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Italian Pages 272 [262] Year 2021
Opere di Costanzo Preve Volume I
Il nemico principale
Costanzo Preve (1943-2013) ha studiato scienze politiche, filosofia e neoellenistica a Torino, Parigi e Atene (1961-1967). Per trentacinque anni (1967-2002) ha insegnato filosofia e storia nei licei italiani. È autore di studi filosofici e politici noti in Italia e tradotti in molti paesi europei.
In questa collana saranno presto raccolti i seguenti volumi: 2) Manifesto filosofico del comunismo comunitario. 3) La Scuola di Francoforte, Adorno e lo spirito del Sessantotto. 4) La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo. 5) L’eredità e la prospettiva. Saggio sul Novecento. 6) Una storia alternativa della filosofia.
Opere di Costanzo Preve
Collana diretta da Alessandro Monchietto Comitato scientifico: Andrea Bulgarelli, Lorenzo Dorato, Luca Grecchi, Diego Melegari, Alessandro Monchietto, Enrico Varesio, Piotr Zygulski
Opere di Costanzo Preve I
Costanzo Preve
Il nemico principale a cura di Alessandro Monchietto Prefazione di Carlo Formenti
© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Opere di Costanzo Preve ISSN: 2785-2032 n. 1 – novembre 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-102-6 ISBN – Ebook: 978-88-5529-103-3 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Gruppo del Laoconte, Musei Vaticani, Città del Vaticano.
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Nota sull’origine dei testi
Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale. Considerazioni politiche e filosofiche. Redatto a Torino nel giugno 2009, venne inizialmente concepito come articolo da pubblicare contemporaneamente in Francia e in Italia, rispettivamente sul bimestrale francese «Rébellion» e sul secondo numero – mai andato in stampa – della rivista «Socialismo XXI» (fondata da Costanzo Preve assieme a Andrea Bulgarelli, Giovanni Di Martino, Alessandro Monchietto, Marcello Siragusa). Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo. Dialettica della limitatezza e della corruzione. Pubblicato su «Comunismo e Comunità. Laboratorio per una nuova teoria anticapitalistica», dicembre 2011. La crisi culturale della terza età del capitalismo. Dominanti e dominati nel tempo della crisi del senso e della prospettiva storica. Pubblicato su «Koinè», VI, gennaio-settembre 1999. La saggezza dei Greci. Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi. Pubblicato su «Koinè», XVI, gennaio-giugno 2009. Demos e libertà. Pubblicato su «Eretica», n. 2, 2005.
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Le radici storiche, politiche, filosofiche e comunitarie della democrazia antica dei Greci. Intervento tenuto a Bardonecchia (TO) il 12 dicembre 2005, nell’ambito del seminario promosso dal movimento No TAV “Presidiare la democrazia – realizzare la Costituzione”. Venne in seguito pubblicato su «Quaderni dei presìdi», n. 1, 2006.
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Prefazione di Carlo Formenti
In questa Prefazione mi occuperò esclusivamente del primo dei testi riuniti in questo volume (Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale. Considerazioni politiche e filosofiche). Nella parte iniziale di questo testo leggiamo la seguente citazione: «Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico». Il brano è tratto da un articolo del filosofo francese di destra Alain de Benoist. Una scelta che appartiene al repertorio di gesti provocatori che ha caratterizzato l’ultima stagione produttiva di Costanzo Preve. Non ho mai avuto modo di conoscere Preve di persona, né di parlargli. L’unico rapporto che ho avuto con lui è stato nelle vesti di caporedattore del mensile «Alfabeta» (ruolo che ho svolto negli anni Ottanta), quando Preve ci venne proposto come collaboratore da Francesco Leonetti. Non sono quindi in grado di stabilire se le provocazioni in questione nascessero dall’irritazione e dal disgusto nei confronti di una sinistra in avanzata fase di decomposizione sul piano politico, ideologico e filosofico (per cui Preve gioiva malignamente nell’evi-
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denziare che, per leggere certe verità, si era ormai costretti a rivolgersi altrove), oppure se – almeno nel caso in questione – il fatto di potersi rispecchiare in una serie di affermazioni che riteneva condivisibili prevalesse sull’appartenenza ideologica del loro autore. Sciogliere questo dubbio mi sembra francamente secondario rispetto a un dato di fatto: i detrattori di Preve si sono concentrati esclusivamente sulla fonte della citazione, ignorandone completamente il contenuto (per tacere del modo in cui Preve lo interpreta e approfondisce). Per usare una metafora un po’ scontata: si sono precipitati ad azzannare il dito per distogliere l’attenzione dalla luna che il dito indicava. Si tratta dello stesso atteggiamento che la maggior parte degli intellettuali “di sinistra” hanno assunto nei confronti di una serie di “eretici” come Jean-Claude Michéa, Hosea Jaffe, Domenico Losurdo e altri, accomunati dal “peccato” di avere preso le distanze dalla via social liberale imboccata dal marxismo occidentale, caratterizzata, in particolare, dalla demonizzazione del socialismo reale e dall’esaltazione del sistema liberal democratico. Tuttavia, come ho sottolineato altrove1, va preso atto che, fra tutti questi autori “messi all’indice”, Preve è senza ombra di dubbio quello che ha subito un vero e proprio linciaggio, un autodafé che è riuscito a cancellare quasi del tutto il suo contributo alla comprensione della drammatica epoca di passaggio che il mondo vive in questo inizio di secolo. Prima di entrare nel merito del modo in cui Preve sviluppa il tema di de Benoist, vale la pena di citare un episodio che lui stesso ci racconta: un suo vecchio amico “di sinistra” gli aveva fatto notare che il concetto di nemico principale è il parto di un filosofo come Carl Schmitt, per cui è inequivocabilmen-
1. Cfr. C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.
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te “di destra”. Ammesso che il contributo di un genio come Schmitt al pensiero geopolitico contemporaneo possa essere liquidato con questa etichetta, Preve ha buon gioco nel ribattere che Schmitt non è l’inventore di un concetto che appare più appropriatamente riferibile ad autori come Marx, Lenin e Mao (nomi “proibiti” che, alle orecchie del suo amico “di sinistra”, dovevano suonare non meno “sinistri” – mi si perdoni lo scontato gioco di parole – di quello di Schmitt). Ma passiamo alle definizioni dei quattro nemici principali. Nel trattare il nemico principale sul piano economico, Preve preferisce sostituire il termine modo di produzione capitalistico al termine capitalismo, in quanto il primo consente di calare la determinazione del concetto astratto di capitalismo nella pluralità delle società capitalistiche concrete, ma soprattutto preferisce concentrare l’attenzione sul termine società di mercato, in quanto economia di mercato è definizione troppo generica, dal momento che lo scambio mercantile è una prassi che può convivere tranquillamente con formazioni sociali precapitalistiche ma anche (e sulle implicazioni di questa osservazione dovremo tornare con attenzione nel finale) con formazioni sociali postcapitalistiche. Viceversa, il modo di produzione capitalistico è una società di mercato nel senso che, diversamente da tutte le formazioni sociali che la hanno preceduta, fa dello scambio mercantile il fattore «coattivo di tutti i rapporti sociali»2. Una centralità ossessiva e fondante che, con l’avvento della globalizzazione neoliberale, attinge livelli tali da caratterizzare appunto il capitalismo e la società di mercato quali «nemici globali e complessivi del Genere Umano in quanto tale». Veniamo ora alla definizione del nemico principale in politica, vale a dire quel liberalismo che secondo Preve è, con la
2. Cfr. C. Polanyi, La grande trasformazione, tr. it. di R. Vigevani, intr. di A. Salsano, Einaudi, Torino 1974.
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società capitalistica di mercato, uno dei due volti inscindibili di un’unica forma oligarchica di dominio. Qui Preve compie due mosse. La prima, destinata ad aggravare la sua posizione di fronte al tribunale delle sinistre convertite al verbo social liberale (il riferimento a Norberto Bobbio non è casuale), consiste nel prendere le distanze da chi insiste nell’indicare quale nemico assoluto (anzi come il Male Assoluto) il fascismo anche dopo che – a partire dal 1945 – questo regime è irreversibilmente tramontato, per non più ripresentarsi nelle sue forme classiche. L’antifascismo senza fascismi, argomenta Preve, è sintomo del fatto che il liberalismo, di destra centro e sinistra, nella misura in cui dispone esclusivamente della ricchezza privata quale unico criterio di riconoscimento sociale, necessita «di una serie di ideologie di legittimazione etica integrativa», la principale delle quali è appunto l’esaltazione degli «immortali valori dell’antifascismo». La seconda mossa chiama invece in causa tre diverse assunzioni dell’individualismo come peccato mortale dell’anima liberale. La prima appartiene a Michéa, laddove questi ripropone la sentenza di Marx secondo cui l’uguaglianza formale e astratta finisce inevitabilmente per accrescere le disuguaglianze reali e rafforzare il dominio di classe. La seconda chiama in causa la definizione di Castoriadis, che nel liberalismo riconosce le stigmate del disincanto come valore, del narcisismo come profilo antropologico e del nichilismo come nuova metafisica di fondazione. La terza rinvia al detto di Mo Ti (antico filosofo cinese) che recita: «in una società in cui ognuno considera di fatto valido il proprio criterio di giudizio e disapprova quello degli altri, la conseguenza è che i più forti si rifiuteranno di aiutare i più bisognosi, ed i più ricchi si rifiuteranno di dividere le loro ricchezze»3.
3. Per una esauriente analisi della storia del liberalismo, cfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2020.
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Quanto al nemico principale sul piano sociale, la borghesia, il discorso di Preve si discosta dal concetto marxiano di borghesia come insieme dei proprietari privati dei mezzi di produzione (per inciso: qui il discorso andrebbe allargato a una disamina dei limiti dello scheletrico schema bipolare borghesia/proletariato della sociologia marxiana, ma è un compito che esula dagli obiettivi di questo testo). In primo luogo perché osserva che il processo di produzione capitalistico può essere messo in moto da soggetti non-borghesi. Una verità empirica che la realtà sociale contemporanea consente di verificare oltre ogni dubbio, per cui oggi il termine più corretto da adottare sarebbe «oligarchie capitalistiche». Inoltre perché (e qui il ragionamento si fa più sottile) la borghesia “classica” era portatrice di una “coscienza infelice” che induceva le sue menti più brillanti (a partire dallo stesso Marx) a criticare/rinnegare il proprio ruolo storico. Coscienza infelice di cui oggi non rimane traccia alcuna se non nella patetica figura (tipica del militante della sinistra postmoderna) di quelle “anime belle” che trasformano «l’impotenza in supremo valore morale». Anima bella che, ovviamente, si tiene accuratamente lontana da una disciplina sporca e triviale – dedita com’è all’analisi dei rapporti di forza fra nazioni, popoli e culture – come la geopolitica. Quanto ai motivi per cui Preve concorda con de Benoist nell’indicare negli Stati Uniti il nemico principale in geopolitica, mi limito qui a citare la sua argomentazione: E siccome questa superpotenza, oggi, è anche il supremo garante strategico-militare del capitalismo (1), della società di mercato (2), del liberalismo politico (3), della teologia interventistica dei diritti umani (4), della nuova religione olocaustica del complesso di colpa interminabile dell’umanità (5), della sottomissione dell’Europa costretta alla cosiddetta “posizione del missionario” (6), della proliferazione di basi militari atomiche in tutto il mondo (7), del modello culturale televisivo del rimbecillimento antropologico universale (8),
16 della secolarizzazione del presunto mandato messianico assegnato da Dio ad una nazione protestante eletta (9), più altre determinazioni che qui non riporto per brevità, ne consegue che non il popolo americano, non la nazione americana, ma soltanto la superpotenza geopolitica imperiale americana è il nemico principale.
Esaurito il ragionamento sul concetto di nemico principale e sulla sua applicazione ai differenti contesti economico, politico, sociale e geopolitico, è giunto il momento di affrontare una serie di argomenti che, in parte si dipanano parallelamente, in parte attraversano il tema principale fin qui esaminato, e che, almeno a mio avviso, appaiono ancora più interessanti. Mi riferisco: 1) ad alcuni spunti critici nei confronti dello stesso pensiero di Marx; 2) alla problematica traducibilità della identità di classe in azione politica; 3) al giudizio storico sul socialismo reale. Un altro dei motivi per cui Preve irritava profondamente i soloni del marxismo accademico era il fatto che si permetteva di “fare le pulci” al maestro. Nel testo di cui stiamo parlando questo “vizio” emerge soprattutto in tre circostanze4. In primo luogo, Preve respinge con orrore l’idea del comunismo come fine della storia, intesa come fine del conflitto sociale, e quindi come fine della politica. La formula «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», che Marx incastona in una visione irenica che dipinge un futuro in cui la politica dovrebbe dissolversi in amministrazione “naturale” delle cose, piace molto alla sinistra postmoderna e “antipolitica” dei giorni nostri, ma fa venire i brividi a Preve, il quale non crede in una utopistica ricomposizione di tutti i conflitti fra 4. Le critiche in questione coincidono in larga misura con quelle che il sottoscritto e Onofrio Romano avanzano in un loro dialogo trascritto in libro (C. Formenti - O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019).
