi. Tale argomento sarà poi ripreso per dimostrare che l'Assoluto in sé è privo di coscienza. Un discorso analogo vale per la volontà considerata in sé, cioè al di fuori di una sua determinata esplicazio­ ne. Essa non può produrre coscienza, non può entrare in una coscienza ed è quindi in sé inconoscibile 14 . 11 PU II, p. 33 s. Poco più oltre la volontà viene detta « sorprendersi » (stutzen) di fronte all'apparire di questo tipo di rappresentazione, il che conferma l'impressione che Hartmann attribuisca surrettiziamente alla volontà la capacità di percepire. 12 PU II, pp. 42-45. In questo contesto Hartmann sviluppa la tesi che solo del dolore vi è una coscienza immediata mentre del piacere (della soddisfazione del volere), si ha solo una coscienza riflessa, nel senso che esso può derivare soltanto dal confronto con altri casi simili in cui s'è sperimentato un'insoddisfazione della volontà. 13 PU II, pp. 39-41 e le importanti aggiunte pp. 472-475. Questa teoria dovrebbe spiegare anche il sorgere nell'uomo delle qualità secondarie che per Hartmann sono solo soggettive, essendo gli atomi forniti unicamente di qualità primarie. Sull'intera teoria della coscienza in Hartmann cfr. in particolare Ziegler 1910, pp. 73-120, un'esposizione critica che ha anche il merito di situare storicamente la posizione di Hartmann, in rife­ rimento agli altri « psicologi genetici » a lui contemporanei (Johannes Mùller, Helmholtz, Wundt). 14 PU II, pp. 45-51. È facile però per l'uomo cadere nell'illusione di poterla cono­ scere, o dando arbitrariamente un contenuto rappresentativo a quell'entità che egli sup­ pone causa delle sue volizioni o « effetto » dei motivi, oppure identificando con essa i sentimenti che accompagnano la volizione o l'oggetto della volizione stessa.

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II carattere reattivo della coscienza - la reazione ha luogo o non ha luogo - esclude che si possa parlare di livelli diversi di coscienza: chi parla di gradi di coscienza si riferisce in realtà ai diversi gradi di attenzione questi sì variabili - oppure ai diversi gradi di autocoscienza, anch'essi va­ riabili, ma su un piano totalmente diverso dalla coscienza. Ne consegue ancora che tutte le coscienze - da quelle più rudimentali via via fino a quella dell'uomo - sono qualitativamente eguali: esse si differenziano solo per la forza e la ricchezza dei contenuti (PU II, pp. 51-60). Nonostante queste premesse Hartmann recupera alla fine un'immagi­ ne della coscienza che non si distacca di molto da quella tradizionale. Si è visto infatti che Hartmann ammette senz'altro l'esistenza di un pensiero conscio, in altri termini di uri attività che si svolge o almeno si manifesta a livello di coscienza. Lo stesso Hartmann, affrontando il problema dell'uni­ tà della coscienza, dopo aver spiegato che sua condizione necessaria è l'esi­ stenza di una buona comunicazione a livello fisiologico fra le parti interes­ sate del cervello (PU II, pp. 60-64), precisa che essa non potrebbe realiz­ zarsi senza l'esistenza di un soggetto che unificasse le varie rappresentazio­ ni in quello che viene chiamato Io, soggetto che è identificato con una specifica funzione dell'inconscio 15. Bisogna insomma pensare che la vo­ lontà inconscia, dopo essersi « stupita » per la presenza delle rappresenta­ zioni consce, abbia in sé comunque una tendenza ad operare su tali rappre­ sentazioni, con il pensare, il confrontare etc., che tale tendenza si esplichi nel rispetto delle regole formali della ragione e che il risultato di queste operazioni sia riproposto nell'ambito delle rappresentazioni consce 16. 15 PU III, pp. 120-127. Naturalmente, data l'impossibilità per l'inconscio di dive­ nire immediatamente oggetto della coscienza, l'autocoscienza risale al soggetto seguen­ do lo stesso processo che ha luogo nella conoscenza di qualsiasi oggetto: a partire da determinati effetti, mediante il principio di causalità, se ne ipostatizza un'ipotetica causa. 16 Si dovrebbe quindi parlare anche in questo ambito di quel Vernunfttrieb la cui esistenza è esplicitamente affermata nella PSB, sebbene unicamente in riferimento al­ l'agire morale (cfr. sotto). Negli anni successivi alla pubblicazione della PU Hartmann, stimolato dalle critiche ma soprattutto spinto dalla logica interna del sistema, radicalizza la sua teoria dell'inconscio psicologico che risulta alla fine certamente più compatta e coerente, ma nel suo complesso assai più speculativa e lontana dall'esperienza, sulla cui base pure essa era sorta (cfr. in particolare PU I, pp. XXXII-XLVII [1904], ma anche Hartmann 1900 e 1903, dove Hartmann si sforza di dare una formulazione rigorosa ai vari significati di inconscio [cfr. al riguardo Darnoi 1967, pp. 61-74]). In particolare, per fissare la distinzione fra conscio ed inconscio, Hartmann sottolinea il carattere esclusi­ vamente passivo della coscienza - risultato dello scontro fra volontà: la coscienza non può mai attestare attività, ma solo passività, risultanti di attività che si compiono al di fuori di essa. Hartmann elimina così ogni accenno all'attività e addirittura al pensare conscio. La coscienza diviene semplicemente il luogo in cui - parzialmente - si manife-

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3. LA METAFISICA DELL'INCONSCIO: I RAPPORTI CON IL TEISMO E LA TRADIZIONE FILOSOFICA.

Uno dei capisaldi fondamentali della metafisica di Hartmann è costi­ tuito dall'affermazione del monismo: esiste un unico principio - l'inconscio - ed esso è l'unica sostanza; la molteplicità è solo fenomenica. Per provare questa tesi Hartmann osserva in primo luogo che se l'esperienza attesta una molteplicità di realtà materiali e spirituali coscienti, essa non prova in alcun modo l'esistenza di una molteplicità di entità inconsce. Per ragioni di semplicità ed economia - una curiosa applicazione del principio del rasoio di Occam - bisogna supporre, fino a prova contra­ ria, l'esistenza di un unico inconscio (PU II, pp. 155-157). Vi sono d'altra parte parecchie ragioni positive a favore del monismo. In primo luogo si è visto che solo desostanzializzando gli atomi e facendone risalire l'attività ad un unico principio è possibile spiegare in modo convincente la loro intera­ zione. Inoltre il fenomeno della scissione negli organismi inferiori e, nel­ l'uomo, della generazione mostra che anche l'anima degli organismi com­ plessi non può essere concepita come una realtà sostanziale pienamente autonoma: infatti essa è in grado di dividersi in più parti conservando comunque la capacità di svolgere le sue funzioni 17 . Infine poiché l'inconsta ciò* che l'inconscio fa - una sorta di schermo sulla quale si proiettano i risultati dell'attività psichica che risulta totalmente inconscia. Questa posizione è espressa coerentemente nella terminologia che Hartmann adotta per distinguere le due dimensioni fondamentali dello psichico: da una parte i fenomeni psichici - appartenenti alla co­ scienza ma passivi -, dall'altra le attività psichiche - attive ma per definizione inconsce. Ciò che è specifico dell'inconscio - l'attività in generale - non potrà mai divenire con­ scio e, reciprocamente, ciò che è specifico della coscienza - la passività - non potrà mai divenire inconscio. In questo modo vengono esclusi dall'ambito dell'inconscio tutti quei, processi che nella psicologia empirica in un modo o nell'altro erano serviti di fondamen­ to all'ipotesi dell'inconscio: i contenuti di coscienza oscuri, ciò cui non è rivolta l'atten­ zione, i contenuti di coscienza immediati, non riflessi, ciò che non si riferisce all'io; la stessa memoria - intesa come permanenza latente di fenomeni psichici (appartenenti quindi alla coscienza) - non è più spiegata da Hartmann mediante il ricorso all'incon­ scio, ma mediante « tracce » e « disposizioni » materiali. Simmetricamente l'inconscio viene « purificato » da tutto ciò che poteva richiamare l'idea di una passività. In primo luogo le « rappresentazioni inconsce » - parallelamente alla riformulazione in termini formali del concetto metafisico di « idea » (cfr. sotto) - vengono ora intese non come « contenuti » dell'inconscio, ma come determinazioni intrinseche alla sua attività. Que­ sta riformulazione della teoria dell'inconscio psicologico mette capo così ad un'antropo­ logia in cui la vita conscia - molto di più di quanto avverrà in Freud - svolge un ruolo assolutamente marginale. 17 PU II, pp. 157-159. Il pregiudizio che conduce ad una concezione sostanzialistica dell'anima è la sua identificazione con la coscienza.

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scio stesso, in quanto creatore dello spazio, è fuori dallo spazio, non può essere in sé molteplice, essendo lo spazio l'unico principium individuationis a noi noto 18. Hartmann afferma di rifarsi per il suo monismo a Spinoza, uno Spinoza riveduto e corretto alla luce delle acquisizioni della moderna scienza della natura. D'altra parte il monismo è una posizione dominante nella storia della filosofia, giacché lo hanno sostenuto, pur in forme diverse, la tradizione mistica (Eckhart), il naturalismo (Bruno), e, infine, i grandi del­ l'Ottocento tedesco: Fichte, Schelling, Hegel e Schopenhauer 19 . Quest'unica sostanza - l'Assoluto - si caratterizza anzitutto negativa­ mente per la mancanza di coscienza. Le ragioni che hanno condotto la tradizione ad attribuire all'Assoluto la coscienza non reggono ad un'analisi critica: si attribuisce a Dio la coscienza per giustificare la teleologia del mondo; ma si è visto che per dar ragione del finalismo non c'è bisogno di un principio cosciente. Neppure è giustificato pensare che la coscienza spetti di diritto al principio primo in quanto qualcosa di assiologicamente superiore all'inconscio: al contrario è l'inconscio ad essere superiore alla coscienza (Hartmann dice al riguardo che per evitare questi equivoci sa­ rebbe meglio parlare di Uberbewusstes piuttosto che di Unbewusstes), in quanto quest'ultima, per realizzarsi, necessita della scissione fra soggetto ed oggetto, fa necessariamente riferimento alla materia ed è discorsiva piut­ tosto che intuitiva. Attribuire la coscienza all'Assoluto non significa innal­ zarne, ma sminuirne la dignità (PU II, pp. 175-177). Ancora, se l'Assoluto possedesse coscienza, alcuni aspetti della realtà fenomenica risulterebbero difficilmente spiegabili. Ad esempio non si comprenderebbe perché l'unità della coscienza degli individui dovrebbe aver bisogno, per realizzarsi, di adeguati collegamenti tra le cellule cerebra­ li, né si capirebbe come le singole coscienze potrebbero distinguersi le une dalle altre 20. 18 PU II, p. 161 s. L'inconscio si trova invero nel tempo, ma il tempo di per sé non produce molteplicità. 19 PU II, pp. 165-170. Anche il teismo per Hartmann si riduce in ultima analisi al monismo, perché le creature non sono affatto sostanze autosufficienti, ma dipendono per la loro esistenza in ogni istante da Dio e quindi sono assimilabili a fenomeni di un'unica sostanza. 20 PU II, p. 180 s. Varrebbero in questo caso le ragioni che conducono ad affer­ mare l'esistenza di un unico inconscio (estraneità allo spazio, etc.). Hartmann confuta anche una serie di argomentazioni che sembrerebbero condurre alla conclusione che l'Assoluto possiede la coscienza. All'obiezione che se l'inconscio produce la coscienza negli individui, esso deve possedere già in sé qualche traccia di coscienza, Hartmann

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Hartmann, in specifica polemica con il teismo, dimostra anche come non sia lecito attribuire all'Assoluto neppure la personalità, definita qui come l'identità dei vari atti di autocoscienza nel soggetto che sta alla base di una determinata coscienza: se non c'è nell'Assoluto coscienza, non v'è autocoscienza e quindi neppure personalità. Del resto si vuole attribuire all'Assoluto la personalità unicamente per potere avere in esso un interlo­ cutore nel rapporto religioso ed in particolare nella preghiera. Ma nell'epo­ ca moderna, in cui l'interesse per la preghiera va diminuendo, c'è da cre­ dere che gradualmente questa falsa opinione si estinguerà da sé (PU II, pp. 188-192). Se si prescinde dall'attribuito della coscienza e da quelli ad esso col­ legati (autocoscienza, personalità), l'Assoluto di Hartmann possiede tutti gli attributi del Dio del teismo, ad esempio onnipotenza ed onniscienza, cosicché non sussiste un disaccordo fondamentale fra filosofia dell'incon­ scio e il teismo; anzi Hartmann è dell'opinione che alla lunga quest'ultimo dovrà far sue le tesi della filosofia dell'inconscio, filosofia che costituirà il fondamento di un cristianesimo rinnovato (PU II, pp. 193-198). Questi spunti documentano il forte interesse di Hartmann per la pro­ blematica religiosa, interesse che si dispiega interamente nelle più tarde opere sistematiche sulla filosofia della religione. Hartmann afferma che la religiosità, intesa come il sentimento di unità con Dio, costituisce un elemento strutturale dello spirito umano 21 . Quanto alle rappresentazioni religiose, alla loro formazione concorre non solo il pensiero astratto, e quindi non necessariamente devono coincidere con i risponde che è sufficiente pensare che in esso vi siano le condizioni per il sorgere della coscienza. Lo stesso si può dire per il nesso teleologia-coscienza: se fa parte del piano finalistico dell'inconscio il dar luogo alla coscienza, essa deve far parte della natura dell'inconscio: Hartmann risponde che l'inconscio ha in sé la coscienza come « proget­ to », ma non come realtà, nella sua dimensione soggettiva. Sul problema dell'esistenza di una forma parziale e rudimentale di coscienza nell'Assoluto in relazione alla dottrina dell'infelicità metafisica dell'inconscio cfr. più oltre. 21 Posto che ogni sentimento, nei termini della psicologia di Hartmann è sempre strettamente legato alla volontà e alla rappresentazione, uno dei compiti principali della filosofia della religione consiste nell'analizzare oltre alle varie forme del sentimento re­ ligioso (per Hartmann esiste anche un sentimento religioso sensibile e uno estetico, che tuttavia nella maggioranza dei casi sono giudicati fenomeni negativi [Hartmann 1882c, p. 41 s.]), le varie forme delle rappresentazioni religiose e della volontà religiosa. In questo contesto Hartmann - conformemente al suo realismo ed in polemica con le interpretazioni della religione come ideale (Lange) - trova modo di sottolineare la neces­ sità di porre a fondamento del sentimento religioso un contenuto oggettivo: le rappre­ sentazioni religiose, indispensabili al sorgere del sentimento religioso, devono essere insomma rappresentazioni di un Assoluto.

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risultati dell'indagine scientifica; è quindi comprensibile che di frequente si siano prodotti e si producano conflitti fra religione e filosofia. Tuttavia, poiché queste due attività dello spirito umano « sono cresciute sullo stesso terreno », tali conflitti non possono essere insanabili: la critica filosofica, lungi dal distruggere la religione, ne stimola l'evoluzione e quindi deve essere considerata « la migliore amica e la provvidenziale soccorritrice del­ la religione » 22. Si comprende così come Hartmann possa attribuire molta importanza alla sua filosofia come supporto teorico del necessario rinnovamento della religiosità, rinnovamento reso indispensabile dalla situazione di « crisi » del protestantesimo dell'epoca, che Hartmann denuncia a più riprese 23 . Dopo aver sostenuto la sostanziale estraneità ed anzi l'opposizione della cultura e della scienza moderna al cristianesimo storico (Hartmann 1870), egli rivolge una dura critica verso il tentativo di conciliazione fra epoca moderna e cristianesimo rappresentato dal protestantesimo liberale. Hartmann sostiene che tale forma di religione non ha il diritto di conside­ rarsi in senso stretto cristiana. Le radici di questo distacco vanno individua­ te addirittura nella Riforma e in particolare nel suo rifiuto di accettare la dottrina dell'infallibilità del magistero ecclesiastico; esso toglie le basi per la fede nella Scrittura e, con essa, per la fede in un contenuto positivo del cristianesimo stesso. In definitiva il protestantesimo liberale, nella misura in cui si fa propugnatore di una riflessione teologica ancor più libera, finisce per divenire il « becchino » (Totengràber) del vero cristianesimo (Hartmann 1874, pp. 11-15). Ciò è provato dal modo estrinseco e superficiale in cui la riflessione teologica si rifa tanto alla versione paolina quanto a quella giovannea del Vangelo; quanto alla sua pretesa di appoggiarsi ad un supposto messaggio originale di Cristo, Hartmann nota che l'insegnamento di Cristo 22 Hartmann 1882c, p. 15. Hartmann 1882 costituisce per certi aspetti la realizza­ zione di questo programma di confronto critico fra religione e filosofia. In essa viene compiuta una sistematica ricognizione storica del fenomeno religioso condotta, come avverrà per l'analisi della morale, tracciando le linee di un'evoluzione che vede il pro­ gressivo affermarsi di concezioni religiose sempre più elevate. I due momenti fondamen­ tali di questo sviluppo sono rappresentati dal naturalismo (che Hartmann chiama anche enoteismo e che è proprio di tutte le religioni dell'antichità) e dal soprannaturalismo (il monismo « astratto » delle religioni indiane ed il teismo nelle sue varie forme, via via fino al monismo « concreto », le cui premesse sono appunto poste dalla filosofia di Hartmann). Sulle specificità della filosofia della religione di Hartmann cfr. i due estesi lavori di Steffes 1921 (575 pp.), e di von Rintelen 1924 (227 pp.). 23 Hartmann ha dedicato alla questione varie opere polemiche che hanno suscitato una vasta eco e saranno spesso chiamate in causa durante la polemica sul pessimismo: Hartmann 1870, 1874 e 1880.

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da una parte è pesantemente condizionato dalle aspettative ebraiche di una teocrazia terrena, dall'altra è permeato da una forte dimensione trascenden­ te e pessimistica, prospettive che sono in netto contrasto tanto con lo spirito dei tempi, quanto con il complesso della riflessione teologica protestante, immanentistica e ottimistica. La stessa morale di Gesù, quando non condi­ zionata dal suo « egoismo trascendente » (la speranza di raggiungere la fe­ licità individuale nell'aldilà), non ha un contenuto tale da garantirgli quella posizione eccezionale nella storia dell'umanità che i protestanti liberali vor­ rebbero. Gesù in definitiva, come la ricerca storica ha messo sufficiente­ mente in luce, si rivela come il fondatore non di una religione universale, ma di una religione legata ad un particolare momento storico e quindi inevita­ bilmente condannata al tramonto (Hartmann 1882, pp. 514-530). Ma v'è di più: il protestantesimo liberale, che per le ragioni indicate non ha il diritto di considerarsi cristiano, è addirittura per Hartmann irre­ ligioso. Ogni autentica religione deve essere una raffigurazione dell'ideale di ogni popolo, deve cioè, da una parte essere in accordo con la verità raggiungibile mediante la filosofia -, dall'altra esprimere simbolicamente il contenuto di quella verità. Ora è evidente che il protestantesimo liberale non risponde a questi requisiti. Esso infatti da una parte contiene un insie­ me di dottrine (personalità di Dio, immortalità dell'anima, libero arbitrio, ottimismo) che il progresso filosofico ha da tempo riconosciuto insoste­ nibili, dall'altra mostra di non credere fino in fondo a tali posizioni e di propendere piuttosto al naturalismo ed al materialismo, filosofie in cui manca interamente quell'elemento di mistero che deve essere proprio in ogni religione. Quanto ai tentativi di superare l'eteronomia nella morale, Hartmann osserva che essi mettono capo ad un'etica non religiosa, poiché mancante di ogni riferimento all'Assoluto. Oltre a ciò, tale etica è essenzial­ mente mondana ed ottimistica, si sforza di esorcizzare il male del mondo e con questo finisce per eliminare uno degli elementi portanti della religione, il bisogno di salvezza (Hartmann 1874, pp. 71-91). Di fronte alla bancarotta del cristianesimo del passato - il vero cristia­ nesimo - e del protestantesimo liberale e dato per scontato che anche in futuro l'umanità dovrà avere una religione, Hartmann si propone il compi­ to non già di fondare tale nuova religione ma di diffondere i risultati della sua riflessione filosofica quale base scientifica sulla quale la « religione del futuro » potrà e dovrà fondarsi 24 . 24 Hartmann 1880 ha invece lo scopo più limitato di svolgere una critica - nel complesso più benevola - del protestantesimo speculativo di Biedermann, Lipsius e

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La negazione della coscienza e l'indicazione del rapporto esistente tra l'inconscio assoluto ed il Dio del teismo costituisce per qualche aspetto solo la premessa della metafisica dell'inconscio. Si tratta infatti di appro­ fondire concettualmente la natura dell'inconscio - in particolare di preci­ sare il rapporto fra volontà e rappresentazione - e di mostrare come da esso derivi il mondo fenomenico. Per situare storicamente il proprio pensiero Hartmann presenta un'in­ teressante disamina dei filosofi che considera suoi precursori. Di questa « genealogia » fanno parte da un lato Fiatone e Schelling, dall'altro Hegel e Schopenhauer. Se i primi due sono sostanzialmente in accordo con la filosofia dell'inconscio, gli ultimi due rappresentano gli estremi fra i quali Hartmann colloca il suo sistema, avendo Hegel unilateralmente enfatizzato il ruolo dell'idea (rappresentazione), trascurando la volontà, e Scho­ penhauer quello della volontà, trascurando l'idea. Hartmann riconduce Fiatone al suo sistema interpretandone la filosofia come un dualismo che pone a fondamento della realtà due principi, l'idea e « il principio dell'as­ soluto mutamento » (la materia, ovvero la diade di grande e piccolo), prin­ cipio che Hartmann assimila senz'altro alla volontà. Il limite fondamentale del pensiero platonico consiste nell'aver attribuito illegittimamente al mon­ do ideale la capacità di auto-esplicarsi nel fenomeno, mentre l'idea, di per sé, non possiede capacità di movimento 25 . Quanto a Schopenhauer, la valutazione che ne viene data è inaspetta­ tamente severa e pare ispirata dall'intenzione di Hartmann di distaccare il suo pensiero da un filosofo giudicato così negativamente in quegli anni: Pfleiderer, autori con i quali Hartmann era in rapporti tutto sommato amichevoli (cfr. Kern-von Hartmann 1943, p. 172 s.). L'oggetto della polemica è essenzialmente il ten­ tativo di questi autori di sviluppare una teoria immanente della redenzione (il cui pro­ tagonista, come in Hartmann, dovrebbe essere l'uomo) ma, nello stesso tempo, di salva­ re in qualche modo la figura del Cristo redentore, se non come effettivo protagonista della redenzione, almeno come fondatore della religione della redenzione per eccellen­ za, il cristianesimo. Riprendendo i vecchi temi teologici dell'impossibilità di conciliare in Cristo la doppia natura di uomo e Dio, Hartmann mostra la contraddittorietà di un tale atteggiamento - in particolare polemizzando contro il teismo implicito in queste posizio­ ni, vale a dire contro la pretesa di attribuire personalità a Dio - ed attribuisce al pro­ testantesimo speculativo il solo merito di contenere embrionalmente gli elementi di « una nuova religione del futuro pantelstica » (Hartmann 1880, p. 67 s.). 25 PU II, p. 416 s. Hartmann deve naturalmente forzare non poco la lettera del pensiero platonico per attribuire alla diade-materia (in Fiatone sostanzialmente passiva) quel carattere di attività che è tipica della volontà. Più accettabili sono invece le osser­ vazioni di Hartmann, secondo cui la diade-materia platonica è, come la volontà, il prin­ cipio del male ed è in sé inconoscibile.

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Schopenhauer, facendo della volontà l'unico principio della realtà ed attri­ buendo all'intelletto, alla ragione ed infine anche all'idea un ruolo « paras­ sitario » o almeno nettamente subordinato, ha prodotto un sistema incapa­ ce di dar conto in modo soddisfacente dell'innegabile finalità e logicità della realtà. Il suo principio risulta così assai più povero dell'idea hegelia­ na, cosicché il sistema schopenhaueriano nel suo complesso, per quanto ricco di considerazioni acute ed interessanti, mostra un'innegabile « colo­ ritura dilettantesca » 26. In opposizione a Schopenhauer, Hegel ha fatto dell'idea l'unico prin­ cipio della realtà, realtà che si configura di conseguenza come uno svolgi­ mento - dialettico - dell'idea stessa. Tale processo, appunto perché dialet­ tico, implicherebbe tuttavia che il logico, una volta percorso per intero il suo campo, si volgesse nella sua negazione, nell'illogico. Ciò significa, se­ condo Hartmann, il quale qui si ricollega all'ultimo Schelling, che l'idea dovrebbe volgersi all'esistente, in sé irrazionale, ma non per questo solo negativo, anzi il vero e proprio positivo. Hegel tuttavia non compie tale passo, si rifiuta di attribuire all'illogico lo statuto di principio autonomo e cerca in vari modi di risolvere l'illogico nel logico. Così si spiega perché Hegel si sforzi fin dall'inizio di fondere il logico con l'illogico attribuendo allo svolgimento dell'idea un movimento dialettico, implicante quindi in sé la contraddizione, ovvero l'illogico. Ma per Hartmann un tale modo di procedere è del tutto inaccettabile, giacché contraddice l'essenza stessa del logico 27 . Hegel tuttavia - avvertendo acutamente la presenza dell'illogico nella realtà - tenta anche una soluzione per così dire subordinata, cercando di ricondurre l'irrazionale alla categoria dell'« accidentale », una soluzione anche questa non soddisfacente, perché di nuovo pretende d'inserire nel logico qualcosa che per essenza logico non è (PU II, p. 420 s.). Questa difficoltà della filosofia hegeliana si manifesta nel modo più chiaro là dove Hegel deve affrontare il passaggio dall'idea alla natura, il momento in cui l'idea diviene « altro da sé » (un'espressione troppo invi­ tante, perché Hartmann non vi riconosca un involontario rimando alla volontà) (PU II, p. 421). Non sussistendo alcuna necessità logica perché l'idea esca dalla sua « pace beata » per immergersi nel divenire del mondo,

26 PU II, p. 418. Hartmann ha cercato anche in seguito a più riprese di prendere le distanze dal sistema di Schopenhauer, affermando tra l'altro di considerarsi più vicino ad Hegel che a Schopenhauer (cfr. ad es. PU I, pp. VIII-XI). 27 PU II, p. 419 s. Sull'incompatibilità di metodo dialettico e logica cfr. Hartmann 1868b.

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Hegel non riesce a spiegare che in termini metaforici tale passaggio - la vera e propria crux del sistema. D'altra parte, significativamente, Hegel impiega talvolta espressioni che in un modo o nell'altro attribuiscono al­ l'idea un volere o un impulso (Trieb) a uscire da sé ed a realizzarsi 28. Di questi problemi e soprattutto della loro origine è stato ben coscien­ te Schelling alla cui critica della filosofia hegeliana, propria dell'ultimo periodo della sua speculazione, Hartmann si ricollega presentandosi come suo continuatore e perfezionatore 29 . Pur lamentando in Schelling un modo di procedere spesso infedele al programmatico « empirismo filosofico » ed inclinante pericolosamente alla mitologia ed alla teologia, Hartmann gli riconosce il grande merito di aver per primo mostrato la necessità di coor­ dinare i principi di Hegel e Schopenhauer, cioè l'idea e la volontà. Egli per primo ha mostrato che l'idea può ben fornire il Was, l'essenza delle cose, ma che da sola non può dar ragione del Dass, dell'esistenza, che, essendo per sua natura qualcosa d'illogico, deve risalire ad un principio diverso. Così bisogna di necessità riconoscere che l'idea è il principio dell'ideale, la volontà il principio del reale e solo utilizzando insieme questi due principi si può dare una spiegazione soddisfacente della realtà (PU II, pp. 424-426).

4. IL NESSO FRA VOLONTÀ E IDEA NELL'INCONSCIO E IL « MONISMO CONCRETO ».

A questo punto, sotto la guida di Schelling, di cui sono citati alcuni passi, Hartmann si addentra decisamente nell'arduo terreno della specula­ zione e, in primo luogo, spiega come deve essere intesa la volontà in quanto principio metafisico. Se il volere è un atto (Actus), a suo fondamento ci deve essere una potenza (Potenz). Ma dire questo significa affermare impli­ citamente che la volontà ha la possibilità oltre che di volere, anche di non 28 PU II, pp. 421-423. Hartmann si rifa in particolare alle pagine conclusive della Logica dove tra l'altro Hegel dice che ivi l'idea è « ancora » (noch) solo logica facendo così supporre che in seguito, nella filosofia della natura, non sia più logica, o almeno non solo logica. Infine Hartmann nota che se il processo di realizzazione della volontà fosse qualcosa di logico, esso sarebbe necessario; da ciò conseguirebbe 1'impos.sibilità di una redenzione del mondo. 29 PU II, p. 423. Hartmann ha studiato a lungo Schelling, presentandolo fin dal­ l'inizio come il patrono spirituale della sintesi fra Schopenhauer ed Hegel che egli svi­ luppa (Hartmann 1869b). A Schelling Hartmann ha dedicato anche un'importante monografìa (Hartmann 1897b), che è fra le prime opere a rivalutare almeno in parte l'ultimo Schelling. Sul rapporto fra Hartmann e Schelling cfr. anche PU I, p. VII s. Per ulteriori indicazioni cfr. Darnoi 1967, pp. 15-20.

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volere. Ciò d'altra parte è implicito anche nel significato comune attribuito al concetto di volontà; inoltre, se alla base del mondo ci fosse il necessario volere della volontà, la sua esistenza sarebbe necessaria e non sarebbe pen­ sabile alcuna redenzione - un tema questo cui Hartmann ritorna di fre­ quente. Ve poi un argomento decisivo per dimostrare che la volontà non ha sempre voluto: una volontà sempre volente dovrebbe prolungarsi all'in­ finito all'indietro, nel passato, dando luogo a un processo infinito (unendlich] che perciò dovrebbe essere necessariamente compiuto, perfetto (vollendet). Ma giacché il mondo è tutt'altro che perfetto, bisogna supporre che il volere ha avuto un inizio 30. Una volta dimostrato che il volere, l'atto della volontà, non è eterno, Hartmann si trova di fronte ad una nuova difficoltà, la cui soluzione lo spinge ancora più avanti nel rarefatto territorio della speculazione. La difficoltà consiste nel fatto che, da una parte, il volere non può esistere se non è determinato da un contenuto (una rappresentazione), dall'altra, la rappresentazione può essere chiamata all'essere solo da un atto di volontà, l'unico principio a possedere ed a poter dispensare l'esistenza. Sembra quindi impossibile per la volontà passare dalla potenza all'atto - al volere. Per risolvere questo problema, Hartmann non trova di meglio che, rifa­ cendosi ancora a Schelling, ipotizzare uno stadio intermedio fra la volontà (pura potenza) ed il volere (atto), che denomina « volere vuoto » (leeres Wollen). Si tratta del momento - ma l'espressione non è da intendersi in senso temporale - in cui la volontà esce dalla condizione di potenzialità, si pone in uno « stato di eccitazione » (Erregungszustand) e prende l'« iniziativa » (Initiativé) del volere. Così laddove la volontà in sé è velie et nolle potens, il volere vuoto è velle volens, sed velie non potens (PU II, pp. 431-433). Questo « volere vuoto », in qualche misura esistente in sé, è in grado ora di « afferrare » la rappresentazione e di farne il suo conte­ nuto. In questo modo esso diviene un volere determinato, che nel suo esplicarsi realizza le rappresentazioni 31 . A tale teoria si collega uno svilup30 PU II, pp. 428-430. Presupposto di questa argomentazione è naturalmente che nel mondo abbia luogo un processo dal meno perfetto al più perfetto e che il tempo all'interno del quale si svolge tale processo abbia valore reale e non solo ideale. Entram­ bi i presupposti sono a parere di Hartmann adeguatamente fondati nella sua filosofia (cfr. la trattazione del finalismo e quella relativa al realismo). A sostegno della sua teoria della possibilità per la volontà di non volere Hartmann si richiama oltre che a Schelling anche a Schopenhauer (PP II, p. 334 = p. 408). 31 PU II, p. 435. In questo contesto Hartmann paragona il rapporto fra volontà e rappresentazione al rapporto fra il maschio (si ricordi che Wille in tedesco è di genere

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pò molto importante per il pessimismo di Hartmann. Il « volere vuoto » è, come la volontà, potenzialmente infinito; viceversa la rappresentazione, l'idea, per quanto in grado di riprodurre le sue varie forme infinite volte, è in sé finita. Ne consegue che solo una parte limitata dell'infinito « volere vuoto » può essere riempito - e quindi soddisfatto - dalla rappresentazio­ ne. Il resto è destinato a rimanere insaziato fino al ritorno della volontà nella condizione di pura potenzialità. Si tratta di un'insoddisfazione diver­ sa da quella che sperimenta il volere empirico: qui il volere è insoddisfatto non perché non riesca a raggiungere un determinato scopo, ma perché, in generale, non riesce a volere in senso proprio. Ma ogni insoddisfazione provoca dolore (Unlust) e così si deve supporre l'esistenza di un'infinita infelicità « extramondana » (ausserweltlich] e, parimenti, giacché ogni in­ soddisfazione del volere genera coscienza, l'esistenza nel « volere vuoto » di una rudimentale forma di coscienza, la cui esistenza per Hartmann non comporta tuttavia che si abbandoni l'essenziale determinazione dell'Asso­ luto come inconscio 32 . La teoria dell'infelicità extramondana della volontà sembra sufficiente ,a risolvere da sola la questione del pessimismo nei termini in cui essa è posta da Hartmann: se il problema è quello di stabilire se nella realtà vi sia una prevalenza del piacere sul dolore o viceversa, è chiaro che il dolore del « vuoto volere », infinitamente insoddisfatto, non potrà mai essere contro­ bilanciato da un mondo necessariamente finito, anche se in esso, per ipo­ tesi, si realizzasse una netta prevalenza del piacere sul dolore. Si tratta ora di approfondire la natura del contenuto che viene a sazia­ re almeno una parte del « volere vuoto », vale a dire la natura dell'idea. Al riguardo bisogna in primo luogo notare che, giacché solo la volontà può dare l'esistenza, per Hartmann le idee, prese in sé, non possono essere maschile) e la femmina, un paragone in sé certamente innocente, ma sospetto in un contesto così ricco di espressioni figurate e metaforiche. 32 PU II, p. 434 s. Il motivo per cui l'Assoluto debba essere chiamato ancora inconscio nonostante la presenza di questa coscienza, è spiegato in una lunga aggiunta del 1904 (PU II, pp. 575-577), in cui Hartmann rileva dapprima che questa coscienza, in quanto extra-mondana, non sa nulla della struttura che l'inconscio andrà assumendo nel suo esplicarsi nel mondo. L'Assoluto insomma può essere detto ancora inconscio perché non ha coscienza che di una parte di se stesso. Più oltre tuttavia Harmann, considerando che il suo monismo implica in ogni caso che all'Assoluto venga attribuita la coscienza che viene a prodursi nei suoi fenomeni, limita esplicitamente la condizione di mancanza di coscienza nell'Assoluto al periodo che precede e segue il processo di volizione e sottolinea che ciò che è importante nella sua filosofia è il fatto che la coscien­ za non costituisce attributo essenziale e permanente dell'Assoluto stesso.

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concepite come esistenti, come un mondo ideale contrapposto al mondo empirico. Esse esistono in senso proprio solo in re, vale a dire realizzate da un atto della volontà (PU II, pp. 439 s. e 446). Poiché d'altra parte un puro non essere non potrebbe determinare la volontà, Hartmann parla di un « essere latente delle idee », cui inerirebbe una potenza all'essere (pura­ mente passiva) 33 . Inoltre le idee, nel loro determinare la volontà, non van­ no concepite come entità isolate a sé stanti, ma come articolazioni interne di una sola idea, la cui unità è simmetrica all'unità della volontà. Questa unità è comunque in grado di autodeterminarsi di volta in volta in modo diverso, in modo da offrire i contenuti necessari allo sviluppo della realtà 34 . L'autodeterminazione dell'idea è guidata da un principio di natura formale: Hartmann chiama questo principio il « logico » e lo identifica senz'altro con il principio di non contraddizione. Esso - incapace nella sua forma positiva di produrre qualsiasi determinazione diversa dalla pura identità - può svolgere invece una funzione molto importante nella sua forma negativa, ovvero negando tutto ciò che è contraddittorio. Ed è pro­ prio questo che avviene nel momento in cui la volontà esce dalla sua poten­ zialità e « vuole volere »: il logico avverte in ciò una contraddizione - il passaggio da A (la potenza del volere) a B (l'atto del volere) - e vi « reagi­ sce » cercando di negarla 35 . 33 PU II, pp. 446 e 586. Hartmann sottolinea che, a differenza della potenza della volontà che si realizza per virtù sua propria, la potenza dell'idea, per passare all'atto, necessita di un agente esterno, la volontà. 34 PU II, p. 440 s. Coerentemente con quanto viene qui detto, Hartmann preferi­ sce in generale parlare di idea e piuttosto che di idee. Così le singole idee non esistono eternamente neppure nelle forme di « essere latente » (Hartmann nota che se tutte le determinazioni dell'idea si offrissero insieme alla volontà, ne deriverebbe un « caos » [PU II, p. 444]), ma solo nella forma di «preformazioni», termine il cui significato risulta in questo contesto alquanto oscuro. 35 PU II, pp. 441-444. Hartmann non chiarisce in modo inequivoco la natura delle contraddizioni nei confronti delle quali il logico reagisce (il termine è naturalmente metaforico, perché il logico non ha la facoltà né di agire, né di reagire, facoltà che spettano solo alla volontà). Oltre alla contraddizione che è citata nel testo - ma è singo­ lare che Hartmann trovi contraddittorio il passaggio dalla potenza all'atto, quando egli stesso a più riprese trova in questa coppia di concetti lo strumento (presumibilmente non contraddittorio) adatto a spiegare vari fenomeni -, Hartmann parla anche di un innerer Widerstreit fra il voler volere ed il non poter volere; nell'impossibilità per l'infi­ nito volere di trovare intera soddisfazione tuttavia risulta difficile individuare una con­ traddizione in senso stretto. L'intrinseca contraddittorietà del volere (e conseguentemente del mondo che da tale volere ha origine) non risulta quindi dimostrata in modo convincente da Hartmann e non è un caso che egli stesso, in una nota che si riferisce precisamente a queste pagine, si richiami alla dimostrazione induttiva dell'irrazionalità

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Possedendo un grado di realtà inferiore alla volontà, il logico può contrastare il volere solo indirettamente, offrendo cioè ad esso contenuti che lo conducono a negare se stesso, cioè a raggiungere la negazione della negazione dell'identità - il fine del logico -, e quindi a ristabilire l'identità (PU II, p. 444 s.). In quanto principio dell'idea, il logico può essere detto esso stesso idea e questa denominazione risulta ancor più giustificata se si considera che, secondo Hartmann, il logico determina non solo la forma dello svilup­ po dell'idea, ma anche il suo contenuto. A questa conclusione - avanzala con più chiarezza nelle aggiunte che nel testo - Hartmann perviene osser­ vando che, nel momento in cui il logico si oppone al volere, le negazione del volere - il fine di tale opposizione - diviene qualcosa di non più soltan­ to formale, ma un vero e proprio contenuto, che Hartmann chiama Uridee. Una volta posto una tale idea come fine, risultano posti anche i mezzi, vale a dire i singoli momenti dello sviluppo dell'idea che sono determinati dal logico in funzione del raggiungimento del fine sopra indicato 36. Conclusa l'analisi dei due principi, volontà ed idea, si tratta di armo­ nizzare questa posizione - apparentemente dualistica - con la prospettiva monistica precedentemente abbozzata. Hartmann discute dapprima la possibilità di considerare, secondo la tendenza dominante nell'idealismo, volontà ed idea - o meglio volere e rappresentare - come attività pure, senza cioè far riferimento ad una sostanza, ad un soggetto che ne sia por­ tatore. La questione, poco rilevante quando si ha a che fare con un unico principio, come avviene in Hegel o in Schopenhauer, diviene importante del mondo, irrazionalità tuttavia che anche in quel contesto è fondata di nuovo - incon­ gruamente con quanto si vuoi dimostrare - sulla constatazione della prevalenza del dolore sul piacere (in SP V, pp. 159-162 Hartmann infatti sostiene di nuovo che l'idea, incapace di provare dolore o piacere, non può essere mossa dal prevalere del dolore a determinare nel modo che si sa lo sviluppo del mondo. Egli in questo contesto ripropo­ ne senza ulteriori approfondimenti la tesi che l'idea sia mossa solo da ciò che è in contrasto con il suo principio fondamentale, cioè con il principio di contraddizione, ovvero dalla contraddizione rappresentata dal divenire). 36 PU II, pp. 446-448 e 585. La concezione del logico è, per esplicita ammissione di Hartmann, per più di un aspetto simile alla concezione hegeliana della logica: anche in Hartmann, come in Hegel, tutte le determinazioni della realtà derivano da un princi­ pio originariamente poverissimo di contenuto; anche in Hartmann alla base di tale svi­ luppo c'è un momento dialettico; anche in Hartmann fine del processo è il ritorno del logico a sé. Notevoli restano però le differenze, fra le quali la più significativa consiste nel fatto che l'idea hegeliana si sviluppa per virtù propria (e non per reazione a qualcosa di esterno a sé) e che le sue determinazioni sono determinazioni ontologiche in senso forte.

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quando, come succede nel caso di Schelling o del suo stesso sistema, i principi sono due: se volontà ed idea sono pensate come realtà in sé auto­ sufficienti - siano attività o anche sostanze -, risulta difficile spiegare come esse possano interagire. Ad esempio non si comprenderebbe perché il lo­ gico dovrebbe reagire all'irrazionalità del volere o come il volere potrebbe fare dell'idea un suo contenuto. Bisogna quindi che spinozianamente vo­ lontà ed idea siano concepiti come attributi di un'unica sostanza, unico soggetto delle due diverse attività: il volere ed il rappresentare sono diversi fra loro, il volente ed il rappresentante sono la stessa cosa (PU II, pp. 451454). Hartmann sarebbe propenso a denominare tale sostanza « soggetto assoluto » (un termine ancora ripreso da Schelling) se per i molteplici si­ gnificati assunti dalla parola « soggetto » nel corso della storia non si ri­ schiasse d'incorrere in ambiguità; per evitare tali equivoci Hartmann deci­ de infine d'impiegare la denominazione « Spirito assoluto » (PU II, p. 457). Per quanto si comprende, tale spirito assoluto non possiede determi­ nazioni ulteriori rispetto a volontà e rappresentazione ed anche da un pun­ to di vista ontologico esso ha lo stesso grado di realtà dei suoi due attributi: è quindi essere latente o potenziale - « sovraessente » (Uberseiendes) - fin quando la volontà non si eleva al volere e torna a questo tipo di essere con il cessare del volere 37 . Circa il rapporto che sussiste fra volontà ed idea Hartmann si premura di mostrare che esso non si configura come una contraddizione all'interno dell'Assoluto, né come uno scontro fra forze opposte: al più si può parago­ nare questo rapporto a quello che sussiste fra i due poli di un magnete. L'opposizione del logico al volere si realizza mediante il volere stesso; la contraddizione, l'opposizione si ha solo fra gli individui, i fenomeni del­ l'Assoluto (PU II, p. 456). D'altra parte l'ammissione di questa diversificazione originaria all'in­ terno dell'Assoluto, è necessaria per dar ragione tanto della molteplicità fenomenica quanto della processualità della realtà. L'Assoluto esce dalla sua unità perché ha in sé già un minimo di molteplictà (il dualismo volontàidea), e può dar luogo alla realtà (può andare al di là del « volere vuoto »), perché il logico gli « viene incontro » (entgegenkommt), nel doppio signi­ ficato di favorire ma anche di limitare, di opporsi alla volontà (PU II, p. 454 s.). 37 In un'aggiunta del 1904 Hartmann si diffonde su questa ontologia precosmica, aggiungendo l'ulteriore specificazione che di spirito assoluto si dovrebbe parlare solo in riferimento al soggetto del volere e del rappresentare in atto, mentre in riferimento alla sua condizione potenziale si dovrebbe parlare solo di « sostanza » (PU II, p. 594 s.).

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Per completare il quadro della metafisica di Hartmann non resta che riconsiderare, partendo per così dire dall'alto, il rapporto fra Assoluto e mondo fenomenico. Si è visto che Hartmann risolve la realtà empirica nel manifestarsi dell'attività particolarizzata dell'Assoluto, negando l'esistenza di sostanze particolari tanto materiali quanto spirituali. Con ciò tuttavia Hartmann non intende ridurre schopenhauerianamente la realtà fenome­ nica a una parvenza soggettiva. Anzi, in aperta polemica con Kant e Schopenhauer e riprendendo una posizione prefigurata nei confronti di Schopenhauer già da Frauenstàdt, egli opera una distinzione fra fenomeno sog­ gettivo e fenomeno oggettivo, o in sé, esistente cioè - a differenza del fenomeno soggettivo - indipendentemente dal fatto che esista una co­ scienza che lo percepisca: l'esistenza indipendente di questi fenomeni è ciò che consente ad Hartmann di distinguere la sua posizione da quella dei panteisti e di contrapporre al loro « monismo astratto » il suo « monismo concreto » 38. Quanto al problema della derivazione di questa molteplicità oggettiva dall'unità dell'Assoluto, la soluzione sviluppata da Hartmann è abbastanza semplice: essa consiste nel ricondurre la molteplicità dei fenomeni ad una molteplicità originaria di volizioni da parte dell'Assoluto. Forse rendendosi conto che in tal modo il problema non è risolto ma semplicemente sposta­ to, Hartmann cerca di ridurre al minimo tale molteplicità originaria, affer­ mando che l'Assoluto produce direttamente solo una molteplicità di atomi, eguali in tutto tranne che nella loro determinazione spaziale (il luogo). Poiché tutti gli individui sono composti da atomi, la molteplicità di questi ultimi e la loro diversità è sufficiente a dar ragione della molteplicità e della varietà degli individui superiori 39. 38 PUII, pp. 170-174. Da quanto s'è visto risulta allora che per Hartmann esistono tre livelli di realtà, quello dell'Assoluto (considerato qui come una realtà unica a prescin­ dere dalla sua dinamica interna), quello dei fenomeni oggettivi e quello dei fenomeni soggettivi (i contenuti di coscienza). Va da sé che una tale concezione, da un punto di vista gnoseologico, si sposa perfettamente con una posizione realistica (dove la contro­ parte reale dei fenomeni soggettivi è costituita dai fenomeni oggettivi). 39 PU II, pp. 256-263. Hartmann non fa cenno nella sua spiegazione all'origine di quelle attività aggiunte dall'inconscio che fanno sì che ogni individuo superiore non sia solo la somma delle attività degli atomi. In questo contesto Hartmann critica estesamen­ te il fenomenismo di Schopenhauer, cui fra l'altro viene rimproverato di aver concepito i corpi come oggettivazioni immediate della volontà, mentre la volontà si oggettiva im­ mediatamente solo negli atomi. L'esistenza del molteplice ha secondo Hartmann anche una giustificazione ideologica: essa è condizione del sorgere della coscienza, cui, come si vedrà, è demandato in ultima analisi il compito di ricondurre il volere al non volere (NSH, p. 305 s.).

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Una conferma della bontà delle tesi qui sostenute Hartmann ritiene di poterla trovare nella loro capacità di risolvere in modo soddisfacente alcuni problemi empirici. È il caso del problema della generazione degli individui. Tradizionalmente si vuole che un nuovo individuo cominci ad esistere come tale nel momento in cui diviene sede di un'anima. Ma l'origine di tale nuova entità spirituale non è spiegata né dal traducianesimo né dal creazio­ nismo. Né è possibile dare della questione una spiegazione migliore delle due precedenti se si rimane nell'ambito di una concezione sostanzialistica dell'anima individuale (PU II, pp. 202-204). Se invece, conformemente alla teoria del mondo fenomenico sopra esposta, si considera l'anima come « la somma delle attività dell'unico inconscio indirizzate ad un determinato organismo », la questione può trovare una spiegazione diversa: l'individuo - la sua anima - viene formandosi gradualmente, dal momento in cui l'in­ conscio ne fa il centro di un nuovo gruppo di attività. Così, ad esempio, la separazione del figlio dalla madre non va interpretata come un processo discontinuo, ma come un graduale spostamento di una parte dell'attività dell'inconscio dalla madre al figlio (PU II, pp. 204-213). Questa concezione dell'anima inoltre è l'unica che può accordarsi con il fenomeno della generazione originaria (Urzeugung), che nega il passaggio dall'inorganico all'organico e la cui esistenza per Hartmann non può essere messa in discussione. In questo caso tuttavia l'intervento dell'inconscio non si limita allo spostamento di alcune attività spirituali dai genitori al nuovo individuo, ma comporta l'organizzazione ex-novo di un struttura materiale cui fare inerire le attività spirituali tipiche degli organismi vi­ venti 40. Un altro esempio del modo in cui Hartmann fa uso della originaria molteplicità e diversità degli atomi per spiegare le diversità che si manife­ stano fra gli individui di livello superiore è offerto infine dalla trattazione del problema del carattere. Nei termini del sistema di Hartmann, il carat­ tere deve essere pensato come la risultante della cooperazione fra l'attività 40 PU II, pp. 213-221. Non è qui possibile entrare nei dettagli della teoria biolo­ gica di Hartmann, quale è delineata nei capp. IX e X della terza parte. In sostanza Hartmann da largo spazio al darwinismo, facendo riferimento, per giustificarsi, al prin­ cipio secondo cui l'inconscio, là dove è possibile, « per risparmiare forza » lascia che lo sviluppo proceda secondo le leggi meccaniche dell'evoluzione. Tuttavia egli rivendica la necessità di un intervento diretto dell'inconscio - finalisticamente orientato - per la creazione di nuovi embrioni, destinati a dar luogo a individui diversi dai genitori, e per la difesa di quelle specie intermedie della scala evolutiva, che nella lotta per l'esistenza non posseggono ancora alcun vantaggio nei confronti delle specie concorrenti che pure sono destinate a sostituire (PU II, pp. 222-251).

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unificante dell'inconscio indirizzata a quel singolo individuo e l'insieme delle sue cellule cerebrali (a loro volta naturalmente costituite da atomi). Ma quale di queste due componenti da a ciascun carattere la sua origina­ lità? Per Hartmann non può essere l'attività unificante dell'inconscio ad essere originariamente diversificata; tale attività infatti è con ogni probabi­ lità identica in ogni individuo della specie umana 41 . L'originalità di ogni carattere dipende allora dalla specifica organizzazione (Hartmann parla di « disposizioni ») che le cellule cerebrali di ogni individuo acquisiscono o nel corso della vita o per ereditarietà. Queste disposizioni sono per così dire la traccia che ogni motivo che giunge alla volontà lascia nel cervello, e che agevola in seguito il pervenire alla volontà di motivi eguali o simili. Benché Hartmann non sia esplicito al riguardo, si deve supporre che que­ ste diverse « disposizioni » dipendano in ultima istanza dalla natura degli atomi che costituiscono le cellule cerebrali e dai rapporti che essi stabili­ scono vicendevolmente, rapporti che sono predeterminati dall'ereditarietà ma che entro certi limiti possono essere modificati nel corso della vita. Di qui - contro Schopenhauer e Bahnsen - la tesi di una almeno parziale modificabilità del carattere 42 .

41 PU II, pp. 263-265. Hartmann sviluppa questa tesi polemizzando contro la teoria del carattere di Schopenhauer che giudica incompatibile con il suo monismo ed in particolare con la sua concezione soggettivistica di spazio e tempo. Per Hartmann è impossibile che all'interno della volontà, estranea allo spazio ed al tempo, il principium individuationis, si configurino atti volitivi individuali (ma la stessa obiezione non può essere rivolta con eguai diritto alla teoria della molteplicità di Hartmann?). 42 PU II, pp. 265-272. Hartmann attribuisce però un'importanza preponderante alle disposizioni acquisite per ereditarietà e quindi parzialmente da ragione a Scho­ penhauer quando parla del carattere come di qualcosa d'innato.

7. IL PESSIMISMO DI HARTMANN

1. IL PROBLEMA DEL PESSIMISMO.

Il problema del pessimismo è introdotto da alcune considerazioni sul finalismo del mondo. Si è visto che Hartmann, confortato dall'opinione della maggioranza dei popoli e dei filosofi, non dubita dell'esistenza della teleologia. Ma il sussistere generalizzato di relazioni mezzo-fine nella natu­ ra implica, secondo Hartmann, l'esistenza di un fine ultimo, giacché altri­ menti la catena di tali relazioni rimarrebbe « sospesa nell'aria ». D'altra parte, se si tien conto del fatto che la « conoscenza » posseduta dall'incon­ scio - espressione con la quale, nei termini del sistema di Hartmann, si deve intendere la capacità del logico di sviluppare determinate catene di rappresentazioni da fornire come determinazioni al volere - non è sottopo­ sta ai limiti del conoscere umano (cosciente), né quanto al tempo (l'incon­ scio conosce istantaneamente), né quanto al contenuto (l'inconscio cono­ sce tutto), e che quindi l'inconscio possiede ciò che in termini teologici si suole chiamare onniscienza, si deve concludere, in accordo con Leibniz, che il mondo è organizzato per raggiungere il migliore dei fini possibili e nel migliore dei modi possibili (PU II, pp. 273-277). L'esistenza di tale finalismo sembra però essere messa in discussione della presenza nel mondo del male e del dolore, realtà indubitabili e non esorcizzabili mediante la teoria del carattere privativo del male sostenuta dalla tradizione agostiniana e da Leibniz in particolare. Si tratta allora di sottoporre di nuovo ad esame la teleologia del mondo e indagare, in primo luogo, se essa sia indirizzata verso un fine accettabile, e, in secondo luogo, se i mezzi impiegati per raggiungere tale fine siano i più adatti (PU II, p. 278 s.).

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Come possibili fini ultimi della realtà Hartmann indica la realizzazio­ ne della felicità, della moralità, della giustizia. Moralità e giustizia tuttavia hanno senso solo in riferimento alla molteplicità fenomenica - ai rapporti fra gli individui - e non toccano l'essenza della realtà, l'Assoluto. Inoltre una loro perfetta realizzazione comporterebbe la completa scomparsa di tutti coloro per i quali esse possono avere valore, cicfè gli individui, giacché essi possono continuare a sussistere solo nella misura in cui c'è in loro almeno un po' di egoismo e quindi d'ingiustizia e immoralità. Moralità e giustizia non possono quindi essere il fine ultimo della realtà (PU II, pp. 279-281). Non resta che supporre allora che il finalismo del mondo sia indiriz­ zato alla realizzazione della felicità, che fra l'altro concerne direttamente l'Assoluto, l'inconscio, in quanto soggetto ultimo delle varie coscienze che provano piacere e dolore. Il mondo tuttavia, come s'è detto, non appare indirizzato a questo fine: una grande quantità di fatti sembrano opporsi al raggiungimento della felicità e favorire, piuttosto un altro fine, l'innalza­ mento della coscienza - un tema che Hartmann accenna qui solo di sfug­ gita e la cui importanza si comprenderà meglio in seguito. Se si vuoi man­ tenere come fine ultimo la felicità, si tratta di mostrare che questi dolori servono al raggiungimento di un piacere maggiore o quantomeno di un'in­ felicità minore. r Prima di affrontare la questione Hartmann ritorna a Leibniz e osserva che egli, pregiudizialmente convinto della positività della creazione, non ha preso in considerazione la possibilità che ancora migliore di tutti i mondi possibili fosse la non-esistenza del mondo. Se ciò fosse vero, se il migliore dei mondi possibili risultasse peggiore del suo non esistere, il suo venir ali'esistenza (o, in termini teologici, la sua creazione) dovrebbe essere con­ cepito come un atto irrazionale. Ma, nota Hartmann, una- tale tesi, incom­ patibile con qualsiasi forma di teismo - dove tutto è opera di un Dio co­ sciente e razionale -, non ha nulla di paradossale per il suo sistema ed anzi si inserisce perfettamente in esso, dove chi da esistenza al mondo è la volontà non razionale 1 .

1 PU II, pp. 282-284- Nello sviluppare questa posizione Hartmann osserva anche che in una tale ottica il tradizionale problema della teodicea assume una forma diversa: non si tratta di giustificare la presenza del male nel mondo, ma di giustificare l'esistenza di un mondo prevalentemente cattivo, che in nessun caso si risolve in un positivo. Per Hartmann naturalmente a maggior ragione la teodicea è in questo caso impossibile (Hartmann 1882c, pp. 261-264).

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Si viene così delineando la via' che Hartmann intende seguire per riaf­ fermare il finalismo eudemonologico del mondo: il dolore serve effettiva­ mente a raggiungere la felicità, ma tale felicità - la massima possibile - non è altro che l'assenza di dolore cui si perviene con il cessare di esistere del mondo. In effetti, se si riesce a dimostrare che il mondo - e qualsiasi mon­ do pensabile - non consente un bilancio eudemonologico positivo, cioè che la sua esistenza implica comunque una prevalenza del dolore sul pia­ cere, dato che il bilancio eudemonologico di un mondo non esistente è eguale a zero (nessun piacere - la grandezza positiva - ma anche nessuna sofferenza - la grandezza negativa), risulterà provato che il non esistere del mondo è eudemonologicamente preferibile al suo esistere. Si tratterà poi di dimostrare, per confermare il finalismo del mondo, che lo stesso dolore serve a convincere l'uomo a rinunciare all'esistenza e, infine, che l'uomo ha la possibilità di annichilire il mondo. Alla dimostrazione del primo assunto - il bilancio eudemonologico di questo e di ogni mondo pensabile è negativo - è dedicato il lunghissimo capitolo XII che, sottoponendo ad un'analisi minuziosa tutti gli aspetti della vita dell'uomo, intende mostrare - come suona il suo titolo - « l'irra­ zionalità del volere e la miseria dell'esistenza » (PU II, p. 285). Hartmann si domanda anzitutto come sia possibile giungere a un cor­ retto bilancio dei piaceri e dei dolori. La questione presenta non poche difficoltà, perché si ha a che fare con i sentimenti, per loro natura appar­ tenenti alla sfera della soggettività. Per giudicare di essi ci si può rivolgere direttamente solo alla propria esperienza interna: i sentimenti degli altri ci sono accessibili solo indirettamente. Bisogna poi considerare che l'incon­ scio interviene nella vita affettiva di ciascun individuo influenzando il suo modo di reagire alle varie rappresentazioni e modificando in senso positivo il modo in cui ci si ricorda dei dolori e dei piaceri passati. Infine, pur dipendendo da rappresentazioni, i sentimenti non cessano di essere veri anche se si basano su rappresentazioni errate, che Hartmann, in relazione ai sentimenti, chiama illusioni (PU II, pp. 285-292). Per ottenere un corretto bilancio bisognerebbe prima smascherare i casi in cui l'inconscio interviene a modificare il nostro giudizio (ad esem­ pio facendoci apparire il passato molto più felice di quello che è stato in realtà), poi svelare le illusioni su cui si basano molti piaceri. Per evitare ripetizioni ma soprattutto perché il primo compito, preso in sé, appare di difficile realizzazione per le presumibili resistenze dell'individuo a rico­ noscere i condizionamenti cui soggiace, Hartmann dichiara di trattare le due questioni insieme, ma poi, in realtà, il tema di gran lunga più discus-

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so è quello delle illusioni. Questo consente - entro certi limiti - di spo­ stare la trattazione dai sentimenti (estremamente soggettivi) al piano oggettivo o per lo meno intersoggettivo delle rappresentazioni che stanno alla loro base. Poiché, d'altra parte, lo sviluppo del mondo mostra un costante aumento del livello di coscienza dell'umanità, la dimostrazione che la maggior parte dei piaceri umani risulta basata su illusioni consente di concludere che, qualunque sia attualmente il risultato del bilancio eudemonologico, esso diventerà alla lunga necessariamente di segno negati­ vo (PU II, p. 293 s.). All'analisi dei vari tipi di illusioni Hartmann fa precedere alcune con­ siderazioni sul caràttere generale del piacere e del dolore tendenti a mo­ strare perché l'uomo sia più sensibile al secondo. In primo luogo tuttavia egli osserva che il sistema nervoso sopporta solo per un tempo limitato uno stimolo - tanto piacevole quanto doloroso: a un certo punto si manifesta in esso stanchezza, nella forma del bisogno di far cessare quello stimolo. Se lo stimolo è doloroso, ciò accresce il dolore da esso prodotto, se è invece piacevole, riduce il piacere (PU II, p. 296 s.). Hartmann critica poi la tesi schopenhaueriana secondo cui tutti i piaceri sarebbero sempre percepiti come una cessazione o una riduzione di un dolore. Questa tesi vale per la maggior parte dei piaceri, ma non per tutti, come è dimostrato dalle diffi­ coltà in cui incorre Schopenhauer nel tentativo di spiegare il fenomeno del godimento estetico, che l'esperienza insegna non essere preceduto da alcun sentimento di dolore: egli non sa fare di meglio che parlare di una - impos­ sibile - soddisfazione intellettuale, inconciliabile con le sue premesse siste­ matiche, secondo le quali di soddisfazione, godimento e piacere si può parlare solo in riferimento alla volontà. Secondo Hartmann al contrario si deve restare fedeli al principio che ogni piacere deve essere messo in rela­ zione con la volontà. Per spiegare come nell'ambito dell'arte - ma anche in altri ambiti - il piacere sorga senza che precedentemente si sia avvertito un dolore, bisogna supporre che lo stesso oggetto che fa sorgere il desiderio lo soddisfi, non consentendo così il rendersi cosciente del dolore (PU II, p. 297). Ogni piacere dunque deriva sì dalla soddisfazione di un bisogno, ma non necessariamente è avvertito in questo modo. Per altri aspetti tuttavia Hartmann sostiene una posizione ancor più radicale di quella di Scho­ penhauer, nella misura in cui afferma che il piacere è percepito solo indi­ rettamente, ovvero quando l'intelletto confronta il felice esito di una deter­ minata volizione con altre circostanze in cui essa non ha potuto essere soddisfatta - mentre il dolore si impone immediatamente alla coscienza. Hartmann infine ripropone una tematica tipicamente schopenhaueriana

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nel sostenere che il dolore prodotto da un bisogno dura fin quando il bisogno non è soddisfatto, mentre il piacere della soddisfazione « è poco più di un istante che svanisce » 2 .

2. IL BILANCIO EUDEMONOLOGICO E LA CRITICA DELLE ILLUSIONI.

Si tratta ora di dare concreta attuazione al bilancio eudemonologico. Hartmann da alla sua esposizione la forma di una critica a ciascuna delle tre prospettive che sostengono l'esistenza - o la possibilità - di un bilancio eudemonologico positivo, ritenendo possibile il raggiungimento della feli­ cità, rispettivamente, o durante la vita terrena, o in una vita trascendente, o durante la vita terrena quale si potrà realizzare in futuro, ad un livello superiore di sviluppo dell'umanità. Poiché per Hartmann l'idea che la fe­ licità sia in qualche modo raggiungibile è un'illusione, ciascuno di queste concezioni rappresenta un diverso stadio dell'illusione, stadi fra i quali sussiste, come si vedrà, un nesso a un tempo storico e logico 3 . 2 PU II, pp. 297-300. La « riforma » della psicologia del piacere schopenhaueriana comporta difficoltà non minori di quelle cui essa aspira a porre rimedio. Se infatti si prova piacere solo quando si ha coscienza dell'avvenuta soddisfazione di una volizione, il piacere cessa di essere qualcosa di originario e viene a dipendere interamente da un confronto operato dall'intelletto. Ma a questo punto Hartmann dovrebbe ricorrere an­ cora ad una rudimentale coscienza dell'inconscio per spiegare i numerosi piaceri che derivano dalla soddisfazione immediata di istinti e nei quali le esperienze precedenti e quindi l'intelletto - non sembrano poter svolgere alcun ruolo (cfr. ad es. quanto lo stesso Hartmann dice in riferimento alla gioia della madre per la nascita di un figlio, PU II, p. 217). Hartmann comunque attribuisce un ruolo di rilievo alla tesi della non im­ mediatezza del piacere, giacché si basa su di essa per affermare che se un determinato desiderio viene soddisfatto regolarmente, l'intelletto non prende più in considerazione la possibilità che esso non trovi soddisfazione e quindi non avverte più tale soddisfa­ zione come un piacere. Per limitare la portata di questa aporia, si può supporre - ma Hartmann non è esplicito al riguardo - che la tesi del « confronto » intellettuale come condizione necessaria per la percezione del piacere valga unicamente per i piaceri che non sono avvertiti come toglimento di un dolore. In definitiva la dottrina del piacere di Hartmann si fonda su questi principi: a) ogni volizione - ogni desiderio - è un volere determinato; b) la non soddisfazione di un determinato desiderio da luogo al sentimento del dolore; e) se il desiderio è soddisfatto immediatamente, non si ha percezione di dolore; d) se il desiderio è soddisfatto dopo che si è avvertito il dolore, il piacere è avvertito come cessazione del corrispondente dolore; e) la soddisfazione è avvertita come un piacere se l'intelletto confronta l'esito di quella determinata volizione con altri esiti non favorevoli. 3 Hartmann sottintende la tesi dell'identità fra positività del bilancio eudemono­ logico e felicità. In altri termini di un individuo che alla conclusione della sua esistenza

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II primo stadio dell'illusione è quello in cui « la felicità viene concepi­ ta come raggiunta all'attuale livello di sviluppo del mondo e quindi rag­ giungibile per l'individuo durante la vita terrena » (PU II, p. 295). Lo smascheramento di questa illusione, cui Hartmann dedica largo spazio perché i risultati qui raggiunti sono fondamentali per gli altri due stadi, procede attraverso un'analisi di tutti gli aspetti della vita umana in cui si presume l'uomo possa trovare piacere. Essi sono nell'ordine: salute, giovi­ nezza, libertà, ricchezza, soddisfacimento della fame, amore, compassione, amicizia, felicità familiare, vanità, sentimento dell'onore, ambizione, sete di gloria, sete di potere, conforto religioso, immoralità, piaceri della scienza e dell'arte, sonno, sogni, desiderio di guadagno, comodità, speranza. Questa « fenomenologia » dei sentimenti umani di piacere e dolore è piuttosto rapsodica e spesso basata su considerazioni empiriche fortemente soggetti­ ve, ma è indispensabile seguirne lo svolgimento perché costituisce uno degli aspetti più caratteristici e più discussi del pensiero di Hartmann. Salute, giovinezza, libertà e agiatezza economica dall'opinióne comu­ ne sono considerati i più alti beni della vita umana. La tesi di Hartmann è al contrario che essi non garantiscono in sé nessun piacere positivo - tran­ ne nel momento in cui vengono raggiunti -, ma pongono chi li possiede nel punto-zero (Nullpunct) della sensibilità. Nessuno prova piacere dalla sem­ plice esistenza delle proprie membra, mentre prova dolore non appena un membro è ammalato. Lo stesso vale per la giovinezza e la libertà: nessuno prova piacere per il fatto di poter esplicare pienamente le proprie facoltà ha provato più piacere che dolore si deve senz'altro dire che esso ha raggiunto la felicità (ciò non vuoi dire ovviamente che egli sia stato sempre felice). A sua volta questa posi­ zione presuppone la discussa tesi che piaceri e dolori differiscano fra loro solo quanti­ tativamente e siano quindi in linea di principio sommabili algebricamente. Per Hart­ mann infatti le differenze qualitative dipendono unicamente dalle circostanze (rappre­ sentazioni) che causano o accompagnano la percezione del dolore o del piacere. Se così non fosse, l'uomo non sarebbe in grado di confrontare e scegliere fra piaceri e dolori apparentemente diversissimi. Invece l'uomo sa ad esempio scegliere fra il dolore perdu­ rante di un dente e il dolore violento della sua estrazione (Hartmann si rifa qui a Wundt 1862), fra un piacere (o un dolore) sensibile e un dolore (o un piacere) spirituale (Hart­ mann cita a sostegno di questa tesi nientemeno che Kant, PU I, pp. 211-215 e 476-477). Si può osservare anche che in Hartmann, a differenza che in Schopenhauer, il calcolo del bilancio eudemonologico dovrebbe essere esteso in linea di principio anche alla natura inanimata, poiché si è visto come anche gli atomi posseggano seppure in forma rudimentale coscienza e quindi sensibilità. Hartmann però si occupa esclusivamente degli uomini, giacché in essi la sensibilità ha raggiunto un livello enormemente superiore a quella degli animali e della realtà naturale, e quindi percepisce una quantità di piaceri e dolori così superiore a quella percepita dagli altri esseri da rendere quantitativamente irrilevante il loro contributo al bilancio eudemonologico.

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condizione offerta dalla giovinezza -, né per il fatto di poter fare quello che vuole - condizione offerta dalla libertà -, mentre avverte dolorosamente ogni limitazione alle sue iniziative. Quanto all'agiatezza economica, essa garantisce un'esistenza libera dalla fame e del freddo, ma per lo più deve essere ottenuta mediante il lavoro, che per Hartmann, anche a prescindere dalle sofferenze del proletariato delle fabbriche, è in sé incondizionatamen­ te un male, come è provato dal fatto che nessuno lavora se non è costretto dalla necessità. Salute, giovinezza, libertà ed agiatezza economica non ren­ dono di per sé l'esistenza felice, che anzi una tale esistenza, quando non sopravvengano altri piaceri, spesso, per la noia che ne deriva, è un peso così insopportabile da rendere benvenuti dolori e sofferenze. Chi possiede i quattro beni indicati è sì nelle condizioni di raggiungere la soddisfazione (Zufriedenheit), ma essa, benché sia spesso considerato il più alto bene, in sé non è, di nuovo, uno stato di piacere positivo, ma è il punto-zero della sensibilità, che come tale - eudemonologicamente - non è superiore al non essere 4 . Continuando nel suo bilancio eudemonologico, Hartmann prende in esame la fame e l'amore, le potenti molle che tengono in movimento tutto il mondo vivente. È vero che la soddisfazione della fame garantisce un piacere positivo, ma il breve piacere che ne deriva è controbilanciato e nella maggior parte dei casi superato dalla sofferenza che precede la sod­ disfazione della fame in tutti coloro - uomini e anche animali - che non possono soddisfarla immediatamente. E l'aumento della popolazione mon­ diale non potrà che accrescere il numero di coloro che solo con estrema difficoltà possono soddisfare di questo bisogno (PU II, pp. 308-310). Anche l'amore produce certamente un piacere positivo, ma, anche qui, infinite sono le sofferenze che esso porta con sé. Nella donna il piacere sessuale è scontato con i dolori del parto. Quanto all'uomo, le convenzioni sociali spostano sempre più in avanti l'età del matrimonio e quindi lo co4 PU II, pp. 305-308. Il concetto di Zufriedenheit sembra essere ricalcato sulla concezione schopenhaueriana del piacere inteso come puro toglimento - od assenza - di dolore, una concezione che trova posto solo con difficoltà nella sistematica di Hart­ mann, in cui si sostiene la possibilità di cogliere come piaceri soddisfazioni della volontà per le quali non si sia avvertito precedentemente bisogno e quindi dolore. I « beni » rappresentati dalle condizioni prese in esame infatti devono infatti pur sempre essere concepiti come soddisfazioni di volizioni - la volontà di vita - e non si capisce perché per principio debbano sfuggire sempre alla coscienza: il confronto con i numerosissimi casi in cui tali volizioni non sono soddisfatte dovrebbe tener viva nell'intelletto di ogni uomo la tendenza ad apprezzare l'eventuale felice condizione in cui si trova e quindi a provare per essa piacere.

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stringono a cercare soddisfazione in modi che, oltre ad essere moralmente riprovevoli, possono minacciare la sua salute e anche quella della futura prole. Anche spostandosi sul piano spirituale la situazione non cambia: a prescindere dagli amori infelici e dalle inaudite sofferenze che recano con sé, anche la felicità che deriva dai legami sentimentali che giungono a buon fine è spesso ottenuta al prezzo di lunghe sofferenze ed è fondata sull'il­ lusione - come si è visto prodotta dall'inconscio - che la soddisfazione del proprio istinto sessuale con una determinata persona possa produrre un piacere maggiore. In ogni caso questa illusione si rivela come tale una volta raggiunta la desiderata soddisfazione e di qui nascono l'insoddisfazione e il fallimento di moltissimi matrimoni, quand'anche - cosa che peraltro non accade di frequente - si fondino su un originario rapporto amoroso. An­ che l'amore quindi produce nell'individuo più dolore che piacere (PU II, p. 311 s.). Un discorso analogo vale per la compassione. Essa è per Hartmann un misto di piacere e dolore. Donde quest'ultimo derivi è facile vedere: è appunto il nostro soffrire per le sofferenze altrui (mit-leiden). Più difficile spiegare da dove derivi il piacere: è possibile che il contrasto fra la soffe­ renza altrui e il proprio benessere ecciti e al tempo stesso plachi il nostro desiderio di non voler soffrire tali mali. Certo una tale spiegazione attribui­ sce al piacere che deriva dalla compassione un carattere del tutto egoistico, ma questo per Hartmann non deve mutare il giudizio positivo sulle nobili conseguenze della compassione in termini di aiuto al prossimo. Resta il fatto che quanto maggiore è la sensibilità dell'uomo, tanto maggiore è la compassione che prova per le sofferenze altrui e tanto maggiore è la soffe­ renza che gliene deriva, sofferenza acuita dall'impossibilità, nella maggior parte dei casi, di alleviare i dolori del prossimo. Si può quindi concludere, con Spinoza, che la compassione è in sé un male (PU II, p. 321 s.). Una valutazione parzialmente positiva ricevono invece l'amicizia e il vivere sociale: essi rispondono ad esigenze dell'uomo e quindi la loro pre­ senza produce in qualche misura piacere. Ma il vivere sociale, se può age­ volare l'uomo nel suo lavoro, porta anche con sé molti disagi: in primo luogo esso è spesso in sé noioso e insopportabile per gli obblighi che im­ pone, poi ci porta a condividere con gli altri gioie e dolori; ma poiché questi ultimi sono quantitativamente superiori, questo conduce in definiti­ va ad un accrescimento delle nostre sofferenze. Quanto all'amicizia essa non ha molto valore in sé, e produce piacere nella misura in cui coloro che sono in essa coinvolti se ne servono per realizzare meglio i loro interessi. Il matrimonio - che sappiamo per Hartmann non potersi reggere sull'amore

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fra i coniugi - è l'istituto in cui l'amicizia può realizzarsi nel migliore dei modi, data la comunanza d'interessi che sussiste fra i coniugi. Quanto al bilancio eudemonologico della vita familiare, si deve senz'altro concludere che esso è negativo. In particolare i figli, in cui l'uomo ripone tante speran­ ze, sono causa più di dolore che di felicità (PU II, pp. 322-326). Hartmann considera inoltre un gruppo di sentimenti che hanno una matrice comune nel desiderio dell'uomo di vedere riconosciuto dagli altri il proprio (presunto) valore; essi sono la vanità, l'onore, l'ambizione, il desiderio di fama, il desiderio di potere. Attraverso una lunga analisi Hart­ mann mostra che questi desideri, per essere soddisfatti, impongono a chi li persegue sofferenze di gran lunga superiori all'effimero piacere che la loro soddisfazione produce. Alcuni di essi poi - l'onore e il desiderio di potere - non producono in sé alcun piacere, ma conducono al punto-zero della sensazione (PU II, pp. 328-335). Quanto al conforto religioso - di cui Hartmann prende qui in esame solo la dimensione immanente - esso consiste essenzialmente nella speran­ za mistica di potersi fondere con l'Uno-Tutto. Ma, a prescindere dalle mortificazioni di tutti gli impulsi terreni che un tale sentimento porta ne­ cessariamente con sé - mortificazioni in sé causa di sofferenza -, la pro­ spettiva dell'unione mistica con l'Assoluto, intesa nel modo tradizionale, si basa su un'illusione che la ragione ha ormai distrutto: è infatti chiaro, sulla base delle concezioni metafisiche di Hartmann, che tale unione non si può realizzare conservando la coscienza individuale, che è la condizione prima­ ria per provare piacere (PU II, pp. 335-337). Curiosamente, nell'affrontare il tema del bilancio eudemonologico della morale, Hartmann prende le mosse del suo contrario, dall'immorali­ tà, per mostrare che l'agire immorale - il fare ingiustizia al prossimo -, se può accrescere la felicità individuale dell'ingiusto, ha come necessaria con­ troparte un aumento della infelicità del danneggiato; tenendo conto poi del fatto che il dolore è normalmente percepito più acutamente del piacere, si può concludere che l'immoralità, purtroppo largamente diffusa, influisce negativamente sul bilancio eudemonologico complessivo 5 . Quanto all'agi­ re morale, riguardo al quale Hartmann si limita in quest'opera a pochi cenni, la sua essenza è qui indicata nella riparazione di un'ingiustizia soffer­ ta dagli altri e, quindi, ha la sua ragion d'essere in un male precedente. In 3 Si deve osservare che qui, per giungere alla conclusione desiderata, Hartmann tacitamente passa da una considerazione individualistica ad una sovraindividuale del bilancio piacere-dolore.

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ogni caso la « vera gioia » che esso può produrre è controbilanciata dal dolore che deriva dalla limitazione della propria volontà e dalla umiliazione che, anche senza volerlo, si infligge al beneficato. Dare l'elemosina è dun­ que solo un male minore di fronte alla miseria diffusa. Eudemonologicamente preferibile sarebbe che non ci fossero né bisognosi, né persone ca­ ritatevoli 6. Fonte di indubitabile piacere sono invece le arti e le scienze. Ma anche in questo caso Hartmann si affretta a porre in luce le numerose sofferenze che ciascuno deve affrontare per raggiungere tali piaceri. Intanto il dedi­ carsi alle arti e alle scienze è privilegio di pochissimi e costoro di solito pagano questo privilegio con una sensibilità così sviluppata da renderli vulnerabili molto più degli altri al dolore. Quanti poi vogliono creare arti­ sticamente o contribuire positivamente allo sviluppo delle scienze devono affrontare le sofferenze dello studio e dell'esercizio, raramente ripagati dalla comprensione di chi li circonda. Qui Hartmann si esprime molto negativamente sulla situazione culturale della sua epoca, a suo dire pochis­ simo sensibile ai veri valori dell'arte e della scienza (PU II, pp. 338-343). Hartmann sottopone al suo bilancio eudemonologico anche il sonno e i sogni. Nel sonno si è privi di coscienza e quindi mancano le condizioni per provare piacere e dolore, tanto è vero che qualsiasi sofferenza causa il risveglio. Nei sogni invece si ripresentano tutte le emozioni della veglia, ma in forma più attenuata. La specificità eudemonologica del sonno consiste dunque nel piacere che si prova nell'addormentarsi - ma esso presuppone la sofferenza della stanchezza precedente - e nello svegliarsi - ma anche questo è un privilegio di cui pochi possono fruire: per i più il risveglio è la brusca e dolorosa interruzione di un sonno che per sua natura sarebbe durato più a lungo (PU II, p. 344 s.). Quanto all'istinto al guadagno e alle comodità che ne derivano, Hart­ mann riprende sostanzialmente le tesi esposte all'inizio riguardo all'agiatez­ za economica: è vero che con il denaro si può ottenere tutto, ma in sé non produce alcun piacere. La positività del suo possesso dipende dalla possi­ bilità di raggiungere con esso autentici piaceri (PU II, pp. 346-348). Dopo un breve accenno a quei sentimenti che, come l'invidia, l'odio, il desiderio di vendetta, il pentimento, producono per consenso generale più sofferenza che piacere, Hartmann conclude la sua analisi trattando della speranza. Essa offre all'uomo un vero piacere che deriva dalla convin6 PU II, p. 337 s. Queste scarne osservazioni sono di fatto superate dall'esteso sviluppo della riflessione morale che Hartmann offre in seguito (cfr. capitolo seguente).

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zione di raggiungere nel futuro la felicità. Ma siccome, in forza del discorso fin qui condotto, questa convinzione è destinata a essere smentita dai fatti, questo piacere è basato su un'illusione, che con l'accrescersi della cultura è destinata fatalmente a svanire (PU II, pp..348-350). Sulla base di questa lunga e talora faticosa analisi Hartmann ritiene pertanto di avere dimostrato che « nel presente il dolore è di gran lunga preponderante non solo nel mondo in generale, ma anche in ogni singolo individuo, quand'anche si trovi nelle condizioni più favorevoli » (PU II, p. 352). Inoltre da essa risulta che gli uomini sono tanto più infelici quanto più elevati sono la loro sensibilità e il loro livello intellettuale. Quindi più felici - o meno infelici - sono gli uomini nella loro giovinezza e, in genera­ le, l'umanità nella sua giovinezza, vale a dire i popoli antichi. Facendo corrispondere ai vari stadi dell'illusione determinate epoche della storia universale, Hartmann afferma così che ebrei, greci e romani tutti, seppure ciascuno con caratteristiche specifiche, hanno vissuto nell'illusione della possibilità di una felicità terrena, che solo nell'ultima fase della storia greca prima e romana poi ha lasciato gradualmente il posto al disprezzo per la vita (PU II, p. 354 s.). Nel secondo stadio dell'illusione « la felicità viene pensata come rag­ giungibile in una vita trascendente dopo la morte » (PU II, p. 355). Lo smascheramento di questa illusione si traduce essenzialmente in una critica della religione cristiana, nei termini che sono già stati accennati in prece­ denza. La sua essenza consiste pef Hartmann da una parte nel disprezzo e nell'indifferenza per l'aldiqua e dall'altra nella speranza di una felicità tra­ scendente. Si è già visto come il conforto che la religione può offrire duran­ te la vita terrena si giustifichi solo facendo implicitamente riferimento ad una dimensione trascendente, e in particolare all'immortalità dell'anima. Ciò vale a maggior ragione quando si considera la religione nella sua di­ mensione escatologica. Al riguardo Hartmann non può che rimandare alla sua concezione dell'individualità, cui fa seguire una rassegna delle posizio­ ni dei più grandi filosofi, tutti concordi - con l'eccezione di Kant e dell'ul­ timo Schelling - nel negare l'immortalità dell'anima 7 . Se l'anima indivi­ duale non è immortale, la speranza in una felicità oltremondana è illusoria. 7 PU II, pp. 355-362. L'anima individuale, in quanto costituita da quello Strahlenbùndel di attività dell'inconscio riferiti ad un organismo complesso, dipende dal sus­ sistere di quell'organismo e quindi vien meno con il suo dissolversi. Lo stesso non avviene per l'attività specifica dei singoli atomi, la quale è immutabile e dura « dall'inizio alla fine del mondo ». Hartmann precisa però che nell'inconscio non cessa di esistere la facoltà di dare origine alle attività unificanti proprie degli individui complessi.

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Una tale conclusione può apparire desolata solo a chi non riconosce la vera radice del desiderio d'immortalità: l'egoismo, il desiderio di far continuare a tutti i costi la propria individualità (PU II, p. 363). Il cristianesimo - il secondo stadio dell'illusione - va visto comunque come un progresso rispetto allo stadio precedente in quanto mostra che la felicità non è raggiungibile nel presente e va cercata fuori dal mondo; esso è nella sostanza superato dalla storia, anche se condizionerà ancora per molto tempo il pensiero dei filosofi 8. L'epoca presente è invece ancora del tutto presa dal terzo stadio secondo cui « la felicità viene pensata come realizzabile nel futuro dello sviluppo universale » (PU II, p. 368). Il concetto fondamentale sul quale questo stadio si fonda è dunque quello di sviluppo (Entwickelung): assente nel pensiero filosofie© fino a Leibniz, ora esso è divenuto patrimonio anche delle scienze naturali. Non è difficile riconoscere che esiste uno sviluppo in noi stessi; difficile è appli­ care questo concetto a un tutto composto da più individui quale l'umanità: si tratta di superare il potente istinto dell'egoismo, i cui caratteri sono stati così ben descritti da Stirner nel suo celebre libro 9. Ma il superamento dell'egoismo diviene relativamente più facile quando ci si sia resi conto che, in ogni caso, il bilancio eudemonologico individuale da inevitabilmen­ te un risultato negativo. Per questa via si può giungere al rinnegamento di se stessi e in questo consiste il grande valore etico del pessimismo. Ma se il pessimismo scuote l'egoismo, è il monismo a metterlo definitivamente in rotta. Se l'individuo è solo un fenomeno dell'Uno-Tutto e quindi se ciò che ne costituisce l'essenza è identico in tutti, non ha alcun senso cercare il proprio vantaggio a danno degli altri. Eppure l'egoismo è così forte da ispirare comportamenti che appaiono di alto valore morale, quali l'ascesi, il quietismo e, al limite, il suicidio. Qui per Hartmann si tocca « il vertice dell'autoinganno » giacché tutte queste forme di rassegnazione celano « il più crasso egoismo ». Quello che si cerca infatti è sempre una vita indivi­ duale con le minori sofferenze possibili, cosicché anche le tecniche più raffinate (isolamento, penitenze) in realtà hanno alla loro base un egoismo sapientemente calcolatore 10. 8 PU II, pp. 366-368. Al solo Schopenhauer è concesso il merito di essersi opposto in modo radicale al cristianesimo e di averlo privato di ogni significato per il futuro. 9 Stirner 1844. Per Hartmann si tratta di un libro che « nessuno che si interessa di filosofia pratica può fare a meno di leggere » (PU II, p. 370). 10 E evidente la polemica contro Schopenhauer e lo sforzo di difendere il pessi­ mismo dall'accusa di quietismo. Sulla fondazione dell'altruismo in Hartmann si tornerà in seguito.

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Ben diverso l'agire di chi si sente parte del tutto e commisura quindi il suo agire all'interesse della collettività. Con questa prospettiva egli recu­ pera i suoi istinti, la cui esplicazione è, a differenza di quanto avviene nel quietista, legittimata, quando si tengano presenti gli interessi degli altri individui. Ciò che da senso a questo comportamento - che può giungere al sacrificio completo di se stessi - è la speranza che lo sviluppo conduca alfine quell'essenza di cui l'individuo è fenomeno al raggiungimento della felicità. Ma anche questa speranza per Hartmann si rivela un'illusione. Per provare questa tesi è sufficiente richiamarsi all'analisi condotta nel primo stadio dell'illusione e mostrare che qualsiasi pensabile progresso non potrà modificare nella sostanza il bilancio eudemonologico. Così la malattia, la vecchiaia, la mancanza di una completa libertà, la fame non potranno mai essere debellate. Quand'anche si giungesse ad un migliora­ mento materiale delle classi più povere, questo porterebbe necessariamen­ te con sé un raffinamento della loro sensibilità e quindi una più acuta percezione delle inevitabili sofferenze residue. Hartmann nota al riguardo che la questione sociale è esplosa in un tempo in cui le condizioni dei lavoratori, raffrontate con quelle di duecento anni prima, sono « auree » (PU II, p. 376 s.). Qualcosa di simile avviene per la moralità: se, come si sostiene, il suo livello complessivo si è innalzato e potrà innalzarsi ancora, si deve supporre che abbia avuto luogo un parallelo innalzamento della sensibilità morale, che rende l'immoralità e l'ingiustizia rimaste causa di sofferenze eguali o forse superiori. Scomparso il piacere derivante dal conforto religioso - una credenza superata -, lo sviluppo dovrà registrare in futuro anche una ridu­ zione di quel sovrappiù di piacere positivo prodotto oggi dalla scienza e dall'arte: il progredire della ricerca lascerà sempre meno spazio ai geni e alle individualità, dando luogo a un livellamento fra gli scienziati e riducen­ do così il piacere della scoperta originale. Il progresso più significativo la scienza lo produrrà indirettamente nella tecnica. Ma anche qui - schopenhauerianamente - Hartmann nega che lo sviluppo tecnico possa porta­ re ad un aumento del piacere positivo: al massimo verranno liberate delle forze da impiegarsi nello sviluppo del mondo (PU II, pp. 380 e 383-384). Quanto all'arte, come si è già accennato, essa appare ad Hartmann in decadenza: non ha più la funzione di offrire grandi ideali, ma quella molto più modesta di svagare e divertire; l'arte sarà in futuro ciò che oggi le farse berlinesi sono per gli uomini della borsa (PU II, pp. 377-381 e 383-383). Riguardo poi agli istinti che riposano sull'illusione di poter produrre la felicità (amore, onore, etc.), Hartmann ritiene che il progresso svelerà

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sempre di più il loro carattere illusorio, pur non riuscendo a mettere l'uo­ mo in condizione di sottrarsi ad essi. Così il loro bilancio eudemonologico peggiorerà ulteriormente. Né giova sostenere che il soddisfacimento di questi istinti - si pensi in particolare alla generazione - serve allo sviluppo: perché le sofferenze che essi producono fossero giustificate eudemonologi­ camente, sarebbe necessario mostrare che a un certo punto del processo si realizzi un sovrappiù di piacere, cosa che per Hartmann non può avvenire (PU II, p. 381 s.). Anche un progresso politico tale da dar luogo a uno stato perfetto non sembra eudemonologicamente rilevante ad Hartmann: rifacendosi ancora a Schopenhauer, Hartmann attribuisce allo stato una funzione puramente negativa che si esplica nella difesa dei diritti del singolo. In uno stato per­ fetto ciascuno sarà posto nelle condizioni ottimali per realizzare la sua fe­ licità; ma con ciò nessun passo avanti sarà fatto positivamente nel raggiun­ gimento di essa. Lo stesso vale per il progresso sociale: esso eliminerà mi­ seria e fame, ma, a parte il piacere cui darà luogo nel momento del suo raggiungimento, non produrrà nessun duraturo piacere positivo; i progres­ si ottenuti diverranno presto qualcosa di scontato e l'aumentata disponibi­ lità di mezzi porterà ad un aumento dei desideri e dei bisogni e, con essi, dell'insoddisfazione (PU II, p. 384 s.). Se dunque non è pensabile che anche il realizzarsi del progresso nei vari campi possa rendere possibile la felicità, risulta confermato che l'infe­ licità dell'uomo non dipende dall'insoddisfazione di questo o quel bisogno, ma che è immanente al volere. Nonostante ciò il raggiungimento del mas­ simo del progresso è necessario perché una tale convinzione possa diffon­ dersi: di qui l'« astuzia » dell'inconscio che si serve di questo terzo stadio dell'illusione per stimolare l'uomo ad operare con uno slancio che non sarebbe pensabile se esso conoscesse fin dall'inizio l'illusorietà della sua speranza (PU II, pp. 386-388).

3. LA NEGAZIONE DEL MONDO E L'ESCATOLOGIA.

Nel graduale superamento dei vari stadi dell'illusione la storia del­ l'umanità è paragonabile a quella del singolo uomo che, nella sua infanzia, vive del presente, nella giovinezza sogna di ideali trascendenti, nella matu­ rità cerca la fama, la ricchezza e il sapere, e infine, nella vecchiaia, ricono­ sce la vanità dei suoi sforzi: « Essa, come ogni vecchio che sia venuto in chiaro su se stesso, ha ancora un solo desiderio: riposo, pace, sonno eterno

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senza sogni, che sazi la sua stanchezza. Dopo i tre stadi dell'illusione, della speranza in una felicità positiva, ha infine compreso la follia dei suoi sforzi, rinuncia definitivamente ad ogni felicità positiva e brama solo ancora l'as­ soluta assenza di dolore, il nulla, il Nirvana. Tuttavia a differenza di quanto avveniva prima non è questo o quel singolo a desiderare il nulla, l'annichilimento, ma l'umanità. Questa è l'unica fine pensabile del terzo ed ultimo stadio dell'illusione» (PU II, pp. 386-389). A questo punto la filosofia di Hartmann cessa di essere un'interprela­ zione della storia dell'umanità e diviene un programma, una proposta per il « futuro » dell'umanità: significativamente l'ultimo capitolo della Filo­ sofia dell'inconscio reca il sottotitolo « Passaggio alla filosofia pratica » (PU II, p. 391). Hartmann introduce il problema riprendendo ancora una volta il tema del fine ultimo del mondo, problema che si ripropone in tutta la sua gravita una volta dimostrato analiticamente che esso non può consistere nel raggiungimento della positiva felicità. Questa indagine ha anche conferma­ to che lo sviluppo del mondo mostra un continuo progresso della coscien­ za e questo ha suggerito a filosofi come Schelling ed Hegel di fare della coscienza il fine ultimo della storia. Ad Hartmann tuttavia questa tesi non pare accettabile per la mancanza di un nesso positivo fra sviluppo della coscienza ed eudemonismo: la coscienza di per sé non conduce che a una duplicazione delle pene che l'uomo prova, e al più, guidando l'agire del­ l'uomo, può dar luogo ad una minima riduzione delle sue sofferenze (PU II, pp. 391-393). Posto però che una felicità positiva è irraggiungibile e che la causa della ineludibile infelicità è il volere, e posto che, conscguentemente, il non volere, in quanto assenza di dolore, risulta eudemonologicamente preferi­ bile al volere, si apre la via per comprendere teleologicamente il senso dello sviluppo della coscienza: essa è lo strumento per la realizzazione della ne­ gazione della volontà. Si è visto che l'essenza della coscienza consiste nel dar luogo a rappresentazioni indipendenti dalla volontà: questa indipen­ denza diviene alla lunga « antagonismo » e pone le condizioni per la nega­ zione della volontà. A questo punto Hartmann si trova di fronte a problemi di difficilissima soluzione. Intanto Hartmann sostiene, contro Schopenhauer, che la negazione della volontà non è prodotta direttamente dalla coscienza (intelletto): la volontà può essere vinta solo da un'altra volontà, l'intelletto non può agire come quietivo. Bisogna dunque pensare a una volontà di segno opposto che, motivata dalla rappresentazione dell'inevitabile sofferenza conseguen-

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te a qualsiasi forma di volere, « paralizzi » la volontà di vita, riducendola al nulla 11 . A prima vista, la funzione della coscienza appare essere semplicemen­ te una riproposizione a livello antropologico dell'antagonismo metafisico fra volontà e rappresentazione (idea): la coscienza si oppone al volere per­ ché scopre la contraddittorietà di un mondo che è chiamato all'esistenza per soddisfare la volontà - per rendere possibile la felicità - e che invece non da luogo ad altro che all'infelicità 12. Sembrerebbe allora che lo svilup­ po della coscienza e la coscienza stessa fossero inutili per il raggiungimen­ to della negazione del volere; contro una tale conclusione Hartmann os­ serva che l'attribuire alla rappresentazione inconscia la capacità di condur­ re la volontà alla sua negazione significherebbe rendere inutile il sorgere della coscienza, negare la teleologia del mondo e fare del modo di autodeterminarsi dell'idea qualcosa d'irrazionale: essa infatti darebbe luogo ad un faticoso e doloroso sviluppo cosmico, pur essendo nelle condizioni di negare immediatamente il volere. Bisogna allora pensare che l'idea abbia sì potenzialmente in sé la capacità di guidare al nulla la volontà, ma che ciò possa avvenire solo attraverso lo sviluppo cosmico e in particolare at­ traverso il sorgere delle specifiche rappresentazioni della coscienza (PU II, p. 567 s.). Ora Hartmann si trova davanti al passaggio più difficile del suo siste­ ma: si tratta di spiegare più dettagliatamente come può aver luogo tale negazione del volere. Hartmann sa bene qui di muoversi su un terreno molto difficile, per la limitatezza dei dati a disposizione, e dichiara che la sua trattazione non vuole descrivere come possa avvenire l'evento, ma solo renderlo pensabile (PU II, p. 404).

11 PU II, pp. 408-410. Questa formulazione non deve però essere presa alla lettera, perché secondo la teoria psicologica di Hartmann, non esistono nell'individuo più vo­ lontà, bensì un'unica volontà o, forse meglio, un'unica serie di atti volitivi che sono la risultante dello scontro/incontro fra le varie Begehrungen - queste sì molteplici -, che a loro volta sono l'attualizzazione dei vari Triehe. La « paralisi » della volontà deve quindi a rigore essere pensata come il risultato dell'equilibrio che viene a crearsi fra desideri eguali e contrari. A prescindere dalla difficoltà di pensare un desiderio « negativo » che corrisponda ad ogni desiderio positivo - desiderio negativo che comunque deve avere un contenuto positivo giacché nei termini della sua filosofìa non si può semplicemente volere non volere -, la negazione del volere sembra configurare una situazione analoga a quella descritta dalla celebre storiella dell'asino di Buridano. 12 PU II, pp. 394-396. Hartmann esprime questo concetto affermando anche che quando la volontà da origine al mondo, essa cessa di essere l'alogico — ciò che è estraneo al logico - e diviene l'antilogico.

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Anzitutto Hartmann afferma che la negazione del volere non può es­ sere un atto individuale come vuole Schopenhauer 13 . Bisogna invece che tale atto sia collettivo perché possa assumere quella portata cosmica che Hartmann gli vuole attribuire, e bisogna che il suo compimento sia prepa­ rato nel corso di uno sviluppo storico che diffonda fra un numero crescen­ te di uomini, con l'innalzamento della coscienza, la convinzione della con­ venienza eudemonologica della negazione del volere 14 . Tre sono le condi­ zioni per il successo di questa impresa. La prima è che l'umanità cosciente raccolga in sé la più parte dell'inconscio che si manifesta nel mondo; biso­ gna insomma che chi è in condizioni di decidere per la negazione del volere abbia in qualche modo la « maggioranza » 15 . La seconda è che la maggio­ ranza dell'umanità desideri veramente la pace e l'assenza di dolore, e che questo desiderio sia in grado di dominare gli altri sentimenti 16. Infine bi­ sogna che la decisione di non volere sia presa simultaneamente: perché ciò possa avvenire bisogna far conto sul progresso tecnico (PU II, p. 408). Hartmann si spinge fino al punto di accennare quale forma dovrebbe assumere nell'ambito del suo sistema l'aldilà, la condizione dell'Assoluto che viene a realizzarsi dopo la negazione del mondo. Essa deve essere pen­ sata come identica a quella anteriore al sorgere del mondo, cioè una con­ dizione in cui non si danno né volere, né rappresentare e quindi neppure 13 Non si capisce infatti come la volontà possa negarsi limitatamente ad una sua parte. Ma anche ammesso questo, nel quadro generale del fenomenizzarsi della volontà, la negazione del volere in un individuo - che dovrebbe culminare nella sua morte asce­ tica - non avrebbe significato diverso che la morte di un singolo uomo. L'individualismo schopenhaueriano ha per Hartmann le sue radici nel disprezzo della storia e del concet­ to di sviluppo (PU II, p. 398 s.). 14 Per Hartmann in linea teorica nulla vieta che il compito di negare il volere possa toccare ad un'altra specie che possa svilupparsi in futuro sulla terra o su altri corpi celesti. In questo modo egli intende contrastare l'accusa di antropocentrismo rivoltagli da alcuni critici. Quello che rimane fuor di dubbio è che in ogni caso si tratterà di uno scontro fra intelletto (rappresentazione) e volontà: piuttosto che antropocentrica, la sua filosofia è dunque « noocentrica » (PU II, pp. 556-558). 15 PU II, p. 405 s. Hartmann ritiene che questa condizione possa essere soddisfat­ ta abbastanza agevolmente, in quanto gli organismi più complessi e « spirituali » conten­ gono in sé una quantità comparativamente molto maggiore di attività dell'inconscio. 16 PU II, p. 406 s. Anche questa condizione in una prospettiva storica di medio periodo non pare di impossibile realizzazione. Già coloro che hanno negato la propria volontà individuale (o, meglio, che sono nelle condizioni di realizzare tale atto - l'esi­ stenza di questi casi è riconosciuta anche da Hartmann) dimostrano la possibilità di questa disposizione d'animo. Hartmann ammette d'altra parte che non è necessario pensare che essa sia condivisa da tutti gli uomini: è sufficiente che coloro che vogliono negare il volere rappresentino la maggioranza dell'inconscio in atto.

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essere. L'inconscio prima e dopo il sorgere del mondo deve essere pensato come « l'essenza senza esistenza, immobile, inattiva, chiusa in sé », in altri termini come « nulla » (almeno secondo il linguaggio di cui l'uomo dispo­ ne). Esso quindi può essere detto « beato » solo in modo relativo, in rap­ porto cioè ad una condizione precedente di infelicità. A ciò si aggiunge che questo stato di maggior beatitudine relativa è puramente teorico, perché dopo il venir meno del mondo essa non può essere né percepita - non esiste alcun volere in atto -, né pensata - non esiste alcun rappresentare in atto 17 . Comunque sia il destino dell'uomo e del mondo - almeno di questo mondo - non appare del tutto senza speranza: la storia ha una dirczione, la ragione alla fine vincerà sull'irrazionalità; ci sarà liberazione dalle soffe­ renze, anche se l'alternativa non sarà altro che il nulla (PU II, p. 396 s.). Anche l'agire dell'uomo ha un senso, che non si esaurisce schopenhauerianamente nell'ascesi e nel quietismo: posto che la redenzione del mondo potrà realizzarsi solo con l'aiuto dell'uomo attraverso lo sviluppo della coscienza, l'uomo deve « rendere i fini dell'inconscio i fini della propria coscienza» (PU II, p. 403) e impegnarsi con il suo agire morale per il progresso dell'umanità.

17 PU II, p. 364 s. Hartmann, a differenza del più prudente Schopenhauer, non sembra avere incertezze nel rifiutare ogni contenuto positivo alla condizione metafisica che si realizza con il non volere. Va però rilevato che questa concezione ideologica della storia sembra essere inclusa in una più ampia prospettiva di carattere ciclico: Hartmann sostiene infatti che l'Assoluto inconscio, non possedendo né coscienza né memoria, non trae nessun insegnamento dall'esito catastrofico del suo precedente passaggio dalla po­ tenza all'atto. Esiste quindi un coefficiente di probabilità di 1/2 che l'inconscio torni a volere, una probabilità altissima che potrebbe diminuire solo dopo una serie di afferma­ zioni della volontà (dòpo due successive affermazioni la probabilità scenderebbe a 1/4). Secondo Hartmann la possibilità che l'intero processo di redenzione dell'Assoluto si riveli come del tutto effimero (fra l'altro, riferendosi il tempo solo alla volontà nel mo­ mento della sua affermazione, una eventuale « ricaduta » dell'inconscio nel mondo do­ vrebbe avvenire « immediatamente » dopo la negazione del volere) non influisce co­ munque negativamente .sull'impegno dell'uomo alla redenzione di questo mondo, per­ ché l'esistenza di un futuro mondo egualmente sofferente non lo riguarderebbe comun­ que (PU II, pp. 437-439 e 582-585).

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1. IL PROBLEMA DELLA MORALE E LA LIBERTÀ.

Gli scritti più importanti dedicati da Hartmann all'etica, scritti in cui viene ampliata ed articolata la « filosofia pratica » della Filosofia dell'in­ conscio, si caratterizzano anch'essi, da un punto di vista formale, per l'im­ piego del « metodo induttivo »'. Il punto di partenza empirico è in questo caso costituito dalle varie forme assunte nella storia dalla « coscienza morale », intesa da Hartmann come la fonte della moralità, ovvero come il luogo in cui all'agire e al pensare dell'uomo viene assegnato l'attributo di morale od immorale 2. L'esistenza di giudizi di valore implica che a loro fondamento esistano nella coscienza morale dei parametri, ovvero dei principi: precisamente di essi intende occuparsi Hartmann, che qualifica la sua riflessione etica come dottrina dei principi morali (Prinzipienlehre) 3. 1 L'opera che espone in forma più estesa il pensiero morale di Hartmann è la Phànomenologie des sittlichen Bewusstseins (PSB). A parte gli altri scritti di argomento morale - per lo più di carattere polemico -, un'esposizione complessiva dell'etica di Hartmann è offerta in forma abbreviata anche dal sesto volume del System (SP VI). 2 PSB, p. 14. Come è evidente, Hartmann assume almeno in questa prima fase un atteggiamento puramente descrittivo: egli muove dal fatto dell'esistenza di una coscienza morale e di giudizi di valore da essa formulati, a prescindere dalla loro validità e dalla loro correttezza. Da questo punto di vista è irrilevante il fatto che le coscienze morali, diverse nel tempo e nello spazio, esprimano giudizi di valore discordanti od anche opposti. 3 PU I, p. 230; PSB, p. 14. In questo contesto Hartmann non riprende in alcun modo la problematica della natura (passiva) della coscienza e tratta costantemente la coscienza come se essa fosse in grado, in proprio, di sviluppare autonomamente la rifles­ sione morale.

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Questa indagine induttiva circa i principi della coscienza morale si configura come una ricognizione storico-critica delle varie forme assunte dai sistemi morali, che per un verso intende mostrare come ciascuno dei principi su cui essi si fondano abbia almeno in parte valore, per un altro verso cerca di far vedere come ognuno di essi risulti in sé insufficiente e quindi rimandi ad un'ulteriore elaborazione morale, via via fino al sistema della morale assoluta. Quest'ultimo da una parte risulta pienamente soddi­ sfacente, dall'altra riassume in sé tutti gli elementi positivi contenuti nei sistemi precedenti 4. È il riconoscimento dell'esistenza da un nucleo di verità in ciascuno dei principi che giustifica secondo Hartmann il ricorso al concetto d'indu­ zione, ma nel complesso lo svolgimento della Fenomenologia ha assai poco di induttivo, soprattutto perché la maggior parte dei principi - fino all'af­ fermarsi del principio della ragione - risultano in sostanza per Hartmann infondati. Di volta in volta i principi più elevati non si limitano a genera­ lizzare e a riprendere il contenuto dei principi precedenti, ma li fondano, cosicché il preteso induttivismo viene di fatto rovesciato: non sono i prin­ cipi inferiori a giustificare quelli superiori - come vorrebbe il classico metodo induttivo -, bensì quelli superiori a giustificare (tra l'altro in qual­ che modo correggendoli e limitandone la portata) quelli inferiori. Il concla­ mato impiego del metodo induttivo, che dovrebbe consentire un accordo parziale almeno sui risultati intermedi, si rivela così come un altro esempio di quella strategia difensiva utilizzata da Hartmann, per mettere al riparo almeno una parte della sua filosofia dalle conseguenze di un eventuale rifiuto dei suoi risultati ultimi, in questo caso della riproposizione della negazione del mondo attraverso la negazione della volontà cosmica come fine supremo dell'agire umano. Questo modo di procedere si manifesta chiaramente nel passaggio da un sistema all'altro. Tale passaggio infatti spesso si esplica addirittura non in un ampliamento del sistema superato, ma in un suo radicale ribalta­ mento, quindi secondo un metodo che appare più dialettico che induttivo. D'altra parte le critiche che vengono rivolte ai vari principi e che giusti­ ficano il loro superamento fanno spesso implicitamente riferimento a po­ sizioni che anticipano principi più elevati o addirittura la morale assoluta, cosicché si ha l'impressione che un'esposizione « deduttiva » che muovesse 4 PSB, p. 13 s. e SP VI, p. 1 s. L'andamento dell'esposizione non è però storico in senso stretto, ma determinato dal nesso concettuale individuato fra i vari tipi di sistemi morali.

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dalla morale assoluta avrebbe reso il discorso di Hartmann più chiaro e lineare 5. La posizione di privilegio che in ambito etico Hartmann attribuisce alla coscienza sembra essere in contrasto con la Filosofia dell'inconscio, dove, come si è visto, Hartmann sostiene a più riprese che nell'essere e nell'agire dell'uomo ciò che è determinante è l'inconscio. In realtà Hart­ mann nella morale non fa che sviluppare una tesi già presente in quell'ope­ ra, secondo cui le rappresentazioni consce possono divenire motivi per la volontà (inconscia); di conseguenza i principi morali - e quindi la co­ scienza morale - possono motivare il volere e quindi indirizzare l'agire dell'uomo (PU I, pp. 225-229). Benché Hartmann in più di un'occasione sembri metter capo ad un dualismo coscienza/volontà, in realtà la compo­ nente attiva della coscienza rimane una forma particolare dell'attività del­ l'inconscio. Sussiste però un altro problema: se la volontà reagisce deterministicamente ai motivi e se lo stesso pensiero opera secondo precise leggi psico­ logiche, è sufficiente distinguere il processo di formazione dei motivi (pen­ siero) dal processo che li realizza (volontà) per garantire uno spazio alla morale? In altri termini quale posizione occupa nella riflessione morale di Hartmann il concetto di libertà? Il tema è lungamente discusso da Hart­ mann nella prospettiva di trovare una terza via fra coloro che sostengono che solo una « libertà indeterministica » può dar senso alla morale e coloro che, negando la possibilità di una tale libertà, negano la morale, conside­ randola un'« illusione » (PSB, pp. 325 e 331; SP VI, p. 101). 5 A questi difetti si aggiunge il fatto che, specie nella Fenomenologia, Hartmann non sa trattenersi dall'inframmezzare il suo discorso con estese critiche dei vari autori e dal prendere posizione su un'infinità di questioni particolari, spesso interessanti ma altrettanto spesso di valore teorico assai modesto, che appesantiscono oltre misura lo svolgimento dell'opera - si veda ad esempio la quasi ossessiva riproposizione del tema della differenza morale fra uomini e donne. La struttura della PSB è comunque, almeno apparentemente, lineare. Essa è divisa in due sezioni: la prima - assai più breve della seconda - è intitolata « La coscienza pseudomorale come propedeutica alla moralità » ed è sostanzialmente una critica dell'egoismo, dell'eudemonismo e dell'eteronomia. La seconda - « la coscienza morale autentica » - è divisa in tre sottosezioni; la prima tratta dei principi morali soggettivi (i moventi {Triebfedern} della morale) ovvero i principi morali fondati sul gusto, sul sentimento, sulla ragione; la seconda affronta i principi morali oggettivi (i fini della morale), ovvero il principio morale del bene comune, quello dello sviluppo della cultura, e quello dell'ordine cosmico morale; la terza tocca infine i principi morali assoluti (il fondamento ultimo della morale), ovvero il principio morale dell'identità sostanziale degli individui, quello della identità sostanziale con l'Assoluto, quello della teleologia assoluta e quello della redenzione.

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II filo rosso che Hartmann segue anche Dell'affrontare il tema della libertà consiste nel sostenere che si deve parlare di libertà solo in senso negativo, cioè come libertà da una coercizione cui di volta in volta non si è o non si è più sottoposti 6. Conscguentemente la trattazione della libertà si articola nell'analisi di una serie di concetti che esprimono varie forme di « libertà da ». I primi due concetti considerati sono l'« attività spontanea individuale », il quale indica che l'individuo agisce libero da possessioni e da un meccanismo « cieco e causale », e la « responsabilità soggettiva », il quale indica che il processo volitivo dell'individuo è libero da situazioni anormali o da « di­ sturbi » psicologici. Entrambe queste condizioni sono considerate suffi­ cienti in ambito giuridico per considerare un individuo responsabile delle sue azioni 7. Un tipo diverso di libertà è rappresentata dalla « attività conscia di produzione delle rappresentazioni », e riguarda ciò che si potrebbe dire la libertà intellettuale. Esso è definito negativamente come « la libertà dalla costrizione di serie di percezioni o rappresentazioni che si presentano alla 6 PSB, p. 303; SP VI, p. 95 s. Hartmann legittima questa tesi attraverso un'analisi storica dei concetti di libertà ed eguaglianza, affermatisi dapprima in ambito politico con la Rivoluzione francese. In questo ambito entrambi questi concetti si basano su una considerazione astratta ed unilaterale della realtà - qui Hartmann si rifa evidentemente ad Hegel - e si rivelano privi di contenuto positivo e quindi praticamente inutilizzabili. L'assoluta libertà porta alla totale distruzione dello stato che può sussistere solo median­ te una qualche forma di coercizione (Zwang) e che è l'unico mezzo a disposizione del­ l'uomo per sottrarsi al dominio della natura, il quale, al di là dei vagheggiamenti di Rousseau, non consente affatto la realizzazione di un'autentica libertà (PSB, pp. 300303; SP VI, pp. 94-98). Hartmann sfrutta questa occasione per dichiarare la sua avver­ sione al liberalismo, almeno nella misura in cui esso indica nella libertà il mezzo per risolvere ogni problema. La stessa astrattezza Hartmann rimprovera al concetto di egua­ glianza che non tien conto delle infinite diversità fra le razze, le famiglie, gli individui, le quali « fanno apparire un trattamento eguale sotto ogni punto di vista come irrazio­ nale » (particolarmente inaccettabile considera Hartmann il suffragio universale). Inol­ tre, se gli stati sono assimilabili ad organismi, ovvero ad individui complessi (composti cioè da altri individui) e se ogni organismo raggiunge un grado di sviluppo tanto più elevato quanto maggiore è la differenziazione tra gli individui che lo compongono, il cercare di mantenere o accrescere l'eguaglianza fra i cittadini significa operare contro il progresso (PSB, pp. 321-325; SP VI, p. 99 s.). 7 PSB, pp. 331-340; SP VI, pp. 102-105. L'espressione « attività spontanea indivi­ duale » traduce il tedesco « individuelle Selbsttàtigkeit », che non può essere reso sem­ plicemente con « spontaneità individuale », perché questo concetto è impiegato da Hartmann per indicare un altro tipo di libertà. Fra le condizioni anormali e gli stati patologici Hartmann annovera la pazzia, il sonnambulismo, l'ebbrezza, le condizioni derivanti dall'assunzione di droghe o dalla narcosi, i vizi abituali, le emozioni e le pas­ sioni patologiche.

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coscienza involontariamente (unwillkùrlich} ». Tale condizione si realizza quando l'attività della coscienza riesce a interrompere il flusso di rappre­ sentazioni proveniente dai sensi ed a sostituirlo con serie finalisticamente organizzate. Ciò avviene mediante l'attenzione, definita come una « cor­ rente nervosa centrifuga che riduce l'irritabilità riflessiva dei centri nervosi inferiori ed accresce la capacità conduttiva degli emisferi cerebrali, l'orga­ no dell'autocoscienza e della volontà conscia ». Ne consegue un'accresciuta disponibilità dell'attività inconscia a mettere a disposizione della co­ scienza le rappresentazioni necessarie alla articolazione del pensiero che la coscienza si è posto come fine (PSB, p. 341 s.). Questo tipo di attività può essere detta spontaneità - ma, per le stesse ragioni, può essere detta spontanea anche la produzione inconscia di rap­ presentazioni, in quanto libera dalla costrizione della coscienza. Anche in questo caso tuttavia non si tratta \di quella che Hartmann chiama « libertà indeterministica ». Essa infatti segue precise leggi psicologiche e, oltre a ciò, nel suo esplicarsi dipende dal modo in cui l'inconscio stesso risponde all'attenzione - che agisce come un motivo -, vale a dire dalle rappresen­ tazioni che esso « fornisce » al pensiero. Hartmann tuttavia, richiamandosi alla sua teoria della modificabilità del carattere, si dichiara fiducioso sulla possibilità di « educare » in certo qual modo l'inconscio, attraverso l'eser­ cizio, a fornire le rappresentazioni necessarie alle finalità del pensiero e, nel caso specifico, alle esigenze della riflessione morale (PSB, pp. 341-344). Se ora si considera un particolare aspetto di questa produzione rappre­ sentativa, vale a dire quelle che ha per contenuto la ragione, si giunge al concetto di « razionalità pratica », che, facendo riferimento alla volontà, ancora una volta è definito negativamente come la « libertà della volontà dall'arbitrio irrazionale e dal predominio dei motivi sentimentali ». Questo tipo di libertà consiste in sostanza nella disponibilità della volontà a farsi motivare da rappresentazioni razionali morali. Perché tali motivi possano essere efficaci, bisogna che siano presenti nella volontà specifici istinti ad essi corrispondenti, della cui esistenza generalizzata Hartmann si dichiara con­ vinto - egli parla di una « grazia immanente » nell'uomo -, pur riconoscendo che in determinati individui o addirittura in intieri popoli essi possano essere soverchiati da tendenze contrarie (PSB, pp. 361-363; SP VI, p. Ili s.). A questi ultimi istinti - o meglio alla capacità della volontà di domi­ narli - corrispondono altrettanti tipi di libertà che Hartmann non tralascia di analizzare minutamente. Perché infatti le rappresentazioni possano motivare efficacemente la volontà, bisogna che quest'ultima possegga « au­ todominio », vale a dire « libertà dall'immediata coercizione da parte di

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motivi intuitivi, percepibili nella sensibilità » (PSB, pp. 344-350). Poiché inoltre, come si vedrà, carattere generale dell'agire morale è l'altruismo, bisogna anche che la volontà sappia rinnegare se stessa, ovvero sia libera « dalla coercizione dell'egoismo » 8. Infine, in quanto l'agire morale si rea­ lizza solo nell'autonomia, bisogna che la volontà possegga « la libertà dalla coercizione da parte di un'autorità esterna... ovvero dalla schiavitù dell'as­ solutamente arbitrario, insensato capriccio ». D'altra parte la razionalità pratica non può sussistere neppure senza tutti gli altri tipi precedenti di libertà, vale a dire senza l'attività individuale spontanea e la responsabilità (PSB, pp. 352-360). Lo spazio della morale è così definito da una parte dalla libertà della coscienza (relativa, in quanto pur sempre governata da leggi psicologiche) di elaborare motivi o contro-motivi in grado di indirizzare nel senso desi­ derato la volontà, di frenare e neutralizzare gli stimoli immediati, le emo­ zioni, le passioni, dall'altra dalla disponibilità (relativa, in quanto pur sem­ pre determinata dal carattere) della volontà a reagire positivamente ad essi. L'individuo può insomma essere paragonato ad una locomotiva (la volon­ tà) guidata da un macchinista (la coscienza) che con il suo intervento do­ mina la forza della macchina e la indirizza verso i suoi fini 9. 8 PSB, pp. 350-352; SP VI, p. 107 s. La libertà dall'egoismo si oppone alla massi­ ma che pone nella felicità il « supremo, ultimo ed unico fine », e rende possibile il rinnegamento di se stessi. Questo tipo di libertà si differenzia dai precedenti perché in esso viene considerato un elemento per così dire « contenutistico » e non « formale » dell'agire (il principio della ricerca della massima felicità e la tendenza alla felicità stanno sullo stesso piano di tutti gli altri principi e tendenze che vengono superati nel corso dello sviluppo della coscienza morale; lo stesso discorso andrebbe quindi ripetuto per ciascuno di essi). Ma per Hartmann, come si vedrà, l'egoismo - che egli chiama anche « male radicale » - è così antitetico alla vera morale che, nella sua ottica, la possibilità di liberarsi da esso può ben essere considerato una condizione generale della possibilità della morale. 9 SP VI, p. 109. In queste pagine è particolarmente avvertibile quel dualismo (coscienza/volontà, pensare/volere) cui si è accennato sopra. A rigore, per restare alla metafora utilizzata da Hartmann, il macchinista non è qualcosa di diverso dalla locomo­ tiva, ma ne è semplicemente una parte dotata di specifiche funzioni. Il tipo di movimen­ to che la locomotiva assume dipende in definitiva dai comandi che l'inconscio stesso si impartisce attraverso l'attività che esercita nella coscienza e che sembra dovere dipende­ re anch'essa dal carattere; in questo modo la posizione di Hartmann sembra inclinare decisamente nella dirczione del determinismo, e non legittimare la sua pretesa di aver individuato una terza via, mediana fra determinismo ed indeterminismo. Rispetto a Schopenhauer, questo determinismo non è poi compensato da alcuna libertà intelligibi­ le, dottrina che Hartmann giudica insostenibile, oltre che per l'idealismo di Scho­ penhauer (impossibilità di una molteplicità transfenomenica di caratteri), anche per la pretesa di porre la libertà nell'essere, laddove l'agire presuppone quanto meno la tem-

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2, Gn ISTINTI MORALI, LA CRITICA ALL'EGOISMO E ALL'ETERONOMIA. Si è detto che i motivi - intesi qui nel senso più generale, includendo cioè oltre alle rappresentazioni anche gli stimoli immediati - agiscono sulla volontà nella misura in cui sono presenti istinti o inclinazioni in grado di recepirli. Di qui l'importanza dello studio dei vari Triebe - la componente propriamente soggettiva della morale -, giacché essi definiscono l'ambito della possibile efficacia della morale 10. L'estesa « fenomenologia » dei vari istinti prende la forma di un'ana­ lisi dei vari sistemi morali che su di essi sono stati fondati: a parte l'istinto al piacere (che non fa parte propriamente della morale), Hartmann distin­ gue anzitutto tre gruppi fondamentali di istinti che danno origine rispetti­ vamente alle morali del gusto, del sentimento, della ragione. L'istinto cui fa riferimento la morale del gusto è simile a quello che produce il giudizio estetico. Quando esso si esplica, la volontà tende ad agire in modo armonioso e « bello » e, corrispondentemente, il sistema morale su di esso fondato giudica morali o immorali azioni o atteggiamenti in accordo o in contrasto con questa tendenza. Bisogna però che la situa­ zione considerata sia tale da non coinvolgere troppo profondamente l'indi­ viduo, giacché in tale caso vengono chiamati in causa gli altri istinti caratteristici della morale del sentimento 11 . poralità e quindi un divenire. Come si è visto, Hartmann ritiene invece legittimo pensare come assolutamente libero l'Assoluto almeno nella scelta fra il volere e il non volere. L'Assoluto tuttavia per Hartmann, in base a ragioni che si vedranno, è al di sopra della morale e quindi tale libertà non ha significato per la morale (PSB, pp. 379-391; SP VI, pp. 116-119). Quanto al libero arbitrio - o indeterminismo - Hartmann sostiene che esso non è attestato dall'esperienza, che non serve a risolvere il problema della respon­ sabilità e della teodicea (la libertà assoluta dell'uomo di peccare è inconciliabile con l'onniscienza di Dio), che è in contrasto con la legalità universale, e che infine rende problematici la morale stessa, l'educazione ed il diritto, non garantendo in alcun modo l'efficacia dei motivi (PSB, pp. 363-379; SP VI, pp. 112-116). 10 In questo senso Hartmann polemizza a più riprese con Kant, che escludendo dalla morale ogni componente sentimentale-emotiva, non sarebbe più riuscito a rendere comprensibile il processo psicologico della motivazione (cfr. ad es. PSB, p. 255 s.). 11 PSB, pp. 105-149; SP VI, pp. 39-50. La morale del gusto si può esprimere nel giusto mezzo (piace ciò che si tien lontano dagli estremi), nell'armonia individuale o universale (piace l'equilibrio fra le varie tendenze dell'anima - l'anima bella - e piaccia­ no quegli individui che si inseriscono senza turbarla nell'armonia della natura, del tutto), nel perfezionamento e nell'ideale etico (piace ciò che sviluppa le facoltà di un individuo e che lo avvicina alla assoluta perfezione rappresentata appunto dall'ideale etico), nella conformazione artistica della vita (piace ciò che realizza nelle sue varie fasi l'ideale etico - qui Hartmann si riferisce in particolare a Schiller). La conformazione artistica della

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Sotto la denominazione di « morale del sentimento » Hartmann riuni­ sce molteplici forme di morali caratterizzate appunto dalla prevalenza in esse del sentimento, un carattere che peraltro, all'interno del sistema di Hartmann, non appare molto adatto a definire una specifica classe di siste­ mi morali 12. Per quanto ricca di osservazioni sul modo in cui i sentimenti si intrecciano fra loro, sulle loro possibili degenerazioni nell'egoismo o neU'eteronomia, sui limiti e sulle contraddizioni cui vanno incontro le varie morali che su di essi si fondano, non è indispensabile seguire nei dettagli questa parte. In ogni caso Hartmann insiste sul fatto che nel loro com­ plesso questi tipi di morale, in quanto fondate sulla immediatezza del sen­ timento - non possono mai in sé giungere alla forma dell'obbligazione, alla legge morale, se non ricorrendo alla ragione 13 . Questo limite risulta evidente anche dall'analisi del pur importante sentimento del dovere che si manifesta nella forma del rispetto (Achtung) della legge, nel riconoscimento del suo carattere vincolante. L'esistenza di tale sentimento - che rende manifesto l'esistenza nella volontà di una ten­ denza a seguire la legge morale - costituisce solo l'aspetto « formale » della obbligazione morale, non spiega in altre parole né quale sia il contenuto di tale rappresentazione, né quale ne sia l'origine, escluso che essa possa esse­ re cercata tanto neU'eteronomia quanto nel gusto o nel sentimento stesso (PSB, pp. 256-258, 262 e 265 s.). vita rappresenta la forma più alta della morale del gusto; essa in qualche misura ricom­ prende in sé tutte le altre forme, ma insieme mostra più chiaramente anche i loro limiti, vale a dire una certa freddezza e superficialità e una scarsa partecipazione del cuore. 12 Questo perché, come si è visto più volte, tutte le volizioni di cui ci sia coscienza producono nell'uomo sentimenti. Non per caso in questa sezione Hartmann sottolinea la centralità del sentimento nella sua psicologia, posta l'inconoscibilità della volontà: il sentimento rappresenta « l'estrema profondità dell'anima direttamente raggiungibile dalla coscienza »; solo con il presentarsi alla coscienza di un sentimento si può avere certezza che un motivo è effettivamente in grado di influire sulla volontà: « il puro sapere è per la volontà morto fin tanto che non si rende percepibile il sorgere di un sentimento come sintomo della reazione vitale degli stimoli » (PSB, p. 150). L'indivi­ duazione di uno specifico tipo di morale del sentimento sarebbe giustificato solo se Hartmann ammettesse l'esistenza di uno specifico sentimento morale, inteso come auto­ noma facoltà dell'anima. Ma Hartmann critica la « scuola scozzese » sostenendo che il sentimento morale non è qualitativamente diverso da tutti gli altri sentimenti, giacché si inscrive nella consueta dinamica fra rappresentazione (conscia o inconscia) e volizione e fra soddisfazione e insoddisfazione (PSB, pp. 150 e 155). 13 PSB, pp. 155-266; SP VI, pp. 52-86. I sentimenti presi in considerazione sono nell'ordine: il sentimento del proprio valore morale (Selbstgefuht), il rimorso (Nachgefùhl), il sentimento della rivalsa (Gegengefùht), quello della socievolezza, la compassio­ ne, la pietà, il sentimento di fedeltà, l'amore, il sentimento del dovere.

