Il normale e il patologico

Secondo Foucault, la filosofia francese del dopoguerra si sarebbe potuta suddividere in due grandi correnti antitetiche:

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Italian Pages 341 Year 1998

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Il normale e il patologico

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Biblioteca Einaudi 35

Titolo originale Le normal et le pathologique © 1966 Presses Universitaires de France, Paris Traduzione di Dario Buzzolan Per la Postfazione © 1994 Editions Gallimard, Paris Traduzione di Mario Porro © 1998 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.einaudi.it ISBN

88-06-14864-8

Georges Canguilhem II normale e il patologico Introduzione di Mario Porro Postfazione di Michel Foucault

Ein audi

Indice

p. vn X LIX

Canguilhem: la norma e l }errore

di Mario Porro

Avvertenza

Il normale e il patologico Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico (1943) 5

Prefazione alla seconda edizione

9

Introduzione

Parte prima Lo stato patologico è soltanto una modifica­ zione quantitativa dello stato normale? 15 1. 11. 40 m. 65 iv. 75 v. 23

Introduzione al problema Auguste Comte e il «principio di Broussais» Claude Bernard e la patologia sperimentale Le concezioni di René Leriche Le implicazioni di una teoria

Parte seconda Esistono le scienze del normale e del patologico? 87 95

119

1. 11.

Introduzione al problema Esame critico di alcuni concetti: del normale, del­ l’anomalia e della malattia, del normale e dello speri­ mentale ni. Norma e media

vi

Indice

146 166 189

iv. Malattia, guarigione, salute v. Fisiologia e patologia Conclusione

Nuove riflessioni sul normale e il patologico (1963-66) 195 199 220 237 250

Venti anni dopo 1. Dal sociale al vitale 11. Sulle norme organiche neiruomo in. Un nuovo concetto in patologia: Terrore Epilogo

251

Bibliografia

269

Postfazione

285

Indice dei nomi

di Michel Foucault

Canguilhem: la norma e l’errore*

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«E dunque innanzitutto çerché gli uomini si sentono ma­ lati che vi è una medicina. E solo secondariamente - per il fatto che vi è una medicina - che gli uomini sanno in che co­ sa essi sono malati» (NP, p. 191). Queste parole, quasi al ter­ mine del Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il pa­ tologico (1943), tesi di dottorato in Medicina di Georges Can­ guilhem, svelano lo sguardo genealogico con cui il filosofo si è accostato al sapere ed alla pratica medica. Allievo delTEcole normale supérieure, dove ebbe come maestro Alain, poi do­ cente al Liceo di Tolosa e presso la Facoltà di Lettere di Stra­ sburgo, Canguilhem cerca nella medicina una «disciplina com­ plementare di cultura», che possa integrare la sua preceden­ * Abbreviazioni dei testi di Georges Canguilhem: NP = Essai sur quelques pro­ blèmes concernant le normal et le pathologique (1943), ed. riv., Le normal et le patho­ logique, PUF, Paris 1972; NR = Nouvelles réflexions concernant le normal et le patho­ logique (1963-66), ed. riv. Le normal et le pathologique cit.; CV = La connaissance de la vie, Vrin, Paris 1952, ed. riv. 1965 (trad. it. di F. Bassani, La conoscenza della vi­ ta , il Mulino, Bologna 1976); FCR = La formation du concept de réflexe aux xvn et xvm siècles, PUF, Paris 1955; EH PS = Etudes d'histoire et de philosophie des scien­ ces, Vrin, Paris 1968, ed. riv. 1989 (il saggio L'objet de l'histoire des sciences è in La ragione cieca, pp. 102-16, trad. it. di C. Maggioni, a cura di F. Bonicalzi, Jaca Book, Milano 1982). I saggi dedicati a Bachelard, L ’histoire des sciences dans l ’œuvre épistémologique de Gaston Bachelard, Gaston Bachelard et les philosophes, Dialectique et philosophie du non chez Gaston Bachelard, sono apparsi in G. Canguilhem e D. Lecourt, V epistemologia di Gaston Bachelard, trad. it. di R. Lanza e M. Magni, Intro­ duzione di F. Bonicalzi, Jaca Book, Milano 1997. IR = Idéologie et rationalité dans r histoire des sciences de la vie, Vrin, Paris 1968 (trad. it. di P. Jervis, Ideologia e ra­ zionalità nella storia delle scienze della vita, La Nuova Italia, Firenze 1992). Abbreviazioni dei testi di Michel Foucault: PC = Les mots et les choses, Galli­ mard, Paris 1966 (trad. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967); NC = Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, PUF, Paris 1963 (trad. it. e introd. di A. Fontana, Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969).

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te formazione filosofica. «Ciò che esattamente ci attendeva­ mo dalla medicina era un'introduzione a problemi umani con­ creti. La medicina ci appariva, e ancora ci appare, come una tecnica o un'arte situata su un crocevia tra diverse scienze, piuttosto che come una scienza in senso proprio. Due pro­ blemi che ci assorbivano, quello del rapporto tra scienze e tec­ niche e quello delle norme e del normale, ci parevano dover beneficiare, per essere posti correttamente ed essere risolti, di una cultura medica diretta» (NP, pp. 9-10). L'esigenza di muovere «verso il concreto», come diceva Jean Wahl, accomunava allora tutta una generazione di filo­ sofi francesi; una concretezza che Canguilhem non cerca nel­ la filosofia, bisognosa di una «materia estranea», ma in una pratica scientifica1. La medicina è in primo luogo tecnica tesa a ristabilire la condizione di salute, e la sua origine è nella sofferenza dell'in­ dividuo, nello scacco {échec) che la vita incontra. Ridotta a semplice scienza naturale, la medicina rivela il suo limite: ad essa sfugge proprio il significato dei concetti di normalità e pa­ tologia, di salute e malattia. La tradizione positivistica ha ac­ colto il principio di Broussais (il medico che risolse, ai primi dell'Ottocento, la crisi delle febbri)2, per il quale fra normale e patologico esiste continuità ed in fondo equivalenza: la ma­ lattia non è che variazione quantitativa rispetto alla condizio­ ne di salute, è un eccesso o un difetto. Broussais ha ricondot­ to la malattia tra i fenomeni della natura, l’ha localizzata sul­ lo spazio cartografato del corpo, ne ha così fornito una spie­ gazione nei termini che Comte potrà codificare; la medicina è scienza perché si è aperta il cammino verso una terapeutica ef­ ficace. La malattia non rimanda più ad una essenza, diviene leggibile nella variazione rispetto alla condizione di normalità 1 La migliore presentazione in lingua italiana dell’opera di Canguilhem è il sag­ gio di G. Sertoli, Epistemologia e storia delle scienze in Georges Canguilhem, in «N uo­ va Corrente», n. 90-91, 1983, pp. 101-72. Ad esso rimandiamo anche per un in­ quadramento del Saggio del *43 nel contesto della filosofia francese. 2 Su Broussais si veda NC, cap. x, La crisi delle febbri.

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del corpo; sulla scia di Broussais, Claude Bernard potrà attri­ buirsi il merito di avere fondato la medicina sulla fisiologia. La scoperta della funzione glicogenica del fegato confermerà che la patologia diabetica non è altro che esagerazione rispet­ to ad una normale funzione di secrezione interna3. La specificità della malattia si annulla sotto lo sguardo og­ gettivante della scienza. Se la normalità è definita dal pos­ sesso di valori quantificati, cifre e parametri calcolati in la­ boratorio, cioè in un ambiente artificiale predisposto alla re­ plica ripetitiva, quel che si produce è una duplice rimozione: si cancella il contrassegno qualitativo della malattia, la sof­ ferenza vissuta dal malato, lo scarto che l’individuo, nella to­ talità indivisa del suo essere, avverte come differenza rispetto alla condizione di salute. Inoltre si riconduce la vita all’in­ differenza della materia, ad una corporeità codificata nella quale la malattia riguarda solo parti del vivente, organi, tes­ suti o cellule. All’origine della medicina, ci ricorda Canguihem, sta l’esperienza del malato, l’ostacolo che la malattia oppone al­ la sua normale esistenza; è dunque il patologico a rischiara­ re il normale. La medicina clinica ha preceduto la fisiologia: «in materia biologica è il pathos che condiziona il logos, per­ ché lo chiama in causa. E l’anormale a suscitare l’interesse teorico per il normale» (NP, p. 171). La malattia non si mi­ sura come scarto rispetto a norme prefissate, è un mutamento nella qualità del vivere. Essa provoca un restringimento del­ le modalità di esistenza, impone vincoli che riducono i mar­ gini di libertà dell’organismo rispetto all’ambiente, impone nuovi andamenti {allures) alla vita. La salute non è normalità se non nella misura in cui è normatività; in condizioni di buo­ na salute la vita esprime le proprie capacità inventive, si ma­ nifesta come potenza di produrre costantemente nuove nor­ me. Essere in salute è disponibilità ad adattarsi ad ambien­ 3 127-42.

Si veda in E H PS, V idée de Médecine expérimentale selon Cl. Bernard, pp.

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ti variati e poterli trasformare; la malattia costituisce un im­ poverimento di tale creatività, ma non sfugge alla norma, nel senso che in essa si produce un organismo differente. L ’am­ biente può però ridursi, fino a farsi nell’ospedalizzazione ri­ petitivo e monotono, ad anticipare Pinerzia della morte. Sul­ la scorta degli studi di Goldstein, Leriche e Minkowski, la malattia è, per Canguilhem, un comportamento di valore ne­ gativo che riguarda un vivente concreto, un individuo che si rapporta dialetticamente all’ambiente. In tal senso «non si dà patologia oggettiva» (NP, p. 188): la prima e l’ultima pa­ rola sulla malattia spettano al malato stesso che giudicherà la guarigione in termini di soddisfazione soggettiva, in rela­ zione al suo vissuto. La sintomatologia si radica in una sof­ ferenza, è mediata dalla «coscienza infelice» del malato. Il sapere che si vuole oggettivo non ha giurisdizione sulla nor­ malità, la scienza non può dettare norme alla vita. Giudizio che Canguilhem ribadirà costantemente4; è dal punto di vi­ sta del malato, non dal fisiologismo del medico, che si valu­ ta la guarigione. Apprendere a guarire equivale alla consa­ pevolezza che la norma della salute si inscrive nella vita co­ me potere di affrontare ostacoli, ma nella «contraddizione fra la speranza di un giorno e lo scacco, alla fine». Salute e malattia sono colte dal vivente solo sul piano dell’esperienza e «la scienza spiega l’esperienza, ma non per questo la annulla» (NP, p. 162). Il Saggio del ’43 avvia dun­ que l’esplorazione dei frammenti di una antropologia: l’uma­ no si rivela come il campo in cui la normatività della vita non è docile obbedienza a norme prefissate ma è potere di infran­ gerle per inventarne di nuove. L ’esistenza è interrogata a par­ tire dalle sue radici biologiche, in esse si instaura il problema del valore e del senso: è la vita stessa a stabilire la differenza fra salute e malattia, di fronte alla quale le leggi fisiche resta­ no indifferenti. «Ciò che distingue il fisiologico dal patologi­

4 Une pédagogie de la guérison est-elle possible, in «Nouvelle Revue de Psycha­ nalyse», n. 17, 1978.

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co non è una realtà oggettiva di tipo fisiochimico, ma un va­ lore biologico» (NP, p. 182), e tale valore è connesso alla di­ mensione teleologica dell'organismo, al suo sforzo per con­ servare la vita. Lo stare bene dei latini è valere, cioè avere va­ lore e se la patologia rientrasse fra le scienze della natura ci of­ frirebbe al più conoscenze causali, ma non sarebbe in grado di formulare giudizi di valore: chi gode di buona salute è creato­ re di valori, è nella condizione di instaurare norme di vita. Il Saggio indica, come realtà della malattia, quella realtà che sfugge alle pretese conoscitive della medicina positivi­ stica ed al suo sforzo di normalizzazione, un ostacolo posto all'individuo e dall'individuo sofferente proposto alla medi­ cina. Ma se dapprima è al vivente, in quanto soggetto di una esperienza, che Canguilhem chiede il «vero» punto di vista sulla malattia, in base al principio per cui non c'è nulla nel­ la scienza che non sia dapprima apparso nella coscienza, nel procedere delle pagine l'esperienza del vivente viene a radi­ carsi nello «sforzo spontaneo della vita». La normatività stes­ sa della coscienza umana viene riconosciuta come già pre­ sente «in germe» nella vita stessa. La visione dell'uomo co­ me ek-sistere, trascendenza di sé, oggetto non definibile in quanto produttore di possibili, si fonda sulla vita quale in­ sieme di potenzialità, realtà sempre incompiuta, in lotta con i rischi dell’ambiente e della malattia. Il 1943 è l’anno di L'Essere e il nulla di Jean-Paul Sartre, della Struttura del comportamento di Maurice Merleau-Ponty. La lezione della fenomenologia husserliana ricollocava le es­ senze nell’esistenza, indicava nell'esperienza immediata il li­ vello preliminare al conoscere delle scienze (annunciando il recupero del «mondo della vita» che La crisi delle scienze eu­ ropee porrà a tema). Nella prospettiva di Canguilhem, il pro­ getto fenomenologico resta immerso in una descrizione del vissuto, quando invece tale vissuto della coscienza deve in­ carnarsi in un vivente. Ma nel prendere congedo dalla feno­ menologia agiva anche la lezione di Jean Cavaillès, collega di Canguilhem all'Ecole Normale, e, come lui, impegnato nella

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lotta di liberazione dal nazismo, dove troverà la morte nel ’435. Le ultime righe della sua opera postuma, Sur la logique et la théorie de la science, rimproverano ad Husserl un’utiliz­ zazione esorbitante del cogito. «Cavaillès aveva stabilito i li­ miti dell’impresa fenomenologica ... e aveva assegnato con vent’anni di anticipo il compito che la filosofia si sta rico­ noscendo oggi: sostituire al primato della coscienza vissuta o riflessa, il primato del concetto, del sistema o della strut­ tura»6. Non spetta alla scienza, si è detto, imporre valori e nor­ me alla vita, non esistono in tal senso scienze normative; la stessa validazione del giudizio scientifico dipende da un giu­ dizio di valore. Alla filosofia, esplicitamente definita come fi­ losofia del valori (NP, p. 183), spetta il compito di regolare i conflitti che possono sorgere fra le scienze e le tecniche, le ar­ ti, le religioni, che prima della scienza hanno spontaneamen­ te valorizzato la vita. «Il punto di vista scientifico è un pun­ to di vista astratto» (ibid.), traduce una scelta, dunque una negligenza. Affermazione che si chiarisce se ci rivolgiamo, co­ me ha fatto Michel Fichant7, ai manoscritti inediti dei corsi tenuti da Canguilhem nel 1943 su «Le norme e il normale» sia alla Facoltà di Lettere di Strasburgo che a Clermond Fer­ rant. Il giudizio scientifico si offre come giudizio sulla realtà, è sempre l’esito di una opzione, anche se tale carattere di scel­ ta viene rimosso; ciò che la scienza ha rifiutato è il falso, lo ha escluso per principio ritenendolo privo di valore. Spetta alla filosofia rivendicare i diritti di questo resto che la scien­ za ha escluso; la filosofia non opera una separazione dei va­ lori, cerca di dar conto del sistema integrale delle valutazio­ ni. La filosofia è così discorso sulle norme, discorso che rico­ 5 G. Canguilhem, Vie et mort de Jean Cavaillès, Editions Allia, Paris 1996. 6 Cfr. Mort de l'homme ou épuisement du «cogito»?, in «Critique», n. 242, 1967 (trad. it. di S. Agosti, Morte dell'uomo o estinzione del «cogito»?, in appen­ dice a PC, pp. 417-35). 7 M. Fichant, Georges Canguilhem et l'idée de la philosophie, in «Actes de col­ loque. George Canguilhem, philosophe, historien des sciences», dicembre 1990, Albin Michel, Paris 1993.

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nosce un «invariante della normalità» in ogni sistema di va­ lorizzazione: ogni norma è seconda, emerge solo come san­ zione di una infrazione^ come riduzione del disordine, delTostacolo da superare. E Tanteriorità dell’anormale a susci­ tare l’intenzione normativa. Canguilhem mostra di non di­ sconoscere la legittimità della questione nietzschiana dell’ori­ gine dei valori e la limitazione che essa impone alle pretese scientiste ad una egemonia esclusiva della verità. Non era sta­ to proprio Nietzsche a ricordarci che per i Greci la nascita della filosofia si giustificava come mezzo per disciplinare il bisogno di conoscenza grazie al senso della vita ? La scienza non può dunque dar conto delle sue condizioni di intelligibi­ lità, come vorrebbe lo scientismo; essa ha preso partito per la verità, ma non è questo il valore della filosofia. Per quest’ultima la norma che agisce come valore è l’esigenza di sistema­ ticità: «Il valore filosofico non è il valore di verità, non è nep­ pure il valore di libertà come in morale e in estetica. E una idea di un tutto in cui ciascuno dei valori sarebbe al suo po­ sto relativamente agli altri»8. Ed è idea che ritorna nel rap­ porto, presentato all’Unesco nel ’53, a proposito del signifi­ cato dell’insegnamento della filosofia: «Vi è una autentica tol­ leranza che è accettazione riflessa di un “pluralismo coeren­ te di valori” . Sarebbe normale solo una organizzazione in cui nessuna forma di pensiero e di vita traesse il suo valore nor­ mativo dall’oppressione di altri tipi di norme, ma che per­ mettesse a tutte di dar prova della loro fecondità»9.

Dalla riflessione sui concetti di normale e patologico in medicina viene cosi a disegnarsi una filosofia della vita: «la vita di un vivente, foss’anche un’ameba, non riconosce le ca­ tegorie di salute e di malattia se non sul piano dell’esperien­ za, che è prova innanzitutto nel senso affettivo del termine, 8 Citato in ibid. 9 Ibid.

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e non sul piano della scienza» (NP, p. 162). La vita, come vuole Goldstein, è discussione {débat), confronto con un am­ biente percorso da ostacoli, non può dunque seguire un an­ damento monotono, deve ignorare la rigidità geometrica di un cristallo. Certo, la filosofia della vita di Canguilhem non è estranea alle suggestioni di Nietzsche e Bergson. Spogliata di ogni tratto superomistico, la vita si rivela comunque irre­ quietezza, sforzo continuato di superamento di sé: e vivere è giudicare, apprezzare, stabilire valori, come chiede la «gran­ de salute» nietzschiana. La vita è slancio bergsoniano su cui arresta la sua presa il procedere analitico dell’intelletto, fa­ coltà sorta dal bisogno di intervenire su di una realtà ridotta all’esteriorità di oggetti solidi, spazialmente separati10. Ed una traccia bergsoniana, filtrata dalla lettura del Tempo vissuto di Eugène Minkowski, può scorgersi nella distinzione che il Sag­ gio propone fra anomalia e anormalità, fra l’irregolare, l’in­ solito e ciò che sfugge alla squadra, la norma latina. Una ano­ malia, ad esempio la destrocardia, cioè la posizione invertita del cuore, non compromette le funzioni vitali; non cosi per la patologia in senso stretto che presuppone una condizione sog­ gettiva di sofferenza: « L ’anomalia si manifesta nella molte­ plicità spaziale, la malattia nella successione cronologica. Ca­ rattere proprio della malattia è di giungere a interrompere un corso, di essere propriamente critica» (NP, p. 108). Al dissidio fra vita e scienza di Nietzsche e Bergson, il per­ corso originale che Canguilhem intraprenderà nei decenni suc­ cessivi, fino alla morte nel 1995, sostituirà l’esigenza di una interrogazione epistemologica della biologia secondo la sua storia, mirata a tracciare le forme con cui si realizza «la co­ noscenza della vita». La specificità della vita, il suo caratte­ re irriducibile alla fisica ed alla chimica, andrà cercato nelle

10 Si veda la testimonianza di Jacques Piquemal, ricca di informazioni sugli in­ teressi filosofici di Canguilhem negli anni che precedono il Saggio del *43, in «R e­ vue de Métaphysique et de morale», gennaio-marzo 1985. Il numero monografico dedicato a Canguilhem comprende saggi di M. Foucault, B. Saint-Sernin, F. Dagognet, J. J. Salomon, H. Pequignot e E. Mendelsohn.

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modalità con cui la biologia ha determinato Pautonomia del suo campo d’indagine. E sarà al vitalismo degli scienziati, che si potrà chiedere conto del conflitto fra la normatività del vi­ vere e Tindifferenza della materia: se, come diceva Bichat, «la vita è Tinsieme delle proprietà che si oppongono alla mor­ te», il vitalismo potrà offrirsi come filosofia adeguata allo sfor­ zo terapeutico della tecnica medica. E la conoscenza della vi­ ta potrà essere, giocando sull’ambiguità del doppio genitivo, sia il modo in cui quel particolare vivente che è l’uomo giun­ ge a prendere distanza dalla vita ed assumerla ad oggetto di conoscenza, sia il modo in cui la vita predispone il terreno e le condizioni che rendono possibile la conoscenza. Se la vita è fare esperienze, nel senso del provare, del saggiare e tenta­ re in virtù di una intrinseca normatività, per affrontare gli ostacoli ambientali, la conoscenza ne prosegue l’andamento: «ogni conoscenza ha la propria origine nella riflessione su uno scacco nella vita» (NP, p. 184). Canguilhem ha proseguito l’insegnamento di Bachelard, di cui è stato il successore nella direzione dell’istituto di Sto­ ria delle Scienze e delle Tecniche alla Sorbona. «Non c’è qua­ si bisogno di dire che collegando cosi strettamente lo svi­ luppo dell’epistemologia all’elaborazione di studi di storio­ grafia scientifica ci ispiriamo all’insegnamento di Gaston Ba­ chelard» (IR, p. 12). Anche nell’ambito di quel farsi storia dell’epistemologia che connota la filosofia della scienza fran­ cese e la demarca dalla tradizione neopositivistica, è il pro­ blema delle norme a determinare le coordinate della rifles­ sione. Non ci sono norme eterne ed esterne che la ragione e la filosofia possano imporre alle scienze: «Una scienza è un ragionamento normato dalla sua rettificazione critica. Se questo ragionamento ha una storia di cui lo storico crede di ricostruire il cammino, è perché esso è una storia di cui l’epistemologo deve riattivare il senso» [ibid.). L ’epistemologo deve porsi all’ascolto dei concreti procedimenti attuati dagli scienziati, valutare gli scarti attraverso i quali il sapere si è costituito, nel ripetuto processo di rettificazione dei risulta­

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ti. Ma nelToperare una scelta fra i documenti raccolti dallo storico, l’epistemologo li giudica e li inserisce in un sistema di pensiero, si pone in posizione normativa. Non nella pro­ spettiva bergsoniana del «movimento retrogrado del vero», che ricostruisce il passato in termini di semplice preparazio­ ne della verità del momento, ma nella necessità di distin­ guere, suggerisce Bachelard, quanto è prescritto da quanto è sanzionato dal sapere attuale (FCR, p. 157). Ma il riconoscimento del debito verso Bachelard non can­ cella l’esigenza di far subire alle categorie bachelardiane una torsione per adattarle alla specificità della storia della biolo­ gia11. La portata di una epistemologia delle rotture è allora da relativizzare (IR, p. 19): essa risulta adatta ai periodi di ac­ celerazione della storia delle scienze e alla riattivazione, men­ tre una epistemologia delle continuità, sul modello di Koyré, trova i suoi momenti nei cominciamenti e nei risvegli. Pro­ prio Bachelard riconosceva nella Formazione dello spirito scien­ tifico che, a differenza della fisica, la storia delle matemati­ che è una meraviglia di regolarità, conosce periodi di arresto ma non di errore, come aveva rilevato Cavaillès. Una episte­ mologia della biologia non potrà mimare e riprodurre quella della fisica e della chimica, ma dovrà adeguarsi alle allures del proprio oggetto; se è vero che l’oggetto della storia della scien­ za non è l’oggetto della scienza12, nel caso della biologia la sto­ ricità è già inscritta nella vita. Nei saggi dedicati a Bachelard ricorre l’esigenza di ritradurne le modalità di pensiero in chia­ ve biologica: il concetto di conquista dialettica del pensiero vivo sul contropensiero inerte, che agisce da «norma» nell’epi­ stemologia di Bachelard, non è forse molto prossimo al con­ cetto biologico di mutazione ? E se la storia delle scienze è storia di filiazioni concettuali, nel suo statuto di discontinuità, non si apparenta all’ereditarietà mendeliana ? E «il nuovo spi­ 11 D. Lecourt, Pour une critique de ïépistémologie, Librairie Maspero, Paris 1972 (trad. it. di F. Fistetti, Per una critica dell’epistemologia, De Donato, Bari 1 9 7 3 )-

12 Cfr. L ’oggetto della storia delle scienze, trad. it. cit.

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rito scientifico» non propone forse immagini a significazione biologica - mutazione, natura naturante, slancio vitale - per esprimere l’esperienza del filosofo che dialettizza i suoi con­ cetti? Ma c’è una difficoltà, che Bachelard ha riconosciuto senza poter superare, rileva Canguilhem: pur essendo molto lontano dal positivismo, per Bachelard non c’è distinzione fra la scienza e la ragione, ed è la prima ad istruire la seconda, ad essere normativa dell’uso delle categorie. Egli finisce cosi per utilizzare il vocabolario della psicologia per esporre un razio­ nalismo di tipo assiologico: di qui l’ambiguità di nozioni co­ me psicologia normativa e soprattutto psicologismo di nor­ malizzazione13. Richiamarsi all’incerto sapere della psicologia non è forse rinunciare alla richiesta di trarre dalla storicità delle scienze la loro epistemologia ? Bachelard ha riconosciuto la necessità di procedere alla costruzione di «razionalismi regionali», compito da lui svol­ to per «il materialismo razionale» della chimica e per «il ra­ zionalismo applicato» della fisica. Canguilhem intraprende il compito di costituire, per usare un’immagine di François Dagognet, un «vitalismo razionale», un razionalismo appli­ cato alla biologia14. Se in Bachelard era la matematica il vet­ tore dal razionale al reale, in Canguilhem questo ruolo è svol­ to da concetti biologici, anzi è la normatività del vivente a disegnare il campo che dal reale conduce al razionale. La vi­ ta non si limita a creare le sue condizioni di esistenza, dise­ gna anche le sue condizioni di conoscenza. Nell’assumere la vita come referente epistemologico, a modificarsi è anche il rapporto che la scienza stringe con il suo oggetto. Per Bachelard la scienza si costruisce contro la natura. Con la nozione di ostacolo epistemologico, egli ha fondato positivamente l’obbligazione di errare ed il vero si edifica su di uno sfondo di errori; ma il primo errore è l’im­ mediato, è l’esperienza prima, contro la quale la scienza co­ 13 Cfr. Dialettica e filosofia del non in Gaston Bachelard, trad. it. cit. 14 F. Dagognet, Georges Canguilhem. Philosophie de la vie, Les Empecheurs de penser en rond, 1997.

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struisce il suo cosmo artificiale, universo di purezza con­ trapposto alla souillure naturale. Ed ostacolo è la vita stessa. Nel suo essere dépassement della realtà, della natura e del mondo della vita, l’epistemologia di Bachelard, ha rilevato Giuseppe Sertoli15, è una sorta di bergsonismo capovolto do­ ve il male è il naturale, il vitale: non solo il vissuto rimane precategoriale, realtà irriducibile al concetto, ma il pensiero per edificarsi deve cominciare dal rifiuto della vita. Il vitale è disvalore, è fluidità informe, ambito della vaghezza quali­ tativa rispetto alla purezza della ragione, rispetto al cosmo astratto del pensiero. Il mondo del pensare scientifico non è quello in cui si vive; lo scienziato deve conquistare la durez­ za e la raideur della pietra, deve morire al mondo, vincere sulla volontà di vita. Cosi il conflitto fra conoscenza e vita, che Canguilhem cerca di risolvere, non è solo quello di Berg­ son, ma anche rovesciato quello di Bachelard. Per lui, la scientificità è morte, sparizione della vita, aridità voluta, in cui è annullata la soggettività umana. Il vissuto non può che proiettare valorizzazioni inconsce sui fenomeni indagati, co­ me accadeva nella prescienza, quando fenomeni come il fuo­ co erano spiegati da metafore vitalistiche. L ’introduzione alla Conoscenza della vita assume allora un valore non solo antibergsoniano ma anche di implicita presa di distanza da Bachelard. «Con troppa facilità si ammette, tra la vita e la conoscenza, un conflitto fondamentale» (CV, p. 33), una reciproca avversione per la quale o la conoscen­ za distrugge la vita o la vita deride la conoscenza. Non sem­ brerebbe esserci altra strada che la scelta fra «un intellet­ tualismo cristallino, trasparente ed inerte, ed un oscuro mi­ sticismo»; per superare il conflitto, per consentire alla scien­ za di essere dépassement della vita ma non sua scomparsa, oc­ corre abbandonare il privilegio conoscitivo dell’analisi e di una matematica intesa come misurazione. Certo scomporre,

15 G. Sertoli, Le immagini e la realtà. Saggio su Gaston Bachelard, La Nuova Ita­ lia, Firenze 1972.

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identificare, mettere in forma di equazioni è «un vantaggio per Tintelligenza» ma è anche «una perdita per il godimen­ to. Si gode della natura, non delle leggi della natura, delle qualità, non dei numeri, degli esseri, non delle relazioni. E, in definitiva, non si vive di sapere» {ibid.). La ragione, in­ vece di negare la vita, deve restituirne il senso, la polarità di­ namica, la creatività: se la vita è normatività, lotta con Pam­ biente, mobilità e differenza, la ragione deve farsi vivente come Poggetto che indaga, abbandonare il privilegio dell’identità in cui Meyerson vedeva il cuore della scienza. Se l’oggettività della scienza va colta nella sua storicità, la conoscenza della vita si edifica mimando il suo oggetto, pro­ cede anch’essa per essais ed échecs, nel débat con il suo con­ testo ambientale, la storia. Alla forma del vivente corri­ sponde dal lato del conoscere il concetto, di cui la storia epi­ stemologica restituisce il processo continuato di formazione e deformazione: «Si può ammettere che la vita sconcerti la logica, senza credere per questo che ce la caveremmo meglio con essa, rinunciando a formare dei concetti» (FCR, p. i). Il concetto non è, come voleva Bergson, l’edificio cristallino dell’intelletto, esso possiede mobilità e capacità di variazio­ ne. In questo la lezione di Bachelard è da proseguire: «L a fi­ losofia del non è una filosofia del lavoro, nel senso che lavo­ rare un concetto è farne variare l’estensione e la compren­ sione; generalizzarlo con l’incorporazione dei tratti d’ecce­ zione, esportarlo fuori dalla sua regione d’origine, prender­ lo come modello o al contrario cercargli un modello, in breve conferirgli progressivamente, con trasformazioni regolate, la funzione di una forma ... Libertà di variazione piuttosto che volontà di negazione, ecco ciò che traduce il non ovunque presente in questa epistemologia dialettica»16. Se ogni scienza produce, ad ogni fase della sua storia, le proprie norme di verità, l’epistemologia diviene storia dei problemi incontrati dagli scienziati e dei concetti elaborati 16 Cfr. Dialettica e filosofia del non in Gaston Bachelard, trad. it. cit.

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per risolverli. Michel Foucault ha osservato17che proprio l’at­ tenzione ai concetti biologici (riflesso, milieu, cellula, mo­ stro, ecc.) permette a Canguilhem di analizzare i processi vi­ tali senza ridurli. «Il momento che deve essere considerato come strategicamente decisivo in una storia della fisica è quello della formalizzazione e della costituzione della teoria; ma il momento da far valere in una storia delle scienze bio­ logiche è quello della costituzione dell’oggetto e della for­ mazione del concetto». Una storia del concetto non annulla i sogni, gli abbozzi, gli scacchi, gli errori, non cede al «puritanesimo logico per il quale ogni forma di immaginazione sarebbe nefasta alla ri­ cerca scientifica» ( FCR, p. 169). In realtà, «ciò che la scien­ za di oggi chiama errore ha un diritto positivo a figurare al­ lo stesso titolo di ciò che essa considera verità. Quel che lo scienziato rifiuta lo storico lo recupera» (FCR, p. 149). Le antiche intuizioni, miti ed immagini che la prescienza ha for­ mulato, ad esempio per rendere ragione dell’origine della vi­ ta, non possono allora semplicemente ridursi ad ostacoli epi­ stemologici; «quando, col pretesto del superamento teorico, si vogliono svalorizzare antiche intuizioni, si arriva insensi­ bilmente, ma inevitabilmente, al punto di non poter più com­ prendere in che maniera un’umanità cosi stupida inizial­ mente si sarebbe un bel giorno fatta intelligente» (CV, p. 120). Le intuizioni prime si offrono anche come condizioni di possibilità per la formazione di un concetto; i miti e le me­ tafore da cui la conoscenza della natura e della vita sono sor­ te costituiscono dei «temi teorici» (ibid.), analoghi ai themata proposti da Holton per l’immaginazione scientifica“ . Ed i temi «sopravvivono alla loro distruzione apparente che una 17 M. Foucault, Introduzione a On thè Normal and thè Pathologìcal, Reidei, Bo­ ston 1978, in Dits et Ecrits, vol. Ili, NRF, Gallimard, Paris 1985. 18 G. Holton, L }immaginazione scientifica. I temi del pensiero scientifico, trad. it. di R. Maiocchi e M. Mamiani, Einaudi, Torino 1983, saggi scelti da Thematics Origins o f Scientifique Thought: Kepler to Einstein, Harvard University Press, 1973; da The Scientific Imagination : case studies, Cambridge University Press, 1978; e da Constructing a Theory : Einstein's Model, The American Scholar, 1979, vol. 48.

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polemica e una refutazione si vantano di aver ottenuto» (ibid.). L ’oggetto biologico si dà sempre come surdeterminato, su di esso la proiezione affettiva ed interessata del soggetto non ha fine. I concetti della biologia non sono innocenti, non si danno immacolate concezioni, qui, ancor meno che altrove; l’opera di Canguilhem, ha rilevato Françoise Duroux19, è uno sforzo continuato di demistificazione dell’integrità della sto­ ria delle scienze, sempre connessa in forme più o meno di­ rette a giochi estranei al puro conoscere. Nella presentazione di «Dallo sviluppo all’evoluzione» Canguilhem può rilevare che uno studio storico del concetto di sviluppo non risponde a curiosità erudita ma ad un interesse attuale: «In psicologia e in pedagogia, esso agisce da fondamento alle pratiche di una nuova tecnocrazia. In politica, in particolare sul piano inter­ nazionale, il concetto di sottosviluppo tende a restituire una buona coscienza alle nazioni ex colonizzatrici»20. Lavorare un concetto è inseguirne anche le deformazioni all’interno della cultura, gli incroci con ambiti extrascientifici, i transiti, nei due sensi, dal protocollo sperimentale allo sfruttamento po­ litico. Già l’etimologia di cellula, dalla cella delle api, sugge­ risce il richiamo ad un lavoro cooperativo e gerarchizzato, al punto che non si può nemmeno stabilire che cosa venga pri­ ma, se si sia sostenitori della teoria cellulare perché repub­ blicani o viceversa (CV, p. 108). Anche il vitalismo, a parti­ re dalla Naturphilosophie romantica, ha conosciuto il suo ava­ tar politico, divenendo sostegno di una ideologia totalitaria che doveva sfociare nel razzismo hitleriano. «Un concetto ... non diventa veramente scientifico che incorporandosi a tutta la cultura contemporanea» (FCR, p. 163). Il concetto di riflesso è diventato nella civiltà indu­ striale un fatto di pubblica notorietà; se la civiltà agricola coltiva la reazione lenta e differita, quella industriale ha con­ 19 F. Duroux, L ’imaginaire biologique du politique , in «Actes du colloque» cit. 20 G. Canguilhem (in collaborazione con G. Lapassade, J. Piquemal, J. Ulmann), Du développement à l ’évolution au xix siècle, PUF, Paris 1962.

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ferito alla rapidità ed all’automatismo delle reazioni motrici il doppio valore di rendimento meccanico e di prestigio spor­ tivo. «Il feticismo taylorista della velocità e dell’uniformità dei gesti semplici» ha promosso una concezione meccanici­ stica del riflesso, come reazione prestabilita ad uno stimolo, smembrato in processi parcellizzati. E tale concezione ha rin­ tracciato le origini dell’idea di riflesso nel meccanicismo di Cartesio; il fisiologo tedesco Du Bois-Reymond ha rimosso le ricerche di Willis, sostenitore del vitalismo, e di Prochaska, «professore ceco troppo poco convinto della superiorità della civiltà tedesca» [ibid.). Ma al taylorismo sembra sosti­ tuirsi, osservava Canguilhem, una organizzazione del lavoro che prende in considerazione «i comportamenti del lavora­ tore in quanto individuo, cioè in quanto essere totale e sin­ golare»; la subordinazione esclusiva dell’uomo alla macchina sembra lasciare il campo ad un riconoscimento della priorità dell’essere vivente, e di conseguenza a una considerazione del riflesso nella relazione generale che l’organismo, come tota­ lità autoregolata, intrattiene nei confronti delle necessità am­ bientali. Le considerazioni che Merleau-Ponty sviluppava nel­ la Struttura del comportamento, promuovendo un’interpreta­ zione del riflesso in termini gestaltici, sulla scia delle ricerche di Goldstein e di Minkowski, trovano in Canguilhem il sup­ porto di una storia epistemologica che rivaluta, anche su que­ sto tema, la funzione del vitalismo in biologia. La fecondità e vitalità storica del vitalismo sta nel pro­ muovere concetti autenticamente biologici, proprio perché in esso si è espressa l’esigenza di riconoscere l’originalità del­ la vita rispetto alla materia. Certo i sogni vitalisti sono pro­ gressivamente deposti dal progredire delle scienze, il misti­ co richiamo all’anima o alla forza vitale ha perso ogni signi­ ficato, ma il suo valore si conserva nell’intenzione che lo ha animato, salvaguardare l’irriducibilità del vivente a macchi­ na. E in questa prospettiva che il problema della tecnica, in­ dicato nella prefazione al Saggio, trova risposta; la tecnica umana si inscrive nella vita, nello sforzo continuato di risol­

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vere gli ostacoli posti all’esistenza. Il meccanico è un mezzo di cui l’organico si serve per perseguire il suo orientamento nell’ambiente, le macchine prolungano l’azione finalistica del vivente. La tecnica è una esperienza della vita, è l’esito dell’intenzionalità del vivente, secondo quella prospettiva di biologizzazione della tecnica di cui daranno testimonianza, a partire dal *43, gli scritti di Leroy-Gourhan. Gli scacchi che l ’homo jaber incontra sono all’origine delle elaborazioni della scienza; la tecnica non è allora, come vuole il positivi­ smo, il momento applicativo del sapere, spetta ad essa la pri­ ma mossa. La rinascita ricorrente del pensiero vitalista è l’espressione della sfiducia che la vita nutre verso i rischi di una sua meccanizzazione: il vitalismo è un modo «di rimet­ tere il meccanismo al suo posto nella vita»21. Si tratta di un problema che coinvolge in modo premi­ nente la medicina22; se è vero che il progresso tecnico è una ripetizione della tattica del vivente, anche unicellulare, la tat­ tica popperiana dei tentativi e degli errori, esso rischia però di sfuggire ai suoi fini. La tecnica sviluppata privilegia la no­ vità rispetto all’uso, l’accelerazione dei tentativi ci priva di conseguenza del tempo necessario per lasciarci istruire dall’er­ rore, di quel tempo biologico che è maturazione e durata, non discontinuità. Il conflitto fra valori organici e invenzioni mec­ caniche produce una «crisi della coscienza medica»: l’abuso della tecnica nella moderna terapeutica fa perdere di vista ogni norma naturale di vita organica, a vantaggio di una denaturalizzazione del corpo umano. La medicina è obbligata, a causa delle condizioni sociali e legali del suo intervento nel­ la collettività, ad obliare la norma singolare di salute del ma­ lato; il vivente è considerato come una materia a cui imporre norme anonime. La risposta al problema non può più essere solo quella ippocratica, in nome del «partito dell’uomo»; può apparire ingenuo ribadire che in medicina esistono solo ma­ 21 Cfr. Théraeutique, expérimentation, résponsabilité, in EHPS. 22 Ibid.

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lati e non è detto che Pindividuo sia sempre il miglior giudi­ ce della propria salute. In medicina si ha sempre a che fare con individui ed il confine tra nocivo, innocuo e benefico non è mai tracciato in anticipo, può variare da un malato ad un altro: curare rimane «decidere di intraprendere a vantaggio della vita qualche esperienza», ma occorre che ogni medico sappia e faccia sapere che «in medicina non si sperimenta, cioè non si cura, che tremando». La vita non può essere la forza, «cieca e stupida», che ci si diverte ad immaginare quando la si oppone al pensiero. La conoscenza è figlia della paura, consiste nella ricerca di si­ curezza per riduzione degli ostacoli, nella costruzione di teo­ rie di assimilazione: «la conoscenza è un metodo generale per la risoluzione diretta o indiretta delle tensioni fra l’uomo e Pambiente» (CV, p. io). Esiste dunque una continuità fra vivere e conoscere, quella su cui poi saranno gli studi di Jean Piaget (.Biologia e conoscenza) e di Konrad Lorenz {L'altra faccia dello specchio) a riflettere (e indubbiamente Can­ guilhem è più prossimo al secondo, per il comune approccio etologico). Se la vita è formazione di forme, la conoscenza non può limitarsi alP analisi delle materie informate, deve considerare anche il processo di formazione, non solo i ri­ sultati; il che è dire che deve considerare la normatività del conoscere, non solo le norme via via elaborate. Quando Tho­ mas Kuhn parla di «scienza normale», di paradigmi e ano­ malie, finisce per disconoscere la razionalità del dinamismo immanente alla scienza, quella dialettica dei concetti (di cui parlava Cavaillès), quel rettificarsi dei saperi che nasce dall’insoddisfazione verso il senso attribuito agli oggetti dei sensi. «Paradigma e normale presuppongono un’intenzione e degli atti di regolazione», ma Kuhn finisce per attribuire loro solo un modo di esistenza empirica come fatti cultura­ li. «Il paradigma è il risultato di una scelta degli utenti. Il normale è ciò che è comune, in un dato periodo, a una col­ lettività di specialisti...» (IR, p. 15). Invece di una critica fi­ losofica ci troviamo di fronte ad una psicologia sociale.

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Il Saggio del '43 è unanimemente considerato l’opera mag­ giore di Canguilhem. Del resto che il problema di definire il concetto di norma sia tema centrale della sua riflessione è confermato dal ritorno ad esso in successive occasioni. I sag­ gi del *51, del ’66 e del '73, mirano a confermare gli esiti pre­ cedenti, da un lato approfondendo i riferimenti alla storia della biologia ed al ruolo svolto in essa dal vitalismo, dall’al­ tro in relazione agli sviluppi rivoluzionari della biologia, do­ po la scoperta della doppia elica del DNA. Il normale e il pa­ tologico, dapprima apparso nella Somme de Médecine contemporaine e poi raccolto in Conoscenza della vita ribadisce, col conforto di Bichat, lo scarto fra l'instabilità, l’irregola­ rità degli esseri viventi e la ripetitività uniforme dei feno­ meni fisici. L ’oggetto fisico è sottoposto alla norma rigida ed invariante della legge, di cui costituisce un esemplare ap­ prossimato, difettivo. L ’individuo vivente è invece sempre in scarto rispetto al suo tipo naturale, ne rimane differente, perché l’organismo non è un sistema di leggi ma una orga­ nizzazione di proprietà. L ’antica quaestio degli universali tor­ na attuale per confermare il riferimento ad individui, esseri atipici, irregolari, che la medicina importa dalla biologia: di nuovo non esistono malattie, esistono solo malati. Il rapporto fra individuo e tipo non va qui pensato nella forma di una alterazione a partire da una platonica perfezione ideale co­ me ancora credeva Claude Bernard. Se la vita è una orga­ nizzazione di potenze ed una gerarchia di funzioni dalla sta­ bilità sempre precaria, allora l’irregolarità, l’anomalia, non sono meri accidenti che colpiscono l’individuo ma sono la sua stessa esistenza. La vitalità del genere vivente sta nel ri­ velarsi fecondo, produttore di novità, non replicatore dell’identico. Anzi, è proprio quando le specie manifestano forme rigide che si approssimano alla loro fine, e raggiungo­ no l’inerzia della materia. Le forme viventi sono saggi, «es­ sais», avventure, non riferibili ad un tipo ideale prestabili­ to: il loro valore, la loro validità, è da riferirsi all’eventuale

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riuscita nel gioco della vita. La vita si dà a conoscere solo co­ me incompletezza, il suo valore si radica proprio nella cono­ scenza della sua essenziale precarietà. Sullo sfondo del suo creare, della sua costitutiva normatività, si disegna la possi­ bilità dell’errore, della patologia e della morte. Il saggio del 1951 rinnova l’attenzione embriologica per lo studio delle «mostruosità» come via per accedere alla co­ noscenza dei meccanismi di sviluppo dell’uovo; in una pro­ spettiva fissista, il mostro non è che fallimento rispetto alla forma ideale, eterna; nella prospettiva della biologia evolu­ zionistica invece non si dà a priori differenza tra forma riu­ scita e forma mancata. Non esistono forme mancate, ed an­ che le riuscite sono relative, sono scacchi ritardati, visto che anche le specie muoiono come gli individui; solo l’avvenire delle forme decide del loro valore. «Le forme viventi sono mostri normalizzati»; che è in fondo quanto diceva negli stes­ si anni Goldschmidt proponendo l’immagine degli hopefulmonster, i mostri di belle speranze23. Il darwinismo rinnova­ to dalla genetica mendeliana evidenzia che all’interno delle specie vi sono individui originali, eccentrici, portatori di ge­ ni mutanti; da essi dipende la variazione evolutiva, su di es­ si opera il filtro della selezione che agisce in senso conserva­ tore quando le circostanze ambientali rimangono stabili, ma in senso rinnovatore quando esse diventano critiche. Di nuo­ vo la normalità si definisce solo nella relazione fra il viven­ te e l’ambiente; è in questa relazione che si decide quale nor­ ma ha valore vitale ed il normale si conferma come normati­ vo, prototipo più che archetipo. Rispetto al Saggio emergono due significativi amplia­ menti: da un lato, ad anticipare quel passaggio dal vitale al sociale su cui si apriranno le Nuove riflessioni del ’66, si ri­ conosce che nelle condizioni umane di vita le norme biolo­ giche di esercizio sono sostituite o integrate da norme so-

23 Cfr. S. J. Gould, The Panda’s Thumb, 1980 ( trad. it. di S. Cabib, Il pollice del panda, Editori Riuniti, Roma 1983).

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ciali d ’uso. Se l’anomalia diviene patologica solo in rappor­ to all’ambiente di vita (si può vivere «normalmente» con un solo rene), il problema della patologia non è per l’uomo di esclusiva competenza biologica, dato che la cultura, il lavo­ ro, hanno modificato l’ambiente attraverso le tecniche. Dall’altro lato, si amplifica il richiamo a studi (Minkowski, Lacan) che hanno posto il problema della norma in ambito psichiatrico; qui il rischio della psicologia è di tradurre il normale in una forma di adattamento al reale, cioè ad un ambiente che non ha valore assoluto in quanto è prodotto dalla relatività dei processi storici. Il non adattamento psi­ cologico ad un ambiente di cultura non è di per sé segno pa­ tologico; anche per lo psichismo umano vi è una normati­ vità, una libertà da intendere come potere di revisione e di istituzione di norme, sempre aperto al rischio della follia. Di fronte a tale potere la psicologia può ridursi a svolgere il ruolo di sapere normalizzante, di valutazione poliziesca, in risposta alle sole esigenze sociali di adattamento. L ’ambi­ guo statuto della psicologia è esemplarmente espresso da Canguilhem nelle righe finali di una conferenza del 195624: il filosofo può accostarsi allo psicologo per ricordargli che «quando si esce dalla Sorbona dalla Rue Saint-Jacques, si può salire o scendere; se si procede in salita ci si avvicina al Pantheon che è il Conservatorio di qualche grand’uomo, ma se si procede in discesa ci si dirige sicuramente verso la Pre­ fettura di Polizia». Nel 1954 un allievo di Georges Canguilhem, Michel Fou­ cault, annunciava, nelle ultime pagine della Malattia mentale, la necessità di intraprendere uno studio della follia come struttura globale. Il fondamento della psicologia che si vuo­ le scientifica andava cercato in una esperienza patologica, quasi a riproporre l’invariante già segnalato da Canguilhem; ma era nella storia che, a parere di Foucault, si doveva «sco­ prire l’unico a priori concreto da cui la malattia mentale ri­ 24 Cfr. Quest-ce que la psychologie, in EHPS.

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cava ... le sue necessarie figure»25. Alla Storia della follia (1961), tesi di dottorato di Foucault, di cui fu relatore e ter­ zo lettore del manoscritto, dopo Georges Dumézil e Jean Hyppolite, Canguilhem riconoscerà il merito di averlo in­ dotto a riconoscere « l’esistenza storica di un potere medico equivoco»26. Egli mostrerà del resto un costante apprezza­ mento per l’opera di Foucault, al punto che Dagognet, an­ ch’egli medico e filosofo e discepolo di Bachelard, ha po­ tuto rimproverare a Canguilhem una eccessiva indulgenza verso Foucault. Quest’ultimo corrisponderebbe al lato con­ testatore del pensiero di Canguilhem, mentre Dagognet, per il quale la vita non è spontaneità e lotta ma nodo di relazio­ ni di cui è possibile catalogare il numero prevedibile di po­ tenziali variazioni, predilige il lato «positivo», di matrice bachelardiana27. Nel 1963 Canguilhem fa pubblicare nella collezione «Galien» (Galeno), dedicata alla storia ed alla fi­ losofia della biologia e della medicina, da lui diretta presso la PUF, la seconda grande opera di Michel Foucault, Nasci­ ta della clinica - nella stessa collana l’anno successivo appa­ rirà anche La raison et les remèdes di François Dagognet, de­ dicato alle materie farmacologiche. Sempre nel ’Ó3, «venti anni dopo», Canguilhem inizia alla Sorbona un nuovo corso sulle norme, mentre prepara la riedizione del Saggio del ’43, seguito dalle Nuove riflessioni intomo al normale e al patolo­ gico, condensato dei corsi. Il confronto fra Canguilhem e Foucault deve muovere, suggerisce Pierre Macherey28, pro­ prio dal riconoscere che «i loro pensieri si sono sviluppati at­ torno ad una riflessione consacrata al problema delle nor­ me». Ma la distinzione fra normale e patologico che Can­ guilhem ha inseguito nell’esperienza del malato, per poi fon­ 25 M. Foucault, La maladie mentale et psychologie, PUF, Paris 1954 (trad. it. e cura di F. Polidori, Malattia mentale e psicologia, Raffaello Cortina, Milano 1997). 26 G. Canguilhem, Sur Vhistoire de la folie en tant qu événement, in «Le Dé­ bat», n. 41, 1986. 27 Dagognet, Georges Canguilhem cit., p.15. 28 P. Macherey, De Canguilhem à Canguilhem en passant par Foucault, in «A c­ tes du Colloque» cit.

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darla nella relazione del vivente con l’ambiente, si costitui­ sce in Foucault nello spazio già strutturato imposto dalle for­ me della nostra cultura. Nascita della clinica è prossimo al Sag­ gio del ’43 nella critica alle pretese di oggettività del positi­ vismo medico, ma se Canguilhem opponeva ad esso la con­ creta esperienza del vivente e la normatività della vita, Fou­ cault attacca quelle pretese da un altro lato, quello storico, delle formazioni di ordine sociale e politico. Il sapere medi­ co e psichiatrico si è formato mettendo in atto la partizione del normale e del patologico che Canguilhem cercava nel vi­ vente. Non si dà allora, come poteva credere la psicopatolo­ gia del xix secolo, un uomo che naturalmente si offra all’espe­ rienza della malattia; il vivente è già calato in un sistema che ne predetermina le coordinate di oggettivazione. Nel proseguire l’indagine trascendentale kantiana, la ri­ cerca archeologica di Foucault la sposta dal soggetto alla sto­ ria, alla ricerca delle condizioni che hanno reso possibile la comparsa della psicopatologia e della medicina come scienza clinica. Tali condizioni formano « l’a priori concreto» dello sguardo medico, quello per il quale la malattia si è rivelata non solo come disordine, «pericolosa alterità entro il corpo uma­ no e persino entro il cuore della vita», ma anche come feno­ meno naturale dotato di regolarità (NC). Le norme mediche, su cui agiscono decisioni prese a livello istituzionale, struttu­ rano il campo dove della malattia si fa esperienza e ne deter­ minano l’ingresso nella razionalità: non è più il vivente ad es­ sere soggetto di una normatività, è la medicina ad assumere posizione normativa nella gestione dell’esistenza umana. La grande «coupure» che segna l’origine della medicina clinica e la possibilità stessa di un discorso sulla malattia, si pone, sostiene Foucault, nel passaggio dalla medicina classificatrice del Settecento all’avvento dell’anatomia patologica con Bichat. La medicina del Settecento distribuiva le malat­ tie sul modello della catalogazione botanica; per essa « l’ordi­ ne della malattia non è ... che un calco del mondo della vita ... La razionalità della vita è identica alla razionalità di ciò

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che la minaccia ... Nella malattia si riconosce la vita poiché è la legge della vita che fonda, in sovrappiù, la conoscenza del­ la malattia» {ibid., p. 20). Con Pinel e Bichat, l'esperienza cli­ nica diviene sguardo anatomico; una nuova percezione, quel­ la del «cadavere aperto e esteriorizzato» {ibid., p. 158), co­ me interna verità della malattia, agisce da sfondo su cui si di­ segna il contatto fra medico e malato. «Bisogna lasciare alle fenomenologie la cura di descrivere in termini di incontro, di distanza o di “comprensione” gli alti e bassi della coppia me­ dico-malato. Prendendo le cose nella loro severità struttura­ le, non c'è stato né matrimonio né coppia; ma costituzione di un'esperienza in cui lo sguardo del medico è divenuto l'ele­ mento decisivo dello spazio patologico e la sua interna arma­ tura» {ibid.). Non è più la vita a dar conto della malattia, è dall'alto della morte e dal suo punto di vista che si chiede con­ to non solo della malattia ma della vita stessa. Il vitalismo di Bichat, a cui Canguilhem si era rivolto, si costituisce a partire da una esperienza anatomico-patologica in cui è la morte a conferire alla vita la sua verità. «L'irri­ ducibilità del vivente al meccanico o al chimico è solo se­ condaria rispetto al legame fondamentale tra la vita e la mor­ te. Il vitalismo appare sullo sfondo di questo mortalismo» {ibid., p. 167). Dal Rinascimento fino a Bichat la conoscen­ za della vita non era che una manifestazione del vivente, per cui vitalismo ed antivitalismo riconoscevano l'anteriorità del­ la vita nell’esperienza della malattia. «Con Bichat la cono­ scenza della vita trova la sua origine nella distruzione della vita, e nel suo estremo opposto; solo alla morte la malattia e la vita dicono la loro verità» {ibid.). Il vitalismo è allora «un concetto troppo gracile per render conto dell’avvenimento che costituì l’anatomia patologica» {ibid., p. 176). Proprio perché con Bichat la vita diviene il fondo sul quale si staglia l’opposizione fra organico e non vivente, assume il ruolo di fondamento che il Settecento ancora attribuiva alla natura, è dal vitalismo stesso che Bichat ha liberato la medicina. La vita non si limita ad opporsi alla morte, si lega strettamente

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ad essa, pur resistendole; si ricongiungono così le due defi­ nizioni della vita di Claude Bernard, l’apparente ossimoro per il quale la vita è creatività e la vita è la morte. La malat­ tia non è più fatto accidentale, trova spazio nel rapporto co­ stante fra la vita e la morte: «la morte ... appare come la fon­ te della malattia nel suo essere stesso, la possibilità interna alla vita ma più forte di essa», ad anticipare le riflessioni freu­ diane su Thanathos, al di là del principio del piacere. La riorganizzazione del visibile e del dicibile, fondata sull’apertura del cadavere, apre lo spazio per il sapere medi­ co dell’individuo: «Bergson imbocca una strada del tutto sba­ gliata quando cerca nel tempo e contro lo spazio, in un’ap­ prensione dall’interno e m uta... le condizioni grazie alle qua­ li è possibile pensare l’individualità vivente» {ibid., p. 195). Bichat, contemporaneo di Sade, aveva fornito un secolo pri­ ma, una lezione più severa, osserva Foucault: è la morte a co­ stituire la singolarità, e solo grazie ad essa si è costituito un discorso scientifico sull’individuo, superando l’interdetto ari­ stotelico, per il quale non si dà scienza che dell’universale. «L a malattia ha potuto staccarsi dalla contronatura e prender corpo nel corpo vivente degli individui solo quando la morte è divenuta l’a priori concreto dell’esperienza medica» (ibid., p. 223). L ’esperienza dell’individualità si trova così connessa nella nostra cultura a quella della morte, a quell’analitica del­ la finitudine di cui parleranno le ultime pagine di Le parole e le cose. Ma sotto lo sguardo del medico, socialmente legitti­ mato, non c’è più spazio per l’esperienza del vivente, dell’in­ dividuo malato, annullato nell’esperienza anonima e colletti­ va della clinica. Ecco perché, rileva Macherey, il malato fini­ sce per essere il grande assente dell’opera di Foucault.

Nelle Nuove riflessioni del ’66, Canguilhem cita Foucault in una sola occasione, ricordandone l’affermazione per cui Bichat ha chiesto conto della vita alla morte, così come nel Saggio del '43 si era chiesto conto della salute alla malattia.

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Il passaggio «dal vitale al sociale» produce un allargamento del campo di indagine, con Pinclusione della storia della me­ dicina anche nei suoi aspetti di riforma ospedaliera. Ma il progetto di fondo rimane invariato, «fondare il significato fondamentale del normale attraverso un’analisi filosofica del­ la vita, intesa come attività di opposizione all’inerzia e all’in­ differenza» (NR, p. 198). La normalità, in chiave evolutiva, è tendenza alla varietà, di conseguenza le mutazioni svolgo­ no una funzione benefica, come forma di assicurazione con­ tro una eccessiva specializzazione. Il normale non è coinci­ dente con il temporaneamente vitale: «a forza di considera­ re i viventi null’altro che morti in sospeso», si finisce per sot­ tovalutare la variabilità fisiologica e genetica, la normatività come garanzia di sopravvivenza della specie. La novità più rilevante è certo costituita dal terzo capito­ lo, dedicato ad un «nuovo concetto» della patologia, quello di errore. L ’introduzione in biochimica dei concetti mutuati dalla teoria dell’informazione, codice, messaggio, ecc., deli­ nea un nuovo statuto nel rapporto fra la conoscenza ed il suo oggetto; il lessico comunicazionale non è semplice proiezio­ ne del pensiero sulla natura, non è gioco metaforico. Questi concetti possiedono efficacia teorica, hanno valore operati­ vo, si fondano sulla solidità di una analogia che riguarda ad un tempo la conoscenza ed i suoi oggetti, la materia e la vita. Se conoscere è informarsi, la vita è già scambio di informa­ zioni; non vi è dunque differenza fra errore nel pensiero ed errore nelle modalità di trasmissione dell’informazione gene­ tica. Nello stesso anno, in «Il concetto e la vita»29, Can­ guilhem svolgeva questi temi con un più articolato riferimento alla storia della filosofia. Solo assumendo come fondamento il piano della vita, e non quello del vivente singolare, solo at­ tuando una rivoluzione non copernicana, cioè procedendo dalla vita al conoscere e non viceversa, diventano superabili le difficoltà incontrate da Bergson e dal Kant della Crìtica del 29 Cfr. Le concept et la vie, in EHPS.

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Giudizio; tali difficoltà confermano «la resistenza della cosa, non alla conoscenza, ma ad una teoria della conoscenza che procede dalla conoscenza alla cosa» {ibid., p. 351). L ’incom­ patibilità di concetto e vita in Bergson appare come il frutto di un ritardo rispetto alla rivoluzione che già ai primi del se­ colo stava avvenendo in matematica e biologia, osserva Can­ guilhem; Bergson ha continuato a credere che la scienza fos­ se sapere spaziale, della misura, al cui esprit de géometrie resta ignoto il divenire imprevedibile del vivente. Ma la genetica è scienza antibergsoniana, per essa la formazione del vivente si fonda sulla presenza nella materia di una informazione che ha la stabilità della struttura cromosomica. E la matematica non è più il sapere a cui restano estranei il qualitativo e Pal­ terazione: la topologia ci fornisce una trattazione fine delle situazioni e delle forme, la geometria si è liberata cosi dalla sudditanza alla metrica, lo spazio si è purificato dalla rela­ zione millenaria con la tecnica di misura30. La genetica con­ ferma Pidea per cui il concetto non è mera elaborazione, fit­ tizia ed umana, dell’esperienza, con la quale si giunge per astrazione generalizzante ad annullare l’individuo. E dalla lo­ gica immanente all’individuo che occorre prendere le mosse per comprendere gli andamenti del vivente, normali o pato­ logici che siano; è questa stessa logica a risolvere il vecchio conflitto degli universali, a confermare, come diceva Gold­ stern, che la biologia si rivolge ad individui e che in medici­ na si danno solo malati e non malattie. Foucault ci ha spie­ gato come i metodi della botanica abbiano fornito ai medici un modello di classificazione nosologica ed ha osservato che «la razionalità di ciò che minaccia la vita è identica alla ra­ zionalità della vita stessa». Ma, rileva Canguilhem, c’è ra­ zionalità e razionalità: la razionalità della catalogazione non è la stessa di quella che l’individuo porta inscritta nella sua informazione genetica. 30 Crediamo di poter scorgere su questi aspetti di storia della matematica l’eco degli scritti di Michel Serres, in particolare i saggi iniziali di Hermès, vol. I: La Communication, Editions de Minuit, Paris 1968.

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Il vivente rimane il centro di riferimento «assoluto» dal quale procedere alla conoscenza della vita: «Non è perché io sono pensante, non è perché io sono soggetto, nel senso tra­ scendentale del termine, è perché io sono vivente che devo cercare nella vita il riferimento della vita» {ibid., p. 352). Possiamo allora sensatamente chiederci se quanto oggi la bio­ logia sa non la autorizzi ad «una concezione dei rapporti fra vita e concetto più prossima a quella di Hegel che a quella di Kant e, in ogni caso, che a quella di Bergson» {ibid., p. 341); nella logica hegeliana concetto e vita si identificano, «la vi­ ta è l’unità immediata del concetto alla sua realtà», è un au­ tomovimento di realizzazione. Che la vita sia slancio è solo una parte e non la principale della verità; il bergsonismo sot­ tostima il fatto che è solo in virtù del mantenimento attivo di una forma e di una forma specifica, che il vivente costringe l’energia a rallentare il suo degrado e la materia a ritardare la caduta entropica, senza poterli comunque interrompere. Nello slancio vitale si trasporta un a priori morfogenetico: l’individualità risulta cosi scritta nell’organismo, neghentropia della vita che ritarda la deriva universale verso l’uniformità della morte. Ed è il tradursi del messaggio nel­ la discendenza a consentire all’evoluzione di srotolarsi lun­ go un tempo irreversibile che permette alla vita di procede­ re a ritroso rispetto alla tendenza all’indifferenza e al disor­ dine. La patologia molecolare, rileva Canguilhem31, ha mes­ so fine all’opposizione fra causalità e individualità, ha ritro­ vato nei caratteri genetici le predisposizioni alle affezioni; alcune malattie ereditarie si debbono a ciò che possiamo de­ finire «errori innati del metabolismo» {ibid., p. 360). La ra­ zionalità medica è oggi non bernardiana, ha fondato l’indi­ vidualità biologica come oggetto stesso della scienza, non co­ me ostacolo, come infedeltà al tipo. Di nuovo, Canguilhem può ribadire la richiesta di non annullare «nell’oggettività del sapere medico la soggettività dell’esperienza vissuta del 31 Cfr. Puissance et limites de la rationalité en médecine, in EHPS.

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malato». La cura di un malato non richiede la stessa respon­ sabilità della lotta razionale contro la malattia: «il malato è più e altro di un terreno singolare in cui la malattia si radica ... è un Soggetto, capace di espressione, che si riconosce co­ me Soggetto» {ibid., p. 409). La biochimica segna un ritorno ad Aristotele, all’idea per cui la forma, immanente al vivente, ne conserva il tipo strut­ turale: l’eredità genetica è il moderno nome della sostanza. Se l’eredità biologica è comunicazione d ’informazione biso­ gna allora ammettere che «c ’è nel vivente un logos, iscritto, conservato e trasmesso». Della vita non si può offrire sem­ plicemente il quadro, come ancora si faceva quando la si ri­ duceva a classificazione di specie; non si può assimilarla all’architettura o alla meccanica, cosa ancora possibile quan­ do la si riduceva ad anatomia o fisiologia. Oggi la vita appa­ re simile alla grammatica, alla semantica e alla sintassi: «la vita fa da sempre senza scrittura, ben prima della scrittura e senza rapporto con la scrittura, ciò che l’umanità ha cercato con il disegno, l’incisione, la stampa». Si capisce allora per­ ché il linguaggio della teoria dell’informazione non possa ri­ dursi per Canguilhem a semplice metafora importata da un sapere alla moda; che ci sia alla lettera un messaggio della vi­ ta consente di radicare il senso nel vivente, di ritrovare nel­ la vita il concetto. «Definire la vita come un senso inscritto nella materia è ammettere l’esistenza di un a priori oggetti­ vo, di un vero e proprio a priori materiale e non più sola­ mente formale» {ibid., p. 362). In quegli stessi anni, Michel Serres descriveva il Paese dell’Enciclopedia contemporanea come una rete dominata dagli assi strutturale e informazionale. Ma questa rete non faceva che riprodurre il reticolo informazionale del mondo, nel quale le cose stesse si scambiano comunicazioni, le for­ me informano la materia. Trova conferma Pilemorfismo di Aristotele, ma non per il solo ambito biologico: sulla mate­ ria si imprime un alfabeto morfico, le cui parole formano la struttura degli esseri. L ’informazione è oggettiva ed il dio

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dei moderni è uno scriba, interprete di messaggi e decifra­ tore di crittogrammi32. Il mondo è scritto e la scrittura è nel­ le cose, prima di essere sui libri degli uomini. L ’antica me­ tafora del libro del mondo prende allora un senso rigoroso, si rivela come una necessità della natura: se non c’è codice per l’universale, per quanto si realizza sempre e comunque, caduta dei gravi o deriva entropica, scritte sono le cose che, per conservarsi e trasmettersi, debbono portare memoria, traccia grafica delle loro origini e delle loro condizioni di esi­ stenza. Il trascendentale è oggettivo; prima di essere nella storia e nella vita, l’a priori è nelle cose, nella natura nel sen­ so di Lucrezio, «precursore» di Prigogine33.

Nella patologia dell’epoca biochimica, il male si è fatto ra­ dicale, appartiene alle radici dell’organismo vivente, è un er­ rore di scrittura, una sorta di malinteso, di equivoco. Ma l’er­ rore biochimico non è di per sé anormalità; il valore patologi­ co potrà sorgere sempre e soltanto dal rapporto fra l’organi­ smo e l’ambiente. Una filosofia della vita non può che essere, come vuole Foucault, una filosofia dell’errore; l’errore ac­ compagna la verità, cosi come l’anormale in senso biologico assicura la costitutiva mobilità del vivente. La vita è ciò che è capace di errore; e se il concetto è la risposta con cui la vita prosegue lo sforzo per strutturare l’ambiente, per trasforma­ re il rumore in senso, direbbe Atlan, è proprio la nozione di errore che consente a Canguilhem «di legare quanto sa della biologia e la maniera in cui ne fa la storia», osserva Foucault34. In un saggio del 1964, dedicato a Galileo, a 400 anni dal­ la nascita, Canguilhem riprende l’affermazione di Koyré per 32 M. Serres, Ce qui est écrit sur la table rase, in Hermès cit., vol. II: L ’interfé­ rence, Editions de Minuit, Paris 1972. 33 Id., La naissance de la physique dans le textede Lucrèce, Edition de Minuit, Paris 1977 (trad. it. di P. Cruciani e A. Jeronimidis, Lucrezio e Vorigine della fisi­ ca, Sellerio, Palermo 1980). 34 M. Foucault, La vie: l ’expérience et la science, in «Revue de Métaphysique et de morale», 1985 (tradotto in questo volume, cfr. oltre pp. 271-83).

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la quale, pur non avendo modo di confermare la teoria co­ pernicana, era Galileo ad «essere nel vero»35. Foucault si ri­ chiama a questo passo in L'ordine del discorso: «All’interno dei suoi limiti, ogni disciplina riconosce delle proposizioni ve­ re e false; ma essa respinge, dalTaltro lato dei suoi margini, tutta una teratologia del sapere. L ’esterno di una scienza è più e meno popolato di quanto non si creda; certo, ci sono l’esperienza immediata, i temi immaginari che portano e ri­ conducono senza posa credenze senza memoria; ma forse non c’è errore in senso stretto, perché Terrore non può sorgere ed essere deciso che all’interno di una pratica definita; in cam­ bio, dei mostri rodono la cui forma cambia con la storia del sapere. In breve, una proposizione deve riempire complesse e pesanti esigenze per poter appartenere all’insieme di una di­ sciplina; prima di poter essere detta vera o falsa, deve essere, come direbbe Canguilhem, “nel vero” »36. Etienne Balibar ha osservato37 che l’analisi foucaultiana finisce per rovesciare il senso di quanto affermato da Canguilhem; per quest’ultimo Galileo ha anticipato un regime normativo, un regime uni­ versale della verità che sarà validato solo in seguito, mentre per Foucault Galileo si è sottomesso con più radicalità alla «polizia discorsiva», alle norme che Tepisteme andava stabi­ lendo per autorizzare la dicibilità degli enunciati. Il quadro epistemologico di Canguilhem, a differenza di Foucault, so­ stiene Balibar, non agisce in senso sincronico, non è dunque metaforizzabile secondo modalità spaziali, ma solo in termi­ ni temporali. In altri termini Galileo è «nel vero», pur senza dire il vero, perché è in disequilibrio rispetto al dominio normato del sapere tradizionale, abita dunque in modo instabi­ le anche Terrore. Essere nel vero non è tanto assoggettarsi al­ le norme del sapere, ma è esporsi in permanenza al rischio 35 Cfr. Galilée: la signification de Vœuvre et la leçon de l ’homme, in EHPS. 36 M. Foucault, L'ordre du discours, lezione inaugurale al Collège de France, 2 dicembre 1970 (trad. it. di A. Fontana, L'ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972). 37 E. Balibar, Science et vérité dans la philosophie de Georges Canguilhem, in «A c­ tes du colloque» cit.

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dell'errore e dunque della rettificazione. Se Canguilhem può affermare che «non c’è verità se non scientifica»38, è perché verità ed errore sono ad un tempo separati ed intrecciati. In tal senso la nozione di «ideologia scientifica», sorta per l’in­ flusso degli studi di Foucault e di Althusser (IR, p. xvn), era tappa obbligata sul percorso che Canguilhem andava condu­ cendo, anche se solo gli scritti degli anni Settanta la sistema­ tizzeranno. Una storia della verità è un controsenso e dunque la storia della scienza deve includere anche i suoi traviamen­ ti. Le ideologie scientifiche, ad esempio l’atomismo (esempio di metafisica feconda anche in Popper), l’evoluzionismo, for­ se lo stesso vitalismo39, sono concezioni che occupano un ruo­ lo all’interno dello spazio del conoscere. Si tratta di sistemi esplicativi iperbolici rispetto alla norma di scientificità da cui prendono a prestito concetti, estensioni presuntuose, ma pro­ prio questa estensione consente la migrazione, il nomadismo e l’esportazione dei concetti. Le ideologie scientifiche paras­ sitano una creazione concettuale, trasformano un problema in soluzione, ma possono anche precedere le vere innovazio­ ni, le rotture epistemologiche. Nel 1969, L'archeologia del sapere evidenziava il muta­ mento prodottosi nelle discipline storiche da una attenzione rivolta ai tempi lunghi, alle continuità delle lunghe durate, ad un’indagine centrata sulle interruzioni. E nell’iscrivere la sua pratica in quest’impianto discontinuista Foucault rico­ nosceva il suo debito nei confronti di «atti e soglie episte­ mologiche» descritte da Bachelard, di «spostamenti e tra­ sformazioni dei concetti» il cui modello sono le analisi svi­ luppate da Canguilhem. Si tratta di analisi che «dimostrano come la storia di un concetto non sia, in tutto e per tutto, quella del suo progressivo affinarsi, della sua continuamen­ te crescente razionalità, del suo gradiente di astrazione, ma quella dei suoi diversi campi di costituzione e di validità, 38 Da un dibattito alla Sorbona nel 1968, citato da ibid. 39 Dagognet, Georges Canguilhem cit.

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quella delle sue successive regole d ’uso, dei molteplici am­ bienti teorici in cui si è condotta e conclusa la sua elabora­ zione»40. Due anni prima, su «Critique», Canguilhem si era schierato a difesa delle tesi promosse da Foucault in Le pa­ role e le cose41, contro le critiche degli umanisti, inviperiti dal­ la provocazione per cui l’uomo non sarebbe che un’inven­ zione recente, una piega del nostro sapere che presto scom­ parirà, e contro «i chierichetti dell’esistenzialismo» irritati da un approccio strutturale che sottraeva la cultura alle pre­ se della storia. Ma la difesa di Canguilhem non eliminava do­ mande che lasciavano trasparire differenze non secondarie, certo in parte ascrivibili alle diverse discipline di elezione. In primo luogo, le brusche rotture indicate da Foucault non annullano parentele, filiazioni e continuità: «lo storico del­ la scienza trae dalla scienza di cui è diventato lo storico, l’idea d ’una verità che si è costituita progressivamente», scrive Canguilhem {ibid.). Lo sguardo dell’archeologo si sofferma sulle discontinuità, sui modi con cui bruscamente una cul­ tura si mette a pensare diversamente da come si era fatto fi­ no ad allora. Quando una nuova episteme irrompe, impo­ nendo nuove regole al gioco del pensiero, agendo da sistema universale di riferimento dell’epoca in cui si instaura, fini­ sce per rapportarsi all’epoca che la precede solo in termini di differenza. Ma il procedere dei discorsi non agisce solo nel­ la forma della estromissione, come sarebbe accaduto, secon­ do Foucault, nel caso della storia naturale, la cui scomparsa ha aperto lo spazio della biologia. I saperi si succedono an­ che nella forma della integrazione, come è avvenuto per la fisica di Newton che né Maxwell né Einstein hanno confu­ tato, o per Darwin che Mendel non ha messo in soffitta. Le rotture, le discontinuità, non assumono lo stesso andamen­ to, non implicano l’impossibilità di un giudizio sul passato, si stagliano anzi su di uno sfondo di continuità garantito dal 40 M. Foucault, V archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969 (trad. it. di G. Bogliolo, L ’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 7). 41 G. Canguilhem, Morte de l ’homme, in appendice a PC.