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interessi collettivi. Un miraggio che rischia di coincidere con i sogni individualistici della cultura liberale (da Saint-Simon a Fukuyama). La seconda presa di distanza critica è l’esito del rifiuto di Preve di accettare la separazione fra storia del pensiero politico e storia del pensiero economico moderni. Per Preve il modo di produzione capitalistico coincide in tutto e per tutto con ciò che chiamiamo modernità, per cui il tentativo di salvare il contenuto emancipativo della modernità, qualificandola come «il solo aspetto culturale specifico della legittimazione simbolica del modo di produzione capitalistico» può avere quale unico risultato l’esaltazione di quella «divinità idolatrica chiamata Progresso». Del resto Marx, argomenta Preve, non è esente dalla fascinazione da parte di questa divinità. Prova ne sia (e siamo alla terza critica) il fatto che la sua opera si presta a un uso capitalistico laddove riconosce il carattere “progressivo” dei rapporti capitalistici nella misura in cui soppiantano i precedenti rapporti schiavistici e feudali. Personalmente – scrive Preve – non sono un ammiratore incondizionato di questo aspetto borghese-progressivo del pensiero di Marx, ed anzi lo considero uno dei punti più deboli e datati del suo pensiero. Ma non è questo il problema. Il fatto è che Marx non ha chiarito bene quale sia il criterio che permette di stabilire quando questa funzione progressiva cessa, e quando comincerebbe invece la funzione regressiva. Per essere più precisi, Marx ha bensì fornito un criterio di giudizio, ma l’ha fornito errato, individuandolo nel momento storico dell’insorgenza dell’incapacità di sviluppare ulteriormente le forze produttive, con conseguente stagnazione, parassitismo, eccetera. Insomma, il capitalismo diventerebbe “reazionario” soltanto quando non è più in grado di sviluppare le forze produttive ed i capitalisti da imprenditori creativi diventano percettori oziosi di rendite, tipo i signori feudali. Ora, mi sembra chiaro che questo volenteroso criterio è del tutto errato. Il capitalismo continua a produrre imprendi-
18 tori di valore ed a sviluppare in modo vertiginoso le forze produttive. Ed allora non può essere questo il criterio giusto. Il criterio deve tornare ad essere pienamente filosofico, e cioè “umanistico”, e deve essere individuato nel modello di illimitatezza della produzione capitalistica complessiva e nell’imbarbarimento sociale ed antropologico delle forme di vita capitalistiche.
È pur vero che il capitalismo finanziarizzato e globalizzato di oggi presenta evidenti caratteristiche parassitarie, ma ciò nulla toglie all’argomentazione di Preve, nella misura in cui non ha minimamente indebolito la capacità del capitale di esercitare la propria egemonia nei confronti dei soggetti che dovrebbero rovesciarlo. Così abbiamo introdotto il nodo della problematica traducibilità dell’identità di classe in coscienza politica rivoluzionaria. Il guaio è, argomenta Preve, che la borghesia (che oggi veste i panni delle oligarchie capitalistiche) è una signora classe, assai più coesa e abile del volonteroso e confuso proletariato (della cui attuale composizione Preve non si occupa, ma non è quanto possiamo pretendere dal suo approccio, filosofico più che sociologico). E a confonderlo ancora di più contribuiscono quegli intellettuali “di sinistra”5 che si impegnano a descrivere il secolo delle rivoluzioni proletarie come un museo degli orrori, che demonizzano il Novecento per «prevenire la malaugurata ipotesi che le classi subalterne ci possano riprovare». Dopodiché l’ostacolo principale resta quello ben individuato da Lenin, vale a dire l’incapacità delle classi subalterne, serrate nella morsa di un sapere limitato alla «particolarità» e «prossimità diretta», di comprendere i meccanismi della riproduzione politica, economica e geopolitica della società in generale. Incapacità che solo la teoria leninista del partito è riuscita a riscattare (anche qui andrebbe rimar-
5. Il pensiero corre qui inevitabilmente a Marco Revelli (cfr. Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001).
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cata l’assenza di una riflessione su come potrebbe riconfigurarsi quella forma partito oggi, ma valgono le stesse attenuanti citate poco sopra rispetto all’assenza di un’analisi dell’attuale composizione di classe). Preve non si limita però a difendere il Novecento dall’accusa di essere stato il secolo degli orrori che gli viene rivolta da destra: difende anche l’esperienza del comunismo novecentesco dalle denigrazioni che gli arrivano dagli esponenti del settarismo di sinistra (fra i quali cita Bettelheim e Bordiga). Quell’esperienza, afferma, va rivendicata come «un esempio di proprietà collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico, anche se ovviamente deformata da rapine burocratiche di vario tipo». Si è trattato di un gigantesco esperimento di ingegneria sociale che, ad un certo punto, «è finito con una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuata attraverso una maestosa controrivoluzione delle classi medie sovietiche». Naturalmente questo giudizio meriterebbe volumi di approfondimento, per cui mi limito a dire che, ammesso e non concesso lo si possa condividere, fatico a capire l’ingenerosità con cui Preve liquida quell’altro gigantesco esperimento sociale che è la rivoluzione cinese, rifiutandosi di prendere atto del fatto che, in questo caso, al contrario di quello sovietico, l’esperimento continua e ha prodotto – invece del disastro russo – la straordinaria ascesa della Cina al rango di grande potenza mondiale in grado di confrontarsi da pari a pari con il «nemico principale» statunitense. Preve sembra mettere la svolta post maoista del 1978 sullo stesso piano della restaurazione post sovietica, arrivando a liquidare l’attuale regime cinese con la sprezzante definizione di “capitalismo confuciano”. Volendo essere generosi, questo giudizio può essere attribuito a scarsa conoscenza, nel senso che evidentemente Preve ignorava o sottovalutava le argomentazioni di autori come Giovanni Arrighi e Samir Amin, che descrivono la Cina come un sistema socialista con presenza di mercato e con conflitti di classe che
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potrebbero condurlo sia verso una restaurazione capitalistica sia verso una più avanzata forma di socialismo. Per inciso, le argomentazioni di Arrighi si riferiscono esattamente a quella distinzione fra economia di mercato e società di mercato che, come si è visto, lo stesso Preve considera dirimente6. In particolare Arrighi ed altri sottolineano come il permanere del controllo statale sui settori produttivi strategici e sulle banche, di uno sviluppato sistema di servizi pubblici, e di una politica estera difficilmente definibile come imperialistica, inducono a prendere atto che, finché il potere politico mantiene il controllo sull’economia, si può aggiungere mercato a volontà senza che il sistema possa essere definito capitalista. Se a questo aggiungiamo lo straordinario risultato di avere ridotto in vent’anni il numero dei cittadini in condizioni di povertà da più di ottocento a quattordici milioni, di avere mantenuto i livelli di occupazione anche nel momento in cui la crisi li aggrediva duramente nei paesi capitalisti occidentali e di avere pilotato l’economia del Paese da un modello mercantilista fondato sui bassi salari a un modello autocentrato proprio grazie ad un aumento consistente e generalizzato delle retribuzioni è evidente che il “miracolo” cinese, più che a una conversione del Partito e dello Stato ai principi e ai valori del liberismo, sembra da attribuirsi al permanere di consistenti elementi di socialismo. A volere essere meno generosi, non escluderei invece che Preve possa essere rimasto inconsapevolmente intrappolato da quella visione eurocentrica – tipica del marxismo occidentale criticato da autori come Jaffe e Losurdo7 – ciò che lo avrebbe
6. Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, tr. it. di P. Anelli, Feltrinelli, Milano 2008. 7. Cfr. H. Jaffe, Via dall’azienda mondo. Dove destra e sinistra stanno dalla stessa parte, tr. it. di D. Danti, Jaca Book, Milano 1995; D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Roma-Bari 2017.
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reso cieco alla specificità storica e geografica di un immenso Paese con millenni di storia alle spalle, fattori che non possono non condizionare il giudizio su un esperimento che i suoi attuali leader, in coerenza con la concezione del tempo tipica delle tradizioni culturali del loro Paese, descrivono come un processo secolare, caratterizzato da avanzate e ritirate. Prima di definire il “socialismo in stile cinese” come una banale formula ideologica escogitata per legittimare un processo di restaurazione capitalistica, sarebbe il caso di capire in che misura la stessa tradizione confuciana, oltre alla cultura anti individualista di quel popolo possano contribuire, quanto e più dell’adozione di una visione marxista del mondo e della storia, a tenere la Cina al riparo da tentazioni “progressiste” (nel senso negativo che Preve attribuiva al termine). Sono tuttavia convinto che, di fronte alle argomentazioni che ho appena sinteticamente citato, il nostro sarebbe stato disponibile a rettificare il proprio giudizio. Lecce, luglio 2020
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Introduzione di Alessandro Monchietto
1 La favola delle api, scritta da Bernard de Mandeville all’inizio del Settecento, rappresenta il mito di fondazione della modernità capitalistica. Come è noto narra di una società in cui avidità ed egoismo si rivelano essere l’ingrediente necessario per la prosperità: quando le api, prese dal disgusto per la propria miseria esistenziale, decidono di diventare oneste e sociali, la società si impoverisce e si disgrega. La morale della favola (che aveva come sottotitolo Vizi privati e pubbliche virtù) ha attraversato i secoli fino a divenire – tramite la metafora della “mano invisibile” – l’idea portante della teoria economica odierna, per la quale i meccanismi del mercato avrebbero la proprietà di risolvere l’egoismo individuale nella pubblica prosperità. L’esperienza più recente ci mostra invece che una società basata sul perseguimento dell’interesse privato, a scapito del benessere collettivo, impoverisce e distrugge la “nicchia ecologica” in cui la specie umana ha potuto prosperare e che – al contrario di quanto suggerito dalla favola – la cooperazione è
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l’ingrediente essenziale per raggiungere un progresso economico, scientifico e civile1. Per salvaguardare e ampliare le nostre conquiste sociali e materiali è necessaria una visione dei rapporti sociali che, superando l’antropologia dell’uomo economico, porti “le api” verso l’idea di un benessere che abbia come fondamento la naturale socialità umana. È quindi necessario scardinare l’apparente rima tra interesse personale ed egoismo, dando corpo a una antropologia filosofica opposta a quella mandevilliana. È questo, in sintesi, il cuore della proposta filosofica di Costanzo Preve, che si trova splendidamente condensata nel saggio Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale. Considerazioni politiche e filosofiche. Nell’introduzione che andrete a leggere si cercherà di identificare alcuni anelli che tengono insieme le fila del suo discorso, con la speranza di fornire plausibili chiavi di interpretazione e operare un inquadramento generale del testo, che ne agevoli la lettura e offra coordinate utili a proseguire autonomamente il percorso tracciato dall’autore.
1. Proseguendo sulla strada tracciata sinora, le generazioni future rischiano di non avere le stesse opportunità di cui noi abbiamo goduto, ed è verosimile che il quadro (sociale e naturale) che a esse trasmetteremo sarà privo di molte delle risorse di cui noi abbiamo beneficiato per conquistare il nostro benessere. Viviamo in un periodo senza precedenti nella storia dell’umanità: mai siamo stati così numerosi sulla Terra, mai abbiamo avuto una disparità così elevata tra i pochissimi che possiedono tantissimo e i tantissimi che possiedono pochissimo, mai abbiamo stravolto con questa ampiezza e in tempi così rapidi i sistemi naturali senza i quali non possiamo vivere, mai abbiamo messo così a rischio le esistenze degli altri esseri viventi che condividono con noi il pianeta, mai abbiamo intaccato così profondamente le basi che ci consentono di vivere, di avere benessere, prosperità e sviluppo. A riguardo alcuni commentatori sostengono che la società attuale sta di fatto colonizzando il futuro, proprio come i colonizzatori europei, in passato, hanno razziato le risorse dei Paesi colonizzati.
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2 Come ben sappiamo, lo studio di ogni vaccino inizia dalla comprensione della malattia da sconfiggere. Questo libro è animato dalla convinzione che ci sia bisogno di nuove osservazioni e analisi, di nuovi termini e di nuovi quadri concettuali utili a comprendere un contesto storico-politico che non ha precedenti. Nel suo La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Thomas Kuhn definisce paradigma una “costellazione di credenze, di valori, di tecniche e d’impegni collettivi condivisi dai membri di una data comunità, fondata in particolare su un insieme di modelli, di assiomi e di esempi comuni”2. Kuhn interpreta il progresso scientifico come una successione di paradigmi: ciascuno di essi diventa egemone quando è in grado di spiegare fenomeni che si erano rivelati incompatibili con la cornice concettuale precedente. Egli sostiene che in ogni epoca esista un paradigma dominante che fornisce il quadro di riferimento nell’ambito del quale la scienza progredisce. Talvolta appaiono delle “anomalie”, fatti nuovi incompatibili con il paradigma in vigore, problemi empirici che la scienza normale non è in grado di affrontare: emerge quindi la necessità di articolare un nuovo quadro concettuale. L’adozione da parte della comunità scientifica di un paradigma alternativo costituisce una “rivoluzione scientifica”. Secondo Preve l’analisi kuhniana può essere applicata, con qualche precauzione, anche alle scienze sociali e al pensiero filosofico.
2. Th.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr. it. di A. Carugo, Einaudi, Torino 1969, pp. 131-132 (tr. nostra).
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Fedele a tale assunto, la domanda di fondo che in questo saggio guida il suo ragionamento è: in che misura la categoria di Nemico Principale permette di dare un nome al presente, di rispondere alla domanda “in quale tempo viviamo”, di facilitare una nuova rivoluzione di paradigma?