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Tali problemi ottengono una prima parziale risposta nella terza parte della morale soggettiva, che tratta della morale della ragione. Qui Hartmann postula l'esistenza di un Vernunfttrieb, che si configura come un istinto della volontà a realizzare i precetti della ragione e si specifica in vari tipi in relazione al diverso contenuto della rappresentazione ra­ zionale 14 . Questo istinto razionale - che appare in qualche misura apparentato con la tendenza della volontà ad esercitare il pensiero teoretico - svolge un ruolo particolarmente importante nella filosofia morale di Hartmann, per­ ché consente di spiegare il passaggio dall'essere al dover essere. Si è visto come la ragione presenti in sé un carattere intrinsecamente normativo cor­ rispondendo alla componente razionale dell'Assoluto (il logico), che si oppone a tutto ciò che è irrazionale. Si è visto anche che questa normati­ vità, universale e oggettiva, in sé puramente formale, assume rilievo solo quando applicata ad un materiale ad essa estraneo. Nell'attività conoscitiva la ragione riconduce alla razionalità, alle categorie logiche, l'oggetto del conoscere. Tale sforzo conoscitivo può tuttavia trovare un limite nella irra­ zionalità della realtà: la razionalizzazione della realtà non può allora limi­ tarsi ad essere un'operazione teorica, ma può realizzarsi solo attraverso una trasformazione della realtà stessa: nel porre questa esigenza di trasforma­ zione la ragione diviene allora « pratica » e, in particolare, diviene regola, legge di comportamento. Come si sa, il passaggio dall'ideale - in questo caso il nuovo stato di cose richiesto dalla ragione - al reale - la sua realizzazione - non può tuttavia avvenire senza il ricorso alla volontà: di qui la necessità di supporre l'esistenza di un istinto razionale (Vernunfttrieb], che si sforzi di realizzare le regole della ragione, assumendole come motivo: « la ragione pratica è il legislatore morale che si cercava ed al tempo stesso il giudice, secondo la sua legge, in ogni caso specifico; l'istinto razionale è il suo esecutore. Le leggi sono intese come assolute, l'obbligazione che ne deriva è riconosciuta come incondizionata; ma ciò non impedisce che la loro esecuzione abba­ stanza spesso non abbia luogo e che l'esecutore sia sopraffatto da altri istinti brutali. Il dovere, da un punto di vista psicologico, è esso stesso un volere, vale a dire un volere razionale, motivato dalla ragione, dell'istinto razionale. Ma questo volere è riconosciuto come un dovere, nella misura in 14 Non è molto chiaro in che senso tale istinto possa essere distinto dal sentimento del dovere, giacché, come si è visto, il sentimento è sempre il risultato dell'esplicazione della volontà, cioè di un istinto.

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cui il sentimento del dovere si inchina di fronte alla sua incondizionata obbligatorietà » 15 . A questo punto Hartmann, ricollegandosi a quanto detto circa le modalità in cui il logico determina la realizzazione della volontà e in parti­ colare alla natura finalistica dell'intera realtà, afferma che la forma generale della razionalizzazione si riassume nel concetto di fine: «il fine... è l'idea nella sua attualità come contenuto di una volontà che la realizza ciecamen­ te »; di conseguenza « se la teleologia è la più generale e necessaria forma del manifestarsi della ragione, essa deve essere riconoscibile anche nella ragion pratica come principio dell'agire morale ». L'agire morale razionale deve quindi essere sorretto da un « principio del fine », che si caratterizza essenzialmente come la tendenza a modificare la realtà in vista di un deter­ minato fine razionale (PSB, pp. 436-470; SP VI, pp. 132-146). Si tratta ora di lasciare l'ambito soggettivo e di precisare i caratteri dell'ordine razionale che deve essere realizzato. Prima tuttavia di affrontare questo punto, è opportuno considerare due altri elementi fondamentali: la dimostrazione della immoralità dell'egoismo e la critica dell'eteronomia. L'egoismo - quella forma di comportamento che pone nel raggiungi­ mento della propria felicità il valore supremo - rappresenta per Hartmann il primo stadio dello sviluppo della coscienza morale. Esso non rappresenta la forma naturale del volere - in cui sappiamo essere naturalmente presenti anche altri istinti - ma l'elevamento a principio di una particolare tendenza della volontà. Nella sua forma più raffinata esso diviene « morale della sag­ gezza » (Klugheitsmoral), giacché non considera solo i vantaggi immediati dell'agire, ma valuta le conseguenze indirette è lontane delle varie tendenze egoistiche e quindi richiede già in certa misura il dominio dell'intelletto sulla volontà. Questo tipo di morale può assumere forme diverse. Essa può muovere dal presupposto che la felicità sia raggiungibile su questa terra, come avviene in generale nei sistemi morali dell'antichità (morale positiva-

15 PSB, pp. 266, 270-272 e 280. Hartmann analizza le varie forme in cui si mani­ festa questa esigenza di razionalizzazione della realtà, forme che danno luogo ad altret­ tanti principi morali. L'esposizione è però resa piuttosto confusa dal fatto che in essa è presente un'oscillazione fra una considerazione formale ed una contenutistica di tali principi. Infatti mentre i tre principi della verità, della libertà e dell'eguaglianza offrono di per sé indicazioni abbastanza precise sul contenuto che la razionalizzazione della realtà dovrebbe possedere, i principi dell'ordine, della legalità e della giustizia, dell'equi­ tà, che dovrebbero costituire un'integrazione all'astrattezza dei principi precedenti, non dicono nulla - se non utilizzando contenuti derivanti da altri principi morali - circa la natura dell'ordine razionale che si dovrebbe realizzare.

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mente eudemonistica terrena). Oppure, come è caratteristico di molte reli­ gioni e in particolare del cristianesimo, può ritenere che essa sia raggiungi­ bile solo nell'aldilà (morale positivamente eudemonistica trascendente). Entrambi questi sistemi morali, a parte le loro difficoltà interne, si dimo­ strano improponibili alla luce del pessimismo. Se è vero che una positiva felicità, qualunque forma essa assuma, risulta irraggiungibile, è evidente che qualsiasi comportamento finalizzato a quello scopo risulta assurdo I6. Parimenti insostenibili sono due ulteriori varianti della morale eude­ monistica che, pur riconoscendo l'impossibilità della felicità, non rinuncia­ no all'egoismo e che Hartmann denomina « morale negativamente eude­ monistica terrena » e « morale negativamente eudemonistica trascenden­ te ». La prima pone come fine ultimo non la ricerca della felicità, ma l'as­ senza del dolore, fine che deve essere raggiunto mediante l'ascesi. Essa riconosce la mancanza di valore di tutti i beni - che vanno disprezzati -, ma non dell'esistenza stessa. Proprio in questo consiste il limite fondamentale di tale morale, giacché la pura esistenza, vuota di ogni contenuto, risulta di gran lunga più insopportabile anche di un'esistenza ricca di dolori (PSB, pp. 49-53; SP VI, p. 23 s.). Questa incoerenza parrebbe essere superata dal rifiuto totale dell'esi­ stenza, caratteristico dell'altro tipo di morale qui considerato: in esso il fine della assenza del dolore viene cercato in quel tipo particolare di trascen­ denza che è l'annichilimento totale dell'individuo (la morte). Anche nella sua forma migliore, rappresentata dalla filosofia di Schopenhauer, questa morale non esce dall'ambito dell'egoismo, in quanto la negazione della volontà è sempre perseguita in funzione della propria felicità (negativa). A parte le sue conseguenze inaccettabili per la sensibilità morale comune 17 ,

16 PSB, pp. 19-49; SP VI, pp. 15-23. Hartmann sottolinea anche che la morale dell'eudemonismo terreno possiede una scarsa capacità di motivazione, nelle occasioni in cui essa chiede all'uomo di rinunciare a un piacere immediato in vista di un ipotetico vantaggio lontano nel tempo. Quanto all'eudemonismo trascendente, in esso la capacità di motivazione dei vantaggi (o degli svantaggi) futuri è rafforzata dalla rappresentazione di un giudice supremo, cui è impossibile sfuggire. Ma tale sistema morale è messo in crisi dal crescente affievolirsi della credenza nell'immortalità dell'anima, che ne è la condizio­ ne fondamentale. Inoltre l'eudemonismo trascendente non è in grado di chiarire come l'uomo debba agire per conseguire la felicità nell'aldilà senza fare ricorso ad una morale eteronoma. 17 Qui Hartmann ripropone l'ormai tradizionale obiezione all'etica di Scho­ penhauer: posto che l'esperienza del dolore è la via fondamentale che conduce alla redenzione, colui che vuole essere veramente morale non deve cercare di lenire i dolori altrui, ma piuttosto deve sforzarsi di aumentarli (PSB, p. 56).

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essa non riesce a superare un'aporia di fondo: se l'individuo è unicamente una realtà fenomenica, la sua negazione non può avere alcun effetto signi­ ficativo sull'Uno-Tutto che ne costituisce il fondamento; se invece l'indivi­ duo è una realtà a sé stante - una sostanza -, esso è indistruttibile e quindi ogni sforzo di negarlo è destinato al fallimento 18. Sulla base dell'egoismo e dell'eudemonismo, in qualunque forma essi si presentino, è quindi impossibile costruire dei sistemi morali validi: per questo motivo essi producono solo una « coscienza pseudo-morale ». L'io da solo non può né raggiungere la felicità, né liberarsi dalla sofferenza dell'esistenza; l'« idolo » dell'io e l'egoismo ad esso legato fanno « banca­ rotta ». Dal punto di vista dello sviluppo della coscienza morale il ricono­ scimento di tale fallimento non può che essere salutato con favore, perché esso è condizione per forme più elevate di moralità. Queste considerazioni fanno risaltare di nuovo l'importanza capitale del pessimismo per la mora­ le, in quanto esso è strumento fondamentale per smascherare la vanità delle pretese dell'io e quindi è « il più efficace antidoto verso l'egoismo » (PSB, pp. 57-65; SP VI, pp. 25-27). La critica all'eteronomia è nel complesso meno originale, giacché, come lo stesso Hartmann riconosce, essa è sostanzialmente una riproposi­ zione delle tesi di Kant. Secondo Hartmann il principio delTeteronomia consiste nella sottomissione ad una volontà esterna alla quale si riconosce un'autorità superiore, una scelta che storicamente si afferma come un ten­ tativo di porre rimedio all'incertezza derivante dalla bancarotta dell'egoi­ smo e quindi alla fine del mondo greco e romano. Tale principio ha in sé un carattere formale, perché l'obbedienza alla legge esterna prescinde da una valutazione del suo contenuto. Esso è immorale perché l'obbedienza alla legge è qualcosa di meccanico, che sospende il naturale gioco degli istinti e delle motivazioni, in sostanza - sembra di capire - espropria l'individuo di funzioni che gli sono proprie: « la pretesa di realizzare un agire di valore 18 PSB, pp. 53-57; SP VI, p. 24 s. A prescindere dal fatto che Hartmann, almeno a questo stadio della PSB, non ha ancora mostrato perché l'individuo dovrebbe occu­ parsi del destino dell'Uno-Tutto, non si comprende per quali ragioni Hartmann rifiuti la possibilità che individui-sostanze possano continuare ad esistere cessando di volere e quindi cessando di soffrire: in definitiva questa è la condizione cui dovrebbe pervenire il suo Assoluto, una volta compiutosi il processo cosmico di negazione della volontà. D'altra parte, sempre secondo la filosofia di Hartmann, con la morte l'uomo - che è un individuo complesso - cessa di sussistere in quanto tale ed in particolare cessa di esistere la sua coscienza, con la quale ovviamente scompare anche il dolore. Da questo punto di vista il principio etico della felicità negativa trascendente pare poter realizzare piena­ mente jl fine che si propone, almeno dal punto di vista del singolo individuo.

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soggettivamente morale attraverso l'obbedienza ad una volontà estranea è altrettanto assurda quanto il cercare di nutrirsi mediante il cibo assunto da un'altra persona. Come solo il cibo di cui noi ci nutriamo ci alimenta, così solo l'autodeterminazione della volontà secondo proprie leggi intcriori che si compie nell'oscuro laboratorio dell'anima può rendere morali » 19.

3. LA MORALE DELLA RAGIONE E IL FINALISMO COSMICO.

Sgombrato il campo da queste inaccettabili dottrine morali, si tratta ora di approfondire i contenuti oggettivi della ragione in quanto principio determinante dell'agire morale. In questa sezione della Fenomenologia si delinea una classica triade dialettica costituita dal principio morale « socialeudemonistico », dall'antitetico « principio morale evoluzionistico » (o dello sviluppo culturale) e dal principio « dell'ordine morale universale », che costituisce la sintesi dei due principi precedenti. Benché qualificati come principi morali razionali, nessuno di essi di fatto si regge senza un riferimento alla morale assoluta, cosicché essi appaiono, presi in sé, assimi­ labili ai principi descritti nella morale del sentimento: il loro fondamento si trova, piuttosto che nella loro intrinseca razionalità, in tendenze naturali insite nella volontà, che nell'esplicarsi si giovano di una limitata elaborazio­ ne razionale. E il caso del primo di questi principi, quello del socialeudemonismo, che pone come fine dell'agire morale il raggiungimento del maggiore be­ nessere possibile per tutti gli uomini. Tale principio viene presentato come una sorta di soluzione di ripiego al vuoto che l'uomo sperimenta in sé dopo il fallimento dell'egoismo, tanto nella sua versione immanente quanto in quella trascendente. Questo fine morale oggettivo corrisponde all'incirca alla prospettiva in cui l'uomo si pone nel terzo stadio dell'illusione e questo richiamo è sufficiente a mostrare i limiti di tale principio (PSB, pp. 470516; SP VI, pp. 146-159). Hartmann vede inoltre un'incarnazione di questo principio non solo nel materialismo francese (Helvetius, D'Holbach) e nell'utilitarismo ingle19 PSB, pp. 65-104; SP VI, pp. 27-38. Hartmann procede anche in questo caso ad una lunga analisi dei vari tipi di morale eteronoma, secondo che essa si basi sull'autorità della famiglia, dello stato, dei costumi, della chiesa (cattolica), della parola di Dio (pro­ testantesimo). Quest'ultimo tipo di morale eteronoma rappresenta il punto di passaggio verso l'autonomia della morale, perché affida alla coscienza morale dell'individuo il compito di determinare lo specifico contenuto morale del testo sacro.

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se (Bentham e Mili), ma anche negli ideali degli odiati socialdemocratici, il cui progetto politico e sociale agli occhi di Hartmann non può che condur­ re ad un generale livellamento, alla rozzezza, alla « bestialità ». Se ciò avve­ nisse, sarebbe del tutto impossibile quel « progresso culturale », che costi­ tuisce l'antitesi al fine del benessere comune (PSB, p. 509 s.) Anche il principio del progresso culturale si fonda essenzialmente su una componente naturale dell'animo dell'uomo: « la tendenza allo svilup­ po in senso ascensivo » (PSB, p. 517). L'oggettività di questo principio cioè l'esistenza di fatto di un progresso - è confermata indirettamente dalla sua costante presenza nella tradizione filosofica, a partire da Leibniz, Lessing, Herder, Kant per giungere fino a Schelling e ad Hegel. È con Darwin tuttavia che esso ha ricevuto una definitiva conferma ed una forma scien­ tifica. Con l'uomo l'evoluzione delle forme esterne (delle varie specie) è giunta a compimento per lasciare spazio all'evoluzione storica ed in parti­ colare al progresso della cultura, cui l'uomo deve attivamente collaborare. Per progresso della cultura Hartmann intende « la realizzazione genetica dell'idea (nel senso assoluto della parola "Idea", cioè come unitaria totalità dell'intero complesso oggettivo delle idee) ». Ciò significa realizzare il più perfetto sviluppo di tutte le disposizioni presenti nell'idea dell'uomo, una tesi che pare richiamare l'idea di umanità di Herder. Più in particolare si tratta di sviluppare il più possibile l'intelligenza, il sentimento, il gusto (PSB, pp. 516-520; 564; SP VI, pp. 159-160,172). Va da sé che il principio dello sviluppo culturale corrisponde a ciò che nella Filosofia dell'inconscio era semplicemente indicato come innalzamento della coscienza. Darwinianamente, il mezzo per giungere a questo risultato è la selezio­ ne naturale che spinge l'uomo a sfruttare ed a sviluppare al massimo tutte le sue capacità e che ha come risultato la sopravvivenza e l'affermazione dei migliori. Di qui la necessità di un ordine politico e sociale che da una parte favorisca al massimo la competizione fra gli individui, i popoli, le razze, dall'altra garantisca ai migliori una posizione d'indipendenza e privilegio, condizioni necessarie per potersi dedicare alla cultura. Hartmann sviluppa in questo contesto una concezione fortemente aristocratica della cultura, vista come necessariamente ristretta ad una minoranza, cui viene attribuito il compito di guidare la storia 20.

20 PSB, pp. 528-541; SP VI, pp. 162-165. Per Hartmann la guerra, la schiavitù, la servitù della gleba, il capitale, la proprietà privata, la divisione del lavoro sono tutte condizioni necessarie per lo sviluppo della cultura.

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La necessità della lotta e del conflitto per il progresso culturale - con il dolore e le sofferenze che ne derivano - pone tale principio in antitesi al socialeudemonismo: molte delle misure politiche e sociali che questo prin­ cipio suggerisce (ad es. il contenimento della sovrappopolazione, la redi­ stribuzione dei beni, l'eliminazione delle rendite da capitale, l'aiuto indi­ scriminato ai poveri) rischiano infatti di costituire un grave intralcio al progresso culturale. Di qui l'utilità di una rinuncia preventiva alla felicità, quale è favorita dal pessimismo, la cui importanza per la morale è ancora una volta sottolineata 21 . Hartmann sostiene d'altra parte che il principio del socialeudemoni­ smo è troppo profondamente radicato nell'uomo per poter essere intera­ mente negato. Si tratta dunque di giungere ad una sintesi fra di esso e il principio del progresso culturale. Intanto Hartmann nota che lo sforzo di limitare il più possibile le sofferenze umane, contenuto nei giusti limiti, non solo può evitare inutili crudeltà, ma può anche positivamente concorrere al progresso. Se si rappresenta il progresso culturale come una guerra, il so­ cialeudemonismo può essere paragonato alla Croce Rossa, che, assistendo e curando i feriti, rincuora i combattenti e quindi contribuisce positivamen­ te alla vittoria, beninteso nella misura non intralci le operazioni militari e non trattenga dal tornare alla battaglia i feriti, una volta guariti (PSB, pp. 568-570; SP VI, p. 173 s.). Ad una piena sintesi fra socialeudemonismo ed evoluzionismo si può giungere però solo se il socialeudemonismo viene depurato da un suo errore di fondo, che consiste nel considerare significa­ tivo solo il benessere degli individui di livello inferiore - nel caso specifico i singoli uomini - e, conscguentemente, nel non voler prendere in conside­ razione anche l'interesse degli individui di livello superiore, quali la fami­ glia, la comunità cui ciascuno appartiene, lo stato, via via fino all'intera umanità e all'Assoluto. Se ciò invece avviene e se contestualmente si attri­ buisce al benessere di questi individui superiori un valore maggiore di quello individuale, non sussistono più difficoltà per coniugare fra loro i due principi, il che avviene « nel principio dell'ordine morale universale » 22 . 21 PSB, pp. 542-564; SP VI, pp. 165-172. In questo contesto Hartmann dedica molte pagine alla condizione della donna, il cui compito essenziale è identificato nella maternità, anch'essa da affrontare non in una prospettiva eudemonistica, bensì nell'ot­ tica di apprestare « truppe di riserva » per la battaglia della cultura. Nella stessa prospet­ tiva va difesa l'istituzione matrimoniale. Hartmann non manca neppure di offrire indi­ cazioni sul tipo di pedagogia che deve essere sviluppata nel senso del progresso culturale. 22 PSB, p. 573 s.; SP VI, p. 174 s. Hartmann non chiarisce tuttavia in che misura il benessere degli individui superiori, che, con la possibile eccezione dell'Assoluto, non

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Per ordine morale universale Hartmann intende « quella parte del piano cosmico teleologia) che viene realizzato da essenze consce e moral­ mente responsabili ». Esso non è una legge, né un codice di leggi - si ricadrebbe nell'eteronomia -, ma diviene tale solo nella misura in cui è riconosciuto come vincolante da parte delle coscienze. Questo principio non pare dipendere da una specifica tendenza della volontà, ma piuttosto si configura come una mediazione razionale fra i due principi precedenti, nel senso che esso è il parametro in base al quale decidere nei conflitti fra la tendenza alla felicità e la tendenza allo sviluppo culturale. In questo principio - quando si prescinda dal riferimento al contenu­ to del « piano cosmico », la cui determinazione Hartmann ostinatamente rimanda a più oltre - culmina la riflessione etica di Hartmann, i cui conte­ nuti, offerti dai due principi precedenti, non si distaccano di molto dalle prospettive morali diffuse nell'epoca: sul piano soggettivo l'individuo deve cercare di perfezionarsi moralmente, sviluppando la coscienza morale; sul piano oggettivo deve sforzarsi di realizzare istituzioni sociali e politiche morali. Hartmann - almeno in quest'opera - non si impegna molto nell'illustrare tali contenuti e ancor meno offre criteri precisi per decidere del­ l'equilibrio che deve venirsi a creare fra questi elementi dell'ordine morale universale (PSB, pp. 574-611; SP VI, pp. 175-189). Si ha così la sensazione che ciò che sta veramente a cuore ad Hartmann non sia tanto il fondare una morale originale, quanto il mostrare che il pessimismo non intralcia, ma anzi favorisce (giustificando la necessità di superare l'egoismo) la mo­ rale tradizionale. Insomma sembra che il vero scopo di questo ponderoso volume sia in definitiva solo quello di rassicurare tanto i sostenitori e quan­ to gli awersari del pessimismo: anche se si è pessimisti - sembra dire Hartmann - si può e si deve essere dei buoni cittadini, pronti al sacrificio per il bene comune e per il progresso dello stato cui si appartiene. Non per caso altrove egli sottolinea con grande vigore le differenze che sussistono fra l'agire pratico che deriva dalla sua versione del pessimismo e quello che consegue ad altre forme di pessimismo. Egli fa riferimento in primo luogo al « pessimismo per sdegno » esemplificato da Dùhring e del quale si parlerà più oltre. Questo tipo di pessimismo - tipico di « millan­ tatori ed agitatori demagogici » - esprime unicamente l'insoddisfazione per la condizione presente, propugna ideali astratti, stereotipati e per questo posseggono una coscienza individuale, possa essere considerato omogeneo a quello degli individui inferiori, in questo caso dei singoli uomini. Non per caso egli usa in questo contesto il termine Wohl e non Lust o Gluckseligkeit:

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senza valore pratico e vive solo della capacità dei suoi sostenitori di calun­ niare ogni cosa (ZGB, p. 156). Ve poi il pessimismo quietistico (Schopenhauer) che distrugge la fede dell'uomo nelle sue capacità e nel progres­ so. A differenza del « pessimismo per sdegno » che indirizza tutte le forze del popolo verso l'esterno, esso rimanda all'interiorità e conduce solo ad un futile occuparsi di se stessi e del proprio dolore (SGB, p. 157). I difetti di entrambi si sommano nel « miserabilismo » (Bahnsen). Questo modo di vedere, originato da una disposizione patologica del carattere, da una parte attribuisce al mondo esterno la responsabilità di tutte le sofferenze, dall'al­ tra, convinto dell'inutilità della lotta, propugna di fatto la rassegnazione quietistica (ZGB, p. 157 s.). Il pessimismo di Hartmann invece ha fede nel progresso e richiede all'uomo fattivo impegno nella vita, alla luce del suo idealismo, e in questo senso è « in diametrale opposizione » al quietismo schopenhaueriano; d'altra parte, dato che ha superato il terzo stadio dell'il­ lusione ma al tempo stesso riconosce l'almeno parziale razionalità del pre­ sente, non ritiene che il futuro possa portare all'uomo la felicità e per questa ragione si oppone anche al « pessimismo per sdegno ». Ancor maggiore è ovviamente la distanza dal « miserabilismo ». Coloro che dunque non ten­ gono conto di queste differenze, conclude Hartmann, o non conoscono adeguatamente il suo pensiero o sono in malafede (ZGB, p. 158). Nonostante gli sforzi di affermare l'indipendenza della sua morale dalla contestata metafisica pessimistica, lo stesso Hartmann sembra alla fine venire in chiaro delle difficoltà implicite nella sua esposizione, quando, aprendo la sezione conclusiva della Fenomenologia, dichiara che la morale senza uno stretto legame con la metafisica « rimane campata in aria » (PSB, pp. 611-620). La fondazione metafisica dell'etica tuttavia aggiunge poco di sostan­ ziale a quanto era già stato detto nella Filosofia dell'inconscio. Hartmann si richiama anzitutto al suo « monismo concreto », che nell'ambito dell'etica si traduce nel « principio morale monistico ». Secondo tale principio, una volta squarciato il « velo di Maia » dell'individuazione, l'uomo riconosce la sua identità sostanziale con tutti gli individui: questa identità rende as­ surdo l'egoismo, nella misura in cui produce sofferenza nel prossimo, ed al tempo stesso spiega e fonda gli istinti altruistici (amore, compassione), che derivano dalla percezione inconscia dell'unità del tutto. Essa altresì sta alla base del principio del socialeudemonismo (PSB, pp. 620-630; SP VI, pp. 191-194). Il principio monistico tuttavia, considerato sotto quest'unico aspetto, non è in grado di dare un'adeguata spiegazione dei principi dello sviluppo

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culturale e dell'ordine morale universale. Bisogna però tener presente che, sempre secondo il « monismo concreto », non sussiste solo un'identità so­ stanziale fra fenomeni, ma anche fra di essi e l'Assoluto. Ecco che allora il finalismo contenuto in questi due principi va riconsiderato - e in definitiva fondato - alla luce del finalismo dell'Assoluto. Posta l'identità di mondo e Assoluto nei termini che si sono visti, risulta allora che la finalità contenuta nei due principi deve essere identica con la finalità dell'Assoluto. Ciò, se­ condo Hartmann, ha come conseguenza il fatto che questi principi assu­ mono valore vincolante: l'individuo non ha nessun diritto di sottrarsi a dei fini che sono quelli di un'essenza cui lui stesso appartiene (PSB, pp. 655660; SP VI, pp. 204-206). D'altra parte questa identità consente anche di dare una risposta al problema del fine ultimo dell'intero processo, giacché, come si è visto, una serie di fini, per non restare « sospesa nell'aria », deve far capo ad un fine ultimo. La risposta a questo problema è la stessa della Filosofia dell'incon­ scio: l'Assoluto, nell'impossibilità di ottenere una positiva beatitudine, or­ ganizza finalisticamente il mondo allo scopo di giungere ad annichilirlo e quindi a liberarsi della sofferenza prodotta dal suo volere irrazionale. La Fenomenologia offre qualche interessante chiarificazione circa il modo in cui questa organizzazione finalistica si raccorda - o può raccordarsi - alla morale. Anzitutto Hartmann sottolinea come il fine che l'Assoluto si pone non può essere morale, giacché di morale si può parlare solo in presenza di una molteplicità d'individui, laddove l'Assoluto non ha nulla fuori di sé. Questo spiega secondo Hartmann perché il fine « eudemonistico » della cessazione del dolore non debba essere inteso come se l'egoismo, condan­ nato all'inizio come pseudo-morale, venisse ora legittimato per l'Assoluto. Si è già visto infatti in riferimento al socialeudemonismo che la ricerca della felicità non è in sé qualcosa di negativo, ma lo diviene nella misura in cui o risulta irrealizzabile, o si realizza provocando sofferenza ad altri o intral­ ciando l'adempimento di altri doveri. Si è anche visto come il socialeude­ monismo deve essere considerato legittimo nella misura in cui esso non si limita a considerare il benessere dei singoli individui, ma tiene conto anche del benessere degli individui di livello superiore: ora è evidente che l'Asso­ luto è « l'individuo assoluto » e in questa prospettiva si può comprendere come ad esso sia in qualche modo esteso il principio del socialeudemoni­ smo. L'uomo può e deve provare compassione per le sofferenze dell'Asso­ luto come la prova per quelle del suo prossimo (la compassione sostituisce a questo livello l'amore verso Dio) e può quindi farsi guidare dal « princi­ pio morale della redenzione »: esso « pone come fine assoluto la redenzio-

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ne dell'Assoluto dalla sua infelicità trascendente per mezzo della sofferenza immanente del processo cosmico » 23 . Ciò che tuttavia caratterizza l'approccio della Fenomenologia al pro­ blema della negazione cosmica della volontà è il fatto che Hartmann sotto­ linea con forza come questa dottrina in sé nulla aggiunga o tolga alla mo­ rale finora delineata: se infatti l'ordine finalistico del mondo è empirica­ mente dato, se con esso sono dati i fini particolari che devono essere per­ seguiti, e se questo finalismo è garantito metafisicamente dalla natura teleologica dell'Assoluto — questa sì un'ipotesi necessaria all'etica -, è indiffe­ rente dal punto di vista pratico sapere quale sia il fine ultimo cui i fini particolari sono subordinati (PSB, p. 661 s.; cfr. anche ZGB, p. 288). Na­ turalmente un tale atteggiamento è giustificato solo se si presuppone che il raggiungimento del fine ultimo sia abbastanza lontano da non richiedere la determinazione degli specifici comportamenti necessari al suo consegui­ mento, vale a dire se non deve essere considerato problema attuale quello d'individuare come si possa giungere alla negazione cosmica della volontà, un tema che nella Fenomenologici è dichiarato inaccessibile alla conoscenza umana (PSB, p. 681). Sta di fatto che Hartmann nel corso dell'opera cerca di limitare il più possibile ogni riferimento anche indiretto al suo ipotetico fine ultimo; in particolare non spiega quale relazione sussista fra la realiz­ zazione dell'ordine morale universale e la negazione del volere e neppure richiama il nesso fra innalzamento della cultura e diffusione del pessimi­ smo che costituiva uno dei capisaldi della filosofia pratica della Filosofia dell'inconscio 24 .

23 PSB, p. 684. Hartmann sottolinea anche come l'immagine di un Dio sofferente può apparire all'uomo sofferente più attraente di quella di una divinità che contempla nella sua beatitudine la sofferenza del cosmo (PSB, p. 681 s.). 24 In queste pagine Hartmann presenta l'adesione alla teleologia cosmica - indi­ pendentemente dal suo fine ultimo - come di per sé vincolante, senza riferirsi al vantag­ gio eudemonistico che da essa può derivare all'individuo. In questo modo Hartmann evita di chiarire in modo definitivo il ruolo svolto dall'eudemonismo nella sua filosofia morale - problema che sarà puntualmente sollevato dai suoi critici. Egli tuttavia finisce per non spiegare in maniera soddisfacente le ragioni del carattere vincolante del princi­ pio dell'ordine morale universale, problema che non può essere risolto semplicemente affermando che l'adesione a tale principio da parte dell'individuo dipende da tendenze connaturate al volere (soluzione cui pure Hartmann in alcuni passi sembra propendere).

9. LA METAFISICA DI BAHNSEN

1. SVILUPPO E CARATTERI DELLA FILOSOFIA DI BAHNSEN.

La figura di Julius Bahnsen si presenta con caratteri per molti aspetti opposti a quelli di Hartmann: laddove Hartmann ottiene immediatamente un grande successo, tanto da divenire « filosofo alla moda », l'opera di Bahnsen passa quasi del tutto inosservata ed al più, come si vedrà, ottiene il discutibile riconoscimento di rappresentare il « caso limite » del pessi­ mismo, un « miserabilismo » in cui soprattutto il pessimismo di Hartmann, tutto sommato sempre preoccupato di non urtare troppo la sensibilità dei benpensanti berlinesi, indica la posizione estrema da cui differenziarsi. Bahnsen approda a Schopenhauer alla conclusione di uno sviluppo che si protrae fino al 1855-1856 1 . Già nella casa paterna Bahnsen si apre ai 1 La fonte principale per la biografia di Bahnsen è l'autobiografia Wie ich wurde was ich ward (WIW), composta fra il 1875 e il 1881 pubblicata postuma. Il più recente e completo studio d'insieme su Bahnsen è Heydorn 1953, che offre una presentazione molto « simpatetica » della sua filosofìa. Essa si sofferma in particolar modo sulla forma­ zione di Bahnsen, facendo largo uso del Nachlass conservato nella Staatsbibliothek di Amburgo. Il libro contiene anche una bibliografia completa degli scritti del filosofo ed un catalogo del citato Nachlass - più di duecento numeri. Julius Bahnsen nasce a Tondern nel ducato dello Schleswig nel 1830; suo padre era direttore del locale Volkschullehrerseminar e da lui Bahnsen riceve la prima istruzione. Rimasto orfano della madre un evento che lascia una traccia indelebile in lui (« L'infanzia mi è rimasta debitrice del suo paradiso », WIW, p. 4 s.) -, egli prosegue i suoi studi a Schleswig, per immatricolarsi poi all'Università di Kiel nel settembre del 1848, in un ambiente che, a giudicare da quanto si dice nella autobiografia, non risulta per lui particolarmente stimolante da un punto di vista culturale. Nel 1849, alla fine di luglio, l'evento che determina tutto il corso seguente della sua vita: la sollevazione dello Schleswig-Holstein lo vede volontario contro la Danimarca - egli si sente pienamente tedesco e ciò fra l'altro lo pone in contrasto con

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problemi filosofici: egli si trova infatti immerso nella discussione in atto fra protestantesimo ortodosso e razionalismo liberale, per il quale il padre pro­ pende, ed in particolare viene a conoscenza degli scritti di Bretschneider. Bahnsen tuttavia procede subito oltre e, ancor prima di giungere all'univer­ sità, inizia ad interessarsi dei teologi di Tubinga (Strauss e Baur) e dell'he­ gelismo di sinistra: Feuerbach (« il suo più grande e più amato maestro »), Ruge, i fratelli Bauer, Stirner, gli « Hallische Jahrbùcher ». In breve egli fa proprie «le più radicali delle velleità radicali» (WIW, p, 19). Poi, quasi improvvisamente, il 10 marzo 1847 - Bahnsen sta per compiere diciassette anni - egli è afferrato dall'intuizione della nullità dell'esistenza, un'intuizio­ ne - non il risultato di « argomentazioni sillogistiche » - che costituisce « il pensiero centrale » di tutte le sue riflessioni seguenti: in un manoscritto del 1849/50, che contiene in nuce quasi tutta la filosofia futura di Bahnsen, questa intuizione è espressa con la formula « l'uomo è solo un nulla coscienil padre. Con il fallimento della sollevazione Bahnsen si vede costretto all'esilio: si trasfe­ risce (1851) all'università di Tùbingen, dove entra in contatto con Vischer, nel quale vedrà sempre un modello insuperato di docente universitario. A Tiibingen insegnano anche I.H. Fichte - che Bahnsen considera un esponente di quell'idealismo cui egli intende opporsi - e, Reiff, che invece con la sua metafisica volontaristica esercita un certo influsso su Bahnsen. Terminata l'università (1853), Bahnsen è precettore in varie località della Germania del Nord e in particolare in casa Mòller, ad Amburgo, dove conosce colei che, nonostante l'opposizione della famiglia, diverrà nel 1862 la sua prima moglie. Abilitatosi all'insegnamento nella scuola, nel 1858 si pone a disposizione del Ministero prus­ siano, nonostante il « tradimento » dello Schleswig-Holstein perpetrato dalla Prussia. Dopo alcuni anni trascorsi ad Anclam - il primo incarico è dell'ottobre del 1858 -, Bahnsen viene inviato nel 1862 a Lauenburg, una sperduta cittadina della Pommerania, « lontana da ogni città universitaria plus minus cinquanta miglia » (RD I, p. IX. Lauen­ burg aveva 3810 abitanti nel 1868 e 8050 nel 1890). Qui egli insegnerà tedesco, latino, storia e geografia nella locale Realschule fino alla morte, vedendo frustrati tutti i suoi tentativi di modificare una situazione per lui largamente insoddisfacente e, in particolare, di trovare una sistemazione in qualche università, posizione cui « darwinisticamente » Bahnsen si sentiva destinato (WIW, p. 2 s.: tutte le posizioni più basse d'insegnamento - dal semplice maestro fino al preside di scuola superiore - erano già state occupate in scala ascendente dai membri della sua famiglia). La sua vita, da questo momento in poi, non presenta più avvenimenti di rilievo, ma è per Bahnsen una successione ininterrotta di delusioni e sofferenze. Rimasto vedovo dopo un anno e mezzo di matrimonio, Bahnsen si sposa una seconda volta nel 1868, un matrimonio che si rivela un fallimento completo e si conclude sei anni dopo con una dolorosa separazione. Isolato e poco amato nella piccola città dove insegna (la sua elezione nel consiglio comunale di Lauenburg viene duramente osteggiata), disgustato dal modo in cui si è realizzata l'unificazione della Germania, insofferente della vita politica e della lotta tra i partiti, praticamente ignorato come autore, continua ostinatamente e faticosamente a scrivere. Il primo volume della sua opera più importante, Der Widerspruch im Wtssen una Wesen der Welt, esce nel 1880, pochi mesi prima che un attacco di difterite lo conduca alla tomba (1881). Il secondo volume dell'opera uscirà postumo nel 1882.

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te di sé » 2. Si tratta di un modo di sentire che ha profonde radici in quella sua « innata discolia » che già il giorno precedente al suo ottavo complean­ no gli aveva ispirato il desiderio di suicidarsi e che egli riconoscerà sempre come sua caratteristica specifica (WIW, p. 19 s.). Da questo momento Bahnsen cerca di dare un'adeguata formulazione concettuale al suo nichili­ smo. Nel manoscritto citato egli fa ricorso alla strumentazione della dialet­ tica hegeliana. Ogni aspetto del reale è - hegelianamente - in sé contraddittorio, ma tale contraddittorietà non è superata nel movimento della realtà: le opposizioni sussistono eternamente e hanno come risultato il nulla. In una realtà così eternamente disgregata non si può parlare di un Assoluto che hegelianamente dovrebbe rappresentare il momento del superamento definitivo delle contraddizioni, né si può credere che lo sviluppo storico possa condurre al raggiungimento di qualche fine: « La storia è il passare del nulla dal nulla al nulla; il tempo è la forma d'esistenza di questo diveni­ re; lo spazio quella per il nulla nel suo essere » (Heydorn 1953, p. 64). A partire dall'aprile del 1850, nelle riflessioni e nelle critiche che ac­ compagnano gli appunti delle lezioni di Reiff si manifesta una svolta mate­ rialistica: Bahnsen rifiuta il dualismo materia/spirito affermando l'esistenza della sola materia, sostiene un rigido determinismo, pone l'elemento dina­ mico della realtà nella forza e non nella volontà - come invece voleva Reiff 3 . Quanto al resto Bahnsen ripropone nella sostanza il suo nichilismo; qui, coerentemente con il suo materialismo, più che sulle contraddizioni della realtà, l'accento è posto sulle opposizioni fra le forze, che, neutraliz­ zandosi a vicenda, hanno per risultato il nulla (Heydorn 1953, pp. 68-72). Nel 1853 Bahnsen si addottora con una dissertazione di estetica, un tema scelto probabilmente sotto l'influsso della personalità di Vischer. Ma già il titolo mostra come Bahnsen non abbia fatto concessioni all'idealismo del suo « maestro »: Versuch, die Lehre von den drei àsthetischen Grundformen genetisch zu gliedern nach den Voraussetzungen der naturwissenschaftlichen Psychologie. In effetti il tono della dissertazione è così polemico ed aggressivo da causare una dura critica da parte di Vischer, pur ben dispo2 Citato in Heydorn 1953, p. 61. Il manoscritto - di sedici pagine - iniziato il 17 dicembre 1849 e concluso il 2 luglio 1850 - insieme agli appunti delle lezioni di Reiff ed alla tesi di laurea costituiscono i documenti più significativi dello sviluppo del pensiero di Bahnsen. 3 Reiff ha richiamato l'attenzione di Bahnsen sul concetto di volontà che, come ha notato Heydorn 1953, p. 42, entra a far parte del suo vocabolario filosofico solo a partire da quel periodo (cfr. Reiff 1842). Reiff inoltre è stato il primo a parlare di Schopenhauer a Bahnsen (cfr. WIW, p. 45 s.).

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sto verso Bahnsen per i suoi trascorsi politici 4 . Bahnsen muove dalla tesi che « ogni ideale è forza » e che l'essenza dell'arte si trova nel rapporto fra la somma delle forze dell'individuo e quella dell'oggetto estetico. Si avrà il tragico quando le forze dell'oggetto sono superiori a quelle del soggetto, il bello quando v'è equilibrio e, infine, il comico quando ad essere superiori sono le forze del soggetto (Heydorn 1953, pp. 74-77). Il materialismo non costituisce però un punto d'approdo definitivo. Le poche riflessioni che si riferiscono agli anni 1854/55 ci mostrano un Bahnsen che non riesce a conciliare dialettica e materialismo, né d'altra parte si sente di ritornare all'idealismo hegeliano. La realtà è contraddittoria, frammentata, senza più unità; non sembra possibile altra via d'uscita che lo scetticismo (Heydorn 1953, pp. 77-80). In questo contesto avviene la « conversione » alla filosofia schopenhaueriana. Quel Bahnsen che ancora nel maggio del 1855 si esprime in tono indiscutibilmente materialistico, nel giugno del 1856 affronta già in specifici manoscritti problematiche interne alla filosofia di Schopenhauer 5 . L'8 agosto dello stesso anno Bahnsen è a Francoforte per conoscere perso­ nalmente il suo nuovo maestro. L'impressione personale che ne ricava è delle migliori: Schopenhauer - generalmente dipinto come chiuso e sco­ stante - lo riceve con estrema gentilezza e, accogliendolo implicitamente nel numero dei suoi discepoli, lo congeda con un enfatico « ultinam fiat, ut completus sit numerus sanctorum! ». Bahnsen vede nell'uomo Scho­ penhauer la conferma della validità della sua filosofia (« un carattere della più pura sublimità ») e si sente « rapito in una nuova esistenza » 6. Questa conversione tuttavia non da luogo ad un'acccttazione acritica 4 Heydorn 1953, p. 43. Vischer era stato membro dell'Assemblea di Francoforte, quell'assemblea cui i rappresentanti dello Schleswig-Holstein si erano rivolti per ottene­ re aiuto contro i Danesi. 5 Heydorn 1953, p. 80 s. Già nel 1854 peraltro Bahnsen aveva impiegato i primi soldi guadagnati come precettore per acquistarsi una copia del Mondo: la « conversio­ ne », come nel caso di Frauenstàdt, deve essere stata quindi meno improvvisa di quanto Bahnsen voglia far credere (WIW, p. 46). 6 WIW, p. 47. Bahnsen vede Schopenhauer ancora una volta nel settembre del 1857 e durante quella visita Schopenhauer lo paragona per la profonda conoscenza delle sue opere a Frauenstàdt (WIW, p. 48). Fra Bahnsen e Schopenhauer ha inizio anche un carteggio che però prosegue piuttosto fiaccamente (sono conservate otto lettere di Bahnsen e quattro di Schopenhauer). Bahnsen è comunque preso da zelo « apostolico » per la filosofia del maestro: vorrebbe tenere ad Amburgo delle conferenze, fondare una rivista dedicata esclusivamente alla filosofia di Schopenhauer e si interessa della questio­ ne della cattedra di « filosofia schopenhaueriana » che si sarebbe dovuta istituire a Zurigo. Ma tutte queste iniziative cadano nel vuoto (cfr. in particolare D, XV, p. 707 s.).

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del pensiero del « maestro ». Infatti Bahnsen, da una parte, rifiuta due « dogmi » fondamentali dello schopenhauerismo, vale a dire l'idealismo (e quindi il carattere esclusivamente fenomenico della molteplicità) e la dot­ trina della negazione del volere (WIW, p. 49), dall'altra utilizza i concetti fondamentali di Schopenhauer in modo tale da non modificare di molto la propria strumentazione concettuale. Poco ad esempio muta nel suo mate­ rialismo, che si trasforma in un dinamismo con vaghe venature spiritualistiche, escludendo comunque sempre il dualismo materia/spirito; lo stesso concetto di volontà non sostituisce ma affianca il concetto di forza; un nuovo determinismo metafisico si sostituisce a quello empirico, non la­ sciando alcuno spazio alla libertà. Ciò che Bahnsen trova di liberatorio nella filosofia di Schopenhauer, ciò che gli fa superare l'impasse in cui si era venuto a trovare è essenzialmente il suo pessimismo (WIW, p. 46). Schopenhauer offre a Bahnsen non solo l'esplicita e convincente tematizzazione di un modo di sentire e di vedere la realtà che caratterizza la sua esperienza esistenziale fin dalla prima giovinezza, ma anche una risposta o forse meglio le premesse per dare una risposta - ai problemi teoretici intorno ai quali egli si affaticava da tempo. Come si vedrà meglio in segui­ to, essere pessimisti infatti significa per Bahnsen riconoscere che la contraddittorietà che si manifesta nella realtà non dipende dai limiti della nostra facoltà conoscitiva, ma è qualcosa di essenziale alla realtà stessa. È quindi impossibile giungere a comprendere fino in fondo la realtà; quanto più l'uomo insisterà in questa impossibile impresa, tanto più cadrà vittima della disperazione. Solo riconoscendo l'irrazionalità della realtà l'uomo potrà raggiungere una sia pur parziale serenità. Segnificativo in proposito è un passo di uno dei manoscritti iniziati subito dopo la « conversione »: « Davvero le scoperte contraddizioni [della realtà] non sono errori del pensiero, ma immediati riflessi della realtà intimamente contraddittoria » 7 . Da questo momento in poi l'attività letteraria di Bahnsen si muove nel segno della filosofia di Schopenhauer. Dopo un primo saggio del 1857 in cui, riprendendo la tesi della intuitività della matematica, si fa conoscere come discepolo di Schopenhauer (Bahnsen 1857), egli pubblica nel 1867 presso Brockhaus, il prestigioso editore del Mondo, la Caratterologia (BC), la sua opera relativamente più fortunata, opera che costituisce in sostanza un'applicazione pratica delle teorie schopenhaueriane 8. 7 giugno 8 questo

MS. « Zum Verhaltnis von Sprache und Denken, Logik und Grammatik » del 25 / 2 luglio 1856 cit. in Heydorn 1953, p. 80. Un saggio di BC era stato pubblicato nel 1864 (Bahnsen 1864 e 1864b). Su aspetto del pensiero di Bahnsen Io studio più informato è Leiste 1928, che a

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A questo punto ha luogo l'incontro con Hartmann, una figura che nel bene e nel male occupa un posto di rilievo nella vita di Bahnsen 9. Venuto a conoscenza della Filosofia dell'inconscio nel 1869, egli pensa per un momento di aver trovato in Hartmann un filosofo giunto essenzialmente alle sue stesse conclusioni nella necessaria « revisione » della filosofia di Schopenhauer, ma tale impressione non risulta confermata dalla lettura diretta dell'opera: Bahnsen pubblica allora due opuscoli nei quali si pole­ mizza aspramente contro la filosofia di Hartmann dal punto di vista della « realdialettica », i cui contenuti, dati per presupposti, emergono in modo incompleto e frammentario dalle critiche rivolte contro Hartmann 10. Questi risponde con una lunga recensione-critica del primo dei due opu­ scoli e della Caratterologia (Hartmann 1869), uno scritto che Bahnsen nel complesso giudica positivamente. Da questo momento il rapporto tra i due vive la sua stagione migliore: Hartmann chiede a Bahnsen di rivedere stili­ sticamente i drammi che sta per pubblicare sotto lo pseudonimo di Karl Robert, lo convince a pubblicare una recensione relativamente benevola della Filosofia dell'inconscio sulla « National-Zeitung » di Berlino 11 , lo mette in contatto con Du Prel, Bolin e Hieronymus Lorm e infine cerca di p. 74 s. da indicazioni abbastanza complete sulla fortuna della caratterologia, i cui cul­ tori - in particolare Ludwig Klages - si sono non di rado rifatti a Bahnsen. 9 Bahnsen racconta estesamente nella autobiografia la storia del suo incontro/ scontro con Hartmann (WIW, pp. 72-75). Hartmann - che come è noto è sopravvissuto a Bahnsen - richiesto a suo tempo da Louis di dare una sua versione della vicenda, ha liquidato la questione attribuendo ogni responsabilità alle difficoltà psicologiche di Bahnsen (in una lettera a Louis, egli parla della « psychopathische Natur » di Bahnsen [Louis 1905, p. XLV]). 10 WIW e PG. Anche in altri due saggi coevi (Bahnsen 1870 e 1871) Bahnsen o non parla della realdialettica o ne parla solo per cenni e in modo ellittico. Nel primo di essi Bahnsen prende posizione contro l'interpretazione idealistica di Kant che deve es­ sere superata facendo riferimento alla volontà schopenhaueriana, da intendersi come originariamente molteplice e caratterizzata da un'originaria tendenza al conoscere (« La volontà è essenzialmente volontà di conoscenza», Bahnsen 1870, p. 353). In questo contesto c'è una ripresa della polemica contro la distinzione di Hartmann fra volontà ed idea. In Bahnsen 1871 invece, studiando i vari significati del concetto di essere, Bahn­ sen, attraverso un argomentare tormentato e spesso alquanto confuso, sottolinea il carat­ tere « antropologico » delle determinazioni logiche e quindi la loro non-assolutezza, in quanto soggettivamente condizionate. Non esiste quindi nessuna garanzia che esse ab­ biano un riscontro nella realtà. Più nello specifico, se essere e non-essere non sono determinazioni assolute, si può dire che ogni cosa, platonicamente, è e non è, il che, secondo Bahnsen, conduce necessariamente al nichilismo. 11 Bahnsen 1971b. Anche in questa recensione non manca tuttavia qualche spunto polemico, ad esempio il fatto che Hartmann definisce il mondo il migliore dei mondi possibili dopo averlo descritto in termini ancora peggiori di Schopenhauer vien detto un « Zauberstùckchen ».

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trovargli una sistemazione all'Università di Wurzburg, dove egli conosce Franz Hoffmann. Bahnsen da parte sua battezza il terzo figlio avuto nel secondo matrimonio Arthur Eduard Hartmann (Louis 1905, p. XLII). Hartmann si preoccupa anche della salute dell'amico, recatesi a Ber­ lino per una visita specialistica, ed in questa occasione, intorno alla Pasqua del 1871, avviene il primo incontro personale tra i due. La discussine risul­ ta del tutto infruttuosa e Bahnsen^ è colpito, oltre che dalla giovane età di Hartmann (a quell'epoca ventinovenne), dal suo tono riservato. L'occasio­ ne della rottura è offerta dalla famosa autoconfutazione « darwinistica » della filosofia dell'inconscio, pubblicata anonima da Hartmann: Bahnsen giudica la cosa un'intollerabile trovata pubblicitaria ed invia ad Hartmann un saggio violentemente critico. Così cessa ogni rapporto fra i due, benché Hartmann continui a interessarsi alla produzione filosofica di Bahnsen, dando tutto sommato un giudizio positivo del filosofo 12. Una volta resosi conto di non poter trovare in alcun modo in Hart­ mann un alleato, Bahnsen considera d'allora in poi Hartmann come un pericoloso avversario e, forse, il non ultimo responsabile del suo insuccesso letterario. Hartmann infatti gli appare aver sfruttato a suo vantaggio con il suo pessimismo addomesticato la fortuna di Schopenhauer, « soffiando sotto il naso » il successo ai discepoli rimasti fedeli allo spirito di Scho­ penhauer (WIW, p. 115). Egli riconosce nondimeno di aver ricevuto da Hartmann « una quantità di stimoli » che lo hanno portato a precisare i contenuti del suo pensiero, a rendere esplicite le sue divergenze dalla filo­ sofia di Schopenhauer: « senza gli impulsi ricevuti da parte di von Hart­ mann difficilmente la realdialettica sarebbe mai concresciuta a dottrina universale ». Di intralcio allo sviluppo del suo sistema è stata invece la filosofia della natura di Hartmann, le cui ipotesi, risultate poi infondate, sono state spesso considerate indiscutibile scienza da Bahnsen, poco ferra­ to nelle scienze della natura (WIW, pp. 75-77). 12 Bahnsen, nell'autobiografia, fornisce il titolo del saggio inviato ad Hartmann: Das Unbewusste una kein Ende. Esso è stato poi incluso in Bahnsen 1876, pp. 60-82. Non è stato possibile accertare se questo saggio sia stato pubblicato anche separatamen­ te. Può darsi che sia stato inviato ad Hartmann in forma manoscritta. In ogni caso ciò deve essere avvenuto intorno al 1873, perché a quell'anno risalgono le ultime lettere e gli ultimi incontri fra i due filosofi alla stazione climatica di Driburg (Louis 1905, p. XLII). Hartmann si è occupato della « filosofia della storia » di Bahnsen in Hartmann 1876 e 1876d e della Realdialettica in Hartmann 1881. Al contrario, della ricca produzione filosofica seguente alla Filosofia dell'inconscio non v'è pressoché traccia negli scritti di Bahnsen. Un'eccezione è costituita da una breve recensione di NSH e di Hartmann 1872, naturalmente molto ostile (Bahnsert 1878c).

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La rottura con Hartmann e quindi la necessità di proseguire da solo il lavoro di revisione della filosofia di Schopenhauer non sembrano però aver avuto l'effetto di spingere Bahnsen ad offrire immediatamente al pubblico una chiara ed organica esposizione di quella « realdialettica » che avrebbe dovuto da una parte precisare il punto di vista della sua critica ad Hart­ mann, dall'altra sviluppare compiutamente il suo schopenhauerismo rifor­ mato. Si deve infatti attendere fino al 1880, perché Bahnsen si decida a dare alle stampe la sua opera capitale di Bahnsen: La contraddizione nel sapere e nell'essenza del mondo 13 . Anche quest'opera presenta il « sistema » di Bahnsen attraverso una serie di saggi non privi di ripetizioni e sovrappo­ sizioni, alcuni dei quali danno per presupposto il contenuto di altre opere o di ciò che segue, cosicché risulta estremamente difficile ricavare da essi un'immagine lineare del pensiero di Bahnsen. A ciò si aggiunge, anche in questo caso, la presenza di esacerbati excursus polemici che spezzano ul­ teriormente il filo del discorso. In effetti - con la possibile esclusione della Caratterologia - la polemica costituisce senza dubbio parte integrante del pensiero di Bahnsen, almeno quale si presenta nelle opere pubblicate 14 . Lo stesso Bahnsen nell'autobiografia indica nell'atteggiamento critico-polemi­ co un carattere essenziale della sua natura, carattere sviluppatesi nella gio­ vinezza alla scuola degli « Hallische Jahrbùcher » di Feuerbach e Ruge (WIW, p. 105 s.). Né a tale disposizione naturale deve aver giovato la costante insoddisfazione per la sua situazione personale: i suoi scritti non trovano regolarmente eco fra il pubblico, e la sua filosofia è praticamente ignorata anche dai dotti. A prescindere da Hartmann, l'unico autore di qualche rilievo con cui Bahnsen entra in rapporto è Johannes Volkelt 15 . 13 Fra il 1872 e il 1880 Bahnsen pubblica TW e, anonimo, PB. In entrambe queste opere, di nuovo, i riferimenti alla realdialettica sono espliciti, ma mancando di un con­ testo generale in cui inserirli, sempre poco chiari. Si sa peraltro da una lettera a Volkelt del 24 aprile 1877 (Bahnsen 1933b, p. 457) che il primo volume della RD era finito nel 1877: non si conoscono le ragioni di questo ritardo nella pubblicazione del libro. 14 Nel Nachlass si trovano invece dei saggi in cui il pensiero di Bahnsen è presen­ tato per così dire in forma « positiva », ad esempio un manoscritto che ha lo stesso titolo di una delle brochure pubblicate contro Hartmann (VWM) che, per unanime parere di Ruest 1932, p. 185, e di Heydorn 1953, p. 85, nota, è molto più chiaro dello scritto pubblicato. 15 Cfr. l'elenco delle lettere conservate nel Nachlass di Bahnsen, Heydorn 1953, pp. 268-271 (con Volkelt Bahnsen si incontrò anche personalmente più volte). Volkelt ha sempre tenuto presente il pensiero di Bahnsen, citandolo più volte anche nelle sue opere più tarde: cfr. Volkelt 1886, pp. 538-542 (cfr. sotto); 1892, p. 214; 1917, pp. 29, 129 s., 146, 324. Fra gli altri personaggi - tutti più o meno appartenente alla cerchia degli

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L'unico « discepolo » di Bahnsen deve essere considerato il barone unghe­ rese Emerich Du Mont, entrato in contatto con Bahnsen nel 1877, con una lettera in cui definisce Bahnsen « il più qualificato ed il più significativo esponente della filosofia di Schopenhauer » 16 . Ve poi da dire che tutti gli scritti di Bahnsen si caratterizzano per uno stile molto involuto, con periodi lunghissimi e ricchi di incisi, parentesi, precisazioni, uno stile che rende la lettura delle sue opere estremamente ardua. A ciò si aggiunge lo scarso interesse di Bahnsen per il « metodo », la sua preferenza per ciò che convince « la sua volontà », « il suo cuore » e non « la sua testa », il gusto per l'immediato e l'intuitivo, che si coniugano ad una disposizione della materia spesso poco felice, dovuta alla mancanza di una revisione e di una riorganizzazione finale, difetto che si riscontra specialmente nelle opere di maggiore estensione e che lo stesso Bahnsen riconosce francamente. Insomma non si può certo dargli torto quando nella sua autobiografia scrive: «... lo devo concedere io stesso: non sono andato incontro in modo sufficiente alle giustificate esigenze anche del lettore ben disposto » (WIW, pp. 105, 112 e 114).

2. L'ONTOLOGIA E IL CONCETTO DI VOLONTÀ/FORZA. Bahnsen chiama la sua filosofia « realdialettica », e la definisce « scienza della contraddizione reale » 17 . In effetti il concetto di contraddi­ zione si trova al centro della filosofia di Bahnsen, ragion per cui sembre« schopenhaueriani » - con cui Bahnsen fu in rapporto si possono ricordare, oltre Prel e a Lorm, cui fu indirizzato da Hartmann, Alfons Bilharz, che gli fu sincero amico negli ultimissimi anni della sua esistenza (Louis 1905, p. LIX s.), Felix Dahn (18341912), letterato e giurista, già amico dell'altro discepolo di Schopenhauer, von Doss, Wilhelm Bolin, l'unico degli interlocutori di Bahnsen ad approvare incondizionatamente i suoi attacchi ad Hartmann (Bolin [1835-1924] ha recensito oltre alla PU [Bolin 1872], anche Bilharz 1879, dandone un giudizio tutto sommato positivo [Bolin 1880]; dei suoi rapporti con Feuerbach si è detto sopra). Sui rapporti con Nietzsche cfr. sotto. 16 Louis 1905, p. LXVI. Peraltro Du Mont, nato nel 1846, dopo una recensione di TW, ricambiata da parte di Bahnsen con una recensione a Du Mont 1876 (Bahnsen 1877d) prende posizione pubblica a favore di Bahnsen solo in Du Mont 1878, il cui contenuto tuttavia non risulta molto gradito a Bahnsen. Un certo interesse la filosofia di Bahnsen suscita nel francese Auguste Burdeau (il traduttore del Mondo e del Fondamen­ to della morale in francese) e in Philippe Roget, bibliotecario a Ginevra. 17 RD I, p. 1 . Il termine « realdialettica » - per lo meno in forma attributiva appare anche in Dorguth (cfr. ad es. Dorguth 1841), che peraltro preferisce chiamare la sua filosofia « Realrationalismus ». Bahnsen cita Dorguth nella prefazione alla RD, ma, pur riconoscendo una sostanziale convergenza fra le sue intenzioni e quelle di Dorguth

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rebbe conveniente chiarire anzitutto il significato (o i significati) di questo concetto. Per giungere a questo scopo tuttavia, di fronte a definizioni for­ mali approssimative e in qualche caso contraddittorie, la via migliore con­ siste nel prendere in esame il concreto uso che Bahnsen fa della « contrad­ dizione reale »; per far questo è opportuno addentrarsi subito nella filoso­ fia di Bahnsen, rimandando al capitolo seguente l'approfondimento del concetto di contraddizione 18 . Il primo passo in questa dirczione non può che essere costituito da un'analisi della gnoseologia di Bahnsen o, quanto meno, tenendo conto del fatto che egli considera impossibile l'elaborazione preventiva di una teoria della conoscenza completa in ogni sua parte, dei presupposti gnoseologici del suo pensiero I9 . Bahnsen rivendica dunque per la sua filosofia un carattere essenzial­ mente empirico: la realdialettica è « una specie di empirismo » (RD I, p. 33). Ogni vera filosofia del resto è empirismo, in quanto tentativo di risol­ vere gli « enigmi » del mondo, un mondo che appare tanto più affascinante quanto più ricco di mistero. Nel corso della storia prima i sensi (nei limiti che saranno precisati in seguito), poi l'intelletto e la ragione - esplicito è qui il riferimento ad Hegel - si sono dimostrati incapaci di venire a capo di tale mistero, cosicché lo scetticismo, nelle sue varie forme, può senz'altro essere considerato l'esito della storia della filosofia; la realdialettica - che quindi nelle intenzioni di Bahnsen non rappresenta affatto una rottura nello sviluppo storico, ma piuttosto il suo inveramento definitivo - può essa stessa essere considerata una forma di scetticismo, un più alto scetti­ cismo che « richiede uno spirito più saldo ed un desiderio di verità più fermo di tutti i precedenti » (RD I, pp. 7 s. e Vili s.). (operare una sintesi fra Schopenhauer ed Hegel), nega che quest'ultimo possa essere considerato a qualsiasi titolo un precursore della realdialettica (RD I, p. IX s.). 18 La natura degli scritti di Bahnsen, di cui s'è detto sopra, rende tale compito tutt'altro che agevole, specie se si tien conto anche della presenza di oscillazioni di pensiero che si manifestano fra un'opera e l'altra ed anche all'interno della RD. Heydorn 1953, che analizza accuratamente la formazione di Bahnsen, dedica comparativamente poco spazio al sistema, spesso solo sfiorando questioni centrali. Tutto sommato l'espo­ sizione migliore resta Fechter 1906. Molto superficiale è invece la pur estesa trattazione della filosofia di Bahnsen contenuta in Drews 1893, voi. II, pp. 385-408. 19 Cfr. RD I, p. 32. Ogni teoria della conoscenza, al pari di ogni tentativo di comprensione razionale della realtà, inevitabilmente cade in inestricabili contraddizioni. Chi le volesse risolvere prima di affrontare tutti gli altri problemi filosofici, si vedrebbe costretto a rinunciare alla filosofia. Ciò nonostante il sesto capitolo del primo volume della RD offre un abbozzo di teoria della conoscenza sotto il titolo Lehnsàtze aus der Erkenntnisstheorie zu realdialektischen Gebrauch (RD I, pp. 33-44).

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Lo scetticismo della realdialettica tuttavia non mette in discussione il valore conoscitivo del dato empirico immediato - l'intuizione schopenhaueriana: l'intuizione è « la suprema istanza nell'ambito della teoria della conoscenza » (RD II, p. XXVIII)7 e Schopenhauer ha fatto bene ad attri­ buirle il carattere di autoevidenza, perché è impossibile ricorrere a qualche ulteriore « fondamento » (RD II, p. 73). Sulla base dell'intuizione quindi la realdialettica approda, entro certi limiti, al dogmatismo (RD I, p. 232). Di per sé tuttavia la fiducia nell'intuizione non decide ancora dei ca­ ratteri della gnoseologia, giacché essa può aprire la via tanto ad una pro­ spettiva idealistica, quanto ad una realistica. Dato per scontato che l'io come puro soggetto conoscente non potrebbe mai farci giungere all'essere, si tratta di compiere quel « salto vitale » che consiste nell'autointuizione dell'io come volente. Questa autointuizione è conseguenza immediata del­ l'analisi della coscienza ed in particolare di uno dei suoi contenuti: il sen­ timento. Esso appartiene senz'altro al soggetto (« II mio dolore è il mio dolore, per così dire un pezzo inseparabile di me stesso, ed in quanto tale non può essere di un altro »), ma non può essere ridotto all'attività cono­ scitiva, bensì rimanda immediatamente all'attività volitiva, che in esso si rivela immediatamente: il sentimento è « l'autocoscienza (Selbstinnesein) della volontà » 20. Ciò che sente tuttavia, sulla base del principio metafisico fondamentale secondo cui azione ed agente costituiscono sempre un'unità immediatamente data (RD I, p. 33), deve essere più di un «oggetto di pensiero » (Gedankending), ovvero qualcosa - la volontà - che deve essere necessariamente pensato con le categorie di esistenza, essenza e sussisten­ za 21 . Nel «miracolo» della identità fra soggetto conoscente e soggetto 20 RD I, p. 34 s. Il modo di procedere di Bahnsen si presenta anch'esso come una sorta di variante « volontaristica » del cogito cartesiano - fra l'altro citato più d'una volta in questo contesto: nell'indubitabilità del sentimento, - « certezza immediata » -, il sog­ getto si coglie come sostanza volente: « Volo, ergo sum et est id, quod volo » (RD II, p. 15). Bahnsen osserva peraltro che il cogito stesso è a ben vedere un atto volitivo. L'ori­ ginalità di questa posizione - peraltro presente implicitamente in Schopenhauer - è particolarmente sottolineata da Volkelt 1886, pp. 538-542, il quale vede in essa il punto di partenza di una gnoseologia che da immediatamente conto della individualità - il che non avviene invece nella posizione cartesiana. Peraltro in essa, secondo Volkelt, è impli­ cito il limite di fondo della filosofia di Bahnsen, che da una parte pretende di sviluppare una concezione del mondo radicalmente alogica, dall'altra si trova nella necessità di recuperare in qualche modo la logica, senza però mai riuscire a spiegarne in modo convincente l'origine. 21 RD I, p. 35. L'io volente è per Bahnsen « letteralmente un fatto (That-Sache), ovvero una cosa (Sache) che consiste nell'agire (Thun), una res eademque actio, un motus idemque movens et motto » (RD II, p. 16).

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volente - il punctum saliens « in cui l'assolutamente soggettivo contiene un elemento altrettanto assolutamente oggettivo e viceversa l'assolutamente oggettivo si trova in immediata unità con il soggetto » (RD I, p. 231) - si realizza il passaggio dall'ideale (il soggetto conoscente) al reale (la volontà): l'idealismo secondo cui il móndo sarebbe unicamente rappresentazione deve cedere il passo al realismo. Questo passaggio tuttavia non è mai pie­ namente comprensibile per l'uomo, giacché in esso si incontra la prima delle contraddizioni della realdialettica: quella di una coscienza che è insie­ me soggetto ed oggetto 22 . L'autointuizione dell'io come volontà è anche la chiave fondamentale per comprenderne la natura, sia dell'uomo, sia del mondo nel suo comples­ so: anche per Bahnsen, schopenhaurianamente, vale il passaggio analogico dall'essere dell'io all'essere del mondo, anche per lui il microcosmo è la chiave per comprendere il macrocosmo. Egli può dunque affermare che « ciò che noi siamo, per lo meno noi pensiamo - anche senza saperlo con certezza - di comprenderlo, e ogni cosa ci risulta tanto più conoscibile, spiegabile e concepibile, quanto più ci si presenta con caratteri di omoge­ neità alla nostra stessa essenza » (RD I, p. 42). Così « ogni pensiero meta­ fisico si caratterizza come una caratterologia del mondo, in quanto solo a partire dalla volontà e dalla sua autocomprensione si può comprendere e capire l'intima essenza di ciò che accade e delle cose stesse » (RD I, p. 308). 22 RD I, p. 35 s. Sulle difficoltà inerenti alla concezione del soggetto, in particolare sul problema già schopenhaueriano d'identificare soggetto conoscente e soggetto volen­ te, Bahnsen si sofferma a lungo nel cap. II di RD II (pp. 10-64). In esso Bahnsen sviluppa estesamente l'aspetto « soggettivo » della sua metafisica della volontà, soffer­ mandosi in particolare sull'intrinseco legame fra io conoscente ed io volente e, consc­ guentemente, sull'insostenibilità di quelle posizioni idealistiche che prendono in consi­ derazione solo l'io conoscente. Per Bahnsen ad una tale rappresentazione astratta non si giungerebbe, se non ci fosse immediatamente dato un io conoscente « empirico », vale a dire fornito di un contenuto conoscitivo. Ma questo contenuto deriva necessariamente dall'interazione dell'individuo con altri individui, interazione che è pensabile solo se si attribuisce all'individuo una volontà. Di qui l'imprescindibilità del riferimento alla vo­ lontà per comprendere anche solo il sorgere della rappresentazione dell'io conoscente (RD II, p. 54). D'altra parte, come si vedrà in seguito, per Bahnsen si da un'individualità in senso proprio solo dove la volontà è dotata di autocoscienza, per cui, a rigore, l'io, che pure dipende interamente dalla volontà ed è quindi qualcosa di secondario, è ciò che costituisce lo specifico della soggettività: « ciò che rende l'io io non riguarda la sua essenza - l'io vero e proprio (la volontà) non è in sé l'io, e ciò che appare come il vero io (l'autocoscenza) è in realtà solo un carattere accidentale dell'io reale » (RD II, p. 59 s.). Nelle contraddizioni in cui necessariamente finisce ogni tentativo di rigorosa teoriz­ zazione della natura dell'io Bahnsen vede una delle conferme più significative della natura realdialettica della realtà.

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Per Bahnsen addirittura l'intuizione dell'io come volontà da accesso immediato ad una serie di concetti metafisici molto più estesa di quanto Schopenhauer avrebbe certamente ammesso: « sostanza, causalità, necessi­ tà, possibilità (facultas e potestas) etc. sono possessi che l'io pensante ricava immediatamente dall'io che essendo volente è al tempo stesso esistente in atto. In se stesso egli trova un'essenza esistente e il suo rapporto vivente con i motivi gli schiude immediatamente l'intuizione metafisica dell'essere potenziale, virtuale ed attuale, come pure l'essenza della condizione e con essa l'intero mondo delle relazioni, della modalità, dell'inerenza etc. » (RD I, p. 152). In questo modo la teoria della conoscenza pone le premesse per lo sviluppo di un'ontologia fondata sull'intuizione empirica. L'ontologia si presenta quindi nella forma di una concettualizzazione dei caratteri gene­ rali della volontà quale si offrono nell'esperienza immediata. In realtà tale ontologia possiede, come si vedrà, un contenuto in larga misura speculati­ vo, intrecciato con una filosofia della natura che poco ha ad invidiare alla Naturphilosophie dell'idealismo. Il fatto che a tali concetti venga attribuito un carattere intuitivo - e quindi essi siano per definizione non bisognosi di prova - contribuisce non poco a dare all'insieme l'aspetto di una costruzio­ ne arbitraria. L'ontologia di Bahnsen non è comunque una teoria dell'Assoluto del tipo di quella di Hartmann, che si proponga di spiegare la genesi della realtà a partire da una realtà originaria, benché, come lo stesso Bahnsen osserva, il linguaggio in cui essa deve essere necessariamente espressa può facilmente condurre all'equivoco di interpretare in senso temporale-gene­ tico distinzioni che invece sono soltanto logiche: ad esempio di fronte al concetto di « autoscissione » della volontà è quasi naturale pensare ad un'« epoca » in cui la volontà sussistesse indivisa (RD I, p. 214 s.). Vicever­ sa, in accordo con la sua concezione della realtà come costituita da una molteplicità di esseri immutabili al di sotto del loro divenire fenomenico, l'ontologia richiama piuttosto l'ousiologia aristotelica: essa indiga i principi dei molteplici fenomeni e « sostanze », principi che in definitiva sono i concetti astratti mediante i quali tali realtà devono essere pensati 23 . La realtà fenomenica dunque si presenta in prima istanza per Bahnsen come un incessante divenire qualificato, ovvero come un'unità di essenza ed esistenza (RD I, p. 213). La metafisica tradizionale ha invano cercato di 23 II richiamo ad Aristotele è presente nello stesso Bahnsen (cfr. ad es. RD I, pp. 246, 294 s., 374 s.); inoltre uno dei concetti fondamentali della sua ontologia - la diffe­ renza fra essere potenziale ed essere attuale - è di chiara derivazione aristotelica.

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esorcizzare l'intrinseca contraddittorietà del divenire ponendo a suo fonda­ mento un essere immutabile: il fondamento del divenire di volta in volta indicato o non è risultato in grado di spiegare il divenire e la realtà del mondo - è il caso dell'idea hegeliana -, o è risultato esso stesso affetto dalla contraddizione. Da questa impasse si esce solo con la realdialettica che accetta la contraddizione attestata dalla intuizione di un essere che è al tempo stesso divenire e di un divenire che è al tempo stesso un essere: infatti « tutto ciò che muta reca in sé, nel suo nucleo più intimo, qualcosa che non muta. Infatti nel medesimo istante e nel medesimo rispetto in cui cessa di esistere, afferma la sua intima essenza (Wesenheit], nella misura in cui nel e con il suo mutamento diviene un altro atto dell'ew metaphysicum» (RD I, p. 231 s.). Questo ens metaphysicum intrinsecamente dina­ mico, come si è visto prima, che è ed insieme diviene, che è quindi al tempo stesso cosa in sé e fenomeno, è appunto la volontà schopenhaueriana che nell'ambito dell'ontologia Bahnsen preferisce chiamare piuttosto che Wille zum Leben, Kraft zu sein 24. Bahnsen chiama l'essere del mondo fenomenico anche esistente, l'essere della Kraft zu sein sussistente; purtroppo l'uso di questa terminologia non è sempre rigoroso, e questo costituisce una diffi­ coltà in più per la comprensione della sua filosofia 25 . A questo punto Bahnsen affronta il problema del fondamento del qualificarsi della volontà nel fenomeno. Questo determinarsi del volere è necessario, perché il volere implica un « tendere » in una qualche dirczione oppure un oggetto verso cui tendere: un volere indeterminato non sarebbe un volere. Si è visto che proprio questo problema aveva spinto Hartmann a attribuire alla volontà un contenuto ideale coordinato alla volontà stessa ed è proprio in polemica con questa tesi che Bahnsen sviluppa la propria soluzione. Egli, d'accordo con Hartmann, distingue fra il volere ed il con­ tenuto del volere e quindi pone all'interno della Kraft zu sein accanto a una vis o potentia existendi una vis essendi: « senza la vis essendi esisterebbe anche per la metafisica della volontà solo quella pseudo-volontà, che è senza volere, che non vuole nulla, se fosse possibile neppure se stessa (né vuole volere, né non volere: neque vult velie, ncque nolle) » (RD I, p. 238 s.). Inversamente la vis essendi da sola non sarebbe capace di dar luogo all'esistenza e quindi al divenire, come invece pretende Hegel (RD I, 24 Come per Schopenhauer, per Bahnsen la volontà è il principio supremo della realtà visto dall'interno, soggettivamente, la forza è il principio supremo visto dall'ester­ no, oggettivamente (RD I, p. 352). 25 Talvolta Bahnsen usa anche il termine « essere per sé » per indicare il sussisten­ te e il termine « essere per altro » per indicare l'esistente, cfr. RD I, p. 246.

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p. 221). Con il concetto di vis essendi tuttavia Bahnsen non vuole indicare qualcosa di diverso dalla volontà: la vis essendi è la volontà, la determina­ zione del volere è intrinseca alla volontà stessa che deve essere vista come un inscindibile nesso di essenza ed esistenza, ovvero come un volere origi­ nariamente determinato in modo specifico: «la volontà ha in sé il suo contenuto proprio, ha, come dice il popolo, la sua testa, a cui non la si può dar d'intendere, a cui non si può suggerire » 26. A rincalzo di questa tesi Bahnsen, d'accordo con Schopenhauer, di­ chiara insostenibile la distinzione fra azione ed agente: l'agente esiste, è tale, solo quando agisce, non esiste quindi una volontà che non voglia, e la volontà, in quanto eterno principio metafisico, deve essere un eterno vole­ re, vale a dire deve dar luogo ad un eterno fenomenizzarsi. Di qui la neces­ saria intrinsecità del contenuto al volere (VWM, p. 12 s.). Se si postula un'essenza che precede l'esistenza o è da essa autonoma, o un volere che precede l'essenza - quindi un essere anteriore rispetto all'essere determina­ to -, si finisce necessariamente per cadere vittima d'irresolubili giucchi di parole ammantati di metafisica, di una « ontologia ipermetafisica a la He­ gel », che giunge ad affermare - in Hartmann - l'esistenza di un vorseiendes Sein 21 . In questo modo Bahnsen giunge a determinare la Kraft zu sein come vis essendi eademque potentia existendi (RD I, p. 234). Affermare questo significa porre una « autoscissione » (Selbstentzweiung) all'interno dell'es­ sere, ovvero, nei termini della realdialettica, individuare nel fondamento stesso della realtà una fondamentale contraddizione: la vis essendi è insie­ me potentia existendi. In questo senso si comprende meglio come la realtà 26 VWM, p. 13. Bahnsen in quest'opuscolo sviluppa estesamente la sua polemica con Hartmann, negando tra l'altro l'esistenza di un puro volere indeterminato il quale starebbe alla base di tutte le volizioni, che si differenzierebbero solo per il loro oggetto; viceversa è il volere stesso ad essere intrinsecamente differenziato per il suo contenuto: « il volere che vuole il piacere (Wollust) è diverso dal volere che vuole il bene altrui (Wohltun) ». L'errore di Hartmann trova giustificazione solo nel fatto che per descrive­ re i vari tipi di volere l'uomo deve fare necessariamente ricorso al linguaggio che si riferisce alle rappresentazioni che accompagnano - ma non determinano intrinsecamen­ te - le volizioni (p. 14). L'originaria determinazione del volere è precisamente ciò che costituisce nell'uomo il carattere; del resto l'opuscolo in questione è anche pensato come una fondazione metafìsica della Caratterologia. Nell'occasione Bahnsen prende posizio­ ne anche contro il concetto di rappresentazione inconscia - definita senz'altro una « contradictio in adjecto » (p. 27). 27 VWM, p. 10. A p. 8 si attribuisce ad Hartmann addirittura una vor-vor-seiendes Sein (Bahnsen si riferisce evidentemente aU'hartmanniano « volere vuoto », anteriore all'essere del cosmo).

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debba essere vista al tempo stesso come un essere (vis existendi] e come un divenire (vis essendi}. Alla vis essendi infatti « nell'autoscissione è data la possibilità di essere al tempo stesso l'opposto di se stessa, vale a dire di essere e di non essere », cioè di divenire (RD I, p. 221). La Kraft zu sein (il volere) è per Bahnsen genericamente diversa da tutte le altre forze che si incontrano nel mondo fenomenico: essa non è una facultas (= quae facit), che si esaurisca nell'agire (wirken), ma una potestas (= quae potest) e quindi anzitutto « capacità » d'essere (RD I, p. 234). Sic­ come il volere vuole sempre, la Kraft zu sein « ha un essere prima del suo operare, invero non pròs emàs, bensì katà tèn fùsiv »; nella terminologia di Bahnsen, ciò significa che la volontà vuole anche quando il volere non si fenomenizza, cioè non è percepito dall'uomo (RD I, p. 221). Naturalmente anche questo volere è sempre un volere determinato, perché in esso v'è la vis essendi, il « quale » della volontà (RD I, p. 233). Questa tesi è d'importanza capitale per la filosofia di Bahnsen. In primo luogo essa consente di riaffermare la continuità del volere - princi­ pio che, come si è visto, è a sua volta indispensabile per togliere fondamen­ to all'ipotesi di una distinzione reale fra volontà e contenuto del volere. Bahnsen infatti sa bene che empiricamente la volontà individuale pare tal­ volta non volere: se dunque si sostenesse che il volere fenomenico che si manifesta in un agire fosse l'unica forma di volere esistente, necessariamen­ te si dovrebbe ammettere un volere che non vuole, aprendo così di nuovo inevitabilmente la via ad una distinzione fra volere e contenuto del volere, fortemente avversata da Bahnsen. Con la interpretazione sopra offerta del­ la volontà Bahnsen si pone invece nella condizione di poter affermare che la volontà, proprio in quanto sussistente, vuole sempre e comunque: « la volontà, nella misura in cui è, deve volere, lo voglia o no - deve volere perfino il suo non volere; infatti questo determinato, concreto volere è la sua essenza, non un vago volere » 28. Detto questo Bahnsen non ha diffi­ coltà ad ammettere uno stato di « latenza » della volontà: « la forza è qual­ cosa che continua a sussistere, anche quando il suo effetto (Wirkung) si arresta (zur Ruhe kommt), o nell'equilibrio o quando la sua azione si inter­ rompe, perché le vien meno la sollecitazione » (RD I, p. 234). D'altra parte questa tesi consente a Bahnsen di affermare l'esistenza autonoma, come sostanze, dei singoli individui - condizione necessaria per un vero individualismo -, individualismo che invece risulta non adeguata28 RD I, p. 187. Cfr. anche VWM, p. 38. In questa posizione è implicito anche il rifiuto della possibilità della noluntas schopenhaueriana (cfr. sotto).

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mente fondato se agli individui si attribuisce - come vuole Hartmann solo una realtà fenomenica (RD I, p. 233). Infine la tesi della indipendenza della forza dall'agire è fondamentale per affermare l'esistenza nel principio della realtà di contraddizioni reali: se la forza fosse solo agire, due sue manifestazioni contrarie si annullerebbero a vicenda e nulla rimarrebbe; la contraddizione verrebbe tolta. Viceversa se, come si vedrà, alla base di tali manifestazioni contrarie si trovano due determinazioni del volere radicate nella sua sussistenza, la negazione reci­ proca a cui esse danno luogo nel mondo fenomenico, non toglie la contrad­ dizione che sta a loro fondamento: « in tutte le contraddizioni della essenza della volontà scissa, come vuole la realdialettica, si conserva qualcosa di non eliminabile, che non viene inghiottito dall'alternarsi di questo antago­ nismo di sì e no »; « proprio perché la forza non si esaurisce totalmente nel suo agire, il reciproco eguagliamento, equivalenza, neutralizzazione, para­ lisi - o comunque lo si voglia chiamare - delle forze produce un risultato che non è un puro vuoto »(RDI, pp. 219 e236;cfr. anche pp. 221,227,240). Bahnsen come sempre ritiene di fondare questa sua tesi metafisica sull'osservazione empirica. L'esperienza è sì un intreccio di azioni e reazio­ ni, ma essa testimonia indiscutibilmente la presenza di qualcosa - la mate­ ria o la « massa » - che non si può risolvere nel puro dinamismo delle forze (RD I, pp. 234-236). Questo « correlato oggettivo » della sussistenza meta­ fisica è chiamato vis inertiae 2^. La - relativa - somiglianzà fra il modo d'essere della vis inertiae e quello della vis essendi apre inoltre a Bahnsen la via per ribadire l'intrinseca contraddittorietà della volontà e più specìficamente della sua vis essendi 30. La forza d'inerzia è dunque per Bahnsen qualcosa di contraddittorio, per­ ché è insieme qualcosa di positivo e di negativo: essa è qualcosa di positivo nella misura in cui fa sì che un corpo perseveri nello stato in cui si trova (Eeharrungsvermògen), qualcosa di negativo perché è indifferente al moto e 29 II cap. IV, significativamente intitolato « Die vis inertiae physisch una metaphysisch betrachtet » (RD I, pp. 234-240), intende precisamente mostrare che la vis inertiae da un punto di vista metafisico va identificata con la vis essendi, che costituisce « il suo sosia dotato di un'etichetta metafisica » (RD I, p. 249). Come la massa è ciò che permane immutata in ogni trasformazione della realtà, così l'essenza - la originaria determinazio­ ne del volere che ne garantisce la sussistenza - rimane immutata al di là di ogni diversa manifestazione della volontà (RD I, p. 236). 30 E evidente che la contraddizione può risiedere solo nella vis essendi, in quanto il volere non qualificato, la vis existendi - di cui, giova ripeterlo, si può parlare come di un'entità separata dalla vis essendi solo nei termini di un'astrazione logica -, è un puro tendere indifferenziato che da solo non potrebbe mai giungere a contraddirsi.

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alla quiete (Tràgheit) (RD I, p. 214). In altri termini la forza d'inerzia da una parte si oppone al mutamento, dall'altra lo mantiene: da una parte è « das der Anregung Harrende », dall'altra esercita « die Function der Kraft ah Selbstbehauptung » (RD I, p. 220). Essa è « la più pura autorealizzazione del principio cosmico realdialettico, perché positivamente negativa [in quanto, quando opera, si oppone al mutamento] e negativamente positiva [in quan­ to, quando non opera, mantiene lo stato acquisito] (RD I, p. 251). L'esemplare significato realdialettico della forza d'inerzia tuttavia non si arresta qui. Si consideri la struttura generale di ogni corpo in quanto manifestazione della Kraft zu sein: esso è costituito da varie altre forze « ef­ ficienti » (wirkende) o « forze di movimento » (Bewegungskràfte) quali la polarità, la gravitazione etc., e da una massa - la forza d'inerzia - che, in quanto non si trasforma mai nelle forze del primo tipo, costituisce la loro « tendenza antitetica », ovvero si trova in contraddizione con esse (RD I, p. 234). Ora queste forze, queste manifestazioni della « spontaneità » della Kraft zu sein, per potersi esplicare, devono incontrare una « ricettività », che non è costituita dalle forze dello stesso genere che si trovano negli altri corpi ma, ancora, dalla forza d'inerzia, la cui « ricettività » peraltro, come s'è detto, si esplica nell'opporsi alle forze che agiscono sui corpi. Così da una parte la forza d'inerzia di un corpo è il « negativo » delle forze « efficienti » degli altri corpi, dall'altra le forze « efficienti » di un corpo trovano nella forza d'inerzia degli altri corpi il loro « negativo » (RD I, p. 251). Da ciò consegue che il conflitto, la collisione fra i corpi è possibile solo nella misura in cui ciascuno di essi è in sé contraddittorio; ciò significa che le contraddi­ zioni interindividuali sono fondate, sono rese possibili dalla fondamentale contraddizione intraindividuale fra la forza d'inerzia e le altre forze 31 .

3. LA CAUSALITÀ, LO SPAZIO E IL TEMPO COME CONDIZIONI DEL PLURALISMO DEGLI INDIVIDUI.

La differenza fra fenomeno e cosa in sé, fra la sussistenza della volontà e la sua esistenza, fra essere potenziale ed essere attuale del volere, fra latenza e manifestazione del volere comporta che la volontà, per manife­ starsi, entri in rapporto con qualcosa che si trova al di fuori di se stessa. Bahnsen sostiene infatti « che ogni realtà in quanto tale presuppone una 31 RD I, pp. 204 e 254 s. L'importanza di questa tesi risulterà più chiara in seguito, quando si preciserà il significato del concetto di contraddizione in Bahnsen.

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dualità di interno ed esterno » 32 . È vero che la volontà in quanto existentia existens include tutto in sé nella forma di « disposizioni » o « semi » - si è visto l'insistenza con la quale Bahnsen afferma che la volontà ha un suo contenuto proprio -, ma questo contenuto rimarrebbe eternamente ad uno stato latente se essa non entrasse in rapporto con una causa efficiens etimologicamente questo termine per Bahnsen indica precisamente la fun­ zione del « rendere manifesto all'esterno ciò che è all'interno » (ef-ficeré) (VWM, p. 41) - ovvero, in specifico riferimento alla volontà umana, con un « motivo » 33 . ^ La causa è ciò mette in movimento « la tendenza di per sé indirizzata verso l'esterno del volere », che possiede quindi una « intensità espansiva » (VWM, p. 41). Non ogni causa tuttavia opera nello stesso modo sulla vo­ lontà: la sua efficacia dipende da quella che Bahnsen chiama una qualitas occulta della volontà - il riferimento è al carattere dell'uomo che, schopenhauerianamente, viene conosciuto solo a posteriori dal modo in cui re­ agisce ai vari motivi: in assenza di determinate e corrispondenti tendenze della volontà le cause o i motivi rimangono senza efficacia. In questo senso Bahnsen parla anche delle cause efficienti come di causae occasionales, oppure come di « condizioni » del manifestarsi della volontà (VWM, p. 26). Sarebbe dunque errato attribuire alle cause esterne il carattere di un creator onnipotens: l'essenza - le originarie tendenze del volere - non muta mai, non da mai luogo a qualcosa di veramente nuovo: essa è causa sui. Ciò che muta sono solo le « conseguenze » delle varie cause esterne - ciò che costituisce il divenire 34 . 32 VWM, p. 29 s. Cfr. anche RD I, p. 50 s. e RD II, p. 66. 33 VWM, p. 26. Bahnsen ritiene una questione oziosa da un punto di vista teore­ tico decidere se la causa efficiente debba essere considerata una specie del genere mo­ tivo o se, viceversa, debba avvenire il contrario. La questione ha invece rilevanza etica, nel senso che dal primo punto di vista al mondo viene garantito un « significato mora­ le » che invece va perduto nella seconda prospettiva (VWM, p. 31). Bahnsen non identifica peraltro la causa e il motivo: se si definisce la causa come uno stato cui segue necessariamente un altro stato, il motivo deve essere definito come uno stato che, in quanto rappresentato, ha come conseguenza un altro stato; esso presuppone quindi una coscienza (VWM, p. 23). 34 VWM, p. 40 s. È opportuno qui richiamare il fatto che il nesso di causalità implica sempre la presenza della capacità « recettiva » in ciò che è causato e quindi, secondo quanto s'è visto sopra, della contraddizione. Dato che la causalità è condizione dell'esistenza, dell'esplicarsi della volontà-forza, risulta giustificato l'affermare che l'esi­ stenza in generale è possibile solo sulla base della contraddizione inerente all'essenza: « c'è esistenza ed un esistente, poiché l'essenza dell'essere è qualcosa di in sé contraddittorio (ein in sich Widersprechendes] » (RD I, p. 50).

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Conseguenza di tutto ciò è la necessità del mondo, che dipende da una parte dall'immutabile natura - essenza - del volere, dall'altra dal nesso causale che porta l'essenza a manifestarsi nell'esistenza. Tale necessità, precisa peraltro Bahnsen, non può essere considerata assoluta « perché ogni necessità, in quanto tale, in forza del suo concetto, esprime un puro rapporto - in questo caso quello fra esistenza ed essenza - e quindi porta in sé il marchio della relatività » (RD I, p. 187). La natura così descritta dell'esplicarsi del volere costituisce il fonda­ mento essenziale del pluralismo di Bahnsen, un altro dei caratteri fonda­ mentali in cui la sua filosofia si distingue da quelle di Schopenhauer e di Hartmann. Per Bahnsen il pluralismo non necessita in senso stretto né di una fondazione né di una dimostrazione: « il riconoscimento di altre so­ stanze esistenti in sé non è "posto" nel senso di un'astratta posizione del pensiero, bensì - propriamente e veramente - dato insieme con il divenire autocosciente di me stesso come di una realtà incondizionata (vale a dire indipendente anche da ogni correlazione con un soggetto conoscente) ». L'io volente infatti si coglie come soggetto all'influenza (Einwirkung] di una realtà esterna che viene percepita immediatamente come fornita dalla stessa natura dell'io 35 . Solo come spiegazione e conferma di queste verità intuitive possono essere sviluppate alcune argomentazioni di carattere « in­ duttivo » (RD II, p. 77). Il pluralismo è quindi ricavato direttamente dalla particolare interpretazione che Bahnsen offre della metafisica della volontà e solo secondariamente - diversamente da come ci si potrebbe aspettare si fonda su un ripensamento critico del fenomenismo kantiano-schopenhaueriano. Né nella prospettiva di Bahnsen la questione può porsi in termini diversi: date per scontate la distinzione fra fenomeno e cosa in sé e l'esistenza di un pluralismo fenomenico, l'estensione di quest'ultimo alla dimensione metafisica della realtà non può avvenire che mediante argo­ mentazioni metafisiche. Si comprende così perché Bahnsen nell'affrontare il problema del pluralismo si senta in dovere di precisare che nella sua filosofia la volontà non è, come avviene in Schopenhauer, una denomina­ zione « approssimativa », un « accidente » (Ungefàhr) della cosa in sé, ma è qualcosa di pienamente « identico » ad essa (RD II, p. 78). In un altro passo, ancor più esplicitamente, Bahnsen afferma che il passaggio dal feno, 35 RD II, p. 71 s. Più volte Bahnsen ripete la sua tesi che con la posizione della volontà come principio della realtà la questione del pluralismo è virtualmente risolta; cfr. in particolare RD I, p. 172, ove si dice che Schopenhauer, ponendo la volontà come principio, ha immediatamente tolto le condizioni dell'esistenza dell'Uno-Tutto.

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meno alla cosa in sé si compie sottraendo al fenomeno non tutte le forme apriori, bensì solo l'«ingrediente soggettivo », vale a dire, come si vedrà meglio in seguito, il corrispettivo soggettivo delle forme apriori che devono viceversa essere considerate oggettive 36. In questa posizione è evidente un'eco delle discussioni svoltesi nel­ l'ambito della filosofia kantiana circa la famosa « lacuna » nella dimostra­ zione kantiana della soggettività di spazio e tempo: anche per Bahnsen infatti Kant ha dimostrato in modo convincente come spazio e tempo siano soggettivi, ma non che essi siano solo soggettivi 37 . Riferendosi al tempo, Bahnsen osserva che il volere è essenzialmente uno Streben mai pacificato, che implica il riferimento ad un presente ed insieme ad un futuro, il quale a sua volta rimanda ad ulteriore futuro e così via all'infinito (RD II, p. 428 s.). Se quindi il tempo è essenziale alla volon­ tà, non è un «espediente» (Notbehelf) del volere, esso deve necessaria­ mente essere pensato come appartenente all'in sé e quindi oggettivo. Se il tempo non dovesse appartenere alla cosa in sé, allora la cosa in sé sarebbe qualcosa di toto genere differente dalla volontà, con il che si tornerebbe alla sua inconoscibilità (RD II, p. 78). La volontà potrebbe essere pensata come libera dal tempo solo se la si concepisse come esistente indipendentemente dal suo fenomenizzarsi. Alla volontà quindi non tocca Vaeternitas, bensì ciò che Bahnsen chiama la sempiternitas, vale a dire l'estensione illimitata nel tempo 38. Considerazioni per molti versi analoghe valgono per lo spazio. Bahn­ sen sembra sostenere una concezione dello spazio apparentata a quella leibniziana: lo spazio è condizione dell'esplicarsi della forza - il manife­ starsi della volontà; lo spazio tuttavia non preesiste alla forza stessa, bensì è posto da essa e ad essa subordinato come ogni azione è subor­ dinata all'agente (RD I, p. 332). Essa nella sua potenzialità - concepibile solo per astrazione - è aspaziale: « senza volontà non esisterebbero né lo spazio né il movimento, senza spazio tuttavia non esisterebbe alcun vole36 RD II, p. XI s. Bahnsen si richiama qui alla posizione di Frauenstàdt che per primo aveva distinto fra fenomeno soggettivo e fenomeno oggettivo. Egli tuttavia va più in là di Frauenstàdt identificando il fenomeno oggettivo con la cosa in sé. 37 RD II, p. 75. Bahnsen, argomentando ad hommem, osserva del resto che spazio e tempo, anche se fossero esclusivamente soggettivi, dovrebbe avere fondamento in qualche disposizione oggettiva della volontà. 38 RD II, p. 430 s. Da questo tempo « oggettivo » si distingue il tempo soggettivo, quello legato all'individuo, la cui estensione è legata alla durata dell'individuo, e per il quale Bahnsen suggerisce di impiegare i termini aetas o saeculum.

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re » 39. Lo spazio peraltro non si esaurisce, come il tempo, nel passaggio dalla potenza all'atto della volontà, bensì - ed in questa funzione appare come « il miglior alleato » del pluralismo - si rivela come P« Intermedium » delle molteplici volontà, consentendo loro di interagire, operan­ do l'una sull'altra come motivi o cause. Nello spazio la singola volontà sperimenta l'opposizione delle altre, trova il limite al proprio operare, insomma - con riferimento alla tesi metafisica del pluralismo - « nello spazio si mostra la debolezza della singola volontà - ma non direttamente, come se ciò che domina fosse lo spazio stesso, bensì solo nella misura in cui esso offre la condizione perché oltre - praeter et extra - la singola forza esistano altre forze, ovvero, in una parola, per la coesistenza (Nebeneinander) di molte forze » (RD I, p. 329). Si può infine comprendere come Bahnsen rifiuti senza esitazione la tesi schopenhaueriana del valore solo fenomenico della causalità, una tesi che del resto lo stesso Schopenhauer, con « sovrano spirito » ha abbando­ nato nello svolgimento del suo sistema. Una volta riconosciuto l'originario riferirsi reciproco delle molteplici volontà, risulta necessario attribuire alla causalità un valore « trascendente »: « per noi il nesso fra i molti è qualcosa di assolutamente originario e proprio per questo la causalità è qualcosa di parimenti eterno: il rapporto fra volontà e motivo non è qualcosa di dive­ nuto, ma è qualcosa di posto nel grembo dell'eternità, qualcosa di esistito da sempre » (RD II, p. 73 s.). In conclusione spazio, tempo e causalità - che insieme costituivano il principium individuationis schopenhaueriano - vanno intesi in senso reali­ stico, sono condizioni dell'esistenza della cosa in sé, in quando mediano fra la sua essenza e la sua esistenza (RD II, p. 105 e RD I, p. 273). Circa l'originarietà del pluralismo la posizione di Bahnsen non sembra lasciare adito ad alcun dubbio: « l'individualismo caratterologico, nel cui ambito ha dato esempio di sé la realdialettica, non potè mai con troppa decisione porre come punto fermo la tesi che alle sue unità originarie toccano tutti quegli attributi che il monismo antipluralistico vorrebbe rivendicare al suo Uno-Tutto in quanto sola unità sussistente » 40. Corollario di questa posi­ zione è la durata infinita delle volontà e quindi l'impossibilità per esse di

39 RD I, pp. 329 e 332. Bahnsen si riferisce ripetutamente alle forze come « spa­ zialmente indifferenti », cfr. ad es. RD I, pp. 326 e 328 nota. 40 RD I, p. 233. Cfr. anche RD I, p. 239. In RD I, p. 217 si attribuisce alle singole volontà l'« aseità » (ma - coerentemente con quanto detto circa la necessità del loro manifestarsi - non la « perseità »).

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cessare di volere, una posizione che si rivelerà d'importanza decisiva nella filosofia morale. Bahnsen tuttavia prende le distanze sia dal pluralismo di Leibniz sia da quello di Herbart: fra le sue « enadi » (così chiama Bahnsen le singole volontà sostanziali), a differenza di quanto avviene per le monadi leibniziane « senza finestre », sussiste un originario nesso che si estende all'infinito nel tempo, come infinito nel tempo è il manifestarsi delle volon­ tà. Quello che Bahnsen vuoi dire è che non ha senso concepire le enadi come se prima esistessero autonomamente e poi entrassero in rapporto reciproco: ciascuna volontà esiste sempre e sempre vuole, per cui è sempre al tempo stesso autonoma ed in relazione con le altre volontà 41 . Le relazioni sussistenti fra le varie enadi possono condurre in determi­ nate circostanze ad unificazioni temporanee fra le enadi stesse, ovvero ad individui complessi. L'aggettivo « complesso » è tuttavia per Bahnsen ple­ onastico: egli infatti nega che gli atomi - ovvero le enadi semplici - possano essere considerati individui (RD II, p. 91), in quanto privi del carattere specifico dell'individualità che è la presenza della unità della autocoscien­ za, che esiste solo negli esseri viventi, negli organismi, evidentemente com­ posti da numerosi atomi 42 . Esistono non di meno, oltre agli individui veri 41 RD I, p. 173. Quasi tutti coloro che si sono occupati di Bahnsen (Volkelt, Hartmann e lo stesso Fechter) interpretano il suo pensiero come se in esso si parlasse di un Assoluto originario che solo in un secondo tempo si sarebbe scisso nella molteplicità. Nessuno dei passi che essi citano a sostegno di questa tesi legittima peraltro una tale interpretazione - mentre molti altri passi oltre a quelli citati si pronunciano con la massima chiarezza contro ogni forma di monismo. Infatti altro è dire che le molteplici volontà possono entrare in relazione fra di loro perché originariamente scisse e « contraddittorie » al loro interno, altro è dire che le molteplici volontà derivano dalla scissio­ ne (atemporale?) di una volontà originariamente unica. Particolarmente significativo al riguardo è la polemica condotta fra Bahnsen ed Hartmann. Quest'ultimo si attribuisce il merito di aver costretto Bahnsen a uscire allo scoperto (nella RD) circa i rapporti fra PUno-Tutto e le singole volontà (PFG, p. 295): Bahnsen, nel passo citato da Hartmann, respingendo le due alternative postegli dal suo critico (substanziale o bloss functionelle Selbstzersplitterung), afferma che il suo concetto di sostanza « non da spazio ad alcuna effettiva divisione ». Hartmann interpreta questa risposta come se Bahnsen con essa accetti una divisione solo « funzionale » dell'Assoluto, ignorando che Bahnsen poco sopra dice esplicitamente che egli non riesce a rappresentarsi « niente di sensato » con il concetto di autoscissione funzionale. In realtà è evidente che Bahnsen interpreta le due alternative come riferentesi non al rapporto fra un ipotetico Uno-tutto e le singole volontà, bensì al rapporto fra le varie contraddittorie « tendenze » della (singola) volon­ tà autoscissa, il che conferma indirettamente la sua completa estraneità alla prospettiva monistica (cfr. RD I, p. 158). 42 RD II, p. 90. Bahnsen si occupa pochissimo del problema del rapporto fra la coscienza e le condizioni chimico-fisiologiche del suo sorgere, ed anzi polemizza dura­ mente contro i tentativi di Hartmann di far derivare la coscienza da una serie di processi

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e propri, delle « unità » composte da più enadi, per cui si deve distinguere fra le condizioni che rendono possibili tali unità e quelle che invece rendo­ no possibili gli individui veri e propri 43 . Si è visto che, schopenhauerianamente, ogni volontà è per Bahnsen volontà di vita (zum Leben); poiché tuttavia ogni volere è in sé contraddittorio, al volere la vita si affianca e contrappone il non volere la vita, ovvero il Wille vom Leben, che si potrebbe tradurre « volontà di separarsi dalla vita ». Queste due volontà si manifestano a livello fisico e specialmente chimico nelle due opposte tendenze all'unificazione (la volontà di vita) e alla separazione (la volontà di morte): quando prevale la prima tendenza, le forze-volontà si uniscono e danno luogo alle unità di rango inferiore di cui si diceva, quando viceversa prevale la seconda tali unità si dissolvono (RD I, p. 454 s.). Poiché poi le forze si esplicano nello spazio ma in sé sono indifferenti ad esso, la loro unificazione comporta una compenetrazione delle forze stesse (RD I, p. 330). Diverso è il caso dell'individuo vero e proprio, che ci offre « il mira­ colo dell'individualità » (VWM, p. 17 nota): esso ci mostra un insieme di forze che operano non rispettando le leggi fisiche e chimiche e che spesso rimangono unite pur essendo in contraddizione reciproca (RD I, p. 460). Bisogna allora di necessità supporre l'esistenza di una « monade centrale » (RD II, p. 93), o « dominante » (RD I, p. 460), di un « regista generale » (RD I, p. 460), di una « volontà individuale » (RD I, p. 330), di un « ege­ monico » (VWM, p. 17 nota e RD I, p. 330), di una « potenza individuale » (RD I, p. 443), che guidi e governi le varie forze le quali vengono a costi­ tuire una « concrescenza focalmente unitaria di unità di forze di ordine inferiore » (RD II, p. 91). Si tratta di una spiegazione tutto sommato ab­ bastanza tradizionale e nel proporla Bahnsen non nasconde la sua apparen­ te somiglianzà con le classiche spiegazioni spiritualistiche e dualistiche 44. Dal punto di vista della metafisica della volontà, benché in due occasioni Bahnsen attribuisca alla volontà centrale il carattere della spiritualità (RD fisico-fisiologici: la coscienza - o meglio l'io conoscente - non è il risultato di un proces­ so, ma qualcosa di originario ed unitario avente il suo fondamento nell'unità della volon­ tà, ovvero, come si vedrà fra poco, della monade (enade) centrale (RD II, p. 91). 43 Unità di questo tipo sono i composto chimici (molecole e radicali) e le cellule. Gli individui sono essi stessi unità e giacché inglobano in sé queste unità di livello inferiore, sono unità di quarto grado (RD I, p. 330). 44 RD I, p. 456. Bahnsen, in polemica con il materialismo, osserva del resto che il dualismo è la concezione della realtà « più comoda » e suggerita in modo più immediato dalla realtà, come è testimoniato dalla sua larghissima diffusione nella storia culturale dei popoli (RD I, p. 445).

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I, p. 456 e RD II, p. 403), non vi è tuttavia un vero e proprio dualismo in quanto volontà centrale e forze sono realtà omogenee ed anzi proprio que­ sta omogeneità rende comprensibile come la volontà centrale possa opera­ re sulle forze fisico-chimiche che compongono l'organismo mutando il loro modo di esplicarsi (RD I, p. 456). Le forze di ordine inferiore tendono comunque sempre a sottrarsi al dominio della volontà centrale e ad operare secondo la loro legalità originaria. Ne consegue necessariamente, dopo un certo tempo, la morte dell'organismo (RD I, pp. 330 e 458). Bahnsen si trova non di meno in grosse difficoltà nel precisare la na­ tura di tale « monade centrale ». Essa infatti, come ogni altra enade, ha una durata illimitata nel tempo ed è immutabile nella sua essenza. Ne consegue che la generazione non produce un individuo interamente nuovo, ma in ultima analisi pone solo le condizioni per l'esplicarsi di una monade centra­ le: il nuovo soggetto « può essere solo un nuovo modo di attualizzarsi di una potenza da sempre esistente »; VUreinzelwesen, che costituisce lo spe­ cifico dell'individuo, esiste immutabilmente da sempre (RD II, p. 117 s.). D'altra parte anche la morte dell'individuo non può dar luogo alla scom­ parsa della monade centrale: « l'individuo, dopo la morte, diviene ciò che era prima della sua nascita: un atto di volontà invisibile - che, in forza del suo equilibrio realdialettico, necessita solo di un impulso da parte di un motivo di volta in volta diverso, per ritornare ad essere visibile » (RD II, p. 425). Si deve quindi pensare ad una sorta di palingenesi o traducianesimo, termini « mitologici » ai quali Bahnsen preferisce sostituire l'espressio­ ne Metemdynamose (RD I, p. 458 e RD II, p. 117). D'altra parte poiché l'essenza di tale enade sembra consistere unicamente nella sua capacità di svolgere questo ruolo di coordinamento - il che esclude per essa la possi­ bilità di quel « volere latente » che consente di pensare le altre enadi attive anche quando il volere non si manifesta -, e poiché sappiamo che ogni volontà per definizione deve sempre volere, Bahnsen si trova nella neces­ sità di supporre che alla morte di un individuo la monade centrale si trasfe­ risca immediatamente in un altro individuo. Egli tuttavia, rendendosi ben conto delle difficoltà insite in questa ipotesi non approfondisce ulterior­ mente il tema della trasmigrazione delle anime 45 . Nonostante tutto Bahn-

45 RD II, p. 118. Ulteriori problemi sorgono dal fatto che, secondo la teoria sopra esposta, il numero degli individui dovrebbe rimanere perennemente costante, il che sembra essere contraddetto dalle improvvise moltiplicazioni di insetti ed animali (ad es. topi). Né il problema può essere risolto facendo ricorso, sulle orme di Darwin ed Haeckel, ad una pambiotische oder panspermatische Allgemeinpotenz (RD II, p. 119 nota).

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sen riafferma la sua convinzione nella superiorità complessiva di questa teoria sulle ipotesi alternative. In particolare egli non appare disposto in alcun modo a modificare due capisaldi della sua filosofia: l'indistruttibilità della enade e la necessità del volere 46.

46 Fechter 1906, p. 64 s., sostiene giustamente che le difficoltà inerenti alla teoria dell'individualità di Bahnsen derivano da una tensione non risolta fra due concezioni dell'individualità, una delle quali tende ad identificare l'individuo con gli atomi o quan­ to meno con le forze atomiche, quindi in senso materialistico o ilozoistico, l'altra ad identificare l'individuo con la volontà e l'unità della coscienza, in una prospettiva spiri­ tualistica. Nel quadro complessivo della filosofia di Bahnsen è comunque certamente la seconda prospettiva ad avere maggiore importanza.

10. LA CONTRADDIZIONE E IL NICHILISMO

1. LA NATURA DELLA CONTRADDIZIONE E LA LOGICA.

Una volta illustrate le linee fondamentali della metafisica di Bahnsen, si è nelle condizioni di approfondire il significato del concetto di contrad­ dizione, che costituisce l'elemento più caratteristico - ma anche più pro­ blematico - della realdialettica di Bahnsen. Si è visto che Bahnsen parla anzitutto di contraddizione in tutti i casi in cui ad un'unica realtà ineriscono determinazioni inconciliabili; una con­ traddizione di questo genere è costituita ad esempio dalla presenza in ogni individuo di un essere e di un divenire. Un altro esempio, che si riprenderà ancora in seguito, è offerto dal contrasto fra io volente ed io conoscente. Poiché tuttavia per Bahnsen le singole realtà non sono altro che l'agire delle forze, questo tipo di contraddizione va ricondotto a quella costituita da tendenze opposte e inconciliabili delle varie forze o volontà. Ne è un esempio l'inerzia, e, in ambito etico, l'opposizione fra tendenze altruistiche e tendenze egoistiche. Nella filosofia naturale, caratteri analoghi posseggo­ no anche la gravitazione e la polarità; su di esse, per la loro natura esempla­ re, conviene ora brevemente fermarsi. La polarità di un corpo si manifesta nel fatto che esso insieme attrae e respinge gli altri corpi; essa non può essere spiegata attribuendo a parti diverse del corpo forze opposte: la polarità si ripropone negli stessi termi­ ni, anche quando il corpo viene diviso in parti sempre più piccole (RD I, p. 215; cfr. anche RD I, p. 343). Essa mostra quindi che alla base di qualsiasi manifestazione della forza magnetica si trova un'originaria scissione fra negativo e positivo all'interno del singolo corpo. Così Bahnsen può concludere che « come non esiste alcun magnetismo al di fuori della au-

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toattualizzazione in opposizione al proprio polo, così ogni volere è una vuota parola senza il riferimento ad un non-volere altrettanto potente » (RD I, p. 215 s.). Un quadro analogo è offerto dal fenomeno della gravitazione che Bahnsen considera addirittura YUrtypus della realdialettica (RD I, pp. 385 e 391). Anche qui, l'attrazione e la repulsione non si possono far risalire a due forze diverse, ma al modo di esplicarsi contraddittorio di un'unica forza: « la gravitazione si mostra immediatamente come un inerire (ein Ineinander) di attrazione e repulsione » 1 . Questo tipo di contraddizione, in quanto specifica dell'individuo in sé, è denominata da Bahnsen « intra-individuale »; ad essa si affiancano le contraddizioni « interindividuali », che si riferiscono ai rapporti fra gli in­ dividui. Contraddizioni di questo tipo si producono quando una forza, che per sua natura tende ad espandersi all'infinito, trova un limite e quindi viene « negata » negli altri esseri. A un livello superiore lo stesso fenomeno si presenta nel contrasto fra le volontà degli esseri umani, quando si con­ sideri sia il loro nesso necessario in generale, sia specifici rapporti interin­ dividuali, ad esempio quello fra uomo e donna, sia il rapporto fra l'indivi­ duo e la collettività. Bahnsen in qualche caso sembra intenzionato a non considerare questi fenomeni come vere e proprie contraddizioni, ma piut­ tosto esempi di « conflitto » (Widerstreit, Gonfiici), o di « collisione » (Collision) (RD I, pp. 204 e 254), che in tanto sono contraddittori in quanto hanno a loro fondamento la contraddizione intraindividuale. D'altra parte, con la precisa intenzione di sottolineare il carattere reale e non puramente logico della contraddizione, egli si serve del termine « conflitto » anche per indicare le contraddizioni intraindividuali (RD I, pp. 48 e 255). Così, nel­ l'insieme dell'opera di Bahnsen, « contraddizione », « scissione », « oppo­ sizione », « conflitto », « collisione » finiscono per essere utilizzati come sinonimi. I caratteri del concetto di contraddizione - specie nell'ambito della filosofia naturale - rieccheggiano, almeno linguisticamente, analoghe trat­ tazioni idealistiche e in effetti Bahnsen si richiama non raramente ad Hegel - ma egli cita spesso anche Dùhring. Bahnsen non dissimula infatti in alcun modo il legame della sua realdialettica con la dialettica hegeliana; ad esem­ pio all'inizio del suo secondo pamphlet contro Hartmann afferma che, a 1 RD I, p. 386. Cfr. l'intero cap. XX (RD I, pp. 380-410). Altrove (RD I, pp. 411 ss.) viene criticata la teoria degli atomi eterei, sostenuta da Hartmann, che, se vera, vanificherebbe completamente l'interpretazione realdialettica della gravitazione.

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differenza dello stesso Hartmann, ciò che lo lega ad Hegel è precisamente l'elemento dialettico del suo pensiero (PG, p. 2). In realtà Bahnsen si di­ stacca in molti punti essenziali da Hegel soprattutto perché egli sviluppa una concezione della logica assai diversa da quella hegeliana. Anzitutto per Bahnsen la logica è uno strumento del sapere e il sapere, come ogni realtà, non può avere fondamento che nella volontà: il sapere, deriva da un'originaria tendenza della volontà che al sapere è « predispo­ sta » e « preformata » (RD I, p. 165 s.). Il logico ha dunque origine dall'il­ logico (RD I, pp. 139 e 203), né può essere altrimenti se non si vuole ammettere, come Hartmann, un'originaria coordinazione di logico ed illo­ gico, di idea e volontà. Bahnsen si rende ben conto che una tale tesi ha in sé dei caratteri paradossali, giacché obbliga a supporre che la volontà vo­ glia sapere senza sapere di sapere, una tendenza del volere che Bahnsen chiama senz'altro un « enigma fondamentale » (Urràthsel) 2 . Questa deriva­ zione della logica della volontà, se da una parte garantisce alle leggi della logica un solido fondamento naturalistico (KD I, p. 207), dall'altra è di per sé indizio del carattere subordinato e « accidentale » del logico nei con­ fronti dell'essenza della realtà, una posizione questa di chiara derivazione schopenhaueriana. L'essenza della logica è indicata da Bahnsen nel suo operare mediante concetti. Per Bahnsen concetti contraddittori non esistono o comunque non possono essere pensati; una logica dialettica, che includa cioè in sé la contraddizione, è qualcosa d'impossibile: le critiche rivolte da Hartmann al metodo dialettico hegeliano sono da condividersi pienamente 3 . In positivo i concetti derivano per astrazione dalle intuizioni, un procedimento che Bahnsen, ancora d'accordo con Schopenhauer, ritiene non creativo in sen­ so proprio (RD I, p. 82 s.). Il procedere dell'astrazione è poi condizionato dal linguaggio o, meglio, dai linguaggi nel loro divenire storico e nelle loro 2 RD I, p. 163. Si vedrà più oltre, in sede di antropologia, che questo voler sapere è contrastato, come ogni tendenza della volontà, da un non-voler-sapere. 3 RD I, pp. 73 ss. Bahnsen si riferisce qui ad Hartmann 1868b; se si tien conto di questa concezione della logica non si può sostenere, come fa Volkelt 1872c - in questi anni ancora fervente hegeliano -, che la concezione della realtà sostenuta da Bahnsen non è irrazionalistica, poiché la realtà è retta da una logica dialettica e in quanto tale è pensabile razionalmente: per Bahnsen non esiste infatti una logica dialettica. Neppure si può sostenere che il rifiuto della razionalità (dialettica) complessiva della realtà renda impossibile ogni forma - anche limitata e settoriale - di conoscenza razionale, tesi questa sostenuta come si vedrà da Bahnsen. Questa obiezione ha senso se si interpreta la filo­ sofia di Bahnsen - come scorrettamente fa Volkelt - come se essa sostenesse che il molteplice non è originario ma derivato da un'unità originaria.

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diversità geografiche, per cui è ingiustificato supporre che la logica ripro­ duca con esattezza la realtà delle cose (RD I, p. 85 s.). « In conseguenza di ciò la comprensione logica del mondo che ci fornisce l'astrazione non è in grado di offrire nient'altro che, per così dire, una visione provvisoria o una propedeutica essoterica, che si rapporta alla piena verità come gli inganni dei sensi di un selvaggio si rapportano al sistema copernicano - un livello elementare di comprensione del mondo che deve essere superato da più elevate ed adeguate forme di conoscenza, come la semplice percezione sensibile del calore o altre simili devono essere superate dalla corretta e completa analisi scientifica della vera essenza degli oggetti di tali percezio­ ni » (RD I, p. 95). Si deve quindi distinguere fra ciò che è pensabile e ciò che è rappresentabile e non si deve supporre che solo ciò che è pensabile sia possibile (RD I, p. 93 s.). Logicamente possibile è per Bahnsen solo il non-contraddittorio. Nel definire il principio di contraddizione Bahnsen non si distacca di molto dalle formulazioni tradizionali; egli dice ad esempio che « l'essenza della contraddizione consiste nell' affermare che qualcosa - non importa se pro­ prietà, soggetto o predicato - al tempo stesso è e non è » (RD I, p. 79). Altrove, polemizzando contro non meglio precisati critici che considerava­ no ingiustificata l'attribuzione del carattere di « antilogicità » al principio della realtà, egli si difende affermando che tale attribuzione è giustificata se si intende per contraddittorio « il coesistere (das Zusammen) di sì e no » 4 . Su queste basi Bahnsen ritiene di poter respingere le accuse mosse da più parti alla realdialettica di essere una « filosofia dell'assurdo » (Unsinn) 4 RD I, p. 66. In un unico passo Bahnsen sembra distaccarsi dalle posizioni della logica tradizionale: trattando della contraddittorietà della volontà che manifesta deter­ minazioni contraddittorie senza peraltro cessare di essere identica a se stessa, ovvero di essere l'unico soggetto di tali determinazioni, Bahnsen sostiene che l'opposto della con­ traddittorietà non è l'identità, bensì l'accordo (Ùhereinstimmung) o la conciliabilità (Vereinbarkeit), mentre l'opposto dell'identità è la diversità (RD I, p. 53). In altri termini la volontà può essere contraddittoria ed identica a se stessa, mentre non potrebbe essere insieme identica e diversa da se stessa o insieme contraddittoria ed in accordo o conci­ liata con se stessa. Queste distinzioni sono poco convincenti o quantomeno necessite­ rebbero di ulteriori specificazioni che non sono sviluppate né qui né altrove: che cosa significa sostenere che una volontà che vuole a sia identica ad una volontà che vuole non-a~? Oppure che una volontà che vuole insieme a e non-a non è al tempo stesso identica e diversa da se stessa? Ciò che sembra stare a cuore a Bahnsen è il sostenere che le determinazioni contraddittorie possano inerire ad un unico soggetto. Ma una tale tesi non può evidentemente fondarsi su un principio logico, perché altrimenti si arriverebbe al paradosso di fondare (giustificare) logicamente proprio ciò che, secondo Bahnsen, rende impossibile l'uso della logica.