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conservarsi di concetti, pur nel loro progressivo raffinarsi e rettificarsi. Ciò che interessa Canguilhem è naturalmente lo statuto della biologia, del cui oggetto, la vita, Foucault, in Le paro­ le e le cose, ha sostenuto l’apparizione solo nell’Ottocento. La vita, insieme al lavoro e al linguaggio sarebbero diventa­ ti dei «quasi trascendentali», in parte oggetto di conoscen­ za, della biologia, dell’economia politica e della linguistica, ed in parte condizioni di possibilità del conoscere. Il muta­ mento dell’episteme è connesso all’apparizione di questi a priori storici; essi danno una nuova conformazione ai sape­ ri, ripartiscono diversamente il campo di ciò che si dà a co­ noscere. Se è vero che Canguilhem è stato il critico più acu­ to del vezzo storiografico di rintracciare ovunque dei pre­ cursori, abitatori insieme del proprio tempo e di quello a ve­ nire42, resta vero che i concetti di una scienza si pongono nell’attesa di quelli che li rettificheranno. Ora, Foucault ha osservato che non è possibile scrivere una storia della biolo­ gia per il Settecento, quando la biologia era sconosciuta per la semplice ragione che «la vita stessa non esisteva. Esiste­ vano soltanto esseri viventi: apparivano attraverso una gri­ glia del sapere costituito dalla storia naturale» (PC). Non è stato proprio Canguilhem a spiegarci che la nozione biologi­ ca di ambiente ancora non esisteva nel x v i i i secolo ? L ’a prio­ ri storico che ordina il campo delPempiricità e che consente di «tenere sulle cose un discorso riconosciuto come vero» (PC, p. 176) è costituito nel x v i i i secolo dalla storia natura­ le, dominata dal principio di continuità. La biologia non si può formare finché la vita non è avvertita come soglia, co­ me limite che operi una rottura nella continuità degli esseri viventi, lungo la scala di minerali, vegetali e animali. Solo negli ultimi decenni del secolo dei Lumi la vita si libererà dai legami della classificazione. Diverrà allora fondamentale la

42 Sul precursore nella storia delle scienze si veda L ’objet de l ’histoire des scien­ ces, in EH PS, trad. it. cit.

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contrapposizione fra Torganico e Pinorganico, fra ciò che si produce e riproduce, e Pinerte infecondo. Solo dalla frattu­ ra del quadro proposto dalla storia naturale diventerà possi­ bile la biologia, «e potrà anche emergere, nelle analisi di Bi­ chat, la contrapposizione fondamentale di vita e morte. Non sarà il trionfo, più o meno precario, d’un vitalismo su un mec­ canicismo; il vitalismo e il suo sforzo per definire la specifi­ cità della vita, sono soltanto gli effetti di superficie di que­ sti eventi archeologici» (PC, p. 251). L ’apertura del campo trascendentale della soggettività, in Kant, è correlativa al co­ stituirsi di quei «quasi trascendentali» che sono la Vita, il Lavoro, il Linguaggio. Se per tutto Parco dell’età classica la vita era di pertinenza di una ontologia che riguardava tutti gli enti materiali, e dunque anche le scienze del vivente non potevano sfuggire ad «una profonda vocazione meccanici­ stica», a partire da Cuvier l’essere biologico si regionalizza e diviene autonomo. Si disegna una discontinuità nella na­ tura, nella quale il vivente costituisce il suo nuovo spazio, quello interno delle coerenze anatomiche e quello delle con­ dizioni esterne che ne rendono possibile l’esistenza. E in virtù di questo a priori storico che la storicità trova ora po­ sto nella natura e nella vita stessa; nel solco tracciato da questa mutazione archeologica, l’uomo si offre da allora in poi come il vivente che dall’interno della vita possiede la capacità di rappresentare la vita stessa (PC, p. 377); Puomo è l’essere a cui è possibile trovare « norme medie di ac­ comodamento che gli consentono di esercitare le proprie funzioni sulla superficie di proiezione della biologia» (PC, p. 382). Ma nelle scienze si è prodotto uno slittamento a partire da Goldstein, Mauss, Dumézil; finché ha prevalso il punto di vista della funzione su quello della norma è sta­ to necessario separare i funzionamenti normali da quelli pa­ tologici. Da quando l’analisi è stata condotta dal punto di vista della norma, cioè delle regole che dall’interno trac­ ciano la coerenza di sistemi chiusi ed autonomi nella loro validità, il campo delle scienze umane non è stato più scis­

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so in una dicotomia di valori, non è stato più possibile se­ parare mentalità primitiva e razionalità dei popoli civiliz­ zati, salute psichica e condizione morbosa. Freud è stato il primo ad operare la cancellazione della partizione fra posi­ tivo e negativo, normale e patologico, «come se la dicoto­ mia tra il normale e il patologico tendesse a cancellarsi a vantaggio della bipolarità tra coscienza e inconscio» (PC, p. 389). Trentanni dopo, Canguilhem tornerà al tema del Saggio del *43, con «Il problema della normalità nella storia del pen­ siero biologico» (IR). Ad essere ribadito non sarà solo il vi­ talismo, contro «i divieti positivisti e le ingiunzioni maté­ rialiste», timorose che «se la vita non è solo materia, atten­ zione all’anima, all’immortalità e al potere dei preti! » Sarà anche la continuità della storia della biologia, in cui le foucaultiane soglie di trasformazione non producono fratture radicali {ibid., p. xvm). Pur comparendo solo all’inizio del xix secolo, il termine biologia denotava una scienza che si presentava con « l’ambizione di qualificare per estensione, in modo più pertinente l’oggetto di una disciplina che non ta­ gliava i ponti con il passato» (IR, p. 122). «L a storia di una scienza fallirebbe senza dubbio il suo obiettivo se non riu­ scisse a rappresentare la successione di tentativi, di vicoli cie­ chi e di raddrizzamenti il cui risultato è la formazione di quel­ lo che la scienza oggi considera il proprio oggetto» {ibid.). Possiamo dunque riconoscere che si è prodotta una muta­ zione quando all’inizio del xix secolo è apparso un nuovo orizzonte logico nello studio degli esseri viventi; si tratta co­ munque di un orizzonte che «rimane di fatto prigioniero del­ la tradizionale embricazione tra il punto di vista del natura­ lista e quello del medico, tra il punto di vista dell’investiga­ zione e quello della guarigione». Non solo la svolta in biolo­ gia non ha prodotto una rottura con l’atteggiamento che già era di Ippocrate e di Aristotele ma neppure ha eliminato un riferimento assiologico; un giudizio di valore, come la di­ stinzione fra normalità ed anormalità, si riconferma attuale,

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anche nell’era della biochimica. Oggi le proprietà dei vi­ venti, l’autoregolazione, F autoconservazione e Fautoriproduzione sono definite grazie a referenti di intelligibilità assunti dalla cibernetica e dalla teoria delFinformazione. La differenza e la superiorità del vivente rispetto al mec­ canico stanno pur sempre nella capacità di rettificare i pro­ pri errori. Anche se le definizioni dell’essere vivente sono cambia­ te, la storia della biologia è sottesa «da una specie di princi­ pio di conservazione tematica», che fa di questa scienza qual­ cosa di diverso dalle altre: tale principio va rintracciato pro­ prio nella sottomissione del biologo «al dato della vita, co­ stituito in qualsiasi essere vivente, dalla sua autoconserva­ zione per autoregolazione», da un trascendentale in senso pieno che può dirsi oggettivo. Dall’entelechia di Aristotele all’enzima del biochimico, pur nel variare delle definizioni del proprio oggetto, la bio­ logia percorre un comune cammino. Per Aristotele, nella na­ tura e nella vita è rintracciabile un comportamento teleolo­ gico, non mosso da un progetto esterno, non eterodiretto come nella tecnica, ma immanente. Si tratta di un compor­ tamento fallibile, nel senso che la forma costituisce una nor­ ma che non si ripete universalmente, ma tollera eccezioni, anormalità ed errori di natura, quali i mostri, prodotti dalla resistenza della materia all’informazione della forma. Carte­ sio cercherà di rovesciare le teorie aristoteliche con l’identi­ ficazione fra vivente ed automa, ma il tentativo riduzioni­ sta, di inclusione della vita nel campo della meccanica, falli­ sce; lo stesso Cartesio è costretto ad introdurre nel definire il vivente proprietà che sfuggono alla giurisdizione delle leg­ gi fisiche. Cosi, egli osserva che un orologio è soggetto alle leggi della meccanica sia quando segna l’ora giusta che quel­ la sbagliata e che per l’uomo è naturale sia la salute che la malattia; ma quando giudica il caso dell’idropico spinto a be­ re a suo danno non può che interpretarlo come un errore del­ la natura, e quando condanna la medicina tradizionale a fa­

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vore di una medicina che si limiti a suggerire un vivere ri­ spettoso dell’insegnamento della natura, secondo il vecchio principio della «natura medicatrix», finisce per riconoscere che Pautoconservazione rimane un carattere specifico degli esseri viventi. Il corpo possiede meccanismi di autoregola­ zione; la strutturazione fra organi e funzioni, le relazioni fra le parti ed il tutto, ne fanno un soggetto sottoposto a corru­ zione ma in grado di resistere per un certo tempo alla de­ composizione, dotato del potere di autoconservarsi. L ’esse­ re organizzato tende a ristabilirsi nella sua forma, conferma cosi una unità, una individualità morfologica, che anche un critico del vitalismo di Bichat come Claude Bernard dovrà riconoscere: «la morte, la malattia e la capacità di guarigio­ ne distinguono il vivente dall’esistenza bruta». Il problema della normalità e dell’anormalità non è scom­ parso nella biochimica odierna, si è semplicemente posto su nuove basi; è situato nell’ordine e nella possibile perturba­ zione nella trasmissione del messaggio genetico. L ’anorma­ lità è leggibile come errore: vi è una norma strutturale che tollera irregolarità, vi è una normatività nella quale la de­ vianza, la comparsa di una mutazione nel processo dell’evo­ luzione darwiniana può anche tradursi in vantaggio nella lot­ ta per la sopravvivenza. Anche ammettendo che Darwin ab­ bia fornito una spiegazione causale dell’adattamento, non per questo è abolito «il senso vitale dell’adattamento, senso determinato dal riferimento del vivente alla morte». La nor­ ma rispetto all’età aristotelica ha assunto un nuovo signifi­ cato, «non è più un obbligo rigido, è una capacità transiti­ va. La normalità dei viventi è la qualità della relazione con l’ambiente che permette ai viventi di accedere a loro volta, grazie alle variazioni individuali dei loro discendenti, a nuo­ ve forme di relazione con un nuovo ambiente e cosi via. La normalità dell’essere vivente non sta in lui, esprime, in un dato luogo e in un dato momento, il rapporto tra la vita uni­ versale e la morte». Ed anche la morte ha assunto un nuo­ vo significato, non è il regolatore della vita sulla terra come

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in Buffon, né lo strumento della Polizia della Natura con­ tro le infrazioni, come in Linneo; per Darwin, «la morte è lo scultore di forme viventi, forme elaborate senza Idea pre­ concetta, ma piuttosto dalla progressiva trasformazione del­ le deviazioni in vantaggi di percorso in un nuovo ambien­ te» (IR). Il darwinismo non ha dunque confutato l’irriduci­ bilità della biologia alla fisica; resta vero quanto affermava Bichat e cioè che nei fenomeni vitali esistono due cose, lo stato di salute e lo stato di malattia, da cui provengono le due scienze della fisiologia e della patologia; la fisica dei cor­ pi inerti conosce solo una fisiologia, ma non ha nulla di cor­ rispondente alla patologia. Il disegno immanente, il pro­ gramma che Claude Bernard riconosceva nell’organismo, è oggi codificato nelle sequenze del nucleotide. Anche se la biologia ha affidato la definizione dei suoi oggetti alla giu­ risdizione di fisici e chimici, la distinzione fra vivente ed inerte si è solo razionalmente fondata. «Il modo di esisten­ za del vivente è quello di un sistema in equilibrio dinamico instabile, mantenuto nella sua struttura di ordine da un con­ tinuo apporto di energia a spese di un ambiente caratteriz­ zato dal disordine molecolare oppure dall’ordine fisso del cristallo» (IR, p. 136). L ’opposizione di valore fra normale e patologico non si è annullata, si è solo spostata dalla su­ perficie alla profondità, dal macroscopico all’ultramicro­ scopico del gene; la nuova scienza degli organismi viventi ha fondato quel contrasto, «radicandolo nella loro struttu­ ra originaria». La norma e la sua deviazione si leggono nel­ le modalità di trasmissione e riproduzione del messaggio ge­ netico; il male non fa più riferimento all’individuo, preso nella sua totalità, ma ad un errore di lettura e di copia dei costituenti morfologici. In conclusione l’epistemologo della biologia mantiene in­ tatte le sue riserve nei confronti dei dogmatismi riduzioni­ sti. Una differenza radicale permane: «L a malattia e la mor­ te di quegli esseri viventi che hanno prodotto la fisica, spes­ so a rischio della loro vita, non è un problema di fisica. La

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malattia e la morte di quegli esseri viventi che sono i fisici e i biologi, è invece un problema di biologia» (IR, p. 140). L ’oggetto biologico è certamente cambiato43; entrati nell’epoca della biofisica e della biochimica, la vita è studia­ ta a quanto è più vicino al suo contrario, alla non vita, nel cristallo del DNA, come se i biologi fossero costretti a devi­ talizzare il proprio oggetto. Il codice genetico è pur sempre «la conservazione di un’informazione accettata dopo l’eli­ minazione degli errori. Ma gli errori non erano errori di com­ binazione, erano errori di tentativo o di prova, cioè erano il fallimento di qualche combinazione» (IR, p. 117). In altri termini, la vita è possibile là dove c’è evoluzione, nei tenta­ tivi con i quali gli organismi si rapportano all’ambiente. L ’emergere di una biofisica e di una biochimica impone dunque la rinuncia, riconosce Canguilhem, ad alcune pro­ prietà a lungo ritenute specifiche del vivente. Certo, negli ultimi decenni, le ricerche di Eigen e di Prigogine ci indu­ cono ad intendere la vita come l’espressione più alta dei pro­ cessi di auto-organizzazione44. La vita si presenta come l’esi­ to di emergenze rispetto a processi fisico-chimici, come le strutture dissipative, che, lontano dall’equilibrio, si conser­ vano traendo energia dall’ambiente, in modo analogo a quan­ to Canguilhem ha affermato per i sistemi viventi. Il vitali­ smo è crollato, può affermare Atlan45; oggi possiamo evitare anche il riferimento alla teleologia, ci avviamo ad intendere la vita stessa come esito di un principio fisico di complessificazione della materia. La materia non è solo inerzia ed in­ 43 Cfr. il problema della normalità nella storia delpensiero biologico, 1973, in IR. 44 M. Eigen e R. Winkler, Das Spiel, Piper GM BH & Co., München 1975 (trad. it. di A. M. Stein Mayer, Il gioco, Adelphi, Milano 1986. Per Prigogine ri­ mandiamo a I. Prigogine e I. Stengers, La nouvelle Alliance, Gallimard, Paris 1979 (trad. it. e cura di P. D. Napolitani, La nuova alleanza, Einaudi, Torino 1981). 45 H. Atlan, Entre le cristal et la fumée, Editions du Seuil, Paris 1979 (trad. it. di R. Coltellacci e R. Corona, Tra il cristallo e il fumo, a cura di S. Isola, Hopeful Monster, Torino 1987). Dello stesso autore si vedano A tort et à raison, Editions du Seuil, Paris 1986 (trad. it. di F. Salvadori e S. Isola, A torto e a ragione, Hope­ ful Monster, Torino 1989) e Tout ne peut-être, Edition du Seuil, Paris 1991 (trad. it. di S. Isola, Tutto non può essere, Hopeful Monster, Torino 1995).

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differenza (forse propria questa incomprensione è il limite più grave del vitalismo); le scienze della complessità non si sono limitate ad introdurre la storia nella vita, come chiede­ va Canguilhem nelTintrodurre il Saggio del '43. La storia fa parte anche del mondo fisico, al quale possiamo riconoscere un'evoluzione analoga a quella dell'universo dei viventi. E gli sviluppi della cibernetica hanno promosso un neomecca­ nicismo per il quale i sistemi viventi tornano ad essere mac­ chine, anche se autopoietiche46. Ma da queste ricerche esce confermata la saldatura fra conoscenza e vita perseguita da Canguilhem: «conoscere è un'azione effettiva, è decidere, realtà operativa nel dominio di esistenza dell'esser vivo»47. Nell'intreccio fra gli aspetti cognitivi della vita e gli aspetti biologici della conoscenza è proprio all'errore che si riconosce la funzione di innovazio­ ne. Il caso, l'alea ed il rumore che accompagnano la trasmis­ sione dell'informazione possono essere fattori di crescita del­ la complessità del sistema, sostiene Atlan. Non solo l'ordine può apparire dal disordine, ma l'errore può aumentare la va­ rietà, essere condizione per il formarsi di neghentropia; dal­ la cattiva interpretazione del senso può scaturire un nuovo significato. La vita supera gli errori, impara da essi, grazie a nuovi tentativi (essais) per superare i suoi scacchi, ed è at­ traverso gli errori che la vita è giunta a questo vivente capa­ ce di errori, all'essere umano, nel quale vita e conoscenza si separano, ma in cui la consapevole fallibilità del sapere pro­ segue la fallibilità della vita. Nell'a priori materiale, nel lo­ gos inscritto nel vivente, il pathos rimane condizione di pos­ sibilità del sapere. L'errore umano, osserva Canguilhem, for­ se non è altro che l'erranza. L'uomo si sbaglia perché il suo posto non è prefissato, può dunque trovarsi al posto sba­ gliato, là dove non riceve informazione adeguata; ma l'uo­ 46 H. Maturarla e F. Varela, Autopoiesis and Cognition, Reidei, Dordrecht 1980 (trad. it. di A. Stragaprede, Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia 1985). 47 Id., E l àrbol del conoscimiento, 1984 (trad. it. di G. Melone, L ’albero della conoscenza, Garzanti, Milano 1987, p. 42).

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mo ha la capacità di spostarsi. «D i conseguenza, essere sog­ getto della conoscenza, se Ta priori è nelle cose, se il con­ cetto è nella vita, è soltanto essere insoddisfatto del senso trovato. La soggettività è allora unicamente Pinsoddisfazio­ ne. Ma forse è proprio questo la vita»48. M ARIO PORRO

48 Cfr. Le concept et la vie, in EHPS.

Avvertenza

La presente opera è la raccolta di due studi, uno dei qua­ li inedito, dedicati allo stesso soggetto. Si tratta fondamen­ talmente della riedizione della mia tesi di dottorato in me­ dicina, resa possibile grazie alla gentile concessione fatta dal Comitato per le Pubblicazioni della Facoltà di Lettere di Strasburgo al progetto delle Presses Universitaires de Fran­ ce. A coloro che hanno elaborato il progetto come a coloro che ne hanno promosso la realizzazione, intendo qui espri­ mere la mia più viva riconoscenza. Non spetta a me dire se questa riedizione fosse o non fos­ se necessaria. Vero è che la mia tesi ha avuto la fortuna di suscitare qualche interesse tanto nel mondo medico quanto presso i filosofi. Non resta che augurarmi che oggi essa non venga giudicata troppo invecchiata. Con l'aggiunta di qualche considerazione inedita al mio primo Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il pa­ tologico, cerco soltanto di rendere testimonianza dei miei sfor­ zi - se non della mia buona riuscita - tesi a mantenere un pro­ blema, che ritengo fondamentale, nel medesimo stato di fre­ schezza dei suoi dati di fatto continuamente mutevoli. G. C. 1956.

La seconda edizione presenta alcune rettifiche di detta­ gli e note complementari a pie’ di pagina. G. C. 1972.

Il normale e il patologico

Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico (1 9 4 3 )

Prefazione alla seconda edizione1

Questa seconda edizione della mia tesi di dottorato in me­ dicina riproduce esattamente il testo della prima, pubblica­ ta nel 1943. Questo non perché io sia definitivamente sod­ disfatto di me stesso. Il primo motivo è che il Comitato per le Pubblicazioni della Facoltà di Lettere di Strasburgo - che voglio qui cordialmente ringraziare per aver deciso la ri­ stampa della mia opera - non poteva sostenere le spese che un rimaneggiamento del testo avrebbe comportato. In se­ condo luogo, le correzioni o le aggiunte a questo primo sag­ gio troveranno spazio in un lavoro a venire, di carattere più generale. Vorrei qui indicare soltanto di quali nuove letture, di quali critiche tra quelle che mi sono state mosse, di quali riflessioni personali avrei potuto e dovuto far beneficiare la prima versione del mio saggio. Innanzi tutto, già nel 1943, avrei potuto segnalare quan­ to mi sarebbero state d ’aiuto, per il tema centrale della mia trattazione, opere come il Traité de psychologie générale di Maurice Pradines e la Structure du comportement di Maurice Merleau-Ponty. Ho potuto soltanto citare il secondo, sco­ perto quando già il manoscritto era stato dato alle stampe. Quanto al primo, non l’avevo ancora letto. E sufficiente ri­ pensare alle condizioni della diffusione dei libri nel 1943 per capire le difficoltà di documentazione dell’epoca. Del resto, devo confessare di non dolermene più di tanto: a un accor­ do con le opinioni di altri, per quanto sincero, preferisco di 1 1950. Prima edizione, 1943.

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Prefazione alla seconda edizione

gran lunga una coincidenza il cui carattere fortuito fa meglio risaltare il valore di necessità intellettuale. Dovrei, se scrivessi oggi questo saggio, dare ampio spa­ zio ai lavori di Selye e alla sua teoria dello stato di allarme organico. Il trattato potrebbe fungere da mediazione tra le tesi, a prima vista molto differenti, di Leriche e di Goldstein, cui ho riservato la massima attenzione. Selye ha scoperto che difetti o squilibri del comportamento, cosi come le emozio­ ni e la fatica che essi ingenerano, producono, con la loro fre­ quente ripetizione, una modificazione strutturale della cor­ teccia surrenale analoga a quella determinata daH'immissione in circolo di sostanze ormonali, siano esse impure o pure ma in dosi massicce, o di sostanze tossiche. Ogni stato or­ ganico di tensione disordinata, ogni comportamento di al­ larme o di stress provoca la reazione surrenale. Tale reazio­ ne è «normale» per quanto riguarda Fazione e gli effetti del corticosterone nell'organismo. D'altro canto, queste reazio­ ni strutturali, che Selye chiama reazioni di adattamento e reazioni di allarme, interessano tanto la tiroide o l'ipofisi che la surrenale. Ma queste reazioni normali (vale a dire biolo­ gicamente favorevoli) finiscono per usare l'organismo nel ca­ so di ripetizioni anormali (vale a dire statisticamente fre­ quenti) delle situazioni generatrici della reazione di allarme. Insorgono cosi, in certi individui, malattie di disadattamen­ to. Le ripetute scariche di corticosterone provocano sia di­ sturbi funzionali, come lo spasmo vascolare e l'ipertensione, sia lesioni morfologiche come l'ulcera gastrica. E per questo che, nella popolazione delle città inglesi sottoposte ad attac­ chi aerei durante l'ultima guerra, si è registrato un notevole aumento dei casi di ulcera gastrica. Se si interpretano questi fatti dal punto di vista di Gold­ stein, si individuerà la malattia nel comportamento cata­ strofico; se li si interpretano dal punto di vista di Leriche, la si individuerà nella determinazione dell'anomalia istologica tramite lo squilibrio fisiologico. Questi due punti di vista so­ no ben lontani dall'escludersi.

Prefazione alla seconda edizione

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Parimenti, trarrei oggi grande giovamento dalle opere di Etienne Wolff Les changements du sexe e La science des mons­ tres, a proposito dei miei riferimenti ai problemi della teratogenesi. Insisterei maggiormente sulla possibilità, e persino sulla necessità di chiarire, attraverso la conoscenza delle for­ mazioni mostruose, quella delle formazioni normali. Affer­ merei con forza ancora maggiore che non vi è, in sé e a prio­ ri, alcuna differenza ontologica tra una forma di vita riusci­ ta e una mancata. Del resto, si può parlare di forme di vita mancate ? Quale mancanza si può scoprire in un vivente, fin­ ché non è stata fissata la natura delle sue caratteristiche in­ trinseche di vivente ? Avrei anche dovuto tener conto - più ancora che del plau­ so o delle conferme che mi sono venute da medici, psicologi come il mio amico Lagache, professore alla Sorbona, o da biologi come i professori Sabiani e Kehl della Facoltà di Me­ dicina di Algeri - delle critiche al tempo stesso comprensi­ ve e risolute del professor Louis Bounoure della Facoltà di Scienze di Strasburgo. Nel suo L'autonomie de l'être vivant, Bounoure mi rimprovera, con spirito e cordialità in egual mi­ sura, di cedere alT«ossessione evoluzionista» e considera con grande acume, se mi è consentito dirlo, l’idea di una norma­ tività del vivente come una proiezione su tutta la natura vi­ vente della tendenza umana al superamento. E effettiva­ mente un grave problema, ad un tempo biologico e filosofico, quello di sapere se sia o non sia legittimo introdurre la Storia nella Vita (penso qui a Hegel e ai problemi sollevati dall’interpretazione dell’hegelismo). Si comprenderà come non mi sia possibile affrontare una tale questione in una pre­ fazione. Tengo tuttavia a dire che essa non mi sfugge, che spero di poterla affrontare più avanti e che sono grato al pro­ fessor Bounoure di avermi aiutato a porla. Da ultimo, è certo che oggi non potrei non tener conto, nell’esposizione delle tesi di Claude Bernard, della pubbli­ cazione nel 1947, a cura del dottor Delhoume, dei Principes de medécine expérimentale, dove Bernard porta più chiarez­

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Prefazione alla seconda edizione

za che altrove nell’esame del problema della relatività indi­ viduale del fatto patologico. Non credo tuttavia che il mio giudizio sulle tesi di Bernard, nel suo nucleo essenziale, sa­ rebbe mutato. Concludo aggiungendo che alcuni lettori si sono meravi­ gliati della brevità delle mie conclusioni e del fatto che esse lascino aperta la porta della filosofia. Devo dire che ciò fu intenzionale. Avevo voluto svolgere un lavoro di prepara­ zione per una successiva tesi di filosofia. Ero consapevole di aver sacrificato molto, se non troppo in una tesi di medici­ na, al demone filosofico. Deliberatamente ho dato alle mie conclusioni l’aspetto di proposizioni semplicemente e so­ briamente metodologiche.

Introduzione

Il problema delle strutture e dei comportamenti patolo­ gici nell'uomo è immenso. Uno storpio congenito, un inver­ tito sessuale, un diabetico, uno schizofrenico pongono in­ numerevoli questioni che rimandano in ultima analisi all’in­ sieme delle ricerche anatomiche, embriologiche, fisiologiche, psicologiche. E nostra opinione, tuttavia, che un tale pro­ blema non debba essere smembrato e che le possibilità di ri­ solverlo siano maggiori se lo si considera in blocco, senza se­ zionarlo in questioni specifiche. Al momento, però, non siamo in grado di argomentare tale opinione con la presen­ tazione di una sintesi sufficientemente documentata, che spe­ riamo di potere un giorno condurre a buon fine. Cionondi­ meno, la pubblicazione di alcune delle nostre ricerche non esprime soltanto questa attuale impossibilità, bensì anche l’intenzione di segnare tempi successivi nella ricerca. La filosofia è una riflessione per la quale ogni materia estranea è buona, anzi potremmo dire: per la quale ogni buo­ na materia deve essere estranea. Poiché abbiamo intrapreso gli studi medici pochi anni dopo la fine degli studi filosofici, e parallelamente all’insegnamento della filosofia, dobbiamo qualche parola di spiegazione a proposito delle nostre inten­ zioni. Non è necessariamente per conoscere meglio le malat­ tie mentali che un professore di filosofia può interessarsi al­ la medicina. E tanto meno per esercitarsi in una disciplina scientifica. Ciò che esattamente ci attendevamo dalla medi­ cina era un’introduzione a problemi umani concreti. La me­ dicina ci appariva, e ancora ci appare, come una tecnica o

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Introduzione

un’arte situata su un crocevia tra diverse scienze, piuttosto che come una scienza in senso proprio. Due problemi che ci assorbivano, quello del rapporto tra scienze e tecniche e quel­ lo delle norme e del normale, ci parevano dover beneficiare, per essere posti correttamente ed essere risolti, di una cultu­ ra medica diretta. Applicando alla medicina uno spirito che vorremmo poter definire «non prevenuto», ci è sembrato che il suo nucleo essenziale, malgrado i lodevoli sforzi per intro­ durre metodi di razionalizzazione scientifica, restasse circoscritto alla clinica e alla terapeutica, vale a dire a una tecnica di costituzione o di ricostituzione del normale impossibile da ricondurre puramente e semplicemente alla sola conoscenza. Il presente lavoro è pertanto uno sforzo volto a integra­ re la speculazione filosofica e alcuni tra i metodi e le acqui­ sizioni della medicina. Non si tratta, va detto, di dare lezio­ ni, o di formulare sull’attività medica giudizi normativi. Non siamo certo tanto tracotanti da pretendere di rinnovare la medicina incorporando in essa una metafisica. Se la medici­ na deve essere rinnovata, spetta ai medici farlo, a loro rischio e a loro onore. Noi però abbiamo l’ambizione di contribui­ re al ripensamento di determinati concetti metodologici, ret­ tificandone la comprensione mediante il contatto con una informazione medica. Dunque non ci si attenda da noi più di quanto fosse nostra intenzione dare. La medicina è trop­ po spesso preda e vittima di certa letteratura pseudo-filosofica alla quale, è giusto dirlo, i medici non sono sempre estranei, e che raramente rende giustizia a medicina e filo­ sofia. Non è nostra intenzione tirare acqua a quel mulino. Tanto meno vogliamo fare opera di storici della medicina. Se nella prima parte abbiamo posto un problema in prospet­ tiva storica, è unicamente per motivi di maggiore chiarezza. Non aspiriamo ad alcuna erudizione di ordine biografico. Una parola sulla delimitazione del nostro soggetto. Il pro­ blema generale del normale e del patologico può, dal punto di vista medico, dividersi in problema teratologico e proble­ ma nosologico, e quest’ultimo, a sua volta, in problema di no-

Introduzione

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sologia somatica o fisiopatologia, e problema di nosologia psi­ chica o psicopatologia. E esattamente al problema della no­ sologia somatica, o della fisiologia patologica, che desideria­ mo limitare il presente saggio, senza tuttavia vietarci di mu­ tuare dalla teratologia o dalla psicopatologia quei dati, quelle nozioni o quelle soluzioni che ci sembreranno particolarmente adatte a portare chiarezza nella ricerca o a confermare qual­ che risultato. Allo stesso modo, abbiamo tenuto a proporre le nostre concezioni legandole all'esame critico di una tesi, general­ mente accettata nel xix secolo, riguardante i rapporti tra il normale e il patologico. Si tratta della tesi secondo cui i fe­ nomeni patologici sono identici ai fenomeni normali corri­ spondenti, tranne che per variazioni quantitative. Cosi fa­ cendo, riteniamo di obbedire a un'esigenza del pensiero fi­ losofico, che è quella di riaprire i problemi piuttosto che chiuderli. Léon Brunschvicg ha detto, a proposito della filo­ sofia, che essa è la scienza dei problemi risolti. Facciamo no­ stra questa definizione semplice e profonda.

Parte prima Lo stato patologico è soltanto una modificazione quantitativa dello stato normale?

Capitolo primo Introduzione al problema

Per agire, bisogna quanto meno localizzare. Come agire su un sisma o su un uragano? L ’origine di qualunque teoria ontologica della malattia è senz’altro da attribuirsi al biso­ gno terapeutico. Vedere in un malato un uomo aumentato o diminuito di un essere significa già in parte rassicurarsi. Ciò che l’uomo ha perduto gli può essere restituito, ciò che è en­ trato in lui può uscire. Anche se la malattia è sortilegio, ma­ leficio, possessione, si può sperare di vincerla. Basta pensare che la malattia sia qualcosa che si aggiunge all’uomo perché non tutta la speranza vada perduta. La magia offre innume­ revoli risorse per conferire alle droghe e ai riti magici tutta l’intensità del desiderio di guarigione. Sigerist ha notato che la medicina egiziana ha probabilmente generalizzato, me­ scolandola con l’idea della malattia-possessione, l’esperien­ za orientale delle affezioni parassitane. Rigettare vermi si­ gnifica recuperare la salute [Sigerist 1932, p. 120]. La ma­ lattia entra ed esce dall’uomo come da una porta. Ancor oggi esiste una gerarchia volgare delle malattie, fondata sulla mag­ giore o minore facilità nel localizzarne i sintomi. In tal mo­ do la paralisi spastica è più malattia di quanto lo sia l’herpes zoster toracico e l’herpes zoster più di quanto lo sia il foruncolo. Senza voler attentare alla grandezza dei dogmi pasteuriani, si può a buon diritto affermare che la teoria mi­ crobica delle malattie contagiose deve sicuramente una par­ te non indifferente del suo successo a quel poco di rappre­ sentazione ontologica del male che essa contiene. Un micro­ bo, per quanto necessiti della complicata mediazione del

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microscopio, dei coloranti e delle colture, è qualcosa di visi­ bile, mentre non è possibile vedere un virus [miasme] o un'in­ fluenza. Vedere un essere significa già prevedere un atto. Nessuno potrà contestare il carattere ottimistico delle teorie dell’infezione quanto alla loro estensione terapeutica. La sco­ perta delle tossine e il riconoscimento del ruolo patogeno dei terreni specifico e individuale hanno distrutto la bella sem­ plicità di una dottrina il cui rivestimento scientifico dissi­ mulava la persistenza di una reazione al male vecchia quan­ to l’uomo stesso. Tuttavia, se si sente il bisogno di rassicurarsi è perché il pensiero è costantemente assillato da un’angoscia; se si de­ lega alla tecnica, magica o positiva, il compito di riportare all’auspicata norma l’organismo affetto da malattia, è perché dalla natura in sé non ci si aspetta nulla di buono. Al contrario, la medicina greca offre alla riflessione, ne­ gli scritti e nelle pratiche ippocratiche, una concezione non più ontologica ma dinamica della malattia, non più localizzazionista ma totalizzante. La natura (physis), nell’uomo co­ me al suo esterno, è armonia ed equilibrio. Il disturbo di que­ sto equilibrio, di quest’armonia, è la malattia. In tal caso, la malattia non è localizzata in qualche parte dell’uomo. Essa è in tutto l’uomo, appartiene ad esso nella sua interezza. Le circostanze esteriori sono occasioni, non cause. Ciò che nell’uomo è in equilibrio, e il cui disturbo genera la malat­ tia, sono quattro umori, la cui fluidità è perfettamente adat­ ta a sostenere variazioni e oscillazioni, e le cui qualità sono accoppiate per contrasto (caldo, freddo, umido, secco). La malattia non è soltanto squilibrio o disarmonia: è anche e so­ prattutto sforzo della natura nell’uomo per ottenere un nuo­ vo equilibrio. La malattia è una reazione generalizzata il cui scopo è la guarigione. L ’organismo genera una malattia per guarirsi. La terapeutica deve innanzitutto tollerare e al bi­ sogno rinforzare queste reazioni edoniche e terapeutiche spontanee. La tecnica medica imita l’azione medica natura­ le {vis medicatrix naturae). Imitare non significa soltanto ri­

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copiare un’apparenza: significa mimare una tendenza, pro­ lungare un movimento interno. Certo, una tale concezione è anche ottimistica, ma qui l’ottimismo riguarda il senso del­ la natura e non l’effetto della tecnica umana. Il pensiero dei medici non ha ancora smesso di oscillare tra l’una e l’altra di queste due rappresentazioni della ma­ lattia, tra l’una e l’altra di queste due forme di ottimismo, trovando ogni volta qualche buona ragione a favore dell’uno 0 dell’altro atteggiamento in una qualche patogenesi scoper­ ta di fresco. Le malattie di carenza e tutte le malattie infet­ tive o parassitane fanno guadagnare punti alla teoria onto­ logica, i disturbi endocrini e tutte le malattie con prefisso dis- fanno guadagnare punti alla teoria dinamica o funziona­ le. Tuttavia queste due concezioni hanno un punto in co­ mune: nella malattia, o meglio nell’esperienza dell’essere ma­ lato, esse vedono una situazione polemica, sia che si tratti di una lotta dell’organismo contro un essere estraneo, sia che si tratti di una lotta interna tra forze contrapposte. La ma­ lattia differisce dallo stato di salute, il patologico dal nor­ male, come una qualità differisce da un’altra, sia per pre­ senza o assenza di un principio definito, sia per modifica­ zione della totalità organica. Questa eterogeneità tra lo stato normale e quello patologico passa ancora attraverso la con­ cezione naturalistica che nega importanza all’intervento uma­ no per la ricostituzione del normale. La natura troverà la stra­ da che porta alla guarigione. Ma all’interno di una conce­ zione che ammetta e si aspetti che l’uomo sia in grado di forzare la natura e di piegarla ai suoi voleri normativi, l’al­ terazione qualitativa che separava il normale dal patologico era difficilmente sostenibile. Non si andava ripetendo da Ba­ cone in avanti che non si può comandare alla natura se non obbedendole? Comandare alla malattia significa conoscerne 1 rapporti con lo stato normale che l’uomo che vive - e che ama la vita - spera di ricostituire. Di qui il bisogno teorico, a scadenza tecnica differita, di fondare una patologia scien­ tifica legandola alla fisiologia. Thomas Sydenham (1624-89)

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II normale e il patologico (1943)

ritiene che per aiutare il malato si debba delimitare e deter­ minare il suo male. Vi sono specie morbose esattamente co­ me vi sono specie vegetali o animali. Vi è un ordine nelle ma­ lattie, secondo Sydenham, cosi come vi è una regolarità nel­ le anomalie secondo Isidore Geoffroy Saint-Hilaire. Pinel legittimava tutti questi tentativi di classificazione nosologica portando il genere alla perfezione nella sua Nosographie philosophique (1797), di cui Daremberg dice che si tratta dell'opera di un naturalista piuttosto che di un clinico [1865, p. 1201]. Nel frattempo Morgagni (1682-1771), creando l'anato­ mia patologica, aveva permesso di collegare raggruppamen­ ti di sintomi stabili a determinate lesioni di organi. In tal mo­ do la classificazione nosografica trovava un fondamento nel­ la decomposizione anatomica. Ma, siccome dopo Harvey e Haller l'anatomia si era «animata» per diventare fisiologia, la patologia veniva ad essere il naturale prolungamento del­ la fisiologia. Di tutta questa evoluzione del pensiero medico si trova in Sigerist un'esposizione sommaria e magistrale [1932, pp. 117-42]. Il risultato di tale evoluzione è una teo­ ria dei rapporti tra normale e patologico secondo cui i feno­ meni patologici negli organismi viventi non sono nient'altro che variazioni quantitative, secondo il più e il meno, dei cor­ rispondenti fenomeni fisiologici. Semanticamente, il patolo­ gico è designato a partire dal normale, non tanto come a - o dis-, ma come iper- o ipo-. Malgrado della teoria ontologica resti la rassicurante fiducia nella possibilità di vincere il ma­ le con mezzi tecnici, si è qui ben lontani dal pensare che sa­ lute e malattia siano due opposti qualitativi, due forze in lot­ ta. Il bisogno di ristabilire la continuità, per conoscere me­ glio al fine di agire meglio, è tale che, al limite, il concetto di malattia potrebbe scomparire. La convinzione di poter re­ staurare scientificamente il normale è tale da finire per an­ nullare il patologico. La malattia non è più oggetto di ango­ scia per l'uomo sano: essa è diventata oggetto di studio per il teorico della salute. E nel patologico, sorta di edizione a

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caratteri cubitali, che si decifra Pinsegnamento della salute; un po’ come Platone cercava nelle istituzioni dello Stato Pequivalente ingrandito e più facilmente leggibile delle virtù e dei vizi delPanima individuale.

L ’identità reale dei fenomeni normali e patologici, appa­ rentemente cosi differenti e caricati dall’esperienza umana di valori opposti, è diventata, nel corso del xix secolo, una sorta di dogma scientificamente provato, la cui estensione nel dominio della psicologia e della filosofia pareva imposta dall’autorità che ad essa riconoscevano biologi e medici. In Francia questo dogma è stato enunciato, in condizioni e con intenzioni ben differenti, da Auguste Comte e da Claude Bernard. Nel pensiero di Comte è un’idea di cui egli si rico­ nosce, molto esplicitamente e con grande rispetto, debitore a Broussais. In Bernard è la conclusione raggiunta da un’in­ tera vita di sperimentazione biologica, di cui la celebre In­ troduction à Vétude de la médecine expérimentale codifica me­ todologicamente la pratica. Nel pensiero di Comte l’inte­ resse va dal patologico al normale al fine di determinare speculativamente le leggi del normale, giacché la malattia ap­ pare degna di studi sistematici come sostituto di una spe­ rimentazione biologica spesso impraticabile, soprattutto sull’uomo. L ’identità di normale e patologico viene affer­ mata a beneficio della conoscenza del normale. Nel pensie­ ro di Bernard, invece, l’interesse va dal normale al patologi­ co ai fini di un’azione ragionata sul patologico, giacché la conoscenza della malattia viene ricercata, attraverso la fi­ siologia e a partire da essa, come fondamento di una tera­ peutica che rompa decisamente con l’empirismo. L ’identità di normale e patologico viene affermata a beneficio della cor­ rezione del patologico. Infine, l’affermazione di identità re­ sta in Comte puramente concettuale, mentre Claude Bernard tenta di precisare tale identità in una interpretazione di im­ postazione quantitativa e numerica.

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Non è affatto per spregio che definiamo dogma una ta­ le teoria, bensì perché se ne colga la risonanza e la portata. Né è casuale la scelta di ricercare in Comte e Bernard i te­ sti che Phanno codificata. L ’influenza di questi due autori sulla filosofia, la scienza e più ancora forse sulla letteratu­ ra del xix secolo è notevole. Ora capita costantemente che i medici cerchino la filosofia della loro arte più volentieri nella letteratura che nella medicina o nella filosofia stesse. La lettura di Littré, di Renan, di Taine ha certamente su­ scitato più vocazioni mediche di quella di Richerand o di Trousseau, giacché un fatto con cui bisogna fare i conti è che si giunge alla medicina generalmente ignorando del tut­ to le teorie mediche, ma non senza idee preconcette su mol­ ti concetti medici. La diffusione del pensiero di Comte ne­ gli ambienti medici, scientifici e letterari si deve all’opera di Littré e a quella di Charles Robin, primo titolare della cattedra di istologia alla Facoltà di Medicina di Parigi1. La loro eco si è propagata soprattutto nell’ambito della psico­ logia. La udiamo in Renan: Il sonno, la follia, il delirio, il sonnambulismo, l’allucinazione of­ frono alla psicologia individuale un terreno di esperienza ben più van­ taggioso dello stato normale. I fenomeni che, in questo stato, sono co­ me cancellati dalla loro tenuità, appaiono, durante le crisi straordina­ rie, più percepibili in virtù della loro esagerazione. Il fisico non studia il galvanismo nelle piccole quantità presenti in natura, ma lo molti­ plica con la sperimentazione al fine di studiarlo con più facilità, ben certo peraltro che le leggi osservate in questo stato esagerato sono identiche a quelle dello stato naturale. Allo stesso modo la psicologia dell’umanità dovrà costruirsi soprattutto attraverso lo studio delle follie dell’umanità, dei suoi sogni, delle sue allucinazioni, che si ri­ trovano in ogni pagina della storia dello spirito umano [1923, p. 184].

L. Dugas, nel suo studio su Ribot, ha mostrato chiara­ mente la parentela tra le posizioni metodologiche di Ribot e le idee di Comte e di Renan, suo amico e protettore [1924, pp. 21 e 68]. 1 Sui rapporti tra Comte e Robin si veda Genty [1931] e Klein [1936].

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La fisiologia e la patologia - quelle dello spirito come quelle del corpo - non si oppongono l’una all’altra come due contrari, ma come due parti di un medesimo tutto [...]. Il metodo patologico comporta al tempo stesso l’osservazione pura e la sperimentazione. Si tratta di un potente mezzo di ricerca, fecondo di risultati. La malattia è, in ef­ fetti, una sperimentazione delle più sottili, introdotta dalla natura stessa in circostanze ben determinate e con processi di cui l’arte uma­ na non può disporre: essa raggiunge l’inaccessibile [Ribot 1909].

Non meno larga e profonda è l’influenza di Claude Ber­ nard sui medici del periodo 1870-1914, sia direttamente, at­ traverso la fisiologia, sia indirettamente attraverso la lettera­ tura, come hanno evidenziato gli studi di Lamy [1928] e di Donald e King [1929] sui rapporti tra naturalismo letterario e dottrine biologiche e mediche del xix secolo. Nietzsche stes­ so si rifà a Claude Bernard, e precisamente all’idea che il pa­ tologico sia omogeneo al normale. Citando un lungo passo su salute e malattia, tratto dalle Leçons sur la chaleur animale2, Nietzsche la fa precedere dalla seguente riflessione: «Il valo­ re di tutti gli stati morbosi consiste in questo, che essi mo­ strano sotto una lente d ’ingrandimento determinate condi­ zioni che, sebbene normali, sono difficilmente visibili allo sta­ to normale» {La volontà di potenza, § 533). Queste sommarie indicazioni mi paiono sufficienti a mo­ strare che la tesi di cui si vorrebbe definire il significato e la portata non è inventata per le necessità della nostra causa. La storia delle idee non è necessariamente sovrapponibile al­ la storia delle scienze. Ma, siccome gli scienziati conducono la propria esistenza di uomini entro un ambiente e una co­ munità non esclusivamente scientifici, la storia delle scien­ ze non può ignorare la storia delle idee. Applicando a una te­ si la sua conclusione, si potrebbe affermare che le deforma­ zioni che essa subisce nell’ambiente della cultura possono rivelarne il significato essenziale. Si è scelto di incentrare l’esposizione sui nomi di Comte e Bernard perché questi due autori hanno svolto un ruolo, 2 È il testo citato a pp. 45-46.

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per metà volontario, di portabandiera; di qui la preferenza che è stata loro accordata tra tanti altri, ugualmente citati, che avrebbero potuto risaltare più chiaramente in altre pro­ spettive3. Il fatto poi di aver aggiunto, all’esposizione delle idee di Comte e di Bernard, l’esposizione delle idee di Leriche, ha motivazioni esattamente opposte. Quest’ultimo è un autore discusso, tanto in medicina che in fisiologia, e questo non è il minore dei suoi meriti. Ma è possibile che un’espo­ sizione delle sue concezioni in prospettiva storica scopra in esse delle profondità e una portata insospettate. Senza of­ frire sacrifici al culto dell’autorità, non si può negare a un clinico eminente una competenza in materia patologica ben superiore a quella di Comte o di Bernard. Del resto non è certo irrilevante, per i problemi qui esaminati, il fatto che Leriche occupi attualmente al Collège de France la cattedra di medicina cui diede lustro proprio Bernard. Ciò conferisce alle dissonanze maggior senso e valore.

3 Una scoperta bibliografica dell’ultima ora conferma la nostra scelta. Il dog­ ma patologico che intendiamo discutere viene esposto da Charles Daremberg nel 1864, senza riserve o reticenze, nel «Journal des débats», sotto l’egida di Broussais, Comte, Littré, Robin e Bernard [cfr. Daremberg 1865, p. 305: De la maladie].

Capitolo Secondo Auguste Comte e il «principio di Broussais»

Auguste Comte afferma l'identità reale dei fenomeni pa­ tologici e dei fenomeni fisiologici corrispondenti nei tre prin­ cipali stadi della sua evoluzione intellettuale: nel periodo pre­ paratorio al Cours de philosophie positive, periodo segnato all'inizio dall'amicizia con Saint-Simon, da cui Comte si se­ para nel 18241; nel periodo propriamente detto della filoso­ fia positiva; nel periodo, per certi versi cosi differente dal precedente, del Système de politique positive. Comte attri­ buisce a quello che egli chiama «principio di Broussais» una portata universale nel campo dei fenomeni biologici, psico­ logici e sociologici. A questo principio Comte aderisce - riprendendolo a pro­ prio uso - nel 1828, trattando del saggio di Broussais De Vir­ ritation e de la folie [Comte 1828]. Comte attribuisce a Brous­ sais il merito, che risale in realtà a Bichat, e prima di lui a Pinel, di aver affermato che tutte le malattie riconosciute non sono altro che sintomi, e che non potrebbero esistere distur­ bi delle funzioni vitali in assenza di lesioni di organi o di tes­ suti. Ma soprattutto, aggiunge Comte, «mai si è riconosciu­ to in modo cosi diretto e cosi convincente la fondamentale relazione tra patologia e fisiologia». Broussais, effettivamen­ te, spiega tutte le malattie come consistenti essenzialmente «nell’eccesso o nella mancanza di eccitazione dei diversi tes­ suti al di sopra e al di sotto del grado che costituisce lo stato

1 Sulle letture di Comte in materia biologica e medica nel periodo tra il 1817 e il 1824, nel quale «egli si prepara a diventare non un biologo ma un filosofo del­ la biologia», si veda H. Gouhier [1941, p. 237].

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normale». Le malattie dunque non sono altro che gli effetti di semplici modificazioni di intensità nell’azione degli sti­ molanti indispensabili al mantenimento della salute. Da quel giorno, Comte innalza la concezione nosologica di Broussais al rango di assioma generale, e non è eccessivo affermare che egli attribuisca a tale concezione lo stesso va­ lore dogmatico della legge di Newton o del principio di D ’Alembert. E del resto evidente che, nel momento in cui cerca di ricollegare il suo principio sociologico fondamentale «Il progresso non è se non lo sviluppo dell’ordine» a qualche altro principio più generale, in grado di fondarlo, Comte oscil­ la tra l’autorità di Broussais e quella di D ’Alembert. Ora si riferisce alla riduzione, operata da D ’Alembert, delle leggi sulla comunicazione del movimento alle leggi sull’equilibrio [Comte 1912, vol. I, pp. 490-94], ora all’aforisma di Brous­ sais. La teoria positiva della modificabilità dei fenomeni ... si riassume per intero in questo principio universale, ricavato dall’estensione sistematica del grande aforisma di Broussais: ogni mo­ dificazione, artificiale o naturale, dell’ordine reale riguarda unicamente l’intensità dei fenomeni corrispondenti [...] nonostante le variazioni di grado, i fenomeni conservano sempre la medesima disposizione, men­ tre ogni mutamento di natura propriamente detto, cioè di classe, vie­ ne riconosciuto come contraddittorio [ibid., vol. Ili, p. 71].

Progressivamente, Comte giunge quasi ad attribuire a se stes­ so la paternità intellettuale del principio, in virtù dell’am­ pliamento sistematico che ad esso ha dato, esattamente co­ me all’inizio egli giudicava che Broussais, per aver tratto il principio da Brown e averne fatto un uso personale, potesse attribuirlo a se stesso [ibid., vol. IV, App., p. 223]. Giova a questo punto riportare un brano alquanto lungo, cui un rias­ sunto non renderebbe giustizia: L’attenta osservazione delle malattie crea, nei riguardi degli es­ seri viventi, una serie di esperienze indirette molto più adatte della maggior parte delle esperienze dirette a chiarire le nozioni tanto di­ namiche quanto statiche. Il mio Trattato filosofico ha fatto apprez­ zare in modo adeguato la natura e la portata di tale procedimento, da cui scaturiscono realmente le più importanti acquisizioni biologiche.

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Esso si basa sul grande principio la cui scoperta ebbi ad attribuire a Broussais, giacché può essere evinto dal complesso dei suoi lavori, seb­ bene soltanto io ne abbia elaborato la formulazione generale e diret­ ta. Lo stato patologico era stato fino ad allora riportato a leggi del tut­ to differenti da quelle che regolano lo stato normale: cosicché l’esplo­ razione dell’uno nulla poteva scoprire nel campo dell’altro. Broussais stabili che i fenomeni della malattia coincidono essenzialmente con quelli della salute, dai quali si differenziano soltanto per intensità. Questo luminoso principio è divenuto la base sistematica della pato­ logia, che viene cosi subordinata all’insieme della biologia. Applicato inversamente, spiega e perfeziona l’antico uso dell’analisi patologica per chiarire le speculazioni biologiche [...]. La luce che già si deve a tale principio può dare soltanto una minima idea della propria ulte­ riore efficacia. Il regime enciclopedico lo estenderà soprattutto alle facoltà intellettuali e morali, alle quali il principio di Broussais non è stato ancora degnamente applicato, tant’è che le malattie di quelle fa­ coltà ci meravigliano o ci turbano, ma non ci forniscono spiegazioni [...] in aggiunta alla sua efficacia diretta per le questioni biologiche, il principio costituirà, nel sistema generale dell’educazione positiva, una felice preparazione logica ai processi analoghi verso la scienza finale. Perché l’organismo collettivo, per la sua complessità superiore, com­ porta disturbi ancora più gravi, più complessi e più frequenti di quel­ li dell’organismo individuale. Non ho timore ad affermare che il prin­ cipio di Broussais debba essere esteso anche in questo campo, come io ho spesso fatto per verificare o perfezionare le leggi sociologiche. Ma l’analisi delle rivoluzioni non potrebbe recare chiarimenti allo stu­ dio positivo della società, senza l’introduzione logica ricavata a que­ sto riguardo dai casi più semplici che la biologia presenta [ibid., vol. I, pp. 651-53].

Ci troviamo dunque di fronte a un principio nosologico investito di autorità universale, anche in campo politico. E chiaro, d’altronde, che proprio quest’ultimo progetto di ap­ plicazione conferisce ad esso, retroattivamente, tutto il va­ lore di cui, secondo Comte, esso è già portatore nel campo della biologia.

La lezione X L del Cours de philosophie positive, «Consi­ derazioni filosofiche sulla scienza biologica nel suo comples­ so», contiene la trattazione più completa da parte di Comte

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del problema di cui ci stiamo occupando. In esso si mostra quali difficoltà incontri, di fronte ai caratteri originali del vi­ vente, la mera estensione dei metodi di sperimentazione che hanno dato, nel campo dei fenomeni fisiochimici, la prova della loro fecondità: Qualunque esperimento è invariabilmente finalizzato a scoprire in base a quali leggi ciascuna delle influenze che determinano o mo­ dificano un fenomeno partecipi al suo compimento, e consiste in ge­ nerale nell’introdurre in ciascuna condizione proposta una modifica­ zione ben definita, al fine di constatare direttamente la variazione cor­ rispondente del fenomeno stesso [1908, p. 169].

Ora in biologia la variazione impressa a una o più condi­ zioni di esistenza del fenomeno non può essere casuale, ma deve essere compresa entro determinati limiti di compatibi­ lità con l’esistenza del fenomeno; inoltre, il fatto del consen­ sus proprio dell’organismo impedisce di seguire con sufficiente precisione analitica il rapporto che lega una turba indotta ai suoi supposti effetti esclusivi. Ma, pensa Comte, se davvero si vuole ammettere che l’essenziale nella sperimentazione non sia l’intervento artificiale del ricercatore sul corso di un fe­ nomeno che egli mira intenzionalmente a turbare, ma sia piut­ tosto la comparazione tra un fenomeno campione e un feno­ meno alterato in relazione ad alcune delle sue condizioni di esistenza, ne segue che le malattie devono poter svolgere, agli occhi dello scienziato, il ruolo di esperimenti spontanei in gra­ do di permettere una comparazione tra i differenti stati anor­ mali dell’organismo e il suo stato normale. Secondo il principio eminentemente filosofico che funge ormai da base generale e diretta della patologia positiva, e di cui noi dobbiamo la formulazione definitiva al genio audace e perseverante del nostro illustre concittadino Broussais, lo stato patologico non differisce af­ fatto in modo radicale dallo stato fisiologico, rispetto al quale non può che rappresentare, da un qualunque punto di vista, un semplice pro­ lungamento più o meno esteso dei limiti di variazione, tanto superio­ ri quanto inferiori, propri di ciascun fenomeno dell’organismo nor­ male, prolungamento incapace di produrre fenomeni veramente nuo­ vi, che non corrisponderebbero in nessun modo, a un certo grado, a fenomeni analoghi di carattere puramente fisiologico [ibid., p. 175].

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Pertanto ogni concezione patologica deve basarsi su una conoscenza preliminare del corrispondente stato normale; ma, inversamente, lo studio scientifico dei casi patologici vie­ ne ad essere un momento indispensabile di ogni ricerca di leggi dello stato normale. L'osservazione dei casi patologici presenta, rispetto all'osservazione propriamente sperimen­ tale, diversi vantaggi reali. Il passaggio dal normale all'anor­ male è più lento e naturale quando si tratta di una malattia, e il ritorno allo stato normale, nel momento in cui avviene, fornisce spontaneamente una controprova di verifica. Inol­ tre, nel caso dell'uomo, l'esplorazione patologica è più ricca dell'esplorazione sperimentale, necessariamente limitata. Va­ lido in definitiva per tutti gli organismi, anche per i vegeta­ li, lo studio scientifico dei casi morbosi si adatta perfetta­ mente ai fenomeni vitali più complessi e quindi più delicati e fragili, che una sperimentazione diretta, troppo brusca­ mente turbatrice, rischierebbe di snaturare. Comte pensa qui ai fenomeni della vita di relazione negli animali superiori e nell’uomo, alle funzioni nervose e alle funzioni psichiche. In­ fine lo studio delle anomalie e delle mostruosità, concepite come malattie al tempo stesso più antiche e meno curabili delle turbe funzionali dei diversi apparati vegetativi o neu­ romotori, completa lo studio delle malattie: il «mezzo tera­ tologico» viene ad aggiungersi, nella ricerca biologica, al «mezzo patologico» [ibid., p. 179]. Va innanzitutto notato il carattere particolarmente astrat­ to di tale tesi, l'assenza, nella sua esposizione letterale, di qualunque preciso esempio medico che possa suffragarla. Mancando esempi cui poter riferire queste proposizioni ge­ nerali, si ignora da quale punto di vista Comte si ponga per affermare che il fenomeno patologico ha sempre il suo ana­ logo in un fenomeno fisiologico e che esso non costituisce niente di radicalmente nuovo. In che cosa un’arteria sclero­ tica è analoga a un’arteria normale, in che cosa un cuore asi­ stolico è identico al cuore di un atleta in possesso di tutte le sue facoltà? Bisogna senz’altro intendere che nella malattia

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come nella salute le leggi dei fenomeni vitali sono le stesse. Ma allora perché non dirlo espressamente, e perché non por­ tare esempi ? E ancora, questo comporta che effetti analoghi siano determinati in salute e in malattia da meccanismi ana­ loghi? Riflettiamo su questo esempio, portato da Sigerist: «Durante la digestione, il numero dei globuli bianchi au­ menta. Lo stesso capita alTinsorgere di un’infezione. Di con­ seguenza, questo fenomeno è tanto fisiologico che patologi­ co, a seconda della causa che l’ha provocato» [1932, p. 109]. Si può inoltre notare che, a dispetto del chiarimento re­ ciproco che il normale riceve dal suo accostamento col pato­ logico e il patologico dalla sua assimilazione al normale, Com­ te insiste a più riprese sulla necessità di determinare preli­ minarmente il normale e i suoi effettivi limiti di variazione prima di esplorare metodicamente i casi patologici. Ne deri­ va che, a rigore, una conoscenza dei fenomeni normali, pri­ vata delle lezioni della malattia - specie appartenente al ge­ nere sperimentazione -, unicamente fondata sull’osserva­ zione, è possibile e necessaria. Ma in tutto ciò si riscontra una grave lacuna: Comte non propone alcun criterio che per­ metta di riconoscere che un fenomeno è normale. Ci sono dunque buoni motivi per pensare che, a questo proposito, egli faccia riferimento al concetto usuale corrispondente, da­ to che utilizza indifferentemente le nozioni di stato norma­ le, stato fisiologico e stato naturale [Comte 1908, pp. 175176]. Meglio ancora, dovendo definire i limiti delle turbe pa­ tologiche o sperimentali, compatibili con l’esistenza degli organismi, Comte identifica questi limiti con quelli di una «armonia di influenze distinte tanto esterne quanto inter­ ne» [ibid., p. 169]. Cosi, finalmente chiarito per mezzo del concetto di armonia, il concetto di normale o fisiologico vie­ ne ricondotto a un concetto qualitativo e polivalente, este­ tico e morale più ancora che scientifico. Parimenti, per quanto riguarda l’affermazione di identità tra il fenomeno normale e il fenomeno patologico corri­ spondente, è chiaro che l’intenzione di Comte è di negare la

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differenza qualitativa che i vitalisti pongono tra l’uno e l’al­ tro. A rigor di logica, negare una differenza qualitativa de­ ve condurre ad affermare un’omogeneità esprimibile in ter­ mini quantitativi. E senza dubbio ciò che Comte si propone quando definisce il patologico come «semplice prolunga­ mento, più o meno esteso, dei limiti di variazione, tanto su­ periori quanto inferiori, propri di ciascun fenomeno dell’or­ ganismo normale». Ma, in definitiva, non si può non rico­ noscere che i termini qui utilizzati, soltanto vagamente e blandamente quantitativi, conservano ancora una risonanza qualitativa. Comte mutua questo vocabolario, inadeguato all’intenzione che intende esprimere, da Broussais, ed è ri­ salendo fino a Broussais che possiamo comprendere le in­ certezze e le lacune della trattazione di Comte.

Riassumeremo la teoria di Broussais rifacendoci preva­ lentemente al trattato De Virritation et de la folie [1828], poi­ ché, tra le sue opere, è quella che Comte conosceva meglio. Abbiamo potuto constatare che né il Traité de physiologie ap­ pliquée à la pathologie [1822-23], né il Catéchisme de médeci­ ne physiologique [1824] formulano questa teoria più chiara­ mente o in modo differente2. Broussais individua nell’ecci­ tazione il fatto vitale primordiale. L ’uomo esiste unicamente in virtù dell’eccitazione esercitata sui suoi organi dagli am­ bienti entro i quali è costretto a vivere. Le superfici di con­ tatto, tanto esterne quanto interne, trasmettono l’eccitazio­ ne, mediante la loro innervazione, al cervello che la riflette su tutti i tessuti, ivi comprese le superfici di contatto. Tali superfici sono collocate tra due tipi di eccitazione: i corpi estranei e l’influenza del cervello. La vita si mantiene sotto l’azione continua di queste molteplici sorgenti di eccitazio­ ne. Applicare la dottrina fisiologica alla patologia significa 2 E possibile trovare buone esposizioni d'insieme delle idee di Broussais in Boinet [s.d.], Daremberg [1865], De Blainville [1845, vol. Ili], e Mignet [1854].

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ricercare come «tale eccitazione possa deviare dallo stato nor­ male e costituire uno stato anormale o di malattia» [Brous­ sais 1822-23, p. 263]. Tali deviazioni sono riconducibili al di­ fetto e all’eccesso. L ’irritazione differisce dall’eccitazione dal solo punto di vista della quantità. Essa può essere defi­ nita come l’insieme dei disturbi «che vengono prodotti nell’economia da agenti che rendono i fenomeni vitali più o meno accentuati di quanto essi non siano nello stato norma­ le» [ibid., p. 267]. L ’irritazione è pertanto « l’eccitazione nor­ male, trasformata dal suo eccesso» [ibid., p. 300]. Per esem­ pio l’asfissia, per mancanza di aria ossigenata, priva il pol­ mone del suo eccitante normale. Inversamente, un’aria troppo ossigenata «sovreccita il polmone tanto più intensa­ mente quanto più quest’organo è eccitabile, e l’infiamma­ zione ne è la conseguenza» [ibid., p. 282]. Le due deviazio­ ni, per difetto o per eccesso, non hanno la stessa rilevanza patologica, e la seconda prevale nettamente sulla prima: «Questa seconda fonte di malattie, l’eccesso di eccitazione trasformato in irritazione, è dunque molto più feconda del­ la prima, cioè il difetto di eccitazione, e si può affermare che da essa scaturisca la gran parte dei nostri mali» [ibid., p. 286]. Broussais identifica i termini anormale, patologico e morbo­ so [ibid., pp. 263, 287 e 315] impiegandoli indifferentemen­ te. La distinzione tra il normale o fisiologico e l’anormale o patologico sarebbe dunque una semplice distinzione quanti­ tativa, da limitarsi ai termini di eccesso e difetto. Tale di­ stinzione vale per i fenomeni mentali come per i fenomeni organici, una volta che si mutui da Broussais la teoria fisio­ logica delle facoltà intellettuali [ibid., p. 440]. Si tratta del­ la tesi, sommariamente esposta, la cui fortuna si deve certo pili alla personalità del suo autore che alla coerenza della sua formulazione. E chiaro innanzitutto che Broussais, nella definizione del­ lo stato patologico, confonde la causa e l’effetto. Una causa può variare quantitativamente e in modo continuo, e pro­ vocare tuttavia effetti qualitativamente differenti. Per fare \

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un esempio semplice, un'eccitazione quantitativamente ac­ cresciuta può determinare uno stato piacevole immediata­ mente seguito da dolore, due sensazioni che nessuno vorrà confondere. In una simile teoria vengono costantemente me­ scolati due punti di vista: quello del malato, che prova la ma­ lattia e dalla malattia è provato; e quello dello scienziato, che non trova nella malattia nulla di cui la fisiologia non possa rendere conto. Ma vale per gli stati dell’organismo ciò che vale per la musica: una cacofonia non viola le leggi dell’acu­ stica, ma ciò non significa che qualunque combinazione di suoni sia gradevole. Insomma, una simile concezione può essere sviluppata in due sensi leggermente differenti, secondo che si stabilisca tra il normale e il patologico un rapporto di omogeneità o un rap­ porto di continuità. In particolare, il rapporto di continuità è la posizione di Bégin, discepolo di stretta osservanza: La patologia non è che una branca, un’estensione, un comple­ mento della fisiologia, o, piuttosto, quest’ultima abbraccia lo studio delle azioni vitali in tutti gli stadi dell’esistenza dei corpi viventi. Si passa inavvertitamente dall’una all’altra di queste scienze, esaminan­ do le funzioni dall’istante in cui gli organi agiscono con tutta la rego­ larità e l’uniformità di cui sono suscettibili, all’istante in cui le lesio­ ni sono talmente gravi che tutte le funzioni sono divenute impossibi­ li e tutti i movimenti si sono arrestati. La fisiologia e la patologia si chiariscono reciprocamente [1821, p. xvm].

Va detto tuttavia che la continuità di una transizione tra uno stato e un altro può senz’altro essere compatibile con l’ete­ rogeneità dei due stati. La continuità degli stadi intermedi non esclude la diversità degli estremi. In Broussais stesso il vocabolario talvolta tradisce la difficoltà di attenersi all’af­ fermazione di una reale omogeneità tra i fenomeni normali e patologici; per esempio, «le malattie aumentano, diminui­ scono, interrompono, pervertono l’innervazione dell’encefa­ lo dal punto di vista istintivo, intellettuale, sensitivo e mu­ scolare» [1822-23, p. 114, corsivo nostro], e « l’irritazione sviluppata nei tessuti viventi non li altera sempre in modo da

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generare Tinfiammazione» [ibid.yp. 301, corsivo nostro]. Più ancora che nel caso di Comte, si noterà la vaghezza delle no­ zioni di eccesso e di difetto, il loro implicito carattere quali­ tativo e normativo, a stento dissimulato sotto la loro prete­ sa metrica. E in relazione a una misura giudicata valida e au­ spicabile - e dunque in relazione a una norma - che sussiste eccesso o difetto. Definire l’anormale mediante il troppo o il troppo poco significa riconoscere il carattere normativo dello stato cosiddetto normale. Questo stato normale o fi­ siologico non è più soltanto una disposizione svelabile e spie­ gabile come un fatto, bensì la manifestazione di un riferi­ mento a un qualche valore. Quando Bégin definisce lo stato normale come quello in cui «gli organi agiscono con tutta la regolarità e l’uniformità di cui sono suscettibili», non pos­ siamo esitare a riconoscere che un ideale di perfezione, a dispetto dell’orrore che a Broussais ispirava qualunque on­ tologia, aleggia su questo tentativo di definizione positiva. Si può ora tratteggiare l’obiezione maggiore alla tesi se­ condo cui la patologia è una fisiologia estesa o allargata. L ’ambizione di rendere la patologia, e di conseguenza la te­ rapeutica, interamente scientifiche, facendole procedere semplicemente da una fisiologia preventivamente istituita, avrebbe senso soltanto se fosse possibile innanzitutto forni­ re una definizione puramente oggettiva del normale come di un fatto, e se, inoltre, fosse possibile tradurre ogni differenza tra lo stato normale e lo stato patologico nel linguaggio del­ la quantità, giacché solo la quantità può rendere conto ad un tempo dell’omogeneità e della variazione. Non è nostra in­ tenzione disprezzare la fisiologia o la patologia negando que­ sta doppia possibilità. Ma bisogna in ogni caso constatare che né Broussais né Comte hanno soddisfatto le due esigen­ ze, che paiono inseparabili, con il tentativo al quale hanno legato i loro nomi. Il fatto non deve sorprendere per quanto riguarda Brous­ sais. La riflessione metodica non era il suo forte. Le tesi del­ le medicina fisiologica avevano per lui valore, più che di an-

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ticipazioni speculative da giustificare con pazienti ricerche, di ricette terapeutiche da applicare, a mo’ di salasso, a tutto e a tutti. Nel fenomeno generale dell’eccitazione, trasfor­ mata dal proprio eccesso in irritazione, era l’infiammazione che egli, armato del suo bisturi, aveva di mira in modo par­ ticolare. Quanto alla sua dottrina, la sua incoerenza va at­ tribuita innanzitutto al fatto che essa mescola, senza troppo preoccuparsi delle loro rispettive implicazioni, le dottrine di Xavier Bichat e di John Brown, intorno a cui giova dire qual­ che parola.

Il medico scozzese John Brown (1735-88), dapprima allie­ vo poi rivale di Cullen (1712-80), era stato da questi iniziato alla nozione di irritabilità introdotta da Glisson (1596-1677) e sviluppata da Haller. Quest’ultimo, spirito universale e ge­ niale, autore del primo grande trattato di fisiologia (Elemento pbysiologiae, 1755-66) intendeva per irritabilità la proprietà che hanno certi organi, e specialmente i muscoli, di risponde­ re con una contrazione a uno stimolo qualunque. La contra­ zione non è un fenomeno meccanico analogo all’elasticità; è la risposta specifica del tessuto muscolare alle diverse sollecita­ zioni esterne. Parimenti, la sensibilità è la proprietà specifica del tessuto nervoso [Daremberg 1865, cap. n; De Blainville 1845, vol. II; Sigerist 1932, p. 51; Strohl 1938]. Secondo Brown, la vita si mantiene solo in virtù di una proprietà particolare, l’incitabilità, che permette ai viventi di subire affezioni e di reagire. Le malattie non sono altro che una modificazione quantitativa - sotto forma di stenia o di astenia - di questa proprietà, secondo che l’incitazione sia troppo intensa o troppo debole. Ho mostrato che la salute e la malattia non sono se non un me­ desimo stato, e che dipendono dalla medesima causa ossia dall’inci­ tazione, che varia, nei differenti casi, soltanto per grado. Ho dimo­ strato che le potenze che producono la salute e la malattia, e che agi­ scono talvolta a un corretto grado di energia, altre volte troppo

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intensamente o troppo debolmente, sono esattamente le medesime. Il medico deve curarsi soltanto dell’aberrazione che l’incitazione subi­ sce, per riportarla, con i mezzi adatti, al punto in cui risiede la salute [1805, P- 96, nota].

Senza prender posizione né per i solidisti né per gli umo­ risti, Brown afferma che la malattia non dipende dal vizio originario dei solidi o dei fluidi, ma unicamente dalle varia­ zioni di intensità dell'incitazione. Curare le malattie signifi­ ca correggere l'incitazione nel senso dell'accrescimento o del­ la diminuzione. Daremberg cosi riassume tali posizioni: Brown riprende a proprio uso e adatta al proprio sistema una pro­ posizione che ho già avuto più volte occasione di ricordarvi in queste lezioni, vale a dire che la patologia è una branca della fisiologia o, come ha detto Broussais, della fisiologia patologica. Brown afferma in effet­ ti (§ 65) che è pienamente dimostrato che lo stato di salute e quello di malattia non sono differenti, per il fatto stesso che le potenze che pro­ ducono o distruggono l’uno e l’altro esercitano una medesima azione; egli cerca di dimostrare ciò, per esempio, comparando la contrazione muscolare e lo spasmo o il tetano (§§ 57 sgg.; cfr. 136) [1865, p. 1132].

Ciò che ci sembra particolarmente interessante nella teo­ ria di Brown è senza dubbio il fatto che essa sia, come nota a più riprese Daremberg, un punto di partenza delle conce­ zioni di Broussais; ma è soprattutto il fatto che essa tenda vagamente a risolversi in una misurazione del fenomeno pa­ tologico. Brown ha preteso di valutare numericamente la di­ sposizione variabile degli organi a essere incitati: Sia l’affezione principale (per esempio l’infiammazione dei pol­ moni nella polmonite lobare, l’infiammazione del piede nella gotta, il travaso di sierosità in una cavità generale o particolare nell’idropisia) pari a 6, l’affezione minore di ciascuna parte pari a 3, il numero del­ le parti leggermente affette pari a 1000. L’affezione parziale starà all’affezione del resto del corpo in un rapporto di 6 a 3000. Le cause eccitanti che agiscono sempre su tutto il corpo, e i rimedi che ne di­ struggono gli effetti in tutto l’organismo confermano l’esattezza di un simile calcolo in qualunque malattia generale [1805, p. 29].

La terapeutica è fondata su un calcolo: « Suppongo che la dia­ tesi stenica sia salita a 60 gradi sulla scala di incitazione: si

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deve cercare di sottrarre i 20 gradi di incitazione in eccesso, e impiegare a tale scopo mezzi il cui stimolo sia abbastanza debole» [ibid., p. 50, nota]. Certo, si ha il diritto e il dove­ re di sorridere di fronte a questa caricatura di matematizzazione del fenomeno patologico, ma a condizione di ammet­ tere che la dottrina sviluppa fino in fondo l'esigenza dei suoi postulati, e che la coerenza dei concetti è qui davvero com­ pleta, mentre non lo era nella dottrina di Broussais. E c’è di meglio, perché un allievo di Brown, Lynch, ha costruito nello spirito del sistema una scala dei gradi di inci­ tazione, «autentico termometro della salute e della malat­ tia», come dice Daremberg, sotto forma di una tavola pro­ porzionale aggiunta alle diverse edizioni o traduzioni degli Eléments de médecine. La tavola si compone di due scale da 0 a 80 unite e invertite, di modo che al massimo di incitabi­ lità (80) corrisponda lo 0 di incitazione e viceversa. Ai di­ versi gradi della scala corrispondono, per allontanamento nei due sensi a partire dalla salute perfetta (incitazione = 40, in­ citabilità = 40), le malattie, le loro cause e i loro influssi, le loro cure. Per esempio, nella zona scalare compresa tra 60 e 70 di incitazione, troviamo affezioni della diatesi stenica: polmonite lobare, frenesia, vaiolo acuto, morbillo acuto, eri­ sipela acuta, reumatismo. Questa, al riguardo, l’indicazione terapeutica: Bisogna, per guarire, diminuire l’incitazione. Ciò è possibile al­ lontanando gli stimoli troppo violenti e permettendo, nello stesso tem­ po, l’accesso soltanto ai più deboli o agli stimolanti negativi. I mez­ zi curativi sono il salasso, la purga, la dieta, la serenità interiore, il freddo, ecc.

Una tale esumazione di una nosologia desueta non obbe­ disce, bisogna dirlo, ad alcuna intenzione oziosa, ad alcun desiderio di soddisfare una vana curiosità da erudito. Essa tende unicamente a precisare il senso profondo della tesi di cui ci stiamo occupando. Da un punto di vista logico, è inec­ cepibile che una identificazione di fenomeni la cui diversità

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qualitativa è considerata illusoria assuma la forma di una quantificazione. Qui la forma di identificazione metrica è soltanto caricaturale. Ma non è raro che una caricatura riveli meglio di una copia fedele l'essenza di una forma. E certo che Brown e Lynch giungono di fatto soltanto a una gerar­ chia concettuale dei fenomeni patologici, a un'individuazio­ ne qualitativa di stati compresi tra due termini estremi, la salute e la malattia. Individuare non significa misurare, un grado non è un'unità cardinale. Ma anche l'errore è istrutti­ vo; esso rivela con certezza il significato teorico di un ten­ tativo e, senza dubbio, anche i limiti che il tentativo incon­ tra nell’oggetto stesso al quale esso si applica.

Ammettendo che Broussais abbia potuto apprendere da Brown che affermare l’identità - salvo variazioni quantita­ tive - dei fenomeni normali e patologici significhi, da un pun­ to di vista logico, imporsi la ricerca di un metodo di misura, l’insegnamento ricevuto da Bichat non mancò di controbi­ lanciare questa influenza. Nelle Recherches sur la vie et la mort del 1800 [1822], Bichat contrappone l’oggetto e i metodi del­ la fisiologia all’oggetto e ai metodi della fisica. L ’instabilità e l’irregolarità sono, secondo lui, caratteri essenziali dei fe­ nomeni vitali; di conseguenza, far entrare a forza questi ul­ timi nella rigida cornice delle relazioni metriche significa sna­ turarli [ibid., art. 7, § 1]. E da Bichat che Comte e Bernard traggono la loro diffidenza sistematica verso qualunque ap­ proccio matematico ai fatti biologici e specialmente verso qua­ lunque ricerca di medie, qualunque calcolo statistico. L ’ostilità che Bichat riserva a qualunque intenzione me­ trica in biologia si lega paradossalmente all’affermazione se­ condo cui le malattie si devono spiegare, in base alla scala dei tessuti costituenti dell’organismo, mediante variazioni delle loro proprietà che devono essere definite quantitative. Analizzare con precisione le proprietà dei corpi viventi; mostra­ re che ogni fenomeno fisiologico si rapporta in ultima analisi a queste

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proprietà considerate nel loro stato naturale, che ogni fenomeno pa­ tologico deriva dal loro incremento, dalla loro diminuzione o dalla lo­ ro alterazione; che ogni fenomeno terapeutico ha come principio il lo­ ro ritorno al tipo naturale dal quale esse si erano allontanate; fissare con precisione i casi in cui ciascuna è posta in gioco [...] questa è la dottrina generale di quest’opera [Bichat 1821, I, p. xrx].

Siamo qui alla fonte di quell’ambiguità che già abbiamo rimproverato a Broussais e a Comte. Incremento e diminu­ zione sono concetti di valore quantitativo, mentre altera­ zione è un concetto di valore qualitativo. E chiaro che non possiamo prendercela con dei fisiologi e dei medici per esse­ re caduti nella trappola del Medesimo e delT Altro, della qua­ le tanti filosofi sono rimasti prigionieri da Platone in avan­ ti. Ma è bene sapere riconoscere la trappola, invece di igno­ rarla con tanta leggerezza anche quando se ne rimane prigionieri. L ’intera dottrina di Broussais è presente in em­ brione in questo passo di Bichat: Lo scopo di qualunque mezzo curativo non è se non riportare le proprietà vitali alterate al tipo che è loro naturale. Ogni mezzo che, nell’infiammazione locale, non diminuisca la sensibilità organica in­ crementata; che, negli edemi e nelle infiltrazioni ecc., non incremen­ ti questa proprietà completamente indebolita; che, nelle convulsioni, non riporti a un grado inferiore la contrattilità animale; che non la in­ nalzi a un grado superiore nella paralisi ecc., manca essenzialmente il proprio bersaglio: è un mezzo controindicato [ibid., p. 12].

La sola differenza è che Broussais riportava ogni manifesta­ zione patologica a un fenomeno di accrescimento e di ecces­ so, e per conseguenza ogni intervento terapeutico al salasso. E davvero il caso di dire che l’eccesso è in realtà un difetto !

Forse desterà meraviglia constatare che l’esposizione di una teoria di Comte sia diventata pretesto per un’esposizio­ ne retrospettiva. Perché non è stato seguito direttamente l’ordine storico? Innanzitutto la ricostruzione storica capo­ volge regolarmente il vero ordine d’interesse e di indagine.

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II normale e il patologico (1943)

È nel presente che i problemi sollecitano la riflessione. Se la riflessione conduce a una regressione, la regressione deve ne­ cessariamente essere in relazione ad essa. In tal modo l’origine storica importa in definitiva meno dell’origine riflessi­ va. Certo Bichat, padre dell’istologia, non deve nulla ad Au­ guste Comte. Allo stesso modo non siamo sicuri se sia vero che le resistenze incontrate in Francia dalla teoria cellulare dipendano in larga misura dalla fede positivista di Charles Robin. Ora sappiamo che Comte, rifacendosi a Bichat, non ammetteva che l’analisi potesse andare al di là dei tessuti [Klein 1936]. E fuor di dubbio, in ogni caso, che, anche nell’ambito della cultura medica, le teorie di patologia gene­ rale proprie di Bichat, Brown e Broussais hanno esercitato la loro influenza solo nella misura in cui Comte ha ricono­ sciuto in esse qualcosa di positivo. I medici della seconda metà del xix secolo ignoravano nella maggior parte dei casi Broussais e Brown, ma pochi ignoravano Comte o Littré; al modo stesso in cui oggi la maggior parte dei fisiologi non può ignorare Bernard, ma misconosce Bichat, cui pure Bernard si collega per il tramite di Magendie. Risalire alle origini remote delle idee di Comte, passan­ do per la patologia di Broussais, di Brown e di Bichat, ci per­ mette di comprendere meglio la portata e i limiti di tali idee. Sappiamo che Comte aveva ereditato da Bichat, attraverso il suo insegnante di fisiologia Blainville, una decisa ostilità verso ogni matematizzazione della biologia. A questo pro­ posito, Comte si spiega diffusamente nella lezione X L del Cours de philosophie positive. Tale influenza, per quanto di­ screta, del vitalismo di Bichat sulla concezione positivista dei fenomeni vitali, controbilancia le profonde esigenze logiche dell’affermazione di identità tra i meccanismi fisiologici e i meccanismi patologici, esigenze peraltro sconosciute a Brous­ sais, altro tramite, su un ben preciso punto di dottrina pa­ tologica, tra Comte e Bichat. Occorre inoltre tenere a mente che le intenzioni e le ve­ dute di Comte sono ben differenti da quelle di Bichat, o da­

Auguste Comte e il «principio di Broussais»

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gli ascendenti culturali di quest'ultimo, nel momento in cui egli sviluppa le medesime concezioni in materia di patologia. Da un lato, Comte pretende di codificare i metodi scientifi­ ci, dall'altro pretende di fondare scientificamente una dot­ trina politica. Affermando in via generale che le malattie non alterano i fenomeni vitali, Comte può a buon diritto affer­ mare che la terapeutica delle crisi politiche consiste nel ri­ portare le società alla loro struttura essenziale e permanen­ te, nel tollerare il progresso soltanto entro i limiti della va­ riazione dell’ordine naturale che definisce la statica sociale. Il principio di Broussais resta dunque, nella dottrina positi­ vista, un’idea subordinata a un sistema, e sono i medici, gli psicologi e i letterati di ispirazione e di tradizione positivi­ ste che l’hanno diffusa come concezione indipendente.

Capitolo terzo Claude Bernard e la patologia sperimentale

Se è vero che Claude Bernard non fa mai riferimento a Comte quando tratta del problema dei rapporti tra il nor­ male e il patologico fornendone una soluzione apparente­ mente simile, è altrettanto vero che egli non poteva igno­ rarne le opinioni. Sappiamo che Bernard ha letto Comte at­ tentamente e con la penna alla mano, come testimoniano le annotazioni, risalenti verosimilmente al periodo 1865-66, pubblicate da Jacques Chevalier [Bernard 1938]. Per i me­ dici e i biologi del Secondo Impero, Magendie, Comte e Bernard sono tre dèi - o tre demoni - di un medesimo cul­ to. Littré, analizzando l’opera sperimentale di Magendie, maestro di Bernard, ne smonta i postulati che coincidono con le idee di Comte sulla sperimentazione in biologia e sui rapporti di questa con l’osservazione dei fenomeni patolo­ gici [Lamy 1928, p. 162]. Gley per primo ha mostrato co­ me Bernard abbia ripreso a proprio uso la legge dei tre sta­ ti nel suo articolo sui progressi delle scienze fisiologiche [1865^], e come egli abbia preso parte a pubblicazioni e as­ sociazioni cui Charles Robin trasmetteva l’influsso positi­ vista [Gley 1901, pp. 164-70]. Nel 1864 Robin pubblica, in collaborazione con Brown-Séquard, il «Journal de l’anatomie et de la physiologie normales et pathologiques de l’homme et des animaux», nei cui primi fascicoli appaiono memorie di Bernard, Chevreul, ecc. Bernard è il secondo presidente della Société de Biologie che Robin ha fondato nel 1848 e di cui ha formulato i principi direttivi in uno studio letto ai soci fondatori:

Claude Bernard e la patologia sperimentale

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Ci poniamo come scopo, studiando l’anatomia e le classificazioni degli esseri, di portare alla luce il meccanismo delle funzioni; studian­ do la fisiologia, di arrivare a conoscere il modo in cui gli organi si pos­ sono alterare e i limiti entro i quali le funzioni possono deviare dallo stato normale [ibid., p. 166].

Lamy [1928], dal canto suo, ha mostrato che, nel xix secolo, gli artisti e gli scrittori che hanno cercato nella fisiologia e nel­ la medicina fonti di ispirazione o motivi di riflessione non hanno in pratica fatto differenza tra le idee di Comte e quel­ le di Bernard. Ciò detto, va aggiunto che è compito arduo e alquanto delicato esporre le idee di Bernard sul problema specifico del senso e della natura dei fenomeni patologici. Ci troviamo di fronte a un insigne scienziato, le cui scoperte e i cui metodi a tutt’oggi non hanno ancora esaurito tutta la loro fecondità, cui medici e biologi fanno costante riferimento, e delle cui opere non esiste ancora un’edizione completa e critica. La maggior parte delle lezioni tenute al Collège de France sono state trascritte e pubblicate da allievi. Ma ciò che Bernard ha scritto di suo pugno, la sua corrispondenza, non sono sta­ ti fatti oggetto di alcuna curiosità riverente e metodica. Di lui si pubblicano, qua e là, annotazioni e quaderni di cui su­ bito si impadronisce la critica, a fini cosi esplicitamente ten­ denziosi che viene da chiedersi se le stesse tendenze, del re­ sto molto diverse, non siano all’origine della pubblicazione stessa di tutti i frammenti in questione. Il pensiero di Ber­ nard resta un problema. La sola risposta che si potrà dare sarà la pubblicazione sistematica delle sue carte e la catalo­ gazione d ’archivio dei suoi manoscritti, il giorno in cui ci si deciderà a farlo1.