3 Un’intuizione gramsciana guida la penna di Preve: la consapevolezza che la lotta politica, culturale e storica non consiste – come tende a credere (e a far credere) il pensiero liberale – nel rapporto tra tradizione e progresso, ma tra la parte subalterna e la parte egemonica del mondo3. Il saggio che il lettore stringe tra le mani si propone dunque di mettere in discussione in maniera sistematica, anche se non esauriente, i postulati e gli assiomi sottesi alla quasi totalità dei discorsi politici mainstream. Il pensiero dominante tende a presentarsi come una assiomatica, un sistema formale chiuso che struttura l’esperienza condivisa e dirige i ragionamenti quotidiani, dando una forma ai comportamenti individuali e collettivi4. Come evidenzia Foucault, dove vi è un’assiomatica vi è in un certo qual modo un sistema che funziona per default, quali che siano gli attori
3. Come noto Gramsci, nella sua continua pratica di vivisezione della vita sociale, definisce “egemone” un gruppo capace di esercitare a livello culturale, morale e politico la propria supremazia, improntando i rapporti con gli altri a una serie di norme e valori raffigurati come neutrali e universali, ma che in verità rispecchiano i suoi interessi e la sua visione del mondo, e che i gruppi subalterni accettano come verità e senso comune. 4. Cfr. R. Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 54-55.
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del discorso: l’obiettivo è produrre un luogo comune, un luogo condiviso, capace di strutturare l’esperienza e dirigere i ragionamenti, così da far funzionare lo scambio sociale nella sua ovvietà. È difficile avere dei punti di riferimento quando un complesso egemonico agisce in maniera incontrastata, occupa tutto lo spettro del campo politico, dà origine a un’immagine complessiva del mondo che precede e determina le dinamiche emotive e le prassi dei subordinati. In un tale contesto, il primo passo per decolonizzare il nostro immaginario deve essere dare il giusto nome ai fenomeni che subiamo, stabilire dei punti di riferimento e problematizzare ciò che appare ovvio o scontato.
4 Spinoza ricordava che chi detiene il potere ha costantemente bisogno di raccontare a se stesso e agli altri che le persone sono affette da passioni tristi, nella consapevolezza che alimentare tali passioni serva a rendere sempre più passivi e assoggettabili gli uomini. Fedeli a tale assunto, gli attuali tutori dell’ordine simbolico continuano imperterriti a ricordare che, se dalla storia è lecito trarre ammaestramenti, uno di questi è sicuramente la certezza secondo cui i nostri strenui tentativi di “mettere le cose a posto” producono spesso ancor più caos e confusione rispetto a quanto non ve ne fosse in precedenza, e che i nostri sforzi di eliminare contingenze e incidenti sono poco più che un gioco delle probabilità. Ci viene dunque ripetuto che – come tutti gli abitanti del secolo breve hanno amaramente appreso – anche i piani più
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accurati e studiati nei minimi dettagli hanno l’odiosa tendenza ad andare storti e a sortire risultati ben diversi da quelli sperati5. Stiamo vivendo in un periodo in cui la certezza che la storia avesse un senso (per dirla con Gaber «qualcuno era comunista perché noi siamo con la Storia, perché la rivoluzione? ...Oggi, no. Domani, forse... Ma dopodomani, sicuramente!»), un periodo in cui si era convinti che il capitalismo avesse “gli anni contati”, si è rovesciato dialetticamente nella sicurezza – tale da diventare un pilastro del senso comune – che il mondo che ci troviamo davanti sia qualcosa di immodificabile e intrascendibile. Il sistema è un grande Moloch invincibile, contro cui è inutile battersi e cui al massimo si può strappare qualche concessione.
5 Come amava ripetere Preve, gli artefici della seconda restaurazione6, agghindati ancora nei loro abiti cognitivo-mentali da sessantottini gaudenti, hanno assunto come principale mansione l’avvelenamento dei pozzi da cui avevano bevuto in gioven5. Davanti alle catastrofi mondiali, a quelle avvenute e a quelle incombenti, veniamo invitati ad abbandonare le “aggressività attivistiche” e a ritirarci nella confortevole sfera del lasciar stare. «Se non facciamo nulla – scrive a riguardo Peter Sloterdijk – non aizziamo neppure la tigre, dalla cui groppa non sarebbe poi agevole scendere; se si può “lasciar stare” non si verrà continuamente incalzati da progetti resisi autonomi. […] coltivando una prassi di sobria astensione, si eviterà di scatenare il circolo attivistico e vizioso della coazione a ripetere» (P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, ed. it. a cura di A. Ermano e M. Perniola, Garzanti, Milano 1992, pp. 418-419). 6. Cfr. A. Badiou, Il secolo, tr. it. di V. Verdiani, Feltrinelli, Milano 2006, p. 39.
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tù, affinché nessun altro possa più abbeverarsi. Parallelamente le giovani generazioni, abbagliate dai racconti dei padri e intrappolate nel cono d’ombra da questi generato, si limitano a riproporre l’anacronistico teatro di strada dei genitori e/o a metabolizzare una pietrificante delusione sociale per sconfitte che non gli appartengono e che non hanno mai vissuto. Quel che loro rimane – o, più giustamente, ciò che ritengono sia loro concesso – è l’auto-relegarsi in una sorta di opposizione di sua maestà, che al più sfonda porte aperte ed esibisce insolenze calcolate. I ragazzi che corrono con caschi e scudi di plexiglass per le strade, che salgono sui monumenti, che appaiono e scompaiono nelle periferie e nelle banlieue dando fuoco ad automobili e bidoni della spazzatura, mostrano come la degenerazione della politica in una forma di spettacolo (G. Debord) abbia non solo trasformato il fare politica in mera pubblicità (avvilendo il discorso politico e riducendo le elezioni a competizioni tra tifosi), ma abbia anche reso sempre più arduo il compito di organizzare una reale opposizione politica. Non serve a niente frantumare cabine telefoniche o incendiare auto se non si persegue uno scopo che integri l’atto in una prospettiva storica. La collera del distruttore di cabine e dell’incendiario si consuma infatti nella propria espressione: si limita al tentativo di fracassare la nebbia con un bastone. In questi episodi si palesa la completa assenza di una critica ragionata e ad ampio raggio dell’“edificio capitalistico”: gli odierni contestatori si contentano di mettere a soqquadro per un po’ una singola stanza, senza poi essere in grado di proporre alcunché che non si riduca banalmente ad un generico rifiuto di intaccare l’attuale stato di cose. L’utopia che ci guida non è più un sovvertimento radicale della realtà, ma l’idea che sia possibile mantenere uno stato so-
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ciale all’interno del sistema: «trenta o quarant’anni fa – scrive causticamente Slavoj Žižek – sognavamo il socialismo dal volto umano. Oggi, invece, l’orizzonte più lontano, più radicale, della nostra immaginazione è il capitalismo globale dal volto umano. Le regole del gioco restano le stesse, però lo rendiamo un po’ più umano, più tollerante, con un po’ di welfare in più»7.
6 In una situazione caratterizzata dalla disfatta, dalla dissoluzione e dal discredito delle istanze critiche che hanno dominato il Novecento, e in assenza di una teoria che renda possibile trasformare l’indignazione in argomentazioni che si pongano sul terreno della ribellione razionale, si è fatto strada negli ultimi decenni il profilo di una società “ringhiosa”, in cui si lotta sempre più duramente per conservare ciò che si ha e si rischia di perdere. Oscillando senza tregua tra colpevolizzazione di sé e demonizzazione del mondo, gli odierni figli di un io minore vedono nella loro posizione sociale il semplice riflesso delle proprie capacità; si limitano pertanto ad auto-incolparsi delle ingiustizie subite, senza mai scandagliare la linea che segna il confine tra istanze sistemiche e istanze biografiche. Da quando Margaret Thatcher ha sentenziato che la società – per la politica – «è morta», demandando qualsiasi responsabilità agli individui e costringendo i nuovi cittadini globali a trovare, come suggerito da Ulrich Beck, soluzioni biografiche
7. S. Žižek, La nuova beneficenza dei capitalisti, tr. it. di G. Cavallo, in «Internazionale», n. 869, 22 ottobre 2010, disponibile online: https://www.internazionale.it/opinione/slavoj-zizek/2010/10/24/la-nuova-beneficenza-dei-capitalisti.
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a contraddizioni sistemiche8 (detto altrimenti, a non fare più affidamento su alcun interlocutore istituzionale, ma solo sulle proprie capacità), è tramontato il vecchio concetto di Società ed è nata una nuova immagine del “sociale” come spazio che racchiude una molteplicità di soggetti senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini e sempre più soli nelle proprie vite. Nella seconda età del capitalismo (l’epoca – definita da Preve “dialettica” – del compromesso fordista, dall’avvento dello Stato assistenziale, della contrapposizione Borghesia-Proletariato), l’attività padronale era inquadrata da dispositivi regolamentari, da legislazioni fiscali, da strutture sociali, da tradizioni culturali, da una certa legislazione sul lavoro ecc. Il sistema era fondato su rapporti gerarchici all’interno dei quali era ancora possibile una certa contestazione: in tale situazione il dominio del Capitale si manifestava in modo esplicito come un rapporto di dominio fra persone. Paradossalmente il rapporto gerarchico permetteva la contestazione, mentre oggi il nemico è diventato del tutto impersonale, apparendo così incontestabile e inattaccabile.
7 In un capitalismo post-borghese e post-proletario ciò che sembra essersi rotto è precisamente il legame che collega la felicità del ricco all’infelicità del povero; le sventure (individuali e sociali) non appaiono più come crimini di un nemico contro cui puntare il dito e unire le proprie forze per contrastarlo e farlo retrocedere, ma come colpi del destino inferti da forze 8. Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, tr. it. di W. Privitera et al., Carocci, Roma 2000, p. 197.
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misteriose nascoste dietro nomi bizzarri e impenetrabili come: mercati finanziari, condizioni globali di scambio, competitività, catene transnazionali del valore. La società democratica scivola verso un lento collasso, le conquiste consolidatesi nel secondo dopoguerra appaiono – bullone dopo bullone – in corso di smantellamento, e i cittadini, abbandonati alla percezione della propria impotenza, non riescono a non adottare una postura ultraindividualista. Come auspicato dai padri fondatori della svolta neoliberale, oggi ogni soggetto viene portato a considerarsi e a comportarsi in tutte le dimensioni della sua esistenza come un portatore di capitale da valorizzare; nell’attuale epoca neo liberale la vita è una costante “gestione dei rischi” che richiede una rigorosa astensione dalle pratiche pericolose, il controllo permanente di sé e un oculato investimento delle proprie risorse (intellettive, relazionali, temporali, ecc.). La vita si presenta unicamente come il risultato di scelte individuali: la malattia, la disoccupazione, il fallimento scolastico, l’esclusione sono considerati semplicemente conseguenze di “calcoli sbagliati”9. Tali problematiche confluiscono in una visione contabile dei capitali che ognuno accumulerebbe e gestirebbe per tutto il corso della vita. Le difficoltà dell’esistenza, l’infelicità, la mise-
9. Secondo il dettato della “rivoluzione neoliberale” non si tratta semplicemente di trasformare tutti in tecnici o scienziati dell’economia, ma è in gioco qualcosa di più profondo: si può essere insegnanti, medici, operai, ma prima di essere questo si è economisti, nel senso che qualsiasi ambito professionale o persino personale comporta la gestione di ciò che si fa, delle risorse che si hanno e soprattutto di sé in quanto capitale, in quanto impresa da amministrare e che si auto-amministra. La funzione imprenditoriale appartiene al soggetto in quanto tale a prescindere da ciò che fa; tutto ciò che di specifico vuole essere può esserlo, ma a partire da il proprio amministrare, intraprendere, ecc.
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ria vengono descritte come fallimenti di questa gestione (per difetto di lungimiranza, prudenza, fermezza di fronte ai rischi). L’individuo subisce così un addomesticamento delle proprie reazioni di indignazione, che mano a mano lascia spazio alla rassegnazione e a una “predisposizione psicologica” a subire l’infelicità. Vediamo così emergere una nuova egemonia culturale e un rinnovato immaginario popolare, imbandito dalle élites a loro uso e consumo e a feroce difesa dei propri privilegi.
8 Il capitalismo assoluto non ha più bisogno della frusta del despota, come non gli servono i campi o i gulag del totalitarismo. Gli basta far leva su una supposta inevitabilità10. La storia tuttavia non finisce mai. Ciascun’epoca è segnata da nuove minacce e da eventi inediti, che obbligano ogni generazione a ridiscutere le mappe ricevute in eredità e la costringono ad affermare la propria volontà e immaginazione. Oggi arranchiamo nella difficoltà di non applicare, in una maniera ingenua o pigra, le chiavi interpretative che si sono sviluppate nell’Ottocento e nel Novecento. Ci troviamo così spaesati e ci scontriamo con uno dei più grossi problemi del nostro presente. Una persona spaesata è infatti strutturalmente esposta al rischio di percepirsi come responsabile della propria condizione svantaggiata e di adattarsi prudenzialmente al mondo
10. Di tale approccio fatalistico si fanno vettore gli innumerevoli evangelisti del nuovo capitalismo che – scaltramente – si servono surrettiziamente di una visione antropologica capace di far coincidere la nozione capitalistica dell’uomo con la natura tout court.