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(RD I, p. 47). Al contrario la realdialettica si sforza di essere la più chiara e precisa possibile nell'uso dei concetti e nello svolgimento delle argomen­ tazioni (RD I, p. 154). Se essa abbandona la logica, non lo fa per partito preso, ma semplicemente perché constata la sua inadeguatezza a compren­ dere e a riprodurre la realtà: « Là dove la natura realdialettica dell'essenza metafisica fondamentale produce fenomeni che non si lasciano ordinare nella congruenza logica, oppure dove al contrario ai postulati logici capita un'indiscutibile smentita da parte della realtà, là il pensiero - questa è la nostra richiesta dogmatica di fondo - si deve piegare di fronte all'essere e non pretendere che esso bon gré mal gré si faccia rinserrare nel rigido macchinario delle sue formule schematiche» (RD I, p. 105 s.). L'asserita contraddittorietà del reale non deriva dunque da una presa di posizione aprioristica o speculativa ma è imposta dalla osservazione empirica della realtà stessa: « L'autoscissione (se. l'intrinseca contradditto­ rietà) di questa volontà originaria è un dato di fatto come la costituzione di fatto dell'intelletto formale » (RD I, p. 100). Il punto dunque è sempre quello di verificare se effettivamente nella realtà esistono contraddizioni ed in che misura esse possono essere considerate dati di fatto empirici.

2. CONTRADDIZIONE ED ESPERIENZA. Il problema sembrava essere stato già risolto positivamente dagli esempi di contraddizioni sopra descritti. In realtà in più di un'occasione Bahnsen avanza la sorprendente tesi che la realtà fenomenica non è e non può essere contraddittoria. Ad esempio, riferendosi al movimento ed alle volizioni egli dice che essi « non sopportano alcuna realizzazione di predi­ cati opposti in uno spazio di tempo inesteso - nel tempo ciò che è intrin­ secamente contraddittorio può realizzarsi solo nella forma della successio­ ne » (RD I, p. 98). Altrove egli osserva che « nell'esistenza ci sono solo qualità - che non possono contraddirsi, giacché,in quanto predicati di un soggetto si trovano sotto il dominio della legge logica » (RD I, p. 100; cfr. anche RD I, p. 67). L'esperienza d'altra parte mostra collisioni e conflitti fra le forze (RD I, p. 197), ma si è visto che tali fenomeni non sono da considerarsi contraddizioni in senso proprio 5 . Sembra così che la contrad5 Esistono peraltro aspetti del mondo fenomenico (ad esempio l'antinomia fra discreto e continuo, il problema dell'infinito, il movimento, il concetto di limite) che secondo Bahnsen non possono essere dominati logicamente ma che pure, per così dire,

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dizione non sia rintracciabile nel mondo fenomenico o, quanto meno, nel mondo esterno. Quest'ultima precisazione è necessaria perché altrettanto esplicitamente Bahnsen afferma l'immediata constatabilità della contraddi­ zione all'interno dell'uomo, nella sua volontà, nel suo io: l'io è un « pezzo da parata » della realdialettica in quanto mostra « un mare di contraddizio­ ni » (RD II, p. 8). Questa tesi sembra di nuovo contraddire quanto detto in precedenza, là dove Bahnsen negava la possibilità di un fenomenizzarsi simultaneo di atti volitivi opposti. Questa apparente contraddizione si risolve almeno in parte, se si osserva che Bahnsen, senza peraltro mai tematizzare esplicita­ mente la questione, sostiene una teoria della volizione significativamente diversa da quella schopenhaueriana. Schopenhauer ritiene che l'atto di volontà o la volizione sia tale solo quando esso si manifesta in una determi­ nata modificazioni del corpo: il puro desiderare qualcosa - nella misura in cui non da luogo ad alcuna modificazione corporea, sia pure semplicemen­ te un'accelerazione dei battiti cardiaci - non è un atto volitivo, né d'altra parte Schopenhauer ritiene che si possa distinguere fra atto volitivo vero e proprio - il compiere una determinata azione - e la decisione di compiere tale azioni. Bahnsen viceversa sembra considerare atti volitivi, oltre alle azioni vere e proprie, anche i desideri e sembra distinguere, almeno in certi casi, anche fra azione e decisione di compierla (RD II, p. 26). D'accordo con Schopenhauer viceversa ritiene che i sentimenti non derivino da una specifica « facoltà » dell'anima, ma siano semplicemente il riflesso della soddisfazione o della insoddisfazione della volontà (RD I, p. 182). In que­ sto modo, pur escludendo che possano darsi empiricamente azioni contraddittorie, Bahnsen sembra garantirsi la possibilità di affermare la con­ traddizione del volere facendo riferimento a desideri, decisioni e sentimen­ ti contraddittori: infatti egli dedica molte pagine alla descrizione delle « contraddizioni » fra i desideri (RD I, p. 182 s.), dei contraddittori fini che la volontà si pone (RD I, p. 37), dei contrastanti sentimenti che accompa­ gnano ogni atto volitivo, per cui ad ogni sentimento di soddisfazione si accompagna sempre immediatamente o in rapida successione un sentimen­ to d'insoddisfazione (RD I, p. 180 s.). D'altra parte, se non si ammettesse non manifestano positivamente delle contraddizioni (eventualmente contraddittori sono solo i tentativi di spiegazione logica che si cerca di dare ad essi) (RD I, p. 300). Le molte pagine che Bahnsen dedica a questi problemi (cfr. in particolare i capp. VII, IX-XIV del voi. I) hanno essenzialmente la funzione di mostrare quanto poco giustificata sia la fiducia che l'uomo attribuisce alla logica e quindi di facilitare l'accoglimento della tesi della positiva contraddittorietà della realtà.

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la presenza di tendenze contrastanti nel volere, non si saprebbe come dar ragione di fenomeni psicologici quali il rinnegamento di se stessi, il sacri­ ficio oppure il rimorso 6. In conclusione, « la natura contraddittoria della volontà si manifesta nel fatto che essa si atteggia nello stesso modo nei confronti dell'opposizione fra il sì e il no, tanto nell'affermare quanto nel negare: vuole ciò che non vuole, e non vuole ciò non vuole - in questo contraddice se stessa, senza nondimeno essere differente da se stessa e quindi cessare di essere identica con se stessa » (RD I, p. 53). Al di là della penetrazione psicologica che Bahnsen manifesta in que­ ste pagine, la sua dimostrazione della contraddittorietà della vita psichica ha il suo punto debole nel non riuscire a mostrare in modo convincente l'effettiva presenza simultanea di tendenze, desideri, sentimenti contraddittori. Solo in un passo della Caratterologia Bahnsen insiste sul fatto che sentimenti contraddittori si presentano nello stesso tempo, ma, a parte una serie di esempi che dimostrano solo che sentimenti opposti possono segui­ re l'un l'altro in rapida successione, l'elemento di prova decisivo dovrebbe essere costituito dai « sentimenti misti » (Gefùhlsmischungen) in cui si in­ contra « una assoluta simultaneità, non una semplice alternanza di senti­ menti di contrasto ». Secondo Bahnsen questa tesi sarebbe condivisa da Kant, che nella Critica del giudizio parla di un diletto (Vergnùgen) che è percepito con dispiacere (Missfallen} e di un dolore (Schmerz] che è perce­ pito con piacere (Wohlgefallen} 1 . 6 RD I, p. 98 e BC I, p. 228 s. Come si è accennato e come si vedrà ancora fra breve, Bahnsen rifiuta il concetto schopenhaueriano di noluntas: egli sostiene cioè che la contraddizione non sussiste, soggettivamente, fra il volere ed il non-volere (e, slmilmen­ te, fra il desiderare ed il non-desiderare, il decidere ed il non-decidere etc.), - la volontà deve sempre volere -, ma fra volizioni e desideri opposti. La fonte della contraddittorie­ tà degli atti volitivi non è quindi da ricercarsi per così dire nel soggetto, ma nell'oggetto, in ciò che si vuole, si desidera. Ora, nel caso dei desideri, un desiderio in contraddizione con un altro desiderio, essendo un altro positivo desiderare e non un semplice nondesiderare, non può avere come oggetto la pura negazione dell'oggetto del primo desi­ derio: ad esempio non si può desiderare la non-ricchezza; il suo oggetto deve essere qualcosa di positivo, ad esempio la povertà. Ora ricchezza e povertà non sono concetti contraddittori, bensì, per usare la terminologia della logica aristotelica, contrari. Ma due predicati contrari non possono inerire allo stesso soggetto senza dar luogo alla contrad­ dizione. Se dunque, per restare all'esempio di sopra, lo stesso soggetto vuole al tempo stesso la ricchezza e la povertà, anche nei termini della logica tradizionale ci si trova di fronte ad una contraddizione, a qualcosa che non può essere pensato concettualmente. Nello stesso modo vanno poi pensate le contraddizioni che sussistono a livello di essenza fra le « tendenze » della volontà, tema sul quale si tornerà fra poco. 7 BC II, p. 147 s. e Kant, KU, pp. 330 ss. = tr. it., p. 192 s. (§ 54). In realtà il passo kantiano in questione sostiene il contrario di quello che Bahnsen vorrebbe, giacché Kant

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Senza dubbio Bahnsen ha dolorosamente sperimentato in sé la com­ presenza di desideri e tendenze contrastanti, l'incertezza sulle decisioni da prendere, l'insoddisfazione conseguente ad ogni scelta (WIW, p. 162) e certamente non si può negare che nelle sue descrizioni della vita psichica ci sia molta verità, ma non si può dire che i suoi sforzi di dare una spiega­ zione filosofica di questa realtà, sostenendo la presenza in atto di contrad­ dizioni siano coronati da successo. In realtà, nonostante le ripetute profes­ sioni di empirismo, ciò che da forza alle varie argomentazioni di Bahnsen è l'implicito postulato metafisico, secondo cui a fondamento di ogni feno­ meno si deve trovare un in sé - o una particolare determinazione dell'in sé. Se allora nel mondo dell'esistente si individuano forze o volizioni che si riferiscono ad uno stesso soggetto e che, se pensate non in successione, appaiono contraddittorie, bisogna concludere che a loro fondamento, nel soggetto, si deve trovare un'essenza intrinsecamente contraddittoria. Natu­ ralmente, anche accettando questo principio, rimane la difficoltà di dimo­ strare che tali forze o volizioni ineriscono effettivamente ad un unico sog­ getto; questo spiega perché Bahnsen privilegi l'analisi psicologica, nell'am­ bito della quale la soluzione di questo problema risulta assai più facile che nell'ambito della filosofia naturale. Una volta ammesso una intrinseca contraddittorietà del volere, rimane da spiegare più nei dettagli il nesso fra la volontà in sé contraddittoria e le sue manifestazioni. Si è visto che il passaggio dal metafisico al fenomenico, ovvero dalle tendenze della volontà a concrete, empiriche volizioni (siano esse atti di volontà veri e propri, decisioni o desideri) si compie per mezzo delle cause o motivi che attualizzano le tendenze del volere. Se queste tendenze sono contraddittorie in quanto aspirano ad « oggetti » contrari, l'attualizzarsi di una tendenza o dell'altra dipenderà evidentemente di volta in volta dall'appartenenza della causa o motivo all'una o all'altra delle classi di oggetti cui è indirizzata la tendenza metafisica del volere. Richiamando l'esempio precedente: la possibilità di un guadagno attualizzerà la tendenza alla ricchezza, la possibilità di far dono dei propri beni attualizzerà la ten­ denza alla povertà. Ovviamente in situazioni complesse, in cui siano com­ presenti più motivi, si produrranno conflitti all'interno dell'io. Secondo Bahnsen tuttavia, in forza del determinismo che egli sostiene, questi con­ afferma che in questi casi solo diletto e dolore sono veri e propri sentimenti, mentre piacere e dispiacere si fondano sulla ragione: nella prospettiva di Bahnsen dunque dilet­ to e dispiacere da una parte e dolore e piacere dall'altra non sono affatto sentimenti eguali e contrari e quindi la loro presenza nello stesso tempo non è una contraddizione in senso proprio.

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flitti sono decisi non dalla maggiore o minore forza delle tendenze opposte in gioco, ma dalla maggiore o minore efficacia dei motivi. Ma va da sé che nessuna delle tendenze contraddittorie del volere raggiunge mai « un'effet­ tiva prevalenza » (ein effectives ÌJbergewicht) e che quindi si deve supporre un « continuare a sussistere una accanto all'altra » (Nebeneinanderfortbestehen) di tali tendenze 8. Sembra comunque che Bahnsen pensi che alla lunga tutte o almeno gran parte delle tendenze di ogni volontà debbano finire per manifestarsi, giacché egli parla di un mondo fenomenico diviso in due metà corrispon­ denti alle due metà in cui è scissa la volontà di ciascun individuo e, in ultima analisi, di ciascuna enade 9. In ognuna delle due metà non esiste contraddizione e la successione dei fenomeni è coglibile logicamente, vale a dire secondo il nesso di causalità: « ogni metà della volontà in sé scissa si comporta secondo consequenzialità logica » (RD I, p. 68). Così Bahnsen può ribadire che la concezione del mondo della realdialettica non è un « assolutamente priva di senso » (absolut Sinnloses) (RD I, p. 68). La realtà fenomenica è paragonabile all'ordinamento dei numeri civici impiegato in alcune strade delle grandi città: entrambi i lati di tali strade hanno una numerazione continua che include numeri pari e dispari e che inizia da un 8 RD I, p. 422 s. Neìpamphlet contro la filosofia della storia di Hartmann Bahnsen sostiene che il fenomenizzarsi della volontà è reso possibile dalla superiorità della ten­ denza positiva su quella negativa (PG, p. 52). Ma questa posizione - in seguito abban­ donata da Bahnsen (RD I, p. 422) - è in contraddizione con l'altra tesi di Bahnsen secondo cui la distinzione nel volere fra un positivo ed un negativo dipende unicamente dal punto di vista; anzi, in ultima analisi, dove c'è opposizione, c'è sempre e solo nega­ tività: « La negazione della negazione si dice di nuovo posizione e poiché tutto si pone come negativo di fronte ad un altro negativo, quale nome dare è cosa indifferente, in quanto la realopposizione in quanto tale mai può cessare di essere di fatto identica con la pura negatività » (RD I, p. 241). Fechter 1906, p. 66, ritiene che la contraddittorietà delle tendenze del volere, così come proposta da Bahnsen, renda impossibile qualsiasi volizione: ogni motivo attualizzerebbe entrambe le tendenze che si neutralizzerebbero reciprocamente. Questa critica si fonda su un fraintendimento della natura della con­ traddizione che sussiste fra le tendenze della volontà: come s'è detto, qui la contraddi­ zione non è fra il tendere ed il non tendere verso qualcosa, ma fra il tendere verso qualcosa ed il tendere verso il suo contrario: se le due tendenze sono attualizzate da motivi diversi, è comprensibile come in determinati casi si attualizzi una tendenza, in determinati casi l'altra. 9 Non è chiaro, una volta abbandonata la distinzione fra volere positivo e volere negativo, in base a quale criterio le varie manifestazioni debbano essere divise in due classi contrapposte: sembra che, almeno per quanto riguarda gli individui, tutte le ma­ nifestazioni del volere possano essere ricondotte alle due tendenze fondamentali costi­ tuite dalla volontà di vita e dalla volontà di morte, e quindi distinte nelle due serie accennate in base alla loro appartenenza all'uno o all'altro gruppo.

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lato con il numero seguente a quello che conclude la numerazione dell'al­ tro lato. Chi si trova a metà della strada vede quindi da una parte una numerazione ascendente, dall'altra una numerazione discendente, costitu­ ite da cifre con valori molto lontani fra di loro. Mentre risulterà facile cogliere la logica interna a ciascuna delle due serie, sarà impossibile indivi­ duare un nesso fra i numeri che si trovano - casualmente - gli uni di fronte agli altri (RD I, p. 68 s.). Si definiscono così meglio gli ambiti di applica­ zione del pensiero logico tradizionale e del « pensiero » realdialettico: il primo vale per ciascuna delle due metà del mondo fenomenico, il secondo per il mondo fenomenico nel suo complesso e per ciò che ne costituisce il fondamento metafisico (le enadi). Ciascuna delle due forme di pensiero risulta inadeguata se utilizzata nell'ambito di applicazione che non le è propria (RD I, p. 68). Bahnsen ripropone questa sua dottrina anche facendo uso della di­ stinzione kantiana fra mundus phaenomenon e mundus noumenon; il logico vale per il primo di questi mondi, il realdialettico per il secondo (RD I, p. 121 s.); nel mundus noumenon è possibile ciò che è (logicamente) impos­ sibile nel mundus phaenomenon (RD I, p. 96). Il logico definisce il criterio di necessità dell'esistente (Existentialnothwendigkeit), ma non il criterio di necessità dell'essere (Seinsnothwendigkeit) (RD I, p. 137), così « se la con­ traddizione si trova nelle cose, essa deve trovare espressione anche nella loro esposizione: pertanto nella illustrazione (Aufstellung] di un concetto la non-contraddittorietà deve cessare di essere lo specifico criterio di corret­ tezza; chi infatti potrebbe pretendere che la spiegazione (Explication) lin­ guistica sia libera da un carattere che appartiene alla cosa stessa come sua qualità? » 10 . Addirittura la contraddittorietà diviene positivamente criterio di verità metafisico: « la verità deve contenere, essere affetta da una con­ traddizione e deve essere ciò, perché altrimenti sussisterebbe una diversità (non identità) fra il suo contenuto e ciò di cui deve essere espressione, l'essere » (RD I, p. 54); la contraddittorietà è la « legge » del principio della realtà (RD I, p. 355), legge che nasce dal confronto fra logica e realtà, la quale è in sé alogica (priva di determinazioni logiche) e diviene antilogica nella misura in cui ne viene riconosciuta l'incompatibilità con le leggi logi­ che (RD I, p. 204).

10 RD I, p. 198. Bahnsen usa in questo come in altri passi un linguaggio non troppo sorvegliato: altrove infatti (cfr. sopra) aveva escluso la possibilità di fare uso di concetti in sé contraddittori.

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3. IL NICHILISMO. Bahnsen riconosce che una concezione del mondo come quella da lui delineata, caratterizzata dalla contraddizione e dalle sue molteplici manife­ stazioni, può essere senz'altro denominata « nichilismo » (WIW, p. 162). Non è molto chiaro tuttavia in che cosa Bahnsen veda lo specifico nichili­ stico della sua filosofia: in un caso egli si richiama alla « mancanza di so­ stanza dell'essere » (Substanzlosigkeit des Seienden) (WIW, p. 160), un concetto che sembrerebbe identificare semplicemente il nichilismo con la concezione dinamica del fondamento della realtà. Tenendo conto della terminologia non sempre rigorosa di Bahnsen, è più probabile tuttavia che egli si riferisca non tanto al principio della realtà, al suo fondamento me­ tafisico, quanto all'insieme del mondo dell'esistenza, in cui ogni fenome­ no appare inevitabilmente destinato alla distruzione *(Untergang) (RD II, p. 451). Ogni fenomeno sussiste nell'opposizione e nella lotta, ma ad ogni effimera vittoria segue inevitabilmente una sconfitta (RD II, p. 452). Altro­ ve egli esprime questo concetto riferendosi alla legge della negatività che governa tutto il divenire, « un processo che si compie nella negatività del­ l'essere stesso, non solo del pensiero, e [che] quindi in ultima analisi [è] privo di ogni risultato positivo » (RD I, p. 6). Il concetto di negatività viene così collegato con l'assenza di una finalità complessiva della realtà, con la sua mancanza di senso: la volontà non vuole niente perché il suo volere non ha un fine (RD II, p. 455). Bahnsen chiarisce ulteriormente il significato del nichilismo confron­ tando la sua posizione con quelle di Kant ed Hegel. Come è noto, nel Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative Kant distingue fra contraddizione logica ed opposizione reale; laddove la prima da origine al nihil negativum, irrappresentabile, ovvero al nulla in senso proprio, la seconda - della quale l'esempio migliore è fornito dall'op­ posizione fra due forze che si neutralizzano vicendevolmente - da origine al nihilprivativum, rappresentabile, ovvero allo zero n . Bahnsen riprende la tematica kantiana coniando due neologismi, Nihilitàt e Nthtlenz, il primo dei quali corrisponde al puro nulla (nihil negativum), il secondo a un nulla sussistente (nihil privativum - il termine Nibilenz è rifatto su Existenz] 12 . Nell'applicare questi concetti ad Hegel, Bahnsen sostiene che questi, pren11 Kant 1763, AK II, pp. 171-178 = tr. it., pp. 263-270. 12 RD I, p. 432 e WIW, p. 161. In RD I, p. 242, il significato dei due termini è peraltro incomprensibilmente rovesciato.

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dendo le mosse dal nulla della contraddizione logica, ha cercato di giunge­ re a un nulla sussistente (Nihilenz), inteso come una manifestazione del­ l'Assoluto; ma è rimasto chiuso nel nulla astratto del logico e quindi non è andato al di là della Nihilitàt da cui era partito. Viceversa egli, pur stimo­ lato alla riflessione dalla apparente ìiihilitàt della realtà - dalla sua incom­ patibilità con la logica -, grazie a Schopenhauer è stato in grado di supe­ rare l'idealismo e di approdare alla Nihilenz (WIW, p. 161). Egli in questo modo non è caduto in un nichilismo assoluto (RD I, p. 341), giacché « la nullità (Nichtigkeit} è il carattere essenziale... dell'essere del mondo, ma solo in quanto costituisce la sua eternamente ineliminabile qualità esisten­ ziale, non la sua qualità essenziale, che in quanto tale renderebbe impossi­ bile ogni essere ed ogni esistere » (RD I, p. 242). D'altra parte, a differenza di Kant che interpreta l'opposizione reale ed il nulla che ne risulta come qualcosa di statico, egli, proprio per il suo debito verso la dialettica hegeliana, rilegge dinamicamente l'opposizione: le forze e le volontà continuano ad annullarsi reciprocamente, senza per que­ sto cessare di esistere, giacché ad ogni annullamento segue un'altra oppo­ sizione: il nulla è quindi « il risultare di una mancanza di risultato » (eine resultirende Resultatlosigkeit) (RD II, p. 453). Infine, ancora a differenza di Kant, egli ha posto la radice ultima del­ l'opposizione non nel rapporto fra le forze o volontà, ma al loro interno, ponendo così alla base dell'opposizione una contraddizione (RD II, p. 452); in termini kantiani, il nihil privativum deriva così da una nihil negativum, che come tale si sottrae alla comprensione logica: « lo specifico ri­ sultato della realdialettica è quindi un nihil che è vere, ma non mere negativum » (RD I, p. 242). Questa concezione del nulla consente anche a Bahnsen di differenzia­ re ancora una volta la sua posizione da quella assunta da Schopenhauer nel delineare i caratteri del nulla che si dovrebbe raggiungere con la negazione del volere. Il nulla di Bahnsen non è un nulla transfenomenico, come tale inesprimibile con il linguaggio, essenzialmente legato al mondo fenomeni­ co; esso esprime semplicemente la mancanza di durata, di senso, di valore dei fenomeni, qualcosa quindi di pienamente empirico (RD II, p. 453). Per questo Bahnsen può affermare: « io non condivido la tesi che il mondo possa divenire nulla - e precisamente per questo motivo, che non si può divenire ciò che in più di un senso si è già » (WIW, p. 162).

11. ANTROPOLOGIA ED ETICA

1. IL DESTINO PELL'UOMO. La contraddittorietà del reale, l'irrazionalità del principio metafisico e, non ultimo, le esperienze personali - il vissuto - di Bahnsen si traducono in una concezione dell'uomo, del suo destino e delle sue possibilità quanto mai cupa e priva di elementi positivi: non per caso Bahnsen chiama quella summa del suo pessimismo che è il Pessimisten-Brevier un Weltdysangelium (PB, p. VII), l'annuncio di una « triste novella », l'annuncio della continua, inevitabile, insuperabile sofferenza cui è condannata la vita dell'uomo. L'individuo uomo è, come si è visto, essenzialmente volontà. Questo significa, schopenhauerianamente, che l'uomo è un continuo tendere verso la soddisfazione dei suoi desideri, soddisfazione che, quando raggiunta, non è comunque durevole, perché ad essa seguono sempre nuovi desideri (RD II, p. 78). Ciò non ostante la volontà continua a volere: « II mistero originario della volontà consiste nel fatto che essa non trova alcuna quiete che nell'inquietudine di un tendere che eternamente s'accende nonostante ogni frustrazione » (RD I, p. 51). Ancora in perfetto accordo con Schopenhauer, Bahnsen sostiene la tesi della negatività del piacere, che non fa che riportare il « bilancio » piacere-dolore a un « punto d'indifferenza »: « Ogni dolore è... un eter­ namente insuperabile ammanco, un "meno" reale rispetto al punto d'in­ differenza, mentre ogni piacere al massimo è un attestarsi su questo punto e non è mai un vero "più" che possa essere sottratto al "meno". Ogni dolore è simile a un debito contratto, che non si può mai pagare con un piacere, poiché quest'ultimo, nei migliore dei casi, può servire a pareggiare il dare e l'avere, ma non è assolutamente in grado di dar luogo ad

245 un'accumulazione di capitale quasi fosse un fondo di ammortamento » (PB, p. 230) 1 . Questo quadro già così negativo delle possibilità di soddisfazione della volontà è ulteriormente aggravato dalla dottrina della scissione del volere, specifica di Bahnsen. La volontà « tende » in direzioni contrastanti, e la percezione di questo contrasto rappresenta « il tormento dei tormen­ ti », una « tortura » spirituale che richiama l'etimologia del termine: il tor­ cere membra del corpo in direzioni opposte (PB, p. 291). Ciò comporta che la soddisfazione di un desiderio è sempre accompagnato dall'insoddi­ sfazione - e dalla conseguente sofferenza - derivante dalla mancata soddi­ sfazione del desiderio opposto. Così la volontà schopenhaueriana si quali­ fica ulteriormente, anche a livello di individuo, come « una volontà che in eterna autoscissione si lacera in una sofferenza infinita » (PG, p. 14), che « vuole ciò che non vuole e non vuole ciò che vuole » (RD I, p. 53). Questo per altro riconferma l'impossibilità per l'uomo di soddisfare il proprio volere: « noi sentiamo la nostra essenza come qualcosa di mai pienamente realizzato, noi siamo parti separate di un tutto frantumato e proprio per questo non possiamo pervenire ad un'ultima, completa soddisfazione » (RD II, p. 211). Come si è visto, alle contraddizioni intraindividuali corrispondono quelle interindividuali, che sono indispensabili per l'esplicazione del vo­ lere in quanto « finitezza ed opposizione sono le precondizioni di ogni autoaffermazione» 2. Il limite di ogni individuo si esplica come bisogno dell'altro e di nuovo, schopenhauerianamente, parlare di bisogno vuoi dire parlare di dolore. Anche il bisogno degli altri non necessariamente trova soddisfazione; anzi, nella maggior parte dei casi, tale nesso si realizza nella forma dello scontro di bisogni opposti. Gran parte del Erevier è costituita da un estesa - per quanto rapsodica - illustrazione delle sofferenze che derivano dai rapporti interindividuali. Le disillusioni che derivano dal­ l'amore, dall'amicizia, dalla lealtà, dalla fedeltà ai propri ideali, dalla pro­ pria impotenza di fronte al dolore o alla malvagità altrui concorrono a 1 PB, pp. 6-8. Bahnsen pone l'accento più sulla positività del dolore che sulla negatività del piacere (WIW, p. 181). D'altra parte egli considera del tutto insoddisfa­ cente, perché « matematica », « fredda » e comunque « soggettiva » la fondazione del pessimismo sviluppata da Hartmann mediante il Lust-Unlust-Bilanz (WIW, p. 171). 2 RD II, pp. 65-67. Cfr. anche RD II, p. 258. Bahnsen insiste tuttavia anche sul fatto che la necessità della correlazione riguarda propriamente solo l'esplicarsi delle volontà e non la loro essenza, giacché, in caso contrario, verrebbe messa in discussione la loro assolutezza ontologica (RD II, p. 85 s.).

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formare l'impressionante quadro di un pessimismo « empirico », che si sostanzia nella contrapposizione, già schopenhaueriana, fra le « nature nobili » e gli uomini comuni e nel quale è facile percepire gli echi della biografia di Bahnsen. Il tragico pessimismo di Bahnsen trova il suo compimento nel rifiuto dell'unico elemento « positivo » a cui Schopenhauer aveva dato spazio nella sua filosofia: la possibilità della liberazione dal dolore attraverso la negazione del volere. Per Bahnsen infatti la volontà - ed egli, come si è visto, intende la volontà di ciascun individuo - non può cessare di volere: sempre ha voluto e sempre, per l'eternità, continuerà a volere. Invero Bahnsen ammette che il volere possa in determinate circostanze essere « la­ tente », ma ciò non significa affatto che la volontà cessi di essere tale, giac­ ché « il volere può essere inattivo, la volontà non lo può assolutamente mai»(RDI, p. 51). Sulle ragioni che rendono impossibile la noluntas Bahnsen ritorna più volte. In particolare in una lunga nota egli sottolinea che « ogni notte indica sempre un vette», cosicché « noi non usciamo mai dal volere, anche quan­ do e dove tutti i motivi sono divenuti "quietivi" » (RD II, p. 426, nota). Altrove osserva che la volontà può annullare, negare alcune o al limite tutte le sue volizioni, ma che essa nel far questo rimane un volere; infatti « donde deriva la volontà negativa in quanto noluntas se non dalla volontà univer­ sale stessa in quanto voluntasì » (PB, p. 419). Perché la negazione del volere potesse realmente realizzarsi, bisognerebbe dimostrare l'esistenza di una « essenza primordiale » (Urwesen), assolutamente libera e quindi in­ differente rispetto al volere ed al non volere, radicalmente diversa da quella volontà che si incontra nell'esperienza e che si presenta sempre come un inestricabile intreccio di volere e non volere 3 . In questo modo il pessimismo di Bahnsen chiude l'uomo in una morsa che non gli lascia scampo; la volontà non può né soddisfarsi né cessare di volere (RD II, p. 482). Si tratta veramente di un pessimismo « assoluto » (RD I, p. 189) che proclama come « dogma originario » la « assoluta man­ canza di salvezza » (RD II, p. 482) ed al quale a buon diritto si può attri­ buire il carattere di una « assoluta disperazione » (absolute Trostlosigkeit) (RD I, p. 239). L'« escatologia » del mondo è solo « l'immagine dell'eterno tramonto, che perennemente si compie in esso, senza mai trovare una fine

3 RD I, p. 188 s. Sul rifiuto da parte di Bahnsen della teoria della libertà trascen­ dentale si tornerà fra breve.

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- un tramonto ad interini, il cui simbolo può essere visto nell'eterno tra­ montare del sole che in ogni istante abbraccia la terra » (RD II, p. 424). Neppure la morte può quindi essere vista come autentica liberazione. Per certi aspetti Bahnsen interpreta la morte in senso strettamente natura­ listico, come il regolare alternarsi del riunirsi e del disgregarsi delle enadi. Del resto si è più volte visto come l'individuo sussista solo attraverso la lotta che è un susseguirsi di vittorie e sconfitte; così Bahnsen afferma che « la vita stessa è un morire » ovvero, citando Eraclito, « in ogni momento vita e morte sono legate l'un l'altra » (RD II, p. 438). Anche nell'uomo in quanto tale è presente una « volontà di morte »: « ciascuno vuole vivere ma al tempo stesso quodammodo e quatenus vuole anche morire »; senza que­ sta ipotesi fenomeni quali l'eroismo e il sacrificio della propria vita risulte­ rebbero inspiegabili (RD II, p. 197). Per l'uomo la morte ha come conse­ guenza la perdita della coscienza, la vanificazione di un fine del volere (RD II, p. 421). La coscienza è infatti inseparabile dalla vita (RD II, p. 448) e così si comprende come sia specificamente la coscienza a temere la morte, non volendo ricadere nella notte dell'inconscio 4. Ma, a parte la soppressione della coscienza, la morte non significa affatto la distruzione dell'individuo e della volontà che lo costituisce. Essa viceversa è « la pura ipostasi della parte negativa » del volere (RD II, p. 424). Anzi, dialetticamente, la morte può essere intesa come il positivo e la vita come il negativo (RD II, p. 439). Chi dunque, di fronte alle sofferenze della vita, giunge alla conclusione che « il miglior essere sia il non essere » e pensa di trovare finalmente pace nella morte, viene ancora una volta disilluso: « la cosa più triste » è che la morte « mente », giacché al posto di garantire la desiderata fine, rigetta « fra le fauci della vita » (RD II, p. 446).

4 RD II, p. 422. In BC Bahnsen da una spiegazione più elaborata della questione: poiché il fine del volere è l'esistenza e poiché esistere significa essere un oggetto per un soggetto (Bahnsen qui evidentemente non si è ancora distaccato del tutto dall'idealismo di Schopenhauer), parlare di volontà di vita significa in ultima analisi dire che la volontà tende a divenire oggetto a se stessa, ovvero, nei termini di Schelling ed Hegel, che tende ad una Selbstobiectivierung. La coscienza è così « il bene supremo » per la volontà e dato che la morte toglie di mezzo proprio la coscienza, si comprende l'opporsi dell'individuovolontà all'annientamento (BC I, p. 334 s.). La paura della morte deriva quindi dal non voler perdere ciò che si è raggiunto con tanta fatica (BC I, p. 342). A parte l'assenza del concetto di « volontà di morte », tipico della RD, questa spiegazione del timore della morte ha il vantaggio di chiamare in causa direttamente la volontà, di cui non si parla nella RD, attribuendo inspiegabilmente alla coscienza la facoltà di provare sentimenti, tipica della volontà.

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2. IL DETERMINISMO E LA MORALE.

Pur di fronte ad un'antropologia dai caratteri così negativi, Bahnsen non rinuncia a sviluppare una morale, che dovrebbe costituire il « messag­ gio » della realdialettica, benché la sua filosofia morale presenti notevoli difficoltà e sia trattata in un disordine espositivo che qui raggiunge il mas­ simo grado 5 . Il primo dato da cui bisogna muovere è costituito dal determinismo che regge gli eventi della natura e l'agire umano ed ha il suo fondamento nell'immutabilità dell'essenza delle volontà-enadi. Si è detto in precedenza come secondo Bahnsen ciascuna volontà-forza reagisca - ovvero passi dalla potenza all'atto - solo in presenza di determinati motivi. Nell'uomo la specifica determinazione della volontà è ciò che costituisce il carattere, che di conseguenza risulta anch'esso immutabile nella sua essenza. Questa con­ vinzione giucca un ruolo di rilievo nella Caratterologia, ed è ripresa anche in altre opere 6. Solo nella Realdialettica peraltro Bahnsen completa questa tesi con un esplicito rifiuto della dottrina kantiana-schopenhaueriana della libertà tra­ scendentale: per ammettere una tale libertà - secondo cui la volontà dareb­ be da sé a se stessa il suo contenuto, determinerebbe da sé la dirczione del suo volere - si dovrebbe supporre un soggetto fornito di un'extstentt'a ma non di un'essentia; ma ciò che non ha essenza non può esistere, cioè è un nulla; la libertà trascendentale farebbe quindi determinare il volere da un 5 Per Salzsieder 1828, p. 155 l'etica di Bahnsen « è del tutto campata in aria » e questo giudizio è sostanzialmente condiviso da Heydorn 1953, p. 234. Entrambi gli autori trattano abbastanza superficialmente la complessa posizione di Bahnsen. Anche Mon-Hua Liang 1932, non va al di là di un'esposizione delle tesi etiche fondamentali di Bahnsen. Quanto al disordine espositivo, esso dipende in larga misura dal fatto che, formalmente, la morale è affrontata sempre e solo per mostrare la presenza anche in essa della realdialettica, il che si traduce in un approccio assolutamente non sistematico. Il semplice elenco dei titoli dei capitoli in cui sono discusse più a lungo i problemi dell'eti­ ca - ma precisazioni importanti si trovano sparse anche in altre parti dell'opera - da un'idea abbastanza precisa del modo di procedere di Bahnsen (i capitoli che qui interes­ sano si trovano tra l'altro tutti nel secondo volume della RD, il volume uscito postumo e quindi - se possibile - ancor meno curato del primo): « Die Personalitàt in ihrer mehrfach zwiespàltigen Zerrissenheit » (cap. II), « Die allgemeine Bezogenheit der Individuen » (cap. Ili), « Amor und Caritas und die in ihnen sich verwirklichenden Widerspruche » (cap. Vili), « Die realdialektisch-ethisch Einheit von Selbstlosigkeit und Selbstbehauptung » (cap. IX), « Die realdialektische Natur des Ideals und des Sollens » (cap. X), « Die realdialektische Natur der Tugend » (cap. XVI). Indicazioni interessanti si trovano poi in BC e soprattutto in TW. 6 Ad es. BC I, p. 119 e 164; VWM, p. 16 s. e TW, pp. 39 ss.

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nulla, contraddicendo il principio ex nihilo fit nil, cui perfino la realdialettica, nonostante la sua propensione a lasciare largo spazio all'irrazionale ed all'illogico, riconosce piena validità 7 . Tuttavia, richiamandosi a Spinoza, Bahnsen nega che l'essere delle singole volontà possa dirsi in senso proprio sottoposto alla necessità: « Vesse in quanto tale non può dirsi né libero né necessitato. Conscguentemente, per evitare anche l'apparenza di un nesso causale, è preferibile sostituire al principio scolastico operati sequitur esse il meno equivoco principio in operando apparet esse, ben inteso nel senso di essentia » (RD II, p. 41). Alla distinzione metafisica fra essenza ed esistenza corrisponde in ambito antropologico quella fra carattere intelligibile e carattere empirico, una distinzione che Bahnsen - in questo caso fedele a Schopenhauer mantiene alla lettera nella Caratterologia e concettualmente anche nella Realdialettica 8. Perché infatti le varie determinazioni o tendenze contenute in potenza nella volontà passino in atto, si manifestino, bisogna che venga­ no a realizzarsi le necessarie condizioni, ovvero che si presentino motivi adeguati. Finché ciò non avviene, quelle tendenze restano allo stato poten­ ziale ed il carattere di un determinato individuo può apparire per lungo tempo considerevolmente diverso da quello che è nella sua essenza. Solo il presentarsi di una determinata situazione - ma nulla vieta che ciò non avvenga mai - può rivelare improvvisamente ed inaspettatamente la vera natura, il vero carattere di un individuo. Di qui l'importanza che le circo­ stanze possono avere sullo sviluppo del carattere empirico (TW, pp. 41 ss.). A un tipo particolare di « circostanze esterne » appartengono i vari elementi che concorrono a formare l'individuo. Si è visto sopra come esista un rapporto d'interrelazione fra l'io - la monade centrale - e gli altri elementi-enadi che costituiscono l'individuo, come l'io necessiti dell'organi­ smo quanto l'organismo necessiti dell'io (RD II, p. 2). Così qualsiasi modi­ ficazione dell'organismo influirà sul manifestarsi del carattere. In partico­ lare nella Caratterologia Bahnsen sottolinea l'importanza per il carattere del continuo mutare degli elementi che costituiscono l'individuo e giunge a sostenere che gli stessi influssi subiti dall'individuo durante la vita fetale possano condizionare il carattere. Una tale posizione « quasi rasenta quel7 RD II, p. 41 s. Tanto Hartmann, NSH, p. 183, quanto Salzsieder 1928, p. 156, affermano invece erroneamente che Bahnsen sostiene la tesi della libertà trascendentale. 8 BC I, pp. 238 e 241. Hartmann, NSH, p. 181, riferendosi a BC, obietta che tale distinzione non è giustificata, in quanto il carattere empirico non sussiste autonomamen­ te, ma è solo la somma delle azioni, delle manifestazioni del carattere intelligibile. Forse a motivo di tale obiezione Bahnsen non fa uso di questa terminologia nella RD.

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l'immorale concezione secondo cui l'individualità è un complesso di forze unite dal caso » (BC I, p. 164). Comunque, benché nel caso di circostanze favorevoli si possa parlare di un « raffinamento » (Veredlung) del carattere empirico, resta fissato che la sostanza del volere rimane sempre immutato (BC I, p. 213). Paragonando l'esplicarsi del volere alla maturazione dei frutti di un albero Bahnsen osserva: « II vento e il clima, il sole e la pioggia hanno la loro parte nel gusto e nell'aspetto dei suoi frutti, ma che cosa possa maturare su di esso dipende solo dall'albero; solo // modo in cui il frutto matura, se subito dopo la fioritura si secchi e cada, se i vermi lo divorino, se lentamente, come di solito, l'aspro ed il dolce si separino ed i colori svaniscano, se la fresca buccia si raggrinzisca nella bruciante siccità, o se l'umidità acceleri il processo di putrefazione: tutto questo dipende dalle circostanze esterne, non dalla sua innata essenza interna » (TW, p. 40). Negli esseri viventi la volontà da luogo allo sviluppo della facoltà co­ noscitiva, che raggiunge nell'uomo, con la coscienza, l'autocoscienza e la ragione la sua forma più elevata. Esse sono ciò che nell'uomo rende « il volere impersonale » un « io volente » (RD II, p. 25) e costituisce la base del concetto di personalità (KD II, p. 49). Questo fa sì che nell'uomo la maggior parte delle circostanze esterne che influisce sulla volontà (i motivi) abbia la forma di rappresentazioni. L'autocoscienza inoltre rivela all'uomo la presenza in sé di tendenze contraddittorie, che egli in prima istanza crede di poter equilibrare ed ar­ monizzare - la naturalità di questa credenza spiega la diffusione dell'ottimi­ smo psicologico (RD I, p. 166). Solo gradualmente si fa strada la convinzio­ ne che tali contraddizioni sono intrinseche alla volontà stessa, che la volontà tende sempre inevitabilmente in direzioni opposte; in altri termini solo gra­ dualmente l'uomo prende coscienza della natura realdialettica della volontà (RD II, p. 25). Nella misura in cui la coscienza avverte l'intera ricchezza dei contenuti del volere, la presenza contemporanea del sì e del no, si rende possibile l'illusione di una scelta: « la necessità sembra divenire autodeter­ minazione assolutamente libera » (RD II, pp. 26 e 28); « con ogni volere si presenta nello stesso tempo la sua contraddizione e questo è ciò che ci da la convinzione soggettiva della nostra libertà intcriore » (RD II, p. 40). La presenza dell'attività razionale nell'esplicarsi della volontà diffe­ renzia sì qualitativamente l'agire degli uomini da quello degli animali (RD II, p. 26), ma non modifica il quadro del determinismo di Bahnsen. Con una coerenza superiore a quella di Schopenhauer e di Hartmann, Bahnsen sottolinea che l'io conoscente e raziocinante non è una realtà o una forza realmente antagonista alla volontà stessa, non si muove di forza propria

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(RD II, p. 28), ma è una manifestazione della volontà stessa che è « predi­ sposta » e « preformata » al sapere (RD I, p. 154 s.). La sua attività, lo stesso corso dei pensieri è - di nuovo - « preformato » e « predetermina­ to » dalla volontà. Esso quindi in sé è determinato nel suo funzionamento come la volontà 9. Dalla coscienza deriva anche il sentimento di responsabilità, vale a dire il sentimento di essere gli attori delle proprie azioni, sentimento che tuttavia è indipendente dalla convinzione di poter agire diversamente da come si è agito e che, conscguentemente, non dimostra in alcun modo l'esistenza della libertà 10. Accanto al determinismo l'altro elemento caratteristico della filosofia morale di Bahnsen è l'insistenza sulla necessaria correlazione esistente fra gli individui: « L'essere posti in relazione l'uno all'altro (Aufeinanderangewiesensein), che è proprio di ogni forma di vita, è immediatamente il punto d'origine di ogni nesso etico » (RD II, p. 84). Il limite di ogni indi­ viduo si esplica come bisogno dell'altro, ma si è visto come tale relazione dia luogo necessariamente al dolore; si può così dire che il dolore è la condizione suprema dell'etica (RD II, pp. 207 e 211). Bahnsen precisa che i legami intraindividuali che si intrecciano fra singoli individui, danno luo­ go ad un « noi » che va visto come lo specifico ed originario ambito del­ l'etica. Se viceversa si pongono come termini di queste relazioni l'individuo e la totalità - della quale l'individuo stesso farebbe parte -, si offre il fianco all'obiezione in più occasioni rivolta a Schopenhauer, secondo cui un com­ portamento « altruistico » nei confronti della totalità non sarebbe in ultima analisi che una forma di larvato egoismo (RD II, pp. 81-84). Questo tessuto di relazioni porta alla luce due tendenze originarie ed antitetiche presenti in tutti gli individui: l'egoismo e l'altruismo, la tenden­ za ad espandere e quella a limitare il proprio io, la tendenza all'autoaffermazione e quella dell'autonegazione (RD II, pp. 84 s. e 180). Esiste in ogni individuo una «legge originaria» (Urgesetz) secondo la quale al bisogno d'aiuto si associa come suo correlato la capacità e la disponibilità all'aiuto 9 RD II, p. 29. Bahnsen sostiene anche l'esistenza di un pensiero inconscio che affiancherebbe e guiderebbe il pensiero conscio. Sugli specifici caratteri di questo pen­ siero egli non da tuttavia precise indicazioni (RD II, p. 27 s.). 10 RD II, pp. 42 e 44. Bahnsen tratta la questione della responsabilità prevalente­ mente in una prospettiva giuridica (cfr. RD II, p. 43 s.). Egli ha così buon gioco nel mostrare come in tale ambito si prescinda completamente dalla questione metafisica dell'esistenza o meno della libertà e viceversa si ponga l'accento sulla coscienza come condizione della nostra responsabilità per una determinata azione. Della questione della « imputabilità » si tratta lungamente anche in BC I, pp. 118-324.

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(RD II, p. 207). Questa legge originaria - che ha come suo presupposto la compassione, vale a dire la sensibilità al dolore degli altri (RD II, p. 227) si caratterizza come un'estensione al promisso del rifiuto del dolore che ciascuno prova in sé: così l'uomo, oltre che a fuggire i propri dolori, tende naturalmente anche a lenire i dolori degli altri (RD II, pp. 214 e 217). La percezione immediata del valore di ogni agire volto in questa dirc­ zione è per Bahnsen il fondamento ultimo dell'etica. Non è del tutto chiaro se per Bahnsen questo valore sia colto nella forma di un sentimento o se si manifesti immediatamente nella forma di un giudizio: in un passo, pole­ mizzando contro ogni tentativo di dedurre l'etico da principi estranei alla morale, si dice che l'autonomia dell'etico nell'uomo « risulta garantita solo nella misura in cui anche per l'etico può essere mostrato una facoltà di giudicare (Urtheilskmft) della stessa immediatezza che possiede ad esem­ pio il giudizio estetico... Deve essere originariamente presente un organo con la proprietà di rapportarsi in modo determinato agli oggetti del giudi­ zio etico ed estetico » (RD II, p. 81). In un altro passo invece, che tratta « del più essenziale dei concetti etici fondamentali », ovvero del sentire etico (Gesmnung), si dice che « se vuole garantita la sua propria purezza, esso deve essere l'immediata risonanza (Resonanz) dei fatti che operano su di noi come stimoli dei sentimenti » n . Che comunque il fondamento del valore etico sia uno specifico sentimento, lasciando impregiudicato se esso sia colto in sé o immediatamente nella forma di un giudizio, risulta eviden­ te dal fatto che a più riprese Bahnsen presenta il sentimento che deriva dal compimento di un'azione altruistica come l'opposto del piacere che deriva da un'azione egoistica: accanto ad un sentire originariamente eudemonisti­ co ve n'è uno altrettanto originariamente antieudemonistico (RD II, p. 87). Questa contrapposizione consente a Bahnsen di tener ferma la distin­ zione fra il piacere egoistico in senso stretto, che è sempre in relazione con un immediato, materiale incremento del proprio benessere (RD II, p. 210), e il piacere che deriva da comportamenti altruistici, una distinzione sulla quale si regge tutta la sua etica ed in particolare la dialettica fra egoismo ed altruismo che le è specifica (RD II, pp. 84 s. e 180). Egoismo ed altruismo sono dunque tendenze innate presenti in com­ binazioni diverse in tutti gli individui 12 . Peraltro, se è vero che « l'etica è 11 RD II, p. 211. Poco più oltre si dice addirittura che il sentimento etico deve seguire « con la sicurezza di un movimento riflesso fisiologico ». 12 RD II, pp. 202 s. e 217. Bahnsen si trova però in un certo imbarazzo nel dare ragione dei casi di gratuita malvagità, che non trovano giustificazione, come avviene per

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costante e solo i suoi modi di manifestarsi, i rapporti etici sono variabili e determinabili nei dettagli dalle condizioni culturali » (RD II, p. 225), è anche vero che proprio la variabilità di tali manifestazioni di fatto da luogo allo svilupparsi di un sentire etico nella sua concretezza assai diversificato in rapporto alle varie razze, alle varie nazioni, alle varie stirpi; anche le diverse classi sociali avranno comportamenti etici differenziati (RD II, pp. 214 s. e 227 s.). Come si è accennato, Bahnsen non vede nessuna opposizione di prin­ cipio fra egoismo ed altruismo; l'esistenza di un soggetto, di una volontà individuale che afferma se stessa o quanto meno si mantiene al livello di autoaffermazione raggiunta - quindi con una certa dose di egoismo - è condizione necessaria, fondamento di un agire altruistico (RD II, 178). L'altruismo allora non deve avere come fine un totale annichilimento del soggetto (RD II, pp. 180 ss. e 193) e risultano inaccettabili quelle dottrine etiche che pongono come fine supremo il rinnegamento di se stessi, l'asce­ tismo, la mistica (intesa come annullamento dell'individuo nell'Uno-tutto). La pura negazione della propria volontà propugnata da Schopenhauer è in sé eticamente indifferente, giacché non riduce il male degli altri ed anzi, nella misura in cui rende impossibile l'agire etico facendo venir meno il soggetto, è moralmente da condannarsi (RD II, pp. 186-188). Ciò non toglie che le personalità morali più alte, coloro che si dedicano senza ri­ sparmio ad una grande causa o ad un grande ideale, frequentemente si trovano nella necessità di rinnegare se stessi (RD II, p. 194). Il carattere « naturale » dell'agire etico riconferma per altra via il ruo­ lo marginale della ragione e della riflessione. L'uomo non ha bisogno di queste facoltà per agire moralmente: « la realizzazione dei principi etici appare una situazione di fatto (ein thatsàchlicher Zustand) molto prima di essere saputa come qualcosa di posto dalla volontà - o eventualmente di non voluto » (RD II, p. 218). Ancor meno indispensabili sono poi le leggi e i doveri della morale, definiti prodotti « terziari » della volontà (volontàintelletto-leggi) (RD II, p. 227). Le teorie etiche (come quelle estetiche) non possono pretendere di fondare i giudizi etici (o estetici), ma tutt'al più

altri comportamenti non morali, nel prevalere dell'egoismo sull'altruismo. Egli avanza l'ipotesi che essi derivino dall'errato convincimento che la propria autoaffermazione l'esplicitazione del proprio egoismo, entro certi limiti legittima - sia possibile solo attra­ verso il completo annientamento degli altri (RD II, p. 218 nota). Alla loro base non si troverebbe quindi una vera e propria tendenza della volontà al male - come voleva Schopenhauer -, bensì una sorta di « errore » della conoscenza.

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possono indicare « secondo quali caratteri sono oggettivamente formidabi­ li, ovvero perché una cosa è "trovata" e conscguentemente anche detta moralmente bella, un'altra odiosa od esecrabile» (RD II, p. 81). Quindi « il volere cercare una fondazione metafisica [delle leggi morali] può solo significare ricavarle dalla natura della volontà come ens metaphysicum e dalla sua autorealizzazione» (RD II, p. 227). Anche il concetto di dovere, come quello di libertà, va ritradotto fa­ cendo riferimento alla natura della volontà. Esso sorge dall'esperienza ge­ neralizzata della non-corrispondenza fra la realtà che circonda l'uomo e i suoi desideri. In particolare il dolore, come si è visto, si presenta immedia­ tamente come qualcosa di eternamente non-voluto, vale a dire « si legitti­ ma immediatamente attraverso la sua essenza come ciò che sarebbe meglio non esistesse (das besser Nichtseiende) » (RD II, p. 212). La volontà, a questo punto, « non si accontenta di dire: io non voglio che questo o quello siano, ma giunge a dire: "io vegli che questo o quello non siano", il che vai quanto dire: "questo non deve (soli) essere" » (RD II, p. 214). Il concetto del dovere nasce dunque per via negationis come ciò che non deve essere (Nicht-sein-sollendes). Quanto più si desidera realizzare un proprio deside­ rio, quanto più si desidera togliere di mezzo un determinato dolore, tanto più facilmente il dover essere, l'ideale che ne derivano condizionano l'inte­ ro agire della persona, tutte le sue tendenze ed aspirazioni, e tanto più facilmente può realizzarsi « il passaggio dal volere immanente alla fede in un dovere trascendente » (RD II, p. 224). Dunque il volere è próteron tè fùsei rispetto al dovere che è próteron pròs emàs (RD II, p. 219). Solo chi è disponibile a rinunciare all'autonomia dell'agire etico a favore dell'eteronomia continuerà a pensare ad una precedenza del dovere sul volere 13 . D'altra parte il pretendere che sia la ragione a prescrivere alla volontà un Sollen che precederebbe, determinandolo, il Wollen, è insostenibile, giac­ ché questo comporterebbe di nuovo l'esistenza di un volere indeterminato, che solo in un secondo momento si darebbe un contenuto, una dirczione verso cui tendere (RD II, p. 29). 13 Bahnsen amplia notevolmente il concetto di eteronomia, che pure riprende da Kant, considerando eteronome anche quelle etiche che fanno determinare la volontà da una facoltà diversa dalla volontà stessa, ad esempio la morale kantiana, in cui la volontà dovrebbe essere determinata dalla ragione. Il principio fondamentale che sta alla base dell'« autonomia » etica sostenuta da Bahnsen è invece che « chi non fa quello che egli stesso vuole, eticamente parlando non fa nulla » (RD II, p. 80). Ciò rende necessaria anche una metafisica individualistica, l'unica in cui gli individui non ricevono da altri il loro essere (RD II, p. 240 e PG, p. 65).

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La teoria etica non può quindi possedere in senso proprio una natura prescrittiva, anche se è lecito servirsi della forma esortativa nella presen­ tazione dei precetti etici (RD II, p. 218). Grazie alla ragione ed all'astra­ zione essa può quanto più aggiungere all'intuizione immediata del valore e del disvalore etico una formulazione rigorosa di principi e regole gene­ rali, elaborare « motivi astratti » a partire dalle circostanze particolari, giungendo a far compiere alla volontà « azioni finalizzate, decise e com­ piute sulla base della riflessione» (RD II, p. 26). Un esempio in questo senso è offerto dal principio supremo dell'agire etico, che null'altro è che la riproposizione in forma esortativa della naturale tendenza altruistica del volere: « Minue quantum potes summam calamitatum et dolorum hominum omnium, ita ut singulus quisque quam minimam pati debeat sive ex altero sive ex communione omnium sive ex natura rerum» (RD II, p. 216). La teoria etica è poi in grado, a partire dalla dialettica fra egoismo ed altrui­ smo, di fissare una scala di valori e quindi di dare una valutazione dell'agi­ re della volontà (RD II, p. 256), e inoltre di accertare la reale corrispon­ denza dei risultati dell'agire alle intenzioni del soggetto, mostrandone le conseguenze che resterebbero nascoste ad una volontà cieca (RD II, p. 26 e RD I, p. 165). In ogni caso l'agire etico non si sottrae alla generale contraddittorietà della realtà. In primo luogo il fine che la morale si pone come ideale, l'eliminazione del dolore, si rivela come intrinsecamente irraggiungibile. Infatti « la volontà suole avere il suo ideale in ciò che è contrario alla sua natura di volontà, quindi, ad esempio, nella realizzazione del suo desiderio di essere libera dal bisogno, ... il che equivale al desiderio di non essere più volontà» (RD II, p. 206). Oltre a ciò non sempre il genuino sforzo dell'individuo per lenire le sofferenze altrui ottiene i risultati voluti, anzi spesso avviene il contrario (RD II, p. 206). Di più: dal punto di tutta l'umanità, sembra che lo stesso senso dell'agire etico sia messo in di­ scussione non solo dal fatto che il dolore non può essere mai eliminato, ma anche dal fatto che neppure la sua quantità può essere ridotta; esso, per così dire, può essere solo « spostato » da un soggetto all'altro (ope­ rando per eliminare le sofferenze degli altri, o positivamente ce se ne fa carico, o, quantomeno, si reprimono le nostre tendenze egoistiche); al­ l'etica non sembra rimanere altro compito che quello di giungere ad un'equa « ripartizione » della quantità di dolore che inerisce all'umanità (RD II, p. 226). Altre e più dolorose contraddizioni si presentano inoltre all'interno dell'individuo. Esso deve fare i conti con l'insuperabile opposizione del-

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l'egoismo ad una totale realizzazione dell'altruismo; nessuna delle due tendenze può (e deve) essere definitivamente vinta, cosicché l'infelicità che soggettivamente ne deriva è «l'argomento veramente fondamentale per il carattere pessimistico della nostra concezione del mondo » (RD II, p. 97 s.). Perfino all'interno dei comportamenti altruistici la contraddizio­ ne si ripresenta nei laceranti conflitti fra doveri. Essi per Bahnsen costi­ tuiscono l'aspetto propriamente « tragico » della vita, il punto in cui le contraddizioni interne al volere raggiungono il loro livello più alto e più insanabile 14 . Questo quadro desolato non deve però giustificare un atteggiamento rinunciatario e fatalistico di fronte alla vita; la realdialettica, come si è visto, pone in ogni uomo accanto alla tendenza al male una tendenza al bene e questo consente di continuare a sperare - anche contro ogni evidenza nella possibilità di un miglioramento (PB, p. 247). L'uomo quindi deve coraggiosamente farsi carico di tutte le contraddizioni, deve continuare ad agire ed a lottare pur nella disperazione. Bahnsen delinea così l'ideale di una vita a un tempo disperata ed eroica - ancora una volta il modello è offerto dai personaggi della tragedia - che, incurante del proprio destino, pur nella certezza dell'insuccesso, cerca di rimanere fedele fino alla fine ai propri ideali. Questo « ideale » etico è espresso da Bahnsen con il concetto di vita vitalis^. Nell'ammissione dell'oggettiva assurdità e della mancanza di un fine praticabile per la morale va indicata la differenza di fondo fra l'etica di Bahnsen e quelle di Schopenhauer ed Hartmann, cui viceversa è sostanzial­ mente simile nel suo strutturarsi intorno ad un sentimento originario come fonte del valore etico, corrispondente ad un'originaria determinazione del-

14 « Una metà del doppio dovere non libera dall'altra - e chi viola una legge non può giustificarsi dicendo che ne ha seguito un'altra. Non solo sono in contrasto tra di loro i precetti divini e le leggi umane - anche la volontà degli dei ed i loro precetti - e se obbediamo all'uno offendiamo la maestà dell'altro. La stessa divinità chiede ciò che non può essere conciliato... L'amore lotta contro l'amore, la pietà contro la pietà, - il desiderio del padre con il diritto della madre. Così si deve peccare - infatti il tralasciare entrambi i doveri è doppia colpa... in qualsiasi modo si agisca, si è sempre nell'ingiustizia ». La fenomenologia del « tragico » è trattata a lungo in TW, pp. 9-97. 15 TW, p. 17. Una temporanea liberazione dalla contraddizione della realtà è of­ ferta dall'umorismo che Bahnsen interpreta come la capacità dell'intelletto di sollevarsi al di sopra della contraddizione, deridendola e quindi mostrandosi ad essa superiore (TW, pp. 97-134). Nell'umorismo si ripropone così il motivo schopenhaueriano della liberazione dell'intelletto dalla volontà.

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la volontà. L'etica di Bahnsen si riduce in sostanza alla tesi che determinate forme dell'agire sono sentite dall'uomo come morali, pur essendo in sé assurde e irrazionali; ma questa assurdità, dal punto di vista di Bahnsen, non può valere come un'obiezione contro la sua filosofia morale, per la semplice ragione che, come si è visto ad abundantiam, è la realtà nel suo insieme ad essere assurda ed irrazionale.

3. LA FILOSOFIA DELLA STORIA E LA POLITICA.

La sofferenza inevitabilmente collegata all'esistenza, l'inutilità degli sforzi individuali, il pessimismo ed il nichilismo che dominano la filosofia di Bahnsen trovano definitiva conferma nel rifiuto di ogni prospettiva di liberazione attraverso la storia. Benché Bahnsen insista sulla realtà metafenomenica del tempo, la sua posizione riguardo alla storia non si distacca molto da quella di Schopenhauer. Il carattere, l'essenza della volontà rimangono fuori dal tempo e sono immutabili ed è quindi da escludersi che la storia possa produrre qualcosa di veramente nuovo, possa modificare sostanzialmente la realtà: rispetto alla volontà « ogni divenire storico si presenta come puramente accidentale, come qualcosa di secondario, che certo può svelare questo mistero, ma non può mutare nulla in esso e ancor meno - come vuole Hegel - realizzarlo » (WIW, p. 161). D'altra parte - nota Bahnsen ripren­ dendo un'argomentazione tipicamente schopenhaueriana - l'infinità del tempo trascorso deve necessariamente aver portato alla completa realizza­ zione di tutte le potenzialità presenti nell'essenza della realtà (PG, p. 82 e RD II, p. 330). Bahnsen da valore al divenire storico che rende legittimo, per ambiti di tempo limitati, il parlare di un'evoluzione o di uno sviluppo (PG, p. 64 s. e RD II, p. 328), solo all'interno di un movimento ciclico che riafferma la tesi di una sostanziale immodificabilità del fenomenizzarsi della volontà: utilizzando un'immagine che sarà ripresa anche da Nietzsche egli afferma che « il progresso non è di fatto null'altro che un passo in avanti su un percorso circolare, la cui forma simbolica è quella di un serpente che si morde la coda » (RD II, p. 427); « Ogni giorno mutano i nemici e mutano le armi, ma la manovella del mondo ruota sempre in un eterno cerchio» (PB, p. 201). Il soggetto della storia è l'individuo considerato nella sua vita empiri­ ca. Da questo punto di vista Bahnsen polemizza con la Weltgeschichte hegeliana, negando che si possa parlare di sviluppo in riferimento ad entità

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diverse dall'individuo 16. Sappiamo però che per Bahnsen l'individualità non si esaurisce nella singola vita empirica, che gli individui - più precisa­ mente ciò che costituisce lo specifico dell'individualità - si « reincarnano ». Egli peraltro prescinde da questa prospettiva, che costituisce il corrispetti­ vo sul piano individuale del divenire ciclico della storia, e piuttosto consi­ dera, darwinisticamente, la storia delle specie cui i singoli individui appar­ tengono. In quest'ottica egli condivide pienamente la tesi darwiniana di un graduale adattamento delTindividuo-specie, delle sue membra e dei suoi organi, alle condizioni di complessità sempre crescenti che lo circondano e, più in particolare, alle condizioni poste dalla lotta per l'esistenza 17 . Per quanto riguarda più in particolare l'uomo, l'evoluzione va pensata come il graduale esplicarsi delle varie tendenze e potenzialità insite nella volontà, processo che materialisticamente ha il suo fondamento nel biso­ gno: « il crescere dei bisogni si manifesta come la specifica molla di ogni progresso storico » (PG, p. 40). Bahnsen su questa linea procede ad una demistificazione tutta schopenhaueriana dei cosiddetti grandi ideali che dovrebbero muovere la storia. Gli stessi « individui cosmico-storico », in cui le masse hanno cieca fiducia, sono mossi dai loro interessi personali e non possono che realizzare ciò per cui sussistono già condizioni oggettive di possibilità (RD II, pp. 333 ss.). La dinamica dei bisogni va comunque riletta alla luce della realdialettica; nel singolo individuo ha luogo una sorta di « concorrenza » fra le due metà della volontà scissa, in quanto la soddisfazione di una tendenza della volontà stimola la tendenza opposta a cercare essa pure soddisfazione; in 16 PG, pp. 22 e 58 s. Peraltro, per analogia con le specie e le forme di vita collet­ tive presenti nel mondo animale, Bahnsen - specie in BC - attribuisce alle razze, ai popoli, alle stirpi il carattere di veri e propri individui. Egli non concorda con Schopenhauer nel ritenere questi concetti delle pure astrazioni. Se così fosse, non si spieghe­ rebbe il senso di appartenenza del singolo a queste unità, che gli appare un dato psico­ logico incontestabile ed immediato, un istinto (BC II, p. 253 s.). Questa concezione naturalistica ed antispeculativa delle varie forme di vita collettiva è influenzata dalla Volkerpsychologie di Lazarus e Steinthal, cui Bahnsen si richiama più volte. Particolarmente interessante in questo senso è la seconda Appendice in BC II, p. 328-351, intito­ lata « Aphorismen zur Volkerpsychologie ». 17 RD II, p. 71. In generale Bahnsen mostra di apprezzare l'opera scientifica di Darwin, cui si richiama tutte le volte che è possibile, per mostrarne l'accordo con le sue posizioni. Egli invece prende le distanze dai tentativi di Darwin - ed ancor più dei « darwinisti » - di estendere anche all'ambito dell'etica la teoria evoluzionistica, soste­ nendo la tesi di un graduale perfezionamento e progresso della morale nel quadro di un utilitarismo che Bahnsen giudica teoreticamente insostenibile e in radice contrasto con il suo più profondo sentire etico (cfr. in particolare RD II, p. XIV).

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questo senso va inteso il « raffinamento » culturale di cui parlano gli storici (RD I, p. 454). Può avvenire tuttavia che il contrasto fra le tendenze della volontà semplicemente produca un'involuzione o quanto meno un arresto dello sviluppo. Che ciò debba avvenire, per così dire, su larga scala è im­ plicito nella teoria del divenire ciclico della storia. Ma anche nell'ambito di uno stesso ciclo si possono individuare fenomeni di questo tipo. Ad esem­ pio il graduale sviluppo della coscienza - l'esplicarsi della tendenza al sa­ pere - è « uno dei contenuti principali del volere se non il suo contenuto essenziale » ed esso costituisce un elemento importante dello sviluppo sto­ rico (RD I, p. 165). Grazie ad esso l'uomo si eleva dalla « naività » del­ l'istinto alla «luce della coscienza» (RD II, p. 274). Ora tale sviluppo si arresta quando viene a prevalere l'altrettanto originaria tendenza al non sapere (RD I, p. 164). Dunque nella storia è rawisabile una teleologia parziale - corrispon­ dente alla logica parziale che governa l'esplicarsi di una parte della volontà - ma non una finalità complessiva. L'errore fondamentale degli ottimisti consiste nello scambiare il finalismo immanente all'autorealizzazione del volere con una saggezza che dovrebbe porre dei fini positivi (PB, p. 219). Non esiste insomma nella storia un progetto complessivo, che dovrebbe condurre alla realizzazione di un'idea, ma una serie di sviluppi limitati e contrastanti, dipendenti dalle concrete, disordinate e contraddittorie esi­ genze che le singole volontà di volta in volta fanno valere. Così la storia nel suo complesso appare come qualcosa d'irrazionale: « Anche noi ci onoria­ mo di aver osservato con amorosa fedeltà l'ingarbugliato e contorto zig-zag che l'orgogliosa storia fa tracciare dal dito di Clic sulle sue tavole - ma non abbiamo trovato nessuna linea che potesse condurre a un "lieto fine" solo una vana immobilità e spaventosi regressi, tutte le volte che si era riusciti a realizzare qualcosa » 18. 18 RD II, p. 331. Nel citato pamphlet contro la filosofia della storia di Hartmann Bahnsen svolge una lunga serie di argomentazioni per dimostrare l'irrazionalità dello sviluppo storico: in particolare egli nota che se veramente la storia fosse retta da una finalità, risulterebbero inspiegabili tutti quegli elementi - sia a livello di individui sia a livello di popoli - che non concorrono a tale sviluppo ed anzi in qualche caso ad esso si oppongono (PG, pp. 19, 45, 63). La stessa idea di uno sviluppo è difficilmente con­ ciliabile con la presunta onnipotenza del logico, che dovrebbe poter realizzare immedia­ tamente i suoi fini (PG, p. 78); ancora più incomprensibile è la prospettiva di Hartmann secondo cui l'Assoluto, per realizzare il suo fine - l'annichilimento del mondo - necessiti dell'« aiuto » del fenomenico (PG, p. 79); ancora, se la logica dominasse veramente la realtà, non si potrebbe dar ragione della sua incapacità di comprenderne aspetti parti­ colari e, soprattutto, di dominare la volontà all'interno dell'individuo (PG, pp. 34 ss.).

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Ancor meno si può sostenere che la storia realizzi un progresso morale dell'umanità, in quanto la quantità di « forza morale » presente nella vo­ lontà è sempre la stessa (BC I, p. 293). Lo sviluppo e la lotta per l'esistenza non hanno così nulla a che fare con la morale (RD I, p. 206). Anzi, anche ciò che appare come un progresso materiale si traduce spesso in un accre­ scimento della sofferenza dell'uomo (PB, p. 221). In questo quadro generale Bahnsen inserisce una sorta di filosofia della storia particolare, che ha per oggetto la storia occidentale conside­ rata come un esempio di quella teleologia settoriale che governa partico­ lari periodi ed aree della storia dell'umanità. Essa va vista come un pro­ cesso di decadenza che si conclude con l'affermazione di un individuali­ smo astratto, egoistico e quindi sostanzialmente immorale: « l'individuali­ smo... è stato in ogni epoca il fermento che ha prodotto la disgregazione nella storia; e tutto ciò che è chiamato "progresso", "sviluppo" nella sto­ ria in fondo non è altro che il chiaro manifestarsi proprio di questo indi­ vidualismo » 19 . All'inizio di questo sviluppo - e sembra che Bahnsen si riferisca qui all'età classica - l'uomo, non ancora giunto allo stadio della riflessione, si trova in una condizione in cui sperimenta un immediato senso di apparte­ nenza alla comunità di cui fa parte, senso che si traduce altrettanto imme­ diatamente in un sentire morale (Sitte) in cui egoismo ed altruismo si tro­ vano in equilibrio 20. Presto tuttavia la riflessione distingue l'io dal non-io: perché l'uomo si pieghi alla collettività bisogna ora che esista una legge superiore, divina o di origine divina, che neghi l'io nella sua individualità (BC I, p. 282). Una volta sviluppatesi il concetto di io, il processo tuttavia non può più essere arrestato: presto la divinità della legge viene messa in discussione, come sarebbe avvenuto storicamente con Socrate ed i sofisti, e la Sitte, come immediato sentire, viene inevitabilmente distrutta (BCI, p. 287). Da allora in poi l'agire dell'uomo non è più guidato immediataPiù in generale poi, uno sviluppo unitario presuppone un fondamento unitario - il panteismo; ma esso renderebbe inspiegabile la molteplicità, la lotta fra gli individui (PG, pp. 49 e 69) e soprattutto il dolere (PG, p. 53). 19 BC I, p. 287. Va rilevato peraltro che in queste pagine l'intenzione principale di Bahnsen è, più che quella di sviluppare una vera e propria filosofia della storia dell'Oc­ cidente - i riferimenti alle varie epoche passate sono estremamente schematici -, quella di dare profondità storica ad una critica della sua epoca e specialmente della situazione politico-sociale della Germania di quegli anni. 20 RD II, p. 291 s. Bahnsen accenna peraltro anche ad un'epoca in cui non sarebbe esistita una vita sociale - l'istinto sociale, benché latente, non si sarebbe sempre mani­ festato (RD II, p. 292) -, e quindi in cui non vi sarebbe stato bisogno di Sitte.

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mente dall'istinto morale intcriore (BC I, p. 283): c'è bisogno della legge, di una sanzione esterna che permetta o vieti questo o quel comportamento. Il diritto viene quindi nel suo complesso considerato come un momento di decadenza, per sua natura incapace di recuperare quell'equilibrio che solo la Sitte poteva garantire 21 . Con queste premesse Bahnsen non può certo condividere la divinizza­ zione dello stato propugnata dall'idealismo hegeliano e riproposta in forma più rozza dalla politica della Prussia 22: dato che lo stato è nel suo insieme qualcosa di antimorale, quanto maggiore diviene la sua forza, tanto mag­ giore è la « demoralizzazione » che ne consegue (RD II, p. 332). Come è stato fatto rilevare, la critica di Bahnsen è sorretta essenzial­ mente da una concezione politica romantica, conservatrice, tutta rivolta al passato: il suo ideale sono gli stati della Germania degli anni precedenti l'unificazione, stati sufficientemente piccoli per non annientare l'individuo, per non massificarlo 23 . In una specie di diario in cui Bahnsen svolge una sorta di commentario agli avvenimenti del suo tempo sono espresse in tutta immediatezza le sue idee politiche. Poco dopo la battaglia di Kòniggràtz, di fronte alla prospettiva dell'unificazione tedesca ad opera della Prussia egli scrive queste significative righe: « Se solo si volesse comprendere in senso veramente concreto il significato di "nazionale"! Una nazione tedesca sen­ za la conservazione dell'individualità delle stirpi (Stammesindividualitàten) è una contradictio in adjecto. Proprio ciò che oggi è diffamato sotto il nome di particolarismo è precisamente un segno di fedeltà nazionale. L'unifica­ zione ad opera di uno stato è - come ci insegna tutta storia dei popoli tedeschi - un concetto non tedesco, anzi si potrebbe dire il concetto non tedesco per eccellenza. Ciò che la dovrebbe rendere accettabile, vale a dire l'indipendenza dall'esterno, è un'estrazione priva di valore e di contenuto e, oltre a ciò, una pura negazione. Se si distrugge tutto ciò che costituisce 21 Bahnsen dedica un lungo capitolo della RD alla discussione della filosofia poli­ tica (RD II, pp. 228-286); in esso Bahnsen critica ogni pretesa di fissare razionalmente i caratteri di uno stato perfetto: le istituzioni giuridiche hanno sempre di per sé il carat­ tere di un compromesso instaurato fra le tendenze contraddittorie del volere non più « regolate » dalla Sitte. Quanto più lo stato crede di regolare con la legge tali tendenze, tanto più indebolisce il sentimento autonomo della morale (« ogni legge distrugge un pezzo di Sitte »), per cui deve senz'altro essere condiviso il detto latino plurimae leges, pessima respublica. 22 In BC, del 1867 - quindi prima della creazione del Ketch -, Bahnsen manifesta nel complesso un atteggiamento meno negativo nei confronti della Prussia che, vicever­ sa, nella RD, diviene violentemente critico. 23 Heydorn 1953, pp. 166 ss. Sui meriti dei piccoli stati cfr. RD II, p. 348.

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la specifica essenza tedesca, poco importa di che origine sia quel che verrà a dominare sul sepolcro dei nostri unici veri beni: livellamento, centralizza­ zione equivalgono senz'altro alla distruzione del vero e specifico genio te­ desco» 24 . Nessuna delle prospettive politiche che il suo tempo offre sono accet­ tabili per Bahnsen. Non lo stato militare - lo stato prussiano: esso è qual­ cosa di vuoto, se non è sorretto dalla coesione spontanea dei cittadini (RD II, p. 297 s.) e ciò a cui esso conduce, la guerra e la vittoria, non apporta nessun vero progresso; al contrario « il risultato di tutte le grandi guerre, dal tempo degli Assiri e dei Romani, è stato un livellamento generale, un annientamento dell'unica cosa che possieda assoluto valore: l'unità indivi­ dualizzata » (PB, p. 180). Non il liberalismo, che Bahnsen identifica con il « manchesterismo »: esso ha prodotto una caricatura del vero individuali­ smo, costruendo un astratto modello del « uomo medio » cui applicare « la legge ferrea » dei salari. In positivo tale individualismo si traduce in asso­ luto egoismo, che fa sorgere la lotta fra le classi e distrugge ogni nobiltà di spirito (RD II, p. 303), si manifesta in fanatiche tendenze livellatrici » ed « esercita un terrorismo non solo contro tutto ciò che è al di sopra della media ma anche contro ciò che si eleva al di sopra dei livelli più bassi di vita » (RD II, p. 304). Benché dunque realdialettica e socialdemocrazia concordino per molti aspetti nella diagnosi negativa del presente, le solu­ zioni proposte sono diametralmente opposte, improntate ad una « libera­ zione » dello spirito quelle suggerite dalla prima, ad un'astratta ed irrealiz­ zabile eguaglianza economica ed alla massificazione dell'individuo quelle suggerite dalla seconda 25 .

24 « Zeitbetrachtungen (politisch und unpolitisch) », p. 2; inedito citato da Heydorn 1953, p. 203. Nonostante qualche momentanea oscillazione Bahnsen conserva fino alla fine un atteggiamento fortemente critico nei confronti di Bismarck, anche in questo caso in forte contrasto con Hartmann. 25 RD II, p. 362. Bahnsen si riferisce in una occasione a Proudhon, di cui condi­ vide l'interpretazione dialettica dei contrasti sociali (RD II, p. 356; cfr. RD II, p. 372 dove viene citato di passaggio anche Marx). In alcuni manoscritti Bahnsen articola più estesamente le sue posizioni antisocialiste, opponendosi all'utopismo ed al materialismo che egli individua come caratteri essenziali di tale dottrina (Heydorn 1953, pp. 162 ss.).

12. LA FILOSOFIA DELLA REDENZIONE DI MAINLÀNDER

1. LA PERSONALITÀ DI MAINLÀNDER.

Fra gli allievi di Schopenhauer quello che è passato sulla scena filosofica tedesca in modo più silenzioso e quasi senza lasciare traccia di sé è certamente Philipp Mainlànder l . Il senso della sua breve esistenza, svoltasi in un completo e voluto isolamento dal mondo culturale che lo circondava e troncata dal suicidio a trentaquattro anni, è tutto racchiuso nel suo unico 1 La fonte più importante per la conoscenza della vita di Mainlànder è la sua autobiografia, inedita tranne che per la parte riguardante il periodo del servizio militare (Mainlànder 1924), a cui attingono, citandone ampi estratti, Sommerlad 1898, Gebhard 1931 e Rauschenberger 1931 (cfr. anche Rauschenberger 1911 e 1911b). A questi lavori si rifanno direttamente o indirettamente tutti gli studi su Mainlànder che saranno citati più oltre. Philipp Mainlànder (il suo vero cognome era Batz - l'uso dello pseudonimo Mainlànder deriva dal suo desiderio di tenere distinto l'uomo dall'opera: cfr. la lettera all'editore riportata in Rauschenberger 1931, p. 232, nota 3), nasce ad Offenbach, sulle rive del Meno - da cui lo pseudonimo - nel 1841, ultimo di due fratelli e due sorelle. Il padre possedeva una fabbrica di porcellane; la madre, che aveva un carattere tendente alla malinconia e alla depressione, non doveva essersi sposata per amore, se parlando di sé e dei suoi fratelli Mainlànder afferma che « noi non siamo figli dell'amore, ma della violenza carnale (Notzuch) matrimoniale ». Frequentata la Realschule ad Offenbach, Mainlànder, per consiglio di Gutzkow, amico di famiglia, si reca nel 1856 a Dresda per attendere ad una Handelschule. Come Schopenhauer, egli attraversa una sorta di crisi vocazionale, giacché, ancora per consiglio di Gutzkow, sembra sul punto di abbandona­ re la carriera commerciale per dedicarsi agli studi classici. Legge il Tractatus di Spinoza, dal quale resta fortemente impressionato - mentre non riesce a comprenderne l'Etica. Tuttavia alla fine decide senz'altro e senza rimpianti di seguire la strada del Kaufmann: Mainlànder rinuncia all'università e per tutta la vita resterà un autodidatta. Nel 1858 è a Napoli presso una casa di commercio, dove a parte alcuni viaggi attraverso l'Europa, rimarrà cinque anni; si appassiona all'Italia ed alla letteratura italiana - in particolare a Leopardi - e scrive parecchi componimenti poetici. Dopo una dolorosa disillusione

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scritto filosofico, La filosofia della redenzione, a un tempo sistema fìlosofico ed appassionato documento di uno spirito segnato nel profondo da un individualistico rifiuto dell'esistenza e da un'appassionata e dolorosa sensi­ bilità per la sofferenza degli uomini, in particolare delle classi più umili 2 . amorosa con una ragazza di Francoforte, nel 1859 è colpito dalla morte di un fratello. Nel 1860 l'incontro con la filosofia di Schopenhauer: come avviene per Frauenstàdt, Bahnsen e Nietzsche, si tratta di una folgorazione. Mainlànder acquista da un libraio il Mondo, corre a casa e si immerge in una lettura che dura tutta la notte; l'impressione che ne ricava è foltissima: Biichner ed Oersted, che costituivano in quegli anni i suoi mae­ stri, sono subito abbandonati. Nel 1862, dopo un soggiorno romano che gli fa conoscere nel profondo la grande forza del cristianesimo e del cattolicesimo in particolare, torna in Germania per affiancare il padre nella guida della fabbrica. Sono gli anni del più stretto rapporto con la madre, cui Mainlànder si sentirà per sempre, anche dopo la sua morte (1865), indissolubilmente legato da un affetto quasi morboso: « il suo ricordo è il mio matrimonio, un matrimonio indissolubile » (citato in Sommerlad 1898, p. 86). In­ tanto si fa strada in lui sempre più marcatamente la convinzione di dover esprimere il suo amore per la patria attraverso il servizio militare; già nel 1859 aveva pensato di partecipare alla guerra fra Piemonte ed Austria; nel 1863 in occasione della guerra contro la Danimarca si fa istruire nell'uso delle armi e nel 1866 decide di arruolarsi progetto vanificato dalla rapida conclusione delle operazioni militari. Continua frattanto a dedicarsi alla letteratura (scrive una trilogia drammatica intitolata Die letzten Hohenstaufen), studia il buddhismo e legge i mistici tedeschi medievali. L'oggetto principale dei suoi studi resta però Schopenhauer, nei confronti del quale si sente come Paolo nei confronti di Cristo. Nel 1868 il padre vende la fabbrica e Mainlànder va a lavorare a Berlino in una banca. Conduce vita molto ritirata e si dedica ad estese letture filosofiche: Fiatone, Aristotele, Scoto Eriugena, Locke, Berkeley, Hume, Hobbes, Helvetius, Kant, Fichte, Hegel, Herbart, Condillac. Nel 1872 torna ad Offenbach, ma poi va a vivere ancora a Berlino fino al 1874. In quell'anno, dopo ripetuti sforzi, viene finalmente accol­ ta la sua richiesta di poter prestare il sevizio militare come semplice corazziere ad Halberstadt (Mainlànder ha trentatrè anni e non possiede una costituzione fisica particolarmente robusta). Fra il giugno e il settembre di quello stesso 1874 scrive il primo volume della Philosophie der Erlòsung, si reca quindi sulla tomba della madre per giurare di restare vergine fino alla morte (come si vedrà, il mantenimento della verginità è il pre­ cetto fondamentale della sua filosofia) ed il primo ottobre prende servizio fra i corazzie­ ri. Il servizio è particolarmente pesante e naturalmente Mainlànder non trova fra i com­ militoni - tutti provenienti dalle classi più umili - nessuno che condivida i suoi alti ideali morali e patriottici. Mortalmente stanco - ma in nulla mutato nelle sue convinzioni della necessità e della possibilità di un riscatto delle classi popolari - lascia nel novembre del 1875 i corazzieri e torna ad Offenbach. Scrive rapidamente il secondo volume della sua opera e, soprattutto, prende la decisione di entrare a far parte del partito socialdemocra­ tico. Che cosa avvenga ih Mainlànder a questo punto non è facile sapere: forse egli non se la sente di rompere con la sorella - cui è fortemente legato - che si oppone fieramente alla sua decisione di schierarsi con i socialdemocratici, forse con la conclusione della sua opera filosofica egli ha la sensazione di aver portato a compimento la sua vita; comun­ que sia, il 31 marzo 1876, poco dopo aver ricevuto il primo volume della Philosophie der Erlòsung, si impicca nella sua camera. 2 La PE è costituita da due volumi, il secondo dei quali pubblicato postumo dalla sorella di Mainlànder. La prima parte del primo volume espone in modo abbastanza

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Molto più vicino a Schopenhauer di tutti gli altri discepoli - in più d'una occasione e in particolare per la fondazione empirica del pessimismo Mainlànder rimanda semplicemente ai risultati della filosofia del maestro -, Mainlànder ritiene che la filosofia schopenhaueriana necessiti solo di alcu­ ne correzioni ed integrazioni; a questo scopo non si tratta di ricorrere a tradizioni filosofiche estranee a Schopenhauer - a differenza di quanto avviene in Hartmann ed in Bahnsen il pensiero di Hegel e dell'idealismo è praticamente assente dall'orizzonte filosofia) di Mainlànder -, ma di svi­ luppare in modo coerente tutti elementi implicitamente presenti in esso e, soprattutto, di eliminare quella dimensione trascendente cui nonostante tutto, secondo Mainlànder, Schopenhauer non è stato capace di rinunciare. Per molti aspetti il suo pensiero costituisce un'antitesi dell'opera di Bahnsen, per quanto Mainlànder non sembra aver mai avuto notizia del­ l'esistenza di Bahnsen che, da parte sua, lo cita una volta solo di passag­ gio 3 . In Mainlànder non v'è nulla di quello spirito polemico, di quel ran­ core verso l'umanità intera che domina negli scritti di Bahnsen; v'è invece una serenità rassegnata, una tranquilla fiducia nel trionfo della verità, che lo spingono a vedere negli altri più l'aspetto positivo che quello negativo, che gli fanno considerare con indulgenza i difetti degli uomini, visti sempre più come vittime che come artefici della sofferenza in cui si trovano a vivere. Ciò si rispecchia anche nello stile dei due autori: contorto, disordi­ nato, spesso oscuro quello di Bahnsen, chiaro, lineare, quasi settecentesco quello di Mainlànder, che non fa nulla per dissimulare le difficoltà cui via via il suo sistema va incontro, offrendosi al lettore con disarmante - e spesso disarmata - semplicità. Da un punto di vista più specificamente filosofico Mainlànder, pur sostenendo il pluralismo, si discosta da Bahnsen nell'attribuire un ruolo assolutamente centrale alla discussa dottrina schopenhaueriana della negalineare il « sistema », composto dalla teoria della conoscenza, dalla fisica, dall'estetica, dall'etica, dalla politica ed infine dalla metafisica. La seconda contiene una discussine critica delle filosofie di Kant e Schopenhauer. Il secondo volume raccoglie dodici lunghi « Essays » divisi in quattro gruppi; nel primo vengono discussi il realismo, il panteismo, l'idealismo, il buddhismo ed il cristianesimo; il secondo è interamente dedicato ai pro­ blemi del socialismo; il terzo offre una raccolta di pensieri sparsi; il quarto ed ultimo una lunga critica della filosofia di Hartmann (sembra che questa parte sia stata anche pub­ blicata separatamente cfr. Mainlànder 1886). 3 Bahnsen si riferisce all'ascetico comandamento della castità di Mainlànder per segnalare come esso, letto nel suo contesto, debba essere considerato qualcosa di diverso dal tradizionale - e per Bahnsen essenzialmente egoistico - rinnegamento di se stessi, in quanto esso dovrebbe condurre alla redenzione dell'intera umanità (RD II, p. 192 s.).

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zione della volontà, che diviene in lui non già un evento straordinario riser­ vato a pochi ma il fine complessivo verso cui l'intero universo con inelut­ tabile ma provvidenziale necessità si muove. Il suo pessimismo, conscguen­ temente - ancora in netta opposizione a Bahnsen -, ammette una liberazio­ ne, benché questa liberazione sia rappresentata unicamente dall'eterna pace del nulla. Nonostante le numerose e profonde differenze, particolarmente evi­ denti nell'opposto orientamento politico, Mainlà'nder finisce così per risul­ tare più vicino alla filosofia di Hartmann, che pure egli critica aspramente 4 . Nelle intenzioni di Mainlà'nder tuttavia la sua filosofia è qualcosa di più di un perfezionamento dei precedenti sistemi filosofici. Essa è infatti il compimento dello sviluppo spirituale dell'intera umanità, sviluppo nel quale un ruolo decisivo viene attribuito alle religioni. Come si vedrà meglio in seguito, Mainlànder attribuisce alla sua filosofia il compito di riprendere e sviluppare in termini razionali il contenuto delle religioni storiche - in particolare del buddhismo e del cristianesimo -, e soprattutto di portare a compimento la riaffermazione dell'individuo, il che può avvenire, secondo Mainlànder, solo attraverso una fondazione « scientifica » dell'ateismo. Alle religioni della redenzione, fondate sulla fede, si sostituirà così la sua « filosofia della redenzione » 5 .

2. LA TEORIA DELLA CONOSCENZA.

La Analytik des Erkenntnisvermògens, con cui si apre la Filosofia della redenzione, presenta in forma sintetica la gnoseologia di Mainlànder (PE I, pp. 3-45), che è completata poi dalla corrispondente discussione critica delle gnoseologie di Kant e Schopenhauer (PE I, pp. 365-461). Mainlànder definisce la sua posizione « idealismo trascendentale », ma, come già i suoi

4 PE II, p. 529 s. Si tratta tuttavia di una critica tutt'altro che costruttiva: Mainlàn­ der si limita per lo più a riportare lunghi passi della PU accusando di continuo Hart­ mann di assurdità e controsensi e rimandando sistematicamente alla propria filosofìa come strumento per risolvere in modo adeguato i problemi posti da Hartmann. Questi cita una sola volta Mainlànder in PSB, p. 547, per poi dare un'esposizione concisa ma nella sostanza corretta del suo pensiero in GM. 5 PE I, pp. V-VIII. La letteratura critica su Mainlànder, benché la sua filosofia non abbia avuto alcun successo (cfr. le poche recensioni, tutte assai negative, della PE, Anon. 1877 e E. Pfleiderer 1877b [« folle e bizzarra mitologia »]), è relativamente estesa almeno negli anni che vanno fino alla fine del secolo. Già nel 1881 si ha la prima

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primi critici hanno visto, sarebbe più opportuno parlare di un « realismo trascendentale » 6. Anche per questo motivo sono in essa fornite indicazio­ ni abbastanza precise sulla natura di ciò che si conosce; in tal modo essa offre anche una sorta di ontologia e contiene, nelle sue pagine conclusive, gli elementi che conducono alla concezione metafisica fondamentale di Mainlànder. Per Mainlànder ogni filosofia deve essere « immanente », vale a dire avere per oggetto il mondo sensibile e deve cercare di chiarirlo mediante principi che si trovano in esso. Essa deve però anche essere « idealistica », cioè deve partire dal soggetto e non trattare delle cose come se esistessero indipendentemente « da un occhio che le vede ». Di qui la necessità di sottoporre a preventivo esame la « facoltà conoscitiva » per determinarne i limiti e le possibilità (PE I, p. 3). Fonti della conoscenza sono i sensi e l'autocoscienza (PE I, p. 3 s.). Quest'ultima tuttavia, che in Schopenhauer costituisce la via d'accesso privilegiata all'in sé, svolge un ruolo tutto sommato subordinato in Mainlànder, che pure ripropone ed accetta le linee essenziali della dottrina schopenhaueriana. È sufficiente osservare che delle circa quaranta pagine di cui è composta la gnoseologia, solo le ultime quattro si occupano del­ l'autocoscienza (PE I, pp. 42-45). Mainlànder infatti ritiene che per la via dei sensi sia possibile giungere all'in sé in modo più lineare e soprattutto evitando le contraddizioni fra idealismo e realismo presenti in Schopenhauer. Nonostante l'esplicito rife­ rimento a Kant ed a Schopenhauer, questa gnoseologia finisce per essere più vicina alla tradizione empiristico-realistica che vede in Locke uno degli presentazione d'insieme del pensiero di Mainlànder in Plùmacher 1881. Pochi anni dopo è la volta di Seiling 1888, che fin dal titolo (Mainlànder, ein neuerMessias}, mostra chiaramente le intenzioni dell'autore (Max Seiling [1852-1928] dopo aver studiato alla Techntsche Hochschule di Monaco, fu dal 1879 professore di meccanica ad Helsinki, dove si fece notare per numerose opere tecniche scritte in finlandese; Seiling si è occu­ pato di Mainlànder anche in un più tardo articolo [Seiling 1899] in cui viene condotto un confronto con Nietzsche, confronto dal quale naturalmente Mainlànder esce vincito­ re ed ha dedicato al tema del pessimismo anche una raccolta di aforismi [Seiling 1886]). Ad essa si contrappone un articolo dell'herbartiano Schwarze 1890, in cui in sostanza viene riconosciuto a Mainlànder solo il merito di avere criticato la Hartmannerei e di aver mostrato dove può condurre la Schopenhauerei (p. 303). Drews 1893, voi. II, pp. 359-384, da poi un'altra esposizione d'insieme, condotta dal punto di vista di Hartmann. Dopo i due lavori di Rubinstein 1894 e 1896, di tono popolare, una decisa riva­ lutazione dei meriti filosofici di Mainlànder è offerta da Sommerlad 1899. Nel Novecen­ to la filosofia di Mainlànder è stata ripresa estesamente solo da Kormann 1914. 6 Cfr. ad es. Plùmacher 1881, p. le Hartmann, GM, II voi., p. 523.

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autori maggiormente apprezzati da Mainlànder 7 . Anche nella illustrazione del processo del conoscere Mainlànder procede seguendo da vicino l'im­ postazione di Schopenhauer, semmai accentuandone la componente mate­ rialistica: il punto di partenza è costituito dalle impressioni ricevute dagli organi di senso, che attraverso i nervi sono inviate al cervello; la prima delle funzioni conoscitive del cervello, l'intelletto, grazie alla legge di causalità che gli è specifica, « come lo stomaco deve avere la facoltà di digerire », interpreta tali impressioni come un effetto (Wirkung] e ne costruisce a priori la causa: tale causa è ciò che costituisce il contenuto della rappre­ sentazione; l'insieme di tali cause è il mondo come rappresentazione (PE I, p. 4 s.). A questo punto, con un'argomentazione invero piuttosto semplicisti­ ca, ha luogo la deduzione dell'esistenza della cosa in sé. Non essendo le modificazioni degli organi sensoriali opera del soggetto e dovendosi esclu­ dere che esse siano prodotte da « un'inconoscibile, onnipotente mano estranea all'uomo, cosa che la filosofia immanente deve rifiutare » (Berkeley), non resta che ammettere che « cause del tutto indipendenti dal sog­ getto producano le modificazioni negli organi di senso, ovvero che autono­ me cose in sé pongano in funzione l'intelletto » (PE I, p. 5). Il nucleo centrale dell'argomentazione è costituito quindi da un ripensamento in senso realistico della legge di causalità. Mainlànder concorda con la critica rivolta da Schopenhauer alla deduzione kantiana dell'apriorità della legge di causalità: la sua apriorità non deriva dal fatto che senza di essa non si potrebbero fissare nessi oggettivi fra gli oggetti, bensì dal fatto che senza di essa non potrebbe esistere in generale il mondo della rappresentazione (PE I, p. 435). Peraltro la concezione kantiana della causalità è da preferirsi a quella di Schopenhauer perché mediante essa, seppure in modo aporetico, Kant afferma l'esistenza della cosa in sé (PE I, p. 438). Tale risultato è comunque privo d'interesse filosofico, giacché Kant, avendo soggettivizzato e conscguentemente posto nella dimensione ideale della realtà tutti i possibili attributi della cosa in sé, l'ha ridotta ad una x, il che vai quanto dire a puro nulla (PE I, pp. 369 e 438). Merito di Kant resta però quello di aver colto che le modificazioni che hanno luogo negli organi sensoriali, in quanto passive, in quanto posseggono il carattere di una costrizione (Notigung), di un qualcosa che si sottrae alla nostra volontà, rimandano imme­ diatamente « ad un'attività (Wirksamkeit) che si trova fuori di me » (PE I, 7 Una valutazione complessiva dei meriti e dei limiti di Locke, preferito di gran lunga a Cartesio, Berkeley e Hume, è offerta in PE II, pp. 41-44.

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p. 439 s.). Schopenhauer, benché potesse essere a ragione meno preoccu­ pato di Kant circa gli esiti idealistici della sua gnoseologia (PE I, p. 439), ha ben colto questo stato di cose, ma « ha intenzionalmente negato la ve­ rità », soggettivizzando interamente la causalità, senza vedere che comun­ que una tale soggettivazione non poteva investire l'attività della cosa in sé immediatamente attestata dai sensi, attività « che sarebbe presente anche senza un soggetto » (PE I, p. 440). Più oltre Mainlà'nder afferma che l'in­ telletto non produrrebbe mai delle rappresentazioni se non ci fosse l'azione (Einwirkung) di qualcosa che, per così dire, lo mettesse in movimento; ma riconoscere questo fatto vuoi dire di per sé ammettere l'esistenza di qual­ cosa di non soggettivo 8. Anche lo spazio costituisce secondo Mainlà'nder una forma pura del­ l'esperienza. Ma in questo contesto la posizione kantiana è profondamente modificata dal realismo di Mainlà'nder. Egli infatti da per presupposto che la realtà esterna - dove per esterna si intende indipendente dal soggetto conoscitivo - abbia in sé estensione e movimento, il che implica che pos­ segga già una qualche forma di spazio e di tempo (il discorso riguarda qui anche il tempo, che però Mainlànder ritiene una sintesi a posteriori della ragione). L'analisi che egli svolge dello spazio e del tempo di conseguenza ha per fine quello di domandarsi in base a quali condizioni la realtà ester­ na, qualificata nel modo che si è detto, possa essere riprodotta dal soggetto. Lo spazio è così presentato come « un punto » che ha la capacità « di delimitare secondo le tre dimensioni le cose in sé che agiscono sugli organi di senso »; esso determina quindi la « sfera di attività » delle cose in sé, la quale comunque ha in sé un'estensione che sussiste indipendentemente dal soggetto 9 . Un discorso analogo vale per il tempo: se ci sprofondiamo in noi stessi, « ci troviamo presi in un continuo innalzamento ed abbassamento, in breve in un continuo movimento »; il punto in cui questo movimento raggiunge la coscienza è detto da Mainlà'nder « il punto del movimento »; su di esso « galleggia » la ragione, e ciò costituisce « il punto del presente ».

8 PE I, p. 441. Va rilevato che Mainlànder non prende in alcun modo in conside­ razione l'ipotesi che le modificazioni sensoriali siano prodotte da un'attività inconscia del soggetto - il che, dopo Fichte e, soprattutto, dopo Hartmann, non può non lasciare sorpresi. 9 PE I, p. 6 s. Non è chiaro se Mainlànder intenda, per l'estensione della sfera di attività delle cose in sé l'estensione occupata sulla retina (per limitarci alla vista) dall'at­ tività della cosa in sé, o addirittura l'estensione di tale attività fuori dal soggetto. Nel­ l'uno come nell'altro caso è comunque evidente l'impostazione realistica che Mainlàn­ der da al problema dello spazio.

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La coscienza si muove quindi da un punto del presente ad un altro e con­ scguentemente è sempre nel presente. Quando essa, grazie all'immagina­ zione, lega fra loro due punti del presente, quello presente con uno passato ripresentato dall'immaginazione, sorge la rappresentazione soggettiva del tempo, come « una serie di momenti pieni, vale a dire come una serie di passaggi dal presente al presente ». Essa opera una tale sintesi anche nel futuro e si crea così « un'ideale linea continua di lunghezza indefinita ». Il tempo è condizione della conoscenza del movimento, ma, di nuovo, « la successione reale avrebbe comunque luogo, anche senza la successione ideale » 10. Riprendendo Schopenhauer, Mainlander pone come terza forma a priori dell'intelletto la materia. Mediante essa l'intelletto « oggettiva » fuori di noi ciò che costruisce come causa delle nostre sensazioni spazializzate; la causa della sensazione (spazializzata) del colore rosso che percepiamo in noi viene oggettivata come una materia rossa fuori di noi, un oggetto di colore rosso: « senza la materia nessun oggetto, senza oggetti nessun mon­ do esterno »; « nella misura in cui una forza diviene oggetto della percezio­ ne di un soggetto, essa è materia (forza oggettivata); al contrario ogni forza, indipendentemente da un soggetto percipiente, è libera dalla materia e quindi solo forza » (PE I, p. 7). Quasi di passaggio Mainlander chiarisce quindi che, posto che la percezione è l'effetto dell'attività di una forza, la cosa in sé, la realtà in quanto non percepita dal soggetto, deve essere con­ cepita come una forza. È solo la forma a priori della materia a creare un mondo fenomenico « foto genere » differente dal mondo dell'in sé, ed è 10 PE I, p. 15 s. Mainlander sviluppa un'estesa critica della concezione kantiana dello spazio e del tempo, che, insieme ad alcune acute osservazioni sull'uso non sempre sorvegliato della terminologia - in particolare Mainlander ha ragione di rimproverare a Kant di non aver sempre distinto con rigore fra forme dell'intuizione ed intuizioni pure -, insiste soprattutto sulla contraddizione che sussisterebbe in Kant fra il porre spazio e tempo nell'estetica e l'attribuire poi di fatto ad essi una natura sintetica, giusti­ ficabile solo nel contesto dell'analitica. Mainlander, peraltro come molti altri interpreti di Kant, non pare comprendere che la trattazione che dello spazio e del tempo viene offerta nell'estetica ha un carattere provvisorio, che rimanda per il suo completamento all'analitica ed anzi in qualche modo la presuppone (PE I, pp. 386-397). Mainlander combatte poi con grande impegno la tesi kantiana che spazio e tempo, come intuizioni pure, debbano essere pensati come infiniti; una tale posizione risulterebbe infatti total­ mente inconciliabile con la sua concezione dello spazio come correlato soggettivo della sfera di attività delle forze. Significativamente, trattando dello spazio geometrico infinito - anch'esso ovviamente una pura produzione soggettiva della ragione -, egli afferma che ad esso, sul piano dell'oggettività, corrisponde «l'assoluto nulla» (PE I, p. 22). Sulle critiche di Mainlander a Kant cfr. in particolare Sommerlad 1899.

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quindi proprio la materia a segnare la cesura fra il reale e l'ideale: « La forma di un oggetto è identica con la sfera di attività della cosa in sé che le ne sta a fondamento, ma le manifestazioni della cosa in sé oggettivate dalla materia non sono per loro essenza identiche con le manifestazioni stesse » (PE I, p. 7 s.). Riprendendo ancora in certa misura Schopenhauer, in que­ sto modo Mainlà'nder sviluppa una concezione della realtà in cui al mate­ rialismo, che vale per il mondo fenomenico, si contrappone un dinamismo immateriale che vale per il mondo dell'in sé 11 . La conoscenza della cosa in sé che si raggiunge attraverso la via « ver­ so l'esterno » non consente tuttavia di cogliere quale sia l'essenza della forza; a questo risultato si può giungere mediante l'autocoscienza. Qui Mainlà'nder segue da vicino Schopenhauer, con l'unica differenza che a suo avviso nell'autocoscienza l'uomo si coglie senza la mediazione delle forme a priori dell'intelletto, quindi senza causalità, spazio e materia (e natural­ mente senza tempo); l'uomo quindi « sente » (fùhlen) la prima sfera d'at­ tività cosicché ha luogo « un'immediata coscienza (Innewerden) della propria essenza attraverso lo spirito o meglio attraverso la sensibilità (Sensibilità^} ». Ovviamente tale essenza è riconosciuta come volontà, anzi come volontà di vita. Data l'omogeneità fra la forza che costituisce l'essen­ za dell'uomo e le forze che si trovano fuori di noi, è legittimo considerare l'essenza di ogni forza come volontà 12 . Dopo questo excursus metafisico, torniamo ora alla vera e propria teoria della conoscenza. L'intelletto con le sue forme a priori (causalità, spazio e materia) è in grado di produrre solo rappresentazioni parziali 11 Mainlà'nder tuttavia critica aspramente la concezione schopenhaueriana della materia, giudicata senz'altro « ein ganzes Gewebe von Widersprùchen » (PE I, p. 412). A prescindere dalle critiche più particolari - che dipendono in gran parte dalle differenze fra la concezione dello spazio e del tempo di Schopenhauer e quella di Mainlà'nder -, la contraddizione fondamentale della dottrina della materia di Schopenhauer risiede nel fatto che in essa la materia è presentata ad un tempo come qualcosa di soggettivo e di oggettivo; essa « sta con un piede nel soggetto e con l'altro nella cosa in sé » (PE I, pp. 412-418). Anche in questo caso la critica di Mainlànder, se trova una parziale giustifica­ zione nella forma espositiva di Schopenhauer, non sempre rigorosa, deriva essenzial­ mente da un fraintendimento del significato che in questa come in altre occasioni Scho­ penhauer attribuisce alla distinzione fra trattazione soggettiva e trattazione oggettiva delle componenti del mondo fenomenico. 12 PE I, pp. 42-44. La schopenhaueriana identificazione della cosa in sé con la volontà è giudicata da Mainlà'nder « uno splendido, geniale apercu » che ha introdotto « una rivoluzione nell'ambito dello spirito » (PE I, p. 466). Come si vede, Mainlà'nder mette da parte tutte le riserve che Schopenhauer aveva avanzato circa l'inevitabile di­ mensione fenomenica anche dell'esperienza intcriore (PE I, pp. 466-469).

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(Thetl-Vorstellung) di oggetti 13 : perché possa sorgere la rappresentazione completa di un oggetto è necessario l'intervento della ragione. Così Mainlànder, dopo essersi schierato dalla parte di Schopenhauer nel soste­ nere il necessario concorso dell'intelletto nella prima elaborazione del ma­ teriale sensibile, sposa ora la posizione di Kant nel sostenere che un oggetto può sorgere solo mediante funzioni sintetiche; solo che, avendo già utilizza­ to schopenhauerianamente l'intelletto in quella che si potrebbe chiamare l'estetica, si trova costretto ad attribuire le funzioni sintetiche alla ragione H . L'attività sintetica della ragione opera servendosi delle facoltà subor­ dinate della memoria, del giudizio, dell'immaginazione, e si esplica in pri­ mo luogo nell'unificare le rappresentazioni parziali in oggetti, collegando dapprima fra loro le rappresentazioni omogenee (ad esempio le varie rap­ presentazioni parziali di una foglia o di un ramo), in seguito quelle non omogenee (ad esempio le rappresentazioni delle foglie e dei rami nell'og­ getto albero). Tale attività sintetica non si svolge secondo categorie a priori - Mainlànder considera anzi che le principali difficoltà dell'analitica kan­ tiana dipendano precisamente dall'aver fatto dipendere la sintesi da con­ cetti a priori (PE I, p. 376) -, non opera mediante concetti, giacché si svolge per la maggior parte a livello inconscio, né ha bisogno del tempo, in quanto ha luogo sempre nel presente: al contrario essa non fa che ricostru­ ire quei legami impliciti nelle singole rappresentazioni parziali, giacché è l'unità della cosa in sé « che la costringe [se. l'attività sintetica] a unificare in un modo del tutto determinato ». Anche in questo caso il trascendenta­ lismo di Mainlànder cede il passo al realismo (PE I, pp. 11-13). Opera della ragione è anche la rappresentazione del movimento: Mainlànder distingue fra quei movimenti che sono immediatamente rap­ presentabili e la cui sintesi quindi avviene senza l'ausilio del tempo - ad esempio il movimento di un ramo, e quei movimenti che necessitano invece per la loro sintesi del tempo - ad esempio il movimento delle lancette delle ore in un orologio 15 . 13 Secondo Mainlànder l'intelletto è in grado di produrre una chiara rappresenta­ zione solo di quelle sensazioni che occupano la parte centrale della retina o le parti vicine al centro, come è provato dal fatto che per cogliere interamente un oggetto, noi siamo soliti muovere continuamente gli occhi, per esempio percorrendo con lo sguardo successivamente la chioma, i rami, il tronco di un albero. 14 Mainlànder considera del tutto insufficiente la concezione schopenhaueriana dall'oggetto e completamente sbagliata la sua critica all'analitica kantiana (PE I, pp. 372 e 402-404). 15 PE I, p. 15 s. A meno di supporre il presente come esteso nel tempo - la

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La ragione produce altri cinque tipi di unificazioni generali. In primo luogo essa sintetizza, come si è visto, il tempo. In secondo luogo amplia la legge di causalità, propria dell'intelletto, a causalità generale. Laddove la legge di causalità, propria dell'intelletto, si esaurisce nell'affermazione che ogni modificazione negli organi di senso deve avere una causa e che la cosa in sé agisce sul soggetto, la ragione, considera il corpo come un oggetto fra gli altri oggetti ed afferma che ogni cosa in sé agisce sulle altre cose in sé e che ogni modificazione in un oggetto deve avere una causa che precede nel tempo l'effetto (PE I, p. 17 s.). Essa giunge in terzo luogo ad affermare la tesi della comunanza (Gemeinschaft), cioè dell'influsso reciproco di tutte le cose in sé fra di loro, cui corrisponde nel piano del reale il nesso dina­ mico di tutto l'universo che, come Mainlànder si premura ancora di riba­ dire, sarebbe presente anche se nessun soggetto lo percepisse 16. Esistono infine delle impressioni sensibili per le quali l'intelletto non è in grado di costruire delle cause materiali dislocate nello spazio e quindi materiali (Mainlànder pensa ai gas incolori, agli odori, ai suoni). A partire dalla materia - quindi ancora una volta a posteriori - la ragione sviluppa per esse - ma il concetto è poi applicato indistintamente anche a tutti gli Oggetti materiali - il concetto di sostanza, che viene impiegato anche per quelle rappresentazioni di oggetti non intuitivi, quali quella dell'universo 17 .

posizione che Mainlànder rifiuta -, è difficile comprendere come una tale sintesi possa in certi casi prescindere dal tempo, giacché, ad esempio, il movimento di un ramo sembra inevitabilmente implicare un prima e un poi. 16 PE I, p. 21. La distinzione fra legge di causalità e la causalità generale è svilup­ pata in polemica diretta con Schopenhauer che, ponendo ogni tipo di nesso causale nell'intelletto, non avrebbe visto la profonda differenza sussistente fra questi due tipi di causalità (PE I, pp. 407-409); qui Mainlànder precisa fra l'altro che, mentre la legge di causalità procede solo dall'effetto alla causa, la causalità in generale può compiere il cammino inverso, ovvero dalla causa all'effetto. In questo caso dunque Mainlànder da ragione in parte a Schopenhauer, in parte a Kant, benché la causalità generale, pur essendo prodotta dalla facoltà sintetica della ragione che è a priori, è in sé a posteriori. Il generale tono empiristico della gnoseologia di Mainlànder si ripropone anche nella sua teoria dei concetti, che sono fatti derivate dalle rappresentazioni per astrazione, quest'ultimo procedimento inteso in un senso che si avvicina molto alle posizioni lockiane (PE I, p. 12 s.). 17 PE I, p. 17. È difficile comprendere che cosa intenda Mainlànder per rappre­ sentazioni di oggetti non intuitivi, se, come si è visto, nessun oggetto è propriamente intuitivo: forse egli intende che dell'universo non si hanno tutte le rappresentazioni parziali necessarie ad una sintesi completa; ma in questo caso sembra che la ragione si serva più che della categoria di sostanza, di quella di totalità, che produce il concetto di universo, cui corrisponde, nell'ambito della cosa in sé, « l'unità collettiva delle forze » (PE I, p. 17). Può essere utile, alla fine dell'esposizione di questa « analitica della facoltà

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Si è visto che in forza della causalità generale la ragione è in grado di collegare fra di loro le varie forze; ora questo tipo di nesso pone in relazio­ ne la modificazione avvenuta in una determinata forza con l'attività di un'altra, ovvero collega fra loro determinati eventi. Esso quindi non riguar­ da in nessun caso l'essere delle varie cose in sé, ma solo il loro divenire, le loro modificazioni. Mainlander esprime questa sua posizione anche dicen­ do che i rapporti causali non possono condurre mai « nel passato della cosa • m se•* » 1S . A questo tipo di spiegazione Mainlander contrappone la spiegazione « genetica » che ha per oggetto l'essere delle cose in sé. Essa si sforza « di ricondurre tutte le serie di forze organiche alle forze chimiche (carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, ferro, fosforo etc.) » 19. Le forze chimiche tutta­ via, per quanto limitate di numero, non possono e non potranno mai essere ridotte ad unità, cosicché « è una verità incontestabile che nella regione dell'immanente mai noi potremo giungere, al di là della molteplicità, al­ l'unità » (PE I, p. 27). Questa conclusione tuttavia risulta inaccettabile per il pensiero, giac­ ché esso avverte una « costrizione logica » (logischer Zwang) a ricondurre ad unità la molteplicità delle forze: « la ragione non si lascia trattenere dal richiamare costantemente e sempre di nuovo alla necessità di un'unità semconoscitiva », riportare il quadro sinottico che lo stesso Mainlander presenta del rappor­ to esistente fra le funzioni ideali ed il loro corrispettivo reale (PE I, p. 23): Funzioni a priori ideali: Loro corrispettivo reale: 1. Legge di causalità 1. Attività in generale 2. Spazio 2. Sfera di attività 3. Materia 3. Pura forza 4. Il presente 4. Il punto del movimento Sintesi della ragione: Loro corrispettivo reale: 1. Tempo 1. Successione reale 2. Causalità generale 2. Azione di una cosa in sé su di un'altra 3. Comunanza 3. Nesso dinamico del tutto 4. Sostanza 4. Unità collettiva del tutto 5. Spazio matematico [nessun corrispettivo] 18 PE I, p. 25 s. A questo punto dell'esposizione non può risultare chiaro perché per Mainlander la modificazione del modo di esplicarsi di una forza debba essere considerato qualcosa che non riguarda l'essere della forza stessa. Più oltre si vedrà come per Mainlander ciascuna forza - anche quelle che, come le forze organiche, derivano dalla combinazione di altre forze - posseggono una determinazione, un carattere ori­ ginale (detto da Mainlander « idea »), che costituisce quell'essere che rimane immutato nell'intreccio dei nessi causali con le altre cose in sé. 19 PE I, p. 27. Nella prospettiva di Mainlander all'in sé delle forze chimiche (immateriali) corrisponde il fenomenico degli elementi chimici (materiali).

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plice » (PE I, p. 27). Ci si viene così a trovare in un « dilemma »: o rinne­ gare l'esperienza, affermando un'unità comunque non data, o lasciare in­ soddisfatta l'esigenza fatta valere dalla ragione. La soluzione di questa « an­ tinomia » richiama nelle sue linee generali la dialettica kantiana: l'unità non esiste nell'esperienza, nell'ambito dell'immanente, bensì nell'ambito del trascendente. Mainlànder si trova però nella necessità di attribuire al tra­ scendente un significato diverso dall'in sé, giacché proprio il mondo dell'in sé, delle forze, è irriducibilmente molteplice; pertanto, sviluppando ulte­ riormente la linea d'indagine propria della spiegazione genetica, che come si è visto si volge al passato dell'essere, egli identifica il trascendente con il passato; il trascendente dunque « è una regione passata, che è stata, tra­ montata »; conscguentemente anche l'unità assoluta è « scomparsa e tra­ montata » (vergangen una untergegangen) 20.

3. LA METAFISICA E IL SUO RAPPORTO CON LA TRADIZIONE RELIGIOSA.

Secondo un modello comune a molti pensatori dell'epoca - fra cui Hartmann -, la metafisica dovrebbe costituire la conclusione del sistema, in quanto « risultato di una somma di ricerche o anche come vertice di una piramide » (PE II, p. 238). Ad essa si giunge attraverso un'analisi dei vari aspetti della realtà empirica che ne costituiscono quindi in certo modo la base induttiva. Come in Hartmann tuttavia, a sua volta la metafisica chia­ risce e completa il modo d'intendere determinati aspetti della realtà. Così non poche parti della fisica, dell'etica e della politica sono riprese ed inte­ grate in modo sostanziale nella metafisica. Per semplificare e rendere più scorrevole l'esposizione conviene quindi, dopo aver dato un cenno della

20 PE I, p. 27. Nonostante ci si trovi di fronte ad uno dei passaggi cruciali della sua filosofia, Mainlànder conduce l'argomentazione in modo estremamente rapido, lascian­ do aperti molti interrogativi. In particolare egli non specifica la natura di questa tenden­ za della ragione all'unificazione. Essa non può essere semplicemente - come pure in alcuni passi sembra - un caso particolare della tendenza della ragione a costruire un concetto generale astraendo dai casi particolari (la ragione vede l'elemento comune presente nelle rappresentazioni delle varie forze e per sua natura è spinta a costruire un concetto generale), giacché una tale esigenza porrebbe essere soddisfatta anche senza ammettere l'esistenza di tale unità, né, d'altra parte, come si vedrà fra breve, tale unità è per Mainlànder una forza. Questa esigenza esprime infatti una necessità più che logica, giacché su di essa si basa la deduzione dell'esistenza di tale unità. Mainlànder sembra in definitiva far uso di un'argomentazione che ricorda la prova ontologica dell'esistenza di Dio (dalla necessità logica alla necessità ontologica).

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teoria della conoscenza, rovesciare l'ordine espositivo di Mainlànder e trat­ tare prima della metafisica vera e propria e poi delle altre parti della sua filosofia. Con l'argomentazione precedente Mainlànder è pervenuto alla dimo­ strazione dell'esistenza (nel passato) di un'unità assoluta. Si tratta ora di approfondire la natura di questa unità e soprattutto le motivazioni di fondo di questa originalissima concezione filosofica. Mainlànder insiste a più riprese sulla totale inconoscibilità di questa unità « precosmica » (vorweltliche). Essa non può essere rappresentata essa non produce modificazioni nei sensi che possano muovere ad attività l'intelletto - né può essere pensata, espressa in concetti, dato che essi de­ rivano dalle rappresentazioni, né di conseguenza può essere oggetto di qualcuna delle attività sintetiche della ragione; davanti ad essa tutte le fun­ zioni conoscitive « divengono di pietra come davanti al capo della Medu­ sa »; essa può essere conscguentemente determinata solo negativamente come « inattiva, inestesa, senza distinzioni, indivisa (semplice), immobile, senza tempo (eterna) » (PE I, p. 29). Altrove Mainlànder precisa che la tale unità deve essere considerata anche come assolutamente libera (non esisto­ no motivi che possano agire su di lei) (PE I, p. 107). Inoltre essa non può essere pensata neppure come forza, volontà o spirito, giacché questi con­ cetti derivano dal mondo dell'esperienza e quindi per definizione non possono essere applicati a ciò che tale esperienza trascende (PE I, p. 107 s.). Un solo attributo può esserle riferito positivamente: l'esistenza; esso costituisce « il filo sottile » che collega l'immanente al trascendente. Ma anche dei caratteri di questa esistenza l'uomo non può farsi « il più povero dei concetti ». Si può solo affermare che l'essere di quest'unità deve posse­ dere una determinata essenza, ma di nuovo, se si vuole dire qualcosa di più di questi concetti, si deve ricorrere ancora alla via negationis e parlare di un « sovraessere » (Ùbersein) e di una sovraessenza (Uberwesen) (PE I, pp. 29 e 320 s.). Proprio il sottrarsi di tale unità ad ogni determinazione rende legitti­ mo « attribuire a questa essenza il noto nome che da sempre indica ciò che nessuna capacità rappresentativa, nessun volo della più audace fantasia, nessun astratto pensiero, per quanto profondo, nessuna anima, concentra­ ta e piena di devozione, nessuno spirito nell'estasi e nel rapimento ha mai raggiunto: Dio » (PE I, p. 108). L'assimilazione dell'unità precosmica a Dio è l'elemento che consente a Mainlànder d'inserire la sua metafisica nel quadro dello sviluppo com­ plessivo della storia spirituale dell'umanità, precisandone i contenuti e così

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rendendo più comprensibile una posizione che, considerata unicamente dal punto di vista del rigore logico delle argomentazioni che la sorreggono, potrebbe apparire unicamente stravagante. Mainlànder ritiene che le varie concezioni del mondo possano essere ricondotte a quattro tipi fondamentali. In relazione alla posizione attribuita al soggetto conoscente si può avere o il realismo ingenuo che « salta il soggetto conoscente » e ritiene che il mondo sia così come i sensi ce lo attestano, o l'idealismo critico - la posizione che Mainlànder condivide che « presenta il mondo come un'immagine, un rispecchiamento nello spi­ rito dell'io e sottolinea e prova la dipendenza di questa immagine dai carat­ teri della facoltà conoscitiva ». In relazione al soggetto conoscente e volen­ te - cioè all'individuo nella sua dimensione ontologica - si può avere o il realismo assoluto che « salta l'intero io, sia quello conoscente sia quello volente », o l'idealismo assoluto, che Mainlànder chiama anche « idealismo della cosa in sé », il quale « eleva l'io conoscente e volente, il singolo indi­ viduo, sul trono del mondo » 21 . Queste concezioni hanno trovato concreta esemplificazione nella sto­ ria delle religioni, a partire dalle concezioni religiose di quei popoli che Mainlànder chiama genericamente « popoli allo stato di natura » (Naturvòlker). Da tali popoli il mondo è visto come costituito da individui auto­ nomi e indipendenti: esso è giustamente inteso come una « unità colletti­ va » (PE II, p. 7). L'esperienza delle forze della natura, indiscutibilmente superiori agli individui, fa sorgere un sentimento di dipendenza, cosicché queste forze sono divinizzate, dando origine ad un elementare politeismo (PE I, p. 242). Per Mainlànder questa visione del mondo, benché affermi a chiare lettere il valore degli individui, pure di fatto, nell'insistere sulla dipendenza dalle forze naturali, inclina a negare questa autonomia. Essa d'altra parte ha poi un altro grave limite nel non cogliere il nesso necessario che lega gli individui fra loro (PE II, p. 7). A questo rozzo politeismo Mainlànder fa seguire nello sviluppo stori­ co un « politeismo riformato » - anche in questo caso manca una più pre­ cisa determinazione storica: Mainlànder cita solo Zoroastro come uno degli ultimi e dei più avanzati di questi riformatori. L'essenza di questa riforma 21 PE II, p. 4 s. Mainlànder precisa che tanto il realismo ingenuo e quanto l'ide­ alismo critico, essendo entrambi fedeli ai dati empirici, sostengono necessariamente l'esistenza di una pluralità di individui e quindi si oppongono, dal punto di vista onto­ logico, sia al realismo assoluto, sia all'idealismo assoluto. Invece l'idealismo assoluto, attribuendo realtà al solo soggetto e fenomenizzando l'intera realtà, da un punto di vista gnoseologico, si oppone tanto al realismo ingenuo quanto all'idealismo critico.