1 Bernard ha lasciato le sue carte inedite a D ’Arsonval. Cfr. Claude Bernard, Pensées, notes détachées, prefazione di D ’Arsonval, J.-B. Baillière, Paris 1937. Di queste carte uno spoglio è stato fatto dal dottor Delhoume, ma per ora ne sono sta­ ti pubblicati soltanto dei frammenti. Oggi disponiamo di un Catalogue des manuscripts de Claude Bernard, a cura di M.-D. Grmek, Masson, Paris 1967 [nota del 1972].

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Il normale e il patologico (1943)

L'identità - si deve dire nei sintomi, nei meccanismi o in entrambi ? - e la continuità reali dei fenomeni patologici e dei fenomeni fisiologici corrispondenti sono, nell'opera di Bernard, una ripetizione monotona più ancora che un tema. Questa tesi si trova nelle Leçons de physiologie expérimentale appliquée à la médecine [1855-56], segnatamente nella II e nella X X II lezione del volume II, e nelle Leçons sur la cha­ leur animale [1876]. Ma noi preferiamo scegliere come testo base le Leçons sur le diabète et la glycogenèse animale [1877] che, tra tutti i lavori di Bernard, può essere considerato quel­ lo più specificamente consacrato alla trattazione teorica, quello in cui i fatti chimici e sperimentali sono presentati quanto meno in pari misura per la «morale» di ordine me­ todologico e filosofico che se ne deve trarre e per il loro si­ gnificato fisiologico intrinseco. Bernard considera la medicina scienza delle malattie, la fisiologia scienza della vita. Nelle scienze, è la teoria che chia­ risce e determina la pratica. La terapeutica razionale do­ vrebbe essere sorretta da una patologia scientifica, e una pa­ tologia scientifica deve fondarsi sulla scienza fisiologica. Ora il diabete è una malattia che pone problemi la cui risoluzio­ ne fornisce la dimostrazione della tesi appena accennata. Il buon senso indica che, se si conosce a fondo un fenomeno fi­ siologico, bisogna essere in grado di render ragione di tutti i disturbi che esso può presentare allo stato patologico: fisiologia e patologia si confondono, e sono in ultima analisi una sola e medesima cosa [Ber­ nard 1877, p. 56].

Il diabete consiste solo e interamente nel disordine di una funzione normale. Ogni malattia possiede una funzione normale corrispondente, di cui essa non è che un’espressione turbata, esagerata, ridotta o annul­ lata. Se noi oggi non siamo in grado di spiegare tutti i fenomeni del­ le malattie, è perché la fisiologia non ha ancora compiuto sufficienti progressi, e continua a esistere una moltitudine di funzioni normali che ci restano sconosciute [ibid.].

Claude Bernard e la patologia sperimentale

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In tal modo Bernard si oppone a numerosi fisiologi suoi con­ temporanei, secondo i quali la malattia sarebbe un'entità extra-fisiologica che si viene ad aggiungere all'organismo. Lo studio del diabete non permette più di sostenere una simile opinione.

Il diabete è, a tutti gli effetti, caratterizzato da sintomi quali poliuria, polidipsia, polifagia, autofagia e glicosuria. Nessuno di questi sintomi è, propriamente parlando, un fenomeno nuovo, estraneo allo stato normale, nessuno di essi è una produzione spontanea della na­ tura. Al contrario, tutti preesistono, salvo che la loro intensità varia dallo stato normale allo stato di malattia [ibid., pp. 65-66].

Mostrare ciò è facile per quanto riguarda la poliuria, la polidipsia e l'autofagia, meno facile per la glicosuria. Ma Ber­ nard sostiene che la glicosuria sia un fenomeno «larvato e impercettibile» allo stato normale, che solo l'esagerazione rende apparente [ibid., p. 67]. In realtà Bernard non dimo­ stra effettivamente ciò che suppone. Nella VI lezione, dopo aver messo a confronto le opinioni dei fisiologi che asseri­ scono e di quelli che negano la presenza costante di zucche­ ro nell'urina normale, e dopo aver mostrato la difficoltà in­ sita negli esperimenti e nel loro controllo, Bernard aggiunge che, nell'urina normale di un animale nutrito con sostanze azotate e prive di zuccheri e amidi, egli non è mai riuscito a riscontrare la presenza della benché minima quantità di zuc­ chero, ma che le cose vanno molto diversamente nel caso di un animale nutrito di zuccheri e amidi in eccesso. Cosi, egli afferma, è naturale pensare che la glicemia, nel corso delle proprie oscillazioni, possa determinare il passaggio di zuc­ chero nell'urina. Non credo, insomma, che la proposizione «vi è zucchero nell’uri­ na normale» possa essere formulata come verità assoluta. Tuttavia posso affermare con certezza che in una grande quantità di casi ne esi­ stono delle tracce; esiste una sorta di glicosuria transitoria che isti­ tuisce, qui come dappertutto, un passaggio del tutto impercettibile tra lo stato fisiologico e lo stato patologico. Sono d’altronde d’accordo con i clinici nel riconoscere che il fenomeno glicosurico non abbia real­ mente un carattere patologico ben accertato, se non una volta dive­ nuto permanente [ibid., p. 390].

H normale e il patologico (1943)

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E interessante constatare a questo punto che, mentre cer­ ca di produrre un fatto che avvalori la sua interpretazione in un caso in cui egli la sente particolarmente debole, Bernard si trova costretto ad ammettere il fatto senza prove speri­ mentali - su base teorica -, supponendone la realtà situata oltre i limiti di sensibilità di tutti i metodi d’indagine allora in uso. Oggi, su questo punto specifico, H. Frédéricq am­ mette che, pur esistendo una glicosuria normale, in certi ca­ si di ingestione massiccia di liquidi e di diuresi abbondante, il glucosio non viene riassorbito dal rene a livello del tubulo contorto e viene a essere, per cosi dire, rimosso mediante la­ vaggio [1942, p. 353]. Questo spiega come alcuni autori, ad esempio Nolf, possano ammettere una glicosuria normale in­ finitesimale [1942, p. 251]. Se non si dà normalmente una glicosuria, di quale fenomeno fisiologico è esagerazione quan­ titativa la glicosuria diabetica? In breve, è noto che il genio di Bernard è consistito nel mostrare che lo zucchero nell’organismo animale è un pro­ dotto dell’organismo stesso e non soltanto un prodotto as­ sunto dal regno vegetale per il tramite dell’alimentazione, che il sangue contiene normalmente glucosio e che lo zucchero urinario è un prodotto generalmente eliminato dal rene non appena il tasso della glicemia raggiunge una determinata so­ glia. In altre parole, la glicemia è un fenomeno costante, in­ dipendente dall’apporto alimentare, tanto che è l’assenza di glucosio sanguigno a essere anormale; la glicosuria è la con­ seguenza di una glicemia cresciuta oltre una certa quantità avente valore di soglia. La glicemia non è, nel diabetico, un fenomeno patologico per se stessa, ma per la sua quantità; in sé, la glicemia è «un fenomeno normale e costante dell’orga­ nismo allo stato di salute» [Bernard 1877, p. 181]. La glicemia è una sola; essa è costante e permanente, sia nel dia­ bete, sia al di fuori di tale stato morboso. Soltanto, essa ha dei gradi. La glicemia al di sotto del 3-4 per mille non porta la glicosuria; al di sopra di questa percentuale, il disturbo si produce [...]. Il passaggio dallo stato normale allo stato patologico è impossibile a cogliersi, e

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nessun problema più del diabete è adatto a mostrare l’intima fusione tra fisiologia e patologia |ibid., p. 132].

L ’energia che Bernard spende per esporre la propria tesi non appare superflua, qualora tale tesi venga collocata in pro­ spettiva storica. Nel 1866 Jaccoud, professore associato alla Facoltà di Medicina di Parigi, trattava del diabete in una le­ zione clinica sostenendo che la glicemia fosse un fenomeno incostante e patologico, e che la produzione di zucchero nel fegato fosse, come risulta dai lavori di Pavy, un fenomeno patologico. Non si può attribuire lo stato diabetico all’esagerazione di un’ope­ razione fisiologica che non esiste [...]. È impossibile considerare il dia­ bete come esagerazione di un’operazione regolare: esso è l’espressione di un’operazione a tutti gli effetti estranea alla vita normale. Tale ope­ razione è, in se stessa, l’essenza della malattia [Jaccoud 1867, P- 826].

Più tardi lo stesso Jaccoud, diventato professore di patolo­ gia interna, manteneva, nel suo Traité de pathologie interne, tutte le sue obiezioni alla teoria di Bernard, che pure era più solidamente fondata che nel 1866: «la trasformazione del gli­ cogeno in zucchero è un fenomeno o patologico o cadaveri­ co» [1883, p. 945]. Se si vuole comprendere appieno il senso e la portata dell’affermazione di continuità tra i fenomeni normali e i fe­ nomeni patologici, è necessario tenere a mente che il termi­ ne di riferimento delle dimostrazioni critiche di Bernard è la tesi che ammette una differenza qualitativa, nei meccanismi e nei prodotti delle funzioni vitali, tra lo stato patologico e lo stato normale. Un contrasto di tesi, questo, che appare forse più chiaramente nelle Leçons sur la chaleur animale: La salute e la malattia non sono due modelli differenti per essen­ za, come hanno creduto gli scienziati dell’antichità e come crede an­ cora qualche medico. Non bisogna farne due principi distinti, due en­ tità che si disputano l’organismo vivente rendendolo teatro delle lo­ ro lotte. Questo è antiquariato medico. In realtà, tra questi due mo­ di d’essere non vi sono che differenze di grado: sono l’esagerazione, la sproporzione, la disarmonia dei fenomeni naturali a costituire lo

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stato morboso. Non si dà un caso in cui la malattia abbia fatto com­ parire condizioni nuove, un cambio completo di scena, prodotti nuo­ vi e speciali [1876, p. 391].

A sostegno di ciò, Bernard porta un esempio che egli cre­ de particolarmente appropriato a mostrare l’inconsistenza dell’opinione da lui combattuta. Due fisiologi italiani, Lussana e Ambrossoli, che avevano ripetuto i suoi esperimenti sulla sezione del simpatico e sui suoi effetti, negavano il ca­ rattere fisiologico del calore generato dalla vasodilatazione negli organi interessati. Calore che, secondo loro, era mor­ boso, differente sotto tutti i punti di vista dal calore fisiolo­ gico, dal momento che quest’ultimo si origina dalla combu­ stione degli alimenti, mentre l’altro proviene dalla combu­ stione dei tessuti. Come se non accadesse di regola, replica Bernard, che l’alimento venga bruciato a livello dei tessuti, di cui è divenuto parte integrante. Pensando di aver facil­ mente confutato gli autori italiani, Bernard aggiunge: In realtà le manifestazioni fisiochimiche non cambiano di natura a seconda che esse abbiano luogo all’interno o all’esterno dell’organismo e, ancora, a seconda dello stato di salute o di malattia. C’è una sola spe­ cie di agente calorifico: sia generato in un camino o in un organismo, esso non è per ciò meno identico a se stesso. Non possono esistere un calore fisico e un calore animale, e tanto meno un calore patologico e un calore fisiologico. Il calore anormale patologico e quello fisiologico differiscono soltanto per grado, non per natura [ibid., p. 394].

Di qui la conclusione: Simili idee di lotta tra due agenti opposti, di antagonismo tra vi­ ta e morte, salute e malattia, natura inerte e natura animata hanno fatto il loro tempo. Bisogna riconoscere dappertutto la continuità dei fenomeni, la loro gradazione impercettibile e la loro armonia [ibid\

I due passi appena citati ci paiono particolarmente illu­ minanti in quanto rivelano una relazione di idee che nelle Leçons sur le diabète non appare. L ’idea della continuità tra normale e patologico è a sua volta in relazione con l’idea del­ la continuità tra vita e morte, tra natura organica e materia

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inerte. Non si può negare a Bernard il merito di aver riget­ tato opposizioni fino ad allora ammesse tra minerale e orga­ nico, tra vegetale e animale, e di aver affermato la validità universale del postulato determinista e Pidentità materiale di tutti i fenomeni fisiochimici, quali che ne siano la sede e l'andamento. Egli non è il primo ad aver affermato l'iden­ tità tra le produzioni della chimica di laboratorio e quelle del­ la chimica vivente - l'idea si era formata dopo che Wöhler aveva realizzato la sintesi dell'urea nel 1828 - ha semplicemente «rinforzato l'impulso fisiologico trasmesso alla chi­ mica organica dai lavori di Dumas e Liebig» [Pasteur 1866]. Ma egli è il primo che abbia affermato l'identità fisiologica tra le funzioni del vegetale e le funzioni corrispondenti del­ l'animale. Prima di lui si riteneva che la respirazione dei ve­ getali fosse l'inverso di quella degli animali, cioè che i vege­ tali fissassero il carbonio e gli animali lo bruciassero, che i vegetali operassero riduzioni e gli animali combustioni, che i vegetali producessero sintesi e gli animali, incapaci di pro­ durne di simili, le distruggessero utilizzandole. Tutte queste opposizioni furono negate da Bernard, e la scoperta della funzione glicogenica del fegato è uno dei mi­ gliori risultati conseguiti dalla volontà di «riconoscere dap­ pertutto la continuità dei fenomeni». Non ci domanderemo ora se Bernard abbia un'idea cor­ retta di che cosa sia un’opposizione o un contrasto, e se egli abbia buon fondamento a considerare la coppia di nozioni salute-malattia simmetrica alla coppia vita-morte e a conclu­ derne, ridotti all’identità i termini del secondo contrasto, di essere autorizzato a ricercare l’identità tra i termini del pri­ mo. Ci domanderemo che cosa intenda Bernard quando af­ ferma l’unità di vita e morte. Un problema sovente posto a fini di polemica laica o religiosa è stato quello di sapere se Bernard fosse o meno materialista o vitalista2. Sembra che

2 Si veda il Claude Bernard di Pierre Mauriac [1940], e Claude Bernard et le matérialisme di Pierre Lamy [1928].

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una lettura approfondita delle Leçons sur les phénomènes de la vie [1878-79] suggerisca una risposta sfumata. Bernard non ammette che venga fatta distinzione, dal punto di vista fisiochimico, tra fenomeni del regno organico e fenomeni del regno minerale: «Il chimismo di laboratorio e il chimismo della vita obbediscono alle medesime leggi: non esistono due chimiche» [ibid., vol. I, p. 224]. Il che conferma che l’anali­ si scientifica e la tecnica sperimentale possono riconoscere e riprodurre i prodotti delle sintesi vitali allo stesso titolo del­ le specie minerali. Ma significa soltanto affermare l’omoge­ neità tra materia nella forma vivente e materia fuori di tale forma, giacché, rifiutando il materialismo meccanicistico, Bernard sostiene l’originalità della forma vivente e delle sue attività funzionali: Benché le manifestazioni vitali restino collocate sotto la diretta influenza delle condizioni fisiochimiche, tali condizioni non sarebbe­ ro sufficienti a raggruppare e armonizzare i fenomeni nell’ordine e nella successione che essi assumono, specialmente negli esseri viven­ ti [ibid.yvol. II, p. 218].

E più nettamente ancora: Noi crediamo con Lavoisier che gli esseri viventi siano tributari delle leggi generali della natura e che le loro manifestazioni siano fe­ nomeni fisici e chimici [...] ma lungi dal ravvisare, come fanno i fisi­ ci e i chimici, il modello delle azioni vitali nei fenomeni del mondo inanimato, noi affermiamo al contrario che l’espressione è particola­ re, il meccanismo è speciale e l’agente è specifico, quantunque il ri­ sultato sia identico. Nessun fenomeno chimico si verifica nel corpo al­ lo stesso modo che fuori di esso [tbid].

Queste parole potrebbero fare da motto all’opera di Jac­ Analyse physico-chimique des fonctions vi­ ques Duclaux tales. Secondo Duclaux, la cui distanza da ogni forma di spi­ ritualismo appare chiara in quest’opera, nessuna reazione chi­ mica intracellulare può essere rappresentata da una formula di equazione ottenuta mediante la sperimentazione in vitro: «Non appena un corpo è divenuto rappresentabile dai nostri simboli, la materia vivente lo considera un nemico e lo eli­

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mina o lo neutralizza [...]. L'uomo ha creato una chimica che si è sviluppata a partire da quella naturale senza confonder­ si con essa» [1934]. Ad ogni modo, appare chiaro che riconoscere la conti­ nuità dei fenomeni non significa, per Bernard, misconoscer­ ne l'originalità. Non si potrebbe, allora, in simmetria con ciò che egli sostiene a proposito dei rapporti tra la materia iner­ te e la materia vivente, affermare: la fisiologia è una sola, ma, lungi dal ravvisare il modello dei fenomeni patologici nei fenomeni fisiologici, bisogna considerare particolare la loro espressione e speciale il meccanismo, quantunque il risulta­ to sia identico: nessun fenomeno si verifica nell'organismo malato allo stesso modo che in quello sano ? Perché affermare senza restrizioni l'identità di malattia e salute, e non fare al­ trettanto a proposito di vita e morte, sul cui rapporto si pre­ tende modellato il rapporto di malattia e salute ?

A differenza di Broussais e Comte, Bernard reca, a so­ stegno del proprio principio generale di patologia, argomen­ ti controllabili, protocolli di esperienze e soprattutto meto­ di per la quantificazione dei concetti fisiologici. Glicogenesi, glicemia, glicosuria, combustione degli alimenti, calore da vasodilatazione non sono più concetti qualitativi, bensì sin­ tesi di risultati ottenuti in seguito a misurazioni. D'ora in avanti, quando si afferma che la malattia è l'espressione esa­ gerata o ridotta di una funzione normale, si sa esattamente ciò che si intende. O almeno ci si è dati i mezzi per saperlo, giacché, malgrado questo procedere ineccepibile nella sua precisione logica, il pensiero di Bernard non è esente da am­ biguità. Va innanzitutto notata, in Bernard come in Bichat, Broussais e Comte, una compresenza di concetti qualitativi e quantitativi nella definizione data dei fenomeni patologi­ ci. Come lo stato patologico è «il disordine di un meccani­ smo normale, consistente in una variazione quantitativa, un'esagerazione o un'attenuazione dei fenomeni normali»

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[Bernard 1877, p. 360], cosi lo stato morboso è costituito da «l'esagerazione, la sproporzione, la disarmonia dei fenome­ ni normali» [Bernard 1876, p. 391]. Chi non vede qui che il termine «esagerazione» ha un senso nettamente quantitati­ vo nella prima definizione, e un senso piuttosto qualitativo nella seconda ? Forse Bernard crede di annullare il valore qua­ litativo del termine «patologico» sostituendo a esso i termi­ ni «dis-ordine», «^-proporzione», «^-arm on ia»? Tale ambiguità è senza dubbio istruttiva: essa è rivela­ trice della persistenza del problema stesso in seno alla solu­ zione che si crede di averne fornito. E il problema è il se­ guente: il concetto di malattia è il concetto di una realtà og­ gettiva accessibile alla conoscenza scientifica quantitativa ? La differenza di valore che il vivente istituisce tra la propria vita normale e la propria vita patologica è un'apparenza il­ lusoria che lo scienziato è legittimato a negare ? Se questo annullamento di un contrasto qualitativo è teoricamente pos­ sibile, è chiaro che esso è legittimo; se non è possibile, la que­ stione della sua legittimità è superflua. Si è potuto rilevare che Bernard fa indifferentemente uso di due espressioni, variazioni quantitative e differenze di gra­ do , cioè di fatto di due concetti, omogeneità e continuità', del primo implicitamente, del secondo espressamente. Ora l'uti­ lizzazione dell'uno o dell'altro di questi concetti non impli­ ca le medesime esigenze logiche. Se affermo l'omogeneità di due oggetti, sono tenuto a definire almeno la natura di uno dei due, oppure una qualche natura comune all'uno e all'al­ tro. Ma se affermo una continuità, posso soltanto inserire tra due estremi, senza ridurli l'uno all’altro, tutti i termini medi di cui dispongo, mediante una dicotomia a intervalli progressivamente ridotti. Tant’è vero che alcuni autori as­ sumono la continuità tra la salute e la malattia a pretesto per rifiutare di definire l’una o l’altra3. Non esiste, dicono, uno 3 È il caso per esempio di H. Roger nell’Introduction à la médecine. Lo stesso vale per Claude e Camus nella loro Pathologie générale.

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stato di completa normalità, né una salute perfetta. Ciò può voler dire che esistono soltanto malati. Molière e Jules Ro­ mains hanno mostrato in chiave comica a quale genere di iatrocrazia possa condurre una tale affermazione. Ma certo po­ trebbe anche significare che non esistono malati, il che non è meno assurdo. Ci domandiamo se, neiraffermare seria­ mente che la salute perfetta non esiste e che, di conseguen­ za, la malattia è impossibile a definirsi, qualche medico non abbia avuto il sospetto di riesumare puramente e semplicemente il problema dell’esistenza del perfetto e l’argomento ontologico. A lungo si è indagato se fosse possibile provare l’esisten­ za dell’essere perfetto a partire dalla sua perfezione, dal mo­ mento che, se possiede tutte le perfezioni, egli dovrebbe ave­ re anche quella di darsi l’esistenza. Il problema dell’esisten­ za effettiva di una salute perfetta è analogo. Come se la sa­ lute perfetta non fosse un concetto normativo, un modello ideale. A rigore, una norma non esiste: essa svolge il proprio ruolo, che è quello di svalutare l’esistenza al fine di permet­ terne la correzione. Dire che la salute perfetta non esiste equivale soltanto a dire che il concetto di salute non è quel­ lo di un’esistenza, bensì di una norma, la cui funzione e il cui valore consistono nell’essere messa in rapporto con l’esi­ stenza per suscitarne la modificazione. Ciò non significa che la salute sia un concetto vuoto. Ma Bernard è ben lontano da un relativismo cosi facile, innanzitutto perché l’affermazione di continuità sottinten­ de sempre, nel suo pensiero, quella di omogeneità, e in se­ condo luogo perché egli ritiene di potere sempre fornire un contenuto sperimentale al concetto di normale. Ad esempio, ciò che egli chiama urina normale di un animale è l’urina dell’animale a digiuno, sempre comparabile a se stessa - giac­ ché l’animale si nutre in modo sempre identico delle proprie riserve - e tale da servire come termine di riferimento co­ stante per qualunque urina ottenuta nelle condizioni di ali­ mentazione che si vorrà stabilire [1859, vol. II, p. 13]. Ci

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occuperemo pili avanti delle relazioni tra il normale e lo spe­ rimentale. Per il momento, vogliamo soltanto esaminare da quale punto di vista Bernard si collochi quando concepisce il fenomeno patologico come variazione quantitativa del fe­ nomeno normale. Fermo restando naturalmente che se fac­ ciamo uso, nel corso dell’esame, di dati fisiologici o clinici recenti, non è per rimproverare a Bernard di aver ignorato ciò che non poteva sapere.

Se si considera la glicosuria come il sintomo primario del diabete, la presenza di zucchero nelPurina diabetica la ren­ de qualitativamente differente dall’urina normale. Lo stato patologico identificato dal suo sintomo principale è, in rela­ zione allo stato fisiologico, una qualità nuova. Ma se, consi­ derando l’urina come un prodotto della secrezione renale, la riflessione del medico si volge al rene e ai rapporti tra il fil­ tro renale e la composizione del sangue, essa considera la gli­ cosuria come l’eccesso di glicemia che si scarica oltrepassan­ do una soglia. Il glucosio che supera la soglia è qualitativa­ mente uguale al glucosio normalmente trattenuto entro la so­ glia. La sola differenza, in effetti, è di quantità. Se dunque si considera il meccanismo renale della secrezione urinaria nei suoi risultati - effetti fisiologici o sintomi morbosi - la malattia è la comparsa di una qualità nuova; se si considera il meccanismo in se stesso, la malattia è soltanto variazione quantitativa. Come esempio di meccanismo chimico norma­ le in grado di generare un sintomo anormale, si può altresì citare Palcaptonuria. Questa rara affezione, scoperta nel 1857 da Bödecker, consiste essenzialmente in un disturbo del metabolismo di un aminoacido, la tirosina. L ’alcaptone, o acido omogentisinico, è un prodotto normale del metabo­ lismo intermedio della tirosina, ma i malati alcaptonurici si distinguono per l’incapacità in cui si trovano di oltrepassare questo stadio e di bruciare l’acido omogentisinico [Gallais 1936, 10.534]. L ’acido omogentisinico passa allora nell’uri­

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na e si trasforma in presenza di alcali, dando origine per os­ sidazione a un pigmento nero che colora Purina, conferendo cosi a essa una qualità nuova che non è in nessun modo Pesagerazione di una qualche qualità presente nell’urina norma­ le. Del resto, si può provocare sperimentalmente Palcaptonuria tramite assunzione massiccia (50 g in 24 ore) di tirosina. Siamo dunque in presenza di un fenomeno patologico che si definirà in termini di qualità o di quantità a seconda del punto di vista nel quale ci si colloca, a seconda che si con­ sideri il fenomeno vitale nella sua espressione o nel suo mec­ canismo. Ma è possibile una scelta del punto di vista? Non è evi­ dente che, se si vuole elaborare una patologia scientifica, si devono considerare le cause reali e non gli effetti apparenti, i meccanismi funzionali e non le loro espressioni sintomati­ che? Non è evidente che Bernard, ponendo la glicosuria in rapporto con la glicemia e la glicemia con la glicogenesi epa­ tica, prende in considerazione meccanismi la cui spiegazio­ ne scientifica si fonda su un complesso di relazioni quanti­ tative, ad esempio leggi fisiche degli equilibri di membrana, leggi di concentrazione delle soluzioni, reazioni di chimica organica, ecc. ? Tutto ciò sarebbe incontestabile se fosse possibile consi­ derare le funzioni fisiologiche come meccanismi, le soglie co­ me sbarramenti, le regolazioni come valvole di sicurezza, ser­ vofreni o termostati. Non si finisce in tal modo per ricadere in tutte le insidie e gli scogli delle concezioni iatro-meccanicistiche? Per rifarsi all’esempio particolare del diabete, si è abbastanza lontani, oggi, dal considerare che la glicosuria sia solo funzione della glicemia, e che il rene opponga una soglia costante (dell’ 1,70 per mille e non del 3 per mille come pen­ sava inizialmente Bernard) soltanto alla filtrazione del glu­ cosio. Secondo Chabanier e Lobo-Onell, «la soglia renale è essenzialmente mobile, e il suo comportamento variabile, a se­ conda dei pazienti» [1931, p. 16]. In alcuni casi si può con­ statare una glicosuria, persino elevata quanto quella dei dia­

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betici veri, in soggetti privi di iperglicemia. In questo caso si parla di glicosuria renale. D'altro canto, la glicosuria può essere praticamente nulla in soggetti la cui glicemia può rag­ giungere 3 g e più. In questo caso si parla di iperglicemia pu­ ra. Inoltre, due diabetici posti nelle medesime condizioni di osservazione e che presentano, al mattino a digiuno, una stes­ sa glicemia di 2,50 g, possono presentare una glicosuria va­ riabile, uno eliminando 20 g, l'altro 200 g di glucosio attra­ verso le urine [ibid., p. 18]. Allo schema classico, che legava la glicosuria al disturbo basale per il solo tramite dell'iperglicemia, siamo dunque con­ dotti ad apportare una modifica, che consiste nell'introdurre, tra iperglicemia e glicosuria, una nuova articolazione: «il comportamento renale» [ibid., p. 19]. Parlando di mobilità della soglia, di comportamento renale, si introduce già nella spiegazione del meccanismo della secrezione urinaria una no­ zione non interamente traducibile in termini analitici e quan­ titativi. Tanto varrebbe dire che diventare diabetici signifi­ ca cambiare reni, proposizione che non sembrerà assurda a coloro che identificano una funzione e la sua sede anatomi­ ca. A quanto pare, si è dunque autorizzati a concludere che sostituendo, nella comparazione tra lo stato fisiologico e lo stato patologico, i meccanismi e i sintomi, non si elimina tut­ tavia una differenza di qualità tra questi stati. Tale conclusione si impone a maggior ragione nel mo­ mento in cui, cessando di suddividere la malattia in una mol­ teplicità di meccanismi funzionali deviati, la si considera co­ me un accadimento che interessa l'organismo vivente nel suo complesso. Ora questo è eminentemente il caso del diabete. Oggi si ammette che esso sia «una diminuzione del potere di utilizzazione del glucosio in funzione della glicemia» [ibid., p. 12]. La scoperta nel 1889, da parte di Mering e di Min­ kowski, del diabete pancreatico sperimentale, la scoperta da parte di Laguesse del pancreas endocrino, l'isolamento nel 1920, da parte di Banting e Best, dell'insulina secreta dalle isole di Langerhans hanno permesso di affermare che il di­

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sturbo fondamentale nel diabete è una ipoinsulinemia. Bi­ sogna allora dire che tali ricerche, insospettate da Bernard, confermerebbero finalmente i suoi principi di patologia ge­ nerale? Sicuramente no, giacché Houssay e Biasotti hanno mostrato nel 1930-31, mediante l'asportazione combinata del pancreas e dell'ipofisi nel rospo e nel cane, il ruolo anta­ gonista dell'ipofisi e del pancreas nel metabolismo dei glucidi. In seguito all’ablazione totale del pancreas, un cane sano non sopravvive più di quattro-cinque settimane. Ma se si combina l’ipofisectomia alla pancreatectomia, il diabete mi­ gliora considerevolmente: la glicosuria viene ridotta di mol­ to e addirittura soppressa a digiuno, la poliuria viene sop­ pressa, la glicemia si avvicina ai valori normali, il dimagri­ mento risulta notevolmente rallentato. Ci si è creduti dun­ que autorizzati a concludere che l’azione dell’insulina nel me­ tabolismo dei glucidi non sia diretta, dal momento che sen­ za somministrazione di insulina il diabete può essere attenuato. Nel 1937 Young constatava che, mediante l’inie­ zione di un estratto di lobo anteriore di ipofisi ripetuta quo­ tidianamente per circa tre settimane, si poteva in molti casi rendere definitivamente diabetico un cane normale. L. Hédon e A. Loubatières, che hanno ripreso in Francia lo studio del diabete sperimentale di Young, concludono: Una iperattività temporanea del lobo anteriore dell’ipofisi può es­ sere all’origine, non soltanto di un disturbo transitorio della glicoregolazione, ma anche di un diabete permanente, che persiste a tempo indeterminato dopo la scomparsa della causa che lo ha scatenato [1942, p. 105].

Si viene dunque rimandati da una diminuzione a un aumen­ to, e la perspicacia di Bernard viene interamente in luce nel momento in cui la si credeva difettosa ? Non pare, perché, tut­ to sommato, questa ipersecrezione ipofisaria non è altro che un sintomo, al livello della ghiandola, o di un tumore dell’ipo­ fisi, o di un’alterazione endocrina generale (pubertà, meno­ pausa, gravidanza). In materia di secrezioni interne come in

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materia di sistema nervoso, le localizzazioni sono «privilegia­ te» piuttosto che assolute, e ciò che sembra aumento o dimi­ nuzione parziale è in realtà un’alterazione complessiva. Nulla è più illusorio che considerare il metabolismo dei glucidi as­ sicurato dal solo pancreas e dalla sua secrezione. Il metabolismo dei glucidi dipende da molteplici fattori: a) le ghiandole vascolari sangui­ gne; b) il fegato; c) il sistema nervoso; d) le vitamine; e) gli elementi minerali; ecc. Ora uno qualunque di questi fattori può entrare in gio­ co per provocare il diabete [Rathery 1940, p. 22].

Se si considera il diabete come una malattia della nutrizio­ ne, e la costante glicemica come un tono indispensabile all’esistenza dell’organismo inteso come un tutto (Soula)4 si è ben lontani dal poter trarre dallo studio del diabete le con­ clusioni in materia di patologia generale che Bernard ne trae­ va nel 1877. Del resto, non si rimprovera tanto a queste conclusioni di essere erronee, quanto di essere insufficienti e parziali. Esse procedono dall’estrapolazione illegittima di un caso for­ se privilegiato, e più ancora da un errore nella definizione del punto di vista adottato. E esatto che certi sintomi siano il prodotto, quantitativamente variato, di meccanismi co­ stanti allo stato fisiologico. Tale sarebbe, ad esempio, il ca­ so della ipercloridria nello stomaco ulceroso. E possibile che alcuni meccanismi siano i medesimi allo stato di salute e al­ lo stato di malattia. Nel caso dell’ulcera gastrica, il riflesso che determina la secrezione del succo gastrico sembra effet­ tivamente partire sempre dall’antro pilorico, se è vero che sono le ulcere stenosanti, nei pressi del piloro, ad accompa­ gnarsi all’ipersecrezione più considerevole, e che l’ablazione di questa regione nella gastrectomia è seguita da una ridu­ zione della secrezione. Ma innanzitutto, per quanto riguarda il caso particolare dell’ulcera, va detto che l’essenziale della malattia non con­ 4 Corso di fisiologia su La constance du milieu intérieur, Facoltà di Medicina di Tolosa, 1938-39.

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siste nell’ipercloridria, bensì che in questo caso lo stomaco si digerisce da sé; uno stato, questo, che si ammetterà diffe­ rire profondamente dallo stato normale. Sia detto per inci­ so, questo esempio sarebbe forse adatto a far comprendere che cosa sia una funzione normale. Una funzione può essere detta normale fintantoché essa rimane indipendente dagli ef­ fetti che produce. Lo stomaco è normale fintantoché digeri­ sce senza digerirsi. Vale per le funzioni ciò che vale per le bi­ lance: prima la precisione, poi la sensibilità. In secondo luogo, va detto che tutti i casi patologici so­ no ben lontani dal poter essere ridotti allo schema esplicati­ vo proposto da Bernard. Soprattutto, a quello che egli invo­ ca nelle Leçons sur la chaleur animale. Non v ’è dubbio che non esistano un calore normale e un calore patologico, nel senso che Puno e l’altro si traducono in effetti fisici identi­ ci: ad esempio, la dilatazione di una colonnina di mercurio nel corso di una misurazione di temperatura rettale o ascel­ lare. Ma l’identità del calore non implica l’identità della sor­ gente di calore, e neppure l’identità del meccanismo di libe­ razione delle calorie. Bernard replicava ai suoi oppositori ita­ liani che, all’origine del calore animale, vi è sempre l’alimento bruciato a livello dei tessuti. Ma uno stesso alimento può es­ sere bruciato in diversi modi, la sua degradazione arrestarsi a stadi differenti. Postulare, giustamente, l’identità a se stes­ se delle leggi della chimica e della fisica non obbliga a igno­ rare la specificità dei fenomeni che le manifestano. Quando una donna affetta dal morbo di Basedow respira nella cinta chiusa, la cui variazione di volume, nel corso di una misura­ zione del metabolismo basale, indicherà il tasso di consumo di ossigeno, è ben sempre in conformità delle leggi chimiche dell’ossidazione che l’ossigeno viene bruciato (5 calorie per un litro di 0 2), ed è precisamente ponendo come costanti queste leggi nel caso in esame che si potrà calcolare la varia­ zione del metabolismo e qualificarla come anormale. E in questo preciso senso che vi è identità tra il fisiologico e il pa­ tologico, ma certo si potrebbe anche affermare che vi è iden­

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tità tra il chimico e il patologico. Si converrà che si tratta di un modo di dissolvere il patologico, e non di chiarirlo. Non accade lo stesso nel caso in cui lo si dichiari omogeneo al fi­ siologico ? Riassumendo, la teoria di Bernard è valida in determina­ ti casi limitati: 1) quando si limita il fenomeno patologico a qualche sin­ tomo, astraendo dal suo contesto chimico (ipercloridria; ipertermia o ipotermia; ipereccitabilità riflessa); 2) quando si risale da effetti sintomatici a meccanismi funzionali parziali (glicosuria per iperglicemia; alcaptonuria per metabolismo incompleto della tirosina). Anche limitata a questi casi particolari, la teoria si scon­ tra con numerose difficoltà. Chi potrebbe ritenere Pipertensione un semplice aumento della pressione arteriosa fi­ siologica, trascurando P alterazione profonda della struttura e delle funzioni degli organi essenziali (cuore e vasi, reni, pol­ moni), alterazione tale da costituire per Porganismo un nuo­ vo modo di vivere, un nuovo comportamento che una tera­ peutica avveduta deve rispettare, evitando di agire frettolo­ samente sulla tensione per riportarla alla norma? Chi po­ trebbe ritenere Pipersensibilità a determinate sostanze tos­ siche una semplice modificazione quantitativa della reatti­ vità normale, senza domandarsi innanzitutto se non si tratti soltanto di apparenza (a causa di una cattiva eliminazione re­ nale o di un riassorbimento troppo rapido in rapporto a uno stato generale definito) e senza distinguere, in secondo luo­ go, Pintolleranza isotossica, nella quale i fenomeni vengono modificati solo quantitativamente, dalPintolleranza eterotossica, nella quale compaiono sintomi nuovi in rapporto a un cambiamento della reattività cellulare al veleno (A. Schwartz)5? Lo stesso accade per i meccanismi funzionali. Si può senza dubbio sperimentare su essi separatamente. Ma ’ Corso di farmacologia, Facoltà di Medicina di Strasburgo, 1941-42.

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nell’organismo vivente tutte le funzioni sono interdipen­ denti, e i loro ritmi in accordo: solo teoricamente il com­ portamento renale può essere astratto dal comportamento dell'organismo funzionante come un tutto. Traendo esempi dall'ordine dei fenomeni metabolici (dia­ bete, calore animale), Bernard si è imbattuto in casi troppo unilaterali perché la loro generalizzazione non comportasse qualche arbitrio. Come spiegare, nel quadro delle sue idee, le malattie infettive, di cui pure l'eziologia e la patogenia co­ minciavano all'epoca a uscire dal limbo prescientifico? Cer­ to, la teoria delle infezioni inapparenti (Charles Nicolle)6 e la teoria del terreno consentono di affermare che la malattia infettiva getta qualche radice già nello stato cosiddetto nor­ male. Ma questa opinione diffusa non è per questo inattac­ cabile. Non è normale che un soggetto sano ospiti nella pro­ pria faringe il bacillo della difterite nello stesso modo in cui è per lui normale eliminare fosfati nell'urina o contrarre la pupilla passando bruscamente dall'oscurità alla luce. Una ma­ lattia a scadenza differita o ritardata non è uno stato nor­ male allo stesso titolo dell'esercizio di una funzione il cui blocco sarebbe fatale. Cosi, se è opportuno non dimentica­ re il terreno, come consigliava lo stesso Pasteur, forse non si dovrebbe neppure giungere al punto di fare del microbo un epifenomeno. Basta un frammento di cristallo in più per ot­ tenere la solidificazione di una soluzione soprassatura. Ba­ sta, a rigore, un microbo per un’infezione. Certo, è stato pos­ sibile produrre le lesioni-tipo della polmonite o della tifoidea tramite irritazione fisica o chimica dello splancnico [Marquezy e Laudet 1938]. Ma, per attenersi alla spiegazione clas­ sica dell'infezione, si può tentare, una volta che essa sia so­ pravvenuta, di ristabilire una certa continuità tra il prima e

6 Questa espressione, «infezioni inapparenti» non ci pare corretta. L ’infezio­ ne non è inapparente se non dal punto di vista clinico e sul piano macroscopico. Ma dal punto di vista biologico e sul piano umorale, l’infezione è apparente, poi­ ché essa si traduce nella presenza di anticorpi nel siero. Tuttavia l’infezione è sol­ tanto un fatto biologico: essa è una modificazione degli umori. Una infezione inap­ parente non è una malattia inapparente.

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il dopo a forza di antecedenti eziologici. Sembra difficile af­ fermare che lo stato infettivo non introduce nella storia del vivente alcuna discontinuità reale. Le malattie nervose costituiscono un altro fenomeno di difficile spiegazione sulla base dei principi di Bernard. Esse sono state a lungo descritte in termini di esagerazione e de­ ficit. Quando le funzioni superiori della vita di relazione era­ no considerate come somme di riflessi elementari, e i centri cerebrali come casellari di immagini o di tracce, si impone­ va una spiegazione di tipo quantitativo dei fenomeni pato­ logici. Ma le concezioni di Hughlings Jackson, di Head, di Sherrington, gettando le basi per teorie più recenti come quelle di Goldstein, hanno orientato la ricerca in direzioni in cui i fatti hanno assunto un valore sintetico e qualitativo prima ignorato. Su ciò si tornerà più avanti. Basti per ora ac­ cennare che secondo Goldstein non è possibile, in materia di disturbi della parola, chiarire il comportamento normale a partire dal patologico, se non a condizione di tenere pre­ sente la modificazione della personalità operata dalla malat­ tia. In generale, si deve evitare di rapportare un certo atto di un soggetto normale a un atto analogo di un malato sen­ za comprendere il senso e il valore dell'atto patologico per le possibilità di esistenza del?organismo modificato: Bisogna guardarsi dal credere che le diverse attitudini possibili in un malato rappresentino soltanto una sorta di residuo del comporta­ mento normale, quanto è sopravvissuto alla distruzione. Le attitudi­ ni che sono sopravvissute nel malato non si presentano mai sotto la medesima forma nel soggetto normale, neppure agli stadi inferiori del­ la sua ontogenesi o della sua filogenesi, il che si ammette troppo di frequente. La malattia ha dato loro forme particolari che non si pos­ sono comprendere appieno se non tenendo conto dello stato morbo­ so [i 933 >P- 437 ]-

In breve, la continuità tra lo stato normale e lo stato pa­ tologico non pare reale nel caso delle malattie infettive, esat­ tamente come l'omogeneità nel caso delle malattie nervose.

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In definitiva, Bernard ha formulato nel campo medico, con l’autorità dell’innovatore che dimostra il movimento camminando, l’esigenza profonda di un’epoca che credeva nell’onnipotenza di una tecnica fondata sulla scienza, e che viveva bene a dispetto, o forse in ragione, delle lamentazio­ ni romantiche. Un’arte di vivere - e la medicina lo è nel ve­ ro senso della parola - implica una scienza della vita. Una te­ rapeutica efficace suppone una patologia sperimentale, una patologia sperimentale non può essere separata da una fisio­ logia. «Fisiologia e patologia si confondono e sono una sola e medesima cosa». Ma era necessario dedurne, con brutale semplicità, che la vita è identica a se stessa nella salute e nel­ la malattia, che essa non apprende nulla nella malattia e dal­ la malattia? La scienza dei contrari è una sola, diceva Ari­ stotele. Si deve allora concludere che i contrari non sono contrari ? Che la scienza della vita consideri i fenomeni co­ siddetti normali e i fenomeni cosiddetti patologici come og­ getti di pari importanza teorica e in grado di chiarirsi a vi­ cenda, al fine di adeguarsi alla totalità delle vicissitudini del­ la vita, alla varietà dei suoi andamenti, è urgente più ancora che legittimo. Ma ciò non implica che la patologia coincida con la fisiologia e, ancora meno, che la malattia, rapportata allo stato cosiddetto normale, ne sia soltanto un accresci­ mento o una riduzione. E comprensibile che la medicina ne­ cessiti di una patologia oggettiva, ma una ricerca che dissol­ ve il proprio oggetto non è oggettiva. Si può negare che la malattia sia una forma di violazione dell’organismo, ritener­ la un evento che l’organismo provoca con il gioco delle pro­ prie funzioni permanenti, senza negare che questo gioco sia nuovo. Un comportamento dell’organismo può essere in con­ tinuità con i comportamenti che lo hanno preceduto pur ri­ manendo un comportamento altro. La progressività di un av­ vento non esclude l’originalità di un evento. Il fatto che un sintomo patologico, preso separatamente, rispecchi l’iperattività di una funzione il cui prodotto è in tutto e per tutto

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identico al prodotto della medesima funzione nelle condi­ zioni cosiddette normali, non significa che il male organico, concepito come diverso andamento complessivo della tota­ lità funzionale e non come somma di sintomi, non sia per l'organismo un nuovo modo di comportarsi in relazione al­ l'ambiente. Non converrebbe, in fin dei conti, affermare che il fatto patologico non è percepibile come tale, cioè come alterazio­ ne dello stato normale, se non a livello della totalità organi­ ca e, nel caso dell'uomo, a livello della totalità individuale cosciente, in cui la malattia diventa una specie di male ? E s­ sere malato significa a tutti gli effetti vivere un'altra vita, anche nel senso biologico del termine. Per tornare ancora una volta sul diabete: la malattia non riguarda i reni per via della glicosuria, né il pancreas per via delPipoinsulinemia, e neppure l'ipofisi; la malattia riguarda l'organismo: tutte le sue funzioni sono modificate, la tubercolosi lo minaccia, le infezioni in suppurazione non hanno fine, l'arterite e la can­ crena rendono inutilizzabili le membra; e, più ancora, la ma­ lattia è dell’uomo o della donna, minacciati dal coma, spes­ so colpiti da impotenza o sterilità, per cui la gravidanza, se si verifica, è una catastrofe in cui le lacrime - ironia delle se­ crezioni! - contengono zucchero7. E chiaro che solo con un artificio si può scindere la malattia in sintomi o astrarla dal­ le sue complicazioni. Che cos’è un sintomo, senza un conte­ sto o uno sfondo ? Che cos’è una complicazione, separata da ciò che essa complica ? Quando si qualificano come patolo­ gici un sintomo o un meccanismo funzionale isolati, si di­ mentica che ciò che li rende tali è il loro rapporto di inseri­ mento nella totalità indivisibile di un comportamento indi­ viduale. In tal modo, se l’analisi fisiologica di funzioni se­ parate è consapevole di trovarsi in presenza di fatti patolo­ gici, essa lo deve a una indagine clinica preliminare, in quan-

7 Bernard afferma di non essere mai riuscito a scoprire lo zucchero nelle lacri­ me del diabetico, ma oggi è un fatto acquisito; cfr. Fromageot e Chaix, Glucides, in «Physiologie», II (1939), fase. 3, p. 40, Hermann, Paris.

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to la clinica pone il medico in rapporto con gli individui in­ teri e concreti, e non con organi o loro funzioni. La patolo­ gia, sia essa anatomica o fisiologica, analizza per conoscere meglio, ma essa non può considerarsi patologia, vale a dire studio dei meccanismi della malattia, se non in quanto rice­ ve dalla clinica la nozione di malattia, la cui origine va ri­ cercata nell'esperienza che gli uomini hanno dei loro rapporti d’insieme con Pambiente. Come spiegare dunque, se le precedenti affermazioni han­ no un senso, che il clinico moderno assuma più volentieri il punto di vista del fisiologo che quello del malato ? Non v’è dubbio che ciò accada a causa del fatto, comune nell'espe­ rienza medica, che i sintomi morbosi soggettivi e i sintomi oggettivi raramente corrispondono. L ’affermazione dell’uro­ logo che ritiene che un uomo che si lamenta dei propri reni sia un uomo che ai reni non ha nulla, non è che una battuta. Il fatto è che i reni sono per il malato un territorio muscolo­ cutaneo della regione lombare, mentre per il medico sono vi­ sceri in rapporto con altri. Ora il ben noto fenomeno dei do­ lori rapportati, le cui molte spiegazioni sono per adesso al­ quanto oscure, impedisce di pensare che i dolori accusati dai malati come sintomi soggettivi principali intrattengano un rapporto costante con i visceri inferiori su cui essi paiono ri­ chiamare l’attenzione. Ma soprattutto la latenza, spesso pro­ lungata, di certe degenerazioni, l’inapparenza di certe infe­ stioni o infezioni, portano il medico a considerare l’espe­ rienza patologica diretta del paziente trascurabile, e persino sistematicamente falsificatrice del fenomeno patologico obiettivo. Ogni medico sa, per averlo talvolta imparato a co­ sto di errori, che la coscienza sensibile immediata della vita organica non è di per se stessa scienza di questo stesso orga­ nismo, non è conoscenza infallibile della localizzazione o del­ la determinazione temporale delle lesioni patologiche che in­ teressano il corpo umano. Forse per questo la patologia, si­ no a oggi, ha tenuto cosi scarsamente conto di quel caratte­ re che la malattia possiede, di essere a tutti gli effetti per il

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malato un altro andamento ài vita. Certo la patologia ha il di­ ritto di mettere in dubbio e rettificare Topinione del malato che crede, per il fatto di sentirsi altro, di sapere anche in che cosa e come egli sia altro. Ma dal fatto che il malato si in­ ganni palesemente su questo secondo punto, non segue che egli si inganni anche sul primo. Forse la sua sensazione è il presentimento di ciò che la patologia contemporanea co­ mincia a intravedere, e cioè che lo stato patologico non è un semplice prolungamento, quantitativamente modificato, del­ lo stato patologico, ma che esso è ben altro8.

8 Dall’epoca della prima pubblicazione di questo saggio (1943), lo studio del­ le idee di Bernard è stato ripreso da M. D. Grmek, La concéption de la santé et de la maladie chez Claude Bernard. Per il riferimento, vedi oltre, p. 265 [nota del 1972].

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malato un altro andamento di vita. Certo la patologia ha il di­ ritto di mettere in dubbio e rettificare l’opinione del malato che crede, per il fatto di sentirsi altro, di sapere anche in che cosa e come egli sia altro. Ma dal fatto che il malato si in­ ganni palesemente su questo secondo punto, non segue che egli si inganni anche sul primo. Forse la sua sensazione è il presentimento di ciò che la patologia contemporanea co­ mincia a intravedere, e cioè che lo stato patologico non è un semplice prolungamento, quantitativamente modificato, del­ lo stato patologico, ma che esso è ben altro8.

8 Dall’epoca della prima pubblicazione di questo saggio (1943), lo studio del­ le idee di Bernard è stato ripreso da M. D. Grmek, La concéption de la santé et de la maladie chez Claude Bernard. Per il riferimento, vedi oltre, p. 265 [nota del 1972].

Capitolo quarto Le concezioni di René Leriche

L ’irrilevanza dell’opinione del malato sulla realtà della pro­ pria malattia è un argomento importante nell’ambito di una recente teoria della malattia, teoria talvolta un po’ incerta, ma ricca di sfumature, concreta e profonda: quella di René Leriche, di cui mi pare necessario fornire un’esposizione cri­ tica immediatamente dopo la teoria precedente, che per un verso essa continua, ma da cui, per altro verso, si allontana nettamente. «L a salute, - afferma Leriche -, è la vita nel si­ lenzio degli organi» [1936, 16-1]. Al contrario, la «malattia è ciò che impedisce gli uomini nel normale svolgimento della loro vita e nelle loro occupazioni e, soprattutto, ciò che li fa soffrire» [ibid., 22-3]. Lo stato di salute di un soggetto è l’in­ consapevolezza del proprio corpo. Al contrario, la consape­ volezza del corpo risiede nel sentimento del limite, della mi­ naccia, dell’ostacolo alla salute. Se assumiamo tali formule in tutta la loro portata, esse significano che la nozione vissuta del normale dipende dalla possibilità di infrangere la norma. Ci troviamo finalmente di fronte a definizioni non puramente verbali, in cui la relatività dei termini opposti è corretta. Il termine originario non è in quanto tale positivo, mentre il termine negativo non è in quanto tale un nulla. La salute è positiva, ma non è originaria, la malattia è negativa ma sotto forma di opposizione (impedimento) e non per privazione. Tuttavia, se non vengono ulteriormente portate riserve o correzioni alla definizione della salute, la definizione del­ la malattia va immediatamente rettificata. Perché questa de­ finizione della malattia è quella del malato, non quella del

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medico. Valida dal punto di vista della coscienza, essa non lo è dal punto di vista della scienza. Leriche mostra in ef­ fetti che il silenzio degli organi non è necessariamente equi­ valente all’assenza di malattia, che ci sono nell’organismo lesioni o turbe funzionali a lungo impercettibili per coloro la cui vita mettono in pericolo. Noi paghiamo con il ritardo che spesso portiamo nell’accorgerci dei nostri squilibri in­ terni, la prodigalità con cui è stato costruito il nostro cor­ po, il quale possiede in eccesso tutti i propri tessuti: più pol­ moni di quanti ne servano per respirare, più reni di quanti ne servano per secernere l’urina entro il limite dell’intossi­ cazione ecc. La conclusione è che «se si vuole definire la me­ dicina, è necessario disumanizzarla» [ibid., 22-3]; e, più bru­ talmente, che «nella malattia, in fondo, ciò che meno im­ porta è l’uomo» [ibid.9 22-4]. Non sono dunque più il dolore o l’incapacità funzionale e l’infermità sociale a fare la ma­ lattia, bensì l’alterazione anatomica o il disturbo fisiologi­ co. La malattia ha luogo a livello del tessuto e, in questo sen­ so, può darsi malattia senza malato. Si consideri l’esempio di un uomo la cui vita, senza ch’egli si accorga di alcun even­ to patologico, è stata interrotta da un omicidio o da una col­ lisione. Secondo la teoria di Leriche, se un’autopsia di in­ tento medico-legale scoprisse un cancro del rene ignorato dal suo defunto portatore, si dovrebbe diagnosticare una malattia, pur essendo impossibile trovare un soggetto cui at­ tribuirla: non al cadavere, che non può più contrarre ma­ lattia, né retroattivamente al vivente, dal momento che que­ sti non se ne preoccupava, avendo terminato la propria vi­ ta prima dello stadio evolutivo del cancro in cui, con buona probabilità clinica, i dolori avrebbero infine rivelato il ma­ le. La malattia che non è mai esistita nella coscienza dell’uo­ mo, perviene all’esistenza nella scienza del medico. Ora noi riteniamo che non vi sia nulla nella scienza che prima non sia apparso nella coscienza, e che in particolare, nel presente ca­ so, sia il punto di vista del malato quello in definitiva vero. Vediamo perché. Medici e chirurghi possiedono un’infor­

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mazione clinica, e talvolta utilizzano anche tecniche di la­ boratorio che permettono loro di scoprire malate persone che non si sentono tali. Questo è un fatto. Ma è un fatto che va interpretato. Ora, è soltanto perché sono eredi di una cultura medica trasmessa dai clinici di ieri, che i clinici di oggi possono precedere e superare in perspicacia diagnosti­ ca i loro clienti abituali o occasionali. C ’è sempre stato, in fin dei conti, un momento in cui l’attenzione dei clinici è stata attirata su certi sintomi, anche soltanto oggettivi, da persone che si lamentavano di non essere normali, vale a di­ re identiche al proprio passato, o di soffrire. Se oggi la co­ noscenza della malattia da parte del medico può prevenire l’esperienza della malattia da parte del malato, è perché al­ tre volte la seconda ha chiamato in causa, ha richiesto la pri­ ma. Pertanto, di diritto anche se non attualmente di fatto, è sempre perché vi sono uomini che si sentono malati che c’è una medicina, e non è perché vi sono dei medici che gli uomini apprendono da essi le proprie malattie. L ’evoluzio­ ne storica dei rapporti tra il medico e il malato nella con­ sultazione clinica non modifica in nulla il rapporto norma­ le e permanente tra il malato e la sua malattia. Tale critica può essere tanto più apertamente portata avanti in quanto Leriche, ritornando su ciò che le sue prime formulazioni contenevano di troppo perentorio, la conferma in parte. Distinguendo accuratamente, in patologia, il pun­ to di vista statico dal punto di vista dinamico, Leriche ri­ vendica per il secondo un primato assoluto. A chi identifica malattia e lesione, Leriche obietta che il fatto anatomico de­ ve essere considerato in realtà come «secondo e secondario: secondo, perché prodotto da una deviazione originariamen­ te funzionale della vita dei tessuti; secondario in quanto uno degli elementi della malattia e non l’elemento dominante» [ibid., 76-6]. Di conseguenza, è la malattia del malato che torna ad essere, in modo alquanto inatteso, il concetto ade­ guato della malattia, in ogni caso più adeguato del concetto dell’ anatomo-patologo.

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È da ritenersi che la malattia dell’uomo malato non sia la malattia anatomica del medico. Un calcolo in una vescica biliare atrofica può non dare luogo a sintomi per anni e, di conseguenza, non creare una malat­ tia pur sussistendo uno stato di anatomia patologica [...]. Sotto le me­ desime apparenze anatomiche, si è e non si è malati [...]. Bisogna smet­ tere di aggirare la difficoltà affermando semplicemente l’esistenza di forme silenziose e larvate di malattia: questo non è che un verbalismo. Forse la lesione non basta a fare la malattia clinica, la malattia del ma­ lato. Questa è altro dalla malattia dell’anatomo-patologo [ibid]. \

E bene, tuttavia, non dare a Leriche più di quanto egli sia disposto ad accettare. In effetti, ciò che egli intende per malato è molto più l’organismo in azione, in funzione, che l’individuo cosciente delle proprie funzioni organiche. Il ma­ lato, in questa nuova definizione, non è affatto il malato di quella precedente, l’uomo concreto cosciente della propria situazione, favorevole o sfavorevole, nell’esistenza. Il mala­ to cessa di essere un’entità da anatomista, ma resta un’en­ tità da fisiologo, giacché Leriche precisa: «Questa nuova rap­ presentazione della malattia conduce la medicina a prende­ re contatto più stretto con la fisiologia, vale a dire con la scienza delle funzioni, ad occuparsi della fisiologia patologi­ ca almeno quanto dell’anatomia patologica» \ìbid~\. In tal mo­ do la coincidenza della malattia e del malato ha luogo nella scienza del fisiologo, ma non ancora nella coscienza dell’uo­ mo concreto. E tuttavia questa prima coincidenza ci è suffi­ ciente, giacché Leriche stesso ci fornisce i mezzi per ottene­ re, a partire da essa, la seconda. Riprendendo - e non certo senza averne coscienza - le idee di Bernard, Leriche afferma anch’egli la continuità e Pinscindibilità dello stato fisiologico dallo stato patologico. Per esempio, illustrando la teoria dei fenomeni di vasoco­ strizione, di cui egli mostra tutta la complessità tanto a lun­ go misconosciuta, e della loro trasformazione in fenomeni di spasmo, Leriche scrive: Tra il tono e la vasocostrizione, cioè Vipertonia fisiologica, tra la va­ socostrizione e lo spasmo, non si dà intervallo. Si passa da uno stato all’al­

tro senza fase di transizione, e sono gli effetti, più che la cosa stessa,

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che rendono possibili delle differenziazioni. Non si dà soglia tra la fi­ siologia e la patologia [1940, p. 234].

Si presti attenzione a quest’ultima formulazione. Non si dà soglia quantitativa individuabile tramite metodi oggetti­ vi di misurazione. Si danno però distinzione e opposizione qualitative per gli effetti differenti della medesima causa quantitativamente variabile. «Anche in presenza di una per­ fetta conservazione della struttura arteriosa lo spasmo ha, al­ la distanza, effetti patologici gravi: crea dolore, produce ne­ crosi parcellari o diffuse; infine e soprattutto, determina al­ la periferia del sistema occlusioni capillari e arteriolari» [ibid]. Occlusione, necrosi, dolore: tutti fatti patologici di cui vanamente si cercherebbero gli equivalenti fisiologici: un’arteria ostruita non è più fisiologicamente un’arteria, dal momento che essa è un ostacolo e non più una via per la cir­ colazione; - una cellula necrotica non è più fisiologicamen­ te una cellula, giacché, se si dà un’anatomia del cadavere, non si potrebbe dare di esso, per definizione etimologica, una fisiologia; - il dolore, infine, non è più una sensazione fisiologica, poiché, secondo Leriche, «il dolore non rientra nel piano della natura». E nota, a proposito del problema del dolore, la tesi ori­ ginale e profonda di Leriche. E impossibile considerare il do­ lore come l’espressione di un’attività normale, di un senso suscettibile di esercizio permanente, senso che funzionereb­ be tramite un sistema di recettori periferici specializzati, di vie proprie di conduzione nervosa e di analizzatori centrali delimitati; impossibile parimenti considerarlo come un rive­ latore e un segnalatore diligente degli eventi che minaccia­ no dall’esterno e dall’interno l’integrità organica, o come una salutare reazione di difesa che il medico dovrebbe rispetta­ re e addirittura rinforzare. Il dolore è «un fenomeno indivi­ duale mostruoso e non una legge della specie. Un fatto di ma­ lattia» [ibid.y p. 490]. Si colga tutta l’importanza di queste ultime parole. Non è più tramite il dolore che viene defini-

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ta la malattia: è il dolore stesso a essere presentato come ma­ lattia. E ciò che questa volta Leriche intende per malattia, non è la modificazione quantitativa di un fenomeno fisiolo­ gico o normale, ma uno stato autenticamente anormale. «Il dolore-malattia è in noi come un evento che evolve in senso contrario alle leggi della sensazione normale [...]. Tutto in esso è anormale, contrario alla legge» [ibid]. Leriche ha tan­ to coscienza, questa volta, di rompere con un dogma classi­ co da provare il bisogno ben noto di invocarne Tautorità, nel momento stesso in cui è costretto a farne saltare le basi. «Si, non vi è dubbio, la patologia è sempre soltanto una fisiolo­ gia deviata. E al Collège de France, a questa cattedra, che è nata tale idea, ed essa ci appare più vera ogni giorno che pas­ sa» [ibid.9 p. 482]. Il fenomeno del dolore verifica dunque elettivamente la teoria, costante in Leriche, dello stato di malattia come «novità fisiologica». Tale concezione viene ti­ midamente alla luce nelle ultime pagine del volume VI della Encyclopédie française (1936): La malattia non ci appare più come un parassita che vive sull’uo­ mo e che si ciba dell’uomo stesso che debilita. Scorgiamo in essa la con­ seguenza di una deviazione, inizialmente minima, dall’ordine fisiolo­ gico. Essa è, insomma, un ordine fisiologico nuovo al quale la tera­ peutica deve avere come scopo di adattare l’uomo malato [1936, 76-6].

Ancora più nettamente tale concezione si afferma nel passo che segue: Produrre un sintomo, anche maggiore, nel cane, non significa aver realizzato la malattia umana. Quest’ultima è sempre un insieme. Ciò che la produce tocca in noi le molle ordinarie della vita in modo cosi sottile, che le loro risposte hanno meno a che vedere con una fisiolo­ gia deviata che con una fisiologia nuova, entro la quale molte cose, ac­ cordate in chiave nuova, producono risonanze inusitate [1939, p. 11].

Non ci è possibile esaminare nel particolare questa teoria del dolore con tutta l’attenzione che essa merita; dobbiamo tuttavia segnalarne l’interesse per la questione di cui ci stia­ mo occupando. Ci pare di indubbia importanza che un me­

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dico riconosca nel dolore un fenomeno di reazione totale, che non ha un senso, che non è un senso, se non a livello dell’individualità umana concreta. «Il dolore fisico non è un semplice fatto di influsso nervoso che corre secondo un de­ terminato andamento lungo un nervo. Esso è la risultante del conflitto tra un eccitante e l’intero individuo» [1940, p. 488]. Ci pare di indubbia importanza che un medico affer­ mi che l’uomo fa il proprio dolore - cosi come fa una malat­ tia o il proprio lutto - più di quanto non lo riceva o lo subi­ sca. Inversamente, ritenere il dolore come un’impressione ri­ cevuta in un punto del corpo e trasmessa al cervello significa supporlo come costituito del tutto autonomamente, senza al­ cun rapporto con l’autorità del soggetto che lo prova. E pos­ sibile che l’insufficienza dei dati anatomici e fisiologici in questo problema conceda a Leriche il più ampio spazio per negare, a partire da altri argomenti positivi, la specificità del dolore. Ma negare la specificità anatomo-fisiologica di un ap­ parato nervoso proprio del dolore non implica necessaria­ mente, a nostro avviso, che si debba negare il carattere fun­ zionale del dolore. Certo, è fin troppo evidente che il dolo­ re non è un segnalatore sempre fedele e infallibile, e che i sostenitori del finalismo non sono seri quando ad esso dele­ gano capacità e responsabilità di previsione che nessuna scienza del corpo umano si potrebbe assumere. Ma è altret­ tanto evidente che l’indifferenza di un vivente alle proprie condizioni di vita, alla qualità dei propri scambi con l’am­ biente, è profondamente anormale. Si può ammettere che il dolore sia un senso vitale, senza per questo ammettere che esso disponga di un organo particolare o abbia valore enci­ clopedico d’informazione dal punto di vista topografico o funzionale. Il fisiologo può certo denunciare le illusioni del dolore, come il fisico fa per quanto riguarda la vista: ciò si­ gnifica che un senso non è una conoscenza, e che il suo va­ lore normale non è un valore teorico, ma non implica che es­ so non abbia normalmente il proprio valore. Pare soprattut­ to che si debba distinguere con cura il dolore d ’origine

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tegumentaria dal dolore d'origine viscerale. Se quest'ultimo si presenta come anormale, appare difficile contestare al do­ lore che nasce alla superficie di separazione, ma anche di in­ contro, tra l'organismo e l'ambiente circostante, un caratte­ re normale. La soppressione del dolore tegumentario, nella sclerodermia o nella siringomielia, può condurre all'indiffe­ renza dell'organismo verso danni portati alla sua integrità. Ma dobbiamo ritenere che Leriche, dovendo definire la malattia, non veda altro modo di definirla se non attraver­ so i suoi effetti. Ora, con almeno uno dei suoi effetti, il do­ lore, abbandoniamo senza equivoco il piano della scienza astratta per la sfera della coscienza concreta. Otteniamo que­ sta volta la coincidenza totale della malattia e del malato giacché il dolore-malattia, per dirla con Leriche, è un fatto appartenente al tutto individuale cosciente, e che le belle analisi di Leriche, riportando la partecipazione e la collaborazione di tutto l'individuo al suo dolore, ci permettono di qualificare come «comportamento». \

E chiaro sin d'ora in che cosa le concezioni di Leriche sia­ no il prolungamento di quelle di Comte e Bernard, e in che cosa esse se ne discostino, essendo più sfumate e soprattutto più ricche di autentica esperienza medica. Il fatto è che Le­ riche introduce nei rapporti tra fisiologia e patologia un giu­ dizio da tecnico e non da filosofo come Comte, o da teorico come Bernard. L'idea comune a Comte e Bernard, al di là del­ la differenza d'intenzioni evidenziata all'inizio, è che una tec­ nica debba normalmente essere l'applicazione di una scienza. E l'idea positivista fondamentale: sapere per agire. La fisio­ logia deve chiarire la patologia per fondare la terapeutica. Comte ritiene che la malattia possa rimpiazzare gli esperi­ menti; Bernard ritiene che gli esperimenti, anche praticati sull'animale, possano introdurci alle malattie dell'uomo. Ma in definitiva, per l'uno come per l'altro, non si può procede­ re logicamente se non dalla conoscenza fisiologica sperimen­

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tale alla tecnica medica. Leriche, al contrario, ritiene che si proceda più spesso di fatto, e che si dovrebbe quasi sempre procedere di diritto, dalla tecnica medica e chirurgica, chia­ mata in causa dallo stato patologico, alla conoscenza fisiolo­ gica. La conoscenza dello stato fisiologico si ottiene per astra­ zione retrospettiva dall’esperienza clinica e terapeutica. Possiamo domandarci se lo studio dell’uomo normale, anche ba­ sato su quello degli animali, sarà mai sufficiente a illuminarci appie­ no sulla vita normale dell’uomo. La generosità del piano secondo cui noi siamo costruiti costituisce una grossa difficoltà di analisi. Tale ana­ lisi si conduce soprattutto studiando i deficit prodotti dalla elimina­ zione di organi, vale a dire introducendo delle variabili nell’ordine della vita e ricercandone l’incidenza. Sfortunatamente l’esperimento, in un essere sano, è sempre un po’ brutale nel suo determinismo, e l’uomo sano corregge rapidamente la minima insufficienza spontanea. È forse più facile osservarne gli effetti quando le variabili sono intro­ dotte impercettibilmente nell’uomo tramite la malattia, o terapeuti­ camente in occasione della malattia. L’uomo malato può in tal modo servire alla conoscenza dell’uomo normale. Analizzandolo, si scopro­ no in lui deficit che l’esperimento più sottile non riesce a realizzare negli animali, e grazie ai quali è possibile risalire alla vita normale. Per questo lo studio completo della malattia tende sempre più a diventa­ re elemento essenziale della fisiologia normale [Leriche 1936, 76-6].

Apparentemente, tali concezioni si avvicinano più alle idee di Comte che a quelle di Bernard. E tuttavia, la differenza è profonda. Comte pensa, come si è visto, che la conoscenza dello stato normale debba normalmente precedere la valuta­ zione dello stato patologico, e che essa potrebbe a rigore co­ stituirsi, senza forse potersi estendere molto, senza il mini­ mo riferimento alla patologia; parallelamente, Comte difen­ de l’indipendenza della biologia teorica in rapporto alla medicina e alla terapeutica [Comte 1908, p. 247]. Al contra­ rio, Leriche pensa che la fisiologia sia l’insieme delle soluzio­ ni i cui problemi i malati hanno posto con le loro malattie. Quelta che segue è uno dei pensieri più profondi sul proble­ ma del patologico: «Vi sono in noi, in ogni istante, molte più possibilità fisiologiche di quante ne dica la fisiologia. Ma è

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necessaria la malattia perché esse ci si rivelino» [1939, p. 11]. La fisiologia è la scienza delle funzioni e degli andamenti del­ la vita, ma è la vita che propone all’esplorazione del fisiologo gli andamenti di cui egli codifica le leggi. La fisiologia non può imporre alla vita i soli andamenti di cui le sia intelligibi­ le il meccanismo. Le malattie sono nuovi andamenti di vita. Senza le malattie, che rinnovano incessantemente il terreno da esplorare, la fisiologia segnerebbe il passo su un suolo già battuto. Ma il pensiero precedente può anche essere inteso in un altro senso, appena differente. La malattia ci rivela fun­ zioni normali nel preciso momento in cui ce ne impedisce l’esercizio. La malattia sta al principio dell’attenzione specu­ lativa che la vita dedica a se stessa per il tramite dell’uomo. Se la salute è la vita nel silenzio degli organi, non si può pro­ priamente parlare di scienza della salute. La salute è l’inno­ cenza organica. Essa deve essere perduta, come ogni inno­ cenza, perché una conoscenza sia possibile. Vale per la fisio­ logia ciò che, secondo Aristotele, vale per ogni altra scienza: essa nasce dallo stupore. Ma lo stupore proprio della vita è l’angoscia provocata dalla malattia. Non riteniamo di avere esagerato affermando, nell’in­ troduzione a questo capitolo, che le concezioni di Leriche, ricollocate nella prospettiva storica, potrebbero assumere un rilievo inaspettato. Non sembra possibile che un’esplorazio­ ne, d’intento filosofico o medico, dei problemi teorici posti dalla malattia, possa ormai ignorarle. Lo ripetiamo ancora una volta, a costo di offendere certi spiriti per i quali l’in­ telletto si realizza soltanto nell’intellettualismo: ciò che co­ stituisce il valore in sé della teoria di Leriche, indipenden­ temente da qualunque critica su dettagli di contenuto, è che essa è la teoria di una tecnica, una teoria per cui la tecnica esiste, non come docile servitrice che esegue ordini indiscu­ tibili, ma come consigliera e animatrice che attira l’atten­ zione sui problemi concreti e orienta la ricerca in direzione degli ostacoli, senza nulla presupporre prima delle soluzioni teoriche che ad essi verranno date.

Capitolo quinto Le implicazioni di una teoria

«L a medicina, - ha detto Sigerist, - è inscindibilmente legata all’insieme della cultura, giacché ogni trasformazione nelle concezioni mediche è condizionata dalle trasformazio­ ni nelle idee dell’epoca» [1932, p. 42]. La teoria che abbia­ mo appena esposto, a un tempo medica, scientifica e filoso­ fica, verifica perfettamente questa proposizione. Essa ci sem­ bra soddisfare simultaneamente diversi bisogni e postulati intellettuali del momento storico-culturale in cui è stata for­ mulata. In tale teoria viene alla luce, innanzitutto, la convinzio­ ne, tipica dell’ottimismo razionalista, che non si dà realtà del male. Ciò che distingue la medicina del xix secolo, soprat­ tutto prima di Pasteur, dalla medicina dei secoli precedenti, è il suo carattere risolutamente monista. A dispetto degli sforzi degli iatromeccanicisti e degli iatrochimisti, la medi­ cina del xvm secolo era rimasta, per influsso degli animisti e dei vitalisti, una medicina dualista, un manicheismo medi­ co. La Salute e la Malattia si disputavano l’Uomo, come il Bene e il Male facevano col Mondo. E con grande soddisfa­ zione intellettuale che troviamo in una storia della medicina il seguente passaggio: Paracelso è un illuminato, Helmont un mistico, Stahl un pietista. Tutti e tre sono geniali innovatori, ma subiscono l’influenza del loro ambiente e delle tradizioni ereditarie. Ciò che rende molto difficile la valutazione delle dottrine riformatrici di questi tre grandi uomini, è l’estrema difficoltà che si incontra quando si vuole separare le loro opinioni scientifiche dalle loro credenze religiose [...]. Non è sicuro che Paracelso non abbia creduto di scoprire l’elisir di lunga vita; è cer­

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to che Helmont ha confuso la salute con la salvezza e la malattia con il peccato; e lo stesso Stahl, malgrado la sua statura intellettuale, ha usato più di quanto fosse necessario, nella stesura de La vraie théorie médicaley della credenza nel peccato originale e nella caduta dell’uo­ mo [Guardia 1884, p. 311].

Più di quanto fosse necessario, dice Fautore, per la pre­ cisione grande ammiratore di Broussais, nemico giurato, sul principio del xix secolo, di qualunque ontologia medica. Il rifiuto di una concezione ontologica della malattia, corolla­ rio negativo dell’affermazione dell’identità quantitativa tra il normale e il patologico, è forse innanzitutto rifiuto più profondo di considerare reale il male. Non si vuole certo ne­ gare che una terapeutica scientifica sia superiore a una te­ rapeutica magica o mistica. E fuor di dubbio che conoscere sia meglio di ignorare quando è necessario agire, e in que­ sto senso il valore della filosofia dei lumi e del positivismo, anche scientista, non si discute. Non sarebbe possibile di­ spensare i medici dallo studiare la fisiologia e la farmacodi­ namica. E fondamentale che la malattia non venga confusa col peccato o col demonio. Ma dal fatto che il male non sia un essere non segue che esso sia un concetto destituito di senso, che non abbia valori negativi, anche tra i valori vita­ li, che lo stato patologico non sia nulTaltro, in fondo, dallo stato normale. Reciprocamente, la teoria in questione rispecchia la con­ vinzione umanista che Fazione dell’uomo sull’ambiente e su se stesso possa e debba divenire interamente trasparente al­ la conoscenza dell’ambiente e dell’uomo, e debba di norma essere soltanto la messa in pratica della scienza preventiva­ mente istituita. E chiaro, dalle Leçons sur le diabète, che se si afferma l’omogeneità e la continuità reali del normale e del patologico, è perché la scienza fisiologica è fondata a rego­ lare l’attività terapeutica per il tramite della patologia. Si ignora qui il fatto che le occasioni di rinnovamento e di pro­ gresso teorico non vengono incontrate dalla coscienza uma­ na nel suo ambito d ’attività teorico, ma in quello pragmati­

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co e tecnico. Rifiutare alla tecnica ogni valore proprio al di fuori della conoscenza che essa riesce a incorporare in sé si­ gnifica rendere inintelligibile l'andamento irregolare dei pro­ gressi del sapere e quelToltrepassamento della scienza da par­ te della potenza che i positivisti hanno spesso constatato e deplorato. Se il coraggio di una tecnica, ignara degli ostaco­ li che potrà incontrare, non anticipasse costantemente la pru­ denza della conoscenza codificata, i problemi scientifici da risolvere, che non sono se non lo stupore che segue all'insuccesso, sarebbero poco numerosi. Questo è quanto resta vero dell'empirismo, filosofia dell'avventura intellettuale, e che viene ignorato da un metodo sperimentale eccessiva­ mente tentato, per reazione, a razionalizzarsi. Non si potrebbe tuttavia, senza cadere in errore, rim­ proverare a Bernard di non aver colto l'eccitante intellettuale che la fisiologia trova nella pratica clinica. Egli stesso rico­ nosce che i suoi esperimenti sulla glicemia e la produzione di glucosio nell'organismo animale hanno avuto come punto di partenza alcune osservazioni relative al diabete e alla spro­ porzione che talvolta si constata tra la quantità di idrati di carbonio ingeriti e la quantità di glucosio eliminata attra­ verso le urine. Egli stesso formula questo principio genera­ le: «Bisogna innanzitutto porre il problema medico cosi co­ me esso si dà nell'osservazione della malattia, poi analizzare sperimentalmente i fenomeni patologici cercando di fornir­ ne la spiegazione fisiologica» [19650, p. 349]. Malgrado tut­ to, resta fermo che il fatto patologico e la sua spiegazione fi­ siologica non hanno, per Bernard, la stessa dignità teorica. Il fatto patologico riceve la spiegazione più di quanto non la stimoli. Ciò è ancora più evidente nel passo che segue: «I malati sono in fondo soltanto fenomeni fisiologici in condi­ zioni nuove che si tratta di determinare» [ibid., p. 346]. Le malattie confermano, a chi conosce la fisiologia, la fisiologia che egli conosce, ma in fondo non gli insegnano nulla; i fe­ nomeni sono i medesimi allo stato patologico e allo stato sa­ no, condizioni a parte. Come se si potesse determinare l'es­

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senza di un fenomeno facendo astrazione dalle condizioni! Come se le condizioni fossero una maschera o una cornice tali da non modificare né il viso né il quadro ! Si metta a con­ fronto tale affermazione con quella già citata di Leriche, per cogliere tutta l’importanza significativa di una sfumatura ver­ bale: «Vi sono in noi, in ogni istante, molte più possibilità fisiologiche di quante ne dica la fisiologia. Ma è necessaria la malattia perché esse ci si rivelino». Anche qui, dobbiamo ai casi della ricerca bibliografica la gioia intellettuale di constatare, una volta in più, che anche le tesi in apparenza più paradossali hanno la loro tradizione, che rispecchia senza dubbio la loro necessità logica perma­ nente. Proprio nel momento in cui Broussais conferiva l’au­ torità della propria levatura alla teoria che fonda la medici­ na fisiologica, tale teoria suscitava le obiezioni di un oscuro medico, il dottor Victor Prus, premiato nel 1821 dalla So­ ciété de Médecine du Gard per una memoria di concorso ri­ guardante la definizione precisa dei termini flegmasia e irri­ tazione e la loro importanza per la medicina pratica. Dopo aver contestato che la fisiologia sia, da sola, la base natura­ le della medicina, che essa possa mai da sola fondare la co­ noscenza dei sintomi, del loro concatenamento e del loro va­ lore, che l’anatomia patologica si lasci mai dedurre dalla co­ noscenza dei fenomeni normali, che la previsione delle ma­ lattie derivi dalla conoscenza delle leggi fisiologiche, l’auto­ re aggiunge: Se volessimo esaurire la questione trattata in questo articolo, non ci resterebbe che mostrare che la fisiologia, lungi dall’essere il fonda­ mento della patologia, non poteva al contrario nascere che da essa. E grazie alle modificazioni impresse alle funzioni dalla malattia di un or­ gano e, talvolta, dalla sospensione totale della sua attività, che giun­ giamo a conoscere il suo uso e la sua importanza [...]. Cosi un’esosto­ si, comprimendo e paralizzando il nervo ottico, i nervi brachiali, il mi­ dollo spinale, ci insegna quale sia la loro destinazione abituale. Broussonnet perde la memoria dei sostantivi; alla sua morte, si trova un ascesso nella parte anteriore del cervello, e si è portati a credere che li risieda la memoria dei nomi [...]. E dunque la patologia che, aiuta-

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ta dall’anatomia patologica, ha creato la fisiologia: è quella che, ogni giorno, dissipa antichi errori contenuti in questa e ne favorisce i pro­ gressi [1825, L].