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così com’è, non essendo in grado di spezzare l’armonia della rassegnazione in cui si sente gettata. Una volta inghiottiti da tale visione del mondo non riusciamo a far altro che navigare a vista: non c’è rotta, ci si limita a cercare di schivare gli iceberg. O meglio, sappiamo chiaramente che il nostro futuro assomiglia a una bomba ad orologeria sepolta, di cui non conosciamo il momento della detonazione, ma che fa sentire nel presente il suo ticchettio; ma cerchiamo di coprirci le orecchie, lasciando che il mondo proceda as business as usual lungo un fatale e pericoloso piano inclinato.
9 Gli storici fanno spesso cominciare il XX secolo nel 1914. Allo stesso modo, un domani ci spiegheranno che il XXI è cominciato nel 2020, con l’entrata in scena del Covid-19. E gli occhiali del Novecento, a cui siamo tanto affezionati, non serviranno a interpretare quello che intravediamo avvicinarsi all’orizzonte, che si fa strada in quell’incessante fluire di eventi che ribolle attorno a noi. Il capitalismo assoluto che man mano prende forma è infatti un fenomeno senza precedenti. Quando ci troviamo di fronte a qualcosa senza precedenti tendiamo a interpretarlo ricorrendo a categorie familiari, ma questo rende del tutto invisibili proprio le sue caratteristiche inedite. Nei prossimi mesi, attraversando l’uscio di casa, entreremo in una società ancora più competitiva, atomizzata, sorvegliata e orientata al profitto. Ostinarsi a osservare lo stato attuale delle cose con lo sguardo incollato allo specchietto retrovisore, sarebbe suicida: se ragioniamo esclusivamente attraverso pratiche restaurative (ad es. dei vecchi assetti), se non saremo
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sufficientemente radicali nelle nostre analisi (prima ancora di esserlo nelle proposte), la deriva verso forme via via crescenti di democrazia autoritaria sarà inevitabile. Non possiamo continuare a pretendere di prevedere il futuro tramite il passato: dobbiamo avere l’umiltà di scoprirci concettualmente inermi. E da questa presa di coscienza, dovremmo provare a formulare nuove categorie che ci permettano di passare dalle semplici narrazioni di ciò che accade a dei veri e propri referti clinici, a delle categorizzazioni di ciò che viviamo. È giunto il momento di modificare radicalmente le nostre società, i nostri comportamenti, i nostri modi di pensare (di desiderare, di vivere), i nostri modi di relazionarci con gli altri esseri umani, con gli altri esseri viventi e con l’intera natura che ci circonda, e la bussola approntata da Preve in questi illuminanti saggi è un elemento indispensabile per chiunque voglia individuare possibili rotte verso nuove prospettive d’emancipazione.
Il nemico principale
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Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale Considerazioni politiche e filosofiche
1. Introduzione. Sul nemico principale. Commento di una recente formulazione di Alain de Benoist È certamente possibile dare molte definizioni diverse del concetto di “politico”. Una semplice elencazione dei significati è facile da raccogliere e da riassumere, ma in questa sede non c’è lo spazio, e neppure la necessità, di fare una lunga elencazione. Dico subito che per me il concetto di politico è inestricabilmente legato al concetto di conflitto di interessi e di visioni del mondo. Non credo alla pacificazione finale dell’umanità in una dimensione integralmente post-politica. Si tratta di un incubo amministrativo a base positivistica, in cui la politica, diventando completamente “scienza”, muore come politica e rinasce come scienza. Un incubo. L’incubo della cosiddetta “amministrazione delle cose” (Saint-Simon, Fukuyama, Gehlen, eccetera). Non c’è più storia, ma post-storia e fine della storia. Non c’è più politica, ma amministrazione scientifica della riproduzione sociale complessiva. Il peggiore degli incubi fantapolitici. Per fortuna, un incubo fantapolitico improbabile, perché, in sede di filosofia della storia, personalmente non credo ad una transizione definitiva dall’individualismo alla comunità, oppure viceversa ad una transizione definitiva dalla comunità all’individualismo.
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Marx ha qui ovviamente le sue (piccole) colpe, in quanto ha fatto capire, pur non sviluppando il tema, di credere al comunismo come fine della storia, e come esito finale di una costruzione sociale definitiva basata sul binomio «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», in assenza di famiglia, società civile e stato. Si tratta di un’utopia ultra-individualistica, ed è un peccato che solo pochissimi pensatori lo abbiano rilevato (Louis Dumont, eccetera). E dunque, di un’utopia due volte negativa (laddove vi sono invece utopie positive). Negativa perché pone un obiettivo politico del tutto impraticabile. E negativa perché, ammesso che sia praticabile (ma state tranquilli, non lo è!), del tutto non desiderabile, in quanto si tratterebbe di un incubo individualistico di individui sradicati da ogni appartenenza nazionale, linguistica, religiosa, eccetera, che si relazionano individualmente con una totalità astratta (ed astratta in quanto priva di determinazioni familiari, professionali e statali), che prende in considerazione soltanto le loro capacità ed i loro bisogni. Qui la pestifera egemonia del paradigma economicistico appare ad occhio nudo, in quanto soltanto all’interno di una radicale riduzione economicista il profilo antropologico dell’uomo può essere ridotto alle sole due dimensioni delle capacità e dei bisogni. Il discorso sarebbe appena incominciato, ma lo interrompo qui. Volevo infatti soltanto sottolineare che esiste purtroppo una pestifera variante “marxista” della fine della politica e della sua integrale risoluzione in amministrazione “neutrale” delle cose, e che bisogna abbandonarla, proprio per poter in qualche modo “salvare” le componenti emancipative del pensiero di Marx. Ho recentemente incontrato un vecchio amico di “sinistra”, cui ho fatto notare la pressoché totale sparizione nel mondo attuale del concetto di “nemico principale”, e del fatto che in politica è necessario saper individuare la differenza fra nemico ed avversario, fra nemico strategico ed avversario tattico, eccetera. Mi ha fatto subito virtuosamente notare che si trat-
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tava di una teoria di “destra”, proposta da quel presunto collaboratore di Hitler che era Carl Schmitt. Sono caduto dalle nuvole, di fronte a una simile virtuosa messa a punto. Naturalmente, ero a conoscenza della teoria di Schmitt (fra parentesi, tanto più realistica e rigorosa di quella coeva di Kelsen, del tutto indipendentemente dai giudizi politici rispettivi che se ne possono dare), ma in quel momento non pensavo affatto a Schmitt, ma pensavo invece a Marx (il nemico principale è la borghesia capitalistica), a Lenin (il nemico principale è la borghesia imperialistica del tuo stesso paese), e soprattutto a Mao Tse-tung (teorico della distinzione fra contraddizioni principali e contraddizioni secondarie). È vero che, per usare una corretta espressione di Slavoj Žižek, oggi Marx si prende soltanto “decaffeinato”, ridotto a semplice critico moralista degli eccessi liberistici e disegualitari del capitalismo. Ma è anche vero che dovrebbero esserci limiti al pecorismo belante che ha tolto alla politica ogni contenuto di conflitto strategico. Capisco che questa operazione manipolatoria venga fatta capillarmente da politici corrotti, circo mediatico e clero universitario subalterno e sottomesso di filosofia e di scienze sociali, ma che questo indegno belare pecoresco venga gratuitamente adottato da intellettuali marginali e poveracci è certo un segno degenerativo dei tempi in cui stiamo vivendo. Per questo ho letto con estremo piacere una formulazione di Alain de Benoist contenuta nella prefazione ad una raccolta di saggi della rivista francese «Rébellion». In questa formulazione viene messo a fuoco il problema politico principale di oggi, e per questo la riporto: «Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico. Il nemico principale occupa il centro del
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dispositivo. Tutti coloro i quali, in periferia, combattono il potere del centro, dovrebbero essere solidali. Ma non lo sono. Certuni credono che la cosa più importante sia di accertare da dove si viene e da quale punto di vista si parla». Alain de Benoist paragona costoro a delle persone che, quando una casa brucia, pensano che la cosa più importante sia il chiedere i documenti ai pompieri che vengono per spegnere il fuoco. E connota costoro con il gentile e moderato appellativo di “imbecilli”, per i quali ogni tentativo di edificare un pensiero politico nuovo non può essere che “sospetto”, in quanto sospetto di contaminazione e di infiltrazione. E qui, appunto, mi permetto di sviluppare una mia interpretazione originale. Nel decimo ed ultimo paragrafo di questo saggio trarrò le mie personali conclusioni in proposito. Dal quinto al nono paragrafo discuterò analiticamente nel merito le cinque connotazioni di de Benoist sul nemico principale, accettandole tutte nell’essenziale, ma con alcuni rilievi personali. Ma nel secondo, nel terzo e nel quarto paragrafo mi permetterò di fornire una mia interpretazione originale sulla categoria di imbecillità. Ci sono infatti due tipi di imbecillità: l’imbecillità naturale ed individuale degli imbecilli, e c’è invece l’imbecillità socialmente organizzata da gigantesche strutture ideologiche capillari. Anche l’imbecillità sociale, infatti, deve essere socialmente dedotta. Per poterlo fare, è necessario prima fare un sommario bilancio della tricentenaria filosofia politica moderna, mostrare come il cosiddetto postmoderno, anziché esserne un rinnovamento, non ne è che una provvisoria variante interna congiunturale e subalterna, ed infine mostrare che lo struzzo, l’animale caratterizzato dal mettere la testa sotto la sabbia in caso di pericolo, è l’animale totemico principale dell’attuale ceto intellettuale, uno dei più corrotti ed inutili della millenaria storia comparata dell’umanità.
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2. Le mort saisit le vif (Marx). Il peso inerziale ormai insopportabile della storia tricentenaria del profilo della filosofia politica moderna e della sua variante subalterna postmoderna Karl Marx scriveva in generale in tedesco, ma conosceva bene anche l’inglese e il francese, ed ogni tanto trovava qualche felice espressione in queste due lingue. Ad un certo punto esce nell’espressione francese le mort saisit le vif, che potremmo tradurre, ampliandola, come «il morto afferra il vivo e lo fa prigioniero». Ed il vivo, afferrato dal morto, diventa prigioniero di come il morto interpreta la realtà, delle sue categorie culturali, politiche, sociali, economiche, eccetera. Si tratta ovviamente non di un morto normale, ricordato, venerato e seppellito, ma di un vero e proprio zombie del vodoo haitiano, un morto che di notte lascia il cimitero e percorre le strade. Bene, l’attuale situazione della filosofia politica europea dominante negli ambienti intellettuali, incorporata nella megamacchina della imbecillità socialmente organizzata, è esattamente quella descritta da Marx: le mort saisit le vif. Il fatto è del tutto intuitivo, e non avrebbe bisogno neppure di dimostrazione (i politologi parlano di post-democrazia, dal momento che è del tutto evidente che la decisione politica pubblica è stata ridotta ad una totale impotenza dal sovrastare della riproduzione economica totalmente autonomizzata). E tuttavia, sia pure in forma sintetica, ne fornirò qui una breve esposizione per i (pochissimi) lettori interessati a ripercorre la genesi e lo sviluppo delle categorie del pensiero politico moderno. In proposito, due precisazioni preliminari. In primo luogo, il termine “moderno” non è che la versione generico-neutrale-universitaria dell’oggetto storico che Marx in modo più adeguato connota come «modo di produzione capitalistico». Certo, la cosiddetta “modernità” comincia molto prima dell’inizio – in Inghilterra – della prima rivoluzione in-
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dustriale (1760 circa), e per almeno due secoli è profondamente intrecciata alla società feudale-signorile (più esattamente: alla società signorile tardo-feudale e proto-capitalistica). Ma qui si parla di un fenomeno più ampio ed articolato, in cui la transizione in Europa dalla dominanza del modo di produzione feudale alla dominanza del modo di produzione capitalistico è indagata come e fenomeno complessivo (e non soltanto economico), dura alcuni secoli, e precede ovviamente l’instaurazione della società industriale vera e propria. Anche qui, come in altri casi, bisogna rifiutare e respingere il ricatto dell’economicismo, che vorrebbe imporci la sua chiave interpretativa della storia generale, vista come successione di formazioni tecnologico-economiche. In secondo luogo, la comprensione del fatto che la categoria di “modernità” è una categoria storica, e non solo la registrazione fattuale di una presenza (modo in latino vuol dire “adesso”, per cui modernità vorrebbe unicamente dire ciò che sta adesso, oggi e non ieri), e che quindi la categoria marxiana di modo di produzione è migliore, perché più concreta e determinata, porta subito a rifiutare la dicotomia che generalmente insorge fra storia del pensiero economico e storia del pensiero politico. Ci sarebbero infatti due storie distinte, una del pensiero economico (fisiocratici francesi, Smith, Ricardo, Malthus, eccetera), ed una del pensiero politico (Hobbes, Locke, Rousseau). Niente di tutto questo. L’organismo capitalistico è unico, anche se un unico organismo può chiedere consulenze differenziate ad un ortopedico ed a un reumatologo. Traiamone quindi almeno tre conseguenze preliminari: 1) La costituzione nel mondo del modo di produzione capitalistico fra il Cinquecento ed il Novecento è unica, e deve essere considerata da un punto di vista gestaltico come “unica”, sia pure nelle sue quattro determinazioni acquisitive principali (espropriazione interna delle comunità contadine ed artigiane, appropriazione privatistica delle proprietà comunistico-comu-
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nitarie tribali in Africa, Asia ed America, distruzione dei grandi dispotismi comunitari statualmente organizzati – Incas, Cina, India, impero ottomano, eccetera – ed infine distruzione del comunismo storico novecentesco, inteso come esperimento di ingegneria sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodetica protetta). Chi non è in grado di contare fino a quattro, e di vedere l’unità del processo che sta alla base di queste quattro superficiali determinazioni, deve essere inesorabilmente respinto agli esami propedeutici del primo anno di storia universale comparata del genere umano. 2) Il modo di produzione capitalistico coincide in linea generale con ciò che viene generalmente chiamato “modernità” in modo pudicamente tautologico. Se il termine “modernità” venisse inteso come il solo aspetto culturale specifico della legittimazione simbolica del modo di produzione capitalistico, allora potrebbe essere generosamente accettato con riserva. Ma così purtroppo non è. Il termine è arrogante ed autoreferenziale, e vuole essere accettato senza discussioni come il portato inevitabile dell’avvento di una divinità idolatrica chiamata Progresso, di cui gli illuministi, i liberali, gli economisti, i positivisti e gli scienziati sarebbero i membri delle cinque principali scuole teologiche di legittimazione. Ma questa sfacciata pretesa non deve essere accettata. 3) Di conseguenza, non bisogna accettare, neppure in via ipotetica, la separazione fra storia del pensiero economico moderno e storia del pensiero politico moderno. Esiste una sola ed unica storia, che si divide non certo fra politici ed economisti, ma fra coloro che accettano questo modello “moderno” e coloro che lo respingono. Scendiamo ora brevemente nel dettaglio, in particolare sul primo e sul terzo punto, mentre tralascerò il secondo, che richiederebbe un lungo e noioso approfondimento mariologico sulla liberazione del concetto marxiano di modo di produzione dalla sua pestifera interpretazione riduzionistico-economicistica.