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consiste nell'estensione del potere degli dei al cuore dell'uomo. In questa prospettiva gli esseri umani non sono più responsabili di almeno una parte delle loro azioni e dei loro desideri, vale a dire di quegli atti che sono ispirati da un dio o da un demone. Tale sviluppo costituisce per Mainlànder un progresso nella misura in cui afferma vigorosamente, pur se in for­ ma « mitologica », il nesso esistente fra gli individui ed il resto della realtà (senza motivi l'uomo non potrebbe agire), ma esso contiene anche impli­ citamente una minaccia per l'individuo, giacché facendo dipendere l'agire dell'uomo dall'intervento della divinità, rischia di renderlo una marionetta in mano agli dei 22 . Il completo annullamento dell'individuo si compie nelle grandi reli­ gioni monoteistiche. In esse al posto della molteplicità degli dei vi è un unico Dio, principio e fondamento di tutta la realtà. Per Mainlànder è in ultima analisi irrilevante se quest'unico principio sia inteso in senso panteistico - soluzione storicamente propria del panteismo indiano - o in senso teistico - soluzione storicamente propria del popolo ebraico. La differenza fra le due visioni del mondo è apparente o quanto meno superficiale: nel panteismo è Dio stesso a operare negli individui, nel teismo, viceversa, Dio gioca per così dire a gatto e topi con essi, giacché ne predetermina la natura, la vita ed infine la morte. Il risultato tuttavia non cambia: il corso del mondo è determinato con necessità e l'individuo è a tutti gli effetti una marionetta nelle mani della divinità (PE II, p. 14 s.). Il teismo tuttavia non si è mai potuto affermare in forma assolutamen­ te pura nel mondo ebraico, né così poteva essere poiché l'annichilimento del valore dell'individuo cui esso conduce è in troppo stridente contrasto con l'esperienza, che gli Ebrei guardavano con gli occhi del realismo inge­ nuo. Così si può dire che è stato il realismo ingenuo a salvare gli Ebrei da una totale adesione al realismo assoluto (PE II, p. 26). Non così è avvenuto per il panteismo degli Indiani: essi hanno sacri­ ficato l'individuo a Dio, dichiarando illusoria la molteplicità del mondo (PE II, pp. 31-33). Merito del panteismo indiano è quello di aver posto in tutta evidenza l'interconnessione che lega tutti gli esseri e gli eventi del mondo e di aver sottolineato il carattere processuale della realtà, intesa come uno sviluppo che ha un inizio ed una fine (PE I, p. 244). 22 PE II, p. 8 s. I meriti di Zoroastro, benché nel suo pensiero il margine di autonomia dell'individuo sia particolarmente limitato, consistono nell'aver ridotto alla forma più semplice il politeismo, ammettendo solo due divinità, la cui azione si esplica come nel resto del politeismo « riformato » anche all'interno dell'uomo (PE II, p. 9 s.).

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II cammino storico delle religioni così ripercorso culmina dunque nella chiara indicazione di quello che per Mainlànder è il fondamentale « enigma del mondo » (Weltràthsel): « II mondo, così come la natura mo­ stra, è costituito solo da individui; da nessuna parte v'è traccia di un'unità semplice. Il corso del mondo è il risultato dell'attività di tutti questi indi­ vidui. E pure questo corso del mondo, il nesso che lo lega, sono tali che chi li osserva con attenzione li deve ricondurre ad un'unità semplice » (PE II, p. 11 s.). «L'enigma del mondo è un dilemma al tempo stesso logico e reale: è il più doloroso dilemma che possa darsi, ma insieme anche il più rovente ed acuto sprone per lo spirito a raccogliere tutte le sue forze ed a guadagnare la conciliazione della contraddizione » (PE I, p. 12). La stessa storia delle religioni, nel suo successivo sviluppo, offre però già due soluzioni che, benché elaborate in ambito religioso e quindi prive del rigore « scientifico » che deve essere proprio di una soluzione filosofica, possono essere considerate come essenzialmente corrette. Tali soluzioni sono costituite dalle dottrine « esoteriche » del buddhismo e del cristiane­ simo 23 . Mainlànder dichiara a più riprese il suo incondizionato apprezza­ mento per queste religioni che la sua filosofia intende confermare conci­ liandole con la scienza (PE I, p. Vili). Il buddhismo è per Mainlànder l'unico esempio di compiuto « ideali­ smo della cosa in sé », giacché sostiene che l'individuo conoscente è l'unica vera realtà 24 . Tale principio individuale è il karman, che Mainlànder assi­ mila senz'altro alla volontà di vita schopenhaueriana. Il karman è qualcosa d'individuale, può essere assimilato a Dio e la sua esistenza non può essere messa in dubbio; quanto al resto, esso è inconoscibile e quindi deve essere 23 Mainlànder analizza le due religioni in due ampi saggi contenuti nel secondo volume della PE (« Der Budhaismus », pp. 71-188 e « Das Dogma der Dreieinigkeit », pp. 189-232). In ciascuno dei saggi v'è un capitolo dedicato alla dottrina esoterica di buddhismo e cristianesimo, un capitolo dedicato alla dottrina essoterica e un capitolo dedicato rispettivamente alle figure di Buddha e di Cristo; nel saggio sul buddhismo v'è infine un capitolo che tratta della leggenda della vita di Buddha. Mainlànder non spiega quale criterio egli impieghi per sceverare la parte esoterica dalla parte essoterica delle due religioni. D'altra parte egli non distingue chiaramente neppure fra dottrine esoteri­ che ed interpretazione esoterica di dottrine essoteriche. Di fatto, come si vedrà, la distin­ zione serve a Mainlànder per garantirsi la possibilità di reinterpretare con notevole libertà, alla luce della sua filosofia, alcuni elementi dottrinali delle due religioni. 24 PE II, p. 76 s. Per la sua esposizione del buddhismo Mainlànder sembra far uso unicamente del noto manuale di Robert Spence Hardy, A Manual of Budhism, London 1860, di una precedente edizione del quale (London 1853) si era già servito Schopenhauer (HN V, p. 328, dove sono anche indicati tutti i passi degli scritti di Schopenhauer in cui tale opera è citata).

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considerato trascendente (PE II, pp. 80-82). Il mondo, il corpo stesso del­ l'individuo, che appaiono come qualcosa di diverso dal centro dell'indivi­ dualità, sono pura apparenza, una fantasmagoria prodotta nella coscienza dal karman stesso (PE II, pp. 80 e 85). Il rapporto fra il karman e tale mondo, il modo in cui il kaman produce tale mondo, in quanto trascenden­ te e per noi incomprensibile, appare come un miracolo (Wunder) (PE II, pp. 85 e 88), ma tale nesso non è qualcosa di logicamente contraddittorio perché il buddhismo, a differenza del panteismo, non pretende che gli elementi di tale mondo siano individui autosufficienti: il mondo, l'intero mondo, è una produzione del soggetto, una posizione che, lungi dall'essere una follia, è logicamente inattaccabile: « il buddhismo, fondandosi su un indiscutibile fatto reale, è un sistema saldamente in sé compiuto, senza lacune, fortemente coerente ». Esso viene a coincidere con la filosofia di Kant, una volta che si depuri quest'ultima dall'illegittima deduzione per via causale della cosa in sé 25 . Quanto al resto il buddhismo riprende le concezioni fondamentali del panteismo indiano: qui è l'individuo che, istruito dal karman circa il dolore e l'inutilità che dominano l'esistenza, attraverso un processo ascetico deve raggiungere il Nirvana, che Mainlànder interpreta senz'altro come il puro non essere. Da questo punto di vista, la visione idealistica del mondo spe­ cifica del buddhismo rende il mondo qualcosa di meno assurdo e tragico di quello che appare in una prospettiva realistica: l'immane sofferenza della storia, il dolore di milioni di esseri viventi non è qualcosa di reale, ma appunto pura illusione priva di realtà (PE II, p. 81). Esso priva d'interesse anche tutti gli angosciosi quesiti che la scienza si pone circa la natura del mondo, giacché non può essere grande l'interesse per una realtà comunque riconosciuta come illusoria (PE II, p. 91). L'esposizione della dottrina esoterica del cristianesimo muove invece dall'analisi del dogma trinitario. Mainlànder dichiara di avere sempre pro­ vato una particolare attrazione per questo dogma nella formulazione ad esso dato dal credo di Atanasio. Egli presentiva che « in questo credo si trovava in forma nascosta la giusta soluzione dell'enigma del mondo » (PE II, p. 194), nonostante le difficoltà da sempre incontrate da filosofi e da

25 PE II, pp. 87-89 e 93. Nel primo volume peraltro Mainlànder ha una posizione diversa, giacché definisce negativamente il buddhismo come « crasso, assoluto ideali­ smo » e, coerentemente con la sua teoria della conoscenza, considera l'idealismo assolu­ to in contraddizione con l'esperienza e quindi - par di capire - logicamente insostenibile (PE I, p. 245 s.).

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teologi di ogni epoca nel darsi ragione di un Dio distinto in tre persone, non disposte in una scala gerarchica ma ciascuna egualmente onnipotente, eterna, fra le quali pure, in qualche modo, veniva affermato un rapporto di dipendenza: il Figlio « generato » dal Padre, lo Spirito Santo che « proce­ de » dal Padre e dal Figlio. Tutte queste difficoltà vengono superate, secondo Mainlànder, se, anzitutto, si pongono le prime due persone della Trinità in un rapporto di successione temporale, per cui il manifestarsi dell'una si accompagna al venir meno dell'altra. Dio Padre è tramontato nel mondo ed ora non esiste più, « Dio esisteva solamente prima del mondo, Cristo, il mondo, esiste solamente ora» (PE II. pp. 196-198). Questa singolare tesi, che come si vede altro non è che una riproposizione della tesi centrale della filosofia di Mainlànder, sarebbe implicita nei testi evangelici. Già il nesso Padre-Figlio che sussiste fra le due prime persone rimanda chiaramente ad un legame temporale; inoltre alcuni passi possono essere interpretati - certamente non senza forzature - come se, nel momento storico del manifestarsi di Cristo, Dio Padre avesse cessato di esistere e Cristo si fosse a lui sostitui­ to 26. Infine i celebri passi di Giovanni in cui si insiste sulla funzione creatrice del Logos pongono uno strettissimo legame fra Cristo e il mondo 27. Mainlànder dunque, nei termini della sua filosofia, identifica Dio Pa­ dre con l'unità precosmica ed il Figlio con il mondo. In questo modo il cristianesimo supera sia il panteismo (unità da un parte, individui senza vita autonoma dall'altra), sia il buddhismo (onnipotente individuo da una parte, negazione della molteplicità degli individui e di un nesso unitario nel mondo dall'altra) 28.

26 Mainlànder cita ad esempio Matteo, 11,27: « "Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" »; Giovanni, 8,19: « Rispose Gesù: "Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio"». 27 Giovanni, 1,3: « Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste ». 28 PE II, p. 198. Ovviamente per accreditare la sua interpretazione come una legittima lettura della dogmatica cristiana Mainlànder deve passare sotto silenzio quanto in essa contrasta con il dettato - o almeno l'interpretazione canonica - della Scrittura; ad esempio essa non pare in grado di salvare l'eternità che viene attribuita tanto al Padre quanto al Figlio, né si capisce come si possa identificare il Figlio con il mondo - inteso non panteisticamente come una pluralità di individui realmente distinti - senza negare alla seconda persona della Trinità il carattere di unità che la dogmatica, in quanto per­ sona, gli attribuisce, e senza ignorare tutti i passi evangelici in cui Cristo è contrapposto al mondo.

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Anche nel cristianesimo come nel buddhismo il mondo va verso il nulla (il regno dei cicli appartiene per Mainlànder alla parte essoterica della dottrina) e dunque deve essere visto come il mezzo che Dio Padre sceglie per giungere al proprio annichilimento; essendo opera divina, esso è organizzato in modo perfettamente finalistico e questo piano divino che si realizza nel mondo è secondo Mainlànder rappresentato dalla figura dello Spirito Santo che è « la via di Dio verso il non essere »; esso esisteva idealmente in Dio ed ora esiste realmente nel mondo (PE II, pp. 199-202). In conclusione dunque anche nella visione del mondo proposta dal cristia­ nesimo Dio non esiste più e quindi esso può essere ben definito come una forma di « ateismo mascherato » 29. Buddhismo e cristianesimo in questo modo, benché differiscano circa la realtà da attribuire al mondo dell'esperienza, concordano nell'essenziale, cioè nell'interpretare la realtà come un processo che conduce al nulla e quindi si può riconoscere loro il merito di aver colto l'« assoluta verità » 30.

4. IL MONDO COME LA VIA DI DlO VERSO IL NULLA.

All'inizio della fisica Mainlànder afferma come un dato indiscutibile dell'esperienza l'esistenza di individui, cioè di una pluralità di forze, che, considerate dal punto di vista « interno », si qualificano come una molte­ plicità di «volontà di vita» (PE I, p. 49). Egli precisa che la locuzione « volontà di vita » è al tempo stesso una tautologia e, attraverso la specifi­ cazione « di vita », un chiarimento del concetto di volontà. Da una parte infatti volontà e vita sono pressoché sinonimi, dall'altra, poiché l'uomo intende generalmente per volontà ciò che sta alla base dei comportamenti arbitrari, il collegare la volontà a tutte le manifestazioni vitali aiuta ad ampliarne il concetto a tutte quelle manifestazioni della realtà che si svol­ gono senza la presenza della coscienza. D'altra parte il concetto di vita è intercambiabile con il concetto di movimento, per cui parlare di vita signi29 PE II, p. 203. Mainlànder intende qui evidentemente per ateismo ogni conce­ zione che neghi l'esistenza di un'entità semplice e separata dal mondo, perché nella sua interpretazione del cristianesimo, come si è visto, il mondo e il suo processo sono iden­ tificati con Dio, rispettivamente nella forma di Cristo e dello Spirito Santo. 30 PE I, p. 91. Mainlànder dichiara che, personalmente, egli ha oscillato a lungo fra buddhismo e cristianesimo - o come specifica, con riferimento alla gnoseologia, fra Buddha-Kant e Cristo-Locke - per decidersi infine, come filosofo, per il cristianesimo. Come uomo tuttavia egli afferma di preferire ancora il buddhismo (PE I, p. 67).

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fica in ultima analisi parlare di movimento 31 . Tutto ciò porta a concludere che i vari individui, le varie « volontà di vita » si caratterizzano per il tipo di movimento cui danno luogo; il carattere specifico di ogni individuo è detto da Mainlànder « idea »: in polemica con Schopenhauer, egli afferma che esistono tante idee quanti sono gli individui 32 . Ma che cosa Mainlànder considera propriamente « individuo »? Indi­ vidui sono anzitutto gli elementi chimici semplici. In senso proprio, vere individualità sono solo gli elementi chimici nella loro totalità (ad esempio tutto l'ossigeno dell'universo), ma, in linea subordinata, devono essere con­ siderati individui anche parti omogenee di tali elementi (ad esempio un pezzo di ferro) (PE I, p. 73). Mainlànder in questo modo, facendo precedere il tutto dell'elemento alle sue parti, è dichiaratamente antiatomista 33 . Indivi­ dui sono anche i composti chimici che, all'atto del loro formarsi, danno origine a nuove forze caratterizzate da specifiche « idee » (PE I, p. 79). Quando tali composti si dissolvono, tali forze « muoiono » e tornano a manifestarsi le forze semplici che caratterizzano gli elementi chimici. Così, mentre queste ultime (e le loro idee) sono indistruttibili, benché possano temporaneamente scomparire nei composti, le idee degli individui composti nascono e muoiono (PE I, p. 32). Individui composti - anche se infinitamen­ te più complessi - sono gli esseri viventi che costituiscono il mondo organico, che solo quantitativamente per Mainlànder si differenzia dall'inorganico 34 . 31 PE I, p. 49. Il concetto di movimento (Bewegung] include per Mainlànder tanto le modificazioni spaziali (Ortsverànderung) quanto le modificazioni interne ad un indi­ viduo (innere Verànderung] (PE I, p. 15). 32 PE I, p. 52. Mainlànder considera del tutto insostenibile la teoria delle idee schopenhaueriana, frutto di un infelice tentativo di mediare fra l'unicità della volontà e la molteplicità della realtà (PE I, p. 492 s.). 33 Secondo Mainlànder il problema dell'atomismo sorge a causa dell'illegittima pretesa di applicare alla realtà il procedimento razionale di divisione all'infinito, proce­ dimento che invece vale solo per quella entità immaginaria che è lo spazio matematico: questo procedimento, se impiegato senza limitazioni, porta alla nota contraddizione di una realtà estesa costituita da parti inestese; di qui la necessità di porre nell'atomo un limite fisico alla divisibilità della materia. Bisogna quindi guardarsi dall'usare in tal modo questa « perversa ragione » ed arrestarsi al fatto della divisibilità delle forze-ele­ menti (PE I, p. 38 s.). 34 PE I, pp. 33 e 97-100. Sulla concezione dell'organico ed in particolare dell'uo­ mo si tornerà in seguito. Per ora basta rilevare che la capacità che Mainlànder attribuisce alle forze semplici di fondersi tra loro dando origine ad unità più complesse gli consente di evitare le difficoltà incontrate ad esempio da Bahnsen nello spiegare la costituzione degli individui complessi. Ciò non ostante in qualche caso Mainlànder sembra pensare che gli organismi siano costituiti da una pluralità di forze indipendenti coordinate, do­ minate da una forza centrale (PE I, p. 33).

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Questa concezione dell'individualità implica necessariamente l'am­ missione della possibilità di un nesso fra gli individui; infatti l'agire delle forze è sempre un agire su qualcosa o per lo meno un reagire ad uno stimolo che proviene dall'esterno. Mainlànder giunge così, anche attraver­ so la fisica, al dilemma precedentemente incontrato nell'ambito della storia delle religioni: o gli individui sono completamente autonomi - ed allora non si potrebbe spiegare Vinfluxus physicus che l'uno esercita sull'altro -, o non sono veramente autonomi - ed allora si può spiegare Vinfluxus phy­ sicus, ma i vari individui devono essere « attuati » da una unità da cui essi « prendono a prestito la vita ». Questa seconda ipotesi però è contraddetta da tutta l'esperienza: se essa fosse vera, tutta l'esperienza e la filosofia immanente che la descrive non sarebbero che inganno e menzogna. Se viceversa è possibile giustificare il nesso fra gli individui senza contrad­ dire l'esperienza e senza quindi ammettere l'esistenza di un'unità che tale esperienza sostenga e spieghi, « l'ateismo è fondato scientificamente » (PE I, p. 103 s.). La soluzione proposta da Mainlànder è quella già indicata preceden­ temente: il nesso fra gli individui si può spiegare ammettendo un'unità trascendente che è esistita anteriormente al sorgere del cosmo e che quindi non esiste insieme con il mondo: « Dio è morto e la sua morte è stata la vita del mondo ». La connessione dinamica degli individui che costituiscono il mondo è il suo « riflesso »; in questo modo agli individui è invero concessa solo una « mezza autonomia », che comunque non contrasta in alcun modo con i dati dell'esperienza (PE I, pp. 103-108). Si tratta ora di approfondire filosoficamente il senso di questo venir meno di Dio nel mondo, senso che, secondo i dettami della filosofia imma­ nente, va ricercato indagando il senso del mondo stesso, prendendo le mosse anzitutto dalla fisica. Intanto si deve osservare che la tesi della derivazione del mondo dal­ l'unità precosmica implica la non esistenza di una serie causale infinita a parte ante: se ne deve dedurre che anche le forze semplici hanno avuto un inizio (PE I, p. 29). Studiando il modo di manifestarsi di tali forze, ci si deve ora domandare se esiste nel mondo qualche indizio che faccia supporre che esse avranno anche una fine. Mainlànder considera dapprima i corpi nei loro tre diversi stati di aggregazione: specifico dei corpi solidi è la gravita, ovvero la loro tendenza a raggiungere il centro della terra; i gas invece mostrano la tendenza alla « assoluta espansione »; i liquidi, da parte loro, per un verso, come i solidi, tendono a raggiungere il centro della terra, per un altro verso tendono ad espandersi: Mainlànder parla per essi di una

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« gravita modificata » e di una « espansione limitata » (PE I, p. 74 s.). Ovviamente lo stato gassoso è quello in cui gli elementi manifestano uno Streben più intenso, lo stato solido, all'opposto è quello in cui lo Streben è più debole (PE I, p. 76). Questa spiegazione della natura dei vari stati di aggregazione assume importanza decisiva nella cosmogonia di Mainlànder. Riprendendo la teo­ ria di Kant-Laplace, egli suppone che all'inizio l'universo abbia avuto la forma di una sfera gassosa. I vari gas che la compongono cercano di con­ quistare a sé, in sempre nuovi legami, gli altri gas, giacché ogni forza secon­ do Mainlànder ha la tendenza « ad espandere la propria individualità » (PE I, p. 94) e, secondo ciò che è specifico dello stato gassoso, cercano di espandersi sempre più. Ne segue una lotta fra i vari elementi ed un « con­ sumo » della forza nel movimento di espansione: lo Streben di ciascuno elemento si indebolisce cosicché, ai limiti esterni della sfera gassosa, avvie­ ne il passaggio dallo stato gassoso allo stato liquido. I corpi liquidi, secon­ do la loro propria natura, cercano di raggiungere il centro della sfera, e per questo motivo entrano in lotta con i gas che sono ancora all'interno della sfera. In seguito a questo scontro, che produce un ulteriore indebolimento delle forze, avviene il passaggio dallo stato liquido allo stato solido. La sfera gassosa si è così trasformata in una sfera con una superficie solida, sotto la quale si trovano corpi liquidi e quindi i gas (PE I, p. 327 s.). Non è chiaro come Mainlànder faccia derivare da questa unica sfera i vari corpi celesti che costituiscono il sistema solare: egli si limita a dire che, dopo il consolidamento di una crosta solida sulla superficie della sfera gassosa originaria, ha luogo « un periodo di grandi trasformazioni (Umbildungen) » (PE I, p. 328), il cui risultato è la formazione di distinti corpi celesti ai quali - sembra di capire - Mainlànder attribuisce la stessa strut­ tura della sfera originale e della Terra, giacché quest'ultimo corpo celeste riproduce in piccolo la sfera originaria 35. 35 PE I, p. 95 s. In questo caso Mainlànder si appoggi all'autorità di Franklin, ma come ben si vede egli sviluppa la sua filosofia della natura senza prestare troppa atten­ zione ai risultati raggiunti dalla scienza dell'epoca. Ma anche considerata dal punto di vista della pura coerenza interna, questa fisica non può non suscitare molte perplessità. In particolare, tenendo conto che il fondamento della realtà è costituito da forze e non da corpi (che sono solo il loro corrispettivo fenomenico), risulta difficile spiegare perché l'indebolimento delle forze espansive (i gas) debba ad un certo punto dare origine a forze che agiscano in senso inverso e che entrino in conflitto con le forze espansive (le forze di gravita dei solidi e dei liquidi). Mainlànder occulta in qualche modo la difficoltà spostandosi continuamente dal piano del fenomenico (i corpi) al piano dell'in sé (le forze), e facendo dipendere le forze dai corpi (ad es. affermando che i corpi solidi hanno

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Comunque sia, Mainlànder ritiene di poter concludere che il processo cosmogonico mostra indiscutibilmente un indebolimento della forza. (Schwàchung der Kraft) (PE I, pp. 96 e 110), anzi « la legge dell'indeboli­ mento della forza è la legge dell'universo » (PE II, p. 510). Va da sé, che essendo costituito il mondo da forze e da null'altro, alla lunga il continuo indebolimento delle forze ridurrà le forze allo zero e quindi il mondo al nulla. Agli stessi risultati Mainlànder giunge considerando i processi chimici inorganici ed i processi degli organismi - la vita vera e propria. Qui il conflitto fra le forze assume la forma della lotta per l'esistenza; essa di solito si conclude con la vittoria - e quindi la sopravvivenza - dei determi­ nati individui che costituiscono una specie, ma nel corso di questa lotta gli individui, sebbene raggiungano un grado di organizzazione e specializza­ zione superiore, divengono più deboli; ciò sarebbe provato dalla paleonto­ logia che mostra come nelle epoche passate siano esistiti individui più grandi e forti. Anche in questo caso, come per i processi chimici, l'osserva­ zione diretta non consente tuttavia di constatare processi d'indebolimento delle forze (PE I, p. 96 s.). Solo nell'ambito della storia si possono osserva­ re processi d'indebolimento delle forze e su questo tema Mainlànder si sofferma a lungo, il che fa supporre che proprio in quest'area sia venuta formandosi questa tesi. Infatti è facile vedere quanto di dilettantesco vi sia nella fondazione « scientifica » di questa « legge dell'universo ». Mainlàn­ der sa di affermare un principio in contrasto con i risultati della scienza della sua epoca - in particolare il principio della conservazione dell'ener­ gia -, ma egli si guarda bene dal dimostrare la falsità delle teorie cui la sua filosofia dovrebbe sostituirsi 36. Sulla base di queste indagini Mainlànder si ritiene in grado di dare una nuova e più corretta interpretazione del senso complessivo della realtà empirica: il mondo tende all'indebolimento ed in ultima analisi all'annichi­ la tendenza ad andare verso il centro della terra), mentre propriamente, secondo la sua teoria della conoscenza, i corpi sono solo il correlato soggettivo delle forze. Un esempio ancor più evidente della disinvoltura con la quale Mainlànder si muove nell'ambito delle teorie scientifiche è offerto dalla sua spiegazione del movimento di rivoluzione della Terra intorno al Sole: Mainlànder afferma che la Terra è mantenuta sulla sua orbita intorno al sole dall'equilibrio che sussiste fra la forza gravitazionale - propria della Terra! - e la forza repulsiva - propria del Sole in quanto corpo celeste ancora allo stato gassoso e quindi in espansione! (PE I, pp. 87-93). 36 La posizione di Mainlànder potrebbe tuttavia essere vista come un'anticipazio­ ne di quelle tesi che, basandosi sulla legge dell'entropia, ne deduce la necessaria morte dell'universo.

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limento; detto in altri termini, esso non aspira alla vita, bensì alla morte. Ogni forza quindi non è propriamente « volontà di vita », bensì « volontà di morte ». La vita non è voluta infatti di per sé, direttamente, ma sorge come « momento ritardante » sul cammino che conduce al cessare delle forze, al nulla. La vita insomma non si identifica con lo Streben delle forze, ma è il risultato per così dire « secondario » di uno Streben « impedito dall'esterno » (von aussen verhindert) (PE I, p. 329 s.). Se il mondo non è ancora « maturo » per il nulla, ciò avviene perché le forze non sono ancora sufficientemente deboli; il passaggio al nulla potrà avvenire solo quando le forze si saranno sufficientemente « indebolite » nella vita (PE I, p. 330). La determinazione del senso (immanente) del mondo consente ora di gettare nuova luce sul significato della tesi metafisica centrale di Mainlànder, cioè del venir meno di Dio nel mondo. Risulta chiaro che Dio ha cessato di esistere e che si è « trasformato » nel mondo per annichilirsi, per raggiungere il nulla. Si tratta ora di cercare di comprendere perché Dio abbia voluto annichilirsi, perché per far questo abbia dovuto dare origine al mondo e soprattutto di cercare di rappresentarsi il modo in cui questa caduta nel mondo abbia potuto aver luogo. Mainlànder apre la discussione di questi temi con un insistito richia­ mo alla impossibilità di determinare in alcun modo positivamente l'essenza di Dio. È assolutamente illegittimo attribuire a Dio i concetti empirici di intelligenza e volontà 37 , come è illegittimo pensarlo come uno spirito (Geist) (PE I, p. 321 s.). Pure l'uomo si trova di fronte ad un « fatto » l'avvenuto passaggio dall'unità alla molteplicità - e tale fatto non può esse­ re pensato altrimenti che come un « atto volitivo motivato » 38 . Dall'impas­ se si esce se si attribuisce a questi concetti, quando vengano riferiti alla 37 Polemizzando specificamente con Hartmann, Mainlànder sostiene in particola­ re che la volontà implica il movimento ed anzi coincide con esso. Attribuire la volontà a qualcosa che per definizione è senza tempo e senza movimento è quindi una contradictio in adiecto e nulla si risolve parlando, come appunto fa Hartmann, di una volontà in potenza (PE I, p. 323). 38 PE I, p. 321 s. Questo passaggio logico risulta più agevolmente comprensibile se si tien conto che il termine tedesco impiegato da Mainlànder, That, significa al tempo stesso « atto » e « fatto »; così Mainlànder può dire che il passaggio dall'unità alla mol­ teplicità è un That, ciò un dato empirico immediato, e, al tempo stesso, che, in quanto That, deve essere pensato necessariamente come compiuto con intelletto e volontà. Naturalmente non mancavano a Mainlànder le possibilità linguistiche per evitare questo « equivoco » - che egli con ogni probabilità sfrutta intenzionalmente -: sarebbe stato sufficiente impiegare per indicare l'« atto » dell'unità il termine Thathandlung, come a suo tempo avevano già fatto Fichte e Schelling,

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trascendenza, un significato non costitutivo ma solo regolativo. Con questa limitazione è legittimo rappresentarci « provvisoriamente » Dio come se fosse dotato d'intelletto e volontà e cercare di soddisfare per mezzo di un discorso « analogico » le esigenze della ragione speculativa. Così « noi possiamo cercare di chiarire il sorgere del mondo intendendolo come se fosse stato un atto volitivo motivato ». Ma anche se le conclusioni raggiun­ te per tale via dovessero risultare insoddisfacenti, poco cambierebbe. Il libro del mondo che ci sta aperto davanti risponde in modo così chiaro ed univoco alle domande che gli vengano poste in modo onesto, che ci si potrebbe volgere tranquillamente dal kantiano « sconfinato Oceano » della trascendenza e dedicarsi solo al mondo dell'esperienza (PE I, p. 322 s. e 325 s.). In questo modo Mainlànder intende ribadire il carattere essenzial­ mente immanente della sua filosofia: l'interpretazione della realtà empirica che essa propone è indipendente dalla costruzione metafisica che ne costi­ tuisce il coronamento, cosicché la sua validità non è pregiudicata dal rifiuto di tale costruzione. La parte più speculativa della metafisica di Mainlànder, che - pur se solo regolativamente - si sforza di comprendere e rappresentare la tra­ scendenza, prende le mosse da un'analisi delle modalità in cui è pensabile l'agire di Dio. Come si è accennato, ogni atto volitivo - anche l'ipotetico atto divino - deve avere dei motivi. Dato che Dio, prima del sorgere del mondo, si trova in « assoluta solitudine », ciò che lo ha mosso ad agire deve essere posto al suo interno: a fondamento dell'atto divino sta quindi l'au­ tocoscienza in cui si rispecchia la sua essenza e la sua esistenza (PE I, p. 323). Mainlànder cerca poi di definire le condizioni in cui l'agire divino possa essere libero: Dio potrebbe decidere liberamente di divenire qualco­ sa d'altro, ma « in tutti i modi di manifestarsi di questo esser altro la libertà dovrebbe rimanere latente, perché non possiamo pensare alcun essere più perfetto e migliore di quello di un'unità semplice » (PE I, p. 323). Sembra di capire che Dio, essendo già assolutamente perfetto e non potendo per definizione desiderare di essere qualcosa di meno perfetto, volendo essere qualcosa di diverso da sé, in realtà non potrebbe che continuare ad essere eguale a se stesso (la libertà rimarrebbe latente). Ne consegue che l'unica vera scelta possibile è quella fra il continuare ad essere quello che è ed il cessare di esistere. A sostegno della sua tesi Mainlànder osserva che la possibilità di negare la propria esistenza è implicita nell'attribuzione a Dio di un'autentica onnipotenza, attribuzione sulla quale i teologhi di tutti i tempi sono concordi senza peraltro cogliere questa decisiva implicazione (PE I, p. 324). Se ora si passa da questa considerazione astratta alla situa-

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zione del Dio precosmico, in quanto esistente, risulta che « un unico atto era possibile per Dio, ed invero un atto veramente libero, perché egli non aveva nessuna costrizione, perché lo poteva sia compiere sia non compiere: passare nel nulla assoluto, nel nihil negativum, vale a dire annichilasi com­ pletamente, cessare di esistere » (PE I, p. 323). In questo modo l'atto con cui Dio decide di passare nel nulla è presentato da Mainlànder come l'uni­ ca possibile affermazione di libertà da parte di Dio, quindi, implicitamente, come qualcosa di positivo, benché tale affermazione per ovvi motivi non possa essere presentata come qualcosa di necessario 39. Con le considerazioni precedenti si è giunti a rappresentarsi come Dio possa voler negare se stesso. Si pone però un nuovo problema: se Dio è onnipotente, perché non si è annichilito immediatamente, senza dar origi­ ne al mondo? Per accordare la concezione dell'agire di Dio in precedenza delineata con l'esperienza (il fatto dell'esistenza di un mondo che va verso il nulla), si deve quindi individuare in Dio un « ostacolo » (Hinderniss] che abbia reso impossibile l'immediato passaggio al nulla. La risposta che Mainlànder da alla questione non va molto al di là di una tautologia: egli afferma infatti che l'onnipotenza divina è vincolata dall'essenza divina stes­ sa, la cui esistenza non può essere annichilita immediatamente dall'onnipo­ tenza; insomma l'onnipotenza « non era una vera onnipotenza di fronte alla propria forza », « l'unità semplice non poteva cessare di esistere per mezzo di se stessa ». Di qui la necessità per affermare completamente il suo potere di « crearsi » un mezzo fuori da sé, appunto il mondo 40. 39 L'alternativa può esser accettata evidentemente solo se si ritiene che il non esistere non sia qualcosa di meno perfetto dell'esistere, ovvero che un Dio non esistente possa essere considerato ancora Dio. Non è chiaro se questo atto debba comunque essere considerato « motivato »; cioè, nel caso specifico, dipendente dall'autocoscienza divina: si può ipotizzare che il motivo di una tale scelta sia da porsi nel fatto che Dio si autocomprende come libero e che ciò lo « muove » ad esercitare la sua libertà nell'unico modo possibile, cioè negandosi (sulla concezione della libertà in Mainlànder si tornerà in seguito). 40 PE I, p. 324. Le difficoltà di questa posizione sono fin troppo evidenti; in primo luogo essa implicitamente attribuisce all'essenza divina una sorta di « tendenza » a rima­ nere nell'essere, il che contrasta con quanto detto precedentemente, vale a dire che l'esistenza è una « scelta » di Dio al pari della non esistenza; in secondo luogo non si capisce perché quell'annichilimento che è impossibile a Dio nella sua condizione preco­ smica debba essere possibile ad un mondo che deriva in tutto e per tutto da Dio ed anzi è esso stesso Dio seppure in forma mutata. Lo stesso Mainlànder pare conscio della debolezza di questa argomentazione: posti come indiscutibili punti fermi che l'unità precosmica non esiste più e che il mondo va verso il nulla, se tale spiegazione dovesse risultare insoddisfacente, si dovrebbe ipotizzare un ostacolo trascendente inconoscibile ed irrappresentabile (PE I, p. 325).

13. ETICA E FILOSOFIA DELLA STORIA

1. IL DETERMINISMO, L'ANTROPOLOGIA, LA PSICOLOGIA.

Come avviene in tutti i pessimisti, anche in Mainlànder la gnoseologia e la metafisica hanno essenzialmente la funzione di fornire il quadro di riferimento in cui inserire la dottrina morale, che costituisce il centro di gravita della sua riflessione. Anche Mainlànder sostiene un rigido deter­ minismo che vale per l'intera realtà non trascendente e, in essa, per l'uomo: tutto ciò che avviene nel mondo è il risultato di un nesso causale. L'uomo ha una certa individualità - un certo carattere - come ogni cosa in natura e « ognuna delle sue azioni è il prodotto di questo carattere - determinato almeno in quel momento - e di un motivo sufficiente, e deve realizzarsi con la stessa necessità con cui una pietra cade al suolo » (PE I, p. 175). Così « la volontà non è mai libera e tutto nel mondo avviene con necessità » (PE I, p. 176). Mainlànder ritiene non di meno che la sua filosofia sia in grado di conciliare necessità e libertà: si è visto che il mondo è il risultato della decisione di Dio di autoannichilirsi, cosicché, posto questo particolare tipo d'identificazione tra Dio e il mondo, si può dire che la natura di ogni cosa non dipende da null'altro che da ciò che essa era prima di divenire mondo, cioè da se stessa. Benché quindi il suo modo di essere e di agire nel mondo sia determinato una volta per sempre, essa poteva essere qualcosa di diver­ so da quello che di fatto è e quindi, in riferimento alla sua trascendenza (nel passato), può essere detta libera (PE I, p. 355 s.). E evidente come questa posizione richiami quella di Schopenhauer (una necessità immanen­ te contrapposta ad una libertà trascendente), ma è anche evidente che essa, interpretando la realtà immanente come la sola attualmente esistente, escluda del tutto la possibilità di una qualsiasi attuale manifestazione della

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libertà, possibilità che Schopenhauer, in modo quanto si vuole aporetico, aveva tenuto aperto. Di fatto questa libertà trascendente non svolge alcun ruolo nella riflessione morale di Mainlà'nder. L'altra componente essenziale dell'etica di Mainlà'nder è costituita dall'antropologia volontaristica, assai vicina a quella di Schopenhauer. Gli individui del mondo organico - piante, animali, uomini - si distinguono dagli individui del mondo inorganico perché in essi il movimento che de­ riva dalla volontà non è « indiviso », ma « diviso », ovvero è il movimento « risultante » dai movimenti indipendenti prodotti dai vari organi in cui la volontà si è divisa 1 . Nel regno vegetale il movimento degli organi si caratterizza, unicamen­ te come reazione agli stimoli esterni (irritabilità) ed il movimento risultante è la crescita. Nel regno animale invece si manifesta, accanto all'irritabilità, anche la sensibilità: nel movimento risultante si distingue ciò che muove e dirige (la sensibilità, o, più in generale, la facoltà conoscitiva) e ciò che è mosso e diretto (l'irritabilità). Accanto alla crescita, si manifesta così un altro « movimento risultante »: il « movimento arbitrario ». Mainlànder precisa che in senso proprio l'agire della volontà è unicamente opera del­ l'irritabilità che reagisce allo stimolo - questa volta interno - della sensibi­ lità, la quale « propone » alla volontà la dirczione in cui muoversi (Mainlànder fa ricorso alla similitudine del cavallo [irritabilità] e del cava­ liere [sensibilità]) 2 . Quanto maggiore in un animale è lo sviluppo della sensibilità, quanto più numerosi sono i movimenti arbitrari, tanto più elevato è il posto che 1 PE I, p. 50. Sembra che le unità parziali costituite dai vari organi sorgano per così dire successivamente all'unificazione completa degli individui inorganici in un indi­ viduo organico, giacché non coincidono con le originarie determinazioni degli elementi chimici che costituiscono ogni individuo organico. Anche in questo caso - in accordo con l'atteggiamento antiatomistico sostenuto nella fisica - il tutto precede la parte. Biso­ gna anche osservare che Mainlànder non considera le attività differenziate dei vari orga­ ni come il manifestarsi di volontà (relativamente) autonome, ma come il manifestarsi di un'unica volontà il cui modo d'operare si è scisso, diviso. 2 PE I, p. 50 s. Da buon schopenhaueriano Mainlànder fa corrispondere alla trat­ tazione « soggettiva » dell'esplicarsi della volontà (irritabilità e sensibilità) una trattazio­ ne « oggettiva »: da tale punto di vista la sensibilità è funzione delle masse nervose (incluso il cervello), mentre l'irritabilità è funzione dei muscoli; alla volontà complessiva dell'individuo corrisponde infine oggettivamente il sangue che è « pura volontà di vita », « la cosa fondamentale » nell'organismo, il movimento originario da cui si sono separati gli organi. È difficile capire come Mainlànder sia giunto a questa singolare idea, sulla quale insiste a più riprese, tanto che Hartmann non senza ragione parla di una « mistica del sangue » (GM II, p. 529). Talvolta Mainlànder usa anche, per indicare la specifica natura di ciascun individuo, il concetto di « demone » (PE I, p. 54 s.).

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esso occupa nella scala evolutiva. Al suo vertice si trova l'uomo in cui il movimento della sensibilità - o, come anche dice Mainlànder, dello spirito - si specifica ulteriormente nel pensiero concettuale. Lo spirito, oltre a fornire all'irritabilità gli stimoli, ovvero, come Mainlànder dice di solito riferendosi all'uomo, a fornire alla volontà i motivi, da luogo alla coscienza, che si manifesta nella capacità di guardare a se stessi e quindi nell'autoco­ scienza, ed ai sentimenti che, come si vedrà in seguito, sono considerati una sorta di riflesso intcriore dell'agire della volontà (PE I, p. 51). Così « l'idea dell'uomo è un'unità indivisibile di volontà e spirito, ovvero un inscindibile legame di una determinata volontà con un determinato spirito » (PE I, p. 55). Mainlànder insiste molto sul fatto che comunque lo spirito è una manifestazione della volontà, la quale mediante esso conosce e pensa allo stesso modo in cui attraverso lo stomaco digerisce. Non si può quindi in nessun modo parlare di un « antagonismo » fra volontà e spirito, come non si può pensare che la ragione eserciti una « costrizione » sulla volontà 3 . Si è detto che lo spirito consente di guardare in noi stessi; esso è quindi lo strumento fondamentale per l'analisi psicologica. L'introspezione rivela anzitutto la presenza in ciascun uomo di un certo carattere, ovvero di uno specifico modo di manifestarsi della sua volontà. I caratteri possono essere classificati secondo i temperamenti (Mainlànder riprende la classica quadripartizione dei caratteri in melanconici, sanguinei, collerici e flemma­ tici) e, in secondo luogo, secondo quelle che Mainlànder chiama « qualità della volontà » che sono le particolari forme o combinazioni di forme in cui si esplica la volontà di vita. Esse sono da paragonarsi a scalfitture sulla superficie della volontà che secondo le circostanze possono divenire canali in cui « scorre » - si esplica - il volere 4 . Mainlànder sostiene che il carat­ tere è innato ma, seppure entro margini assai ristretti, modificabile, nel senso che l'esperienza - essenzialmente l'esperienza del dolore - può por­ tare ad una riduzione o ad un aumento del peso relativo delle varie qualità della volontà (PE I, p. 174 s.). 3 PE I, p. 173. Nel passare della considerazione degli organismi viventi nel loro complesso all'uomo - e quindi dalla volontà come principio metafisico alla volontà come realtà psicologica specificamente umana - Mainlànder incorre quasi fatalmente in una serie di incoerenze che si spiegano tenendo conto del duplice significato del termine: così da una parte, come si è visto, egli dice che l'uomo è un'unità indivisibile di spirito e volontà, oppure che alla volontà non appartiene la rappresentazione ed il pensiero, dall'altra che lo spirito è un modo di manifestarsi della volontà. 4 PE I, p. 57 s. Mainlànder propone un lungo elenco costituito da coppie di « qualità della volontà » che corrispondono approssimativamente ai tradizionali vizi e virtù, ad es. invidia/benevolenza, avarizia/generosità.

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Alla conoscenza del proprio carattere e delle qualità della propria volontà si giunge gradualmente attraverso l'esperienza dei vari « stati della volontà » (Zustànde des Willens). Essi non sono altro che i vari movimenti della volontà in quanto « sentiti » (gefùhlte) 5. L'uomo, pur con molte dif­ ficoltà perché è difficile conservare chiarezza e calma nel mezzo delle pas­ sioni, è infatti in grado di conoscere il modo in cui la volontà desidera e vuole, reagendo ai vari motivi. Il primo e più generale stato della volontà è il « sentimento vitale » o, forse meglio, la « percezione della vita » (Lebensgefiihl) che è presente nelle normali condizioni di esistenza, ovvero in quello che Mainlà'nder chiama lo « stato normale » della volontà, « quando la volontà è interamen­ te soddisfatta », cosicché noi non proviamo né gioia né dolore - sembra che questa condizione sia assimilabile al « punto-zero » della sensibilità di cui parlava Hartmann (PE I, p. 59). Tutti gli altri stati della volontà sono modificazioni di questa condizione; gioia e tristezza, coraggio e paura, spe­ ranza e disperazione, amore ed odio sono riconducibili ai diversi tipi dei due movimenti fondamentali della volontà, vale a dire quello « dal centro alla periferia » e quello « dalla periferia al centro ». Ad esempio l'amore nelle sue varie forme va visto come un allargamento della sfera di attività dell'individuo, mentre l'odio è un ripiegarsi dell'uomo su se stesso e quindi un restringimento della sua sfera di attività 6. Tutti gli stati di « espansio­ ne » della volontà vengono inoltre ricondotti al concetto generale di stati di piacere (Lust) e tutti quelli di « concentrazione » al concetto generale di stati di dolore (Unlust), una tesi che non sembra facilmente conciliabile con altri aspetti della teoria della volontà di Mainlànder 7 . 5 PE I, p. 58. Gli stati della volontà secondo Mainlànder sono qualcosa di diverso dai veri e propri sentimenti, che, in polemica con Schopenhauer, egli considera una produzione della ragione la quale di essi si serve per poter influire, con nuovi motivi, sulla volontà. La ragione è conscguentemente definita come « dispensatrice di dolore e piacere » (Schmerz- und Lustspender) (PE I, p. 474). Per Mainlànder la teoria schopenhaueriana è inaccettabile perché conduce all'assurdo di dovere attribuire sentimenti anche agli esseri inanimati - ad esempio alle pietre (PE I, p. 473 s.). 6 PE I, pp. 61-63. Sono evidenti qui le difficoltà che Mainlànder incontra riell'applicare nell'ambito della psicologia la sua interpretazione dell'attività della volontà in termini di movimento. Ad esempio è difficile comprendere come l'amore per l'umanità possa essere spiegato - se non metaforicamente - come la tendenza della volontà ad ampliare all'infinito la propria sfera di attività: se si pensa a quanto si è detto riguardo alla tendenza espansiva dei gas, risulta che una tale tendenza, se realizzata, dovrebbe avere come conseguenza la distruzione - o quanto meno l'assimilazione - di tutti gli altri esseri a quella determinata volontà. 1 PE I, p. 64. Mainlànder, seguendo Schopenhauer, sostiene infatti che i vari desi-

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Qualunque contenuto e forma possegga il carattere, di qualunque tipo siano le qualità della volontà, l'agire dell'individuo è sempre ed invariabil­ mente egoistico, nel senso che esso tende in ogni caso e secondo necessità a soddisfare la propria volontà. L'uomo vuole anzitutto conservare la pro­ pria esistenza, anche a danno degli altri - Mainlànder cita il detto latino, più volte utilizzato da Schopenhauer, pereat mundus, dum ego salvus sim (PE I, p. 57) -, ma vuole anche « in ogni istante della vita, la completa soddisfazione dei suoi desideri, delle sue inclinazioni, delle sue brame, in cui egli pone la suprema felicità. Desiderio - immediata soddisfazione; nuovo desiderio - immediata soddisfazione: questi sono gli elementi della catena della vita, come la vuole l'egoismo naturale » (PE I, p. 170). L'ego­ ismo - la soddisfazione di un determinato impulso della volontà - sta an­ che alla base dei cosiddetti comportamenti altruistici: « È altrettanto im­ possibile per la persona compassionevole lasciare nell'indigenza il prossi­ mo, quanto per la persona insensibile venire in soccorso al bisognoso. Cia­ scuno dei due agisce secondo il suo carattere, la sua natura, il suo io, la sua felicità - conscguentemente egoisticamente; se infatti la persona compas­ sionevole non asciugasse le lagrime degli altri, sarebbe felice? E se la persorfa dura di cuore alleviasse i dolori degli altri, sarebbe soddisfatta? » (PE I, p. 180). Con questa presa di posizione Mainlànder delinea un modello d'interpretazione rigorosamente utilitaristica dell'agire umano, che risulta determinante per tutta l'etica. Non deve quindi far meraviglia che Mainlànder riprenda pressoché integralmente la concezione schopenhaueriana della felicità. L'uomo è fe­ lice quando la volontà è soddisfatta, e ciò avviene anzitutto nello « stato normale » della volontà, « quando il liscio specchio del cuore non viene mosso » (PE I, p. 184), quando la volontà possiede un'esistenza non mi­ nacciata in alcun modo. Questa condizione è tuttavia rara perché, come si è visto, la volontà vuole sempre anche un determinato tipo di esistenza, cioè manifesta continuamente specifici desideri. Nella maggior parte dei casi quindi la felicità si manifesta solo nel momento in cui si soddisfa un desiderio e quindi si prova piacere; ma il desiderio, nel momento in cui si manifesta, produce nell'uomo un sentimento di dolore che dura fin quan­ do il desiderio è soddisfatto (PE I, p. 183 s.). deri e le varie volizioni producono piacere o dolore, indipendentemente dalla loro natura, secondo che siano soddisfatti o meno. Così, ad esempio, l'odiare un nemico - uno stato di concentrazione della volontà che si può supporre si concretizzi nel desiderare la sua rovina o addirittura nell'operare positivamente per essa - da luogo al piacere se tale rovina avviene effettivamente, mentre da luogo al dolore se il nemico continua a prosperare.

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Di fronte all'impossibilità di soddisfare tutti i desideri, l'uomo sceglie ciò che può recargli maggior piacere o minor dolore (PE I, p. 170 s.). Questo processo si complica notevolmente quando, in forza di un più ele­ vato sviluppo dello spirito, la scelta è compiuta tenendo conto delle conse­ guenze delle varie scelte sul benessere (Wohl) complessivo dell'individuo e/ o sulla vita futura dell'individuo 8. È compito dello spirito il «mostrare» alla volontà la rappresentazione dell'eventuale dolore futuro conseguente ad una scelta che abbia di mira l'immediato e far valere così l'interesse dell'« intero io »; tale rappresentazione, agendo come un contromotivo, può vincere il motivo immediatamente presente e determinare la volontà ad agire in modo diverso e talvolta contrario alla sua tendenza immediata (PE I, p. 176 s.). Può sembrare che, in questo modo, lo spirito domini la volontà, ma ciò di fatto non avviene, perché il fine che lo spirito persegue è lo stesso che la volontà si pone immediatamente: quello di massimizzare il piacere 9.

2. LA « DOTTRINA DELLA FELICITÀ ».

Sulla base di queste premesse antropologiche e psicologiche Mainlànder definisce l'ètica la « dottrina della felicità » (Eudàmonik o Glùckseligkeitslehre). Il suo compito è « indagare in tutte le sue fasi lo stato di sod­ disfazione del cuore umano, coglierlo nella sua forma più perfetta e porlo su di un solido fondamento, ovvero indicare il mezzo attraverso cui l'uomo può giungere alla completa pace del cuore, alla suprema felicità » (PE I, p. 169). Essa è in sostanza una sorta di fisica della volontà - in quanto speci­ ficamente umana. Le categorie del morale e dell'immorale hanno significa­ to solo per l'uomo, perché « dal punto di vista della natura nessun uomo 8 Mainlander non è molto chiaro circa la differenza fra benessere e felicità: sembra che il benessere debba essere identificato con lo « stato normale » della volontà, mentre la felicità con la positiva presenza di piaceri. Da un punto di vista eudemonologico si deve quindi supporre una gerarchia così costituita: dolore - benessere - felicità. In altri contesti tuttavia Mainlander sembra piuttosto equiparare il benessere all'eventuale po­ sitività del bilancio complessivo piacere/dolore. 9 Mainlander attribuisce all'uomo « una perfetta capacità di deliberazione » (Deliberationsfàhigkeit) (PE I, p. 173), pur ribadendo che il processo che conduce la volon­ tà ad agire contro le sue inclinazioni immediate è un processo sottoposto a necessità (PE I, p. 177) e che di conseguenza non si può parlare assolutamente di un liberum arbitrium indifferentiae (PE I, p. 176). Sembra che tale capacità di deliberazione debba essere intesa come la capacità dello spirito di giungere ad una corretta valutazione delle con­ seguenze eudemonologiche delle varie volizioni, di confrontare tra loro tali conseguenze e di valutare quale di essa sia più conveniente, offrendo poi tale risultato alla volontà.

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agisce moralmente » e il suo agire è solo un aspetto dell'immutabile corso della natura e della storia (PE I, p. 218 s.). Ma il discorso potrebbe anche essere rovesciato, nel senso che, ove si prescinda dalla specifica mediazione della rappresentazione, tutta la natura agisce con le stesse modalità del­ l'uomo - massimizza2Ìone delle soddisfazioni della forza/volontà. Questa scienza si esplica anzitutto nell'analisi dei risultati eudemonologici che l'uomo ha conseguito o potrà conseguire nel corso del suo agire storico. Mainlànder prende le mosse da un ipotetico « stato di natura », in cui si trova l'uomo non sottoposto al potere dello stato. In esso l'uomo agisce secondo il suo volere, cerca con ogni mezzo, anche con l'omicidio ed il furto, di conservare la sua esistenza e di soddisfare i propri desideri (PE I, p. 179). La condizione di costante insicurezza (e quindi d'infelicità) che l'uomo sperimenta in questa situazione lo spinge a fondare lo stato, che « è opera della ragione e si fonda su un patto che gli uomini stipulano contro­ voglia » (PE I, p. 180). Gli uomini, autolimitando la propria volontà, si accordano su due leggi fondamentali: nessuno può rubare e nessuno può uccidere; nasce così la legge, ed insieme con essa i diritti ed i doveri. Essi pongono il potere a cui ciascuno rinuncia nelle mani di un giudice, che ottiene un potere sovraindividuale, e gli attribuiscono i mezzi per fare ri­ spettare attraverso le punizioni le leggi pattuite. Nei confronti dello stato, in cambio della protezione che viene loro accordata, essi si assumono in primo luogo il dovere dell'obbedienza e in secondo luogo quello della sua difesa, sia contro i nemici interni - i criminali - sia contro i nemici esterni (PE I, p. 181 s.). Il sorgere dello stato è un esempio di un'azione compiuta dall'uomo in vista di un vantaggio più grande del sacrificio immediato. È infatti « carat­ tere fondamentale » dello stato che esso « dia più di quanto prenda ». Se ciò non avvenisse, se per gli uomini l'entrare a far parte di una comunità statale non risultasse un « vantaggio » - inteso nel senso di un male minore per la maggioranza -, lo stato non sorgerebbe mai (PE I, p. 180 s.). Secon­ do Mainlànder tuttavia l'uomo nello stato, benché il suo benessere com­ plessivo (Wohl) sia maggiore, non è più felice di quanto lo sia nello stato di natura. Egli non può soddisfare tutti i suoi desideri come nello stato di natura perché a ciò si oppone il potere dello stato, che lo costringe all'obbedienza con la minaccia della punizione. Deve quindi continuamente agi­ re contro le inclinazioni della propria volontà, che rimangono insoddisfatte e causano in lui infelicità (PE I, p. 184 s.). Quale che sia il rapporto fra il grado di felicità degli uomini allo stato di natura e quello degli uomini che vivono negli stati, una cosa appare a

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Mainlànder indiscutibile: questi ultimi, gli unici che noi conosciamo diret­ tamente, sono infelici. Mainlànder ritiene superfluo riesaminare il contenu­ to di felicità della vita dell'uomo, giacché « altri lo hanno fatto e lo hanno fatto con tale maestria che per ogni persona intelligente la questione deve considerarsi archiviata ». Solo quei pochi che non conoscono la vita o il cui sguardo è annebbiato da una troppo forte volontà di vita possono sostene­ re che sia piacevole vivere: « essi non hanno ancora sofferto abbastanza e non hanno compreso nulla. Verrà il giorno in cui, se non nella loro vita individuale, quanto meno nella loro discendenza, essi si risveglieranno ed il loro risveglio sarà terribile » (PE I, p. 204). Questo giudizio non sembra però poter essere immediatamente esteso ad un futuro stato ideale, sui caratteri del quale si tornerà più oltre. Mainlànder ritiene tuttavia che esistano buone ragioni per ritenere che anche in uno stato ideale futuro gli uomini non potranno essere felici. Impossibilitati a dedicarsi al progresso ed alla scienza, che ormai non lasce­ rà loro più nulla da ricercare e da scoprire, essi cadranno vittime della noia e proveranno « uno spaventoso vuoto ed una spaventosa desolazione » (PE I, p. 207), come è mostrato dall'esperienza di quei pochi fortunati - sono citati Goethe ed Alexander von Humboldt - che per ricchezze ed ingegno hanno già vissuto in un situazione analoga a quella prefigurabile nello stato ideale: ebbene, una vita esteriormente felicissima è apparsa loro come triste e senza senso 10. L'uomo tuttavia, fin dai primordi, ha cercato di ottenere la felicità oltre che attraverso lo stato, anche mediante la religione. Il problema della religione - considerato in precedenza da un punto di vista teorico - è qui affrontato dal punto di vista pratico, eudemonologico. In quest'ottica il sorgere della religione viene descritto secondo uno schema per molti versi analogo a quello che conduce alla nascita dello stato. L'uomo si trova di fronte a forze che lo minacciano e di fronte alle quali si sente senza difesa; nell'impossibilità di stringere con esse un patto, egli non trova di meglio che prostrarsi davanti a loro, personificandole nella forma di divinità (PE I, p. 185 s.). Con l'intenzione di ingraziarsi queste divinità l'uomo rinuncia anche in questo caso a soddisfare molti dei suoi desideri. Nel caso della religione più elevata, il cristianesimo, l'uomo si impone il più completo superamento 10 PE I, p. 209 s. Costoro tra l'altro hanno avuto il vantaggio di potersi ancora dedicare alle scienze e hanno avuto modo di apprezzare particolarmente la loro situazio­ ne, potendola confrontare con quella dei loro simili meno fortunati (PE I, p. 208 s.).

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dell'egoismo, chiede che si ami il prossimo ed addirittura i nemici, che si viva in povertà e che si rinunci per quanto possibile al piacere; chiede infine la verginità, che è in contrasto con il più originario e potente istinto. Si impone in sostanza di agire costantemente in contrasto con il proprio carattere (PE I, p. 186 s.). Questi vincoli non sarebbero mai accettati se la religione non costringesse all'obbedienza con la minaccia di una punizione esterna, minaccia resta più temibile dall'impossibilità di sfuggire alla pena. Nella maggioranza dei casi è questa paura a muovere gli uomini e non la promessa della perfetta felicità nell'aldilà. Ne consegue che nella vita terre­ na l'uomo religioso è più infelice che mai: egli deve accettare e seguire i comandamenti della religione « ma con un cuore lacerato e pieno di ranco­ re » (PE I, p. 188). Queste sofferenze sono -o dovrebbero essere - affrontate in vista della felicità nella vita ultraterrena. Ma tale promessa si fonda sull'ipotesi di un'unità reale esistente (Dio), ipotesi che la filosofia immanente non può accettare e che quindi mostra l'illusorietà di questa prospettiva (PE I, p. 199). Mainlànder riconosce tuttavia che in alcuni casi la religione cristiana ha dato origine ad atteggiamenti etici del tutto simili al modello di vita morale che la « filosofia immanente », come si vedrà, sviluppa su basi « scientifiche ». I santi ed i mistici compiono così volentieri ciò che per gli altri è doloroso sacrificio, hanno fatto proprio così nel profondo l'insegna­ mento cristiano della negazione della volontà, che la minaccia della puni­ zione ed anche la speranza della felicità ultraterrena perdono per loro qualsiasi importanza: « si trovano in una tale letizia, in una tale pace, in una tale inattaccabilità, che per essi tutto diviene indifferente, la vita, la morte e la vita dopo la morte ». La volontà non desidera più nulla, è interamente soddisfatta e per questa ragione il santo è « l'uomo più felice che si possa immaginare » (PE I, p. 197). Comunque sia, la filosofia immanente nel suo tentativo di determinare scientificamente il fondamento di una possibile perfetta felicità, deve vol­ gersi di nuovo allo stato, l'unica istituzione storica la cui autorità deve essere accolta dalla ragione (PE I, p. 199). Nello stato tuttavia molte delle azioni giudicate tradizionalmente morali - come molte di quelle considerate immorali - si sottraggono ad ogni sanzione di legge: tanto chi aiuta pietosamente i bisognosi, quanto chi, insensibile alla sofferenza altrui, lascia morire di fame i poveri fuori dalla propria porta non agisce contro le leggi dello stato. D'altra parte, a questo livello dell'analisi, non si può neppure dire che il pietoso agisca moralmen-

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te, perché manca una legge che sanzioni in tal senso il suo operato. Insomma « l'autorità della religione non esiste per noi, ed al suo posto non ne è sorta alcun altra » (PE I, p. 201 s.). Si tratta allora di vedere se per via immanente - senza il ricorso alla religione - è possibile individuare ulterio­ ri leggi che possano servire da guida all'agire dell'uomo. Mainlànder ritorna da un nuovo punto di vista all'ideale dello stato perfetto: convinto sostenitore dell'esistenza di un obiettivo e necessario progresso storico, egli è certo che l'avvento dello stato ideale sia « un ne­ cessario sviluppo dell'umanità che si viene realizzando con irresistibile potere e che nessuna forza può impedire o deviare » (PE I, p. 210 s.). Esso è « il necessario destino dell'umanità », concetto che ripropone nell'ambito dell'immanenza il potere attribuito a Dio dalle religioni; tuttavia mentre l'esistenza dell'unità che fonda tale potere « deve essere creduta e fu sem­ pre esposta ad attacchi e dubbi, l'essenza del destino, a motivo della cau­ salità generale che abbraccia tutti gli uomini, è chiaramente conosciuta dagli uomini e non può per ciò essere contestata » u . A prescindere quindi dal suo esito eudemonisticamente negativo, la realizzazione dello stato ideale è « destino » e quindi legge ineludibile per l'uomo: ciascuno deve cercare di favorire ed accelerare questo sviluppo, deve in altre parole impegnarsi con ogni mezzo per il miglioramento ed il progresso dello stato; « l'inesorabile destino dell'umanità richiede da ogni cittadino la dedizione al bene comune (Hingabe an das Allgemeine) , che già il grande Eraclito ha insegnato con parole scritte nel profondo del cuore, ovvero l'amore verso lo stato » (PE I, p. 211 s.) « II comandamento dunque esiste e deriva da un potere che, per la sua terribile forza, si conserva e si conserverà sempre, immutabile, per ciascuno » (PE I, p. 212). L'efficacia di questa legge è garantita dall'esistenza di punizioni per chi si sottragga ad essa. Sembra che chi opera seguendo le leggi dello stato 11 PE I, p. 211. Presupposto di questa tesi è una vivace polemica nei confronti della concezione schopenhaueriana della storia: per Mainlànder è aberrante il pensare che il processo storico sia qualcosa di puramente « ideale » e quindi in definitiva d'illusorio (PE I, p. 585 s.), ed altrettanto sbagliato è l'escludere la storia dall'ambito delle scienze: si tratta di considerare i particolari avvenimenti della storia da un punto di vista sempre più generale fino a cogliere il senso complessivo dello sviluppo (PE I, p. 587). Schopenhauer d'altra parte rappresenta una frattura ingiustificata nella tradizione della filosofia tedesca che in Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, ha unanimamente interpretato la storia come il processo che conduce alla graduale realizzazione dello stato, ideale. Mainlànder vede la sua posizione come un superamento di questa tradizione: anche per lui la realizzazione dello stato ideale è il fine della storia, ma non il fine ultimo, che, come si è visto, è il non essere (PE I, p. 587 s.).

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(che attualmente non impegnano affatto il cittadino a trasformare lo stato in senso socialista, come il « destino » vuole), ma preoccupandosi solo del proprio interesse personale, non incorra in nessuna punizione. La realtà è però diversa. Mainlànder sostiene la tesi che i genitori continuano a vivere nei figli che essi generano, e ciò - sembra di capire - più che nell'usuale senso metaforico. Infatti Mainlànder afferma l'esistenza di una continuità reale fra il soggetto-genitore e il soggetto-figlio, tale che i dolori o i piaceri dei figli devono essere considerati a tutti gli effetti come dolori o piaceri dei genitori: « tu continui a vivere nei tuoi figli, nei tuoi figli celebri la tua reincarnazione, e ciò che colpisce loro, colpisce te » 12 . Dunque il cittadino, nello scegliere ciò che è per lui più vantaggioso, non deve prendere in considerazione solo quanto riguarda direttamente la sua vita, ma deve tener conto anche di ciò che può avvenire ai suoi figli. Ora, secondo Mainlànder, uno degli aspetti più caratteristi ci dell'ordinamento sociale vigente consiste nel costante mutare delle posizioni sociali occupate dai cittadini; chi è povero può esser certo che prima o poi diverrà ricco, per poi tornare ad essere povero; chi è ricco, al contrario, si troverà necessaria­ mente ad essere povero: « in un tale ordinamento delle cose oggi sei in­ cudine, domani martello, oggi martello, domani incudine » (PE I, p. 214). In ogni caso quindi la conservazione dell'ordinamento vigente promette anche al più fortunato cittadino - nella sua discendenza - un futuro più o meno lontano di miseria e bisogno, cosa che non avverrà invece nel futuro stato ideale, dove il benessere sarà garantito a tutti. Così « tu agisci contro il tuo benessere generale se cerchi di conservare questo stato di cose ». Anche ammesso che il futuro stato ideale consenta all'uomo di avere un benessere superiore, restano comunque valide le conclusioni circa l'im­ possibilità della felicità anche in tale condizione ideale. Da questo punto di vista la legge della dedizione al benessere comune non può essere conside­ rata a tutti gli effetti la legge morale suprema. La stessa natura processuale della realtà conferma questa prospettiva, offrendone al tempo stesso il necessario completamento: la vita del singolo quanto quella dell'universo non possono arrestarsi, non possono conclu­ dersi in un « ristagno » (Stillstand). Ma a questo punto un solo ulteriore 12 PE I, pp. 81 e 213. Questa dottrina appare peraltro inconciliabile con l'altra tesi di Mainlànder, secondo cui ogni individuo complesso, al momento della sua morte, cessa di esistere come tale, scomponendosi negli elementi semplici. Anche ammesso che l'individualità dei genitori sia perfettamente riprodotta dall'individualità dei figli, resta il fatto che si tratta di un'individualità nuova e numericamente diversa da quella dei genitori.

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passo è possibile: il passaggio nel non essere. Se ne deduce che il destino dell'umanità, nella misura in cui si configura come un processo ascendente verso un grado di perfezione sempre più alta, deve concludersi con il pas­ saggio al non essere. Tale passaggio si realizzerà - l'umanità cesserà di esistere - quando gli uomini cesseranno di procreare, ovvero quando gli uomini - ciascun uomo - sceglierà per sé la verginità. Ognuno dunque, se vorrà obbedire al comandamento supremo - che ora assume la forma più generale di favorire per quanto è possibile lo sviluppo finalistico del mon­ do - dovrà fin d'ora, oltre ad impegnarsi per la costruzione dello stato ideale, essere assolutamente casto (PE I, p. 215 s.)." Pur riproponendo la dottrina schopenhaueriana della negazione della volontà, Mainlànder la depura così di tutti quegli elementi metafisici che tante discussioni avevano suscitato: « la filosofia immanente non conosce alcun miracolo e non sa raccontare nulla di eventi che si realizzino in un altro mondo sconosciuto ». La volontà che si nega nella verginità non cessa di essere se stessa, non cessa cioè di volere: essa continua a volere ed a lavorare per il progresso dello stato e cessa di esistere solo con l'evento naturale della morte dell'individuo; tale morte è definitiva nella misura in cui la sua individualità non è conservata dai figli (PE I, p. 218). Da questo punto di vista per Mainlànder - ancora in aperto contrasto con Schopenhauer - il momento decisivo per il destino del singolo e del­ l'umanità non è quello della morte, bensì quello della generazione: « ciò che è importante non è la lotta della vita con la morte sul letto di morte, quando questa lotta si conclude con la vittoria della morte, bensì la lotta della morte con la vita nel momento dell'accoppiamento, quando questa lotta si conclude con la vittoria della vita. ... Nell'ebbrezza del piacere ci si prende giucco della redenzione » (PE I, p. 216). Il supremo comandamento della verginità appare qualitativamente diverso da tutti gli altri « motivi » che la ragione può proporre alla volontà, in quanto non richiede solo che si lotti contro alcuni aspetti particolari del carattere, ma impone la negazione completa del carattere - per essenza volontà di vita. Ciò non ostante il suo accoglimento ha un fondamento eudemonologico, giacché esso ha a suo fondamento la tesi - già incontrata in Schopenhauer ed in Hartmann - che « il non essere è migliore dell'es­ sere, ... la vita è l'inferno e la dolce, quieta notte della morte assoluta è l'annichilimento di tale inferno » (PE I, p. 216). In questo modo il fine dello sviluppo si raccorda con la morale e si rivela come il suo principio supremo: la forma più alta e più perfetta di felicità accessibile all'uomo è quella rappresentata dal non essere.

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Mainlànder tuttavia ritiene che il supremo imperativo della morale « immanente » debba rendere l'uomo felice da subito, ancor prima che si realizzi la perfetta « felicità » del nulla. Solo così esso può corrispondere pienamente al fine della morale sopra indicato (« indicare il mezzo attra­ verso cui l'uomo può giungere alla completa pace del cuore, alla suprema felicità »). Perché ciò avvenga, non basta allora che le azioni dell'uomo, per essere morali, siano in accordo con quella legge morale: esse devono essere compiute volentieri, soddisfare la volontà (PE I, p. 189). Ora è evidente che coloro ai quali è toccato in sorte un carattere naturalmente inclinato alla compassione ed all'impegno in favore del bene comune, nella misura in cui rispettano le leggi, agiscono a tutti gli effetti moralmente. Il caso è diverso per coloro ai quali è toccato in sorte un carattere diverso e - soprat­ tutto - per l'obbedienza al comandamento della verginità, che è per defi­ nizione in contrasto con qualsiasi carattere comunque configurato. Mainlànder risponde a tale problema affermando la possibilità di una « tra­ sformazione » (Unwandlung) del volere attraverso la conoscenza » (PE I, p. 193): ciò avviene quando la conoscenza per muovere la volontà ad agire non presenta soltanto le conseguenze negative che possono derivare dal sottrarsi alla morale, ma mostra positivamente i « vantaggi » che derivano dall'obbedienza. Così, ad esempio, il cittadino che di malavoglia si sottopo­ ne al servizio militare, entrerà volentieri nell'esercito - e quindi agirà mo­ ralmente - quando avrà saputo vedere che la difesa dello stato è difesa dei propri averi, della propria famiglia, dell'onore del popolo cui appartie­ ne. Parimenti il cittadino che solo per paura delle leggi non si arricchisce a danno degli altri, agirà con giustizia volentieri quando avrà compreso che il dar libero corso alla sua brama di guadagno riporterebbe l'uomo allo stato di natura e, soprattutto, quando saprà scorgere la bellezza di una vita civile in cui tutti si comportino nobilmente (PE I, pp. 190-193). Come si vede si tratta comunque di una « trasformazione » sui generis, assai diversa dalla « conversione » schopenhaueriana alla noluntas, rimanendo tutta al­ l'interno dell'eudemonismo di Mainlànder: l'agire dell'uomo è e resta ego­ istico, ma all'egoismo naturale si sostituisce nella morale un egoismo « ri­ schiarato » (gelàutert) (PE I, p. 193). È quasi superfluo sottolineare che tutto questo non modifica in nulla il quadro deterministico dell'etica di Mainlànder: essendo la ragione una determinazione della volontà, il fatto che essa giunga nel modo che si è detto a « rischiarare » la volontà dipende sempre dalla costituzione della ragione stessa e quindi, in ultima analisi, dalla natura del carattere; anche il processo di « trasformazione » della volontà ha gli stessi caratteri di ne-

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cessila che accompagnano sempre l'agire dell'uomo (PE I, p. 193). In que­ sta prospettiva si comprende come Mainlànder pronunci parole di com­ prensione tanto per i criminali - pure « giustamente » puniti dallo stato (PE I, p. 351 s.) - quanto per coloro che, non reggendo ai dolori della vita, scelgono il suicidio (PE I, p. 349 s.). Lo sviluppo dell'umanità è predeter­ minato ed esso si compirà comunque, servendosi tanto di coloro che agi­ scono moralmente - in forza dell'« egoismo rischiarato » -, quanto di co­ loro che seguono il loro egoismo naturale. Resta il fatto che chi agisce moralmente è più felice e si libererà prima degli altri dal giogo della vita (PE I, p. 217 s.).

3. LA NEGAZIONE DELLA VOLONTÀ DAL PUNTO DI VISTA COSMICO-STORICO.

Si tratta ora di spiegare come la negazione del volere nell'umanità si raccordi con il generale processo di autoannichilimento del mondo. Si è visto nel paragrafo precedente che, dal punto di vista della fisica, il venir meno del mondo potrà realizzarsi solo quando le forze che lo costituiscono si saranno indebolite a sufficienza. Si è anche visto che l'evoluzione del cosmo, lo svilupparsi in esso dei diversi corpi celesti, ha come conseguenza precisamente quell'indebolimento delle forze. Nella stessa ottica va inter­ pretato il sorgere del mondo organico che anzi Mainlànder giudica « la più perfetta forma di mortificazione (Abtòdtung) delle forze » (PE I, p. 329). Quanto più si sale nella scala evolutiva infatti, tanto più forte diviene in ogni essere vivente il contrasto fra la sua destinazione finale - la morte - e la volontà di vita che si manifesta in esso: così mentre nel regno vegetale la volontà di vita è accanto alla volontà di morte (la piante muore ed insieme si riproduce), negli animali essa è prima della volontà di morte, giacché l'animale cerca anzitutto di evitare la morte (PE I, pp. 331-333). Nell'uomo poi la paura della morte - la volontà di vita - si giova dell'aiuto della ragione che sa individuare ed evitare anche i pericoli più lontani. Così nell'uomo la volontà di morte sparisce completamente e può essere recu­ perata, nel modo che si è visto, solo mediante la ragione. L'uomo è però l'unico essere vivente che può scegliere la verginità e quindi è « l'unica idea nel mondo che può raggiungere la morte assoluta se lo vuole » (PE I, p. 334 s.) In ogni essere vivente sussiste quindi in forma più o meno evi­ dente una lotta fra volontà di vita e volontà di morte ed è proprio questa lotta a contribuire più che in ogni altro settore della realtà all'indebolimen­ to delle forze. Ciò è del resto evidente dalla terribile lotta che ogni uomo

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deve sostenere per mantenersi fedele al comandamento della castità. Que­ sto comportamento dunque, che potrebbe apparire come essenzialmente contro natura, è dal punto di vista dello sviluppo complessivo dell'universo perfettamente teleologia): « il filosofo immanente vede in tutto l'universo il più profondo desiderio di un assoluto annichilimento ed è come se udisse chiaramente l'invocazione che risuona in tutte le sfere celesti: Redenzione! Redenzione! Morte alla vita! e la consolante risposta a questa invocazione: voi tutti troverete l'annichilimento e sarete redenti » (PE I, p. 335). Il sorgere della vita organica è per Mainlander un atto irripetibile nella storia del cosmo; così l'uomo può essere sicuro che una volta interrotta la catena delle generazioni che tiene in vita una specie, essa non apparirà più sulla terra (PE I, p. 338). Ora, il cammino storico dell'umanità si conclude provvisoriamente con l'edificazione dello stato ideale; in esso necessaria­ mente la volontà di vita degli uomini sarà molto indebolita e, viceversa, la ragione molto sviluppata; è quindi legittimo pensare che l'umanità ad un dato momento cesserà di esistere 13 . È anche pensabile che a quel livello di sviluppo la vita di tutti gli altri esseri viventi sarà stata così modificata dall'intervento dell'uomo che essi non saranno più in grado di sopravvivere in condizioni « naturali »: la fine dell'umanità comporterà quindi anche la loro fine 14 . Si può quindi affermare che il cammino del mondo è segnato, che il non essere prima o poi è destinato a vincere. Dall'alto di questa certezza Mainlander può guardare con distacco alle vivaci discussioni fra pessimisti ed ottimisti. Le due diverse posizioni dipendono dal diverso livello di svi­ luppo del carattere dei loro sostenitori; infatti « ottimista è quello la cui volontà non è ancora matura per la morte », mentre pessimista « è chi è maturo per la morte ». Tanto l'uno quanto l'altro sono necessarie figure del processo di sviluppo del mondo (colui che vuole la vita contribuisce a « consumare » le forze); così « entrambi [pessimisti ed ottimisti] vogliono la stessa cosa e raggiungono ciò che vogliono; la differenza è solo nel tipo del loro movimento... Così deponete le armi e non lottate più, giacché la vostra lotta è originata da un malinteso; entrambi volete la stessa cosa » (PE I, pp. 347-349).

13 Mainlander avanza quindi l'ipotesi che la morte dell'umanità possa essere origi­ nata oltre che dalla scelta della verginità anche dal « naturale » indebolimento delle forze nel quale si spegnerebbe la volontà di vita (PE I, p. 342). 14 PE I, p. 344. Mainlander non sa invece spiegare come la fine degli organismi viventi influirà sullo sviluppo complessivo del cosmo.

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Mainlànder articola la tesi generale dell'inevitabile corso dell'universo verso la morte anche in una più dettagliata filosofia della storia. Benché affermi che il concetto di umanità - e conscguentemente anche quello di popolo - sia qualcosa d'ideale, cui fa riscontro nella realtà soltanto una molteplicità di singoli individui (PE I, p. 314), egli sviluppa di fatto una rilettura dello sviluppo storico dell'umanità i cui soggetti sono hegeliana­ mente i popoli in quanto costituiti in stati. La storia viene fatta cominciare con la creazione dello stato, già presente fra i popoli primitivi dediti alla caccia (PE I, p. 232). Lo stato peraltro assume contorni più definiti solo con lo sviluppo dell'agricoltura; con lo stato « era raggiunto un solido ter­ reno su cui poteva prendere fissa dimora la civiltà (Civilisation) e comin­ ciare la sua marcia trionfale » (PE I, p. 234). È proprio lo sviluppo della civiltà a dar luogo ad un crescente svilup­ po dello spirito che ha come conseguenza l'indebolimento della volontà. Una quantità sempre maggiore della forza volitiva, che si esplica originaria­ mente nelle funzioni appetitive, viene spostata alle funzioni conoscitive, indebolendo direttamente la volontà; d'altra parte la volontà - sempre in­ tesa nella funzione appetitiva - viene anche indebolita indirettamente dall'accresciuta sensibilità al dolore, che rende meno conveniente la soddisfa­ zione dei desideri, e dal graduale svilupparsi della coscienza della negativi­ tà complessiva dell'esistenza, che mette in discussione l'opportunità di dar corso ai propri desideri (PE I, p. 284). Lo sviluppo della civiltà si svolge secondo « leggi » - Mainlànder, senza pretendere di essere completo, ne enumera ben ventitré (PE I, p. 313). La legge più generale, quella che esprime il carattere essenziale dello sviluppo della civiltà, è la « legge della sofferenza » (Gesetz des Leidens), secondo cui, come si è accennato, il crescere della civiltà comporta un aumento del dolore (PE I, pp. 234 e 242). Un altro carattere fondamentale della civiltà è la sua tendenza espan­ siva, che deriva dal bisogno che ogni stato ha di conservare se stesso: di qui le lotte che sorgono fra i vari stati, il cui esito, chiunque sia il vincitore o lo sconfitto, è sempre un ampliamento del cerchio della civiltà, come dimo­ stra perfino la distruzione dell'impero romano da parte dei barbari (PE I, p. 273). Mainlànder può quindi sostenere che prima o poi la civiltà si estenderà a tutta l'umanità, un traguardo che non gli appare più molto lontano (PE I, p. 293 s.). Ma, accanto alla tendenza all'espansione, la civiltà possiede un altro carattere fondamentale: essa « uccide » (PE I, p. 261). Nell'analisi del cor­ so delle varie civiltà questa tesi fondamentale risulta con maggior chiarezza

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che altrove, giacché ci troviamo « su una cima e vediamo una fine » (PE I, p. 260). Infatti i singoli stati che hanno raggiunto un livello di civiltà eleva­ to, storicamente si sono rivelati incapaci di conservarsi a quel livello. Fra i molti esempi offerti dalla storia Mainlander analizza in particolare il desti­ no dei Persiani, degli Assiri, dei Babilonesi, dei Greci e dei Romani, popoli tutti la cui civiltà, dopo un periodo più o meno lungo di fioritura, per cause diverse è crollata. La civiltà, nella sua essenza, non ha dunque come fine ultimo la realizzazione di un ordine morale definitivo nel mondo - è evi­ dente qui la polemica verso Hegel -, ma la fine della civiltà stessa (PE I, p. 260). Più in generale, se è vero che lo sviluppo della civiltà comporta un indebolimento della volontà e se è vero che indebolire la volontà significa indebolire la vita, è evidente che, anche al livello degli individui, entrare a far parte di una civiltà vuoi dire avvicinarsi alla morte (PE I, p. 314). Alla morte dell'umanità contribuiscono anche le religioni nella misura in cui sostengono la mancanza di valore dell'esistenza e quindi spingono i loro seguaci alla negazione della volontà ed alla fuga dal mondo. Mainlan­ der si sofferma qui in particolare sullo stretto legame sussistente fra le varie religioni e le civiltà in cui vengono a sorgere (PE I, pp. 242-249, 262-268 e 273 s.), benché egli non sostenga che le condizioni sociali in cui esse si sviluppano siano la causa del loro svilupparsi. Una tale ipotesi non potreb­ be infatti dar ragione del sorgere delle religioni che hanno un carattere più o meno « ottimistico » 15 . In generale la lettura della storia universale offerta da Mainlander non presenta caratteri di particolare originalità. Egli ripercorre ordinatamente i vari tipi di organizzazione economica (caccia, allevamento, agricoltura, commercio, schiavitù, servitù della gleba, industria, capitale, commercio mondiale) cui corrispondono le rispettive organizzazioni politiche (fami­ glia, patriarcato, organizzazione sociale in caste, monarchia dispotica, stato greco, repubblica romana, impero romano, stato feudale, stato assoluto, monarchia costituzionale), analisi arricchita da brevi considerazioni dedi15 Mainlander non riesce a trovare una spiegazione generale del sorgere di queste produzioni spirituali antagoniste allo sviluppo generale dell'umanità. Così, per giustifi­ care il politeismo greco e romano - ottimistico - egli fa ricorso alle condizioni geogra­ fiche e climatiche estremamente favorevoli in cui sono nate le civiltà che li hanno pro­ dotti (PE I, pp. 250 e 258). Implicitamente Mainlander sembra distinguere fra quelle religioni che nascono dall'immediato bisogno di ingraziarsi le forze della natura (religio­ ni naturali, politeismo) da quelle che sorgono da una libera riflessione sul senso della vita (brahmanesimó, buddhismo, cristianesimo), e che quindi possiedono un valore spe­ culativo più elevato; non per caso egli considera la filosofia greca come la manifestazione spirituale sostitutiva di una riflessione religiosa più elevata (PE I, p. 254).

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cate all'arte, alle scienze ed alla filosofia, intese come manifestazioni spiri­ tuali - almeno nel passato - complementari alle religioni. Si può quindi rinunciare ad un'esposizione più dettagliata di queste parti dell'opera di Mainlànder per occuparsi dell'interpretazione che egli offre della situa­ zione politico-sociale del suo tempo e delle prospettive future della storia dell'umanità.

4. IL SOCIALISMO DI MAINLÀNDER. Mainlànder ritiene che la sua epoca sia caratterizzata sul piano politi­ co dall'affermazione delle monarchie costituzionali e sul piano economico dal dominio del capitale. Mainlànder non ha dubbi circa il carattere di classe delle monarchie costituzionali; ad esempio in Germania « la seconda camera, che dovrebbe rappresentare il popolo, rappresenta in realtà solo una sua piccola parte, vale a dire la borghesia ricca, giacché è stata intro­ dotta una stretta discriminante di censo, che ha reso di nuovo l'uomo senza mezzi politicamente senza diritti » (PE I, p. 287). Da un punto di vista economico-sociale, la situazione è poi largamente caratterizzata dalla « mi­ seria sociale »: il proletariato soffre sotto « il più gelido ed il più terribile di tutti i tiranni »: il capitale. I suoi bisogni - anche primari - sono continua­ mente lasciati insoddisfatti, la sua vita è continua sofferenza (PE I, p. 287). Nell'ottica della metafisica della volontà ciò significa che il proletariato ha una volontà particolarmente indebolita (tanto è vero che il proletario della città ha un corpo molto più debole del contadino), ma uno spirito estrema­ mente sviluppato; esso è così depositario della missione di produrre l'ulti­ ma e definitiva rivoluzione della storia dell'umanità, rivoluzione che mette­ rà in grado il proletariato e l'umanità tutta di raggiungere la redenzione finale (PE I, p. 288). Tale missione potrà essere realizzata solo attraverso l'organizzazione dei lavoratori; di qui l'adesione entusiastica di Mainlànder al socialismo 16. 16 Dei tre saggi dedicato dalla PE al socialismo (PE II, pp. 275-460) il primo è dedicato al « socialismo teoretico » ed è in sostanza una difesa dei principi più criticati del socialismo: la negazione della proprietà privata ed il « libero amore ». Il secondo si occupa invece del « socialismo pratico » ed è costituito da tre « Discorsi ai lavoratori tedeschi », il primo dei quali è una rievocazione della figura di Ferdinand Lassalle, il secondo ha per oggetto « il compito sociale del presente », il terzo affronta il problema della legittimità della rivolta contro lo stato. L'ultimo saggio - fra l'altro l'ultimo scritto da Mainlànder, concluso meno di un mese prima del suicidio - delinea con ricchezza di particolari lo statuto ed i rituali dell'« Ordine del Graal », un'associazione che dovrebbe

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La condizione politica fondamentale per la realizzazione dello stato socialista è il raggiungimento del suffragio universale 17 . Questo sistema di rappresentanza politica è il migliore che si possa pensare ed è tale da soddisfare interamente le aspirazioni politiche del popolo. Esso even­ tualmente, con il diffondersi dell'educazione, dovrebbe essere esteso an­ che alle assemblee provinciali, a quelle comunali, ed alle corti d'assise (PE I, p. 295 s.). Per quanto riguarda l'aspetto economico della questione sociale, Mainlànder ritiene che si debba giungere ad una conciliazione fra capitale e lavoro 18. Lo sviluppo dell'economia capitalista ha prodotto una crescente avere come fine la preparazione della via per la redenzione dell'umanità. Mentre il primo saggio ed anche le parti del primo volume dedicate al socialismo secondo ogni evidenza sono pensate per lettori presumibilmente contrari al socialismo (per questo motivo Mainlànder si sforza di minimizzare gli effetti dell'ipotetica affermazione del socialismo), i tre discorsi ai lavoratori - oltre che scritti in uno stile molto semplice e diretto - hanno un carattere decisamente più propagandistico, benché Mainlànder pren­ da a più riprese le distanze dagli aspetti più radicali e materialistici dei socialdemocratici dell'epoca. 17 PE I, p. 295. Le proposte politiche di Mainlànder sono nel complesso piuttosto generiche. In particolare nell'avanzare la richiesta del suffragio universale - già concesso da Bismarck nel 1867 per l'elezione dell'assemblea della Confederazione del Nord ed esteso nel 1871 per l'elezione del Reichstag - Mainlànder sembra riferirsi alla situazione interna del regno di Prussia. Altrove egli tuttavia afferma che la questione del suffragio universale può essere considerata risolta favorevolmente una volta per tutte (PE II, p. 399). D'altra parte manca ogni riflessione sui motivi per cui, nonostante il suffragio universale, il Reichstag fosse ben lungi dal potere controllare ed indirizzare la vita poli­ tica del paese. Quanto al partito socialdemocratico nella sua concreta realtà storica e politica - egli evidentemente si riferisce al partito sorto dopo il congresso di unificazione di Gotha (1874) -, Mainlànder da di esso un giudizio pesantemente negativo, conside­ rando le sue posizioni politiche ed ideali un regresso rispetto alle idee di Lassalle, che costituisce l'indiscusso maestro politico di Mainlànder. Egli lamenta in particolare la mancanza di patriottismo del partito ed il suo isolamento politico, in quanto « evitato come la peste e con ragione dagli altri partiti » (PE II, p. 397). Manca peraltro ogni indicazione precisa su una possibile strategia o tattica alternativa. Mainlànder ritiene che non sussista un'antitesi di fondo fra stato e movimento dei lavoratori e crede ferma­ mente nella possibilità di utilizzare lo stato a favore dei lavoratori stessi. Egli morirà prima di poter assistere all'esplodere del conflitto fra Bismarck ed i socialisti, iniziato con la promulgazione delle cosiddette leggi antisocialiste (1878). 18 Mainlànder respinge le proposte di Lassalle di costituire cooperative di lavora­ tori che, con l'appoggio del credito e del capitale statali, avrebbero dovuto consentire ai lavoratori tanto di godere della piena occupazione, quanto di fruire per intero del frutto del loro lavoro (sulle posizioni di Lassalle cfr. Cole 1972, voi. II, 80-98). Mainlànder ritiene che questo piano si tradurrebbe immediatamente in un « suicidio » della borghe­ sia e, dati i rapporti di forza vigenti nello stato tedesco, pretendere questo è assoluta­ mente impossibile (PE II, p. 400).

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concentrazione del capitale, le piccole imprese sono quasi scomparse ed il loro posto è stato preso da grandi società per azioni: è proprio questa spersonalizzazione della proprietà dei mezzi di produzione che indica la via da seguire per giungere all'auspicata conciliazione; i lavoratori devono di­ venire proprietari delle azioni delle imprese in cui lavorano e quindi aver parte agli utili da esse prodotti (PE I, p. 298). Dapprima verrà a prodursi una molteplicità di società per azioni di questo tipo, le quali, per graduali concentrazioni, si fonderanno in società sempre più grandi, per dare origi­ ne alla fine - sembra di capire - ad un'unica grande società per azioni, che verrà di fatto a coincidere con lo stato (PE I, p. 299). Naturalmente Mainlànder non si nasconde che questa operazione comporta di fatto la sottrazione ai capitalisti di una parte delle loro pro­ prietà. Ma ciò, nel contesto di uno stato socialista, risulterà indolore in quanto conseguenza logica dello sviluppo politico-sociale. Già ora, nel­ l'ambito dell'economia capitalista, lo stato amministra una parte dei ca­ pitali dei cittadini, capitali che vengono forniti allo stato attraverso la tassazione; i cittadini sono quindi già in qualche misura azionisti dello stato, che fornisce gli interessi dei capitali che gli sono forniti sotto forma di servizi. Il comunismo non è quindi una novità assoluta, ma semplice­ mente il compiuto sviluppo di una realtà già embrionalmente presente (PE II, p. 280 s.). Con questo tuttavia il problema precedente non è del tutto risolto: perché il capitalista - o più in generale il ricco - dovrebbe rinunciare alla disponibilità del suo denaro a favore della collettività? Mainlànder sostie­ ne che il danaro non ha valore per sé ma unicamente come mezzo per procurare a chi lo possiede - ed alla sua discendenza - la disponibilità dei beni di volta in volta desiderati. La molla principale che spinge dell'accu­ mulazione delle ricchezze è l'incertezza circa il proprio futuro e circa quello dei propri figli: molte ricchezze di fatto vengono immobilizzate per la paura del futuro. In uno stato socialista in cui fosse disponibile una quantità di beni pressoché illimitata ed in cui l'organizzazione sociale garantisse il futuro degli individui e della loro prole, non avrebbe senso l'accumulazione e la proprietà delle ricchezze (PE II, pp. 282 s. e 288291). Quanto ai caratteri generali di questo stato, Mainlànder ripresenta motivi caratteristici del socialismo utopistico. Esso sarà costituito in modo tale che « ogni cittadino abbia parte ai benefici dello stato », cosicché « il bisogno scompaia del tutto dallo stato» (PE I, p. 212). Esisterà un solo stato che abbraccerà tutta l'umanità, facendo cessare guerre o rivoluzioni, il potere non sarà monopolisticamente di una sola classe ma dell'intero

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popolo, grazie al progresso tecnico si ridurrà la fatica del lavoro e anche il tempo che ciascuno dovrà dedicarvi. In esso « ognuno, quando si sveglia al mattino, può dire: il giorno è mio »; « poco lavoro, molti divertimenti: questa è la caratteristica fondamentale della vita nello stato ideale » (PE I, p. 204 s.). Tutte le sofferenze potranno essere eliminate o quanto meno enormemente ridotte: anche la morte sarà un evento che si realizzerà senza sofferenza (PE I, p. 206 s.). Mainlà'nder non dubita che lo stato socialista potrà limitare al minimo il suo apparato repressivo come conse­ guenza della quasi completa sparizione della criminalità (che ha la sua origine nella proprietà privata) e della fine della guerra. Esso potrà orientare così le sue forze produttive in modo da mettere a disposizione tutti i beni richiesti (PE II, p. 292). Mainlànder ritiene che il successo di questa decisiva trasformazione dello stato dipende essenzialmente dal modo in cui essa sarà realizzata. L'espropriazione dei capitalisti deve avvenire gradualmente e soprattutto si deve evitare una trasformazione troppo rapida e violenta - in altri termini si deve evitare una rivoluzione violenta. Ciò può avvenire solo se alla testa del proletariato si porranno esponenti delle classi più elevate. La scelta che costoro compiranno, date le premesse del sistema di Mainlànder, non è qualcosa d'irragionevole, ma è al contrario razionale e « conveniente »: una volta infatti chiarito che dalla soluzione della questione sociale dipende la redenzione dell'intera umanità - e quindi anche la propria e quella dei propri figli -, sarà naturale per tutti i buoni ed i giusti impegnarsi nella soluzione di quella questione (PE I, pp. 300-302). Che tuttavia la realizzazione dello stato socialista possa avvenire senza alcuna violenza è un'ipotesi riguardo alla quale lo stesso Mainlànder nutre forti dubbi. Egli ritiene più probabile che tale sconvolgimento economico divenga realtà nello scontro fra le grandi potenze (PE I, p. 302 s.). Questa tesi si collega strettamente alla violenta opposizione di Mainlànder al « co­ smopolitismo » - noi diremmo internazionalismo - del movimento social­ democratico. Tale atteggiamento, pur giustificato in linea di principio (si è visto che lo stato socialista abbraccerà tutta l'umanità), è allo stadio attuale dello sviluppo storico errato e dannoso per la causa socialista. La storia è storia di popoli in lotta tra di loro e solo da quella lotta può derivare il progresso dell'umanità; di conseguenza « la volontà dell'indivi­ duo che ha a cuore l'intera umanità, deve accendersi alla missione della sua patria... Ciascuno, sulla base del suo cosmopolitismo, deve essere un patriota pronto al sacrificio » (PE I, p. 305 s.). Questo principio si con­ cretizza nell'insistita esortazione ai lavoratori tedeschi a difendere con

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tutte le loro forze il Reich appena costituito, e, in particolare, ad essere dei generosi e valorosi soldati 19. Il nemico per eccellenza della Germania è ovviamente la Francia. La guerra del 1870 deve essere considerata solo come il preludio ad un nuovo e più decisivo scontro, il cui esito sarà deciso dagli ideali che ciascuno dei due stati vorrà difendere. Una delle questioni politiche fondamentali è per Mainlànder la lotta fra stato e chiesa; essa è la trasposizione sul piano politico dello scontro ideale fra religione e filosofia, ovvero fra fede e scienza, uno scontro che si concluderà necessariamente con la vittoria della filosofia. Ora mentre la Germania è paladina della filosofia e della scienza, la Francia sostiene gli interessi della chiesa (PE I, pp. 292 e 303). Se la Francia persevererà in questo suo atteggiamento ed in nome di que­ st'idea farà guerra alla Germania, non v'è da dubitare che la vittoria sarà del popolo tedesco. Ma c'è il rischio che, sulla scorta dell'esperienza della rivoluzione del 1848 e della Comune del 1870, il popolo francese si pre­ senti allo scontro decisivo come sostenitore delle idee socialiste, in oppo­ sizione ad un Reich tedesco difensore del capitalismo. In questo caso l'esi­ to della guerra sarebbe incerto, giacché anche i lavoratori tedeschi avrebbe qualche ragione per non sacrificarsi per la causa nazionale. Bisogna dun­ que che lo stato tedesco, lo stato che ha dato all'umanità tanti pensatori e poeti, si faccia carico anche della soluzione della questione sociale (PE I, pp. 302-304). Quanto finora detto non deve far perdere di vista che comunque il fine ultimo dell'umanità rimane la negazione del volere e che la realizzazio­ ne dello stato socialista è subordinata a tale fine. Così al fondo della que­ stione sociale v'è una questione di educazione (Bildungsfrage): « infatti il problema che essa pone è semplicemente quello di portare tutti gli uomini a quel livello di conoscenza in cui soltanto la vita può essere giudicata correttamente » (PE I, p. 295). La prospettiva francamente edonistica so­ pra delineata (« poco lavoro, molti divertimenti ») viene così corretta od

19 PE II, pp. 391-393. Alla luce di queste idee si comprende il senso degli sforzi compiuti da Mainlànder per prestare il servizio militare. Nel secondo discorso ai lavo­ ratori tedeschi Mainlànder stigmatizza con una violenta invettiva le tendenze internazionalistiche del partito socialdemocratico; chi sostiene l'internazionalismo deve essere « bandito » (PE II, p. 374); il voler togliere ai lavoratori l'amore per la propria patria significa volerli privare di una delle poche ricchezze che essi posseggono (PE II, p. 378 s.); la mancanza di patriottismo deve essere considerata «delitto» (PE II, p. 386). Mainlànder, per parte sua, professa un ardente nazionalismo ed una fede cieca nella missione storica del popolo tedesco (PE II, pp. 387-389).

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almeno integrata da una prospettiva che pone al centro dello stato sociali­ sta il problema dell'innalzamento della cultura (Bildung). Da una parte si tratta di favorire l'educazione in generale, ovvero di costruire uno stato in cui le scuole siano aperte a tutti e tutti, attraverso la riduzione dell'orario di lavoro, abbiano tempo sufficiente per studiare (PE I, p. 297), dall'altra si tratta di favorire indirettamente una giusta valutazione della vita facendo sperimentare a tutti quei beni la cui fruizione è ora limitata ai ricchi, in modo che tutti possano convincersi che neanche in quei beni si può trovare la felicità (PE I, p. 302). Anche in Mainlà'nder quindi, come in Hartmann, il progresso sociale svolge essenzialmente la funzione negativa di eliminare l'illusione che l'in­ felicità della vita umana dipenda dalle condizioni sociali. Infatti, una volta realizzato lo stato socialista, una volta unita l'intera umanità in uno stato ideale, l'uomo non sarà comunque felice e per di più non avrà più nulla da raggiungere e più nulla in cui sperare di trovare la felicità: « tutti i motivi sono gradualmente scomparsi dalla vita dell'umanità: potere, proprietà, fama, onore; tutto ciò a cui i sentimenti la tenevano legata si è dissoluto: l'uomo è fiaccato ». Il suo spirito ora può giudicare correttamente del va­ lore della vita ed il suo cuore è riempito da un solo desiderio: « essere cancellato per sempre dal libro della vita. E la volontà raggiunge il suo fine: l'assoluta morte » (PE I, p. 311): « Come tutti, nel momento del trapasso, tremeranno beati: sono rendenti, redenti per sempre! » (PE I, p. 315).

PARTE TERZA

LA DISCUSSIONE SUL PESSIMISMO NEGLI ANNI SETTANTA-OTTANTA

14. LA PRESENZA DELLA FILOSOFIA DI SCHOPENHAUER

1. LA FILOSOFIA DI SCHOPENHAUER NEGLI ANNI DELLA DISCUSSIONE SUL PES­ SIMISMO. A parte gli sviluppi più o meno originali offerti da qualche « discepo­ lo » diretto o indiretto di Schopenhauer, nei contributi di coloro che si consideravano semplicemente critici o interpreti autentici della filosofia del « saggio di Francoforte », negli anni settanta-ottanta si constata una sorta di consolidamento delle posizioni elaborate nel decennio precedente: il giudizio storico sul pensiero di Schopenhauer è ormai abbastanza definito e la sua figura, nel bene o nel male, è ormai entrata a far parte della costel­ lazione dei « classici ». I giudizi critici sulla sua filosofia vengono regolar­ mente ripetuti, ma in generale il tono polemico è meno acceso: come s'è detto, l'epicentro della battaglia contro il pessimismo si è ormai spostato su Hartmann. Questo vale in primo luogo per il tema del legame fra l'uomo Scho­ penhauer e la sua filosofia. Bona Meyer ad esempio, dopo aver ammonito, che non bisogna scambiare la cornice con il quadro (la vita di un filosofo con la sua filosofia), ribadisce che la vita di Schopenhauer è la chiave del suo pensiero ed espone la sua filosofia seguendone la biografia 1 . Frommann dedica più di un terzo del suo scritto su Schopenhauer alla biografia del filosofo (Frommann 1872, pp. 1-30). Paulsen tratta della vita di Scho1 Meyer 1872, p. 3. Jùrgen Bona Meyer (1829-1897), dopo aver studiato medicina a Bonn e filosofia a Berlino con Trendelenburg, insegnò dal 1868 a Bonn, dove parte­ cipò attivamente alla vita politica e culturale, opponendosi in particolare al cattolicesimo ultramontano. Fu uno degli autori che contribuì in modo più decisivo alla rinascita del kantismo (cfr. Kòhnke 1986, pp. 175-163 e passim).

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penhauer per circa metà del suo saggio (Paulsen 1882, pp. 1-45). La posi­ zione-limite è rappresentata da Mehring e Kautsky, per i quali la vita di Schopenhauer è la determinante sociologica della sua filosofia (Mehring 1888, pp. 177-181; Kautsky 1888, pp. 156-201). Tuttavia questo insistito richiamarsi alla biografia del filosofo rara­ mente assume i toni del decennio precedente; in generale si manifesta una maggiore comprensione e in qualche caso anche simpatia per il « saggio di Francoforte ». Meyer, benché non manchi di riprendere i soliti motivi della naturale disposizione melanconica del carattere di Schopenhauer, del suo antipatriottismo, del suo egoismo, riconosce che in ogni caso si tratta di una personalità originale ed unitaria, che può anche in qualche misura suscitare attrazione (Meyer giunge perfino a giustificare parzialmente l'odio di Schopenhauer per i professori di filosofia!) (Meyer 1872, pp. 3, 16, 49 s.). Per Frommann Schopenhauer non è certo un personaggio sim­ patico, ma prima di giudicare bisogna comprendere la sua sofferenza, la sua solitudine, il suo essere ignorato, mentre altre persone, certamente di minor valore, occupavano le cattedre universitarie (Frommann 1872, p. 3). Dùhring manifesta in generale simpatia per l'uomo Schopenhauer, cui si sente accomuno dall'opposizione alla filosofia ufficiale; egli infatti « è stato il primo che ha attaccato gli idoli che fino ad allora in Germania si erano fatti passare per grandi filosofi » 2. La presentazione più favorevole è senz'altro quella di Paulsen che insiste sulla sincerità di Schopenhauer, sulla sua autentica sensibilità per il dolore del mondo, sull'intrinseca e dolorosa scissione del suo carattere, capace di sprofondarsi nelle « ore beate » della riflessione filosofica, ma incapace d'innalzarsi alla virtù, per questo motivo così ammirata da Schopenhauer; insomma nell'uomo Scho­ penhauer c'è in tutta la sua sincerità e drammaticità lo scontro fra la volon­ tà e la rappresentazione, « il tema fondamentale di tutta la sua filosofia » 3 . 2 Dùhring 1873, pp. 460 e 489 s. Peraltro in WL non mancano valutazioni più negative di Schopenhauer; ad es. si afferma che la diffusione della filosofia schopenhaueriana è stata frenata dalla ripulsione e dallo sdegno - quf implicitamente considerati giustificati - suscitati dalla conoscenza del suo carattere e della sua personalità (WL, p. 2). Su Schopenhauer cfr. anche Dùhring 1865b e 1866. 3 Paulsen 1882, pp. 44 s., 51-53. Un atteggiamento invece che ricorda le astiose biografie del decennio precedente è presente in Dippel 1884, p. 15 s. (Schopenhauer non era un genio, ma solo una natura infelice ed angosciata, che addirittura si vergogna­ va di essere tedesco) (Joseph Dippel [1840-1915], sacerdote cattolico, fu professore di filosofia a Freising). Sull'atteggiamento di Nietzsche, che rovescia sostanzialmente le posizioni tradizionali, facendo della biografia di Schopenhauer l'aspetto filosoficamente più rilevante, cfr. sotto.

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La ripresa del tema della biografia di Schopenhauer assume un ca­ rattere del tutto particolare negli interventi di Kautsky e Mehring, en­ trambi pubblicati nel 1888, anno del centenario della nascita di Scho­ penhauer. Essi mettono capo ad una condanna non morale ma (preva­ lentemente) politica della vita di Schopenhauer, che si sintetizza nella formula del fìlosofo-j-f/z//^, ripresa con grande successo da Lukacs. In particolare Kautsky, che si impegna in una dettagliata analisi della vita di Schopenhauer, riconduce dapprima il « saggio di Francoforte » alla clas­ sica categoria del « filisteismo » tedesco, espressione della piccola bor­ ghesia, per poi collocarlo su posizioni ancor più arretrate, qualificandolo come prodotto dello spirito della Santa Alleanza e dei circoli berlinesi awersari della Rivoluzione francese. Kautsky riconosce d'altra parte la presenza in Schopenhauer di una forte critica verso la piccola borghesia; egli infatti sa vedere quali sono i limiti del gruppo sociale cui pure ap­ partiene, ma è troppo pavido per impegnarsi nello sforzo di cambiare questo stato di cose: il genio - e tutto il pubblico che trova conforto nei suoi scritti (specialmente le donne) - non deve far altro che piangere sul dolore del mondo e « riscuotere la sua rendita, se ce l'ha ». Questo te­ nace attaccamento alla rendita è poi doppiamente significativo: da una parte mostra il distacco di Schopenhauer da un mondo che gradualmen­ te stava scoprendo il valore del lavoro (Schopenhauer invece di aver fi­ ducia in se stesso, aveva fiducia nel lavoro degli altri), dall'altra è anche indice del distacco da quegli strati della piccola borghesia che quanto meno trovavano accettabile un impiego statale. Inevitabile quindi il suo atteggiamento politico reazionario di fronte alla rivoluzione del 1848, ine­ vitabili il suo assolutismo, il suo antisemitismo, la sua ostilità - natural­ mente giustificata filosoficamente - perfino per coloro che portavano la barba 4 . Mehring è più sbrigativo-circa le vicende biografiche di Scho­ penhauer, ma stigmatizza non meno duramente la sua opposizione all'he­ gelismo in quanto strumento ideologico della rivoluzione, il suo atteggia­ mento politico reazionario durante il 1848, il suo odio per il popolo, per gli ebrei, per le donne, insomma per tutti coloro che si opponevano all'ingiu-

4 Kautsky 1888, pp. 67 s., 72 s., 76-78. Kautsky (1854-1938) non manca peraltro di sottolineare alcuni aspetti specificamente riprovevoli dell'uomo Schopenhauer: ad esempio il suo rifiuto di confrontarsi con personalità intellettuali di pari livello, le sue fobie, la credenza nello spiritismo e nei sogni, la vanagloria, la tendenza a sopravvalutare coloro che lodavano la sua filosofia etc.

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sto ordine sociale; la conclusione è così la stessa: egli ha vissuto « una miserevole esistenza di Filisteo » 5 . Anche la letteratura concernente la filosofia di Schopenhauer ricalca sostanzialmente le posizioni del decennio precedente. Per Meyer e Gass Schopenhauer, pur avendo utilizzato materiale proveniente da vari filosofi, lo ha riplasmato in modo tale da dare luogo ad un'unità originale; è poi suo merito indiscutibile l'aver favorito il ritorno Kant (Meyer 1872, pp. 23 e 53; Gass 1876, p. 210); per Weygoldt viceversa Schopenhauer è un eclettico che ha fallito nel tentativo di unire fra loro Fiatone e Kant, dando luogo ad una filosofia gnostica che è estranea ad entrambi (Weygoldt 1875, p. 53 s.); anche per Dippel la filosofia di Schopenhauer è in sé disarmonica, benché sussista in essa una certa unità di Stimmung (Dippel 1884, p. 22 s.). Per Rehmke invece essa è « la più alta opera di funambolismo metafisico » (Rehmke 1882, p. 37). Oltre alla consueta contrapposizione alla filosofia di Hegel (Golther 1878, pp. 6 e 55), viene ancora sottolineato il tendenziale empirismo di Schopenhauer, che ha contribuito alla sua fortuna in un'epo­ ca avversa alla speculazione, e riappare la solita accusa di cripto-materiali­ smo (Harms 1874, p. 7; Golther, Weygoldt). Molti di questi elementi - ma combinati in un sintesi relativamente originale - si ritrovano nella presentazione del pensiero di Schopenhauer offerta da Dùhring nella sua Storia della filosofia. Dùhring ritiene che Scho­ penhauer, nonostante il suo idealismo che deriva da Kant e che è in lui ulteriormente esasperato - il mondo è ridotto a sogno (Dùhring 1873, pp. 463-465) -, condivida con l'epoca presente l'avversione alla metafisica e sia, almeno tendenzìalmente, un empirista (ibid., p. 478 s.). Scho­ penhauer però non rinuncia a riempire il posto lasciato libero dalla meta­ fisica con « un "sistema privato" (Privat-system) mistico, che certamente non può avere per nessuno cogenza razionale » (ibid., p. 457): non si può infatti sostenere che la volontà sia il principio del mondo, per quanto que­ sta tesi sia pur sempre preferibile al modello idealistico che pone alla base del mondo l'idea (ibid., p. 467), né si può dare alcun credito alla distinzio­ ne fra carattere empirico e carattere intelligibile e alla dottrina della libertà ad essa collegata (ibid., p. 471). Per quanto ateo, Schopenhauer è comun-

5 Mehring 1888, pp. 179-181. Mehring (1846-1919) è tornato su Schopenhauer in un saggio del 1908, polemicamente intitolato Zurùck auf Schopenhauer. di fronte al rie­ mergente nebbioso gergo hegeliano e al confuso neokantismo « perfino l'appello: "ritor­ nare a Schopenhauer!" suona quasi come uno squillo di tromba rivoluzionario» (Mehring 1908, p. 187).

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que una personalità religiosa e ripropone un atteggiamento verso la religio­ ne paragonabile a quello di Feuerbach (ibid., p. 480). Ciò è provato dal largo spazio concesso alla mistica, che si manifesta ad esempio nell'ipotesi dell'esistenza di una realtà che stia dietro alla volontà e nella concezione della realtà come caduta e colpa (ibid., pp. 472 e 476). Una relativa novità è rappresentata dai ripetuti tentativi d'individuare una certa convergenza fra Schopenhauer e Darwin, operazione che va vista come uno sforzo di rendere attuale il pensiero di Schopenhauer. Dopo un saggio piuttosto interlocutorio di Herrig, Du Mont - il « discepolo » di Bahnsen - reinterpreta non senza ambiguità alcuni aspetti della dottrina di Darwin alla luce di Schopenhauer (la volontà è chiamata in causa per spie­ gare con una sorta di finalismo inconscio i vari processi selettivi - l'accop­ piamento fra gli individui più forti, l'adattamento e l'ereditarietà) e ne uti­ lizza altri a conferma della filosofia di Schopenhauer (l'accordo di ontoge­ nesi e filogenesi proverebbe il carattere secondario dell'intelletto, la lotta per l'esistenza l'intrinseca scissione della volontà) (Du Mont 1876, pp. 6972). Stieglitz infine si sforza di disegnare una filosofia della storia alterna­ tiva a quella hegeliana servendosi di Darwin per quanto concerne lo svilup­ po degli esseri viventi fino all'uomo e di Schopenhauer per quanto concer­ ne il progresso culturale che si realizza attraverso la graduale affermazione della morale, ovvero attraverso il superamento dell'egoismo (Stieglitz 1881). In questi scritti si manifesta comunque più l'intenzione di offrire una lettura di Schopenhauer il più possibile laica - quando non esplicita­ mente antireligiosa - che l'impegno ad un accurato confronto con Darwin, da cui, come osserva Kautsky, sarebbe risultata evidente la difficoltà di vedere in Schopenhauer - ancora marcatamente influenzato dalla Naturphilosophie - un vero precursore dell'evoluzionismo 6. In ogni caso il successo di Schopenhauer è un dato acquisito e parimenti acquisita è la convinzione che, a fronte della debolezza sistematica del suo pensiero, esso sia dovuto a componenti filosoficamente marginali, quali il suo bello stile, la sua capacità di penetrazione psicologica 7 . 6 Kautsky 1888, p. 107 s. Egli sottolinea in generale l'arretratezza scientifica del pensiero di Schopenhauer. Come esempi d'interpretazioni di Schopenhauer ateistiche e antireligiose vanno citati l'Anonimo 1879 (la filosofia di Schopenhauer è un ottimo mezzo per combattere la fede) e Hermann 1877 (nel quadro di una lettura materialistica di Schopenhauer sostiene che la sua filosofia potrà divenire la religione del popolo sostituendosi al cristianesimo). 7 Cfr. ad es. Harms 1874, p. 7 s. (Friedrich Harms [1819-1880], influenzato in particolare da Fichte, professore a Berlino dal 1867, si mostra particolarmente ostile a

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Si viene così affermando quell'immagine di Schopenhauer che sostan­ zialmente si è conservata fino ai nostri giorni, immagine che ha tratto gio­ vamento dal sempre più diffuso discredito in cui sono caduti i « sistemi » filosofici; le famose « contraddizioni » del pensiero di Schopenhauer non sono apparse gradualmente più come un titolo di particolare demerito. Testimonianza importante dell'avviarsi di questo processo è un saggio di Karl Hillebrand che, prendendo spunto dalla terza Inattuale di Nietzsche, cerca di giungere ad una conciliazione fra questi aspetti contrastanti della « fortuna » di Schopenhauer. La permanente ostilità dei dotti pare a Hille­ brand ingiustificata: non è giusto condannare interamente un autore per­ ché non si è d'accordo con la sua metafisica, che non può mai essere qual­ cosa d'indiscutibile come la meccanica e che comunque è sempre questio­ ne che interessa un numero limitato di persone. Una tale ostilità è tanto più ingiustificata in quanto nessuno può mettere in dubbio la vastità e la pro­ fondità delle conoscenze filosofiche, scientifiche e letterarie di Scho­ penhauer e la profondità della sua riflessione. Si tratta allora di riconoscere la grandezza di Schopenhauer anche se si è in dissenso con la sua filosofia, prendendo a modello l'equanimità degli stranieri: ad esempio in Francia i materialisti, che dissentono quasi in tutto da Cartesio o da Pascal, si guar­ dano bene dal metterne in discussione l'importanza. Soprattutto si tratta di apprezzare la grandezza di Schopenhauer come scrittore e moralista: ora finalmente i tedeschi hanno il loro Montaigne e forse non è lontano il tempo in cui le sue opinioni sugli uomini e sulle cose saranno messe nelle biblioteche tedesche accanto a quelle di Goethe e Lessing, come in Francia Montaigne è posto vicino a Molière e Racine 8. La continuità con la letteratura critica del decennio precedente risulta particolarmente evidente nelle obiezioni rivolte alle singole dottrine della metafisica schopenhauerìana. Così, in riferimento alla tesi centrale del­ l'identificazione dell'essenza del mondo con la volontà, si ripropongono

Schopenhauer: il suo successo infatti dipende dal fatto che il pubblico non sa nulla della storia della filosofia e « ancor meno ha familiarità con l'arte del pensiero logico » [p. 4]); cfr. anche Busch 1878, p. 191. 8 Hillebrand 1874. Karl Hillebrand (1829-1884), figlio di Joseph Hillebrand che si era a suo tempo già occupato di Schopenhauer, partecipò alla rivoluzione del 1848 e fu condannato a morte. Segretario dì Heine e grande appassionato dell'Italia, visse dal 1871 a Firenze, avendo ormai abbandonato le precedenti idee rivoluzionarie ed essen­ dosi spostato su posizioni filoprussiane. In questa prospettiva si comprende come in questo stesso saggio egli prenda le distanze dalla critica di Schopenhauer ad Hegel, che considera come un'inaccettabile critica complessiva alla deutsche Bildung.

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l'accusa di antropomorfismo e le perplessità circa l'estensione analogica del concetto psicologico della volontà all'intera realtà, estensione considerata epistemologicamente infeconda 9. Accanto a queste obiezioni si ripropone inevitabilmente l'accusa di un'ingiustificata reintroduzione del finalismo che contraddice l'irrazionali­ tà del fondamento del mondo ovvero, se ci si pone da un punto di vista teistico, l'ateismo di Schopenhauer. In tale quadro risulta poi inspiegabile il sorgere della razionalità e ancor meno la possibilità che tale razionalità nell'uomo giunga a dominare la volontà stessa 10. Molto criticata è anche naturalmente la dottrina della negazione del volere. Essa appare a Meyer assurda, perché prefigura un principio assoluto che nega la sua essenza nell'occasione Meyer esprime un giudizio particolarmente severo sulla filo­ sofia di Schopenhauer: « questa visione del mondo inizia e termina con pure assurdità ». Per Duboc essa è un volere non volere, un « affermare una negazione, ovvero un porre qualcosa che toglie se stesso ». Altri autori

9 Oltre a Dùhring, cfr. Harms 1874, p. 13 s. (la filosofia di Schopenhauer è un antropologismo generalizzato); Meyer 1872, p. 38 (l'estensione analogica al mondo non spiega niente; si potrebbe con lo stesso diritto utilizzare i termini Kraft o Trieb); Golther 1878, pp. 11 e 17 (siccome la volontà ci è nella sua essenza sconosciuta, dire che il mondo è volontà - il che è comunque un « salto mortale » - non fa compiere alcun progresso); Rehmke 1882, p. 32 s. (l'estensione a tutta la realtà di un concetto psicolo­ gico è una « mistificazione »; in ogni modo vedere nel volere irrazionale il fondamento del mondo è « ripugnante »); Kautsky 1888, p. 98 (la metafisica di Schopenhauer non fa progredire in uno jota nella comprensione della realtà; l'unico « vantaggio » che da essa si può ricavare è quello di conservare una « porticina » da cui reintrodurre il concetto di Dio); Trautz 1876, p. 11 s. (il tentativo di Schopenhauer di fondare la sua metafisica sull'immediatezza è già stato compiuto senza esiti positivi da molti altri; Theodor Trautz fu un pastore evangelico del Baden, di cui null'altro è noto); Grùn 1876, p. 49 s. (que­ st'autore segue da vicino nella sua esposizione la critica di Noack, peraltro citando continuamente la sua fonte). 10 Harms 1874, pp. 20 e 26 (riconosce la novità teorica del volontarismo di Scho­ penhauer, ma lo trova inconciliabile con la cosmogonia che ne vien fatta derivare, che ha caratteri molto simili al tradizionale creazionismo); Golther 1878, p. 13 s. (trova una contraddizione nel fatto che la volontà sappia creare un mondo finalisticamente organiz­ zato, ma non sappia vedere che un tal mondo sarebbe meglio non esistesse); Weygoldt 1875, p. 38 s. (il logico non può derivare dall'illogico); Dippel 1884, pp. 31-33 (non ci può essere teleologia là dove non c'è Dio; la filosofia di Schopenhauer si risolve in naturalismo); Schwabe 1887, pp. 14 e 29 s. (l'autore, che raffrontando fra loro Fichte e Schopenhauer, assume un atteggiamento di sostanziale equidistanza, osserva che alla volontà di Schopenhauer, che pur non si configura come volontà razionale al modo di Fichte, è attribuita incoerentemente la capacità di dar luogo ad un mondo relativamente razionale e addirittura con un significato morale; rimane poi inspiegabile come l'intellet­ to possa innalzarsi al di sopra della volontà).

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osservano che la dottrina schopenhaueriana della negazione del volere possiede solo un valore fenomenico, come fenomenici sono gli individui che ne sono protagonisti, e che quindi essa non è in grado di elevarsi a principio cosmico. Conseguentemente Schopenhauer - e non diversamen­ te da lui Hartmann - non dispone di solidi argomenti per condannare il suicidio, che è la via più semplice per sottrarsi al dolore dell'esistenza n . Le difficoltà che si presentano nella negazione del volere vengono fatte risalire all'incerto statuto dell'individuo e, più in generale, alle oscillazioni fra ide­ alismo soggettivo e idealismo oggettivo o addirittura realismo che si mani­ festano specialmente nella dottrina delle idee. Su un piano più metafisico si sottolinea poi come in Schopenhauer resti irrisolto il problema della derivazione del molteplice dall'unità della volontà 12. Queste critiche si collegano spesso ad una sottolineatura dell'antino­ mia rappresentata dal cosiddetto « circolo di Zeller », che per qualche autore può essere risolto solo in senso materialistico 13 . A prescindere da quegli autori che in un modo o nell'altro si possono considerare discepoli di Schopenhauer (o di Hartmann) e che ovviamente danno un giudizio antitetico del pensiero fondamentale della filosofia di Schopenhauer, l'unico filosofo di un certo rilievo che in questi anni si di­ chiara apertamente favorevole alla dottrina della volontà è Paulsen 14 . Per

11 Meyer 1872, p. 46; Duboc 1889, voi. I, p. 94; Weygoldt 1875, p. 46 s. (sottolinea come in ogni caso la negazione del volere non è in grado di far cessare di esistere la materia); Gass 1876, p. 213 (Wilhelm Gass [1813-1889] fu autore di un'importante storia della morale); Rehmke 1882, p. 43 s.; Golther 1878, p. 44 (nota come l'insufficien­ za metafisica del principio schopenhaueriano sia empiricamente provato dal fatto che, secondo lo stesso Schopenhauer, sono già esistiti degli asceti che hanno negato il mon­ do, che pure continua a sussistere) (Ludwig Golther [1823-1876], uomo politico del Wùrtemberg durante la rivoluzione del 1848, protestante - da ultimo fu presidente del concistoro del Wùrtemberg -, fu negli anni sessanta promotore di un concordato che limitava le pretese della chiesa cattolica. Fu allievo ed amico di Vischer, che curò la pubblicazione postuma di questo scritto). 12 Sulla teoria delle idee: Weygoldt 1875, p. 40; Golther 1878, p. 19; Dippel 1884, p. 32. Sul problema della derivazione del molteplice dall'uno: Meyer 1872, p. 40 s.; Zange 1872, p. 190 s.; Rehmke 1882, p. 36. 13 Harms 1874, p. 15 (Schopenhauer sostiene un idealismo sofistico); Weygoldt 1875, p. 34; Trautz 1876, p. 10; Golther 1878, p. 15 (la gnoseologia di Schopenhauer è materialistica e comunque contiene «grelle Widersprùche »); Dorner 1881, p. 8. Sulla posizione di Deussen cfr. più oltre. 14 Friedrich Paulsen (1846-1908), variamente influenzato da Spinoza, Fechner, Wundt e, naturalmente dal Schopenhauer (il termine « volontarismo » sembra sia stato da lui introdotto), professore a Berlino dal 1875 (ordinario dal 1893), fu autore di parecchie opere che ottennero una larga popolarità. La positiva valutazione della filoso-

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questo autore, con il suo « volontarismo » Schopenhauer « si pone nella serie di coloro che hanno arricchito l'umanità di un nuovo grande pensie­ ro » ed è quindi sbagliato liquidare questa prospettiva come « un modo di vedere individuale ». Paulsen riconosce senz'altro l'origine psicologica del­ la metafisica schopenhaueriana (si tratta di una « ben fondata generalizza­ zione della psicologia »), ma ciò, più che un limite della posizione di Scho­ penhauer, pone in luce in suo ulteriore grande merito: « io credo che verrà un tempo in cui la storiografia della psicologia farà cominciare con Scho­ penhauer una nuova epoca ». Schopenhauer ha infatti posto fine in psico­ logia al vecchio intellettualismo ancora sostenuto da Herbart e in ciò ha trovato un forte alleato nel darwinismo, che ha mostrato in modo inconfu­ tabile la prevalenza dell'aspetto volitivo - e quindi la secondarietà dell'intel­ letto - nei gradi più bassi della vita animale, da cui l'uomo stesso discende. La continuità mostrata dall'evoluzionismo fra gli esseri viventi giusti­ fica d'altra parte l'estensione a tutta la realtà del concetto di volontà; natu­ ralmente in questa sua applicazione generalizzata il concetto di volontà è allargato e reso indeterminato, ma questo non toglie valore a questa « intui­ zione concreta »: essa in definitiva vuoi solo dire che noi dobbiamo pensa­ re i processi animali come qualcosa di analogo a ciò che sperimentiamo in noi stessi come volontà, tenendo conto naturalmente che si tratta di un'ap­ prossimazione, come approssimata è la conoscenza che noi abbiamo di ciò che si suppone eguale in un altro uomo, in un'altra razza, in un altro po­ polo, in un'altra classe, nell'altro sesso. È dunque legittimo fare uso del termine volontà, tenendo conto che « la parola indica... più la dirczione in cui ricerchiamo, piuttosto che un contenuto determinato, concretamente rappresentato » 15 .