Scrivendo YIntroduction à l'étude de la médicine expéri­ mentale, Bernard non intendeva soltanto affermare che l’azio­ ne efficace si confonde con la scienza, ma anche, parallela­ mente, che la scienza si confonde con la scoperta delle leggi dei fenomeni. Su questo punto, l’accordo con Comte è tota­ le. Ciò che Comte chiama, nella sua filosofia biologica, dot­ trina delle condizioni di esistenza, Bernard chiama determi­ nismo. Egli si vanta di avere per primo introdotto questo ter­ mine nel vocabolario scientifico francese. Ho introdotto, credo per primo, questo termine nella scienza, ma è stato impiegato dai filosofi in un altro senso. Sarà utile fissare con precisione il senso di questo termine in un libro che scriverò: Du déterminisme dans les sciences. Sarà in sostanza una seconda edi­ zione della mia Introduction à la médicine expérimentale [Rostand 1942, p. 96].

È la fede nella validità universale del postulato determi­ nista che si trova ad essere affermata dal postulato «fisiolo­ gia e patologia sono una sola e medesima cosa». E esistita una fisio-chimica fisiologica, conforme alle esigenze della cono­ scenza scientifica, vale a dire una fisiologia contenente leggi quantitative, verificate dalla sperimentazione, quando anco­ ra la patologia era ingombra di concetti prescientifici. E com­ prensibile che, avidi a buon diritto di una patologia efficace e razionale, i medici del principio del xrx secolo abbiano in­ dividuato nella fisiologia il modello che poteva essere consi­ derato il più vicino al loro ideale. La scienza respinge l rindeterminato ye quando, in medicina, si giun­ ge a fondare le proprie opinioni sul tatto medico, sull’ispirazione o su un’intuizione più o meno vaga delle cose, si è al di fuori della scienza e si fornisce un esempio di quella medicina di fantasia che può creare i più grandi pericoli affidando la salute e la vita dei malati ai capricci di un ispirato ignorante [Bernard 18650, P- 96].

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Ma siccome, di fisiologia e patologia, soltanto la prima al­ lora comportava delle leggi e postulava il determinismo del proprio oggetto, non si era tenuti a concludere, pur auguran­ dosi legittimamente una patologia razionale, che le leggi e il determinismo dei fatti patologici siano le medesime leggi e il medesimo determinismo dei fatti fisiologici. Sappiamo dallo stesso Bernard quali siano gli antecedenti di questo nodo teo­ rico. Nella lezione che egli dedica alla vita e alle opere di Magendie, in apertura delle Leçons sur les substances toxiques et médicamenteuses (1857), Bernard ci spiega che il maestro di cui egli occupa la cattedra e continua l’insegnamento «attin­ geva il sentimento della vera scienza» dal grande Laplace. E noto che Laplace era stato il collaboratore di Lavoisier nelle ricerche sulla respirazione degli animali e sul calore animale, primo grande successo delle ricerche sulle leggi dei fenomeni biologici secondo i metodi di sperimentazione e misura ac­ creditati in fisica e in chimica. Laplace aveva conservato da questi lavori un gusto spiccato per la fisiologia e appoggiava Magendie. Ora, anche se Laplace non faceva uso del termine determinismo, egli è uno dei padri spirituali, e almeno in Francia un padre autoritario e autorevole, della dottrina che questo termine designa. Il determinismo non è, per Laplace, un’esigenza di metodo, un postulato normativo della ricerca, abbastanza elastico da non pregiudicare nulla della forma dei risultati cui condurrà: esso è la realtà stessa, costretta, calata ne varietur nella cornice della meccanica newtoniana e laplaciana. Si può concepire il determinismo come aperto a inces­ santi correzioni di formulazione delle leggi e dei concetti che esse collegano, oppure come chiuso sul proprio supposto con­ tenuto definitivo. Laplace ha costruito la dottrina del deter­ minismo chiuso. Claude Bernard non lo concepiva altrimen­ ti, e ciò senz’altro perché egli non concepiva che la collaborazione tra patologia e fisiologia potesse condurre a una ret­ tifica progressiva dei concetti fisiologici. Giova qui ricordare un’affermazione di Whitehead: «Le scienze si fanno prestiti reciproci, ma si limitano generalmente a prestarsi cose vec­

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chie di trenta o quaranta anni. Cosi i presupposti della fisica della mia infanzia esercitano oggi un’influenza profonda sul pensiero dei fisiologi»1. Infine, e come conseguenza del postulato determinista, nell’identità essenziale di fisiologico e patologico è implicita la riduzione della qualità alla quantità. Ridurre la differen­ za tra un uomo sano e un diabetico a una differenza quanti­ tativa del tenore di glucosio nell’ambito interno, delegare a una soglia renale, semplicemente concepita come una diffe­ renza quantitativa di livello, il compito di distinguere tra chi è diabetico e chi non lo è, significa obbedire allo spirito del­ le scienze fisiche che non possono spiegare i fenomeni, rife­ rendoli a leggi, se non riducendoli a una misura comune. Per­ ché dei termini entrino in rapporti di composizione e di­ pendenza, bisogna innanzitutto che tra essi si ottenga l’omo­ geneità. Come ha mostrato E. Meyerson, è identificando realtà e quantità che lo spirito umano si è fatto conoscenza. Ma non bisogna dimenticare che la conoscenza scientifica, invalidando qualità che essa fa apparire illusorie, non per questo le annulla. La quantità è qualità negata, non qualità soppressa. La varietà qualitativa delle luci semplici, percepi­ te dall’occhio umano come colori, è ridotta dalla scienza a differenza quantitativa di lunghezze d ’onda, ma è la varietà qualitativa che persiste ancora, sotto forma di differenze di quantità, nel calcolo delle lunghezze d’onda. Hegel sostiene che la quantità, incrementata o diminuita, si trasforma in qualità. Ciò sarebbe del tutto inconcepibile se un rapporto con la qualità non persistesse ancora nella qualità negata che viene chiamata quantità2. Da questo punto di vista, è del tutto illegittimo sostene­ re che lo stato patologico sia, realmente e semplicemente, la variazione in più o in meno dello stato fisiologico. O tale sta­ 1 Nature and Life (Cambridge 1934). Citato da Alexandre Koyré in un rias­ sunto contenuto in Recherches Philosophiques, IV, 1934-35, P- 39^2 E ciò che, del resto, ha perfettamente compreso Hegel: cfr. Scienza della lo­ gica (I, cap. 3).

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to fisiologico è concepito come dotato di una qualità e di un valore per il vivente, e allora è assurdo prolungare questo va­ lore, identico a se stesso nelle sue variazioni, fino a uno sta­ to, detto patologico, il cui valore e la cui qualità marcano, ri­ spetto ai primi, una differenza e in fondo un contrasto. Op­ pure ciò che si intende per stato fisiologico è un semplice riassunto di quantità privo di valore biologico, è un sempli­ ce fatto o sistema di fatti fisici e chimici; ma allora questo stato non possiede alcuna qualità vitale, e non si può dirlo né sano, né normale, né fisiologico. Normale e patologico non hanno alcun senso nella scala in cui l’oggetto biologico viene scomposto in equilibri colloidali e in soluzioni ioniz­ zate. Il fisiologo, studiando uno stato che egli dice fisiologi­ co, lo qualifica in questo modo anche inconsciamente; lo con­ sidera qualificato positivamente dal vivente e per il vivente. Ora tale stato fisiologico qualificato non è, in quanto tale, ciò che si prolunga, identico a se stesso, fino a un altro sta­ to capace a quel punto di assumere, inesplicabilmente, la qua­ lità di morboso. Non intendiamo certo affermare che un’analisi delle con­ dizioni o dei prodotti delle funzioni patologiche non possa fornire al chimico o al fisiologo risultati numerici che posso­ no essere comparati con altri risultati numerici ottenuti in modo costante al termine delle medesime analisi su funzio­ ni corrispondenti dette fisiologiche. Ma contestiamo che i termini più e meno, nel momento in cui entrano nella defi­ nizione del patologico come variazione quantitativa del nor­ male, abbiano un significato puramente quantitativo. Con­ testiamo la coerenza logica del principio di Claude Bernard: «Il disturbo di un meccanismo normale, consistente in una variazione quantitativa, un’esagerazione o un’attenuazione, costituisce lo stato patologico». Come si è fatto notare a pro­ posito delle idee di Broussais, è in rapporto a una norma che si può parlare, nell’ordine delle funzioni e dei bisogni fisio­ logici, di più e di meno. L ’idratazione dei tessuti, per esem­ pio, è un fatto suscettibile di più e di meno, come lo è il te­

Le implicazioni di una teoria

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nore di calcio nel sangue. Tali risultati quantitativamente differenti non avrebbero alcuna qualità, alcun valore, in un laboratorio, se questo laboratorio non avesse alcun rapporto con un ospedale o una clinica, in cui questi risultati assume­ ranno o meno valore di uremia, assumeranno o meno valore di tetano. Poiché la fisiologia si trova nel punto in cui coin­ cidono il laboratorio e la clinica, in essa vengono adottati due punti di vista sui fenomeni biologici, ma questo non vuol di­ re che essi possano essere confusi. Sostituire a un contrasto qualitativo una progressione quantitativa non significa an­ nullare Popposizione. Essa si mantiene sempre sullo sfondo della coscienza che ha scelto di adottare il punto di vista teo­ rico e metrico. Quando dunque si dice che salute e malattia sono legate da tutti gli elementi intermedi, e quando si con­ verte questa continuità in omogeneità, si dimentica che la dif­ ferenza continua a essere evidente agli estremi, senza i quali gli elementi intermedi non potrebbero in nessun modo svol­ gere il proprio ruolo di mediazione; si mescola, inconscia­ mente senza dubbio, ma in modo illegittimo, il calcolo astrat­ to delle identità e la valutazione concreta delle differenze.

Parte seconda Esistono scienze del normale e del patologico?

Capitolo primo Introduzione al problema

È interessante notare che gli psichiatri contemporanei hanno operato nella propria disciplina una rettifica e una messa a punto dei concetti di normale e patologico, da cui non pare che i medici e i fisiologi si siano preoccupati di trar­ re un insegnamento per ciò che li riguarda. Forse la ragione di ciò va ricercata nelle relazioni abitualmente più strette del­ la psichiatria con la filosofia attraverso la mediazione della psicologia. In Francia, come è noto, C. Blondel, D. Lagache e E. Minkowski hanno contribuito a definire Pessenza ge­ nerale del fatto psichico morboso o anormale e i suoi rap­ porti con il normale. Blondel aveva, in La conscience morbi­ de, descritto casi di alienazione in cui i malati apparivano ad un tempo come incomprensibili agli altri e incomprensibili a se stessi, e in cui il medico ha davvero l’impressione di ave­ re a che fare con un’altra struttura mentale; egli ne ricerca­ va la spiegazione nell’impossibilità in cui si trovano questi malati di trasporre nei concetti del linguaggio usuale i dati della loro cinestesi. Per il medico è impossibile comprende­ re l’esperienza vissuta dal malato a partire dai racconti dei malati. Perché ciò che i malati esprimono nei concetti usua­ li non è direttamente la loro esperienza, ma la loro interpre­ tazione di un’esperienza per la quale essi sono sprovvisti di concetti adeguati. Lagache è abbastanza lontano da un tale pessimismo. La sua opinione è che si debba distinguere, nella coscienza anor­ male, tra variazioni di natura e variazioni di grado; in alcu­ ne psicosi, la personalità del malato è eterogenea rispetto al­

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la personalità anteriore, in altre una è il prolungamento del­ l’altra. Con Jaspers, Lagache distingue tra psicosi non com­ prensibili e psicosi comprensibili; in quest’ultimo caso, la psi­ cosi si presenta in rapporto intelligibile con la vita psichica anteriore. La psicopatologia è dunque, se si tralasciano i pro­ blemi posti dal problema generale della comprensione dell’al­ tro, una fonte di documenti utilizzabili in psicologia gene­ rale, una sorgente di luce da proiettare sulla coscienza nor­ male [Lagache 1938, 8-8]. Ma, e qui veniamo al punto, questa posizione è del tutto differente da quella di Ribot che abbiamo sopra citata. Secondo Ribot la malattia, sostituto spontaneo e metodologicamente equivalente della speri­ mentazione, raggiunge l’inaccessibile, ma rispetta la natura degli elementi normali nei quali essa scompone le funzioni psichiche. La malattia disorganizza ma non trasforma, rive­ la senza alterare. Lagache non ammette l’assimilazione del­ la malattia alla sperimentazione. Una sperimentazione esige un’analisi esaustiva delle condizioni di esistenza del feno­ meno e una determinazione rigorosa delle condizioni che vengono fatte variare per osservarne le incidenze. Ora la ma­ lattia mentale non è comparabile alla sperimentazione in nes­ suno di questi punti. Innanzitutto «nulla è peggio conosciu­ to che le condizioni in cui la natura istituisce queste espe­ rienze, le malattie mentali: l’inizio di una psicosi sfugge il più delle volte al medico, al paziente, a chi gli sta intorno; la fisiopatologia, l’anatomopatologia ne sono all’oscuro» [ibid., 8-5]. In secondo luogo «alla base dell’illusione che assimila il metodo patologico in psicologia al metodo sperimentale, sta la rappresentazione atomistica e associazionista della vi­ ta mentale, sta la psicologia delle facoltà» [ibid.]. Dal mo­ mento che non esistono fatti psichici elementari separabili, non è possibile comparare i sintomi patologici con elementi della coscienza normale, perché un sintomo non ha signifi­ cato patologico se non nel proprio contesto clinico, espres­ sione di un disturbo globale. Per esempio, un’allucinazione psicomotoria verbale è conseguenza di un delirio, e un deli­

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rio di un’alterazione della personalità [ibid., 8-7]. Quindi la psicologia generale può utilizzare dati della psicopatologia al­ lo stesso titolo di dignità epistemologica dei fatti osservati nei soggetti normali, ma non senza un espresso adattamen­ to all’originalità del patologico. Contrariamente a Ribot, La­ gache ritiene che la disorganizzazione morbosa non sia l’in­ verso simmetrico dell’organizzazione normale. Si possono dare, nella coscienza patologica, forme prive di equivalente allo stato normale, e di cui tuttavia la psicologia generale si trova arricchita: Anche le strutture più eterogenee, oltre l’interesse intrinseco del loro studio, sono capaci di fornire dati per i problemi posti dalla psi­ cologia generale; inoltre, esse pongono alla psicologia generale pro­ blemi nuovi, e una curiosa particolarità del vocabolario psicopatolo­ gico è quella di includere espressioni negative prive di equivalente nel­ la psicologia normale: come non riconoscere la nuova luce che nozioni come quella di discordanza gettano sulla nostra conoscenza dell’esse­ re umano? [ibid., 8-8].

Eugène Minkowski ritiene inoltre che il fatto dell’alie­ nazione non si lasci ridurre a un fatto di malattia, determi­ nato dal proprio riferimento a un’immagine o idea precisa dell’essere medio o normale. Quando qualifichiamo un altro uomo come alienato, lo facciamo intuitivamente, «in quan­ to uomini e non in quanto specialisti». L ’alienato è «uscito di quadro» non tanto in rapporto agli altri uomini quanto in rapporto alla vita; egli non è tanto deviato, quanto diffe­ rente. E per via dell’anomalia che l’essere umano si distacca dal tutto che formano l’uomo e la vita. E essa che ci rivela - e originariamen­ te, perché in modo particolarmente radicale ed efficace - il senso di una forma d’essere del tutto «singolare». Questa circostanza spiega perché l’«essere malato» non esaurisca affatto il fenomeno dell’alie­ nazione che, imponendosi a noi sotto l’aspetto dell’«essere differen­ temente» nel senso qualitativo del termine, apre immediatamente la via a considerazioni psicopatologiche condotte sotto tale aspetto [Minkowski 1938, p. 77].

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Secondo Minkowski, l’alienazione o anomalia psichica presenta caratteri propri che il concetto di malattia non con­ tiene. Nell’anomalia, innanzitutto, vi è preminenza del ne­ gativo; il male si distacca dalla vita mentre il bene si confon­ de con il dinamismo vitale e trova il proprio senso unica­ mente «in una progressione costante chiamata a oltrepassare ogni formula concettuale relativa a questa pretesa norma» [ibid.y p. 78]. Non stanno allo stesso modo le cose nell’am­ bito somatico ? Non si parla in esso di salute solo perché esi­ stono malattie? Eppure secondo Minkowski l’alienazione mentale è una categoria più immediatamente vitale della ma­ lattia; la malattia somatica è capace di una precisione empi­ rica superiore, di una verifica meglio definita; la malattia so­ matica non rompe l’accordo tra simili, il malato è per noi ciò che è per se stesso, mentre l’anormale psichico non ha co­ scienza del proprio stato. « L ’individuale domina la sfera del­ le deviazioni mentali molto più di quanto non faccia nell’am­ bito somatico» [ibid., p. 79]. Su quest’ultimo punto non possiamo concordare con l’opi­ nione di Minkowski. Siamo, con Leriche, dell’idea che la sa­ lute sia la vita nel silenzio degli organi e che, di conseguenza, il normale biologico non sia rivelato, come già abbiamo avu­ to modo di dire, se non dalle infrazioni alla norma, e che vi sia coscienza concreta o scientifica della vita soltanto trami­ te la malattia. Siamo, con Sigerist, dell’idea che «la malattia isoli» [Sigerist 1932, p. 86], e che anche se «questo isolamento non allontana gli uomini, ma al contrario li avvicina al mala­ to» [ibid.yp. 95], nessun malato perspicace possa ignorare le rinunce e le limitazioni che gli uomini sani si impongono per avvicinarsi a lui. Siamo, con Goldstein, dell’idea che la nor­ ma, in materia di patologia, sia innanzitutto norma indivi­ duale [Goldstein 1934, p. 272]. Siamo, insomma, dell’idea che considerare la vita come potenza dinamica di oltrepassamento, al modo di Minkowski le cui simpatie per la filosofia bergsoniana sono manifeste in opere come La schizophrénie o Le temps vécUy significhi obbligarsi a trattare allo stesso mo­

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do Panomalia somatica e Panomalia psichica. Quando Ey, in accordo con le vedute di Minkowski, dichiara: «Il normale non è una media relativa a un concetto sociale, non è un giu­ dizio di realtà, è un giudizio di valore, è una nozione limite che definisce il massimo di capacità psichica di un essere. Non si dà limite superiore della normalità» [Minkowski 1938, p. 93], è a nostro avviso sufficiente sostituire «psichico» con «fisico» per ottenere una definizione abbastanza corretta di quel concetto di normale che la fisiologia e la medicina delle malattie organiche utilizzano ogni giorno senza curarsi a suf­ ficienza di precisarne il senso. Questa noncuranza, del resto, ha le sue valide ragioni, so­ prattutto per quanto riguarda il clinico. In fin dei conti so­ no i malati a giudicare il più delle volte, e da punti di vista molto diversi, se non sono più normali o se sono ridivenuti tali. Ridivenire normale, per un uomo il cui avvenire è qua­ si sempre immaginato a partire dalPesperienza passata, si­ gnifica riprendere un’attività interrotta, o quanto meno un’attività giudicata equivalente secondo i gusti individuali o i valori sociali del proprio ambiente. Anche se quest’atti­ vità è ridotta, anche se i comportamenti possibili sono me­ no vari, meno flessibili di quanto non fossero in preceden­ za, non sempre l’individuo guarda troppo per il sottile. L ’es­ senziale è essere risalito da un precipizio di impotenza o di sofferenza in cui il malato per poco non c'è restato; l’essen­ ziale è averla scampata bella. Prendiamo l’esempio di un gio­ vane, esaminato di recente, che era caduto su una sega cir­ colare in movimento, e il cui braccio era stato sezionato tra­ sversalmente per tre quarti, pur essendo rimasto indenne il fascio vascolo-nervoso interno. Un intervento rapido e in­ telligente aveva permesso la conservazione del braccio. Il braccio presenta un’atrofia di tutti i muscoli, avambraccio compreso. L ’intero arto è freddo, la mano cianotica. Il grup­ po dei muscoli estensori presenta all’esame elettrico una rea­ zione di netta degenerazione. I movimenti di flessione, di estensione, di supinazione dell’avambraccio sono limitati

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(flessione limitata a 450, estensione a 170° circa), la prona­ zione è quasi normale. Il malato è felice di sapere che recu­ pererà un’ampia possibilità di uso del proprio arto. E certo che, rispetto all’altro braccio, il braccio leso e restaurato chi­ rurgicamente non sarà normale dal punto di vista trofico e funzionale. Ma alla fin fìtte l’uomo riprenderà il proprio me­ stiere, che egli aveva scelto o che le circostanze gli avevano proposto se non imposto, nel quale in ogni caso egli colloca­ va una ragione, anche mediocre, di vita. Anche se quest’uo­ mo ottiene ormai risultati tecnici equivalenti mediante pro­ cessi differenti di uso complesso dell’arto, egli continuerà a essere socialmente considerato secondo le norme di un tem­ po, sarà sempre carradore o autista e non vecchio carradore o vecchio autista. Il malato perde di vista il fatto che, per via della sua lesione, gli verrà ormai a mancare un largo margi­ ne di adattamento e di improvvisazione neuromuscolari, va­ le a dire la capacità, di cui forse egli non aveva mai fatto uso ma solo per mancanza di occasioni, di migliorare il proprio rendimento e di oltrepassarsi. Il malato ritiene di non esse­ re manifestamente invalido. Tale nozione di invalidità meri­ terebbe uno studio da parte di un perito medico che non ve­ desse nell’organismo soltanto una macchina il cui rendimento deve essere determinato numericamente, di un perito abba­ stanza psicologo per considerare le lesioni come perdite piut­ tosto che come percentuali1. Ma i periti non si occupano di psicologia, in generale, se non per eludere le psicosi di ri­ vendicazione nei soggetti che vengono loro presentati, e per parlare di pitiatismo. Ad ogni modo, il medico clinico si ac­ contenta spesso di accordarsi con i propri pazienti per defi­ nire, secondo le loro norme individuali, il normale e l’anor­ male, a meno che, beninteso, essi non ignorino grossolana­ mente le condizioni base anatomo-fisiologiche della vita vegetativa o animale. Ricordiamo d’aver visto, durante un

1 Queste questioni sono state studiate in seguito da Laet e Lobet, Etude de la valeur des gestes professionnels, Bruxelles 1949, e da A. Geerts, Vindemnisation des lésions corporelles à travers les âges, Paris 1962 [nota del 1972].

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turno in chirurgia, un uomo semplice, garzone di fattoria, cui una ruota di carro aveva fratturato entrambe le tibie; il suo padrone non l’aveva fatto curare, per paura di non si sa quali responsabilità, e le tibie si erano saldate da sole ad an­ golo ottuso. L ’uomo era stato mandato in ospedale su de­ nuncia dei vicini. Fu necessario fratturargli nuovamente le tibie e ingessarle correttamente. E chiaro che il primario che prese questa decisione aveva della gamba umana un’idea dif­ ferente da quella del pover’uomo e del suo padrone. E chia­ ro altresì che egli adottava una norma che non avrebbe sod­ disfatto né un Jean Bouin, né un Serge Lifar. Jaspers ha visto bene quali sono le difficoltà di questa de­ terminazione medica del normale e della salute: E il medico colui che meno ricerca il senso delle parole «salute e malattia». Dal punto di vista scientifico, egli si occupa dei fenomeni vitali. E la considerazione dei pazienti e delle idee dominanti l’am­ biente sociale che, più del giudizio dei medici, determina ciò che si chiama «malattia» [Jaspers 1933, p. 5].

Ciò che di comune si individua nei diversi significati at­ tribuiti oggi o in altri tempi al concetto di malattia è il fatto di essere un giudizio di valore virtuale. «Malato è un con­ cetto generale di non-valore che comprende tutti i valori ne­ gativi possibili» [ibid.y p. 9]. Essere malato significa essere nocivo, o indesiderabile, o socialmente svalutato, ecc. All’in­ verso, ciò che si desidera nella salute è evidente dal punto di vista fisiologico, e questo conferisce al concetto di malattia fisica un senso relativamente stabile. A essere desiderati co­ me valori sono «la vita, una vita lunga, la capacità di ripro­ duzione, la capacità di lavoro fisico, la forza, la resistenza al­ la fatica, l’assenza di dolore, uno stato in cui si percepisca il corpo il meno possibile al di fuori di un gioioso sentimento di esistenza» [ibid.yp. 6]. Tuttavia la scienza medica non con­ siste nello speculare su questi concetti volgari per ottenere un concetto generale di malattia: il suo compito proprio è di determinare quali siano i fenomeni vitali in occasione dei

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quali gli uomini si dicono malati, quali ne siano le origini, le leggi di evoluzione, le azioni che li modificano. Il concetto generale di valore si è specificato in una moltitudine di con­ cetti di esistenza. Eppure, malgrado l'apparente scomparsa del giudizio di valore in questi concetti empirici, il medico continua a parlare di malattie, giacché l'attività medica, nell'interrogatorio clinico e nella terapeutica, si pone in rap­ porto con il malato e con i suoi giudizi di valore [ibid]. E dunque perfettamente comprensibile che i medici si di­ sinteressino di un concetto che pare loro o troppo volgare o troppo metafisico. Ciò che li interessa è diagnosticare e gua­ rire. Guarire significa in linea di principio ricondurre alla nor­ ma una funzione o un organismo che se ne sono allontanati. La norma, il medico la mutua solitamente dalla propria co­ noscenza della fisiologia, intesa come scienza dell'uomo nor­ male, alla propria esperienza diretta delle funzioni organiche, alla rappresentazione comune della norma in un ambiente so­ ciale e in un dato momento. Tra le tre autorità, quella che pre­ vale è di gran lunga la fisiologia. La fisiologia moderna si pre­ senta come una raccolta canonica di costanti funzionali in rap­ porto con funzioni di regolazione ormonali e nervose. Tali costanti sono qualificate come normali in quanto designano dei caratteri medi e i più frequenti tra i casi osservabili prati­ camente. Ma esse sono qualificate come normali anche per­ ché entrano a titolo di ideale in quella che è l'attività tera­ peutica. Le costanti fisiologiche sono dunque normali nel sen­ so statistico, che è un senso descrittivo, e nel senso terapeutico che è un senso normativo. Ma si tratta di sapere se sia la me­ dicina che converte - e come ? - in ideali biologici dei con­ cetti descrittivi e puramente teorici, oppure se la medicina, ricevendo dalla fisiologia la nozione dei fatti e dei coefficien­ ti funzionali costanti, non ne riceva anche, probabilmente all'insaputa dei fisiologi, la nozione di norma nel senso nor­ mativo del termine. E si tratta di sapere se, facendo ciò, la medicina non tragga dalla fisiologia ciò che essa stessa le ha dato. Questo è il difficile problema che va esaminato ora.

Capitolo secondo Esame critico di alcuni concetti: del normale, dell’ano­ malia e della malattia, del normale e dello sperimentale

Il Dictionnaire de médecine di Littré e Robin definisce il normale come segue: normale (;normalis, da norma, regola): ciò che è conforme alla regola, regolare. La brevità di questa voce in un dizionario medico non ci deve sorprendere, dopo le osservazioni che abbiamo appena condotto. Il Vocabulaire technique et critique de la philosophie è più esplicito: è norma­ le, etimologicamente, poiché norma designa la squadra, ciò che non pende né a destra né a sinistra, dunque ciò che si mantiene entro un giusto mezzo; da cui i suoi significati de­ rivati: è normale ciò che è come deve essere: è normale, nel senso più usuale del termine, ciò che si incontra nella mag­ gior parte dei casi di una determinata specie o ciò che costi­ tuisce tanto la media quanto il modulo di un carattere misu­ rabile. Nella discussione di questo significato, si è fatto no­ tare quanto questo termine sia equivoco, giacché designa a un tempo un fatto e «un valore attribuito a questo fatto da colui che parla, in virtù di un giudizio di valore che egli fa proprio». Si sottolinea anche come questo equivoco sia faci­ litato dalla tradizione filosofica realista secondo cui - essen­ do ogni generalità segno di un’essenza e ogni perfezione rea­ lizzazione dell’essenza - una generalità osservabile di fatto assume valore di perfezione realizzata, un carattere comune assume valore di tipo ideale. Si sottolinea infine una confu­ sione analoga in medicina, dove lo stato normale designa a un tempo lo stato abituale degli organi e il loro stato ideale, poi­ ché il ristabilimento di questo stato abituale è l’oggetto ordi­ nario della terapeutica [Lalande 1938].

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Ci pare che quest’ultima osservazione non venga svilup­ pata come meriterebbe, e che in particolare, nell’articolo ci­ tato, non si approfondisca a sufficienza l’equivocità del ter­ mine normale, di cui ci si accontenta di segnalare l’esisten­ za, invece di vedere in essa un problema da chiarire. E esat­ to che in medicina lo stato normale del corpo umano sia lo stato che si spera di ristabilire. Ma è perché ad esso la tera­ peutica mira come al buon fine da raggiungere, che si deve dirlo normale, oppure è perché esso viene considerato nor­ male dall’interessato, vale a dire dal malato, che la terapeu­ tica ne fa il proprio obiettivo ? Crediamo che la relazione ve­ ra sia la seconda. Riteniamo che la medicina esista come ar­ te della vita perché lo stesso vivente umano qualifica come patologici, quindi come da evitare o da correggere, certi sta­ ti o comportamenti assunti, relativamente alla polarità di­ namica della vita, sotto forma di valore negativo. Riteniamo che in questo il vivente umano prolunghi, in modo più o me­ no lucido, uno sforzo spontaneo proprio della vita a lottare contro ciò che costituisce un ostacolo al suo mantenimento e al suo sviluppo intesi come norme. L ’articolo del Vocabu­ laire philosophique sembra supporre che il valore non possa essere attribuito a un fatto biologico se non da «colui che parla», vale a dire evidentemente un uomo. Al contrario, noi pensiamo che, per un vivente, il fatto di reagire con una ma­ lattia a una lesione, a un’infezione, a un’anarchia funziona­ le, esprima il fatto fondamentale che la vita non è indiffe­ rente alle condizioni nelle quali essa è possibile, che la vita è polarità e proprio per questo istituzione inconscia di valo­ re; in breve, che la vita è di fatto un’attività normativa. Per normativo si intende in filosofia ogni giudizio che consideri o qualifichi un fatto in relazione a una norma, ma questo tipo di giudizio è in fondo subordinato a quello che istituisce del­ le norme. E normativo, in senso stretto, ciò che istituisce delle norme. Ed è in questo senso che noi proponiamo di par­ lare di una normatività biologica. Riteniamo di essere attenti quanto chiunque altro di fronte al rischio di cadere nell’an-

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tropomorfismo. Non attribuiamo contenuto umano alle nor­ me vitali, ma ci domandiamo come la normatività essenzia­ le alla vita umana si svilupperebbe se non fosse in qualche modo contenuta in germe nella vita umana. Ci domandiamo come un bisogno umano di terapeutica avrebbe generato una medicina sempre più in grado di chiarire le condizioni della malattia, se la lotta della vita contro gli innumerevoli peri­ coli che la minacciano non fosse un bisogno vitale perma­ nente ed essenziale. Dal punto di vista sociologico, è possi­ bile mostrare che la terapeutica è stata prima di tutto atti­ vità religiosa e magica, il che però non implica affatto che il bisogno terapeutico non sia un bisogno vitale, un bisogno che suscita, anche in viventi ben inferiori in organizzazione ai vertebrati, reazioni di valore edonico o comportamenti di autoguarigione e autoriparazione. La polarità dinamica della vita e la normatività che la espri­ me spiegano un fatto epistemologico di cui Bichat aveva in­ tuito tutto l’importante significato. Esiste una patologia bio­ logica, ma non una patologia fisica o chimica o meccanica: Vi sono due cose nei fenomeni della vita: 1) lo stato di salute; 2) quello di malattia: di qui due scienze distinte, la fisiologia che si occu­ pa dei fenomeni del primo stato, la patologia che ha per oggetto quelli del secondo. La storia dei fenomeni nei quali le forze vitali trovano il loro tipo naturale ci conduce, come conseguenza, a quella dei fenome­ ni dove queste forze sono alterate. Ora nelle scienze fisiche non vi è che la prima storia; la seconda non vi si trova mai. La fisiologia sta al movimento dei corpi viventi come l’astronomia, la dinamica, l’idrauli­ ca, l’idrostatica, ecc. stanno a quelli dei corpi inerti: ora, questi ultimi non hanno alcuna scienza che corrisponda loro come la patologia corri­ sponde alla prima. Per questo ogni idea di medicamento è impensabile nelle scienze fisiche. Un medicamento si pone come scopo di ricondur­ re le proprietà al loro tipo naturale: ora, dato che le proprietà fisiche non perdono mai tale tipo, esse non hanno bisogno di esservi ricon­ dotte. Non vi è nulla, nelle scienze fisiche, che corrisponda a ciò che la terapeutica rappresenta nelle fisiologiche [Bichat 1821, I, pp. 20-21].

È chiaro che, in questo brano, tipo naturale va inteso nel senso di tipo normale. Il naturale non è, per Bichat, l’effet-

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to di un determinismo, bensì il termine di una finalità. E sap­ piamo bene quanto si possa rimproverare a un tale testo dal punto di vista di una biologia meccanicista o materialista. Si dirà che un tempo Aristotele ha creduto a una meccanica pa­ tologica perché ammetteva due tipi di moti: i moti naturali, attraverso i quali un corpo riguadagna il proprio luogo natu­ rale, dove si dispone in quiete: così la pietra si muove in bas­ so verso la terra e il fuoco in alto verso il cielo; - e i moti vio­ lenti, attraverso i quali un corpo viene strappato al proprio luogo naturale, come accade quando si getta in aria una pie­ tra. Si dirà che il progresso della conoscenza fisica è consi­ stito, con Galileo e Cartesio, nel considerare tutti i moti co­ me naturali, ossia conformi alle leggi di natura, e che allo stesso modo il progresso della conoscenza biologica consiste nelTunificare le leggi della vita naturale e della vita patolo­ gica. E precisamente questa l'unificazione che sognava Com­ te e che Claude Bernard ha creduto di compiere, come si è visto sopra. Alle riserve che allora abbiamo ritenuto di do­ ver avanzare, aggiungiamo la seguente. La meccanica mo­ derna, fondando la scienza del movimento sul principio d'inerzia, rendeva di fatto assurda la distinzione tra moti naturali e moti violenti, dal momento che l'inerzia era pre­ cisamente l'indifferenza nei confronti delle direzioni e del­ le variazioni di moto. Ora, la vita è ben lontana da una tale indifferenza nei confronti delle condizioni che le sono pra­ ticate: la vita è polarità. Il più semplice sistema biologico di nutrizione, assimilazione ed escrezione esprime una polarità. Quando i residui dell'assimilazione non sono più escreti da un organismo e ostruiscono o intossicano l'ambiente inter­ no, tutto ciò è in effetti conforme alla legge (fisica, chimica ecc.), eppure nulla è conforme a quella norma che è l'attività dell'organismo stesso. Quando parliamo di normatività bio­ logica, vogliamo intendere questo semplice fatto. Vi sono spiriti che l'orrore per il finalismo conduce a ri­ gettare persino la nozione darwiniana di selezione effettua­ ta attraverso l'ambiente e la lotta per l'esistenza, a un tem­

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po per via del termine selezione, di evidente derivazione umana e tecnologica, e per via della nozione di vantaggio che interviene nella spiegazione del meccanismo della selezione naturale. Costoro fanno notare che la maggior parte dei vi­ venti viene uccisa dall’ambiente molto tempo prima che le disuguaglianze che essi possono presentare siano in grado di essere loro utili, dal momento che a morire sono soprattut­ to germi, embrioni o individui giovani. Ma, come fa notare Teissier, il fatto che molti esseri muoiano prima che le dise­ guaglianze siano loro utili, non implica che il presentare del­ le disuguaglianze sia biologicamente indifferente [1938]. Ed è proprio questo l’unico fatto che noi chiediamo ci sia con­ cesso. Non esiste indifferenza biologica. Per questo si può parlare di normatività biologica. Vi sono norme biologiche sane e norme patologiche, e le seconde non sono della stes­ sa qualità delle prime. Non è un caso che si sia fatto riferimento alla teoria del­ la selezione naturale. Vogliamo far notare che l’espressione «selezione naturale» è analoga all’antica espressione vis medicatrix naturae. Selezione e medicina sono tecniche biologi­ che esercitate intenzionalmente e più o meno razionalmen­ te dall’uomo. Quando si parla di selezione naturale o di at­ tività medica della natura, si cade vittima di ciò che Bergson chiama illusione di retroattività: si immagina che l’attività vitale preumana persegua fini e utilizzi mezzi comparabili a quelli umani. Ma altro è pensare che la selezione naturale faccia uso di qualcosa che assomiglia a dei pedigree e la vis medicatrix qualcosa che assomiglia a delle ventose; altro è pensare che la tecnica umana prolunghi impulsi vitali al ser­ vizio dei quali essa tenta di mettere una conoscenza siste­ matica che li libererebbe dei molti e dispendiosi tentativi ed errori della vita. Le espressioni «selezione naturale» e «attività medica na­ turale» hanno l’inconveniente di sembrar iscrivere le tecni­ che vitali nel quadro delle tecniche umane, mentre ciò che pare vero è il contrario. Ogni tecnica umana, ivi compresa

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quella della vita, è iscritta nella vita, vale a dire in una atti­ vità di informazione e di assimilazione della materia. Non è perché la tecnica umana è normativa che la tecnica vitale è giudicata tale per empatia. E perché la vita è attività di infor­ mazione e assimilazione che essa è la radice di ogni attività tecnica. In breve: è si retroattivamente, e in un certo senso a torto, che si parla di una medicina naturale; ma, supposto che non si abbia il diritto di parlarne, ciò non elimina il di­ ritto di pensare che nessun vivente avrebbe sviluppato una tecnica medica se la vita fosse stata in lui, come in ogni al­ tro essere vivente, indifferente alle condizioni che essa in­ contra, se essa non fosse stata reattività polarizzata alle va­ riazioni dell’ambiente nel quale si dispiega. E ciò che ha vi­ sto bene Guyénot: E un fatto che l’organismo goda di un insieme di proprietà che appartengono soltanto a lui, grazie alle quali resiste a diversi fattori di distruzione. Senza tali reazioni difensive, la vita si estinguerebbe rapidamente... L’essere vivente può trovare istantaneamente la rea­ zione utile di fronte a sostanze con le quali né lui né la sua razza so­ no mai entrati in contatto. L’organismo è un chimico impareggiabile. E il primo dei medici. Quasi sempre, le fluttuazioni dell’ambiente so­ no una minaccia per l’esistenza. L’essere vivente non potrebbe sussi­ stere se non possedesse certe proprietà essenziali. Ogni lesione sarebbe mortale se i tessuti non fossero capaci di cicatrizzazione e il sangue di coagulazione [1938, p. 186].

Riassumendo, riteniamo che sia assai istruttivo meditare sul significato che il termine normale assume in medicina, e che l’equivocità del concetto, evidenziata da Lalande, ne ri­ ceva grande luce, di portata senz’altro generale per quanto riguarda il problema del normale. E la vita stessa, e non il giu­ dizio medico, che fa del normale biologico un concetto di va­ lore e non un concetto di realtà statistica. La vita, per il me­ dico, non è un oggetto, bensì una realtà polarizzata di cui la medicina prolunga, portando su di essa la luce relativa ma in­ dispensabile della scienza umana, lo sforzo spontaneo di di­ fesa e di lotta contro tutto ciò che è di valore negativo.

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Il Vocabulaire philosophique di Lalande contiene un’im­ portante osservazione sui termini «anomalia» e «anormale». «Anomalia» è un sostantivo al quale, attualmente, non cor­ risponde alcun aggettivo, mentre «anormale» è un aggetti­ vo senza sostantivo; in tal modo, l’uso li ha accoppiati, fa­ cendo di «anormale» l’aggettivo di «anomalia». E vero in­ fatti che «anomalo», di cui Isidore Geoffroy Saint-Hilaire faceva ancora uso nel 1836 nella sua Histoire des anomalies de l’organisation, e che figura anche nel Dictionnaire de mé­ decine di Littré e Robin, è caduto in disuso1. Il Vocabulaire di Lalande spiega che una confusione etimologica ha favori­ to questo accostamento di «anomalia» e «anormale». «Ano­ malia» deriva dal greco anomalia che significa disuguaglian­ za, asperità; omalos designa in greco ciò che è unito, uguale, liscio, cosicché anomalia, etimologicamente, è an-omalos, ciò che è disuguale, accidentato, irregolare nel senso che a que­ sti termini si attribuisce parlando di un terreno2. Ora, ci si è spesso ingannati sull’etimologia del termine «anomalia» fa­ cendolo derivare non già da omalos, ma da nomos che signi­ fica legge, secondo la composizione a-nomos. Questo errore di etimologia si trova, per la precisione, nel Dictionnaire de médecine di Littré e Robin. Ora, il nomos greco e la norma latina hanno significati vicini, legge e norma tendono a confondersi. Cosi, a rigore semantico, «anomalia» designa un fatto, è un termine descrittivo, mentre «anormale» im­ plica il riferimento a un valore, è un termine valutativo, nor­ mativo. Ma lo scambio di buoni procedimenti grammaticali ha causato una coincidenza dei significati rispettivi di «ano­ malia» e di «anormale». «Anormale» è divenuto un concet­ to descrittivo, «anomalia» un concetto normativo. Geoffroy Saint-Hilaire, che cade nell’errore etimologico ripreso poi da Littré e Robin, si sforza di conservare al termine «anomalia» 1 Tutto ciò vale, naturalmente, per la lingua francese [N A T .]. 2 A. Juret, 'Dictionnaire éthymologique grec et latin (1942), propone la medesi­ ma etimologia per il termine anomalia.

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il suo senso puramente descrittivo e teorico. L'anomalia è un fatto biologico e come tale deve essere trattata, il che signi­ fica che la scienza naturale deve spiegarla e non giudicarla: Il termine anomalia, di poco differente dal termine irregolarità, non deve mai essere inteso nel senso che andrebbe dedotto letteral­ mente dalla sua composizione etimologica. Non esistono formazioni organiche che non siano sottoposte a leggi; e il termine disordine, in­ teso nel suo vero significato, non potrebbe essere applicato a nessuna delle produzioni della natura. Anomalia è un termine introdotto di re­ cente nel linguaggio anatomico, e il cui uso in tale disciplina è anche poco frequente. Gli zoologi, dai quali esso è stato preso a prestito, se ne servono al contrario molto spesso; lo applicano a un gran numero di animali che, per la loro organizzazione e i loro caratteri insoliti, si trovano per cosi dire isolati nella serie e hanno, con gli altri generi del­ la medesima classe, soltanto rapporti di parentela molto lontani [Geof­ froy Saint-Hilaire 1832, I, pp. 96, 37].

Ora, è improprio parlare secondo Geoffroy Saint-Hilai­ re, a proposito di simili animali, sia di bizzarrie della natu­ ra, sia di disordine, sia di irregolarità. Se irregolarità vi so­ no, esse sono tali rispetto alle leggi dei naturalisti, non alle leggi della natura, giacché in natura tutte le specie sono ciò che devono essere, dal momento che presentano ugualmente la varietà nell'unità e l'unità nella varietà [ibid., p. 37]. In anatomia, il termine anomalia deve dunque conservare stret­ tamente il suo significato di insolito, di inconsueto; essere anomalo significa allontanarsi con la propria organizzazione dalla maggioranza degli esseri ai quali si deve essere compa­ rati [ibid.]. Dovendo definire l'anomalia in generale dal punto di vi­ sta morfologico, Geoffroy Saint-Hilaire la pone immediata­ mente in rapporto con due fatti biologici: il tipo specifico e la variazione individuale. Da un lato tutte le specie viventi of­ frono alla considerazione una moltitudine di variazioni nel­ la forma e nel volume proporzionale degli organi; dall’altro, esiste un insieme di tratti «comuni alla maggior parte degli individui che compongono una specie», e questo insieme de­ finisce il tipo specifico. «Ogni deviazione dal tipo specifico

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o, in altri termini, ogni particolarità organica presentata da individuo comparato alla maggior parte degli individui ap­ partenenti alla sua specie, alla sua età, al suo sesso, costitui­ sce ciò che si può definire un’Anomalia» [ibid., p. 30]. E chia­ ro che, definita in tal modo, l’anomalia generalmente intesa è un concetto puramente empirico o descrittivo, è uno scar­ to statistico. A questo punto si pone il problema di sapere se si deb­ bano considerare equivalenti i concetti di anomalia e di mo­ struosità. Geoffroy Saint-Hilaire li considera distinti: la mo­ struosità è una specie del genere anomalia. Di qui la divisio­ ne delle anomalie in Varietà, Vizi di conformazione, Eterotassie e Mostruosità. Le Varietà sono anomalie semplici, leg­ gere, che non pongono ostacoli all’espletamento di alcuna funzione e non producono difformità; esempio, un muscolo in sovrannumero, un’arteria renale sdoppiata. I Vizi di confor­ mazione sono anomalie semplici, scarsamente gravi sotto il profilo anatomico, che rendono impossibile l’espletamento di una o più funzioni o che producono una difformità; per esem­ pio, l’imperfezione dell’ano, l’ipospadia, il labbro leporino. Le Eterotassie, termine creato da Geoffroy Saint-Ilaire, so­ no anomalie complesse, in apparenza gravi sotto il profilo anatomico, ma che non pongono ostacolo ad alcuna funzio­ ne e non appaiono esternamente; l’esempio più evidente, benché raro, è, secondo Geoffroy Saint-Hilaire, la trasposi­ zione completa delle viscere o situs inversus. E noto che la de­ strocardia, benché rara, non è un mito. Infine le Mostruosità sono anomalie molto complesse e molto gravi, che rendono impossibile o difficile l’espletamento di una o più funzioni, o che producono negli individui che ne sono affetti una conformazione difettosa, molto differente da quella che la lo­ ro specie ordinariamente presenta; per esempio, l’ectromelia o il ciclopismo [ibid., pp. 33, 39-49]. L ’interesse di una tale classificazione è che essa utilizza due principi differenti di discriminazione e di gerarchia: le anomalie sono ordinate secondo la loro crescente comples­

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sità e secondo la loro crescente gravità. La relazione sempli­ cità-complessità è puramente oggettiva. Va da sé che una co­ sta cervicale è un’anomalia più semplice deirectromelia o dell’ermafroditismo. La relazione leggerezza-gravità presen­ ta un carattere logico meno netto. Senza dubbio la gravità delle anomalie è un fatto anatomico, e il criterio della gra­ vità nell’anomalia è l’importanza dell’organo rispetto alle sue connessioni fisiologiche o anatomiche [ibid., p. 49]. Ora, l’importanza è una nozione oggettiva per il naturalista, ma è in fondo soggettiva nel senso che essa comporta un riferi­ mento alla vita dell’essere vivente, considerato come atto a qualificare la vita stessa secondo ciò che la favorisce o la osta­ cola. Tant’è vero che ai due primi principi della propria clas­ sificazione (complessità, gravità), Geoffroy Saint-Hilaire ne aggiunge un terzo propriamente fisiologico, ossia il rappor­ to dell’anatomia con l’esercizio delle funzioni (ostacolo), e un quarto genuinamente psicologico, quando introduce la nozione di influenza nociva o dannosa sull’esercizio delle fun­ zioni [ibid., pp. 38, 39, 41, 49]. Se qualcuno fosse tentato di attribuire a quest’ultimo principio soltanto un ruolo subor­ dinato, replicheremmo che il caso delle eterotassie ne fa al contrario scaturire ad un tempo il senso preciso e il conside­ revole valore biologico. Geoffroy Saint-Hilaire ha creato questo termine per designare modificazioni nell’organizza­ zione interna, vale a dire nei rapporti tra gli organi, senza modificazione delle funzioni e senza apparenza esteriore. Questi casi sono stati fino ad allora poco studiati e costitui­ scono una lacuna nel linguaggio anatomico. Ma non bisogna stupirsene, benché si faccia fatica a concepire la possibilità di un’anomalia complessa che non soltanto non inibisca al­ cuna funzione, ma che non produca neppure la benché mi­ nima difformità. «Un individuo affetto da eterotassia può dunque godere di una solida salute; può vivere molto a lun­ go; e spesso solo dopo la sua morte ci si accorge della pre­ senza di un’anomalia che egli stesso aveva ignorato» [ibid., pp. 45, 46]. Il che conferma che l’anomalia è ignorata nella

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misura in cui essa è priva di espressione nell’ordine dei va­ lori vitali. Cosi, per ammissione stessa di un medico, l’ano­ malia viene conosciuta dalla scienza soltanto se prima essa è stata avvertita nella coscienza, sotto forma di ostacolo all’esercizio di una funzione, sotto forma di disturbo o di nocività. Ma il sentimento dell’ostacolo, del disturbo o della nocività è un sentimento che si deve dire normativo, poiché esso comporta il riferimento, anche inconscio, di una fun­ zione e di un impulso alla pienezza del loro esercizio. Insomma, perché si possa parlare di anomalia nel linguaggio medico, bisogna che un essere sia apparso a se stesso o ad al­ tri anormale nel linguaggio, anche inespresso, del vivente. Finché l’anomalia non ha alcuna incidenza funzionale pro­ vata dall’individuo e per l’individuo, se si tratta di un uomo, o riferita alla polarità dinamica della vita in ogni altro esse­ re vivente, essa o è ignorata (è il caso dell’eterotassia), op­ pure è una varietà indifferente, una variazione su un tema specifico, è un’irregolarità nello stesso senso in cui vi sono irregolarità irrilevanti di oggetti colati nel medesimo stam­ po. Essa può costituire l’oggetto di un capitolo a sé stante della storia naturale, ma non della patologia. Se al contrario si ammette che la storia delle anomalie e la teratologia sono, all’interno delle scienze biologiche, un capitolo irrinunciabile, che riflette l’originalità di tali scien­ ze - giacché non esiste una scienza speciale delle anomalie fisiche o chimiche - allora un nuovo punto di vista può fare la propria comparsa in biologia per ritagliarsi in essa un nuo­ vo ambito. Questo punto di vista è quello della normatività vitale. Vivere significa, anche per un’ameba, preferire ed escludere. Un tubo digerente, degli organi sessuali sono nor­ me del comportamento di un organismo. Il linguaggio psica­ nalitico è estremamente appropriato nel definire poli gli ori­ fizi naturali dell’ingestione e dell’escrezione. Una funzione non funziona indifferentemente, e questo in diversi sensi. Un bisogno colloca in relazione a un’attrazione e a una re­ pulsione gli oggetti di soddisfazione che gli si presentano. Vi

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è una polarità dinamica della vita. Finché le variazioni morfo­ logiche o funzionali del tipo specifico non contrastano o non invertono questa polarità, Panomalia è un fatto tollerato; in caso contrario, Panomalia è percepita come recante in sé un valore vitale negativo e si traduce esteriormente come tale. E perché vi sono anomalie vissute o manifestate come un ma­ le organico che esiste un interesse dapprima affettivo, poi teorico, nei loro confronti. E perché Panomalia è divenuta patologica che è nato lo studio scientifico delle anomalie. Dal proprio punto di vista oggettivo, il medico vuole vedere nell’anomalia soltanto lo scarto statistico, dimenticando che l’interesse scientifico del biologo è stato suscitato dallo scar­ to normativo. In breve, non tutte le anomalie sono patolo­ giche, ma soltanto l’esistenza di anomalie patologiche ha su­ scitato una scienza speciale delle anomalie che tende nor­ malmente, per il fatto di essere scienza, a bandire dalla de­ finizione di anomalia ogni implicazione di nozioni normati­ ve. Non è agli scarti statistici, nel senso di semplici varietà, che si pensa quando si parla di anomalie, bensì alle diffor­ mità nocive o addirittura incompatibili con la vita; e ad es­ se si pensa riferendosi alla forma vivente o al comportamen­ to del vivente non come a un fatto statistico, ma come a un tipo normativo di vita.

L ’anomalia è l’elemento di variazione individuale che im­ pedisce a due esseri di potersi sostituire l’uno all’altro in mo­ do completo. Essa illustra nell’ordine biologico il principio leibniziano degli indiscernibili. Ma diversità non significa malattia. L ’anomalo non è il patologico. Patologico implica pathos, sentimento diretto e concreto di sofferenza e di im­ potenza, sentimento di vita impedita. Ma il patologico è l’anormale. Rabaud distingue anormale e malato, perché egli considera «anormale», secondo il recente e non corretto uso, l’aggettivo di «anomalia», e in questo senso parla di anor­ mali malati [Rabaud 1927, p. 481]; ma siccome altrove egli

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distingue molto nettamente, secondo il criterio dato dal­ l'adattamento e dalla vitalità, la malattia dall'anomalia [ibid., p. 477], non vediamo ragione alcuna di modificare le nostre distinzioni di vocaboli e di significati. Vi è senza dubbio un modo di considerare il patologico come normale, definendo il normale e l'anormale attraverso la frequenza statistica relativa. In un certo senso si dirà che una salute continuamente perfetta è un fatto anormale. Ma è perché il termine salute ha due differenti sensi. La salute, considerata assolutamente, è un concetto normativo che de­ finisce un tipo ideale di struttura e di comportamento orga­ nici; in questo senso è pleonastico parlare di buona salute, perché la salute è il bene organico. La salute qualificata è un concetto descrittivo, che definisce una certa disposizione e reazione di un organismo individuale nei confronti di possi­ bili malattie. I due concetti, descrittivo qualificato e nor­ mativo assoluto, sono cosi ben distinti che persino la gente comune dirà che il vicino ha una cattiva salute o che egli non ha la salute, considerando come equivalenti la presenza di un fatto e l'assenza di un valore. Quando si dice che una salute continuamente perfetta è anormale, si esprime in altri ter­ mini la circostanza che l'esperienza del vivente include di fatto la malattia. Anormale significa precisamente inesi­ stente, inosservabile. Dunque, è soltanto un altro modo di dire che la salute continua è una norma, e che una norma non esiste. In questo senso abusivo, è evidente che il patologico non è anormale. E tanto poco lo è, che si può parlare di fun­ zioni normali di difesa organica e di lotta contro la malattia. Leriche afferma - lo abbiamo visto - che il dolore non è com­ preso nel piano della natura, ma si può dire che la malattia è prevista dall'organismo [Sendrail 1943]. A proposito degli anticorpi, che sono una reazione difensiva contro un'inocu­ lazione patologica, Jules Bordet ritiene che si possa parlare di anticorpi normali, che esisterebbero nel siero normale, in grado di agire su un certo microbo, su un certo antigene, e le cui molteplici specificità contribuirebbero ad assicurare la

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costanza delle caratteristiche chimiche dell’organismo, eli­ minando ciò che a esse non è conforme [Bordet 1936, 1614]. Ma il fatto che la malattia sia prevista non significa che essa non lo sia come stato contro cui è necessario lottare per continuare a vivere, cioè come stato anormale rispetto alla vita, che svolge in questo caso il ruolo di norma. Se dunque intendiamo il termine normale nel suo autentico senso, dob­ biamo porre l’equazione tra i concetti di malato, di patolo­ gico e di anormale. Un’altra ragione per non confondere anomalia e malat­ tia, è che l’attenzione umana non è sensibilizzata verso l’una e l’altra da scarti della stessa specie. L ’anomalia si manifesta nella molteplicità spaziale, la malattia nella successione cro­ nologica. Carattere proprio della malattia è di giungere a in­ terrompere un corso, di essere propriamente critica. Anche quando la malattia diventa cronica, dopo essere stata criti­ ca, vi è un tempo passato verso cui il paziente o coloro che gli sono vicini provano nostalgia. Non si è dunque malati sol­ tanto in rapporto agli altri, ma in rapporto a se stessi. E il caso della polmonite, dell’arterite, della sciatica, dell’afasia, della nefrite ecc. Carattere proprio dell’anomalia è di essere costituzionale, congenita, anche se essa tarda a comparire ri­ spetto alla nascita, ed è contemporanea soltanto all’esercizio della funzione - ad esempio nel caso della lussazione conge­ nita dell’anca. Il portatore di anomalia non può dunque es­ sere paragonato a se stesso. Si potrebbe qui far notare che l’interpretazione teratogenica dei caratteri teratologici e me­ glio ancora la loro spiegazione teratogenetica permettono di ricollocare nel divenire embriologico la comparsa dell’ano­ malia e di conferire ad essa significato di malattia. Dal mo­ mento in cui l’eziologia e la patogenesi di un’anomalia ven­ gono conosciute, l’anomalo diventa patologico. La teratogenesi sperimentale offre in questo caso utili indicazioni [Wolff 1936]. Ma se questa conversione dell’anomalia in malattia ha un senso nella scienza degli embriologi, essa non ha alcun senso per il vivente, i cui comportamenti nell’ambiente ester-

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no, al di fuori dell'uovo o dell'utero, sono fissati sin dall'ini­ zio dalle particolarità della sua struttura. Quando l'anomalia viene interpretata nei suoi effetti, in relazione all'attività dell'individuo, e dunque alla rappresen­ tazione che egli si fa del proprio valore e del proprio destino, essa è invalidità. Quella di invalidità è una nozione volgare ma istruttiva. Si nasce o si diventa invalidi. E il fatto di di­ venire tali, interpretato come degenerazione irrimediabile, che vince in importanza sul fatto di nascere tali. Per l'invali­ do, in fondo, vi può essere un'attività possibile e un ruolo so­ ciale onorevole. Ma la limitazione forzata di un essere uma­ no a una condizione unica e invariabile è giudicata negativamente, in riferimento all'ideale umano normale che è l'adat­ tamento possibile e voluto a tutte le condizioni immaginabi­ li. E la possibilità di abuso della salute che sta alla base del valore attribuito alla salute, esattamente come, secondo Valéry, è l'abuso di potere che sta alla base dell'amore per il potere. L'uomo normale è l'uomo normativo, l'essere in gra­ do di istituire nuove norme, anche organiche. Una norma uni­ ca di vita è sentita come privazione, non come fatto positivo. Chi non può correre si sente leso, cioè converte la propria le­ sione in frustrazione, e benché coloro che gli sono vicini evi­ tino di rendergli l'immagine della sua incapacità - come quan­ do dei bambini, per delicatezza, evitano di correre in com­ pagnia di un piccolo zoppo - l'invalido sente bene a costo di quale ritegno e di quali rinunce da parte dei suoi simili le dif­ ferenze tra lui e loro siano apparentemente annullate. Ciò che è vero per l'invalidità è vero anche per certi sta­ ti di fragilità e di debolezza, legati a uno scarto di ordine fi­ siologico. E il caso dell'emofilia. Essa è piuttosto un'ano­ malia che una malattia. Tutte le funzioni dell’emofiliaco ven­ gono espletate in modo simile a quelle degli individui sani. Ma le emorragie sono inarrestabili, come se il sangue fosse indifferente alla propria collocazione all’interno o all’ester­ no dei vasi. Insomma, la vita dell'emofiliaco sarebbe normale se la vita animale non comportasse normalmente delle rela­

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zioni con un ambiente, relazioni i cui rischi, sotto forma di lesioni, devono essere affrontati dalP animale per compensa­ re gli svantaggi di ordine alimentare che la rottura con l’iner­ zia vegetale comporta, rottura che costituisce da molti altri punti di vista, in particolare nel cammino della coscienza, un progresso reale. L ’emofilia è il tipo di anomalia a carattere patologico eventuale, in ragione dell’ostacolo incontrato qui da una funzione vitale essenziale, la netta separazione del­ l’ambiente interno da quello esterno. Riassumendo, l’anomalia può sfociare nella malattia, ma non è di per sé sola una malattia. Non è facile determinare in quale momento un’anomalia si trasformi in malattia. Bisogna o non bisogna considerare la sacralizzazione della quinta ver­ tebra lombare come un fatto patologico ? Vi sono diversi gra­ di in questa malformazione. La quinta vertebra è da conside­ rarsi sacralizzata soltanto quando è saldata all’osso sacro. In tal caso, d’altro canto, essa è raramente causa di dolori. La semplice ipertrofia di un’apofisi trasversale, il suo contatto più o meno reale con il tubercolo sacrale sono spesso considerati responsabili di danni immaginari. Si tratta in definitiva di ano­ malie anatomiche di ordine congenito che divengono doloro­ se soltanto tardi, e in alcuni casi mai [Rcederer 1936].

Il problema della distinzione tra l’anomalia - sia morfo­ logica, come la costa cervicale o la sacralizzazione della quin­ ta lombare, sia funzionale come l’emofilia, l’emeralopia o la pentosuria - e lo stato patologico è estremamente oscuro, e tuttavia decisivo dal punto di vista biologico, giacché in ul­ tima analisi non fa che rimandarci al problema generale del­ la variabilità degli organismi e del significato e della portata di questa variabilità. Gli esseri viventi che si allontanano dal tipo specifico sono individui anormali, capaci di mettere in pericolo la forma specifica, oppure sperimentatori avviati verso nuove forme ? A seconda che si sia fissisti o trasformi­ sti, si vede con occhio differente un vivente portatore di un

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nuovo carattere. È chiaro che non abbiamo qui intenzione di trattare, neppure alla lontana, un tale problema. Tuttavia non possiamo fingere di ignorarlo. Quando una drosofila do­ tata di ali fa nascere per mutazione una drosofila senza ali o con ali atrofiche, ci si trova o no in presenza di un fatto pa­ tologico? I biologi come Caullery, che non ammettono che le mutazioni siano sufficienti a rendere conto dei fatti di adattamento ed evoluzione, o come Bounoure, che conte­ stano il dato stesso dell’evoluzione, insistono sul carattere subpatologico o decisamente patologico e persino letale del­ la maggior parte delle mutazioni. Il fatto è che, se non sono fissisti come Bounoure [1939], essi pensano quanto meno, come Caullery, che le mutazioni non fuoriescano dal quadro della specie, poiché, malgrado differenze morfologiche con­ siderevoli, gli incroci fecondi tra individui testimoni e indi­ vidui mutanti sono possibili [Caullery 1931, p. 414]. Ci pa­ re tuttavia incontestabile che all’origine di specie nuove pos­ sano esservi delle mutazioni. Questo fatto era già noto a Darwin, ma l’aveva colpito meno della variabilità indivi­ duale. Guyénot ritiene che si tratti dell’unico modo attual­ mente conosciuto di variazione ereditaria, la sola spiegazio­ ne parziale ma indiscutibile dell’evoluzione [1930]. Teissier e L ’Héritier hanno mostrato sperimentalmente che certe mu­ tazioni che possono apparire svantaggiose nell’ambiente abi­ tualmente proprio di una specie, sono capaci di divenire van­ taggiose, se certe condizioni di esistenza vengono a variare. La drosofila con ali atrofiche viene sostituita dalla drosofila con ali normali in un ambiente chiuso e riparato. Ma in am­ biente ventilato, le drosofile atrofiche non prendono il volo e restano costantemente sul cibo: nel giro di tre generazioni si osserva il 60 per cento di drosofile atrofiche in una popo­ lazione mista [L’Héritier e Teissier 1938]. Questo non capi­ ta mai in ambiente non ventilato. Non diciamo in ambiente normale perché in ultima analisi, secondo Geoffroy SaintHilaire, vale per gli ambienti ciò che vale per le specie: essi sono tutto ciò che devono essere in funzione delle leggi na­

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turali, e la loro stabilità non è garantita. Un ambiente ven­ tilato in riva al mare non è un fatto in sé negativo, ma sarà un ambiente più normale per insetti apteri che per insetti alati, perché gli individui che non prenderanno il volo avran­ no meno possibilità di essere eliminati. Darwin aveva nota­ to questo fatto, che aveva fatto sorridere e che le esperien­ ze sopra riportate confermano e spiegano. L ’ambiente è nor­ male in quanto in esso il vivente svolge meglio la propria vi­ ta e mantiene meglio la propria norma. E in riferimento al­ la specie di vivente che lo utilizza a proprio vantaggio, che un ambiente può essere normale. Esso è normale soltanto in quanto è riferito a una norma morfologica e funzionale. Un altro fatto, riportato da Teissier, mostra che, trami­ te la variazione delle forme viventi, la vita ottiene - forse senza cercarla - una sorta di assicurazione contro la specia­ lizzazione eccessiva, senza reversibilità e dunque senza fles­ sibilità, che è in fondo un adattamento riuscito. Si è osser­ vata, in certe zone industriali in Germania e Inghilterra, la scomparsa progressiva di farfalle grigie e la comparsa di far­ falle nere della medesima specie. Ora, si è potuto stabilire che la colorazione nera si accompagna in queste farfalle a un vigore particolare. In cattività, le nere eliminano le grigie. Perché non accade lo stesso in natura? Perché il loro colore, risaltando maggiormente sulla corteccia degli alberi, attira l’attenzione degli uccelli. Quando nelle regioni industriali il numero degli uccelli diminuisce, le farfalle possono essere nere senza conseguenze [Teissier 1938]. Questa specie di far­ falle offre insomma, sotto forma di varietà, due combina­ zioni di caratteri opposti e compensantisi: maggiore vigore è bilanciato da minore sicurezza e viceversa. In ciascuna del­ le varietà è stato aggirato un ostacolo, per usare un’espres­ sione di Bergson, è stata superata un’impotenza. A seconda che le circostanze permettano a una determinata soluzione morfologica di funzionare meglio di un’altra, il numero dei rappresentanti di ciascuna varietà varia e, al limite, una va­ rietà tende a farsi specie.

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Il mutazionismo si è dapprima presentato come una for­ ma di spiegazione dei fatti legati all’evoluzione la cui accet­ tazione da parte dei genetisti ha rinforzato ulteriormente il carattere di ostilità verso ogni considerazione dell’influenza ambientale. Oggi pare che la comparsa di nuove specie si deb­ ba situare nel punto di incontro tra le innovazioni determi­ nate da mutazioni e le oscillazioni dell’ambiente, e che un darwinismo ringiovanito dal mutazionismo sia la spiegazione più elastica e più comprensiva del fatto dell’evoluzione, mal­ grado tutto incontestabile [Hovasse 1943, Teissier 1938]. La specie sarebbe il raggruppamento di individui, tutti differenti di qualche grado, la cui unità esprime la normalizzazione mo­ mentanea dei loro rapporti con l’ambiente ivi comprese le al­ tre specie; il che Darwin aveva visto bene. Il vivente e l’am­ biente non sono normali presi separatamente, ma è la loro re­ lazione che rende tali l’uno e l’altro. L ’ambiente è normale per una data forma vivente nella misura in cui esso le per­ mette una tale fecondità, e in relazione a ciò una tale varietà di forme, che, nel caso in cui se ne presenti la necessità per le modificazioni dell’ambiente, la vita possa trovare in una di queste forme la soluzione al problema di adattamento che es­ sa è brutalmente chiamata a risolvere. Un vivente è normale in un dato ambiente in quanto esso è la soluzione morfologi­ ca e funzionale trovata dalla vita per rispondere a tutte le esi­ genze dell’ambiente. Rispetto ad ogni altra forma da cui si al­ lontana, questo vivente è normale, anche se è relativamente raro, in quanto esso è, in rapporto a quella, normativo, il che significa che esso la priva di valore prima di eliminarla. E finalmente chiaro, dunque, per quale motivo un’ano­ malia, e specialmente una mutazione, cioè un’anomalia ere­ ditaria, non sia patologica per il solo fatto di essere anoma­ lia, intendendo per anomalia uno scarto a partire da un tipo specifico definito tramite un raggruppamento dei caratteri più frequenti ai loro valori medi. In caso contrario bisogne­ rebbe dire che un individuo mutante, punto di partenza di una nuova specie, è ad un tempo patologico, giacché si dif­

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ferenzia, e normale, giacché si conserva e si riproduce. Il nor­ male, in campo biologico, non è tanto la forma vecchia quan­ to la nuova, se essa trova le condizioni d ’esistenza nelle qua­ li apparirà normativa, il che avverrà declassando tutte le for­ me passate, sorpassate e forse presto trapassate. Nessun fatto definito normale, in quanto divenuto tale, può usurpare il prestigio della norma di cui esso è espressio­ ne, a partire dal momento in cui le condizioni nelle quali es­ so è stato riferito alla norma non sono più date. Non esisto­ no fatti normali o patologici in sé. L ’anomalia o la mutazio­ ne non sono in se stesse patologiche. Esse esprimono altre possibili norme di vita. Se queste norme sono inferiori, quan­ to a stabilità, a fecondità, a variabilità di vita, alle norme spe­ cifiche precedenti, esse verranno dette patologiche. Se even­ tualmente queste norme si rivelano, nello stesso ambiente, equivalenti, o in un altro ambiente superiori, verranno dette normali. Esse trarranno la propria normalità dalla propria nor­ matività. Il patologico non è l’assenza di norma biologica, ben­ sì una norma altra ma respinta per comparazione dalla vita.

A questo punto si presenta un nuovo problema, che ci ri­ conduce al cuore delle nostre preoccupazioni: quello del rap­ porto tra il normale e lo sperimentale. Quelli che i fisiologi, da Bernard in poi, chiamano fenomeni normali, sono feno­ meni la cui osservazione permanente è resa possibile da di­ spositivi di laboratorio e i cui caratteri misurati si rivelano identici a se stessi per un individuo dato, in condizioni date e, a parte alcune differenze di ampiezza definita, identici da un individuo all’altro in identiche condizioni. Parrebbe dun­ que darsi una possibile definizione del normale, oggettiva e assoluta, a partire dalla quale ogni deviazione oltre certi li­ miti sarebbe logicamente tacciata di patologica. In che sen­ so la verifica e la misurazione di laboratorio sono degne di fungere da norma per l’attività funzionale del vivente preso fuori del laboratorio ?

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Innanzitutto è bene notare che il fisiologo, come il fisico e il chimico, effettua esperimenti di cui compara i risultati, sotto la fondamentale riserva mentale che questi dati valgo­ no «altrove per tutte le cose uguali». In altri termini, diver­ se condizioni darebbero luogo a diverse norme. Le normefun­ zionali del vivente esaminato in laboratorio non assumono sen­ so se non all’interno delle norme operative dello scienziato. In questo senso, nessun fisiologo contesterà il fatto che egli dà soltanto un contenuto al concetto di norma biologica, ma che in nessun caso egli elabora ciò che un tale concetto include di normativo. Ammesse come normali determinate condizioni, il fisiologo studia oggettivamente le relazioni che definisco­ no realmente i fenomeni corrispondenti, ma in definitiva non definisce oggettivamente quali condizioni siano normali. A meno di ammettere che le condizioni di un esperimento sia­ no prive di influenza sulla qualità del suo risultato - il che è contraddittorio con la cura impiegata a determinarli - non si può negare la difficoltà di assimilare le condizioni normali al­ le condizioni sperimentali, tanto in senso statistico quanto in senso normativo, della vita degli animali e dell’uomo. Se si definisce l’anormale o il patologico attraverso lo scarto stati­ stico o attraverso l’insolito, come fa abitualmente il fisiolo­ go, allora, da un punto di vista puramente oggettivo, bisogna dire che le condizioni d’esame in laboratorio collocano il vi­ vente in una situazione patologica, dalla quale si pretende pa­ radossalmente di trarre conclusioni aventi portata di norma. Si sa che questa è un’obiezione portata spesso alla fisiologia, anche negli ambienti medici. Prus, di cui è già stato citato un passaggio tratto dalla memoria diretta contro le teorie di Broussais, scriveva nella stessa opera: Le malattie artificiali e le asportazioni di organi che vengono pra­ ticate durante gli esperimenti su animali vivi, conducono al medesi­ mo risultato [delle malattie spontanee]: tuttavia, va detto, solo a spro­ posito servizi resi dalla fisiologia sperimentale potrebbero essere usa­ ti a sostegno dell’influenza che la fisiologia può esercitare sulla medi­ cina pratica... Quando per conoscere le funzioni del cervello e del cer­ velletto si irrita, si punge, si incide l’uno o l’altro di questi organi o se

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ne taglia una porzione più o meno considerevole, l’animale sottopo­ sto a simili esperimenti è sicuramente quanto più lontano possibile dallo stato fisiologico, è gravemente malato, e ciò che si chiama fisio­ logia sperimentale, con ogni evidenza, non è altro che una patologia artificiale, che simula o crea delle malattie. Da essa la fisiologia rice­ ve senz’altro grande luce, e i nomi dei Magendie, degli Orfila, dei Flourens figureranno sempre con onore nei suoi annali; ma questa stes­ sa luce offre una prova autentica e in qualche modo materiale di tut­ to ciò che questa scienza deve a quella delle malattie [1825, L sgg.].

A questo genere di obiezione Bernard rispondeva nelle Leçons sur la chaleur animale-. ... esistono certamente turbe introdotte nell’organismo dall’esperi­ mento, ma noi dobbiamo e possiamo tenerne conto. Dovremo resti­ tuire alle condizioni in cui poniamo l’animale la parte di anomalie che ad esse spetta, e sopprimeremo il dolore negli animali come nell’uo­ mo, a un tempo per un sentimento di umanità e per allontanare le cau­ se d’errore generate dalle sofferenze. Ma gli anestetici di cui ci ser­ viamo hanno essi stessi effetti sull’organismo capaci di generare mo­ dificazioni fisiologiche e nuove cause d’errore nel risultato dei nostri esperimenti [1876, p. 57].

Testo interessante, che mostra come Bernard sia vicino a sup­ porre la possibilità di scoprire un determinismo del fenome­ no indipendente dal determinismo dell’operazione conosci­ tiva, e come riconosca onestamente l’alterazione, in propor­ zioni non determinabili con precisione, che la conoscenza provoca sul fenomeno conosciuto, a causa della preparazio­ ne tecnica che essa comporta. Quando si rende merito ai teo­ rici contemporanei della meccanica ondulatoria di aver sco­ perto che l’osservazione disturba il fenomeno osservato, ca­ pita, come in altri casi, che l’idea sia un poco più vecchia di loro stessi. Nel corso delle proprie ricerche, il fisiologo deve affron­ tare tre tipi di difficoltà. Innanzitutto egli deve essere sicu­ ro che il soggetto detto normale in situazione sperimentale sia identico al soggetto di uguale specie in situazione nor­ male, cioè non artificiale. In secondo luogo egli deve accer­ tarsi dell’analogia tra lo stato patologico per realizzazione

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sperimentale e lo stato patologico spontaneo. Ora, spesso il soggetto in stato spontaneamente patologico appartiene a una specie diversa da quella del soggetto in stato patologico sperimentale. Per esempio, è chiaro che non si può, se non con grandi precauzioni, trarre conclusioni valide per l’uomo diabetico dal cane di Mering e Minkowski o dal cane di Young. Infine il fisiologo deve comparare i risultati delle due precedenti comparazioni. E inutile negare l’esistenza di que­ sto margine, cosi come è puerile contestare a priori l’utilità di tali comparazioni. In ogni caso, si comprende quale diffi­ coltà vi sia a realizzare l’esigenza canonica del «tutte le co­ se uguali altrove». Si può, per eccitazione della corteccia cerebrale del frontale ascendente, provocare una crisi con­ vulsiva, e tuttavia non si tratta di epilessia, anche se l’elet­ troencefalogramma presenta, dopo due di queste crisi, cur­ ve di registrazione sovrapponibili. Si possono trapiantare a un animale quattro pancreas simultaneamente senza che l’animale accusi il minimo squilibrio [désordre] ipoglicemico paragonabile a quello determinato da un piccolo adenoma al­ le isole di Langerhans [Hallion e Gayet 1937]. Si può pro­ vocare il sonno con degli ipnotici, ma secondo A. Schwartz: Sarebbe un errore credere che il sonno provocato da mezzi farma­ cologici e il sonno normale presentino necessariamente in queste con­ dizioni una fenomenologia esattamente uguale. In realtà essa è sempre differente nei due casi, come dimostrano gli esempi che seguono: se l’organismo è sotto l’effetto di un ipnotico corticale, la paraldeide, il volume urinario aumenta, mentre nel corso del sonno normale la diu­ resi è abitualmente ridotta. Il centro della diuresi, liberato inizialmente dall’azione depressiva dell’ipnotico sulla corteccia, è dunque in questo caso sottratto all’ulteriore azione inibitrice del centro del sonno.

Non bisogna pertanto nascondersi che il fatto di provo­ care artificialmente il sonno intervenendo sui centri nervo­ si, non ci chiarisce il meccanismo attraverso cui il centro del sonno è naturalmente attivato dai fattori normali del sonno [Schwartz 1935, pp. 23-28]. Se è consentito definire lo stato normale di un vivente

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tramite un rapporto normativo di adattamento a degli am­ bienti, non bisogna dimenticare che il laboratorio costitui­ sce esso stesso un nuovo ambiente, nel quale indubbiamente la vita istituisce norme la cui estrapolazione, lontano dalle condizioni cui queste norme si rapportano, non è priva di in­ certezze. L ’ambiente di laboratorio è per l’animale o l’uomo un ambiente possibile tra molti. Certo lo scienziato ha ra­ gione a vedere nei suoi apparecchi nuli’altro che le teorie che essi materializzano, nei prodotti impiegati null’altro che le reazioni che essi permettono, e di postulare la validità uni­ versale di queste teorie e di queste reazioni, ma per il vivente apparecchi e prodotti sono oggetti tra i quali egli si muove come in un mondo insolito. Non è possibile che gli anda­ menti della vita in laboratorio non mantengano una qualche specificità del loro rapporto con il luogo e il momento del­ l’esperimento.

Capitolo terzo Norma e media

Sembra che il fisiologo trovi nel concetto di media un equivalente oggettivo e scientificamente valido del concetto di normale o di norma. Certo è che il fisiologo di oggi non condivide più P avversione di Bernard nei confronti di qua­ lunque risultato di analisi o esperimento biologico tradotto in media, avversione che trova probabilmente la propria ori­ gine in un passo di Bichat: Vengono analizzate l’urina, la saliva, la bile ecc., prelevate indif­ ferentemente da un soggetto o da un altro: dal loro esame - lo si con­ cede - risulta la chimica animale: ma non si tratta di chimica fisiolo­ gica; si tratta, mi sia consentita l’espressione, di chimica cadaverica dei fluidi. La fisiologia dei fluidi consiste nella conoscenza delle in­ numerevoli variazioni che essi subiscono in conseguenza dello stato dei loro rispettivi organi [1822, art. 7, § 1].

Claude Bernard non è meno reciso. Secondo lui, Pimpiego delle medie fa svanire il carattere essenzialmente oscilla­ torio e ritmico del fenomeno biologico funzionale. Se per esempio si cerca il vero numero delle pulsazioni cardiache at­ traverso la media delle misurazioni effettuate più volte in uno stesso giorno su un dato individuo «non si avrà nulla più che un numero falso». Da cui la seguente regola: In fisiologia non bisogna mai fornire descrizioni medie d’espe­ rienza, giacché in tali medie scompaiono i veri rapporti tra i fenome­ ni; quando si ha a che fare con esperimenti complessi e variabili, è ne­ cessario studiarne le diverse circostanze, e in seguito fornire l’espe­ rienza più perfetta come tipo; tipo che però rappresenterà sempre un fatto vero [Bernard 18650, p. 286].

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La ricerca di valori biologici medi è priva di senso per quel che riguarda uno stesso individuo: per esempio, l’analisi dell’urina media nelle 24 ore è « l’analisi di un’urina che non esiste», poiché l’urina di un soggetto a digiuno è differente dall’urina durante la digestione. Allo stesso modo, tale ricer­ ca è priva di senso per quanto riguarda più individui. «Il col­ mo è stato raggiunto da un fisiologo che, prelevata dell’urina nell’orinatoio di una stazione ferroviaria dove passavano per­ sone di tutte le nazionalità, credette di poter cosi fornire l’ana­ lisi dell’urina media europea» [Bernard 18650, p. 236]. Sen­ za voler qui rimproverare a Bernard di confondere una ricer­ ca con la sua caricatura, e di attribuire a un metodo danni la cui responsabilità appartiene a coloro che lo utilizzano, ci si limiterà a osservare che, secondo lui, il normale è definito co­ me tipo ideale in determinate condizioni sperimentali piut­ tosto che come media aritmetica o frequenza statistica. Un atteggiamento analogo è, più recentemente, quello di Vendryès che, nel suo Vie et probabilité, riprende e sviluppa sistematicamente le idee di Bernard sulla costanza e le rego­ lazioni dell’ambiente interno. Definendo le regolazioni fi­ siologiche come « l’insieme delle funzioni che resistono al ca­ so» [1942, p. 195], o se si vuole delle funzioni che fanno per­ dere all’attività del vivente il carattere aleatorio che sareb­ be suo proprio se l’ambiente interno fosse sprovvisto di au­ tonomia nei confronti dell’ambiente esterno, Vendryès interpreta le variazioni subite dalle costanti fisiologiche - la glicemia, per esempio - come differenze a partire da una media, ma da una media individuale. I termini differenza e media assumono in questo caso un senso probabilistico. Le differenze sono tanto più improbabili quanto più sono grandi.

Io non faccio statistiche su un dato numero di individui. Consi­ dero un solo individuo. In queste condizioni, i termini valore medio e differenza si applicano ai differenti valori che può assumere nella successione dei tempi un medesimo componente del sangue di un me­ desimo individuo [1942, p. 33].