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Partiamo dal primo punto. Non nego che la cosiddetta “modernità” (in Europa occidentale, almeno) abbia avuto pittoreschi aspetti culturali positivi: rinuncia al rogo di streghe ed eretici, liberalizzazione dell’uso del fazzoletto sui capelli femminili e passaggio all’ostentazione del piercing nell’ombelico adolescenziale, buone maniere a tavola anziché suzione del brodo nella forma dell’idrovora dell’ippopotamo nel fiume, chiusura della porta se ci si siede sulla tazza del cesso, eccetera. Tutto questo è certamente interessante, ma non può essere fatto diventare il centro dell’universo storico. Il concetto di modo di produzione di Marx è migliore di quello generico di “modernità” per il fatto che permette di pensare concettualmente l’unità di un processo storico, che altrimenti si frantumerebbe in briciole e frammenti. E, appunto, esaminiamo ora quattro fenomeni storici che i manuali di storia non mettono mai in relazione reciproca, ma che se non vengono messi in relazione reciproca appaiono come se non avessero nessun rapporto l’uno con l’altro. Ed invece così non è. E per mostrare che così non è esaminiamoli ancora una volta analiticamente, anche se li ho già enumerati in precedenza. Sono quattro, appartengono a diversi momenti storici, sono inseriti in una “non-contemporaneità” (il termine è di Ernst Bloch), ma hanno però, come vedremo facilmente, un minimo comun denominatore, cioè si oppongono tutti alla piena affermazione, storica e geografica, del modo di produzione capitalistico nella sua forma più pura: a) La proprietà privata capitalistica in Europa è nata e si è sviluppata privando delle loro proprietà parcellari e/o comunitarie i precedenti proprietari. Tutto questo è dettagliatamente dimostrato da Marx nell’ultima sezione del primo libro del Capitale (1867). Di tutti i verbi, il verbo “privare” è il più dialettico nel senso hegelo-marxiano del termine, in quanto il suo carattere transitivo produce il suo esito intransitivo. Del resto, era già così etimologicamente in latino. I proprietari pri-
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vati erano originariamente i plebei, “privati” dal libero accesso all’ager publicus, la cui “pubblicità”, comunque, era la sua dimensione comunitario-tribale delle cosiddette aggregazioni gentilizie di carattere tribale (ma in questo l’antica Roma non si differenzia troppo dall’antica Atene prima di Solone e poi di Clistene. La costituzione della proprietà privata europea di tipo capitalistico, correttamente definita da Marx in termini di «accumulazione primitiva del capitale», è una lunga storia di espropriazione di forme proprietarie precedenti, in piccola parte feudali-signorili, ma in parte molto maggiore “popolari”, in senso comunitario, contadino ed artigiano. Non entro qui nei dettagli, che considero noti a tutti coloro che hanno seguito a scuola un corso di storia generale medievale, moderna e contemporanea. b) Nella prima espansione colonialistica europea della seconda metà del Quattrocento (Portogallo con finanziamento prima genovese e poi tedesco e fiammingo, Spagna, Olanda, Francia, Inghilterra, eccetera) la civiltà europea, fondata sul diritto romano e sulla conseguente “naturalità” della proprietà privata, si trovò di fronte a società tribali di proprietà collettiva e comune, la cui “primitività”, prima ancora che nei costumi sessuali, fu individuata nella mancanza di proprietà privata delle risorse naturali. In proposito (e rimando qui ai due illuminanti studi di Giuliano Gliozzi pubblicati dalla Loescher negli anni Settanta) la teoria della razza e la teoria della proprietà privata si svilupparono contestualmente in modo intrecciato: colui che veniva discriminato su basi razzistiche era, guarda caso, colui che si poteva legalmente espropriare della sua proprietà, parcellare o comunitario-tribale. La complementarietà di questo processo esotico di espropriazione con il processo interno di espropriazione non è mai sottolineata dai manuali di storia, che trattano questi due processi come se si trattasse di fenomeni separati da un’ideale muraglia cinese. Ancora una volta, per parafrasare Marx, le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti.
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c) A fianco delle società tribali di tipo comunistico primitivo (oppure, se si vuole usare l’espressione di Hosea Jaffe, di dispotismo comunitario), l’occidente si trovò di fronte dei veri e propri dispotismi statali organizzati, sia di tipo “idraulico” (la Cina di Wittfogel), sia di tipo diverso (l’impero musulmano indiano Moghul, l’impero peruviano degli Incas, le cittàstato Maya, l’impero ottomano, i regni dispotici dell’Indocina e dell’Indonesia, il regno del Madagascar, eccetera). In quasi tutti questi casi si era di fronte ad una proprietà statale della terra, che apparteneva al despota, e che lasciava però la massima autonomia alle comunità produttrici che avevano soltanto obblighi fiscali (spesso pesanti, talvolta leggeri, eccetera). L’occidente doveva frantumare questa proprietà dispotica, esattamente come doveva frantumare la precedente proprietà comunistico-comunitaria delle tribù. Anche in questo caso, i manuali di storia non permettono di cogliere l’unità del processo. d) La storia novecentesca, in particolare nel secolo breve 19171991, ha visto una quarta ed ultima (per ora) modalità di espropriazione capitalistica rivolta ad una società non capitalistica. Nonostante alcune valutazioni di tipo settario (Bordiga, Bettelheim, eccetera), ritengo che il modello di comunismo storico novecentesco realmente esistito, da non confondere assolutamente con il modello astratto di comunismo-utopico-scientifico di Marx (in proposito, l’ossimoro è volontario ed intenzionale), sia stato un esempio di proprietà collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico, anche se ovviamente deformata da rapine burocratiche di vario tipo. Al netto di crimini e di errori, che non posso certo discutere qui, si è trattato non certo dell’applicazione di un modello precedente di Marx cui “riaccostarsi” oppure “discostarsi” (questa è stata soltanto l’immagine fantasmatica della falsa coscienza necessaria degli intellettuali creduloni autodefinitisi “marxisti” in assenza della smentita di Marx, che sarebbe stata possibile soltanto attraverso l’evoca-
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zione dell’anima del Defunto Fondatore), ma di un gigantesco esperimento di ingegneria sociale sotto cupola geodetica protetta. Questo esperimento, ad un certo punto, è finito con una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuato attraverso una maestosa controrivoluzione delle classi medie sovietiche. Ma di questo fenomeno è impossibile parlare ulteriormente qui per ragioni di spazio. Ciò che conta, invece, è cogliere concettualmente l’unitarietà profonda di questi quattro fenomeni. Se la si coglie (ma in proposito il mio pessimismo è molto forte, perché so quanto è difficile acquisire un simile riorientamento gestaltico), allora si è in grado di cogliere la seconda tappa del nostro ragionamento, l’unitarietà profonda del pensiero economico e del pensiero politico del capitalismo, che tutti i manuali separano metodologicamente, appunto perché questa unitarietà non venga colta. Ed in cosa consiste questa unitarietà? In estrema sintesi, consiste nella comprensione, difficile ma non impossibile, per cui il fondamento politico della società capitalistica si basa a sua volta su di un altro fondamento più importante, la costituzione autonoma del mercato e dello scambio attraverso appunto un’autofondazione integrale, del tutto svincolata sia da premesse filosofiche (il diritto naturale), sia da premesse politiche (il contratto sociale). Ma cerchiamo di spiegarci meglio, attraverso alcuni rapidi ed essenziali passaggi. Sulla base di una deduzione sociale delle categorie del pensiero a partire dall’essere sociale che ne fa da base di riferimento, i concetti filosofici risultano quasi sempre (non sempre) essere delle metafore di rapporti sociali. Ad esempio, il concetto greco di infinito-indeterminato (l’apeiron di Anassimandro) appare essere la proiezione astratta di un fatto sociale reale, il pericolo di dissoluzione comunitaria provocato dalla dinamica di infinitezza e di indeterminatezza del
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potere del denaro e della proprietà privata, non frenata dalla ragione e da un giusto equilibrio armonico delle proprietà (il logos calcolistico di Pitagora, di cui il sistema politico di Platone è solo una formulazione ateniese altamente coerentizzata e passata attraverso il filtro della razionalità dialogica di tipo socratico). Per fare un secondo esempio, la categoria idealistica di concetto (il Begriff di Hegel) appare essere il conseguimento della libera autocoscienza da parte di una soggettività matura ed autonoma. La manualistica dossografica, che si spaccia per storia della filosofia e ne è lontana come i ghiacci eterni dai mari equatoriali, crede che termini come apeiron, logos, e Begriff siano semplici ed opinabili contenuti di coscienza. In questo modo ogni accesso alla conoscenza è sbarrato. E questa vale anche e soprattutto per il pensiero politico moderno, o più esattamente per la fondazione economica del pensiero politico moderno, che sorge dopo, e non prima, l’autonoma fondazione su se stessa, senza alcun rimando esterno precedente, della società capitalistica. A proposito della natura dell’empirismo, molte storie della filosofia impostano scorrettamente la questione, presentandolo come una delle tante possibili teorie della conoscenza, più plausibile di altre in quanto rinuncia al presupposto indimostrabile della rivelazione divina e delle cosiddette “idee innate”. Ma non è così. L’empirismo è l’unica teoria filosofica realmente affine ed omogenea alla produzione capitalistica generalizzata, perché la sola esperienza realmente verificabile (in campo sociale, ovviamente), è lo scambio mercantile. Non esistono infatti altre esperienze sociali sperimentabili, in una società capitalistica astrattamente considerata nella sua purezza idealtipica, al di fuori dello scambio mercantile. Tutto il resto, ma proprio tutto il resto, è soggettivo, opinabile, relativo, diversamente valutabile ed interpretabile. Soltanto lo scambio mercantile, e null’altro, è infatti possibile in forma scientificamente quantitativa, sul modello delle leggi di natura, e
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non è un caso che Adam Smith abbia considerato come fondamento quantitativo della società capitalistica la cosiddetta legge del valore-lavoro, per cui le merci si scambiano secondo i vari tempi di lavoro sociale astratto medio contenuti in esse. Qui l’empirismo, e cioè l’esperienza dello scambio mercantile, diventa “scienza”, sulla base della teoria del valore-lavoro. La critica dell’economia politica di Marx, in poche parole, si basa sul rovesciamento dialettico dell’empirismo (di Locke) in idealismo (di Hegel), attraverso l’identità di valore e di alienazione, e cioè attraverso l’identità contraddittoria del concetto economico di valore e del concetto filosofico di alienazione. Chi non comprende che tutto il tessuto concettuale della critica marxiana dell’economia politica si basa sul rovesciamento dialettico dell’empirismo mercantile capitalistico in idealismo comunitario comunista non può che restare tristemente al di fuori di essa. La critica di Locke all’idea “metafisica” di sostanza è generalmente considerata come un’intelligente posizione di teoria della conoscenza. Non è affatto così. Questa è l’apparenza, non l’essenza. In realtà, la sostanza è sempre stata, fin dai tempi antichi, la metafora della base sociale comunitaria su cui si fondavano i rapporti umani. Il precedente teorico del concetto di sostanza, infatti, è il concetto di Essere di Parmenide, che presumibilmente esprime in forma metaforica la stabilità e la permanenza eterna nel tempo del modello della buona legislazione pitagorica dei rapporti politici della polis (in questo caso, della polis di Elea), che a sua volta è il presupposto del concetto di Idea di Platone, che presumibilmente esprime in forma metaforica lo stesso contenuto dell’Essere parmenideo, e cioè la perfezione ideale insuperabile del modello politico di convivenza comunitaria. In Aristotele, teorico della sostanza, l’universalità in senso pieno è propria non del genere ma della specie, e più esattamente della specie Uomo, inteso come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon) e come