2. SCHOPENHAUER « PHILOSOPHUS CHRISTIANISSIMUS »: DEUSSEN ED HERRIG. Si è visto che fin dall'inizio non sono mancate interpretazioni religiose di Schopenhauer: tale filone interpretativo si ripropone anche in questi

fia di Schopenhauer non ha per Paulsen solo un significato storico: egli infatti fa del volontarismo e della fondazione psicologica della metafisica un caposaldo del suo siste­ ma: cfr. Paulsen, 1903, p. 402. Sui rapporti della filosofia di Paulsen con Schopenhauer cfr. Fritsch 1910. 15 Paulsen 1882, pp. 72-79. Paulsen è uno dei pochi autori ottocenteschi che svi­ luppa un'interpretazione non speculativa della filosofia di Schopenhauer.

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anni ed ha in Deussen il suo esponente più lucido ed influente 16. Deussen inquadra la filosofia di Schopenhauer nella sua interpretazione dello svi­ luppo complessivo della riflessione fìlosofica e religiosa (includendo anche il mondo orientale): egli sostiene « il punto di vista della conciliazione delle opposizioni », secondo cui il pensiero, nonostante errori ed oscillazioni, è giunto ormai ad un sostanziale accordo che assume la forma di un « cri­ stianesimo rigenerato ed edificato su un fondamento inattaccabile scienti­ ficamente »; tale fondamento è precisamente costituito dalla filosofia di Schopenhauer 17 . Nell'accostarsi alla filosofia di Schopenhauer Deussen sottolinea in modo marcatissimo la separazione fra il mondo fenomenico e il mondo dell'in sé, che si sottrae a qualsiasi possibilità di conoscenza: ogni tentativo di esprimerne il contenuto mediante le categorie del fenomenico va incon­ tro inevitabilmente ad insanabili contraddizioni. Dell'in sé si può avere solo una conoscenza negativa, nel senso che si può dire con certezza solo che ad essp non toccano le determinazioni caratteristiche del mondo feno­ menico: tempo, spazio, molteplicità (in quanto presuppone lo spazio, ed il tempo), causalità (l'in sé è dunque libero): « le forme congenite del nostro intelletto ci fanno apparire la volontà come mondo; e quindi noi, non po­ tendo liberarci di esse, siamo in grado di formulare solo delle asserzioni 16 Paul Deussen (1845-1919), compagno di scuola di Nietzsche e Pforta, del quale rimarrà sempre amico, si abilita a Berlino nel 1871; precettore di una famiglia russa a Ginevra, vi tiene nel 1872/73 un corso su Schopenhauer, cui arride grande successo. Questo corso, pubblicato per la prima volta nel 1877 con il titolo generico di Die Eiemente der Metaphysik (Deussen 1877), è nella sostanza una monografia su Scho­ penhauer, benché abbastanza paradossalmente il nome del filosofo non appaia quasi mai in esso (il contenuto di questo volume è riproposto pressoché integralmente come esposizione del pensiero di Schopenhauer nella corrispondente parte della sua storia della filosofia [Deussen 1874, voi. II, 3, pp. 370-586]). Nonostante le difficoltà frapposte dalle autorità per la sua adesione al pensiero di Schopenhauer (cfr. Deussen 1922, p. 182 s.), dal 1880 Deussen insegna a Berlino e dal 1889 è professore ordinario di filosofia a Kiel. In questi anni Deussen si dedica intensamente allo studio della filosofia indiana, pubblicando importanti studi e traduzioni, non trascurando tuttavia lo studio della Bib­ bia, indagini compiute sempre con rigore filologico e sostenute da un profondo sentire religioso. Nel 1911, con Arthur Gwinner e Josef Kohler fonda la « Schopenhauer-GeselIschaft », di cui rimane presidente fino alla morte e dal 1911 da corso alla pubblicazione dell'edizione critica degli scritti di Schopenhauer, purtroppo rimasta incompiuta (Scho­ penhauer D). Abbastanza curiosamente Deussen non sembra si sia mai occupato di Hartmann, né citandolo nelle sue opere, né recensendo qualcuno dei suoi scritti. Sulla sua personalità, oltre all'autobiografia cfr. Mockrauer 1920. 17 Deussen 1877, p. VI s.; non per caso Deussen 1894 si conclude con la citata esposizione della filosofìa di Schopenhauer.

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negative intorno alla volontà, che, come cosa in sé, giace fuori di esse » (ibid., p. 107 s.). Positivamente tale conoscenza può essere riempita solo mediante immagini e miti. Così, mentre in Schopenhauer la natura dell'in sé viene in qualche modo determinata a partire dalla natura del suo fenomenizzarsi (l'esperienza intcriore e la considerazione della realtà esterna nel suo complesso conducono alla conclusione che l'in sé deve essere pen­ sato come qualcosa di simile alla volontà dell'uomo), in Deussen essa viene senz'altro identificata con il modo d'essere della volontà nella sua condizio­ ne di negazione e come tale - si potrebbe dire - qualitativamente contrap­ posta al mondo fenomenico, per quanto del tutto inattingibile. Questo modo d'essere radicalmente diverso della volontà è attestato soprattutto dall'agire morale, ma Deussen, riprendendo Schopenhauer, ri­ tiene che alla sua esistenza si possa giungere anche a partire dal concetto stesso di volontà che, se può volere, deve anche potere non volere (per cautelarsi verso le difficoltà implicite nel concetto di una volontà che non vuole, Deussen affianca come sinonimi al concetto di negazione della vo­ lontà quelli di « divinità », « Brahman », « cosa in sé ») 18. La negazione dell'esistenza di una temporalità nell'in sé (Schopenhauer, non cogliendo fino in fondo le implicazioni del suo fenomenismo, ha erroneamente par­ lato di una volontà che « prima » vuole e « poi » cessa di volere), conduce al paradosso di una volontà che insieme sempre vuole e sempre non vuole, di una « caduta » della volontà che è un eterno e continuo passaggio dal non-volere al volere e viceversa. Si tratta di un tipico problema che sfugge alle possibilità di comprensione umane e può essere « chiarito » solo nel­ l'ambito di un discorso dichiaratamente mitologico: « E allora, non in un tempo determinato, ma in un'eternità di passato, di oggi e sempre nei secoli futuri, come l'offuscarsi appena percepibile del chiarore del ciclo, si formò nella beatitudine della negazione pura, libera di dolore e di volere, un'an­ goscia morbosa, una tendenza peccaminosa: l'affermazione della volontà di vivere. In essa e per essa si afferma lo sterminato esercito di tutti i peccati e di tutti i dolori, dei quali l'infinito mondo è rivelatore » (ibid., p. Ili s.). Questo modo di vedere costituisce la chiave di volta dell'interpretazione religiosa di Schopenhauer, perché consente una lettura radicalmente dualistica della filosofia di Schopenhauer, in cui al « regno dell'affermazio­ ne » si contrappone il « regno della negazione », all'ordine fisico l'ordine 18 Ibid., p. 110 s. È interessante notare che Deussen è piuttosto evasivo riguardo al discusso procedimento mediante il quale Schopenhauer giunge ad identificare la vo­ lontà con la cosa in sé.

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metafisico, ovvero, in termini più tradizionali, alla negatività del mondo si contrappone la positività di Dio, che peraltro secondo Deussen è la cosa ed il nome più oscuro (ibid., pp. 249 s. e 267). Deussen per altri versi sottolinea'con forza la realtà degli individui (« l'individualità è una modalità fissa e innata della volontà »), e sostiene esplicitamente l'immortalità dell'anima individuale, benché i rapporti de­ gli individui con l'unità della volontà - come avviene anche per il moltepli­ ce mondo delle idee - risultino naturalmente incomprensibili: « Come possa l'unità, o per meglio dire la non-pluralità dell'essere in sé, accordarsi con la varietà del mondo fenomenico dovuto ad esso, e come sia possibile la pluralità delle idee, sono questioni trascendenti, che oltrepassano la nostra facoltà di comprensione. Per noi, unità e pluralità sono due oppo­ sti; per la cosa in sé, esse scompaiono, e scompare quindi anche la loro contraddittorietà » 19 . La piena realtà attribuita agli individui apre lo spazio per un'articola­ ta discussione della morale, in cui di nuovo il dualismo fra fenomeno e in sé svolge un ruolo molto importante. Deussen riprende la tesi schopenhaueriana della totale colpevolezza dell'agire umano fenomenico, in quanto espressione dell'affermazione del volere, colpevolezza che si espri­ me nell'egoismo generalizzato delle azioni dell'uomo (l'eudemonologia è « egoismologia ») e che spiega il legame intrinseco fra esistenza e sofferen­ za (ibid., pp. 217-226). Ma a questo agire - integralmente deterministico si contrappone l'agire morale che appartiene al mondo dell'in sé, è libero e si caratterizza negativamente come negazione del volere, positivamente come compassione, ascesi («la più certa delle esperienze»). Anch'esso tuttavia, nella misura in cui si fenomenizza e diviene oggetto di conoscen­ za intellettuale, assume necessariamente la forma dell'egoismo, anche se, come nel caso della compassione, di un egoismo allargato 20. Di nuovo la negazione del volere è vista come un tipo di comportamento che è o può essere compresente all'affermazione del volere e non è quindi quell'atto metafisico che dovrebbe togliere l'esistenza dell'individuo e - eventual­ mente - del mondo. Deussen, dopo aver espresso qualche perplessità circa 19 Ibid., pp. 180, 96 e 195 (l'anima è immortale perché è la cosa in sé dell'uomo e come tale è sottratta al tempo e al divenire). 20 Ibid., pp. 245 e 251-253. Qui Deussen risponde implicitamente all'obiezione di tutti quei critici che interpretavano in tal senso il principio supremo della morale schopenhaueriana: tale interpretazione è corretta e necessaria, finché ci si pone dal punto di vista dell'intelletto; solo nella misteriosa coscienza intcriore si rivela l'autentico valore morale di tali atti.

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l'espressione « negazione della volontà » per il suo carattere negativo, af­ ferma che essa va conservata perché fondata sull'autorità dell'evangelico « rinneghi se stesso ». L'etica di Schopenhauer è quindi considerata in pie­ no accordo con il Vangelo: « voi avete nel mondo la vostra angoscia; ma siate consolati - io ho superato il mondo »; Deussen commenta: « chi par­ la così è la volontà di vita che ha superato il mondo, nella misura in cui ha superato se stessa: chi parla così, sei tu - solo che tu lo voglia » (Deussen 1877, pp. 231 s. e 245). Anche la morte non è dissolvimento dell'individuo: « la parte miglio­ re del nostro essere, il nostro io imperituro, deve ricrearsi, non in questo mondo, ma al di là di esso, non nella nostra esistenza naturale, ma in ciò che giace dietro ad essa e che rimane dopo il suo annientamento ». Insomma, morire significa per colui che ha rinnegato se stesso « entrare nella vita vera ed eterna ». Si può comprendere come alla luce di questa interpretazione Schopenhauer possa apparire a Deussen il «philosophus christianissimus » 21 . 21 Ibid., pp. 211 e 232. L'espressione philosophus christianissimus ricorre in Deus­ sen 1913. Bisogna tenere presente che comunque il cristianesimo di Deussen non coin­ cide con quello dell'ortodossia: ad esempio egli rifiuta la personalità di Dio - propria del cristianesimo essoterico della Bibbia, laddove il cristianesimo esoterico è la metafisica di Schopenhauer (Deussen 1877, p. 188). Deussen affronta anche il discusso problema del « circolo di Zeller »: egli concorda con molti critici nel ritenere che in Schopenhauer si sostenga che un mondo spazio-temporalizzato esista anteriormente al sorgere della co­ scienza (« quella lunga successione di tempi riempita da innumerevoli trasformazioni, attraverso cui la materia si elevò di forma in forma fino all'avvento del primo animale conoscente » [W I, p. 35 = p. 64]) e risolve la contraddizione che ne deriverebbe ponen­ do prima della coscienza empirica, condizionata dalla materia, una coscienza trascen­ dentale sovraindividuale e metempirica per la quale questa realtà esisterebbe come rap­ presentazione (Deussen 1877, p. XXVI; secondo il solito punto di vista della conciliazio­ ne delle opposizioni, egli ritiene che da questo punto di vista la teoria della coscienza di Schopenhauer sia accostabile alla concezione platonica dell'anima del mondo, al Logos di Filone, all'intelletto dei neoplatonici). Questa coscienza sovraindividuale si fenomenizzerebbe poi nelle singole coscienze empiriche. Una tale posizione ha il merito di riaffermare il carattere rappresentativo del mondo e quindi di difendere Schopenhauer dall'accusa di contraddire con il realismo della sua filosofia della natura il suo idealismo, ma corre il rischio di colpire ancora più a fondo la filosofia di Schopenhauer, ponendo accanto alla volontà un intelletto o comunque inserendo un medium individuationis, secondo un'ipotesi che non trova riscontro nei testi schopenhaueriani. Deussen, come del resto la maggior parte di coloro che sostengono l'obiezione cui Deussen intende far fronte, non sembra notare che nei termini della filosofia di Schopenhauer l'esistenza di un monto anteriore al sorgere della coscienza può essere affermata tanto prescindendo dall'esistenza di una coscienza ad esso contemporanea, quanto negando ad esso un'esi­ stenza indipendente dalla coscienza. La più chiara illustrazione della soluzione che Scho­ penhauer da al problema è offerta da un passo di PP II (p. 149 s. e nota = p. 184 s.

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Nel complesso appare più prudente Pinterpretazione dei rapporti fra la filosofia di Schopenhauer e il cristianesimo sviluppata dal già citato Herrig: questa filosofia non coincide con il cristianesimo, ma delinea un percorso che conduce o quanto meno può condurre ad esso. Herrig si sforza anzitutto di circoscrivere la portata del dichiarato ateismo di Scho­ penhauer sostenendo che esso ha per oggetto quelle forme « estetiche » e « logiche » della religione che sostanzialmente sono da equiparare all'in­ credulità, come è mostrato dalla loro vicinanza al naturalismo. Questi tipi di religiosità, caratteristiche dell'antichità classica e della filosofia moderna - il deismo -, hanno in comune il sostanziale distacco del problema religio[la traduzione italiana non è in questo caso molto felice]). Lo studio della natura (feno­ menica) - Schopenhauer parla del « regresso dei fenomeni » - conduce alla conclusione che il cervello umano, cui la coscienza appare indissolubilmente legata, è il risultato di un'evoluzione naturale che ha prodotto altre forme di realtà non dotate di coscienza, così come lo studio della geologia conduce a determinate conclusioni sull'età del cosmo - età che lascia supporre l'esistenza di epoche in cui non esisteva l'uomo (e neppure qualche altra forma vivente dotata di coscienza). Queste realtà - Schopenhauer parla di « eventi » ( Vorgànge) - esistono al pari di tutti gli altri fenomeni in quanto rappresentate dalla coscienza dell'uomo « attuale », che se ne forma una rappresentazione grazie alla legge di causalità a partire dai fenomeni immediatamente dati (ovvero costruiti a partire da una modificazione immediata della sensibilità) e li proietta nel passato (ma come si sa il tempo è soggettivo); queste realtà esistevano prima della coscienza, ma questa loro esistenza, al pari di quella dei fenomeni presenti, è condizionata dalla coscienza attuale: senza la coscienza attuale, per quanto paradossale possa apparire, non esisterebbero realtà anteriori alla coscienza: insomma anche le ere geologiche, in cui l'uomo non esi­ steva, esistono solo in quanto mia rappresentazione. Che poi a questi processi si debba attribuire natura « ipotetica », dipende dal fatto che la loro esistenza è affermata sulla base dei complessi procedimenti dell'indagine scientifica e dal fatto che l'uomo se le rappresenta come se essi fossero percepiti immediatamente da una coscienza, nel caso in cui una coscienza fosse esistita. Ovviamente non bisogna perder di vista il fatto che comunque per Schopenhauer esiste una realtà (fuori dal tempo) la cui esistenza non dipende dal fatto di essere rappresentazione di una coscienza. Da questo punto di vista, si può senz'altro dire che per Schopenhauer esiste qualcosa prima del sorgere della coscienza, ma questo « prima » non può esser inteso nel senso di un'anteriorità tempo­ rale in senso fenomenico, bensì nel senso di una priorità metafisica dell'essere (la volon­ tà) sul suo essere (parzialmente) rappresentato nell'intelletto. Un discorso analogo va fatto riguardo al « circolo di Zeller » vero e proprio, anche se in questo caso si ha il vantaggio di non dover fare i conti con la « temporalità metafisica ». Quando Scho­ penhauer dice che la coscienza è un prodotto del cervello, ciò va inteso anche in questo caso in due sensi: nel primo senso come un risultato della scienza naturale - fenomenica - che coglie un nesso di dipendenza fra il presentarsi negli individui della coscienza e il loro essere dotati di quel determinato organo che è il cervello, in un secondo senso metafisico - come l'affermazione della dipendenza della coscienza da qualcosa che co­ scienza non è, la volontà. In ogni caso l'enunciazione della tesi della dipendenza della coscienza dal cervello presuppone indiscutibilmente la coscienza stessa, in quanto il cervello è evidentemente un oggetto del mondo fenomenico (costruito dalla coscienza).

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so dal problema etico. Il cristianesimo invece, imparentato con la filosofia indiana e i popoli asiatici, « pone il problema morale al centro della natura e della storia universale ». Da questo punto di vista Schopenhauer, il cui sistema, in contrasto con il panlogismo hegeliano, è definito « paneticismo », risulta di per sé molto vicino al cristianesimo 22 . Questa vicinanza è poi accentuata dal suo pessimismo, dalla serietà con la quale, contrappo­ nendosi all'ottimismo, egli affronta il problema del dolore del mondo (ibid., p. 93 s.). Ma il punto decisivo è individuato anche in questo caso nella dottrina della negazione del volere e nelle prospettive che essa apre: « se si dice che la dottrina di Schopenhauer si conclude con il nulla, che essa è un nichili­ smo filosofico, alla base di tale accusa v'è incomprensione o disonestà ». Questo nulla infatti lascia aperta la possibilità di altro essere, insomma, « questo nulla di fatto è moltissimo ». D'altra parte è significativo che Schopenhauer, quando cerca di dare un contenuto al mistero della nega­ zione del volere, si rifaccia sempre alla mistica. Ora fra i mistici non ne è mai esistito alcuno « che non percepisse questo mistero come un fatto della religione positiva »; in particolare il cristianesimo, a differenza delle religio­ ni orientali, ha saputo conservare la sua componente mistica anche diffon­ dendosi fra il popolo (« una mistica per tutti »). In questo modo tale reli­ gione si presenta come il complemento della filosofia di Schopenhauer. Essa, pur costringendo a considerare l'intera realtà con serietà e pur ren­ dendo impossibili le costruzioni religiose tradizionali, lascia aperta la pos­ sibilità della fede: in ciò va riconosciuto « il significato decisivo della filo­ sofia di Schopenhauer per i dotti del nostro tempo » 23 . 22 Herrig 1888, pp. 95-98. Hans Herrig (1845-1892), poeta e drammaturgo, fu per parecchi anni redattore del « Berliner Bòrsencourier », dalle cui colonne condusse una vivace propaganda in favore di Wagner. 23 ìbid., pp. 98-102. Per altri aspetti l'interprelazione che Herrig da della filosofia di Schopenhauer è abbastanza tradizionale: ad es. egli sostiene la presenza di un influsso decisivo di Schelling (p. 90) e riconosce la presenza di molte contraddizioni all'interno del sistema; in questo caso tuttavia egli sostiene che esse non costituiscono un limite della sua filosofìa, bensì la fedele immagine di un mondo in sé contraddittorio (p. 102). Abbastanza vicino alle posizioni di Herrig è Schùz 1884, un'apologià del cristianesimo da punto di. vista teistico, che chiama più volte in causa Schopenhauer, come rappresentante del vero pessimismo, in funzione anti-Hartmann. La filosofia schopenhaueriana vi è definita come « la più cristiana di tutte le filosofia dell'epoca moderna » per la chiara indicazione della radice morale della sofferenza del mondo (la colpa), che distacca il suo pessimismo dal freddo Verstandespessimismus di Hartmann (pp. 40-44), e per il rimando al mistero e ad un'autentica trascendenza, pur nei limiti della vuota formula della negazione della volontà (p. 127 s.). Di Alfred Schùz nulla si sa.

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3. NOIRÉ E BlLHARZ.

Negli anni settanta-ottanta, accanto a queste reinterpretazioni del pensiero di Schopenhauer, vedono la luce anche alcuni tentativi di svilup­ po del suo pensiero che si aggiungono - anche se in posizione subordinata - ai sistemi di Hartmann, Bahnsen e Mainlànder. I loro autori si distinguo­ no tuttavia da quelli precedentemente citati perché respingono decisamen­ te il pessimismo schopenhaueriano, ragion per cui interessano di meno la presente ricerca. La prima figura che va qui ricordata è quella di Ludwig Moiré 24 . L'ele­ mento caratteristico del suo sistema è l'energica rivendicazione del moni­ smo, termine con il quale Noiré intende la negazione dell'esistenza di qualsivoglia spirito che operi dall'esterno sulla materia; la realtà è costituita per Noiré da una molteplicità di atomi indistruttibili, le cui caratteristiche fon­ damentali sono la sensazione (Empfindung) e il movimento (Bewegung) (Noiré 1875, p. 99). In questa tesi sono già tutti impliciti i motivi di accordo e di di­ saccordo con la filosofia di Schopenhauer. Anzitutto Noiré si oppone all'idealismo kantiano, che a suo avviso costituisce uno dei limiti fon­ damentali di Schopenhauer (Noiré 1875, p. 214): spazio e tempo non sono forme soggettive ma, data la realtà della molteplicità, « astrazioni » che derivano dalla realtà esterna e precisamente dal movimento e dalla sen­ sazione degli atomi (ibid., p. 15; - altrove, p. 100, si dice che spazio e tempo sono fenomeni della sensazione e del movimento). L'errata ridu­ zione della temporalità a puro fenomeno sta anche alla base del rifiuto da parte di Schopenhauer del fondamentale principio dello sviluppo (ibid., pp. 228-230). Eppure, affermando l'omogeneità del principio operante ad ogni livello della realtà - la volontà è identica tanto nel mondo orga­ nico quanto in quello inorganico -, egli si era posto nelle migliori con­ dizioni per accogliere nel suo sistema l'evoluzionismo, tra l'altro profe-

24 Ludwig Noiré (1829-1889), fu professore di ginnasio a Mainz - dove fra l'altro incontrò Deussen (Deussen 1922, p. 217 s.) - e ateo dichiarato, variamente influenzato, oltre che da Schopenhauer, da Darwin ed Haeckel. A differenza di altri autori parimenti vicini a Schopenhauer, criticò aspramente la PU di Hartmann, giudicata « una filosofia fittizia molto nebulosa destinata alle stupide masse », in cui il pessimismo è « solo una caricatura e una smorfia, che si rapporta al vero volto del pensatore all'incirca come il sergente maggiore a Wallenstein » (Noiré 1875, pp. 29 e 35). Sulla sua filosofia, che non può certo essere considerata il risultato di una riflessione particolarmente sofisticata, cfr. Peters 1883, pp. 150-178 e Salzsieder 1928, pp. 119-123.

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ticamente prefigurato dal pieno accoglimento della lotta per l'esistenza 25 . Quanto all'identificazione del principio ultimo con la volontà, Noiré ritiene che essa, pur fondamentale nello sviluppo della realtà, vada consi­ derata come un aspetto particolare della sensazione, ovvero come la reazio­ ne degli atomi alla percezione dei loro rapporti reciproci 26. Noiré - che qui sembra avvicinarsi alle tesi di Frauenstàdt - ritiene infatti che non si possa parlare di una volontà inconscia, ma che il volere presupponga sempre una qualche forma di conoscenza (ibid., p. 108). Benché si opponga vigorosamente al materialismo (ibid., pp. 18 s., 31, 99), e affermi che la sensazione agisca sul movimento e ne indirizzi l'espli­ cazione (ibid., p. 27), Noiré delinea un rapporto meccanico fra gli atomi - il movimento non è, come ad esempio in Hartmann, esplicazione della volontà (ibid., p. 58) - e quindi presenta lo sviluppo della realtà in una prospettiva del tutto assimilabile a quella di Haeckel: in assenza di qualsiasi principio teleologie©, i singoli atomi raggruppandosi danno luogo ad indi­ vidui sempre più complessi e dotati di forme di coscienza sempre più ele­ vate, via via fino agli individui superiori e allvuomo (ibid., p. 51). Va da sé che in una tale ottica non v'è alcun posto per l'immortalità dell'anima: ogni individuo complesso, alla sua morte, si risolve negli atomi semplici che lo compongono 27 . Per quanto riguarda il pessimismo, Noiré, che pure apprezza la sensi­ bilità al dolore e la nobiltà d'animo di Schopenhauer - il pessimismo con la sua partecipazione alla sofferenza altrui è un implicito superamento dell'egoismo, come mostra il principio etico della compassione -, ritiene che esso abbia il suo fondamento nel voler ricercare a tutti i costi un fine esterno alla realtà stessa e quindi nel non voler comprendere che il senso della vita - e quindi la felicità - va cercato nel vivere stesso, nella lotta (non è la cacciata di Napoleone che ha dato ai Prussiani la felicità, ma la lotta per sconfiggerlo); ma Schopenhauer non sa godere della bellezza dell'esi­ stenza nella sua immediatezza, non sa dar valore all'individuo, perché im25 Ibid., pp. 242-245. Noiré peraltro rileva la lontananza di Schopenhauer da Darwin nella riaffermazione della fissità delle specie (p. 254 s.). 26 Ibid., p. 30. Noiré tuttavia apprezza lo sforzo di Schopenhauer d'individuare un principio immanente alla realtà. Improponibile gli appare invece la dottrina della nega­ zione del volere (ibid., p. 227 s.). 27 Peters 1883, pp. 166-169, sottolineando gli aspetti materialistici di Noiré, ritie­ ne che il suo richiamarsi a Schopenhauer sia del tutto estrinseco; il suo sistema è indi­ cativo della tendenza a rileggere in senso materialistico Schopenhauer ma mostra al tempo stesso l'impossibilità di una tale interpretazione.

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plicitamente egli fa sempre riferimento all'infinito, di fronte al quale natu­ ralmente il finito non ha valore. Il pessimismo è il retaggio di una fede religiosa perduta, è un rimprovero a quel creatore in cui non si crede più (ibid., pp. 218-226). Di spessore speculativo superiore è l'opera di Bilharz 28 . Al pari di Noiré l'impostazione di Bilharz è rigorosamente monistica ed anzi nel monismo che risolve spirito e materia nell'unità superiore della volontà egli individua uno dei meriti principali di Schopenhauer (Bilharz 1879, p. 70). Apparentemente Bilharz segue abbastanza da vicino l'impostazione di Schopenhauer: la comprensione del mondo non può che avvenire dall'in­ terno, da parte di qualcosa che è una parte del mondo stesso. Ora, ciò che l'uomo coglie come sua intima essenza - la volontà - può e deve essere inteso per analogia come essenza di tutta la realtà; questa prospettiva ha reso Schopenhauer « il primo metafisico in senso proprio » (ibid., p. 181). Ciò che dall'interno, dal punto di vista soggettivo, è colto come volon­ tà, dal punto di vista oggettivo (dell'oggettività ideale della rappresentazio­ ne) si mostra come forza, ovvero - schopenhauerianamente - come materia e causalità (ibid., p. 83 s.); Bilharz, nello sviluppo del suo pensiero, privile­ gia nettamente l'aspetto oggettivo della volontà, facendo della forza il con­ cetto cardine del suo sistema e in questo modo rovesciando di fatto una delle dottrine fondamentali di Schopenhauer - non per caso il concetto di « volontà di vita » è sostituito dal concetto di « tendenza all'essere » (Drang zu sein) 29. Il passo ulteriore di Bilharz consiste nello sviluppare in senso plurali­ stico la filosofia di Schopenhauer. Per Bilharz infatti la volontà, se deve 28 Alfons Bilharz (1836-1925) seguì gli studi di medicina e lavorò per un certo periodo con Du Bois-Reymond. Ad Heidelberg collaborò con Kirchhoff prima di recar­ si negli Stati Uniti (1865). Tornato in patria, fu direttore dell'ospedale di Sigmaringen e, come si è visto, divenne amico di Bahnsen. Delle sue opere interessa qui particolarmente Bilharz 1879, in cui più marcato è l'influsso di Schopenhauer. Sul suo pensiero cfr. Peters 1883, pp. 178-230; Salzsieder 1928, pp. 123-137 (tiene conto anche degli ultimi scritti di Bilharz). Cfr. anche Metz 1926 e 1927. 29 Di fatto in Bilharz è la forza - e non la volontà - il concetto più noto di cui ci si deve servire per spiegare la realtà, e in questa prospettiva Bilharz trasferisce senz'altro le determinazioni della forza che si ricavano dalla fisica alla volontà, considerata non come qualcosa di analogo alla forza, come suggeriva prudentemente Schopenhauer, ma senz'altro identificata con essa. Ad esempio egli definisce la volontà attraverso la formu­ la della velocità (v = s/t), in cui alla velocità dapprima è sostituita la forza (k), e quindi la volontà (w = s/t) (Bilharz 1879, p. 83 s.). Ne consegue che - almeno in linea di principio - ogni aspetto della volontà - anche nella sua dimensione psicologica - può essere trattato in termini quantitativi.

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essere intesa come un tendere (Streben), non può essere pensata come qualcosa di unitario e indifferenziato: deve esistere qualcosa di diverso dal soggetto volente cui il volere stesso possa indirizzarsi; la volontà deve di conseguenza essere pensata come originariamente differenziata in una molteplicità di « punti », o atomi volenti, ciascuno dei quali si pone come soggetto di fronte agli altri, considerati come oggetti (ibid., p. 76). Ciascun atomo, che ha la tendenza ad espandersi all'infinito, trova il suo limite (Grenzé) negli altri atomi; il concetto di limite è molto importante in BiIharz perché esso costituisce la controparte realistica del concetto di spa­ zio, che, kantianamente, in quanto rappresentazione, è un prodotto del soggetto 30. Come si è visto, l'opposizione esistente fra i vari atomi va rappresen­ tata nei termini del rapporto soggetto-oggetto: ciò significa che tale rappor­ to non è specifico della gnoseologia, ma di tutto l'essere, di cui costituisce la struttura di fondo. Compito della filosofia è quindi quello di compren­ dere questo rapporto a partire da un terzo punto di vista che non sia né soggettivo, né oggettivo e che, con una metafora, Bilharz chiama « punto di vista eliocentrico » 31 . I problemi metodologici posti da questa specifica posizione sono ampiamente sviluppati nelle opere più tarde di Bilharz in cui è evidente l'influsso del pensiero di Bahnsen e da cui si può qui senz'altro prescinde­ re 32 . In sostanza Bilharz ritiene necessario porsi dal punto di vista della conoscenza « astratta » (Peters 1883, pp. 186 e 188) che integri il punto di 30 Ibid., p. Ili s. È qui impossibile seguire nei particolari la complessa spiegazione che Bilharz offre del sorgere della rappresentazione soggettiva dello spazio dal concetto di limite, così come le analoghe spiegazioni che si riferiscono al tempo e alla causalità (ibid., pp. 111-124). 31 Bilharz rappresenta il rapporto fra i singoli soggetti-oggetti in modo analogo al rapporto sussistente fra i diversi pianeti i cui movimenti appaiono diversi secondo che ci si ponga su uno di essi o su un altro: questa unilateralità è superata solo se ci si pone al di fuori di questi movimenti, ovvero sul sole; di qui la scelta del termine « eliocentri­ co » per la sua specifica prospettiva filosofica, termine che dunque non ha nulla a che vedere con la kantiana « rivoluzione copernicana ». 32 Bilharz si pone il problema di precisare i caratteri che deve possedere un pen­ siero il quale sia in grado di cogliere la volontà come in sé una, ma pure differenziata nei molteplici atomi volenti in opposizione reciproca, ovvero, in altri termini, come essere spazializzato. In sostanza, riconoscendo a Bahnsen il merito di aver mostrato che la comprensione di questa realtà non può essere realizzata nei termini della logica formale, egli sostiene che essa deve fondarsi su una « metalogica » alla cui base sta un « Enantialsatz » (« principio antitetico »), che - così almeno sembra - riconosce insieme l'identità e la differenza fra i singoli atomi volenti (« le opposizioni sono eguali e diverse ») (Bil­ harz 1902, p. 13 s.; Bilharz 1897, voi. I, pp. 71-85, voi. Ili, p. 84).

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vista soggettivo con l'oggettivo e viceversa, ovvero che colleghi la cono­ scenza soggettiva della volontà con la conoscenza oggettiva della forza e viceversa (Bilharz 1879, p. 289). Si è detto della preminenza del concetto di forza su quello di volontà e del tentativo di una rilettura in chiave « fisica » della psicologia. Così Bilharz distingue fra una volontà « centrale » ed una « periferica » - la prima da rappresentarsi come il centro puntuale del volere, la seconda come il limite della sua espansione (ibid., p. 177 s.) - e, nell'ambito della volontà periferica, fra una volontà positiva e una negativa, quest'ultima intesa come la capacità del volere di recepire l'influsso delle altre volontà e di trasmetterlo alla volontà centrale, mediante una forza diretta dalla periferia al centro. Di solito alla forza negativa - il motivo - risponde una forza positiva, che costituisce l'atto volitivo in senso tradizionale 33 . Tale essenziale duplicità del volere (attivo e passivo) costituisce il fon­ damento per la teoria della coscienza, presentata come un caso particolare dell'opposizione fra soggetto e oggetto caratteristica di tutto l'essere: la coscienza sorge quando l'opposizione fra soggetto ed oggetto viene riferita alla volontà centrale che si percepisce a un tempo come attiva e passiva (ibid., p. 194). Questa riduzione del pensiero a volontà assume una colori­ tura decisamente materialistica quando Bilharz afferma che il pensiero è una forma di movimento che, nel suo aspetto oggettivo, ha la caratteristica di limitarsi agli organi di senso (ibid., p. 292). Bilharz tuttavia non spiega il modo in cui questo movimento fisico da origine al fenomeno psicologico della coscienza 34 . Il distacco di Bilharz da Schopenhauer diviene ancor più marcato nell'ambito della filosofia morale. Lo stesso Bilharz dichiara che « dell'in­ sieme di ciò che Schopenhauer ha fatto nell'ambito della filosofia morale... non si può fare alcun uso » (ibid., p. 213); Bilharz, dopo aver rifiutato il concetto di libertà trascendentale, sviluppa una concezione della libertà secondo cui essere liberi significa obbedire (nell'autonomia dei singoli ato­ mi) alla « tendenza all'essere », ovvero realizzare il più possibile la propria natura - espandere la propria forza. L'obbedienza alla propria determina33 Ihid., p. 182 s. Bilharz sostiene che la modificazione patita dal soggetto a causa dell'oggetto è eguale alla modificazione che l'oggetto sperimenta in sé in quanto sogget­ to; in altri termini i rapporti fra i vari atomi-volontà rispettano la legge della conserva­ zione della forza. . 34 Naturalmente Bilharz si oppone alla PU, nel cui dualismo tra volontà e rappre­ sentazione egli scorge un passo indietro rispetto alla filosofia di Schopenhauer (ibid., p. 148).

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zione fondamentale costituisce il principio supremo della moralità, e tale obbedienza ripaga immediatamente l'individuo con il suo mantenersi nel­ l'essere (in questo senso la virtù è premio a se stessa), laddove il non segui­ re tale principio - l'agire immorale - è « un suicidio nella sua fase iniziale oppure un lento autoannichilimento » 35 . È evidente che in questa posizio­ ne, che giustifica integralmente l'egoismo (Peters 1883, p. 228), non c'è spazio né per il rinnegamento di se stessi, né per la negazione della volontà, che nell'ottica di Bilharz dovrebbe essere considerata - in quanto mirante alla negazione dell'essere - come supremo delitto.

35 Ibid., p. 235. Bilharz ritiene tuttavia che questo principio - nonostante le tesi sviluppate nell'ambito della filosofia teoretica - non conduca necessariamente ad uno scontro fra gli individui; egli sembra sostenere che la tendenza dell'individuo a prevari­ care nei confronti dei propri simili, è percepita come dannosa verso se stessi e che quindi deve e può essere combattuta per motivi egoistici.

15. DISCUSSIONI INTORNO ALLA FILOSOFIA DELL'INCONSCIO

1. IL METODO DELLA « FILOSOFIA DELL'INCONSCIO » NEL GIUDIZIO DEI CON­ TEMPORANEI.

Come si è accennato, i pur numerosi contributi, dedicati a Schopenhauer non possono competere con l'enorme massa della letteratura cri­ tica concernente la Filosofia dell'inconscio, che, almeno nel primo decennio seguente la pubblicazione dell'opera, è smisuratamente estesa: « non v'è nessun altra opera filosofica di cui si sia potuto mostrare un successo altret­ tanto grande. Essa ha avuto innumerevoli annunci e recensioni sulle riviste e sui giornali più diffusi, che hanno salutata questa nuova apparizione nella maggior parte dei casi con straordinario plauso, talora con entusiasmo » 1 . Il successo di Hartmann è dunque un fatto indiscutibile 2 . Hartmann, da questo punto di vista, non ha avuto lo stesso destino di Schopenhauer. I filosofi di professione e più in generale il mondo della cultura non sono stati costretti dal pubblico ad occuparsi della sua opera. Sono stati essi stessi o quanto meno una parte di loro - a « lanciare » la Filosofia dell'inconscio.

1 Hoffmann 1871, p. 468 s. (Hoffmann, l'implacabile avversario di Schopenhauer, è tutto sommato più favorevole ad Hartmann, cui rimprovera solo di non aver adegua­ tamente tenuto conto di Bòhme e Baader per superare il dualismo di volontà e idea nell'Assoluto). Fra il 1869 e il 1873 l'opera di Hartmann è recensita o segnalata in più di ottanta periodici o quotidiani di ogni tipo (cfr. Plùmacher 1890); per il periodo 18691879 questa bibliografia - pure incompleta - segnala altri centocinquanta titoli che trattano di Hartmann. 2 Secondo Stòckl 1874, p. 3, e Schùz 1884, p. 1 s., il successo di Hartmann è « inaudito »; secondo E. Fischer 1880, p. 2, si tratta addirittura di un successo « incre­ dibile » (fabelhafi).

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D'altra parte non si può concordare con quegli awersari di Hartmann che hanno sostenuto che questo interesse sia stato il risultato di un'accorta opera di « propaganda » orchestrata da Hartmann e dal suo editore: per lo meno, a fronte delle imponenti operazioni pubblicitarie odierne, l'ingenua réclame messa in atto da Hartmann non può che far sorridere 3 . Circa le ragioni di tale successo l'opinione dei critici è abbastanza concorde: Hartmann « ha detto la parola giusta al momento giusto » (Volkelt 1873, p. 5), ha dato voce alla «Zeitstimmung» (Pesch 1873, p. 229; Seydel 1879, p. 190). Hartmann ha compreso l'importanza rag­ giunta nel sentire comune dalle scienze della natura, dal realismo e dal materialismo (Frank 1872, p. 300; E. Fischer 1880, p. 1), ha utilizzato 3 Hartmann e il suo editore, dalla terza edizione in poi, pubblicano alla fine di ogni volume dei « panorami » delle recensioni, selezionando ovviamente i passi più fa­ vorevoli alla PU - una prassi oggi divenuta comune (questa consuetudine è stata conti­ nuata anche dall'altro editore di Hartmann, Hermann Haacke, che ha pubblicato due sillogi di giudizi su Hartmann [Haacke 1898 e 1904]). È in particolare Diihring a in­ sistere sul ruolo decisivo, della pubblicità nel successo di Hartmann (in Diihring 1873, p. 535 la filosofia di Hartmann è definita una « Reclamephilosophasterein »). L'ostilità di Dùhring nei confronti di Hartmann sembra essere stata innescata da una recensione non favorevole alla prima edizione di Dùhring 1873 [Hartmann 1870c]; nella seconda edizione di questo scritto egli inserisce tre pagine [440-442] in cui attacca violentemente Hartmann, qualificato tra l'altro come « un giovanotto » che avrebbe « imbandito \_aufgetanzelt] una specie di filosofia della castrazione ». In WL, pp. 28-30 giudica il successo di Hartmann « una vergogna della filosofia », cosicché parlarne è vietato « dal senso della pulizia ». Un'ulteriore prova indiretta della diffusione della PU è offerta dall'esistenza di un certo numero di scritti satirici relativi ad Hartmann, fra i quali si possono ricordare Reymond 1879 e lo spiritoso Mauthner 1879, pp. 39-48: si tratta di una parodia della PU in cui all'inconscio è sostituito il « callo inconscio ». Ad esso Mauthner si sforza di applicare tutti gli attributi che Hartmann riferisce al suo Assolu­ to: ad esempio anche il callo da « premonizioni », anche il callo soggiace alla teoria delle illusioni, che consistono dapprima nelle pantofole, poi nel ceretto callifugo. Quan­ to alla preistoria della filosofia del « callo inconscio », Mauthner osserva che Fiatone non potè giungere ad essa in quanto faceva uso di sandali (Fritz Mauthner [1849-1923], è noto per i suoi contributi alla filosofia del linguaggio e per la sua monumentale opera sull'ateismo. Al tema del pessimismo ha in seguito dedicato la citata voce del suo dizio­ nario filosofico). Di tono palesemente satirico è anche l'intervento di Grùn, il quale dimostra anche in questo caso una conoscenza non certo approfondita della filosofia di Hartmann (Grùn 1876, pp. 68-105) [Karl Grùn (1813-1887) - che è già stato ricordato fra i critici di Schopenhauer - fu un esponente di quella corrente di pensiero definita ironicamente da Marx del « vero socialismo » e più volte duramente criticata; attivo in Germania, Belgio e Francia - dove fra l'altro fu in stretto contatto con Proudhon -, filosoficamente fu molto vicino a Feuerbach, tanto che fu l'editore della prima raccolta di lettere e del Nachlass feuerbachiano. Le pagine in cui si occupa di Hartmann fanno parte di un volume che dovrebbe offrire una panoramica completa sulla filosofia del suo tempo].

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accortamente il concetto d'inconscio 4 . Altri autori volgeranno in negativo questi giudizi: la Filosofia dell'inconscio è così vista come in perfetta cor­ rispondenza con la «patologia» del suo tempo 5 . Più volte si fa anche riferimento allo stile chiaro e facile di Hartmann, accessibile non solo agli specialisti, ma non manca chi considera questo stile troppo giornalistico e chi individua nella componente « piccante » della Filosofia dell'inconscio una delle ragioni della fortuna della nuova opera filosofica 6 . Per Lasson tuttavia il successo di pubblico non è sufficiente a decidere del valore assoluto di una filosofia (Lasson si richiama alle vicende del ma­ terialismo di Bùchner, Vogt e Moleschott): resta il fatto che anche numero­ sissimi dotti hanno sentito il bisogno di confrontarsi con la filosofia di Hart­ mann, il che prova quantomeno l'importanza del fenomeno Hartmann 7 . Ad un secolo di distanza, si può senz'altro dire che le perplessità di Lasson circa il valore assoluto di Hartmann si sono dimostrate più che 4 Volkelt 1873, p. 5. Volkelt 1881, p. 72 s., peraltro, non mancherà di individuare parecchi elementi in cui la filosofia di Hartmann si trova in contrasto con la sua età: il suo carattere sistematico, la lotta all'eudemonismo (questo giudizio è pronunciato dopo la pubblicazione di PSB), la teleologia e la sua esigenza di una redenzione extraterrena. In generale fra questi due interventi di Volkelt esistono notevoli differenze di accento, giacché appartengono a due periodi nettamente diversi del suo pensiero. Johannes Volkelt (1848-1930), prima materialista, poi influenzato dal teismo speculativo (Seydel) e soprattutto dall'hegelismo (Kuno Fischer), abbandonò infatti intorno al 1876/77 la metafisica speculativa e si volse al kantismo, pubblicando importanti opere sulla teoria della conoscenza (sul Volkelt neokantiano cfr. Neumann 1978). 5 E. Fischer 1880, p. 2; in generale questo atteggiamento è diffuso fra gli autori d'impostazione religiosa (l'elemento patologico dell'epoca moderna è costituito dal­ l'ateismo, dall'edonismo e dal pessimismo) e soprattutto fra i cattolici, che in qualche caso, come si vedrà, vedranno in Hartmann l'espressione culturale del Kulturkampf (Engelbert Lorenz Fischer [1845-1923] fu un sacerdote cattolico molto attento alle te­ matiche scientifiche dell'epoca). 6 Sulla « leggibilità » di Hartmann cfr. Jung 1872, p. 420; Schwarz 1875, p. 47. Sul tono talvolta eccessivamente giornalistico di Hartmann cfr. Schwarz 1875, p. 47 (Hart­ mann è spesso superficiale); Schuz 1884, p. 5 (Hartmann, nonostante l'imponente co­ struzione, si limita a esprimere pensieri banali) e Frederichs in Kirchamm 1879, p. 57 (lo stile di Hartmann è da feuilleton). Dorner 1881, p. 12, definisce il pensiero di Hartmann e in particolare il suo pessimismo Populàrphilosophie; la stessa prospettiva è ripresa negli anno novanta da Bòhmer 1894, p. 9, che giudica Hartmann un Atttagspessimist. Sul « piccante » in Hartmann cfr. Golther 1875, p. 57 e Carneri 1877, p. 60 (peraltro per questo autore il piccante non è costituito tanto dai capitoli sull'amore e sul matrimonio, quanto dall'audacia e arditezza della costruzione metafisica). 7 Lasson 1876, pp. 391-393. Anche per Hartsen 1872, p. 180, la PU è certamente una « stella » del firmamento filosofico, ma solo fra duecento anni si potrà dire se essa è una « stella fissa ».

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fondate; la filosofia di Hartmann, come ognuno sa, per dirla con Hartsen, non è divenuta una stella fissa del firmamento filosofico. Dal punto di vista dello storico della filosofia (e della cultura) tuttavia l'esame della letteratura critica relativa ad Hartmann non diviene per questo meno interessante: essa fornisce un quadro assai significativo di come, quasi alle soglie del Novecento, il pubblico tedesco e gran parte della filosofia ufficiale fossero ancora disposti a prendere sul serio e, nel caso dei filosofi, a discutere minuziosamente costruzioni concettuali arbitrarie, spesso poco rigorose, strutturalmente in grado, grazie alla flessibilità e all'indeterminatezza dei concetti impiegati, di sottrarsi ad ogni critica conclusiva. In tal senso, que­ sto lungo capitolo, che può apparire in qualche sua parte come un'inutile e forse stucchevole digressione, costituisce una premessa importante per comprendere i capitoli seguenti che riguardano più da vicino lo specifico tema del pessimismo. Benché lo stretto collegamento fra speculazione e indagine naturale sia più volte indicata dalla critica come uno degli aspetti più originali della Filosofia dell'inconscio 8, solo un numero limitato di autori approfondisce il « metodo » della filosofia di Hartmann. Per quanto riguarda le indagini condotte da Hartmann nell'ambito delle scienze naturali, l'atteggiamento della critica è generalmente assai negativo. Secondo Haym il metodo « scientifico » di Hartmann può essere ridotto al seguente schema: individuata una serie di fenomeni psicologici, fisici, storici dei quali finora la scienza non ha saputo dare una spiegazione soddisfacente, si mostra che essi possono essere compresi solo « secondo il modo d'agire del nostro spirito ». Di qui, facendo un uso illimitato del­ l'analogia, si conclude senz'altro alla presenza in essi di una componente spirituale. Ora, secondo Haym, se è legittimo rappresentarsi - rendere comprensibili - questi fenomeni come se fossero prodotti da qualcosa di analogo allo spirito umano, è scientificamente scorretto e soprattutto non fa compiere nessun reale passo avanti alla scienza l'interpretare questa descrizione metaforica come una vera spiegazione. L'ipotesi della presenza di una realtà spirituale non spiega infatti nulla, ma semplicemente « mette in formula » la nostra attuale ignoranza 9.

8 Cfr. Bergmann 1869, p. 406; Haym 1873, p. 43 s.; Jung 1872, p. 420; Frank 1872, p. 300; Pesch 1873, p. 221; Peters 1883, p. 260. 9 Haym 1873, pp. 41-50. Curiosamente Hartmann non ha mai replicato alle criti­ che di Haym, pur così influenti. Solo sua moglie, Agnes Taubert, lo cita, trattando peraltro unicamente della parte relativa al pessimismo. Della critica di Haym si occupa

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Più nello specifico Ebbinghaus afferma che Hartmann non si rende conto di come sia difficile giungere alla certezza di conoscere tutte le cause materiali di un determinato fenomeno, condizione questa necessaria per poter affermare l'esistenza di una causa spirituale. E se è vero che molti dei fenomeni descritti da Hartmann mostrano un'analogia « frappante » con i processi che si svolgono alla luce della coscienza, questa somiglianzà rende possibile ma non necessaria una spiegazione spiritualistica 10. Il motivo è ripreso e radicalizzato da Lange in pagine da cui traspare una profonda disistima - se non disprezzo - per l'opera di Hartmann. La metodologia « scientifica » di Hartmann non solo è improduttiva e poco fondata, ma fondamentalmente inaccettabile. Secondo Lange in nessun caso la mancata individuazione della causa materiale di un fenomeno con­ sente di sostenere l'esistenza di una causa spirituale. Viceversa « è proprio dello scienziato in questi casi il dire semplicemente che la causa fisica del fenomeno M non è stata ancora scoperta; nell'inarrestabile storia della sua scienza egli troverà l'impulso per nuove ricerche che lo avvicineranno di un passo al suo fine. L'aborigeno australiano e il filosofo dell'inconscio invece si fermano al punto in cui la loro capacità di spiegazione naturale si arresta e attribuiscono tutto il resto a un nuovo principio, mediante il quale tutto con una sola parola è spiegato nel modo più soddisfacente » n . anche Venetianer 1874, pp. 14-17, senza peraltro entrare mai nel merito di queste ed altre obiezioni, ma limitandosi a sottolineare la pura negatività di tale critica e a ricercare ovunque tracce di hegelismo. 10 Ebbinghaus 1873, pp. 17-20. Hermann Ebbinghaus (1850-1909) è il noto psico­ logo che polemizzerà nel 1895 con Dilthey. Egli si occupa di Hartmann nella sua disser­ tazione (Ebbinghaus 1873), che si segnala per la solidità dell'analisi e il rigore argo­ mentativo; pur mantenendosi sempre nell'ambito di una polemica molto misurata, Ebbinghaus conclude il suo lavoro con un giudizio pesantemente negativo nei confronti della PU: « [in essa] ciò che vi è di vero purtroppo non è nuovo, ciò che vi è di nuovo, non è vero » (p. 67). Il tema di quella che si potrebbe definire infecondità epistemologica della riflessione di Hartmann è ripresa fra gli altri da Carneri 1877, p. 31, da HenneAm-Rhyn 1873, p. 70 s., e, con particolare incisività, da Kirchmann 1875, p. 37, il quale ritiene che la spiegazione spiritualistica - nello specifico il riferimento all'inconscio - sia « solo un altro nome per ciò che deve essere spiegato »; vero progresso scientifico si ha viceversa quando si riesce a determinare delle leggi (Julius Hermann Kirchmann [18021887] si occupò prevalentemente di diritto, ma sviluppò anche un sistema filosofico « realistico », contro cui Hartmann polemizza in Hartmann 1875b). 11 Lange 1896, voi. II, p. 277 s. Nel prosieguo Lange insiste sul parallelo fra l'in­ conscio e l'entità spirituale (il « devil-devil ») degli aborigeni australiani. La conclusione è che « non v'è un altro libro recente in cui il raffazzonato materiale scientifico stia in così netto contrasto con tutti i fondamenti essenziali del metodo delle scienze della natura » (ibid., p. 309). Ad un legame fra il tipo di spiegazione impiegato da Hartmann e il mondo primitivo accenna già Haym 1873, p. 45, che sottolinea l'analogia fra la PU

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Un errore d'impostazione sta alla base anche del maldestro impiego del calcolo della probabilità, che dovrebbe dimostrare matematicamente la « probabilità » di una causalità spirituale: per Lange ha senso parlare di probabilità soltanto nel quadro della conoscenza delle condizioni generali di un determinato evento; in questi casi il calcolo della probabilità è un'astrazione che esprime il grado della nostra incertezza soggettiva circa le precise modalità con cui operano tali condizioni generali 12 . Del tutto illegittimo è fondarsi su di esso per giungere a qualche principio - nel caso di Hartmann l'inconscio - che si trovi al di là dell'esperienza e della legalità naturale 13 . e il pensiero mitologico. Hartmann, 1875f, p. 465, replica a Lange affermando che il ricorso in determinati casi ad una causalità diversa da quella meccanica non ha nulla a che vedere con il modo di procedere degli aborigeni, ma appare tale solo a chi, come Lange, è vittima del pregiudizio meccanicistico. Friedrich Albert Lange (1828-1875), professore di ginnasio, editore e infine professore a Zurigo e a Marburgo, è considerato uno degli esponenti più significativi del neokantismo ed è assai noto, oltre per la celebre opera sul materialismo cui si fa qui riferimento, per la sua attività politica; per la sua posizione riguardo al pessimismo cfr. sotto. Un'esposizione molto simpatetica del suo pensiero si può trovare in Vaihinger 1876. Per un inquadramento della sua figura nel movimento neokantiano e nella vita politica dell'epoca cfr. Kòhnke 1986, pp. 233-257. 12 Lange 1896, voi. II, p. 281 s. Lange si rifa all'esempio del lancio del dado: ignoriamo come operano le varie forze durante il lancio in modo da far cadere il dado su una faccia piuttosto che su di un'altra, ma sappiamo quali sono tali forze e che esse necessariamente faranno cadere il dado su una faccia; di qui la probabilità di 1/6 per ciascuna di esse. 13 Ibid., voi. II, p. 283. Sull'illegittimità dell'applicazione del calcolo della proba­ bilità cfr. anche Kirchmann 1875, pp. 45-49 (cfr. anche Kirchmann 1879), Klein 1872, p. 938. Hartmann ha risposto alle obiezioni di Lange in due aggiunte alla PU. Egli osserva in primo luogo che Lange non tien conto di un presupposto fondamentale del calcolo della probabilità, e cioè che i fattori casuali che rendono possibile una determi­ nazione solo probabilistica dell'esito di un evento, nel corso di ripetuti tentativi finisco­ no per compensarsi. Laddove ciò non avviene, è probabilisticamente giustificato soste­ nere che ciò che determina una certa serie di eventi non sia un fattore casuale ma uno costante. Così, come di fronte al costante ripetersi di un certo risultato in un giucco d'azzardo, si è portati a ritenere che il gioco sia truccato, allo stesso modo, di fronte a determinati fenomeni naturali (organici), che per migliaia di volte danno lo stesso risul­ tato è legittimo sospettare che in essi sia operante un fattore costante diverso da quello materiale (PU I, pp. 447-450). Ma il nocciolo del suo dissenso da Lange consiste nel fatto che, laddove questi ritiene che il calcolo della probabilità possa essere usato solo « deduttivamente » (cioè possa servire solo a determinare la probabilità di certi effetti date determinate cause), egli ritiene che se ne possa fare anche un uso « induttivo », cioè possa servire a risalire dall'osservazione di determinate serie di eventi alla probabilità di determinate cause (PU I, p. 450 s.). Altrove tuttavia Hartmann sottopone ad autocritica l'applicazione del calcolo delle probabilità da lui sviluppata nella PU: nella PU l'alta probabilità dell'esistenza di una causa spirituale è dimostrata basandosi sull'errato pre­ supposto che le varie condizioni che determinano un certo fenomeno - nel caso il sor-

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Vaihinger da parte sua non fa che trarre le conseguenze delle critiche di Lange: il ricorso allo spirituale rompe inevitabilmente l'ordine naturale faticosamente costruito dalle scienze, riporta il discorso scientifico nell'am­ bito dello spiritismo e del soprannaturalismo e ne mette in crisi le leggi fondamentali, ad esempio la legge della conservazione della forza 14. In sostanza le critiche all'« epistemologia » di Hartmann hanno come oggetto principale il tentativo di giungere per via scientifica ad affermare l'esistenza dello spirituale e colpiscono tutte - direttamente o indiretta­ mente - la pretesa di rilegittimare in ambito scientifico la teleologia. Non deve quindi meravigliare che la rivalutazipne del finalismo incon­ tri l'apprezzamento - pur con qualche riserva - degli autori d'impostazione spiritualistica 15, e che, viceversa, la critica alla teleologia sia uno dei temi più ricorrenti fra i materialisti si occupano di Hartmann. Per Stiebeling, ad esempio, Hartmann semplicemente presuppone in modo sofistico una re­ altà spirituale, che serve poi a fondare la specificità di determinati eventi, facendoli apparire come teleologicamente organizzati; ma anche nei termigere dell'organo visivo - siano prodotte l'una indipendentemente dall'altra e non colle­ gate dal processo evolutivo; se si considera invece il complesso delle ipotetiche cause materiali come qualcosa di unitario, il grado di probabilità di una causa meccanica non è più il prodotto della moltiplicazione delle varie frazioni che indicano il grado di pro­ babilità di ciascuna condizione e quindi risulta essere molto più alto (Hartmann 1872, p. 66 s.). Sul tema del calcolo delle probabilità Hartmann è infine ritornato in Hartmann 1904. Cfr. anche Hartung 1910. 14 Vaihinger 1876, p. 82 s. Il saggio di Hans Vaihinger (1852-1933), già discepolo di Lange e autore della nota Philosophie des Ah Oh, e dell'altrettanto famoso Commen­ tario alla critica della ragion pura, vuole dimostrare la superiorità della prospettiva filosofica del maestro su quelle di Dùhring ed Hartmann che Vaihinger considera come i due autori più significativi di quegli anni. Questo scritto, nonostante le dichiarate pre­ ferenze dell'autore, offre molte informazioni sulla filosofia di quegli anni e si segnala per la lucidità con cui viene posto il problema dell'influsso di Schopenhauer specie nell'am­ bito gnoseologico (ibid., p. 207 s.). L'interesse di Vaihinger per Schopenhauer e le tema­ tiche del pessimismo è del resto confermato da Vaihinger 1923. 15 Cfr. ad esempio Bergmann 1869, p. 408 s. (Julius Bergmann [1840-1904], pro­ fessore a Kònigsberg e a Marburgo, sostenitore di un « idealismo oggettivo » influenzato da Fichte ed Hegel, apprezza l'uso della teleologia, ma trova una contraddizione nel fatto che la finalità sia ricavata per analogia dalla coscienza e poi sia trasferita all'incon­ scio); Reichlin-Meldegg 1869, pp. 121-123 (anch'egli ritiene impossibile un finalismo non guidato da una coscienza superiore); Ebrard 1873, pp. 106-108 (August Ebrard [1818-1888], teologo e professore ad Erlangen); Frank 1872, p. 307 (Franz Hermann Frank [1827-1894], anch'esso teologo protestante [cfr. su di lui il recente Edelmann 1980], accredita Harmann di vaste conoscenze scientifiche che avvalorano la sua difesa della teleologia); Jung 1872, p. 422 (Alexander Jung [1799-1884], romanziere e saggista, trova convincente la difesa del finalismo, anche se esso non può essere determinato dall'inconscio, ma solo da un coscienza); Golther 1878, p. 81.

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ni del sistema di Hartmann non c'è ragione di supporre che la rappresen­ tazione del fine e del mezzo debbano esser considerati qualcosa di ontolo­ gicamente diverso dalle azioni che portano alla loro realizzazione. D'altra parte l'ammissione del finalismo porterebbe ad una scissione all'interno della realtà fra una parte che seguirebbe solo le leggi meccaniche e una parte che invece sarebbe sottoposta a leggi teleologiche 16. Altri due autori, J. Fischer e Schmidt, si limitano a osservare che la teleologia è stata con­ dannata ormai da tempo dalle scienze naturali, che non ne fanno più alcun uso; d'altra parte la sua introduzione porterebbe a quel dualismo fra leggi meccaniche e leggi naturali cui già faceva riferimento Stiebeling 17. Queste obiezioni hanno stimolato Hartmann a riprendere sistemati­ camente il tema del finalismo nel suo discusso scritto Das Unbewusste vom Standpunkt der Physiologie una Descendenztheorie 18'. Hartmann discute in 16 Georg C. Stiebeling era medico e risiedeva negli anni settanta negli Stati Uniti; è autore anche di opere di economia politica contro una delle quali polemizza Engels nella prefazione al terzo libro del Capitale. In Stiebeling 1871, egli si dichiara avverso ad ogni forma di filosofia - nella prefazione critica anche le posizioni di Bùchner - giacché ritiene che la scienza e solo essa potrà risolvere tutti i problemi. Stiebeling, coerentemente, ritiene meritevole di considerazione solo la prima parte della PU, quella appunto dedicata al ruolo dell'inconscio nella corporeità; in generale la polemica è condotta con serietà, facendo frequente riferimento alle teorie darwiniane. La critica al finalismo si trova a p. 9 s. Contro Stiebeling ha polemizzato Taubert 1872, una confutazione non troppo convincente neppure per i discepoli di Hartmann, cfr. Pliimacher 1879, p. 322. 17 Cfr. J. Fischer 1872. Questo modestissimo lavoro del quasi sconosciuto materia­ lismo austriaco Johann Conrad Fischer, dopo una professione di fede materialistica, si limita a segnalare con grande enfasi tutti i punti in cui Hartmann si allontana dal mate­ rialismo, guardandosi bene dall'indicare, come invece avviene in Stiebeling, delle solu­ zioni alternative da un punto di vista materialistico; ha quindi buon giuoco Du Prel 1872, nel mostrare l'infruttuosità della critica di J. Fischer (nel caso specifico egli, svi­ luppando alcune tesi contenute nella PU, sostiene che la teleologia non viola le leggi meccanicistiche, ma si limita ad indirizzarne l'esplicazione [ibid., p. 31]). Oskar Schmidt (1823-1886) fu invece uno zoologo, sostenitore del darwinismo e professore a Strasburgo. Anch'egli tratta solo della prima parte della PU. Per l'atteggiamento nei confronti del finalismo cfr. Schmidt 1877, p. 13 s. Dello scritto di Schmidt Hartmann si occupa in un'aggiunta alla seconda edizione di Hartmann 1872. Alla critica materialista alla PU appartiene anche Hanseman 1874, un'opera che riassume senza commento - ma in tono evidentemente ironico - le prime due parti della PU. 18 Come si è accennato, quest'opera viene dapprima pubblicata anonima nel 1872 e viene salutata da molti studiosi (Haeckel, O. Schmidt, Carneri, Weygoldt) come la migliore confutazione della PU dal punto di vista delle scienze naturali. In particolare Haeckel 1873, p. XXXVIII, dichiara di condividere interamente le posizioni dell'ano­ nimo (fra il 1874 e il 1876 si svolge fra Hartmann e Haeckel [1834-1919] un epistolario, nel corso del quale Hartmann confida al suo interlocutore di essere l'autore dello scritto anonimo, cfr. Kern - von Hartmann 1956). In effetti non si può non rimanere colpiti dalla chiarezza e dall'incisività delle argomentazioni, che dimostrano quanto meno come

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primo luogo l'obiezione di Lange e di parecchi altri secondo cui l'in­ tervento di una causalità spirituale e finalistica non può essere accettata dalle scienze della natura perché contraddice i principi fondamentali su cui le scienze sono costruite (PU III, p. 58). Hartmann si dichiara pie­ namente d'accordo con questa tesi, ma né limita la portata affermando che essa, per sua natura, vale solo nell'ambito di una considerazione scientifica e non filosofica - metafisica - della realtà: come lo scienziato della natura non trova illegittimo che lo storico dell'arte consideri la Madonna Sistina di Raffaello da un punto di vista della storia dell'arte - eppure anche tale quadro può essere indagato dal punto di vista delle scienze naturali -, così egli non dovrebbe considerare inaccettabile che il metafisico consideri anche la natura meccanica dal punto di vista metafisico e cioè finalistico 19. Hartmann si impegna peraltro anche a mostrare positivamente che il finalismo è compatibile con la legalità naturale. Quanto alla legge della conservazione dell'energia, Hartmann sostiene che essa non è messa in discussione dall'esistenza di forze spirituali finalistiche perché esse non sono sommabili alle forze meccaniche, in quanto qualitativamente diverse. Non che, come avveniva nella tradizione spiritualistica, tali forze siano ontologicamente diverse dalle forze meccaniche (come si è visto Hartmann

Hartmann fosse pienamente cosciente della complessità dei problemi in discussione. Nel 1877 Hartmann ripubblica il lavoro con il suo nome e, nell'occasione, confuta la sua autoconfutazione in un'introduzione e in una serie di note (questa edizione è stata poi inserita nel III voi. della PU, qui utilizzata). Probabilmente Hartmann pensava in questo modo di rilegittimare scientificamente la PU, intorno alla quale si stava consolidando un giudizio complessivamente negativo; egli sperava che, sbaragliato l'avversario ricono­ sciuto per comune ammissione come il più pericoloso - vale a dire, paradossalmente, se stesso! -, il dibattito intorno alla PU avrebbe potuto riaprirsi su nuove basi ad essa più favorevoli. L'operazione tuttavia, che venne recepita come un altro abile e spregiudicato tentativo di propaganda letteraria (cfr. ad esempio O. Schmidt 1877, p. 4 nota, oltre a quanto s'è detto di Bahnsen), non produsse gli effetti sperati. 19 PU III, p. 74 s. Il senso di questa posizione risulta più chiaro alla luce delle considerazioni che Hartmann svolge circa la freddezza e l'inumanità di un mondo con­ cepito solo in termini meccanicistici e circa la necessità di accostarsi al mondo mediante il concetto di volontà, l'unico in grado di assicurare un'adeguata mediazione fra la realtà naturale e le esigenze ideali dell'uomo (PU III, p. 29 s.). Hartmann ripropone il motivo etico-umanistico caratteristico della filosofia di Schopenhauer, ma va da sé che una tale prospettiva è qualcosa di diverso da quel metodo induttivo che Hartmann dice d'impie­ gare e che qui dovrebbe difendere. Non per caso Hartmann parla in questo contesto anche di una deduzione del finalismo della natura a partire dai principi speculativi del sistema (PU III, p. 22 s.) e non per caso, nella maggioranza delle sue controbiezioni, egli si sforza non tanto di provare positivamente la finalità della natura, quando di dimostra­ re che le scienze della natura non escludono la possibilità del finalismo.

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supera il dualismo spirito-materia in un monismo dinamistico): esse sono diverse in quanto, pur potendo agire sulle forze meccaniche e determinare la dirczione del loro esplicarsi, non sono « localizzate » (quest'idea sembra derivare da Johannes Mùller) (PU III, p. 145). La stessa legalità non è messa in discussione neppure dalla presenza negli individui complessi, accanto alle forze atomiche materiali, di forze centrali organiche non atomiche (PU III, p. 136 s.). Il dilemma cui Hartmann si trova di fronte è il seguente: o le forze organiche modificano l'esplicarsi « naturale » delle forze atomiche - e allora le leggi meccaniche non hanno validità universale -, oppure non lo modificano - e allora non si comprende che senso abbia contrapporre il finalismo al meccanicismo, l'organico all'inorganico. Al di là di alcuni artifici verbali 20, Hartmann sembra indirizzarsi verso l'abbandono di una specifica causalità finalistica all'interno della natura e verso un suo recupero nei termini di un'interpretazione finalistica dell'insieme della sua struttura meccanicistica: la costru­ zione meccanicistica del cosmo è spiegabile solo come risultato di un pro­ getto ideale - esso stesso regolato da una sua precisa logica; il meccanici­ smo, in quanto legalità e non caos, è di per sé teleologie©, l'assoluto mec­ canicismo - l'assoluta legalità del cosmo - coincide con l'assoluta teleolo­ gia 21 . Hartmann tuttavia non rinuncia, specie nei confronti del darwini­ smo, ad un'estenuante « guerriglia », che consiste nel riproporre, di fronte ad ogni difficoltà di tale teoria, la possibilità di risolverla mediante un intervento diretto e finalistico dell'inconscio e nel ribadire ad ogni pie so­ spinto il carattere aprioristico della tesi che rifiuta l'esistenza di cause spi­ rituali (cfr. ad es. PU III, p. 465). 20 Egli, ad esempio, sostituisce il termine Eingriff (intervento) con il termine Einfluss (influsso) per indicare l'azione delle forze spirituali sulle forze naturali - questo termine nelle intenzioni di Hartmann dovrebbe manifestare meglio la non eccezionaiità - e quindi la « legalità » - del ruolo dell'inconscio. In questa stessa prospettiva Hart­ mann sostiene che le forze spirituali non modificano la quantità ma la qualità dell'espli­ carsi di.quelle meccaniche (PU III, p. 467). 21 PU III, pp. 41, 457, 459, 469. All'interno di questa prospettiva Hartmann tenta anche un recupero della distinzione fra organico ed inorganico: l'organico sarebbe rea­ lizzato attraverso un prevalere dei momenti ideali, l'inorganico attraverso un prevalere dei momenti materiali (PU III, p. 469). Anche questa distinzione - ormai solo quantita­ tiva - non si sottrae alle critiche precedenti, specie per l'indeterminatezza in cui Hart­ mann lascia il significato del termine « momento », forse da sostituirsi al termine « in­ flusso »: non si capisce in particolare come si possa parlare di un prevalere del momento ideale, se, come sembra, il momento ideale - la specifica rappresentazione inconscia che determina il realizzarsi della volontà - deve essere ugualmente presente in ogni attività dell'inconscio, sia essa materiale o spirituale.

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Quanto al metodo impiegato nella parte speculativa della Filosofia dell'inconscio, le posizioni che vengono delineandosi rispecchiano abba­ stanza fedelmente impostazioni oramai consolidate. Gli autori che in qual­ che misura si riconoscono nella tradizione speculativa tedesca sottolineano con soddisfazione la presenza di questa componente, che distacca Hart­ mann dal materialismo e dal neokantismo, e sostengono che tale compo­ nente costituisce il nucleo « forte » del pensiero di Hartmann. Nei suoi confronti la parte empirico-induttiva svolge un ruolo tutto sommato mar.ginale e quindi estrinseca e inutile è la pretesa di Hartmann di giungere ad una sintesi fra conoscenza empirica e speculazione 22 . Michelet e Volkelt rappresentanti di quell'hegelismo spesso criticato da Hartmann - si spin­ gono ad affermare che il dualismo fra scienze della natura e speculazione, delineato e non risolto da Hartmann, possa e debba essere superato me­ diante l'uso del metodo dialettico, una volta correttamente compreso e correttamente impiegato 23 . 22 Cfr. Bergmann 1869, p. 423 s. (lamenta tuttavia nella costruzione speculativa di Hartmann la mancanza di cautela critica); Haym 1873, p. 80 (Hartmann, nonostante le sue polemiche verso l'hegelismo, è rimasto legato al panlogismo e al razionalismo); Lasson 1876, pp. 394-396 (la filosofia di Hartmann è genuinamente speculativa e il suo ricorrere all'induzione e alle prove empiriche è sostanzialmente accessorio, perché egli non giunge ai suoi principi per quella via); Melzer 1882, p. 224 (Hartmann è essenzial­ mente un mistico); Sommer 1884, p. 3 (il fondamento della filosofia di Hartmann non è l'induzione, ma la speculazione). 23 Michelet 1870, p. 86. Michelet ha difeso energicamente il metodo dialettico anche in una recensione del saggio di Hartmann sulla dialettica (Michelet 1868; la recen­ sione accenna ad un carteggio intercorso fra Hartmann e Michelet riguardante questo scritto che Hartmann, prima della pubblicazione, deve aver inviato in visione a Miche­ let; questi afferma di avergli comunicato le sue critiche, senza peraltro riuscire a convin­ cerlo a modificare il testo). Michelet sostiene che Hegel non ha mai negato validità al principio di contraddizione e che quindi l'intera « confutazione » di Hartmann - che si basa su questo presupposto - è priva di valore. L'errore di Hartmann dipende da una banale confusione fra i contraddittori - in relazione ai quali Hegel si guarda bene dal negare la validità del principio di non contraddizione - e i contrari - la cui opposizione Hegel invece ritiene debba essere superata nel processo dialettico. In questa recensione e in una relazione tenuta alla « Philosophische Gesellschaft » di Berlino su altri due scritti di Hartmann (Michelet 1871). Michelet si esprime frequentemente in modo sprezzante nei confronti di Hartmann, le cui lacune sono fatte dipendere dalla sua for­ mazione autodidatta. Particolarmente significativo è l'ostracismo con cui si chiude la relazione citata: « In conclusione auguro a tutti dal più profondo del cuore che noi filosofi in futuro non abbiamo più da occuparci di lui » (ibid., p. 198). Quanto a Volkelt, egli si sforza di mostrare come il metodo hegeliano non escluda il ricorso all'esperienza. L'uomo contiene in sé per intero P« idea logica », ma mediante essa non si possono costruire le singole cose, i singoli individui. L'idea infatti, nel momento in cui produce la natura e il mondo storico, non rimane nelle categorie del puro pensiero, ma opera

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Neokantiani e materialisti da parte loro rifiutano ogni valore alla spe­ culazione; per Vaihinger l'idea di un sapere speculativo viene a reintrodur­ re un « organo della filosofia » e a rilegittimare le tanto deprecate « intui­ zioni intellettuali » degli idealisti. Secondo Vaihinger, che qui riprende integralmente Lange, il criticismo ha mostrato che la necessità di principi fondamentali che si riscontra nel saper teoretico deve essere soddisfatta da una parte, in positivo, individuando i principi generali del conoscere (teo­ ria della conoscenza), dall'altra, in negativo, mostrando l'impossibilità di un sapere assoluto che si proponga di raggiungere la cosa in sé (metafisica in senso tradizionale). Con ciò tuttavia non viene tolto ogni spazio per i concetti della metafisica: essi vanno visti come prodotti dell'attività psico­ logica e più precisamente dalla tendenza a ridurre ad unità ed armonia il molteplice, una tendenza che si manifesta già nell'attività dell'intelletto ma che si dispiega completamente, come mostrato da Kant, nell'attività della ragione. Questa tendenza si esprime nella « libera sintesi », nella quale alle mediante le categorie specifiche della natura e dello spirito (spazio, tempo, gravita, elettricità, diritto, moralità, arte etc.), categorie accessibili all'uomo solo attraverso l'esperienza (Volkelt 1873, p. 97 s.). Solo in un secondo momento il contingente del­ l'esperienza può e deve essere inserito nell'ordine dialettico della realtà, le cui strutture di fondo sono offerte dalla logica. Quanto al contrasto fra le leggi dell'intelletto e quelle - dialettiche - della ragione, giudicato da Hartmann insanabile, Volkelt osserva che la contraddizione dialettica è radicalmente diversa dalla contraddizione della logica forma­ le, in quanto essa presuppone l'unità, Ylneinander, mentre la seconda la divisione, la separazione, YAussereinander. Ora, posto che lo sviluppo dialettico passa necessaria­ mente per il momento della massima separazione - che si realizza nel mondo spazio­ temporale -, risulta garantita l'esistenza di una parte della realtà per cui, almeno in prima istanza, non può essere applicata la dialettica e per cui conscguentemente vale senza limitazioni il principio di non contraddizione. La riconsiderazione dialettica della realtà non giudica il punto di vista dell'intelletto come qualcosa di radicalmente sbaglia­ to, ma lo vede come una parte del tutto, come una considerazione unilaterale - superata ma conservata nella comprensione speculativa del tutto (ibid., pp. 85 s. e 211-213). D'altra parte la comprensione intellettuale della realtà non è mai superata definitivamen­ te dalla ragione, perché l'idea nella sua eterna produttività continua ad alienarsi nella natura, per poi sempre ricostruire l'unità dialettica. Di qui l'altrettanto eterna legittimità di una considerazione non dialettica -intellettuale - della natura (ibid., p. 214). Hart­ mann, come già in precedenza aveva fatto nei confronti di Michelet (Hartmann 1868), ha replicato alle critiche di Volkelt ponendo in particolare l'accento sul fatto che le sue tesi, se in qualche misura rendono possibile una conciliazione fra concetti intellettuali e concetti dialettici (Hartmann pare riconoscere la possibilità che la distinzione tra i due tipi di concetti dipenda dal punto di vista secondo cui sono considerati), non sono in grado di superare l'opposizione fra leggi dialettiche e leggi intellettuali. Hartmann non accetta infatti la tesi secondo cui nell'ambito di una prospettiva dialettica l'uso delle leggi intellettuali sarebbe giustificato dalla processualità del conoscere e dai limiti della facoltà conoscitiva umana (NSH, pp. 262-265).

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idee della ragione viene dato un contenuto mediante l'arte e la poesia, che per quanto appartenenti alle più nobili funzioni dello spirito umano, non possono in alcun modo dar luogo ad un sapere dimostrativo e quindi ad una scienza (Vaihinger 1876, p. 20). La natura di questo completamento l'« ideale » -, in quanto non scientifico, è qualcosa che riguarda il gusto individuale dell'uomo, anche se, per questo, non deve essere considerato come interamente arbitrario 24 . In ogni caso, per tornare alla critica di Hartmann, è impensabile qualsiasi « conciliazione » fra speculazione e scienza, giacché le idee metafisiche, in quanto prodotti della fantasia, devo­ no necessariamente entrare in contraddizione con i risultati della scienza 25 .

2. L'INCONSCIO NELLA CORPOREITÀ E NELLA PSICOLOGIA. Si è visto come nella prima parte della Filosofia dell'inconscio Hart­ mann analizzi ed interpreti una serie di fenomeni corporei con l'intenzione di rendere probabile l'ammissione dell'esistenza di una volontà e di una rappresentazione inconscia in ciascuno dei soggetti di tali fenomeni. Que­ sta parte della filosofia di Hartmann è stata oggetto d'infinite discussioni, poiché tuttavia esse toccano solo in misura marginale il tema del pessimi­ smo, ci si può limitare a qualche indicazione schematica. La critica riconosce in generale la serietà dei problemi affrontati da Hartmann in queste pagine, spesso giudicate le più interessanti del libro: 24 Sulla concezione della metafisica in Lange cfr. Grillenzoni 1983. Nella sua cri­ tica a Lange e Vaihinger Hartmann, NSH, p. 89 s., non tiene alcun conto del fatto che secondo Lange la metafìsica dipende dalla tendenza naturale dello spirito umano a co­ struire un'immagine unitaria ed armonica della realtà e che, conscguentemente, l'« ideale » che tale tendenza deve soddisfare deve quanto meno rispondere a questi requisiti, anche se del tutto soggettiva e « personale » rimane la « forma speciale » che essa può assumere. Su questo, come si vedrà, è fondata la preferenza che Lange e Vaihinger danno all'ottimismo nei confronti del pessimismo. 25 Vaihinger 1876, p. 12. Ebbinghaus 1873, p. 5 s., sottolinea invece l'incerto statuto del sapere speculativo in Hartmann. La sua pretesa natura intuitiva (mistica) non è infatti sufficiente a determinarne in modo univoco il carattere, giacché una qualche forma d'intuizione si trova alla base di qualsiasi forma di sapere. Il problema è di vedere se e in che modo le intuizioni si elevano a sapere; ma nella parte speculativa della sua opera Hartmann oscilla fra argomentazioni di tipo puramente logico e argomentazioni che, hegelianamente, tendono a presentare la sua metafisica come necessario risultato del confronto dialettico fra prospettive metafisiche alternative. Il problema è natural­ mente liquidato in modo ancor più sbrigativo dai materialisti: Stiebeling 1871, p. 8, ad esempio afferma semplicemente che la « fusione » - il termine è ripreso da Hartmann fra scienza e speculazione è impossibile a causa della loro completa eterogeneità.

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Hartmann, specie in riferimento all'istinto, in sostanza ha indicato con lu­ cidità le difficoltà che le spiegazioni meccanicistiche, materialistiche e darwinistiche non sono ancora riuscite a superare; in tale giudizio concor­ dano tanto i teisti - prevalentemente dominati da preoccupazioni apologetiche - quanto quei filosofi - soprattutto Haym ed Ebbinghaus - che guar­ dano allo sviluppo della scienza senza preoccupazioni speculative 26. Di parere inverso sono invece naturalmente i materialisti, che, ora mettendo in discussine l'affidabilità del materiale empirico raccolto da Hartmann, ora riproponendo in modo più o meno dogmatico le posizioni di Darwin, sostengono che il ricorso a strutture meccaniche - ovviamente materiali - venutesi a sviluppare nel corso dell'evoluzione consente di spie­ gare adeguatamente i processi « finalistici » individuati da Hartmann (Stiebeling 1871, p. 41 s.; O. Schmidt 1877, p. 23 s.). Anche fra i non-materialisti tuttavia nessuno ritiene che il tipo di so­ luzione proposta o quanto meno ritenuta probabile da Hartmann sia da considerarsi accettabile. Haym ed Ebbinghaus, come si è accennato sopra, insistono sull'infecondità epistemologica delle argomentazioni hartmanniane, sottolineando in questo contesto l'uso esageratamente esteso dell'ana­ logia 27 . Autori come Pesch, Ebrard, Schùz e Schwarz ritengono che l'esi26 I. Fichte 1873, p. 37; Golther 1878, p. 104; Schwarz 1875, p. 69 s.; Ebrard 1873, p. 106 s.; Schuz 1884, p. 89; Haym 1873, p. 54; Ebbinghaus 1873, p 17; Schweizer 1874, p. 367. I capitoli dedicati all'inconscio relativo e ai movimenti riflessi sono invece in genere considerati negativamente; il primo perché ininfluente ai fini della dimostrazione dell'esistenza dell'inconscio, il secondo perché non fa altro che riproporre ad un livello diverso le difficoltà che si incontrano nello spiegare il modo in cui lo « spirituale » (le volizioni) agisce sul « materiale » (le terminazioni nervose). Questi giudizi d'altra parte, come s'è visto, erano condivisi dallo stesso Hartmann. 21 Haym 1873, p. 56 s., sostiene che tutte le argomentazioni di Hartmann si fon­ dano sul presupposto che i processi nella natura si debbano svolgere con modalità analoghe a quelle che noi sperimentiamo nella nostra vita psichica. Questo uso dell'ana­ logia tuttavia manca di qualsiasi supporto empirico: noi non riusciamo a rappresentarci i processi istintuali se non come indirizzati alla realizzazione di un fine conosciuto, ma non abbiamo nessun dato per poter affermare che questa conoscenza esista davvero; lo stesso discorso vale per la tesi che questo fine - ancora per analogia con la nostra vita psichica - debba essere presente in una rappresentazione (inconscia); il modo di proce­ dere di Hartmann mette capo a una spiegazione che non è né psicologica - l'inconscio è per definizione fuori della coscienza -, né fisiologica, perché non viene indicato nes­ suna struttura o organo che produca o guidi il comportamento istintuale. Secondo Haym poi, l'attribuire la volontà a realtà diverse dall'uomo non significa ampliare il concetto di volontà, ma privarlo di un essenziale carattere mediante il quale ci è noto ovvero la coscienza (l'obiezione è identica a quella a suo tempo rivolta da Haym a Schopenhauer); in definitiva in Hartmann l'analogia diviene metafora, con tutte le con­ seguenze che ciò comporta (ibid., pp. 48-51). D'altra parte Haym sottolinea anche che

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stenza del finalismo debba essere spiegata non già ipotizzando un'attività inconscia inerente ai singoli soggetti, quanto riferendosi ad una coscienza organizzatrice sovraindividuale, ovvero a Dio 28. Nei confronti della seconda parte della Filosofia dell'inconscio, in cui Hartmann dimostra l'esistenza dell'inconscio nello spirito umano, la critica ha nel suo complesso un atteggiamento meno negativo; la tesi dell'esistenza di processi psichici inconsci è infatti largamente discussa e generalmente condivisa da molti autori dell'epoca 29. l'idea di un'originaria produttività finalistica inconscia della natura non è affatto origi­ nale, ma ha molti precedenti nella filosofia tedesca (sono citati Jacobi, Herder e Goethe [ibid., p. 41]); Ebbinghaus 1873, p. 18 s., ritiene che, data la conoscenza lacunosa della struttura materiale dei corpi, sia impossibile escludere che gli istinti possano essere spiegati in termini materialistici; l'autoregolazione e l'adattamento dell'esplicarsi degli istinti - che appare finalistico - potrebbe dipendere da differenze presenti negli stimoli per noi impercettibili. Ebbinghaus tuttavia non concorda con Haym nel rifiuto catego­ rico del ragionamento analogico (senza far uso di esso ad esempio, non si potrebbe neppure attribuire agli altri uomini la coscienza). 28 Pesch 1873, p. 339, ritiene che il finalismo possa essere meglio spiegato facendo uso della dottrina della forma peripatetico-scolastica che pone il fine come qualcosa di oggettivamente presente negli esseri viventi; Hartmann insiste invece su una presenza soggettiva del fine, ma per fare ciò egli deve introdurre uno streben che necessariamente non è una volontà razionale e cosciente, ma che pure come tale si comporta, violando il principio secondo cui nil volitum nisi praecognitum. Tutta questa teoria nasce secondo Pesch dall'ateismo di Hartmann che fa « dell'assenza di Dio il criterio di verità » (ibid., p. 348 s.). Ebrard 1873, p. 118, sostiene che la scelta del mezzo appropriato può avve­ nire solo conoscendo il fine e le leggi generali (concettuali) mediante le quali si può giungere alla sua realizzazione; ciò ovviamente può avvenire solo attraverso una coscien­ za, ovvero Dio; in generale egli si dichiara d'accordo con Hartmann su tutti i punti, tranne che sulla negazione della coscienza all'Assoluto, che Hartmann dovrebbe ricono­ scere come « der Ewigselbstbewusste » (ibid., p. 288). Schùz 1884, p. 89, riprendendo Ebrard, afferma che in ogni caso l'agire dell'inconscio ha come condizione la preesisten­ za di una coscienza. Schwarz 1875, p. 69 s., sostiene che l'istinto è il risultato dell'orga­ nizzazione data alla natura da uno spirito onnisciente; esso opera poi in modo meccani­ co, come è provato dagli errori in cui incorre. 29 II problema dell'inconscio si afferma nella seconda metà dell'Ottocento soprat­ tutto in relazione allo studio dei processi percettivi e della memoria, ambito all'interno del quale un posto di rilievo deve essere attribuito a Schopenhauer. Di inconscio in questo senso si parla ampiamente per es. in Wundt, Helmholtz, Fortlage, Fechner, au­ tori che lo stesso Hartmann cita nella PU (cfr. al riguardo Poggi 1977, pp. 561-594). Significative indicazioni del modo in cui i contemporanei collegano la problematica dell'inconscio psicologico in Hartmann con le discussioni della psicologia dell'epoca si trovano in Heydebreck 1884 e in Cesca 1885. Heydebreck, pur senza fare esplicito riferimento ad Hartmann, ne riprende gran parte delle tesi, riconoscendo la legittimità di ipotizzare l'esistenza di processi psichici inconsci come cause di effetti -fenomeni psichici - che altrimenti risulterebbero inspiegabili: le sensazioni di ribrezzo, l'impres­ sione di conoscere una persona che si è già vista da piccoli, la memoria, il processo di

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Bisogna anche rilevare che la critica interviene quasi esclusivamente sulle prime formulazioni hartmanniane della teoria dell'inconscio psicolo­ gico: le sue più tarde rielaborazioni sono raramente prese in considerazio­ ne. Conscguentemente non sempre le critiche rivolte alla teoria dell'incon­ scio psicologico di Hartmann risultano adeguate all'insieme della riflessio­ ne di Hartmann 30. Anche fra gli autori che non rifiutano l'idea dell'inconscio psicologico tuttavia non tutte le prove hartmanniane sono accolte incondizionatamen­ te. Fra di esse molto discussa è quella che postula l'esistenza di volizioni inconsce come cause dei sentimenti di cui non sappiamo rintracciare l'ori­ gine in volizioni consce. Più che l'argomentazione in sé tuttavia appare problematica la teoria del sentimento che ne sta alla base, teoria che sarà in seguito ripresa con specifico riferimento al pessimismo. Solo Gòring - la cui psicologia è di chiara impostazione schopenhaueriana - accetta questa posizione 31 . Per Haym al contrario il sentimento deve essere concepito come una componente autonoma della vita psichica; prima della volizione

costruzione dell'oggetto in senso kantiano Egli però si mostra molto prudente circa la possibilità di precisare la natura dell'inconscio - ad esempio giudica illegittimo parlare di rappresentazioni inconsce - e ritiene che ci si debba limitare a parlare dell'esistenza di un fattore spirituale sconosciuto che, come la cosa in sé kantiana, starebbe alle spalle del fenomeno della coscienza. Giovanni Cesca [1858-1908], un positivista italiano che aveva studiato in Austria, perito nel terremoto di Messina, compie una vasta rassegna degli autori che aveva parlato dell'inconscio, aggiungendo ai nomi sopra citati quelli di Rosmini, Galluppi, Brentano, James Mili, Hamilton, Lewes, Spencer, Bastian, Maudsley, Carpenter e Morell. Egli nega l'esistenza di rappresentazioni inconsce ma ammette la presenza di un'attività inconscia. L'interesse dell'epoca per questo tipo di problema­ tica è anche provata dai primi tentativi di una storia di questo concetto, che si affiancano agli sforzi in tal senso compiuti da Hartmann; cfr. in particolare Volkelt 1873, pp. 1-101, dove peraltro domina una prospettiva più speculativa che psicologica (Volkelt sottolinea particolarmente il ruolo di Carus 1846). In questo quadro si comprende come qualche autore sottolinei che in questo ambito Hartmann non sia particolarmente originale (Ebbinghaus 1873, p. 22 s. e Jung 1872, p. 420). 30 Ad esempio a non pochi autori sembra esser sfuggita la differenza qualititativa che Hartmann pone fra il conscio e l'inconscio; cfr. Achelis 1884 e 1893 che collega senz'altro la teoria dell'inconscio di Hartmann con la problematica dell'apparire e delle scomparire delle rappresentazioni dalla coscienza e della soglia percettiva (Fechner) (Thomas Achelis [1850-1909] fu professore di ginnasio a Brema; fu influenzato da Wundt e si interessò di antropologia e psicologia dei popoli). Volkelt 1873, p. 88, e Ebbinghaus 1873, pp. 26-29 invece rimproverano precisamente ad Hartmann una trop­ po rigida separazione e contrapposizione fra conscio e inconscio. 31 Gòring 1874, voi. I, p. 50 (Karl Gòring [1841-1879], professore di filosofia a Lipsia, fu vicino alle posizioni del positivismo; Hartmann ne parla come di un autore favorevole al suo pensiero, PU I, p. 452).

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esso ci fa percepire il valore o il disvalore, « confronta » fra di loro la rappresentazione della situazione presente con la rappresentazione della situazione futura che si vuole realizzare e ci pone quindi in condizione .di volere. Ma il sentimento richiede per sua natura un soggetto cosciente ed è per questa ragione che Hartmann, il quale vede il centro della vita psichi­ ca nell'inconscio, non può che attribuirgli un carattere derivato 32 . Secondo Ebbinghaus invece - che al pari di Haym rivendica l'autonomia del senti­ mento, anche se a suo giudizio le distinzioni fra le varie facoltà sono da considerarsi pure astrazioni - è l'esigenza sistematica di mantenere anche in ambito psicologico il parallelismo con i due principi metafisici di volontà (Schopenhauer) e idea (Hegel) a guidare Hartmann nella sua psicologia 33 . Il tema dell'autonomia del sentimento è largamente sviluppato da Sommer. Questo autore riprende e radicalizza le posizioni di Haym, facen­ do del sentimento l'elemento centrale della vita psichica: a suo avviso non solo il volere ma anche il rappresentare sono pensabili solo in rapporto al sentimento: « solo nel sentimento, a cui appartengono in senso lato anche le sensazioni sensibili, si manifesta... il momento contenutistico della vita, dal quale sorgono gli impulsi del volere e del rappresentare »; senza senti­ mento, senza la percezione di un valore (gefùhlter Werth) non è dunque pensabile il volere; la volontà rappresenta solo il momento « formale » della vita psichica cui Hartmann - troppo propenso alla speculazione e ai concetti astratti - ha attribuito un'esagerata importanza, senza tener conto tra l'altro del legame organico che sussiste fra tutti gli aspetti della vita psichica 34. L'insostenibilità della teoria di Hartmann è del resto provata 32 Haym 1873, p. 56 s. Contro queste critiche polemizza Taubert 1873, p. 16 s., sostenendo che Hartmann non nega la realtà psicologica del sentimento, bensì si limita ad affermarne il carattere derivato. Taubert non coglie che le critiche di Haym mirano non solo a riaffermare la realtà del sentimento, ma anche la sua autonomia e, in ultima analisi, la sua superiorità sulla volontà. 33 Ebbinghaus 1873, pp. 31-33. Contro la dipendenza del sentimento dalla volontà si pronuncia anche Kirchmann 1875, p. 17. 34 Hugo Sommer (1839-1899), giudice a Blankenburg, si è occupato di Hartmann in parecchi scritti e recensioni. Sommer 1883 è stato premiato nel concorso sul pessimi­ smo bandito da una società teologica di Haarlem (cfr. sotto). L'importanza da lui attri­ buita all'autonomia del sentimento deriva dalla sua adesione alla filosofia di Lotze, cui Sommer si sentiva particolarmente legato (cfr. Sommer 1875 e 1881). Come si vedrà questa tesi svolge poi un ruolo molto importante anche nella critica del pessimismo. Per la critica alla teoria hartmanniana del sentimento cfr. Sommer 1883, p. 30 s., e 1879c, pp. 483-502. Anche secondo Horwicz 1880, p. 277, la volizione non precede il senti­ mento ma ne è « emanazione » (Ausfluss). Adolf Horwicz (1831-1894) fu uno psicologo piuttosto noto, che fra l'altro polemizzò con Wundt sulla « Vierteljahrschrift fùr wissenschaftliche Philosophie» (1879-1880) proprio circa la natura del sentimento.

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dall'impossibilità di spiegare tutti i sentimenti come riflessi di volizioni, specie nel caso dei sentimenti più elevati (Sommer 1883, p. 35 s. e 1879, p. 85). Alla base di questi errori - e quindi dell'ingiustificato ricorso all'in­ conscio - sta l'adesione di Hartmann alla tesi kantiana dell'inconoscibilità del soggetto; per questo motivo le varie componenti psicologiche non ven­ gono ricondotte al soggetto, ma fatte derivare da attività astratte prive di realtà (Sommer 1883, p. 29). Al contrario di Sommer, Volkelt vede nel riferimento a Kant un ele­ mento di forza della posizione di Hartmann; in una dettagliata analisi del pensiero kantiano, concorda con Hartmann nel ritenere inevitabile il sup­ porre che tanto le intuizioni pure quanto le categorie siano presenti incon­ sciamente nella psiche umana; lo stesso « io penso », che anche Kant rico­ nosce come non presente immediatamente in ogni processo conoscitivo, deve essere interpretato come almeno parzialmente inconscio; ancora, il giudizio estetico e il giudizio teleologico, così come sono spiegati da Kant, non possono che avere fondamento nell'inconscio (Volkelt tende tuttavia a interpretare l'inconscio nei termini dell'idealismo oggettivo - le categorie hegeliane - piuttosto che nei termini del kantismo fisiologico di derivazio­ ne schopenhaueriana allora diffuso) 35 . Molte perplessità suscita inoltre l'utilizzo di concetti tipici della psico­ logia del conscio per caratterizzare la natura dell'inconscio. Per Sommer Hartmann, anche in questo caso fuorviato dal suo formalismo, ritiene pa­ radossalmente che la coscienza sia solo una forma dell'attività psicologica e che quindi da essa si possa prescindere senza alterare il significato di concetti quali rappresentazione e volontà; in realtà la rappresentazione ci è nota solo in quanto inerente ad una coscienza, cosicché il fondamentale concetto hartmanniano di rappresentazione inconscia è semplicemente un Unbegriff. Lo stesso discorso può ripetersi per la volontà: essa ci è nota solo in quanto accompagnata dalla coscienza di ciò che si vuole, sia pure, in certi casi, in modo confuso e indistinto. L'assurdità della posizione risul­ ta ancor più evidente se con Lotze si pensa che « l'essenza di ogni realtà può consistere solo nel vivente essere per sé [la coscienza] » (Sommer 1883, pp. 31-34). 35 Volkelt 1873, pp. 46-62. Il tema è anche discusso in Volkelt 1873b. In generale le argomentazioni di Hartmann a favore dell'inconscio che fanno riferimento ai processi conoscitivi sono giudicate piuttosto favorevolmente, per quanto numerose siano le prese di distanza dal realismo gnoseologico che Hartmann sviluppa in quel contesto; cfr. ad esempio Gòring 1874, voi. I, p. 179, che riconosce la presenza di processi inconsci nel pensiero, anche se vede una differenza solo quantitativa fra attività inconsce e consce.

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Anche per Gòring, che peraltro accetta il concetto di volontà incon­ scia, non è lecito parlare di rappresentazione inconscia (Gòring 1874, voi. I, p. 192 s.), tanto più che, come osserva Kirchmann, Hartmann attribuisce ad essa tutti i caratteri della rappresentazione conscia, cosicché è legittimo domandarsi se la sua introduzione non sia un espediente per fissare un'ar­ tificiosa linea di demarcazione fra il pensiero dell'uomo e quello dell'Unotutto (Kirchmann 1875, p. 43). Insomma, secondo Reichlin-Meldegg, « se avessimo una conoscenza inconscia, conosceremmo qualcosa che non co­ nosciamo » (Reichlin-Meldegg 1869, p. 122). Per Haym l'inconscio di Hartmann non è altro che la coscienza liberata dei limiti che le sono spe­ cifici, nel quadro di un procedimento in cui i risultati da raggiungere sono fissati aprioristicamente, in contraddizione con il conclamato metodo in­ duttivo. In ogni caso le argomentazioni di Hartmann sono ben lungi dal provare l'esistenza di un'autonoma realtà psichica indipendente dalla co­ scienza 36. Un atteggiamento che si distingue per la sua radicalità è infine assun­ to da Brentano, per il quale il rifiuto dell'inconscio in ogni sua forma co­ stituisce uno dei cardini della psicologia 37 . Brentano delinea anzitutto quattro procedimenti in base ai quali si può giungere ad affermare l'esi­ stenza dell'inconscio: il mostrare che determinati fenomeni psichici richie­ dono come cause processi inconsci; il mostrare che determinati fenomeni psichici richiedono determinati effetti inconsci (è il caso delle « perceptiones insensibiles » di Leibniz: si percepisce il rumore delle onde, ma non quello delle singole gocce); il mostrare che la forza della coscienza conco­ mitante dei fenomeni psichici è una funzione della loro forza e che quindi in certi casi essa può non raggiungere un valore positivo (si tratta del pro36 Haym 1873, pp. 63 s., 73 e 79. Knauer 1873, pp. 6-9, concorda con Haym nel ritenere del tutto ingiustificata l'ontologizzazione dell'inconscio, i cui caratteri fonda­ mentali dipendono dalla confusione del concetto di volontà con il concetto di Trieb; in conclusione « la confusione è la madre della psicologia dell'inconscio ». Sulla stessa linea si muove Ebrard 1873, p. 176 s., che ritiene che i processi inconsci, pur innegabili, vadano riferiti al soggetto conscio e non ad un'ipotetica entità da esso diversa. Tutte queste critiche hanno la loro giustificazione nel fatto che Hartmann attribuisce al termi­ ne «inconscio» significati diversi. Ebbinghaus in proposito ne individua cinque: 1) l'insieme costituito da rappresentazione e volontà inconscia; 2) il soggetto di queste due funzioni (quindi qualcosa di diverso dalle due funzioni); 3) il concetto generale che designa tutte le funzioni individuali; 4) il termine collettivo che indica tutti i soggetti inconsci; 5) il principio metafisico originario (Ebbinghaus 1873, p. 11 nota). 37 Sull'impostazione complessiva della psicologia di Brentano (1838-1917) e sul ruolo in essa svolto dalla negazione dell'inconscio cfr. Civita 1982, pp. 9-66 e Bausola 1968, pp. 59-62.

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blema della soglia percettiva - ma secondo Brentano Fechner non sostiene che le sensazioni non percepite siano fenomeni psichici e quindi fenomeni psichici inconsci); il mostrare che, se non si ammettono dei fenomeni psi­ chici inconsci, risulta impossibile sostenere che si ha coscienza di un deter­ minato fenomeno psichico senza giungere ad affermare la presenza nella coscienza di un numero infinito di atti di coscienza (ad esempio, posto che la sensazione di un suono è cosciente, e posto che si è coscienti di avere quella sensazione, si dovrà ammettere la possibilità di un ulteriore atto psichico in cui si è coscienti di essere coscienti e così via all'infinito) (Bren­ tano 1855, voi. I, p. 145). In secondo luogo egli precisa una serie di condizioni che devono es­ sere soddisfatte perché tali procedimenti risultino metodologicamente ac­ cettabili: i fatti empirici sui quali si fondano devono essere sufficientemente accertati; essi devono essere spiegati realmente come effetti di quelle deter­ minate cause inconsce e non devono implicare altre conseguenze, anche se esse sono assenti nel caso in questione; infine l'ipotesi dell'inconscio non deve contraddire le leggi generali e universalmente accettate della psicolo­ gia (ibid. t voi. I, p. 146 s.). Sulla base di queste premesse, non risulta difficile mostrare l'inconsi­ stenza delle posizioni di Hartmann. In particolare Brentano fa notare come i processi dell'inconscio, così come sono caratterizzati da Hartmann, sono ben lungi dall'essere in accordo con le leggi generali della psicologia 38. D'altra parte le prove positive dell'esistenza di processi inconsci non sono convincenti perché i fenomeni descritti possono essere facilmente spiegati nei termini dei processi di coscienza; così il fatto che la soddisfazione di un determinato desiderio non produca il piacere sperato - argomentazione con la quale Hartmann crede di provare l'esistenza di una volontà e di un carattere inconscio -, può dipendere semplicemente da un'errata valutazione del fine che ci si era proposti o dalla naturale tendenza all'insoddisfazio­ ne per il presente e dalla costante ricerca di novità (ibid., voi. I, p. 162 s.). Lo stesso discorso vale per le argomentazioni che pretendono di spiegare con il ricorso all'inconscio la credenza nell'esistenza del mondo esterno o 38 Ad esempio l'inconscio conosce l'essenza della realtà, ma non conosce se stesso, non si stanca mai, ma organizza la materia in modo da risparmiare le sue forze, si serve di strumenti imperfetti per realizzare il suo fine, ma talvolta interviene per correggere il loro modo di esplicarsi, guida tutto il processo cosmico nel modo più saggio, ma talora consente che i suoi fini non vengano raggiunti. In conclusione l'inconscio di Hartmann è un deus ex machina che come il nous anassagoreo interviene in tutti i casi in cui una spiegazione puramente meccanica risulta impossibile (ibid., voi. I, p. 151 s.).

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determinate concatenazioni di pensieri il cui nesso non risulta immediata­ mente alla coscienza - qui Hartmann è associato a Maudsley (ibid., voi. I, p. 153 s.). Infine anche i cosiddetti movimenti involontari non rimandano necessariamente ad una volontà inconscia, ma potrebbero essere spiegati in termini fisiologici 39.

3. LA METAFISICA, LA FILOSOFIA DELLA NATURA E IL PROBLEMA DELLA NASCITA DELLA COSCIENZA.

Le parti più specificamente speculative della Filosofia dell'inconscio sono senza dubbio le più criticate: a parte qualche eccezione 40, i critici di Hartmann sottolineano tutti nei modi più vari lo scarso rigore e l'arbitra­ rietà della costruzione: per Michelet si tratta semplicemente di un curiosum filosofie©; per Knauer essa conduce dalla luce all'oscurità della notte; per Trautz è percorsa dall'inizio alla fine da infinite contraddizioni; per Carneri - che qui precorre Nietzsche - si tratta di un « tragico scherzo »; per Seydel Hartmann, così acuto e serio'nella critica delle dottrine altrui, nel costruire il suo sistema « fallisce dappertutto »; per Sommer ci si trova di fronte ad una « folle danza » che ha luogo intorno « a una parola senza senso » (inconscio); per Borries la metafisica di Hartmann è una « romanzeria metafisica »; per Braig « una bizzarra ipotesi costruita sullo scettici­ smo teoretico e il nichilismo pratico » 41 . 39 Ibid., voi. I, p. 161 s. Brentano d'altra parte non considera probanti tutte le argomentazioni che muovono da una base empirica di dubbio valore (fenomeni di chia­ roveggenza, presentimenti, premonizioni) o che trattano di fenomeni eccezionali, quali quelli caratteristici del genio (ibid., voi. I, p. 150). 40 Bergson (in Aa.Vv. 1879, p. 67) parla dell'opera di Hartmann come di un lavoro « epocale » (Epochemachende); Bergmann 1869, p. 424, e Lasson 1876, p. 417, giustifi­ cano i limiti dello scritto di Hartmann con la giovane età dell'autore che dovrebbe apportare in futuro le necessarie correzioni; I. Fichte 1873, p. 34, attribuisce ad Hart­ mann un grande talento filosofico e considera la PU una delle opere più significative dell'epoca. Quanto ad August Krohn (1840-1889) professore a Kiel, egli afferma che il valore di Hartmann non sta tanto nei risultati filosofici raggiunti, quanto nei motivi ispiratori della sua filosofia, giustamente idealista e speculativa (Krohn 1885). Neppure questo autore è dunque un ammiratore incondizionato di Hartmann, come Drews 1902, p. 60 s., vorrebbe far credere. 41 Michelet 1870, p. 95; Kranuer 1873, p. 2; Trautz 1876, p. 17; Carneri 1877, p. 60; Seydel 1879, p. 182 s.; Sommer 1879, p. 395; Borries 1880, p. 47; Braig 1883, p. 257. Questo giudizio è pienamente condiviso anche da Bloch 1923, p. 200, che definisce la metafisica di Hartmann « Unterhaltungsroman » ed « eklektische Phantasmagorie ».

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Forti opposizioni suscita in primo luogo l'attribuzione all'Assoluto del carattere di inconscio. Anzitutto si sottolinea come sia discutibile l'idea di porre come principio supremo un concetto di cui anche nell'ambito della psicologia si possono dare determinazioni solo negative (Achelis 1884, p. 505, e 1893, p. 50). Secondo Jung poi il carattere negativo del concetto di inconscio implica che esso non sia un prius: un inconscio in sé e per sé è qualcosa di « assolutamente impossibile » (Jung 1872, p. 421). La stessa obiezione, ma con un ricorso alla strumentazione aristotelico-scolastica, è nella sostanza riproposta da Knauer, secondo cui conscio ed inconscio sono accidenti ed anzi possono essere accidenti solo di ciò che a sua volta non può essere sostanza (ad esempio dell'istinto). L'inconscio è inoltre è un accidente negativo che ha senso solo postulando un positivo e non è un accidente che sussiste per sé ma solo per qualcuno, il che dimo­ stra la necessità di attribuire priorità alla coscienza 42 . Fichte e Michelet osservano che le attività intellettuali attribuite da Hartmann all'inconscio sono note solo come inerenti ad una coscienza e posseggono evidenti caratteri antropomorfici, il che rende poco verosimi­ le la mancanza della coscienza nell'Assoluto hartmanniano (Fichte 1873, p. 38; Michelet 1870, p. 88). Sulla stessa linea Schwarz sostiene che la negazione della coscienza nell'Assoluto non sia conciliabile con la presenza in esso di una conoscenza intuitiva; inspiegabile è poi come tale Assoluto possa dar luogo - nei suoi fenomeni - alla coscienza alla quale, pur non essendo essenziale al fonda­ mento della realtà, viene attribuita una funzione decisiva nello sviluppo del cosmo, giacché essa giunge addirittura a condizionare l'inconscio 43 . Quanto a Golther, egli critica la pretesa di Hartmann di chiamare nonostante tutto « spirito » il suo inconscio e di attribuirgli un pensiero inconscio nella forma della « chiaroveggenza » (concetto quest'ultimo ap42 Knauer 1873, pp. 15-21. Di Gustav Knauer si sa solo che fu pastore ad Erfurt ed autore di alcuni studi sulla filosofia di Kant. 43 Schwarz 1875, p. 48 s. In conclusione Hartmann, nello sforzo di arrivare all'Urtiefe finisce per approdare ad un'Untiefe. In ogni caso un Assoluto privo di coscienza non ha nulla a che fare con il concetto di Dio, e lo stesso Hartmann di fatto rende tale Assoluto inferiore all'uomo, il quale, grazie alla coscienza, può riuscire nell'impresa di redimere il mondo (e addirittura Dio), cosa che è impossibile all'Assoluto [di Heinrich Schwarz, classificato fra gli hegeliani, non si sa quasi nulla; questo scritto testimonia comunque un forte interesse per la problematica religiosa]. Anche per Stòckl 1874, p. 19, il sostenere la possibilità che l'Assoluto conosca le rappresentazioni senza aver co­ scienza - operando in una sofìa di sonnambulismo - è un'idea del tutto assurda, che solo un filosofo tedesco poteva avere.

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plicabile solo agli animali e comunque nell'ambito del corporeo). Di nuo­ vo, il tipo di pensiero che è specifico dell'Assoluto di Hartmann richiede non solo una coscienza, ma anche una personalità 44 . Rehmke invece, nel quadro di un'interpretazione fortemente dualisti­ ca della filosofia di Hartmann, ritiene che il problema della mancanza della coscienza nell'Assoluto debba essere affrontato separatamente per i due suoi attributi; posto che parlare di una volontà inconscia è altrettanto ple­ onastico, quanto parlare di un « mare senz'alberi » (la volontà, in quanto tale, non ha coscienza), si tratta di valutare la legittimità di parlare di rappresentazioni inconsce; ma questo concetto è troppo legato alla sogget­ tività e alla coscienza per poter essere trasferito senz'altro nell'ambito del­ l'Assoluto, dove assume la forma di un pensiero che non esiste come pen­ siero. In definitiva quindi è inutile e illegittimo parlare dell'Assoluto come inconscio 45. 44 Golther 1878, pp. 72-79 e 83. Golther sottolinea inoltre che la negazione della coscienza ha la precisa funzione di giustificare l'agire irrazionale e contraddittorio del­ l'Assoluto, cosicché sono vani gli sforzi di Hartmann di riaffermare per esso i caratteri di onnipotenza ed onniscienza - che comunque si manifestano dopo la decisione di creare il mondo. La filosofia di Hartmann è dunque in sostanza una « divinizzazione dell'istinto» (p. 82). Lo stesso Peters 1883, p. 268, pur così vicino alla filosofia di Hartmann (cfr. sotto), trova paradossale che l'inconscio hartmanniano debba conoscere ogni più minuto particolare della realtà, ma non se stesso (Peters identifica coscienza e autocoscienza). Naturalmente queste critiche presuppongono il rifiuto della teoria della coscienza di Hartmann, secondo cui essa è strutturalmente legata alla materia. Ma se­ condo Ch. Wirth 1893, p. 18, il coinvolgimento della materia è tanto più necessario nel caso delle rappresentazioni inconsce, cosicché Hartmann risulterebbe più coerente se sostenesse un puro materialismo. Hartmann e in particolare la Plùmacher hanno cercato in più di un'occasione di difendersi da questi attacchi, alla base dei quali starebbe il presupposto teista secondo cui la coscienza è un carattere assiologicamente superiore all'incoscienza e quindi deve toccare necessariamente all'Assoluto, per definizione la realtà più perfetta. Si tratta quindi di mostrare che tale presupposto non ha ragion d'essere, vale a dire che un Assoluto inconscio può essere pensato come « superiore » ad un Assoluto conscio. Sia Hartmann, PU II, pp. 175-177, sia Plùmacher 1890, p. 25, tuttavia non sanno fare di meglio che suggerire di sostituire al termine « inconscio » il termine « sovraconscio » (ùberbewusstes). In questo modo Hartmann e la Plùmacher sembrano non osservare che proprio lo sviluppo storico-cosmologico delineato nella PU dimostra ad abundantiam la legittimità del presupposto teistico: il mondo diviene « più saggio », raggiunge il suo fine (e quindi l'Assoluto diviene « migliore ») solo grazie allo sviluppo della coscienza. 45 Rehmke 1873, p. 13 s. Johannes Rehmke (1848-1930), allievo di Biedermann a Zurigo, dopo aver insegnato a S. Gallo, dal 1885 fu professore a Greifswald. Negli anni dell'insegnamento universitario si interessò prevalentemente di problemi gnoseologici, avvicinandosi al kantismo. Negli scritti dedicati ad Hartmann e al pessimismo - tutti appartenenti alla sua giovinezza - è presente un vivo interesse religioso e teologico. Lo scritto qui considerato - la dissertazione di laurea di Rehmke - è discussa da Hartmann

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Volkelt ed Haym riducono all'assurdo la posizione di Hartmann mo­ strando che la mancanza di coscienza dell'Assoluto ha come conseguenza la sua inconoscibilità e quindi l'arbitrarietà della sua determinazione come volontà e rappresentazione. Haym osserva che nei termini della teoria della coscienza hartmanniana la volontà, non potendo opporsi a se stessa, anche in ambito fenomenico non può avere coscienza di sé e quindi non può essere conosciuta (Hartmann avrebbe pienamente concordato con questa tesi): risulta allora evidente quanto sia discutibile la pretesa di Hartmann, di caratterizzare ulteriormente come inconscia questa realtà di per sé così sfuggente e di farne la componente essenziale dell'Assolu­ to. La stessa tesi è ripresa da Volkelt il quale la estende anche alla rap­ presentazione inconscia, qualitativamente diversa da quella conscia e quin­ di per definizione irrappresentabile (Haym 1873, p. 116; Volkelt 1873, pp. 234-238). Prese di posizione non meno critiche si riscontrano anche nei con­ fronti dell'ulteriore determinazione dell'Assoluto come volontà e rappre­ sentazione (o idea), la sintesi fra Schopenhauer ed Hegel che Hartmann vede come la necessaria conclusione dello sviluppo della speculazione te­ desca, prefigurata dal pensiero dell'ultimo Schelling. Proprio la compo­ nente schellinghiana appare a molti critici dominante, con tutti i limiti che ciò comporta - Schelling non godeva in quegli anni di una buona fama: Hartmann, muovendosi nell'ambito di un sostanziale eclettismo, si sarebbe limitato a riproporre le « mitologie » caratteristiche dell'ultima fase del pensiero del secondo grande idealista 46. L'asserita necessità di coordinare i due attributi e il tipo d'interpretazione che a tal fine vien data della volontà e della rappresentazione provo­ cano poi vivaci reazioni specie da parte degli hegeliani e degli schoin NSH, dove Rehmke è considerato un hegeliano - ma lo stesso Hartmann si dichiara non troppo sicuro di questa classificazione, perché la critica al sistema di Hartmann è qui condotta in termini di coerenza interna, senza che in essa emergano in alcun modo le posizioni personali dell'autore. Alle più tarde pubblicazioni di Rehmke Hartmann ha dedicato un saggio (Hartmann 1886b). 46 Cfr. Michelet 1870, pp. 85 e 90 (definisce il sistema di Hartmann un « neoschellinghismo » con forti componenti eclettiche); Haym 1873, pp. 45, 302, 305 (sottolinea la componente « mitologica » della metafisica di Hartmann, che diviene in lui qualcosa di patologico non disgiunto da elementi mistici - Bòhme; anche per Haym tutto ciò avviene nel quadro di un eclettismo di fondo); Frauenstadt NBS, p. 7 (accusa Hartmann di essere un folle ripetitore di Schelling); Kirchmann 1875, p. 34 (attribuisce all'influsso di Schelling la svolta idealistica che si compirebbe nella metafisica della PU); Peters 1883, p. 259 s. (insiste sull'eclettismo di Hartmann attribuendogli però « un grande talento di compilatore filosofico »); Mainlander, PE II, p. 534.

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penhaueriani, concordi, benché da punti di vista opposti, nel ritenere il propri sistema non bisognoso delle integrazioni proposte da Hartmann. E soprattutto Volkelt a impegnarsi in una lunga discussione con Hart­ mann per dimostrare l'implicita presenza nell'idea hegeliana dell'elemento dinamico rappresentato nella Filosofia dell'inconscio dalla volontà, ripren­ dendo motivi già toccati da Haym e Michelet 47 . Volkelt affronta la que­ stione cercando di inserire il sistema di Hartmann in un processo che, prendendo le mosse da Schopenhauer, dovrebbe concludersi in un rinno­ vato hegelismo 48. Si tratta dunque di mostrare anzitutto che la filosofia di Schopenhauer non può fare a meno del logico: la volontà infatti nel suo realizzarsi si da di necessità un contenuto logico-rappresentativo, senza il quale risulterebbe fra l'altro inspiegabile la teleologia ammessa da Scho­ penhauer; nell'estetica poi questo mondo ideale si presenta esplicitamente in una forma che è molto simile a quella dell'idea hegeliana; infine la stessa conoscibilità della volontà - sia pure con le note limitazioni - ha come tacito presupposto che la volontà sia in qualche misura razionale, giacché una realtà totalmente irrazionale sarebbe del tutto inconoscibile. Insomma il pensiero di Schopenhauer rimanda necessariamente all'idealismo oggettivo e Hartmann, nonostante i suoi limiti, non ha fatto altro che esplicitare questa componente 49. Che poi anche in Schopenhauer questo elemento logico sia inconscio non può essere messo in discussione, data la posizione secondaria della soggettività. Ma ciò non fa che apparentare ulteriormente Schopenhauer al

47 Haym 1873, p. 307, afferma che la presenza della volontà è già presupposta da Hegel e che quindi la sintesi di Hartmann realizza un progresso filosofico del tutto marginale. L'esplicitazione dell'elemento volontaristico dell'Assoluto è da vedersi solo come una testimonianza del persistente legame di Hartmann con Schopenhauer. Sulla stessa linea si muove Michelet 1870, pp. 176-178, che non vede alcuna difficoltà nel passaggio in Hegel dalla logica alla natura: la soluzione di Hartmann è, di nuovo, una semplice riproposizione della filosofia hegeliana, da lui malamente fraintesa. 48 Volkelt 1873, p. 103. Il fatto che Volkelt veda nel collegamento fra Scho­ penhauer ed Hegel operato da Hartmann un « grande progresso » è una prova del mutamento di atmosfera filosofica prodottosi quegli anni: non si tratta ormai più di espungere Schopenhauer dalla recente storia della filosofia, ma piuttosto di farvi rientra­ re Hegel. Volkelt però si trova in difficoltà nello spiegare in che cosa consista il progres­ so realizzato da questo svolgimento, giacché le sue analisi mettono capo a una semplice riproposizione della filosofia hegeliana. 49 Volkelt 1873, pp. 109-124. Il ruolo svolto dalla componente logica nel suo siste­ ma è così importante che secondo Volkelt Hartmann ha ragione a definirsi «un hegelia­ no del 1870 » (ibid., pp. 70 e 86). Sulla preponderanza della componente hegeliana in Hartmann concordano anche Schwarz 1875, p. 66 s., e Achelis 1884, p. 49.

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pensiero hegeliano, dove parimenti la soggettività non è presente all'inizio del processo. In questo modo Volkelt giunge ad affermare la presenza dell'inconscio anche in Hegel; evidenziando questo carattere dell'Assoluto Hartmann dunque ha contribuito in modo decisivo a colmare il baratro esistente fra Schopenhauer ed Hegel e ha posto le premesse perché l'incon­ scio possa divenire « il moderno principio universale » 50. Hartmann tuttavia, se ha ben compreso l'implicita presenza del logico in Schopenhauer, ha sbagliato nel non cogliere come nella logica di Hegel sia già immanente il « principio del movimento » e come quindi sia super­ fluo ed errato coordinare all'idea la volontà (Volkelt 1873, p. 154). Va da sé che per Volkelt tale principio di movimento è il nesso dialettico che lega fra di loro i vari momenti dello sviluppo dell'idea; tuttavia piuttosto che diffondersi nell'illustrazione dei caratteri della dialettica, Volkelt procede per via negativa, mostrando cioè l'insostenibilità della soluzione offerta da Hartmann. Posto che nel sistema hartmanniano le idee - indifferenti alla loro realizzazione - si offrano indistintamente alla volontà, e posto che non di meno il loro realizzarsi dia luogo ad uno sviluppo teleologico, bisogna supporre che sia la volontà a confrontare fra loro le idee, a scegliere quale darsi per contenuto al fine di produrre il migliore dei mondi possibili, un tipo di attività che richiama il modo di operare di un soggetto. Ma, esclusa una tale ipotesi - l'Assoluto per Hartmann è inconscio -, non resta che spostarsi dalla parte dell'oggetto, cioè dell'idea, e immaginare che sia il nesso interno all'idea - nesso non statico ma dialettico - a determinare l'ordine di realizzazione: la chiaroveggenza che Hartmann attribuisce al­ l'inconscio per Volkelt non è altro che un modo figurato e soggettivo di esprimere il nesso dialettico dell'idea 51 .