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Eppure noi non riteniamo che Vendryès elimini in que­ sto modo la difficoltà che Bernard risolveva proponendo resperimento più perfetto come tipo, cioè come norma com­ parativa. Ciò facendo, Bernard riconosceva espressamente che il fisiologo colloca per propria scelta la norma nell’esperimento di fisiologia, invece di ricavarla da esso. Non pen­ siamo che Vendryès possa procedere altrimenti. Egli af­ ferma che un uomo ha Vi per mille come valore medio di glicemia quando, in condizioni normali, il tasso di glicemia è 1 per mille e quando, a seguito deir alimentazione o di uno sforzo muscolare, la glicemia subisce variazioni po­ sitive o negative rispetto a questo valore medio ? Ma sup­ ponendo che ci si limiti effettivamente all’osservazione di un solo individuo, di dove trae egli a priori che l’individuo scelto come soggetto d ’esame delle variazioni di una co­ stante rappresenti il tipo umano ? O si è medici - ed è a quanto pare il caso di Vendryès - e di conseguenza in gra­ do di diagnosticare il diabete; oppure non si è studiata la fi­ siologia nel corso degli studi medici, e per sapere qual è il tasso normale di una regolazione si cercherà la media di un certo numero di risultati, ottenuti su individui posti in con­ dizioni il più possibile simili tra loro. Ma, in definitiva, il problema è di sapere entro quali oscillazioni intorno a un valore medio puramente teorico gli individui verranno con­ siderati come normali. Questo problema è trattato con molta chiarezza e onestà da A. Mayer [1937] e H. Laugier [1937]. Mayer elenca tut­ ti gli elementi della biometria fisiologica contemporanea: temperatura, metabolismo di base, ventilazione, calore svi­ luppato, caratteristiche del sangue, velocità di circolazione, composizione del sangue, delle riserve, dei tessuti ecc. Ora, i valori biometrici ammettono un margine di variazione. Per rappresentarci una specie, abbiamo scelto delle norme che sono di fatto delle costanti determinate attraverso medie. Il vivente normale è quello conforme a queste norme. Ma dob­ biamo considerare ogni differenza come anormale ?

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Il modello è in realtà il frutto di una statistica. Il più delle volte è il risultato di calcoli di valori medi. Ma gli individui reali che incon­ triamo se ne differenziano più o meno, ed è precisamente in questo che consiste la loro individualità. Sarebbe molto importante sapere su che cosa si fondino le differenze e quali differenze siano compatibili con una sopravvivenza prolungata. Bisognerebbe sapere ciò in rela­ zione agli individui di ciascuna specie. Un tale studio è lontano dall’es­ sere intrapreso [Mayer 1937, 54-14].

È la difficoltà di un tale studio sull’uomo che Laugier de­ scrive. Lo fa innanzitutto esponendo la teoria dell’uomo me­ dio di Quètelet, su cui si tornerà. Stabilire una curva di Quetelet non significa risolvere il problema del normale per un carattere dato, per esempio la statura. Sono necessarie ipo­ tesi direttrici e convenzioni pratiche che permettano di de­ cidere a quali valori di statura, sia in quelli alti che in quelli bassi, si verifichi il passaggio dal normale all’anormale. Lo stesso problema si pone se si sostituisce a un insieme di me­ die aritmetiche uno schema statistico rispetto al quale un in­ dividuo si differenzia più o meno, giacché la statistica non fornisce alcun mezzo per decidere se la differenza sia nor­ male o anormale. Si potrebbe, con una convenzione che la ragione stessa sembra suggerire, considerare normale l’indi­ viduo il cui profilo biometrico permetta di prevedere che, salvo incidenti, egli avrà la durata della vita propria della spe­ cie? Ma si ripresenterebbero gli stessi interrogativi. Negli individui che muoiono, a quanto parrebbe, di vecchiaia, tro­ veremo una disparità abbastanza ampia tra le durate di vita. Come durata della vita della specie, prenderemo la media di quelle durate, o le durate massime raggiunte da qualche raro individuo, o qualche al­ tro valore? [Laugier 1937, 56-4].

Questa normalità, del resto, non escluderebbe altre anor­ malità: una deformità congenita può essere compatibile con una vita molto lunga. Se, a rigore, nella determinazione di una normalità parziale lo stato medio del carattere studiato nel gruppo osservato può fornire un sostituto di oggettività, restando arbitrari i limiti che circoscrivono la media, ogni

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oggettività svanisce comunque nella determinazione di una normalità globale. Data l’insufficienza dei dati numerici di biometria e di fronte all’incertezza nella quale ci troviamo sulla validità dei principi da uti­ lizzare per stabilire il limite tra il normale e l’anormale, la definizio­ ne scientifica della normalità appare come attualmente inaccessibile

[ibid]. Si è più modesti ancora o al contrario più ambiziosi, se si afferma l’indipendenza logica dei concetti di norma e media e, di conseguenza, l’impossibilità definitiva di fornire sotto forma di media oggettivamente calcolata l’equivalente inte­ grale del normale anatomico o fisiologico ?

Ci proponiamo di riprendere sommariamente, a partire dalle idee di Quètelet e dal rigoroso esame che di esse ha con­ dotto Halbwachs, il problema del senso e della portata del­ le ricerche biometriche in fisiologia. In definitiva, il fisio­ logo che sottopone a critica i propri concetti di base ben comprende che norma e media sono due concetti per lui in­ separabili. Ma il secondo gli pare immediatamente dotato di un significato oggettivo, ed è per questo che egli tenta di ri­ portare ad esso il primo. Abbiamo appena visto che questo tentativo di riduzione si scontra con difficoltà attualmente - e senza dubbio per sempre - insormontabili. Non conver­ rebbe capovolgere il problema e domandarsi se il legame dei due concetti non possa essere spiegato subordinando la media alla norma ? E noto che la biometria è stata in origi­ ne fondata, in ambito anatomico, dai lavori di Galton, che generalizzò i procedimenti antropometrici di Quètelet. Que­ st’ultimo, studiando sistematicamente le variazioni di statu­ ra dell’uomo, aveva stabilito, per un carattere misurato su­ gli individui di una popolazione omogenea e rappresentato graficamente, l’esistenza di un poligono di frequenza dota­ to di un vertice in corrispondenza dell’ordinata massima e

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di una simmetria rispetto a quest’ordinata. E noto che il li­ mite di un poligono è una curva, ed è Quètelet stesso che ha mostrato che il poligono di frequenza tende verso una curva detta «a campana», che è la curva binomiale o curva degli errori di Gauss. Con questo raffronto, Quètelet tene­ va espressamente a mostrare di non riconoscere alla varia­ zione individuale di un carattere dato (fluttuazione) altro si­ gnificato da quello di evento che verifica le leggi del caso, vale a dire le leggi che esprimono l’influenza di una molte­ plicità indeterminabile di cause non sistematicamente orien­ tate, e i cui effetti tendono di conseguenza ad annullarsi per compensazione progressiva. Ora tale possibile interpreta­ zione delle fluttuazioni biologiche attraverso il calcolo del­ le probabilità appariva a Quetelet della più grande impor­ tanza metafisica. Significava, secondo lui, che esiste per la specie umana «un tipo o modulo di cui si possono determi­ nare facilmente le differenti proporzioni» [Quètelet 1871, p. 15]. Se cosi non fosse, se gli uomini differissero tra loro, ad esempio per quanto riguarda l’altezza, non per effetto di cause accidentali, ma per mancanza di un tipo in base al qua­ le essi possano essere comparabili, nessuna relazione deter­ minata potrebbe essere stabilita tra le misure individuali. Se al contrario esiste un tipo rispetto al quale le differenze sono puramente accidentali, i valori numerici di un carat­ tere misurato in una moltitudine di individui devono ripar­ tirsi secondo una legge matematica, ed è quello che in ef­ fetti capita. D ’altro canto, più sarà alto il numero di misu­ razioni effettuate, più le cause turbatrici accidentali si com­ penseranno e si annulleranno, e più nettamente apparirà il tipo generale. Ma soprattutto, su un gran numero di uomi­ ni la cui statura varia entro limiti determinati, sono più nu­ merosi quelli che maggiormente si avvicinano alla statura me­ dia, meno numerosi quelli che più se ne allontanano. A que­ sto tipo umano, a partire dal quale la differenza è tanto più rara quanto più è grande, Quètelet dà il nome di uomo me­

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dio. Ciò che in generale si dimentica di dire, quando si cita Quètelet come padre della biometria, è che, secondo lui, l’uomo medio non è per nulla un «uomo impossibile» [1871, p. 22]. La prova dell’esistenza di un uomo medio, in un da­ to clima, si trova nel modo in cui i numeri ottenuti per cia­ scuna dimensione misurata (statura, testa, braccia, ecc.) si raggruppano intorno alla media obbedendo alla legge delle cause accidentali. La media della statura in un gruppo dato è tale che il più grande dei sottogruppi formati da uomini della stessa statura è l’insieme degli uomini la cui statura più si avvicina alla media. Ciò rende la media tipica del tutto differente dalla media aritmetica. Quando si misura l’altez­ za di più case si può ottenere una altezza media, ma il ri­ sultato è che non si trova nessuna casa la cui altezza propria si avvicini alla media. In una parola, secondo Quètelet, l’esi­ stenza di una media è il segno incontestabile dell’esistenza di una regolarità, interpretata in un senso espressamente on­ tologico: L’idea principale, per me, è di far prevalere la verità e mostrare quanto l’uomo sia sottomesso a propria insaputa alle leggi divine e con quale regolarità egli le compia. Questa regolarità, del resto, non è af­ fatto esclusiva dell’uomo: è una delle grandi leggi di natura e appar­ tiene agli animali come alle piante, e probabilmente ci si meraviglierà di non averla riconosciuta prima [1871, p. 21].

L ’interesse della concezione di Quetelet risiede nel fatto che egli identifica nella propria nozione di media vera le no­ zioni di frequenza statistica e di norma, giacché una media che determini differenze tanto più rare quanto più sono ampie, è propriamente una norma. Non è il caso qui di discutere il fondamento metafisico della tesi di Quètelet, ma di tenere semplicemente presente che egli distingue due tipi di media: la media aritmetica, o mediana, e la media vera, e che, lun­ gi dal presentare la media come fondamento empirico della norma in materia di caratteri fisici umani, egli presenta espli­ citamente una regolarità ontologica come esprimentesi nella media. Ora, se può sembrare discutibile risalire fino alla vo­

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lontà di Dio per rendere conto del modulo della statura uma­ na, ciò non significa tuttavia che in questa media non tra­ spaia alcuna norma. E ciò che ci pare si possa concludere dall’esame critico cui Halbwachs ha sottoposto le posizioni di Quètelet [1912]. Secondo Halbwachs, Quêtelet cade in errore quando con­ sidera la ripartizione delle stature umane intorno a una me­ dia come un fenomeno cui possano essere applicate le leggi del caso. La condizione principale di questa applicazione è che i fenomeni, considerati come combinazioni di elementi in numero indeterminabile, siano delle realizzazioni tutte in­ dipendenti le une dalle altre, tali che nessuna di esse eserci­ ta influenza su quella che la segue. Ora, non si possono assi­ milare effetti organici costanti a fenomeni retti dalle leggi del caso. Farlo significa ammettere che i fatti fisici legati all’ambiente e i fatti fisiologici relativi ai processi di cresci­ ta si compongano in modo che ciascuna realizzazione sia in­ dipendente dalle altre, nel momento precedente e nello stes­ so momento. Ora, questo è insostenibile per l’ambito uma­ no, in cui le norme sociali vengono a interferire con le leggi biologiche, tanto che l’individuo umano è il prodotto di un accoppiamento che obbedisce ad ogni sorta di prescrizione consuetudinaria e legislativa di ordine matrimoniale. In bre­ ve, eredità e tradizione, abitudine e costume sono tanto for­ me di dipendenza e di legame interindividuale quanto, di conseguenza, ostacoli a un’utilizzazione adeguata del calco­ lo delle probabilità. Il carattere studiato da Quêtelet, la sta­ tura, sarebbe un fatto puramente biologico soltanto se fosse studiato sull’insieme degli individui costituenti una discen­ denza pura, animale o vegetale. In questo caso le fluttuazio­ ni da un lato o dall’altro del modulo specifico sarebbero do­ vute unicamente all’azione dell’ambiente. Ma nella specie umana la statura è un fatto inseparabilmente biologico e so­ ciale. Anche se essa è funzione dell’ambiente, bisogna vede­ re nell’ambiente geografico, in un certo senso, il prodotto dell’attività umana. L ’uomo è un fattore geografico, e la geo­

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grafia è interamente compenetrata di storia, sotto forma di tecniche collettive. L ’osservazione statistica, per esempio, ha permesso di constatare l’influenza della bonifica delle pa­ ludi di Sologne sulla statura degli abitanti [Neuville 1936]. Sorre ammette che la statura media di alcuni gruppi umani si è verosimilmente elevata sotto l’influenza di un migliora­ mento dell’alimentazione [1943, p. 286]. Ma, secondo noi, se Quêtelet si è ingannato attribuendo alla media di un ca­ rattere anatomico umano un valore di norma divina, ciò è accaduto soltanto in quanto egli ha specificato la norma, non in quanto ha interpretato la media come segno di una nor­ ma. Se è vero che il corpo umano è in un certo senso un pro­ dotto dell’attività sociale, non è assurdo supporre che la co­ stanza di certi tratti, rivelati da una media, dipenda dalla fedeltà conscia o inconscia a certe norme di vita. Di con­ seguenza, nella specie umana, la frequenza statistica non esprime soltanto una normatività vitale ma una normati­ vità sociale. Un tratto umano non sarebbe normale in quan­ to frequente, ma frequente in quanto normale, vale a dire normativo in un genere di vita dato, intendendo l’espressio­ ne genere dì vita nel senso che ad essa hanno dato i geografi della scuola di Vidai de La Blache. Ciò apparirà ancora più evidente se al posto di conside­ rare un carattere anatomico ci si concentra su un carattere fisiologico globale come la longevità. Flourens, dopo Buffon, ha ricercato un mezzo per determinare scientificamente la durata naturale o normale della vita dell’uomo, utilizzando con alcune correzioni le opere di Buffon. Egli pone la dura­ ta della vita in rapporto alla durata specifica della crescita, di cui individua il termine nell’unione delle ossa con le loro epifisi1. « L ’uomo cresce per vent’anni e vive cinque volte vent’anni, vale a dire cent’anni». Che questa durata norma­ le della vita umana non sia né la durata frequente, né la du­ rata media, è ciò che Flourens non esita a specificare: 1 È la medesima espressione utilizzata da Flourens.

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Osserviamo tutti i giorni uomini che vivono novanta e cento an­ ni. So bene che il numero di coloro che arrivano a tali età è esiguo in confronto a quello di coloro che non ci arrivano, ma in definitiva ci si arriva. E dal fatto che ci si arrivi qualche volta è legittimo conclude­ re che ci si arriverebbe più spesso, se circostanze accidentali ed estrin­ seche, se cause turbatrici non venissero a opporsi. La maggior parte degli uomini muoiono per malattie; pochissimi muoiono di vecchiaia propriamente detta [1855, pp. 80-81].

Allo stesso modo Mecnikov pensa che l'uomo possa normal­ mente raggiungere i cent'anni e che ogni anziano che muo­ re prima del secolo di vita sia senz'altro un malato. Le variazioni della durata media di vita dell'uomo nel cor­ so delle epoche (39 anni nel 1865 e 52 nel 1920, in Francia e per il sesso maschile) sono molto istruttive. Buffon e Flourens consideravano l'uomo, per assegnargli una vita norma­ le, con lo stesso occhio da biologo che usavano per il coni­ glio o il cammello. Ma quando si parla di vita media per mostrarla come progressivamente crescente, la si pone in rap­ porto con l'azione che l'uomo, preso collettivamente, eser­ cita su se stesso. E in questo senso che Halbwachs tratta la morte come un fenomeno sociale, ritenendo che l'età in cui essa sopravviene dipenda in gran parte dalle condizioni di la­ voro e igieniche, dall'attenzione alla fatica e alle malattie, in una parola dalle condizioni sociali quanto da quelle fisiolo­ giche. Tutto accade come se una società avesse «la mortalità che le compete», mentre il numero di morti e la loro ripar­ tizione tra le differenti età riflette l'importanza che una so­ cietà dà al prolungamento della vita [Halbwachs 1912, pp. 94-97]. Insomma, poiché le tecniche di igiene collettiva che tendono a prolungare la vita umana o le abitudini di negli­ genza che hanno come risultato di abbreviarla dipendono dal valore che si assegna alla vita in una data società, è in defi­ nitiva un giudizio di valore quello che si esprime in quel nu­ mero astratto che è la durata media della vita umana. La du­ rata media di vita non è la durata di vita biologicamente nor­ male, ma è in un certo senso la durata di vita socialmente

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normativa. Anche in questo caso, la norma non si deduce dalla media, ma si traduce nella media. Ciò avverrebbe in modo ancora più netto se, invece di considerare la durata media di vita in una società nazionale presa in blocco, si spe­ cificasse questa società in classi, in mestieri ecc. Si consta­ terebbe senz’altro che la durata di vita dipende da ciò che Halbwachs altrove chiama i livelli di vita. A una tale concezione si obietterà certo che essa vale per caratteri umani superficiali e per i quali, tutto sommato, esi­ ste un margine di tolleranza in cui le diversità sociali posso­ no venire in luce, ma che essa non funziona certamente né per caratteri umani fondamentali di essenziale rigidità, quali la glicemia o la calcemia o il pH sanguigno, né in generale per caratteri propriamente specifici degli animali, ai quali nessu­ na tecnica collettiva può conferire malleabilità relativa. Cer­ to non si vuole sostenere che le medie anatomo-fisiologiche esprimano nell’animale norme e valori sociali; ci si domanda però se essi non esprimano norme e valori vitali. Si è visto, nel paragrafo precedente, l’esempio, citato da Teissier, di quella specie di farfalle oscillante tra due varietà con l’una o l’altra delle quali essa tende a confondersi, a seconda che l’am­ biente consenta l’una o l’altra delle due combinazioni com­ pensate da caratteri contrastanti. Ci si domanda se in questo caso non vi sarebbe una sorta di regola generale dell’inven­ zione delle forme viventi. In tal caso si potrebbe attribuire all’esistenza di una media dei caratteri più frequenti un sen­ so abbastanza differente da quello che ad essa attribuiva Quètelet. Essa non esprimerebbe un equilibrio specifico stabile, ma l’equilibrio instabile di norme e forme di vita affrontate momentaneamente e quasi uguali. Invece di considerare un tipo specifico come realmente stabile, in quanto presentante caratteri esenti da ogni incompatibilità, non si potrebbe con­ siderarlo come apparentemente stabile in quanto esso è riu­ scito momentaneamente a conciliare, tramite un insieme di compensazioni, esigenze opposte? Una forma specifica nor­ male sarebbe il prodotto di una normalizzazione di funzioni

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e organi la cui armonia sintetica è ottenuta in condizioni de­ finite, e non è data. E a un dipresso ciò che suggeriva Halb­ wachs, sin dal 1912, nella sua critica a Quêtelet: Perché concepire la specie come un tipo da cui gli individui si al­ lontanano soltanto per accidente ? Perché la sua unità non dovrebbe risultare da una dualità di conformazione, da un conflitto tra due o un piccolissimo numero di tendenze organiche generali che, nella to­ talità, si equilibrerebbero ? Nulla di più naturale, allora, che gli anda­ menti dei suoi membri esprimano questa divergenza con una serie re­ golare di scarti dalla media in due sensi differenti [...]. Se gli scarti fossero più numerosi in un senso, sarebbe segno che la specie tende a evolversi in quella direzione sotto l’influenza di una o più cause co­ stanti [1912, p. 61].

Per ciò che concerne l’uomo e i suoi caratteri fisiologici permanenti, solo una fisiologia e una patologia umane com­ parate - nel senso in cui esiste una letteratura comparata dei diversi gruppi e sottogruppi etnici, etici o religiosi, tecni­ ci, che tenessero conto della complessità della vita e dei ge­ neri e dei livelli sociali di vita, potrebbero fornire una rispo­ sta precisa alle nostre ipotesi. Ora, pare che una simile opera di fisiologia umana comparata, elaborata da un punto di vi­ sta sistematico, debba ancora essere scritta da un fisiologo. Certo, esistono raccolte di dati biometrici d’ordine anatomi­ co e fisiologico concernenti le specie animali e la specie uma­ na suddivise in gruppi etnici, ad esempio le Tabulae biologicae2y ma si tratta di repertori senza alcun tentativo di inter­ pretazione dei risultati delle comparazioni. Per fisiologia uma­ na comparata intendiamo quel genere di ricerche di cui i la­ vori di Eijkmann, di Benedict, di Ozorio de Almeida sul metabolismo basale nei suoi rapporti col clima e la razza so­ no il migliore esempio3. Ora questa lacuna è stata in parte col­ mata dai recenti lavori di un geografo francese, Sorre, il cui Les fondements biologiques de la géographie humaine ci è stato segnalato quando la redazione di questo saggio era ormai ter­ 2 Pubblicate a La Haye, Junk editore. 3 Si troverà una bibliografia su questi lavori in Jaspers [1933^, p. 299].

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minata. Ne parleremo più avanti, perché teniamo a mante­ nere lo sviluppo del nostro discorso nel suo stato originario; e questo non tanto per scrupolo di originalità, quanto come testimonianza di una convergenza teorica. In materia di me­ todologia, la convergenza conta senz'altro più dell’originalità.

Ci si concederà innanzitutto che la determinazione delle costanti fisiologiche, tramite costruzione di medie ottenute sperimentalmente nell’unica cornice di un laboratorio, ri­ scherebbe di presentare l’uomo normale come un uomo me­ diocre, ben al di sotto delle possibilità fisiologiche di cui gli uomini, in situazione diretta e concreta d’azione su se stessi o sull’ambiente, evidentemente dispongono, anche agli occhi meno informati dal punto di vista scientifico. Si risponderà facendo notare che i confini del laboratorio si sono note­ volmente allargati da Claude Bernard in poi, che la fisiologia estende la sua giurisdizione sui centri d’orientamento e di se­ lezione professionale, sugli istituti di educazione fisica, in­ somma che il fisiologo si occupa dell’uomo concreto, e non del soggetto da laboratorio in situazione quasi completamente ar­ tificiale, che è egli stesso a stabilire i margini di variazione tol­ lerati dai valori biometrici. Quando A. Mayer scrive: «la mi­ sura dell’attività massima della muscolatura nell’uomo è pre­ cisamente l’oggetto del conseguimento dei record sportivi» [1:937, 54-14], viene in mente la battuta di Thibaudet: «sono gli annuari dei record, e non la fisiologia, che rispondono alla domanda: a quanti metri può saltare l’uomo?»4. Insomma la fisiologia non sarebbe che un metodo sicuro e preciso di regi­ strazione e di campionatura delle latitudini funzionali che l’uo­ mo acquista, o piuttosto conquista, progressivamente. Se si può parlare di uomo normale, determinato dal fisiologo, è per­ ché esistono uomini normativi, uomini per i quali è normale infrangere le norme e istituirne di nuove. 4 Le bergsonisme, I, p.

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Non sono soltanto le variazioni individuali apportate a «tem i» fisiologici comuni nell'uomo bianco detto civilizza­ to che ci paiono interessanti come espressione della norma­ tività biologica umana, ma più ancora le variazioni dei temi stessi da gruppo a gruppo, secondo i generi e i livelli di vita, in rapporto a prese di posizione etiche o religiose sulla vita, in una parola a norme collettive di vita. In questo ordine di idee C. Laubry e T. Brosse hanno studiato, grazie alle più moderne tecniche di osservazione, gli effetti fisiologici del­ la disciplina religiosa che consente agli yogi hindu la padro­ nanza pressoché integrale delle funzioni della vita vegetati­ va. Questa padronanza è tale da pervenire alla regolazione dei movimenti peristaltici e antiperistaltici, allo sfruttamen­ to di tutte le possibilità degli sfinteri anale e vescicale, abo­ lendo cosi la distinzione fisiologica delle muscolature striata e liscia. Ciò facendo, essa abolisce anche l'autonomia relati­ va della vita vegetativa. La registrazione simultanea del pol­ so, della respirazione, dell'elettrocardiogramma, la misura del metabolismo basale hanno permesso di constatare che la concentrazione mentale, tendente alla fusione dell’individuo con l’oggetto universale, produce i seguenti effetti: ritmo car­ diaco accelerato, modificazione del ritmo e della pressione del polso, modificazione dell’elettrocardiogramma: basso vol­ taggio generalizzato, scomparsa delle onde, minima fibril­ lazione sulla linea isoelettrica, metabolismo basale ridotto [Laubry e Brosse 1936, p. 1604]. La chiave dell’azione del­ lo yogi sulle funzioni fisiologiche meno apparentemente sot­ tomesse alla volontà, è la respirazione; è ad essa che viene ri­ chiesto di agire sulle altre funzioni, è attraverso il suo ral­ lentamento che il corpo viene collocato «a uno stato di vita rallentata paragonabile a quello degli animali in letargo» [ibid.]. Ottenere una modificazione del ritmo del polso da 50 a 150, un’apnea di 15 minuti, una quasi totale abolizione del­ la contrazione cardiaca, significa davvero infrangere delle norme fisiologiche. A meno che non si scelga di considerare simili risultati come patologici. Ma è manifestamente im-

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possibile: «Se gli yogi ignorano la struttura dei loro organi, sono maestri incontestati delle loro funzioni. Godono di un magnifico stato di salute e tuttavia si sono inflitti anni di esercizi che non avrebbero potuto sopportare se non avesse­ ro rispettato le leggi dell’attività fisiologica» [ibid.]. Laubry e Brosse concludono che in simili casi siamo in presenza di una fisiologia umana alquanto differente dalla semplice fi­ siologia animale: «La volontà sembra agire al modo di una prova farmacodinamica; in tal modo intravediamo per le no­ stre facoltà superiori un potere infinito di regolazione e d’or­ dine» [ibid.]. Di qui le seguenti osservazioni di Brosse sul problema del patologico: Considerato dal punto di vista dell’attività cosciente in rapporto ai livelli psicofisiologici che essa utilizza, il problema della patologia funzionale appare intimamente connesso a quello dell’educazione. Conseguenza di un’educazione del senso, dell’agire, dell’emozione, mal condotta o non condotta, esso richiede con insistenza una riedu­ cazione. Sempre meno l’idea di salute o di normalità appare come quel­ la della conformità a un ideale esteriore (atleta per il corpo, diplo­ mato per l’intelligenza). Essa trova posto nella relazione tra l’io co­ sciente e i suoi organismi psicofisiologici, è relativista e individuali­ sta [1938, p. 49].

Su queste questioni di fisiologia e di patologia compara­ ta si è costretti ad accontentarsi di pochi documenti; i cui autori tuttavia - ed è un fatto sorprendente - giungono, ben­ ché abbiano obbedito a intenzioni non paragonabili, alle me­ desime conclusioni. Porak, che ha cercato nello studio dei ritmi funzionali e dei loro disturbi una via alla conoscenza del sorgere delle malattie, ha mostrato il rapporto tra i ge­ neri di vita e le curve della diuresi e della temperatura (rit­ mi lenti), del polso e della respirazione (ritmi rapidi). I gio­ vani cinesi tra i 18 e i 25 anni hanno una secrezione urina­ ria media di 0,5 cm3al minuto, con oscillazioni tra 0,2 e 0,7, mentre questa secrezione è di 1 cm3per gli europei, con oscil­ lazioni tra 0,8 e 1,5. Porak interpreta questo fatto fisiologi­ co a partire dalle influenze geografiche e storiche combina­

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te nella civiltà cinese. Da questa massa di influenze, egli ne sceglie due, secondo lui capitali: la natura delFalimentazio­ ne (tè, riso, verdure in germoglio) e i ritmi nutritivi, deter­ minati dalla tradizione; e il tipo di attività che, in Cina me­ glio che in Occidente, rispetta lo sviluppo periodico deir at­ tività neuromuscolare. La sedentarietà delle abitudini occi­ dentali ha la propria ripercussione nociva sul ritmo dei li­ quidi. Questo disturbo non esiste in Cina, dove si è conservato il gusto della passeggiata «nell’appassionato de­ siderio di confondersi con la natura» [Porak 1935, pp. 4-6]. Lo studio del ritmo respiratorio (ritmo rapido) fa appari­ re variazioni in rapporto con lo sviluppo e l'anchilosi del bi­ sogno di attività. Questo bisogno è esso stesso in rapporto con i fenomeni naturali o sociali che scandiscono il lavoro umano. Dall'invenzione dell'agricoltura in poi, la giornata solare è una cornice nella quale si iscrive l’attività di molti uomini. La civiltà urbana e le esigenze dell’economia mo­ derna hanno alterato i grandi cicli fisiologici di attività, pur lasciandone sussistere delle vestigia. Su questi cicli fondamentali si innestano dei cicli secondari. Mentre i cambia­ menti di posizione determinano cicli secondari nelle varia­ zioni del polso, sono le influenze psichiche ad essere pre­ ponderanti nel caso della respirazione. La respirazione acce­ lera dal momento del risveglio, dal momento in cui gli occhi si aprono alla luce: Aprire gli occhi significa già assumere Tatteggiamento dello stato di veglia, significa già orientare i ritmi funzionali verso il dispiega­ mento dell’attività neuromotoria, e la versatile funzione respiratoria è pronta alla risposta al mondo esterno: essa reagisce immediatamen­ te all’apertura delle palpebre [Porak 1935, p. 62].

La funzione respiratoria è, per via dell’ematosi che essa assicura, tanto importante per il dispiegamento, improvviso o costante, dell’energia muscolare che una regolazione estre­ mamente sottile deve determinare in un istante variazioni considerevoli del volume d’aria inspirato. L ’intensità respi­

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ratoria dipende dunque dalla qualità dei nostri attacchi o del­ le nostre reazioni, nel nostro contrasto con l’ambiente. Il rit­ mo respiratorio è funzione della coscienza della nostra si­ tuazione nel mondo. Ci si aspetterà che le osservazioni di Porak lo conducano a fornire indicazioni terapeutiche e igieniche. E ciò che in effetti accade. Poiché le norme fisiologiche non definiscono tanto una natura umana, quanto abitudini umane in rappor­ to con generi di vita, livelli di vita e ritmi di vita, ogni rego­ la dietetica deve tenere conto di queste abitudini. Quello che segue è un perfetto esempio di relativismo terapeutico:

I cinesi nutrono di latte i loro bambini durante i primi due anni di vita. Una volta svezzati, i bambini non si nutriranno mai più di lat­ te. Il latte di vacca è considerato un liquido malsano, buono soltanto per i maiali. Ora, io ho spesso sperimentato il latte di vacca con i miei pazienti ammalati di nefrite. Immediatamente si verificava anchilosi urinaria. Rimettendo il malato a regime di tè e riso, una bella crisi uri­ naria ristabiliva l’euritmia \ibid.yp. 99].

Quanto alle cause delle malattie funzionali, esse sono qua­ si tutte, al loro insorgere, delle turbe di ritmi, delle aritmie dovute alla fatica o allo stress, vale a dire a ogni attività che oltrepassi il giusto adattamento dei bisogni dell’individuo alPambiente circostante [ibid., p. 86]. «Impossibile mante­ nere un tipo entro il proprio margine di disponibilità fun­ zionale. La miglior definizione dell’uomo sarebbe, credo, un essere insaziabile, cioè che oltrepassa costantemente i propri bisogni» [ibid., p. 89]. Questa è una buona definizione del­ la salute, e ci prepara a comprendere il suo rapporto con la malattia. Studiando l’eziologia delle malattie della nutrizione, prin­ cipalmente in riferimento al diabete, Marcel Labbé giunge a conclusioni analoghe: Le malattie della nutrizione non sono malattie di organi ma ma­ lattie di funzioni [...]. I vizi dell’alimentazione hanno un ruolo capi­ tale nella genesi dei disturbi della nutrizione [...]. L’obesità è la più frequente e la più semplice di queste malattie create dall’educazione

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dannosa impartita dai genitori [...]. La maggior parte delle malattie della nutrizione sono evitabili [...]. Parlo soprattutto delle abitudini sregolate di vita e di alimentazione che gli individui devono evitare e che i genitori già affetti da disturbi della nutrizione devono guardar­ si dal trasmettere ai loro figli [1936, X, p. 501].

Non si può concludere che considerare Peducazione del­ le funzioni un mezzo terapeutico, come fanno Laubry e Bros­ se, Porak e Marcel Labbé, significhi ammettere che le co­ stanti funzionali sono norme determinate dall’abitudine? Ciò che l’abitudine ha fatto, l’abitudine può disfare e ripristina­ re. Se è possibile definire, in senso non metaforico, le ma­ lattie come vizi, dovrà essere possibile definire, in senso non metaforico, le costanti fisiologiche come virtù nel senso an­ tico del termine, che comprende in sé virtù, potenza e fun­ zione. Le ricerche di Sorre sui rapporti tra le caratteristiche fi­ siologiche e patologiche dell’uomo e i climi, i regimi ali­ mentari, l’ambiente biologico hanno, è il caso di dirlo, tutt’altra portata dalle opere che abbiamo fin qui utilizza­ to. Ma ciò che va notato è che tutti questi punti di vista vi si trovano giustificati, e le loro intuizioni confermate. L ’adattamento degli uomini all’altitudine e la sua azione fi­ siologica ereditaria [Sorre 1943, p. 51], i problemi degli ef­ fetti della luce [ibid., p. 54], della tolleranza termica [ibid., p. 58], dell’acclimatazione [ibid., p. 94], dell’alimentazione a spese di un ambiente vivente creato dall’uomo [ibid., p. 120], della ripartizione geografica e dell’azione plastica dei regimi alimentari [ibid., pp. 245, 275], dell’area d ’estensio­ ne dei complessi patogeni (malattia del sonno, malaria, pe­ ste ecc.) [ibid., p. 291]: tutte queste questioni sono trattate con grande precisione e ampiezza, e con un costante equili­ brio. Certo quello che interessa Sorre è innanzitutto l’eco­ logia dell’uomo, la spiegazione dei problemi di popolamen­ to. Ma, poiché tutti questi problemi si riducono in ultimo a problemi di adattamento, è chiaro che i lavori di un geo­ grafo presentano grande interesse per un saggio metodolo­

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gico sulle norme biologiche. Sorre coglie con grande chia­ rezza: l’importanza del cosmopolitismo della specie umana per una teoria della labilità relativa delle costanti fisiologi­ che; l’importanza degli stati di falso equilibrio adattativo per la spiegazione delle malattie o delle mutazioni; la rela­ zione delle costanti anatomiche e fisiologiche con i regimi alimentari collettivi, che egli annovera molto intelligente­ mente tra le norme [ibid., p. 249]; l’irriducibilità delle tec­ niche di creazione di un ambiente propriamente umano a ragioni puramente utilitarie; l’importanza dell’azione indi­ retta, tramite l’orientamento dell’attività, dello psichismo umano su delle caratteristiche a lungo ritenute naturali co­ me statura, peso, diatesi collettive. Sorre cerca insomma di dimostrare che l’uomo, inteso collettivamente, è alla ricer­ ca dei propri «optima funzionali», vale a dire dei valori di ciascuno degli elementi dell’ambiente per i quali una deter­ minata funzione si espleta al meglio. Le costanti fisiologi­ che non sono costanti nel senso assoluto del termine. Vi è, per ciascuna delle funzioni e per l’insieme di esse, un mar­ gine nel quale gioca la capacità d ’adattamento funzionale del gruppo o della specie. Le condizioni ottimali determi­ nano cosi una zona di popolamento in cui l’uniformità del­ le caratteristiche umane riflette non già l’inerzia di un de­ terminismo bensì la stabilità di un risultato mantenuto da uno sforzo collettivo inconscio ma reale [ibid., pp. 415-16]. Va da sé che ci fa piacere trovare un geografo che fonda la solidità dei propri risultati d ’analisi sull’interpretazione da noi proposta delle costanti biologiche. Le costanti si pre­ sentano con frequenza e valore medi nel gruppo che dà lo­ ro valore di normale, e questo normale è davvero l’espres­ sione di una normatività. La costante fisiologica è l’espres­ sione di un optimum fisiologico in condizioni date, condi­ zioni entro le quali vanno collocate quelle che il vivente in generale, e Yhomo faber in particolare, si danno. Alla luce di queste conclusioni, vorremmo interpretare un po’ diversamente dai loro autori i dati cosi interessanti, che si

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devono a Paies e Monglond, concernenti il tasso di glicemia nei neri d’Africa [Paies e Monglond 1934]. Su 84 indigeni di Brazzaville, il 66 per cento ha presentato un’ipoglicemia, di cui il 39 per cento tra 0,90 g e 0,75 g, e il 27 per cento al di sotto di 0,75 g. Secondo questi autori, il nero deve essere con­ siderato in generale come soggetto ipoglicemico. In ogni caso, il nero sopporta senza disturbi apparenti, e specialmente sen­ za convulsioni né coma, ipoglicemie considerate gravi se non mortali nell’europeo. Le cause di questa ipoglicemia sarebbe­ ro da ricercare nella denutrizione cronica, nel parassitismo in­ testinale polimorfo e cronico, nella malaria. Questi stati sono al limite tra la fisiologia e la patologia. Dal pun­ to di vista europeo, sono patologici; dal punto di vista indigeno, essi sono cosi strettamente legati allo stato abituale del nero che, se non vi fossero i termini comparativi del bianco, si potrebbe quasi consi­ derarli come fisiologici [ibid., p. 767].

A questo proposito siamo dell’opinione che, se l’europeo può servire come norma, ciò avviene soltanto nella misura in cui il suo genere di vita può passare per normativo. L ’indolenza del nero appare a Lefrou, come a Paies e Monglond, in rap­ porto con la sua ipoglicemia [Lefrou 1943, p. 278; Paies e Monglond 1934, p. 767]. Questi ultimi autori affermano che il nero conduce una vita commisurata ai propri mezzi. Ma non si potrebbe affermare allo stesso modo che il nero di­ spone di mezzi fisiologici commisurati alla vita che conduce ?

La relatività di certi aspetti delle norme anatomofisiologiche e, di conseguenza, di certi disturbi patologici nel loro rapporto con il genere di vita e con gli usi, non appare sol­ tanto dalla comparazione dei gruppi etnici e culturali attual­ mente osservabili, ma anche dalla comparazione di questi gruppi attuali con gruppi del passato ora scomparsi. Certo, la paleopatologia dispone di documenti ancora più esigui di quelli di cui dispongono la paleontologia o la paleografia, e

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tuttavia vale la pena di prestare attenzione alle prudenti con­ clusioni che se ne possono trarre. Paies, che ha operato in Francia una buona sintesi dei la­ vori di questo genere, mutua da Roy C. Moodie5 la defini­ zione del documento paleopatologico come ogni deviazione dallo stato sano del corpo che ha lasciato una traccia visibi­ le sullo scheletro fossile [Paies 1929, p. 16]. Se le selci scheg­ giate e l’arte degli uomini dell’età della pietra raccontano la storia delle loro lotte, dei loro lavori e del loro pensiero, le loro ossa evocano la storia dei loro malanni [ibid., p. 307]. La paleopatologia permette di concepire il fatto patologico nella storia della specie umana come un fatto di simbiosi se si tratta di malattie infettive - e ciò non riguarda soltanto l’uomo, ma il vivente in generale - e come un fatto di livel­ lo di cultura o di genere di vita se si tratta di malattie della nutrizione. Le affezioni di cui gli uomini primitivi si sono trovati a patire si presentavano in proporzioni ben differen­ ti da quelle che esse offrono attualmente alla considerazio­ ne. Vallois segnala di aver riscontrato, per la sola preistoria francese, 11 casi di tubercolosi su diverse migliaia di ossa prese in considerazione [Vallois 1934, p. 672]. Se l’assenza di rachitismo, malattia dovuta alla carenza di vitamina D, è normale in un’epoca in cui si faceva uso di alimenti crudi o appena cotti [ibid], la comparsa della carie dentaria, scono­ sciuta ai primi uomini, va di pari passo con la civilizzazione, in relazione all’utilizzo dei farinacei e alla cottura del cibo, che comporta la distruzione delle vitamine necessarie all’as­ similazione del calcio [ibid., p. 677]. Parimenti, l’osteoartrite era molto pili frequente durante l’età della pietra scheg­ giata e nelle epoche seguenti di quanto non lo sia adesso, e questa circostanza va attribuita verosimilmente a un’ali­ mentazione insufficiente, a un clima freddo e umido, dal mo­ mento che la sua diminuzione, ai giorni nostri, riflette una

5 Si troverà nella bibliografia redatta da Paies la lista dei lavori di Roy C. Moo­ die [1929]. Per un’esposizione divulgativa di questi lavori, cfr. H. de Varigny, La mort et la biologie, Alcan, Paris s.d.

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migliore alimentazione, un modo di vita più igienico [ibzd., P



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E facile comprendere la difficoltà di uno studio al quale sfuggono tutte quelle malattie i cui effetti plastici o defor­ manti non siano riusciti a iscriversi nello scheletro degli uo­ mini fossili o esumati nel corso di scavi archeologici. Si com­ prenderà la prudenza obbligata sulle conclusioni di un tale studio. Ma nella misura in cui è possibile parlare di una pa­ tologia preistorica, dovrebbe anche essere possibile parlare di una fisiologia preistorica, come si parla, non del tutto im­ propriamente, di una anatomia preistorica. Appare chiaro, anche in questo caso, il rapporto delle norme biologiche di vita con l'ambiente umano, ad un tempo causa ed effetto del­ la struttura e del comportamento degli uomini. Paies fa giu­ stamente notare che, se Boule ha potuto determinare sull'uo­ mo della Chapelle aux Saints il tipo anatomico classico del­ la razza di Neanderthal, si potrebbe scorgere in esso, senza eccessiva compiacenza, il tipo più perfetto di uomo fossile patologico, affetto da piorrea alveolare, da artrite coxo-femorale bilaterale, da spondilosi cervicale e lombare, ecc. Tut­ to ciò, se si ignorassero le differenze dell’ambiente cosmico, del livello tecnico e del genere di vita che fanno delPanor­ male di oggi il normale di un tempo.

Se pare difficile contestare la qualità delle osservazioni so­ pra utilizzate, si vorrà forse contestare le conclusioni cui esse conducono, e che riguardano il significato fisiologico di co­ stanti funzionali interpretate come norme abituali di vita. In risposta, si farà notare che queste norme non sono frutto di abitudini individuali che un individuo potrebbe prendere o lasciare a propria discrezione. Se si suppone una plasticità fun­ zionale dell'uomo, legata in esso alla normatività vitale, non ci si riferisce a una malleabilità totale e istantanea, né a una malleabilità puramente individuale. Proporre, con tutte le do­ vute riserve, la tesi secondo cui l'uomo ha delle caratteristi­

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che fisiologiche legate alla sua attività, non significa lasciar credere a ogni individuo che egli potrà cambiare la propria glicemia o il proprio metabolismo basale con il metodo Coué o con l'allontanamento dal proprio ambiente. Non si cambia in pochi giorni ciò che la specie elabora nel corso di millenni. Völker ha mostrato che non si cambia il proprio metabolismo basale trasferendosi da Amburgo in Islanda. Cosi Benedict, per quel che riguarda lo spostamento dei nordamericani nel­ le regioni subtropicali. Ma Benedict ha constatato che il me­ tabolismo dei cinesi che vivono da sempre negli Stati Uniti è più basso della norma americana. In linea generale, Benedict ha constatato che alcuni australiani (Kokatas) hanno un me­ tabolismo più basso di quello dei bianchi di pari età, peso e statura che vivono negli Stati Uniti, e che al contrario alcuni indiani (Maya) hanno un metabolismo più alto, con polso ral­ lentato e tensione arteriosa abbassata in modo permanente. Si può dunque concludere, con Kayser e Doncev: Sembra dimostrato che nell’uomo il fattore climatico non abbia effetti diretti sul metabolismo; solo molto progressivamente il clima, modificando il modo di vivere e permettendo la fissazione di razze specifiche, ha avuto un’azione durevole sul metabolismo di base [1934, p. 286].

In definitiva, considerare i valori medi delle costanti fi­ siologiche umane come espressione di norme collettive di vi­ ta, significherebbe soltanto che la specie umana, inventan­ do dei generi di vita, inventa nello stesso tempo degli anda­ menti fisiologici. Ma i generi di vita non sono obbligati ? I lavori della scuola francese di geografia umana hanno mo­ strato che non esiste fatalità geografica. Gli ambienti offro­ no all'uomo soltanto virtualità di utilizzazione tecnica e di attività collettiva. E una scelta decisiva. Non si tratta, be­ ninteso, di una scelta esplicita e cosciente. Ma dal momen­ to che più norme collettive di vita sono possibili in un am­ biente dato, quella che viene adottata e la cui antichità fa ap­ parire naturale, è in fondo frutto di una scelta.

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Tuttavia, in certi casi, è possibile mettere in evidenza l’in­ fluenza di una scelta esplicita sul senso di un andamento fi­ siologico. E la lezione che si trae dalle osservazioni e dalle esperienze relative alle oscillazioni della temperatura nell’ani­ male, al ritmo nictemerale. I lavori di Kayser e dei suoi collaboratori sul ritmo nic­ temerale nel piccione hanno consentito di stabilire che le va­ riazioni della temperatura centrale diurna e notturna nell’ani­ male omeotermo sono un fenomeno della vita vegetativa di­ pendente dalle funzioni di relazione. La riduzione notturna delle modificazioni è l’effetto della soppressione degli ecci­ tanti luminosi e sonori. Il ritmo nictemerale scompare nel piccione reso sperimentalmente cieco e isolato dai suoi simi­ li normali. L ’inversione dell’ordine nella successione luce­ buio inverte il ritmo nel giro di alcuni giorni. Il ritmo nicte­ merale è determinato da un riflesso condizionato mantenu­ to dall’alternanza naturale del giorno e della notte. Quanto al meccanismo, esso consiste non già in una ipoeccitabilità notturna dei centri termoregolatori, bensì nella produzione supplementare, durante il giorno, di una quantità di calore che va ad aggiungersi alla calorificazione identicamente re­ golata di giorno e di notte dal centro termoregolatore. Que­ sto calore dipende dalle eccitazioni provenienti dall’am­ biente, nonché dalla temperatura: col freddo esso aumenta. Scartata ogni produzione di calore derivante da attività mu­ scolare, è soltanto all’aumento del tono di postura, durante il giorno, che bisogna rapportare l’aumento che dà alla tem­ peratura nictemerale il suo andamento ritmico. Il ritmo nic­ temerale di temperatura è per l’animale omeotermo l’espres­ sione di una variazione di atteggiamento dell’intero organi­ smo nei confronti dell’ambiente. Anche durante il riposo, l’energia dell’animale, se esso è sollecitato dall’ambiente, non è integralmente disponibile: una parte di essa è utilizzata in atteggiamenti tonici di vigilanza, di preparazione. La veglia è un comportamento che neppure in assenza di allarmi ha luogo senza spese [Kayser 1929; 1933 b; 1934; 1935].

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Alcune osservazioni ed esperienze relative all’uomo e i cui risultati spesso sono sembrati contraddittori ricevono grande chiarezza dalle precedenti conclusioni. Mosso da un lato e Benedict dall’altro non hanno potuto dimostrare che la curva termica normale dipenda dalle condizioni ambien­ tali. Ma Toulouse e Piéron affermavano nel 1907 che l’in­ versione delle condizioni di vita (attività notturna e riposo diurno) causa nell’uomo la completa inversione del ritmo nictemerale della temperatura. Come spiegare questa contrad­ dizione ? Il fatto è che Benedict aveva osservato soggetti po­ co abituati alla vita notturna, e che, nelle ore di riposo, du­ rante il giorno, partecipavano alla vita normale del loro am­ biente. Secondo Kayser, dal momento che le condizioni spe­ rimentali non sono quelle di un’inversione completa del modo di vita, la dimostrazione di una dipendenza tra il rit­ mo e l’ambiente non può essere fornita. Questa interpreta­ zione è confermata dai seguenti fatti. Nel lattante, il ritmo nictemerale si manifesta progressivamente, parallelamente allo sviluppo psichico del bambino. A otto giorni di vita lo scarto di temperatura è di 0,09 gradi, a cinque mesi di 0,37 gradi, tra 2 e 5 anni di 0,95 gradi. Alcuni autori come Osborne e Völker hanno studiato il ritmo nictemerale nel corso di lunghi viaggi, e constatato che questo ritmo segue esatta­ mente l’ora locale [Kayser 1933by pp. 304-6]. Lindhard se­ gnala che nel corso di una spedizione danese in Groenlan­ dia, tra il 1906 e il 1908, il ritmo nictemerale seguiva l’ora locale, e che si riuscì, a 7Ó°46' nord, a spostare il «giorno» di 12 ore su un intero equipaggio, e cosi pure la curva della temperatura. L ’inversione completa non potè essere ottenu­ ta, per via della persistenza dell’attività normale6. Quello citato è dunque l’esempio di una costante relati­ va a condizioni di attività, a un genere collettivo e al tempo

6 Rapport of thè Danish Expedition of thè North East Coast of Greenland 19061908. Meddelelser om Grönland, Kopenhagen 1917, p. 44. Citato in R. Isenschmid, Physiologie der Wärmeregulation, in Handbuch der norm. u. path. Physiologie, XVII, p. 3, Springer, Berlin 1926.

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stesso individuale di vita, la cui relatività esprime, per un ri­ flesso condizionato a scatto variabile, delle norme di com­ portamento umano. La volontà e la tecnica umane possono trasformare la notte in giorno non soltanto nell'ambiente in cui l'attività umana si sviluppa, ma nell'organismo stesso la cui attività affronta l'ambiente. Non sappiamo in quale mi­ sura altre costanti fisiologiche potrebbero allo stesso modo presentarsi all’analisi come effetto di un docile adattamento del comportamento umano. Ci importa meno fornire una so­ luzione provvisoria che mostrare la necessità di porre un pro­ blema. Ad ogni modo, in questo esempio, riteniamo di uti­ lizzare correttamente il termine «comportamento». Dal mo­ mento che il riflesso condizionato pone in gioco l’attività del­ la corteccia cerebrale, il termine «riflesso» non deve essere inteso in senso stretto. Si tratta di un fenomeno funzionale globale e non segmentale.

Riassumendo, riteniamo che si debbano considerare i con­ cetti di norma e di media come due concetti differenti di cui ci sembra vano tentare la riduzione ad unità con l’annulla­ mento dell’originalità del primo. Ci sembra che la fisiologia abbia di meglio da fare che cercare di definire oggettivamen­ te il normale, e cioè riconoscere l'originale normatività della vita. Il vero ruolo della fisiologia, sufficientemente impor­ tante e difficile, consisterebbe allora nel determinare esatta­ mente il contenuto delle norme in cui la vita è riuscita a sta­ bilizzarsi, senza giudicare in anticipo sulla possibilità o sul­ l'impossibilità di un’eventuale correzione di queste norme. Bichat diceva che l’animale è abitante del mondo mentre il vegetale lo è soltanto del luogo che lo ha visto nascere. Que­ sto pensiero è ancora più vero per l’uomo. L ’uomo è riuscito a vivere in tutti i climi, è l’unico animale - fatta eccezione forse per i ragni - la cui area di espansione coincida con le di­ mensioni della terra. Ma soprattutto, è quell’animale che, tra­ mite la tecnica, riesce a modificare dall’interno anche l’am-

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biente della propria azione. In tal modo, l’uomo si rivela co­ me la sola specie capace di variazione [Vandel 1942]. E as­ surdo supporre che gli organi naturali dell’uomo possano al­ la lunga riflettere l’influenza degli organi artificiali attraver­ so i quali egli ha moltiplicato e moltiplica ancora il potere dei primi? Non ignoriamo che l’eredità dei caratteri acquisiti ap­ pare alla maggior parte dei biologi come un problema risolto negativamente. Ci permettiamo di domandarci se la teoria dell’azione dell’ambiente sul vivente non sia sul punto di sol­ levarsi da un lungo discredito7. Vero è che ci si potrebbe obiet­ tare che in questo caso le costanti biologiche esprimerebbero l’effetto sul vivente delle condizioni esterne d ’esistenza, e che le nostre supposizioni sul valore normativo delle costanti sa­ rebbero prive di senso. Esse lo sarebbero sicuramente se i ca­ ratteri biologici variabili rispecchiassero la modificazione dell’ambiente come le variazioni dell’accelerazione dovute al peso sono in rapporto con la latitudine. Ma ripetiamo che le funzioni biologiche sono inintellegibili, cosi come l’osserva­ zione ce le mostra, se esse rispecchiano soltanto gli stati di una materia passiva davanti alle modificazioni dell’ambien­ te. Di fatto, l’ambiente del vivente è anche l’opera del vivente che si sottrae o si offre per scelta a determinate influenze. Dell’universo di ogni vivente si può dire ciò che Reininger di­ ce dell’universo dell’uomo: «Unser Weltbild ist immer zu­ gleich ein Wertbild»8, la nostra immagine del mondo è sem­ pre anche una tavola di valori. 7 Non ci permettiamo più di domandarcelo oggi [nota del 1972]. 8 Wertphilosophie und Ethik, p. 29, Braumüller, Wien-Leipzig 1939.

Capitolo quarto Malattia, guarigione, salute

Distinguendo anomalia e stato patologico, varietà biolo­ gica e valore vitale negativo, si è in definitiva delegato al vi­ vente stesso, considerato nella sua polarità dinamica, il com­ pito di stabilire dove cominci la malattia. Il che è come dire che in materia di norme biologiche è sempre all’individuo che bisogna riferirsi, perché egli può trovarsi, come dice Gold­ stein, «all’altezza dei doveri che risultano dall’ambiente che gli è proprio» [1934, p. 265], in condizioni organiche che, in un altro individuo, risulterebbero inadeguate a quei doveri. Goldstein afferma, esattamente come Laugier, che una me­ dia statisticamente ottenuta non permette di decidere se un individuo presente di fronte a noi sia o non sia normale. Non possiamo partire da essa per assolvere il nostro dovere medi­ co nei confronti dell’individuo. Trattandosi di una norma sovraindividuale, è impossibile determinare 1’« essere malato» (Kranksein) quanto al contenuto. Ma ciò è perfettamente pos­ sibile per una norma individuale [ibid., pp. 265, 272]. Sigerist insiste in modo analogo sulla relatività indivi­ duale del normale biologico. Se si crede alla tradizione, Na­ poleone avrebbe avuto il polso a 40 anche nei giorni di salu­ te! Se dunque, con 40 pulsazioni al minuto, un organismo soddisfa alle esigenze che gli sono poste, è perché esso è sa­ no, e il numero di quaranta pulsazioni, quantunque davvero aberrante in rapporto al numero medio di settanta pulsazio­ ni, è normale per quell’organismo1. «Non bisognerà dunque,

1 Questa cifra di 40 pulsazioni al minuto appare meno straordinaria di quan­ to faccia intendere l’esempio di Sigerist, se si conosce l’influenza sul ritmo cardia-

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- conclude Sigerist, - accontentarsi di stabilire la compara­ zione con una norma risultante dalla media, ma, per quanto sarà possibile, con le condizioni dell’individuo esaminato» [1932, p. 108]. Se dunque il normale non ha la rigidità di un dato di ne­ cessità collettivo ma la flessibilità di una norma che si tra­ sforma ponendosi in relazione a condizioni individuali, è chiaro che la frontiera tra il normale e il patologico diviene imprecisa. Ma questo non ci conduce in nessun modo alla continuità di un normale e di un patologico identici per es­ senza, variazioni quantitative a parte, a una relatività della salute e della malattia tanto confusa da impedire di capire dove finisca la salute e dove inizi la malattia. La frontiera tra il normale e il patologico è imprecisa per individui diversi considerati simultaneamente, ma è estremamente precisa per un solo e medesimo individuo considerato successivamente. Ciò che è normale in quanto normativo in condizioni date, può divenire patologico in un’altra situazione, se si mantie­ ne identico a se stesso. Di tale trasformazione è giudice l’in­ dividuo, in quanto è lui a patirne, nel momento stesso in cui si sente inferiore ai compiti che la nuova situazione gli po­ ne. Una bambinaia, che adempie perfettamente ai doveri del suo incarico, apprende della propria ipotensione soltanto dai disturbi neurovegetativi che avverte il giorno in cui viene portata in villeggiatura in montagna. Ora va da sé che nes­ suno è tenuto a vivere in quota. Ma è essere superiore po­ terlo fare, perché questo può diventare, a un dato momen­ to, inevitabile. Una norma di vita è superiore a un’altra quan­ do rende possibile ciò che quest’ultima consente e ciò che essa impedisce. Ma in situazioni differenti vi sono norme dif­ ferenti che, in quanto differenti, si equivalgono. Cosi sono tutte normali. In questo ordine di idee, Goldstein dedica co dell’allenamento sportivo. Il polso diminuisce di frequenza con il procedere dell’allenamento. Questa diminuzione è più sentita in un soggetto di 30 anni che in un soggetto di 20 anni. Essa dipende anche dal tipo di sport praticato. In un ca­ nottiere il polso a 40 è indice di ottima forma. Se il polso scende al di sotto di 40, si parla di sovrallenamento.

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grande attenzione alle esperienze di simpatectomia realizza­ te da Cannon e dai suoi collaboratori sugli animali. Questi animali, la cui termoregolazione ha perduto tutta la sua abi­ tuale elasticità, incapaci di lottare per il proprio nutrimento o contro i propri nemici, sono normali soltanto nell’ambien­ te di laboratorio, dove sono al riparo dalle variazioni bruta­ li e dalle esigenze improvvise dell’adattamento all’ambiente [Goldstein 1934, pp. 276-77]. Questo normale non può tut­ tavia dirsi veramente normale. Perché, per il vivente non ad­ domesticato e non preparato sperimentalmente, è normale vivere in un ambiente dove sono possibili fluttuazioni e even­ ti nuovi. Dobbiamo pertanto affermare che lo stato patologico o anormale non consiste nell’assenza di qualunque norma. La malattia è anch’essa una norma di vita, ma è una norma in­ feriore, nel senso che essa non tollera alcun allontanamen­ to dalle condizioni in cui vale, incapace com’è di trasfor­ marsi in un’altra norma. Il vivente malato è normalizzato in condizioni di esistenza definite e ha perduto la capacità nor­ mativa, la capacità di istituire nuove norme in nuove con­ dizioni. Si è da tempo notato che nel caso dell’osteoartrite tubercolotica del ginocchio, l’articolazione si immobilizza in posizione scorretta (posizione detta di Bonnet). E Nélaton che per primo ne ha dato la spiegazione, sempre classi­ ca: «E raro che l’arto conservi la propria ordinaria forma retta. In effetti, per calmare i loro dolori, i malati assumo­ no una posizione intermedia tra la flessione e l’estensione, il che fa si che i muscoli esercitino meno pressione sulle su­ peraci articolari» [1847-48, II, p. 209]. Il senso edonico, e di conseguenza normativo, del comportamento patologico viene qui colto appieno. L ’articolazione assume la propria forma di capacità massima, sotto l’influenza della contrat­ tura muscolare, e lotta cosi spontaneamente contro il dolo­ re. La posizione può dirsi scorretta solo in rapporto a un uso dell’articolazione che ammetta tutte le possibili posizioni tranne la flessione anteriore. Ma sotto questo difetto si na­

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sconde un’altra norma, in altre condizioni anatomo-patologiche.

L ’osservazione clinica, compiuta sistematicamente, di soggetti che avevano riportato ferite al cervello durante la Grande Guerra, ha permesso a Goldstein di formulare alcu­ ni principi generali di nosologia neurologica di cui mette con­ to fornire un breve cenno. Se è vero che i fenomeni patologici sono modificazioni regolari dei fenomeni normali, non si può trarre dai primi lu­ me sui secondi se non a condizione di aver colto il senso ori­ ginale di tale modificazione. Pertanto, bisogna anzitutto co­ minciare col comprendere il fenomeno patologico come ri­ velatore di una struttura individuale modificata. Bisogna sempre tener presente la trasformazione della personalità del malato. Altrimenti si rischia di ignorare che il malato, anche se è capace di reazioni simili a quelle che gli erano possibili in precedenza, può pervenire ad esse per tutt’altre vie. Que­ ste reazioni, apparentemente equivalenti alle reazioni nor­ mali precedenti, non sono residui del comportamento nor­ male precedente, non sono il risultato di un impoverimento o di una diminuzione, non sono l’andamento normale della vita meno qualcosa che è stata distrutta: esse sono reazioni che non si presentano mai nel soggetto normale sotto la me­ desima forma e nelle medesime condizioni [Goldstein 1933]. Per definire lo stato normale di un organismo bisogna te­ nere conto del comportamento privilegiato, per comprendere la malattia bisogna tenere conto della reazione catastrofica. Per comportamento privilegiato si deve intendere ciò che se­ gue: tra tutte le reazioni di cui un organismo è capace in con­ dizioni sperimentali, solo alcune sono utilizzate e come pre­ ferite. Questo andamento di vita caratterizzato da un insie­ me di reazioni privilegiate è quello in cui il vivente meglio risponde alle esigenze del proprio ambiente e vive in armo­ nia con esso, quello che comporta l’ordine e la stabilità mag-

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giori e la minor quantità di esitazione, di smarrimento, di reazioni catastrofiche [Goldstein 1934, p. 24; Gurwitsch 1939, pp. 131-34]. Le costanti fisiologiche (polso, pressione arteriosa, temperatura, ecc.) sono l’espressione di questa sta­ bilità ordinata del comportamento per un organismo indivi­ duale in determinate condizioni ambientali.

I sintomi patologici sono l’espressione del fatto che le relazioni tra organismo e ambiente che rispondono alla norma sono state cam­ biate dal cambiamento dell’organismo e che molte cose che erano nor­ mali per l’organismo normale non lo sono più per l’organismo modi­ ficato. La malattia è vacillamento e messa in pericolo dell’esistenza. Dunque la definizione della malattia richiede, come punto di parten­ za, la nozione di essere individuale. La malattia compare quando l’or­ ganismo è modificato in modo da pervenire a reazioni catastrofiche nell’ambiente che gli è proprio. Ciò si manifesta non soltanto in cer­ ti disturbi funzionali determinati a seconda della localizzazione del deficit, ma in modo molto generale perché, come abbiamo appena vi­ sto, un comportamento squilibrato rappresenta sempre un comporta­ mento più o meno squilibrato di tutto l’organismo [Goldstein 1934, pp. 268-69].

Goldstein ha rilevato nei suoi malati l’instaurazione di nuove norme di vita attraverso una riduzione del livello del­ la loro attività, in rapporto con un ambiente nuovo ma ri­ stretto. Il restringimento dell’ambiente, nei malati colpiti da lesioni cerebrali, risponde alla loro impotenza a rispondere al­ le esigenze dell’ambiente normale, vale a dire precedente. In ambiente non severamente protetto, questi malati conosce­ rebbero soltanto reazioni catastrofiche; ora, per quanto il ma­ lato non soccomba alla malattia, la sua preoccupazione è di sfuggire all’angoscia delle reazioni catastrofiche. Di qui la ma­ nia dell’ordine, la meticolosità di questi malati, il loro gusto positivo della monotonia, il loro attaccamento a una situa­ zione che sanno di poter dominare. Il malato è malato perché può ammettere soltanto una norma. Per usare una espressio­ ne di cui ci siamo già serviti, il malato non è anormale per as­ senza di norma, ma per incapacità di essere normativo. Si vede quanto, con una tale visione della malattia, ci si

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trovi lontano dalla concezione di Comte o di Bernard. La malattia è un’esperienza di innovazione positiva del vivente e non più soltanto un fatto diminutivo o moltiplicativo. Il contenuto dello stato patologico non si lascia dedurre dal con­ tenuto della salute, con la sola differenza del formato: la ma­ lattia non è una variazione della dimensione della salute; es­ sa è una nuova dimensione della vita. Per quanto nuove pos­ sano sembrare queste concezioni al pubblico francese2, esse non devono far dimenticare che sono il risultato, in materia neurologica, di una lunga e feconda evoluzione di pensiero il cui principio risale a Hughlings Jackson. Jackson si rappresenta le malattie del sistema nervoso del­ la vita di relazione come dissoluzioni di funzioni gerarchizzate. Ogni malattia corrisponde a un livello in questa gerar­ chia. Bisogna dunque, in ogni interpretazione di sintomi pa­ tologici, tenere conto dell’aspetto negativo e dell’aspetto positivo. La malattia è a un tempo privazione e modifica­ zione. La lesione di un centro nervoso superiore libera i cen­ tri inferiori da una regolazione e un controllo. Le lesioni so­ no responsabili della privazione di certe funzioni, ma le tur­ be delle altre funzioni vanno attribuite alP attività propria dei centri ormai insubordinati. Secondo Jackson, nessun fat­ to positivo può avere una causa negativa. Una perdita o un’assenza non sono sufficienti a produrre un disturbo del comportamento sensoriale e neuromotorio [Ey e Rouart 1936]. Allo stesso modo in cui Vauvenargues afferma che non si devono giudicare le persone in base a ciò che ignora­ no, ma in base a ciò che sanno e al modo in cui lo sanno, Jack­ son propone questo principio metodologico, che Head ha so­ prannominato regola aurea: «Fate caso a ciò che il paziente comprende realmente ed evitate termini come amnesia, alessia, sordità verbale, ecc.» [Mourgue 1921, p. 759]. Non si­ 2 L ’opera di M. Merleau-Ponty, Structure du comportement, Alcan, Paris 1942, ha fatto molto per la diffusione delle idee di Goldstein. [Una traduzione francese di Aufbau des Organismus, a cura di E. Burckardt e J. Kuntz, è apparsa nel 1951 (ed. Gallimard, Paris), con il titolo di La structure de Vorganisme-, nota del 1972].

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gnifica nulla dire che un malato ha perduto le sue parole, fin tanto che non si specifica in quale situazione tipica questo deficit è percepibile. Si domandi a un soggetto considerato afasico: «Il suo nome è Jean ?», egli risponderà: «N o». Ma se gli si ordina: «Dica no», egli tenterà senza riuscire. Una stessa parola può essere detta se ha valore di interiezione, e non essere detta se ha valore di giudizio. Talvolta il malato non riesce a pronunciare la parola ma raggiunge lo scopo con una perifrasi. Supponiamo, dice Morgue, che il malato, non avendo potuto nominare alcuni oggetti usuali, dica di fron­ te a un calamaio: «Questo è ciò che io chiamerei un vasetto di porcellana per contenere dell’inchiostro». Si può in que­ sto caso parlare di amnesia? [ibid., p. 760]. Il grande insegnamento di Jackson è che il linguaggio, e in generale ogni funzione della vita di relazione, è suscetti­ bile di diversi usi, in particolare di un uso intenzionale e di un uso automatico. Nelle azioni intenzionali vi è un proget­ to: l’azione è eseguita in potenza, immaginata, prima di es­ sere effettivamente eseguita. Nel caso del linguaggio, si pos­ sono distinguere due momenti dell’elaborazione di una pro­ posizione intenzionalmente ed astrattamente significativa: un momento soggettivo, in cui le nozioni vengono automa­ ticamente alla mente, e un momento oggettivo, in cui esse sono intenzionalmente disposte secondo un piano proposi­ zionale. Ora, A. Ombredane fa notare che lo scarto tra que­ sti due momenti varia a seconda delle differenti lingue: Se vi sono lingue in cui questo scarto è molto accentuato, come si vede nella posposizione del verbo in tedesco, vi sono anche lingue in cui esso si riduce. Analogamente, se si tiene presente che, secondo Jackson, 1’afasico non può in nessun modo oltrepassare lo stadio del momento soggettivo dell’espressione, si può, come ha fatto Arnold Pick, supporre che la gravità dello squilibrio [désordre] afasico varii se­ condo la struttura della lingua nella quale il malato cerca di esprimer­ si [1939, p. 194].

Le teorie di Jackson devono insomma servire d ’introdu­ zione alle teorie di Goldstein. Il malato deve sempre essere

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giudicato in rapporto alla situazione cui egli reagisce e agli strumenti d ’azione che il suo ambiente gli offre - la lingua, nel caso dei disturbi del linguaggio. Non esiste un disturbo patologico in sé: l’anormale può essere valutato soltanto nel­ l’ambito di una relazione. Ma, per quanto corretto sia l’accostamento effettuato tra Jackson e Goldstein da Ombredane [ibid .], Ey e Rouart [1936] e Cassirer [1929], non sarebbe possibile ignorare la lo­ ro profonda differenza e l’originalità di Goldstein. Jackson si pone da un punto di vista evoluzionista, ritiene che i centri gerarchizzati delle funzioni di relazione e i diversi usi di que­ ste funzioni rispondano a differenti stadi dell’evoluzione. Il rapporto di dignità funzionale è anche un rapporto di suc­ cessione cronologica; superiore e posteriore si confondono. E la posteriorità delle funzioni superiori che spiega la loro fra­ gilità e la loro precarietà. La malattia, essendo dissoluzione, è anche regressione. L ’afasico o l’aprassico regrediscono a un linguaggio o a una gestualità di tipo infantile, o addirittura animale. La malattia, pur essendo modificazione di ciò che resta e non soltanto perdita di qualcosa che si possedeva, non crea nulla: essa ricaccia il malato, come dice Cassirer «indie­ tro di una tappa su quella strada che l’umanità ha dovuto aprirsi lentamente e con sforzo costante» [ibid., p. 566]. Ora se è vero che, secondo Goldstein, la malattia è un modo ri­ dotto di vita, privo di generosità creatrice in quanto privo di audacia, ciò non toglie che per l’individuo la malattia sia una vita nuova, caratterizzata da nuove costanti fisiologiche, da nuovi meccanismi di conseguimento di risultati in apparenza immutati. Di qui il seguente ammonimento, già citato: Bisogna guardarsi dal credere che i diversi atteggiamenti di cui un ma­ lato è capace rappresentino soltanto una sorta di residuo del comporta­ mento normale, ciò che è sopravvissuto alla distruzione. Gli atteggia­ menti che sopravvivono nel malato non si presentano mai sotto la stes­ sa forma nel soggetto normale, neppure agli stadi inferiori della sua ontogenesi o della sua filogenesi, come si ammette troppo di frequente. La malattia ha dato loro forme particolari, comprensibili appieno sol­ tanto se si tiene conto dello stato morboso [1933, p. 437].

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Se è in effetti possibile paragonare la gestualità di un adul­ to malato a quella di un bambino, 1’assimilazione essenziale delTuna all’altra avrebbe come risultato la possibilità di de­ finire simmetricamente il comportamento del bambino co­ me quello di un adulto malato. Sarebbe un’assurdità, perché significherebbe ignorare quell’avidità che spinge il bambino a innalzarsi continuamente a nuove norme, avidità cosi profondamente opposta all’istinto di conservazione che gui­ da il malato nel mantenimento ossessivo e spesso esasperan­ te delle sole norme di vita all’interno delle quali egli si sen­ te quasi normale, vale a dire in grado di utilizzare e domi­ nare il proprio ambiente. Ey e Rouart hanno colto appieno, su questo punto speci­ fico, l’insufficienza della concezione di Jackson: Nell’ordine delle funzioni psichiche, la dissoluzione produce tan­ to una regressione di capacità quanto un’involuzione verso un livello inferiore dell’evoluzione della personalità. La regressione di capacità non riproduce esattamente uno stadio passato, ma si avvicina ad esso (disturbi del linguaggio, della percezione ecc.). L’involuzione della personalità, proprio in quanto totale, non può in alcun modo essere assimilata a una fase storica dello sviluppo ontogenetico o filogeneti­ co, giacché essa reca il segno della regressione di capacità, e in più, in quanto modo di reazione della personalità al momento attuale, essa non può, anche amputata delle sue istanze superiori, ritornare a un modo di reazione passato. Questo spiega il motivo per cui, per quan­ te analogie si possa trovare tra il delirio e la mentalità del bambino o la mentalità primitiva, non si può concludere che tra le due vi sia iden­ tità [Ey e Rouart 1936, p. 327].

Sono ancora le idee di Jackson che hanno guidato Delmas-Marsalet nell’interpretazione dei risultati ottenuti in te­ rapia neuropsichiatrica con l’uso dell’elettroshock. Ma, non contento di distinguere con Jackson disturbi negativi per de­ ficit e disturbi positivi per liberazione delle parti sane, Delmas-Marsalet, come Ey e Rouart, insiste su ciò che di anor­ male, cioè per la precisione di nuovo, fa comparire la malat­ tia. In un cervello sottoposto a effetti tossici, traumatici, infettivi, possono comparire modificazioni consistenti in

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legami nuovi tra un territorio e F altro, in orientamenti di­ namici differenti. Un tutto cellulare, quantitativamente im­ mutato, è suscettibile di un concatenamento nuovo, di lega­ mi differenti di «tipo isomerico», cosi come, in chimica, gli isomeri sono composti a formula globale identica, ma in es­ sa alcune catene sono collocate differentemente in rapporto a un nucleo comune. Dal punto di vista terapeutico, si deve ammettere che il coma ottenuto tramite elettroshock per­ mette, dopo una dissoluzione delle funzioni neuropsichiche, una ricostruzione che non è necessariamente la ricomparsa rovesciata delle tappe della dissoluzione precedente. La gua­ rigione può essere interpretata tanto come mutazione di un concatenamento in un altro quanto come ricostituzione del­ lo stato iniziale [Delmas-Marsalet 1943]. Se citiamo qui que­ ste recenti concezioni è per mostrare fino a che punto tenda a imporsi l’idea che il patologico non si deduce linearmente dal normale. Chi rifiutasse il linguaggio e il procedimento di Goldstein, accetterà le conclusioni di Delmas-Marsalet, pro­ prio in ragione di quella che personalmente consideriamo la loro debolezza, cioè il vocabolario e le immagini da atomi­ smo psicologico (edificio, mattoni, concatenamenti, archi­ tettura ecc.) che esse utilizzano per la propria formulazione. Ma, linguaggio a parte, la loro onestà clinica indica fatti che vale la pena prendere in considerazione.

Forse si vorrà obiettare che, trattando delle idee di Gold­ stein e del loro rapporto con quelle di Jackson, ci troviamo nell’ambito dei disturbi psichici, piuttosto che in quello dei disturbi somatici, che descriviamo deficienze dell’attività psi­ comotoria, piuttosto che alterazioni di funzioni fisiologiche propriamente dette; ed era dal punto di vista di queste ulti­ me che avevamo dichiarato di volerci collocare. Potremmo rispondere che abbiamo affrontato non solo la trattazione, ma la lettura stessa di Goldstein solo di recente, e che tutti gli esempi di fatti patologici che abbiamo portato a sostegno

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delle nostre ipotesi e proposizioni - per le quali le idee di Goldstein sono un suggerimento e non un’ispirazione - so­ no presi a prestito dalla fisiopatologia. Preferiamo però ci­ tare nuovi lavori che attengano incontestabilmente alla fi­ siopatologia, e i cui autori non debbano niente a Goldstein per quanto riguarda l’impostazione delle loro ricerche. In campo neurologico si era da tempo notato, tramite os­ servazione clinica e sperimentazione, che la sezione dei ner­ vi comporta sintomi che la sola discontinuità anatomica non è sufficiente a spiegare. Durante la prima Guerra mondiale, una grande quantità di fatti relativi a disturbi secondari d ’or­ dine sensoriale e motorio, conseguenti a ferite e interventi chirurgici, richiamarono nuovamente l’attenzione. Le spie­ gazioni di allora chiamavano in causa la supplenza anatomi­ ca, pseudo-restaurazioni e, in mancanza di meglio, come ac­ cade spesso, il pitiatismo. Il grande merito di Leriche è di aver studiato sistematicamente, nel 1919, la fisiologia dei monco­ ni nervosi, e sistematizzato le osservazioni cliniche sotto il nome di «sindrome del neuroglioma». Nageotte chiamava neuroma da amputazione il bottone rigonfio, sovente molto pronunciato, fatto di cilindrassi e di neuroglia che si forma nel tronco centrale di un nervo sezionato. Leriche per primo vide che il neuroma è il punto di partenza di un fenomeno di tipo riflesso e localizzò nelle neuriti sparse del moncone cen­ trale l’origine del suddetto riflesso. La sindrome del neuro­ glioma comporta un aspetto privativo e un aspetto positivo, cioè la comparsa di un disturbo nuovo. Leriche, supponendo che le fibre simpatiche siano la via ordinaria dell’eccitazione nata a livello del neuroglioma, ritiene che queste eccitazioni ... determinino riflessi vasomotori inattesi e di qualità inconsueta, qua­ si sempre di tipo vasocostrittore; sono questi riflessi che, producendo un’ipertrofia della fibra liscia, determinano alla periferia una vera e propria nuova malattia, giustapposta al deficit motorio e sensoriale di­ pendente dalla sezione nervosa. Questa malattia nuova è caratteriz­ zata da cianosi, raffreddamento, edema, disturbi trofici, dolori [1940, P-

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La conclusione terapeutica di Leriche è che si deve im­ pedire la formazione del neuroglioma, in particolare ricor­ rendo al trapianto nervoso. Il trapianto non ristabilisce for­ se la continuità anatomica, ma incapsula in qualche modo l’estremità del tronco centrale e canalizza i neuriti spingen­ doli verso il tronco superiore. Si può anche utilizzare una tecnica messa a punto da Förster e consistente nella legatu­ ra del nevrilemma e nella mummificazione del moncone tra­ mite iniezione di alcool puro. A.-G. Weiss, lavorando nella stessa direzione di Leriche, ritiene ancor più radicalmente di lui che, nel caso della ma­ lattia del neuroglioma, conviene ed è sufficiente sopprimere immediatamente il neuroglioma, senza perdere tempo a «mimare» con il trapianto o la sutura un ristabilimento della con­ tinuità anatomica. In tal modo non si mira certo a una re­ stituzione integrale alla zona del nervo leso. Ma si tratta di scegliere. Per esempio, di fronte a un artiglio cubitale, si im­ pone la scelta tra attendere una guarigione possibile dalla pa­ ralisi, nel caso in cui la ricostituzione della continuità ner­ vosa abbia luogo tramite trapianto, oppure consentire im­ mediatamente al malato l’uso di una mano che, pur restando in parte paralizzata, risulta dotata di un’agilità funzionale al­ quanto soddisfacente. Le ricerche istologiche di Klein possono forse rendere conto di tutti questi fenomeni [Weiss e Klein 1943]. Quali che siano in dettaglio le modalità osservate a seconda dei ca­ si (sclerosi, infiammazione, emorragia, ecc.), ogni esame isto­ logico di neuroma rivela un fatto costante, e cioè il contatto persistente stabilito tra il neuroplasma dei cilindrassi e la pro­ liferazione, talvolta in proporzioni considerevoli, della guai­ na di Schwann. Questa constatazione autorizza un accosta­ mento tra i neuromi e le terminazioni recettrici della sensi­ bilità generale, costituite dalla terminazione del neurite propriamente detto e da elementi differenziati ma derivan­ ti sempre dalla guaina di Schwann. Questo accostamento confermerebbe le concezioni di Leriche secondo cui il neu-

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roglioma è proprio un punto di partenza di eccitazioni non abituali. Comunque sia, A.-G. Weiss e J. Wärter hanno motivo di affermare: La malattia del neuroglioma fuoriesce singolarmente dal quadro della semplice interruzione motoria e sensoriale e molto spesso, per la sua gravità, essa costituisce l’essenziale dell’invalidità. Tant’è vero che se, in un modo o nell’altro, si giunge a liberare il malato dai di­ sturbi legati all’esistenza del neuroglioma, la paralisi sensoriale e mo­ toria che resta riveste un aspetto davvero secondario e spesso compa­ tibile con un uso pressoché normale della parte colpita [1943].

L ’esempio della malattia del neuroglioma ci pare perfet­ tamente adatto a illustrare l’idea che la malattia non è sol­ tanto scomparsa di un ordine fisiologico ma comparsa di un nuovo ordine vitale, idea che è tanto di Leriche - come si è visto nella prima parte di questo studio - quanto di Gold­ stein, e che potrebbe a buon diritto avvalersi della teoria bergsoniana del disordine. Non vi è disordine: vi è sostitu­ zione, a un ordine abituale o amato, di un altro ordine con cui si deve entrare in contatto o di cui si deve soffrire.