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animale dotato di ragione, linguaggio, capacità di persuasione politica e capacità di calcolo sociale delle corrette proporzioni della ricchezza e del potere (zoon logon echon). La pensabilità sociale della nuova società capitalistica è impossibile su basi aristoteliche. Per primo Hobbes colpisce al cuore la teoria aristotelica della natura umana, contrapponendole una natura bellicosa e proprietaria. La negazione di Locke della teoria della sostanza mira a negare che al di sotto dello scambio mercantile ci sia qualcosa che sia irriducibile ad esso (una “sostanza”, appunto), per cui la società intera è ricostrui ta pensandola come una rete di scambi mercantili individuali. Ma l’individuo è appunto un Robinson, che fonda il suo diritto alla proprietà nell’isola deserta sulla base del suo lavoro (e del resto Defoe e Locke vivono negli stessi anni). Si tende in genere a presentare Kant come un avversario dell’empirismo, e questo è certamente vero nel campo della pura teoria della conoscenza, ma dal punto di vista della morale sociale Kant è individualista esattamente come Locke. E tuttavia, il pensiero politico specificatamente capitalistico nasce in Scozia, con il binomio Hume-Smith. Bisogna comprendere fino in fondo che tutta la filosofia politica del capitalismo si basa su di un solo ed unico fondamento rigidamente monoteistico, l’autofondazione dell’economia su se stessa, senza alcun precedente intervento filosofico (il diritto naturale) oppure politico (il contratto sociale). Questa egemonia durerà fino a quando (e non è ancora successo) essa verrà sostituita da un paradigma alternativo per cui lo scambio economico dovrà essere legittimato, e quindi anche di fatto limitato, da una decisione politica a sua volta fondata su basi filosofiche (e cioè una teoria del Male Sociale). Il fattore economico, ovviamente, non scomparirà affatto, ma verrà subordinato alla fondazione filosofica ed alla sua derivazione politica. Si tratta della maggiore eredità della tradizione greca classica, e chi ci si ricollega potrà essere tranquillamente definito un pensatore
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tradizionalista (così io interpreto, ad esempio, Averroè, Tommaso, Spinoza, Hegel e Marx). Facciamola corta. Noi ereditiamo quindi almeno trecento anni di filosofia politica, la cui corrente principale è solo falsamente e fintamente “politica”, perché accetta il presupposto della autofondazione dell’economia su se stessa. Il migliore teorico di questa autofondazione dell’economia su se stessa è stato David Hume, per cui bisogna prima di tutto liberarci dalla ingannevole nozione di causalità. La società si autofonda senza alcuna causalità sulla semplice abitudine allo scambio, e non c’è ovviamente nessun bisogno di ipotizzare una “causazione” politica da parte di un inesistente contratto sociale. A sua volta, se non esiste un contratto sociale, non esistono neppure i suoi presupposti filosofici indimostrabili, che sono le (inesistenti) norme del diritto naturale. Il modello metafisico di Hume si fonda su tre pilastri negativi (inesistenza di Dio, inesistenza del diritto naturale, inesistenza del contratto sociale) e di conseguenza su di un solo pilastro positivo che può sfuggire al suo “scetticismo”, e cioè lo scambio mercantile. Al di fuori dello scambio mercantile, non si può e non si deve dimostrare proprio nulla. Empirismo, scetticismo, individualismo, ecco la trinità materialistica della nuova fondazione capitalistica. Il fatto che per alcuni secoli la società capitalistica abbia ampiamente utilizzato le tradizioni religiose della massa, insieme con la complicità degli apparati sacerdotali (di tutti indistintamente gli apparati sacerdotali, cattolico, protestante, ortodosso, ebraico, musulmano, eccetera) ha fatto pensare ai rivoluzionari che abolita la religione si sarebbe anche aperta la strada concettuale per il superamento della società capitalistica. Errore. Errore comprensibile, ma sempre errore. Lo spirito del capitalismo non sopporta a lungo termine un principio che gli sia superiore (Dio infatti, se esiste, è certamente un principio di legittimazione superiore alla semplice autofondazione economica capitalisti-
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ca). Ed infatti oggi lo sbaraccamento simbolico della religione, tollerata soltanto come agenzia caritativa di assistenza ai migranti, ai marginali ed ai poveracci, è sotto gli occhi di tutti. Fa eccezione, ma è una eccezione soltanto apparente, la religione eccezionalistico-messianica dell’impero Usa, ma non si tratta più di una religione, quanto di un culto imperiale di dominio. I manuali di storia dell’oligarchia dominante presentano gli ultimi due secoli come lo scenario di una progressiva felice fusione fra il liberalismo e la democrazia, con la finale mescolanza ben riuscita del principio liberale delle tutele dell’individuo e del principio democratico della sovranità popolare. Si tratta di una tragicomica mistificazione, che alla luce del presente (2010) permette di illuminare meglio il modo in cui ci hanno mentito nella interpretazione globale degli ultimi due secoli. La sovranità popolare è qualcosa che avrebbe senso soltanto in un contesto di sovranità della politica sull’economia, o più esattamente della decisione politica comunitaria sui meccanismi ciechi ed anonimi dell’economia (ed era infatti così che intendevano la democrazia gli antichi greci, che solo un ignorante e/o un mascalzone possono indicare come nostri predecessori in “democrazia”). In quanto al primato dell’individuo, vi è oggi certamente una speciale attenzione al primato del consumatore (sia pure manipolato dalla pubblicità e dai modelli coattivi di conformismo consumistico), ma all’individuo è stato tolto addirittura il fondamento della sua consistenza sociale, la stabilità a lungo termine del lavoro. È quindi in un certo senso vero che il liberalismo e la democrazia si sono fusi in liberaldemocrazia, purché si aggiunga che la liberaldemocrazia è un involucro vuoto, in cui una concezione individualistica ed anomica del liberalismo prevale sullo svuotamento integrale della decisione democratica sovrana. Per questa ragione la cosiddetta “liberaldemocrazia”, essendo appunto inesistente, non presenta alcun interesse teorico. L’inesistente fa parte dell’invenzione letteraria ed artistica, non
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della riflessione filosofica. Il solo “esistente”, per quello che ci interessa, è il tentativo storico di rovesciare la vera “legge di Hume” (non certo la fallacia naturalistica, del tutto inesistente e cibo per imbecilli), e cioè la totale autofondazione dell’economia su se stessa senza presupposti filosofici e politici. Nell’Ottocento si è trattato di quel vario e meraviglioso fenomeno chiamato “socialismo”, di cui il marxismo è stato soltanto un episodio, e neppure il più importante (anche se Marx continua a godere di una certa superiorità teorica sugli altri pensatori, almeno a mio parere). Dal momento che il socialismo, globalmente inteso, si fondava sulle classi popolari, proletarie ed operaie che fronteggiavano la borghesia liberale, si deve purtroppo arrivare alla triste e sconsolata conclusione, in sede di bilancio storico privo di geremiadi moralistiche di accompagnamento, che la borghesia nel suo complesso è una Signora Classe, immensamente più performativa ed abile del Volenteroso ma anche Penosissimo e Confuso Proletariato. Questa può sembrare una formulazione aristocratica, superomistica e di “destra”. Neppure per sogno. Si tratta semplicemente di una libera e pittoresca sintesi del pensiero di Lenin. La teoria del partito comunista di Lenin ha come sua premessa (spesso taciuta per motivi di politicamente corretto retroattivo) il bilancio storico secolare della totale impotenza ed incapacità strategica delle classi popolari intese nella loro immediatezza culturale e sociologica. Del resto, il 1976-1978 in Cina ed il 1989-1991 in Urss lo hanno ampiamente dimostrato. Eliminato il partito, o meglio corrotto fino alle midolla (cambiato di colore, nel lessico di Mao), le classi popolari sono tornate ad essere volgo disperso ed esercito industriale di riserva. Senza Lenin, Stalin, Mao, Castro, eccetera, le classi popolari sono ridotte a battere penosamente i tamburi delle sfilate dei metalmeccanici. Il comunismo storico novecentesco realmente esistito, pur avendo poco o nulla a che fare con il modello teorico utopi-
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co-scientifico di Marx (l’ossimoro è come sempre intenzionale), è però storicamente stato qualcosa di meraviglioso, e da rivendicare totalmente in tutti i suoi aspetti, positivi e negativi (inclusi ovviamente Stalin e Mao). Si è trattato di un maestoso esperimento di ingegneria sociale di tipo positivistico sotto cupola geodetica protetta, rovesciato alla fine da una altrettanto maestosa controrivoluzione dei ceti medi. Ma di questo ho già parlato. La ripetizione serve soltanto a non far mancare l’occasione di dire che è stato una cosa meravigliosa, e la sua fine è stata la più grande catastrofe storica del Novecento. E tuttavia la fine del comunismo storico novecentesco ci costringe a cambiare decisamente il nostro scenario politico di orientamento. Ma qui appunto le mort saisit le vif. E le mort saisit le vif perché tutte le strutture ideologiche ereditate dal Novecento vogliono inchiodarci ai contenziosi simbolici dello scenario novecentesco, prima fra tutti la dicotomia FascismoAntifascismo. Dicotomia che ha naturalmente avuto un’importanza centrale in Europa fra il 1919 ed il 1945, ma che oggi non esprime più un contrasto reale, ma funziona da semplice protesi manipolatoria di legittimazione simbolica. Ed è questo allora il problema. Quanto tempo ancora deve passare perché si possa dire che le mort ne saisit plus le vif, per dirla con Marx?
3. Il primato dello struzzo. Lo struzzo come animale totemico-tribale nel passaggio dal realismo storico-politico al moralismo ostensivo testimoniale Il filosofo americano Charles Peirce ha studiato in modo sistematico il modo in cui vengono acquisiti e “fissati” nella mente i convincimenti e le credenze. I modi sono sostanzialmente
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quattro, ma qui non c’è lo spazio, e neppure la necessità, di indagarli tutti. Ne varrebbe la pena, perché Peirce conclude in modo disincantato che l’indagine razionale, liberata da autorità indiscusse e testardaggini identitarie, riguarda soltanto un numero ristrettissimo di individui. Maggioritario è invece il comportamento dello struzzo, che piuttosto che dover essere messo in condizione di mettere in dubbio le proprie credenze, preferisce mettere la testa sotto la sabbia. E tuttavia, questo non deve stupire. Nel prossimo paragrafo, distinguerò fra imbecillità naturale e imbecillità socialmente organizzata. Come è ovvio, soltanto la seconda può essere fatta oggetto di analisi storica e politica, laddove la prima è soltanto oggetto per psicologi, insegnanti e parenti trasecolati. Ma la figura dello struzzo merita un approfondimento maggiore. Perché l’uomo, che non è uno struzzo, si comporta come uno struzzo? Questo è certamente comprensibile in alcuni casi limite dell’esistenza umana concreta (ad esempio, la persona che rimuova la propria malattia inguaribile per vivere più serenamente ciò che gli resta da vivere), o anche in alcuni casi più correnti (ad esempio, chi rimuove la conoscenza di un adulterio per quieto vivere o per sfiducia in una ricomposizione impossibile), ma diventa meno comprensibile in alcune questioni generali di tipo conoscitivo, filosofico e politico. Eppure, non ci si dovrebbe stupire. L’uomo teme soprattutto la solitudine culturale e politica, insieme con la dissoluzione di precedenti legami di tipo identitario, politico ed ideologico. È pertanto del tutto logico che la sua mente funzioni come un selettore automatico, o meglio come una saracinesca, che si chiude quando cercano di passare argomentazioni che potrebbero realmente mettere in crisi i suoi convincimenti. Personalmente ho fatto tante volte l’esperienza pratica di comunicazioni impossibili e di immediate attivazioni della strategia dello struzzo
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da non considerarla neppure più patologica, ma del tutto normale. Mi stupisco, invece, quando molto raramente mi trovo di fronte a quella che dovrebbe essere la situazione socratica normale, e cioè la disponibilità a mettere dia logicamente in discussione la propria identità. Sono giunto in proposito a conclusioni molto pessimiste, a proposito della possibilità trascendentale della comunicazione filosofica fra le persone. Prima viene la preservazione dell’identità, poi viene il pericolo della messa in discussione dell’appartenenza, soltanto terza ed ultima viene la disponibilità all’ascolto ed al dibattito. Prima viene lo struzzo, poi viene la pecora, animale gregario per eccellenza spaventato dal proprio cane da pastore, e per ultimo viene il lupo solitario. E tuttavia, bisogna uscire dal generico e cercare di capire la ragione odierna dell’assoluta prevalenza della figura dello struzzo. In proposito, espliciterò qui la mia personale interpretazione storico-psicologica del fenomeno dello struzzismo. Subito dopo la tragicomica dissoluzione del comunismo storico novecentesco realmente esistito (da distinguere da quello utopico-scientifico di Marx e da quello onirico-fantasmatico degli intellettuali di sinistra e delle anime belle politicamente corrette), la poderosa macchina ideologica delle oligarchie vincitrici si mise immediatamente in moto. Si trattava infatti di consolidare e rendere stabile la gigantesca vittoria conseguita, e questo richiedeva una immediata trasformazione del precedente apparato ideologico. Il precedente apparato ideologico si basava su una dichiarazione: che l’idea egualitaria di socialismo era buona, ed era soltanto cattiva la sua forma dispotica e totalitaria (Stasi, Kgb, Securitate, eccetera), per cui si evocava una sorta di socialdemocrazia svedese in Russia, con tutti contenti e garantiti, soltanto con un po’ di economia mista, di piccola e media proprietà privata e di integrale libertà di stampa e di espressione. E chi non vorrebbe un simile paradiso norvegese? Ovviamente, tutti lo vorrebbero.