50 Volkelt 1873, p. 239. Volkelt chiarisce che in Hegel « inconscia » è tutto l'am­ bito della logica che per così dire costituisce il grado intermedio fra l'idealità soggettiva (la coscienza) e la realtà oggettiva (la natura) (ibid., p. 7 s.). 51 Volkelt 1873, pp. 199-204. Bisogna rilevare che le critiche di Volkelt si riferisco­ no alle prime formulazioni della PU, in cui, per esplicita ammissione dello stesso Hart­ mann (PU I, p. LV s.), prevale una concezione per così dire contenutistica delle idee, presentate come contenuti pronti - anche se dotati solo di una forma d'essere potenziale o latente - per essere afferrati dalla volontà. Hartmann, replicando a Volkelt, si è richia­ mato alle sue critiche della dialettica, ribadendo l'insostenibilità del « principio del movimento » di Volkelt, cioè l'impossibilità di accogliere la contraddizione all'interno del logico. Volkelt d'altra parte avrebbe deliberatamente sorvolato sulla ragione fonda­ mentale che per Hartmann rende necessario coordinare nell'Assoluto la volontà all'idea, vale a dire l'impossibilità da parte dell'idea di dar luogo all'esistenza, al reale (NSH, pp. 265-273; cfr. anche Plùmacher 1890, pp. 17-21).

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Da parte schopenhaueriana, oltre alle severe critiche di Bahnsen, è soprattutto Frauenstàdt ad attaccare la tesi della coordinazione di volontà e rappresentazione inconscia. Egli sostiene anzitutto che una tale ipotesi non spiega le volizioni empiriche. È vero infatti che la volontà deve avere una qualche rappresentazione del motivo per reagire ad esso, ma per Frauenstàdt è un controsenso parlare di rappresentazione inconscia; piut­ tosto bisogna supporre - e Schopenhauer stesso da indicazioni in questo senso - che la volontà in ogni suo fenomeno possegga una qualche forma di coscienza e quindi abbia rappresentazioni. Ma allora risulta evidente che la rappresentazione non può essere considerata un principio coordinato alla volontà, giacché essa dipende in primo luogo dall'esistenza di un rap­ porto fra la volontà e qualcosa di esterno ad essa e in secondo luogo risulta condizionata dal grado di oggettivazione della volontà stessa (i livelli infe­ riori posseggono un grado di coscienza molto basso e quindi delle rappre­ sentazioni rudimentali) (NBS, pp. 34-47). D'altra parte il concetto di una rappresentazione inconscia come con­ tenuto o determinazione della volontà non è neppure utilizzabile a livello metafisico; infatti la volontà - e qui Frauenstàdt è d'accordo con Bahnsen - deve essere originariamente determinata, giacché una volontà vuota non sarebbe volontà. Essa ha da sé il suo contenuto, ha originariamente un fine - la sua soddisfazione - e tale fine persegue nel suo fenomenizzarsi 52 . Hartmann replica a queste critiche affrontando dapprima il problema della distinzione fra volontà e rappresentazione inconscia nell'ambito della psicologia empirica. Egli sostiene che la pretesa di eliminare la rappresen­ tazione inconscia si bassa sulla confusione fra motivo del volere e contenuto del volere: la vista di un cibo appetitoso (il motivo) è qualcosa di diverso dall'atto volitivo del portarsi quel cibo alla bocca e proprio per spiegare i caratteri di questo atto è indispensabile fare riferimento alla rappresenta­ zione inconscia. La bontà di questa teoria è dimostrata per Hartmann an­ che dal fatto che in questa ottica il processo volitivo viene a configurarsi come un confronto fra due rappresentazioni (quella conscia del motivo e quella inconscia della situazione che verrebbe a determinarsi con la volizio52 NBS, pp. 45-47; 93-96; la valutazione positiva della posizione di Bahnsen è anticipata nella recensione di VWM (Frauenstàdt 1872c). Sebbene da punti di vista diversi, sia Volkelt 1873, p. 127 s., sia Rehmke 1873, p. 31, sia Ebrard 1873, p. 296, concordano con Frauenstàdt e Bahnsen nel ritenere inconcepibile una volontà indeter­ minata, « vuota ». Sulla stessa linea si muovono Ehrlich 1872 e Schweizer 1874, p. 375, i qual, conscguentemente, non considerano il sistema di Hartmann un progresso rispet­ to a quello di Schopenhauer.

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ne che determina il volere), superando la difficoltà che si incontrerebbe nel supporre un rapporto diretto fra volontà e rappresentazione 53 . Hartmann si sposta poi sul piano propriamente metafisico dove il problema della natura della determinazione della volontà, intesa come fon­ damento ultimo della realtà, si pone al più alto grado di astrazione. Secon­ do Hartmann per negare l'esistenza di un contenuto del volere diverso dalla volontà stessa non vale sostenere che la volontà, per essere tale, non può essere mai vuota, priva di contenuto: infatti la volontà può volere, ma non deve volere ed è pensabile dunque una volontà che non vuole in atto, che esiste come facoltà di volere 54 . Quanto al resto, Hartmann dimostra che Frauenstàdt, con l'ammissio­ ne di una teleologia oggettiva e di un fenomenizzarsi dell'unica volontà in una molteplicità che possiede i caratteri di una natura almeno parzialmente saggia ed armonica, riconosce implicitamente la presenza di una determi­ nazione logico-ideale all'interno della volontà, né può esser altrimenti, una volta rifiutato il darwinismo. Frauenstàdt quindi, almeno per questo aspet­ to, si trova sulle posizioni della Filosofia dell'inconscio. Le differenze - solo apparenti - dipendono dalla sua incapacità di formulare chiaramente i problemi (NSH, p. 142 s. e 159).

53 Hartmann, NSH, pp. 134 s. e 207. Sembra qui che per Hartmann la rappresen­ tazione inconscia non sia - o almeno non sia solo - la determinazione complessiva delle possibili direzioni dell'esplicarsi della volontà (il carattere), quanto la specifica determi­ nazione della natura della risposta che la volontà da ad ogni specifico stimolo (motivo), adattandosi alle circostanze. Naturalmente, posto che Hartmann non si riferisca solo alle azioni volontarie in senso stretto (arbitrarie), alla base di questo discorso sta l'ipotesi che gli atti volitivi non debbano essere intesi nei termini di una risposta - immediata e irriflessa - della volontà al motivo, ovvero che ogni atto volitivo sia intrinsecamente teleologico, ipotesi che certamente Bahnsen non condivide e che ad altri autori appare inconciliabile con la mancanza di coscienza nella volontà: cfr. in particolare Ebrard 1873, p. 292, a parere del quale Hartmann confonde volontà e forza, eliminando la libera autodeterminazione della volontà, e Golther 1878, p. 73, il quale sostiene che, privata della coscienza, la volontà non è più tale ma semplicemente istinto, Trieh. È interessante rilevare che Hartmann viene qui articolando un tipo di spiegazione dell'atto volitivo che - oltre a non risolvere il problema dell'influsso della rappresentazione sulla volontà, problema che si ripresenta puntualmente anche supponendo che la rappresen­ tazione sia inconscia - finisce per intellettualizzare del tutto il processo volitivo, ridotto a un puro confronto tra rappresentazioni. 54 NSH, p. 195. Per Hartmann la volontà è solo l'attributo di un sostrato esistente autonomamente dalla volontà e dalla rappresentazione, lo spirito, la cui esistenza non è quindi messa in discussione dalla « latenza » del volere. Del resto lo stesso Bahnsen, che rifiuta la distinzione fra azione ed agente, in realtà si serve di essa in alcuni punti decisivi del suo sistema (ibid., p. 196).

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Difficoltà maggiori Hartmann incontra invece nel fronteggiare le obie­ zioni di Bahnsen, nel quale la tesi dell'identificazione della determinazione della volontà con la volontà stessa, si inquadra nei rifiuto della teleologia e nell'affermazione di un pluralismo originario. Hartmann osserva anzitutto che alcune delle obiezioni di Bahnsen dipendono da un fraintendimento della sua concezione dell'idea, come se egli ipostatizzasse l'idea, dando luo­ go ad un autentico dualismo: al contrario l'idea esiste solo come contenuto di una volizione - in termini hegeliani non esiste mai in sé ma solo in altro e la distinzione fra volontà ed idea è da intendersi solo come una « distinzio­ ne concettuale » (begriffliche Diremtion) (NSH, pp. 201-203 e 251). L'idea d'altra parte non va intesa come pensiero discorsivo o astratto e ad essa deve essere negato ogni ruolo nella realizzazione dell'esistente (ibid., p. 250). Abbandonata di fatto la tesi di una coordinazione in senso forte (on­ tologico) di volontà ed idea, Hartmann, concentrandosi sulla natura del­ l'intrinseca determinazione della volontà, si sforza di far valere anche per Bahnsen le argomentazioni impiegate nei confronti di Frauenstàdt: Bahn­ sen infatti, pur rifiutando la teleologia, a parere di Hartmann ammettereb­ be una sorta di sviluppo nel mondo fenomenico, sviluppo che risulta im­ pensabile senza un piano, ovvero senza una componente logica all'interno della volontà. Lo stesso Bahnsen sostiene inoltre l'esistenza di una compo­ nente logica nella realtà fenomenica, sia pure in fórma subordinata e sog­ gettiva, componente che sarebbe inspiegabile se non avesse il suo fonda­ mento all'interno del principio - o dei principi - della realtà 55 . 55 NSH, pp. 204 e 246-248. Hartmann sembra qui utilizzare il principio metafisico secondo cui tutto ciò che si manifesta nel mondo fenomenico deve avere un fondamento qualitativamente omogeneo nei principi metafisici (nemo dat quod non habet), principio che egli in qualche modo aveva aggirato per negare all'Assoluto la coscienza. La tesi dell'esistenza di un principio ideale coordinato alla volontà - a prescindere dalla sua sostenibilità - costituisce per non pochi critici la discriminante fondamentale fra Hart­ mann e Schopenhauer. Secondo Peters 1883, p. 252, con la chiara affermazione del finalismo - che conduce appunto all'introduzione dell'idea accanto alla volontà - Hart­ mann realizza un progresso di grande portata rispetto a Schopenhauer e alla sua scuola. Un po' più prudente è invece Jung 1872, p. 421, che vede sì nel sistema di Hartmann qualcosa di realmente autonomo rispetto alla filosofia di Schopenhauer, giudica l'affiancamento dell'idea alla volontà un passo importante sulla via dell'abbandono dell'irrazio­ nalismo schopenhaueriano - Hartmann scorge la « terra promessa » dell'intelletto -, ma ritiene che in conclusione tale progresso sia vanificato dalla negazione della coscienza nell'Assoluto. Secondo Gass 1876, pp. 216 e 221, Hartmann non si distacca invece nell'essenziale da Schopenhauer, tal che il suo sistema può essere definito semplicemen­ te una « derivazione » (Abzweigung) dalla filosofia Schopenhauer. Anche Borries 1880, p. 3, vede in Hartmann niente di più che un sistematizzatore di Schopenhauer. In modo

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La tesi hartmanniana della coordinazione fra volontà e idea è criticata tuttavia anche da un altro punto di vista: posto che queste due componenti siano indispensabili per spiegare il sorgere del cosmo, appare a molti im­ possibile una loro compresenza all'interno dell'Assoluto; la dottrina dei principi di Hartmann in sostanza si risolve in un inaccettabile dualismo. Per Volkelt - anche in questo caso il critico forse più lucido - questo dualismo si rivela anzitutto nel diverso statuto ontologico dei due principi, l'uno - la volontà - per sua natura tendente all'esistenza, l'altro - l'idea indifferente alla sua realizzazione. Inoltre, laddove una delle determinazio­ ni è per definizione razionale, l'altra è irrazionale in sommo grado: l'Asso­ luto che li dovrebbe riunire dovrebbe quindi essere a un tempo razionale e irrazionale, saggio e folle. Infine l'inconciliabilità dei due attributi è pro­ vata dalla lotta che si sviluppa fra di essi, dal prevalere della volontà sul­ l'idea la cui irrazionalità sarebbe poi piegata dalla razionalità dell'idea 56. L'eterogeneità fra volontà e idea rende assai problematico compren­ dere come esse possano interagire. Golther sottolinea l'impossibilità di spiegare come la volontà, per definizione « cieca », possa « afferrare » l'idea, mentre Volkelt trova incomprensibile che l'idea si preoccupi in qualche misura dell'esistente - a lei costituzionalmente estraneo - e si fac­ cia carico della redenzione della volontà 57 . ancor più radicale per Schwarz 1875, p. 63, il sistema di Hartmann non costituisce alcun progresso nei confronti di Schopenhauer, giacché il suo mondo, avendo come « fine » il nulla, è altrettanto ateleologico di quello di Schopenhauer, che ha quindi ragione a non chiamare in causa l'idea. 56 Volkelt 1873, pp. 148 s. e 158 s. Il tema della diversità ontologica dei due principi è ripreso anche da Schweizer 1874, pp. 372-375. Golther 1878, p. 68 e Weygoldt, 1875, p. 17, insistono sull'impossibilità di unificare nell'Assoluto determinazioni opposte. Lo stesso Golther, ibid., p. 89, Ebrard 1873, p. 296, e Stange 1892, p. 48 s., riaffermano l'inconciliabilità dell'unità dell'Assoluto con la presenza di un antagonismo fra volontà e idea. Rehmke 1873, p. 23 s., sottolinea invece particolarmente il dualismo derivante dal contrasto tra l'infinità della volontà e la finitezza dell'idea, che come si è visto sta alla base dell'insoddisfazione metafisica della volontà. Rehmke ritiene tuttavia che non ci siano ragioni valide per sostenere che il logico - inteso come determinazione formale del volere nel senso delle formulazioni più accurate di Hartmann - debba essere considerato finito, ovvero non in grado di determinare - soddisfacendola - tutta la volontà. 57 Volkelt 1873, pp. 132 s. e 152; Golther 1878, pp. 56 e 70 (nessuno di questi autori prendono in considerazione la tesi di Hartmann secondo cui l'idea sarebbe spinta a redimere il mondo dalla sua contraddittorietà); sull'impossibilità per la volontà di afferrare l'idea cfr. anche Sommer 1883, p. 66. Golther 1878, p. 83, ritiene che il dua­ lismo di Hartmann abbia radici profonde nella sua Weltanschauung e nel suo pessimi­ smo, che richiedono un Assoluto in qualche misura contraddittorio. Così alcuni dei

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Questo dualismo irrisolto conduce Schweizer ad affermare che il siste­ ma di Hartmann è essenzialmente « gnostico »: in esso la volontà corri­ sponde al demiurgo degli gnostici, creatore del mondo e fonte del male, che quindi non dipende dall'uomo 58. Autori come Stòckl e Golther - che si riconoscono nella tradizione di pensiero cristiana - ritengono invece che sia il nichilismo l'aspetto più caratteristico del sistema hartmanniano. Il processo cosmico - così come è inteso da Hartmann - sorge dal nulla (l'inconscio pone l'esistente ma non è esistente) e si conclude con il nulla, con il ritorno della volontà allo stato di potenzialità 59. caratteri che Hartmann attribuisce all'inconscio - in particolare onnipotenza ed onni­ scienza - non hanno un valore incondizionato (l'inconscio ad esempio è onnisciente solo dopo aver iniziato a volere) e ciò, al di là delle apparenze, scava un abisso incolmabile fra la filosofia dell'inconscio e il teismo. 58 Schweizer 1874, pp. 366-371 (Alexander Schweizer [1808-1888], famoso pro­ fessore di teologia a Zurigo dal 1835 - fra l'altro si oppose alla chiamata a Zurigo di Strauss -, fu particolarmente sensibile al kantismo, ma risentì anche dell'influsso di Schelling, Baader e Schleiermacher; è considerato uno degli esponenti più significativi della teologia della mediazione; nella discussione con Hartmann, dopo essersi dichiarato sostenitore della dottrina dell'inconoscibilità di Dio, cui si possono attribuire solo quelle determinazioni che sono condizioni necessarie della nostra « cultura morale », egli so­ stiene peraltro l'esistenza di una notevole somiglianzà fra gli attributi dell'inconscio e quelli del Dio del teismo [ibid., pp. 376-390]). L'accusa ad Hartmann di gnosticismo compare anche in Gass 1876, p. 218 e in Biedermann 1882, p. 1102. Dorner 1881, pp. 23 e 35, si oppone invece all'interpretazione gnostica, affermando che nella metafisica di Hartmann la volontà occupa una posizione assolutamente dominante, come è provato dalla sua capacità di vanificare il processo di liberazione messo in atto dall'idea ricomin­ ciando a volere. Da parte sua Plumacher 1890, p. 30 s., difende Hartmann dall'accusa di dualismo ribadendo che volontà e idea non sono due entità diverse, ma diverse atti­ vità di un unico soggetto; ciò detto, le difficoltà che si incontrano nell'immaginare il rapporto fra queste due attività non sono specifiche della filosofia di Hartmann ma si incontrano in eguai misura in tutte le altre filosofie spiritualistiche e in particolar modo nel teismo. L'assenza di un vero dualismo d'altra parte rende insostenibile l'accusa di gnosticismo, anche se esiste effettivamente un punto di contatto fra Hartmann e gli gnostici, e precisamente la tesi che la fonte del male sta nel principio del mondo, che pertanto non può essere identificato con Dio (ibid., p. 34 s.). 39 Stòckl 1874, p. 11 (Albert Stòckl [1823-1895], cattolico e tomista, professore all'accademia vescovile di Eichstatt, da questo punto di vista considera Hartmann molto peggiore dell'ateo Hegel, giacché non sa sostituire niente al cristianesimo che combatte; un tale modo di procedere è senz'altro qualificato come « diabolico » [ibid., pp. 53-55]. Golther 1878, p. 88 nota anche che a differenza di Schopenhauer, Hartmann non è neppure in grado di garantire un definitivo raggiungimento del nulla. Anche Haym 1873, p. 306 e Rehmke 1873, p. 35, sottolineano come all'inizio e alla fine della filosofia di Hartmann ci sia il nulla, ma non fanno uso del termine nichilismo, ripreso invece nei più tardi contributi di Achelis 1893, p. 49, e di Volkelt 1881, p. 72 s.

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Peraltro la pretesa derivazione dell'esistente da qualcosa di non esi­ stente appare a gran parte della critica sotto molti punti di vista inaccetta­ bile: per Volkelt e per Golther è assurdo pensare che l'esistente debba sorgere da due principi nessuno dei quali ha l'essere; per Rehmke è impos­ sibile pensare ad una qualsiasi forma di contrapposizione fra logico e illo­ gico se nessuno dei due esiste; per Stòckl non si può pensare che la volontà possa afferrare una rappresentazione inesistente - posizione questa condi­ visa da Schweizer; Sommer trova invece inconcepibile l'idea di un volere e di un rappresentare in potenza, giacché un volere in potenza, vuoto, non è un volere 60. Una conferma di queste difficoltà viene poi individuata nei problemi che Hartmann incontra sforzandosi di spiegare l'inizio del volere (l'inizio della cosmogonia), dove semplicemente si postula un autonomo e immotivato passaggio della volontà dalla potenza all'atto 61 . Ve poi un altro problema: anche supposto che sia possibile un rap­ porto fra volontà e idea, non è comunque chiaro come la volontà possa dar luogo ad un processo ordinato nel tempo, ad uno sviluppo, ovvero come essa « scelga » in successione e in un determinato ordine le idee da realiz­ zare: la volontà - infinita e onnipotente - dovrebbe realizzare subito tutte le idee, tanto più che il tempo stesso è un prodotto della volontà; se ciò non avviene è perché Hartmann surrettiziamente attribuisce una saggezza, una provvidenza alla volontà; questo tipo di obiezione, che abbiamo visto esse­ re avanzata, da Volkelt e da Bahnsen, è ripresa con sfumature diverse da Kirchmann, Weygoldt, e Sommer 62 .

60 Volkelt 1881, pp. 129-132; Golther 1878, p. 66; Rehmke 1873, p. 33; Stòckl 1874, p. 13; Schweizer 1874, p. 373; Sommer 1883, p. 52. Come si vede nessuno di questi autori da credito alle complicate distinzioni di piani ontologici sviluppate da Hartmann; il problema è sempre ridotto ai suoi termini essenziali: volontà e rappre­ sentazione sono posti da Hartmann come non esistenti in senso proprio. 61 Volkelt 1873, pp. 137-144 (Volkelt critica in particolare la tesi dell'esistenza di un voler volere o di volere vuoto; per Volkelt - che qui come altrove muove dal punto di vista hegeliano secondo cui l'esistenza è una determinazione che ha un fondamento logico nell'idea - la cosmogonia hartmanniana si mostra dominata dal caso e può essere considerato merito di Hartmann l'aver mostrato le conseguenze di un sistema filosofico che non pone a fondamento il logico, l'idea). Cfr. sulla stessa linea Sommer 1883, p. 58 s., Stange 1892, p. 50; Ch. Wirth 1893, p. 15; Golther 1878, p. 59 (sottolinea in parti­ colare la contraddizione fra la volontà che, all'inizio del processo, comincia a volere senza motivo e che invece necessita dell'esteso sviluppo della coscienza per avere un motivo sufficiente per cessare di volere). 62 Kirchmann 1875, p. 36; Weygoldt 1875, p. 99; Sommer 1883, p. 64. Ma qualche altro critico (ad es. Ch. Wirth 1893, p. 17) trova comunque irrazionale il processo cosmi­ co delineato da Hartmann, giacché non si comprende perché l'idea debba condurre la

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Difficoltà per certi versi analoghe - le critiche spesso prendono le mosse dall'insufficiente determinazione dei caratteri e dell'origine dello spazio - vengono sollevate in riferimento al cosiddetto « monismo con­ creto » di Hartmann, la teoria che dovrebbe da una parte salvare l'unità dell'Assoluto, dall'altra garantire (relativa) autonomia e realtà agli indivi­ dui, più volte criticata dai vari Bahnsen, Mainlànder, Moiré, Bilharz. Per Ebbinghaus - che sembra farsi paladino di un pluralismo originario Hartmann finisce per riproporre senza risolverlo l'eterno problema del panteismo, cioè quello di far derivare i molteplici dall'uno 63 . Per Volkelt l'idea di far derivare la molteplicità fenomenica da un originario molteplice contenuto nell'inconscio sposta semplicemente il problema e non lo risolve nella misura in cui tale molteplicità non è mediata, come avviene - almeno implicitamente - in Hegel (Volkelt 1873, p. 173 s.) Una critica analoga è sviluppata anche da Haym, il quale tuttavia, più correttamente, individua nella topogonia il momento del sorgere della molteplicità; anche qui tutta­ via Hartmann secondo Haym si limita a spostare a monte il problema, facendo precedere alla spazialità fenomenica una spazialità ideale 64 . Anche per Golther Hartmann può salvare il molteplice solo abbandonando l'uni­ tà dell'inconscio; ma egli sottolinea la presenza in Hartmann di una forte tendenza all'acomismo, che toglie ogni realtà autonoma agli individui e che conferisce a questa parte del sistema un carattere incerto ed oscillante 65 . volontà alla negazione di se stessa attraverso un lungo processo che si svolge nel tempo e non immediatamente. Anche in questi casi l'idea di Hartmann viene prevalentemente intesa in senso contenutistico e non logico-formale. 63 Ebbinghaus 1873, p. 58; a suo modo di vedere il molteplice è un dato immedia­ to e l'onere della prova tocca a chi vuoi sostenere il monismo; al riguardo egli ritiene che le argomentazioni di Hartmann non siano convincenti e che quindi l'intera problematica del monismo sia in sé priva di fondamento (ibid., pp. 54-57). 64 Haym 1873, p. 132 s. Per Haym manca di fondamento comunque anche la tesi dell'esistenza di volizioni originariamente diverse giacché per definizione l'Assoluto è unità indifferenziata; il problema è reso ancor più complicato da Hartmann con la ne­ gazione della coscienza che - hegelianamente - potrebbe essere concepita come unità dialettica di uno e molti. Haym tuttavia rifiuta la validità anche di una soluzione genui­ namente hegeliana, giacché anche in Hegel - e in Fichte - ci si trova pur sempre di fronte ad un processo che surrettiziamente cerca di ritrovare in un'unità pura il molte­ plice constatato nell'esperienza (ibid., pp. 136-138). 65 Golther 1878, pp. 90 e 127. Già Stòckl 1874, p. 17, aveva interpretato il « mo­ nismo concreto » di Hartmann come il tentativo - incompleto - di sfuggire ai limiti posti al valore dell'individuo dal panteismo tradizionale della filosofia tedesca. Per Stange 1892, p. 49 - come Golther su posizioni teistiche -, Hartmann oscillerebbe invece fra monismo astratto - gli individui non hanno vera realtà - e teismo. Secondo Peters 1883, p. 269, il monismo concreto di Hartmann sarebbe qualcosa a metà fra panteismo e

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Weygoldt sottolinea invece i problemi posti dallo statuto degli indivi­ dui superiori, come si è visto composti da individui inferiori: la loro genesi richiede un tipo di differenziazione all'interno dell'inconscio ancora più complessa di quella semplicemente spaziale necessaria per gli individui inferiori, dovendosi supporre volizioni che si sovrappongano e pieghino a sé ciò che è il risultato di altre volizioni (Weygoldt 1875, p. 66 s.; cfr. anche Haym 1873, p. 138). Le insufficienze del « monismo concreto » di Hartmann si palesano anche nella sua concezione della materia, desostanzializzata e leibnizianamente ridotta ad un insieme di forze immateriali. Questa teoria - che pure è vista da alcuni come un'interessante critica del materialismo 66 - soffre per Haym ed Ebbinghaus dei limiti generali della filosofia di Hartmann: la riduzione della materia ad atomi costituiti da volontà e rappresentazione non ha nulla a che fare con la scienza, non è una spiegazione ma il sostituto di una spiegazione, un Hocuspocus dialettico che non fa compiere nessun progresso alla conoscenza, ma si limita a sostituire ad ipotesi di lavoro (gli atomi) o ad astrazioni (le forze) altre astrazioni (Haym 1873, pp. 122-125; Ebbinghaus 1873, pp. 47-50). Per Knauer la tesi dinamicistica di Hart­ mann non è che un altro esempio dell'indebita estensione di concetti psi­ cologici a realtà che con la psicologia non hanno nulla a che vedere (Knauer 1873, p. 4 s.). Si è visto come in generale l'atteggiamento della critica nei confronti del sistema di Hartmann sia tutt'altro che favorevole; v'è tuttavia un punto sul quale gli attacchi polemici sono, se è possibile, ancora più virulenti: il processo che in Hartmann spiega il sorgere della coscienza, un aspetto di particolare importanza perché dovrebbe legittimare per così dire a poste­ riori l'esclusione di un'originaria coscienza nell'Assoluto. Ebbene, tale spiegazione è variamente definita come una « meravigliosa favola » (wundersames Màrchen) (Haym 1873, p. Ili), un « ridicolo racconto » (alberne Erzàhlung) (Sommer 1879, p. 69), in « stridente contraddizione » con i principi di Hartmann (Golther 1878, p. 110), nel corso del quale vengono commessi i peggiori peccati mai compiuti nell'ambito della filosofia (Eb­ binghaus 1873, p. 35).

teismo, alla cui completa acccttazione condurrebbe inevitabilmente la logica del sistema. Infine Achelis 1884, p. 402, vede in Hartmann una posizione oscillante fra immanenza (panteismo) e trascendenza (teismo) dell'Assoluto. 66 Schwarz 1875, p. 57 s.; Golther 1878, p. 100; Schiiz 1884, p. 88 (ma questo autore sostiene che la soluzione di Hartmann pone più problemi di quanti ne risolva).

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Fortemente avversata è anzitutto la tesi che il sorgere della coscienza dipenda dalla materia (mentre il pensiero inconscio sarebbe puramente spirituale): Hartmann in sostanza riprenderebbe la tesi fichtiana della ne­ cessità di un impulso esterno (Anstoss), ma la posizione di Fichte sarebbe ritradotta in termini materialistici, essendo la materia a dar origine alla coscienza; tale spiegazione in ogni caso non viene giudicata in grado di dare ragione dell'essenziale della coscienza, ovvero del passaggio dall'og­ gettivo al soggettivo 67 . Non per caso Hartmann cerca di dissimulare la difficoltà con la me­ tafora dello « stupirsi » della volontà di fronte a rappresentazioni esistenti ma non da lei volute, metafora che sembra attribuire alla volontà quella coscienza il cui sorgere Hartmann si propone di spiegare 68. Volkelt - e con lui Rehmke - nota anche che nella genesi della co­ scienza si sostiene implicitamente che delle rappresentazioni - quelle ri­ guardo alle quali la volontà si stupisce - esistono senza essere il contenuto di una volontà, contraddicendo uno dei principi fondamentali della filoso­ fia di Hartmann (Volkelt 1873, pp. 218-220; Rehmke 1873, p. 53). D'altra parte di questo salto qualitativo fra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia Hartmann non può fare a meno, giacché da questa « emancipazione » della rappresentazione dal volere dipende la possibilità del processo che dovrebbe condurre alla negazione del volere stesso. Ma, come osserva Sommer, non è facile capire come la rappresen­ tazione - il contenuto ideale del volere -, così sottomessa al volere fino al momento del sorgere della coscienza, divenga poi improvvisamente capace di dominare la volontà fino al punto di annichilìrla (Sommer 1879, p. 72; 67 Questo tipo di obiezioni sono in particolare sviluppate da autori d'impostazione spiritualistica; cfr. Bergmann 1869, p. 414 s.; Ebrard 1873, p. Ili s.; Stòckl 1874, p. 25 s.; I. Fichte 1873, p. 40 s. Quest'ultimo sottolinea che un conto è sostenere che la coscienza è condizionata dalla materia, un conto è sostenere che prodotta dalla materia. Il raffronto con Fichte si trova per la prima volta in Haym 1873, p. 112. Bisogna tuttavia osservare con Haym, ibid., p. 121, ed Ebbinghaus 1873, p. 44, che queste obiezioni peraltro giustificate da Hartmann, che a più riprese insiste sul ruolo determinante della materia nel sorgere della coscienza - perdono in parte rilevanza alla luce dell'interpretazione dinamicistica e in ultima analisi spiritualistica della materia stessa, in forza della quale lo scontro che da luogo alla coscienza avviene fra realtà tutte spirituali. 68 Questa obiezione si ripresenta moltissime volte: cfr. Reichlin-Meldegg 1869, p. 140; Haym 1873, p. 113; Weygoldt 1875, p. 77 (quest'autore sostiene che la volontà dovrebbe invece secondo la logica del sistema di Hartmann « afferrare » le rappresen­ tazioni e realizzarle); Golther 1878, p. 112; Sommer 1879, p. 69 (anche quest'autore sottolinea che la volontà, proprio perché inconscia, dovrebbe essere indifferente a qualsiasi rappresentazione).

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cfr. anche Golther 1878, p. 175). Da tutto ciò deriva inoltre una caratteriz­ zazione puramente passiva della coscienza, come è provato dal ruolo mar­ ginale che occupano in Hartmann i concetti di autocoscienza e di unità della coscienza 69. Hartmann, rispondendo alle critiche di Volkelt, riformula la sua dot­ trina, riawicinando tra loro le rappresentazioni consce e quelle inconsce. Le rappresentazioni che sorgono con la coscienza non sono indipendenti dal volere, giacché ciò che causa la « stupefazione » della volontà non è una rappresentazione, ma è l'opposizione incontrata dall'esplicarsi della volon­ tà stessa. D'altra parte nella coscienza stessa le rappresentazioni non sono totalmente emancipate dalla volontà (esse sono quantomeno legate ai sen­ timenti e alle attività volitive negli organi sensori che hanno collaborato al sorgere delle rappresentazioni), bensì semplicemente non sono « necessa­ rio contenuto di una volontà che si realizzi immediatamente » 70.

4. VENETIANER E PETERS. Non si può concludere questo capitolo senza accennare alla posizione di Venetianer e Peters che, bene o male, possono essere considerato come gli unici discepoli di Hartmann che in questi anni hanno sviluppato con una certa originalità il sistema del maestro. Venetianer, della cui biografia nulla si conosce a parte la sua apparte­ nenza all'ebraismo, deve essere anzitutto ricordato come severo critico della filosofia di Schopenhauer. In un libro fortemente polemico egli si 69 Sulla passività della coscienza in Hartmann - passività del resto riscontrata anche in rapporto all'attività dell'inconscio - cfr. Golther 1878, p. 117; sui limiti della dottrina dell'autocoscienza e dell'unità della coscienza cfr. Haym 1873, p. 117 s., Ebbinghaus 1873, p. 41 s., Golther 1878, p. 121. Contro Ebbinghaus - il quale sostiene che nei termini di Hartmann l'autocoscienza è semplicemente impossibile, perché la volontà del soggetto non può opporsi a se stessa - in particolare polemizza Plùmacher 1890, p. 61 s., la quale peraltro sembra essa stessa non troppo soddisfatta di questa parte della filosofia di Hartmann, giacché si premura di chiarire che un eventuale rifiuto della teoria della coscienza non giustifica il rifiuto della teoria metafisica dell'inconscio (ibid., p. 40 s.). 70 Hartmann, NSH, pp. 296-298; in questo contesto Hartmann sviluppa la sua complicata esposizione dei processi che conducono dalla percezione alla rappresenta­ zione. Egli qui considera il problema della coscienza dal punto di vista delle coscienze più evolute, dove le rappresentazioni sorgono grazie all'azione sintetica dello spirito inconscio che costituisce gli individui complessi in quanto tali, e non è interessato al problema di un'eventuale coscienza degli esseri di livello inferiore - che si è visto accet­ tare altrove.

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sforza di mostrare che la filosofia del « saggio di Francoforte » deve essere considerata a pieno titolo come appartenente alla « scolastica » filosofica, e conscguentemente, come un cumolo di contraddizioni, in eterna oscillazio­ ne fra idealismo e materialismo, fra irrazionalismo e teleologia, tale da poter essere definita « un mostro dalle molte teste » 71 . Venetianer conduce poi un serrato confronto tra le posizioni di Schopenhauer e quelle dell'ebraismo, per concludere che quanto c'è di buono in esse concorda con il giudaismo o addirittura da esso deriva, come ad esempio il volontarismo (ibid.^. 233). Anche per quanto concerne il pessimismo Schopenhauer non si distacca sostanzialmente da Giobbe (assurda è la sua pretesa di considerare come eminentemente ottimistica la Bibbia), e benché, contro Hegel, abbia avuto il merito di sottolineare la realtà del male del mondo, egli cade nelle stesse unilateralità del suo grande avversario (ibid., pp. 273-325). Per quanto riguarda l'etica, essa è nella sua dimensione metafisica profondamente teologica, giacché Schopenhauer propone in sostanza di accordare la propria volontà con la volontà di Dio. Ma qui egli diviene più teologo dei teologi e si accosta alla bigotteria del giudaismo ortodosso (ibid., p. 239 s.): nel suo antisemitismo non si è neppure accorto che il giudaismo ha ormai abbandonato il concetto di Dio personale per spostarsi su posizioni panteistiche 72 . Del tutto diverso è invece l'atteggiamento di Venetianer nei confronti di Hartmann, la cui filosofia egli difende in modo irruente - ma spesso inconcludente - dagli attacchi dei numerosi critici (Venetianer 1874, pp. 1-57). In positivo egli sviluppa un « panpsichismo », che in sostanza si con­ figura come un monismo spiritualistico. Alla base della realtà v'è uno spi­ rito universale che ha come attributi fondamentali volontà, rappresentazio­ ne e sensazione (ibid.,$. 199) e che, contrariamente a quanto sostenuto da Hartmann, è dotato di coscienza e autocoscienza (ibid., p. 197 s.). Venetia­ ner sottolinea più di Hartmann l'aspetto conflittuale dell'esplicarsi nel 71 Per « scolastica » Venetianer intende ogni epoca in cui domina una tale distor­ sione del pensiero da far apparire come legittime argomentazioni mostruose e senza fondamento (Venetianer 1873, p. 7 s.). Nonostante le sue critiche alla tradizione filoso­ fica precedente - critiche tra l'altro in parte ingiustificate, nella misura in cui colpiscono il panteismo dell'idealismo classico -, Schopenhauer è rimasto interamente all'interno di quella logica, come mostra in particolare la sua fatale adesione all'idealismo kantiano, i cui gravissimi limiti sono stati ben indicati da Hartmann (ibid., pp. 11-14). 72 Ibid., p. 308. Naturalmente Venetianer condanna con aspre parole l'antisemiti­ smo di Schopenhauer, giudicato rozzo e fondato su falsità storielle (ibid., p. 191).

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mondo delle idee contenute nell'Assoluto (egli parla di idee e non, come Hartmann, del puro e formale « logico »), parla di una realdialettica, che peraltro, essendo tutta interna alla logica, sembra avvicinare la sua posi­ zione più ad Hegel che a Bahnsen, pure citato con un certo favore (ibid., pp. 214-224). L'essenziale logicità dello sviluppo del mondo è attestata dalla presenza della teleologia, sulla cui oggettività Venetianer insiste lungamente, polemizzando contro Darwin, Haeckel, e l'anonimo critico di Hartmann (come sappiamo, Hartmann stesso) (ibid., pp. 82-108). Venetia­ ner non fa cenno all'annichilimento del mondo come fine ultimo del pro­ cesso cosmico e ripropone di fronte al problema del pessimismo un atteg­ giamento di sostanziale equidistanza: polemizza contro l'eccessivo ottimi­ smo di Strauss, ma non disconosce la bellezza del creato e le gioie che essa può produrre, insistendo sui diversi significati del termine pessimismo e sui diversi atteggiamenti cui esso può dar luogo in relazione al carattere delle persone (ibid., pp. 58-82). Il contributo filosofico di Karl Peters, anch'egli un « dilettante », non è di livello particolarmente elevato, ma costituisce comunque un documen­ to interessante della capacità della filosofia di Hartmann di suscitare l'inte­ resse anche in ambienti diversissimi da quelli accademici 73 . Benché egli non si dichiari mai apertamente discepolo di Hartmann e presenti il suo sistema come il risultato necessario della discussione critica di tutte le po­ sizioni manifestatesi all'interno dello schopenhauerismo (Schopenhauer, Frauenstà'dt, Bilharz, Noiré, Bahnsen, Hartmann) è evidente come il suo pensiero sia influenzato in misura determinante da Hartmann: Peters infat­ ti lo ammira moltissimo e giudica il suo sistema - di « imponente coerenza ed unità » - il frutto più alto della scuola di Schopenhauer, anche se ancora necessario di correzioni ed integrazioni 74 . Peters si inserisce nella tradizione realistico-pluralistica schopenhaueriana sostenendo che la realtà è costituita da una molteplicità di individui volenti. Il volere peraltro, benché, considerato in astratto, sia qualcosa 73 Karl Peters (1856-1918) è infatti più noto come esploratore dell'Africa e come fautore della politica coloniale tedesca che come filosofo. Sulla filosofia di Peters cfr. Salzsieder 1928, pp. 157-164. 74 Peters 1883, p. 261. Hartmann è considerato in generale come il necessario punto di passaggio verso il teismo (ibid,, p. 270), passaggio che in Hartmann è ostaco­ lato in particolare dal dualismo interno all'Assoluto; esso non dipende tuttavia da un'insoddisfacente elaborazione concettuale, quanto dall'esigenza di porre nell'Assoluto stes­ so la radice dell'irrazionalità del mondo, senza tuttavia renderne impossibile lo sviluppo razionale (ibid., p. 266 s.).

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d'indifferenziato ed eguale in tutti gli individui, in concreto è sempre de­ terminato da rappresentazioni ad esso intrinseche, cosicché Peters, nel prendere posizione nel dibattito fra Hartmann e Bahnsen circa il rapporto fra volontà e rappresentazione, finisce per trovarsi più vicino a Bahnsen (ibid., p. 303 s.). Il volere si manifesta in due tendenze fondamentali, la tendenza all'essere e la tendenza al piacere. Il fine del volere non è tuttavia la felicità, ma il tendere stesso, o, più precisamente, il continuo aumento della quantità di volontà (o di forza), una posizione questa che Peters so­ stiene in aperta contrapposizione alle scienze naturali - ma anche ad Hart­ mann e in diametrale opposizione a Mainlànder (ibid., p. 322 s.). Poste queste premesse non deve meravigliare che Peters - ancora in contrasto con Hartmann - si faccia sostenitore di un ottimismo cosmico che naturalmente non si fonderà più sul bilancio eudemonologico ma, appunto, sulla possibilità di accrescere indefinitamente la forza 75. Alla base di questa prospettiva v'è di nuovo la vigorosa affermazione della teleologia dell'universo la quale si fonda su un'interpretazione dichiaratamene teistica della filosofia di Schopenhauer ed Hartmann: i singoli individui volenti sono infatti creazioni di una volontà universale (Weltwille) trascendente ma anche immanente negli individui, volontà che, in quan­ to soggetto di tutta la realtà, è anche cosciente. Peters procede poi senz'altro ad una identificazione della volontà universale con la divinità, immobi­ le, infinita, dotata di personalità e contenente in sé le idee di tutta la realtà che può essere considerata come « i pensieri di Dio divenuti reali » (ibid., p. 354). Ad essa si contrappone però un altro principio, lo spazio e in questo senso Peters si considera a tutti gli effetti un dualista. Lo spazio ha la funzione di « provocare » l'attività della volontà e consentirne Fesplicazio75 Ibid., p. 317. Peters dimostra comunque di preferire il pessimismo di Scho­ penhauer a quello di Hartmann. Esso anzitutto pare positivamente legato ai limiti della nostra facoltà conoscitiva: se non possiamo pensare un mondo migliore di quello attuale, ciò forse dipende dall'intrinseco legame che sussiste fra questo mondo e il nostro intel­ letto. In ogni caso il pessimismo non è conseguenza necessaria del sistema di Scho­ penhauer; se infatti la volontà è tutto, non si capisce perché essa non debba essere in grado di prodursi un surplus di piacere; è comunque impensabile che nel mondo vi possa essere più dolore che piacere, in quanto, identificandosi il mondo con l'unica volontà, ogni dolore dovrebbe produrre un'eguale quantità di piacere e viceversa; il bilancio dovrebbe quindi essere sempre eguale a zero. Ma allora, posto che il mondo esiste e posto che la non esistenza del mondo darebbe comunque un bilancio eudemo­ nologico eguale a zero, non vi sarebbero ragioni per annichilire il mondo stesso (ibid., p. 24 s.).

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ne: « l'infinita intensità viene provocata all'esternazione della pienezza del­ la sua forza dall'infinita estensività, ovvero ciò che è assolutamente attivo trova la sua opposizione in ciò che è assolutamente passivo » (ibid., p. 337). La creazione degli individui deve dunque essere vista come il tentativo da parte dell'infinità della volontà di colmare l'infinità dello spazio (ibid., p. 339). Come è facile intuire, il principio della spazialità diviene così la causa del male del mondo, dell'isolamento degli individui e della lotta che fra essi ha luogo: con movenze che, di nuovo, ricordano Mainlànder, Dio è in qualche modo costretto a cadere dalla sua perfetta unità nella molte­ plicità degli individui; solo che in Peters il processo non si conclude con l'annichilimento della realtà, bensì - sembra di capire - con il trionfo del­ l'unità divina anche fra gli individui isolati nella spazialità (ibid., p. 341 s.). Quanto all'etica, essa è dedotta immediatamente dalla metafisica e dalla natura del processo cosmico: l'uomo deve sentirsi proprietà divina e far proprio l'ordine in cui è teleologicamente inserito; nell'impossibilità di ricostituire fisicamente l'unità con Dio, l'uomo deve realizzare un'unità ideale con il Tutto (ibid., p. 375). La vita è una costante lotta e « un inces­ sante dolore è il suo carattere », ma l'accettazione della morale conduce « ad un ottimismo trasfigurato e nobilitato: il sollevarsi del finito nell'eter­ no e nell'imperituro e il farsi pervadere della tensione verso l'unità sono la mercede che il singolo nella sua lotta può raggiungere» (ibid., p. 391 s.).

16. L'IMPOSSIBILITÀ DEL PESSIMISMO METAFISICO E LE TEODICEE ALTERNATIVE

1. IL CONCETTO DI PESSIMISMO E I SUOI POSSIBILI SIGNIFICATI.

Abbastanza paradossalmente, nel corso delle lunghe discussioni intor­ no al pessimismo, quasi nessun autore si pone il problema di chiarire il significato concettuale - o i diversi significati concettuali - del termine, tanto che per trovare un'indagine approfondita della questione bisogna attendere fino ad uno studio relativamente tardo di Hartmann (Hartmann 1890c), al quale pertanto va riconosciuto almeno il merito di aver posto con chiarezza i termini del problema, quali che siano le soluzioni cui egli sia giunto 1 . Anzitutto Hartmann considera il pessimismo come una possibile solu­ zione del problema più generale del valore del mondo: in quest'ottica il pessimismo - il risultato di una valutazione negativa - viene immediata­ mente posto sullo stesso piano dell'ottimismo 2 . 1 Sui meriti della categorizzazione di Hartmann cfr. Vaihinger 1923, p. 164 s. Fino a quella data in generale si distingue solo fra Stimmung-Pessimismus e pessimismo teo­ rico, quest'ultimo a sua volta suddiviso in pessimismo metafisico e pessimismo empirico. In riferimento al pessimismo empirico qualche volta si parla di pessimismo etico e pes­ simismo eudemonologico, senza peraltro caratterizzare con precisione il significato di questi concetti. L'unico autore che si impegna in una pur breve analisi di essi è Dippel 1884, p. 1 s. 2 Hartmann ritiene che l'assiologia (la misurazione del valore \Wertbemessung\) costituisce una parte autonoma della filosofia e conscguentemente vi dedica il quinto volume del suo SP (intitolato appunto Grundriss der Axiologie), scritto che offre i ri­ sultati finali della sua riflessione sul pessimismo. Il concetto di assiologia è per Hart­ mann più ampio del concetto di etica (quest'ultima tratta di una classe particolare di valori, appunto quelli etici, che sono applicabili solo ad una parte della realtà - l'agire

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Hartmann dunque intende il pessimismo (e l'ottimismo) come giudizi di valore sulla realtà; tali giudizi dipendono dalla « misura » (Werthmassstab) prescelta; come possibili parametri Hartmann indica il piacere, la finalità, la bellezza, la moralità, la religiosità, cui più tardi affianca la co­ noscibilità 3 . L'applicazione di questi parametri è giustificata se essi pos­ seggono valore oggettivo, ma Hartmann in questo contesto non approfon­ disce la questione; questa tesi è però sufficiente per escludere dalla discus­ sione in quanto prive d'interesse filosofico tutte le forme di pessimismo soggettivo. Di fronte al problema dell'assiologia si possono assumere cinque di­ versi atteggiamenti: si può anzitutto sostenere che essa è impossibile perché non esistono parametri oggettivi, oppure perché essi non sono applicabili ai vari aspetti della realtà o alla realtà nel suo complesso (dogmatismo assiologico negativo); si può sostenere che l'assiologia è impossibile non in sé, ma per l'incapacità dell'uomo di giungere ad una soluzione corretta del dell'uomo). Non è chiaro se Hartmann nella scelta di questo termine - che appare nei suoi scritti approssimativamente a partire dal 1890, e, in generale, nello sviluppo delle sue riflessioni sia stato influenzato da Lotze (parte della cui opera scientifica egli co­ nosceva già all'epoca della composizione della PU) e dalla filosofia dei valori. A Lotze Hartmann ha dedicato un saggio (Hartmann 1888), ma in esso il problema dei valori è trattato piuttosto sbrigativamente. Hartmann comunque si occupa pochissimo del problema della « validità » dei valori, un limite che come si vedrà fra poco verrà pun­ tualmente segnalato dai critici del pessimismo (un confronto fra Lotze e Hartmann è stato svolto da G. Hartung 1885). 3 Hartmann, ZGB, p. 1, e SP V, pp. 1-4 (Der Erkenntnisweh der Welt). Per quello che si sa, l'unico autore che vede nell'impossibilità di un'adeguata conoscenza della realtà il parametro fondamentale per fondare un pessimismo autenticamente scientifico è Lorm. A suo modo di vedere il padre del pessimismo scientifico è Kant, che ha dimo­ strato in maniera inconfutabile l'inconoscibilità per l'uomo dell'in sé del mondo e ha quindi provato che l'inestinguibile desiderio dell'uomo di penetrare nell'enigma del mondo - ovvero di approdare all'infinito - è destinato a rimanere eternamente insoddi­ sfatto (Lorm 1894, pp. 36-59 e 163-243). Da questo punto di vista Lorm giudica assai negativamente le filosofie di Schopenhauer e di Hartmann, che - oltre ad avanzare l'in­ sostenibile pretesa di fondare su basi eudemonologiche un pessimismo scientifico (cfr. sotto) - credono di risolvere con le loro metafisiche l'enigma del mondo - se così fosse, non sarebbero più dei pessimisti -, giungendo all'unico risultato di distruggere l'infinito (Hieronymus Lorm [1821-1902], pseudonimo di Heinrich Landesmann, fu di costitu­ zione fisica gracilissima: divenne completamente sordo a cinque anni e, in seguito, pres­ soché cieco. Si dedicò con buon successo alla poesia - una poesia dal tono e dai conte­ nuti indiscutibilmente pessimistici [Krauss 1931, pp. 114-125; Arnold 1933, pp. 62-70] - ma non disdegnò la saggistica e la filosofia, recensendo fra l'altro varie volte Hart­ mann. In contrasto con la politica reazionaria di Mettermeli, nel 1846 lasciò Vienna dove era nato, per poi ritornarvi nel 1848. Dal 1873 visse a Dresda, dove scrisse la sua opera filosofica più impegnata).

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problema (agnosticismo assiologico); si può affermare più prudentemente che l'assiologia è impossibile allo stato attuale delle conoscenze (scetticism'o assiologico); si può pensare che l'uomo possa giungere già ora a una soluzione del problema, seppure con un certo grado di approssimazione (criticismo assiologico - la posizione in cui Hartmann si riconosce); infine si può ritenere che una valutazione della realtà sia possibile e che attraverso di essa si possa giungere a risultati apodittici (dogmatismo assiologico po­ sitivo) (ZGB, p. 5 s.). Nei due casi in cui l'assiologia è ritenuta possibile (dogmatismo assio­ logico), di solito si conclude ad un giudizio totalmente positivo o totalmen­ te negativo (ottimismo superlativo o pessimismo superlativo), oppure ad un« indifferentismo puntuale o compensatorio », secondo cui gli elementi positivi e quelli negativi si controbilanciano perfettamente. Il criticismo assiologico invece può concludere ad un giudizio prevalentemente negati­ vo (« malismo » o pessimismo comparativo) o positivo (« bonismo » o ot­ timismo comparativo) secondo che si giudichino prevalenti gli aspetti po­ sitivi o negativi, oppure ad una provvisoria indeterminatezza del risultato, a causa del troppo ampio margine di approssimazione. Leibniz e Schopenhauer sono secondo Hartmann esempi classici del pessimismo e dell'ot­ timismo superlativo, mentre l'indifferentismo sarebbe stato sostenuto dal Kant del Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative e da Haller (ZGB, pp. 6-8). L'analisi puntuale ma un po' scolastica dei vari aspetti dell'assiologia prosegue con l'elencazione dei diversi ambiti cui può essere applicato il giudizio di valore. L'assiologia è metafisica quando si occupa del valore dell'Assoluto (Hartmann non intende qui una valutazione della realtà come tutto, benché evidentemente il valore dell'Assoluto - infinito - abbia un peso determinante nel giudizio concernente l'intera realtà). L'assiologia è invece fenomenica quando tratta delle « manifestazioni » dell'Assoluto stesso, siano esse intese come creature (teismo), o siano viste come più strettamente collegate all'Assoluto (panteismo e « monismo concreto »). L'ambito di questa assiologia non è tuttavia di esclusiva competenza del pessimismo empirico (assiologia empirica o dell'aldiqua), giacché esso in­ clude per Hartmann anche un'eventuale regione trascendente diversa dal­ l'empirico (l'aldilà - assiologia sovraempirica o dell'aldilà), così come corpi celesti diversi dalla terra (assiologia extraterrena contrapposta all'assiologia terrena) (ZGB, pp. 8-11). Naturalmente l'assiologia può portare a risultati differenti secondo il parametro impiegato e la sfera d'essere considerata, ad esempio una valu-

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tazione negativa della realtà empirica dal punto di vista del piacere, può convivere con una valutazione positiva della stessa realtà dal punto di vista estetico e con una valutazione positiva da un punto di vista eudemonologico della realtà sovraempirica (beatitudine eterna delle anime). Sono così possibili molteplici combinazioni che danno luogo a diverse forme di pes­ simismo e di ottimismo e a diverse combinazioni di ottimismo e pessimi­ smo; come si sa, Hartmann qualifica la sua posizione come una combina­ zione di pessimismo eudemonologico e ottimismo evoluzionistico (ZGB, pp. 11-17). Va da sé che nel corso della discussione intorno al pessimismo - se non altro per motivi cronologici - raramente si è tenuto conto delle distin­ zioni concettuali compiute qui da Hartmann, il che in molti casi sta alla base della poca chiarezza e della scarsa produttività del dibattito.

2. IL PROBLEMA DELLA VALUTAZIONE DEL MONDO.

Come si è accennato, nelle prime prese di posizione nei confronti del pessimismo della Filosofia dell'inconscio il tema dominante è quello della possibilità e dei limiti del pessimismo metafisico nel quale Hartmann viene spesso accomunato a Schopenhauer. Il primo autore a sviluppare una sintetica ma radicale critica di questo atteggiamento di pensiero è Strauss, il cui ottimismo panteistico-materialistico è spesso visto dai contemporanei come l'esatta antitesi della filosofia di Hartmann e del pessimismo in generale 4 . Strauss affronta il problema del pessimismo alla fine della seconda sezione del suo scritto Der alte una der neue Glaube, in cui si chiede se, una 4 Friedrich David Strauss (1808-1874) è l'autore della celebre Vita di Gesù (18351836), che gli costò l'allontanamento da Tubinga e l'interruzione definitiva della carriera universitaria. La critica al pessimismo è contenuto Strauss 1872. Strauss pare aver ap­ prezzato almeno in una prima fase la PU, tanto da consigliarne insistentemente la lettura a Vischer (cfr. Rapp 1953, voi. II, p. 275); in Strauss 1872, p. 61, tuttavia la PU, per le sue posizioni concernenti la filosofia della natura e la teleologia, è considerata come una semplice riproposizione delle tradizionali tesi teistiche, da cui si differenzierebbe solo per il termine scelto per indicare l'Assoluto. Hartmann da parte sua ha attaccato Strauss in Hartmann 1874, p. 81, nota, accusandolo di piattezza e trivialità. Significativamente Strauss non è citato neppure una volta in PSB. L'antitesi Hartmann-Strauss ricorre con una certa frequenza nella letteratura critica: cfr. Schweizer 1876 (i saggi relativi ad Hartmann sono preceduti da tre saggi dedicati a Strauss), E. Hartung 1876, via via fino a Nietzsche.

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volta esclusa la possibilità di considerarsi ancora cristiano, egli possa rite­ nersi non di meno ancora religioso. Dopo aver descritto i caratteri della sua religione la cui essenza consiste, con Schleiermacher, nel sentimento di dipendenza dal tutto, Strauss si propone di verificare per così dire la genui­ nità di tale sentimento studiando le sue reazioni di fronte al pessimismo di Schopenhauer ed Hartmann. Ora, secondo Strauss, la tesi che il mondo sia cattivo e che quindi il suo non essere sia preferibile all'essere contiene in sé « la più stridente delle contraddizioni »: se infatti il mondo nella sua globalità è cattivo (schicchi), « cattivo » - nel senso di sbagliato, insostenibile - sarà anche il pensiero che lo giudica tale; così « il filosofo pessimista non nota come egli anzitutto dichiara un cattivo pensiero anche il suo pensiero che dichiara cattivo il mondo; ma se un pensiero che dichiara cattivo il mondo è un pensiero cattivo, allora il mondo deve essere buono »; ogni filosofia deve quindi necessariamente essere ottimista, perché altrimenti « taglia il ramo su cui siede » 5 . Il pessimismo, assurdo da un punto di vista teoretico, appare al sen­ timento « blasfemo », in quanto pretende che il singolo uomo si contrap­ ponga al tutto da cui dipende e da cui derivano ragione e intelletto; in questo si manifesta una negazione del sentimento di dipendenza che ci si aspetta da ogni uomo e contro tale negazione reagisce il sentimento di « pietà » per il tutto che caratterizza la religiosità di Strauss confermando­ ne così la genuinità (ibid., p. 41). L'argomentazione offre una caratterizzazione del pessimismo che non pare corrispondere né alla posizione di Schopenhauer né a quella di Hart­ mann, i quali sostengono - più implicitamente in Schopenhauer, più esplicitamente in Hartmann - non già l'assenza di qualsiasi positività, ma la prevalenza quantitativa della negatività. Va comunque dato atto a Strauss di mostrare in modo convincente l'impossibilità di un pessimismo metafi­ sico che voglia sostenere la totale negatività di ogni forma di essere, nega­ tività che finirebbe inevitabilmente per coinvolgere anche il valore che ser­ ve a fissare tale negatività. Lo stesso tipo di fraintendimento delle posizioni di Schopenhauer ed Hartmann si ripresenta in Weygoldt, il quale nega l'esistenza di valori di­ versi dall'essere stesso in base ai quali concludere alla sua negatività. Egli 5 Strauss 1872, p. 41. L'argomentazione di Strauss - severamente giudicata da Nietzsche, UB I, pp. 187-189, e da Lange 1896, voi. II, p. 568 - è invece particolarmente apprezzata da Mehring 1888, p. 178, che la riprende integralmente.

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interpreta il pessimismo come se esso facesse risultare il disvalore dell'esse­ re confrontandolo con un ipotetico non-essere. Per Weygoldt un tale con­ fronto è illegittimo e addirittura irrazionale per il fatto che il non-essere non esiste ed è irrappresentabile. L'essere può essere dunque confrontato solo con se stesso e in quest'ottica « la razionalità o giustificazione dell'es­ sere non può essere in generale messa in discussione o negata » 6. Weygoldt d'altra parte afferma che Schopenhauer ed Hartmann giungono al pessimi­ smo perché non considerano l'essere assoluto accanto al quale non si può pensare niente di diverso, ma un essere determinato (Sosein), per di più sfigurato da predicati finiti e accidentali, accanto al quale è certamente pensabile un'altra forma di essere: nella forma di una critica Weygoldt presenta in realtà quella che è l'autentica struttura del pessimismo dei due autori considerati (Weygoldt 1875, p. 141). Il problema più generale della possibilità di valutare la realtà nella sua totalità è invece al centro dell'intervento sul pessimismo di Windelband 7 . Per Windelband infatti il pessimismo - ma anche l'ottimismo - non espri­ me un giudizio teoretico sul mondo (Urteil), ma una valutazione (Beurteilung) del mondo stesso. Ora ogni valutazione è in senso lato un giudizio teleologico, nel senso che con essa si constata la conformità di un oggetto ad un determinato valore, visto come suo fine, come ideale che l'oggetto 6 Weygoldt 1875, pp. 134-136. Di Weygoldt si sa solo che era un diacono, proba­ bilmente olandese, molto interessato alla filosofia antica. La legittimità di un confronto fra essere e non-essere era stata difesa in precedenza dalla Taubert in riferimento ad Haym 1873, p. 258 s.; secondo la Taubert l'uomo è in grado di costruirsi il concetto di non-essere a partire dall'esperienza (il nihil negativum kantiano) e di impiegare tale concetto nel valutare il mondo, ponendosi concettualmente - ma solo concettualmente - al di fuori di esso. Lasciando per ora da parte il problema specifico della confronta­ bilità di essere e non-essere, va rilevato tuttavia che tanto in Schopenhauer quanto in Hartmann il non-essere non è il parametro in base al quale si decide della negatività del mondo, bensì, una volta decisa per altra via il valore negativo del mondo, la rappre­ sentazione di una ipotetica condizione di minor negatività dell'universo. Addirittura in Hartmann il nulla (che deve essere raggiunto attraverso lo sviluppo storico) serve a garantire il finalismo del mondo. 7 Wilhelm Windelband (1848-1915) fu allievo di K. Fischer e di Lotze e in seguito professore ordinario a Zurigo, Friburgo i. B., Strasburgo e Heidelberg; noto per i suoi imponenti lavori di storia della filosofìa, è considerato uno dei fondatori della scuola neokantiana dei valori o « scuola del Baden ». Il saggio che qui interessa, Windelband 1877, appartiene al periodo iniziale della sua riflessione, come si può rilevare dalla teoria dei valori - ancora alquanto indeterminata - che in esso è contenuta. Il saggio offre anche interessanti considerazioni sulla psicologia del pessimismo; su di esse si tornerà più oltre. Di Windelband è anche da segnalare Windelband 1914, un più tardo discorso concer­ nente l'inconscio nella psicologia, in cui Hartmann peraltro è citato solo di sfuggita.

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dovrebbe realizzare. Naturalmente è possibile soggettivamente valutare un oggetto in base a diversi fini - valutazioni che conscguentemente produr­ ranno risultati differenti. Per giungere ad una valutazione oggettiva biso­ gna invece sapere con sicurezza qual'è il fine che l'oggetto in questione deve realizzare, il che può avvenire solo per oggetti costruiti per un deter­ minato scopo. Nel caso dell'universo quindi in primo luogo si tratterebbe di sapere con certezza che l'universo ha un fine, in secondo luogo bisogne­ rebbe conoscerne esattamente la natura. L'universo tuttavia per definizio­ ne - in quanto tutto - non può essere posto in relazione con qualcosa di diverso da se stesso, con un suo ipotetico fine. Se si volesse comunque sostenere l'esistenza di un fine, esso, dovendo di necessità essere posto all'esterno dell'universo, si sottrarrebbe interamente ad ogni conoscenza; bisogna pertanto concludere che « l'universo non ha alcun fine oggettivamente dimostrabile » 8. Conscguentemente tutti i tentativi di valutazione del mondo non hanno valore oggettivo, ma sono trasposizioni della ten­ denza naturale dell'uomo a considerare l'insieme della realtà dal punto di vista dei valori da lui ritenuti più elevati: « ottimismo e pessimismo posso­ no trovar posto nella filosofia scientifica solo come fenomeni della psicolo­ gia individuale e cultural-storica, dove devono essere spiegati come interes­ santi costruzioni derivanti da processi di fusione (Verschmelzung) altamen­ te complessi » 9. 8 Windelband 1877, pp. 227-231. Windelband, sulla base di questa tesi, critica più oltre anche il pessimismo morale, che si basa sulla constatazione della non realizzazione nel mondo dell'ideale morale. Benché questo tipo di pessimismo sia nel complesso più accettabile, perché stimola all'impegno - si tratta di realizzare qualcosa che non esiste ancora -, anche in tale caso l'idea che il mondo debba necessariamente realizzare un fine morale risulta scientificamente indimostrabile (ibid., p. 241 s.). 9 Ibid., p. 232. A parere di Windelband alla base della formazione della Stimmung pessimistica (o ottimistica) sta un processo associativo: dopo una certa quantità di delu­ sioni o soddisfazioni, si continua a percepire la realtà in quello stesso modo. Questo atteggiamento, in relazione alle disposizioni psicologiche dell'individuo (o di un intero popolo), può divenire permanente; in quanto tale, in quanto processo che si produce secondo leggi psicologiche, esso non può essere né criticato né biasimato (ibid., p. 220 s.). Come si vede Windelband pone esattamente sullo stesso piano ottimismo e pessimi­ smo ed anzi sostiene che il pessimismo ha trovato una legittimazione indiretta nell'otti­ mismo dei secoli precedenti, dominante da Leibniz ad Hegel (Windelband nota peraltro l'esistenza di una tendenza pessimistica in Fichte, Schelling e Baader) (ibid., p. 225 s.). La tesi che il pessimismo non possa elevarsi a teoria filosofica ma, in quanto Lebensstimmung, debba essere spiegato psicologicamente è sostenuta anche da Paulsen 1885, p. 360, che peraltro, a differenza di Lasson (cfr. sotto), non vede nulla di patologico nel pessimismo; il contenuto di questo saggio è ripreso pressoché integralmente in Paulsen 1889, voi. I, pp. 287-320.

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La possibilità di una valutazione del mondo è invece senz'altro am­ messa da Spir, nel quale tuttavia il problema del pessimismo metafisico è gradualmente ricondotto ad una prospettiva analoga a quella del teismo, in cui al valore viene attribuita una consistenza ontologica, di per sé in grado di controbilanciare il male, il disvalore del mondo 10. Secondo Spir il pes­ simismo « oggettivo e teoretico » esprime « la tristezza dello spirito che si vede posto in un mondo che contiene l'abnorme, ciò che non deve essere, che contraddice la voce della sua ragione e del suo sentimento morale e che costituisce per lui un inquietante enigma» 11 . Ma una tale prospettiva è « logicamente inseparabile dall'idea dell'esistenza di un'essenza normale aldilà dell'esperienza », norma che « non è altro che la stessa rappresenta­ zione di Dio, pertanto il fondamento della religione» (ibid., p. 27). Tale norma si manifesta nella ragione dell'uomo e, nella misura in cui appare alla coscienza come sentimento, è il fondamento della morale e della reli­ gione, nella misura in cui appare nel pensiero, è il fondamento della filo­ sofia (critica) (ibid., p. 28). Spir, pur con una terminologia diversa - il concetto di « norma » è caratteristico del suo pensiero - sembra quindi riproporre una posizione vicina a quella di I. Fichte. Tuttavia la sua posizione ha la specificità di dichiarare impossibile qualsiasi mediazione - la teodicea - fra il condiziona­ to e l'incondizionato, fra l'anormale (il mondo) e la norma (Dio), giacché il ricondurre il mondo a Dio significherebbe implicitamente rendere « nor­ male » l'« anormale »: « si deve considerare l'incondizionato ovvero Dio o come la norma, l'ideale, o come il fondamento del mondo; considerarlo come l'una e l'altra cosa insieme è impossibile. Normale ed anormale si trovano in un'opposizione che non può essere conciliata » (ibid., p. 31). A fronte dell'ottimismo, che nel suo tentativo di spiegare il rapporto fra Dio e il mondo, finisce necessariamente per negare l'abnorme o - ancor peggio - per identificarlo con Dio, Spir dichiara quindi di preferire il pessimismo, che tien salda l'anormalità del mondo e a cui « corrisponde la vera religio­ ne, per la quale Dio o l'incondizionato è solo la norma, l'ideale, ... non il fondamento del mondo con tutto il non-divino e l'abnorme che esso contie-

10 African Spir (1837-1890) di origine ucraina, dapprima ufficiale, dal 1867 studiò filosofia in Germania per poi vivere in Svizzera dove, con i suoi scritti, ottenne larga popolarità. 11 Spir 1879, p. 26. Spir contrappone questo pessimismo a quello « soggettivo e pratico » - quello che ha al suo centro il bilancio piacere-dolore - cui non attribuisce alcun valore filosofico (ibid., p. 26).

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ne » 1? . Ad ogni modo anche per Spir il pessimismo - specie quello sogget­ tivo e pratico - non può costituire un punto d'arrivo giacché la sua conce­ zione del mondo e soprattutto la posizione che in essa deve assumere l'uo­ mo devono essere modificate proprio alla luce di quella norma, di quell'ide­ ale che esso contribuisce in modo decisivo a raggiungere (Spir 1879, p. 33). L'interpretazione che Dùhring avanza del pessimismo schopenhaueriano, per quanto non tematizzi il problema formale della possibilità del pessimismo, concorda sostanzialmente con le tesi di Spir, benché ciò che in esse è considerato come condizione di possibilità del pessimismo (empiri­ co) è qui visto come il limite fondamentale di Schopenhauer. Per Dùhring infatti la valutazione negativa della vita sviluppata da Schopenhauer dipen­ de da un almeno implicito ottimismo dell'aldilà, che costituisce una sorta di «polo immaginario» del suo pessimismo (Dùhring 1873, p. 474 s.). Dùhring tuttavia avanza l'ipotesi che l'aldilà schopenhaueriano non sia tanto causa quanto effetto del suo pessimismo: Schopenhauer sarebbe sta­ to spinto alla costruzione di questa « realtà » oltremondana per cercare una giustificazione al dolore del mondo 13 . La posizione di Lange circa ottimismo e pessimismo dipende stretta­ mente dalla sua concezione della filosofia di cui s'è detto in precedenza e costituisce il corrispettivo soggettivo della critica oggettiva svolta da Spir. Lange afferma la dipendenza logica del pessimismo dall'ottimismo (ovvero del disvalore dal valore); il pessimismo infatti nasce dalla constatazione della contraddizione esistente fra l'ideale e la realtà (disteleologia, disarmo­ nia, sofferenza), e quindi non esisterebbe se l'uomo non si elevasse dappri­ ma all'ideale, ovvero all'ottimismo. Il pessimismo si configura dunque es­ senzialmente come una critica dell'ottimismo e, nella misura in cui esso si oppone all'ottimismo come dogma, ovvero come dottrina metafisica in senso tradizionale (Lange critica aspramente la teodicea di Leibniz), svolge una « missione » importante e può essere considerato come un alleato del criticismo. Esso tuttavia non può e non deve sostituirsi all'ottimismo come 12 Ibid., p. 33. Si comprende come Spir veda non in Hartmann ma in Scho­ penhauer il sostenitore più coerente di questo pessimismo: quest'ultimo, non posseden­ do alcuna rappresentazione della norma, ha coerentemente definito come « nulla » il mondo ideale contrapposto alla realtà empirica, laddove Hartmann ha fatto di ciò che si manifesta nel mondo empirico il principio ultimo e definitivo della realtà (Spir 1879, p. 33 s. [nota]). 13 Ibid., p. 478. Dùhring riconosce peraltro a Schopenhauer il merito di aver posto in modo chiaro e senza mistificazioni i problemi del male del mondo e del valore della vita, che, come si vedrà occupano un posto centrale nella riflessione di Dùhring.

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ideale - nel senso di Lange -, giacché la tendenza a costruire una visione del mondo unitaria ed armonica, dotata di valore etico ed estetico, è una necessità connaturata allo spirito umano 14 . Vaihinger, che anche in questo caso ripropone l'impostazione di Lan­ ge, si sforza di indicare le linee di quella che potrebbe essere una riflessione non metafisica circa il problema della valutazione del mondo, problema che Vaihinger riconosce essere stato sollevato nella sua autonomia da Schopenhauer ed Hartmann 15 : si tratta di sviluppare una «teoria della sensazione » - espressione evidentemente costruita sul modello dell'espres­ sione « teoria della conoscenza » e forse ripresa da Dùhring, in cui sensa­ zione (Empfindung) significa evidentemente percezione di valore - che stu­ di i principi in base ai quali cogliamo i valori: « la teoria della sensazione sarebbe l'espressione propriamente scientifica di ciò che, come avviene sempre nella costituzione di nuovi ambiti di sapere scientifico, finora è stato trattato non scientificamente dal pessimismo e dall'ottimismo » 16. 14 Lange 1896, voi. II, p. 544. Come già rilevato da Vaihinger 1876, p. 233, la posizione di Lange ha delle analogie con l'« ottimismo senza fondamento » (grundloser Optimismus) sostenuto da Lorm, che non per caso prende le mosse dalla filosofia di Kant. Lorm, dopo aver riconosciuto la massiccia presenza del dolore nel mondo che sembra giustificare il pessimismo, sostiene che tuttavia l'ottimismo è sempre possibile come pura Stimmung, come capacità di essere felici in ogni circostanza: si tratta di « un dono innato » - la « musa della felicità » -, che non può essere insegnato e che non è in grado di controbattere le ragioni del pessimismo - ma che, d'altra parte, non può essere in alcun modo attaccato dal pessimismo stesso (Lorm 1873, pp. 2-27). In Lorm 1894, pp. 247-260, conformemente alla maggiore articolazione che assume il discorso sul fon­ damento del pessimismo scientifico (fatto risalire all'impossibilità di conoscere l'essenza della realtà), viene chiarito che questa Stimmung ottimistica dipende dal superamento dei dolori del mondo nella Sehnsucht dell'infinito - pur destinata a rimanere oggettivamente insoddisfatta. 15 Vaihinger 1876, p. 229 s. Secondo Vaihinger questo problema - nei termini però di una « dottrina dei fini umani » - è stato individuato anche da Mili che nel suo System of Logic esprime l'esigenza di sviluppare accanto alla Philosophia prima della scienza una Philosophia prima dell'arte della vita (Mili 1875, tr. it. p. 940 s.). 16 Vaihinger 1876, pp. 230-232. Per Vaihinger una tale teoria non è stata ancora adeguatamente sviluppata, benché indicazioni in tal senso si trovino in Fechner 1876, voi. I, p. 36, in Hartsen 1869, 1874, in Krause 1876, in Dumont 1876. Il progetto prospettato da Vaihinger - a parte i contributi offerti in seguito da Hartmann - è stato ripreso da Dòring 1888, che, prescindendo dichiaratamente dalla metafisica e dalla te­ ologia, svolge un'estesa analitica dei vari beni. Nello specifico questo lavoro si conclude con l'affermazione non dell'ottimismo ma della possibilità dell'ottimismo - cioè del rag­ giungimento di un sovrappiù di piacere, che l'uomo realizza attraverso il conseguimento del bene supremo, indicato da Dòring nella stima di se stessi (Selbstschàtzung], ovvero nella consapevolezza della propria adesione alla morale (Dòring 1888, pp. 315-419). Questo libro, pur severamente criticato per il suo eudemonismo (cfr. sotto), per la

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Lasson, da parte sua, non è invece affatto disposto ad attribuire tanto valore al pessimismo, che, intervenendo nella discussione sul pessimismo tenutasi alla « Società filosofica di Berlino », giudica un problema in foto non filosofia) 17 . Escluso che la negatività del mondo possa essere intesa in senso morale (il male morale non riguarda il mondo nel suo insieme ma solo gli esseri liberi che ne fanno parte), Lasson riprende in esame il tema della possibile disteleologia del tutto. Posto che il mondo abbia un fine tesi del resto riconosciuta anche da molti pessimisti -, come è pensabile che questo fine non sia raggiunto? Il mancato conseguimento del fine po­ trebbe essere causato solo da un ostacolo, da forze esterne al mondo, ma questa posizione si rivela evidentemente insostenibile: « il pessimismo, nella misura in cui attribuisce un fine al mondo, nega se stesso, giacché non è pensabile per il mondo uno scopo che non venga raggiunto, e un mondo che raggiunge il suo fine non può essere un mondo cattivo o addirittura pessimo ». In alternativa il pessimismo potrebbe affermare l'irrazionalità intrinseca del principio della realtà, ma con ciò dichiarerebbe la sua incacentralità attribuita al problema dell'assiologia è giudicato « un segno dei tempi » da Hartmann 1890. August Dòring [1834-1912] è considerato un esponente del positivi­ smo. In generale sembra che Vaihinger concepisca questa teoria come una forma allar­ gata di psicologia del piacere, come risulta dagli ulteriori rimandi alle parti che riguar­ dano tale tema nei trattati di psicologia di Wundt, Honvicz e Lazarus. Le premesse di questo sviluppo si trovano d'altra parte in Lange 1875, pp. 82-144, dove, pur senza far riferimento al pessimismo, si discute a lungo del problema della felicità, considerando quale influsso abbiano sul suo raggiungimento il caso e le circostanze esterne. La lunga analisi - che va vista nel contesto della critica sociale che Lange svolge in questo scritto - mette capo ad una rivalutazione dell'importanza dei beni materiali per il conseguimen­ to della felicità, in polemica con quelle prospettive stoicheggianti che ponevano l'accen­ to unicamente sul valore dell'interiorità. Vaihinger, da parte sua, aveva l'intenzione di scrivere una storia del pessimismo sulla falsariga della Storia del materialismo di Lange, progetto per il quale, dal 1875 in poi, aveva raccolto molto materiale e del quale aveva discusso con lo stesso Hartmann, con il quale si era incontrato più volte nel maggiogiugno 1876 (Vaihinger 1923, p. 165 s.). 17 Lasson in Aa.Vv. 1879, pp. 52-64. Adolf Lasson (1832-1917), oggi meno co­ nosciuto del figlio Georg, l'editore delle opere di Hegel, fu fervente hegeliano e pro­ fessore all'università di Berlino. Nel complesso seguì con un certo favore lo svolgersi della riflessione di Hartmann - con l'esclusione tuttavia del pessimismo -, di molto preferito ai positivisti -in particolare a Dùhring - e ai neokantiani (cfr. Lasson 1877, pp. 218-317) e allo stesso Schopenhauer («la figura di Schopenhauer è per me nella lunga galleria della storia della filosofia di gran lunga la più antipatica », Lasson in Aa.Vv. 1879, p. 62). A differenza di Windelband, Lasson non concede neppure che il pessimismo possa essere considerato un problema psicologico serio; l'essere pessimisti è semplicemente una « colpa morale », sia che si intenda il pessimismo come una Stimmung des Gemùthes, sia che lo si intenda come atteggiamento pratico, come ras­ segnazione e abbandono dei propri doveri e delle proprie responsabilità (ibid., p. 53).

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pacità di spiegare il mondo. Posto allora che per Lasson, da buon hegelia­ no, si ha filosofia solo quando si ha comprensione razionale della realtà, ne consegue Pautoesclusióne del pessimismo dall'ambito della riflessione filosofica e la validità della tesi contraria secondo cui nel mondo dominano l'essere e il bene 18.

3. LE CRITICHE AL PESSIMISMO METAFISICO DI ScHOPENHAUER ED HARTMANN.

A queste obiezioni generali circa la possibilità stessa del pessimismo, la maggioranza degli autori preferisce o affianca un altro tipo di obiezioni che tende a mostrare, nel caso di Schopenhauer, che il pessimismo non consegue necessariamente dalle tesi principali della sua metafisica, nel caso di Hartmann, che lo specifico parametro di valutazione da lui impiegato quello eudemonologico - è sbagliato e inutilizzabile o che il risultato cui mediante esso si crede di giungere si basa su tesi metafisiche insostenibili o in contraddizione con i principi del sistema stesso. In generale gli awersari del pessimismo considerano la critica delle posizioni di Schopenhauer abbastanza agevole sia per quanto riguarda l'aspetto più propriamente metafisico sia per quanto concerne il pessimi­ smo empirico; nell'un caso come nell'altro Schopenhauer, paragonato ad Hartmann, può essere visto come il sostenitore di un pessimismo « specu­ lativo » che si basa su poche tesi le quali dovrebbero dimostrare non, come in Hartmann, che nella realtà prevale il male, l'irrazionalità e il dolore, bensì che solo essi esistono 19 . Per quanto concerne l'aspetto propriamente metafisico del pessimi­ smo schopenhaueriano, è quindi sufficiente mostrare che esiste qualcosa di positivo, o - ancor meglio - che all'interno dello stesso sistema di Scho­ penhauer esistono degli elementi positivi, per considerare confutate le sue tesi. Di qui a sostenere che il pessimismo non è essenziale alla filosofia di Schopenhauer e che esso piuttosto ha le sue radici nel carattere del filosofo il passo è breve, ed è curioso come questa posizione sia in certi casi soste­ nuta per contrapporre in modo implicito od esplicito Schopenhauer ad 18 Ibid., pp. 54 s. e 63. Lasson naturalmente considera insostenibile anche la tesi secondo cui il non-essere potrebbe essere preferibile all'essere: il non-essere, in quanto tale, non sopporta alcun predicato. Sulla « teodicea » hegeliana di Lasson si tornerà fra poco. 19 L'espressione « pessimismo speculativo » la si incontra ad esempio in Braig 1883, p. 255.

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Hartmann, la cui filosofia sarebbe invece autenticamente ed irrimediabil­ mente pessimistica 20. Bona Meyer ad esempio, da una parte, con speciale riferimento alla dottrina della negatività del piacere, afferma che il pessimismo di Scho­ penhauer è molto più facilmente criticabile di quello di Hartmann, dall'al­ tra sostiene che esso non deriva necessariamente dai principi del sistema schopenhaueriano, ma è piuttosto testimonianza di « un temperamento melanconico morbosamente eccitato ». Più analiticamente Jellinek sottoli­ nea come la presenza del mondo ideale dimostri la non intrinseca irrazio­ nalità della volontà; Trautz osserva come sia ingiustificata la tesi schopenhaueriana della mancanza di finalità del volere nella misura in cui si può sostenere che esso ha il suo fine nel puro Streben; per Weygoldt la volontà intesa come principio cosmico non può essere infelice perché non possiede coscienza, tesi questa condivisa da Rehmke, il quale, dopo aver rilevato come sia inspiegabile nel quadro del monismo schopenhaueriano anche l'opposizione della volontà verso se stessa, rivolge di nuovo a Scho­ penhauer l'accusa di un esagerato antropomorfismo. Dippel infine ripren­ de un po' tutte queste obiezioni (inconciliabilità della pretesa assoluta ne­ gatività dell'essere con l'esistenza del mondo delle idee e della teleologia, impossibilità per la volontà di provare dolore, presenza in Schopenhauer di ideali etici che dimostrano l'esistenza di qualcosa di positivo) per conclu­ dere che in Schopenhauer ciò che domina è uno Stimmung-Pessimismus, cui può essere rivolta l'accusa a suo tempo indirizzata da Schopenhauer agli ottimisti: chi.è « senza riguardo » è il pessimista Schopenhauer, che, pure in possesso dell'ideale di un mondo migliore, rifiuta d'impegnarsi nella sua realizzazione 21 . La discussione intorno al pessimismo metafisico di Hartmann è molto più complessa ed articolata: in primo luogo viene criticata la possibilità di 20 Anche nella critica di questi anni domina quindi incontrastata un'interpretazione speculativa di Schopenhauer, sui limiti della quale si è già insistito. Una posizione un po' anomala è occupata al riguardo da Schwabe 1887, pp. 58-68, che richiamandosi apparentemente a Thilo, giudica Schopenhauer « un pessimista eminentemente etico ». Dopo aver mostrato in che senso il pessimismo di Schopenhauer non debba essere inteso come un pessimismo assoluto (esso ammette comunque una redenzione), Schwa­ be spiega che esso sorge dallo sforzo di dare un senso al problema del dolore del mondo, senza il quale sarebbe impossibile indicare un camino morale all'uomo. Il rifiuto del mondo - e la sua condanna - derivano appunto dall'incapacità di Schopenhauer di trovare una risposta adeguata a questo problema, se non ricorrendo ad un idealismo dai contorni poco precisi. 21 Meyer 1872b, p. 11; 1872, p. 44; Jellinek 1872, pp. 19 e 26; Trautz 1876, pp. 1013; Weygoldt 1875, p. 40; Rehmke 1882, p. 37; Dippel 1884, pp. 36-42.

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utilizzare il piacere come parametro di valutazione del tutto, parametro che in Hartmann sostituisce o per lo meno si affianca a quello della razionalità predominante in Schopenhauer. La scelta di Hartmann viene spesso liqui­ data sommariamente, facendo riferimento al carattere soggettivo del piace­ re stesso - il pessimismo si fonderebbe su una sconsiderata antropomorfizzazione della realtà. Il vero parametro dovrebbe invece essere quello della finalità morale del mondo, data per scontata da non pochi autori che si rifanno in qualche misura al teismo 22 . Più circostanziata è invece la critica di Volkelt. Anzitutto, sviluppando un'obiezione ad hominem, egli fa rilevare che secondo il dettato della filo­ sofia di Hartmann il piacere è intrinsecamente legato alla componente ir­ razionale della realtà, la volontà; posto quindi che il mondo, come Hart­ mann sostiene, è nel suo complesso razionale, in quanto finalizzato, risulta assurdo porre come suo fine qualcosa derivante dall'irrazionale. Parados­ salmente, anche se fosse possibile per la volontà soddisfarsi interamente, l'idea dovrebbe comunque opporsi a questo processo, in quanto irraziona­ le. Ma v'è di più: il piacere è di per sé qualcosa di « formale », indifferente ai contenuti che stanno all'origine del suo sorgere: si giunge così al para­ dosso che un mondo pieno di « contenuto » viene valutato unicamente per il suo aspetto formale (Volkelt 1873, p. 145 s.; 1886b, pp. 237-242). Ma Volkelt insiste soprattutto sull'inscuidibile legame che sussiste fra piacere/dolore e coscienza: un Assoluto privo di coscienza come quello di Hartmann non può provare piacere e quindi non può essere « valutato » in base a tale parametro. La difficoltà è stata del resto colta dallo stesso Hart­ mann il quale, per aggirarla, è stato costretto ad avanzare l'ipotesi della sofferenza precosmica della volontà, la quale, se, come si è visto, da una 22 Cfr. ad esempio Frederichs in Aa.Vv. 1879, p. 46 s. (il pessimismo - ma anche l'ottimismo - derivano da un'insuperata « geocentrische Einseitigkeit »); Lasson, in Aa.Vv. 1879, p. 59 s.; Fichte 1873, p. 49; Golther 1878, p. 134 s., Windelband 1877, p. 234 s. (il pessimismo deriva dall'idea « patologica » che il mondo debba corrispondere al nostro desiderio di felicità). In generale questi autori interpretano in modo piuttosto restrittivo l'eudemonismo di Hartmann, come se questi intendesse per piacere prevalen­ temente il piacere sensibile; particolarmente esplicito in proposito è Dorner 1881, p. 44, che sottolinea lo stretto legame esistente fra la soprawalutazione dell'importanza del piacere da parte di Hartmann e il suo pessimismo metafisico. August Dorner [18461920] - da non confondersi con il padre, il più noto teologo Isaak August Dorner [18091884] -, fu professore di teologia a Kònigsberg e vicino all'idealismo di Eucken; ha dedicato ad Hartmann anche una recensione alla filosofia della religione, un articolo commemorativo, Dorner 1906, e un ulteriore studio - assai più tardo - sul pessimismo, Dorner 1914; in un interessante libro ha poi indagato il legame fra Nietzsche e il pessi­ mismo [Dorner 1911]; Hartmann ha replicato ad alcune delle critiche in 1898c.

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parte si configura come un comodo mezzo per giungere apriori ad un bilancio eudemonologico negativo (l'infinito dolore derivante dall'insoddi­ sfazione precosmica è comunque più grande di ogni sovrappiù di piacere che possa eventualmente risultare dal mondo), dall'altra è in contraddizio­ ne con tutta la teorica dell'inconscio e con la spiegazione della genesi della coscienza 23 . Hartmann ha cercato di fronteggiare queste obiezioni, da una parte riformulando la sua dottrina della genesi della coscienza, dall'altra renden­ do superflua la tesi del dolore precosmico dell'Assoluto ai fini del bilancio eudemonologico della realtà. Egli afferma dunque in primo luogo che la coscienza - e il dolore - possono sorgere anche da un volere insoddisfatto in sé e non solo da un volere che non si realizza per un'opposizione ester­ na 24. In secondo luogo egli sostiene che la « beatitudine » in cui si trova l'Assoluto prima e dopo l'uscita del volere dallo stato di latenza non può essere concepita come positivo piacere: essa può essere solo pensata come pace, quiete ovvero, nei termini della psicologia empirica, come equivalente al punto-zero del sentimento. In questa prospettiva il « saldo » del bilancio eudemonologico del mondo dipende unicamente dal bilancio piacere/dolo­ re del mondo, piacere e dolore che, nell'ottica del monismo concreto, sono percepiti indirettamente dall'Assoluto stesso. Quindi da una parte è legitti­ mo applicare anche all'Assoluto il parametro eudemonologico, dall'altra, ai fini del bilancio eudemonologico del tutto, l'esistenza di un dolore pre­ cosmico dell'Assoluto risulta non necessaria per giungere ad un bilancio complessivamente negativo (alla infelicità finita del mondo non si contrap­ pone una beatitudine infinita dell'Assoluto), cosicché tale dottrina può es. 23 Volkelt 1873, p. 276. Circa l'impossibilità per la volontà di provare piacere o dolore cfr. anche Weygoldt 1875, p. 44. La critica al dolore precosmico è una specie di cavallo di battaglia dei critici di Hartmann, cfr. ad esempio Haym 1873, pp. 285 e 296 (l'introduzione del dolore precosmico dimostrerebbe il fallimento degli sforzi di Hart­ mann - autentica « fatica di Sisifo » - di privare l'Assoluto della coscienza); Ebbinghaus 1873, p. 65; Golther 1878, p. 62; Rehmke 1873, p. 37; Vaihinger 1876, p. 129 s.; Melzer 1882, p. 229 (il dolore precosmico da la misura dell'antropomorfismo di Hartmann); Sommer 1879, p. 393; Schùz 1884, p. 50; Dorner 1881, p. 32; Borries 1880, p. 45. Alcuni di questi autori - in particolare Rehmke - sottolineano anche come non si possa porre alla base dell'infelicità dell'Assoluto il contrasto fra l'infinitezza del volere e la finitezza dell'idea, definita da Hartmann principio formale e quindi capace di infiniti sviluppi (per le repliche di Hartmann cfr. NSH, pp. 340-344). Da citare è anche l'obiezione di E. Fischer 1880, p. 69, il quale ritiene inaccettabile il parametro del piacere in quanto non applicabile a quelle parti dell'universo (ad es. le piante) prive di sensibilità. 24 SP V, p. 151 s. Sul problema del rapporto fra questa coscienza e la natura inconscia dell'Assoluto cfr. sopra, cap. VI, nota 32.

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sere abbandonata senza pregiudicare la struttura complessiva del sistema 25 . Oltre a Fechner, di cui si dirà più oltre, esistono però autori che rico­ noscono almeno parzialmente validità universale del parametro eudemonologico proposto da Hartmann. Edmund Pfleiderer ad esempio si avvici­ na alla posizione di Hartmann partendo da una teoria del valore affine a quella di Lotze. Pfleiderer ritiene che la percezione del valore sia qualcosa di specifico dell'uomo (ogni valore vale sempre per qualcuno), e questo da una parte fa assumere immediatamente alla sua posizione una prospettiva più etica che metafisica, come si vedrà meglio in seguito trattando delle discussioni relative all'etica di Hartmann, dall'altra esclude dall'ambito del valore ogni altra componente oggettiva (per es. finalità e razionalità), attri­ buendo unicamente alla sensibilità assiologica dell'uomo il compito di va­ lutare la realtà. Secondo Pfleiderer il valore è colto in modo immediato dalla « sensibilità » pratica umana (la capacità di discriminare fra il bene e il male) con le stesse caratteristiche di universalità che Kant attribuisce alla « sensibilità » teoretica (la capacità di discriminare fra il vero e il falso); da ciò consegue la validità universale dei valori. Pfleiderer sostiene anche che il volere ha sempre come oggetto ciò che si ritiene bene (un valore) e che ogni volizione, nella misura in cui raggiun­ ge il suo fine, produce Lust. L'alternativa a questo nesso volontà-L«^ non può essere altro che il rifiuto del volere, ovvero il non-volere di Schopenhauer (e di Hartmann). In questo senso è del tutto legittimo utilizzare il Lust come parametro di valutazione del mondo, tenendo conto tuttavia del fatto che esso assume un valore morale differente in relazione al valore che realizza; è infatti il riferimento ai diversi valori ciò che consente di discriminare moralmente fra il Lust che deriva dall'egoismo e quello che invece deriva da volizioni morali 26. In Weckesser invece la parziale acccttazione del parametro eudemoni­ stico avviene all'interno di una prospettiva dichiaratamente teologica che pone come fine del mondo la beatitudine di Dio e dell'uomo in Dio (un 25 SP V, pp. 147-149 e 152. Hartmann insiste particolarmente sull'importanza della dimostrazione dell'impossibilità di una positiva beatitudine dell'Assoluto - esten­ sibile a qualsiasi concezione dell'Assoluto, anche a quella teistica. Questa dimostrazione - che ad esempio sostiene che l'autocontemplazione di se stesso da parte dell'Assoluto, essendo la conoscenza di Dio intuitiva, produrrebbe alla fine « noia » - non pare la più adatta per stornare dal sistema harmanniano l'accusa di antropomorfismo. 26 E. Pfleiderer 1880, pp. 215-218. Edmund Pfleiderer (1842-1902), fu professore di filosofia a Tubinga e autore di numerosi lavori storici su Eraclito, Socrate, Fiatone, Leibniz, Hume e Kant, oltre che naturalmente di una monografia su Lotze (Pfleiderer 1882).

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motivo che sarà anche questo ripreso nelle critiche rivolte all'etica di Hartmann) e che consente quindi di criticare lo specifico impiego di tale para­ metro compiuto da Hartmann. Weckesser vede nell'identificazione di feli­ cità e razionalità il proton pseudos di Hartmann; se è vero che la razionalità da sempre felicità, non è vero il contrario: il piacere non necessariamente deriva dalla soddisfazione di un desiderio razionale e questo lo stesso Hartmann lo sa bene, come risulta dalla sua teoria delle illusioni. Se allora l'Assoluto, come ancora è riconosciuto da Hartmann, opera razionalmente - ciò vale se non si considera la decisione di operare, che in Hartmann è invece irrazionale -, bisogna supporre che dia corso solo a desideri razio­ nali e che conscguentemente nel calcolo del bilancio eudemonologico del­ l'Assoluto non si debba tener conto di tutti i piaceri che derivano dalla soddisfazione di desideri irrazionali, ma anche e soprattutto di tutti i dolori che derivano alle illusioni. Risulta allora che il riferirsi indistintamente al piacere (al piacere nel suo aspetto formale - qui Weckesser pare riprendere le posizioni di Volkelt) come parametro di valutazione non basta: bisogna affrontare il problema del contenuto del sentimento di piacere o - come preferisce Weckesser - di felicità, insomma bisogna chiarire quale è lo scopo razionale del mondo. Weckesser ritiene che esso consista nella rea­ lizzazione di un armonico e quindi morale rapporto fra io e non-io, inteso come manifestazione della ragione nel mondo; solo la felicità e il dolore derivanti dalla realizzazione o dalla non-realizzazione di tale fino sono con­ scguentemente parametri legittimi per la valutazione del mondo 27. Ma anche supposto che il piacere sia criterio accettabile per giudicare del valore del mondo, a molti autori pare che il pessimismo metafisico di Hartmann assuma un carattere ambiguo e contraddittorio come conse­ guenza delle difficoltà e delle incongruenze contenute nella dottrina dei principi. Così per Ebbinghaus e Borries il sistema di Hartmann ha in sé tutti gli elementi per approdare all'ottimismo. D'accordo con Rehmke, essi non ritengono accettabile la contrapposizione fra volontà infinita e rappresenta27 Weckesser 1885, pp. 24-33. Weckesser ritiene poi che nel mondo ci sia una tendenziale prevalenza della realizzazione del fine etico e quindi conclude con una va­ lutazione ottimistica del mondo stesso. Weckesser finisce così per concordare nella so­ stanza se non nella forma con Dippel 1884, p. 96 s., il quale rifiuta il parametro eude­ monologico sostenendo che il fine del mondo e quindi il criterio per giudicare del suo valore è lo sviluppo della moralità. Di Albert Weckesser - nato nel 1862 - si sa solo che fu professore di ginnasio e teologo. La dissertazione cui qui ci si riferisce e che si segnala per l'ampio utilizzo della letteratura critica concernente il pessimismo, era stata sugge­ rita da Bona Meyer.

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zione finita; così la volontà, in quanto onnipotente, dovrebbe soddisfarsi pienamente nelle rappresentazioni e dar luogo alla « suprema felicità di Dio » (Ebbinghaus 1873, p. 65; Borries 1880, p. 48). La tesi della mancanza di un legame intrinseco fra il pessimismo e il sistema metafisico di Hartmann è condivisa anche altri autori, fra i quali Kirchmann, Dorner e Schùz 28. Altri autori invece mettono in discussione la pretesa di Hartmann di mitigare in qualche misura il pessimismo affiancando alla volontà irrazio­ nale l'idea, in grado di governare logicamente e finalisticamente lo sviluppo del mondo. Per questi critici in realtà Hartmann subordina completamente l'idea alla volontà e quindi ripropone a fondamento dell'universo un prin­ cipio assoluto irrazionale (Golther 1878, p. 160). Questa subordinazione risulta in primo luogo dall'incapacità dell'idea di impedire il sorgere del mondo e dalla necessità dell'idea di utilizzare la volontà per realizzare il processo (Peters 1883, p. 281). Ad Haym questa teoria - in cui l'idea è paragonabile ad Odissee che si serve del ciclopc accecato per uscire dalla caverna - appare semplicemente una caricatura dell'astuzia della ragione di Hegel (Haym 1873, p. 285). Ma v'è di più: l'idea appare condizionata dalla volontà anche per quanto concerne la determinazione del contenuto del mondo, giacché non risultano comprensibili le ragioni del lungo e doloroso processo necessario secondo Hartmann per ricondurre la volontà al non volere; l'idea dovrebbe poter determinare altrimenti il volere in modo da correggere meglio e più rapidamente l'errore iniziale, perché il mondo non è affatto il migliore dei mondi possibili 29. In ogni caso rimane incomprensibile per Dorner come l'idea possa giungere a guidare la volontà, per sua natura indifferente al logico, come è 28 Kirchmann 1875, p. 41, osserva che l'intera filosofia della storia di Hartmann fino alla catastrofe finale della negazione del volere - ha un andamento del tutto analogo alle più classiche filosofie ottimistiche, giacché chiede all'uomo di impegnarsi per il raggiungimento di una felicità sempre maggiore e di un livello di coscienza sempre più elevato. Sulla stessa linea si muove Dorner 1914, p. 131, il quale rileva che la posizione marginale occupata dal pessimismo in Hartmann costituisce la migliore confutazione di tale prospettiva di pensiero. Questa interpretazione converge almeno parzialmente con gli sforzi compiuti dall'ultimo Hartmann per separare il destino della sua filosofia da quello - ormai segnato - del pessimismo. Schùz 1884, pp. 32 e 55 s., concorda con questa lettura della filosofia di Hartmann, ma per rilevare la negatività delle componenti non pessimistiche di Hartmann (crasso ottimismo, Kulturforschritt, evoluzionismo) e la mancanza di sincerità del pessimismo hartmanniano, che non mostrerebbe alcuna par­ tecipazione al dolore del mondo e discrediterebbe la vera e nobile forma di pessimismo. 29 Cfr. Du Prel 1871, p. 453; Volkelt 1873, p. 186. Una critica eguale ma di segno opposto, come si è visto (cfr. cap. XV, nota 61), era stata avanzata in riferimento alla volontà, che appariva ingiustificatamente vincolata dall'idea.

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riconosciuto dallo stesso Hartmann quando ammette la possibilità che la volontà possa di nuovo riprendere a volere, riproponendo il dramma del mondo (Dorner 1914, pp. 135-138). Così secondo Dippel la filosofia di Hartmann ha alla sua base una concezione intrinsecamente contraddittoria della volontà, da una parte irrazionale e fonte del male, dall'altra, attraver­ so il suo schiudersi alla coscienza, capace di divenire razionale e di redi­ mersi dal male (Dippel 1884, p. 50 s.). La stessa contraddizione è segnalata da Schùz che vede una sorta di giucco delle parti tra l'elemento razionale (la coscienza) e l'elemento irrazionale (la volontà): quest'ultimo ha per fine la coscienza, la quale a sua volta ha per fine l'eliminazione dell'irrazionale (Schùz 1884, p. 50). Del resto il dominio dell'irrazionale è confermato dal fatto che il pro­ cesso cosmico per Hartmann debba avere come fine il nulla: il nulla non può essere il fine ultimo e un processo che non porta a nulla non può essere considerato un processo. Da questo punto di vista è da considerarsi preferibile la posizione di Schopenhauer, il quale in qualche misura lascia aperta la possibilità che la negazione del volere apra la via ad un nuovo mondo o quantomeno ad un nuovo modo d'essere dell'Assoluto 30. L'assenza di un autentico finalismo appare infine confermata dalla probabilità che l'intero processo possa ripetersi all'infinito e che quindi neppure il raggiungimento del nulla possa essere visto come un guadagno definitivo 31 . Ve infine la questione della negazione della volontà, una componente del sistema che nonostante la sua dichiarata congetturalità, è ampiamente sfruttata per ribadire l'inconsistenza della pretesa teleologia di Hartmann. Se qualche autore si impegna a mostrarne la debolezza teorica (la difficoltà maggiore è indicata nel fatto che un insieme di volontà finite dovrebbe 30 Reichlin-Meldegg 1869, p. 156 s.; Jung 1872, p. 421; Golther 1878, p. 161; Volkelt 1873, p. 162 s.; E. Pfleiderer 1875, p. 48 (sottolinea che il finalismo si riduce qui al « crasso egoismo » dell'Assoluto, un tema che sarà più volte ripreso nel corso della discussione sull'etica di Hartmann); Ebrard 1873, pp. 301-306 (afferma che il processo cosmico si conclude in una « assoluta disperazione », e aggiunge sarcasticamente che, visto che per far saltare il mondo non basta la dinamite, si deve far ricorso all'« imbecillite »); Schwarz 1875, pp. 92-96 (osserva come in Hartmann non si giunga ad una vera conciliazione e da dell'intera escatologia il seguente giudizio: « da una follia dell'inconscio secondo Hartmann sorge il mondo ed esso diviene vittima di tale follia. Al folle Dio corrisponde il folle mondo e al folle mondo una folle concezione del mondo. Non può essere altrimenti »). 31 Trautz 1876, p. 20; Golther 1878, p. 169; Borries 1880, p. 44; Ribbeck 1885, p. 279.

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prevalere sulla parte infinita della volontà insoddisfatta dell'Assoluto che continua a volere) 32 , altri si rifiutano di considerare seriamente questa te­ oria p ironizzano pesantemente su di essa 33 .

4. LE ALTERNATIVE AL PESSIMISMO METAFISICO: TENTATIVI DI TEODICEE.

Negli anni in cui più vivace è il dibattito intorno al pessimismo viene pubblicato un certo numero di lavori che si occupano monograficamente del problema della teodicea o che dedicano ad esso largo spazio. Il legame fra pessimismo e teodicea è abbastanza evidente: in linea di principio il presupposto di ogni teodicea - l'esistenza di Dio - risolve da solo il proble­ ma del pessimismo, ponendo a fondamento della realtà un essere infinita­ mente buono, onnipotente (sommamente razionale), onniscente, in grado quindi di controbilanciare ogni negatività, ogni disvalore che possano esse­ re imputati al mondo creato. Allo stesso modo, posta tale concezione di Dio, il problema dell'esistenza del male può essere dato come risolto a priori: se il mondo è opera di un tale principio, il male deve avere necessa­ riamente una giustificazione. Il problema della teodicea sorge quando non ci si accontenta far risalire il male agli imperscrutabili disegni di Dio 34, ma, presupponendo un'almeno parziale omogeneità fra la ragione umana e quella divina, si ritiene possibile comprendere razionalmente i motivi del suo esistere. Questo passo risulta poi pressoché inevitabile nell'ambito di filosofie e teologie che di quella stessa ragione si servono per risalire all'esi­ stenza di Dio. L'autore che in modo più chiaro sottolinea il rapporto esistente fra pessimismo e teodicea è senz'altro Lotze. Nelle sue lezioni sulla filosofia 32 Haym 1873, pp. 290 s. e 297 (Hartmann fa valere anche in metafisica il princi­ pio parlamentare della maggioranza; d'altra parte una volontà negativa è inconcepibile; conclusione: « das Stiick kann gar nicht gegeben werden »); Trautz 1876, p. 19 s.; Golther 1878, pp. 170-173; Peters 1883, p. 282; Ribbeck 1885, p. 278 (afferma che la negazione cosmica della volontà nega il principio di conservazione dell'energia). 33 Ebbinghaus 1873, p. 66; Weygoldt 1875, p. 142; Volkelt 1873, p. 246 (l'idea che la maggioranza degli uomini possano negare il volere universale « appartiene alle più divertenti fantasie »); Vaihinger 1876, p. 137 (la negazione finale del volere è il quarto stadio dell'illusione); Lasson in Aa.Vv. 1879, p. 70; E. Pfleiderer 1875, p. 48 (presenta la negazione del volere di Hartmann come un « Weltaufhebungskongress » oppure come una «Ltquidation einer Aktiengesellschaft»}. Bloch 1923, p. 201, parla di un «Parlamentsbeschluss ». 34 Cfr. in proposito Schopenhauer, PP I, p. 129 s. = p. 175 s.

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della religione egli afferma peraltro che il pessimismo è un modo di proce­ dere superficiale, giacché risolve il problema della teodicea negando tanto la bontà del mondo, tanto l'esistenza di Dio. In tal modo si limita a negare i termini di un enigma che non sa risolvere, vale a dire quello appunto della conciliabilità del male e di Dio 35 . Per parte sua Lotze ritiene tuttavia impossibile una soluzione teoreti­ camente adeguata della teodicea, giacché l'origine del male non può essere spiegata né facendo riferimento ad un principio cattivo opposto a Dio, né ponendo la fonte del male in Dio stessa (Schelling), né rifacendosi come Leibniz (e in epoca più recente Weisse) alla teoria del cosiddetto male metafisico, inteso come l'inevitabile scarto che sussiste fra creatore e crea­ tura. Quanto alla tesi secondo cui il male deriva da una colpa dell'uomo e quindi può essere visto come punizione o come strumento di educazione, essa non spiega la sofferenza degli innocenti né la sproporzione fra le colpe o i meriti degli individui e i dolori che toccano a ciascuno: non resta quindi che abbandonarsi all'insondabile saggezza di Dio 36. A questa posizione fanno da contraltare un buon numero di teodicee che riprendono le tradizionali argomentazioni. L'aspetto relativamente nuovo di queste posizioni consiste al più nella sottolineatura della funzione morale del male, che serve a elevare l'uomo, i cui limiti non derivano tanto dal peccato originale - quasi sempre passato sotto silenzio - quanto dalla sua originale e strutturale imperfezione metafisica. Emblematica da questo punto di vista è la posizione di Carrière 37 . Egli, come spesso avviene negli autori che si muovono in una prospettiva religio­ sa, da una valutazione abbastanza positiva del pessimismo inteso come sa­ lutare reazione al piatto ottimismo materialistico, come monito all'umanità. 35 Lotze 1882, p. 86. Quest'opera, apparsa postuma (Lotze era morto nel 1881) è la trascrizione di un corso universitario del 1878/79. Hermann Lotze (1871-1881) ap­ partiene con Fechner (ed Hartmann) a quegli autori che giungono alla filosofia passan­ do per estesi studi scientifici. Dopo aver studiato a Lipsia medicina e filosofia (ascoltò fra gli altri Weisse è Fechner) insegnò a Gòttingen fino a 1881, quando, poco prima della morte, fu chiamato a Berlino. È noto soprattutto per la sua Medicinische Psychologie (Lotze 1852 - utilizzata da Hartmann in PU) e il suo Mikrokosmos (Lotze 1880); lo scritto cui qui ci si riferisce qui in prevalenza è un corso di filosofìa di religione pubbli­ cato postumo. 36 Lotze 1882, pp. 80-83. Cfr. anche Lotze 1880, voi. Ili, pp. 610-612. Sulle varie fasi della filosofia della religione di Lotze e, conscguentemente, sui diversi atteggiamenti assunti riguardo il problema della teodicea cfr. Schmidt-Japing 1925. 37 Philipp Moritz Carrière (1817-1895), noto per i suoi studi di estetica, fu profes­ sore a Monaco; influenzato prima da Fichte, poi da Hegel, si volse infine al teismo, in cui, secondo le sue parole, potè sanare la frattura fra testa e cuore, riaffermando una

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Carrière condivide la descrizione della condizione terrena dell'uomo offer­ ta dal pessimismo: non v'è da dubitare che l'uomo quando cerca la felicità nei piaceri sensibili, è la creatura più infelice, perché alle sofferenze imme­ diate si aggiunge il loro riflesso nello spirito. Ma - e a questo punto Carrière inizia a sviluppare la sua teodicea - il dolore ha una funzione educatrice; esso mostra all'uomo l'impossibilità di raggiungere la felicità nelle cose sen­ sibili, ricerca che è una perniciosa conseguenza della negazione degli ideali, cioè del materialismo e del nichilismo. Esso è d'altra parte stimolo all'impe­ gno, alla lotta per il proprio perfezionamento personale e per quello del­ l'umanità tutta nella dirczione dell'edificazione di un mondo conforme al­ l'ideale; tali sforzi troveranno il loro coronamento e la loro ricompensa nella beatitudine eterna (Carrière 1891, pp. 346-348, 362-364, 457 s.). Come si vede Carrière condivide la tesi secondo cui alla base di ogni tipo di male v'è il male morale, che a sua volta è reso possibile - ma non necessario - dalla libertà che Dio concede all'uomo. Esso è dunque insieme punizione per la colpa e stimolo al perfezionamento. Detto in termini generali, il mondo non è come deve essere ma è la condizione perché non sia come è e perciò il suo essere è da preferirsi al non essere. Proprio il senso del non dover essere serve a spingere l'uomo a realizzare il mondo come deve essere 38. Posizioni abbastanza simili sono sostenute da Huber, Golther, Kussner, Kym e Harnisch. Anche per Huher - che peraltro sottolinea assai di meno il carattere di punizione del male - il male, nella forma della neces­ sità e del bisogno, è condizione ineliminabile dell'uomo in quanto creatura ed è necessario per stimolare lo sviluppo delle sue facoltà, un agire finali­ stico senza il quale non sarebbe possibile la felicità che deriva dal raggiun­ gimento di un fine. D'altra parte senza il male morale, senza il vizio, sareb­ be impossibile la virtù; di nuovo, nella realizzazione di un mondo confor­ me ad ideale ha luogo il superamento del male 39 . Il lavoro di Harnisch - di taglio esplicitamente teologico - si segnala per l'ampiezza delle prospettive sviluppate e soprattutto per la circostanconcezione personale della divinità. Si interessò costantemente della filosofia di Hartmann, recensendo numerosi dei suoi scritti e dandone talvolta un giudizio lusinghiero. La sua opera più sistematica nell'ambito della filosofia teoretica è Carrière 1891, espli­ citamente pensata come una risposta a Strauss e al materialismo. 38 Ibid., p. 359. Secondo questa prospettiva la condizione umana non deve essere considerata come decaduta da una precedente perfezione (peccato originale), ma, hege­ lianamente, come inserita in un graduale processo di sviluppo che realizzi gradualmente l'ideale. 39 Huber 1876, pp. 100-108. Anche Johannes Huber (1830-1879) fu professore a Monaco; come Weigelt, appartenne al gruppo dei Vecchi Cattolici. Sulle stesse posizioni

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ziata discussione degli altri tentativi di teodicea sviluppati in quegli anni 40. Harnisch sostiene che il fine dell'umanità è quello di giungere a una « li­ bera comunità » con Dio; un tale fine può essere raggiunto solo con lo sviluppo della « disposizione moral-religiosa » dell'uomo, ovvero della sua personalità. Ebbene « noi non possiamo rappresentarci lo sviluppo di una disposizione alla personalità altrimenti che in un corpo costituito da ma­ teria terrena », né si può obiettare che Dio avrebbe potuto creare un uomo perfettamente sviluppato: ciò sarebbe in contraddizione con il concetto di carattere, che, in quanto tale, deve essere formato - si potrebbe dire crea­ to - dall'uomo stesso. Chiedere che Dio crei un carattere formato è chie­ dere a Dio l'impossibile, cosa che Harnisch, richiamandosi a Weisse - ma si tratta in definitiva della posizione leibniziana - ritiene illegittima. Con questo Harnisch si apre la via per una giustificazione morale del male, presentato come la condizione necessaria per lo sviluppo del carattere, a sua volta condizione necessaria per il raggiungimento della beatitudine è aU'incirca anche Golther 1878, pp. 184-201, il quale richiamandosi più volte alla tra­ dizione classica del pensiero tedesco (Lessing, Schiller, Goethe, Kant), sottolinea l'im­ portanza dell'elemento dinamico nella vita dell'uomo - impensabile senza la mancanza, l'imperfezione -, che ha in esso la possibilità di realizzare l'idea morale, ma anche este­ tico. La felicità - il piacere in senso lato - che deriva dal conseguimento di questi fini, disponibili per tutti gli uomini, è di per sé sufficiente a giustificare i dolori che l'uomo deve necessariamente affrontare. Quanto a Kussner 1888, questa dissertazione si presen­ ta con grandi ambizioni (intende sviluppare una teodicea antropocentrica, l'unica in grado di contrapporsi all'antropocentrismo del pessimismo), ma finisce poi per ripro­ porre la solita tesi secondo cui il fine dell'uomo - la completa realizzazione dell'idea di umanità - può essere realizzato solo se l'agire umano è stimolato da « ostacoli », siano essi i mali fisici, i vizi o i limiti della facoltà conoscitiva (pp. 28-30). Kussner cerca anche di riproporre la tesi secondo cui il mondo attuale è il migliore dei mondi possibili, osservando che un mondo con minori mali - benché in sé concepibile - sarebbe peggio­ re dell'attuale perché stimolerebbe di meno l'uomo e quindi, in definitiva, condurrebbe alla realizzazione di una quantità inferiore di bene (pp. 31-33). Senza espliciti riferimenti al problema del pessimismo è invece Kym 1878, che ha per tema specifico la giustifica­ zione del male morale. Andreas Ludwig Kym (1822-1900), professore di filosofia a Zurigo, non si discosta di molto dalla tradizione teologica, affermando che esso ha la sua origine nella libertà dell'uomo, a sua volta condizione necessaria per realizzare la finalità morale dell'universo. Quanto alle sofferenze e alle imperfezioni della natura, esse, come in Golther, sono considerate condizioni necessarie per lo sviluppo dell'universo, cosic­ ché Kym giunge a sostenere che « Dio ha non avrebbe potuto disporre il mondo meglio di come lo ha disposto » (ibid., p. 70). 40 Harnisch fu un pastore protestante, di cui si conosce solo la data di nascita (1854). Lo si ritrova fra gli opponentes della dissertazione di Lorenz 1880, lavoro que­ st'ultimo estremamente modesto. Harnisch dichiara di porsi dal punto di vista del « tei­ smo concreto », rifacendosi all'autorità filosofica di I. Fichte, Lotze, Weisse e Ulrici (Harnisch 1880, p. 4 s.).

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eterna. L'esistenza del male, in tutte le sue forme, è quindi l'unico modo pensabile attraverso cui Dio può realizzare il bene - comunque superiore - della beatitudine eterna delle creature 41 .

5. LA CRITICA DI FECHNER AL PESSIMISMO E LA SUA TEODICEA. Fra i vari autori che intervengono sul pessimismo, Fechner assume una posizione di particolare rilievo, giacché egli da una parte accetta nelle sue linee fondamentali l'impostazione data al problema da Hartmann, dal­ l'altra ne offre una soluzione del tutto opposta sia nell'ambito metafisico (ottimismo e teodicea), sia nell'ambito empirico (bilancio eudemonologico positivo). Il fatto che anche quest'ultimo problema, a differenza di quanto avviene negli altri awersari di Hartmann dei quali si parlerà nel prossimo capitolo, sia affrontato in termini prevalentemente speculativi, consente di trattare qui unitariamente il contributo di Fechner alla discussione del pes­ simismo 42 . In primo luogo dunque Fechner riconosce la legittimità dell'utilizzo del piacere come parametro assiologico generale dell'universo. Questa po-

41 Harnisch 1880, pp. 56-58 e 85 s. Secondo questo autore una tale posizione riesce anche a spiegare la sofferenza della natura, che, in quanto condizione per il sus­ sistere del corpo umano, è coinvolta nel processo cosmico di sviluppo. Anche in questo caso non si fa alcun riferimento al peccato originale e si riconosce - con Lotze - l'insondabilità del modo in cui Dio divide le sofferenze fra gli uomini. Infine Harnisch, allo scopo di evitare il sovrappiù di dolore prodotto dall'eterna sofferenza dei dannati, avan­ za la tesi: che la sopravvivenza ultraterrena sia limitata agli eletti (p. 101 s.). 42 Gustav Theodor Fechner (1801-1887) studiò dapprima medicina per dedicarsi poi alla fisica, di cui divenne professore a Lipsia nel 1834. Colpito da una quasi-cecità - pare dovuta agli esperimenti compiuti sulle percezioni visive - e disturbato da una grave malattia nervosa, si ritirò dall'insegnamento nel 1840. Ristabilitesi nel 1943, dal 1846 riprese ad insegnare, dedicandosi a temi prevalentemente filosofici e psicologici. A questo periodo risale lo sviluppo della psicofisica (legge di Weber-Fechner) e della filosofia speculativa (anch'essa costruita su basi « induttive »). L'impostazione filosofica di Fechner ricorda per molti aspetti quella di Hartmann: come Hartmann egli ritiene che il sapere metafisico non possa giungere a certezza apodittica, ma sia una questione di fede, di una fede fondata su un esteso impiego dell'induzione e del ragionamento analogico (Fechner 1879, p. 17); come Hartmann si muove in una prospettiva monistico-panteistica, che da una parte vede le creature come contenute in Dio, dall'altra attri­ buisce loro una relativa autonomia; così Dio esplica il suo volere, il suo sapere e il suo sentire con e attraverso le creature, benché non si esaurisca in esse (ibid., pp. 50 e 80). A differenza di Hartmann però il Dio di Fechner possiede per sua essenza personalità e coscienza (Fechner 1851, voi. I, p. 195 s.).

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sizione è collegata strettamente alla sua concezione del parallelismo psico­ fisico. Com'è noto, Fechner rifiuta la concezione monadologica della co­ scienza e vi sostituisce quella che, riprendendo il termine da Herbart, egli chiama « sinecologica »: la coscienza (e l'anima) non tocca ai singoli atomi (o ad atomi-monadi particolari), ma ai vari sistemi da essi costituiti, siano essi piante, animali, uomini, corpi celesti. Lo stesso universo nel suo com­ plesso, inteso come sistema, è per Fechner dotato di coscienza, la coscienza di Dio, cosicché esso risulta in ultima analisi animato in tutte le sue parti (Fechner 1864, pp. 245-249). L'universo in generale e i suoi vari sottosiste­ mi sono caratterizzati da, forze che tendono (streben) a mantenere o a mi­ gliorare lo stato in cui si trova il sistema cui appartengono. A questo ten­ dere delle forze nell'ambito del fisico corrispondono nell'ambito dello psi­ chico Lust e Unlust, che quindi sono fenomeni altrettanto universali quan­ to il tendere delle forze. Di qui la legittimità di servirsene per stabilire il valore del mondo (Fechner 1879, p. 205 s. nota). Una volta affermata l'universalità del piacere e del dolore, Fechner si premura di mostrare la loro omogeneità qualitativa: la vita dell'uomo si esplica nella ricerca di ciò che produce o promette più piacere e di ciò che produce o promette meno dolore e a questa regola va ricondotta anche la morale, il bene e il male, la felicità e l'infelicità. Perfino la religione secondo Fechner deve essere considerata da un punto di vista eudemonologico. Naturalmente si tratta d'interpretare piacere e dolore non in modo restrit­ tivo, ma di allargare questi concetti in modo tale che essi possano accoglie­ re in sé anche « i più alti piaceri spirituali »; ma ciò non toglie che anche « la beatitudine della buona coscienza e la pena della cattiva coscienza » debbano comunque essere considerati rispettivamente un piacere e un do­ lore. Inoltre, quando si parla di bene e male non bisogna riferirsi solo al presente del piacere o del dolore, ma anche alle loro conseguenze, cosicché deve essere senz'altro considerato un « cattivo piacere » quello che, secon­ do principi generali, produce nel mondo nel suo complesso un dolore mag­ giore, come, viceversa, la punizione che apporta dolore al malvagio, nella misura in cui serve ad evitare al mondo dolori maggiori, deve essere con­ siderata buona 43 . 43 Ibid., p. 130 s. Secondo Fechner quanti rifiutano di ricondurre il bene e il male al piacere e al dolore in genere sostengono una concezione del piacere troppo legata alla sensibilità o non considerano le conseguenze di piaceri e dolori particolari. Per ulteriori approfondimenti di questa tesi Fechner rimanda a due suoi precedenti lavori, Fechner 1846 e 1876.

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Dal riconoscimento dell'omogeneità qualitativa di tutti i piaceri e i dolori consegue necessariamente la loro confrontabilità di principio. Essa è d'altra parte necessaria per spiegare l'agire dell'uomo (la « prassi della vita ») che deve essere in grado di scegliere tra i vari piaceri e i vari dolori, il che è pensabile solo se si suppone nei diversi sentimenti l'esistenza di una determinazione quantitativa che li renda fra loro confrontabili, nonostante le loro apparenti differenze qualitative (Fechner 1879, pp. 131-133). Fechner riconosce che il confronto che l'uomo compie fra un senti­ mento presente e il ricordo di un sentimento passato non è molto sicuro per la sua soggettività, né la via di un confronto oggettivo, basato sulla osservazione del modo in cui sono espressi i vari piaceri o dolori nelle parole o nella mimica oppure sulla quantità di attività o mezzi che un individuo impiega per raggiungere un determinato piacere, pare a Fechner essere molto più sicura. Manca quindi una misura oggettiva, ma Fechner non dispera che la psicologia, come è giunta a « un principio di misura molto generale » per le percezioni, possa giungere un giorno ad un risulta­ to simile anche per il piacere e il dolore. In ogni caso non si può rinuncia­ re ad un confronto fra piaceri e dolori, non si può rinunciare a stabilire se nel mondo piacere e dolore si equivalgono oppure se ci sia prevalenza dell'uno sull'altro, giacché Fechner, in pieno accordo con Hartmann, rico­ nosce che se il dolore prevalesse, sarebbe meglio che il mondo non esistes­ se. Di qui l'importanza della Lust- una Unlust-Oekonomie der Welt, espressione che richiama evidentemente il concetto di bilancio eudemonologico di Hartmann 44. Fechner rifiuta anzitutto la tesi che esista un'esatta equivalenza fra piacere e dolore; questo potrebbe avvenire se il mondo fosse sorto da un originario stato d'indifferenza o di equilibrio; ma una tale ipotesi deve essere respinta, giacché se il mondo esiste, bisogna pensare ad un'origina­ ria prevalenza di un elemento, che vien detto fattore positivo. Per ogni movimento è pensabile un movimento in senso inverso - i pianeti si muo­ vono in una dirczione per metà della loro orbita e in senso inverso per l'altra metà -, ma lo sviluppo del mondo, che pure può essere sempre pensato indifferentemente in senso progressivo o in senso regressivo, in realtà va in un'unica dirczione. Certo ad ogni corpo che assume una carica 44 Ibid., pp. 133-135. Fechner richiama l'attenzione sulle difficoltà del confronto derivanti dalla diversità di grado, di intensità, di durata dei vari sentimenti, e, più in generale, sul problema di individuare quanti dolori siano necessari per spegnere un piacere o viceversa (tema che come si vedrà è particolarmente sviluppato da Simmel).