Tuttavia, mostrando che una ricpstituzione funzionale, soddisfacente tanto agli occhi del malato quanto a quelli del suo medico, può essere ottenuta senza restitutio ad integrum nell’ordine anatomico teoricamente corrispondente, Weiss e Wärter offrono alle idee di Goldstein sulla guarigione una conferma per loro certamente imprevista. Afferma Goldstein: Essere sano significa essere in grado di comportarsi in modo or­ dinato, e questo può accadere malgrado l’impossibilità di certe attua­ zioni precedentemente possibili. Ma [...] la nuova salute non è ugua­ le alla vecchia. Come la vecchia normalità era caratterizzata da una determinazione precisa del contenuto, cosi un cambiamento di con­ tenuto identifica la nuova normalità. Il che va da sé, secondo il no­ stro concetto di organismo a contenuto determinato, e assume la più grande importanza per la nostra condotta nei confronti del paziente guarito [...]. Guarire, malgrado i deficit, va sempre di pari passo con

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perdite essenziali per l’organismo e, nello stesso tempo, con la ricom­ parsa di un ordine. A ciò risponde una nuova norma individuale. Quanto sia importante ritrovare un ordine nel corso della guarigione, appare chiaro dal fatto che l’organismo sembra tendere prima di tut­ to a conservare o ad acquisire certe particolarità che permettono di farlo. Ciò conferma che l’organismo sembra mirare prima di tutto all’ottenimento di certe costanti. In certi ambiti possiamo eventual­ mente, nel corso della guarigione, riscontrare - malgrado i deficit che persistono - trasformazioni rispetto al passato, ma le proprietà sono nuovamente costanti. Ritroviamo delle costanti, nell’ambito somati­ co come nell’ambito psichico: per esempio, il polso modificato rispetto a prima, ma relativamente costante, e cosi la pressione sanguigna, la glicemia, il comportamento psichico globale ecc. Queste nuove co­ stanti garantiscono il nuovo ordine. Possiamo comprendere il com­ portamento dell’organismo guarito soltanto se indirizziamo l’atten­ zione su ciò. Non abbiamo il diritto di tentare di modificare quelle costanti: in tal modo non creeremmo altro che un nuovo disordine. Abbiamo imparato a non lottare sempre contro la febbre, ma a con­ siderare in alcuni casi l’aumento di temperatura come una delle co­ stanti necessarie a condurre alla guarigione. Lo stesso vale per una pressione sanguigna elevata o per certi cambiamenti nello psichismo. Esistono molte altre costanti modificate di quel tipo che tendiamo an­ cor oggi a sopprimere come nocive, mentre faremmo meglio a rispet­ tarle [1933, p. 272].

Contrariamente a un modo di citare Goldstein che sa di un’iniziazione a una fisiologia ermetica o paradossale, si por­ rebbe qui volentieri l’accento sull’oggettività e persino sulla banalità delle sue idee portanti. Non sono soltanto osserva­ zioni di clinici estranei alle sue tesi, che vanno nella stessa direzione delle sue ricerche; sono anche constatazioni speri­ mentali. Kayser non scriveva forse nel 1932: L’ariflessia osservata dopo una sezione spinale trasversale è do­ vuta all’interruzione dell’arco riflesso stesso. La scomparsa dello sta­ to di choc, accompagnata dalla ricomparsa dei riflessi, non è, per es­ sere precisi, un ristabilimento, ma la costituzione di un nuovo indivi­ duo «ridotto». Si crea una nuova entità, «l’animale spinale» (Weizsäcker) [1933*2, p. 115].

Affermando che le nuove norme fisiologiche non sono l’equivalente delle norme anteriori alla malattia, Goldstein

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non fa insomma che confermare il dato fisiologico fondamentale che la vita non conosce la reversibilità. E tuttavia, pur non ammettendo ristabilimenti, la vita ammette ripara­ zioni che sono vere e proprie innóvazioni fisiologiche. La ri­ duzione più o meno rilevante di queste possibilità di inno­ vazione misura la gravità della malattia. Quanto alla salute, in senso assoluto, essa non è altro che Yindeterminazione ini­ ziale della capacità di istituzione di nuove norme biologiche.

Il frontespizio del tomo VI dell’Encyclopédie française, « l’Essere umano», pubblicato sotto la direzione di Leriche, rappresenta la salute sotto forma di un atleta, un lanciatore del peso. Questa semplice immagine ci pare tanto gravida d’insegnamento quanto tutte le pagine seguenti, consacrate alla descrizione dell’uomo normale. Vogliamo ora raccoglie­ re tutte le nostre riflessioni, sparse nel corso delle trattazio­ ni e degli esami critici precedenti, per trarne l’abbozzo di una definizione della salute. Se si riconosce che la malattia sia una sorta di norma bio­ logica, questo comporta che lo stato patologico non possa es­ sere detto anormale assolutamente, ma anormale in relazio­ ne a una situazione determinata. Reciprocamente, essere sa­ no ed essere normale non sono del tutto equivalenti, dal momento che il patologico è una sorta di normale. Essere sa­ no non significa soltanto essere normale in una situazione data, ma anche essere normativo, in quella situazione e in al­ tre situazioni eventuali. Ciò che caratterizza la salute è la possibilità di oltrepassare la norma che definisce il normale momentaneo, la possibilità di tollerare infrazioni alla norma abituale e di istituire norme nuove in situazioni nuove. Si è normali, in un ambiente e in un sistema di esigenze dati, con un solo rene. Ma non ci si può più permettere il lusso di per­ dere un rene: bisogna risparmiarlo e risparmiarsi. Le pre­ scrizioni del buon senso medico sono cosi familiari che non vi si cerca alcun senso profondo. E tuttavia, quanto è dolo­

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roso e difficile obbedire a un medico che dice: riguardatevi! «Riguardarmi è facile a dirsi, ma io ho il mio daffare»3, di­ ceva durante una visita in ospedale una madre di famiglia che non aveva, cosi dicendo, alcuna intenzione di fare del­ l'ironia o dei giochi di parole. Un «daffare» è l'eventualità del marito o del figlio malato, del paio di pantaloni strappa­ ti che bisogna aggiustare la sera quando il bambino è a let­ to, perché ha solo un paio di pantaloni, della corsa lontano per trovare il pane se la solita panetteria è chiusa per infra­ zione al regolamento ecc. Risparmiarsi, che impresa, quan­ do si viveva senza sapere a che ora si sarebbe mangiato, sen­ za sapere se la scala era o non era ripida, senza sapere l'ora dell'ultimo tram, perché, se era trascorsa, si tornava a casa a piedi, anche di lontano. La salute è un margine di tolleranza nei confronti delle in­ fedeltà dell'ambiente. Ma non è assurdo parlare di infedeltà dell’ambiente? Passi ancora per l'ambiente sociale umano, dove le istituzioni sono in fondo precarie, le convenzioni re­ vocabili, le mode rapide come un lampo. Ma l’ambiente co­ smico, l’ambiente dell’animale in generale, non è un sistema di costanti meccaniche, fisiche e chimiche, non è fatto di in­ varianti? Certo, questo ambiente, nella definizione della scienza, è fatto di leggi: ma queste leggi sono astrazioni teo­ riche. Il vivente non vive in mezzo a leggi, ma in mezzo ad esseri e avvenimenti che diversificano queste leggi. Ciò che sostiene l’uccello è il ramo, non le leggi dell’elasticità. Se ri­ duciamo il ramo alle leggi dell’elasticità, non dobbiamo più parlare di uccello, ma di soluzioni colloidali. A un tale livel­ lo di astrazione analitica, per un vivente non è più questione di ambiente, né di salute, né di malattia. Parimenti, ciò che la volpe mangia è un uovo di gallina, non la chimica degli albuminoidi o le leggi dell’embriologia. In quanto il vivente qualificato vive in un mondo di oggetti qualificati, esso vive

3 Gioco di parole intraducibile tra se ménager, riguardarsi, curarsi della propria salute, e ménage, daffare, faccende di casa [N A T .].

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in un mondo di eventi possibili. Nulla avviene per caso, ma tutto capita sotto forma di evento. In ciò l’ambiente è infe­ dele. La sua infedeltà è proprio il suo divenire, la sua storia. La vita non è dunque per il vivente uno svolgimento mo­ notono, un movimento rettilineo: essa ignora la rigidità geo­ metrica, essa è contrasto o discussione (ciò che Goldstein chiama Auseinandersetzung[) con un ambiente nel quale vi so­ no fessure, buchi, ostacoli e resistenze inattese. Lo ripetia­ mo. Non vogliamo fare professione - oggi alquanto di moda - di indeterminismo. Sosteniamo che la vita di un vivente, foss’anche un’ameba, non riconosce le categorie di salute e di malattia se non sul piano dell’esperienza, che è prova in­ nanzitutto nel senso affettivo del termine, e non sul piano della scienza. La scienza spiega l’esperienza, ma non per que­ sto la annulla. La salute è un insieme di sicurezze e assicurazioni (ciò che i tedeschi chiamano Sicherungen)', sicurezze nel presente e as­ sicurazioni per il futuro. Come vi è un’assicurazione psico­ logica che non è presunzione, cosi vi è un’assicurazione bio­ logica che non è eccesso, ed è la salute. La salute è un vola­ no regolatore delle possibilità di reazione. La vita permane abitualmente al di qua delle proprie possibilità, ma, al biso­ gno, si rivela superiore alla capacità prevista. Ciò è eviden­ te nelle reazioni di difesa di tipo infiammatorio. Se la lotta contro l’infezione fosse istantaneamente vittoriosa, non vi sarebbe infiammazione. Tanto meno vi sarebbe infiamma­ zione se le difese organiche venissero immediatamente espu­ gnate. Se vi è infiammazione è perché la difesa anti-infettiva viene ad un tempo sorpresa e mobilitata. Essere in buo­ na salute significa poter cadere malati e risollevarsene: è un lusso biologico. Inversamente, è proprio della malattia essere una ridu­ zione del margine di tolleranza delle infedeltà dell’ambien­ te. E parlando di riduzione non intendiamo cadere sotto i colpi della critica che abbiamo portato alle concezioni di Au­ guste Comte e di Claude Bernard. Questa riduzione consi­

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ste nel poter vivere soltanto in un altro ambiente e non solo in alcune parti del vecchio ambiente. E ciò che ha visto be­ ne Goldstein. In fondo il timore popolare di fronte alle com­ plicazioni delle malattie non fa che riflettere quest'espe­ rienza. Si teme maggiormente la malattia in cui una data ma­ lattia rischia di precipitarci, che non la malattia stessa, perché ciò che ha luogo è una precipitazione di malattie piuttosto che una complicazione della malattia. Ciascuna malattia ri­ duce il potere di affrontare le altre, usa l’assicurazione bio­ logica iniziale senza la quale non vi sarebbe neppure vita. Il morbillo non è nulla: è della broncopolmonite che si ha pau­ ra. La sifilide è cosi temuta soltanto da quando si sono sco­ perte le sue complicazioni di ordine nervoso. Il diabete non è grave se limitato alla glicosuria. Ma il coma ? E la cancre­ na ? E che cosa accadrà se si renderà necessario un interven­ to chirurgico? L ’emofilia non è in realtà nulla, finché non sopravviene un trauma. Ma chi è al sicuro da un trauma, a meno di non ritornare all’esistenza intrauterina? E via di­ cendo. I filosofi discettano per capire se la tendenza fondamen­ tale del vivente sia la conservazione o l’espansione. Sembra che l’esperienza medica possa introdurre nel dibattito un ar­ gomento rilevante. Goldstein nota che la preoccupazione morbosa di evitare le situazioni in grado di generare reazio­ ni catastrofiche, esprime l’istinto di conservazione. Questo istinto non è, secondo lui, la legge generale della vita, ma la legge di una vita ritratta. L ’organismo sano cerca meno di mantenersi nel proprio stato e nel proprio ambiente presen­ ti che di realizzare la propria natura. Ora ciò richiede che l’organismo, affrontando dei rischi, accetti l’eventualità di reazioni catastrofiche. L ’uomo sano non si sottrae ai pro­ blemi che gli vengono posti dai rivolgimenti talvolta im­ provvisi delle sue abitudini, anche fisiologicamente parlan­ do; egli misura la propria salute sulla propria capacità di su­ perare le crisi organiche per instaurare un nuovo ordine [Gurwitsch 1939].

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L ’uomo non si sente in buona salute - che è la salute - se non quando si sente non solo normale - vale a dire adattato all’ambiente e alle sue esigenze - ma normativo, capace di seguire nuove norme di vita. Con ogni evidenza, non è ap­ positamente per dotare gli uomini di questo sentimento che la natura ha costruito i loro organismi con tanta prodigalità: troppi reni, troppi polmoni, troppe ghiandole paratiroidee, troppo pancreas, persino troppo cervello, se si limitasse la vi­ ta umana alla vita vegetativa4. Un tale modo di pensare ri­ specchia il più ingenuo dei finalismi. Tuttavia, essendo strut­ turato in tal modo, l’uomo si sente costantemente sostenu­ to da una sovrabbondanza di mezzi di cui è per lui normale abusare. Contro certi medici troppo portati a vedere nelle malattie dei crimini, in quanto gli interessati hanno qualche responsabilità per via di eccessi od omissioni, riteniamo che il potere e la tentazione di rendersi malati siano una carat­ teristica essenziale della fisiologia umana. Parafrasando una espressione di Valéry, abbiamo affermato che il possibile abu­ so della salute fa parte della salute. Per valutare il normale e il patologico non bisogna limi­ tare la vita umana alla vita vegetativa. A rigore, si può vive­ re con molte malformazioni o affezioni, ma non si può non fare nulla della propria vita, o quanto meno si può sempre farne qualcosa, ed è in questo senso che ogni stato dell’or­ ganismo, se è adattamento a circostanze imposte, finisce, in quanto esso è compatibile con la vita, per essere in fondo normale. Ma questa normalità viene pagata con la rinuncia ad ogni eventuale normatività. L ’uomo, anche fisico, non si limita al proprio organismo. L ’uomo, avendo prolungato con strumenti i propri organi, non vede nel proprio corpo che il mezzo di tutti i mezzi d ’azione possibili. E dunque al di là del corpo che bisogna guardare per valutare ciò che è nor­ male o patologico per il corpo stesso. Con un disturbo come

4 Cfr. a questo proposito W. B. Cannon, La sagesse du corps, cap. xi: La mar­ ge de sécurité dans la structure et les fonctions du corps, Parigi 1946 [nota del 1972].

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Pastigmatismo o la miopia si sarebbe normali in una società agricola o pastorale, ma si è anormali nella marina o nell’avia­ zione. Ora dal momento che l'umanità ha allargato tecnicamente i propri mezzi di comunicazione, sapersi precluse cer­ te attività, divenute per la specie umana ad un tempo un bi­ sogno e un ideale, significa sentirsi anormali. Pertanto non si può capire come, negli ambienti propri dell’uomo, egli stes­ so si trovi ad essere, in momenti differenti e con gli stessi or­ gani, normale o anormale, se non comprendendo come la vi­ talità organica si sviluppi nell’uomo in plasticità tecnica e in avidità di dominio dell’ambiente. Se da queste analisi si torna ora al sentimento concreto dello stato che esse hanno cercato di definire, si comprende come la salute sia nell’uomo un sentimento di assicurazione nella vita che non si attribuisce da sé alcun limite. Valere, da cui «valore», significa in latino «stare bene». La salute è un modo di affrontare l’esistenza sentendosi non soltanto pos­ sessori o portatori ma, al bisogno, creatori di valore, instauratori di norme vitali. Di qui la seduzione che ancor oggi l’im­ magine dell’atleta esercita sul nostro spirito, seduzione di cui l’entusiasmo contemporaneo per uno sport razionalizzato ci pare soltanto una triste caricatura5.

5 Si obietterà forse che abbiamo la tendenza a confondere la salute e la giovi­ nezza. Tuttavia noi non dimentichiamo che la vecchiaia è uno stato normale della vita. Ma a parità di età, sarà sano un anziano che manifesterà una capacità di adat­ tamento o di riparazione ai danni organici che un altro non manifesta, per esem­ pio una buona e solida saldatura di un collo di femore fratturato. Il bel vecchietto non è soltanto una finzione poetica.

Capitolo quinto Fisiologia e patologia

Sulla base delle analisi precedenti, appare chiaro che de­ finire la fisiologia come scienza delle leggi o delle costanti della vita normale non è rigorosamente esatto, per due ra­ gioni. Innanzitutto perché il concetto di normale non è un concetto di esistenza, suscettibile in sé di misura oggettiva. In secondo luogo, perché il patologico deve essere conside­ rato come una specie del normale, Panormale non essendo ciò che non è normale, bensì ciò che è un altro normale. Que­ sto non vuol dire che la fisiologia non sia una scienza. Essa lo è autenticamente per la sua ricerca di costanti e di inva­ rianti, per i suoi procedimenti metrici, per il suo approccio analitico generale. Ma se è facile determinare, attraverso il suo metodo, in quale modo la fisiologia sia una scienza, è me­ no facile determinare, attraverso il suo oggetto, di che cosa essa sia la scienza. La diremo scienza delle condizioni della salute? A nostro avviso sarebbe già preferibile a scienza del­ le funzioni normali della vita, poiché abbiamo ritenuto di do­ ver distinguere lo stato normale dalla salute. Ma rimane una difficoltà. Quando si pensa all’oggetto di una scienza, si pen­ sa a un oggetto stabile, identico a sé. La materia e il movi­ mento, governati dall’inerzia, forniscono a questo riguardo ogni tipo di garanzia. Ma la vita? Non è essa evoluzione, va­ riazione di forme, invenzione di comportamenti? La sua struttura non è tanto storica quanto istologica? La fisiologia tenderebbe allora verso la storia, che non è, comunque, una scienza della natura. Vero è che si può essere ugualmente col­ piti dal carattere di continuità della vita. Insomma, per de­

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finire la fisiologia, tutto dipende dall’idea che ci si fa della salute. Raphael Dubois, che è per quanto ne sappiamo l’uni­ co autore, nel xix secolo, di un’opera di fisiologia in cui ven­ ga proposta una definizione non semplicemente etimologica o non puramente tautologica della fisiologia, ne fa derivare il significato dalla teoria ippocratica della natura medicatrix:

Il ruolo della natura medicatrix si confonde con quello delle fun­ zioni normali dell’organismo, che sono tutte, più o meno direttamen­ te, conservatrici e difensive. Ora la fisiologia non studia altra cosa che le funzioni degli esseri viventi o, in altri termini, i fenomeni normali del proteon vivente o bioproteon [Dubois 1898, p. 10].

Ora se si ammette, con Goldstein, che tendenza conser­ vatrice vi è propriamente soltanto nella malattia, che l’orga­ nismo sano è caratterizzato dalla tendenza ad affrontare si­ tuazioni nuove e a istituire nuove norme, non ci si può ac­ contentare di un simile modo di vedere. Sigerist, che cerca di definire la fisiologia spiegando il senso della prima scoperta che F ha inaugurata, la scoperta da parte di Harvey della circolazione sanguigna (1628), pro­ cede secondo il suo sistema abituale, che consiste nel collo­ care questa scoperta nella storia intellettuale della civiltà. Perché una concezione funzionale della vita appare allora, né prima né dopo ? Sigerist non separa la scienza della vita, nata nel 1628, dalla concezione generale, diciamo filosofica, della vita che si esprime a quel tempo nei diversi atteggia­ menti delPindividuo di fronte al mondo. Le arti plastiche, innanzitutto, a cavallo tra il xvi e il xvn secolo, hanno fis­ sato lo stile barocco e hanno liberato dappertutto il movi­ mento. Al contrario dell’artista classico, l’artista barocco non vede nella natura se non ciò che è incompiuto, potenziale, non ancora circoscritto. L ’uomo del barocco non si interessa a ciò che è, ma a ciò che sarà. Il barocco è molto di più che uno stile artistico, è l’espressione di una forma di pensiero che regna a quell’epoca in tutti gli ambiti dello spi­ rito: la letteratura, la musica, la moda, lo Stato, il modo di vivere, le scienze [Sigerist 1932, p. 41].

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Gli uomini del principio del xvi secolo, fondando F ana­ tomia, avevano privilegiato F aspetto statico, delimitato, del­ la forma vivente. Ciò che Wölfflin dice dell’artista barocco, che egli non vede l’occhio ma lo sguardo, Sigerist lo dice del medico del principio del xvn secolo: Egli non vede il muscolo, ma la sua contrazione e l’effetto che es­ sa produce. Cosi nasce la anatomia animata, la fisiologia. L’oggetto di quest’ultima scienza è il movimento. Essa apre le porte all’illimitato. Ogni problema fisiologico conduce alle radici della vita e consente sguardi sull’infinito [ibid.].

Harvey, che pure era un anatomista, non vedeva nel cor­ po la forma, bensì il movimento. Le sue ricerche non sono fondate sulla configurazione del cuore, ma sull’osservazione del polso e della respirazione, due movimenti che cessano soltanto con la vita. L ’idea di funzione in medicina congiunge l’arte di Michelangelo e la meccanica dinamica di Galileo [Si­ gerist 1932, p. 42]1. Va da sé, alla luce delle considerazioni precedenti sulla sa­ lute, che questo «spirito» della nascente fisiologia ci sembra da tener presente nella definizione della fisiologia come scien­ za delle condizioni della salute. Abbiamo parlato a più ripre­ se di andamenti della vita, preferendo in certi casi questa espressione al termine comportamento per meglio far capire che la vita è polarità dinamica. Ci sembra, definendo la fi­ siologia come scienza degli andamenti stabilizzati della vita, di far fronte pressoché a tutte le esigenze nate dalle nostre precedenti posizioni. Da un lato assegniamo alla ricerca un oggetto la cui identità a se stesso è quella di un’abitudine piut­ tosto che quella di una natura, ma la cui costanza relativa è forse più precisamente adeguata a rendere conto dei feno­ meni, malgrado tutto fluttuanti, di cui si occupa Ü fisiologo. Dall’altro lato conserviamo la possibilità del passaggio, tra­ 1 Singer, nelle pagine, peraltro notevoli, che dedica a Harvey, insiste piutto­ sto sul carattere tradizionale delle sue concezioni biologiche, al punto che egli sa­ rebbe stato innovatore per correttezza metodologica e a dispetto dei suoi postula­ ti dottrinari [1934].

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mite costanti o invarianti biologiche codificate e considerate convenzionalmente come norme, a un momento definito del sapere fisiologico. Il fatto è che degli andamenti non posso­ no essere stabilizzati se non dopo esser stati tentati median­ te l’infrazione di una precedente stabilità. Infine ci sembra di poter delimitare più correttamente, a partire dalla defini­ zione proposta, i rapporti tra fisiologia e patologia. Vi sono due tipi di andamenti vitali nuovi. I primi sono quelli che si stabilizzano in nuove costanti, ma la cui stabi­ lità non costituirà un ostacolo al loro eventuale nuovo supe­ ramento. Si tratta di costanti normali a valore propulsivo. Esse sono realmente normali per normatività. I secondi so­ no quelli che si stabilizzeranno sotto forma di costanti che tutto lo sforzo ansioso del vivente tenderà a preservare da ogni eventuale turba. Anche in questo caso si tratta certa­ mente di costanti normali, ma a valore repulsivo, espressio­ ne in esse della morte della normatività. In questo sono pa­ tologiche, sebbene siano tanto normali che il vivente vive su esse. Insomma, quando ha luogo, in periodo di crisi evoluti­ va, una rottura della stabilità fisiologica, la fisiologia perde i propri diritti, ma non per questo perde il filo. Essa non sa in anticipo se il nuovo ordine biologico sarà o non sarà fi­ siologico, ma avrà ancora i mezzi per ritrovare tra le costan­ ti quelle che rivendica come proprie. Si tratterà ad esempio di far variare sperimentalmente l’ambiente, per sapere se le costanti prese in considerazione possano adattarsi senza eventi catastrofici a una fluttuazione delle condizioni di esistenza. E questo filo conduttore che ci permette per esem­ pio di capire quale sia la differenza tra l’immunità e l’anafilassi. La presenza di anticorpi nel sangue è comune all’una e all’altra forma di reattività. Ma mentre l’immunità conferi­ sce all’organismo l’insensibilità a un’intrusione di microbi o di tossine nell’ambiente interno, l’anafilassi è ipersensi­ bilità acquisita a una penetrazione nell’ambiente interno di sostanze specifiche e in particolare di materie proteiche [Schwartz 1935]. Dopo una prima modificazione (per infe­

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zione, o iniezione, o intossicazione) dell’ambiente interno, una seconda effrazione viene ignorata dall’organismo im­ munizzato, mentre essa provoca, nel caso dell’anafilassi, una reazione di choc di estrema gravità, spesso mortale, cosi re­ pentina da aver fruttato all’iniezione sperimentale che la pro­ voca il nome di scatenante; una reazione, dunque, tipica­ mente catastrofica. La presenza di anticorpi nel siero san­ guigno è pertanto sempre normale, poiché l’organismo ha reagito con una modificazione delle proprie costanti a una prima aggressione dell’ambiente, e si è regolato su esso; ma in un caso la normalità è fisiologica, nell’altro patologica.

Secondo Sigerist, Virchow definiva la patologia come una «fisiologia con ostacoli» [Sigerist 1932, p. 137]. Questo mo­ do di intendere la malattia facendola derivare da funzioni nor­ mali, ostacolate da un fattore esterno che le complica senza al­ terarle, si avvicina alle idee di Claude Bernard, e procede da principi patogeni assai semplici. Si sa come sono fatti, per esempio, un cuore o un rene, come il sangue o Purina li attra­ versino; se immaginiamo vegetazioni ulceranti di endocardi­ te sulla valvola mitrale o un calcolo al bacinetto, siamo in gra­ do di comprendere la patogenesi di sintomi quali un soffio car­ diaco o un dolore irradiato da colica nefritica. Ma vi è forse in questa concezione una confusione d’ordine pedagogico ed euristico. L ’insegnamento della medicina comincia giusta­ mente dall’anatomia e dalla fisiologia dell’uomo normale: a partire da esse si può dedurre, a volte abbastanza facilmente, ammettendo certe analogie meccaniche, la ragione di certi sta­ ti patologici, per esempio, in ambito circolatorio, il fegato car­ diaco, l’ascite, gli edemi, in ambito sensorial-motorio l’emianopsia o la paraplegia. Ora sembra che l’ordine di acquisizio­ ne di queste corrispondenze anatomo-fisiologiche sia stato in­ verso. E stato per primo il malato che un giorno ha constatato che «qualcosa non andava», ha notato certe modificazioni sconvolgenti o dolorose della struttura morfologica o del com­

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portamento. Ha attirato su di esse, a torto o a ragione, 1’ at­ tenzione del medico. Questi, avvertito dal malato, ha proce­ duto all’esplorazione metodica dei sintomi evidenti e più an­ cora dei sintomi latenti. Se, essendo morto il malato, si è pro­ ceduto all’autopsia, si sono ricercate, con ogni sorta di mezzi e in tutti gli organi, certe particolarità che sono state compa­ rate con gli organi di individui morti senza avere mai presen­ tato sintomi simili. Si è confrontata l’osservazione clinica con il verbale d’autopsia. Cosi la patologia, grazie all’anatomia pa­ tologica, ma grazie anche a ipotesi o conoscenze sui meccani­ smi funzionali, è divenuta una fisiologia con ostacoli. Ora vi è qui un oblio professionale - suscettibile forse di spiegazione alla luce della teoria freudiana dei lapsus e degli atti mancati - che deve essere rilevato. Il medico ha la ten­ denza a dimenticare che sono i malati a chiamare il medico. Il fisiologo ha la tendenza a dimenticare che una medicina clinica e terapeutica, non sempre cosi assurda come si vor­ rebbe, ha preceduto la fisiologia. Una volta posto rimedio a quest’oblio, si è portati a pensare che sia stata l’esperienza di un ostacolo, vissuta innanzitutto da un uomo concreto sot­ to forma di malattia, a suscitare la patologia nei suoi due aspetti, di semiologia clinica e di interpretazione fisiologica dei sintomi. Se non vi fossero ostacoli patologici, non vi sa­ rebbe neppure fisiologia, perché non vi sarebbero problemi fisiologici da risolvere. Riassumendo alcune ipotesi che ab­ biamo proposto nel corso dell’esame delle idee di Leriche, possiamo affermare che in materia biologica è il pathos che condiziona il logos, perché lo chiama in causa. E l’anormale a suscitare l’interesse teorico per il normale. Una norma non è riconosciuta come tale se non in un’infrazione. Una fun­ zione non è rivelata se non dal suo difetto. La vita non si in­ nalza alla coscienza e alla scienza di se stessa se non tramite 10 sviamento, l’insuccesso e il dolore. Schwartz fa notare, do­ po Ernest Naville, la sproporzione evidente tra lo spazio che 11 sonno occupa nella vita degli uomini e lo spazio che ad es­ so è dedicato nelle opere di fisiologia [Schwartz 1935], cosi

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come George Dumas fa notare che la bibliografia relativa al piacere è minima a paragone dell'abbondanza di opere con­ sacrate al dolore. E che dormire e godere consistono nel la­ sciare scorrere la vita senza chiederle spiegazione alcuna. Nel Traité de physiologie normale et pathologique, Abelous [1939] attribuisce a Brown-Séquard il merito di avere fon­ dato Tendocrinologia constatando nel 1856 che l'ablazione delle ghiandole surrenali comportava la morte di un anima­ le. Sembra che si sia trattato di un fatto a sé stante. Non ci si domanda come sia potuta venire a Brown-Séquard l'idea di praticare l'ablazione delle ghiandole surrenali. Ignorando le funzioni della ghiandola surrenale, non è una decisione che si prenda per deduzione. No, ma è un caso che ricorre. E in­ fatti, Sigerist mostra che fu la clinica a dare l'impulso all'en­ docrinologia. Nel 1855, Addison descriveva la malattia che ormai porta il suo nome e che egli attribuì a un'affezione del­ le ghiandole surrenali [Sigerist 1932, p. 57]. A partire da ciò possono essere comprese le ricerche sperimentali di BrownSéquard. Nello stesso Traité de physiologie Tournade [1939, p. 1011] mette giustamente in evidenza la relazione tra Brown-Séquard e Addison e riporta questo aneddoto di gran­ de importanza epistemologica: nel 1716, l'Accademia delle Scienze di Bordeaux aveva proposto come tema di concor­ so: «Qual è la funzione delle ghiandole surrenali?» Montes­ quieu, incaricato del rapporto, concluse che nessuna delle memorie depositate poteva soddisfare la curiosità dell'Accademia, e aggiunse: «Il caso farà forse un giorno ciò che tut­ te le cure non hanno pdtuto fare». Per trarre un esempio dal medesimo ordine di ricerche, tutti i fisiologi fanno risalire a Mering e Minkowski la sco­ perta nel 1889 del ruolo dell'ormone pancreatico nel meta­ bolismo dei glucidi. Ma spesso si ignora che se questi due ri­ cercatori hanno reso diabetico un cane, tanto celebre in pa­ tologia quanto quello di San Rocco in agiografia, ciò è acca­ duto involontariamente. E per lo studio della secrezione pancreatica esterna e del suo ruolo nella digestione che il ca-

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ne era stato privato del pancreas. Naunyn, in servizio men­ tre l'esperimento aveva luogo, racconta che era estate, e che il garzone del laboratorio fu colpito dal numero insolito di mosche presenti nelle gabbie degli animali. Naunyn, in virtù del principio che vi sono mosche dove vi è zucchero, consi­ gliò di analizzare le urine del cane. Mering e Minkowski ave­ vano dunque, con la pancreatectomia, provocato un feno­ meno analogo al diabete [Ambard 1930]. Cosi Tartificio con­ dusse alla chiarezza, ma senza premeditazione. Allo steso modo, si mediti a fondo per un istante su que­ ste parole di Déjerine: E praticamente impossibile descrivere in modo preciso i sintomi della paralisi del glossofaringeo: in effetti, la fisiologia non ha ancora stabilito esattamente quale sia la distribuzione motoria di questo ner­ vo, e d’altronde, in clinica, la paralisi isolata del glossofaringeo non si osserva quasi mai. In realtà, il glossofaringeo viene sempre leso con lo pneumogastrico, lo spinale, ecc. [1914, p. 587].

Ci sembra che la ragione primaria, se non unica, per cui la fisiologia non ha ancora stabilito esattamente la distribu­ zione motoria del glossofaringeo, è precisamente che questo nervo non dà luogo ad alcuna sindrome patologica isolata. Quando I. Geoffroy Saint-Hilaire attribuiva all’assenza di ogni sintomo morfologico o funzionale la lacuna corrispon­ dente alle eterotassie nella scienza teratologica del suo tem­ po, dimostrava una perspicacia quanto mai rara. La concezione di Virchow dei rapporti tra fisiologia e pa­ tologia non è soltanto insufficiente in quanto ignora l'ordi­ ne normale di subordinazione logica tra la fisiologia e la pa­ tologia, ma anche perché essa implica l’idea che la malattia non crei da se stessa nulla. Ora, proprio su quest'ultimo pun­ to ci siamo diffusi troppo per tornarvi ancora. Ma i due er­ rori ci sembrano collegati. E perché non si ammette nella ma­ lattia alcuna norma biologica propria, che da essa non ci si aspetta nulla per la scienza delle norme della vita. Un osta­ colo non farebbe che ritardare o fermare o deviare una for­ za o un flusso, senza alterarli. Una volta eliminato l’ostaco­

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lo, il patologico ridiverrebbe fisiologico, il vecchio fisiologi­ co. Ora è questo che non possiamo accettare, né da Leriche, né da Goldstein. La norma nuova non è la vecchia norma. E, siccome questa capacità di istituire nuove costanti con va­ lore di norma ci è parsa caratteristica dell’aspetto fisiologi­ co del vivente, non possiamo ammettere che la fisiologia pos­ sa costituirsi prima della patologia, e indipendentemente da essa, per fondarla oggettivamente. Oggi non si capisce come sia possibile pubblicare un trat­ tato di fisiologia normale senza un capitolo dedicato all’im­ munità, all’allergia. La conoscenza di quest’ultimo fenome­ no ci permette di capire che il 97 per cento circa degli uo­ mini presentano una cutireazione positiva alla tubercolina, senza tuttavia essere tubercolotici. E tuttavia, all’origine di queste conoscenze sta il celebre errore di Koch. Avendo con­ statato che l’iniezione di tubercolina a un soggetto già tu­ bercolotico provoca gravi complicazioni, mentre essa è inof­ fensiva in un soggetto sano, Koch credette di aver trovato nella tubercolinizzazione un mezzo diagnostico infallibile. Ma, dal momento che ad essa aveva attribuito a torto anche un valore curativo, egli ottenne dei risultati il cui triste ri­ cordo fu cancellato soltanto dalla loro ulteriore riconversio­ ne in quel mezzo diagnostico preciso e di individuazione pre­ ventiva che è la cutireazione dovuta a Pirquet. Quasi tutte le volte che in fisiologia umana si dice: «N oi oggi sappiamo che...», si potrebbe scoprire, cercando bene - e senza voler ridurre la parte sperimentale -, che il problema è stato po­ sto, e spesso la sua soluzione tratteggiata, dalla clinica e dal­ la terapeutica, e abbastanza di frequente a spese, biologica­ mente parlando s’intende, del malato. Cosi, se Koch ha sco­ perto nel 1891 il fenomeno che porta il suo nome e da cui sono scaturite la teoria dell’allergia e la tecnica della cutireazione, dal 1886 Marfan aveva avuto, dal punto di vista clinico, l’intuizione che certe manifestazioni tubercolotiche possono determinare un’immunità per altre, fondandosi sul­ la rarità della coesistenza delle localizzazioni tubercolotiche

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ossee, come la coxalgia e la malattia di Pott, e della tisi. In breve, nel caso dell’allergia, fenomeno generale di cui l’anafilassi è una specie, possiamo cogliere il passaggio da una fi­ siologia ignorante a una fisiologia consapevole, tramite la cli­ nica e la terapeutica. Oggi una patologia oggettiva deriva dal­ la fisiologia, ma ieri la fisiologia è derivata da una patologia che si deve dire soggettiva, e perciò imprudente senza dub­ bio, ma senza dubbio audace e perciò progressiva. Ogni pa­ tologia è soggettiva rispetto al futuro.

È soltanto rispetto al futuro che la patologia è soggetti­ va? In questo senso, ogni scienza oggettiva per il suo meto­ do e il suo oggetto è soggettiva rispetto al futuro, dal mo­ mento che, a meno di supporla giunta a termine, molte ve­ rità di oggi diverranno gli errori del giorno prima. Quando Bernard e Virchow, ciascuno per conto proprio, avevano l’ambizione di fondare una patologia oggettiva, l’uno sotto forma di patologia delle regolazioni, l’altro sotto forma di patologia cellulare, essi tendevano a incorporare la patologia nelle scienze della natura, a fondare la patologia sulle basi della legge e del determinismo2. E questa pretesa che vo­ gliamo sottoporre ad esame. Se non è parso possibile mantenere la definizione della fisiologia come scienza del normale, sembra difficile am­ mettere che vi possa essere una scienza della malattia, che vi possa essere una patologia puramente scientifica. Queste questioni di metodologia medica non hanno su­ scitato grande interesse in Francia, né da parte dei filosofi né da parte dei medici. Per quanto ne sappiamo, il vecchio articolo di Pierre Delbet presente nella raccolta De la métho­ de dans les seiendes [Delbet 1909], non ha avuto seguito. Per contro, all’estero, e in particolar modo in Germania, questi

2 Cfr. lo studio di M. D. Grmek, Opinion de Claude Bernard sur Virchow et la pathologie cellulaire, in «Castalia», gennaio-giugno 1965 [nota del 1972].

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problemi sono trattati con seguito e cura notevoli. Ci pro­ poniamo di mutuare dall'opera di Herxheimer, Krankheits­ lehre der Gegenwart [1927] un'esposizione delle concezioni di Ricker, di Magdeburgo, e delle controversie che esse han­ no suscitato. Diamo esplicitamente a quest'esposizione la for­ ma di un sunto, parafrasato e privato delle citazioni, delle pagine da 6 a 18 del libro di Herxheimer3. Ricker ha esposto le proprie concezioni, nell'ordine, nel­ le seguenti opere: Pathologie des relations (1905); Eléments d'une logique de la physiologie considérée comme pure science de la nature (1912); Physiologie, pathologie, médicine (1923); La pathologie corne science de la nature, pathologie des relations (1924). Ricker delimita gli ambiti della fisiologia, della pato­ logia, della biologia e della medicina. Le scienze della natura si fondano sull'osservazione metodica e sulla riflessione in­ torno a queste osservazioni in vista di spiegazioni, vale a di­ re di enunciazioni di relazioni causali tra i processi fisici e sen­ soriali, che hanno luogo nell'ambiente dell'uomo, ambiente cui appartengono gli uomini stessi in quanto esseri fisici. Ciò esclude lo psichismo dell'oggetto delle scienze della natura. L'anatomia descrive oggetti morfologici: i suoi risultati non hanno in se stessi valore esplicativo, ma lo acquisiscono tra­ mite il loro collegamento con i risultati di altri metodi, con­ tribuendo in tal modo alla spiegazione dei fenomeni che so­ no l'oggetto di una scienza indipendente, la fisiologia. Mentre la fisiologia esplora il corso di questi processi che è più frequente, più regolare, e che per questo viene chiamato normale, la patologia (che è stata separata artificialmente dalla fisiologia) si occu­ pa delle loro forme più rare, che vengono chiamate anormali; essa de­ ve dunque essere egualmente subordinata a metodi scientifici. La fi­ siologia e la patologia riunite in un’unica scienza, che non potrebbe essere chiamata che fisiologia, esaminano i fenomeni nell’uomo fisi­ co, in vista di una conoscenza teorica, scientifica (La pathologie com­ me science naturelle, p. 321) [Herxheimer 1927, p. 7].

i Ricker.

Le circostanze non ci hanno permesso di rifarci direttamente alle opere di

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La fisiologia-patologia deve determinare le relazioni cau­ sali tra fenomeni fisici, ma siccome non si dà concetto scien­ tifico della vita - eccezion fatta per un concetto puramente diagnostico - essa non ha nulla a che fare con scopi o fini e, di conseguenza, con valori relativi alla vita. Ogni teleologia, sia essa trascendente o immanente, che parta da una finalità dell’organismo o si rapporti ad essa, alla conservazione del­ la vita ecc., di conseguenza ogni giudizio di valore, non ap­ partiene alle scienze naturali e dunque neppure alla fisiolo­ gia-patologia [ibid.9 p. 7]. Questo non esclude la legittimità dei giudizi di valore o delle applicazioni pratiche. Ma i primi sono rimandati alla biologia, come parte della filosofia della natura e dunque del­ la filosofia; e le seconde sono rimandate alla medicina e all’igiene, considerate come scienze applicate, pratiche e te­ leologiche, aventi come compito quello di utilizzare secondo i propri scopi ciò che è stato spiegato: «Il pensiero teleolo­ gico della medicina riposa sui giudizi di causalità della fisio­ logia e della patologia, che formano dunque la base scienti­ fica della medicina» [ibid., p. 8]. La patologia, essendo pura scienza della natura, deve fornire conoscenze causali, ma non formulare giudizi di valore. A queste proposizioni di logica generale, Herxheimer ri­ sponde innanzitutto che non è consuetudine classificare, co­ me fa Ricker, la biologia nella filosofia, perché, a rifarsi alle tesi dei rappresentanti della filosofia dei valori come Windelband, Münsterberg e Rickert, non si può riconoscere al­ la biologia il diritto di fare uso di valori propriamente nor­ mativi; essa deve dunque essere annoverata entro le scienze naturali. Inoltre certi concetti, come quelli di movimento, di nutrizione, di generazione, cui Ricker stesso riconosce un si­ gnificato teleologico, sono inseparabili dalla patologia, ad un tempo per ragioni psicologiche proprie del soggetto che se ne occupa e per ragioni che risiedono negli oggetti stessi di cui essa si occupa [ibid.]. Da un lato, in effetti, il giudizio scientifico, anche in re­

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lazione a oggetti privi di valore, resta, per il fatto di essere at­ to psicologico, un giudizio assiologico. Dal solo punto di vi­ sta logico o scientifico può essere «vantaggioso», a detta del­ lo stesso Ricker, adottare certe convenzioni o certi postulati. In questo senso si può ammettere con Weigert o Peters una finalità dell’organizzazione o delle funzioni del vivente. Da questo punto di vista, nozioni come quelle di attività, adat­ tamento, regolazione, autoconservazione - nozioni che Ricker vorrebbe eliminare dalla scienza - sono vantaggiosamente conservate in fisiologia e dunque anche in patologia [ibid., p. 9]. Insomma il pensiero scientifico trova, come ha visto be­ ne Ricker, nella lingua d’uso, la lingua non scientifica della gente comune, uno strumento difettoso. Ma, come dice Mar­ chand, questo non obbliga a «subodorare in ogni termine sem­ plicemente descrittivo un pensiero teleologico nascosto». La lingua d ’uso è insufficiente soprattutto nel senso che i termi­ ni hanno spesso in essa una portata assoluta, mentre nel pen­ siero si conferisce ad essi un significato soltanto relativo. Di­ re per esempio che un tumore ha una vita autonoma, non vuol dire che esso è realmente indipendente dalle vie, dai mate­ riali e dai modi di nutrizione degli altri tessuti, ma che esso è, rispetto a questi ultimi, relativamente indipendente. An­ che in fisica e in chimica si fa uso di termini e di espressioni di significato apparentemente teleologico, ma nessuno pensa che essi corrispondano realmente ad atti psichici [ibid.yp. 10]. Ricker chiede che non vengano dedotti i processi o le rela­ zioni biologiche da qualità o da capacità. Queste devono es­ sere analizzate in processi parziali e le loro reazioni recipro­ che devono essere constatate. Ma egli stesso ammette che lad­ dove questa analisi non riesca - nel caso dell’eccitabilità di un nervo, per esempio - la nozione di qualità è inevitabile e può servire da stimolante per la ricerca del processo cor­ rispondente. Roux nella sua meccanica dello sviluppo (Ent­ wickelungsmechanik) è costretto ad ammettere certe qualità o proprietà dell’uovo, a far uso delle nozioni di preformazio­ ne, regolazione, ecc., e tuttavia le sue ricerche sono orienta­

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te verso la spiegazione causale dei processi normali e anormali dello sviluppo [ibid., pp. 11-12]. D'altra parte, se ci si colloca dal punto di vista dell'og­ getto stesso della ricerca, bisogna constatare un arretramen­ to delle pretese del meccanicismo fisiochimico non soltanto in biologia, ma anche in fisica e chimica. In ogni caso, i pa­ tologi che rispondono affermativamente alla questione se l'aspetto teleologico dei fenomeni biologici debba essere con­ siderato, sono numerosi, e in particolare Aschoff, Lubarsch, Ziehen, Bier, Hering, R. Meyer, Beitzke, Fischer, Hueck, Rcessle, Schwarz. Ziehen si chiede, per esempio, a proposi­ to di lesioni gravi del cervello, come nel caso della tabe o del­ la paralisi generale, fino a che punto si tratti di processi di­ struttivi e fino a che punto si tratti di processi difensivi e ri­ paratori conformi a un fine, anche se essi lo mancano [ibid., pp. 12-13]. Va menzionato anche il saggio di Schwartz su «L a ricerca del senso come categoria del pensiero medico». Egli designa come categoria - in senso kantiano - della fisi­ ca la causalità: «L a concezione del mondo secondo la fisica è determinata dall’applicazione della causalità, come cate­ goria, a una materia misurabile, sparsa, priva di qualità». I limiti di una tale applicazione si trovano laddove una tale dissoluzione in parti non sia possibile, laddove, in biologia, appaiano oggetti caratterizzati da un'uniformità, un'indivi­ dualità, una totalità sempre più nette. La categoria qui com­ petente è quella di «senso». «Il senso è per cosi dire l'orga­ no mediante il quale cogliamo nel nostro pensiero la strut­ tura, il fatto di avere forma; esso è il riflesso della struttu­ ra nella coscienza dell'osservatore». Alla nozione di senso Schwartz aggiunge quella di fine, quantunque riferendosi a un altro ordine di valori. Ma esse svolgono funzioni analo­ ghe nei due ambiti della conoscenza e del divenire, da cui traggono qualità comuni: Così cogliamo il senso della nostra organizzazione nella tendenza a conservare se stessi, e solo una struttura dell’ambiente che conten­ ga del senso ci permette di scorgervi degli scopi. E cosi che, tramite

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la considerazione degli scopi, la categoria astratta del senso viene riempita di una vita reale. La considerazione degli scopi (per esempio come metodo euristico) resta tuttavia sempre provvisoria, un succe­ daneo per cosi dire, in attesa che il senso astratto dell’oggetto ci di­ venga accessibile.

In patologia, insomma, il punto di vista teleologico non è più respinto per principio dalla maggioranza degli attuali scienziati, anche se termini di contenuto teleologico, senza che ci si rendesse conto, sono stati sempre utilizzati [Herxheimer 1927, pp. 15-16]. Beninteso, questa presa in consi­ derazione dei fini biologici non deve dispensare dalla ricer­ ca di una spiegazione di tipo causale. In questo senso, la con­ cezione kantiana del finalismo è ancora attuale. E un fatto, per esempio, che l'ablazione delle surrenali comporti la mor­ te. Affermare che la capsula surrenale è necessaria alla vita è un giudizio di valore biologico, che non dispensa dal ri­ cercare in dettaglio le cause per cui viene ottenuto un risul­ tato biologicamente utile. Ma, supponendo che una spiega­ zione completa delle funzioni della surrenale sia possibile, il giudizio teleologico che riconosce la necessità vitale della ca­ psula surrenale conserverebbe ancora il proprio valore indipendente, in particolar modo riguardo alla sua applicazione pratica. L'analisi e la sintesi formano un tutto, senza sosti­ tuirsi l'una all’altra. E necessario prendere coscienza della differenza tra le due concezioni [ibid., p. 17]. E vero che il termine «teleologia» è rimasto troppo caricato di implica­ zioni di tipo trascendentale per essere utilmente impiegato; «finale» è già migliore; ma forse sarebbe ancora più adatto «organismico», termine impiegato da Aschoff, perché esso esprime bene il rapporto alla totalità. Questo modo di espri­ mersi è adattato alla tendenza attuale, che è quella di porre di nuovo in primo piano, in patologia come altrove, la tota­ lità dell’organismo e il suo comportamento [ibid]. Ricker, naturalmente, non intende affatto bandire simi­ li considerazioni, ma le vuole eliminare totalmente dalla pa­ tologia come scienza della natura, per rimandarle alla filoso-

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fia della natura che egli chiama biologia e, per quanto ri­ guarda la loro applicazione pratica, alla medicina. Ora, da questo punto di vista precisamente si pone la questione di sapere se una tale distinzione sia in sé utile. Il che è stato ne­ gato pressoché all’unanimità e - sembra - con ragione. Per questo Marchand scrive: «E ben vero che la patologia non è soltanto una scienza naturale per quanto riguarda l’oggetto delle sue ricerche, ma che essa ha come scopo di utilizzare per la medicina pratica il risultato delle sue ricerche». Hueck, riferendosi a Marchand, dice che questo sarebbe certamen­ te impossibile senza la valorizzazione e l’interpretazione te­ leologica dei processi rifiutata da Ricker. Pensiamo a un chi­ rurgo. Cosa direbbe egli se un patologo, gli rispondesse, sot­ toponendogli le proprie constatazioni dopo la biopsia di un tumore, che sapere se il tumore è benigno o maligno è una questione di filosofia e non di patologia ? Che cosa si guada­ gnerebbe dalla divisione del lavoro proposta da Ricker ? La medicina pratica non otterrebbe un più solido terreno scien­ tifico su cui basarsi. Non si può dunque essere d ’accordo con Honigmann che, approvando le idee di Ricker sulla patolo­ gia, ma rifiutandole per il clinico, trae già la conclusione che si debba spostare la fisiologia-patologia e l’anatomia dalla fa­ coltà di Medicina alla facoltà di Scienze. Il risultato sarebbe condannare la medicina alla pura speculazione e privare la fi siologia-patologia di stimoli della più grande importanza. Lubarsch ha visto giusto quando ha affermato: I pericoli per la patologia generale e l’anatomia patologica risie­ dono soprattutto nel fatto che esse diverrebbero troppo unilaterali e troppo solitarie; rapporti più stretti tra esse e la clinica, cosi come esi­ stevano dal tempo in cui la patologia non era ancora divenuta una spe­ cialità, sarebbero certo estremamente vantaggiosi per entrambe le par­ ti [Herxheimer 1927, p. 18].

Non v’è dubbio che, definendo lo stato fisiologico con la frequenza, e lo stato patologico con la rarità dei meccanismi

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e delle strutture che essi offrono alla considerazione, Ricker può legittimamente pensare che l’uno e l’altro debbano es­ sere fatte oggetto del medesimo trattamento euristico ed esplicativo. Come non abbiamo creduto di dover ammette­ re la validità di un criterio di ordine statistico, non possia­ mo neppure ammettere che la patologia si allinei compietamente alla fisiologia, e divenga scienza pur restando scienza del patologico. Infatti, tutti coloro che accettano la riduzio­ ne dei fenomeni biologici sani e patologici a fatti statistici sono condotti più o meno rapidamente ad ammettere il po­ stulato, implicato in quella riduzione, per cui, secondo una espressione di Mainzer citata da Goldstein, «non vi è diffe­ renza tra la vita sana e la vita morbosa» [1934, p. 267]. Si è già visto, esaminando la teoria di Bernard, in quale preciso senso una tale proposizione possa essere difesa. Le leggi della fisica e della chimica non variano a seconda della salute e della malattia. Ma non voler ammettere da un pun­ to di vista biologico che la vita non faccia differenza tra i suoi stati, significa condannarsi a non poter neppure distin­ guere un alimento da un escremento. Certo, l’escremento di un vivente può essere alimento per un altro vivente, ma non per lui. Ciò che distingue un alimento da un escremento non è una realtà fisiochimica, ma un valore biologico. Similmen­ te, ciò che distingue il fisiologico dal patologico non è una realtà oggettiva di tipo fisiochimico, ma un valore biologico. Come dice Goldstein, quando si è portati a pensare che la malattia non sia una categoria biologica, ciò dovrebbe già far dubitare delle premesse da cui si è partiti: Malattia e salute non sarebbero nozioni biologiche! Se facciamo astrazione dalle condizioni complesse nell’uomo, questa regola non è sicuramente più valida nell’animale, poiché in esso la malattia decide sovente nello stesso tempo dell’essere o del non essere dell’organismo individuale. Si pensi al ruolo fatale che la malattia svolge nella vita dell’animale non addomesticato, dell’animale che non gode della pro­ tezione dell’uomo. Se la scienza della vita non fosse in grado di com­ prendere i fenomeni patologici, sorgerebbero i più seri dubbi sulla cor­ rettezza delle sue categorie fondamentali [ibid].

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Ricker ammette senza dubbio dei valori biologici, ma, ri­ fiutando di incorporare dei valori nell’oggetto di una scienza, egli fa dello studio di tali valori una parte della filosofia. Ora gli è stato rimproverato, giustamente secondo Herxheimer e secondo noi, questo inserimento della biologia nella filosofia. Come dunque risolvere questa difficoltà: se ci si colloca da un punto di vista strettamente oggettivo, non vi è diffe­ renza tra la fisiologia e la patologia; se si cerca nei valori bio­ logici una differenza tra esse, si è abbandonato il terreno scientifico ? Vorremmo proporre come elementi di una risoluzione le seguenti considerazioni: 1) Nel senso stretto del termine, secondo l’uso francese, vi è scienza di un oggetto soltanto se esso ammette la misura e la spiegazione causale, in una parola l’analisi. Ogni scienza tende cosi alla determinazione metrica tramite istituzione di costanti o di invarianti. 2) Tale punto di vista scientifico è un punto di vista astratto: esso traduce una scelta e dunque un’omissio­ ne. Cercare ciò che l’esperienza degli uomini è in realtà significa trascurare quale valore essa sia suscettibile di ricevere per essi e da essi. Prima della scienza, sono le tecniche, le arti, le mitologie, le religioni che valoriz­ zano spontaneamente la vita umana. Dopo la compar­ sa della scienza, sono ancora le stesse funzioni, ma il cui conflitto inevitabile con la scienza deve essere re­ golato dalla filosofia, che viene ad essere cosi filosofia dei valori. 3) Il vivente, essendo stato condotto a darsi nell’umanità dei metodi e un bisogno di determinazione scientifica del reale, vede necessariamente l’ambizione di deter­ minazione del reale estendersi alla vita stessa. La vita diviene - essa è infatti divenuta storicamente, non es­ sendolo mai stata - un oggetto di scienza. La scienza della vita si trova dunque ad avere la vita come sog-

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getto, poiché essa è esercitata dall’uomo vivente, e co­ me oggetto. 4) Cercando di determinare le costanti e le invarianti che definiscono realmente i fenomeni della vita, la fisiolo­ gia fa autenticamente opera di scienza. Ma cercando quale sia il senso vitale di queste costanti, qualifican­ do le une come normali e le altre come patologiche, il fisiologo fa più - e non meno - che opera di scienza in senso stretto. Egli non considera più soltanto la vita come una realtà identica a sé, ma come un movimen­ to polarizzato. Senza saperlo, il fisiologo non conside­ ra più la vita con un occhio indifferente, con l’occhio del fisico che studia la materia: egli considera la vita in qualità di vivente percorso egli stesso, in un certo senso, dalla vita. 5) Il fatto è che l’attività scientifica del fisiologo, per quanto egli la consideri separata e autonoma nel suo laboratorio, intrattiene un rapporto più o meno stret­ to, ma incontestabile, con l’attività medica. Sono gli scacchi della vita che attirano, che hanno attirato l’at­ tenzione sulla vita. Ogni conoscenza ha la propria ori­ gine nella riflessione su uno scacco nella vita. Ciò non significa che la scienza sia un ricettario di procedimenti d ’azione, ma al contrario che il progresso della scien­ za suppone un ostacolo all’azione. E la vita stessa, con la differenza che essa pone tra i propri comportamen­ ti propulsivi e i propri comportamenti repulsivi, che introduce nella coscienza umana le categorie di salute e malattia. Queste categorie sono, biologicamente, tec­ niche e soggettive e, non biologicamente, scientifiche e oggettive. I viventi preferiscono la salute alla malat­ tia. Il medico ha preso partito esplicitamente per il vi­ vente: egli è al servizio della vita, ed è la polarità di­ namica della vita che egli esprime parlando di norma­ le e di patologico. Il fisiologo è spesso medico, sempre vivente, ed è perché la fisiologia include nei propri con-

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cetti di base il fatto che se le funzioni di un vivente as­ sumono andamenti tutti egualmente spiegabili dallo scienziato, esse non sono per ciò equivalenti per il vi­ vente stesso.

In definitiva, la distinzione tra fisiologia e patologia non ha e non può avere se non una portata clinica. E la ragione per cui noi sosteniamo, contrariamente a tutte le abitudini mediche attuali, che sia scorretto dal punto di vista medico parlare di organi malati, di tessuti malati, di cellule malate. La malattia è un comportamento di valore negativo per un vivente singolo, concreto, in relazione di attività pola­ rizzata con il proprio ambiente. In tal senso, non è soltanto per l’uomo - benché i termini patologico o malattia, nel lo­ ro rapporto a pathos o a male, indichino che queste nozioni si applicano a tutti i viventi per regressione simpatica a par­ tire dall’esperienza umana vissuta - ma per ogni vivente, che si dà malattia soltanto del tutto organico. Si danno malattie del cane e dell’ape. Nella misura in cui l’analisi anatomica e fisiologica disso­ ciano l’organismo in organi e in funzioni elementari, esse ten­ dono a situare la malattia a livello delle condizioni anatomi­ che e fisiologiche parziali della struttura totale o del com­ portamento d’insieme. A seconda del progresso della finez­ za nell’analisi, si collocherà la malattia a livello dell’organo ed è il caso di Morgagni - a livello del tessuto - ed è il caso di Bichat - a livello della cellula - ed è il caso di Virchow. Ma ciò facendo, si dimentica che si è, storicamente, logica­ mente e istologicamente, pervenuti alla cellula a ritroso, a partire dall’organismo totale e con il pensiero, se non con lo sguardo, sempre rivolto a esso. Si è cercata nel tessuto o nel­ la cellula la soluzione di un problema posto, dapprima al ma­ lato quindi al clinico, dall’organismo intero. Cercare la ma­ lattia a livello della cellula significa confondere il piano del­ la vita concreta, nel quale la polarità biologica fa la differenza

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tra la salute e la malattia, e il piano della scienza astratta, do­ ve il problema riceve una soluzione. Non vogliamo dire che una cellula non possa essere malata, se per cellula si intende un tutto vivente, come per esempio un protista, bensì vo­ gliamo dire che la malattia di un vivente non alberga in sin­ gole parti dell'organismo. E certo legittimo parlare di un leu­ cocita malato nella misura in cui si ha il diritto di conside­ rare il leucocita fuori di ogni rapporto al sistema reticoloendoteliale e al sistema connettivo. Ma in questo caso si considera il leucocita come un organo, o meglio come un or­ ganismo in situazione di difesa e di reazione nei confronti di un ambiente. E qui, infatti, che si pone il problema dell'in­ dividualità. Il medesimo dato biologico può essere conside­ rato come parte o come tutto. Noi proponiamo che sia come tutto che esso possa essere o non essere detto malato. Cellule del parenchima renale o polmonare o splenico non possono oggi essere dette malate, e malate di una certa ma­ lattia, da un anatomopatologo che magari non mette mai pie­ de in un ospedale o in una clinica, se non perché esse sono state prelevate, o assomigliano a quelle che sono state prele­ vate, ieri o cent'anni fa poco importa, da un medico specia­ lista, clinico e terapeuta, dal cadavere o dall'organo ampu­ tato di un uomo di cui egli aveva osservato il comportamen­ to. Tant'è vero che il fondatore dell'anatomia patologica, Morgagni, nella bella lettera al chirurgo Trew, all'inizio del­ la sua opera fondamentale, enuncia l'obbligo formale per l'esplorazione anatomo-patologica di riferirsi costantemen­ te all'anatomia del vivente normale, evidentemente, ma an­ che e soprattutto all'esperienza clinica [Morgagni 1820]. Virchow stesso, venendo in soccorso di Velpeau, in una celebre discussione in cui i micrografi francesi sostenevano contro quest'ultimo il carattere specifico dell'elemento canceroso, ha proclamato che se il microscopio è in grado di servire al­ la clinica, sta alla clinica spiegare il microscopio [1855]. Ve­ ro è che Virchow ha d'altra parte formulato nel modo più netto una teoria della malattia parcellare che le nostre pre­

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cedenti analisi tendono a respingere. Non diceva forse egli nel 1895: E mia opinione che l’essenza della malattia sia una parte modifi­ cata dell’organismo ovvero una cellula modificata o un aggregato mo­ dificato di cellule (sia esso tessuto o organo) [...]. In realtà ogni parte malata del corpo è in relazione parassitarla con il resto del corpo sa­ no al quale essa appartiene, e vive a spese dell’organismo» [Castiglioni 1931, p. 569].

Sembra che oggi questo tipo di patologia atomistica sia stata abbandonata, e che si veda nella malattia molto più una reazione del tutto organico allo scarto di un elemento che un attributo dell’elemento stesso. E proprio Ricker, in Germa­ nia, il grande detrattore della patologia cellulare di Virchow4. Ciò che egli chiama «patologia delle relazioni» è proprio l’idea che la malattia non risieda a livello della cellula sup­ posta autonoma, ma che essa consista per la cellula in rela­ zione con il sangue e il sistema nervoso innanzitutto, vale a dire con un ambiente interno e un organo di coordinazione che fanno del funzionamento dell’organismo un tutto [Herxheimer 1 9 2 7 ^ . 19]. Importa poco che il contenuto delle teo­ rie patologiche di Ricker appaia discutibile a Herxheimer e ad altri: è lo spirito del suo attacco che è interessante. In de­ finitiva, quando si parla di patologia oggettiva, quando si pensa che l’osservazione anatomica e istologica, che il test fisiologico, che l’esame batteriologico siano metodi che per­ mettono di condurre scientificamente - e alcuni ritengono persino in assenza di qualunque ricognizione ed esplorazio­ ne clinica - alla diagnosi della malattia, si resta vittima se­ condo noi della confusione filosoficamente più grave, e te­ rapeuticamente, talvolta, più pericolosa. Un microscopio, un termometro, un brodo di coltura non conoscono una medi­ cina che il medico ignorerebbe. Essi danno un risultato. Ta­ le risultato non ha in sé alcun valore diagnostico. Per forni­ 4 In Urss è A.-D. Speranski, Fondements de la théorie de la médecine, trad. fr. 1934. Cfr. lo studio di J. Starobinski, Une théorie soviétique de Porigine nerveuse des maladies, in «Critique», n. 47, aprile 1951 [nota del 1972].

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re una diagnosi, bisogna osservare il comportamento del ma­ lato. Allora si scopre che un soggetto che ospita nella propria faringe il bacillo di Löffler non è difterico. Al contrario, per un altro soggetto, un esame clinico approfondito e correttamente condotto fa pensare a una malattia di Hodgkin, men­ tre Tesarne anatomo-patologico di una biopsia rivela la pre­ senza di un neoplasma tiroideo. In materia di patologia, la prima parola, storicamente par­ lando, e Tultima parola, logicamente parlando, spettano alla clinica. Ora la clinica non è una scienza e non sarà mai una scienza, anche se essa farà uso di mezzi di efficacia sempre più scientificamente garantita. La clinica non può essere se­ parata dalla terapeutica, e la terapeutica è una tecnica di in­ staurazione o di restaurazione del normale il cui fine, vale a dire la soddisfazione soggettiva dell’instaurazione di una nor­ ma, si sottrae alla giurisdizione del sapere oggettivo. Non si possono dettare scientificamente norme alla vita. Ma la vita è quell’attività polarizzata di contrasto con l’ambiente che si sente o non si sente normale, a seconda che essa si senta o non si senta in posizione normativa. Il medico ha preso le par­ ti della vita. La scienza lo aiuta nell’espletamento dei doveri che nascono da tale scelta. L ’appello al medico giunge dal ma­ lato5. E l’eco di questo drammatico appello che fa qualifica­ re come patologiche tutte le scienze che la tecnica medica uti­ lizza in soccorso della vita. Cosi vi è un’anatomia patologica, una fisiologia patologica, un’istologia patologica, un’embrio­ logia patologica. Ma la loro qualità patologica è un’attribu­ zione di origine tecnica e quindi di origine soggettiva. Non si dà patologia oggettiva. Si possono descrivere oggettivamen­ te delle strutture o dei comportamenti, ma non si può dirli «patologici» sulla base di un criterio puramente oggettivo. Oggettivamente, non si possono che definire varietà o diffe­ renze, senza valore vitale positivo o negativo.

5 Va da sé che non si tratta qui di malattie mentali, nel caso delle quali l'igno­ ranza del proprio stato da parte dei malati costituisce spesso un aspetto essenziale della malattia.

Conclusione

Nella prima parte abbiamo ricercato le origini storiche e analizzato le implicazioni logiche del principio di patologia, ancora cosi spesso invocato, secondo cui lo stato morboso non è, nell’essere vivente, se non una semplice variazione quan­ titativa dei fenomeni fisiologici che definiscono lo stato nor­ male della funzione corrispondente. Riteniamo di aver stabi­ lito la ristrettezza e l’insufficienza di tale principio. Nel cor­ so della discussione, e alla luce degli esempi portati, riteniamo di aver fornito alcuni argomenti critici a sostegno delle pro­ posizioni di metodo e di dottrina che costituiscono l’oggetto della seconda parte e che riassumeremmo qui di seguito. E in rapporto alla polarità dinamica della vita che si può qualificare come normali dei tipi o delle funzioni. Se esisto­ no delle norme biologiche, è perché la vita, essendo non so­ lo sottomissione all’ambiente ma anche istituzione del pro­ prio ambiente, pone proprio in tal modo dei valori non sol­ tanto nell’ambiente ma anche nello stesso organismo. E ciò che chiamiamo la normatività biologica. Lo stato patologico può essere detto, senza che ciò suoni assurdo, normale nella misura in cui esso esprime un rappor­ to alla normatività della vita. Ma questo normale non può es­ sere detto, senza che ciò suoni assurdo, identico al normale fisiologico, perché si tratta di altre norme. L ’anormale non è tale per assenza di normalità. Non si dà vita senza norme di vita, e lo stato morboso è sempre un certo modo di vivere. Lo stato fisiologico è lo stato sano, più ancora che lo sta­ to normale. E lo stato che può ammettere il passaggio a nor­

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me nuove. L ’uomo è sano in quanto è normativo in relazio­ ne alle fluttuazioni del proprio ambiente. Le costanti fisio­ logiche possiedono, secondo noi, tra tutte le costanti vitali possibili, un valore propulsivo. Al contrario, lo stato patolo­ gico rispecchia la riduzione delle norme di vita tollerate dal vivente, la precarietà del normale stabilito dalla malattia. Le costanti patologiche hanno valore repulsivo e di stretta con­ servazione. La guarigione è la riconquista di uno stato di stabilità del­ le norme fisiologiche. Essa si avvicina tanto più alla salute o alla malattia quanto più o meno questa stabilità è aperta a eventuali modificazioni. In ogni caso, nessuna guarigione è ritorno all’innocenza biologica. Guarire significa darsi nuo­ ve norme di vita, talvolta superiori alle precedenti. Esiste una irreversibilità della normatività biologica. Il concetto di norma è un concetto originale che non si lascia, in fisiologia più che altrove, ridurre a un concetto og­ gettivamente determinabile con metodi scientifici. Non si dà dunque, propriamente parlando, una scienza biologica del normale. Si dà una scienza delle situazioni e delle condizio­ ni biologiche dette normali. Questa scienza è la fisiologia. L ’attribuzione alle costanti, di cui la fisiologia determi­ na scientificamente il contenuto, di un valore «normale», evidenzia la relazione della scienza della vita all’attività nor­ mativa della vita e, per quanto riguarda la scienza della vita umana, alle tecniche biologiche di produzione e di instaura­ zione del normale, più precisamente alla medicina. Vale per la medicina ciò che vale per tutte le tecniche. Essa è un’attività che si radica nello sforzo spontaneo del vi­ vente per dominare l’ambiente e organizzarlo secondo i pro­ pri valori di vivente. E in questo sforzo spontaneo che la me­ dicina trova il proprio senso, se non immediatamente tutta la lucidità critica che la renderebbe infallibile. Per questo la medicina, senza essere essa stessa una scienza, utilizza i ri­ sultati di tutte le scienze al servizio delle norme della vita. v E dunque innanzitutto perché gli uomini si sentono ma­

Conclusione

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lati che vi è una medicina. È solo secondariamente - per il fatto che vi è una medicina - che gli uomini sanno in che co­ sa essi sono malati. Ogni concetto empirico di malattia conserva un rappor­ to al concetto assiologico della malattia. Non è, di conse­ guenza, un metodo oggettivo che fa qualificare come pato­ logico un fenomeno biologico considerato. E sempre la re­ lazione all’individuo malato, tramite la mediazione della clinica, ciò che giustifica la qualificazione di un fenomeno come patologico. Anche ammettendo l’importanza dei me­ todi oggettivi di osservazione e di analisi in patologia, non sembra che si possa parlare, correttamente dal punto di vi­ sta logico, di «patologia oggettiva». Certo una patologia può essere metodica, critica, sperimentalmente munita. Essa può essere detta oggettiva in riferimento al medico che la prati­ ca. Ma l’intenzione del patologo non fa si ché il suo oggetto sia una materia svuotata di soggettività. Si può praticare og­ gettivamente, vale a dire imparzialmente, una ricerca il cui oggetto non possa essere concepito e costruito senza rapporto a una qualificazione positiva e negativa, il cui oggetto, cioè, non sia tanto un fatto quanto un valore.

Nuove riflessioni intorno al normale e al patologico (1963-I966)

Venti anni dopo.

Nel 1943, in qualità di professore incaricato alla Facoltà di Lettere di Strasburgo, a Clermont-Ferrand ho tenuto un corso su «Le norme e il normale»; contemporaneamente an­ davo stendendo la mia tesi di dottorato, sostenuta nel luglio dello stesso anno davanti la Facoltà di Medicina di Strasbur­ go. Nel 1963, in qualità di professore alla Facoltà di Lettere e Scienze umane di Parigi, ho tenuto un corso sul medesimo argomento. Ho voluto, vent’anni dopo, misurarmi con le me­ desime difficoltà, avendo a disposizione altri mezzi. Non poteva trattarsi di riprendere esattamente Tesarne delle medesime questioni. Alcune delle proposizioni che ave­ vo cercato nel mio Saggio su alcuni problemi riguardanti il nor­ male e il patologico di fondare solidamente, in ragione del loro carattere, forse solo apparente, di paradosso, mi sem­ bravano ormai scontate. Meno per la forza della mia argo­ mentazione che per Tingegno di alcuni lettori, abili a trova­ re per esse antecedenti a me sconosciuti. Il mio giovane col­ lega Francis Courtès, assistente presso la Facoltà di Lettere e Scienze umane di Montpellier, buon specialista di Kant, studiando la filosofia kantiana nei suoi rapporti con la bio­ logia e la medicina del xviii secolo, mi aveva segnalato un te­ sto, di quelli che generano a un tempo la soddisfazione di un bell’incontro e la confusione di un’ignoranza al riparo della quale si credeva di potersi attribuire un filo di originalità. Kant ha annotato, senza dubbio intorno al 1798: Si è recentemente posto l’accento sulla necessità di disbrogliare la matassa del politico partendo dai doveri del soggetto piuttosto che dai

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Intorno al normale e al patologico (1963-1966)

diritti del cittadino. Parimenti, sono le malattie che hanno spinto alla fisiologia; e non fu la fisiologia, bensì furono la patologia e la clinica a far cominciare la medicina. La ragione è che il benessere, a dire il vero, non viene percepito, giacché esso è semplice coscienza di vivere, e che solo il suo impedimento suscita la forza di resistenza. Nulla di stupefa­ cente, dunque, se Brown comincia dalla classificazione delle malattie.

Appariva, da questo fatto, superfluo cercare nuove giu­ stificazioni alla tesi che presenta la clinica e la patologia co­ me il suolo originario in cui si radica la fisiologia, e come la via lungo la quale l’esperienza umana della malattia veicola fino al cuore della problematica del fisiologo il concetto di normale. A ciò si aggiungeva che nuove letture di Claude Bernard, stimolate e illuminate dalla pubblicazione, nel 1947, dei Principes de médecine expérimentale, dovevano at­ tenuare il rigore del giudizio che avevo in un primo tempo dato sull’idea che egli si era fatta dei rapporti tra la fisiolo­ gia e la patologia2e mi avevano reso più sensibile al fatto che Bernard non ha ignorato la necessità per l’esperienza clinica di precedere la sperimentazione di laboratorio. Se avessi a che fare con dei tirocinanti, direi loro innanzitutto: andate all’ospedale; è la prima cosa da conoscere. Giacché come sa­ rebbe possibile analizzare sperimentalmente malattie che non si co­ noscono ? Non dico dunque di sostituire il laboratorio all’ospedale. Dico al contrario: andate innanzitutto all’ospedale, ma questo non ba­ sta ad arrivare alla medicina scientifica o sperimentale; bisogna suc­ cessivamente procedere, in laboratorio, ad analizzare sperimental­ mente ciò che l’osservazione clinica ci ha fatto constatare. Non capi­ sco perché mi venga fatta questa obiezione, giacché ho molto spesso detto e ripetuto che la medicina deve sempre cominciare da una os­ servazione clinica (vedi Introduzione, p. 242), ed è in questo modo che essa è cominciata nei tempi antichi5.

Reciprocamente, avendo saldato a Bernard un debito che gli avevo in parte contestato, dovevo mostrarmi [1956, pp. 313-17], come ho fatto, un po’ meno generoso nei confron­ ti di Leriche. 2 Cfr. supra, pp. 52-60. 3 Principes de médicine expérimentale yp. 170.

Venti anni dopo

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Per tutte queste ragioni, il mio corso del 1963 ha esplo­ rato l’argomento tracciando vie differenti da quelle del 1943. Altre letture hanno altrimenti stimolato le mie riflessioni. Non si tratta soltanto di letture di lavori apparsi nel frat­ tempo. Si tratta anche di letture che avrei potuto fare o aver fatte all’epoca. La bibliografia di un problema è sempre da rifare, anche a ritroso. Ce ne si renderà conto anche qui, pa­ ragonando la bibliografia del 1966 a quella del 1943. Ma i due corsi su «Le norme e il normale» oltrepassava­ no in estensione il soggetto di filosofia medica trattato nel Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico e al riesame del quale intendo ancora, nelle pagine seguenti, dedicarmi. Il senso dei concetti di norma e di normale nelle scienze umane, in sociologia, in etnologia, in economia con­ duce a ricerche che in ultima analisi rimandano, si tratti di tipi sociali, di criteri di non-adattamento al gruppo, dei bi­ sogni e dei comportamenti di consumo o dei sistemi di pre­ ferenza, alla questione dei rapporti tra normalità e genera­ lità. Se prendo a prestito, all’inizio, alcuni elementi di ana­ lisi dalle lezioni nelle quali ho esaminato, alla mia maniera, alcuni aspetti di questa questione, è soltanto per chiarire, at­ traverso il confronto tra le norme sociali e le norme vitali, il significato specifico di queste ultime. E con lo sguardo ri­ volto all’organismo che mi permetto qualche incursione nel­ la società. Posso confessare che la lettura di studi posteriori alla mia tesi del 1943 e di argomento analogo non mi ha convinto di avere io stesso, allora, mal posto il problema? Tutti coloro che hanno mirato, come me, a stabilire il senso del concetto di normale, hanno provato il medesimo imbarazzo e non han­ no avuto altra risorsa, di fronte alla polisemia del termine, che di fissare arbitrariamente il senso che pareva loro più adeguato al progetto teorico o pratico che richiedeva una de­ limitazione semantica. Ciò conferma che anche coloro che hanno cercato con il massimo rigore possibile di non dare al normale se non un valore di fatto, hanno semplicemente tra­

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sformato in valore il fatto del loro bisogno di un significato circoscritto. Oggi dunque, come vent’anni fa, corro ancora il rischio di cercare di fondare il significato fondamentale del normale attraverso un’analisi filosofica della vita, intesa co­ me attività di opposizione all’inerzia e all’indifferenza. La vita cerca di vincere sulla morte, in tutti i sensi del termine vincere, e innanzitutto nel senso in cui la vincita è ciò che viene acquisito nel gioco. La vita gioca contro l’entropia cre­ scente.

Capitolo primo Dal sociale al vitale

Nella Critica della Ragion pura (metodologia trascenden­ tale: architettonica della Ragion pura), Kant distingue i con­ cetti, quanto alla loro sfera di origine e di validità, in scola­ stici e cosmici, questi ultimi essendo il fondamento dei primi. Dei due concetti di norma e normale, potremmo dire che il primo è scolastico, mentre il secondo è cosmico o popola­ re. E possibile che il normale sia una categoria del giudizio popolare perché la sua collocazione sociale è fortemente, quantunque in modo confuso, percepita dalla gente come non corretta. Ma il termine stesso «normale» è passato nella lin­ gua popolare e si è naturalizzato in essa a partire dai voca­ bolari specifici di due istituzioni, Pistituzione pedagogica e l’istituzione sanitaria, le cui riforme, almeno per quanto ri­ guarda la Francia, sono coincise sotto l’effetto della medesi­ ma causa, la Rivoluzione francese. Normale è il termine con il quale il xix secolo designerà il prototipo scolastico e lo sta­ to di salute organica. La riforma della medicina come teoria riposa sulla riforma della medicina come pratica: essa è stret­ tamente legata, in Francia cosi come in Austria, alla riforma ospedaliera. Tanto la riforma ospedaliera quanto la riforma pedagogica esprimono un’esigenza di razionalizzazione che si profilava anche in politica, cosi come essa si profilava in economia sotto l’effetto della nascente automazione indu­ striale, e che sfociò infine in ciò che in seguito è stato chia­ mato normalizzazione.

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Come una scuola normale è una scuola dove si insegna a insegnare, vale a dire dove vengono messi a punto speri­ mentalmente metodi pedagogici, cosi un contagocce norma­ le è quello che è stato calibrato per suddividere in X X goc­ ce in caduta libera un grammo di acqua distillata, di modo che il potere farmacodinamico di una sostanza in soluzione possa essere graduato secondo l’indicazione di una prescri­ zione medica. Allo stesso modo, poi, una via ferroviaria nor­ male è, tra i ventuno scartamenti dei binari ferroviari posti in opera in tempi passati e recenti, la via definita dallo scar­ tamento di 1,44 m tra i bordi interni dei binari, vale a dire quella che è parsa rispondere, in un determinato momento della storia industriale ed economica dell’Europa, al miglio­ re compromesso ricercato tra diverse esigenze, inizialmente non conciliabili, di ordine meccanico, energetico, commer­ ciale, militare e politico. Parimenti, infine, per il fisiologo, il peso normale dell’uomo, tenuto conto del sesso, dell’età e della statura, è il peso «corrispondente alla più alta longevità prevedibile» [Kayser 1963]. Nei primi tre esempi, il normale sembra essere l’effetto di una scelta e di una decisione esterne all’oggetto qualifica­ to tale, mentre nel quarto esempio il termine di riferimento e di qualificazione si presenta manifestamente come intrin­ seco all’oggetto, se è vero che la durata di un organismo in­ dividuale è, in una solida salute, una costante specifica. Ma, a ben guardare, la normalizzazione dei mezzi tecni­ ci dell’educazione, della salute, dei trasporti di persone e di merci, è l’espressione di esigenze collettive il cui insieme, an­ che in assenza di una presa di coscienza da parte degli indi­ vidui, definisce in una società storica data il suo modo di ri­ ferire la propria struttura, o forse le proprie strutture, a ciò che essa stima essere il proprio singolare bene. In ogni caso, il carattere peculiare di un oggetto o di un fatto detto normale, in riferimento a una norma esterna o in­ trinseca, è di poter essere, a sua volta, preso come riferimento

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di oggetti o di fatti che attendono ancora di poter essere det­ ti tali. Il normale è dunque ad un tempo l’estensione e l’e­ spressione della norma. Esso moltiplica la regola nel mo­ mento stesso in cui la indica. Esso richiede dunque fuori di sé, a fianco a sé e contro di sé, tutto ciò che ancora gli si sot­ trae. Una norma trae il proprio senso, la propria funzione e il proprio valore dal fatto che fuori di essa esiste ciò che non risponde all’esigenza da cui essa dipende. Il normale non è un concetto statico o pacifico, bensì un concetto dinamico e polemico. Gaston Bachelard, che si è molto interessato ai valori nella loro forma cosmica o popo­ lare, e alla valorizzazione secondo gli assi dell’immaginazio­ ne, ha giustamente notato che ogm valore deve essere gua­ dagnato di contro a un antivalore. E lui che scrive: «La vo­ lontà di ripulire vuole un avversario alla sua altezza» [1948, pp. 41-42]. Quando si sa che nonna è il termine latino che traduce «squadra», e che normalis significa perpendicolare, si sa pressoché tutto ciò che si deve sapere sull’ambito d’ori­ gine del senso dei termini «norma» e «normale», trasportati in una grande quantità di altri ambiti. Una norma, una rego­ la, è ciò che serve a rendere dritto, a drizzare, a raddrizza­ re. Normare, normalizzare, significa imporre un’esigenza a un’esistenza, a un dato la cui varietà e la cui differenza si of­ frono, al riguardo dell’esigenza, come un indeterminato osti­ le più ancora che estraneo. Concetto polemico, in effetti, è quello che qualifica negativamente il settore del dato che non rientra nella sua estensione, nel momento in cui esso sfugge alla sua comprensione. Il concetto di retto, secondo che si tratti di geometria, di morale o di tecnica, qualifica ciò che resiste alla sua applicazione come sghembo, deviato o storto1. Di questa destinazione e di quest’uso polemici del con­ cetto di norma si deve, secondo noi, cercare la ragione nell’es­

1 Sarebbe possibile e fruttuoso - ma non è qui il luogo - costituire delle fami­ glie semantiche di concetti che mostrino la parentela del concetto popolare di nor­ male e di anormale, per esempio la serie torvo, torturato, ritorto, ecc., e la serie obli­ quo , deviato, traverso, ecc.