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Si trattava, ovviamente, di una sporca menzogna, rivolta a quel gruppo di inguaribili deficienti denominati “intellettuali di sinistra”. Subito dopo il crollo non arrivarono Oslo, Stoccolma e Copenaghen, ma arrivarono gli oligarchi mafiosi ed assassini, lo smantellamento di tutti i servizi sociali, la morte per fame ed inedia dei pensionati, eccetera, il tutto seguito dalla gigantesca emigrazione maschile e femminile in occidente. Al posto dei servizi sociali svedesi, la feroce accumulazione del capitale di cui aveva parlato Marx, che ha fatto sì che nel paragrafo precedente io abbia intenzionalmente collocato la distruzione del comunismo storico novecentesco come quarto esempio unito ai tre precedenti (espropriazione delle classi subalterne interne, espropriazione delle comunità “selvagge” comunistico-comunitarie, frantumazione dei dispotismi asiatici). E tuttavia, la macchina ideologica delle oligarchie doveva impadronirsi simbolicamente del passato, per poterlo riscrivere a suo modo, seguendo qui una prassi assolutamente abituale da circa quattromila anni (damnatio memoriae, eccetera). Il Novecento doveva essere ridefinito come Secolo degli Orrori, o più esattamente delle utopie totalitarie e delle ideologie assassine. Si trattava di una strategia ideologica molto buona, che anch’io avrei certamente consigliato se mi avessero prezzolato come consulente ideologico. Il fallimento del comunismo storico novecentesco era in questo modo del tutto decontestualizzato dalle sue concrete motivazioni storiche e politiche determinate (in estrema sintesi, dalla pittoresca incapacità egemonica della sua base sociale e sociologica, le classi subalterne delle fabbriche e dei campi, dipendenti al cento per cento dalla struttura partitico-dispotica che la teneva politicamente insieme), per essere inserito in una teodicea metafisica dell’intera storia umana, che poteva essere riassunta in un solo semplice insegnamento definitivo: mai più provarci a cercare di rovesciare le classi dominanti, perché il provarci ancora una volta avrebbe inevitabilmente comportato il secolo degli orro-
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ri (1), le utopie totalitarie (2), e infine il regno delle ideologie assassine (3). Per i supercolti allievi di facoltà universitarie si poteva sempre aggiungere altri elementi di contorno, come l’incredulità rispetto alle grandi narrazioni (1), la fine della storia (2), il pensiero debole (3), lo scetticismo liberale (4), la consumazione della lunga storia della metafisica occidentale in tecnica planetaria (5), la liberalizzazione comportamentale dell’Oltreuomo nicciano (6), il relativismo come inevitabile portato della modernità (7), la distruzione della religione attraverso il darwinismo, la deriva dei continenti e la sintesi clorofilliana (8), eccetera (ma dico eccetera soltanto perché mi sono stancato di enumerare: il circo ideologico sarebbe composto da almeno quaranta differenziati pagliacci). Come ho detto si tratta di una strategia ideologica molto buona che io stesso, adeguatamente remunerato, avrei consigliato alle oligarchie. Ma per consolidare la vittoria ci voleva qualcosa di più, cioè l’instaurazione di un gigantesco complesso di colpa retroattivo in tutti coloro (assai numerosi nella generazione politica 1950-1990) che avevano in qualche modo condiviso, o almeno giustificato, il ciclo del comunismo storico novecentesco preso nel suo insieme. Bisognava colpevolizzarli nella loro sofferente ed inquieta animuccia, e farli sentire colpevoli non solo per quello che avevano fatto, ma per quello che forse avrebbero potuto fare se per caso fossero passati degli slogan gridati, totalmente virtuali ed impotenti, a programmi reali, necessariamente criminali. Si è quindi fabbricato abbastanza velocemente un Museo degli Orrori, cui è stato ridotto l’intero Novecento (Monaco 1938, Pearl Harbour 1941, Gulag 1917-1991, Armenia 1915, Auschwitz 1943, Bosnia 1993, Ruanda 1994, eccetera), da cui in genere viene esentata Hiroshima in quanto, sia pure orrenda, è pur sempre servita a vincere il Male Assoluto, e cioè il fascismo mondiale. Questa riduzione unidimensionale del
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Novecento a Secolo degli Orrori (NSO) ha in ogni caso una funzione eminentemente preventiva: si vuole prevenire la malaugurata ipotesi che le classi subalterne ci possano riprovare, anziché accettare il destino della sottomissione illimitata alle ripugnanti oligarchie che dominano il mondo. Ma questo viene fatto coltivando nell’abietto gruppo sociale degli intellettuali un particolare senso di colpa per averci “provato”, in modo che il non provarci mai più si costituisca quasi geneticamente nella stessa memoria infantile. Appare chiaro che il cosiddetto postmoderno non è che un momento interno alle mistificazioni del normale capitalismo “moderno”. Ma appare ancora più chiaro che la concezione realista del mondo, base dell’idealismo rivoluzionario di Fichte, Marx e Lenin (trascuro qui il problema se la loro filosofia della prassi possa essere meglio definita in termini di “idealismo” o nei più consueti e tradizionali termini di “materialismo” – mi sembra di aver manifestato chiaramente la mia opinione in proposito) deve essere investita da un complesso di colpa per essersi “sporcata le mani”, e così sostituita da una concezione moralistica del mondo, condita di geremiadi, lamenti pecoreschi, belati vari, battersi il petto e promettere che mai, mai più, non lo faremo mai più. Questo è certo solo temporaneamente. Ma la temporaneità, a livello storico, può durare secoli, o almeno un buon secolo. L’imbecillità sta appunto nel credere che queste siano le Lezioni della Storia (maiuscolo), anziché soltanto l’effetto di una macchina ideologica dell’oligarchia, che ha prodotto certamente una efficace strategia di lungo periodo (a mio avviso, durerà certamente ancora decenni, salvo una possibile accelerazione dovuta a dati per ora imprevedibili, diciamo un 11 settembre 2001 al cubo), ma che non potrà tuttavia durare per sempre.
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4. L’imbecillità socialmente organizzata. Per una nuova teoria degli intellettuali e delle strutture ideologiche Gli imbecilli sono una categoria statisticamente molto numerosa (complice la scuola, i genitori ed i modelli pubblicitari per adolescenti), certo stimolante per gli psicologi ed i romanzieri, ma poco interessante per i filosofi. I filosofi si interessano della genesi dei concetti, della verità e dell’universale, laddove gli imbecilli esprimono il particolare nella forma più desolante e disarmante. Gli imbecilli naturali non possono essere dedotti. Prendiamo un tale cui abbiano diagnosticato un tumore o una cardiopatia grave, e si interessi immediatamente al callista che gli deve togliere i calli oppure al chirurgo estetico che deve raddrizzargli il naso. Tutti diremmo: che imbecille! E pensiamo ad un tizio che, incontrando la signora Emma Marcegaglia, capessa sofisticata degli industriali italiani, per farle un complimento la paragonasse ad un’attricetta ed a una squinzia qualunque. Tutti diremmo: che imbecille! E via di questo passo. Mentre l’artista si occupa del particolare (das Eigenart), il filosofo si occupa del generale. Ed allora ciò che interessa non è l’imbecille, ma il concetto di Imbecillità (la scrivo in maiuscolo perché i nominalisti possano provare un maggiore fastidio). Ma l’imbecillità deve pur sempre radicarsi in modo aristotelico in una determinazione particolare, che è la società. E quindi ciò che ci interessa non è la semplice, banale e quasi sempre accidentale imbecillità, ma è l’imbecillità socialmente organizzata. È di questo che bisogna parlare. L’imbecillità organizzata è una struttura ideologica di dominio funzionale alla riproduzione dell’attuale forma di capitalismo assoluto, interamente individualizzato e quindi non più caratterizzato dalle vecchie forme ideologiche. È molto importante capire questo punto delicatissimo, per non confondere l’imbecillità socialmente organizzata, fenomeno relativamen-
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te nuovo, con le vecchie forme di ideologia di legittimazione, come ad esempio le religioni monoteistiche organizzate. La religione monoteistica organizzata (non parlo qui del politeismo indiano o del confucianesimo cinese, che meriterebbero un discorso a parte), anche se è spesso servita (e tuttora in parte serve) a legittimare strutture sociali classiste e ferocemente inegualitarie, non è una forma di imbecillità socialmente organizzata, in quanto mantiene una dimensione simbolica e sociale fortemente comunitaria, sia pure di un comunitarismo inserito in una strutturazione gerarchico-piramidale della società. L’imbecillità socialmente organizzata presuppone invece la società di mercato (che tratterò nel quinto paragrafo), la piena incorporazione della democrazia nella struttura del liberalismo politico (che tratterò nel sesto paragrafo), ed infine lo sbriciolamento di ogni residuo comunitario nell’individualismo nei suoi due complementari aspetti di “destra” e di “sinistra” (che tratterò nel settimo paragrafo). Infine, presuppone la trasformazione della vecchia borghesia in oligarchia post-borghese globale (che tratterò nell’ottavo paragrafo), base materiale della sua sottomissione nella maggior parte dei paesi detti “occidentali” (ma non solo) al dominio imperiale unificato degli Usa (che tratterò nel nono paragrafo). Come si vede, si tratta di una vera e propria “catena dei perché” che connette insieme molte dimensioni che il sapere universitario manipolato in genere mantiene distinte, e che invece fanno parte di un’unica totalità espressiva. L’imbecillità socialmente organizzata, quindi, è una novità storica che non può essere ridotta al semplice manifestarsi della vecchia funzione ideologica di legittimazione e di controllo sociale, già ampiamente presente fra gli antichi egizi e gli antichi romani. Essa, infatti, organizza la frammentazione individualistica, ed è sulla base della nuova frammentazione individualistica che può pianificare le strutture dell’imbecillità socialmente organizzata. E tuttavia, ci devono essere delle basi antropolo-
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giche e psicologiche a partire dalle quali l’imbecillità socialmente organizzata può adeguatamente strutturarsi. Esse sono molte, ma per brevità mi limiterò a segnalarne due, l’invidia e l’incompetenza sulla globalità, detta altrimenti la competenza esclusiva sulla prossimità dell’esperienza diretta. Esaminiamole separatamente. L’invidia è una dimensione che la filosofia ha preso molto raramente in seria considerazione. Il solo filosofo che l’abbia messa al centro della sua ricostruzione simbolica del mondo è stato Nietzsche, ma gli stessi nicciani ne sembrano a volte imbarazzati, al punto di espungerla e metterla sotto silenzio persino quando esaltano il presunto (e da me non condiviso) aspetto emancipatore di Nietzsche (niccianesimo postmoderno franco-italiano, eccetera). Nietzsche ha costruito una metafisica negativa dell’invidia che ha certamente un minimo di fascino, ma che è talmente poco illuminante e generica per spiegare il processo storico da essere giustamente messa da parte. Il suo successo, tuttavia, è in gran parte sotterraneo, ed ha letteralmente “intriso” il senso comune, in particolare nell’epoca dell’imperialismo e della lotta borghese (e piccoloborghese) al comunismo. Sono sicuro che se si facesse un’intervista filosofica a Silvio Berlusconi la centralità dell’invidia per la spiegazione del mondo verrebbe certamente fuori. Mi permetto in proposito di menzionare una mia esperienza personale. Il mio defunto padre non aveva mai certamente letto una riga di Nietzsche, ma quando si accorse che io cominciavo a nutrire pericolose tendenze utopico-comuniste, ancora largamente adolescenziali e perciò curabili (un po’ come l’uso delle droghe leggere, per intendersi), mi fece un complesso discorso “serio” (uno dei pochissimi, peraltro, che mi indirizzò nella sua vita). Il discorso era più o meno questo (lo riassumo a memoria a mezzo secolo esatto di distanza): «Tu credi che i comunisti vogliano un mondo giusto, cosa che naturalmente vorremmo tutti. Ma essi ingannano tutti gli ingenui come
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te. In realtà il comunismo è semplicemente l’invidia dei pigri e degli incapaci verso chi ha avuto successo, ed i “comunisti” hanno capito che possono arrivare per via politica al lusso ed alla ricchezza evitando il lavoro personale. Una volta che ci saranno arrivati, butteranno via i cretini come te come limoni spremuti». La riduzione del fenomeno del comunismo alla sola dimensione dell’invidia, peraltro, era talmente poco credibile da far sì che io continuassi nella mia simbolica uccisione del Super-io paterno attraverso l’ostentazione del comunismo. E non me ne sono certamente pentito in seguito, anzi. Tuttavia la questione dell’invidia resta importante. Prendiamo la ricchezza di Berlusconi. Essa può dar luogo a due tipi diversi ed opposti di invidia: una invidia mimetica di imitazione del modello, per cui non si hanno lamentele o fantasie di distruzione, ma al contrario si accendono speranze di poter fare come lui, tipo possedere diciottenni ambiziose pur avendo superato i settant’anni di età; ed una invidia distruttiva di annientamento, per cui, non potendo possedere diciottenni dopo aver passato la terza età in mancanza di denaro e di potere, si ripiega nel desiderio di poterlo ghigliottinare (come le famose cucitrici – tricoteuses – di Parigi che assistevano festose alla decapitazione di Luigi XVI e di Robespierre, senza preferenze ideologiche di alcun tipo). L’imbecillità socialmente organizzata, a differenza di come si potrebbe pensare, promuove ecumenicamente entrambe le forme di invidia, e non soltanto la prima, come potrebbe pensare incautamente il critico dell’individualismo anomico ed acquisitivo. L’invidia, infatti, è una passione distruttiva in entrambe le forme, mimetica e distruttiva. Essa rafforza la struttura individualistica della società, e nello stesso tempo depotenzia gli effetti emancipativi della critica. È questa la ragione per cui l’imbecillità socialmente organizzata punta moltissimo