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elettrica positiva corrisponde un corpo che assume una carica elettrica negativa, ma questa analogia non si può estendere al piacere e al dolore, giacché non consta che chi diviene felice rende necessariamente infelice il suo prossimo 45 . Fechner in prima istanza dichiara che il rapporto fra piacere e dolore nel mondo non può essere deciso sulla base d'ipotesi filosofiche ma solo per via empirica e in questa prospettiva egli riconosce ad Hartmann il merito d'aver seguito questa via « con meritevole accuratezza, rimarchevo­ le amore e impressionante completezza» (ibid., pp. 139-141). Fechner non di meno, tenendo conto comunque della inevitabile soggettività della valutazione, avanza una serie di considerazioni che rendono problematico il risultato del bilancio delineato da Hartmann. Anzitutto è possibile che tale risultato sia condizionato dal fatto che generalmente i dolori sono più appariscenti ed intensi dei piaceri, il che tuttavia non comporta che la somma di questi ultimi - più numerosi - sia inferiori a quella dei dolori: ad esempio tutti i giorni si gode della tazza di caffè al mattino e del pranzo di mezzogiorno, mentre raramente si soffre per un mal di denti; eppure tale occasionale sofferenza ci pare superiore alla somma dei quotidiani piaceri; l'inimicizia e l'odio colpiscono enormemente e sembrano superiori all'amicizia, all'amore, alla socievolezza in cui viviamo normalmente; il mancato raggiungimento di un fine che ci siamo proposti ci ferisce pro­ fondamente, eppure, mediamente, sono di più i fini raggiunti che quelli mancati. Questo dipende anche dal fatto che spesso i piaceri - a differenza dei dolori - restano al di sotto della soglia percettiva. Ciò non ostante data la teoria fechneriana del sentimento e anche a prescindere dal fatto che metafisicamente sono percepiti dalla coscienza universale - essi con­ corrono a formare quello che si potrebbe chiamare il tono eudemonologico complessivo dell'esistenza che si manifesta empiricamente nel costante amore per la vita: « Come potrebbe dominare il piacere di vivere (die Lust zu leben), se nel suo complesso non dominasse il piacere del vivere (die Lust am Leben}? » 46. 45 Ibid., p. 137 s. Fechner sembra qui sostenere che l'esistenza di un dinamismo all'interno del cosmo (lo streben delle forze) possa sussistere solo se esso non è contro­ bilanciato e quindi annullato da un dinamismo eguale e contrario. 46 Ibid., pp. 140-143. Fechner completa la sua contro-analisi empirica del bilancio trattando anche del lavoro, della noia e dei grandi - seppur rari - piaceri (l'amore nelle sue forme più pure, la natura, l'arte e, soprattutto, « una coscienza pura e la fiducia di essere nelle mani di Dio»). Alcune altre osservazioni particolari di Fechner, simili a quelle di altri avversarii del pessimismo, sono ricordate nel capitolo seguente.

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Fechner riconosce tuttavia che queste osservazioni non sono in grado di provare con certezza la positività del bilancio. Si tratta allora di vedere se è possibile individuare nello sviluppo del cosmo delle indicazioni che facciano supporre un'evoluzione del rapporto piacere/dolore in una dirc­ zione indiscutibilmente favorevole al piacere. Ora, posto che ogni sforzo umano va nella dirczione dell'accrescimento del piacere, sarebbe contrario alla teleologia della natura il ritenere che tali sforzi vengano frustrati. Ben­ ché l'esperienza non sembri confermare sempre il successo di tali sforzi e benché sul piano storico vi siano certamente fasi involutive in cui non si realizza alcun progresso sul piano della felicità, Fechner ritiene che l'espe­ rienza e la storia, considerate nella loro globalità e nel lungo periodo, con­ fermino la realtà di tale sviluppo; nessuno vorrebbe veramente ritornare al modo di vivere dei selvaggi, per quanto il passato venga rappresentato in modo idilliaco 47 . Fechner offre infine un'ulteriore e più elaborata dimostrazione del necessario progresso della felicità nel mondo e, anticipando i temi della teodicea, in qualche misura anche della ragione della presenza in esso del dolore, facendo ricorso al suo « principio della tendenza alla stabilità ». Tale principio afferma che ogni sistema, quando rimangano immutate le condizioni esterne, ha la tendenza a organizzarsi in forme di movimento che si ripetono regolarmente (movimenti periodici); esempi significativi di questa tendenza alla stabilità sono il movimento del pendolo o il moto dei corpi celesti nel sistema solare. Quando il sistema è disturbato dall'esterno - e ciò vale per tutti i sistemi con l'eccezione dell'universo -, la stabilità del sistema particolare viene distrutta, ma solo per dar luogo ad una nuova stabilità derivante dall'adattamento alle nuove circostanze esterne 48. Questo principio trova applicazione anche nell'ambito della fisiologia della percezione, ove si traduce nella tendenza all'armonia. Ad esempio la percezione delle regolari onde sonore prodotte da un unico suono, turbata da altri suoni che hanno frequenze diverse, si stabilizza quando le diverse frequenze, dopo un arco di tempo più o meno lungo, vengono unificate in un insieme di frequenze periodiche. Un altro esempio di un processo di 47 Ibid., pp. 143-146. L'ipotesi di un costante sviluppo verso gradi sempre più alti di felicità non implica l'esistenza di uno stato originario di assoluta infelicità: si può supporre che lo sviluppo abbia preso le mosse da una condizione asintoticamente vicina alla infelicità assoluta, ma non coincidente con essa. 48 Ibid., pp. 205-209. L'universo tuttavia secondo Fechner non può raggiungere una stabilità completa, perché ciò significherebbe la fine dei processi vitali e deve essere concepito come in una condizione d'infinito avvicinamento alla stabilità.

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stabilizzazione è offerto da ciò che avviene nella contemplazione di un quadro. Qui la stabilità delle percezioni isolate delle sue parti e dei suoi colori, è dapprima turbata dalla considerazione del quadro nel suo insie­ me, ma viene poi ricostituita quando le diverse parti vengono unificate in una più alta unità (principio dell'unificazione \_einheitliche Verknùpfung\ del molteplice) (ibid., p. 214 s.). Si tratta ora di applicare questo principio all'aspetto psichico dell'uni­ verso, benché tale applicazione resti in certa misura ipotetica fino alle ul­ teriori conferme che si devono attendere dallo sviluppo della psicofisica. Fechner afferma dunque che piacere e dolore devono essere visti come i correlati psichici della tendenza dei sistemi a conservare il loro stato; ne consegue che qualsiasi processo che mantiene o accresce la stabilità deve avere come correlato psichico il piacere e qualsiasi processo che da luogo ad una perdita o ad una diminuzione della stabilità deve avere come cor­ relato psichico il dolore. Posto ora che, per il principio ora indicato, i sistemi tendono a conservare la loro stabilità e che l'universo evolve nel senso di una sempre maggiore stabilità, si deve concludere che lo sviluppo cosmico produce una graduale crescita del piacere. In questo senso il « principio della tendenza alla stabilità » è in grado di offrire un contributo decisivo alla soluzione in senso positivo del problema del bilancio eudemonologico (ibid., p. 216). Ciò tuttavia non garantisce che il singolo sistema - l'individuo - spe­ rimenti nel corso della sua vita un sovrappiù di piacere: l'avvicinarsi o l'allontanarsi dalla stabilità deve avvenire con una certa velocità perché sia percepita come piacere o dolore (soglia quantitativa) e la stabilità o l'in­ stabilità devono essere sufficientemente avvertibili perché producano pia­ cere o dolore (soglia qualitativa}. I piaceri non percepiti possono così con­ durre ad un bilancio individuale negativo, benché concorrano al bilancio eudemonologico positivo del mondo (in quanto percepiti dalla coscienza divina) (ibid., p. 217 s.). Anche queste considerazioni tuttavia non risultano del tutto probanti senza il decisivo passo nella fede nell'esistenza di Dio e dell'aldilà (ibid., pp. 147-151). Perché questa fede possa affermarsi e mantenersi si tratta però di mostrare come l'esistenza di Dio possa accordarsi con il male e l'imperfe­ zione del mondo, il che rimanda al problema della teodicea. Tale problema è particolarmente sentito da Fechner, giacché, come in ogni panteismo (benché la posizione di Fechner non possa essere identificata senz'altro con il panteismo classico, specie per l'importanza attribuita alla personalità

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di Dio), tutti i limiti e i difetti delle creature - in una prospettiva cristiana anche il peccato - divengono parte integrante di Dio 49. Fechner, dopo aver rifiutato le varie spiegazioni tradizionali dell'origi­ ne del male 50, si sforza anzitutto di chiarire in che cosa consista il male stesso: come nell'anima dell'uomo esistono innumerevoli volizioni consce o inconsce che non derivano immediatamente dalla coscienza o che solo con fatica la coscienza riesce a dominare, così anche nel tutto - nella coscienza di Dio - ai livelli inferiori costituiti dalle coscienze finite, si presentano elementi che sono in contrasto con il disegno generale di Dio: precisamen­ te questa disarmonia delle parti nei confronti del tutto costituisce il male dell'universo (Fechner 1851, voi. I, pp. 398 e 409; pp. 50 e 67). Così il problema della teodicea si trasforma nel problema di spiegare e giustificare l'origine di tale disarmonia. Ci si deve domandare perché Dio nella sua onnipotenza non abbia eliminato il male fin dall'inizio, invece dì dar corso a questo processo comunque ricco di sofferenza. Fechner consi­ dera inevitabile porre a fondamento di questa « scelta » divina delle « con­ dizioni fondamentali e originarie » (Grund- una Urbedingungen] dell'esi­ stenza », la cui comprensione sfugge peraltro .allo sguardo della creatura (Fechner 1851, voi. I, p. 403; 1879, p. 155). Un tale punto di vista sembra mettere in discussione l'onnipotenza divina, ma, come voleva Leibniz, nel caso di un conflitto fra bontà e onnipotenza, è quest'ultima che deve cede­ re il passo. In altri termini, dovendo conciliare l'evidente progresso del mondo verso il meglio (che prova la bontà di Dio) con la presenza del male, si deve piuttosto limitare l'onnipotenza divina, affermando l'esisten­ za di una necessità logica « contro la quale l'onnipotenza di Dio nulla può », che supporre che Dio non faccia tutto il possibile per eliminare il male (Fechner 1879, p. 51). Il male quindi ha il suo fondamento in Dio, che è certamente in grado di vincerlo, anche se non immediatamente ma attraverso lo sviluppo e il perfezionamento del cosmo 51 .

49 Le linee fondamentali della teodicea di Fechner sono già presenti in Fechner 1851, 1861 e 1863. 50 Dio non può aver voluto il male (sarebbe, un Dio cattivo), non può averlo permesso (sarebbe un Dio pigro), né può averlo ammesso contro la sua volontà (sarebbe un Dio debole) (Fechner 1851, voi. I, p. 398). 51 Fechner tuttavia non rinuncia ad utilizzare, seppure in posizione subordinata, anche alcuni argomenti della teodicea tradizionale quale ad esempio quello che si basa sulla similitudine fra la creazione e un'opera d'arte: come la bellezza di quest'ultima può essere colta solo da una visione d'insieme in cui anche particolari che, considerati isola­ tamente, possono apparire insignificanti o addirittura brutti, assumono senso e signifi-

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La bontà di Dio garantisce dunque l'esito eudemonologicamente positivo del processo cosmico e questa fede ha benefiche conseguenze sulla condot­ ta dell'uomo: esso si comprende infatti inserito in un disegno di perfezio­ namento del cosmo - e in definitiva di Dio - dall'esito sicuro. Ciò lo motiva all'impegno e da alla sua vita un tono sostanzialmente ottimistico, rafforza­ to ulteriormente dalla fiducia nell'immortalità dell'anima che garantisce la possibilità di raggiungere anche individualmente la completa felicità 52 .

cato, così molti aspetti della realtà che appaiono all'uomo come cattivi - il suo sguardo, limitato, coglie solo il particolare - nella prospettiva generale di Dio possono invece risultare essenziali per un accrescimento della bontà del cosmo (ibid., p. 148 s.). 52 Al tema dell'immortalità dell'anima è dedicato l'intero terzo libro di Fechner 1851; non è qui possibile affrontare il problema del rapporto fra questa credenza e il parallelismo psico-fisico. Piuttosto è interessante ricordare che Fechner nega l'esistenza di una punizione eterna (tutte le anime alla fine saranno redente, Fechner 1851, voi. Ili, p. 398, Fechner 1879, p. 152 s.) e insiste sulla cooperazione fra l'uomo e Dio, che come in Hartmann viene - ma qui solo parzialmente - salvato e redento dall'uomo. Cfr. inoltre Fechner 1879, p. 155 s. dove Fechner riassume in dieci Glaubensatze la sua teodicea e la sua opposizione al pessimismo. Sulle difficoltà di questa posizione e sulla sua conciliabilità con il cristianesimo cfr. Billicsich 1936, voi. Ili, p. 54.s. Una posizione abbastanza simile è sostenuta anche da Paulsen, il quale pone l'origine - e al tempo stesso la giustificazione del male - all'interno di Dio stesso, come condizione del suo sviluppo. Dal punto di vista antropologico il male è poi giustificato come necessario stimolo al dispiegarsi delle possibilità umane (Paulsen 1889, voi. I, pp. 321-340).

17. IL PROBLEMA DEL PESSIMISMO EMPIRICO

1. LA CONCEZIONE DEL PIACERE E LA POSSIBILITÀ DEL BILANCIO EUDEMONOLOGICO.

Le critiche rivolte al pessimismo non si esauriscono nella discussione della sua possibilità e della sua dimensione metafisica, né così può essere giacché implicitamente in Schopenhauer (in quanto la metafisica è un'interpretazione dell'esperienza), esplicitamente in Hartmann, il pessimismo si presenta anche come una dottrina empirica, valida anche prescindendo dal quadro metafisico in cui essa si inserisce 1 . Ne consegue che la critica delle metafisiche in generale di per sé non risolve la questione del pessimismo empirico, così come la dimostrazione della validità di metafisiche alternati­ ve (ottimistiche), se pure esclude che il pessimismo possa configurarsi come una visione complessiva del mondo, non decide della sua validità come interprelazione del valore della realtà empirica 2 . In ogni caso fra coloro che hanno criticato le metafisiche di Schopenhauer ed Hartmann, quasi nessu­ no ha considerato inutile occuparsi del pessimismo empirico, che fra l'altro appariva come la componente più concreta, più facilmente accessibile e quindi più « pericolosa » di queste filosofie. Va detto che la critica del pes1 Bisogna comunque tener presente che nella sua trattazione del pessimismo em­ pirico Hartmann prende in considerazione questioni (il futuro dell'umanità, la condizio­ ne delle anime in un eventuale al di là) che più o meno esplicitamente rimandano a prospettive metafìsiche. 2 Per fare un esempio: la certezza della futura beatitudine eterna in Dio non esclu­ de che nella vita terrena l'uomo possa essere complessivamente infelice. Sull'autonomia del pessimismo empirico dalle sue premesse (e conseguenze) metafisiche Hartmann in­ siste particolarmente in ZGB, p. 241 s.

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simismo « empirico » nella versione di Schopenhauer è quasi generalmente presentata come un aspetto particolare e nel complesso non molto rilevante della critica del più importante pessimismo hartmanniano, il che conferma la preponderanza assunta in questo periodo dal pensiero di Hartmann. Al centro della discussione si trova naturalmente la tesi hartmanniana secondo cui è possibile giungere attraverso il confronto dei piaceri e dei dolori ad un bilancio eudemonologico oggettivo dell'umanità. Questo procedimento è a parere di molti autori invalidato dall'errata teoria psicologica del piacere sostenuta da Hartmann, che per pochi rap­ presenta un reale progresso nei confronti della teoria puramente negativa di Schopenhauer, generalmente considerata come insostenibile 3 . Rehmke ad esempio contesta la tesi che ogni piacere derivi dalla sod­ disfazione della volontà facendo rilevare che esistono casi in cui il soggetto è per così dire passivo, in cui prova piacere senza che la rappresentazione che ne sta all'origine abbia un legame immediato con un bisogno percepito dal soggetto: questo avviene ad esempio nella contemplazione della natura, nel piacere che sorge dalla considerazione del risultato del proprio lavoro - diverso dal piacere che si prova nel lavoro stesso -, nel ricordare deter­ minati episodi, nella speranza. Tale critica - che presuppone naturalmente il rifiuto della dottrina della volontà inconscia - sembra avvicinare Rehmke alla teoria del sentimento come componente autonoma della vita psichica, cui s'è accennato in precedenza, benché, come di consueto, Rehmke non esponga le sue positive convinzioni personali 4 . Secondo Dòring invece l'errore di Hartmann - ma ancora prima di Schopenhauer - consiste in un'errata interpretazione della natura del biso­ gno. Esso non va interpretato né come dolore (un tendere insoddisfatto del­ la volontà), né come piacere, ma come « possibilità neutrale » di piacere e dolore; il piacere o il dolore si producono solo quando sorge la coscienza della soddisfazione o della insoddisfazione del bisogno (Dòring 1888, p. 53 s.). 3 Gass 1876, p. 215; E. Fischer 1880, p. 47; Harnisch 1880, p. 15 (per quest'autore la teoria della negatività del piacere costituisce un'opposizione speculare alla teoria ot­ timistica della negatività del dolore); Duboc 1881, p. 115 s. (l'esperienza prova l'esisten­ za di piaceri che non sono preceduti da nessuna percezione di dolore: ad esempio un ragazzo che va in giardino e, scorgendo una mela su un albero, la coglie e se la mangia non prova alcun dolore). Per la posizione di Diihring cfr. sotto. 4 Rehmke 1876, pp. 44-54. Sulla stessa linea anche Hartsen 1874, p. 13 s. Contro Rehmke polemizza Plùmacher 1888, p. 197 s., che osserva come la critica non tenga conto del fatto che anche tutte le operazioni intellettuali - in ultima analisi per Rehmke la fonte dei piaceri « non voluti » - dipendono comunque sempre dall'attività del sog­ getto e quindi da tendenze della volontà.

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Una critica più speculativa alla concezione del piacere - che si tradu­ ce immediatamente nell'affermazione di un bilancio positivo - è invece svolta da Braig. Egli muove dalla tesi che nella riflessione filosofica - e nella realtà - il prius deve essere necessariamente il positivo, ovvero che l'affer­ mazione deve precedere la negazione (ad esempio l'io deve precedere il non-io). Applicando questa legge universale all'ambito del sentimento, se ne ricava che una sensazione dolorosa, in quanto negazione o violazione del sentimento vitale, non può essere qualcosa di originario, ma deve sem­ pre seguire un positivo, un sentimento di piacere, un'affermazione del sen­ timento vitale. Il dolore quindi non potrà mai essere superiore al piacere, un'ipotesi che è pensabile solo nella errata prospettiva che lo spirito sia qualcosa di originariamente vuoto, egualmente disponibile al piacere ed al dolore. Braig quindi da una parte sembra paradossalmente concordare del tutto con Hartmann nel porre un inscindibile legame fra volontà e piacere, dall'altra mette capo ad una teoria che, riprendendo la tradizione agostiniana-leibniziana, si presenta come specularmente contraria a quella di Schopenhauer: il dolore esiste solo come toglimento del piacere e quindi ha un significato unicamente negativo 5 . Altri autori, muovendosi su un piano empirico-psicologico, contesta­ no invece la tesi di Hartmann secondo cui il piacere non potrebbe essere mai percepito direttamente: essa dipende dalla errata teoria della cono­ scenza di Hartmann e finisce nonostante tutto per riproporre sotto altra forma la concezione schopenhaueriana della dipendenza del piacere da un dolore precedente 6 . Probabilmente tuttavia l'obiezione più ricorrente che viene rivolta al preteso bilancio eudemonologico di Hartmann è che esso è impossibile e irrealizzabile, per la natura soggettiva e mutevole di ciò su cui si dovrebbe basare, vale a dire i sentimenti di piacere e di dolore. Questa critica è articolata variamente nei diversi autori, ma la sostanza rimane sempre la 5 Braig 1883, pp. 259-261. Karl Braig (1853-1923), prima Repetent a Tùbingen, divenne professore a Freiburg. B., riprendendo con una certa libertà la filosofia neosco­ lastica cattolica (sul suo influsso su Heidegger cfr. Volpi 1980). Oltre all'articolo qui citato, egli ha dedicato un volume alla filosofia della religione di Hartmann, di cui si riparlerà fra poco e che espone le premesse teoriche alla critica della concezione del piacere qui riassunta (cfr. Braig 1882, pp. 270-276 e 292-296). Questa tesi concorda nella sostanza con la posizione di Horwicz 1880, p. 278, il quale afferma che la perce­ zione del dolore deve necessariamente essere preceduta da un più o meno conscio ap­ prezzamento del bene perduto o mancante. 6 Ebbinghaus 1873, p. 62; Haym 1873, p. 73; Kirchmann 1875, p. 74; E. Fischer 1880, p. 16; Sommer 1879, p. 83; Dippel 1884, p. 82;

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stessa. Così v'è chi sottolinea come la reazione emotiva di uno stesso indi­ viduo di fronte ad una determinata situazione può variare radicalmente nel tempo (ad esempio ciò che produce piacere in un giovane, può non produrlo in un vecchio), chi rileva come i sentimenti possano essere diversi in rapporto alle circostanze concomitanti (la perdita di una determinata som­ ma ha un effetto ben diverso se chi la subisce è ricco o povero), come piacere e dolore possano mutare in relazione al modo in cui ci si pone di fronte alle diverse situazioni (ad esempio una circostanza avversa produce meno dolore se viene affrontata con la speranza di poterla superare in fretta o nella prospettiva di raggiungere un bene superiore). Altri pongono piuttosto l'accento sulle differenze fra i sentimenti che dipendono dalla diversità fra gli individui, in relazione al loro carattere, alla loro educazio­ ne, all'ambiente sociale, al popolo o all'epoca storica cui appartengono. Insomma, sia che si voglia estendere a tutta l'umanità il modo di sentire del singolo - nel caso quello del filosofo pessimista -, sia che ci si basi sul­ l'esperienza - limitata ed accessibile solo in modo indiretto - del modo di sentire degli individui che si conoscono, qualsiasi generalizzazione risulta necessariamente affrettata e quindi inaffidabile 7 . Un altro Leitmotiv dei critici del pessimismo è costituito dal rifiuto della pretesa omogeneità qualitativa fra i vari tipi di piaceri e dolori, che, per poter entrare nel « bilancio » - termine di origine commerciale -, do­ vrebbero poter essere sommati e sottratti algebricamente. Anche a non voler tener conto delle difficoltà poste dalla differenza di intensità e di durata dei piaceri, confrontare fra loro sentimenti differenti, secondo la colorita espressione di Horwicz, equivale a paragonare « buoi, pecore, mele, pere, cavastivali ». La pretesa omogeneità fra i vari tipi di piacere sostenuta da Hartmann si regge in pratica sull'eliminazione o su un drasti­ co ridimensionamento della portata e del significato dei piaceri spirituali derivanti dall'arte, dalla scienza e, soprattutto, dalla moralità, piaceri che non differiscono solo quantitativamente, bensì anche qualitativamente da quelli materiali 8. 7 Ebbinghaus 1973, p. 63; Fichte 1873, p. 49; Knauer 1873, p. 32 s.; Kùhtmann 1874, p. 39 s.; Duboc 1874b, p. 360 s.; Huber 1876, p. 95; Trautz 1876, p. 21; Carrière 1891, p. 349; Hartsen 1874b, p. 40; Frederichs 1875, p. 64; Seydel 1879, p. 189; Windelband 1877, pp. 236-238; Borries 1880, p. 82; Dorner 1881, p. 42 s.; Schùz 1884, p. 34; Peters 1883, p. 282 s.; Dippel 1884, p. 57's.; Voigt 1889, p. 35 s.; Spir 1879, p. 25 s. 8 Horwicz 1880, p. 268; Weckesser 1885, pp. 15-17; Haym 1873, p. 263; Braig 1883, p. 85; Meyer 1872b, p. 21 s.; E. Pfleiderer 1875, p. 67; Sommer 1883, pp. 35-40 (Sommer sostiene nondimeno che i sentimenti - qualitativamente diversi - sono con-

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Anche ammessa la confrontabilità di principio fra i diversi piaceri, l'idea del bilancio risulta inoltre improponibile perché l'esperienza di un dolore non è cancellata dalla successiva esperienza di un piacere: Horwicz osserva che se si cammina per cinque miglia a nord e poi per cinque miglia a sud, ci si ritrova nello stesso punto, ma questo non cancella affatto la fatica. Windelband nota ironicamente che è impossibile pensare che il bicchiere di birra bevuto oggi compensi la sete provata in una determinata circostanza dieci anni prima 9. Così Paulsen ritiene estremamente difficile fare un bilancio eudemonologico anche di una sola giornata; la pretesa di giungere a un tale risultato per tutta l'umanità non può apparire che come una « sconsideratezza senza limiti » (Paulsen 1885, p. 362). Di fronte a queste critiche, che nel loro insieme indubbiamente met­ tono in luce le difficoltà pratiche inerenti alla realizzazione del bilancio eudemonologico, ma che nella maggior parte dei casi non dimostrano la sua impossibilità di principio, Hartmann riesce a costruire una linea difen­ siva ancora abbastanza solida. Anzitutto egli non ha difficoltà a riconoscere che il bilancio non va inteso come un procedimento rigorosamente matematico, ma piuttosto come una valutazione approssimativa, che si realizza operando concettual­ mente sul ricordo dei vari piaceri e dolori (ZGB, pp. 239-243 e 250) (Plii­ macher parla di una « compensazione concettuale », contrapposta alla « compensazione reale » che avrebbe luogo se si potessero confrontare di-

frontabili fra di loro e che precisamente sulla possibilità della scelta si fonda la morale che, sembra di capire, non sarebbe salvaguardata da un rapporto puramente matemati­ co-quantitativo; la tesi dell'omogeneità di tutti i sentimenti è una conferma del formali­ smo astratto di Hartmann). Vicino ad Hartmann è, come si vedrà in seguito, Dùhring, la cui concezione è però sviluppata autonomamente da Hartmann. È degno di nota che questa discussione venga condotta in termini abbastanza rudimentali, come se il tema non fosse già stato ampiamente discusso, con ricchi approfondimenti analitici nel Sette­ cento, in particolare dopo la pubblicazione del noto saggio di filosofia morale di Maupertuis (Maupertuis 1749), che fra l'altro aveva anticipato anche il tema del « bilancio » eudemonologico, risolto in senso pessimistico (su Maupertuis e sulla discussione illumi­ nistica intorno al piacere ed alla felicità cfr. i classici Mauzi 1960, Brunet 1929, Rosso 1968). Maupertuis è invero citato più volte da Hartmann e discusso abbastanza diffusa­ mente da Pliimacher 1888, pp. 85-89, ma queste indicazioni non sono mai raccolte e sviluppate dai critici. 9 Horwicz 1880, p. 266; Windelband 1877, p. 239 (il bilancio sarebbe possibile solo per una coscienza universale che avesse presente simultaneamente tutti i piaceri e i dolori). Gass 1876, p. 226, osserva invece che un bilancio oggettivo è reso impossibile dal vario combinarsi e dalla diversa successione temporale di piaceri e dolori: « un solo raggio di sole che appare al momento giusto è in grado di rendere d'oro molte nubi ».

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rattamente tra di loro piaceri e dolori [Plùmacher 1888, pp. 181-183 e 188 s.]). In secondo luogo riconosce ampiamente le difficoltà derivanti dalla presenza di componenti soggettive nella valutazione di piaceri e dolori e dalla diversità d'intensità e di durata dei sentimenti. Egli ritiene tuttavia che la riflessione filosofica (il cui carattere fondamentale è la capacità di elevarsi al di sopra della soggettività) e un'analisi ponderata (scientifica) dei vari casi consentano di giungere a risultati se non certi quanto meno altamente pro­ babili (ciò che Hartmann, come si è visto, chiama criticismo assiologico) 10. Hartmann, come sempre, si mostra disposto a fare ampie concessioni agli avversali, giacché, convinto come è della netta prevalenza del dolore sul piacere, ritiene che esse non possano influire in modo significativo sui risultati cui egli crede di essere giunto. Egli è invece irremovibile circa l'omogeneità qualitativa fra i vari piaceri e dolori (e in particolare fra quelli materiali e quelli spirituali). Per Hartmann se non si tenesse ferma tale omogeneità, non si potrebbe spiegare il processo di motivazione, ovvero non si potrebbe comprendere come l'uomo possa confrontare tra loro pia­ ceri e dolori apparentemente diversissimi - ad esempio un bicchiere di vino e l'ascolto della Nona Sinfonia di Beethoven - e quindi scegliere 11 . Questa linea difensiva di Hartmann appare del resto giustificata dal fatto che molti dei suoi interlocutori, al di là delle affermazioni di princi­ pio, da una parte sostengono l'origine patologica del risultato negativo cui perviene Hartmann, dall'altra si impegnano in lunghe discussioni circa i principi generali che lo informano e le concrete valutazioni espresse da Hartmann, riconoscendo implicitamente sia in un caso che nell'altro la possibilità del bilancio stesso 12 . Un solo autore sviluppa una linea di pensiero che appare in grado di tagliare la questione alla radice: Simmel 13 . Egli ribadisce anzitutto che 10 ZGB, pp. 243-247 (qui fra l'altro Hartmann sostiene la non scientificità del pessimismo schopenhaueriano); SP V, pp. 37-43; cfr. anche Pliimacher 1888, p. 183. 11 ZGB, p. 239 s. (Hartmann insiste sul fatto che il bilancio è un « Factum »), e 277; SP V, p. 38; cfr. anche Pliimacher 1888, p. 186 s. (dove si insiste sulla continuità storica di questa tesi con le impostazioni di Maupertuis e Kant). 12 La contraddizione fra l'asserita irrealizzabilità del bilancio e il rifiuto del pessi­ mismo come atteggiamento patologico è sottolineata da Pliimacher 1888, p. 180. Fra i pochi autori che al di là delle critiche formali riconoscono apertamente la legittimità del bilancio, quantomeno come « beilàufige Schàtzung », va ricordato Weckesser 1885, p. 18. 13 Questo saggio (Simmel 1887) appartiene alla primissima fase della riflessione di Georg Simmel (1859-1918), che tuttavia anche in seguito ha continuato ad interessarsi di Schopenhauer (cfr. Simmel 1907); sull'influenza di Schopenhauer sul « kantismo » di Simmel cfr. Marini 1986.

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l'esperienza non offre la possibilità di un confronto diretto fra piacere e dolore, in quanto essi non si presentano mai insieme nella vita psichica, ma solo in successione. Il confronto dunque può essere pensato solo come un'operazione intellettuale, con tutte le difficoltà che ciò comporta. Simmel tuttavia non si ferma qui: egli immagina che il bilancio sia compiuto da un Dio onnisciente, dinnanzi al quale stiano tutti i piaceri e i dolori del­ l'umanità. Egli potrebbe accertare senza difficoltà quanti dolori e quanti piaceri l'umanità nel suo complesso ha sofferto, e quanto dolore l'uomo medio patisce per « acquistare » una certa gioia, ovvero quale sia il « prez­ zo » in termini di dolore che ciascuno paga mediamente per ottenere deter­ minate gioie. Una volta stabilito tale prezzo, egli non disporrebbe però di alcun criterio per decidere se in assoluto una determinata gioia sia stata pagata troppo o troppo poco e quindi non potrebbe decidere se il bilancio sia negativo o positivo (Simmel 1887, pp. 239-242). La mancanza di un tale parametro non impedisce peraltro di spiegare come l'uomo, nel suo agire, possa operare delle scelte, compiendo qualcosa che apparentemente sembra simile al bilancio piacere/dolore voluto dai pessimisti: in realtà quando egli decide di affrontare o di non affrontare una determinata sofferenza per raggiungere un piacere, lo fa non parago­ nando fra loro piacere e dolore, ma confrontando il dolore che nell'occa­ sione pensa di dover soffrire con quello che egli considera il prezzo medio, in termini di sofferenza, del bene cui aspira (ibid., p. 243 s.). Si potrebbe sostenere tuttavia che comunque il prezzo pagato sia trop­ po alto in relazione ad un ipotetico prezzo ideale. Ma, nota Simmel, non è possibile alcun confronto con l'ideale, giacché l'ideale eudemonologico - la possibilità di raggiungere senza dolore ogni piacere - non sarebbe soddi­ sfatto neppure da un rapporto dolore/piacere più favorevole. Si potrebbe anzi affermare che anche l'esistenza del più piccolo dolore sarebbe suffi­ ciente per concludere ad un bilancio negativo. Una tale prospettiva però non avrebbe nulla a che vedere con il pessimismo empirico, ma sarebbe questione di sentimento personale o di fede metafisica (ibid., pp. 244-247). Hartmann, nella sua lunga discussione del saggio di Simmel, pur svi­ luppando alcune interessanti critiche di dettaglio 14 , è alquanto sbrigativo

14 Hartmann osserva che nell'ottica di Simmel un mondo demoniaco in cui le gioie dovrebbero essere pagate tutte con infinite sofferenze dovrebbe essere considerato dello stesso valore eudemonologico di un mondo in cui il massimo di beatitudine potrebbe essere raggiunto con un minimo di dolore (ZGB, p. 273). Hartmann nota poi che anche per individuare il valore medio, in termini di dolore, di un determinato bene si deve

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circa il nocciolo della critica, che consiste nella negazione dell'esistenza di un'unità di misura comune a piaceri e dolori. Hartmann infatti, pur rico­ noscendo che il confronto fra piaceri e dolori presenta difficoltà maggiori di quello fra piacere e piacere o dolore e dolore, riafferma la possibilità di un « confronto ideale » in cui piacere e dolore siano visti come grandezze omogenee diverse soltanto per il segno: paragonare fra loro un piacere e un dolore non presenterebbe maggiori difficoltà che confrontare tra loro un campanile con la sua immagine riflessa in uno specchio d'acqua, laddove il confronto fra due piaceri è paragonabile a quello fra due campanili reali (ZGB,.pp. 263-266).

2. LA TEORIA DELLE ILLUSIONI E LEGGI PSICOLOGICHE GENERALI DEL BILANCIO EUDEMONOLOGICO.

Si ricorderà che Hartmann, allo scopo di limitare il peso della sogget­ tività nella realizzazione del bilancio, sviluppa la sua teoria delle illusioni, che consiste nel mostrare come quasi tutti i piaceri verso cui si indirizza l'agire dell'uomo, con il (necessario) sviluppo di un livello di coscienza più elevato, si riveleranno privi di quel contenuto eudemonologico che nel presente la maggioranza degli uomini attribuisce loro. Nella discussione di questa teoria sorprende la quasi generale incom­ prensione delle posizioni di Hartmann. Pressoché tutti gli autori interpre­ tano Hartmann come se egli negasse la realtà dei piaceri derivanti dalle illusioni - cosa che invece, come si è visto, egli riconosce esplicitamente 15 . presupporre la possibilità di determinare i vari « saldi » eudemonologici che si produco­ no nelle volizioni (Hartmann non sembra notare che, anche in questo caso, nella pro­ spettiva di Simmel il confronto avviene sempre e solo fra piacere e piacere e fra dolore e dolore). 15 Hartsen 1874b, p. 41; Frederichs 1875, p. 64; Gass 1876, p. 222; Fechner 1879, p. 140; E. Fischer 1880, p. 27; Carrière 1891, p. 350; Dippel 1884, p. 80; Schùz 1884, p. 38; Ribbeck 1885, p. 285; Weckesser 1885, p. 60. Cfr. le precisazioni di Hartmann, NSH, p. Ili e di Plùmacher 1888, p. 234. Una parziale giustificazione di questo frain­ tendimento può essere trovata nel fatto che alcuni di questi autori non concordano con Hartmann nel ritenere che l'aumento del livello di coscienza - e quindi delrintelligenza - debba necessariamente ridurre i piaceri: cfr. Haym 1873, p. 246 s. (il crescere dell'in­ telligenza aiuta a calcolare meglio piaceri e dolori e fa scoprire nuove vie per giungere alla felicità); Carrière 1891, p. 359 (il raffinamento intellettuale rende l'uomo più sensi­ bile al dolore, ma anche capace di piaceri più raffinati); Hartsen 1874b, p. 42 (lo svilup­ po dell'intelligenza fa scoprire mezzi per lenire i dolori - ad esempio il cloroformio); Weygoldt 1875, pp. 100-102 (lo sviluppo dell'intelligenza rende più sensibili ai dolori,

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Lo stesso atteggiamento si riscontra in generale nella critica della posizione assunta da Hartmann nei confronti della speranza - l'illusione per eccellen­ za (Weygoldt 1875, p. 112; Weckesser 1885, p. 61). Un po' più sofisticata è la critica di Volkelt, che sviluppa in parte le tesi avanzate da Vischer. Egli, riferendosi particolarmente all'ambito del­ l'estetica, riconosce che alle illusioni non corrisponde una realtà empirica (ad esempio la natura non è né felice in primavera né triste in autunno, a differenza di quanto pretendono le rappresentazioni estetiche che l'uomo si fa di essa). Ciò prova tuttavia che esse possiedono una realtà autonoma e sono manifestazione della libertà e della creatività spirituale dell'uomo. Il distruggere le illusioni significa quindi non avvicinare maggiormente l'uo­ mo alla verità, ma privarlo di una delle sue componenti essenziali (Volkelt 1876, pp. 177-179). Quanto poi alle illusioni che si manifestano nell'am­ bito della pratica - le quali meglio che illusioni si potrebbero chiamare ideali -, esse secondo Volkelt hanno il carattere comune di far tendere l'uomo all'infinito. Che questa tendenza rimanga quasi sempre delusa giac­ ché l'ambito dell'agire dell'uomo è limitato, è riconosciuto senz'altro da Volkelt; non di meno - a prescindere da una prospettiva più generale che consideri il destino dell'umanità nel suo complesso, tema che qui Volkelt non sviluppa - questo riferirsi all'infinito costituisce uno stimolo indispen­ sabile all'azione, aiuta l'uomo a vivere nel presente e nel concreto 16. Hartmann replica a Volkelt ed a Vischer rifiutando di ricondurre ad un comune denominatore le illusioni legate all'ambito della morale e le illusioni estetiche (il cui contenuto eudemonologico positivo, come si sa, egli riconosce). Mentre queste ultime, che propriamente non sono illu­ sioni ma ricadono nella categoria della « apparenza estetica (àsthetischer ma fornisce anche i mezzi per sopportarli meglio e per procurarsi piaceri più elevati; quanto poi all'aumento delle lotte sociali che deriverebbe dallo svilupparsi nelle classi inferiori di un'accresciuta coscienza della loro situazione di disagio, Weygoldt sostiene che una tale situazione non è conseguenza dello sviluppo della coscienza in quanto tale, ma della diffusione dell'edonismo che cerca nei beni materiali la felicità). 16 Volkelt 1876, pp. 182-185. Quanto a Friedrich Theodor Vischer (1807-1887), il noto studioso di estetica, di cui s'è già parlato prima come maestro di Bahnsen, poi come corrispondente di Strauss e infine come editore dell'opera di Golther, il suo contributo si limita a poche pagine di Vischer 1875 (pp. 308-310 e passim), dove contro Hartmann viene difeso il valore dell'illusione, in particolare di quella estetica (« il bene dei beni, un pazzo chi la distrugge! » [p. 295]), contrapponendo alla fredda considerazione filosofica della realtà, che appunto distrugge le illusioni, l'atteggiamento poetico che delle illusio­ ni, dell'apparenza (Schein) vive. Anche Vischer, come è rilevato da Hartmann, NSH, p. Ili, cade nell'errore di attribuire ad Hartmann il rifiuto dell'esistenza di piaceri che si basano sulle illusioni.

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Schemi », sono tali proprio nella misura in cui si ha coscienza che ad esse non corrisponde alcuna realtà - per questo motivo non possono mai rive­ larsi come inganni e quindi non possono deludere -, le illusioni vere e proprie sono rappresentazioni della realtà considerate erroneamente vere. Quando l'intelletto ne riconosce la falsità, il loro precedente valore eudemonologico positivo è immediatamente soverchiato dal dolore provocato dalla disillusione. Se non si vuole impedire con la forza che l'inganno in esse contenuto sia svelato, il che può avvenire solo opponendosi allo svi­ luppo della coscienza e, in ultima analisi, della filosofia, è quindi assurdo ed eudemonologicamente non conveniente porsi come obiettivo quello di conservare tali illusioni. È d'altra parte impensabile che esse, una volta riconosciute come tali, possano continuare a valere, giacché, a differenza di quanto avviene per i vari istinti, si reggono solo sull'intelletto. Quanto poi alla loro funzione nell'ambito della morale, Hartmann ritiene che possegga maggior valore etico un agire che tien conto della realtà delle cose piuttosto che un agire guidato dall'illusoria speranza ideale in un'ef­ ficacia che esso non può possedere (NSH, pp. 110-116). La legge psicologica secondo cui il fenomeno della saturazione del sistema nervoso influisce negativamente sul bilancio eudemonologico, rice­ ve una considerazione in generale più positiva: a parte alcuni autori che sostengono che il sistema nervoso diviene egualmente insensibile ai piaceri ed ai dolori (Carrière 1891, p. 348; Dippel 1884, p. 81; Duboc 1874b, p. 356), ed altri che osservano che la stanchezza del sistema nervoso non si produce nel caso di piaceri moderati (Weygoldt 1875, p. 98; E. Fischer 1880, p. 16; Sommer 1879, p. 80), l'atteggiamento prevalente è piuttosto quello di indicare l'esistenza di altre leggi che controbilanciano in qualche misura il deficit eudemonologico derivante dalla fisiologia del sistema ner1 voso: Hartsen ad esempio sottolinea l'esistenza di una naturale tendenza dell'uomo ad alternare i piaceri (Hartsen 1874b, p. 40), mentre Fechner osserva come l'uomo per natura fugga i dolori e ricerchi i piaceri (Fechner 1879, p. 140). Anche riguardo alla tesi hartmanniana secondo la quale il piacere derivante dalla soddisfazione di una volizione dura normalmente meno del dolore che precede la soddisfazione stessa, ci si sforza di mostrare che essa, più che respinta, va integrata prendendo in considerazione altri processi psicologici che accompagnano la volizione. Ad esempio Fischer e Sommer osservano che se è vero che i piaceri materiali si spengono rapidamente, non altrettanto avviene per quelli spirituali, che possono durare molto a lungo (E. Fischer 1880, p. 16; Sommer 1879, p. 80). Haym e Duboc notano

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che l'uomo è in grado entro certi limiti di prolungare o rinnovare i piaceri mediante la memoria (Haym 1873, p. 264; Duboc 1874b, p. 356). Schwarz, Duboc, Carrière, Ribbeck e lo stesso Haym criticano Hartmann per non aver considerato il piacere che si prova nell'attesa della soddisfazione (spe­ ranza), nella lotta che si impegna per raggiungere i fini che ci si propone, addirittura già nel proporsi degli scopi (il fenomeno della noia - che dipen­ de dal non aver fini da raggiungere - è una prova indiretta della positività eudemonologica dell'agire finalizzato) 17 . Le osservazioni che Paulsen svolge in modo brillante circa il rapporto volizione/piacere/noia e che mettono capo ad una critica complessiva della visione della vita del pessimismo, possono essere anch'esse riferite a questa tesi di Hartmann. Secondo Paulsen - che peraltro qui si riferisce principal­ mente a Schopenhauer - è empiricamente falso che alla soddisfazione di una volizione faccia seguito la noia e quindi l'insoddisfazione. Questo errore dipende dal fatto che i pessimisti interpretano la vita come qualcosa che ha il suo fine fuori di sé - fine che naturalmente non viene mai raggiunto; viceversa « la vita nella sua totalità è fine a se stessa », nel senso che l'uomo realizza pienamente se stesso nel vivere, vale a dire, nei termini dell'etica di Paulsen, nello sviluppare il più possibile le sue disposizioni. La vita insomma non deve essere concepita come un viaggio d'affari, in cui tutte le fatiche e i disagi hanno senso solo se l'affare viene portato a buon fine, ma come un viaggio di piacere, nel corso del quale non ci si ferma a lungo in nessun luogo, ma si procede sempre oltre, verso nuove mete; alla fine si torna stanchi, ma si gode del ricordo delle sue varie fasi, fossero anche state faticose o peri­ colose, e si fanno progetti per nuovi viaggi. Certo non sempre si vuole subito ripartire, ma chi vorrebbe assistere due volte di seguito alla stessa rappresentazione teatrale, anche se bellissima? (Paulsen 1885, p. 364 s.).

3. IL VALORE EUDEMONOLOGICO DEI SINGOLI BENI.

In tutta la letteratura concernente il pessimismo, largo spazio è occu­ pato da spesso meticolose confutazioni del concreto bilancio eudemonologico che Hartmann sviluppa nell'ambito della critica al primo stadio dell'il­ lusione, secondo cui la felicità sarebbe raggiungibile durante l'esistenza

17 Schwarz 1875, p. 89; Duboc 1874b, p. 356; Carrière 1891, p. 348; Ribbeck 1885, p. 285; Haym 1873, p. 265.

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terrena. Si tratta di mostrare nei particolari gli errori di valutazione di Hartmann, la sua sottovalutazione di questo o quel piacere, il suo sorvolare su questo o quell'aspetto positivo della « condizione umana », la sua in­ comprensione di questo o quel fenomeno psicologico. La discussione ri­ propone integralmente il metodo di Hartmann: alle osservazioni empiriche particolari della Filosofia dell'inconscio vengono contrapposte altre osser­ vazioni empiriche di segno per lo più opposto, egualmente soggettive, par­ ticolari, legate a specifiche situazioni. Si assiste così ad un'enorme dilata­ zione di quella « fenomenologia » della felicità e della infelicità umana già proposta da Hartmann. Che una volta scelta questa via, tale metodo sia l'unico praticabile, è evidente. Che esso possa condurre a solidi ed incontrovertibili risultati è invece dubbio, quanto meno non sembra che ad essi si sia pervenuti in questa occasione nonostante l'impegno profuso. Nel leggere questi testi è facile infatti cogliere la determinante presenza della soggettività degli auto­ ri, che rende quasi ogni valutazione problematica, opinabile e comunque giustificata solo in riferimento a determinate situazioni. Ad esempio, come decidere se si debba dar ragione Hartmann quando sostiene che nel lavoro prevale la sofferenza derivante dalla fatica o a Weygoldt quando afferma che invece nel lavoro prevale il piacere derivante dall'esercizio delle pro­ prie forze? Oppure come decidere se abbia ragione Hartmann nel ritenere che nella cura dei figli prevalga il dolore che deriva dalle preoccupazioni per la loro educazione o se abbia ragione Haym nell'affermare che invece prevale la gioia che deriva dalla coscienza di compiere il proprio dovere nei loro confronti? Indubbiamente in alcuni casi certe valutazioni sembrano per lo meno più verosimili di altre, ma nel complesso è impossibile sottrarsi all'impres­ sione d'una sostanziale sterilità della discussione. Per queste ragioni nelle pagine che seguono ci si limita ad indicare solo gli aspetti più caratteristici di queste critiche, considerando in particolare quegli ambiti in cui esse cercano di sviluppare dei criteri più generali per valutare il contenuto eu­ demonologico dell'esperienza. Va anche segnalato che il primo stadio dell'illusione è discusso molto più ampiamente degli altri due stadi. Ciò avviene perché il secondo stadio - nel quale si dimostra la negatività del bilancio eudemonologico anche di un eventuale aldilà - è semplicemente considerato come un aspetto parti­ colare della distorta concezione che Hartmann mostra di possedere della religione; il terzo stadio - nel quale si dimostra che il progresso non muterà sostanzialmente il bilancio eudemonologico del mondo - perché ancor

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meno fondato empiricamente e, oltre a ciò, irrilevante qualora si riesca a mostrare che già nel presente il bilancio eudemonologico sia positivo. Alcuni autori ritengono che il problema del bilancio eudemonologico nel presente (il primo stadio dell'illusione) possa essere risolto facendo riferimento semplicemente all'atteggiamento che la maggioranza degli uo­ mini assume nei confronti della vita: se si prescinde da pochi ed eccezionali casi 18, si constata che gli uomini, posti di fronte all'alternativa della morte - il non essere che secondo Hartmann è eudemonologicamente preferibile al dolore dell'esistenza -, scelgono di continuare a vivere, né pare che, nonostante il proselitismo dei pessimisti, tale modo di vedere cessi di essere quello predominante 19. Lorm, da parte sua, contesta che sia possibile, su basi empiriche, giungere ad affermare che tutti gli uomini siano infelici: ma l'esistenza anche di un solo uomo felice in mezzo alle sciagure vanifiche­ rebbe tutte le argomentazioni pessimistiche, giacché in questocaso l'ecce­ zione non confermerebbe la regola, ma la negherebbe 20. Se Hartmann ritiene di poter mettere in questione la positività del bilancio, ciò dipende anzitutto dalla sua errata convinzione dell'esistenza di un punto-zero della sensibilità, in cui l'uomo non percepisce né dolore né piacere. A questa posizione Weygoldt contrappone una concezione della condizione psichica normale secondo cui l'uomo, pur non provando specifici piaceri o dolori, avverte un generico sentimento di soddisfazione e benessere, rappresentabile come una superficie dalla quale si distaccano piaceri e dolori, che in quanto sentimenti distintamente percepiti costitui­ scono più l'eccezione che la regola. Weygoldt ipotizza che alla base di questo sentimento si trovino una serie di percezioni relative al buon funzio18 Weygoldt 1875, p. 89 s. sostiene che è errato riferirsi al modo di sentire dei geni, nella maggior parte dei casi di carattere melanconico. 19 J. Fischer 1872, p. 109 (ma Du Prel 1872, p. 113 s., nega valore a questa osser­ vazione rifacendosi alla tematica delle illusioni: non si tratta di vedere se gli uomini credono di essere felici, ma di vedere se razionalmente questo loro modo di vedere è giustificato); Carrière 1891, p. 348 s. (sostiene che questa convinzione generale e imme­ diata della positività dell'esistenza è qualcosa d'inconscio e, di conseguenza, nell'ottica di Hartmann, non può essere qualcosa di errato - Carrière sembra qui non tener conto del fatto che per Hartmann l'inconscio instilla questa errata convinzione nell'uomo perché ha bisogno degli sforzi dell'umanità per liberarsi dal dolore); Ebbinghaus 1873, p. 64; Weygoldt 1875, p. 90; Voigt 1889, p. 13; Hartsen 1874b, p. 42; Lasson in Aa.Vv. 1879, p. 58. 20 Lorm 1894, pp. 4-8. Di qui, secondo Lorm, l'inevitabile ricorso, da parte dei pessimisti, ad una fondazione metafisica, che peraltro, come si è visto, Lorm giudica improponibile (Lorm tuttavia ritiene probabile una prevalenza del dolore sul piacere). La stessa argomentazione si ritrova in Duboc 1881, p. 113.

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namento del corpo - ad esempio la regolare circolazione del sangue -, ma il fatto che in qualche misura un tale sentimento debba essere considerato inconscio non » fa difficoltà nell'ambito della teoria di Hartmann. La condizipne normale dell'uomo quindi deve essere pensata come qualcosa di si­ mile alla tranquillità d'animo degli stoici, con l'avvertenza che essa per Weygoldt non costituisce il fine ultimo della vita morale dell'uomo 21 . Una tesi analoga - seppure maggiormente connotata in termini specu­ lativi - si ritrova nella confutazione del pessimismo sviluppata nel suo « si­ stema » dell'alierà noto poeta Robert Hamerling 22. Egli ritiene che l'espli­ cazione della volontà dei singoli individui è sempre percepita come piace­ re, cui si somma il piacere derivante dall'amore (per sé e per gli altri) che è anch'esso forma caratteristica del volere 23 . Inaccettabile a molti autori appare poi la tesi che questa condizione di neutralità eudemonologica non sia modificata neppure dalla presenza di quelli che secondo Hartmann sono erroneamente considerati dalla mag­ gior parte degli uomini «i più alti beni della vita», vale a dire salute, giovinezza, libertà ed agiatezza economica. La possibilità di percepire il loro valore è secondo Duboc, Christ e Carrière implicita nel fatto che essi sono riconosciuti utili per il raggiungimento di altri beni 24 . Altri autori osservano invece che questa tesi è in contraddizione con la teoria del 21 Weygoldt 1875, pp. 93-97. Su posizioni molto simili si schiera anche Dippel 1884, p. 55 s. 22 Hamerling (1830-1889), è considerato un poeta « pessimista », benché egli ab­ bia in più occasioni sostenuto l'indipendenza della sua ispirazione dal pensiero di Schopenhauer (cfr. Krauss 1931, pp. 136-138). Fu in rapporto epistolare con Hdrtmann (Hamerling 1901, voi. Ili, p. 181 s.), che dedicò al suo « sistema », apparso postumo, un breve saggio (Hartmann 1891d), inserendolo poi fra gli interpreti pluralistici della filo­ sofia di Schopenhauer in GM, voi. II, pp. 533-535. Sulla sua filosofìa cfr. anche Volkelt 1874, V. Knauer 1892 e Jurries 1915. 23 Hamerling 1891, voi. II, p. 248. Naturalmente - contro Schopenhauer - per essere felici non si tratta allora di negare la volontà ma di affermarla energicamente. Questa prospettiva è comunque sostenuta da una visione del mondo religiosa, secondo cui la volontà centrale - che si moltiplica nei singoli individui - può essere identificata con Dio. 24 Duboc 1874b, p. 358 (il riflesso eudemonologico di questi beni dipende dalla speranza in ulteriori piaceri che il loro possesso fa sorgere); Christ 1882, p. 149 (il valore di tali beni viene colto facilmente perché essi consentono di compiere meglio i doveri morali); Carrière 1891, p. 350 s. (la possibilità di raggiungere mediante essi altri beni li fa percepire come beni essi stessi); E. Fischer 1880, p. 19. Queste obiezioni presuppon­ gono tuttavia ciò che Hartmann nega, cioè che mediante questi beni sia realmente pos­ sibile raggiungere degli autentici ed autonomi piaceri (cfr. più oltre anche le obiezioni rivolte alla concezione del lavoro).

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piacere di Hartmann: posto infatti che il piacere viene percepito quando si confronta l'esito favorevole di una volizione con un altro esito non favorevole, non c'è ragione di pensare che l'uomo, potendo constatare in un'infinità di casi la perdita o l'assenza di giovinezza, salute, libertà e ricchezza, non possa provare piacere nel possesso di quei beni 25 . Ve poi da notare che in moltissimi casi almeno la libertà e la ricchezza non sono dati immediatamente all'uomo, ma devono essere conquistate con fatica e dolore 26. Quest'ultima osservazione conduce alle numerose obiezioni rivolte alla concezione hartmanniana del lavoro, cui non viene riconosciuto altro valore positivo che quello di fornire i necessari mezzi di sostentamento, spesso a prezzo di grandi sofferenze. A parte le rivalutazioni del lavoro sulla base dei risultati che esso produce per il benessere comune e lo svi­ luppo dell'umanità 27 , l'argomento maggiormente utilizzato si basa sulla tesi dell'esistenza di un piacere intrinseco al lavoro stesso, dipendente dalla percezione dell'esercizio delle proprie forze. Tale argomento in alcuni casi si limita a richiamare la realtà psicologica di tale sentimento 28 , in altri casi si appoggia su considerazioni filosofiche di maggior respiro. Ad esempio Volkelt sviluppa questa obiezione nel quadro di una prospettiva hegelianofeuerbachiana che vede nel lavoro lo strumento per mezzo del quale l'uo­ mo, esercitando le proprie forze, supera il negativo e si rende signore della 25 Meyer 1872b, p. 17 s.; Volkelt 1873, p. 292 s.; Dippel 1884, p 62; Weckesser 1885, p. 64 (questo autore nota fra l'altro che il sostenere l'esistenza di realtà eudemonologicamente indifferenti sarebbe in contraddizione con la pretesa di fare del piacere e del dolore i parametri di valore di tutto l'essere). 26 Haym 1873, p. 266; Duboc 1874b, p. 358, sottolinea come quanto meno la libertà debba essere da tutti conquistata attraverso il processo di emancipazione dai genitori; Gass 1876, p. 223, osserva invece che la tesi del punto-zero della sensibilità può essere affermata solo rappresentando la vita come qualcosa di statico, laddove essa è invece un continuo tendere che da luogo necessariamente a soddisfazioni (piaceri) o insoddisfazioni (dolori). Harnisch 1880, p. 165, nota che l'indifferenza eudemonologica dei beni indicati da Hartmann è contraddetta dal fatto che le diverse persone danno giudizi differenti di ciò che costituisce la base necessaria per una vita non infelice. Taubert 1873, p. 30 s., ha cercato di rispondere a queste obiezioni, affermando che il con­ fronto con la infelicità altrui può sì produrre nell'uomo felicità per il possesso di giovi­ nezza, salute, libertà e ricchezza, ma che tale felicità non può esser altro che un limitata Contrastglùck; Taubert sembra qui dimenticare che secondo Hartmann ogni piacere è di tale natura. 27 Carrière 1891, p. 351 (egli concorda tuttavia con Hartmann nel considerare il lavoro in sé un male); Trautz 1876, p. 25. 28 Weygoldt 1875, p. 102 s. (anche Hartmann concorda con questa tesi quanto meno in riferimento al lavoro intellettuale); Trautz 1876, p. 24 s.

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natura: di qui il sentimento di gioia che lo accompagna 29. Sulla stessa linea si muovono Duboc - il lavoro non può essere un male perché è una natu­ rale Lebensàusserung (Duboc 1874b, p. 359) - e, fra gli autori di formazio­ ne religiosa, Gass e E. Fischer - il lavoro produce nell'uomo un'insopprimibile felicità che deriva dal riuscire ed è il mezzo attraverso cui l'uomo scopre il proprio valore (Gass 1876, p. 236; Fischer 1880, p. 19). Altri autori ritengono invece che alla base del giudizio negativo di Hartmann sul lavoro stia una soprawalutazione della fatica derivante dai lavori più umili, fatica che invece è solo parzialmente percepita da chi ad essa è abituato; le valutazioni espresse in questo ambito dal pessimismo rischiano così di es­ sere particolarmente perniciose da un punto di vista sociale, discreditando il lavoro e portando così alla rovina la società e l'intera umanità 30. Il tipo di obiezioni rivolte alla valutazione eudemonologica del lavoro si ripropone nella discussione che si svolge riguardo ai singoli beni. Ap­ prendiamo così che, secondo Weygoldt, Hartmann esagera nel considerare la quantità di dolore derivanti dalla fame (Weygoldt 1875, p. 104 s.), men­ tre E. Fischer sembra disposto a riconoscere la gravita e l'estensione delle sofferenze prodotte da un'insufficiente alimentazione (E. Fischer 1880, p. 20 s.); Dippel da parte sua giudica che i più possono soddisfare adegua­ tamente i loro bisogni alimentari, ed afferma che non è affatto dimostrato che cibi semplici e genuini diano meno piacere di elaborati manicaretti; l'insistere sulle presunte sofferenze derivanti dalla mancanza di cibo signi­ fica semplicemente fare il giucco dei « sozialistische Agitatoren » (Dippel 1884, p. 66). Questi temi sono toccati di nuovo nelle critiche del terzo stadio dell'il­ lusione. Secondo Haym, Weygoldt, Dippel e Wirth le tesi di Hartmann, già insostenibili per il presente, risultano viziate, quando riferite al futuro, da una sottovalutazione dei vantaggi eudemonologici derivanti dal progres­ so tecnico, dalla maggiore disponibilità di beni materiali, che, quanto 29 Volkelt 1873, pp. 287-289. Come avviene in riferimento al tema dell'amore, Volkelt affianca a questa positiva trattazione filosofica del lavoro una considerazione assai meno positiva della situazione del lavoro nella società dell'epoca, in cui dominano la divisione del lavoro, lo sfruttamento, il mancato rispetto della dignità e la miseria dei lavoratori. L'originaria positività del lavoro potrà essere quindi ripristinata solo in un futuro stato socialista. 30 Weygoldt 1875, p. 102; Dippel 1884, p. 64. Taubert 1873, p. 33 s., riconosce che in linea di principio possa esistere un certo piacere derivante dall'esercizio delle proprie forze, ma, spostandosi su un piano storico-sociale, ritiene che tale piacere sia largamente inferiore al dolore derivante dalle negative condizioni in cui si esplica il lavoro.

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meno, dovrebbero rendere possibile ad un numero più elevato di persone il raggiungimento del punto-zero della sensibilità 31 . Quasi tutti hanno qualcosa da dire riguardo alla presentazione del­ l'amore e dei temi ad esso collegati. In generale si rimprovera ad Hartmann d'aver considerato solo l'aspetto fisico dell'amore e in particolare, trattan­ do del matrimonio e della famiglia, d'aver ignorato il valore morale e le conseguenti soddisfazioni che da esso derivano 32 . C'è tuttavia anche chi considera le posizioni di Hartmann in un'ottica storica e così ritiene l'im­ magine del rapporto uomo-donna da lui offerta come una descrizione fede­ le della degenerazione conseguente all'abbandono dei principi morali o derivante dalle contraddizioni insite nella struttura sociale in cui tale rap­ porto si inserisce 33 . Non manca anche chi, come Dippel, vede nei due matrimoni di Hartmann la più clamorosa smentita di questa parte della sua filosofia 34 . Alla base del presunto bilancio eudemonologico negativo derivante dal sentimento della compassione sta secondo Meyer un'errata spiegazione della natura di tale sentimento, erroneamente ricondotto, sulle orme di Schopenhauer, all'egoismo. È assurdo sostenere che il piacere della com­ passione derivi solo dal confronto del proprio benessere con il dolore al-

31 Haym 1873, p. 283; Weygoldt 1875, pp. 129 e 132; Dippel 1884, p. 94; Ch. Wirth 1893, p. 30; cfr. anche Hartsen 1872, p. 179, il quale sottolinea l'immediato valore eudemonologico di alcune scoperte scientifiche, ad esempio del cloroformio, che senz'altro riduce la quantità di dolore del mondo. Taubert 1873, pp. 102-114, difenden­ do Hartmann, insiste sul fatto che tali vantaggi sono vanificati dall'innalzamento della sensibilità che rende l'uomo più sensibile ai dolori ed accresce i suoi bisogni; non per caso la « questione sociale » si è presentata in un'epoca in cui la condizione delle classi più povere, in rapporto al passato, può definirsi come « aurea ». 32 Meyer 1872b, p. 14; Haym 1873, p. 269; Weygoldt 1875, p. 107; E. Fischer 1880, p. 21; Dippel 1884, p. 69 s.; Weckesser 1885, p. 63; Carrière 1891, p. 362; Ch. Wirth 1893, p. 26; Christ 1882, p. 169. Cfr. anche Duboc 1874, pp. 185-206, dove è svolta una serrata critica delle posizioni di Schopenhauer ed Hartmann, entrambi accu­ sati di cinismo. 33 Haym 1873, p. 269; Weygoldt 1875, p. 105; Volkelt 1883, p. 307 (il rapporto uomo-donna potrà essere riformato solo quando sarà distrutta la tirannia del capitale); Christ, p. 165 (si dimostra particolarmente preoccupato per le conseguenze sociali di un diffusione delle idee di Hartmann); per la posizione di Dùhring cfr. sotto. 34 Dippel 1884, p. 70 s. Taubert 1873, p. 37 s., cerca di difendere Hartmann sostenendo che egli ha solo inteso presentare il valore eudemonologico dell'amore, il che non pregiudica il suo valore morale (come si è visto Hartmann ritiene che la moralità ha comunque un esito eudemonologico negativo); più oltre (p. 46 s.) la stessa Taubert sviluppa tuttavia una concezione più elevata dell'amore, interpretato come metafora della tendenza dell'uomo ad unirsi all'Assoluto.

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trui; Hartmann non considera il piacere che innumerevoli persone provano nel sentirsi utili agli altri, nel lenire il loro dolore, senza per giunta nulla sapere del legame metafisico che unisce fra loro gli individui 35 . Nella discussione delle altre componenti della vita umana, lo spessore teorico si fa ancora più tenue: così, per quanto riguarda l'amicizia, la socie­ volezza, l'onore, gli awersari di Hartmann - che pure in qualche caso concordano con alcune delle sue analisi - si limitano a rivendicare maggior positività per questo o quell'aspetto con osservazioni psicologiche qualche volta sottili, qualche volta banali, ma certamente non in grado di decidere definitivamente l'esito dei vari « bilanci » 36. Posizioni filosoficamente un po' più impegnate si incontrano soltanto in riferimento alla valutazione hartmanniana dell'arte 37. Haym in partico­ lare prende spunto dalle posizioni di Hartmann, che come si è visto già riconosce la positività eudemonologica dell'arte e della scienza, per abboz­ zare una sorta di ottimismo estetico che ha dei punti di contatto con le tesi 35 Meyer 1882b, p. 13; per la critica al criptoegoismo di Schopenhauer cfr. Meyer 1872, p. 52; su posizioni simili Trautz 1876, p. 25 e Gass 1876, p. 227 (nell'ottica di Hartmann dovrebbe essere considerato compassionevole anche il comportamento di colui che gode delle più terribili sofferenze altrui). Taubert 1873, p. 51, osserva che quanto meno la spiegazione offerta da Meyer non è applicabile a tutti i casi in cui si prova compassione, per esempio non alla compassione che si manifesta nell'uomo quan­ do assiste alla tragedia, dove evidentemente non è pensabile alcun intervento attivo dello spettatore nello svolgersi della vicenda. Taubert d'altra parte, pur ribadendo che lo stesso termine Mit-leiden indica di per sé la predominanza dell'elemento della sofferen­ za, giudica non del tutto soddisfacente la spiegazione offerta da Hartmann e sviluppa una teoria della compassione assai più vicina a quella schopenhaueriana. 36 Volkelt 1873, p. 311; Weygoldt 1875, p. 108 s.; E. Fischer 1880, p. 23 s.; Sommer 1883, p. 93 s., Dippel 1884, p. 74 s. Riguardo ad altri elementi del bilancio eudemonologico i critici tacciono - con ragione - (è il caso del bilancio eudemonologico del sonno e dei sogni), o concordano con Hartmann: chi avrebbe osato affermare che ad esempio l'odio e la vendetta producono più piacere che dolore? 37 Riguardo al piacere derivante dalle scienze e dal sapere in generale non si va al di là di una serie di obiezioni « quantitative »: il bilancio delle scienze darebbe in altri termini un risultato più positivo di quello che Hartmann pure ammette, cfr. ad esempio Volkelt 1873, p. 314 s. Quanto alla futura inevitabile diminuzione dei piaceri derivanti dalla scienza - a parere di Hartmann si dovrebbe necessariamente giungere ad un punto in cui non vi sarebbe più nulla da scoprire -, secondo Haym essa potrebbe essere compensata dalla diffusione del sapere scientifico e dal piacere che comunque si produr ce nel riscoprire - nell'apprendere - le scoperte compiute da altri. È del resto dubbio che la scienza possa esaurire il suo campo d'indagine e non possa porsi sempre nuovi e più complessi problemi (Haym 1873, p. 281; cfr. anche Weygoldt 1875, p. 125). Haym contesta poi anche la tesi di un declino irreversibile dell'arte: anche ammessa la deca­ denza attuale, nulla fa credere che, come spesso è avvenuto nel passato, non possa aver luogo in futuro una rinascita (Haym 1873, p. 282).

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sviluppate da Strauss in Der alte una der neue Glaube. Il piacere estetico e il bello che ne sta a fondamento, lungi dal manifestarsi solo nell'arte vera e propria, sono componenti essenziali del mondo e della vita dell'uomo, fino « al più modesto piacere sensibile ». Il piacere estetico è addirittura definito VUrphànomen del piacere, garanzia di ogni piacere del mondo e « una prova splendente della felicità che scorre nelle vene del mondo ». Il bello sarebbe infatti inspiegabile in un mondo miserabile quale quello de­ scritto da Hartmann e il poeta o il compositore che lo esprime in forma splendente dovrebbe essere considerato un « déserteur de l'orare generai » (Haym 1873, p. 273 s.). Haym in questo contesto non sviluppa ulteriormente la sua posizione né fa cenno alle ragioni metafisiche in essa implicite - in ultima analisi l'identità di bellezza e razionalità; esse tuttavia sono abbastanza chiaramen­ te percepibili, come risulta dal favore con il quale la sua posizione è ripresa da autori che, come Volkelt e Carrière, si rifanno più esplicitamente alla filosofia hegeliana. Significativamente essi rimproverano ad Hartmann di non aver considerato la forma più comune - ma non meno significativa di godimento estetico: la contemplazione della natura 38. La mancata esplicitazione dei presupposti teorici di Haym giustifica in qualche misura la risposta della Taubert, la quale si muove su un terreno esclusivamente psicologico: essa, dopo aver contestato l'esistenza di una bellezza oggettiva, richiamandosi alle sofferenze del mondo naturale, inter­ preta la tendenza dell'uomo a sprofondarsi nella natura come un desiderio di autoannichilimento, che quindi può essere visto come « una delle più forti prove del pessimismo ». D'altra parte il contatto diretto con la natura è reso sempre più difficile dallo sviluppo della civiltà, cosicché non si può pensare che esso da solo possa compensare tutte le altre sofferenze. Per quanto riguarda poi specificamente l'arte, la Taubert riprende il classico tema dell'essenziale tragicità delle sue produzioni più alte, il che conferme­ rebbe ancora una volta le tesi pessimistiche 39. 38 Volkelt 1873, pp. 294 e 298; Carrière 1891, p. 360; cfr. anche Meyer 1872b, p. 20 e Golther 1878, p. 142. 39 Taubert 1873, pp. 55 s. e 63-70. Taubert qui non sembra notare che in sé il contenuto tragico di un'opera d'arte non pregiudica il piacere estetico che da essa può derivare. Il tema dell'ottimismo estetico è discusso con una certa ampiezza anche da Plumacher 1888, pp. 225-233, la quale sottolinea come la contemplazione estetica, il cui fondamento metafisico è nel sistema di Hartmann garantito dall'organizzazione raziona­ le del mondo, non possa che occupare una parte molto limitata della vita dell'uomo e dell'universo nel suo complesso (Plumacher insiste ad esempio sul fatto che tutto il regno animale sembra indifferente alla bellezza).

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4. LA RELIGIONE DI HARTMANN E IL SUO BILANCIO EUDEMONOLOGICO.

Vi sono ancora due componenti della vita umana chiamate in causa dal bilancio eudemonologico che meritano particolare attenzione: la reli­ gione e la morale. In entrambi i casi la discussione, alimentata dalle succes­ sive opere di Hartmann, assume proporzioni che vanno al di là delle brevi note che Hartmann dedica ai due problemi nella Filosofia dell'inconscio. Si è visto come l'elemento decisivo che conduce Hartmann ad un bilancio eudemonologico negativo del sentimento religioso sia la sottoline­ atura del carattere illusorio - ormai acquisito - della speranza dell'unione mistica con Dio, almeno intesa nel senso tradizionale. Mentre alcuni autori si limitano a lamentare la sostanziale incomprensione da parte di Hart­ mann della vera natura del sentimento religioso 40, altri fanno dipendere l'esito negativo dell'eudemonologia religiosa di Hartmann dalla sua parti­ colare concezione dell'Assoluto e della religione in generale. Secondo E. Pfleiderer infatti la religione di Hartmann è peggiore di un franco ateismo, in quanto sorge sul terreno di quella medesima « divinizzazione del mon­ do » predicata da Stirner, che si traduce in una divinizzazione dell'uomo; nel pessimismo al panteismo classico si è sostituito un pandemonismo, alla Verhimmelung del mondo una Verhòllung del finito 41 . Queste tesi sono sostanzialmente condivise da Golther, il quale sottolinea la contraddizione fra l'assurda pretesa d'identificare Dio con un mondo misero ed infelice e il tentativo di salvarne in qualche misura la trascendenza, nella forma di un Nirvana buddhistico; se a ciò si aggiunge la negazione della sopravvivenza dell'anima, si comprende come in Hartmann sia improponibile qualsiasi genuino sentimento religioso (Golther 1878, pp. 203-210). Anche Carrière, che ritiene base indispensabile della religione la personalità di Dio e l'im­ mortalità dell'anima (Carrière 1875, pp. 161-176), e E. Fischer, che sotto­ linea piuttosto la necessità di tali dottrine per dare adeguato fondamento

40 Frank 1872, p. 354; Weygoldt 1875, p. 110 (ribadisce la tesi che il conforto religioso, anche se dovesse risultare illusorio, non cesserebbe per questo di dare un risultato eudemonologicamente positivo); Harnisch 1880, p. 17; E. Fischer 1880, p. 25 (per Hartmann il fenomeno religioso è « terra incognita »); Ch. Wirth 1893, pp. 21 e 34. 41 E. Pfleiderer 1875, pp. 53-57 e 94 s. Pfleiderer nota fra l'altro come la diviniz­ zazione del mondo, la creazione di nuovi santi e di nuovi idoli compiute dalle correnti antireligiose dell'epoca abbia delle analogie con la divinizzazione dei simboli - sostituiti alla realtà - portata avanti dal loro più feroce avversario - l'ultramontanismo cattolico. Qui appare distintamente il motivo dell'oggettiva convergenza della filosofia di Hart­ mann con le forze più conservatrici dell'epoca.

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alla morale, ritengono impossibile parlare di vera religione all'interno della filosofia di Hartmann (E. Fischer 1880, p. 34). L'interessante per la componente religiosa della filosofia di Hartmann cresce dopo la pubblicazione degli opuscoli polemici contro il cristianesi­ mo, che, come nota Heman, ripropongono dopo lungo tempo un attacco diretto al cristianesimo, cui dovrebbe sostituirsi la « religione del futuro ». Naturalmente in questo caso sono soprattutto i teologi che conducono la polemica contro Hartmann e che approfittano dell'occasione per fare de­ finitivamente i conti con la sua metafisica. Pur nel quadro di una valutazione complessivamente critica, i teologi cattolici assumono un atteggiamento meno negativo, in quanto apprezzano la critica rivolta da Hartmann al protestantesimo liberale. Heman ad esem­ pio vede in questi scritti una legittimazione indiretta deirultramontanismo, dato per morto -ma con ragioni infondate - da Hartmann. Del resto l'ap­ pello di Hartmann ad una lotta comune contro il cattolicesimo è la prova più evidente della sua riconosciuta vitalità. Quanto alla critica delle dottri­ ne cristiane, Heman non ha difficoltà a mostrare che esse si basano tutte sull'errato presupposto che il contenuto della religione debba essere inte­ ramente risolvibile nella razionalità, laddove essa è invece fondata sulla percezione immediata della realtà spirituale. Per questo motivo la critica e la cultura moderna non potranno mai avere veramente ragione del cristia­ nesimo. I risultati della cultura moderna - in particolare il pessimismo mostrano a sufficienza i limiti delle prospettive anticristiane, né si può pensare che la religione del futuro, di cui Hartmann avrebbe posto le pre­ messe, possa rimpiazzare il cristianesimo, proponendo idee astratte che non hanno mai avuto accesso nella coscienza religiosa comune: è impensa­ bile infatti che l'unione con un Assoluto impersonale, non garantita fra l'altro dall'immortalità dell'anima, possa soddisfare realmente il sentimen­ to religioso delle masse 42 . La stessa linea si riscontra nella già citata opera di Braig, che tuttavia per dimensioni e completezza d'informazione - Braig considera fra l'altro anche Das religióse Bewusstsein der Menschheit - è molto di più di un intervento polemico. In questo caso infatti la filosofia della religione di Hartmann diviene una sorta di filo rosso per un riesame critico dell'intera teologia protestante del diciannovesimo secolo, il cui carattere generale è

42 Heman 1875, pp. 9-13, 20-30, 59 s. Karl Friedrich Heman (1839-1919), catto­ lico, fu professore di filosofia a Basilea, su posizioni vicine al tomismo.

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indicato nel soggettivismo, termine con il quale l'autore indica senz'altro « tutte le creazioni del pensiero in errore », del pensiero che cioè non si appoggia alla verità oggettiva. L'errore di fondo di Hartmann consiste nella sua pertinace difesa di un insostenibile panteismo, che lo conduce a un radicale fraintendimento del cristianesimo - e di molte altre religioni storiche - ed allo sviluppo di una forma di religione non in grado di sod­ disfare i bisogni religiosi dell'uomo 43 . Dippel si spinge ancor più in là e sostiene che la filosofia della religione di Hartmann ha come unico motivo ispiratore l'odio per la religione cristia­ na e in particolare per l'idea di un Dio soprannaturale: « l'intera opera sulla religione dello spirito è uno stravolgimento dei legittimi concetti teologici, una falsificazione del loro contenuto e una loro ingiustificata applicazione all'ambito della dottrina dell'immanenza ovvero del monismo concreto ». La naturale conseguenza di questa operazione, ribadisce Dippel, è l'impos­ sibilità di ogni autentica religiosità (Dippel 1884, pp. 105-113). Da parte protestante, specie in quegli autori che come Lang e Biedermann si erano spinti più avanti nell'interpretazione speculativa del cri­ stianesimo, è evidente la preoccupazione di combattere la presentazione della teologia liberale offerta da Hartmann e, al tempo stesso, di prendere le distanze dalle posizioni speculative della Filosofia dell'inconscio, per al­ cuni aspetti non lontane dalle loro. Lang polemizza prevalentemente con­ tro la tesi secondo cui la teologia liberale avrebbe introdotto nel cristiane­ simo un ottimismo estraneo allo spirito originario del messaggio cristiano, giungendo ad una conciliazione con il mondo 44 . Biedermann appare più preoccupato dall'accordo che, contro le sue intenzioni, sarebbe venuto a crearsi fra la sua negazione della personalità di Dio e quella di Hartmann: nonostante riconosca che l'attribuzione a Dio della personalità sia da rifiu­ tarsi, in quanto rappresentazione mutuata dal finito - ma nella misura in cui si rimane nell'ambito della rappresentazione è legittimo parlare di per43 Braig 1882, p. 7 s. (per la caratterizzazione del soggettivismo, visto anche come sinonimo di modernismo) e 241-261 (per il giudizio complessivo sulla filosofia della religione di Hartmann). È naturalmente impossibile qui seguire nei dettagli le critiche alla ricostruzione hartmanniana della storia delle religioni. La stessa impostazione è riscontrabile anche nello scritto dell'altro insigne teologo cattolico Franz Hettinger (1819-1890) (Hettinger 1881). 44 Lang 1874 e 1875. Heinrich Lang (1826-1876), dopo aver studiato a Tubinga con Zeller e Baur, divenne da ultimo pastore nel duomo di Zurigo e fu esponente significativo del protestantesimo liberale svizzero. Su di lui Biedermann 1876 (Bieder­ mann era amico personale di Lang), che alle pp. 100-111 riassume le ragioni dell'oppo­ sizione di Lang ad Hartmann.

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serialità -, e nonostante concordi con Hartmann nel rifiuto del dualismo e del monismo astratto, Biedermann ribadisce il suo distacco dalla metafisica di Hartmann, in primo luogo nel rifiuto del pessimismo (la creazione non ha affatto quel fine negativo, dipinto d Hartmann « con le più folli fanta­ sticherie gnostiche »), in secondo luogo nel rifiuto del panteismo, giacché per Biedermann lo spirito rimane nonostante tutto separato dal mondo 45 . L'estesa ed approfondita critica sviluppata da Sommer prende invece le mosse da un'interpretazione più ortodossa del cristianesimo. Il suo in­ tento è di mostrare come l'intera filosofia della religione di Hartmann, condizionata nel profondo dal pessimismo, è costruita su di un sistematico stravolgimento dei concetti del cristianesimo e da luogo ad una religione peggiore dello stesso ateismo. In primo luogo il Dio di Hartmann è la negazione di ogni santità e bontà, un creatore che crea solo per liberarsi egoisticamente dalla propria sofferenza, molto peggiore dell'uomo il cui impegno disinteressato non dovrebbe avere altro fine che quello di annichilire Dio. Naturalmente in tale quadro non può trovar posto nessuno dei concetti-cardine del cristianesimo, quali quelli di rivelazione, grazia e re­ denzione. Che poi un'autentica coscienza religiosa, la quale può sorgere solo dal « prender coscienza dell'incondizionato valore della vita », non possa trovar posto all'interno di una tale costruzione è del tutto evidente, giacché VInnewerden con un tale Dio può essere solo rappresentato con orrore 46. Fra i numerosi interventi di parte protestante sulla filosofia della reli­ gione di Hartmann si può ricordare ancora la critica svolta da Schùz, che contrappone in continuazione alle posizioni di Hartmann quelle di Schopenhauer, autore che, benché non cristiano in senso proprio, ha saputo 45 Per il timore di Biedermann di essere assimilato ad Hartmann cfr. Biedermann 1876, p. 105 nota. Le differenze teoriche indicate nel testo sono invece presentate in Biedermann 1882, pp. 1102, 1172 s., 1181 s., 1190 s. Queste posizioni sono ribadite nella seconda edizione di Biedermann 1869, contro le quali Hartmann, che aveva salu­ tato con piacere la convergenza delle sue tesi speculative con la teologia della prima edizione, polemizza in PU II, p. 519 [aggiunta] e in 1886b. Alois Emanuel Biedermann (1819-1885), studiò a Berlino dove ebbe come maestro, tra gli altri, Vatke e fu conqui­ stato dall'hegelismo. Grande estimatore di Strauss, cui tuttavia non perdonò la pubbli­ cazione di Der alte una der neue Glaube, fu professore di teologia a Zurigo e forse l'esponente più importante del protestantesimo speculativo. Fu per lungo tempo in rapporto epistolare con Hartmann. 46 Sommer 1884, passim. Anche Voigt 1889, p. 25 s., insiste sul fatto che un rapporto fra l'uomo e un Assoluto concepito nei termini di Hartmann non può dare alcun conforto (Georg Voigt [1827-1891] fu un apprezzato storico del Rinascimento e del Cinquecento).

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comprendere molto più di Hartmann la vera natura della religione. Così Schopenhauer, a differenza di Hartmann, non si è pronunciato sulla im­ mortalità dell'anima e ha colto il significato del peccato e della caduta dell'uomo, ha lasciato spazio al mistero ed alla trascendenza, ha contrappo­ sto in qualche modo al mondo presente un ideale e ha lasciata aperta la possibilità di un mondo diverso e migliore, come risulta dalla sua concezio­ ne solo relativa del nulla (il nulla assoluto di Hartmann è invece una « far­ sa »). Ciò che soprattutto manca ad Hartmann è il cuore, cosicché la sua filosofia della religione è pallida teoria, che non comprende la natura del cristianesimo, ignora la necessità del modello ideale offerto da Cristo e dalla chiesa. La sua religione del futuro, oltre a infinite lacune, manca poi dell'elemento essenziale del rapporto personale fra l'uomo e la divinità 47 . Strettamente legata alla critica della concezione e del ruolo della reli­ gione in Hartmann è la discussione intorno al secondo stadio dell'illusione - la speranza nella felicità dell'aldilà. In ogni caso, come si è accennato, le critiche relative a questo aspetto del pessimismo sono condotte in modo più sbrigativo e occupano un posto tutto sommato marginale. In genere quanto Hartmann (e Taubert [1873, pp. 86-90]) dicono per dimostrare che anche nell'aldilà la felicità è impossibile e che un tale ipotetico stato sarebbe co­ munque condannabile in quanto riaffermazione dell'egoismo eudemonisti­ co non è preso molto sul serio. Anzi l'esistenza dell'aldilà e della beatitudine eterna è più o meno esplicitamente considerata da tutti gli autori d'ispira­ zione cristiana l'argomento più solido contro il pessimismo, la garanzia di riscatto dall'eventuale infelicità terrena. Semmai il problema è quello della possibilità di provare la sopravvivenza dell'anima. Ma anche a questo ri­ guardo le tesi di Hartmann - che fra l'altro appaiono criticabili sul piano della coerenza sistematica interna 48 - sono guardate con una certa sufficien-

47 Schùz 1884, pp. 40-44, 70 s., 96-130. Si possono ricordare anche Kònig 1874, che, dopo aver criticato l'interpretazione del cristianesimo offerta da Hartmann (in particolare egli sottolinea come il cristianesimo, al pari di ogni religione, deve essere ottimista), difende il tentativo del protestantesimo liberare di giungere ad una concilia­ zione con la cultura, intesa come positiva reazione al Medioevo, e Sonntag 1875, che confuta anch'esso analiticamente la rilettura hartmanniana della storia del cristianesimo e sostiene che il protestantesimo liberale non ha affatto abbandonato il mistero, essen­ ziale alla religione. Una prova significativa dell'unanimità delle critiche rivolte alla reli­ gione di Hartmann si ha nel fatto che per Schneidewin 1892, p. 45 s., uno dei discepoli di Hartmann, il rifiuto del teismo da parte di Hartmann è stato uno degli ostacoli maggiori alla durevole affermazione della sua filosofia. 48 Tanto Weygoldt 1875, pp. 118-122, quanto Weckesser 1885, pp. 55-57, rileva­ no che se si sostiene che gli atomi - atti specifici dell'inconscio - sono immortali, non c'è

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za e non suscitano molto interesse; esse infatti non aggiungono motivi ori­ ginali ad una tematica tanto dibattuta nei decenni precedenti e riguardo alla quale la maggior parte degli autori possedeva ormai solide convinzioni 49. Si spiega così perché pochi si impegnino analiticamente nella discus­ sione, contentandosi per lo più di affermare apoditticamente le loro posi­ zioni. Per esempio Haym si limita ad esprimere la sua opinione che la rappresentazione dell'aldilà è « la più certa e la più grande di tutte le real­ tà », la più pura affermazione dell'idealismo contro il pessimismo annoiato, l'eudemonismo sensibile, il razionalismo scettico (Haym 1873, p. 271), Weygoldt sostiene kantianamente che l'immortalità dell'anima non può essere né provata in senso rigoroso, né negata, ma solo ritenuta probabile e che quindi deve essere creduta sulla base della religione che da essa è completata (Weygoldt 1875, pp. 117 e 212 s.). Carrière insiste sulla impor­ tanza decisiva dell'immortalità dell'anima per confutare il pessimismo, perché solo in essa trovano senso gli sforzi dell'uomo per perfezionarsi moralmente 50. Una posizione particolare al riguardo è occupata da due autori per molti aspetti vicini a Schopenhauer e ad Hartmann, ma caratterizzati dalla loro adesione allo spiritismo, Hellenbach e Du Prel. Hellenbach, che si dichiara sostanzialmente d'accordo con il pessimismo empirico di Scho­ penhauer ed Hartmann, ritiene che una tale posizione perda di significato in riferimento alla trascendenza del metaorganismo 51 . La vita terrena appa­ re come una passeggera forma fenomenica, come uno stadio di sviluppo ragione di affermare che l'anima degli individui superiori - anch'essa un atto specifico dell'inconscio diverso dai singoli atomi - non possa continuare ad esistere all'infinito. D'altra parte, secondo Weygoldt, Hartmann non prova neppure che l'anima in un even­ tuale aldilà debba essere priva di coscienza, giacché la materia è condizione del sorgere della coscienza ma non del suo perdurare. Neppure si comprende (Weckesser) perché l'onnipotente inconscio, che del più elevato sviluppo delle coscienze ha bisogno per liberarsi dal mondo, non debba conservare all'esistenza le coscienze anche indipenden­ temente dal loro essere legate ad un corpo. 49 E. Fischer 1880, p. 28; Dippel 1864, p. 85 (Hartmann riesce al massimo a dimostrare che l'immortalità è inconciliabile con il monismo). 50 Carrière 1891, pp. 360-364. Anche secondo Schùz 1884, p. 71, Hartmann nel misconoscere il ruolo decisivo dell'immortalità dell'anima dimostra un « superficiale cinismo ». 51 Hellenbach 1878, p. 1; 1878b, voi. II, p. 189; 1881, p. 275. Lazar Hellenbach, barone di Paczolay (1827-1887) fu dal 1876 in rapporti personali con Hartmann, che viene spesso citato nelle sue opere, anche se non raramente in modo critico. Hellenbach prende le mosse dal pensiero di Schopenhauer che egli, al pari di Bahnsen e Mainlander, interpreta in senso pluralistico-individualistico, dando però a questa lettura un significa­ to del tutto particolare. Tenendo fermo il fenomenismo di Schopenhauer, egli afferma

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verso un'altra vita, nei confronti della quale le sofferenze appaiono come un brutto sogno superato dal risveglio dell'aldilà, rappresentato in questo caso dalla vita del metaorganismo (Hellenbach 1878, voi. II, p. 243). Posto che il fine dell'uomo consiste nel perfezionamento morale e posto che il metaorganismo si reincarna in numerose vite fenomeniche i cui progressi sono « capitalizzati » - ovvero resi disposizioni permanenti del metaorgani­ smo -, non v'è ragione di dubitare della realizzazione del perfezionamento morale, con il che l'ottimismo cosmico risulta sufficientemente fondato 52 . Abbastanza simile è la posizione di Du Prel 53 : anch'egli riconosce la correttezza della valutazione pessimistica della vita terrena, ma ritiene che che la realtà del mondo fenomenico e in particolare della vita deve essere spiegata facendo riferimento ad un'anima (termine che Hellenbach preferisce all'inconscio hartmanniano [Hellenbach 1878, p. 124]), ovvero ad un «metaorganismo », concetto che diviene corrente nelle opere più tarde di Hellenbach. Questo « metaorganismo » è, al pari del corpo fenomenico, materiale, seppure di una materia più fine e sottile, e la sua differenza qualitativa da! corpo fenomenico è garantita dal suo trovarsi in una realtà « trascendentale » a quattro o più dimensioni, inaccessibile alla ordinaria conoscenza umana, che pure si manifesta nei vari fenomeni spiritistici, i quali, conscguentemente, divengono lo strumento principe per la filosofia, in quanto indagine di ciò che si trova al di là del fenomenico. Tale « metaorganismo » è immortale e si manifesta via via in vari corpi fenomenici secondo un procedimento che ricorda la tradizionale dottrina della migrazione delle anime (« incorporazioni ») (Hellenbach 1878b, voi. II, pp. 253-257). Sulla filosofia di Hellenbach cfr. Plumacher 1881, pp. 55-109; Drews 1893, voi. II, pp. 409-440; Salzsieder 1928, pp. 194-202; Hubscher 1968. 52 Hellenbach 1878b, voi. II, p. 245 s., voi. Ili, p. 120 s. Sembra che, secondo Hellenbach, una volta raggiunta la perfezione morale il metaorganismo cessi di reincar­ narsi, al fine di evitare le sofferenze connaturate alla vita fenomenica (cfr. Plumacher 1881, p. 107). Hellenbach d'altra parte non è del tutto chiaro circa i caratteri della beatitudine propria del metaorganismo: pare che egli propenda per una condizione di assoluta pace, priva di sensibilità (Hellenbach 1878b, voi. Ili, p. 190 s.). Hellenbach d'altra parte, al pari di Mainlànder, sostiene che il perfezionamento morale individuale non deve esser disgiunto da un forte impegno per il miglioramento delle condizioni sociali generali: anch'egli delinea le vie attraverso le quali si deve giungere in futuro alla costruzione di uno stato ideale in cui a ciascuno sia consentito di godere di « un'esisten­ za degna dell'uomo ». Coloro che sono senza figli devono impegnarsi per costituire una ricchezza comune che, in attesa di una legislazione che realizzi un « comunismo nobili­ tato », sia a disposizione dei poveri. Lo stato comunista poi dovrebbe garantire la pos­ sibilità di matrimoni secondo l'inclinazione dei cittadini (qui Hellenbach segue Schopenhauer nell'intendere l'amore come riflesso di una scelta della natura in funzione della conservazione e del perfezionamento della specie), assumere interamente su di sé il carico dell'educazione dei bambini e preoccuparsi della salute e dell'innalzamento mo­ rale dei cittadini (Hellenbach 1878b, voi. I). 53 Karl Du Prel (1839-1899), dapprima ufficiale dell'esercito bavarese, si dedicò poi interamente alla filosofia ed all'occultismo. Grande estimatore di Hartmann negli anni '70 (cfr. oltre alle varie recensioni, specialmente Du Prel 1872), ne divenne in

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essa sia compensata dall'ottimismo trascendentale, ovvero dalla beatitudi­ ne del corpo astrale, che si presagisce in particolare nel sonnambulismo (Du Prel 1884, p. 467; 1888, pp. 310 s. e 345 s.). Si tratta dunque di operare in favore della felicità del corpo astrale, perfezionandosi nel corso dello sviluppo delle successive incarnazioni (Du Prel 1888, p. 337).

5. IL VALORE EUDEMONOLOGICO DELLA MORALE.

Il dibattito circa la valutazione del piacere e del dolore derivanti dall'esercizio della moralità è ancora più complesso. In esso sono indivi­ duabili vari temi che, come spesso avviene, si presentano spesso intreccia­ ti. Il bilancio eudemonologico dell'agire morale ripropone anzitutto impli­ citamente il classico problema del rapporto fra virtù e felicità: l'agire morale produce nell'uomo felicità, ovvero esso conduce alla felicità? In riferimento alla Filosofia dell'inconscio il problema è in genere affrontato in modo abbastanza circoscritto. In seguito, con lo sviluppo della produ­ zione filosofica di Hartmann e in particolare con la pubblicazione della Fenomenologia della coscienza morale (1879), la critica alla morale di Hartmann assume un respiro più ampio. Non si tratta più solo di confu­ tare il bilancio eudemonologico dell'etica: il problema centrale diviene quello di mostrare l'insostenibilità complessiva dell'etica di Hartmann, tanto più che la dimostrazione dell'impossibilità di far derivare dal pessi­ mismo delle indicazioni morali praticabili appare come uno strumento fondamentale per combattere il suo temuto diffondersi tra il « popolo ». seguito velenoso avversario, accostandosi piuttosto a Bahnsen, con il quale trascorse parecchio tempo durante le vacanze. Fu naturalmente in rapporto con Hellenbach, alla cui filosofia egli è abbastanza vicino e cui succedette come guida del movimento occultistico-spiritistico. Anche la riflessione di Du Prel sorge dalla critica dell'antropologia materialistica e spiritualistica (nella misura in cui quest'ultima ammette un dualismo materia-spirito); si tratta d'individuare un fondamento unico per il corpo e per lo spirito, che Du Prel, rifacendosi, almeno nella fase iniziale del suo pensiero, ai fenomeni del sogno, del sonnambulismo, dell'ipnosi e del magnetismo, crede d'individuare in un sog­ getto trascendentale, di cui il soggetto empirico in condizioni normali non ha coscienza e quindi appare come un inconscio (relativo), benché l'attività corporea e spirituale ne siano la manifestazione. Più tardi egli tende a sostituire - o ad integrare - questo con­ cetto con quello di « corpo astrale » (Du Prel 1888, pp. 138 e 159), concepito come qualcosa di simile all'entelechia aristotelica, dotato di uno specifico tipo di materia e di spirito. Al pari del metaorganismo di Hellenbach, esso è immortale e si manifesta via via in diversi corpi fenomenici. Sul pensiero di Du Prel, cfr. Hartmann 1885b, 2 ed., pp. 207-277, Drews 1893, voi. II, pp. 441-478; Salzsieder 1928, pp. 202-207.

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Questo tuttavia impone anche a molti autori una riconsiderazione com­ plessiva delle loro dottrine etiche e, in particolare, una ridefinizione del rapporto fra virtù e felicità, fra piacere sensibile e « piacere » etico, fra egoismo ed altruismo 54 . Bisogna anche rilevare che il dibattito intorno all'etica di Hartmann toglie praticamente ogni spazio alla filosofia morale di Schopenhauer, che in generale viene considerata, specie per il suo quietismo, come ancor meno proponibile di quella di Hartmann e quindi liquidata piuttosto sbri­ gativamente 55 . 54 È significativo dell'interesse suscitato dal problema il fatto che la « Godgelaerde Genootenschap te Harlem » (Società teologica di Harlem) abbia bandito nel 1882 un concorso sul tema « Der Pessimismus una die Sittenlehre » cui parteciparono con scritti recanti questo titolo Christ, Sommer e Rehmke (i primi due scritti furono premiati; non è chiaro se un quarto scritto con lo stesso titolo, a firma di A. Bacmeister abbia parte­ cipato anch'esso al concorso). Il lavoro di Paul Christ, un religioso di nazionalità svizze­ ra, a quanto pare vicino alle posizioni di Biedermann, prende in considerazione tanto la morale di Schopenhauer quanto quella di Hartmann, rielaborando con una certa libertà il materiale. Quello di Sommer procede in modo sistematico, delineando dapprima i caratteri di un'etica ideale - quella di Lotze -, prendendo poi brevemente in considera­ zione la filosofia pessimistica in generale e infine concentrandosi sulla Fenomenologia di Hartmann. Il lavoro di Rehmke analizza dapprima il pessimismo indiano, poi si occupa del pessimismo europeo (Schopenhauer ed Hartmann) ed infine si conclude con un'ana­ lisi del rapporto fra pessimismo empirico e Sittenlehre. L'opera di Bacmeister, che si qualifica come Stadtpfarrer a Ohringen, segue invece passo passo la Fenomenologia di Hartmann, ed ha quindi il carattere di una lunghissima recensione. 55 A prescindere dalle difficoltà sistematiche, qualche autore si sofferma sul­ l'aspetto pessimistico dell'etica schopenhaueriana - la generale immoralità degli uomini e la sostanziale impossibilità di un agire autenticamente morale -, un aspetto quasi assente invece in Hartmann. Ad esempio Harms 1874, p. 31, e Gass 1876, p. 213, ritengono che alla base del pessimismo di Schopenhauer si trovi precisamente un'errata determinazione del fine dell'uomo. Per Harms l'errore di fondo di Schopenhauer con­ siste nell'aver posto il fine della vita nella vita stessa e quindi nell'aver indicato nella negazione della vplontà il fine dell'uomo. Questa negazione al contrario - intesa in senso cristiano come negazione di alcune tendenze del volere - deve essere posta all'inizio, in modo da dare alla vita stessa una dirczione diversa da quella indicata da Schopenhauer. Per Gass gran parte delle ragioni del pessimismo di Schopenhauer vengono meno se si ammette la possibilità di perfezionare moralmente la volontà, dando un contenuto alla giustificata condanna del mondo. Tschofen 1879, p. 77, indi­ vidua invece nel materialismo la cifra più significativa dell'etica di Schopenhauer (cfr. anche Zange 1872, p. 217). Dorner 1881, p. 11, e Trautz 1876, p. 14, sottolineano l'elitarismo della morale di Schopenhauer, una morale per pochissimi (geni e santi), non praticata neppure dallo stesso Schopenhauer. Un'eccezione in questo atteggiamento generale è costituita da Dùhring che da una valutazione positiva del principio dell'etica di Schopenhauer, vale a dire della compassione. Esso a suo parere non dipende da una fondazione metafisica, bensì è espressione dell'implicito naturalismo di Schopenhauer (Dùhring 1873, p. 485).

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Anche fra coloro che si sono occupati esclusivamente o prevalente­ mente della Filosofia dell'inconscio ed ancor più del libro della Taubert (1873), non manca chi ha colto e discusso le implicazioni generali delle posizioni etiche di Hartmann. Per evitare ripetizioni in questo paragrafo ci si occuperà delle critiche all'etica di Hartmann unicamente in relazione al tema del bilancio eudemonologico, per rimandare al prossimo capitolo l'analisi delle discussioni relative all'« etica del pessimismo ». Un esempio paradigmatico della prima reazione alla considerazione eudemonologica dell'etica è fornito da Haym. Per Haym l'idea di trattare separatamente il valore eudemonologico dell'etica prova anzitutto che Hartmann non ha voluto vedere che tutti i beni (lavoro, famiglia, impegno sociale) devono essere valutati dal punto di vista morale. Questo non voler comprendere che i beni acquistano autentico valore solo se considerati da un punto di vista morale è d'importanza fondamentale per comprendere la radice ultima dell'intero pessimismo di Hartmann ed è specchio fedele del decadimento morale dell'epoca e, più in particolare, del « miserabilismo » del suo autore 56. Più specificamente legata alla critica del valore eudemonologico del­ l'etica è la posizione di Huber. Per quest'autore Hartmann sottovaluta enormemente l'indicibile felicità che deriva dall'agire in conformità del­ l'idea etica. L'etica è « l'idealismo dei poveri di spirito »; essa offre a tutti, anche a coloro che non possono innalzarsi ai piaceri derivanti dalle arti e dalle scienze, la possibilità di raggiungere la felicità e in quest'ottica, vale a dire nell'ottica di una graduale realizzazione delle idee etiche, va guardato l'intero corso storico, visto come un processo d'innalzamento della cultura che non può sfociare che in un progressivo innalzamento a Dio 57 . Anche per Kirchmann tanto Hartmann quanto Schopenhauer non tengono conto della felicità che deriva ddNAchtung per la legge morale e questo nonostante entrambi conoscano la forza di tale sentimento. La loro tuttavia è una strada obbligata, perché in caso contrario essi dovrebbero mettere in discussione il loro pessimismo, che risulterebbe infondato 58. 56 Haym 1873, p. 270. A quanto si sa, il termine « miserabilismo », che Hartmann impiega per caratterizzare la filosofia di Bahnsen, è usato qui da Haym per la prima volta in riferimento al pessimismo in generale. In pieno accordo con Haym si dichiara Gass 1876, p. 227. 57 Huber 1876, pp. 108-116. Sulle stesse posizioni anche Schaarschmidt 1879. Karl Schaarschmidt (1822-1908) fu storico della filosofia e della religione a Bonn. 58 Aa.Vv. 1879, p. 81. Carrière 1891, p. 354 s., sostiene anch'egli l'esistenza di una specifica felicità derivante dall'agire morale e rileva come la stessa Taubert si spinga addirittura ad affermare che esso produce nell'uomo Wonne.

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La posizione di E. Pfleiderer si caratterizza invece per la chiara affer­ mazione di un « ottimismo etico », termine che esprime la convinzione dell'autore nella possibilità di raggiungere attraverso l'agire morale la feli­ cità. Posto che è nella realizzazione degli ideali morali che l'uomo deve cercare la felicità, Pfleiderer, nel contesto di una rivalutazione dell'eude­ monismo sulla quale si tornerà nel prossimo capitolo e che ha le sue pre­ messe nella parziale acccttazione del parametro eudemonologico di cui s'è detto nel capitolo precedente, mostra che la sottovalutazione dei « piace­ ri » derivanti dall'etica da parte di Hartmann ha la sua radice nel non voler vedere come essi strutturalmente possano sempre essere soddisfatti e come quindi da essi possa derivare una « gioia celeste e duratura » 59. Haym e Weygoldt giudicano poi infondata la tesi che il progresso e il raffinamento della coscienza non portino ad un innalzamento della mora­ lità. Esso è anzi constatabile empiricamente nei miglioramenti sociali, nel progresso della legislazione, nell'abolizione della schiavitù, della tortura, del dispotismo, nell'affermazione della libertà di pensiero, nel rispetto per la persona, nella cura dei poveri etc. (Haym 1873, p. 280; Weygoldt 1875, p. 127). Per molti autori proprio la non comprensione del valore della morale sta alla base della scelta del piacere sensibile come parametro di valutazio59 E. Pfleiderer 1875, pp. 50 s. e 82-87. Il termine « ottimismo etico » ricorre anche in Rehmke 1882, p. 110 s., per il quale al pari di Pfleiderer l'agire etico garantisce un Lustùberschuss; egli è d'altra parte convinto che questo ottimismo, pur non essendo determinante per l'acccttazione dei precetti della morale, possa favorire l'agire etico. Le pagine di Taubert 1873, pp. 21 s. e 42, dedicate specificamente al tema della morale, che in parte replicano ad alcuni di questi interventi - in particolare ad Haym - in parte sono state esse stesse oggetto di ulteriori critiche, non offrono elementi di particolare novità. In esse si trova ribadito che il bilancio eudemonologico si occupa dell'etica unicamente dal suo specifico punto di vista e che quindi esso non pregiudica in alcun modo i valori morali né tanto meno intende ridurli al piacere sensibile. D'altra parte Taubert riafferma che la morale, in quanto riguarda unicamente i rapporti interindividuali, ha valore solo all'interno del mondo fenomenico e quindi ribadisce, almeno a livello metafisico, la subordinazione dell'etica all'eudemonologia (ibid., p. 13 s.). La Taubert nega poi che l'agire etico possa dar luogo alla felicità - posizione identificata senz'altro con quella stoica - e sostiene che una tale tesi rappresenta un passo indietro rispetto alla scissione fra moralità e felicità affermata da Kant (ibid., p. 79 s.). Da ciò dipende l'importanza decisiva del pessimismo per l'etica giacché « solo sulle rovine di ogni eudemonismo individuale si eleva l'autentica moralità » (ibid., p. 81). Nell'opera di Taubert, nonostan­ te il largo spazio dedicato ai vari doveri morali, manca un approfondimento della spe­ cifica struttura di questa nuova etica, del fondamento dell'obbligazione, dei sentimenti che essa chiama in causa, elementi che in ambito pessimistico, come si è visto, sono stati discussi estesamente solo nella PSB di Hartmann.

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ne, del piacere che deriva solo dalla immediata soddisfazione della volontà individuale e, a sua volta, la scelta di questo parametro è la causa del pes­ simismo di Hartmann, che dunque si fonda essenzialmente sull'edonismo o, per dirla con Schùz, sul « sensualismo » e si conclude necessariamente con un « eudemonismo negativo » (Dorner) 60 . Questa interpretazione dell'assiologia di Hartmann consente a non pochi autori di ispirazione religiosa di rivalutare parzialmente il pessimi­ smo, utilizzandolo come strumento di polemica contro le filosofie « laiche » e immanentistiche. Nella valutazione dei beni materiali e della felicità che da essi può derivare il pessimismo infatti risulta in sostanziale accordo con il Vangelo e il Vecchio Testamento 61 , e mostra convincentemente che l'uomo non può essere felice senza religione, ovvero, nel caso di letture più marcatamente dualistiche del cristianesimo, che la vita terrena struttural­ mente non è il luogo in cui l'uomo può raggiungere la felicità 62 . Così per Frederichs, Trautz e Bòhmer il pessimismo deve essere con­ siderato una salutare reazione contro l'ottimismo e il materialismo, in quanto afferma a chiare lettere la terribile realtà e universalità del dolore. Secondo Borries esso ripropone, contro la troppo facile soluzione di He­ gel, il problema del rapporto fra l'Assoluto e il dolore degli individui finiti, denominato qui « problema patologico », e in ciò ha acquisito « i più alti meriti ». Secondo R. Pfleiderer si oppone con successo all'epicureismo, all'utilitarismo ed al cinismo e, nella versione attivistica di Hartmann, al pernicioso influsso della filosofia di Schopenhauer. Secondo Viedebantt rappresenta un'efficace critica dell'ottimismo pagano e immanentista il cui modello è Goethe 63 . La sua condanna dei beni sensibili, la sua dimostrazio60 Golther 1878, p. 179 s.; Harnisch 1880, p. 17; Rehmke 1882, pp. 88-90; Sommer 1883, p. 79; Schùz 1884, p. 35; Voigt 1889, p. 40 s.; Bòhmer 1894, p. 10; Dorner 1914, p. 132; Stange 1892, p. 53. 61 Harnisch 1880, p. 19 s.; Harmsen 1887, pp. I-IV; R. Pfleiderer 1881, p. 302 (Rudolf Pfleiderer, nato nel 1841, da non confondersi con i più noti Edmund ed Otto, fu pastore ad Ulma). 62 Frank 1872, p. 353 (dichiara di non aver nulla da obiettare alla descrizione del mondo di Hartmann, giacché il mondo è avvelenato dal peccato); Knauer 1873, pp. 32 s. e 41 (Hartmann mostra giustamente come il mondo, lungi dall'essere il migliore dei mondi possibili, sia una valle di lacrime su cui grava la maledizione di Dio). Più tardi riprese di questo atteggiamento di fronte al pessimismo sono costituite da Jacobowski 1886 e dal voluminoso Hollensteiner 1894 (676 pp.!), in cui l'insistita sottolineatura della miseria dell'esistenza serve ad aprire la via alla affermazione della necessità della redenzione e della grazia divina. 63 Frederichs 1875, p. 63; Trautz 1876, p. 25 s.; Bòhmer 1894, p. 10; Borries 1880, p. 30 s.; R. Pfleiderer 1881, p. 302; Viedebantt 1888, p. 6.

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ne della impossibilità di una felicità fondata su di essi costituiscono una critica non sospetta alle pretese del materialismo (Strauss, Feuerbach) 64. Esso fa giustizia di una valutazione superficiale dell'esperienza, anche se non sa superare il dato e cogliere il valore di ciò che ancora non è ma deve essere; da questo punto di vista, secondo Martensen, si pone nei confronti del materialismo nello stesso rapporto in cui la riflessione sta rispetto al­ l'immediatezza 65 . In questa prospettiva il pessimismo può essere senz'altro considerato un oggettivo alleato del cristianesimo nella lotta contro il materialismo e l'ottimismo su di esso fondato 66. Questo accordo per E. Fischer si man­ tiene anche nella critica del progresso svolta da Hartmann nel terzo stadio dell'illusione. Anche qui tuttavia Hartmann non descriverebbe il neces­ sario cammino dell'umanità, ma l'errata via che essa sta percorrendo o rischia di percorrere se si allontana dal cristianesimo. Hartmann offrirebbe « una corrosiva critica dello sciovinismo culturale moderno ed al tempo stesso, seppure non voluta e non saputa, una splendida apologià del cri­ stianesimo » 67 .

64 Stòck! 1874, p. 39 s.; Ebrard 1873, p. 300; Golther 1878, p. 182 (quest'autore peraltro precisa contestualmente i limiti del pessimismo: il rifiuto del piacere terreno non deve condurre al nulla, come nella filosofia di Hartmann, ma ad un considerazione del mondo dal punto di vista dell'eterno. Hartmann mantiene all'interno del suo nichi­ lismo elementi idealistici solo a prezzo di gravi contraddizioni; più coerente è al riguardo Bahnsen che nega ogni razionalità e finalismo al mondo [pp. 215-217]). 65 E. Pfleiderer 1875, p. 15 (sostiene anche che in quest'ottica il pessimismo va valutato «ottimisticamente»); Martensen 1871, voi. Ili, pp. 230-270 (il pessimismo è una concezione del mondo migliore dell'ottimismo perché mette in risalto le contraddi­ zioni fra la realtà e l'ideale). Hans Lassen Martensen (1808-1884), teologo e vescovo danese, fu un esponente della teologia della mediazione ed è noto come avversario di Kierkegaard. 66 R. Pfleiderer 1881, p. 302; Rehmke 1876, pp. 36-39 (quest'autore - almeno nello scritto qui citato - sostiene anche che il pessimismo non ha mai posto il piacere come principio dell'agire umano ed anzi si è sforzato con ogni mezzo di mostrare l'as­ surdità di una tale prospettiva. Ha poi cercato di indicare dei balsami contro la sofferen­ za e ha mostrato il valore dell'impegno morale). 67 E. Fischer 1880, pp. 30-33; cfr. anche Dippel 1884, p. 90 s.

18. L'ETICA DEL PESSIMISMO

1. IL NESSO FRA ETICA E FELICITÀ.

Si è visto come per Hartmann il contributo più importante recato all'etica dal pessimismo consista nell'aiuto che esso offre al superamento dell'egoismo. È proprio questo stretto legame che vien posto fra pessimi­ smo e negazione dell'egoismo - visto come presupposto della morale - a richiamare l'interesse degli avversali di Hartmann. La critica si sforza in primo luogo di mostrare che lo stesso Hartmann contraddice questo assunto, giacché paradossalmente la felicità e il piacere, considerati immorali per l'individuo in quanto legati all'egoismo, vengono non solo considerati legittimi quando riferiti all'umanità nel suo complesso (principio morale del socialeudemonismo) (Kirchmann 1879, p. 32), ma addirittura riproposti, seppure nella forma dell'eudemonismo negativo, come fini ultimi della realtà, come i « valori » cui l'Assoluto subordina l'intero processo cosmico 1 . Questa posizione, agli occhi di Dorner, è d'al­ tra parte indicativa dell'impostazione complessiva della filosofia di Hart1 Sommer 1879, p. 388; R. Pfleiderer 1881, p. 393; Christ 1882, p. 183; Meyer 1883, p. 210; Stange 1892, p. 62. Questa obiezione non tiene per valida la tesi più volte ribadita da Hartmann e dai suoi discepoli secondo cui l'Assoluto non è né morale né immorale, ma sovramorale e come tale può essere il fine della moralità (cfr. ad es. Plùmacher 1888, p. 256). Parimenti questi autori non tengono conto del graduale distacco che Hartmann a partire alla PSB viene sviluppando fra l'eudemonologia dell'Assoluto e l'etica. Ciò però comporta che la condanna dell'egoismo da parte di Hartmann - che nella Filosofia dell'inconscio si basa essenzialmente sul fatto che l'egoismo non consente all'uomo di raggiungere ciò che promette, ovvero la felicità - diviene una condanna di principio, il che, per altra via, rende problematico il fatto che l'Assoluto abbia come fine la sua felicità individuale.

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mann (ma anche di Schopenhauer): l'assolutizzazione della ricerca del pia­ cere è spinta tanto avanti da investire lo stesso Assoluto, che, attraverso una corruzione del teismo cristiano, viene rappresentato come il prototipo dell'individuo desiderante 2 . A questa obiezione se ne aggiunge un'altra che si basa sull'incerto statuto che l'individuo possiede all'interno del « monismo concreto ». Come osserva ancora Dorner, esso in alcuni casi è inteso come un'entità pienamente autonoma rispetto all'Assoluto, in altri è considerato sempli­ cemente fenomeno (qui non importa se soggettivo od oggettivo) e quindi è identificato con l'Assoluto stesso. Il superamento dell'egoismo in Hartmann si regge solo se si considerano conciliabili questi due significati - il che è impossibile; se invece - coerentemente - se ne sceglie uno, si va incontro a difficoltà irresolubili. Infatti se l'individuo è realmente consustanziale con l'Assoluto, non si da autentico superamento dell'egoismo, perché l'impegno per il piacere e la felicità dell'Assoluto è un impegno per il proprio piacere e la propria felicità: semplicemente si rinuncia al piacere immediato e fenomenico (che fra l'altro si riconosce irraggiungibile) 3 in vista di un piacere maggiore - o di un dolore minore. Lo stesso discorso vale per l'altruismo che il monismo concreto dovrebbe fondare: anche qui è improprio parlare di un vero altru­ ismo, perché esso è tale quando ha luogo fra persone veramente diverse ed autonome: in Hartmann invece, di nuovo, il bene che si fa ad un'altra persona è in realtà un bene che si fa a se stessi 4 . Il discorso può anche essere paradossalmente rovesciato: se si intende per egoismo l'agire finaliz2 Dorner 1881, p. 47. Dorner rileva anche (p. 63) che in Hartmann manca una determinazione assoluta del bene e del male morale, tanto è vero che ciò che è male per l'individuo (la ricerca della felicità) è invece bene per l'Assoluto. Golther 1878, p. 134 s., accusa in modo ancor più radicale Hartmann di aver stravolto interamente il valore della moralità subordinandola alla felicità dell'Assoluto. 3 Lasson, in Kirchmann 1879, p. 70, osserva in proposito che la rinuncia alla ricerca del piacere sulla base - pessimistica - della sua irraggiungibilità ricorda la favola della volpe e l'uva e quindi non ha in sé niente di morale; cfr. anche Sommer 1879, p. 378, che paragona questa rinuncia al digiuno « scelto » da una persona che ha lo stoma­ co in disordine e Voigt 1889, p. 29, che sottolinea come la rinuncia alla felicità non possa essere considerata da Hartmann un grande sacrificio, se davvero essa è cosa vana ed inconsistente. 4 Dorner 1881, pp. 53-56; per quanto riguarda la critica dell'altruismo cfr. anche Meyer 1883, p. 210; Sommer 1883, p. 125 (insiste particolarmente sul fatto che l'amore - cui Hartmann attribuisce molta importanza - è veramente tale solo quando fra gli individui sussiste una vera alterila; in caso contrario si ha sempre a che fare con un criptoegoismo).

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zato all'interesse dell'individuo e poi si sostiene una metafisica in cui indi­ vidui in senso stretto non esistono, si deve concludere che non esiste nep­ pure l'egoismo. Questa tesi è sviluppata da R. Pfleiderer, E. Pfleiderer e Schùz, che tuttavia, secondo le loro specifiche prospettive etiche, preferi­ scono parlare di personalità piuttosto che d'individualità 5 . Se si sostiene invece l'esistenza di una reale alterila fra l'individuo e l'Assoluto, almeno nel senso che, una volta negata la sopravvivenza del­ l'anima, non sussista una continuità di qualsiasi tipo fra la sensibilità del­ l'individuo e quella dell'Assoluto (cosa che Hartmann ammette senz'altro), viene a cadere ogni motivo dell'impegno dell'individuo in favore dell'Asso­ luto e, una volta riconosciuta nella felicità negativa derivante dall'assenza di dolore l'unico fine raggiungibile, non esistono motivi plausibili per cui l'individuo non debba raggiungere tale fine nel modo più comodo ed im­ mediato, cioè attraverso il suicidio 6. In alternativa la morale di Hartmann potrebbe configurarsi come un edonismo senza limiti e senza regole 7 . Queste osservazioni conducono ad una delle critiche più insistente­ mente rivolte all'etica di Hartmann: la sua incapacità di motivare efficace­ mente all'impegno per la redenzione dell'Assoluto. Ma prima di affrontare questo tema è opportuno considerare più nei particolari l'atteggiamento assunto dai critici nei confronti della contrapposizione fra virtù e felicità (vista come di necessità legata all'egoismo). L'opposizione a questa tesi si sviluppa in due direzioni opposte, se­ condo che si sostenga la non necessaria immoralità dell'egoismo, oppure si affermi la necessaria presenza di una componente eudemonistica nella moralità. Alla prima linea di pensiero appartengono gli hegeliani Volkelt e Lasson, i quali considerano eccessiva la condanna dell'egoismo, giacché la ricerca della soddisfazione individuale non sempre è in contrasto con l'in­ teresse del tutto ed anzi una certa dose di egoismo deve essere mantenuta 5 E. Pfleiderer 1875, p. 59 s.; R. Pfleiderer 1881, p. 347 (questo autore sostiene coerentemente che neppure si può parlare in Hartmann di un egoismo dell'Assoluto, perché anch'esso manca di personalità); Schùz 1884, pp. 65-68. 6 Ribbeck 1885, p. 279; Sommer 1883, p 160; Voigt 1889, p. 31; Stange 1892, p. 60 s.; Ch. Wirth 1893, p. 37 (anche chi si dedica al progresso ha del resto davanti a sé come fine ideale un suicidio di massa). Cfr. anche Rehmke 1882, pp. 77 e 95, il quale sostiene che anche nell'ottica panteistica di Hartmann, secondo cui l'Assoluto coincide con gli individui e sente piacere e dolore attraverso di essi, non v'è ragione per cui una parte dell'Assoluto - l'individuo - debba sacrificarsi, sopportando dolori altrimenti evi­ tabili, in favore di un'altra parte. 7 Golther 1878, p. 180; Sommer 1883, p. 148; Volkelt 1886b, p. 244 s.; Voigt 1889, p. 31.

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anche nella dedizione all'Assoluto (Volkelt 1873, p. 306; Lasson, in Kirchmann 1879, p. 70). Anche per Kirchmann il rinnegamento di se stessi non va spinto oltre certi limiti perché porterebbe a conseguenze paradossali: ad esempio in una società di individui che hanno rinnegato completamente il proprio egoismo, ognuno donerebbe i propri beni al prossimo, ma questi stessi beni paradossalmente gli sarebbero restituiti in dono (Kirchmann 1879, pp. 7-9). Insomma - per dirla con Voigt - la cura dell'egoismo appa­ re in Hartmann troppo radicale, giacché si conclude con la morte dell'am­ malato, l'io, la personalità (Voigt 1889, p. 29). Gli autori che sviluppano la seconda linea di pensiero - quella che sostiene la presenza di una componente eudemonistica nell'etica - si diffe­ renziano fra loro secondo che considerino tale componente omogenea al piacere sensibile o qualitativamente diversa da esso. Fra i sostenitori di quest'ultima posizione vanno menzionati anzitutto E. Pfleiderer e Sommer, accomunati dalla loro vicinanza alla filosofia di Lotze. La posizione di questi due autori va considerata tenendo presente le loro concezioni psicologiche, cui s'è fatto riferimento in precedenza. Si è visto che tanto Pfleiderer quanto Sommer, pur riconoscendo che ogni vo­ lizione - anche quella morale - da luogo a Lust od a Unlust, sostengono che il sentimento, in quanto fonte dei valori che si esprimono nella coscien­ za, precede ed è indipendente dalla volontà. L'errore del pessimismo - che conduce alla scissione fra morale e felicità - consiste nel condannare indi­ scriminatamente ogni eudemonismo, senza notare che il « genere » eude­ monismo in sé è moralmente indifferente e che il suo valore morale è de­ ciso dai differenti fini cui è indirizzato il volere; esistono così diverse « spe­ cie » di eudemonismo, diversità che il pessimismo non considera per non mettere in discussione il suo dogma dell'omogeneità qualitativa dei piaceri (E. Pfleiderer 1875, p. 66 s.; Sommer 1879, p. 377 s.). Eppure, secondo Sommer, lo stesso Hartmann ammette che alla base anche dei comporta­ menti morali più elevati vi siano specifici Triebe, il che implica che l'agire morale soddisfi la volontà e quindi produca nell'uomo Wohl 8. In positivo, secondo Pfleiderer, v'è nell'uomo una tendenza a soddisfare la parte ego­ istica della volontà (che produce Lust in senso stretto), ma anche una

8 Sommer 1879, p. 380. Dorner 1881, p. 65, che in generale si dichiara d'accordo con Pfleiderer e Rehmke, sostiene che l'etica di Hartmann in ultima analisi può essere considerata un naturalismo: l'agire etico si risolve semplicemente nell'esplicazione delle tendenze naturalmente presenti in ciascuno. Questa sarebbe la ragione di fondo per cui Hartmann non può accettare una differenza qualitativa fra i vari tipi di piacere.