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senza del rapporto normale-anormale. Non si tratta di un rapporto di contraddizione e di estraneità, bensì di un rap­ porto di inversione e di polarità. La norma, svilendo tutto ciò che il riferimento ad essa impedisce di considerare nor­ male, crea da sé la possibilità di una inversione dei termini. Una norma si propone come un modo possibile di unifica­ zione di un diverso, di riassorbimento di una differenza, di ricomposizione di una controversia. Ma proporsi non signi­ fica imporsi. A differenza di una legge della natura, una nor­ ma non rende necessario il proprio effetto. Il che significa che una norma, di per sé sola, non ha alcun senso di norma. La possibilità di riferimento e di regolazione che essa offre contiene, proprio perché è soltanto una possibilità, lo spazio per un’altra possibilità che non può essere che inversa. Una norma, in effetti, è la possibilità di un riferimento soltanto quando essa è stata istituita o scelta come espressione di una preferenza e come strumento di una volontà di sostituzione di uno stato di cose soddisfacente a uno stato di cose delu­ dente. In tal modo, ogni preferenza di un ordine possibile si accompagna, nella maggior parte dei casi implicitamente, all’avversione per il possibile ordine inverso. Il differente del preferibile, in un ambito valutativo dato, non è l’indiffe­ rente, ma ciò che respinge, o più esattamente il respinto, il detestabile. Va da sé che una norma gastronomica non entra in rapporto di opposizione assiologica con una norma logica. Per contro, la norma logica di prevalenza del vero sul falso può essere invertita in norma di prevalenza del falso sul ve­ ro, cosi come la norma etica di prevalenza della sincerità sul­ la doppiezza può essere invertita in norma di prevalenza del­ la doppiezza sulla sincerità. Tuttavia, l’inversione di una nor­ ma logica non produce una norma logica, ma forse estetica, cosi come l’inversione di una norma etica non produce una norma etica, ma forse politica. In breve, sotto qualsiasi for­ ma, implicita o esplicita che sia, una norma riferisce il reale a un valore, esprime una discriminazione di qualità confor­ memente all’opposizione polare tra un positivo e un negati­

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vo. Questa polarità dell’esperienza di normalizzazione, espe­ rienza specificamente antropologica o culturale - se è vero che per natura non bisogna intendere se non un ideale di nor­ malità senza normalizzazione -, fonda nel rapporto della nor­ ma al suo ambito di applicazione la priorità normale dell’in­ frazione. Una norma, nell’esperienza antropologica, non può esse­ re originale. La regola non comincia ad essere regola se non agendo da regola, e questa funzione di correzione nasce dall’infrazione stessa. Un’età dell’oro, un paradiso sono la rappresentazione mitica di un’esistenza originariamente ade­ guata alla propria esigenza, di un modo di vita la cui regola­ rità non deve nulla all’istituzione di una regola, di uno sta­ to di non colpevolezza in assenza di divieti che nessuno pos­ sa ignorare. Questi due miti derivano da un’illusione di re­ troattività secondo cui il bene originale reca in sé il male suc­ cessivo. All’assenza di regole si accompagna l’assenza di tecniche. L ’uomo dell’età dell’oro, l’uomo paradisiaco, go­ dono spontaneamente dei frutti di una natura incolta, non sollecitata, non forzata, non sfruttata. Niente lavoro, nien­ te cultura: tale è il desiderio di regressione integrale. Questa formulazione in termini negativi di un’esperienza conforme alla norma senza che la norma abbia avuto a mostrarsi nella propria funzione e attraverso essa, questo sogno propria­ mente ingenuo di regolarità in assenza di regola significa in fondo che il concetto di normale è esso stesso normativo, es­ so norma anche l’universo del discorso mitico nel momento in cui esso racconta della sua assenza. Si spiega cosi il fatto che, in molte mitologie, l’avvento dell’età dell’oro segni la fine di un caos. Come ha detto Gaston Bachelard: «La mol­ teplicità è agitazione. Non v’è nella letteratura un solo caos immobile» [1948, p. 59]. Nelle Metamorfosi di Ovidio, la ter­ ra del caos non dà frutti, il mare del caos non è navigabile, le forme non persistono identiche a se medesime. L ’indeter­ minazione iniziale è la negazione della determinazione suc­ cessiva. L ’instabilità delle cose ha come correlato l’impotenza

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dell’uomo. L ’immagine del caos è quella di una regolarità ne­ gata, cosi come l’immagine dell’età dell’oro è quella di una regolarità selvaggia. Caos ed età dell’oro sono i termini mi­ tici della relazione normativa fondamentale, termini in rela­ zione tale che nessuno dei due può impedirsi di virare verso l’altro. Il caos ha il compito di invocare, di provocare la pro­ pria interruzione e di farsi ordine. Inversamente, l’ordine dell’età dell’oro non può durare, perché la regolarità selvag­ gia è mediocrità; le soddisfazioni in essa sono modeste - au­ rea mediocritas - perché esse non sono una vittoria riporta­ ta sull’ostacolo della misura. Dove la regola è seguita senza coscienza della possibilità di un oltrepassamento, ogni go­ dimento è semplice. Ma si può godere semplicemente del va­ lore della regola in sé ? Godere davvero del valore della re­ gola, del valore della regolazione, del valore della valorizza­ zione, richiede che la regola sia stata sottoposta alla prova della contestazione. Non è soltanto l’eccezione che confer­ ma la regola in quanto regola, ma è l’infrazione che dà ad es­ sa occasione di essere regola agendo da regola. In questo sen­ so, l’infrazione è non l’origine della regola, ma l’origine del­ la regolazione. Nell’ordine del normativo, l’inizio è l’infra­ zione. Per riprendere un’espressione kantiana, proporrem­ mo che la condizione di possibilità delle regole faccia tutt’uno con la condizione di possibilità dell’esperienza delle regole. L ’esperienza delle regole è la messa alla prova, in una situa­ zione di irregolarità, della funzione regolatrice delle regole. Ciò che i filosofi del xvm secolo hanno chiamato stato di natura è l’equivalente razionalizzato dell’età dell’oro. D ’ac­ cordo con Lévi-Strauss, bisogna riconoscere che, a differen­ za di Diderot, Rousseau non ha mai pensato che lo stato di natura fosse per l’umanità un’origine storica offerta all’os­ servazione dell’etnografo dall’esplorazione del geografo [Lévi-Strauss 1955]2. Jean Starobinski [1962] ha felicemente mostrato, dal canto suo, che lo stato di natura descritto da 2 Cap. xxxvm, Un bicchierino di rum.

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Rousseau è l’immagine dell’equilibrio spontaneo tra il mon­ do e i valori del desiderio, stato di piccola felicità prestorica in senso assoluto, poiché è dalla sua lacerazione irrimediabi­ le che la storia sgorga come da una sorgente. Non si può dun­ que propriamente parlare di tempo grammaticale adeguato al discorso su un’esperienza umana normalizzata, senza rap­ presentazione di norme legate, nella coscienza, alla tenta­ zione di ostacolarne la messa in pratica. Giacché o l’adegua­ mento tra lo stato di fatto e lo stato di diritto non viene per­ cepito, e lo stato di natura è uno stato d’incoscienza di cui nessun evento può verificarsi senza che ne nasca l’occasione di una presa di coscienza, oppure l’adeguamento è percepi­ to e lo stato di natura è uno stato di innocenza. Ma questo stato non può essere per sé e, in pari tempo, essere uno sta­ to, vale a dire una disposizione statica. Nessuno si sa inno­ cente innocentemente, poiché avere coscienza dell’adegua­ mento alla regola significa avere coscienza delle ragioni del­ la regola che si riportano al bisogno della regola. Alla massi­ ma socratica, fin troppo sfruttata, secondo cui nessuno è malvagio essendone consapevole, conviene contrapporre la massima inversa, secondo cui nessuno è buono avendo co­ scienza di esserlo. Parimenti, nessuno è sano sapendosi tale. Alla frase di Kant: «Il benessere non è percepito, giacché es­ so è semplice coscienza di vivere»5 fa eco la definizione di Leriche: «la salute è la vita nel silenzio degli organi». Ma è nella furia della colpevolezza come nel rumore della soffe­ renza che l’innocenza e la salute si manifestano come i ter­ mini di una regressione tanto impossibile quanto ricercata. L ’anormale, in quanto a-normale, è posteriore alla defi­ nizione del normale, ne è la negazione logica. Ma è l’ante­ riorità storica del futuro anormale che suscita un’intenzione

3 Già Cartesio aveva affermato: «Ancorché la salute sia il più grande di quan­ ti, tra i nostri beni, riguardano il corpo, è tuttavia quello al quale rivolgiamo la mi­ nor riflessione e che assaporiamo meno. La conoscenza della verità è come la salu­ te dell’anima: nel momento in cui la si possiede, non vi si pensa più» (Lettera a Chanut, marzo 1649).

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normativa. Il normale è l’effetto ottenuto con il compimen­ to del progetto normativo, è la norma esibita nel fatto. Dal punto di vista del fatto, vi è dunque tra il normale e l’anor­ male un rapporto di esclusione. Ma questa negazione è su­ bordinata all’operazione di negazione, alla correzione ri­ chiesta dall’anormalità. Non vi è dunque alcun paradosso nel dire che l’anormale, logicamente secondo, è esistenzialmen­ te primo.

Il termine latino norma, che sostiene, in senso etimologi­ co, il peso del senso iniziale dei termini «norma» e «norma­ le», è l’equivalente del greco ôpdoç. L ’ortografia4, l’orto­ dossia, l’ortopedia sono concetti normativi ante litteram. Se il concetto di ortologia è ben meno familiare, non è del tut­ to inutile sapere che Platone ha versato ad esso la propria cauzione5 e che il termine si trova, ma senza citazione di ri­ ferimento, nel Dictionnaire de la langue française di Littré. L ’ortologia è la grammatica nel senso che ad essa hanno da­ to gli autori latini e medievali, cioè di regolamentazione dell’uso della lingua. Se è vero che l’esperienza di normalizzazione è esperien­ za specificamente antropologica o culturale, può sembrare normale che la lingua abbia offerto a tale esperienza uno dei suoi primi campi. La grammatica fornisce una materia di pri­ ma scelta alla riflessione sulle norme. Quando Francesco I, con l’editto di Villers-Cotteret, prescrive la redazione in fran­ cese di tutti gli atti giudiziari del regno, si tratta di un im­ perativo [Guiraud 1958, p. 109]. Ma una norma non è un imperativo di esecuzione sotto la minaccia di sanzioni giuri­ diche. Quando i grammatici di quell’epoca iniziano a fissa­ re l’uso della lingua francese si tratta di norme, che deter­ 4 Cosi il testo: « L ’orthographe, qui fût plus anciennement l’orthographie...». Mancando in italiano la distinzione tra orthographe e orthographie, l’inciso risulta intraducibile [N J .T .]. 5 Sofista y 239b.

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minano il riferimento e definiscono Terrore attraverso lo scarto, la differenza. Il riferimento è tratto dall’uso. Tale, a metà del xvn secolo, è la tesi di Vaugelas: « L ’uso è ciò cui bisogna interamente sottomettersi nella nostra lingua»6. Le opere di Vaugelas si collocano nella scia delle opere dell’Académie française, fondata espressamente per l’abbelli­ mento della lingua. Di fatto, nel xvn secolo, la norma gram­ maticale è l’uso dei borghesi parigini colti, cosicché questa norma rimanda a una norma politica, la centralizzazione am­ ministrativa a beneficio del potere regio. Dal punto di vista della normalizzazione, non v’è differenza tra la nascita del­ la grammatica in Francia nel xvn secolo e l’istituzione del si­ stema metrico alla fine del xvm secolo. Richelieu, i membri della Convenzione Nazionale e Napoleone Bonaparte sono gli strumenti successivi della medesima esigenza collettiva. Si comincia con le norme grammaticali, per finire con le nor­ me morfologiche degli uomini e dei cavalli ai fini della dife­ sa nazionale7, passando per le norme industriali e igieniche. La definizione di norme industriali suppone un’unità di pia­ no, di direzione del lavoro, di destinazione del materiale pro­ dotto. L ’articolo «Affusto» dell’Encyclopédie di Diderot e D ’Alembert, riveduto dal Regio corpo d’artiglieria, espone mirabilmente i motivi della normalizzazione del lavoro negli arsenali. Si ravvisa in essa il rimedio alla confusione degli sforzi, alla particolarità delle proporzioni, alla difficoltà e al­ la lentezza dei ricambi, alla spesa inutile. L ’uniformazione dei disegni dei pezzi e delle tavole di dimensioni, l’imposi­ zione di stampi e di modelli, hanno come conseguenze la pre­ cisione delle produzioni separate e la regolarità degli assem­ blaggi. L ’articolo «Affusto» contiene quasi tutti i concetti utilizzati in un moderno tratto di normalizzazione, tranne il termine norma. Abbiamo qui la cosa senza la parola. La definizione di norme igieniche suppone l’interesse ac6 Remarques sur la langue française, prefazione. 7 Istituzione della coscrizione e della revisione dei coscritti; istituzione delle scuderie nazionali e dei depositi di rimonta.

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cordato, da un punto di vista politico, alla salute delle po­ polazioni considerata statisticamente, alla salubrità delle con­ dizioni d'esistenza, all’estensione uniforme dei trattamenti preventivi e curativi messi a punto dalla medicina. E in Au­ stria che Maria Teresa e Giuseppe II assegnano uno statuto legale alle istituzioni di igiene pubblica con la creazione di una Commissione imperiale per la salute (Sanitats-Hofdeputation, 1753) e la promulgazione di una Haupt Medizinal Ord­ nung, sostituita nel 1770 dal Sanitats-normativ, atto compo­ sto da 40 articoli relativi alla medicina, alla veterinaria, alla farmacia, alla formazione dei chirurghi, alla statistica demo­ grafica e medica. In materia di norma e di normalizzazione, abbiamo qui la parola con la cosa. Nell’uno e nell’altro di questi due esempi, la norma è ciò che fissa il normale a partire da una decisione normativa. Co­ me si vedrà, una tale decisione, relativa a questa o quella nor­ ma, non si comprende se non nel contesto di altre norme. A un certo punto, l’esperienza della normalizzazione è indivi­ sibile, almeno quanto al suo progetto. Pierre Guiraud lo ha ben compreso, nel caso della grammatica, quando scrive: La fondazione delTAcadémie française per opera di Richelieu nel 1635 si inquadra in una politica generale di centralizzazione di cui so­ no eredi la Rivoluzione, l’impero e la Repubblica [...]. Non sarebbe assurdo pensare che la borghesia abbia annesso la lingua nel momen­ to in cui accaparrava gli strumenti di produzione [1958, p. 109].

Il che potrebbe essere espresso altrimenti, tentando di so­ stituire un equivalente al concetto marxista di classe ascen­ dente. Tra il 1759, data di comparsa del termine normale, e il 1834, data di comparsa del termine normalizzato, una clas­ se normativa ha conseguito il potere di identificare - bel­ l’esempio di illusione ideologica - la funzione delle norme sociali con l’uso che essa stessa faceva di quelle di cui essa determinava il contenuto. Che l’intenzione normativa, in una data società, a un’epo­ ca data, sia indivisibile, è ciò che appare chiaro dall’esame

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dei rapporti tra le norme tecniche e le norme giuridiche. Nel senso stretto e corrente del termine, la normalizzazione tec­ nica consiste nella scelta e nella fissazione del materiale, del­ la forme e delle dimensioni di un oggetto le cui caratteristi­ che divengono da allora obblighi di fabbricazione conforme. La divisione del lavoro costringe gli imprenditori all’omoge­ neità delle norme in seno a un insieme tecnico-economico le cui dimensioni sono in costante evoluzione su scala nazio­ nale o internazionale. Ma la tecnica si sviluppa nell’ambito dell’economia di una società. Dal punto di vista industriale ed economico, un’esigenza di semplificazione può apparire urgente dal punto di vista tecnico ma può sembrare prema­ tura quanto alle possibilità del momento e all’avvenire im­ mediato. La logica della tecnica e gli interessi dell’economia devono conciliarsi. Da un altro punto di vista, del resto, la normalizzazione tecnica deve temere un eccesso di rigidità. Ciò che viene fabbricato deve essere alla fine consumato. Certo, si può spingere la logica della normalizzazione fino al­ la normalizzazione dei bisogni per via di persuasione pub­ blicitaria. Dovrebbe forse essere risolta la questione se il bi­ sogno sia un oggetto di normalizzazione possibile, ovvero il soggetto obbligato dell’invenzione delle norme ? A supporre che la prima di queste due proposizioni sia la vera, la nor­ malizzazione deve prevedere per i bisogni, così come essa fa per gli oggetti caratterizzati da norme, delle tolleranze di scarto, ma in questo caso senza quantificazione. La relazio­ ne della tecnica al consumo introduce nell’unificazione dei metodi, dei modelli, dei processi, delle prove di qualifica­ zione, una flessibilità relativa che evoca d ’altronde il termi­ ne di normalizzazione, preferito in Francia, nel 1930, a quel­ lo di standardizzazione, per designare l’organismo ammini­ strativo incaricato dell’impresa su scala nazionale [Maily 1946, pp. 157 sg.]8. Il concetto di normalizzazione esclude 8 La nostra breve trattazione della normalizzazione deve molto a quest’opera, utile per la chiarezza dell’analisi e l’informazione storica, come anche per i riferi-

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quello di immutabilità e implica Vanticipazione di un am­ morbidimento possibile. Si comprende cosi come una norma tecnica rimandi progressivamente a un’idea della società e della sua gerarchia di valori, come una decisione di norma­ lizzazione supponga la rappresentazione di un tutto possibi­ le delle decisioni correlative, complementari o compensatrici. Questo tutto deve essere delimitato in anticipo, delimi­ tato se non chiuso. La rappresentazione di questa totalità di norme reciprocamente relative è la pianificazione. A rigore, l’unità di un Piano sarebbe l’unità di un unico pensiero. Mi­ to burocratico e tecnocratico, il Piano è l’abito moderno dell’idea di Provvidenza. Come è abbastanza chiaro che un’assemblea di commissari e un insieme di macchine diffi­ cilmente possono spacciarsi per un’unità di pensiero, biso­ gna ammettere che si possa esitare a dire del Piano ciò che La Fontaine diceva della Provvidenza, che essa sa meglio di noi ciò che ci giova9. Tuttavia - e senza ignorare che si è po­ tuto presentare normalizzazione e pianificazione come stret­ tamente legate all’economia di guerra o all’economia dei re­ gimi totalitari - bisogna individuare, innanzi tutto nei ten­ tativi di pianificazione, dei saggi di costituzione di organi at­ traverso i quali una società potrebbe presumere, prevedere e assumere i propri bisogni, in luogo di esserne ridotta a re­ gistrarli e a constatarli tramite conti e bilanci. In tal modo ciò che è denunciato, sotto il nome di razionalizzazione spauracchio compiacentemente agitato dai sostenitori del li­ beralismo, varietà economica del naturismo -, come una mec­ canizzazione della vita sociale, esprime forse, al contrario, il bisogno oscuramente percepito dalla società di divenire il sog­ getto organico di bisogni riconosciuti come tali. E facile comprendere come, per il tramite della loro re­ lazione all’economia, l’attività tecnica e la sua normalizza­ zione entrino in rapporto con l’ordine giuridico. Esiste un menti che essa contiene a uno studio del dottor Hellmich, Vom Wesen der Normung (1927). 9 Fables, V I.4, Jupiter et le Métayer [trad. it. Favole, Einaudi, Torino 1958].

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diritto di proprietà industriale, una protezione giuridica dei brevetti d’invenzione o dei modelli depositati. Normalizza­ re un modello depositato significa procedere a una espro­ priazione industriale. Le esigenze della difesa nazionale so­ no la ragione invocata da molti Stati per introdurre simili di­ sposizioni nella legislazione. L ’universo delle norme tecni­ che si apre qui sull’universo delle norme giuridiche. Una espropriazione si opera secondo norme di diritto. I magistrati che decidono di essa, gli ufficiali giudiziari incaricati di ese­ guire la sentenza sono persone identificate con la loro fun­ zione in virtù di norme, installate nella loro funzione con de­ lega di competenza. Il normale qui deriva da una norma su­ periore per delega gerarchizzata. Nella sua Teorìa pura del di­ ritto, Kelsen sostiene che la validità di una norma giuridica dipende dal proprio essere inserita in un sistema coerente, in un ordine di norme gerarchizzate che traggono il loro po­ tere coercitivo dal riferimento diretto o indiretto a una nor­ ma fondamentale. Tuttavia esistono ordini giuridici diffe­ renti perché vi sono diverse norme fondamentali irriducibi­ li. Se si è potuto opporre a questa filosofia del diritto la sua impotenza ad assorbire il fatto politico nel fatto giuridico co­ me essa pretende di fare, almeno ad essa si è riconosciuto in generale il merito di avere posto in luce la relatività delle nor­ me giuridiche gerarchizzate in un ordine coerente. Cosicché uno dei critici più risoluti di Kelsen può scrivere: «Il diritto è il sistema delle convenzioni e delle norme destinate a orien­ tare ciascuna condotta all’interno di un gruppo in modo de­ terminato» [Freund 1 9 6 5 ^ . 332]. Anche riconoscendo che il diritto, privato come pubblico, non ha altra radice che quel­ la politica, si può ammettere che l’occasione di legiferare sia data al potere legislativo da una molteplicità di costumi che spetta al potere istituzionalizzare in un tutto giuridico vir­ tuale. La relatività delle norme giuridiche può essere giusti­ ficata anche in assenza del concetto, caro a Kelsen, di ordi­ ne giuridico. Questa relatività può essere pili o meno stret­ ta. Esiste una tolleranza di non-relatività, il che non signifi­

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ca una lacuna di relatività. La norma delle norme, infatti, re­ sta la convergenza. Come potrebbe essere altrimenti, se il di­ ritto «non è che la regolazione dell’attività sociale»? [ibid., P- 293]- ^ Per riassumere, a partire dall’esempio, scelto intenzio­ nalmente, della normalizzazione più artificiale, la normaliz­ zazione tecnica, possiamo individuare un carattere invariante della normalità. Le norme sono relative le une alle altre in un sistema, almeno in potenza. La loro correlatività in un si­ stema sociale tende a fare di questo sistema un’organizza­ zione, vale a dire un’unità in sé, se non per sé e a sé finaliz­ zata. Un filosofo, almeno, ha colto e messo in luce il carat­ tere organico delle norme morali in quanto esse sono innan­ zi tutto delle norme sociali. Si tratta di Bergson, che analiz­ za, in Les deux sources de la morale et de la religion, ciò che egli chiama «il tutto dell’obbligazione».

La correlatività delle norme sociali: tecniche, economi­ che, giuridiche, tende a fare della loro unità virtuale un’or­ ganizzazione. Del concetto di organizzazione non è facile di­ re ciò che esso è in rapporto a quello di organismo, se si trat­ ti di una struttura più generale di esso, al tempo stesso più formale e più ricca, ovvero si tratti, in relazione all’organi­ smo considerato come un tipo fondamentale di struttura, di un modello distinto da un tale numero di condizioni restrit­ tive che esso non potrebbe avere più consistenza di una me­ tafora. Constatiamo innanzi tutto che, in una organizzazione so­ ciale, le regole di adattamento delle parti in una collettività più o meno lucida quanto al proprio fine - siano queste par­ ti individui, gruppi o delle imprese con obiettivo limitato sono esterne al molteplice adattato. Le regole devono essere rappresentate, apprese, ricordate, applicate. In un organi­ smo vivente, al contrario, le regole di adattamento delle par­ ti tra loro sono immanenti, presentate senza essere rappre­

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sentate, agenti senza deliberazione né calcolo. Non vi sono in questo caso scarto, distanza o dilazione tra la regola e la regolazione. L ’ordine sociale è un insieme di regole di cui i sottoposti o i beneficiari, in ogni caso i dirigenti, devono preoccuparsi. L ’ordine vitale è fatto di un insieme di regole vissute senza problemi [Bergson 1937]10. L ’inventore del termine e del primo concetto di sociolo­ gia, Auguste Comte, nelle lezioni del Cours de philosophie po­ sitive dedicate a ciò che egli chiamava allora la fisica sociale, non ha esitato a utilizzare l’espressione «organismo sociale» per designare la società definita come un consensus di parti coordinate secondo due rapporti, la sinergia e la simpatia, i cui concetti sono mutuati dalla medicina di tradizione ippo­ cratica. Organizzazione, organismo, sistema, consensus, so­ no indifferentemente utilizzati da Comte per designare lo stato di società [1908, p. 170]. Sin da allora, Comte distin­ gue la società e il potere, intendendo per quest’ultimo con­ cetto l’organo e il regolatore dell’azione comune spontanea [ibid., p. 177], organo distinto ma non separato dal corpo sociale, organo razionale e artificiale ma non arbitrario «del­ l’evidente armonia spontanea che deve sempre tendere a re­ gnare tra l’insieme e le parti del sistema sociale» [ibid., p. 177]. Cosi il rapporto tra la società e il governo è esso stes­ so un rapporto di correlazione, e l’ordine politico appare co­ me il prolungamento volontario e artificiale «di quell’ordi­ ne naturale e involontario verso il quale tendono necessaria­ mente senza tregua, sotto un qualunque rapporto, le diver­ se società umane» [ibid., p. 183]. Bisogna attendere il Système de politique positive per ve­ dere Comte limitare la portata dell’analogia da lui accolta nel Cours e accentuare le differenze che impediscono di consi­ derare equivalenti la struttura di un organismo e la struttu­

10 «Umana o animale, una società è un’organizzazione: essa implica una coor­ dinazione e generalmente anche una subordinazione di elementi gli uni agli altri: essa offre pertanto, o semplicemente vissuto o, in più, rappresentato, un insieme di regole o di leggi» (p. 22).

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ra di un’organizzazione sociale. Nella Statique sociale (1852), capitolo quinto: Théorie positive de l’organisme social, Com­ te insiste sul fatto che la natura composta dell’organismo col­ lettivo differisce profondamente dalla costituzione indivisi­ bile dell’organismo. Quantunque funzionalmente concor­ renti, gli elementi del corpo sociale sono suscettibili di esi­ stenza separata. Da questo punto di vista, l’organismo so­ ciale reca in sé alcuni caratteri del meccanismo. In più, e sotto lo stesso punto di vista, «per via della sua natura composta l’organismo collettivo possiede, a un alto grado, l’eminente attitudine che l’organismo individuale possiede soltanto al­ lo stato rudimentale, la facoltà di acquisire nuovi organi, an­ che essenziali» [Comte 1929, p. 304]. Per questo la regola­ zione, l’integrazione nel tutto delle parti successivamente ag­ giunte, è un bisogno sociale specifico. Regolare la vita di una società, famiglia o città, significa inserirla in una società a un tempo più generale e più nobile - perché più vicina alla sola realtà sociale concreta, l’Umanità o Grande Essere. La regolazione sociale è la religione, e la religione positiva è la filosofia, potere spirituale, arte generale dell’azione dell’uo­ mo su se stesso. Questa funzione di regolazione sociale de­ ve avere un organo distinto, il sacerdozio, il cui potere tem­ porale non costituisce che l’ausiliario. Regolare socialmente significa pertanto far prevalere lo spirito d ’insieme. In tal modo ogni organismo sociale, se è di dimensioni inferiori al Grande Essere, è regolato dal di fuori e dall’alto. Il regola­ tore è posteriore a ciò che esso regola: «Non si potrebbero regolare, in effetti, che poteri preesistenti; salvo il caso del­ l’illusione metafisica, in cui si crede di crearli mentre li si de­ finisce» [ibid.yp. 335]. Possiamo dire in altri termini - certamente non meglio, probabilmente peggio - che una società è a un tempo mac­ china e organismo. Essa sarebbe unicamente macchina se i fini della collettività potessero non soltanto essere strettamente pianificati, ma anche posti in opera conformemente a un programma. Da quësto punto di vista, certe società con­

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temporanee a economia socialista tendono forse a un modo di funzionamento automatico. Ma bisogna riconoscere che questa tendenza incontra ancora nei fatti, e non soltanto nel­ la cattiva volontà di esecutori scettici, ostacoli che obbliga­ no gli organizzatori a fare appello alle risorse dell’improvvi­ sazione. Ci si può anche domandare se una società, quale che sia, sia capace a un tempo di lucidità nella fissazione dei pro­ pri fini e di efficacia nell’utilizzazione dei propri mezzi. In ogni caso, il fatto che uno dei compiti di ogni organizzazio­ ne sociale consista nel chiarirsi da se stessa sui propri possi­ bili fini - fatta eccezione per le società arcaiche e le società dette primitive, in cui il fine è dato nel rito e nella tradizio­ ne, come il comportamento dell’organismo animale è dato in un modello innato - sembra proprio rivelare che essa non ha, propriamente parlando, finalità intrinseca. Nel caso della so­ cietà, la regolazione è un bisogno alla ricerca del proprio or­ gano e delle proprie norme d ’esercizio. Nel caso dell’organismo, al contrario, il fatto del bisogno riflette l’esistenza di un dispositivo di regolazione. Il bisogno di alimenti, di energia, di movimento, di riposo richiede, co­ me condizione della propria comparsa sotto forma di inquie­ tudine e di ricerca, il riferimento dell’organismo, in uno sta­ to di fatto dato, a uno stato ottimale di funzionamento, de­ terminato in forma di costante. Una regolazione organica o un’omeostasi assicura innanzi tutto il ritorno a una costante quando, per il fatto delle variazioni della sua relazione all’am­ biente, l’organismo se n’è allontanato. Esattamente come il bisogno ha per sede l’organismo inteso nella sua totalità, nel momento stesso in cui esso si manifesta e si soddisfa mediante uno strumento, cosi la sua regolazione esprime l’integrazio­ ne delle parti nel tutto, nel momento stesso in cui essa agisce tramite il sistema nervoso ed endocrino. E la ragione per cui, all’interno di un organismo, non si può propriamente parlare di distanza tra gli organi, né di esteriorità delle parti. La co­ noscenza che l’anatomista elabora di un organismo è una sor­ ta di esposizione nell’estensione. Ma l’organismo non vive es-

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so stesso sulla base del modo spaziale secondo cui è percepi­ to. La vita di un vivente è per ciascuno dei suoi elementi l'im­ mediatezza della compresenza di tutti. I fenomeni di organizzazione sociale sono come una mi­ mesi dell'organizzazione vitale, nel senso in cui Aristotele afferma dell'arte che essa imita la natura. Imitare non signi­ fica qui copiare ma tendere a ritrovare il senso di una pro­ duzione. L'organizzazione sociale è, prima di tutto, inven­ zione di organi: organi di ricerca e di ricezione di informa­ zioni, organi di calcolo e perfino di decisione. Sotto la for­ ma ancora alquanto sommariamente razionale che essa ha assunto nelle società industriali contemporanee, la norma­ lizzazione richiede la pianificazione, che richiede a sua vol­ ta la costituzione di statistiche di ogni ordine e la loro uti­ lizzazione per mezzo di calcolatori elettronici. A condizione di poter spiegare altrimenti che per metafora il comporta­ mento di un circuito di neuroni corticali sul modello del fun­ zionamento di un analizzatore elettronico a transistor, è al­ lettante, se non legittimo, attribuire oggi alle macchine cal­ colatrici nell'organizzazione tecno-economica di cui esse so­ no strumento, alcune delle funzioni, peraltro forse le meno intellettuali, di cui il cervello umano è organo. Quanto all'as­ similazione analogica dell'informazione sociale tramite sta­ tistiche all'informazione vitale tramite recettori sensitivi, es­ sa è, a quanto ne sappiamo, più antica. E Gabriel Tarde che, nel 1890, in Les lois de limitation , vi si è provato per primo [pp. 148-55]11. Secondo lui, la statistica è una sommatoria di elementi sociali identici. La diffusione dei suoi risultati ten­ de a rendere la sua «informazione» contemporanea al fatto sociale che si sta compiendo. Si può dunque concepire un servizio di statistica e il suo ruolo come un organo sensitivo sociale, sebbene esso per ora, dice Tarde, non sia che una specie di occhio embrionale. Va notato che l'analogia pro­ II È privo di interesse ricordare che alla fine del xix secolo il servizio infor­ mazioni dell’esercito francese, spiacevolmente implicato nelVaffaire Dreyfus, por­ tava il nome di servizio di statistica ?

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posta da Tarde riposa sull’idea che la psicologia si faceva, alTepoca, della funzione di un recettore sensitivo, come l’oc­ chio o l’orecchio, e secondo la quale le qualità sensibili, co­ me il colore o il suono, sintetizzano in un’unità specifica le componenti di un eccitante che il fisico scinde in una mol­ teplicità di vibrazioni. In tal modo Tarde poteva scrivere che «i nostri sensi fanno per noi, ciascuno a parte e dal suo pun­ to di vista specifico, la statistica dell’universo esterno». Ma la differenza tra il meccanismo sociale di ricezione e di elaborazione dell’informazione, da un lato, e l’organo vi­ vente, dall’altro, persiste tuttavia nel fatto che il perfezio­ namento dell’una e dell’altra, nel corso della storia umana e dell’evoluzione della vita, si è operato secondo dei modi in­ versi. L ’evoluzione biologica degli organismi è proceduta tra­ mite integrazione più stretta degli organi e delle funzioni di messa in rapporto con l’ambiente, tramite un’interiorizza­ zione più autonoma delle condizioni di esistenza delle com­ ponenti dell’organismo e tramite la costituzione di ciò che Claude Bernard ha chiamato l’ambiente interno. Al contra­ rio, l’evoluzione storica delle società umane è consistita nel fatto che le collettività di estensione inferiore alla specie han­ no moltiplicato e in qualche modo dispiegato nell’esteriorità spaziale i loro mezzi di azione, nell’esteriorità amministrati­ va le loro istituzioni, aggiungendo macchine agli utensili, stock alle riserve, archivi alle tradizioni. Nella società, la so­ luzione di ogni nuovo problema di informazione e di regola­ zione viene ricercata se non ottenuta con la creazione di or­ ganismi o di istituzioni «parallele» a quelle la cui insuffi­ cienza per sclerosi e per routine a un dato momento esplo­ de. La società deve dunque sempre risolvere un problema senza soluzione, quello della convergenza delle soluzioni pa­ rallele. Di fronte a che cosa l’organismo vivente si pone pre­ cisamente come la realizzazione semplice, se non in tutta semplicità, di una tale convergenza? Come scrive LeroiGourhan: «D all’animale all’uomo, tutto accade sommaria­ mente come se si aggiungesse cervello su cervello, ciascuna

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delle formazioni sviluppata per ultima comportando una coe­ sione sempre più sottile di tutte le formazioni anteriori che continuano a svolgere il proprio ruolo» [1964, p. 114]. In­ versamente, lo stesso autore mostra che «tutta Tevoluzione umana concorre a collocare al di fuori dell’uomo ciò che, nel resto del mondo animale, risponde all’adattamento specifi­ co» [1965, p. 34], il che conferma che resteriorizzazione de­ gli organi della tecnicità è un fenomeno unicamente umano [ibid.yp. 63]. Non è dunque proibito considerare l’esistenza di una distanza tra gli organi sociali, vale a dire i mezzi tec­ nici collettivi di cui dispone l’uomo, come un carattere spe­ cifico della società umana. E nella misura in cui la società è un’esteriorità di organi che l’uomo può disporne per rap­ presentazione e dunque per scelta. In tal modo, proporre per le società umane, nella loro ricerca di una sempre maggiore organizzazione, il modello dell’organismo, significa in fon­ do sognare un ritorno neppure alle società arcaiche, ma alle società animali. E dunque appena il caso di insistere, ora, sul fatto che de­ gli organi sociali, se essi sono fine e mezzo reciprocamente gli uni per gli altri in un tutto sociale, non esistono gli uni per gli altri e per il tutto in virtù di una coordinazione di cau­ salità. L ’esteriorità delle macchine sociali nell’organizzazio­ ne non è differente in sé dall’esteriorità delle parti in una macchina. La regolazione sociale tende dunque verso la regolazione organica e la mima, senza però cessare di essere composta meccanicamente. Per poter identificare la composizione so­ ciale con l’organismo sociale, nel senso proprio di questo ter­ mine, bisognerebbe poter parlare dei bisogni e delle norme di una società come si fa dei bisogni e delle norme della vita di un organismo, vale a dire senza residui di ambiguità. I biso­ gni e le norme di vita di una lucertola o di uno spinarello nel loro habitat naturale si esprimono nel fatto stesso che gli ani­ mali sono tutti naturalmente viventi in questo habitat. Ma è sufficiente che un individuo si interroghi in una società qua­

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lunque sui bisogni e le norme di questa società e le contesti, segno che questi bisogni e queste norme non sono quelli del­ l’intera società, perché si constati fino a che punto il bisogno sociale non sia immanente, fino a che punto la norma socia­ le non sia interiore, fino a che punto in fin dei conti la so­ cietà, sede di dissidi contenuti o di antagonismi latenti, sia lontana dal porsi come un tutto. Se l’individuo si pone la que­ stione della finalità della società, non è segno che la società è un insieme malamente unificato di mezzi, del tutto privo di un fine con il quale si identificherebbe l’attività collettiva permessa dalla struttura ? A sostegno di ciò, si potrebbe in­ vocare l’indagine degli etnografi sensibili alla diversità dei sistemi di norme culturali. Afferma Lévi-Strauss: Nessuna società è sostanzialmente buona, ma nessuna è assolutamente malvagia; tutte offrono certi vantaggi ai loro membri, tenuto conto di un residuo di iniquità la cui rilevanza pare approssimativa­ mente costante, e che corrisponde forse a un’inerzia specifica che si oppone, sul piano della vita sociale, agli sforzi di organizzazione [1955, cap. xxxvm].

Capitolo secondo Sulle norme organiche nell’uomo

Dal punto di vista della salute e della malattia, e di con­ seguenza dal punto di vista della riparazione degli infortuni, della correzione dei disordini, o per dirla in maniera popo­ lare, dei rimedi ai mali, vi è questa differenza tra un organi­ smo e una società: che il terapeuta dei loro mali sa in anti­ cipo e senza esitazione, nel caso dell’organismo, qual è lo stato normale da istituire, mentre, nel caso della società, lo ignora. In un libretto, Gilbert K. Chesterton [1948] ha denun­ ciato, sotto il nome di «errore medico», la propensione fre­ quente negli scrittori politici e nei riformatori a determina­ re lo stato di male sociale prima di proporne i rimedi. La con­ futazione acuta, brillante, ironica di ciò che egli chiama un sofisma riposa su questo assioma: « Se può esservi dubbio sul modo in cui il corpo è stato danneggiato, non ve n’è alcuno sulla forma cui bisogna riportarlo [...]. La scienza medica si accontenta del corpo umano normale e cerca solamente di ri­ pararlo» [ibid., pp. 10-11]. Se non v ’è dubbio sulla finalità di un trattamento medico, le cose vanno diversamente, dice Chesterton, quando si tratta di problemi sociali. Perché la determinazione del male suppone la definizione preliminare dello stato sociale normale, e la ricerca di questa definizione divide coloro che vi si dedicano. «Il problema sociale è esat­ tamente il contrario del problema medico. Noi non diver­ giamo sulla natura precisa della malattia, come fanno i dot­ tori, accordandosi però sulla natura della salute» [ibid., p. 12]. E del bene sociale che si discute nella società, il che fa

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si che gli uni considerino precisamente come male ciò che al­ tri ricercano come ciò che deve essere la salute!1. C'è del serio in quest’ironia. Dire che «nessun dottore cerca di produrre una nuova specie di uomo, con una nuova disposizione degli occhi o delle membra»2, significa ricono­ scere che la norma di vita di un organismo è data dall’orga­ nismo stesso, contenuta nella sua esistenza. Ed è ben vero che nessun medico si sogna di promettere ai propri malati nulla più che il ritorno allo stato di soddisfazione vitale dal quale la malattia li ha precipitati. Ma accade che vi sia più ironia nella realtà che negli umo­ risti. Nello stesso momento in cui Chesterton lodava i me­ dici perché accettavano che l’organismo fornisse loro la nor­ ma della loro attività restauratrice, alcuni biologi comincia­ vano a concepire la possibilità di applicare la genetica alla trasformazione delle norme della specie umana. E dall’anno 191 o, in effetti, che datano le prime conferenze di Hermann J. Müller, genetista celebre per i suoi esperimenti di muta­ zioni provocate, sulla necessità sociale e morale posta all’uo­ mo d’oggi di intervenire su se stesso per promuoversi uni­ versalmente al livello intellettuale più elevato, vale a dire in­ somma di volgarizzare il genio per mezzo dell’eugenetica. Si trattava insomma non di un augurio individuale, ma di un programma sociale, il cui destino, che egli ha conosciuto all’inizio, sarebbe parso a Chesterton la più perfetta confer­ ma del suo paradosso. In Out ofthe night, Müller [1938] pro­ poneva come ideale sociale da realizzare una collettività sen­ za classi, senza diseguaglianze sociali, dove le tecniche di con­ servazione del liquido seminale e di inseminazione artificiale permetterebbero alle donne, che un’educazione razionale avrebbe reso fiere di una tale dignità, di portare nel loro ven­ tre e di allevare bambini di uomini di genio, di Lenin o di 1 Abbiamo più diffusamente commentato queste riflessioni di Chesterton nel­ la nostra conferenza Le problème des régulations dans Vorganisme et dans la société [i955]-

2 Ibid., p. 11.

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Darwin [Huxley 1950, p. 206]. Ora è proprio in Urss dove il libro fu scritto, che il manoscritto di Müller, trasmesso in alto loco dove egli lo supponeva in grado di incontrare fa­ vori, fu giudicato severamente, e il genetista russo che si era intromesso cadde in disgrazia [ibid., p. 176]. Un ideale sociale fondato sulla teoria dell’eredità come la genetica, che conferma il fatto della diseguaglianza umana ricercando le tecniche che la dovrebbero correggere, non po­ trebbe addirsi a una società senza classi. Senza dunque dimenticare che la genetica offre ai biolo­ gi la possibilità di concepire e di applicare una biologia for­ male, e di conseguenza di superare le forme empiriche della vita creando, secondo altre norme, dei viventi sperimentali, osserveremo che per ora la norma di un organismo umano è la sua coincidenza con se stesso, in attesa del giorno in cui sarà la sua coincidenza col calcolo di un genetista eugenista.

Se le norme sociali potessero essere percepite chiaramente quanto le norme organiche, gli uomini sarebbero folli a non adattarvisi. Siccome gli uomini non sono folli, e siccome non esistono Saggi, è evidente che le norme sociali sono da in­ ventare e non da osservare. Il concetto di Saggezza era un concetto privo di senso per i filosofi greci, perché essi con­ cepivano la società come una realtà di tipo organico, dotata di una norma intrinseca, una salute propria, regola di misu­ ra, di equilibrio e di compensazione, replica e imitazione, su scala umana, della legge universale che faceva della totalità degli esseri un cosmos. Un biologo contemporaneo, Cannon, ha raccolto come un’eco dell’assimilazione dei concetti giu­ ridici ai concetti medici nel pensiero greco arcaico, quando ha intitolato La sagesse du corps [1946]3 l’opera nella quale espone la teoria delle regolazioni organiche, dell’omeostasi. Parlare di saggezza del corpo significa dare a intendere che 3 Cannon mutuò il titolo dal celebre fisiologo inglese Starling.

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il corpo vivente sia in stato permanente di equilibrio con­ trollato, di squilibrio tanto ostacolato quanto smorzato, di stabilità mantenuta contro le influenze perturbatrici di ori­ gine esterna, in una parola significa dire che la vita organica è un ordine di funzioni precarie e minacciate, ma costantemente stabilite da un sistema di regolazioni. Conferendo al corpo una saggezza, Starling e Cannon reimportavano nella fisiologia un concetto che la medicina aveva a suo tempo esportato nella politica. Cannon non poteva tuttavia tratte­ nersi dalTelargire a sua volta il proprio concetto di omeo­ stasi, in modo da conferire ad esso un potere di chiarimen­ to dei fenomeni sociali, dando come titolo al suo ultimo ca­ pitolo: rapporti tra Pomeostasi biologica e l’omeostasi sociale. Ma l’analisi di questi rapporti è un tessuto di luoghi comuni di sociologia liberale e di politica parlamentare concernente l’alternanza - nella quale Cannon ravvisa l’effetto di un di­ spositivo di compensazione - tra conservatorismo e riformi­ smo. Come se questa alternanza, lungi dall’essere l’effetto di un dispositivo inerente, anche allo stato rudimentale, a ogni struttura sociale, non fosse di fatto l’espressione dell’effica­ cia relativa di un regime inventato per canalizzare e ammor­ tizzare gli antagonismi sociali, di una macchina politica ac­ quisita dalle società moderne per differire, senza alla fine po­ terla impedire, la trasformazione delle loro incoerenze in crisi. A osservare le società dell’età industriale ci si può do­ mandare se il loro stato di fatto permanente non sia la crisi, e se non sia in tal caso un sintomo franco dell’assenza in es­ se di un potere di autoregolazione. La regolazioni per le quali Cannon ha inventato il termi­ ne generale di omeostasi [ibid., p. 19] sono dell’ordine di quel­ le che Claude Bernard aveva riunito sotto il nome di costanti dell’ambiente interno. Sono delle norme del funzionamento organico, come la regolazione del movimento respiratorio sotto l’effetto del tasso di acido carbonico disciolto nel san­ gue, la termoregolazione nell’animale a temperatura costan­ te, ecc. E noto oggi, cosa che Claude Bernard poteva sol­

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tanto sospettare, che altre forme di regolazione devono es­ sere prese in considerazione nello studio delle strutture or­ ganiche e delle genesi di queste strutture. L ’embriologia spe­ rimentale contemporanea ha trovato i propri problemi fon­ damentali nelle regolazioni morfologiche che, nel corso dello sviluppo embrionale, conservano o ristabiliscono Pintegrità della forma specifica, e prolungano la propria azione orga­ nizzatrice nella riparazione di certe mutilazioni. In tal mo­ do si può classificare l’insieme delle norme in virtù delle qua­ li gli esseri viventi si presentano come formanti un mondo distinto in norme di costituzione, norme di ricostituzione e norme di funzionamento. Queste differenti norme pongono ai biologi un medesi­ mo problema, quello del loro rapporto ai casi singolari che fanno comparire, relativamente al carattere specifico nor­ male, una distanza o uno scarto di tale o talaltro carattere biologico, statura, struttura d ’organi, composizione chimi­ ca, comportamento, ecc. Se l’organismo individuale è ciò che propone da se stesso la norma della propria restaurazione, in caso di malformazione o di incidente, che cosa pone in nor­ ma la struttura e le funzioni specifiche, impercettibili se non manifestate dagli individui? La termoregolazione è diffe­ rente nel coniglio e nella cicogna, nel cavallo e nel cammel­ lo. Ma come rendere conto delle norme proprie di ciascuna delle specie, per esempio dei conigli, senza annullare le dissimiglianze leggere e frammentarie che danno agli individui la loro singolarità ? Il concetto di normale in biologia si definisce oggettiva­ mente tramite la frequenza del carattere cosi qualificato. Per una specie data, il peso, la statura, la maturazione degli istin­ ti, a parità di età e di sesso, sono gli elementi che di fatto ca­ ratterizzano la maggior parte dei gruppi distinti formati da­ gli individui di una popolazione naturale che una misurazio­ ne fa apparire identici. E stato Quètelet a osservare, intorno al 1843, che la distribuzione delle stature umane poteva es­ sere rappresentata mediante la legge degli errori di Gauss,

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forma limite della legge binomiale, e che ha distinto i due concetti di media gaussiana o media vera e media aritmeti­ ca, prima confuse nella teoria dell'uomo medio. La distribu­ zione dei risultati di misura al di qua e al di là del valore me­ dio garantisce che la media gaussiana sia una media vera. Gli scarti sono tanto più rari quanto più sono grandi. Nel nostro Saggio su alcuni problemi riguardanti il norma­ le e il patologico (parte II. 2) abbiamo cercato di conservare al concetto di norma un significato analogo a quello di tipo che Quètelet aveva sovrapposto alla sua teoria dell'uomo me­ dio dopo la scoperta della media vera. Significato analogo: il che significa simile quanto alla funzione, ma differente quan­ to al fondamento. Quètelet attribuiva alla regolarità espres­ sa dalla media, dalla più grande frequenza statistica, il sen­ so di effetto negli esseri viventi della loro sottomissione al­ le leggi di origine divina. Avevamo cercato di mostrare che la frequenza si può spiegare con regolazioni di tutt'altro or­ dine che la conformità a una legislazione sovrannaturale. Avevamo interpretato la frequenza come il criterio attuale o virtuale della vitalità di una soluzione di adattamento4. E da ritenersi che il nostro tentativo avesse fallito il suo scopo, poiché ad esso è stato rimproverato di mancare di chiarezza e di concludere indebitamente dal fatto della maggiore fre­ quenza a quello di un migliore adattamento [Duyckaerts i 954j P* I 57 Ì- Il fatto è che vi è adattamento e adattamen­ to, e il senso in cui esso viene inteso nelle obiezioni che ci sono state fatte non è quello che noi gli avevamo dato. Esi­ ste una forma di adattamento che è specializzazione per uno scopo determinato in un ambiente stabile, ma che è minac­ ciata da qualunque evento modifichi questo ambiente; ed esi­ ste un'altra forma di adattamento che è indipendenza dalle costrizioni di un ambiente stabile e, di conseguenza, potere di superare le difficoltà di vivere che risultano da un'altera­ zione dell'ambiente. Ora, avevamo definito la normalità di 4 Cfr. supra, pp. 112-13.

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una specie come una certa tendenza alla varietà, «sorta di as­ sicurazione contro l’eccessiva specializzazione, senza rever­ sibilità e senza flessibilità, che è un’adattamento riuscito». In materia di adattamento il perfetto o il finito è l’inizio del­ la fine delle specie. Noi ci ispiravamo all’epoca a un artico­ lo del biologo Albert Vandel, che ha sviluppato, in seguito, le stesse idee nel libro L'uomo e Vevoluzione? . Ci sia con­ sentito riprendere la nostra analisi. Quando si definisce il normale come il più frequente si crea un considerevole ostacolo alla comprensione del senso biologico di quelle anomalie alle quali i genetisti hanno dato il nome di mutazioni. In effetti, nella misura in cui una mu­ tazione, nel mondo vegetale o animale, può essere l’origine di una specie nuova, si osserva una norma nascere da uno scarto rispetto a un’altra. La norma è quella forma di scarto che la selezione naturale mantiene. E ciò che la distruzione e la morte concedono al caso. Ma si sa bene che le mutazio­ ni sono più spesso restrittive che costruttive, che esse sono spesso superficiali quando sono durevoli, e che comportano, quando sono notevoli, una certa fragilità, una diminuzione della resistenza organica. In tal modo si riconosce alle mu­ tazioni il potere di diversificare le specie in varietà piuttosto che quello di spiegare la genesi delle specie. A rigore, una teoria mutazionista della genesi delle spe­ cie non può definire il normale se non come il temporanea­ mente vitale. Ma a forza di considerare i viventi come null’altro che morti in sospeso, si ignora l’orientamento adattativo dell’insieme dei viventi considerati nella continuità della vi­ ta, si sottostima quell’aspetto dell’evoluzione che è la varia­ zione dei modi di vita finalizzata all’occupazione di tutti i posti vuoti6. Vi è dunque un senso dell’adattamento che per­ 5 La tesi dell’evoluzione per dicotomia (scissione di un gruppo animale in bran­ ca innovatrice e branca conservatrice) viene ripresa da Vandel nel suo articolo sull’evoluzionismo di Teilhard de Chardin [1965, p. 459]. 6 «I posti vuoti in un dato luogo, secondo la terminologia di Darwin, sono, più che spazi liberi, sistemi di vita (habitat, modo di alimentazione, di attacco, di pro-

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mette di distinguere a un dato momento, in relazione a una specie e ai suoi mutanti, tra viventi sorpassati e viventi pro­ gressivi. L ’animalità è una forma di vita caratterizzata da motilità e predazione. Sotto questo profilo, la vista è una funzione che non si dirà inutile alla motilità in luce. Una spe­ cie animale cieca e cavernicola può dirsi adattata all’oscurità, e si può concepirne la comparsa per mutazione a partire da una specie vedente, e il mantenimento per l’incontro e l’oc­ cupazione di un ambiente, se non adeguato, quanto meno non controindicato. In tal modo non si smette di considera­ re la cecità della specie come un’anomalia: la si considera ta­ le non nel senso che essa è una rarità, ma nel senso che essa comporta per i viventi interessati un regresso, l’imbocco di una via senza uscita. Ci sembra che uno dei segni della difficoltà di spiegare mediante il solo incontro di serie causali indipendenti, una biologica, l’altra geografica, la norma specifica in biologia, sia la comparsa nel 1954, nella genetica delle popolazioni, del concetto di omeostasi genetica dovuto a Lerner7. Lo stu­ dio della composizione dei geni e della comparsa di geni mu­ tanti negli individui di popolazioni naturali e sperimentali, posto in relazione con lo studio degli effetti della selezione naturale, ha condotto alla conclusione che l’effetto selettivo di un gene o di una certa composizione di geni non è co­ stante, che esso dipende senza dubbio dalle condizioni dell’ambiente, ma anche da una sorta di pressione esercita­ ta su uno qualunque degli individui dalla totalità genetica rappresentata dalla popolazione. Si è osservato, anche nel ca­ so di affezioni umane, per esempio l’anemia di Cooley, fre­ quente nel bacino del Mediterraneo e particolarmente in Si­ cilia e in Sardegna, una superiorità selettiva degli individui eterozigoti sugli omozigoti. Su degli animali d’allevamento

tezione) che sono in esso teoricamente possibili ma non ancora praticati» [Canguilhem e al. 1962, p. 32]. 7 Traiamo l’essenziale della nostra informazione sull’omeostasi genetica da un eccellente studio di Ernest Bösiger [1965].

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questa superiorità può essere misurata sperimentalmente. Si confermano qui antiche osservazioni di allevatori sul raffor­ zamento di linee di allevamento per ibridazione. Gli etero­ zigoti sono più fecondi. Per un gene mutante di carattere letale, un eterozigote gode di un vantaggio selettivo non sol­ tanto in rapporto al mutante omozigote, ma anche in rap­ porto all’omozigote normale. Di qui il concetto di omeosta­ si genetica. Nella misura in cui la sopravvivenza di una po­ polazione è favorita dalla frequenza degli eterozigoti, si può considerare la relazione proporzionale tra fecondità ed eterozigotia come una regolazione. Le cose stanno allo stesso modo, secondo John B. S. Haldane, per quanto riguarda la resistenza di una specie a determinati parassiti. Una mutazio­ ne biochimica può procurare al mutante una capacità superiore di resistenza. La differenza biochimica individuale in seno a una specie la rende più adatta alla sopravvivenza, a costo di modificazioni esprimenti morfologicamente e fisiologica­ mente gli effetti della selezione naturale. A differenza del­ l’umanità che, secondo Marx, non si pone se non i problemi che essa può risolvere, la vita moltiplica in anticipo le solu­ zioni ai problemi di adattamento che si potranno porre8. In sintesi, le letture e le riflessioni che abbiamo potuto fare dopo la pubblicazione del nostro Saggio su alcuni pro­ blemi riguardanti il normale e il patologico del 1943 non ci han­ no condotti a rimettere in questione l’interpretazione allora proposta del fondamento biologico dei concetti originali del­ la biometria.

Non ci sembra neppure di dover modificare profonda­ mente la nostra analisi dei rapporti tra la determinazione del­ le norme statistiche e la valutazione della normalità o del­ l’anormalità di questo o quell’altro scarto individuale. Nel

8 Si potrebbe anche affermare, con A. Lwoff: « L ’organismo vivente non ha problemi; nella natura non si danno problemi; non si danno che soluzioni» [1965, p. 198].

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Saggio ci eravamo appoggiati su alcuni studi di André Mayer e Henri Laugier. Tra i molti articoli pubblicati in seguito sul­ lo stesso argomento, due hanno attirato la nostra attenzione. Il primo di questi articoli si deve a A. C. Ivy: What is nor­ mal or normality? [1944, pp. 22-32]*. L ’autore distingue quat­ tro accezioni del concetto di normale: 1) coincidenza tra un fatto organico e un ideale che fissa arbitrariamente il limite inferiore o superiore di certe esigenze; 2) la presenza in un individuo di caratteri (struttura, funzione, composizione chi­ mica) la cui misura è fissata convenzionalmente dal valore centrale di un gruppo omogeneo per età, sesso, ecc.; 3) la si­ tuazione di un individuo in rapporto alla media per ciascun carattere considerato, quando si è costruita la curva di di­ stribuzione, calcolato lo scarto tipo e fissato il numero di scarti tipo; 4) la coscienza di assenza di handicap. L ’uso del concetto di normale esige che si precisi innanzitutto l’acce­ zione nella quale lo si intende. L ’autore non accetta, per par­ te sua, che i sensi 3 e 4, con subordinazione dell’ultimo al precedente. Egli si impegna a mostrare quale interesse vi sia a stabilire lo scarto tipo delle misure di struttura, di funzio­ ni, di costituenti biochimiche, su un gran numero di sogget­ ti, in particolare quando lo scarto dei risultati è grande, e a considerare come normali i valori rappresentati dal 68,26 per cento di una popolazione presa in esame, vale a dire i valori corrispondenti alla media più o meno uno scarto tipo. Sono i soggetti i cui valori cadono al di fuori di questo 68 per cen­ to che pongono difficili problemi di valutazione per quanto riguarda il loro rapporto alla norma. Facciamo un esempio. Si misura la temperatura di 10 000 studenti ai quali si do­ manda di dire se si sentono o no febbricitanti, si costruisce la distribuzione delle temperature e si calcola la correlazio­ ne, per ciascun gruppo di eguale temperatura, tra il numero degli individui e il numero dei soggetti che si dicono febbri­

9 Questo articolo ci è stato segnalato e procurato dai professori Charles Kayser et Bernard Metz.

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citanti. Più la correlazione è vicina a 1, più vi sono possibi­ lità che il soggetto sia, dal punto di vista dell’infezione, in stato patologico. Su 50 soggetti a io o°F , vi è soltanto il 14 per cento di possibilità che un soggetto normale dal punto di vista soggettivo (che non si sente febbricitante) sia un sog­ getto normale dal punto di vista batteriologico. L ’interesse dello studio di Ivy dipende meno da queste indicazioni di statistica classica che dalla semplicità con la quale l’autore ri­ conosce le difficoltà di coincidenza di concetti come il nor­ male fisiologico e il normale statistico. Lo stato di pienezza fisiologica [thè healthful condition) è definito come stato di equilibrio delle funzioni integrate tale che esse procurano al soggetto un grande margine di sicurezza, una capacità di re­ sistenza in una situazione critica o situazione di forza. Lo stato normale di una funzione consiste nel non interferire con altre. Ma a queste proposizioni non si può obiettare che, essendo tra loro integrate, la maggior parte delle funzioni in­ terferiscono ? Se si deve intendere che una funzione è nor­ male fintantoché essa non ne conduce un’altra all’anorma­ lità, la questione non è stata elusa? In ogni caso, il confron­ to tra questi concetti fisiologici e il concetto di norma statisticamente definita: lo stato del 68 per cento dei sog­ getti in un gruppo omogeneo, fa apparire l’incapacità di que­ st’ultimo a risolvere un problema concreto di patologia. Per un anziano, il fatto di presentare funzioni comprese nel 68 per cento corrispondente alla sua età non basta a qualificar­ lo normale, nella misura in cui si definisce il normale fisio­ logico come il margine di sicurezza nell’esercizio delle fun­ zioni. L ’invecchiamento si traduce, in effetti, nella riduzio­ ne di questo margine. In definitiva, un’analisi come quella di Ivy ha l’interesse di confermare, a partire da altri esempi, l’insufficienza, spesso riconosciuta prima di lui, del punto di vista statistico ogniqualvolta si deve decidere di ciò che è o non è normale per un dato individuo. La necessità della rettifica e dell’ammorbidimento del concetto di normale statistico tramite l’esperienza che il fi­

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siologo acquisisce dalla variabilità delle funzioni è messa egualmente in luce nell’articolo di John A. Ryle, The meaning of normal [1947]. L ’autore, docente di medicina sociale presso l’Università di Oxford, si dedica dapprima a stabili­ re che certi scarti individuali, pur in rapporto alle norme fi­ siologiche, non sono tuttavia indicatori patologici. E nor­ male che esista una variabilità fisiologica, essa è necessaria all’adattamento, dunque alla sopravvivenza. L ’autore ha esa­ minato 110 studenti in buona salute, esenti da dispepsia, sui quali ha praticato delle misurazioni dell’acidità gastrica. Egli ha constatato che il 10 per cento dei soggetti ha presentato quella che si sarebbe potuta considerare come ipercloridria patologica, analoga a quella che si osserva nel caso di ulcera duodenale, e che il 4 per cento ha presentato una acloridria totale, sintomo sino ad allora considerato indicativo di ane­ mia perniciosa progressiva. L ’autore ritiene che tutte le at­ tività fisiologiche misurabili si rivelino suscettibili di una va­ rietà analoga, che esse possano essere rappresentate dalla cur­ va di Gauss, e che, per i bisogni della medicina, il normale debba essere compreso entro i limiti determinati da una de­ viazione standard da una parte e dall’altra della mediana. Ma non esiste alcuna linea di separazione netta tra le variazioni innate compatibili con la salute e le variazioni acquisite, che sono sintomi di una malattia. E possibile, a rigore, conside­ rare che uno scarto fisiologico estremo rispetto alla media costituisca o contribuisca a costituire una predisposizione a un qualche evento patologico. John A. Ryle elenca nel modo seguente le attività di or­ dine medico per le quali il concetto di «normale ben com­ preso» risponde a un bisogno: 1) definizione del patologico; 2) definizione dei livelli funzionali cui mirare in un tratta­ mento o in una rieducazione; 3) scelta del personale impie­ gato nell’industria; 4) individuazione delle predisposizioni alle malattie. Notiamo - non è senza importanza - che gli ul­ timi bisogni di questa enumerazione riguardano criteri di dia­ gnosi: capacità, incapacità, rischio di mortalità.

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Ryle distingue infine due tipi di variazioni rispetto alla norma, a proposito delle quali può darsi che si debba deci­ dere dell'anormalità, nel caso sia necessario prendere certe decisioni di ordine pratico: variazioni che toccano uno stes­ so individuo secondo il tempo, e variazioni, in un momen­ to dato, da un individuo all’altro in una specie. Questi due tipi di variazioni sono essenziali alla sopravvivenza. L ’adat­ tabilità dipende dalla variabilità. Ma lo studio dell’adatta­ bilità deve essere sempre circostanziato, non è sufficiente in questo caso procedere a misurazioni e test di laboratorio: bisogna studiare anche l’ambiente fisico e l’ambiente socia­ le, la nutrizione, il modo e le condizioni di lavoro, la situa­ zione economica e l’educazione delle differenti classi, per­ ché, se si considera il normale come l’indice di un’attitudi­ ne o di un’adattabilità, bisogna sempre chiedersi a che cosa e per che cosa si debba determinare l’adattabilità e l’attitu­ dine. Facciamo un esempio. L ’autore riporta i risultati di una ricerca relativa alle dimensioni della tiroide nei bambi­ ni tra gli 11 e i 15 anni, in regioni dove il tenore di iodio dell’acqua potabile è stato dosato con precisione. Il norma­ le, in questo caso, è la tiroide esternamente inapparente. La tiroide apparente parrebbe indicare una deficienza minera­ le specifica. Ma siccome pochi bambini con la tiroide appa­ rente finiscono per presentare un gozzo, si può sostenere che una iperplasia clinicamente diagnosticabile esprima un grado di adattamento avanzato piuttosto che la prima tap­ pa di una malattia. Dato che la tiroide è sempre più picco­ la negli islandesi e che al contrario esistono in Cina regioni in cui il 60 per cento degli abitanti hanno il gozzo, sembra che si possa parlare di standard nazionali di normalità. In sintesi, per definire il normale bisogna riferirsi ai concetti di equilibrio e di adattabilità, bisogna tener conto dell’am­ biente esterno e del lavoro che devono effettuare l’organi­ smo o le sue parti. Lo studio che abbiamo appena riassunto è interessante, scevro da intolleranza metodologica, tendente a far prevale-

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re le preoccupazioni della diagnosi e della valutazione su quel­ le della misura nel senso stretto del termine. Trattandosi di norme umane, è chiaro in questo caso che esse sono determinate come possibilità di azione di un orga­ nismo in situazione sociale, piuttosto che come funzioni di un organismo considerato come meccanismo accoppiato con Tambiente fisico. La forma e le funzioni del corpo umano non sono espressione soltanto di condizioni poste dall’ambiente alla vita, ma anche di modi di vita sociali adottati nell’am­ biente. Nel nostro Saggio su alcuni problemi riguardanti il nor­ male e il patologico, ci siamo basati su osservazioni che auto­ rizzavano a considerare probabile una commistione di natu­ ra e cultura nella determinazione di norme organiche umane, partendo dal presupposto della relazione psicosomatica10. Le nostre conclusioni hanno potuto, all’epoca, apparire azzar­ date. Oggi ci pare che lo sviluppo, in particolare nei paesi an­ glosassoni, degli studi di medicina psicosomatica e psicoso­ ciale tenda a confermarle. Un eminente specialista di psico­ logia sociale, Otto Klineberg, ha rilevato, in uno studio sulle tensioni legate alle relazioni internazionali [1950, pp. 46-48], le cause di carattere psicosomatico e psicosociale delle varietà di reazioni e disturbi che comportano modificazioni appa­ rentemente durature di costanti organiche. I cinesi, gli hindu e i filippini presentano una pressione sistolica media infe­ riore di 15-30 punti a quella degli americani. Ma la pressio­ ne sanguigna sistolica media di americani che abbiano trascorso diversi anni in Cina è scesa, in quel periodo, da 118 a 109. Allo stesso modo si è potuto notare, intorno agli anni 1920-30, che l’ipertensione era estremamente rara in Cina. Pur ritenendola «semplicistica all’eccesso», Klineberg cita l’opinione di un medico americano, espressa intorno al 1929: «Se restiamo in Cina abbastanza a lungo, impariamo ad ac­ cettare le cose, e la nostra pressione sanguigna scende. I ci­ nesi in America imparano a protestare e a non rassegnarsi, e 10 Cfr. supra7pp. 131-38.

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la loro pressione sanguigna sale». Supporre che Mao TseDong abbia cambiato tutto ciò non significa fare dell’ironia, ma soltanto applicare il medesimo metodo di interpretazione dei fenomeni psicosociali ad altri dati politici e sociali. Il concetto di adattamento, e quello di relazione psicoso­ matica cui conduce la sua analisi quando si applica all’uomo, può essere ripreso e per cosi dire rielaborato in funzione di teorie patologiche differenti per quanto riguarda le loro os­ servazioni fondamentali, ma convergenti quanto allo spirito. La messa in rapporto delle norme fisiologiche nell’uomo con la diversità dei modi di reazione e di comportamento, dipen­ denti peraltro da norme culturali, trova il proprio naturale prolungamento nello studio delle situazioni patogene specifi­ camente umane. Nell’uomo, a differenza dell’animale da la­ boratorio, gli stimoli o gli agenti patogeni non sono mai re­ cepiti dall’organismo come meri fatti fisici, ma sono anche vissuti dalla coscienza come segni di compiti o di prove. Hans Selye è stato uno dei primi a dedicarsi - quasi con­ temporaneamente a Reilly in Francia - allo studio delle sin­ dromi patologiche non specifiche, delle reazioni e dei com­ portamenti caratteristici in ogni malattia presa al suo sorgere, del fatto generale di «sentirsi malati» [1954, p. 409]11. Un’ag­ gressione (i.e. una stimolazione brusca) non specifica, provo­ cata da uno stimolo qualunque: corpo estraneo, ormone puri­ ficato, trauma, dolore, emozione reiterata, fatica imposta, ecc., scatena innanzitutto una reazione di allarme, anch’essa non specifica, consistente essenzialmente nell’eccitazione in bloc­ co del simpatico accompagnata da secrezione di adrenalina e noradrenalina. L ’allarme pone insomma l’organismo in stato di emergenza, di difesa indeterminata. A questa reazione di allarme seguono sia uno stato di resistenza specifica, come se l’organismo, identificata la natura dell’aggressione, adattasse la propria risposta all’attacco e attenuasse la propria suscetti­

11 L ’opera principale di Selye è Stress [1950]. In precedenza: Le syndrome géné­ ral d ’adaptation et les maladies de l'adaptation [1946].

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bilità iniziale all’offesa; sia uno stato di spossatezza, nel mo­ mento in cui l’intensità e la continuità dell’aggressione supe­ rano le capacità di reazione. Questi sono, secondo Selye, i tre momenti della sindrome generale di adattamento. In questo caso l’adattamento è dunque considerato come la funzione fi­ siologica per eccellenza. Noi proponiamo di definirla come l’impazienza organica delle interferenze o provocazioni indi­ screte dell’ambiente, sia esso cosmico (azione degli agenti fisiochimici) o umano (emozioni). Se per fisiologia si intende la scienza delle funzioni dell’uomo normale, bisogna riconosce­ re che tale scienza riposa sul postulato secondo cui l’uomo nor­ male è l’uomo di natura. Come scrive un fisiologo, Z. M. Bacq: «La pace, la pigrizia, l’indifferenza psichica sono ottimi espe­ dienti per il mantenimento di una fisiologia normale» [1963, p. 232]. Ma forse la fisiologia umana è sempre, in misura mag­ giore o minore, fisiologia applicata, fisiologia del lavoro, del­ lo sport, del divertimento, della vita in alta quota, ecc., vale a dire studio biologico dell’uomo in situazioni culturali genera­ trici di aggressioni di vario genere [Kayser 1947]12. In questo senso, potremmo trovare nelle teorie di Selye una conferma del fatto che le norme si riconoscono in virtù dei loro scarti. Sotto il nome di malattie dell’adattamento vanno intesi tutti i tipi di disturbo della funzione di resistenza alle per­ turbazioni, le malattie della funzione di resistenza al male. Con ciò intendiamo le reazioni che oltrepassano il loro obiet­ tivo, che proseguono sul proprio slancio e perseverano anche quando l’aggressione ha avuto fine. E il caso qui di affer­ mare, con F. Dagognet: Il malato crea la malattia con l’eccesso stesso della propria difesa e l’importanza attribuita a una reazione che lo protegge meno di quan12 «Lo studio dell’iperventilazione in alta quota e sul lavoro ha condotto a una seria revisione delle nostre concezioni sull’importanza dei meccanismi riflessi nel­ la regolazione della respirazione. L ’importanza della portata del cuore nel mecca­ nismo circolatorio non è apparsa in tutta la sua chiarezza se non il giorno in cui si sono studiati soggetti sportivi e soggetti sedentari che si sottoponevano a uno sfor­ zo. Lo sport e il lavoro pongono un insieme di problemi puramente fisiologici che bisognerà tantare di chiarire» (p. 233).

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to lo indebolisca e squilibri. I rimedi che negano o stabilizzano pren­ dono allora il sopravvento su tutti quelli che stimolano, favoriscono o sostengono [1964, p. 310].

Non ci interessa prendere posizione sulla questione se le osservazioni di Selye e quelle di Reilly e della sua scuola sia­ no identiche e se i meccanismi umorali chiamati in causa dall’uno e i meccanismi neurovegetativi chiamati in causa da­ gli altri si integrino o meno [Decourt 1951]. Prendiamo in considerazione, dall’una e dall’altra tesi, soltanto la loro con­ vergenza sul seguente punto: la prevalenza della nozione di sindrome patogena su quella di agente patogeno, la subordi­ nazione della nozione di lesione a quella di perturbazione di funzioni. In una celebre lezione, contemporanea alle prime ricerche di Reilly e Selye, P. Abrami [1936] aveva richiama­ to l’attenzione sul numero e l’importanza dei disturbi fun­ zionali, capaci non solo di diversificare dal punto di vista sintomatologico lesioni identiche, ma anche e soprattutto di da­ re origine, col tempo, a lesioni organiche. Come si vede, siamo alquanto lontani dalla saggezza del corpo. Si potrebbe dubitare di essa, in effetti, paragonando alle malattie dell’adattamento tutti i fenomeni di anafilassi, di allergia, vale a dire tutti i fenomeni di iperreattività dell’or­ ganismo contro un’aggressione alla quale esso è sensibilizza­ to. In questo caso la malattia consiste nella dismisura della ri­ sposta organica, nell’impeto e nella caparbietà della difesa, come se l’organismo valutasse male, calcolasse male. Il ter­ mine «errore» è venuto naturalmente in mente ai patologi per indicare un disturbo la cui origine va ricercata nella funzione fisiologica stessa e non nell’agente esterno. Identificando l’istamina, Sir Henry Dale l’aveva considerata come un pro­ dotto della «autofarmacologia organica». E possibile, da al­ lora, qualificare altrimenti che come errore un fenomeno fi­ siologico che dà luogo a ciò che Bacq [1963, p. 202] defini­ sce: «Quel vero e proprio suicidio dell’organismo tramite sostanze tossiche che egli immagazzina nei propri tessuti»?

Capitolo terzo Un nuovo concetto in patologia: Terrore

Nel nostro Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico, abbiamo posto a confronto la concezione on­ tologica della malattia, che concepisce quest’ultima come Top­ posto qualitativo della salute, e la concezione positivista che la fa derivare quantitativamente dallo stato normale. Quan­ do la malattia è ritenuta un male, la terapeutica è presenta­ ta come una restaurazione di valore; quando la malattia è ri­ tenuta un difetto o un eccesso, la terapeutica consiste in una compensazione. Abbiamo contrapposto alla concezione del­ la malattia sostenuta da Bernard resistenza di affezioni come l’alcaptonuria, il cui sintomo non è in alcun modo derivabile dallo stato normale, e il cui processo - metabolismo incom­ pleto della tirosina - non ha alcun rapporto quantitativo con il processo normale1. Oggi bisogna riconoscere che, anche all’epoca, la nostra argomentazione avrebbe potuto essere più solida se fosse stata munita di una maggiore quantità di esem­ pi, se avesse tenuto conto dell’albinismo o della cistinuria. Queste malattie del metabolismo, consistenti nel blocco delle reazioni a uno stadio intermedio, hanno ricevuto nel 1909 da Sir Archibald Garrod il nome sorprendente di er­ rori innati del metabolismo2. Disturbi biochimici ereditari, queste malattie possono tuttavia non manifestarsi fin dalla nascita, ma alla lunga e per un fattore scatenante, come la carenza dell’organismo umano in una diastasi (glucosio-6-fo1 Cfr. supra, p. 52. 2 Cfr. Inbom errors of metabolism.

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sfatasi deidrogenasi), che non si manifesta in nessun distur­ bo finché il soggetto non introduce le fave nella propria ali­ mentazione o non assume primachina per combattere la ma­ laria. Cinquantanni fa la medicina conosceva soltanto una mezza dozzina di queste malattie, ed esse potevano passare per rarità. Ciò spiega come il concetto di errore innato di me­ tabolismo non fosse un concetto usuale in patologia al tem­ po in cui intraprendemmo i nostri studi medici. Oggi il nu­ mero delle malattie biochimiche ereditarie è sull'ordine del centinaio. L'identificazione e il trattamento di alcune di es­ se, particolarmente gravi, come la fenilcetonuria o idiozia fenil-piruvica, hanno autorizzato grandi speranze legate alla diffusione della spiegazione genetica delle malattie. L'ezio­ logia di malattie sporadiche o endemiche come il gozzo è og­ getto di revisioni nel senso di ricerca di anomalie biochimi­ che di natura genetica [Tubiana 1962, pp. 469-76]. Si com­ prende in tal modo che il concetto di errore innato del me­ tabolismo, se esso non è divenuto, propriamente parlando, un concetto volgare, sia tuttavia oggi un concetto usuale. So­ no stati introdotti nell'ambito dei fenomeni biochimici i ter­ mini «anomalia», «lesione», mutuati dal linguaggio della pa­ tologia morfologica3. All'inizio, il concetto di errore biochimico ereditario ri­ posava sull'ingegnosità di una metafora; oggi è fondato sul­ la solidità di un’analogia. Nella misura in cui i concetti fon­ damentali della biochimica degli aminoacidi e delle macromolecole sono concetti mutuati dalla teoria dell’informazione, come codice o messaggio, nella misura in cui le strutture della materia vitale sono strutture di tipo lineare, il negativo dell’ordine è l’inversione, il negativo della suc­ cessione è la confusione, e la sostituzione di un assetto a un altro è l’errore. La salute è la correttezza genetica ed enzi­ matica. Essere malati significa essere stati falsificati, essere

3 Per una classificazione delle malattie genetiche, cfr. P. Bugard, V état de ma­ ladie, IV parte (Paris, Masson, 1964).

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falsi, non nel senso di una banconota falsa o di un traditore, ma nel senso di una grinza o di un falso verso4. Poiché gli en­ zimi sono i mediatori attraverso i quali i geni controllano le sintesi intracellulari di proteine, e poiché l’informazione ne­ cessaria a questa funzione di direzione e di sorveglianza è iscritta nelle molecole di acido desossiribonucleico a livello cromosomico, questa informazione deve essere trasmessa co­ me un messaggio dal nucleo al citoplasma, e in essa deve es­ sere interpretata, al fine di essere riprodotta, copiata, la se­ quenza di aminoacidi costitutiva della proteina da sintetiz­ zare. Ma, quale che ne sia la modalità, non vi è interpreta­ zione che non comporti un possibile errore. La sostituzione di un aminoacido a un altro crea il disordine per mancata comprensione del comando. Per esempio, nel caso dell’ane­ mia a emazie falciformi, vale a dire deformate a forma di fal­ cetto per ritrazione conseguente a un abbassamento della pressione di ossigeno, è l’emoglobina a essere anormale, per sostituzione della vaiina all’acido glutammico, nella catena degli aminoacidi della globulina. L ’introduzione in patologia del concetto di errore è un fatto di grande importanza, sia per la mutazione che esso, più che generare, rende manifesta nel comportamento del­ l’uomo di fronte alla malattia, sia per il nuovo statuto che es­ so suppone stabilito nel rapporto tra la conoscenza e il suo oggetto. Sarebbe alquanto forte la tentazione di denunciare qui una confusione tra il pensiero e la natura, di protestare perché si assegnano alla natura i modi del pensiero, che l’er­ rore riguarda esclusivamente il giudizio, che la natura può essere un testimone, ma mai un giudice, ecc. Apparente­ mente, in effetti, le cose vanno come se il biochimico e il ge­ netista trasmettessero agli elementi del patrimonio eredita­ rio il loro sapere di chimico e di genetista, come se gli enzi­ mi fossero tenuti a conoscere le reazioni secondo le quali la

4 In italiano, la frase risulta incomprensibile. «Traditore» traduce infatti il francese «faux frère» (lett. «falso fratello»), mentre «grinza» sta per «faux pii» (lett. «falsa piega») [N d .T .].