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tendenza rivolta all'universale ed a Dio. Essa costituisce lo specifico morale e si esplica principalmente nell'amore e nella devozione (Treue), siano essi rivolti alla donna, alla famiglia, alla patria, allo stato (E. Pfleiderer 1875, pp. 68-77). La condanna dell'eudemonismo non può neppure fondarsi sulla con­ trapposizione fra impegno in favore del generale (altruismo) e l'impegno in favore di se stessi (egoismo). Un tale modo di vedere secondo Pfleiderer deriva da quella che si potrebbe chiamare una concezione atomistica del­ l'uomo; in realtà l'uomo si sviluppa e si forma in interscambio con gli altri, ciascuno dei quali quindi al tempo stesso è fine e mezzo. Di qui il legame inscindibile fra Selbstarbeit e Weltarbeit e la loro pratica equivalenza (E. Pfleiderer 1875, pp. 78-80). Sommer indica invece nella Bestimmung del­ l'uomo il concetto che consente di unificare le tendenze individualistiche con quelle rivolte al prossimo,ed a Dio: essa determina l'equilibrio che deve venirsi a creare nell'uomo e il cui raggiungimento è il « bene supre­ mo » (Sommer 1880, p. 481; 1883, pp. 14 s. e 18 s.). Tanto Pfleiderer quanto Sommer sono inoltre del tutto contrari ad una subordinazione completa dell'individuo al tutto; compito morale es­ senziale dell'uomo è lo sviluppo della personalità, che si compie attraverso il perfezionamento del carattere. Questo compito trova giustificazione nel­ la corrispondenza fra la personalità dell'uomo e la personalità divina e si compie nella riaffermazione dell'immortalità dell'anima. In tale ottica i due autori pongono nella religione un punto di riferimento fondamentale dell'etica (Pfleiderer definisce la religione « il più grande bene del mon­ do») 9. Pfleiderer e Sommer avvalorano le loro posizioni offrendo una speci­ fica interpretazione della morale di Kant, alternativa a quella sviluppata da Hartmann: è vero che Kant sottovaluta l'importanza del sentimento e si oppone all'eudemonismo, ma ciò che egli intende combattere è in realtà solo l'eudemonismo sensistico settecentesco; Kant è ben lungi dal pensare che la morale non sia un bene per l'uomo o che essa sia in antitesi ad ogni 9 E. Pfleiderer 1875, pp. 92-107; Sommer 1879, p. 387; 1883, pp. 26 s. e 143. In Pfleiderer il riferimento al discorso religioso è tuttavia esplicitamente presentato come accessorio alla confutazione della morale del pessimismo. In questo contesto Pfleiderer fra l'altro critica il contributo dato da Hartmann al Kulturkampf' - i cui fini generali Pfleiderer, da buon protestante e da leale cittadino, mostra pure di condividere piena­ mente: il rifiuto del cristianesimo portato avanti da Hartmann, oltre che in sé inaccetta­ bile, rischia infatti di urtare molte persone e quindi di favorire oggettivamente i « nemici dello stato ».

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forma di felicità. Certo non si agisce moralmente per essere felici, ma l'agi­ re morale è sempre accompagnato in qualche misura dalla felicità 10. Vicino a questi pensatori è anche Rehmke, il quale afferma che Hartmann è incorso in un errore fondamentale nel porre in antitesi Lust e morale e quindi nell'indicare come condizione della morale il rinnegamento di se stessi. Non ogni piacere deriva infatti da un atteggiamento egoistico, e, dall'altra parte, un volere che non cerchi la sua soddisfazione (e quindi il piacere o la felicità) non è pensabile. Rehmke identifica la felicità con la realizzazione della propria personalità. Per giungere a questo scopo, si aprono all'uomo due vie: egli può individuare la sua personalità nell'agire egoistico - ma tale via, come ha ben mostrato il pessimismo, è destinata al fallimento -, oppure può aprirsi alla religione e individuare il tratto caratteristico della personalità nel suo esser figlio di Dio. Se sceglie questa secon­ da possibilità - ma per giungere a questo risultato sono necessarie la rive­ lazione e la grazia divina -, egli si pone nelle condizioni di realizzare la sua personalità e quindi di essere felice. Anche se nella vita terrena la beatitu­ dine non è mai completa, la felicità cessa di essere una speranza e diviene una realtà. Solo così l'uomo è in grado di contrapporsi alle tendenze egoistiche, che non potrebbero essere mai sconfitte se egli non fosse già felice, e quindi, in un certo senso, di rinnegare se stesso: egli non vuole più la felicità ma pratica un volere felice (morale). Si giunge così alla conclusione che la felicità non è il risultato dell'agire morale, ma la sua condizione (Rehmke 1882, pp. 114-124). Morale e felicità sono dunque intrinsecamen­ te collegati; lo stesso Kant, d'altra parte, pur nel suo rigorismo, non avrebbe concordato con Hartmann nel ritenere inconciliabili virtù e felicità 11 .

10 Sommer 1880, p. 483 s.; E. Pfleiderer 1875, p. 87 s. Secondo Pfleiderer l'ostilità di Kant ad un impiego del sentimento nell'ambito della morale deriva dal non aver riconosciuto alla « sensibilità » pratica (che valuta il bene e il male) quei caratteri di universalità da Kant volentieri attribuiti alla « sensibilità » teoretica (che valuta il vero e il falso) (E. Pfleiderer 1880, p. 391 s.). Weckesser 1885, p. 68, sempre nell'ottica di una riaffermazione del valore eudemonologico dell'etica, reinterpreta il contrasto fra tenden­ ze egoistiche e tendenze volte al generale come contrasto fra volontà in sé e volontà razionale, quest'ultima rivolta ai sicuri valori della moralità, sempre disponibili e quindi sempre in grado di rendere l'uomo felice. Abbastanza simile è la posizione di O. Pflei­ derer 1879, p. 83, che sostiene quanto meno la legittimità morale di cercare la propria felicità in Dio e parla di un « rigorismo pessimistico ». 11 Ibid., pp. 97-109 s. Anche Gass 1876, p. 239, rileva nella mancanza della con­ siderazione del valore della personalità uno dei limiti fondamentali della morale di Hartmann (Hartmann significativamente non considera i doveri verso se stessi come valori autonomi). Sostengono l'esistenza di un legame intrinseco fra morale e felicità

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Fra coloro che in modo più incisivo difendono la legittimità di una prospettiva eudemonistica in quanto tale, un posto di rilievo è occupato da Hartsen, benché i suoi scritti appaiono tutti prima della pubblicazione della Fenomenologia (ma il suo Die Moral des Pessimismus polemizza contro Taubert) 12 . Hartsen prende le mosse da un'antropologia che pone senz'altro il fine dell'agire dell'uomo - l'unico fine pensabile - nella ricerca della felicità. Questa tesi può essere facilmente difesa dagli attacchi di quanti credono di poter individuare nell'esperienza comportamenti che la contraddicono: in particolare si può mostrare che anche chi si sacrifica, lo fa in vista di un bene maggiore o per evitare un male peggiore. Ciò vale perfino nel caso-limite di chi sacrifica la propria vita: a parte coloro che credono nell'aldilà, anche chi affronta la morte senza una prospettiva tra­ scendente, lo fa perché considera un bene maggiore del continuare a vivere l'idea della lode che il suo comportamento riceverà, la soddisfazione del portare un contributo importante ad un proprio progetto o semplicemente perché la morte, in determinate circostanze, gli sembra un male minore rispetto alla prosecuzione della vita 13 . Hartsen precisa d'altra parte che la felicità non va in nessun modo identificata con l'egoismo, termine con il quale si deve intendere l'agire finalizzato ad un proprio interesse immediato: vi sono persone che sono felici solo nell'essere altruisti. Data l'universalità della tendenza alla felicità

senza peraltro sviluppare una critica analitica delle tesi di Hartmann anche Golther 1878, pp. 134-144 e Trautz 1876, p. 27; Dorner 1881, p. 65, e 1914, p. 132, dichiara di concordare pienamente con E. Pfleiderer, Rehmke e Golther (la felicità accompagna sempre la moralità). Haym 1873, p. 270, afferma da parte sua che il rifiuto del valore eudemonologico dell'etica dipende da una separazione di tipo stoico fra ragione e sen­ sibilità, le cui inaccettabili conseguenze mostrano a sufficienza come l'istinto non vada negato ma perfezionato. 12 Friedrich Antonius Hartsen (1838-1877), fu un medico olandese, autore di numerose opere in tedesco, olandese e francese. Genericamente influenzato da Herbart, i suoi scritti hanno un'impostazione empiristica ed antispeculativa che non impedisce ad Hartsen di dichiarare la sua vicinanza al cristianesimo (fra l'altro egli pubblica numerose recensioni sul « Theologisches Literaturblatt »). Oltre allo scritto che qui interessa mag­ giormente, Hartsen 1874b, vanno ricordati Hartsen 1869, 1874 e 1874c. La prima e l'ultima opera, come si è visto, sono citate con favore da Vaihinger 1876, p. 231. 13 Hartsen 1874b, pp. 1-4. Hartsen vede un esempio classico di questo tipo di comportamento nel martire che affronta la morte per non rinnegare la sua fede: anche se egli soffre pene terribili nel momento del supplizio, non v'è da dubitare che egli, nel restare fedele al suo credo, abbia di mira la felicità. Ciò non esclude d'altra parte che in non rari casi l'individuo compia un errore di valutazione e che quindi ciò che egli intraprende nella speranza della felicità gli procuri di fatto solo dolore.

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è assurdo considerarla come qualcosa d'immorale. La distinzione fra ciò che è morale od -immorale - fra ciò che è egoistico o altruistico - va ricer­ cata quindi ad un altro livello: Hartsen afferma che il parametro in base al quale un determinato comportamento è lodato o biasimato - è considerato morale o immorale - consiste nella capacità di tale comportamento di ac­ crescere o diminuire la felicità altrui (ibid., pp. 5-9). Su queste tesi Hartsen fonda la sua critica all'antieudemonismo della morale del pessimismo, nella forma sviluppata dalla Taubert. Il suo primo errore consiste nel considerare VUnangenehmes (lo sgradito, lo spiacevole) come il carattere essenziale della morale. Dopo aver definito la virtù come « la suscettibilità (Empfànglichkeit) ad avere in certe circostanze un buon desiderio » e il sacrificio come il sentimento di dolore che deriva dalla mancata soddisfazione di un desiderio, Hartsen osserva che l'esplicazione del desiderio « virtuoso » non richiede di per sé la presenza - e quindi il rinnegamento - di desideri opposti; anzi, quanto più una persona agi­ sce moralmente senza contrasti intcriori, tanto più essa è amabile e moral­ mente apprezzabile. Inoltre il rinnegamento di se stessi non è necessaria­ mente morale, giacché esso può avvenire in vista di un desiderio non accettabile - Hartsen fa l'esempio di coloro che sacrificano tutto pur di compiere una vendetta. La conclusione è quindi che vi sono sacrifici senza virtù e virtù senza sacrifici e che quindi il sacrificio non è affatto essenziale alla morale 14 . La validità di questa tesi è d'altra parte confermata dai risultati para­ dossali cui si giunge se si sostiene la tesi opposta: si dovrebbe infatti am­ mettere che si danno grandi virtù solo là dove vi sono grandi vizi, che chi è naturalmente virtuoso dovrebbe imparare il vizio per poter rinnegare se stesso e divenire morale o addirittura che dovrebbe agire viziosamente per poter « sacrificare » le sue tendenze naturali (ibid., pp. 21-24). Parimenti inaccettabile è la tesi che l'agire morale debba prescindere da qualsiasi ricompensa. Intanto l'agire morale, in quanto agire finalistico, ottiene sempre una ricompensa nel raggiungimento dei vari fini che si propone. D'altra parte se si prendesse sul serio le posizioni della Taubert, per favorire la morale si dovrebbe cessare di mostrarsi grati per i benefici ricevuti e ci si dovrebbe astenere dall'aiutare il prossimo, per evitare di accrescere la felicità dei benefattori e dei beneficiati. Ciò non porterebbe 14 Ibid., pp. 9-19; naturalmente Hartsen non nega che in molti casi il sacrificio sia inevitabilmente richiesto dall'agire morale; egli tiene tuttavia a sottolineare è che esso può essere mezzo - e mezzo necessario - ma in nessun caso fine.

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affatto ad una morale più elevata, ma solo al « più orribile egoismo ». In­ fine lo stesso sacrificio non sarebbe più in alcun modo motivato, in quanto non ci si dovrebbe sacrificare per una ricompensa né, per le ragioni sopra indicate, sarebbe lecito sacrificarsi seguendo le proprie inclinazioni (ibid. , pp. 27-34). Neppure si potrebbe dare un senso credibile al nostro sacrifi­ carsi per il tutto, perché il tutto è la somma delle parti e se nessuna di esse è meritevole di sacrificio, tanto di meno lo potrebbe essere il tutto. L'unica possibilità sarebbe quella d'immaginare la presenza all'interno del tutto di individui « viziosi » (che cercano la propria felicità), nel qual caso tuttavia si giungerebbe al paradosso che il fine della morale sarebbe quello di favo­ rire l'immoralità (ibid., pp. 35-37). La posizione di Horwicz può essere collocata a mezza strada fra Sommer ed E. Pfleiderer da una parte e Hartsen dall'altra: egli infatti non contrappone uno specifico piacere o felicità morale al piacere sensibile, ma neppure considera i sentimenti come un tutto omogeneo, perché a suo avviso esiste fra di essi una gerarchla che, come si è visto, rende fra l'altro impossibile una loro comparazione. Per quanto riguarda in particolare il discorso etico, egli si contrappone frontalmente a Kant - e tramite esso ad Hartmann - nel sostenere un legame necessario fra bene morale e felicità: solo se il bene oggettivo - Horwicz ritiene che l'etica deve necessariamente far riferimento alla metafisica che, nel suo caso, non sembra discostarsi molto da un tradizionale teismo - è percepito anche soggettivamente attra­ verso il sentimento come bene individuale, come qualcosa che ci rende felici, è possibile trovare dei motivi validi per l'agire etico. Di conseguenza « il vero bene è anche ciò che porta vero piacere (das wahrhaft Lustbringendé] » (Horwicz 1880, pp. 276 e 279-283). Anche in questo caso una posizione particolare è occupata da Hellenbach, che non condivide affatto la tesi di Schopenhauer ed Hartmann se­ condo cui la morale può sorgere solo dal superamento dell'egoismo. Per Hellenbach l'agire non può essere che affermazione della volontà e come tale necessariamente egoistico. Ma egli distingue fra le varie forme di ego­ ismo e considera morale solo quello « che non fa il bene per avere una ricompensa, ma perché gli piace » (Hellenbach 1878b, voi. Ili, p. 120 s.). Il bene è poi senz'altro identificato con il bene del metaorganismo, il suo perfezionamento, e questo può condurre in certi casi alla rinuncia dei beni immediati caratteristici dell'individuo fenomenico: il « carattere intelligi­ bile » dell'individuo - costituito dalle disposizioni capitalizzate nelle pre­ cedenti incarnazioni - infatti si impone all'individuo empirico come una sorta di sollen o, più semplicemente, nelle inclinazioni che l'individuo trova

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in sé e delle quali, in quanto individuo trascendentale, è responsabile 15 . Queste critiche non potevano naturalmente non suscitare delle repli­ che da parte dei pessimisti, cosa che puntualmente avviene tanto in Hartmann quanto in Plumacher. In primo luogo la Plumacher, polemizzando con Sommer e Kirchmann, si sforza di precisare i limiti della condanna dell'egoismo e dell'eu­ demonismo da parte di Hartmann. Essa afferma l'esistenza di un egoismo « moralmente indifferente » o naturale che si esplica nel godimento di quei piaceri immediati che possono essere fruiti senza recar danno al prossimo (godimento della natura, dell'arte, piaceri derivanti dall'amicizia o dal­ l'amore, in generale l'istinto di autoconservazione). Tale egoismo non è condannato dal pessimismo - ben si intende quello di Hartmann - giacché esso non predica un'assurda ascesi 16. Al contrario, secondo la filosofia di Hartmann, l'egoismo è immorale nella misura in cui diviene principio, in quanto « con piena coscienza » pone come fine dell'agire la sistematica ricerca del proprio interesse e della propria felicità individuali (ibid., pp. 255 s. e 258 s.). L'agire che deriva da questo egoismo, anche quando da luogo ad azioni apparentemente morali, è senz'altro immorale. Esso, come si è visto, può assumere forme assai complesse e dar luogo perfino alla religione ma, secondo Hartmann, « in questo modo religione e morale perdono il loro carattere di idealismo e vengono degradate a una forma di eudemonismo raffinato rispetto all'ego­ ismo comune, ovvero vengono annichilite nella loro essenza di religione e di morale e vengono sostituite dalla pseudo-religione e dalla pseudo-mora­ le egoistiche » (ZGB, p. 168). Questa « difesa » dell'egoismo in sostanza non fa che illustrare la so­ stanziale concordanza della posizione di Hartmann con tutte le obiezioni rivolte all'ascetismo (Schopenhauer); d'altra parte nessuna delle critiche sopra considerate considera l'egoismo in senso stretto come conciliabile con la morale. Semmai si può notare come Plumacher includa nella catego­ ria del « moralmente indifferente » non pochi aspetti della vita dell'uomo 15 Ibid., voi. II, p. 245 s. Hellenbach recupera, seppure in una particolare forma, la teoria schopenhaueriana della libertà intelligibile: qui il carattere dell'individuo non è deciso da un atto extratemporale della volontà universale, ma, oltre che dalle innate disposizioni proprie di ciascun individuo, dalle scelte morali compiute nelle precedenti incarnazioni che si consolidano nel metaorganismo (ibid., voi. Ili, p. 121 s.). 16 Plumacher 1888, p. 256. Hartmann peraltro in alcuni casi sembra sostenere che sia moralmente preferibile - nell'ottica del rinnegamento di se stessi - esercitarsi a com­ battere e dominare anche questo « egoismo ».

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(contemplazione della natura, piaceri derivanti dall'amicizia etc.) che auto­ ri come Pfleiderer, Sommer e Rehmke appaiono propensi a considerare come intrinsecamente morali, in quanto inerenti alle essenziali determi­ nazioni della personalità. Ma si è visto che Hartmann (e sulle sue orme Plùmacher) non considerano come morali quelli che nella terminologia tradizionale sono chiamati doveri verso se stessi. Più complesso è il discorso concernente l'eudemonismo, attorno al quale ruotano gran parte delle critiche sopra ricordate. La questione è discussa da Hartmann in un saggio in cui tratta dell'eudemonismo di Dòring, autore che peraltro non aveva polemizzato direttamente con que­ sto aspetto della morale pessimistica. Hartmann nota anzitutto che la tesi secondo cui nella coscienza che guida l'agire dell'uomo sia sempre presente la rappresentazione di un piacere da raggiungere o di un dolore da allon­ tanare o fuggire non è confermata immediatamente dall'esperienza. Chi vuoi sostenere la validità universale di questa posizione deve allora fare riferimento ad un piacere inconscio, la cui esistenza deve essere dimostrata riferendosi alla dinamica del processo del volere; e si sa che ad esso concor­ rono la volontà, per essenza inconoscibile, e le rappresentazioni inconsce, che si trovano anch'esse al di fuori della coscienza: Hartmann, con Schopenhauer, ricorda che i reali motivi di un'azione possono essere del tutto diversi dai motivi consci (Hartmann 1890b, pp. 108 e 116). Hartmann da parte sua non si sottrae all'onere di una spiegazione « speculativa » del processo di motivazione, spiegazione che dovrebbe mostrare in modo definitivo l'insostenibilità delle tesi eudemonistiche. Dopo una serie di osservazioni particolari che però non sembrano in grado di risolvere in modo definitivo la questione 17 , egli ricorda che ogni motivo diviene efficace nella misura in cui mette in moto un corrispondente Trieb della volontà; poiché di solito lo stesso motivo agisce contemporaneamente su diverse tendenze della volontà (ad esempio - ma l'esempio non è di 17 Hartmann afferma ad esempio che in quanto il piacere e il dolore conseguono alla volizione e non la precedono, essi non possono esserne i motivi (questa argomenta­ zione, se intesa alla lettera, garantisce a priori la possibilità di un agire non egoistico, ma ha il difetto di rendere impossibile anche l'agire egoistico, inteso come agire che ha per fine il piacere) (Hartmann 1890b, p. 114 s.). In precedenza Hartmann aveva sostenuto che il motivo è sempre una rappresentazione (eventualmente la rappresentazione di un piacere o di un dolore) e non un sentimento, il che sembra consentire di affermare l'indipendenza di principio dello Streben della volontà da piacere e dolore, ma sembra implicitamente attribuire alla volontà la capacità di reagire ad una pura rappresentazio­ ne intellettuale, il che pare essere più specifico dell'intelletto e della ragione che della volontà (ibid., p. Ili s.).

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Hartmann - l'incontro con un mendicante muove la tendenza alla compas­ sione all'elemosina, la tendenza all'egoismo a proseguire per la propria stra­ da), si deve pensare che la decisione finale sia il risultato della « lotta » fra queste varie tendenze, lotta da cui esce vincitrice la tendenza (o le tendenze) più forte, che garantisce « il massimo relativo di soddisfazione possibile ed un minimo di non-soddisfazione » della volontà. Hartmann dichiara a chia­ re lettere che la conseguenza diretta delle esplicazioni delle tendenze egoistiche e immorali è la stessa di quella che deriva da tendenze morali, vale a dire la soddisfazione della volontà, cosicché l'altruista è tanto soddisfatto quanto l'egoista. Le conseguenze indirette dei due tipi di azione - sulla propria vita, sul destino del mondo, sul proprio carattere -, sono però op­ poste, nella misura in cui l'agire etico realizza valori morali oggettivi 18. Apparentemente, questa descrizione del processo della motivazione sembra confermare pienamente le tesi degli awersari di Hartmann: ogni agire è sempre rivolto al massimo di piacere e di felicità, per quanto diversi possano essere i suoi contenuti. Per Hartmann al contrario esso prova il contrario, cioè la possibilità di una motivazione morale che prescinda del tutto dal piacere e dalla felicità. Il paradosso si spiega tenendo conto della peculiare impostazione che Hartmann da al problema morale. Si ricorderà che nella Fenomenologia l'accento era programmaticamente posto sulla coscienza morale, ovvero sui principi che essa elabora per giudicare del valore delle azioni e per motivare la volontà: il criterio per discriminare fra il morale e l'immorale era costituito dal principio (dal motivo) che guidava l'agire dell'uomo. Se allora si afferma che la volontà può essere mossa da motivi autenticamente morali (non egoistici), risulta garantita la possibilità di un agire corrispondente ai principi morali, per quanto l'efficacia di tali principi riposi sulla capacità della volontà di trovare in essi soddisfazione, né si può dire che il vero motivo dell'agire della moralità sia la felicità o il piacere, perché, come s'è detto, il criterio della moralità è posto per defi­ nizione nei principi - nei motivi - che governano l'agire. Con questo non tutti i problemi sono risolti. Infatti Hartmann si trova nella necessità di fondare il valore oggettivo dei principi morali senza far 18 Ibid., p. 124 s. Non è molto chiaro per quale ragione Hartmann riconosca l'esi­ stenza di una soddisfazione della volontà nell'agire etico, ma eviti di parlare di piacere (il che sembrerebbe inevitabile, stante che la soddisfazione morale è posta esplicitamen­ te sullo stesso piano della soddisfazione egoistica; egli dice invero che l'uomo morale è più felice, ma precisa subito che la questione, una volta accettato il pessimismo, secondo cui anche l'agire morale da luogo ad un bilancio eudemonologicamente negativo, è in pratica irrilevante).

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riferimento alla volontà, abbandonando completamente il discutibile ma almeno formalmente coerente eudemonismo negativo della filosofia del­ l'inconscio. Ciò comporta inoltre un radicale ridimensionamento della fun­ zione del pessimismo eudemonologico nell'ambito della morale, una linea di pensiero che, già sostanzialmente presente nella Fenomenologia, viene sempre più sviluppata negli scritti successivi 19 . Hartmann peraltro non ri­ prende più il tema di quella che ora appare una fondazione autonoma della morale e, in particolare, di quello che gradualmente assume sempre di più il ruolo di principio supremo della moralità: l'adesione al piano ideologico del mondo a prescindere dal suo fine ultimo. Di fronte al totale silenzio di Hartmann non resta che supporre che egli ricavi la vincolatività di questo principio mediante il tradizionale passaggio dall'essere al dover essere (l'uomo, in quanto si scopre come finalisticamente determinato, deve rea­ lizzare questa sua essenza, senza tener conto di qualsiasi contropartita eudemonologica diretta od indiretta). Questa fondazione risulta tuttavia particolarmente ardua, giacché in Hartmann, se si vuoi prestar fede alle sue rinnovate professioni di monismo, manca una facoltà realmente autonoma dalla volontà - sia essa la ragione o il sentimento - in grado di riconoscere tale valore, al punto che egli, in ogni occasione - si ricordi il singolare Vernunfttrieb -, si sente in dovere di fare riferimento alla volontà. Se non si vuole dar spazio ad una lettura dualistica della filosofia morale di Hartmann, in cui una ragione, del tutto autonoma e indifferente all'eudemonologia, si « servirebbe » in qualche modo della volorìtà per realizzare i suoi fini, si deve necessariamente accentuare la sua componente naturalistica (Dorner): l'uomo agisce moralmente - si sforza di realizzare i fini del cosmo - perché questa è una tendenza naturale della sua volontà, che attraverso la ragione si motiva in tal senso. Anche a non voler tener conto di alcune evidenti difficoltà che derivano da una tale prospettiva 20, è evidente il contrasto di una tale prospettiva con il pathos pessimistico che caratterizza tante pagine dell'opera di Hartmann 21 . 19 Cfr. ad esempio PFG, pp. 102-108, dove Hartmann afferma a chiare lettere che la sua etica non dipende dal pessimismo, né da quello empirico (non si agisce moralmente perché nel mondo v'è più dolore che piacere), né - affermazione particolarmente inte­ ressante - da quello metafisico (non si agisce moralmente perché l'Assoluto è infelice). 20 Ad esempio si potrebbe parlare di un rinnegarsi della volontà solo in senso molto figurato. 21 Anche la Pliimacher ha voluto dare il suo contributo alla discussione; essa, come nel caso dell'egoismo, nota anzitutto che l'eudemonismo non è incondizionata­ mente condannato da Hartmann: esso è sì inaccettabile moralmente quando ha per fine

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2. LA FONDAZIONE METAFISICA DELL'ETICA, L'AUTONOMIA E LA LIBERTÀ.

La critica del ruolo attribuito al piacere ed alla felicità nell'etica ha immediati riflessi sulla valutazione del possibile contributo del pessimismo alla costruzione ed all'esercizio della morale. Parecchi autori riconoscono al pessimismo una funzione importante nell'avviare alla vita morale, ma ciò avviene nella stessa ottica in cui in precedenza i critici d'ispirazione cristia­ na avevano manifestato una valutazione parzialmente positiva del pessimi­ smo come dottrina filosofica generale: il pessimismo empirico non è visto come la dottrina che nega la possibilità di qualsiasi tipo di felicità, bensì come la dottrina che insegna che l'uomo non può trovare la felicità nei piaceri sensibili. Si comprende così come E. Pfleiderer - che si è visto deciso avversario dell'antieudemonismo pessimistico - possa augurare ogni successo al pessimismo, come Rehmke possa giudicare lo stesso pessimi­ smo come una buona « zavorra » ed addirittura come uno dei « pilastri » della morale, apparentemente concordando con le tesi di Hartmann e della Taubert (E. Pfleiderer 1875, p. 107; Rehmke 1882, p. 283). Analogamente Stange vede nel pessimismo un'efficace critica del positivismo e delle dot­ trine etiche che pongono come fine una felicità immanente e Weygoldt

la felicità individuale, ma è legittimo come socialeudemonismo, dove si esprime in com­ portamenti che hanno per fine il bene degli altri, della società, dello stato, dell'umanità (Plùmacher qui - in accordo con gli sviluppi della riflessione di Hartmann - non fa cenno all'eudemonismo cosmico o dell'Assoluto). La sua validità morale dipende dal fatto che soggettivamente ha come condizione il rinnegamento dell'egoismo, e oggettivamente, pur basandosi sull'illusione della possibilità di un accrescimento del livello di felicità dell'umanità, contribuisce indirettamente al proseguimento dello sforzo per l'ele­ vamento della cultura e quindi al piano teleologia) del cosmo (Plùmacher 1888, p. 244 s.). Dopo aver osservato che Hartmann « è uno psicologo troppo fine per irrigidirsi a tal punto nella teoria pessimistica, da negare che la soddisfazione di un volere morale pro­ duca piacere » (ibid., p. 264 s.; da parte sua la Plùmacher riconosce che l'agire morale produce nell'uomo « pace » e « tranquillità » dell'anima, ma aggiunge senza ulteriori spiegazioni che tuttavia ciò « propriamente non è affatto più un piacere »), essa sostiene che se si allarga il concetto di egoismo fino ad includere in esso ogni comportamento, in quanto espressione della mia volontà, viene meno la possibilità di mantenere delle linee di demarcazione fra i principali concetti dell'etica (agire naturale, legale, morale) (ibid., p. 258 s.). La Plùmacher si premura poi di riproporre, allo scopo di mostrare l'impos­ sibilità di indicare nella felicità il fine dell'agire morale, le ragioni in base alle quali Hartmann nella PU aveva sostenuto la negatività del bilancio eudemonologico della morale: al supposto piacere derivante dall'agire morale viene contrapposto il dolore derivante dalla coercizione delle tendenze immorali, quello derivante dal frequente mancato raggiungimento dei nostri fini morali, quello derivante dalla compassione etc. (ibid., pp. 274-278).

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considera la critica alla situazione presente sviluppata dal pessimismo un indiscutibile stimolo all'impegno ed al progresso morale (Stange 1892, p. 69; Weygoldt 1875, p. 143). Altri autori invece, che considerano il significato etico complessivo del pessimismo, giungono a conclusioni opposte: secondo Gass il pessimismo, rifiutando ogni reale positività all'individuo, visto come qualcosa di es­ senzialmente negativo, toglie le basi per ogni discorso morale (Gass 1876, p. 226), mentre secondo Christ la condanna incondizionata di tutti i beni della vita non può che coinvolgere gli stessi ideali etici (Christ 1882, p. 60). Per Sommer infine esso, lungi dal fondare o anche solo dal costituire un pilastro dell'etica (in polemica con Rehmke), è la rovina della morale (Som­ mer 1883, p. 163). Accanto alla questione dell'eudemonismo, tuttavia l'aspetto dell'etica del pessimismo che interessa maggiormente è la sua fondazione metafisica. In generale la critica sembra non prendere troppo sul serio la tesi hartmanniana del carattere induttivo del suo discorso etico; anzi, proprio lo stretto legame che viene individuato fra etica e metafisica è considerato, da un punto di vista formale, come uno dei meriti maggiori di Hartmann 22 . Che poi questa fondazione debba essere considerata riuscita, stante la riconosciuta fragilità della metafisica di Hartmann, praticamente nessuno è disposto a riconoscerlo. Naturalmente anche in questo caso al centro della discussione sta la caratterizzazione dell'Assoluto come inconscio; per Ebrard e Knauer la mancanza di coscienza - indispensabile per sanzionare il bene e il male, il morale e l'immorale - rende impossibile la fondazione di qualsiasi etica. Per Sommer invece, che si è visto critico severo della concezione della religione di Hartmann, l'assenza di coscienza e personalità rende impossibile fare oggetto l'Assoluto di un sentimento morale, giacché esso crea l'uomo solo per farlo soffrire. Secondo Golther, benché nella dedizione all'Assoluto Hartmann sia d'accordo con il teismo - solo che qui al posto di un Dio personale v'è un « nebbioso inconscio » -, la mancanza della coscienza di una finalità nell'Assoluto rende di fatto irrealizzabile il precetto fonda22 Lasson 1876, p. 63; Pfleiderer 1881, p. 304 (quest'autore apprezza anche il riferimento alla religione presente nell'etica di Hartmann); Stange 1892, p. 51 (Stange giudica però che, data la debolezza del discorso metafisico, sia piuttosto l'etica a fondare la metafisica). In deciso contrasto con queste valutazioni è invece Sommer 1879, p. 384, che considera la fondazione metafisica un difetto fondamentale della posizione di Hart­ mann, difetto che lo ricondurrebbe alla criticata eteronomia. Per fondazione metafisica tutti questi autori intendono il collegamento dell'etica con un finalismo universale.

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mentale dell'etica di Hartmann: è difficile pensare di far propri i fini del­ l'inconscio se esso non ne ha 23 . Il tema della carente fondazione della te­ leologia è ripreso anche da Carrière, il quale ribadisce che il finalismo universale è pensabile solo in presenza di un Assoluto dotato di coscienza e da Sommer, secondo cui Hartmann sviluppa un finalismo solo « forma­ le », quale può solo essere quello che non si fonda su una personalità 24 . Quanto poi al vero e proprio fine ultimo della teleologia cosmica - la criticatissima dottrina della negazione della volontà - esso pare poco affi­ dabile anzitutto per il suo carattere ipotetico, ammesso dallo stesso Hart­ mann: se infatti il passaggio dal volere al non volere è solo un'ipotesi, altrettanto ipotetica risulterà la richiesta all'individuo di dedicarsi alla sal­ vezza dell'Assoluto, con grave danno per la solidità dell'intera costruzione etica (Golther 1878, p. 168). Infatti, nonostante le affermazioni contrarie di Hartmann, questa dottrina - questa dubbia possibilità del passaggio al non essere - è indispensabile all'etica: a parere di Ribbeck ad esempio non è possibile senza di essa legittimare l'impegno per il progresso culturale, che, come lo stesso Hartmann ammette, per sua essenza produce un accresci­ mento di dolore (Ribbeck 1885, p. 280). Da questo punto di vista, basta dimostrare l'insostenibilità della tesi della negazione del volere per giunge­ re a giudizi distruttivi sull'intera filosofia morale di Hartmann; è il caso di Rehmke il quale conclude lapidariamente che la negazione del volere è illusione, il fine ultimo è illusione, l'intero processo cosmico cui dovrebbe dare un contributo essenziale l'impegno morale dell'uomo è illusione (Rehmke 1882, p. 82). Ma anche dato per buono il principio della negazione del volere, esso non pare in grado di fondare adeguatamente il discorso morale di Hart­ mann. Stòckl ritiene che sia impensabile richiedere all'uomo di far proprio questo fine, giacché non di un fine si tratta, ma del nulla, del toglimento di ogni ordine morale e razionale (Stòckl 1874, p. 48 s.). Anche per R. Pfleiderer il porre il fine ultimo della realtà nel nulla significa di fatto dichiarare la bancarotta della morale, la sua incapacità di affermarsi come ordine 23 Ebrard 1873, p. 299; Knauer 1873, pp. 45-51; Sommer 1879, p. 390 s.; Sommer 1883, p. 160; Golther 1878, p. 166 (Golther quando afferma che l'inconscio non ha fini intende naturalmente che non ha coscienza dei suoi fini). 24 Carrière 1891, p. 356; Sommer 1883, pp. 133 e 153. Sulla « formalità » del fine assoluto indicato da Hartmann insiste anche Stange 1892, p. 58; egli sostiene che, in quanto tale, esso non può essere sovraordinato ad altri fini; dato poi che il fine assoluto - la negazione del volere - riguarda eventualmente solo la vita degli uomini delle pros­ sime generazioni, esso non può che svolgere un ruolo marginale nell'etica di Hartmann.

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etico della realtà 25 . Per Voigt e Melzer, che si richiamano alla categoria del nichilismo già applicata da vari autori alla filosofia di Hartmann, l'operare per il nulla non è un operare finalistico; l'uomo non può avere alcun inte­ resse ad impegnarsi in tal senso, perché si trova di fronte ad una realtà che non possiede alcun valore intrinseco, che è già nulla o deve diventarlo (Voigt 1889, p. 28; Melzer 1882, p. 231). Meyer infine vede una contrad­ dizione intrinseca nel fatto che il fine di quell'attivismo, che Hartmann vanta come suo principale progresso nei confronti di Schopenhauer, debba risolversi nel quietismo del non volere dell'Assoluto (Meyer 1872b, p. 210; cfr. anche Golther 1878, p. 164). L'immoralità del fine ultimo proposto da Hartmann è poi confermata dalla probabilità che l'intero processo, così faticosamente e dolorosamente interrotto, possa riproporsi negli stessi termini. Questa possibilità rende ancor più problematica la richiesta dedizione all'Assoluto, che in quest'ot­ tica pare a Dorner non potere avere altra motivazione che il disprezzo di se stessi 26. Il fatto che l'etica di Hartmann richieda all'uomo d'impegnarsi senza riserve in una lotta senza speranza non può che tradursi in una sua scarsa forza di attrazione (Meyer 1872b, p. 210; Christ 1882, p. 180; Hellenbach 1881, p. 285). Come nota Lasson, è lo stesso Hartmann a riconoscere che una tale morale può esser appannaggio di pochi (Lasson in Aa.Vv. 1879, p. 68), né si può pensare, come osserva Rehmke, che la massa possa impa­ dronirsi delle sottili distinzioni concettuali che stanno alla base della meta­ fisica di Hartmann e che pure sono necessarie a una corretta comprensione della sua morale (Rehmke 1882, p. 78). Secondo Meyer c'è il concreto rischio che i più si fermino ad una delle stazioni intermedie (Weltschmerz, pessimismo quietistico) prima di giungere alla vera etica del pessimismo (Meyer 1872b, p. 208 s.). Nonostante queste critiche c'è tuttavia in parecchi autori una certa disponibilità a riconoscere la positività delle indicazioni pratiche offerte dalla morale di Hartmann. Così Haym trova che l'etica di Hartmann nelle sue indicazioni concrete non si distacca di molto dalla morale comune (Haym 1873, p. 287) e Lasson riconosce che essa è vicinissima all'etica 25 R. Pfleiderer 1881, p. 348. Lo stesso Pfleiderer tuttavia riconosce che almeno formalmente la morale si volge in ottimismo, giacché l'uomo può raggiungere il suo fine; da questo limitato punto di vista Hartmann ha ragione nel sostenere che al suo pessimi­ smo eudemonologico si associa un ottimismo evoluzionistico. 26 Dorner 1881, p. 57; cfr. anche Golther 1878, p. 169 e Sommer 1883, p. 159; Melzer 1882, p. 231.

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hegeliana (Lasson in Aa.Vv. 1879, p. 70). Gass, con particolare riferimento all'opera di Taubert, apprezza le conclusioni attivistiche dell'etica del pes­ simismo, ma nota che per giungere a tali risultati non è necessario distrug­ gere il mondo (Gass 1876, p. 240 s.). Per O. Pfleiderer, che rileva con sorpresa nella Fenomenologia la presenza di un forte idealismo morale, le indicazioni pratiche di Hartmann non si distaccano di molto da quelle del cristianesimo, così c'è da sperare che da questo Saulo possa sorgere presto un Paolo (O. Pfleiderer 1879, pp. 81-83). Anche per Melzer l'etica di Hartmann è quella di un uomo che aspira con ogni forza a fini ideali, per quanto gli è concesso dalla sua lontananza dal teismo (Melzer 1882, p. 232). Christ nota che la fenomenologia, con l'ammissione del principio dello sviluppo - peraltro ingiustificato -, rappresenta un progresso rispetto alla Filosofia dell'inconscio, ma sottolinea che tutto quanto v'è di buono nell'etica di Hartmann non dipende dal pessimismo, ma da un inconscio cristianesimo e dall'idealismo (Christ 1882, p. 160). Sulla stessa linea Dorner valuta positivamente l'introduzione del principio dello sviluppo cultu­ rale - visto però di nuovo come indipendente dal pessimismo: in generale la morale di Hartmann, quando non tiene conto del tragico finale nichili­ stico, vede rasserenarsi il suo «oscuro ciclo», ma tutto ciò, ancora una volta, in contrasto con il pessimismo (Dorner 1881, pp. 59 e 66). Così alcuni dei critici più o meno consciamente finiscono per convergere sulle posizioni di Hartmann che, come s'è visto, dalla Fenomenologia in poi si sforza di sganciare la sua etica dal pessimismo. In questo modo egli impli­ citamente ridimensiona il significato complessivo del pessimismo, cosicché la discussione dell'etica di Hartmann finisce per non essere più la discus­ sione della « morale del pessimismo ». Per avere un quadro completo del dibattito svoltosi intorno alla mo­ rale di Hartmann bisognerebbe riferire di altre numerose critiche rivolte ad aspetti di dettaglio della Fenomenologia. Per ragioni di spazio conviene tuttavia limitarsi a pochi cenni circa le posizioni più significative assunte nei confronti della dottrina dell'autonomia della morale (e della corrispon­ dente critica dell'eteronomia) e della dottrina della libertà. Come esplicito difensore dell'eteronomia si presenta anzitutto Kirchmann, da Hartmann lungamente criticato nella Fenomenologia: dato che per questo autore il fondamento della morale va ricercato nella Achtung di fronte alla legge, è necessario che i doveri morali si presentino come qual­ cosa d'indipendente rispetto al soggetto; poiché inoltre i sentimenti morali non sono innati, essi vanno sviluppati attraverso l'educazione che deve possedere anch'essa un carattere eteronomo. D'altra parte l'autonomia,

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quando sostanziata da dottrine metafisiche quali il monismo e il panteismo (dottrine che in Hartmann risultano tutt'altro che ben fondate), rischia di privare la morale di un solido fondamento oggettivo (Kirchmann 1879, pp. 10 e 18 s.). Gli autori d'ispirazione cristiana rivendicano invece contro Hartmann il carattere non-eteronomo della morale teologica. La legge divina infatti non è qualcosa di estraneo all'uomo, ma in quanto ordine generale del cosmo, è immanente alla natura umana che la scopre in sé e che ne ricono­ sce il valore con un autonomo atto di libertà. Naturalmente un tale punto di vista presuppone una corretta interpretazione del teismo, secondo cui l'uomo è sì creatura divina, ma un creatura per sua essenza posta come libera (G. Hartung 1874, p. 453; Golther 1878, p. 201; Schiiz 1884, p. 107 s.). R. Pfleiderer ritiene che l'errata interpretazione eteronoma della morale cristiana da parte di Hartmann dipenda essenzialmente dall'assenza nel suo sistema etico del concetto di coscienza, che, quando toccata dalla grazia, riconosce come sua la legge morale cristiana (R. Pfleiderer 1881, p. 339 s.; cfr. anche Bacmeister 1882, p. 43). D'altra parte, se per autonomia si intende un'autentica autodetermi­ nazione della volontà, non si può neppure dire che l'etica di Hartmann sia veramente autonoma. Dorner sottolinea in proposito la diversità della po­ sizione di Hartmann da quella di Fichte: qui l'ostacolo (il dolore del mon­ do) non è, come in Fichte, solo uno stimolo all'autodeterminazione, ma è esso stesso a dettare il contento della volontà; questo contenuto - la felicità negativa dell'Assoluto - si pone come qualcosa di estraneo alla volontà: il fine non vale in sé, ma solo in quanto « voluto » dall'inconscio. In questo modo la morale di Hartmann sembra inserirsi piuttosto nel solco della tradizione volontaristica medievale (Dorner cita in nota Duns Scoto) (Dor­ ner 1881, pp. 60-62). Sommer sottolinea invece come la volontà sia in realtà determinata dalle Neigungen inconsce in essa presenti. D'altra parte anche la fondazione metafisica della morale - e non la immediata perce­ zione del valore della coscienza - non può essere interpretata che come eteronomia (Sommer 1883, pp. 120el38). Anche per R. Pfleiderer il ruolo determinante degli istinti - nel caso della « vera » morale del Vernunfttrieb - è del tutto incompatibile con il concetto di vera autonomia, senza dire che l'ipotetico atto morale supremo, la decisione a maggioranza di non più volere, si presenta come « la più grandiosa delle eteronomie » (R. Pfleide­ rer 1881, pp. 394-398). Riguardo al tema della libertà, più che ad una vera e propria discus­ sione delle tesi di Hartmann, si assiste ad una semplice riduzione della sua

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posizione al determinismo, il quale, secondo consolidata tradizione, viene considerato come inconciliabile con qualsiasi discorso morale (Golther 1878, p. 129 s.). Così Christ mostra analiticamente che nel sistema di Hartmann non ha senso parlare di responsabilità, se l'uomo non può che agire in un determinato modo (non ha senso dire che la pietra è responsabile del suo cadere), non ha senso parlare di autodominio, se l'uomo è abbandona­ to al meccanismo costituito dai motivi e dagli istinti (di nuovo, chi si domi­ na deve dominarsi), non ha senso parlare di punizioni e di pene (neppure nel cinico modo di Schopenhauer), non ha senso parlare di rimorso (sen­ timento peraltro ingiustamente attaccato da Hartmann) (Christ 1882, pp. 58-71). Ne consegue che Hartmann non riesce in alcun modo a giustificare un'autentica autodeterminazione dell'uomo, che, secondo l'insegnamento di Biedermann, tanto stimato da Hartmann, non si può realizzare nel con­ cetto di una pura libertà formale, ma nel concetto di una libertà « reale », che si compie nell'opposizione fra natura e spirito e, in ultima analisi, nel rapporto con Dio (libertà in Dio). Quanto alle critiche all'indetenninismo, che secondo Hartmann renderebbe addirittura impossibile l'agire morale, esse sono giustificate solo nella misura in cui sono rivolte ad un indetermi­ nismo « senza fondo », in cui non si tien conto del fatto che comunque la volontà, se non determinata, può quanto meno essere influenzata dalle circostanze esterne; per questa ragione Christ preferisce al termine indeter­ minismo il termine « an ti determinismo » 27 . Tutto sommato più conciliante è la discussione condotta da Melzer 28. Questo autore non rifiuta completamente la dottrina di Hartmann, giacché 27 Christ 1882, pp. 54-57, 71-76. Su linee abbastanza simili si muove anche Bacmeister 1882, pp. 134-142, che lamenta, dopo tanto discutere del carattere negativo della libertà, la mancanza di una sua determinazione positiva; questo modo di procedere è, a parere di Bacmeister, sintomatico dell'impostazione dell'intera riflessione etica di Hartmann, che passa di principio in principio senza mai chiarire che cosa sia la morale e, soprattutto, senza far riferimento al suo centro, che è la coscienza dell'uomo. In positivo anche per Bacmeister il problema della libertà non può essere risolto senza collegarsi alla prospettiva teologica della grazia e del rapporto di figliolanza che l'uomo ha con Dio. 28 Melzer sviluppa un'estesa analisi della dottrina della libertà di Hartmann in Melzer 1882 (seconda edizione di Melzer 1879), che contiene fra l'altro il carteggio intercorso fra l'autore ed Hartmann fra il 1879 e il 1881 (pp. 1-24; in esso Hartmann giudica la critica di Melzer del suo concetto di libertà come « la prima veramente appro­ fondita »). Ernst Melzer (1835-1899) si dichiara seguace di Gùnther e quindi professa un teismo che si oppone nettamente ad ogni prospettiva panteistica. Ha recensito in modo generalmente benevolo gran patte delle opere pubblicate da Hartmann dopo il 1880.

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essa non è così lontana come sembra da un corretto concetto di libertà. Così Melzer considera con un certo favore l'indagine compiuta da Hartmann per determinare in senso negativo il concetto di libertà; a suo avviso - come in Christ - il senso complessivo di tale indagine consiste nel mo­ strare l'insostenibilità di un indeterminismo estremo che voglia prescindere dall'influsso che le varie componenti esterne ed interne esercitano sul sog­ getto. Ma, una volta ammesso questa influsso, Hartmann sbaglia nell'identificare questo indeterminismo con la libertà. Tale libertà va invece posta nella capacità dello spirito umano di autodeterminarsi nell'autocoscienza in modo autenticamente spontaneo, una spontaneità che non mette in di­ scussione la legalità dei processi psicologici, giacché - sembra di capire questa stessa spontaneità costituisce l'essenza dello spirito umano 29 .

29 Melzer 1882, pp. 202 s., 212, 193 s., 195 s. Per comprendere questa posizione bisogna richiamarsi al dualismo di tipo cartesiano fra natura e spirito sviluppato da Gùnther e qui ripreso da Melzer; natura e spirito costituiscono due realtà completamen­ te differenti, ciascuna dotata di una sua specifica « legalità ». Una serrata critica della dottrina della libertà si trova invece nel più tardo Kurt 1891 e 1894.

19. DUHRING E DUBOC

1. IL PROBLEMA DEL PESSIMISMO IN DUHRING.

A differenza della maggior parte dei pessimisti e dei loro avversali Dùhring affronta il problema del pessimismo da un punto di vista preva­ lentemente storico-politico 1 . Egli concorda con il pessimismo nel ricono­ scere l'imponente presenza del dolore nel mondo, ma ritiene che tale situa­ zione dipenda dalla contingente situazione storica, dalle forme ingiuste e corrotte della vita sociale. Dùhring approda così ad un « pessimismo per sdegno » (Entrùstungspessimismus), che si sostanzia in un'aspra critica politico-sociale e si configura anche come una confutazione del'pessimi­ smo astorico di Schopenhauer ed Hartmann. Dùhring procede così su una doppia linea: da una parte mostra che per natura sarebbe possibile all'uomo essere felice - e per far questo deve criticare le principali tesi del pessimismo -, dall'altra insiste con forza sui 1 Karl Eugen Dùhring (1833-1921) studia dapprima diritto; impedito a svolgere la funzione di giudice da una malattia agli occhi che doveva portarlo alla completa cecità, si dedica alla filosofia, abilitandosi nel 1863 con Trendelenburg; è libero docente a Berlino fino al 1877, quando, in seguito ai ripetuti attacchi da lui indirizzati contro altri professori (che in più occasioni conducono a processi), gli è tolta la venia legendi (cfr. l'autobiografia Dùhring 1882, Dòli 1893 e, per ulteriori indicazioni bibliografiche, Kòhnke 1986, p. 519). Divenuto «il più odiato filosofo tedesco» (Kòhnke 1986, p. 373), continua con successo un'imponente attività letteraria, che spazia dalla filosofia alla storia della scienza, all'economia politica, alla politica. Sostenitore di una « filosofia della realtà » e di un socialismo dai contorni tutt'altro che chiari (come è noto, fu violentemente criticato da Engels), il suo pensiero è caratterizzato anche da un razzismo e da un antisemitismo fanatici. Gli scritti che qui interessano sono WL e Dùhring 1873. Sulla filosofia di Dùhring cfr. Albrecht 1914 e 1927, Klaeber 1904, Lessing 1922.

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mali - storicamente determinati - della vita, raggiungendo talvolta nella sua denuncia dei toni che nulla lasciano ad invidiare al pessimismo di Schopenhauer ed Hartmann. L'obiettivo che Dùhring si pone tuttavia non è solo quello di offrire una confutazione filosofica del pessimismo, ma anche quello di presentare un modello di vita alternativo, tutto dedito all'impegno e alla lotta per il progresso politico-sociale. Di qui il tono spesso retorico e una certa super­ ficialità filosofica, cui fa da contraltare una viva attenzione per tutti i con­ creti aspetti della vita individuale e sociale 2 . Dùhring inquadra il problema del pessimismo del suo tempo in un'analisi complessiva della tradizione storica delle « concezioni del mondo ostili alla vita » (lebensfeindlicke Weltansischten), che hanno trovato espres­ sione anzitutto nel cristianesimo e nel buddhismo e di cui il pessimismo a lui contemporaneo è solo l'ultima - ma non per questa meno pericolosa propaggine. L'aspetto comune a queste due religioni è la svalutazione della vita terrena sviluppata in funzione di un aldilà il cui significato non muta anche se viene pensato - come nel buddhismo - nei termini di un nulla 3 . La causa dello svilupparsi di tali concezioni è una ripetuta ed eccessiva soddisfazione dei bisogni, che conduce ad un ottundimento dei nervi, sem­ pre meno sensibili al piacere e, alla fine, indifferenti ad esso. Questi mor­ bosi ed immorali eccessi si traducono in disgusto (Ekel) per ciò che do­ vrebbe recare soddisfazione, disgusto che in seguito si estende a tutto il mondo 4 . Non tutti i seguaci di tali dottrine tuttavia si sono trovati nella condi­ zione - tutto sommato invidiabile - di poter appagare come meglio crede2 Nel suo insieme WL, che è documento eloquente dello stile filosofico di Dùhring, più propenso all'invettiva e al panegirico che alla piana argomentazione, deve considerarsi tutt'altro che riuscito, nonostante il parere di Vaihinger 1876, p. 151, che lamenta lo scarso successo di « una delle migliori opere di Dùhring ». 3 WL, pp. 1-5. Dùhring riconosce i meriti morali del cristianesimo primitivo (so­ prattutto lo spirito di sacrificio da esso propugnato), ma ritiene che essi non possano controbilanciare la sua colpa fondamentale, che è quella di aver mirato sistematicamente ad una Vernichtung dell'uomo naturale. 4 WL, p. 6 s. I caratteri di questo processo sono particolarmente evidenti nell'at­ teggiamento assunto nei confronti dei piaceri del cibo e del sesso. Ad esempio ad un'ori­ ginaria dissolutezza o « morbosa perturbazione » dei naturali desideri sessuali deve es­ sere fatto risalire il fenomeno del monachesimo, comune tanto al cristianesimo quanto al buddhismo. Contro di esso Dùhring ha parole durissime: oltre a predicare un'astinen­ za, che, proprio perché contraria alla natura, si traduce in un male ancora peggiore di quello che si voleva evitare, le istituzioni monastiche sono state e sono ancora in India un pesante fardello posto sulle spalle dell'intera società (WL, p. 8 s.).

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vano i propri desideri. Al contrario l'impulso che conduce a queste religio­ ni nasce per lo più dalla impossibilità di soddisfare i propri bisogni, soddi­ sfazione che viene quindi rimandata ad un ipotetico aldilà. Questo atteg­ giamento peraltro non si traduce mai in un disprezzo per i beni di questo mondo: raramente anche la massima miseria infatti produce una program­ matica rinuncia alla felicità. Ne è prova il fatto che le classi più povere non hanno quasi mai accettato la rappresentazione dell'aldilà come nulla, carat­ teristica del buddhismo e del pessimismo moderno. Questa concezione si è invece conservata nella sua purezza solo presso le classi sociali più elevate (non per caso Buddha era figlio di un re) (WL, pp. 12-14), mentre nel pessimismo filosofico moderno - che per Dùhring è una forma di buddhi­ smo e di cristianesimo raffinato, un surrogato della religione tradizionale la rappresentazione dell'aldilà come nulla, oltre ad essere qualcosa di am­ biguo (un nulla che però non è vero nulla), proietta nell'aldilà l'impotenza della volontà che non sa più nemmeno immaginarsi qualcosa che possa dare piacere e felicità 5 . Già nella descrizione del pessimismo religioso Dùhring distingue net­ tamente fra il pessimismo delle classi più elevate e quello dei poveri. Que­ sta distinzione diviene ancor più importante nel momento in cui Dùhring affronta più analiticamente la situazione della sua epoca. Laddove per spie­ gare le cause del pessimismo delle classi dominanti Dùhring ricorre ancora a generiche categorie psicologiche e morali - esso è insieme causa ed effet­ to della corruzione generale, del disgusto per la vita da parte di coloro che comunque non mancano mai del necessario (WL, p. 36) -, per illustrare il sorgere del pessimismo delle classi inferiori Dùhring sviluppa un'analisi complessiva dello sviluppo storico del secolo diciannovesimo, che mette capo ad un giudizio fortemente critico della situazione politico-sociale del suo tempo. 5 WL, pp. 3 e 11-14. Il pessimismo delle classi elevate si manifesta anche nell'arte e in special modo in Wagner, che Dùhring odia ferocemente anche perché considerato di origine ebrea (solo così è spiegabile il suo sodalizio con il gitano Liszt). Dùhring trova particolarmente significativo il fatto che Wagner abbia preso le mosse da Feuerbach quindi da una filosofia materialistica e sensistica - per poi volgersi a Schopenhauer, scegliendo ovviamente gli aspetti mistici e quietistici e lasciando da parte l'indignazione verso i mali della società e della cultura. Wagner, trascinando Schopenhauer nella sua miseria, ha cercato di trovare in lui la salvezza della propria coscienza di fronte al male del mondo e una scusa per la propria nullità. La prova di questa miseria è offerta dai testi delle sue opere, che si proclamano opera d'arte del futuro, mentre in realtà non sono altro che una riproposizione dell'armamentario romantico e quindi « un mostro del passato » (WL, pp. 15-18).

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È un'epoca in cui i poveri sono costantemente minacciati dal bisogno, dalla miseria, dalla guerra, dalla corruzione delle classi dominanti. Di qui il loro pessimismo, che nonostante tutto non si configura come una rinun­ cia alla speranza di poter trasformare la situazione presente. E questo un pessimismo nobile che deve crescere e svilupparsi, benché corra sempre il pericolo di ricadere nell'atteggiamento rinunciatario della religione 6. Que­ st'epoca deve scegliere fra il cambiare lo stato di cose presente per adat­ tarle alla coscienza o il cambiare, mediante la superstizione, la coscienza; ma poiché essa è nonostante tutto erede dell'illuminismo, vi sono molti indizi per supporre che sarà la prima alternativa ad essere scelta (WL, pp. 32-34). Il pericolo dell'involuzione del pessimismo deve essere scongiurato mediante quella che si potrebbe dire una battaglia ideologica la quale, muovendo dal materialismo e dal conseguente rifiuto della religione e di ogni aldilà, ponga le basi di una corretta determinazione del « valore della vita » (WL, p. 37). Esiste nei confronti del materialismo, secondo Dùhring, una diffusa ostilità da parte della filosofia ufficiale, che alla sua radice altro non è che una forma sofisticata di religione; i filosofi sono per così dire teologi di seconda classe, che servono alle persone colte piatti più raffinati, mentre i teologi veri e propri, « di prima classe », imbandiscono piatti più rozzi per il popolo (WL, pp. 38-41). Al contrario il pubblico apprezza sempre di più il materialismo dei vari Lamettrie, Helvetius, Vogt, Moleschott e Bùchner; esso non si cura della speculazione che è caratteristica gene­ rale di quasi tutta la filosofia (come eccezioni sono qui nominati Feuerbach e Comte), come da tempo la scienza, che è il fondamento di una concezione più nobile e più alta della vita, « l'ideale più alto che il pre­ sente ha prodotto per elevare lo spirito », non si cura della teologia (WL, pp. 41-44). I capisaldi del materialismo sono costituiti da tre negazioni: la nega­ zione dell'esistenza di un'anima separata e potenzialmente indipendente dal corpo, la negazione dell'immortalità dell'anima e, infine, la negazione dell'esistenza di Dio. In positivo il materialismo afferma che la materia « è

6 L'esempio artisticamente più alto di questa forma di pessimismo è offerta da Byron, che pur nella dolorosa coscienza delle sofferenze della vita non rinuncia mai a lottare contro le avversità. Sulla stessa linea si muove Heine, benché sia molto inferiore al grande poeta inglese; ed è per Diihring un segno dei tempi che l'unico autore tedesco che possa essere accostato a Byron sia un ebreo (WL, pp. 29-32).

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ciò che regge e costituisce l'essenza di ogni realtà », cosicché anche il pen­ siero e i sentimenti non devono essere considerati altro che stati di agitazio­ ne della materia. Esso però ha avuto finora il difetto di non elaborare sufficientemente tale principio, e per questa ragione ha lasciato insoddi­ sfatti molti, che non hanno trovato in esso risposte adeguate ai problemi morali. Questi limiti sono peraltro comprensibili in una filosofia che è ancora giovane e risultano di conseguenza ingiustificate le ragioni di coloro che di essi si servono per confondere ancora il pubblico sull'essenza del materialismo 7 . Questa Weltanschauung pertanto si potrà affermare definitivamente fra il popolo quando non solo se ne sarà dimostrata la validità teorica, ma si saranno illustrate adeguatamente le conseguenze pratiche che da essa derivano. In particolare si deve mostrare che essa non vuole affatto ridurre l'uomo ad occuparsi esclusivamente dei suoi bisogni materiali. Questa pro­ spettiva, benché unilaterale, non è comunque in sé sbagliata, giacché la soddisfazione dei bisogni materiali è condizione necessaria per poter svi­ luppare interessi più elevati. Essa va vista come una protesta contro i tentativi della religione di presentare un'immagine distorta della realtà, né si deve ritenere che l'eventuale distruzione della morale tradizionale pro­ dotta dal suo affermarsi sia un vero male: il materialismo, nella misura in cui non si oppone a nessun istinto naturale, fa crescere la fiducia dell'uomo in se stesso e indirizza i suoi interessi alla vita terrena, non può che contri­ buire all'innalzamento della vera morale (WL, pp. 55-61).

2. IL « BILANCIO EUDEMONOLOGICO » DI DùHRING.

Come premessa alla soluzione del problema del « valore della vita » Diihring sviluppa una dottrina psicologica che ha al suo centro le sensazio­ ni di piacere o di dolore (Empfindungen), le quali costituiscono il parame­ tro in base al quale misurare il valore del mondo (WL, pp. 61-63). La 7 WL, pp. 44-53. Dùhring si riferisce qui in particolare a Lange che, pur superiore a molti altri professori di filosofia, nella sua Storia del materialismo presenta un'interpretazione di questa concezione del mondo così ambigua da poterla rendere accetta ai teologi liberali e ai socialdemocratici (WL, pp. 53-55). Nelle edizioni seguenti a quella del 1877 qui utilizzata, coerentemente con l'evoluzione di pensiero di Dùhring, il termi­ ne materialismo è sostituito da « filosofia della realtà » (Wirklichkeitsphilosophie). Non è possibile entrare nei dettagli della filosofia teoretica di Diihring quale è esposta nelle sue varie opere; cfr. Vaihinger 1876, pp. 13-18, 43-54, 84-101.

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questione del pessimismo deve dunque essere decisa anche per Dùhring attraverso una sorta di Lust-Unlust Btlanz*. Le sensazioni, come in Hartmann, derivano dalla soddisfazione o dal­ la non soddisfazione di specifici Triebe. Ad esse si accompagnano nell'uo­ mo - ma in certa misura anche negli animali - le emozioni (Gemùthsbewegungen, Affekte), che sono stati più durevoli delle sensazioni 9. Dopo aver polemizzato sia con quanti valutano la vita in base a massime astratte, senza considerare che esse necessariamente hanno la loro base nelle sensa­ zioni e nelle emozioni, sia con quanti - in particolare Epicuro - prendono in considerazione solo le sensazioni immediate 10 , Dùhring sviluppa la fon­ damentale distinzione fra sentimenti « idiopatici » (che derivano dal rap­ porto fra l'uomo e la natura) e sentimenti « simpatici » (che derivano dal rapporto fra uomo e uomo). I sentimenti « simpatici » hanno un contenuto di gioia e dolore molto maggiore degli « idiopatici », giacché il dolore e la gioia che gli uomini possono causare ai loro simili sono molto più grandi di quelli che può causare la natura; di qui l'importanza decisiva dell'analisi dei rapporti sociali per determinare il valore della vita. I sentimenti « sim­ patici » non derivano solo da rapporti che producono conseguenze imme­ diate sulla felicità dell'individuo, ma anche da originarie tendenze altruistiche, della cui esistenza Dùhring si dichiara certissimo, polemizzando - di nuovo d'accordo con Schopenhauer ed Hartmann - contro coloro che credono di poter ricondurre all'egoismo l'altruismo, in quanto fondato su tendenze naturali (WL, pp. 73-76). Secondo Dùhring la vita psichica ha un carattere « ondulatorio »: in essa, in condizioni normali, la regola non è l'equilibrio, ma il susseguirsi di momenti, di tensione e di momenti di rilassamento, secondo un andamento che corrisponde al movimento ritmico dell'intera realtà e che ha la sua 8 Dato che la prima edizione di WL è del 1865, è da escludersi un'influenza diretta di Hartmann, anche se nelle varianti introdotte nelle edizioni successive - tutte posteriori alla PU - non è difficile scorgere un'eco dell'opera di Hartmann. 9 La terminologia psicologica di Dùhring è in generale piuttosto oscillante; ad esempio Dùhring nel delineare le componenti essenziali della vita psichica non parla dei sentimenti (Gè/uhi) - forse con l'intenzione di contrapporsi a quelle teorie psicologiche che vedono nel sentimento una componente autonoma della vita psichica - ma poi nel corso della trattazione usa di frequente il termine sentimento come sinonimo di emozio­ ne e, talvolta, di sensazione. 10 WL, pp. 63-66. Dùhring sottolinea in particolare l'assurdità della pretesa di giungere al Sollen mediante l'intelletto; il dovere non può avere a fondamento che un Trieb, È quindi un'ipocrisia pretendere di costruire sistemi morali in base ai quali con­ dannare i sentimenti (WL, pp. 70-72).

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manifestazione più immediata nella pulsazione cardiaca. Ciò è confermato anche dal modo in cui l'uomo percepisce in generale i sentimenti e che Dùhring chiama « legge della differenza »: un sentimento è percepito in modo tanto più intenso, quanto più esso è diverso dal sentimento che lo precede e quanto più rapidamente avviene il passaggio da un sentimento a quello successivo (WL, pp. 77 s. e 80-85). Questo ed altri elementi rendo­ no impossibile un calcolo puramente matematico del bilancio: « l'eccitazio­ ne di un momento può avere un significato che supera tutte le sensazioni di un'intera vita » (WL, p. 63 s.). Ogni Streben per esplicarsi ha bisogno di una qualche forma di oppo­ sizione, di un ostacolo, e questa tesi consente a Dùhring di recuperare in qualche modo la tradizionale concezione del male come condizione per la realizzazione del bene. Se d'altra parte si tien conto del fatto che i senti­ menti seguono sempre ad uno Streben e che lo Streben non è altro che il nome che, nell'ambito della psicologia, si da all'esplicarsi di una forza, se ne deve dedurre che l'uomo, per avere una ricca vita emotiva, deve eserci­ tare regolarmente le sue forze, il che avviene normalmente nel lavoro. Il valore del lavoro dunque non consiste solo nel suo essere lo strumento indispensabile per ottenere i necessari mezzi di sussistenza 11 . Queste osservazioni lasciano impregiudicato se il susseguirsi di senti­ menti dia luogo ad un prevalere di sentimenti di piacere o di dolore. In sé esse mettono solo in luce l'omogeneità della vita psicologica con i caratteri generali del processo naturale, il che tuttavia non può non far sorgere qualche sospetto verso il quietismo schopenhaueriano, che precisamente tale omogeneità si propone di spezzare 12 . La psicologia di Dùhring assume invece una valenza apertamente an­ tipessimistica là dove essa critica la concezione schopenhaueriana del ca­ rattere eudemonologicamente negativo di ogni processo volitivo, ovvero la celebre tesi del carattere negativo del piacere. Dùhring riconosce con 11 WL, pp. 78-80. Dùhring osserva che il lavoro, per svolgere adeguatamente la sua funzione « psicologica », deve possedere determinate caratteristiche, in particolare deve essere interessante, capace cioè di stimolare l'esplicazione delle forze. In caso con­ trario può subentrare la noia - normalmente retaggio dei ricchi che non devono e non vogliono lavorare; essa può sorgere non solo dalla mancata esplicazione delle forze, ma anche da un loro uso meccanico. Naturalmente Dùhring ritiene che nella società del suo tempo gran parte dei lavori - specie per le modalità con cui sono svolti - non risponde a questi requisiti. 12 Dùhring insiste molto sull'aspetto consolatorio del sentirsi armoniosamente in­ seriti nel processo naturale, in quanto egli, in generale, non dubita del valore normativo della natura.

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Schopenhauer che alla base di ogni Streben v'è sempre un bisogno - in linea di principio doloroso -, ma sostiene che in condizioni normali - quan­ do cioè il bisogno può essere soddisfatto in un tempo ragionevole - il bisogno o non è percepito o è percepito semplicemente come il necessario stimolo all'agire (Reiz, Stachel) e quindi non come dolore. Esso d'altra parte è accompagnato dal pre-sentimento (Vorgefuhl) della soddisfazione che contribuisce ad occultare la componente dolorosa del dolore (WL, pp. 134-136). Da un punto di vista formale non sussistono quindi ragioni per affermare che la dinamica psicologica abbia necessariamente come esi­ to il prevalere di sentimenti spiacevoli. La soluzione del problema del va­ lore della vita deve essere quindi risolto facendo riferimento al contenuto: pur non dimenticando le grandi differenze che sussistono fra i destini dei singoli individui, si tratta cioè di stabilire se nel corso della vita dell'uomo « medio » la maggior parte dei bisogni è o può essere soddisfatta oppure no (WL, p. 85 s.). Anche Dùhring così non si sottrae al compito di offrire la consueta « fenomenologia » della felicità e del dolore dell'uomo, che nella sua ver­ sione, nella descrizione del « corso di una vita umana », si caratterizza per la costante presenza della critica alla situazione del suo tempo. Delle inten­ zioni di Dùhring s'è detto in precedenza: si tratta di mostrare che in gene­ rale l'uomo sarebbe in condizione di soddisfare i suoi bisogni se non ne fosse impedito da un ordine sociale ingiusto e conservatore. Per Dùhring un bambino normalmente accudito può soddisfare senza particolari difficoltà i suoi bisogni, che sono essenzialmente l'alimentazione e il gioco, sulla cui importanza Dùhring insiste, criticando quelle che noi chiameremmo educazioni troppo repressive (WL, pp. 88-93). La situazione muta nella fanciullezza e nella giovinezza: la soddisfazio­ ne di uno dei bisogni fondamentali di questa fase della vita dell'uomo - il desiderio di sapere - è infatti variamente intralciata e fuorviata dall'orga­ nizzazione delle istituzioni scolastiche. Dùhring critica aspramente le scuo­ le popolari e le scuole femminili, dove al posto del sapere si insegnano vane superstizioni, che rovinano intelletto e senso morale; ma anche i ginnasi soffrono a suo parere di gravi difetti, per la loro insistenza su materie inutili (latino e greco), per una disciplina talora tirannica e per le condizioni igieniche contrarie ad un sano sviluppo della gioventù (WL, pp. 92-100). Anche la celebrata libertà dell'università è più apparente che reale, giacché gli studenti sono di fatto obbligati a seguire le lezioni per ottenere un buon profitto agli esami. Per Dùhring tuttavia il limite maggiore del­ l'università va indicato nel corpo docente, costituito da persone di livello

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scientifico modesto, che subordinano costantemente l'amore per la verità e il sapere agli interessi politici e religiosi; di qui la noia e il disinteresse degli studenti che possono trovare rifugio solo nelle letture personali 13 . Anche il periodo del servizio militare è in generale infelice: i giovani devono imparare ad uccidere, sono sottoposti a fatiche terribili e, soprat­ tutto, sono alla mercé di un potere senza controlli. Duhring, stante la sua convinzione nell'inevitabile perdurare delle guerre, non propone tuttavia l'abolizione del servizio militare: si tratta invece di riformarlo e di valoriz­ zare in esso il senso della pienezza di vita che deriva dalla lotta o - quanto meno - dalla preparazione alla lotta (WL, pp. 108-110). L'ingresso nella vita lavorativa viene presentato come di consueto da due punti di vista: nella situazione storica presente - nell'attuale organizza­ zione del lavoro - l'esercizio della professione si accompagna frequente­ mente ad un'eccessiva specializzazione che rende impossibile la necessaria partecipazione alla vita collettiva. Questo si collega spesso a forme degene­ rate di vita sociale, che trovano espressione nella concezione dominante dell'onore, priva di ogni valore morale e in grado di produrre solo l'assur­ dità del duello. Benché in molti domini uno smoderato desiderio di guada­ gno, che li fa odiare dagli altri e li rende infelici, anche in questa situazione il lavoro innalza il senso della vita, specie in coloro che egoisticamente non si preoccupano della loro carente partecipazione alla vita della collettività 14 . Secondo l'opinione di molti l'uomo diviene più felice - o meno infe­ lice - quando entra nella maturità, nella misura in cui abbandona le illusio13 WL, pp. 102-106. Naturalmente i peggiori fra i professori universitari sono quelli che costituiscono das Philosophenthum, che Dùhring accusa senz'altro di malafe­ de. L'eccezione è costituita dai dotti che vivono fuori dalle istituzioni (Dùhring?), cui i giovani dovrebbero rivolgersi (WL, pp. 247-251). 14 WL, pp. 110-117. Dùhring si occupa unicamente delle condizioni di lavoro degli uomini; il lavoro delle donne è invece discusso nello specifico capitolo in cui Dùhring tratta del « destino delle donne » nel suo complesso (WL, pp. 220-243). In esso viene svolta una requisitoria sulla condizione della donna: escluse dalla filosofia e dalla letteratura, le donne sono condannate ad una condizione di passività e di schiavitù, che rende impossibile ogni loro partecipazione agli ideali. Questa situazione ha la sua origi­ ne nella condizione d'inferiorità in cui la donna è posta durante la maternità; ad essa infatti tocca mettere al mondo gli uomini che i maschi si preoccupano di eliminare con la guerra. Si tratta dunque in primo luogo di nobilitare la maternità, di rendere la donna economicamente indipendente, condizione che è uno dei requisiti fondamentali per garantirle la libertà. Dùhring da un giudizio complessivamente negativo del matrimonio (cfr. sotto) e vede in esso la causa principale della diffusione della piaga della prostitu­ zione. In questo suo femminismo ante litteram Dùhring tuttavia si oppone a quelle prospettive che si pongono come obiettivo quello di rendere la donna eguale in tutto all'uomo, e quindi anche nei vizi.

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ni della gioventù. Dùhring, dopo aver negato che nella maturità abbia luo­ go una sorta di arresto dello sviluppo dell'uomo, coglie l'occasione per puntualizzare la sua posizione circa la natura degli ideali: polemizzando con Kant e soprattutto con Schiller, egli ritiene che si debba distinguere fra i veri ideali che sono rappresentazioni fantastiche di qualcosa che si può realizzare e che quindi sono sempre accompagnati dal « sentimento del fare » (Gefùhl des Schaffens) e gli ideali o, meglio, le illusioni (Wahn) che si pongono mete irraggiungibili (fama, ricchezza, amore) e che quindi sono nella stragrande maggioranza dei casi destinati ad essere delusi. Non biso­ gna misurare la vita in base a questi rari vertici ma porsi ideali naturali, che possano essere raggiunti. Questa prospettiva si trasforma immediatamente in una critica del pessimismo: se alcuni desideri non sono realizzati, ciò non dipende da un'intrinseca non rispondenza della natura alle naturali ten­ denze dell'uomo, ma dalla innaturalità dei.desideri stessi; non si tratta quindi - schopenhauerianamente - di negare la natura e neppure - come sostenevano gli interpreti cristiani di Schopenhauer - di negare la natura umana in quanto decaduta, ma di evitare che l'uomo si allontani dall'ordi­ ne naturale, ovvero di correggere ciò che d'innaturale vi è nell'uomo nel senso sopra specificato 15 . Un aspetto degli « ideali » della gioventù che Dùhring sottopone ad una lunga discussione è naturalmente - dopo Schopenhauer - l'amore 16. Sottolineando la naturalità della sessualità nel suo armonioso inserirsi nel corso della natura, Dùhring sostiene che quando si contrappone all'amore sensibile l'amore spirituale o le grandi passioni, si incorre nello stesso erro15 WL, pp. 119-127. In quest'ottica si comprende la particolare attenzione che Dùhring dedica alla formazione culturale dell'individuo che, nel vuoto delle istituzioni educative e di fronte alla « modische Bildungsspielerei » del suo tempo, deve compiersi attraverso la lettura personale. A suo modo di vedere vanno privilegiate le letture di scienze della natura e di storia (ma di quella storia che riguarda direttamente l'epoca contemporanea - benché Dùhring citi con favore Gibbon e Grote), mentre poco v'è da ricavare dalla letteratura (che deve mostrare il modello ideale da realizzare, ma non sostituirsi esteticamente alla sua vera realizzazione): egli svaluta i classici (ogni autore è legato al suo tempo; quelli del passato sono pieni di superstizioni e la loro sopravvivenza è dovuta solo alla miseria letteraria dell'età presente), ed esprime giudizi molto severi sugli autori contemporranei - anche su Heine - salvando dalla condanna generale solo Byron e Shelley (WL, pp. 251-258). 16 Dùhring afferma che alla base delle posizioni di Schopenhauer probabilmente si trova una perversione sessuale (pederastia); in ogni caso non si può certo farsi insegna­ re il significato dell'amore da chi non ha sperimentato il matrimonio. Quanto ad Hartmann, egli non ha fatto altro che sfruttare cinicamente e volgarmente il tema, visto il successo di Schopenhauer (WL, pp. 137-139).

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re che si compie quando, nell'ambito della morale, si vuoi vedere un con­ trasto tra principi morali e istinti. I momenti di grande passione, che sem­ brano proiettare l'amore nell'eternità, vanno spiegati naturalisticamente con l'implicito riferimento alla procreazione, che collega l'uomo al destino della sua specie e supera il presente - e in certa misura anche la morte - nel futuro. Anche nel caso dell'amore dunque si tratta di restare fedeli alla natura, tenendo conto però che, poiché la natura fissa solo le regole gene­ rali, l'uomo deve giovarsi del suo intelletto per porre le proprie tendenze in accordo con le linee generali poste dalla natura stessa. Dùhring si riferisce qui alle varie « perversioni » sessuali che, benché in qualche misura natu­ rali - sono ad esempio presenti anche fra gli animali -, devono essere dominate e regolate dall'uomo. Se ciò non avviene - ed è questo il caso della società del suo tempo -, necessariamente l'amore finisce con il pro­ durre più dolori che gioie. Gravi responsabilità ha la società anche nel fallimento di tanti matrimoni, che è dovuto all'usanza del «matrimonio forzato » (Zwangsehe): a causa della dipendenza economica della donna, è il denaro e non l'amore a decidere, e allora non bisogna stupirsi della mancanza d'amore fra i coniugi, del « cretinismo » dei figli (l'amore è con­ dizione di una discendenza sana), degli accoppiamenti contrari alla razza, che vedono donne di razza superiore costrette ad unirsi ad uomini di razza inferiore (WL, pp. 127-163). Una volta conclusa l'analisi delle componenti della vita umana che producono - o, in mutate condizioni sociali, potrebbero produrre - più gioia che dolore, Dùhring prende in esame gli aspetti indubitabilmente dolorosi e in primo luogo la morte. Il punto di partenza di Dùhring è costituito da un evidente richiamo alle posizioni di Epicuro: la morte in sé, in quanto comporta la distruzione della sensibilità, non è né un bene né un male, è solo il « Nuli des Lebens ». Data l'insostenibilità di qualsiasi forma di sopravvivenza individuale, l'uomo deve rigettare le rappresentazioni fal­ se e superstiziose circa un aldilà che non esiste e che quindi non può essere pensato come una prosecuzione della vita, sia nel bene (ricompense) sia nel male (punizioni). Ciò che continua a sussistere dopo la morte dell'indivi­ duo è solo il genere cui esso appartiene e quindi ciò che costituisce per la persona non metafisica e non religiosa l'autentica « vita futura » è il destino dei propri figli - in cui sono conservati spesso i tratti dei genitori -, della propria nazione, della propria razza, dell'umanità (WL, pp. 163-168). Dùhring si sforza anche di mostrare come la morte svolga una funzio­ ne positiva nella vita dell'individuo e dell'umanità nel suo insieme. Nel momento supremo del confronto fra vita e morte, fra essere e non essere

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(della sensazione) - paradigmaticamente rappresentato dalla tragedia - si coglie il valore e il significato di ciò che si è fatto o si può fare, e quindi la morte è condizione di una più piena realizzazione della vita, cosicché si può dire che mancherebbe qualcosa alla vita se non ci fosse la morte (WL, pp. 182-187). La morte è d'altra parte condizione per lo sviluppo dell'umanità: ciascun individuo è qualcosa di originale e d'irripetibile e deve sparire per poter lasciare il posto a nuove specificazioni, che devono rimpiazzare gli individui precedenti, non più adatti alla mutata situazione; questo vale anche per i popoli, che sopravvivono alla storia solo quando sono di razza inferiore, cessando però di contribuire attivamente allo sviluppo dell'uma­ nità stessa (ebrei e zingari). Dùhring non rifiuta a priori neppure la possi­ bilità che l'intera umanità debba un giorno perire, ma tale prospettiva, come avviene nel caso dell'individuo, dovrebbe contribuire ad innalzare il senso della vita (WL, pp. 187-191). Per quanto concerne più specificamente l'aspetto soggettivo del mori­ re, Dùhring sostiene che esso, nella sua forma naturale - invero rara nelle attuali condizioni sociali -, non comporta dolore, in quanto è semplice­ mente l'arrestarsi delle funzioni vitali. Come la vecchiaia, quando segue ad una vita ben vissuta, con il suo graduale ritirarsi dalle lotte della vita nella tranquillità, non sarebbe in sé un male se non fosse accompagnata, dopo lo sfruttamento, dall'emarginazione, così anche la morte potrebbe essere qua­ si vista con favore (WL, pp. 193-195). Posto comunque che il morire è l'ultimo atto del vivere, l'uomo deve assumere nei suoi confronti lo stesso atteggiamento di lotta con cui affron­ ta le varie fasi della vita e correggere mediante l'intelletto le eventuali false aspettative che lo circondano: la morte non può essere sconfitta, ma si può certamente imparare a morire bene. In particolare Dùhring sostiene che al timore derivante dalla casualità della morte va contrapposto la considera­ zione che nessun gioco è bello senza il caso e senza la possibilità di perdere, e che quindi la morte rende il gioco della vita più interessante. La morte va considerata alla stregua di qualsiasi altro evento che vanifica i nostri sforzi e quindi - si potrebbe dire - perde ogni particolare valenza metafisica 17 . Resta la sofferenza dei sopravvissuti che agli occhi di Dùhring costitui­ sce in definitiva la componente più dolorosa della morte: contro di essa 17 WL, pp. 168-174. Altrove Dùhring afferma che la paura del caso va superata riconoscendo anche in esso l'operare di quella necessità che domina l'universo (WL, pp. 217-219).

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non si può far altro che richiamarsi al destino della specie, che, se non può eliminare il rimpianto per la insostituibile perdita, può quanto meno ridurne l'intensità (WL, p. 174 s.). Al tema delle sofferenze derivanti dalle malattie, interpretate come un turbamento dell'ordine naturale e quindi non da concepirsi come una componente originaria della vita, Dùhring dedica relativamente poco spa­ zio. Normalmente esse non mettono in crisi il generale benessere dell'uma­ nità e, di fronte all'ignoranza dei medici, la cosa migliore è condurre una vita che eviti il loro insorgere, senza per questo cadere nelle assurdità die­ tetiche proposte dai vegetariani 18. Dùhring a questo punto non può esimersi dall'affrontare il problema del suicidio, che, pur nella sua eccezionaiità, sembra offrire un argomento di notevole portata contro coloro che sostengono la positiva dell'esisten­ za 19. Per Dùhring un certo numero di suicidi ha come causa l'affermazione di valori (amore, onore) comunque appartenenti alla vita, il cui valore non è quindi messo in discussione, ma solo colto unilateralmente: si rinuncia alla vita perché in essa manca qualcosa che le è considerato essenziale e conscguentemente si riafferma la propria fede nel suo valore (qui Dùhring riprende integralmente l'interprelazione schopenhaueriana del suicidio). Esclusi quei suicidi che hanno una chiara origine patologica - ad esempio quelli dei bambini -, Dùhring si sofferma poi sui suicidi « sociali » che attestano sì il disvalore della vita, ma di quella specifica infelice vita cui tali individui sono costretti dall'oppressione sociale. Essi sono quindi da inter­ pretarsi come un estremo atto d'accusa verso la società e in questo senso non si può condividere l'indiscriminata condanna del suicidio da parte dell'autorità religiosa: essa vuole togliere all'uomo anche questa estrema forma di libertà (WL, pp. 175-184). Una volta affrontato il tema dei mali che sembrano derivare intrinse­ camente dalla natura umana, Dùhring si dedica a quei mali che a suoi occhi sono di esclusiva origine sociale. In questo contesto non v'è bisogno di 18 WL, pp. 199-203. Dùhring rinfaccia ai vegetariani - un'ideologia implicitamen­ te indicata come caratteristica delle classi più elevate - di compensare la loro astinenza dalla carne con il succhiare il sangue al popolo. Sullo stesso piano viene posta la ipersen­ sibilità: essa convive nella maggior parte dei casi con la massima brutalità. 19 Dùhring si trova qui ad affrontare dal punto di vista dell'ottimismo un tema classico del dibattito sul pessimismo: il fatto che la maggior parte degli uomini continua a preferire il vivere al morire può valere come un forte argomento contro coloro che negano valore alla vita nella sua generalità, ma, viceversa, il fatto che alcuni preferiscano la morte alla vita, è un argomento altrettanto forte contro quanti sostengono un valore incondizionato della vita!

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limitarne la portata o di giustificarne la presenza; al contrario, il sottoline­ arne la gravita può avere un implicito significato ottimistico nella misura in cui ciò stimola l'uomo alla lotta che, come si sa, per Dùhring costituisce lo strumento fondamentale per cogliere il valore della vita. Così Diihring non ha difficoltà a riconoscere il peso delle sofferenze derivanti dalla povertà e dalla fame, sofferenze che però potrebbero essere eliminate in un ipotetico sviluppo «socialitario» della struttura sociale (WL, pp. 203-205), e dei mali prodotti dall'assenza e dalla corruzione della giustizia, che lasciano dolorosamente insoddisfatto l'istinto di rivalsa, dalle persecuzioni politi­ che, dall'intolleranza ideologica (WL, pp. 209-214). Meno fiducioso si mostra invece Dùhring riguardo alla possibilità di eliminare le altrettanto gravi sofferenze derivanti dalle guerre: è vero che le guerre moderne servo­ no solo a « interessi privati e di classe » ed è vero che, qualunque sia il loro esito, i costumi e la morale ne soffrono e il popolo ne esce sempre sconfitto (il suo problema è quello di avere Fulter e di non divenire Kanonenfutter) , ma Dùhring, poco sensibile a prospettive internazionalistiche, appare così convinto della loro inevitabilità da considerarle di fatto come un male in­ separabilmente legato all'essenza dell'umanità (WL, pp. 205-208). Dùhring indica infine come tre ulteriore fonti di sofferenza, anch'esse storicamente determinate, lo scetticismo, il timore del caso e il pessimi­ smo. Si tratta di componenti negative della vita sui generis, giacché di fatto sono mali non in sé, ma in quanto impediscono l'affermarsi di una con­ cezione del mondo - quella di Dùhring - che è l'unica in grado di con­ durre l'uomo alla felicità. S'è già accennato brevemente in precedenza alle ragioni dell'opposizione di Dùhring alla concezione tradizionale del caso e ai mezzi attraverso i quali ci si deve liberare dalla paura che ne deriva; quanto allo scetticismo, esso è considerato causa di sofferenza perché non si esaurisce nel giustificato attacco contro i vani dogmi della metafisica e della religione, ma sostiene apertamente l'impossibilità di ogni forma di sapere. Lo sviluppo dello scetticismo tedesco è cominciato con Kant, è proseguito in Hegel (le sue fragili costruzioni metafisiche indeboliscono la fiducia nelle possibilità della conoscenza) ed è giunto infine a conclusione con gli odiati neokantiani, che sono riusciti a farlo penetrare perfino nella scienza. Quanto al pessimismo - il corrispettivo pratico dello scetticismo, che rende impossibile un saldo volere -, produce Demoralisation in quan­ to teorizza l'impossibilità'di un agire in grado di migliorare il mondo (WL, pp. 214-220). La critica allo scetticismo e al pessimismo introducono alla parte con­ clusiva dell'opera in cui Dùhring illustra i caratteri di quell'atteggiamento

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teorico-pratico che deve condurre l'uomo al definitivo adeguamento (Ausgleichung] all'ordine del mondo 20. Dùhring in primo luogo richiama i limiti di ogni atteggiamento pura­ mente speculativo: non basta aggiustare le idee sull'essere per venire a capo dell'essere stesso; eppure la più gran parte dei filosofi e, soprattutto, i re­ ligiosi si sono mossi in questa dirczione, costruendo un sapere che soddisfa l'egoismo « ideologico », ma che raramente produce qualcosa di efficace sul piano pratico. Inoltre il loro sapere ha un carattere programmaticamen­ te elitario, è considerato come loro appannaggio esclusivo (Fiatone è pre­ sentato come un esempio di « pretesca alterigia filosofica »), come se il popolo - la maggioranza degli uomini - non esistesse. Si tratta invece di offrire al popolo un sapere semplice e realistico, l'unica possibile fonte di vera saggezza e l'unico in grado di produrre quella Gesinnung necessaria ad affrontare in modo corretto la vita 21 . Per quanto riguarda la componente teorica di tale Gesinnung, Dùhring richiama la sua concezione monistica della realtà di cui l'indi­ viduo costituisce un transitorio momento. L'intrinseco legame che si estende, al di là dell'umanità, a tutti gli esseri, produce in chi è in grado di viverlo nel profondo, pace e soddisfazione. Di più: esso suscita nell'uo­ mo una sorta di mitempfinden con il tutto che deve essere visto come qualcosa di analogo alle emozioni « simpatiche »; questo aspetto della conoscenza teoretica è dunque per Dùhring di per sé fonte di grande e

20 Dùhring si premura di precisare che quanto segue non sono le opinioni di un uomo che non abbia mai conosciuto i dolori e le sofferenze nella vita, ma di chi ha dovuto sempre combattere contro ogni sorta di mali (Dùhring ricorda in particolare la sua cecità e la costante ostilità da parte del mondo universitario - ma in una società marxistico-giudaica sarebbe stato senz'altro ghigliottinato!). Il suo atteggiamento di fronte alla vita semmai conferma la tesi generale che le avversità, in quanto stimolano all'attività, sono causa di felicità (un esempio analogo è offerto da Bruno). La figura di Schopenhauer offre in negativo una sorta di controprova della correttezza di questa tesi: libero per tutta la vita da preoccupazioni economiche e in condizioni di condurre la sua esistenza come meglio credeva, egli è infatti approdato al pessimismo. Peraltro Dùhring dice anche che le visioni del mondo dei pensatori e dei singoli individui dipendono più dal carattere che dalle circostanze esterne (WL, pp. 258-266). 21 Benché si debba bandire ogni interpretazione allegorica o figurativa della realtà, questo sapere deve essere in grado di stimolare anche la fantasia, perché in caso contra­ rio non potrebbe scalzare la superstizione religiosa. La diffusione fra il popolo della verità - la conoscenza delle leggi della natura, i buoni costumi, le giuste opinioni sul corso del tutto - deve avvenire mediante opuscoli di facile lettura (la verità è semplice!), che tuttavia devono evitare qualsiasi tono autoritario e non devono avere la forma di catechismi religiosi, come invece ha voluto Comte (WL, pp. 273-279).

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autentico piacere che, data la superiorità del piacere che deriva dalle emozioni « simpatiche », è in grado da solo di offrire un poderoso con­ trappeso alle sofferenze della vita. La coscienza di questo nesso poi, come si è visto, deve intervenire quando si tratta di offrire un punto di vista più elevato dal quale considerare le sofferenze individuali e in particolare la morte 22 . Nonostante questo quadro ottimistico, Dùhring pone come premessa alla presentazione dell'atteggiamento pratico che l'uomo deve assumere una descrizione del valore morale dell'umanità che va al di là delle più pessimistiche descrizioni schopenhaueriane: l'umanità è vista infatti come sostanzialmente malvagia, come dominata dall'egoismo, dalla corruzione, dall'ostilità dell'uomo verso i suoi simili; è quindi un gravissimo errore avere nei confronti degli altri aspettative morali troppo elevate 23 . La cono­ scenza di tale stato di cose è comunque, anche in questo caso, condizione per un corretto agire morale: bisogna guardarsi dal lasciare troppo facil­ mente libero corso ai sentimenti dell'amore e della compassione, dall'esse­ re troppo fiduciosi nel prossimo, così come bisogna evitare il gratuito rinnegamento di se stessi, lo spontaneo offrirsi alla sopraffazione, che è qual­ cosa di simile alla prostituzione. Il giusto non deve rassegnarsi a soccombe­ re, bensì deve lottare contro i malvagi e cercare di far trionfare i propri valori. A questa lotta l'uomo non deve por mano da solo: egli deve cercare di creare un Gemeinschaftband fra i giusti, fra i quali soltanto potrà vera­ mente regnare la virtù. La morale di Dùhring che, come accennato, si fon­ da sull'estensione e sulla generalizzazione degli istinti « simpatici », non si distacca molto dai precetti tradizionali: compassione e partecipazione alle sofferenze del prossimo, aiuto ai deboli, sacrificio personale in favore della collettività quando esiste una prospettiva di migliorare veramente le condi22 WL, pp. 283-289. Come già notava Vaihinger 1876, p. 232, Dùhring sembra sviluppare una posizione per molti versi simile a quella di Strauss, anche se egli evita di presentare questo rapporto simpatico fra l'individuo e il tutto come qualcosa di simile ad un rapporto religioso. 23 Questo dualismo uomo/natura corrisponde in linea di principio all'atteggia­ mento di fondo assunto da Dùhring nei confronti del problema del pessimismo: la tesi della incondizionata positività della natura serve a fondare quello che si potrebbe chia­ mare l'ottimismo « metafisico » di Dùhring, mentre la tesi della predominante negatività dell'umanità serve a fondare il pessimismo « storico ». Benché - ancora in linea di prin­ cipio - si possa far ricorso all'evoluzionismo per giustificare questa frattura fra l'uomo e la natura (l'uomo non ha ancora completato la sua evoluzione, come invece ha fatto la natura), è difficile sottrarsi all'impressione che Dùhring, almeno soggettivamente, non sia affatto giunto a quell'adeguamento all'ordine del mondo da lui propugnato.

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zioni degli altri. E nell'esercizio di questi istinti « simpatici » fra gli uomini Dùhring vede un altro potente mezzo per controbilanciare le sofferenze della vita: l'uomo è un essere intrinsecamente sociale e quindi la partecipa­ zione del prossimo alle sue sofferenze rende tali sofferenze molto più sop­ portabili (WL, pp. 289-298). La comunità dei virtuosi non deve essere fine a se stessa, bensì deve impegnarsi nella trasformazione e nel miglioramento della realtà. Non è qui il luogo di prendere in considerazione le concrete proposte di riforme sociali ed economiche avanzate da Dùhring; quel che importa sottolineare invece è come questo impegno - da un punto di vista eudemonologico non è in ultima analisi che un'altra forma di quel lavoro in cui fin dall'i­ nizio Dùhring aveva indicato la via per cogliere il valore della vita (WL, pp. 298-301). Con questa esortazione all'attivismo termina l'opera di Dùhring ed è interessante rilevare che, a partire dalla seconda edizione, Dùhring rinunci a trarre esplicitamente le conclusioni del suo discorso affermando a chiare lettere il prevalere del piacere sul dolore nella vita dell'uomo 24 . Benché una tale conclusione possa essere considerata implicita - chi sceglie la lotta (l'esercizio delle proprie forze) e l'impegno per l'umanità (l'esplicazione degli istinti « simpatici ») dovrebbe essere necessariamente felice -, si ha l'impressione che Dùhring alla fine preferisca lasciare sullo sfondo l'aspet­ to eudemonistico della sua concezione della vita per sottolinearne piut­ tosto la componente altruistica ed eroica (non per caso Dùhring ha ag­ giunto alla quarta edizione il sottotitolo « Una trattazione filosofica nel senso di una concezione eroica della vita »). Così, abbastanza paradossal­ mente, la sua posizione finisce per essere molto vicina a quella dell'odiato Hartmann 25 . 24 Nelle pagine conclusive della prima edizione Diihring parla di una « fede nel valore della vita », che dovrebbe in qualche misura completare i risultati dell'indagine scientifica, che necessariamente non possono abbracciare tutta la realtà. Qui fra l'altro egli sviluppa una sorta di argomento a priori a favore dell'ottimismo: poiché l'organiz­ zazione della natura è finalistica, essa deve essere necessariamente tale da soddisfare i bisogni naturali dell'uomo (WL1 , pp. 186-191). 25 Vaihinger 1876, pp. 164-178, sviluppa un'estesa contrapposizione fra i due autori, considerati come antitetici sotto ogni aspetto. Ma, a prescindere dal fatto che egli, per ragioni cronologiche, prende in considerazione la prima edizione dell'opera di Dùhring, tendenzialmente più ottimista delle edizioni seguenti, e, di Hartmann, solo la PU, a sua volta tendenzialmente più pessimista delle opere seguenti - in particolare dalla PSB -, l'esasperazione dell'antitesi fra questi due autori ha la funzione di preparare il campo alla « sintesi » rappresentata da Lange.

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3. L'OTTIMISMO DI DUBOC. Un altro interessante esempio di opposizione al pessimismo dal punto di vista di un originale naturalismo è offerto dal libro di Julius Duboc L'ottimismo come visione del mondo e il suo significato religioso ed etico per l'epoca contemporanea 26. Per quanto Duboc si consideri senz'altro ateo, questo libro ha il fine principale di sviluppare una religiosità laica, che ha non poche analogie con le posizioni dell'ultimo Struss e che, non casualmente, si rivela come lo strumento decisivo per combattere il pessimismo. Il discorso di Duboc si apre con un'analisi della situazione spirituale della sua epoca, la cui caratteristica fondamentale è individuata nella crisi di fiducia nell'aldilà. La concezione dell'aldilà di Duboc dipende strettamente dal suo modo di accostarsi al fenomeno religioso: egli distingue fra un aspetto « pratico » e uno « estetico » della religione; il primo aspetto riguar­ da, per così dire, l'immediato contenuto consolatorio della religione (l'im­ mortalità dell'anima, la provvidenza, il desiderio di pace) e si concretizza nelle varie religioni positive; il secondo, che si innalza sopra il primo come « lucente arcobaleno », è invece questione di animo (Gemùth] e di fantasia, e riguarda essenzialmente il sentimento che sorge nell'uomo nel momento in cui si coglie in rapporto con l'infinito, l'immenso, il mistero, termini che Duboc impiega di fatto come sinonimi di aldilà. Mentre una religiosità pra­ tica non può sussistere senza una componente estetica, non è vero il con­ trario: può esistere una religione « estetica » indipendente dalla pratica e dalle varie forme di religione positiva (Duboc 1881, pp. 1-7 e 84-86). Ma, come s'è detto, l'epoca presente mostra una crisi di questo senti­ mento: gli « studenti dell'ai di qua » cui nel 1849 si rivolgeva Feuerbach

26 Duboc 1881. Julius Duboc (1829-1903), che spesso si serve dello pseudonimo Julius Lanz, studia filosofia a Giessen e a Bonn e si addottora nel 1856. In quell'anno ha luogo una visita a Feuerbach, che era stata preceduta da un contatto epistolare, iniziatosi nel 1853: Duboc si considera a tutti gli effetti un discepolo di Feuerbach. Nello stesso anno, per una serie di circostanze, Duboc si reca in Australia per dedicarsi all'allevamen­ to delle pecore. L'impresa si conclude con la completa perdita del capitale investito, cosicché Duboc torna nel 1857 in Europa e conclude gli studi universitari. Sconsigliato dai medici dal seguire la carriera accademica, Duboc si dedica all'attività pubblicistica in varie città della Germania; in particolare dal 1863 al 1870 è redattore della « Nationalzeitung » di Berlino. Nel 1866 Duboc rompe completamente con Feuerbach, cui comunque dedica Duboc 1875. In seguito si trasferisce a Dresda e si dedica ad un'inten­ sa attività letteraria, che continua senza interruzione fin quasi alla morte. Sulla figura di Duboc cfr. Joèl 1892.

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nelle sue lezioni di Heidelberg sono divenuti molto numerosi. E venuta meno una certa « poesia della vita »: il mondo è divenuto più pacato, più prosaico. L'affievolirsi della poesia rende più difficile la religione ma anche, reciprocamente, la mancanza di un riferimento all'aldilà rende meno viva la poesia che in esso trova le sue basi più solide e durature (ibid., pp. 18-24). La crisi dell'aldilà è stata indubbiamente favorita dallo sviluppo delle scienze naturali che nel loro approccio alla realtà si pongono precisamente il fine di togliere di mezzo il mistero. La stessa posizione di Du Bois-Reymond, nella misura in cui propugna come unico sapere quello scientifico che non soddisfa le esigenze dell'animo -, e nello stesso tempo afferma l'assoluta impossibilità di risolvere il mistero, di fatto uccide il mistero stesso, lo fa scomparire e quindi influisce negativamente sul sentimento religioso 27 . Ma il sintomo più significativo del venir meno della fede nell'aldilà o quantomeno di una frattura del rapporto con esso - è la crescente sfidu­ cia nella possibilità del progresso, di un miglioramento del mondo. L'espressione filosofica di questo modo di vedere è offerta paradigmaticamente dal pessimismo 28 . Il pessimismo non è in sé una novità: le sue tesi principali si trovano già in Plinio, in Seneca, nelle Veglie di Bonaventura, in Schelling, ma esso, dopo la sconfitta del 1848, ha trovato nuove le orecchie che gli hanno prestato ascolto. Il contraddittorio sistema di Schopenhauer, in cui « nulla ha ragione che non sia il nulla », non è affatto originale e vive solo del suo pessimismo, tanto che appare assurdo il tentativo di assicurargli una so­ pravvivenza indipendentemente da esso 29. In ogni caso Duboc mostra di preferire il pessimismo di Scho­ penhauer a quello di Hartmann; Schopenhauer infatti, una volta giunto 27 Ibid., pp. 13-18, 56-60. Duboc si sofferma anche a lungo sulla diffusa ostilità verso lo spiritismo (Zòllner, Du Prel) che a suo avviso è un altro sintomo del generale rifiuto per tutto ciò che appare turbare l'ordine naturale e che può suscitare meraviglia (ibid., pp. 25-48). 28 Ibid., p. 50 s. Duboc si rifa qui evidentemente al pessimismo di Schopenhauer, giacché più oltre distingue fra i vari tipi di pessimismo e riconosce la specificità della posizione di Hartmann (ibid., pp. 104-107). 29 Duboc 1889, voi. I, pp. 18-95. Le critiche di Duboc a Schopenhauer, il cui sistema è giudicato nel suo insieme una Sinnlosigkeit (ibid., p. 101) ripropongono le tradizionali obiezioni. Gli scritti di Duboc fanno peraltro ritenere che la sua conoscenza di Schopenhauer derivi da fonti di seconda mano: ad esempio egli afferma che il secon­ do volume del Mondo contiene lo scritto sulla morale premiato dall'Accademia norve­ gese! (ibid., p. 80).

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alla conclusione che il non-essere era preferibile all'essere, coerentemente predicava l'ascesi (benché non la praticasse); la posizione di Hartmann viceversa può essere così sintetizzata « applicare all'esistenza e al nostro atteggiamento nei suoi confronti la massima così amata dagli uomini d'af­ fari: lamentare la miseria dell'epoca e in privato far tintinnare il denaro nelle proprie tasche ». Come non essere pessimisti, se ciò che tale dottrina richiede non consiste in altro che nel prendere tutto quello che si può dalla vita e dalla natura, conservando solo un fare sprezzante? (Duboc 1881, pp. 107-110). La sfiducia nella possibilità del progresso e del miglioramento - tipica del pessimismo - è la manifestazione più grave della crisi della fede nell'al­ dilà perché Duboc ritiene di poter dimostrare che il concetto di progresso ha un intrinseco legame con il Tutto. Secondo uno scema ormai consolidato Duboc descrive la vita psichica come costituita dagli elementi della sensazione e dello Streben, strettamente interdipendenti, nel senso che non si da sensazione senza Streben e non si da Streben senza sensazione 30. A questo punto Duboc si domanda che cosa intenda l'uomo quando afferma che qualcosa ha senso o non ha senso; sensato appare ciò che si adatta all'intelletto umano, ovvero tutto ciò che mostra un nesso che l'uomo approva o vorrebbe riprodurre. Poiché la fonte del valore sono la sensazione e lo Streben, ne consegue che l'uomo non fa mai nulla che gli appaia insensato - il che, in ultima analisi, significa che l'uomo non fa mai nulla che egli non voglia, ovvero che non produca in lui piacere. Posto che in generale il piacere è ciò che migliora le proprie condizioni, ovvero incrementa l'essere (correlativamente ciò che l'uomo non vuole mai è il non-essere), si può concludere che è intrinseca alla natura umana la tendenza al miglioramento. Questa conclusione può essere estesa senza grandi difficoltà a tutto l'universo, che nella prospettiva moni­ stica di Duboc è un tutto unitario ed omogeneo (« l'operare nella materia

30 Duboc 1881, pp. 135-148. Duboc applica senza limitazioni questo schema in­ terpretativo, sai punto da considerare lo stesso sentimento religioso come derivante dalla soddisfazione di uno specifico istinto (ibid., p. 95). Essendo lo Streben il corrispettivo psicologico dell'esplicazione della forza, nel quadro del suo monismo, Duboc sembra intenzionato ad attribuire ad ogni essere - anche agli animali, alle pietre, agli astri Streben e sensazione, dichiarandosi vicino a Lotze e a Fechner. Egli peraltro sostiene l'esistenza di sensazioni inconsce, e pone nel loro elevamento a coscienza la condizione perché si possa parlare di piacere e dolore e si possa considerare un essere animato: dunque, a differenza di Fechner, solo gli esseri dotati di coscienza sono animati (sul problema dell'animazione universale cfr. ibid., pp. 61-71).

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e sulla materia di un principio vitale organizzatore» [ibid., p. 125]): ciò che vale per lo Streben dell'uomo, vale anche per lo Streben dell'universo e si può quindi sostenere senz'altro che il Tutto ha un senso e che tale senso consiste nella tendenza al miglioramento, ad una conservazione e ad un innalzamento dell'essere 31 . La riaffermazione del progresso - che è anche una messa a punto del significato dell'ottimismo: non passiva acccttazione del presente, ma impe­ gno per il suo miglioramento - è la migliore confutazione del pessimismo, le cui argomentazioni a sostegno di un prevalere del dolore sul piacere nell'ambito della volizione Duboc ritiene o sbagliate o non dimostrate 32 . Anche nell'ambito dell'etica viene ribadito un rigoroso eudemonismo, che implicitamente esclude la tesi di Hartmann secondo cui la moralità apporta più dolore che piacere. Duboc infatti basa l'agire morale sul con­ cetto di « dovuto » (das Gebùhrliche): esso deriva dalla « legge dell'essere » che, fondata sull'unità dell'essere cosmico, fa percepire all'uomo come una contraddizione e come una minaccia all'essere dell'individuo tutto ciò che frantuma in « opposizioni » quell'unità. Ma, contro Kant, questa legge di­ viene normativa solo nella misura in cui essa stimola uno specifico istinto e quindi fa percepire come dolore ogni violazione della morale e come piacere ogni sua affermazione. L'eventuale piacer derivante dall'agire im­ morale, dall'incondizionata affermazione del proprio io a danno degli altri, è quindi in condizioni normali contrastato dal piacere maggiore che deriva dall'osservare la legge dell'essere 33 . Con questo tuttavia Duboc si guarda bene dal ridurre la morale a pura istintualità: il ruolo dell'intelletto e della ragione nell'individuare la giusta misura del dovuto e nel guidare con­ scguentemente l'agire è per Duboc fondamentale, cosicché vero progresso - accrescimento dell'essere - si ha solo con lo sviluppo della morale (Du­ boc 1881, pp. 227-229). 31 Ibid., pp. 149-174. Duboc ha ovviamente qualche difficoltà a provare l'univer­ salità della tendenza al miglioramento dell'uomo, tesi che pare contraddetta dai fenome­ ni dell'apatia e in particolare della malvagità. Egli pertanto si impegna a mostrare che nessuno vuole mai gratuitamente il male proprio o altrui. Quanto ai contrasti d'interessi fra gli individui, essi possono e devono essere regolati dalla morale, il che peraltro, come si vedrà fra poco, può avvenire senza violare la generale impostazione eudemonistica qui delineata. 32 Alcune delle critiche rivolte da Duboc alla tesi della esclusiva negatività del piacere e ai vari elementi del « bilancio eudemonologico » sono state citate nelle pagine dedicate alla discussione intorno al pessimismo. 33 Duboc 1881, pp. 218-220 e 1883, pp. 273-275. Cfr. la critica all'eudemonismo di Duboc in Steinthal 1883.

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Questa fiducia nel progresso e nel prevalere del piacere sul dolore non impedisce peraltro a Duboc di prendere atto del gran numero di s 377n, 378, 385n, 391, 398, 412n, 436n, 443,

INDICE DEI NOMI

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444, 447, 469, 473, 480, 495n, 507n, 517n Karsch A., 102n, Kautsky K., 316, 317, 319, 321n, 515, 516, Kemmer O., lOn Kern - Hartmann B., 12In, 158n, 344n KettelerE., 519n Kierkegaard, 43 8n Kilzer A. G., 53n Kirchhoff G. R., 332 Kirchmann J., 338n, 340n341n, 352n, 353, 354, 359n, 367, 393, 409n, 435, 439, 440n, 442, 448, 456, 457 Kiy V., 83, 88-90 Klaeber H., 460n Klages L., 211n Klein H.J., 341n Knauer G., 354n, 356, 357n, 369, 410n, 437n, 453, 454n Knauer V., 420n Knoodt P., 79n Koeber R., 122n Kohler F., 324n Kòhnke K. Ch., 79n, 105n, 315n, 34In, 460n Kònig W., 430n Kòppen F., 50n, 5In Kòrber G. W., 79n Kormann F., 267n Kowalewski A., 5n Krause A., 385n Krause K. Ch., 64n Krauss L, In, lOn, 377n, 420n Krohn A., 356n, 528 Krug W. T., 48 KrummelR. F., 5Un Kugelmann F., 50n Kùhtmann A., 410n Kurt, 459n Kùssner G., 397, 398n Kym L. A., 398n

Lanz, 477n Lanzky P., lOn Laocoonte, 507n Laplace P. S., 285 Lassalle F., 307n, 308n Lasson A., 122, 338, 346n, 356n, 382n, 386-387, 389n, 395n, 419n, 440n, 441, 442, 453n, 455, 456 Lasson G., 386n Lazarus M., 258n, 386n Leibniz G. W., 3In, 51n, 92n, 101, 145, 147n, 169, 170, 180, 200, 228, 354, 378, 382n, 384, 391n, 396, 405 Leiste H., 210n Lenau N., 10 Leo H., 99n Leopardi G., 117, 118, 263n Leroux P., 116 Lessing G.E., Lessing Th., 200, 320, 398n Lessing, 460n Leuthold H., 10 Lewes G. H., 35In Liebmann O., 83n Lindner E. O., 54n, 57-58, 59, 62n, 72, 74-75 Lipsius R., 157n Liszt F., 462n Locke J., 264n, 267, 268n, 282n Lorenz A., 122n Lorenz O., 398n Lorm H., 10, 211, 214n, 377n, 385n, 419, 528 Losurdo D., 90n Lotze H., 140, 352n, 353, 377n, 381n, 391,396, 398n,399n,434n,442,479n Louis R., 211n, 212, 214n Lòwenthal E., 115n Liibbe H., 85n LukàcsG., 116,317,529 Luterò, 495n Luthardt Ch. E., 521

LabanF., 14, 15,507,511,512 Lamennais F.-L. de, 116 Lamettrie J. O. de, 463 Lang H., 428 Lange F. A., 155n, 340-342, 343, 347348, 380n, 384-385, 386n, 464n, 476n, 482, 485

Mainlànder Ph., 2, 3, 12, 121, 263-312, 330, 359n, 368, 374, 375, 43 In, 432n, 482, 488n,524 MalthusTh. R., 515 Maercker F. A., lOn Marcuse L., In Marggraff H., 57

600

INDICE DEI NOMI

Marini A., 412n Martensen H. L., 438 Marx K., 50n, 262n, 337n MaudsleyH., 351nn, 356 Maupertuis P.-L. de, 4Un, 412n Mauthner F., 3n, 337n Mauzi R., 4Un Mehring F., 316, 317, 318n, 380n, 516n Meissner A., 10 Melzer E., 346n, 390n, 455, 456, 458, 459 Mendelssohn M., 76 Metternich K., 377n Metz R., 332n Meyer J. B., 72, 315-316, 318, 321, 322n, 388, 392n, 410n, 421n, 423, 424n, 425n, 439n,440n,455, 514, 518, 528 Meysenbug M., 508n Michelet K. L., 80, 82, 85-87, 106n, 346, 347n, 356, 357, 359, 519, 520 MillJ. St.,200, 385n Mili]., 35In Mittner L., lOn Mockrauer F., 324n Moleschott J., 50, 116n, 338, 463 MolièreJ.-B., 54n, 320 Mommsen Th., 116n Mon-Hua Liang E., 248n Montaigne M., 320 MorellJ. D., 35 In Mosé, 76 Mozart W. A., 58 MùllerJ., 15In, 345 Mundt Th., 50n, 430n, 43In, 444n Nagel W., lOOn Neumann Th., 338n Newton L, 141 Nietzsche F., 5n, lOn, 14, 214n, 257, 264n, 267n, 316n, 320, 324, 356, 379n, 380n, 389n, 482-507, 508, 511 Nipperdey Th., 53n

Noack L., 57, 80-83, 103, 106-108, 321n Noiré L., 13, 330-332, 368, 373 Nolte E., 529n Occam, 153 Odisseo, 393 Oersted H. C., 264n OxenfordJ., 54, 67

Paolo, 264n, 456 Pascal B., 320 Pasquinelli A., 44n Paulsen F., 315-316, 382n, 406, 411, 417 Pesch T., 337, 339n, 349, 350n, 519n, 521 Peters K., 62n, 122n, 330n, 33In, 332n, 333, 335, 339n, 359n, 364n, 368n, 371,373-375, 393, 395n,410n Petraschek K. O., 123n, Pfleiderer E., 266n, 391, 394n, 395n, 410n, 426, 436, 438n, 441, 442, 443, 445n, 447, 449, 452, 517, 518, 527 Pfleiderer O., 122n, 158n, 456, Pfleiderer R., 437, 438n, 439n, 441, 453n, 454, 455n, 457, Piper R., 44n Planck K. Ch., 106, 107n Fiatone, 22, 12In, 158, 264n, 318, 337n, 391n,474 Plinio, 478

Plùmacher O., In, 14, 122n, 267n, 336n, 343n, 358n, 361n, 366n, 371n, 408n, 411, 412, 414n, 425n, 432n, 439n, 448, 449, 45In, 452n, 525, 526n Poggi S., 350n Pomtow K. E., 94n Proudhon P.-J., 262n, 337n Raabe W., 10 RacineJ.-B., 320 Raffaello, 344 Rahden W., 488n, 489n Ralfs G., 508n Ranke L., 123n Rapp A., 379n RàtzeJ. G., 46-47, 48, 78n Rauschenberger W., 263n Ravera M., 93n Rawidowicz S., 109n Ree P., 5Un, Regazzoni A., 114n

Rehmke J., 318, 321n, 322n, 358, 359n, 365n, 367, 370, 388, 390n, 408, 434n, 436n, 437n, 438n, 441n, 442n, 444, 445n, 449, 452, 453, 454, 455, 523 Reichlin-Meldegg K. A., 57, 67n, 342n, 354,370n,394n Reiff J. F. 106, 107n, 207n, 208 Reinhold E. C. G., 52n

INDICE DEI NOMI

Reinhold K. L., 66 Raymond M., 337n, 478, Ribbeck W., 394n, 395n, 414n, 417, 44 In, 454 RichterK., 516 Rintelen F. J., 123n, 156n Rixner Th. A., 52n Roget Ph., 214n Rohde E., 488n Romundt H., 488n Rosenkranz K., 50-51, 60n, 66, 80-82, 84, 87-88, 98n Rosmini A., 116, 35 In Rosso C., 4Un RousseauJ. J., 103, 190n Rubinstein S., 267n Ruest A., 213n Ruge A., 207, 213 Safranski R., 20n SalaquardaJ., 485n, 489n Salomé L., 5Un Salzsieder P., 2n, 45n, 47n, 5In, 80n, 85n, 87n, 90n, 92n, 93n, 96n, 105n, 106n, 248n, 249n, 330n, 332n, 373n, 432n, 433n Sange W., 60n, 87n Sans E., lOn Schaarschmidt K., 435n Schaller J., 62n Scheler M., 2n Schelling F. W. J., 49, 51, 63, 64n, 71n, 79n, 91, 96n, 100, 107, 108n, 116, 125, 138, 142, 145, 154, 158,159,160, 161, 165, 179, 183, 200, 247n, 287n, 299n, 329n, 359, 366n, 382n, 396, 478, 515, 527 Schemann L., 60n Schiller F., 54, 193n, 398n, 469 SchlegelA. W., 515 SchlegelF.,515 Schleiermacher F., 20n, 46n, 75n, 96n, 104, 366n, 380, 515 Schmidt J., Sin Schmidt O., 343, 344n, 349 Schmidt-Japing J. W., 396n Schnehen W., 123n Schneidewin M., 122n, 430n Schòmel W., In SchubertF. W., 51

601

Schulze G. E., 19 Schùz A., 329n, 336n, 338n, 349, 350n, 369n, 390n, 393, 394, 410n, 414n, 429, 430n, 431n, 437, 441, 457, 519, 520, 521 Schwabe G., 32In, 388n Schwarz H., 338n, 349, 350n, 357, 360n, 364n, 369n, 394n, 417, 417n, Schwarze A., 267n Schweizer A., 349n, 365n, 366, 367n, 379n, 520, 521 Scoto Eriugena, 264n, 457, Seneca, 478 Seidlitz K., 59 Seiling M., 267n Seydel R, 79n, 80-83, 96-98, 337, 338n, 356, 410n, 514, 517n Shakespeare W., 26 Shelley P. B., 469n Simmel G., 401n, 412, 413, 414n Sisifo, 390n Socrate, 260, 301n, 391n, Sommer H., 346n, 352, 353, 356, 365n, 367, 369, 370, 390n, 409n, 410n, 416, 424n, 429, 434n, 437n, 439n, 440n, 441n, 442, 443, 444n, 447, 448, 449, 453, 454, 455n, , 457, 520, 522 Sommerlad F., 263n, 264n, 267n, 270n Sonntag W., 430n Sorg B., In, lOn, 53n SpencerH., 125, 351n Spiegel G., lOOn Spielhagen F., 10, 488n Spierling V., 2n, 23n, 44n Spinoza B., 147n, 154, 176, 249, 263n, 322n Spinoza, 507n Spir A., 383-384, 410n, 490 Stack G. J., 485n Stackelberg R., 508n Stàglich H., 3n, 14 Stange K., 365n, 367n, 368n, 437n, 439n, 44In, 452, 453, 454n Steffens H., 63 SteffesJ. P., 156n Stein K. H., 14, 507, 507, 508, 509, 510, 511 Steinthal H., 143, 258n, 480n Stiebeling G. C., 342-343, 348n, 349 Stieglitz Th., 319

602

INDICE DEI NOMI

Stirner M., 180, 207, 426 Stòckl A., 336n, 366, 367, 368n, 370n, 438n, 454, 518, 519n Strauss D. E, 8, 62, 93n, 207, 366, 373, 379, 380, 397n, 415n, 425, 429n, 438, 475n, 477, 482, 484, 507n, 528 Suhle B., 85n SullyJ., In

Taubert A., 122n, 339n, 343n, 352n, 381n, 42In, 422n, 423n, 424n, 425, 430, 435, 436n, 445, 446, 452, 456, 525,526 Tennemann W. G., 52n Thilo Ch. A., 71, 81-83, 98, 100-102, 388n Tònnies F., 5 Un Trautz Th., 321n, 322n, 356, 388, 394n, 395n, 410n, 421n, 424n, 434n, 437, 445n, 518, 520, 522 Treitschke H., 90n, 523 Trendelenburg F. A., 50n, 80-83, 315n, 460n TschofenJ. M., 434n Ulrici H., 50, 68n, 81-82, 87, 90n, 93n, 96n, 98n, 398n Vaihinger H., 1, 2n, 341n, 342n, 347, 348n, 376n, 385, 386n, 390n, 395n, 445n, 461n, 464n, 475n,476n,517n Vaternahm Th., 99n Vatke W., 429n Vattimo G., 505n Vecchiotti I., 44n Venetianer M., 122n, 339n, 371-372 Venturelli A., 492n Viedebantt H., 437 Viehoff H., 518n, 520 Vischer F. Th., 116n, 207n, 208, 209n, 322n,379n, 415 Vogt K., 50, 338, 463, 527

Voigt G., 410n, 419n, 429n, 437n, 440n, 441n, 455,513 Volkelt J., 122n, 213, 216n, 228n, 234n,

337,338n,346,347n, 351n, 353, 359, 360, 362n, 361, 364-371, 389-390, 392, 394n, 415, 420n, 421, 422n, 423n, 424n, 425, 441, 442, 516, 517n, 518n, 519, 520, 522 Volpi F., 409n Wagner C., 488n Wagner R., lOn, 54, 80n, 116n, 118n, 329n, 462n, 482n, 485, 486, 488n, 498, 507, 508n Wallenstein, 330n Weber E. H., 399n Weckesser A., 391-393, 410n, 412n, 414n, 415, 421n, 423, 430n, 431n, 444n Weigelt G. Ch., 78n, 398n Weismiiller Ch. R., 123n Weisse Ch. H., 50, 79n, 87, 93n, 96n, 98n,396, 398 Wentscher M., 517n Weyembergh M., 489n Weygoldt G. P., 318, 32In, 322n, 343n, 365n, 367, 369, 370n, 380, 381, 388, 390n, 414n, 415, 416, 418, 419, 419, 420, 421n, 422, 423n, 424n, 426n, 430n, 431,436, 452, 453,523 Willbrandt A., 9 Windelband W., 381-382, 386n, 389n, 410n, 411, 411n, 516 Winterscheidt F., 53n Wirth Ch., 358n, 367n, 422, 423n, 426n, 441n,521n Wirth J. U., 50, 57, 81, 93n, 96, 98n, 106n Wolff H. M., Wundt W., 125, 140n, 15In, 174n, 322n, 350n, 352n, 386, Wyneken E. F., 85n Zange E. M. F., 82, 322n, 434n Zeller E., 81, 105, 322, 327n, 328n, 428n ZieglerL., 123n, 15 In ZòllnerJ. K. F., 478n Zoroastro, 277, 278n

Finito di stampare nel mese di luglio 1994 da La Grafica & Stampa editrice s.r.l., Vicenza