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chimica analizza la loro azione, e potessero, in certi casi o in certi momenti, ignorare una di quelle regole o leggerne ma­ le Tenunciato. Ma non si deve dimenticare che la teoria del­ l’informazione non è divisibile, e che essa riguarda tanto la conoscenza stessa quanto i suoi oggetti, la materia o la vita. In questo senso, conoscere significa informarsi, imparare a decifrare o a decodificare. Non vi è dunque differenza tra Terrore della vita e Terrore del pensiero, tra Terrore del­ l’informazione informante e Terrore dell’informazione infor­ mata. E la prima a fornire la chiave della seconda. Si tratte­ rebbe, da un punto di vista filosofico, di una nuova forma di aristotelismo, con riserva, beninteso, di non confondere la psicobiologia aristotelica e la moderna tecnologia delle tra­ smissioni [Ruyer 1954; Simondon 1964, pp. 22-24]. Anch’essa aristotelica, per certi aspetti, è questa nozio­ ne di errore della composizione biochimica di questo o quel componente dell’organismo. Il mostro, secondo Aristotele, è un errore della natura, la quale ha sbagliato materia. Se nel­ la patologia molecolare di oggi Terrore genera piuttosto il vi­ zio di forma, resta il fatto che gli errori biochimici ereditari sono considerati come «microanomalie» e «micromostruo­ sità». E, come un certo numero di anomalie morfologiche congenite sono interpretate come fissazione dell’embrione a uno stadio di sviluppo che normalmente dovrebbe essere su­ perato, cosi un certo numero di errori metabolici sono con­ siderati come interruzione o sospensione di una successione di reazioni chimiche. In una simile concezione della malattia, il male è real­ mente radicale. Se si manifesta a livello dell’organismo con­ siderato come un tutto alle prese con un ambiente circo­ stante, il male ha a che vedere con le radici stesse dell’orga­ nizzazione, con il livello in cui essa ancora non è che strut­ tura lineare, con il punto in cui ha inizio non il regno, ma l’ordine del vivente. La malattia non è una caduta in cui si incappa, un attacco cui si cede: essa è un originario vizio di forma macromolecolare. Se l’organizzazione è, al suo inizio,

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una specie di linguaggio, la malattia geneticamente determi­ nata non è più una maledizione, bensì un malinteso. Vi so­ no cattive lezioni di un’emoglobina cosi come vi sono catti­ ve lezioni di un manoscritto. Ma qui si tratta di una parola che non rimanda ad alcuna bocca, di una scrittura che non rimanda ad alcuna mano. Non vi è dunque cattiveria dietro la cattiva esecuzione. Essere malati significa essere cattivi non come un bambino cattivo, ma come un cattivo terreno. La malattia non ha più alcun rapporto con una responsabi­ lità individuale. Non più imprudenza, non più eccessi da in­ colpare, neppure responsabilità collettiva come nel caso di un’epidemia. I viventi che noi siamo sono l’effetto delle leg­ gi stesse di moltiplicazione della vita, i malati che noi siamo sono l’effetto della panmissia \panmixie\ydell’amore e del ca­ so. Tutto ciò ci rende unici, come si è spesso scritto per con­ solarci di essere fatti di palline tirate a caso dall’urna dell’ere­ dità mendeliana. Unici, certamente, ma talvolta anche di­ fettosi. Non è troppo grave se si tratta soltanto dell’errore del metabolismo del fruttosio, per mancanza di aldolasi epa­ tica [Bonnefoy, 1961]. E più grave se si tratta di emofilia, per difetto di sintesi di una globulina. E che dire, se non qualcosa di inadeguato, se si tratta dell’errore del metaboli­ smo del triptofano, che causa, secondo J. Lejeune, la trisomia mongoloide ?

Il termine «errore» chiama in causa l’affettività meno di quanto facciano i termini «malattia» e «male»; e tuttavia a torto, se è vero che l’errore è al principio del fallimento. Que­ sto accade perché l’introduzione dell’illusione teorica nel vo­ cabolario della patologia lascia forse sperare a certuni un pro­ gresso verso la razionalità dei valori vitali negativi. Di fatto, lo sradicamento dell’errore, una volta ottenuto, è irreversi­ bile, mentre la guarigione da una malattia è a volte la porta aperta a un’altra malattia, da cui il paradosso delle «malat­ tie che è pericoloso guarire» [Raymond 1808].

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Si può tuttavia sostenere che la nozione degli errori or­ ganici innati sia tutt’altro che rassicurante. Ci vuole molta lucidità, unita a un grande coraggio, per non preferire un’idea di malattia in cui possa ancora trovare posto qualche senti­ mento di colpevolezza individuale, a una spiegazione della malattia che ne polverizza e dissemina la causalità nel geno­ ma familiare, in un’eredità che l’erede non può rifiutare, poi­ ché l’eredità e l’erede sono una cosa sola. Ma in fondo biso­ gna riconoscere che la nozione di errore, come concetto pa­ tologico, è polisemica. Se essa consiste inizialmente in una confusione di formula, in un falso preso per vero, essa è ri­ conosciuta come tale alla fine di una ricerca suscitata dalla difficoltà di vivere, o dal dolore, o dalla morte di qualcuno. Rapportato al rifiuto della morte, del dolore, del male di vi­ vere, vale a dire alle ragioni d ’essere della medicina, l’erro­ re di lettura enzimatica si trova a essere vissuto dall’uomo che ne patisce come un errore di manovra senza errore da parte del manovratore. In breve, l’impiego del termine che designa l’errore logico non riesce a esorcizzare del tutto dal­ la semantica medica le tracce dell’angoscia provata all’idea di dover fare i conti con una anormalità originaria. Ancora meno rassicurante è l’idea che ci si deve fare del­ la risposta medica agli errori ereditari, quando a tale idea si dà la forma di un’idea e non di un augurio. Per definizione, un trattamento non può porre termine a ciò che non è con­ seguenza di un accidente. «Eredità» è il moderno nome del­ la sostanza. Si comprende come sia possibile neutralizzare gli effetti di un errore di metabolismo fornendo costantemente all’organismo il prodotto di reazione indispensabile all’esercizio di una funzione della quale l’organismo è priva­ to da una catena di reazioni incompleta. Ed è ciò che si rie­ sce a fare nel caso dell’oligofrenia fenilpiruvica. Ma com­ pensare a vita la carenza di un organismo significa soltanto perpetuare una soluzione disperata. La vera soluzione di un’eresia è l’estirpazione. Perché, allora, non sognare una caccia ai geni eterodossi, una inquisizione genetica? E, nel­

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l’attesa, perché non privare i genitori sospetti della libertà di procreare ai quattro venti?5. Questi sogni, si sa, non so­ no soltanto dei sogni per qualche biologo di fede filosofica, diciamo cosi, molto differente. Ma, sognando questi sogni, si penetra in un altro mondo, limitrofo al mondo nuovo di Aldous Huxley, dal quale sono stati eliminati gli individui malati, le loro singole malattie e i loro medici. La vita di una popolazione naturale viene rappresentata come un sacchet­ to della tombola contenente numeri che devono essere veri­ ficati da funzionari delegati dalla scienza della vita, prima che ai giocatori sia permesso di tirarli fuori dal sacchetto per riempire le cartelle. All’origine di questo sogno sta la gene­ rosa ambizione di risparmiare a viventi innocenti e impotenti la soma atroce di rappresentare gli errori della vita. Al fon­ do, si trova la polizia dei geni, mascherata da scienza dei ge­ netisti. Da ciò non si intende tuttavia concludere a un «la­ sciar fare, lasciar correre» genetico, bensì soltanto alla ne­ cessità di ricordare alla coscienza medica che sognare rime­ di assoluti spesso significa sognare rimedi peggiori del male.

Se le malattie indotte da malformazioni chimiche innate sono numerose quanto alle loro varietà, considerate singo­ larmente esse sono poco diffuse. Se accadesse altrimenti, il concetto di saggezza del corpo potrebbe apparire poco per­ tinente. Al che, peraltro, si può rispondere che errori dell’or­ ganizzazione non contraddicono alla saggezza degli organi­ smi, vale a dire ai successi dell’organizzazione. Vale oggi per l’organizzazione ciò che valeva un tempo per la finalità. Con­ tro la finalità ci si è sempre appellati ai difetti della vita, al­ la disarmonia degli organismi o alla rivalità delle specie vi­ venti, macroscopiche o microscopiche. Ma se questi fatti so­ no obiezioni a una finalità reale, ontologica, sono però ar­

5 II testo «semer à tout ventre» , pressoché intraducibile, è frutto di un gioco di parole tra l’espressione «semer à tout vent», seminare ai quattro venti, e la parola « ventre», che ha significato di ventre, di grembo materno [N.d.T .].

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gomenti a favore di una finalità possibile, operativa. Se esi­ stesse una finalità perfetta, raggiunta, un sistema completo di rapporti di convenienza organica, il concetto stesso di fi­ nalità non avrebbe alcun senso in quanto concetto, in quan­ to progetto e modello per pensare la vita, per il semplice mo­ tivo che non vi sarebbe alcun pensiero, né alcun motivo per pensare, in assenza di differenze tra l’organizzazione possi­ bile e l’organizzazione reale. Il pensiero della finalità espri­ me la limitatezza della finalità della vita. Se questo concet­ to ha un senso, è perché esso è il concetto di un senso, il con­ cetto di un’organizzazione possibile, dunque non garantita. Di fatto, la spiegazione della relativa rarità delle malat­ tie biochimiche è che le anomalie ereditarie del metabolismo restano spesso latenti, come disposizioni non attivate. In as­ senza di incontri aleatori con un determinato elemento del­ l’ambiente vitale, con un tale effetto della concorrenza vita­ le, queste anomalie possono restare ignote ai loro portatori. Come non tutti i germi patogeni determinano un’infezione in qualunque ospite e in qualunque circostanza, cosi non tut­ te le lesioni biochimiche sono la malattia di qualcuno. Capi­ ta persino che esse conferiscano, in certi contesti economi­ ci, una certa superiorità a quelli che bisogna allora chiamare i loro beneficiari. Nell’uomo, per esempio, il deficit di glucosio-6-fosfato-deidrogenasi non è stata diagnosticata se non in occasione di cure antimalariche (primachina) sommini­ strate a popolazioni nere negli Stati Uniti. Ora, secondo il dottor Henri Péquignot: Quando si studia come si sia potuta mantenere nella popolazione nera un’affezione enzimatica che è un’affezione genetica, si constata che questi soggetti si sono mantenuti meglio in quanto i «malati» af­ fetti da questo disturbo sono particolarmente resistenti alla malaria. I loro antenati dell’Africa nera erano persone «normali» in rapporto agli altri che erano inadattati, poiché essi resistevano alla malaria men­ tre gli altri ne morivano6.

6 L 'inadaptation, phénomène social, Fayard, Paris 1964, p. 39. Come si può ve­ dere dal contributo del dottor Péquignot alla discussione citata sulTinadattamen-

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Pur riconoscendo che certi errori biochimici innati rice­ vono il loro eventuale valore patologico da un rapporto tra l’organismo e l’ambiente, come certi lapsus o atti mancati ri­ cevono, secondo Freud, il loro valore di sintomo da un rap­ porto a una situazione, noi ci guardiamo dal definire il nor­ male e il patologico soltanto tramite la loro relazione al fe­ nomeno dell’adattamento. Questo concetto, da un quarto di secolo, ha ricevuto una tale estensione, spesso intempestiva, in psicologia e in sociologia, che esso non può essere utiliz­ zato, anche in biologia, se non nel più critico degli spiriti. La definizione psicosociale del normale come adattato implica una concezione della società che la assimila surrettiziamen­ te e abusivamente a un ambiente, vale a dire a un sistema di determinismi, mentre essa è un sistema di costrizioni conte­ nente, già prima di qualunque rapporto tra sé e l’individuo, norme collettive di valutazione della qualità di questi rap­ porti. Definire l’anormalità come disadattamento sociale si­ gnifica accettare in misura maggiore o minore l’idea che l’in­ dividuo debba sottoscrivere il fatto di questa società, dun­ que accomodarsi a essa come a una realtà che è al tempo stes­ so un bene. Sulla base delle conclusioni del nostro primo capitolo, ci pare legittimo rifiutare questo tipo di definizio­ ne senza essere tacciati di anarchismo. Se le società sono in­ siemi di mezzi male unificati, non si può negare loro il dirit­ to di definire la normalità come l’attitudine alla subordina­ zione strumentale che esse rendono valore sotto il nome di adattamento. In fondo, spostato sul terreno della psicologia e della sociologia, questo concetto di adattamento ritorna al­ la sua accezione originaria. E un concetto popolare di de­ scrizione dell’attività tecnica. L ’uomo adatta i propri attrezzi e, indirettamente, i propri organi e il proprio comportamen­ to a una determinata materia, a una determinata situazione. Al momento della propria introduzione in biologia, nel xix to, egli non identifica anormale e inadattato, e le nostre riserve critiche, nelle ri­ ghe seguenti, non lo riguardano.

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secolo, il concetto ha conservato, del proprio ambito di im­ portazione, il significato di un rapporto di esteriorità, di con­ trapposizione tra una forma organica e un ambiente a essa opposto. Questo concetto è stato in seguito teorizzato a par­ tire da due principi inversi, teleologico e meccanicista. Se­ condo il primo, il vivente si adatta in base alla ricerca di sod­ disfazioni funzionali; per il secondo, il vivente è adattato per effetto di necessità di ordine meccanico, fisiochimico o bio­ logico (gli altri viventi nella biosfera). Nella prima interpre­ tazione, Padattamento è la soluzione a un problema di opti­ mum che componga i dati di fatto dell’ambiente e le esigen­ ze del vivente; nella seconda, l’adattamento esprime uno sta­ to di equilibrio, il cui limite inferiore definisce il peggio per l’organismo, cioè il rischio di morte. Ma, in entrambe le teo­ rie, l’ambiente è considerato come un fatto fisico, e non co­ me un fatto biologico, come un fatto costituito e non come un fatto da costituire. Al contrario, se si considera la rela­ zione organismo-ambiente come effetto di un’attività pro­ priamente biologica, come la ricerca di una situazione nella quale il vivente raccoglie, invece che subirle, le influenze e le qualità che rispondono alle sue esigenze, allora gli ambienti nei quali i viventi si trovano collocati sono ritagliati da loro, incentrati su di loro. In questo senso l’organismo non viene gettato in un ambiente cui deve piegarsi, ma struttura il pro­ prio ambiente nello stesso tempo in cui sviluppa le proprie capacità di organismo7. Questo vale particolarmente per gli ambienti e i modi di vita propri dell’uomo, in seno ai gruppi tecnico-economici che, in un dato ambiente geografico, sono caratterizzati me­ no dalle attività loro offerte che da quelle che essi scelgono. In queste condizioni, il normale e l’anormale sono determi­ nati meno dall’incontro di due serie causali indipendenti, l’organismo e l’ambiente, che dalla quantità di energia di cui dispone l’agente organico per delimitare e strutturare que7 Cfr. il nostro studio Le vivant e son milieu, in La Connaissance de la vie [1952].

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sto campo di esperienza e di azione che viene chiamato il suo ambiente. Ma, si chiederà, dov’è la misura di questa quan­ tità di energia ? Essa non va cercata altrove che nella storia di ciascuno di noi. Ciascuno di noi fissa le proprie norme sce­ gliendo i propri modelli di esercizio. La norma del fondista non è la stessa del velocista. Ciascuno di noi cambia le pro­ prie norme in funzione della propria età e delle proprie nor­ me anteriori. La norma dell’anziano velocista non è più la sua norma di campione. E normale, vale a dire conforme al­ la legge biologica dell’invecchiamento, che la riduzione pro­ gressiva dei margini di sicurezza comporti l’abbassamento delle soglie di resistenza alle aggressioni dell’ambiente. Le norme di un anziano verrebbero considerate deficienze nel­ lo stesso uomo adulto. Questo riconoscimento della relati­ vità individuale e cronologica delle norme non è scetticismo di fronte alla molteplicità, ma tolleranza della varietà. Nel

Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico del 1943 abbiamo chiamato normatività la capacità biologi­ ca di mettere in questione le norme usuali in occasione di si­ tuazioni critiche, e proposto di misurare la salute sulla gra­ vità delle crisi organiche superate tramite l’instaurazione di un nuovo ordine fisiologico8. In pagine mirabili, commoventi della Naissance de la cli­ nique, Michel Foucault ha mostrato come Bichat abbia fat­ to «ruotare lo sguardo medico su se stesso», per chiedere conto della vita alla morte [p. 148]. Non essendo fisiologi, non abbiamo la tracotanza di credere di avere, in modo ana­ logo, chiesto conto della salute alla malattia. Che sia ciò che avremmo voluto fare, è abbastanza chiaro da impedirci di negarlo, rallegrandoci, del resto, di aver trovato in Henri Péquignot l’assoluzione della nostra ambizione d ’altri tempi: «In passato, tutti coloro che hanno tentato di costruire una 8 Cfr. supra, p. 162.

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scienza del normale, senza partire, nella loro osservazione, dal patologico come dato immediato, hanno sortito insuc­ cessi spesso ridicoli» [1961, p. 26]. Ben convinti del fatto, esaminato più sopra, che la conoscenza della vita, cosi come quella della società, supponga la priorità dell’infrazione sul­ la regolarità, vorremmo terminare queste nuove riflessioni sul normale e il patologico tracciando l’abbozzo di una pa­ tologia paradossale dell’uomo normale, mostrando che la co­ scienza di normalità biologica include la relazione alla ma­ lattia, il ricorso alla malattia, come alla sola pietra di para­ gone che questa coscienza riconosce e dunque esige. In qual senso intendere la malattia dell’uomo normale ? Non nel senso che solo l’uomo normale possa divenire ma­ lato, come solo l’ignorante può divenire sapiente. Non nel senso che eventi di piccola entità turbino, senza tuttavia al­ terarlo, uno stato di eguaglianza e di equilibrio: il raffred­ dore, la cefalea, un prurito, una colica, ogni evento senza valore di sintomo lo avverte senza allarme. Per malattia del­ l’uomo normale, bisogna intendere il disturbo che nasce al­ la lunga dalla permanenza dello stato normale, dall’unità in­ corruttibile del normale; bisogna intendere la malattia che nasce dalla privazione di malattie, da un’esistenza quasi in­ compatibile con la malattia. Bisogna ammettere che l’uomo normale si sa tale soltanto in un mondo in cui non ogni uo­ mo lo è, si sa di conseguenza in grado di cadere malato co­ me un buon timoniere si sa in grado di far arenare la propria imbarcazione, come un uomo a modo si sa in grado di com­ piere una «gaffe». L ’uomo normale si sente in grado di far arenare il proprio corpo ma vive la certezza di respingerne l’eventualità. Nel caso della malattia, l’uomo normale è quel­ lo che vive la certezza di poter arrestare su di sé ciò che in un altro procederebbe rapidamente. E necessario dunque al­ l’uomo normale, perché egli possa credersi e dirsi tale, non pre­ gustare la malattia, ma scorgere l’ombra che essa produce. Dal non essere malati in un mondo in cui esistono dei ma­ lati, alla lunga, nasce un disagio. E se non fosse perché si è

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più forti della malattia o degli altri, ma semplicemente per­ ché non si è presentata l’occasione? E se infine, sopraggiun­ gendo l’occasione, si finisse col mostrarsi deboli e indifesi quanto - o addirittura più che - gli altri ? Cosi, nell’uomo nor­ male, nasce un’inquietudine per essere rimasto normale, un bisogno della malattia come prova della salute, vale a dire co­ me prova di sé, una ricerca inconscia della malattia, una sfi­ da alla malattia. La malattia dell’uomo normale è la compar­ sa di un’incrinatura nella sua fiducia biologica in se stesso. Il nostro abbozzo di patologia è evidentemente una fin­ zione. L ’analisi alla quale esso si sostituisce può essere rapi­ damente ricostruita con l’aiuto di Platone: Noi, credo, soltanto per modo di dire affermiamo che il medico, il contabile, il maestro di grammatica sbaglia; mentre ognuno di que­ sti in quanto è quello di cui gli diamo nome, non sbaglia mai. E per­ ciò, a parlare con precisione, poiché anche tu tieni alla precisione, nes­ sun artefice sbaglia. Difatti egli non si sbaglia se non in quanto la sua arte lo abbandona, e in ciò egli non è più artefice9.

Applichiamo ciò che è stato detto sopra sul medico al suo cliente. Diremo che l’uomo sano non diviene malato in quan­ to sano. Nessun uomo sano diviene malato, perché egli non è malato se non in quanto la sua salute lo abbandona, e in ciò non è sano. L ’uomo detto sano non è dunque sano. La sua salute è un equilibrio che egli riacquista su fratture in­ coative. La minaccia della malattia è una delle componenti costitutive della salute. ’ Repubblica, 34od [trad. it. Martini (con lievi modifiche), Sansoni, Firenze 1974 (N J . T ) l

Epilogo

La nostra concezione del normale è senza dubbio alquan­ to arcaica, pur essendo - e senza dubbio perché essa è -, come ci è stato fatto notare nel 1943, una concezione della vita come se ne può formulare una quando si è giovani. Ci è piaciuto un giudizio, che pure non ci riguardava, e chiedia­ mo il permesso di applicarlo a noi: «L a nozione di quell’idea­ le che è il normale si è confusa col precedente stato euforico del soggetto che era appena caduto malato [...]. La sola pa­ tologia allora constatata era una patologia di soggetti giova­ ni» [Péquignot 1961, p. 20]. E senza dubbio ci voleva il co­ raggio della giovinezza per credersi all’altezza di uno studio di filosofia medica sulle norme e il normale. La difficoltà di una simile impresa fa tremare. Ne abbiamo coscienza oggi, terminando queste poche pagine in cui siamo tornati sul te­ ma. Su questa confessione, il lettore potrà misurare di quan­ to abbiamo, conformemente al nostro discorso sulle norme, ridotto le nostre.

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Postfazione

La vita: l'esperienza e la scienza*

Tutti sanno che in Francia vi sono pochi logici, ma che vi è stato un numero non irrilevante di storici della scienza. Sappiamo anche che essi hanno occupato nell’istituzione filosofica insegnamento o ricerca - un posto considerevole. Ma si sa forse meno bene che cosa sia veramente stato, negli ultimi venti o trent’anni, e proprio sulle frontiere dell’istituzione, un lavoro co­ me quello di Georges Canguilhem. Certamente vi sono stati teatri ben più rumorosi: psicoanalisi, marxismo, linguistica, etnologia. Ma non dimen­ tichiamo questo fatto che rientra, come si preferisce, nel campo della so­ ciologia degli ambienti intellettuali francesi, del funzionamento delle no­ stre istituzioni universitarie o del nostro sistema di valori culturali: in tut­ te le discussioni politiche o scientifiche di questi strani anni Sessanta, il ruolo della filosofia - non intendo semplicemente di quelli che avevano ricevuto la propria formazione universitaria nei dipartimenti di filosofia - è stato importante. Troppo importante forse, a parere di certuni. Ora, direttamente o indirettamente, tutti questi filosofi o quasi hanno avuto a che fare con l’insegnamento o con i libri di Canguilhem. Ne deriva un paradosso: quest’uomo la cui opera è austera, volonta­ riamente molto delimitata, e scrupolosamente votata ad un campo parti­ colare in una storia delle scienze che comunque non passa per una disci­ plina di grande richiamo, quest’uomo si è trovato in un modo o nell’altro presente nei dibattiti in cui lui stesso si è ben guardato dal figurare mai. Ma eliminate Canguilhem e non capirete più granché, di tutta una serie * Con il titolo La vie:L ’expérience et la science, in «Revue de métaphysique et de morale», xc, gennaio-marzo 1985, n. 1: Canguilhem, pp. 3-14. M. Foucault de­ siderava dare un testo nuovo alla «Revue de métaphysique et de morale» che de­ dicava un numero speciale al suo maestro, Georges Canguilhem. Sfinito, potè so­ lamente modificare la prefazione che aveva scritto per la traduzione americana del Saggio sul normale e il patologico. Consegnò questo testo a fine aprile 1984; fu dun­ que l’ultimo a cui diede il proprio imprimatur. [La prima versione di questo testo, introduzione a On thè Normal and thè Vathological, D. Reidei, Boston 1978, è ap­ parsa in traduzione italiana, con il titolo Georges Canguilhem : il filosofo deWerrorey in «Quaderni piacentini», 14, 1984, pp. 39-52].

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Postfazione

di discussioni intercorse tra i marxisti francesi e neppure coglierete la spe­ cificità di sociologi come Bourdieu, Castel, Passeron, che li segna cosi for­ temente nel campo della sociologia; vi sfuggirà tutto un aspetto del lavo­ ro teorico fatto dagli psicanalisti e in particolare dai lacaniani. Di più: in tutto il dibattito di idee che ha preceduto o seguito il movimento del Ses­ santotto, è facile ritrovare il posto di coloro che, da vicino o da lontano, si erano formati con Canguilhem. Senza disconoscere le distinzioni che, dalla fine della guerra e nel cor­ so di questi ultimi anni, hanno potuto opporre marxisti e non-marxisti, freudiani e non-freudiani, specialisti di una disciplina e filosofi, universi­ tari e non-universitari, teorici e politici, mi sembra proprio che si possa reperire un’altra linea di divisione che attraversa tutte queste opposizio­ ni. E la linea che separa una filosofia dell’esperienza, del senso, del sog­ getto da una filosofia del sapere, della razionalità e del concetto. Da un lato, una filiazione da Sartre e da Merleau-Ponty: dall’altro quella da Cavaillès, da Bachelard, da Koyré, e da Canguilhem. Indubbiamente, que­ sta distinzione viene da lontano e se ne potrebbe far risalire la traccia at­ traverso il xix secolo: Bergson e Poincaré, Lachelier e Couturat, Maine de Biran e Comte. E comunque nel xx secolo era a tal punto costituita che è attraverso di essa che la fenomenologia è stata recepita in Francia. Pro­ nunciate nel 1929, modificate, tradotte e pubblicate poco dopo, le Medi­ tazioni cartesiane1 sono state ben presto la posta in gioco di due letture possibili: una che, nella direzione di una filosofia del soggetto, cercava di radicalizzare Husserl e non doveva tardare ad incontrare le questioni di Sein und Zeit1', è l’articolo di Sartre sulla «Trascendenza dell’ego»*, nel 1935; l’altra che risalirà verso i problemi fondatori del pensiero di Hus­ serl, quelli del formalismo e dell’intuizionismo; e saranno, nel 1938, le due tesi di Cavaillès sul metodo assiomatico e sulla formazione della teoria de­ gli insiemi4. Pur con tutte le successive ramificazioni, interferenze, con gli stessi riaccostamenti, queste due forme di pensiero hanno costituito in 1 E. Husserl, Cartesianische Meditationen. Eine Einleitung in die Phänomenolo­ gie, 1931, in Gesammelte Werke, t. I, Martin Nijhoff, La Haye 1950, trad. fr. di G. Peiffer e E. Levinas, Méditations cartésiennes. Introduction à la phénoménologie, Vrin, Paris 1953 [trad. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano i960]. 2 M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer, Tübingen 1927, trad. fr. di R. Boehm e A. de Waelhens, L'Etre et le Temps, Gallimard, Paris 1964 [trad. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976]. 3 J.-P. Sartre, La transcendance de l’ego. Esquisse d ’une description phénoméno­ logique, in «Recherches philosophiques», 1935, n. 6 [trad. it. di N. Pirillo, La tra­ scendenza dell ego, Berisio, Napoli 1971]. 4 J. Cavaillès, Méthode axiomatique et formalisme. Essai sur le problème du fon­ dement des mathématiques, Hermann, Paris 1937; Id., Remarques sur la formation de la théorie abstraite des ensembles. Etude historique et critique, Hermann, Paris 1937.

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Francia due trame che sono restate, almeno per un certo tempo, profon­ damente eterogenee. In apparenza, la seconda è rimasta nel contempo la più teorica, la più regolata su compiti speculativi e anche la più lontana da domande politi­ che immediate. È tuttavia essa che durante la guerra ha preso parte, e in modo molto diretto, alla lotta, come se la questione del fondamento del­ la razionalità non potesse essere dissociata dalla domanda sulle condizioni attuali della sua esistenza. Ed è ancora questa che ha giocato nel corso degli anni Sessanta un ruolo decisivo in una crisi che non era semplicemente quella dell’Università, ma quella dello statuto e del ruolo del sa­ pere. Ci si potrebbe chiedere perché un tale tipo di riflessione abbia po­ tuto, seguendo la logica che le è propria, trovarsi cosi profondamente le­ gata al presente. Una delle ragioni principali ha senza dubbio a che fare con questo: la storia delle scienze deve la propria dignità filosofica al fatto che essa met­ te in opera un tema che si è introdotto in modo certamente un po’ sur­ rettizio e quasi per caso nella filosofia del xvm secolo. In quest’epoca per la prima volta si è posta al pensiero razionale la questione non solo della sua natura, del suo fondamento, dei suoi poteri e dei suoi diritti, ma quel­ la della sua storia e della sua geografia, quella del suo immediato passato e delle sue condizioni di esercizio, quella del suo momento, del suo luogo e della sua attualità. Di tale questione di cui la filosofia ha fatto un inter­ rogativo essenziale circa la sua forma presente ed il rapporto al suo con­ testo, si può prendere come simbolo il dibattito che si è svolto nella Ber­ linische Monatsschrift e che aveva per tema: Was ist Aufklärung? A questa domanda hanno fornito una risposta, ognuno dal canto suo, Mendelssohn e poi Kant5. All’inizio la questione fu senza dubbio intesa come un interrogativo relativamente accessorio: si interrogava la filosofia sulla forma che potes­ se rivestire, sulla sua figura del momento e sugli effetti che se ne doves­ sero attendere. Ma si vide presto che la risposta che se ne forniva rischiava di anda­ re ben oltre. Si faceva dell’Aufklärung il momento in cui la filosofia tro­ vava la possibilità di costituirsi come la figura determinante di un’epoca, ed in cui quest’epoca diveniva la forma di compimento di questa filoso­ fia. La filosofia poteva essere letta esattamente come nuli’altro che la com­ posizione dei tratti particolari del periodo in cui essa appariva, ne era la figura coerente, la sistematizzazione e la forma riflessa; ma, d’altro can­

5 M. Mendelssohn, Über die Frage: Was heisst Aufklären? , in «Berlinische Mo­ natsschrift», iv, settembre 1784, n. 3, pp. 193-200. I. Kant, Beantwortung der Fra­ ge: Was ist Aufklärung?, ivi, dicembre 1784, n. 6, pp. 491-94 [entrambi i testi so­ no tradotti in Che cos’è l ’illuminismo, trad. di S. Manzoni e E. Tetamo, Introdu­ zione di S. Tagliapietra, B. Mondadori, Milano 1997].

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to, l’epoca appariva come null’altro che l’emergenza e la manifestazione, nei suoi tratti fondamentali, di ciò che era nella sua essenza la filosofia. La filosofia dunque appariva tanto come un elemento più o meno rivela­ tore dei significati di un’epoca, quanto al contrario come la legge genera­ le che fissava per ogni epoca la figura che doveva avere. La lettura della filosofia nel quadro di una storia generale e la sua interpretazione come principio di decifrazione di ogni successione storica sono divenute allora simultaneamente possibili. E di colpo la questione del «momento presen­ te» diviene per la filosofia un interrogativo da cui essa non può più sepa­ rarsi: in che misura questo «momento» dipende da un processo storico ge­ nerale e in che misura la filosofia è il punto in cui la storia stessa deve de­ cifrarsi nelle sue condizioni ? La storia è divenuta allora uno dei maggiori problemi della filosofia. Bisognerebbe certamente domandarsi perché tale questione d é ï Aufklä­ rung abbia avuto, senza mai scomparire, un destino cosi diverso nelle tra­ dizioni della Germania, della Francia e dei paesi anglosassoni; perché qui e là essa abbia investito ambiti cosi diversi e con cronologie cosi varie. Di­ ciamo comunque che la filosofia tedesca le ha dato corpo soprattutto in una riflessione storica e politica sulla società (con un problema centrale: l’esperienza religiosa in rapporto all’economia e allo Stato); dai posthege­ liani alla scuola di Francoforte e a Luckàcs, passando per Feuerbach, Marx, Nietzsche e Max Weber, tutti lo testimoniano. In Francia, è la storia del­ le scienze che soprattutto è servita di supporto alla domanda filosofica di che cosa sia stato VAufklärung; in un certo senso, le critiche di Saint-Simon, il positivismo di Comte e dei suoi successori sono stati proprio un modo di riprendere l’interrogativo di Mendelssohn e quello di Kant alla scala di una storia generale delle società. Sapere e credenza, forma scien­ tifica della conoscenza e contenuti religiosi della rappresentazione, o pas­ saggio dal prescientifico allo scientifico, costituzione di un potere razio­ nale sulla base di un’esperienza tradizionale, comparsa, nell’ambito di una storia delle idee e delle credenze, di un tipo di storia proprio alla cono­ scenza scientifica, origine e soglia di razionalità: è sotto questa forma che attraverso il positivismo - e gli oppositori di esso -, attraverso i dibattiti chiassosi sullo scientismo e le discussioni sulla scienza medievale, la que­ stione dell’Aufklärung si è trasmessa in Francia. E se la fenomenologia, dopo un periodo assai lungo in cui fu tenuta ai margini, è finita per pe­ netrare a sua volta, è senz’altro dal giorno in cui Husserl nelle Meditazio­ ni cartesiane e nella Krisis6, ha posto la questione dei rapporti tra il pro­

6 E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Einleitung in die Phänomenologie, Philosophia, Belgrad 1936, t. I, PP- 77*I 76, trad. fr. di G. Granel, La crise des sciences européennes et la phénoméno­ logie trascendentale, Gallimard, Paris 1976 [trad. it. di E. Filippini, La crisi delle scien­ ze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961].

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getto occidentale di un dispiegarsi universale della ragione, la positività delle scienze e la radicalità della filosofia. Da un secolo e mezzo, la storia delle scienze porta in sé poste in gio­ co filosofiche che sono facilmente riconosciute. Opere come quelle di Koyré, Bachelard, Cavaillès o Canguilhem pos­ sono ben avere come centri di riferimento ambiti precisi, «regionali», cro­ nologicamente ben determinati della storia delle scienze, ma comunque hanno avuto la funzione di fuochi di elaborazione filosofica importanti, nella misura in cui facevano giocare con diverse sfaccettature tale que­ stione ÔÆ Aufklärung essenziale alla filosofia contemporanea. Se si dovesse cercare al di fuori della Francia qualcosa che corrispon­ da al lavoro di Koyré, Bachelard, Cavaillès e Canguilhem, lo si trovereb­ be sicuramente sul versante della scuola di Francoforte. Gli stili sono mol­ to diversi, cosi come i modi di fare e gli ambiti trattati. Ma in ultima ana­ lisi gli uni e gli altri pongono lo stesso genere di questioni, anche se qui sono visitati dal ricordo di Cartesio e là dall’ombra di Lutero. Questi in­ terrogativi sono quelli che bisogna rivolgere ad una razionalità che pre­ tende all’universale pur sviluppandosi nella contingenza, che afferma la propria unità e che procede tuttavia per modificazioni parziali; che si con­ valida da sé in virtù della propria sovranità ma che non può essere disso­ ciata, nella sua storia, dalle inerzie, dalle pesantezze o dalle coercizioni che l’assoggettano. Nella storia delle scienze in Francia come nella teoria critica tedesca, ciò che si tratta di esaminare a fondo è appunto una ra­ gione la cui autonomia di struttura porta con sé la storia dei dogmatismi e dei dispotismi - una ragione, di conseguenza, che ha effetto di affran­ camento solo alla condizione che giunga a liberarsi di se stessa. Diversi processi che segnano la seconda metà del xx secolo hanno ri­ condotto al cuore delle preoccupazioni contemporanee la questione dei Lu­ mi. Il primo è l’importanza assunta dalla razionalità scientifica e tecnica nello sviluppo delle forze produttive e nel gioco delle decisioni politiche. Il secondo è la storia stessa di una «rivoluzione» la cui speranza era stata, dalla fine del xvm secolo, sostenuta da tutto un razionalismo a cui abbia­ mo il diritto di chiedere che parte abbia potuto avere negli effetti del di­ spotismo in cui questa speranza si è perduta. Il terzo, infine, è il movimento con il quale si è cominciato a chiedere, in Occidente e all’Occidente, qua­ li titoli la sua cultura, la sua scienza, la sua organizzazione sociale e da ul­ timo la sua stessa razionalità potevano detenere per reclamare una validità universale: è qualcosa d’altro che un miraggio legato ad una dominazione e ad un’egemonia politica? Due secoli dopo la sua comparsa, YAufklärung ritorna: al tempo stesso come un modo per l’Occidente di prendere co­ scienza delle sue possibilità attuali e delle libertà a cui può avere accesso, ma anche come un modo di interrogarsi sui suoi limiti e sui poteri di cui si è servito. La ragione al tempo stesso come dispotismo e come luce.

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Non stupiamoci che la storia delle scienze, soprattutto nella forma particolare che le ha dato Canguilhem, abbia potuto occupare in Francia, nei dibattiti contemporanei, un posto tanto centrale.

In termini molto grossolani potremmo dire che la storia delle scienze si è occupata a lungo (di preferenza se non esclusivamente) di alcune di­ scipline «nobili» e che derivavano la loro dignità dall’antichità della fon­ dazione, dall’alto grado di formalizzazione, dall’attitudine a matematizzarsi e dal posto privilegiato che occupavano nella gerarchia positivista delle scienze. Restando così molto vicina a conoscenze che, dai Greci a Leibniz, avevano insomma fatto corpo con la filosofia, la storia delle scien­ ze schivava la questione centrale per essa che concerneva il suo rapporto con la filosofia. Canguilhem ha ribaltato il problema; ha centrato l’essen­ ziale del suo lavoro sulla storia della biologia e su quella della medicina, ben sapendo che l’importanza teorica dei problemi sollevati dallo svilup­ po di una scienza non è per forza direttamente proporzionale al grado di formalizzazione che essa ha raggiunto. Ha dunque fatto scendere la sto­ ria delle scienze dai vertici (matematiche, astronomia, meccanica galileia­ na, fisica di Newton, teoria della relatività) verso regioni in cui le cono­ scenze sono molto meno deduttive, in cui esse sono rimaste legate, molto più a lungo, alle suggestioni dell’immaginazione ed in cui hanno posto una serie di questioni ben più estranee alle abitudini filosofiche. Ma operando questo spostamento, Canguilhem ha fatto ben di più che assicurare una rivalorizzazione di un ambito relativamente trascurato. Non ha semplicemente allargato il campo della storia delle scienze; ha rima­ neggiato la disciplina stessa su di un certo numero di punti essenziali. 1) Ha innanzitutto ripreso il tema della «discontinuità». Vecchio te­ ma che si è profilato molto presto, al punto di essere contemporaneo, o quasi, della nascita di una storia delle scienze. E ciò che contraddistingue tale storia, come diceva già Fontenelle, è la formazione improvvisa di cer­ te scienze «a partire dal nulla», l’estrema rapidità di certi progressi del tutto inattesi, la distanza che separa le conoscenze scientifiche dall’« uso comune» e da quelli che possono essere stati i motivi di stimolo per gli studiosi; e inoltre è la forma polemica di questa storia, che continua a rac­ contare le lotte contro i «pregiudizi», le «resistenze», gli «ostacoli»7. Ri­ prendendo questo stesso tema, elaborato da Koyré e da Bachelard, Can­ guilhem insiste sul fatto che il rilevamento delle discontinuità per lui non 7 B. Le Bovier de Fontenelle, Préface à Vhistoire de l ’Académie, in Œuvres, ed. del 1790, t. VI, pp. 73-74. Canguilhem cita il testo nell’Introduction à Vhistoire des sciences, Paris 1970, t. I, Eléments et Instruments, pp. 7-8 [trad. it. di G. Capitani e M. Clinanti, Introduzione alla storia delle scienze, Jaca Book, Milano 1973].

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è né un postulato né un risultato; piuttosto è un «modo di fare», una pro­ cedura che fa corpo con la storia delle scienze perché è richiesta dall’og­ getto stesso di cui la storia deve trattare. La storia delle scienze non è la storia del vero, della sua lenta epifania; non può pretendere di racconta­ re la scoperta progressiva di una verità inscritta da sempre nelle cose o nell’intelletto, se non immaginando che il sapere di oggi la possieda infi­ ne in modo cosi completo e definitivo da poter prendere la misura del pas­ sato a partire da essa. Tuttavia, la storia delle scienze non è una pura e semplice storia delle idee e delle condizioni in cui esse sono apparse pri­ ma di cancellarsi. Non è possibile, nella storia delle scienze, darsi la ve­ rità come acquisita, ma non si può nemmeno fare a meno di un rapporto con il vero e con l’opposizione del vero e del falso. E il riferimento all’or­ dine del vero e del falso che dà a questa storia la sua specificità e la sua importanza. Sotto quale forma? Nella concezione che si deve fare la sto­ ria dei «discorsi veridici», cioè di discorsi che si rettificano, si correggo­ no, che operano su se stessi tutto un lavoro di elaborazione finalizzata al compito di «dire vero». I legami storici che i diversi momenti di una scien­ za possono avere gli uni con gli altri hanno necessariamente questa forma di discontinuità determinata dai rimaneggiamenti, dalle rifusioni, dalla messa in luce di nuovi fondamenti, dai cambiamenti di scala, dal passag­ gio ad un nuovo tipo di oggetti - «la revisione perpetua dei contenuti per approfondimento e cancellazione», come diceva Cavaillès. L’errore non è eliminato dalla forza sorda di una verità che a poco a poco uscirebbe dall’ombra, ma dalla formazione di un nuovo modo di «dire vero»8. Una delle condizioni di possibilità per la formazione, agli inizi del xvm seco­ lo, di una storia delle scienze fu proprio, nota Canguilhem, la coscienza che si ebbe delle recenti «rivoluzioni scientifiche» - quella della geome­ tria algebrica e del calcolo infinitesimale, quella della cosmologia coper­ nicana e newtoniana9. 2) Chi dice «storia del discorso veridico» dice anche metodo ricorren­ te. Non nel senso di una storia delle scienze che dica: data la verità, oggi finalmente riconosciuta, da che momento è stata presentita, quali strade si sono dovute prendere, quali gruppi hanno congiurato per scoprirla e di­ mostrarla ? Ma nel senso che le trasformazioni successive di questo discor­ so veridico producono incessantemente le rifusioni nella propria storia; ciò che era a lungo rimasto vicolo cieco un giorno diviene strada percorribile; un tentativo laterale diviene un problema centrale intorno al quale si met­ tono a gravitare tutti gli altri; un approccio leggermente divergente divie­ 8 Sul tema si veda Idéologie et Rationalité dans l ’histoire des sciences de la vie, Vrin, Paris 1977, p. 21 [trad. it. di P. Jervis, Ideologia e razionalità nella storia del­ le scienze della vita, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 12]. 9 Cfr. Etudes d ’histoire et de philosophie des sciences, Vrin, Paris 1968, p. 17.

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ne una rottura fondamentale: la scoperta della fermentazione non cellula­ re - fenomeno marginale nel regno della microbiologia pasteuriana - ha se­ gnato una rottura essenziale solo il giorno in cui si è sviluppata la fisiolo­ gia degli enzimi10. Insomma la storia delle discontinuità non è acquisita una volta per tutte; è di per sé «impermanente», è discontinua; deve essere in­ cessantemente ripresa a prezzo di nuovi investimenti. Dovremo concluderne che la scienza fa e rifà ogni momento, in mo­ do spontaneo, la propria storia, al punto che il solo storico autorizzato di una scienza debba essere lo scienziato che ricostituisce il passato con ciò che sta lui stesso facendo? Il problema per Canguilhem non è di profes­ sione: è di punto di vista. La storia delle scienze non può accontentarsi di riunire quanto gli studiosi del passato hanno potuto credere o dimostra­ re; non si scrive una storia della fisiologia vegetale ridicendo «tutto quel­ lo che uomini chiamati botanici, medici, chimici, orticoltori, agronomi ed economisti hanno potuto scrivere, riguardo alle loro congetture, osserva­ zioni e esperienze sui rapporti tra struttura e funzione in oggetti chiama­ ti talvolta erbe, talvolta piante e talvolta vegetali»11. Ma non si fa la sto­ ria delle scienze nemmeno rifiltrando il passato attraverso l’insieme degli enunciati o delle teorie attualmente convalidati, scoprendo cosi in ciò che era «falso» il vero a venire e in ciò che era vero Terrore resosi poi mani­ festo. Questo è uno dei punti fondamentali del metodo di Canguilhem. La storia delle scienze può costituirsi in ciò che ha di specifico solo prendendo in considerazione, tra il puro storico e lo scienziato stesso, il punto di vista dell’epistemologo. E questo il punto di vista che fa appari­ re attraverso i diversi episodi di un sapere scientifico «un cammino ordi­ nato latente»: il che significa che i processi di eliminazione e di selezione degli enunciati, delle teorie, degli oggetti si fanno momento per momen­ to in funzione di una certa norma; e questa non può essere identificata in una struttura teorica o in un paradigma attuale, perché la verità scientifi­ ca di oggi è essa stessa solo un episodio; diciamo tutt’al più il termine prov­ visorio. Non è basandosi su di una «scienza normale» che si può tornare verso il passato e tracciarne validamente la storia; è ritrovando il proces­ so «normato», di cui il sapere attuale è solo un momento senza che si pos­ sa, salvo profetismo, predire l’avvenire. La storia delle scienze, dice Can­ guilhem, che cita Suzanne Bachelard, può costruire il proprio oggetto so­ lo «in uno spazio-tempo ideale»12. E questo spazio-tempo non è dato né 10 Canguilhem riprende l’esempio trattato da M. Florkin in A Hìstory of Biochemistry, Elsevier, Amsterdam, parti I e II, 1972, parte III, 1975; cfr. Idéologie et Rationalité cit., p. 15 [trad. it. cit., p. 6]. 11 Ibid., p. 14 [trad. it. cit., p. 4]. 12 S. Bachelard, Epistémologie et Histoire des sciences (XII Congresso interna­ zionale di storia delle scienze, Parigi 1968), in «Revue de synthèse», III serie, gen­ naio-dicembre 1968, n. 49-52, p. 51.

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dal tempo «realista» accumulato dall’erudizione storica né dallo spazio di idealità che taglia autoritariamente la scienza d’oggi, ma dal punto di vi­ sta dell’epistemologia. Questa non è la teoria generale di ogni scienza e di ogni enunciato scientifico possibile; è la ricerca della normatività interna alle diverse attività scientifiche, cosi come esse sono state effettivamente messe in atto. Si tratta dunque di una riflessione teorica indispensabile che permette alla storia delle scienze di costituirsi su di un’altra modalità rispetto alla storia in generale; e inversamente la storia delle scienze apre il campo d’analisi indispensabile perché l’epistemologia sia altro che la semplice riproduzione degli schemi interni di una scienza ad un dato mo­ mento13. Nel metodo messo in atto da Canguilhem, l’elaborazione delle analisi «discontinuiste» e la messa in luce del rapporto storico tra le scien­ ze e l’epistemologia vanno di pari passo. 3) Dunque, ricollocando in questa prospettiva storico-epistemologica le scienze della vita, Canguilhem fa apparire un certo numero di tratti essen­ ziali che ne rendono singolare lo sviluppo in rapporto a quello delle altre scienze e che pongono ai loro storici problemi specifici. Avevamo potuto credere, in effetti, che alla fine del xvm secolo, tra una fisiologia che stu­ diava i fenomeni della vita e una patologia votata all’analisi delle malattie, si potesse trovare l’elemento comune che permettesse di pensare come una unità i processi normali e quelli che segnano le modificazioni morbose. Da Bichat a Claude Bernard, dall’analisi delle febbri alla patologia del fegato e delle sue funzioni, si era aperto un campo immenso che sembrava promet­ tere l’unità di una fisiopatologia e un accesso alla comprensione dei feno­ meni morbosi a partire dall’analisi dei processi normali. Dall’organismo sa­ no ci si attendeva che desse il quadro generale in cui i fenomeni patologici si radicassero e prendessero, ad un dato momento, la loro forma propria. Questa patologia su sfondo di normalità sembra aver caratterizzato a lungo tutto il pensiero medico. Ma vi sono nella conoscenza della vita fenomeni che la tengono a di­ stanza da tutta la conoscenza che può riferirsi agli ambiti fisico-chimici; il fatto è che essa ha potuto trovare il principio del suo sviluppo solo nell’interrogarsi sui fenomeni patologici. E stato impossibile costituire una scien­ za del vivente senza tener conto della possibilità della malattia, della mor­ te, della mostruosità, dell’anomalia e dell’errore come essenziale al suo og­ getto. Certo si possono conoscere, con finezza sempre maggiore, i mec­ canismi fisico-chimici che le comportano; non per questo essi trovano me­ no posto in una specificità di cui le scienze della vita devono dar conto, salvo cancellare esse stesse ciò che costituisce appunto il loro oggetto e il loro ambito proprio.

13 Sul rapporto tra epistemologia e storia, si veda in particolare l’introduzio­ ne a Idéologie et Rationalité cit., pp. 11-29 [trad. it. cit., pp. 1-22].

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Da ciò deriva, nelle scienze della vita, un fatto paradossale. Se infat­ ti è pur vero che il processo della loro costituzione si è svolto attraverso la messa in luce dei meccanismi fisici e chimici, la costituzione di campi come la chimica delle cellule e delle molecole, l’utilizzazione di modelli matematici eccetera, per contro tale processo non ha potuto svolgersi che nella misura in cui era continuamente rilanciato come una sfida il proble­ ma della specificità della malattia e della soglia che essa segna tra tutti gli esseri naturali14. Questo non significa che il vitalismo sia vero, quel vita­ lismo che ha messo in circolazione tante immagini e perpetuato tanti mi­ ti. E non significa neppure che debba costituire l’invincibile filosofia dei biologi, quel vitalismo che si è cosi sovente radicato nelle filosofie meno rigorose. Ma significa che ha avuto e senza dubbio ha ancora nella storia della biologia un ruolo essenziale come «indicatore». Questo in due sen­ si: indicatore teorico di problemi da risolvere (vale a dire in generale ciò che costituisce l’originalità della vita senza che essa costituisca in alcun modo un impero indipendente nella natura); indicatore critico delle ridu­ zioni da evitare (vale a dire tutte quelle che tendono a far disconoscere che le scienze della vita non possono fare a meno di una certa posizione di valore che segna la conservazione, la regolazione, l’adattamento, la riproduzione ecc.); « un’esigenza piuttosto che un metodo, una morale più che una teoria»15. 4) Le scienze della vita richiedono una certa maniera di fare la loro storia. E pongono anche, in modo singolare, il problema filosofico della conoscenza. La vita e la morte non sono mai in sé problemi di fisica, neppure quan­ do il fisico, nel suo lavoro, rischia la propria vita, o quella degli altri; per lui si tratta di una questione di morale, o di politica, non di una questio­ ne scientifica. Come dice A. Lwoff, letale o no, una mutazione genetica è per il fisico né più né meno che la sostituzione di una base nucleica ad un’altra. Ma il biologo, in questa differenza, riconosce il marchio del pro­ prio oggetto. E di un tipo di oggetto al quale appartiene lui stesso, poiché vive e questa natura del vivente la manifesta, la esercita, la sviluppa in un’attività di conoscenza che si deve intendere come « metodo generale per la risoluzione diretta o indiretta delle tensioni tra l’uomo e l’ambien­ te». Il biologo deve cogliere ciò che fa della vita un oggetto specifico di conoscenza e quindi ciò che fa si che vi siano, tra i viventi, appunto per­ ché sono viventi, esseri suscettibili di conoscere, e di conoscere in fin dei conti la vita stessa. La fenomenologia ha chiesto al «vissuto» il senso originario di ogni 14 Etudes d ’histoire et de philosophie des sciences cit., p. 239. 15 La connaissance de la vie, 19522, Vrin, Paris 1965, p. 88 [ trad. it. di F. Bas­ sani, La conoscenza della vita, Il Mulino, Bologna 1976].

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atto di conoscenza. Ma non si può o non si deve cercarlo sul versante del «vivente» stesso? Canguilhem vuole ritrovare, attraverso la messa in luce del sapere sul­ la vita e dei concetti che articolano tale sapere, che cosa ne è del concet­ to nella vita. Cioè del concetto in quanto esso rappresenta uno dei modi di questa informazione che ogni vivente preleva sul suo ambiente e gra­ zie alla quale inversamente egli struttura il suo ambiente. Che l’uomo vi­ va in un ambiente concettualmente architettato non prova che egli si sia distolto dalla vita per qualche dimenticanza o perché un dramma storico lo abbia separato da essa; ma solamente che vive in una certa maniera, che ha con il suo ambiente un rapporto tale da non avere su di esso un punto di vista fisso, che è mobile su di un territorio indefinito o definito piut­ tosto largamente, che deve spostarsi per raccogliere informazioni, che de­ ve muovere le cose in rapporto le une alle altre per renderle utili. Forma­ re concetti è una maniera di vivere, non di uccidere la vita; è un modo di vivere in una relativa mobilità e non un tentativo per immobilizzare la vi­ ta; è manifestare, tra miliardi di viventi che informano il loro ambiente e si informano a partire da esso, un’innovazione che si giudicherà come si vorrà, infima o considerevole: un tipo tutto particolare di informazione. Da ciò, l’importanza che Canguilhem attribuisce, nelle scienze della vita, all’incontro della vecchia questione del normale e del patologico con l’insieme delle nozioni che la biologia, nel corso degli ultimi decenni, ha attinto dalla teoria dell’informazione: codici, messaggi, messaggeri ecc. Da questo punto di vista, il Saggio sul normale e il patologico, scritto per una parte nel 1943 e per un’altra nel periodo 1963-66, costituisce senza alcun dubbio l’opera più significativa di Canguilhem. In essa si vede co­ me il problema della specificità della vita si sia trovato recentemente fles­ so in una direzione dove si incontrano alcuni dei problemi che si credeva fossero propri alle forme più sviluppate dell’evoluzione. Al centro di questi problemi, c’è quello dell’errore. Al livello più fon­ damentale della vita, infatti, i giochi del codice e della decodificazione la­ sciano posto ad un’alea che, prima di essere malattia, deficit o mostruo­ sità, è qualcosa come una perturbazione nel sistema informativo, qualco­ sa come un «malinteso». Al limite, la vita - da questo il suo carattere ra­ dicale - è ciò che è capace di errore. Ed è forse a questo dato o piuttosto a questa eventualità fondamentale che bisogna chiedere conto del fatto che la questione dell’anomalia attraversa da parte a parte tutta la biolo­ gia. E ad essa bisogna anche chiedere conto delle mutazioni e dei proces­ si evolutivi che esse inducono. E ancora è essa che dobbiamo interrogare sull’errore singolare, ma ereditario, che fa si che la vita abbia avuto con l’uomo l’esito di un vivente che non si trova mai completamente al suo posto, di un vivente che è votato a «errare» e a «sbagliarsi». E se ammettiamo che il concetto sia la risposta che la vita stessa ha

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Postfazione

dato a questa alea, dobbiamo convenire che Terrore è la radice costituti­ va del pensiero umano e della sua storia. L’opposizione del vero e del fal­ so, i valori che si attribuiscono all’uno e all’altro, gli effetti di potere chè le diverse società e le diverse istituzioni connettono a questa distinzione, tutto ciò non è forse che la risposta più tardiva alla possibilità di errore intrinseca nella vita. Se la storia delle scienze è discontinua, vale a dire se non la si può analizzare che come una serie di «correzioni», come una di­ stribuzione nuova che non libera mai definitivamente e per sempre il mo­ mento terminale della verità, è per il fatto che anche in questo caso T«er­ rore» costituisce non la dimenticanza o il ritardo del compimento pro­ messo, ma la dimensione propria alla vita degli uomini e indispensabile al tempo della specie. Nietzsche diceva della verità che è la menzogna più profonda. Can­ guilhem direbbe forse, lui che è al tempo stesso lontano e vicino a Nietz­ sche, che essa è, sull’enorme calendario della vita, Terrore più recente; o, più esattamente, direbbe che la distinzione vero-falso così come il valore attribuito alla verità costituiscono il più singolare modo di vivere inven­ tato da una vita che portava in sé, dal fondo della sua origine, l’eventua­ lità dell’errore. L’errore è per Canguilhem Talea permanente attorno a cui si avvolgono la storia della vita e il divenire degli uomini. E questa no­ zione di errore che gli permette di legare ciò che sa della biologia e la ma­ niera in cui ne fa la storia, senza che mai abbia voluto, come si faceva al tempo dell’evoluzionismo, dedurre questa da quella. E questa nozione che gli permette di segnare il rapporto tra vita e conoscenza della vita e di se­ guirvi, come un filo rosso, la presenza del valore e della norma. Questo storico delle razionalità, tanto «razionalista» lui stesso, è un filosofo dell’errore; voglio dire che è a partire dall’errore che egli pone i problemi filosofici, diciamo più esattamente il problema della verità e del­ la vita. In questo si tocca senza dubbio uno degli eventi fondamentali nel­ la storia della filosofia moderna: se la grande rottura cartesiana ha posto la questione dei rapporti tra verità e soggetto, il xvm secolo ha introdot­ to, quanto ai rapporti tra verità e vita, una serie di questioni di cui la Cri­ tica del giudizio16e la Fenomenologia dello spirito17sono state le prime gran­ di formulazioni. E da quel momento, fu una delle poste in gioco della di­ scussione filosofica: la conoscenza della vita deve essere considerata sem­ 16 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, 1790, Gesammelte Schriften, t. V, Königlich Preussichen Akademie der Wissenschaften, Berlin 1902, pp. 165-486, trad. fr. di A. Philonenko, Critique de la faculté de juger, Vrin, Paris 1965 [trad. it. di A. Gargiulo, Critica del giudizio y Laterza, Bari 1982]. 17 G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Anton Göbhardt, Würtzburg 1807, trad. fr. di J. Hyppolite, La Phénoménologie de l ’esprit, Aubier-Montaigne, Paris, t. I, 1939, t. II, 1941 [trad. it. di E. De Negri, fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1973].

La vita: l’esperienza e la scienza

283

plicemente come una delle regioni che dipendono dalla questione genera­ le della verità, del soggetto e della conoscenza ? Oppure obbliga a porre altrimenti tale questione? Tutta la teoria del soggetto non deve forse es­ sere riformulata, dal momento che la conoscenza, invece di offrirsi alla verità del mondo, si radica negli «errori» della vita? Comprendiamo perché il pensiero di Canguilhem, il suo lavoro di sto­ rico e di filosofo, abbia potuto avere un’importanza cosi decisiva in Fran­ cia per tutti coloro che, a partire da punti di vista tanto diversi, hanno cercato di ripensare la questione del soggetto. La fenomenologia poteva ben introdurre, nel campo dell’analisi, il corpo, la sessualità, la morte, il mondo percepito; il Cogito restava centrale; né la razionalità della scien­ za, né la specificità delle scienze della vita potevano comprometterne il ruolo fondatore. E a questa filosofia del senso, del soggetto e del vissuto che Canguilhem ha opposto una filosofia dell’errore, del concetto e del vi­ vente, come un’altra maniera di accostare la nozione di vita. M ICH EL FOUCAULT

Indice dei nomi

Abelous, J.-E ., 172, 253. Abrami, P., 236, 263. Addison, Thomas, 172. Agosti, S .,x n n . Alain, pseudonimo di Emile-Auguste Chartier, vn. Alembert, Jean-Baptiste Le Rond, det­ to d ’, 24, 207. Almeida, Ozorio de, 130. Althusser, Louis, xxxvm. Ambard, L., 173, 253. Ambrossoli, 46. Amiel, J.-L., 263. Amoudru, C., 265. Aristotele, xxxv, xu n , 74, 98. Arsonval, Jacques-Arsène d ’, 41 n. Aschoff, Ludwig, 179, 180. Atlan, Henri, xxxvi, xlvi e n, XLvn. Bachelard, Gaston, vn n, xv-xix, xxxvm, 201, 203, 263, 272, 275, 276. Bachelard, Suzanne, 278, 279 n. Bacone, Francesco (Francis Bacon),

17-

Bacq, Z. M., 235, 236, 263. Balibar, Etienne, xxxvn e n. Balint, M., 263. Banting, Frederick Grant, 54. Bassani, F., vn n, 280 n. Bégin, L.-J., 31, 32, 253. Beitzke, Hermann Heinrich Wilhelm, 179. Benedict, Stanley Rossiter, 130, 141,

143-

Bergson, Henri-Louis, xiv, xvm, xix, xxxi-xxxiv, 90, 99, 112, 158, 212, 213, 263,272. Bernard, Claude, ix, xxv, xxxi, xliv , xlv , 7, 8, 19-21, 22 e n, 36, 38, 40,

41 e n, 42, 44-46, 47 e n, 48-53, 5561, 62 n, 64 n, 68, 72, 73, 77,7 9 ,8 0 , 82, 98, 114, 116, 119-21, 131, 151, 162, 170, 175, 182, 217, 223, 237, 253, 263,279. Best, Charles Herbert, 54. Biasotti, 55. Bichat, Marie-François-Xavier, xv, XXV, XXIX-XXXI, XLI, XLIV, XLV, 23, 33» 36-38, 49, 97, 119, 144, 185, 247, 253-54, 279Bier, August, 179. Blainville, C. de, 29 n, 33, 38, 254. Blondel, C., 87. Bödecker, Carl Heinrich Detlev, 52. Boehm, R., 272 n. Bogliolo, G ., xxxix n. Boinet, E ., 29 n, 254. Bonicalzi, F., vn n. Bonnefoy, S., 241, 263. Bordet, Jules, 107, 108, 254. Bösiger, Em est, 227 n, 264. Bouasse, 260. Bouin, Jean, 93. Boule, Pierre-Marcelin, 140. Bounoure, Louis, 7, 111, 254. Bourdieu, Pierre, 272. Brisset, C., 264. Brosse, T., 132, 133, 136, 254, 258. Broussais, François-Joseph-Victor, vm e n, ix, 19, 22 n, 23-26, 29 e n, 3032, 34-39, 49, 76, 78, 82, 115, 254. Broussonnet, Pierre-Marie-Auguste, 78. Brown, John, 24, 33-36, 38, 196, 254. Brown-Séquard, Charles-Edouard, 40, Ï72. Brunschvicg, Léon, 11. Buffon, Georges-Louis-Leclerc, conte di, xlv , 127, 128.

288

Indice dei nomi

Bugard, P., 238 n, 264. Burckardt, E., 151 n, 257. Cabib, S., xxvi n. Camus, 50 n. Canguilhem, Georges, 227 n, 246 n, 264, 271 e n, 272, 275-79, 281-83. Cannon, Walter Bradford, 148, 164 n, 222 e n, 223, 264. Capitani, G., 276 n. Cartesio (René Descartes), x x n , x l i i i , 98, 205 n, 275. Cassirer, Ernst, 153, 254. Castel, Robert, 272. Castiglioni, Arturo, 187, 254. Caullery, Maurice, i n , 254. Cavaillès, Jean, xi, xn, xvi, xxiv, 272 e n, 275, 277. Chabanier, H., 53, 254. Chaix, 62 n. Chanut, 205 n. Chesterton, Gilbert Keith, 220, 221 e n, 264. Chevalier, Jacques, 40. Chevreul, Michel-Eugène, 40. Chiodi, P., 272 n. Claeys, C., 265. Claude, Henri, 50 n. Clinanti, M., 276. Coltellacci, R., x lv i n. Comte, Auguste, vni, 19, 20 e n, 21, 22 e n, 23 e n, 24-29, 32, 36-41, 49, 72, 73>79>98, 151, 162, 213,214,254255, 264, 272, 274. Corona, R., x l v i n. Costa, F., 272 n. Courtès, Francis, 195 n, 264. Couturat, Louis, 272. Cruciani, P., xxxvi n. Cullen, William, 33. Cuvier, Georges-Léopold-ChrétienFrédéric-Dagobert, x l i . Dagognet, François, xiv n, xvn e n, xxvm e n, 235, 236, 264-65. Dale, Henry Hallet, 236. Daremberg, Charles-Victor, 18, 22 n, 29

n, 33-35> 255-

D ’Arsonval, Jacques-Arsène, vedi Arsonval, Jacques-Arsène d \ Darwin, Charles Robert, xx x ix , x liv , XLV, 98, III-13, 222, 226 n. Decourt, P., 236, 265. Déjerine, Jules, 173, 255.

Delbet, Pierre, 175, 255, 260. Delhoume, 7, 41 n. Delmas-Marsalet, P., 154, 155, 255. De Negri, E ., 283 n. Descartes, René, vedi Cartesio. Diderot, Denis, 204, 207. Donald, C., 21, 255. Doncev, L., 141, 257. Dubois, Raphael, 167, 255. Du Bois-Reymond, Emil, xxn. Duclaux, Jacques, 48, 255. Dugas, L., 20, 255. Dumas, George, 172. Dumas, Jean-Baptiste-André, 47. Dumézil, Georges, xxvm, x l i . Duroux, Françoise, xxi e n. Duyckaerts, F., 225, 265. Eijkmann, Christian, 130. Eigen, Manfred, x l v i e n. Einstein, Albert, xxxix. Ey, H., 91, 151, 153, 154, 255. Feuerbach, Ludwig, 274. Fichant, Michel, xn e n. Filippini, E., 274. Fischer, Emil, 179. Fistetti, F., xvi n. Florkin, M., 278 n. Flourens, Marie-Jean-Pierre, 116, 127 e n, 128, 255. Fontana, A., vu n, xxxvn n. Fontenelle, Bernard Le Bovier de, 276 e n. Förster, Richard, 157. Foucault, Michel, vn n, xiv n, xx e n, xxvn e n, xxxn, xxxin, x x x v i - x l , 247,265, 271 n. Francesco I di Valois, re di Francia, 206. Frédéricq, H., 44, 255. Freud, Sigmund, x l i i , 245. Freund, J., 211, 265. Fromageot, 62 n. Galilei, Galileo, x x x v i , xxxvn, 98,168. Gallais, F., 52, 255. Galton, Francis, 123. Gargiulo, A., 282 n. Garrod, Archibald, 237, 265. Gayet, R., 117, 256. Geerts, A., 92 n. Genty, V., 20 n, 256. Geoffroy Saint-Hilaire, Isidore, 18, 101-4, i n , 173, 256.

Indice dei nomi Ginglinger, A., 257. Giuseppe II d’Asburgo-Loremi, impe­ ratore, 208. Gley, Marcel-Eugène-Emile, 40, 256. Glisson, Francis, 33. Goldschmidt, R., xxvi. Goldstein, K., x, xiv, xxii , xxxiii , xi .i , 6, 60, 90, 146-50, 151 n, 152, 1^5, 155, 156, 158-60, 162, 163, 167, 174, 182,256. Gouhier, H ., 23 n, 256. Gould, S. J., xxvi n. Gourevitch, M., 265. Granel, G., 274 n. Grezes-Rueff, C., 266. Grmek, Mirko Drazen, 41 n, 64 n, 175 n, 265. Grote, L. R., 265. Guardia, J . -M., 76, 256. Guiraud, Pierre J., 206, 208, 265. Gurwitsch, A., 150, 164, 256. Guyénot, E ., 100, 111, 256. Halbwachs, M ., 123, 126, 128-30, 256. Haldane, John Burdon Sanderson, 228. Haller, Albrecht von, 18, 33. Hallion, L., 117, 256. Harvey, William, 18, 167, 168 e n. Head, Henry, 60. Hédon, L., 55, 256. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, xxxiv, 7, 81 n, 282 n. Heidegger, Martin, 272 n. Hellmich, 210 n. Helmont, Jan Baptiste van, 75, 76. Hering, Ewald, 179. Herxheimer, G ., 176, 177, 180-83, 187,257. Holton, G ., xx n. Honigmann, 181. Houssay, Bernardo Alberto, 55. Hovasse, R., 113, 257. Hueck, 179, 181. Husserl, Edmund, x h , 272e n, 2 74 en. Huxley, Aldous, 243. Huxley, Julian, 222, 265. Hyppolite, Jean, xxvm, 282 n. Isenschmid, Robert, 143 n. Iso la , S., x l v i n. Ivy, A. C., 229, 230, 265.

289

Jaccoud, S., 45, 257. Jackson, John Hughlings, 60, 151-

155-

Jarry, J.-J., 265. Jaspers, Karl, 88, 93, 130 n, 257. Jeronimidis, A., xxxvi n. Jervis, P., vn n, 277. Juret, A., 101 n. Kant, Immanuel, xxxn, xxxiv, x l i , 195» J99, 205, 273 e n, 274, 282 n. Kayser, Charles, 141-43, 159, 200, 229 n, 235, 257, 265-66. Kehl, 7. Kelsen, Hans, 211. King, M., 21, 255. Klein, M., 20 n, 38, 157, 257, 261. Klineberg, Otto, 233, 266. Koch, Robert, 174. Koyré, Alexandre, xxxvi, 81 n, 272, 275,276. Kuhn, Thomas, xxiv. Kuntz, J., 151 n. Labbé, Marcel, 135, 136, 257. La Blache, Vidai de, 127. Lacan, Jacques, xxvn. Lachelier, Jules-Esprit-Nicolas, 272. Laet, de, 92 n. La Fontaine, Jean de, 210. Lagache, Daniel, 7, 87-89, 257. Laguesse, 54. Lalande, A., 95, 101, 257. Lamy, P., 21, 40, 41, 47 n, 258. Lanza, R., vn n. Lapassade, G ., xxi n, 227 n, 264. Laplace, Pierre-Simon de, 80. Laubry, C., 132, 133, 136, 258. Laudet, M., 59, 258. Laugier, Henri, 121, 122, 146, 229, 258. Lavoisier, Antoine-Laurent, 48, 80. Lecourt, D., vn n, xvi n. Lefrou, G., 138, 258. Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 276. L ’Héritier, P., m . Lejeune, J., 241, 266. Lenin, Vladimir Il'ic Ul'janov, 221. Leriche, René, x, 6, 22, 65-74, 78, 90, 107, 156-58, 160, 171, 174, 196, 258. Lerner, 227. Leroi-Gourhan, André, xxm , 217, 218, 266.

290

Indice dei nomi

Lesky, E., 266. Lestavel, 264. Lévinas, E., 272 n. Lévi-Strauss, Claude, 204, 219, 266. Liebig, Justus von, 47. Lifar, Serge, 93. Lindhard, 143. Linneo, Carlo (Carl von Linné), x l v . Littré, Emile, 20, 22 n, 38, 40, 95,101, 206,258. Lobet, E., 92 n. Lobo-Onell, C., 53, 254. Lorenz, Konrad, xxiv. Loubatiéres, A., 55, 256. Lubarsch, Otto, 179. Luckacs, György, 274. Lucrezio, xxxvi. Lussana, Filippo, 46. Lutero, Martin, 275. Lynch, 35, 36. Lwoff, A., 228 n, 266, 280. Macherey, Pierre, xxvm e n, xxxi. Magendie, François, 38, 40, 80, 116. Maggioni, C., vii n. Magni, M., vn n. Maily, J., 209, 266. Maine de Biran, Pierre François Gonthier, 272. Mainzer, 182. Maiocchi, R., xx n. Mamiani, M., xx n. Manzoni, S., 273 n. Mao Tse-Dong, 234. Marchand, Felix, 178, 181. Marfan, Jean-Bernard-Antonie, 174. Maria Teresa d ’Asburgo-Lorena, impe­ ratrice, 208. Marquezy, R.-A., 59, 258. Martini, 249 n. Marx, Cari, 228, 274. Maturana, H., x l v i i n. Mauriac, Pierre, 47 n, 258. Mauss, Marcel, x u . Maxwell, James Clerk, xxxix. Mayer, André, 121,122,131, 229, 258. Mecnikov, Il'ja Il'ic, 128. Melone, G., x l v i i n. Mendel, Gregor, xxxix. Mendelsohn, E ., xiv n. Mendelssohn, Moses, 273 e n, 274. Mering, Josef von, 54, 117, 172, 173. Merleau-Ponty, Maurice, xi, xxn, 5, 151 n, 272.

Metz, Bernard, 229 n. Meyer, R., 179. Meyerson, E ., xix, 81. Michelangelo Buonarroti, 168. Mignet, M ., 29 n, 259. Minkowski, Eugène, x, xrv, xxn, 87,89, 90, 91, 259. Minkowski, Oskar, 54, 117, 172, 173. Molière, Jean-Baptiste Poquelin detto, Monglond, 137, 138, 259. Montesquieu, Charles-Louis de Secon­ dât di La Bredè e di, 172. Moodie, Roy C., 139 e n. Morgagni, Giambattista, 18, 185, 186, 259. Mosso, Angelo, 143. Mourgue, R., 151, 259. Müller, Hermann Joseph, 221, 222, 266. Münsterberg, Hugo, 177. Nageotte, Jean, 156. Napoleone I Bonaparte, imperatore dei francesi, 146, 207. Napolitani, P. D., x l v i n. Naunyn, Bernard, 173. Naville, Ernest, 171. Nélaton, Auguste, 148, 259. Neuville, H ., 127, 259. Newton, Isaac, x x x i x , 24, 276. Nicolle, Charles-Jules-Henri, 59. Nietzsche, Friedrich Wilhelm, xm, xrv, 21, 274, 282. Nolf, P., 44, 259. Ombredane, A., 152, 153, 259. Orfila, Matheo-José-Boanventure, 116. Osborne, 143. Ovidio, 203. Pagès, R., 266. Pales, J., 137, 138, 139 e n, 140, 259. Panaitescu, E., vu n. Paracelso (Philipp Teophrast Bombast von Hohenheim), 75. Passeron, Jean-Claude, 272. Pasteur, Louis, 47, 59, 75, 259. Pavy, Frederick William, 45. Peiffer, G ., 272 n. Péquignot, Henri, xrv n, 244 e n, 247, 248, 250, 266. Peters, Kurt Gustav, 178. Philonenko, A., 282 n. Piaget, Jean, xxiv.

Indice dei nomi Pick, Arnold, 152. Piéron, Louis-Charles-Henri, 143. Pinel, Jean-Philippe, xxx, 18, 23. Piquemal, Jacques, xiv n, xxi n, 227 n, 264. Pirillo, N., 272 n. Pirquet, Clemens von, 174. Planques, J., 266. Platone, 19, 37, 206, 249. Poincaré, Henri, 272. Polidori, F., xxvm n. Popper, Karl R., xxxvm. Porak, R., 133-36, 259. Pradines, Maurice, 5. Prigogine, Ilya, xxxvi, x l v i e n. Prochaska, Georg, xxn. Prus, Victor, 78, 115, 260. Quêtelet, A., 122-25, 127, 129, 130, 224, 225, 260. Quinot, E., 265. Rabaud, E ., 106, 107, 260. Rathery, F., 56, 260. Raymond, D ., 241, 267. Reilly, 234, 236. Reininger, 145. Reiss, P., 257. Renan, E., 20, 260. Ribot, T., 20, 21, 88, 89, 260. Richelieu, Louis-Armand de, 207. Richerand, B.-A., 20. Ricker, 176 e n, 177, 178, 180-83, 187. Rickert, Heinrich, 177. Robin, Charles P., 20 e n, 22 n, 38, 40, 95, 101, 258. Rœderer, C., 110, 260. Rœssle, 179. Roger, H ., 50 n. Rolleston, S. H ., 267. Romains, Jules, pseudonimo di Louis Farigoule, 51. Rostand, J., 79, 260. Rouart, J., 151, 153, 154, 255. Rousseau, Jean Jacques, 204, 205. Roux, Wilhem, 178, 179. Ruyer, R., 240, 267. Ryle, John A., 231, 232, 267. Sabiani, 7. Sade, Donatien-Alphonse-François, det­ to marchese di, xxxi. Saint-Sernin, B., xiv n.

291

Saint-Simon, Claude-Henri de Routroy, conte di, 23, 274. Salomon, J. J., xiv n. Salvadori, F., x l v i n. Sartre, Jean-Paul, xi, 272 e n. Schwartz, A., 58, 117, 118, 169, 171, 179, 260. Selye, Hans, 6, 234 e n, 235, 236, 267. Sendrail, M., 107, 260. Serres, Michel, xxxm n, xxxv, xxxvi n. Sertoli, Giuseppe, vm n, xvm e n. Sherrington, Charles Scott, 60. Sigerist, H.-E., 15, 18, 28, 33, 75, 90, 146 e n, 147, 167-69, 172, 260. Simondon, G ., 240, 267. Singer, C., 168, 260. Socrate, 191. Sorre, M., 127, 130, 136, 260. Soula, 56. Speranski, A.-D., 187 n. Stahl, Georg Ernst, 75, 76. Starling, Ernest H., 222 n, 223. Starobinski, Jean, 187 n, 204, 267. Stein Mayer, A., x l v i n. Stengers, I., x l v i n. Stoetzel,J., 267. Strohl, J., 33, 261. Sydenham, Thomas, 17, 18. Tagliapietra, S., 273 n. Taine, Hippolyte-Adolphe, 20. Tarde, Gabriel, 216, 217, 267. Teilhard de Chardin, Pierre, 226 n. Teissier, G., 99, m - 1 3 , 129, 258, 261. Tetamo, E., 273 n. Thibaudet, 131. Toulouse, 143. Tournade, A., 172, 261. T re w ,186. Trousseau, Armand, 20. Tubiana, M., 238, 267. Ulmann, J., xxi n, 227 n, 264. Valabrega, J.-P., 267. Valéry, Paul, 109, 164-. Vallois, R.-J., 139, 261. Vandel, Albert, 145, 226 e n, 261, 267. Varela, F., x l v h n. Varigny, H. de, 139 n. Vaugelas, Claude Favre de, 207. Vauvenargues, Luc de Clapiers, mar­ chese di, 151.

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Indice dei nomi

Velpeau, Alf red-Armand, 186. Vendryès, P., 120, 121, 261. Virchow, Rudolf, 170, 173, 174, 187, 261. Völker, 141, 143. Waelhens, A. de, 272 n. Wahl, Jean, vm. Wärter, J., 158, 261. Weber, Max, 274. Weigert, Carl, 178. Weiss, A.-G., 157, 158, 261. Weizsäcker, C. F. von, 159. Whitehead, Alfred North, 80. Wiener, Norbert, 268.

Willis,Thomas, xxn.

Winkler, R., x l v i n. Windelband, Wilhelm, 177. Wöhler, Fridrich, 47. Wölfflin, 168. Wolff, Etienne, 7, 108, 261. Young, Thomas, 55. Ziehen, Theodor, 179.

Stampato da Elemond s.p.a., Editori Associati presso lo Stabilimento di Martellago, Venezia nel mese di marzo 1998 C.L. 14864 Ristampa

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Il normale e il patologico costituisce l’opera fondamentale di Georges Canguilhem, storico e filosofo della biologia, successore di Gaston Bachelard alla Sorbona. Il saggio, un autentico classico del pensiero del nostro tempo, si colloca a metà strada tra filosofia e scienza e intende demolire le pretese della medicina positivistica di definire la malattia come pura differenza quantitati­ va rispetto a norme oggettive, radicandola invece nell’esperienza del sogget­ to quale individuo vivente. Canguilhem preparava cosi la strada alle ricerche del suo maggiore discepolo, Michel Foucault, sulla follia e lo sguardo clinico. E dalla riflessione sulla norma e l’errore che Canguilhem svilupperà anche le sue considerazioni epistemologiche e storiche in campo biologico, rivalutan­ do la funzione del vitalismo e ricostruendo il processo di formazione dei concet­ ti riguardanti la vita. Senza tale riflessione, ha rilevato Foucault, diventa incomprensibile gran parte del dibattito filosofico francese degli ultimi decen­ ni fra marxismo, strutturalismo e psicoanalisi. Sommario: Introduzione di Mario Porro Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico (1943): Prefazione alla seconda edizione. - Introduzione. - Parte prima. Lo stato patologico è soltanto una modificazione quantitativa dello stato normale? - 1. Introduzione al problema, n. Auguste Comte e il «principio di Broussais». m. Claude Bernard e la patologia sperimentale, iv. Le concezioni di René Leriche. v. Le implicazioni ài una teoria. - Parte seconda. Esistono le scienze del normale e del patologico? - 1. Introduzione al problema. 11. Esame critico di alcu­ ni concetti: del normale, dell’anomalia e della malattia, del normale e dello sperimentale. m. Norma e media, iv. Malattia, guarigione, salute, v. Fisiologia e patologia. Conclusione. Nuove riflessioni sul normale e il patologico (1963-66): Venti anni dopo. 1. Dal sociale al vitale, n. Sulle norme organiche nell’uomo. 111. Un nuovo concetto in patolo­ gia : l ’errore. Epilogo. - Bibliografia. - Indice dei nomi.

Postfazione di Michel Foucault Georges Canguilhem (1904-1995), storico e filosofo della scienza, ha pubblicato tra l’al­ tro Etudes d ’histoire et de philosophie des sciences (1968), Idéologie et rationalité dans l ’his­ toire des sciences de la vie (1977); e in Italia: Introduzione alla storia delle scienze (Jaca Book, Milano 1973), La conoscenza della vita (Il Mulino, Bologna 1976).

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