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sull’invidia (rotocalchi dedicati ai consumi ed agli stili di vita dei vip, eccetera). E tuttavia, il secondo fattore che ora indicherò conta a mio parere molto più dell’invidia per il funzionamento sistemico dell’imbecillità socialmente organizzata. Si tratta dello squilibrio strutturale fra la competenza del particolare e l’incompetenza del generale, che sorge dalla divisione sociale del lavoro, a sua volta fattore determinante per la formazione nella storia di classi sociali antagonistiche. Nella divisione sociale del lavoro, in genere (ma non sempre), le classi subalterne si raggruppano nel lavoro manuale diretto, mentre le classi dominanti, in assenza di un lavoro propriamente “intellettuale” (la cui formazione è un fenomeno relativamente recente), si costituiscono nella funzione di direzione, organizzazione, controllo e legittimazione religiosa del lavoro sociale complessivo necessario. Le classi subalterne, quindi, sviluppano nella storia una specifica competenza empirica della particolarità e della prossimità diretta restando pittorescamente del tutto incompetenti sulla riproduzione politica, economica e soprattutto geopolitica della società. Storicamente, le classi subalterne sono attratte dalle competenze “fisiche” dirette (battaglia corpo a corpo nell’antichità, costruzioni ed artigianato nel medioevo, meccanica ed innovazioni nella rivoluzione industriale, ed oggi soprattutto internet e collegamento in rete), perché questa competenza nella fisicità diretta può supplire all’incompetenza nella conoscenza filosofica, politica e geopolitica della totalità. Per questo l’esponente medio intelligente delle classi dominate può smontare un’automobile a occhi chiusi, ma non sa dove è Sarajevo (1914) o Danzica (1939), ed appunto perché non sa dove stanno Sarajevo e Danzica, oppure il Kosovo (1999) e l’Iraq (2003), ed aggiungo che non ne prova in genere neppure il minimo interesse (a differenza che per la pagina sportiva, in cui lo schieramento dei calciatori in campo gli è del tutto accessibile). Appunto per questo può diventare in qualunque
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momento carne da cannone per le guerre imperialiste, oppure può trasformarsi in spettatore labile, distratto e disinteressato nella nostra epoca di volontariato mercenario professionale. Questa competenza popolare limitata all’immediata prossimità, per cui l’empirismo resta la sola filosofia spontanea delle classi subalterne (ma anche delle classi dominanti capitalistiche, che qui trovano uno degli specifici momenti di “eguaglianza” intesa come eguagliamento), è una risorsa splendida per l’imbecillità socialmente organizzata. Persone che sanno tutto su come si cambia un pezzo del motore e sui prezzi del pane e dell’olio, e che sanno leggere con competente sospetto il proprio bollettino pensionistico per vedere se per caso gli hanno fregato due euro in più per la tassa sul rifacimento dei glutei di Sophia Loren riclassificata come monumento nazionale di interesse pubblico, sono anche persone che, non sapendo affatto dove si trova la Georgia e perché interessa all’accerchiamento Usa-Nato nei confronti della Russia (o della Birmania nei confronti della Cina), e soprattutto non fregandogliene assolutamente nulla, a differenza del fatto epocale di un possibile passaggio di Ibrahimović alla Juventus, si possono trovare fra capo e collo una bomba atomica senza assolutamente sapere il perché. Il discorso sarebbe lungo, ma per il momento è sufficiente impadronirsi con sicurezza del concetto di imbecillità socialmente organizzata come struttura di manipolazione ideologica capillare omogenea al nuovo tipo di capitalismo. Essa presenta un primato strutturale dei pubblicitari sui preti, dei giornalisti sui politici, degli sportivi sugli insegnanti, della lingua inglese sulle altre lingue, della psicologia sulla filosofia, dell’immagine sul contenuto, della superficie sulla profondità, del corpo sullo spirito, delle tette sul viso, eccetera, che non possiamo esaminare qui analiticamente, perché non basterebbero mille pagine stampate in caratteri molto piccoli. L’imbecillità socialmente organizzata rappresenta la forma specifica del dominio
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classista oggi, in cui sono ormai impossibili strumenti diretti di tortura (per le ragioni che a suo tempo Foucault ha analizzato abbastanza bene). L’imbecillità socialmente organizzata deve ovviamente poter incorporare, per poter garantire un suo efficace funzionamento, le forme socialmente e culturalmente più imbecilli della contestazione al sistema. Si tratta di un punto teorico di importanza inestimabile. L’imbecillità della (apparente) contestazione si può sempre riassumere in un solo concetto tolemaico, che è l’incapacità (dovuta quasi sempre a malafede ed a corruzione, ma spesso anche ad imbecillità pura di tipo gratuito, che è sempre la più irritante ma anche la più esilarante) ad individuare il nemico principale. Per questa ragione, ed anche per altre, il solo modo di opporsi efficacemente alla imbecillità socialmente organizzata è cominciare a nominare il nemico principale. Bene, è esattamente quello che farò nei prossimi cinque paragrafi.
5. Il nemico principale in economia: il capitalismo e la società di mercato Il capitalismo e la società di mercato, per essere esatti, non sono solo il nemico principale in economia. Questa formulazione è in realtà riduzionistica, e l’accetto solo per semplicità. In realtà, il capitalismo e la società di mercato sono dei nemici globali e complessivi del Genere Umano in quanto tale, e non solo dei nemici in “economia”. E tuttavia, possiamo per ora accontentarci di questa formulazione provvisoria, sia pure largamente insufficiente. È corretto sostenere che il capitalismo ha inventato l’economia? Si tratta del titolo di una fortunata operetta del francese
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Serge Latouche, che sta peraltro alla base della teoria della decrescita proposta dallo stesso autore. Latouche sa perfettamente che il termine ha una lunghissima storia risalente alla linguistica indoeuropea (Benveniste), e che c’è chi afferma che, semmai, l’economia l’ha scoperta Aristotele (Karl Polanyi). Ma Latouche è su questo punto debitore alla teoria della costituzione immaginaria della società di Cornelius Castoriadis. Se per economia si intende una sorta di atemporale ed intemporale scienza dell’uso alternativo di risorse scarse (Robbins), allora è chiaro che l’economia risale ai fuochi degli uomini primitivi, e non l’hanno certamente inventata né Aristotele né il capitalismo. Ma indubbiamente la centralità ossessiva e fondante del fatto economico (isolato dagli altri) nella costituzione complessiva della società è un fatto relativamente recente (ed è difficile risalire a prima di metà Settecento in Europa), per cui occorre scomodare un soggetto, e cioè l’individuo borghese, il quale è a sua volta soltanto la concretizzazione soggettiva della classe borghese stessa. Come si vede, tutti i cinque elementi prima indicati (il capitalismo, il liberalismo, l’individualismo, la società borghese, la garanzia geopolitica imperiale globale) si danno tutti la mano come in un girotondo. Penso che per impostare correttamente la questione sia necessario partire con il piede giusto e fare il primo passo nella direzione corretta. E sia il piede giusto che il primo passo sono contenuti nella distinzione proposta dal sociologo francese Zaki Laïdi fra economia di mercato e società di mercato. Un settore mercatistico dell’economia è sempre esistito fino dai primordi della civiltà, persino nei due modi di produzione caratterizzati dalla pianificazione e dalla distribuzione centralizzata delle risorse (modo di produzione antico-orientale in Egitto ed in Mesopotamia, modo di produzione asiatico in Cina). Gli studi di Polanyi sulle società antiche hanno permesso di conseguire ottimi risultati. Personalmente, andando con-
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tro la vulgata comune e la stessa lettera del pensiero di Marx, ritengo che lo stesso comunismo, ammesso che un giorno o l’altro verrà e non resti un’illusione ottocentesca e novecentesca, avrà un settore mercantile, sia pure limitato, secondario e politicamente controllato. Se non lo pensassi, non sarei neppure favorevole al concetto di comunità, perché le comunità per definizione sono molte, ed al mondo non ci può essere una sola comunità, al di fuori del concetto filosofico regolativo di comunità umana, e l’idea di una sola pianificazione autoritativa dell’economia dall’alto, sia pure dietro “consultazione” dal basso (sappiamo che cosa sono in pratica queste consultazioni!), è incompatibile con la teoria e la pratica di un pluralismo comunitario. Quindi, l’idea di un settore di mercato dell’economia, che integri per i beni non necessari il settore principale pianificato, è valida per me non solo per il cosiddetto “socialismo”, ma anche per il cosiddetto “comunismo”. Altra cosa è la società di mercato. Il capitalismo non è un’economia di mercato, ma è una società di mercato. Se fosse soltanto un’economia di mercato, sarebbe esagerato, scorretto ed estremistico definirlo come un nemico principale. Non lo sarebbe. Il capitalismo diventa un nemico principale quando lo scambio mercantile, da criterio per la circolazione dei beni e dei servizi, diventa il principio uniformatore coattivo di tutti i rapporti sociali. E questo, appunto, sembra proprio il caso della recente evoluzione del sistema capitalistico, che neppure la crisi del 2008 sembra avere modificato in modo qualitativo. Apro qui una parentesi “teorica”. Il riferimento a Marx non deve assolutamente essere considerato esclusivo ed obbligatorio per fondare la valutazione sul capitalismo e la società di mercato come nemico principale. Questo deve essere chiaro, ed è bene esplicitarlo preliminarmente. Gli allievi di Marx non possono rivendicare nessun monopolio, nessun privilegio e nessuna esclusiva. Un bilancio storico-teorico del Novecen-
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to è in proposito pieno di insegnamenti (negativi) per chi pretende una simile arrogante esclusiva. E tuttavia, dal momento che personalmente sono un allievo di Marx, sia pure critico ed indipendente, mi permetto di discutere due punti delicati del problema che ci interessa. In primo luogo, Marx non parla praticamente mai di “capitalismo” (a differenza dei marxisti successivi, di Sombart e di Weber), ma parla sempre e soltanto di modo di produzione capitalistico. Si tratta infatti di cose molto diverse. Il modo di produzione capitalistico “puro” di cui parla Marx non è esistito da nessuna parte (neppure nell’Inghilterra dell’Ottocento, che pure è il caso concreto che più assomiglia al modello), in quanto si tratta di una sorta di “scheletro”, il cui studio prescinde in prima istanza dai muscoli, dalla carne e dal sangue. E tuttavia, così come uno scheletro per essere vivo deve essere completato dalla carne e dal sangue, nello stesso modo il modo di produzione capitalistico deve determinarsi in società capitalistiche concrete. Se infatti il modo di produzione capitalistico e le sue tre determinazioni che lo costituiscono (forze produttive capitalistiche, rapporti capitalistici di produzione, ideologie capitalistiche) sono studiate in modo puramente “scientifico”, e cioè prescindendo del tutto da valutazioni morali ed etiche su di esso, non si capirebbe bene allora dove ed in che modo potrebbe innestarsi la prassi anticapitalistica, che presuppone un giudizio di merito morale sul capitalismo, giudizio di merito che non potrebbe mai sorgere da una semplice valutazione “scientifica”, necessariamente neutrale. Si avrebbe così, in una versione marxista, una riproposizione della soluzione occasionalistica degli allievi di Cartesio (Malebranche, eccetera), che non potendo in alcun modo fare incontrare il pensiero e l’estensione, incontro che avrebbe fatto saltare l’intero impianto dualistico del cartesianesimo, devono ipotizzare un (incredibile) intervento divino per sincronizzare i due momenti. Gli allievi marxisti attuali di Malebranche, arroganti, petulanti ed
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aggressivi senza ragione, non sopportano che la teoria dei modi di produzione, che essi vogliono pura e perfetta, possa essere messa in moto e resa espressiva da un momento interno di tipo filosofico e morale (teoria dell’alienazione, filosofia umanistica della storia dell’unità del genere umano, eccetera), ed escono in oscene invettive. Ho ritenuto necessario questo chiarimento, perché l’occasionalismo dualistico si è presentato la prima volta in modo religioso, e si presenta oggi in modo “marxista”. Il suo ideale epistemologico è, ovviamente, un pensiero comunista privo di qualunque premessa e fondazione filosofica, ed interamente “scientifico” in senso “positivistico”. La cosa, ovviamente, è del tutto impossibile, perché il comunismo è una prassi umana (a differenza della gravitazione universale, dell’evoluzione della specie, della deriva dei continenti e della teoria della relatività), e la prassi umana per definizione richiede una fondazione filosofica di tipo umanistico, che sarebbe invece del tutto assurda e superflua nelle scienze della natura. Mi scuso con il lettore per avere dovuto ribadire simili ovvietà, ma era necessario, perché molte persone in buona fede e di insufficiente preparazione filosofica specifica possono cadere nella sciocchezza di credere che Marx sia stato soltanto uno scienziato strutturalistico del modo di produzione capitalistico senza alcun presupposto filosofico di tipo umanistico. Bisogna che gli asini possano ragliare tranquilli in apposite stalle, basta che non ci raglino dietro le orecchie mentre stiamo mangiando, parlando e studiando. In secondo luogo, esiste un uso ultracapitalistico di Marx che non cesserà certamente di essere riproposto nell’immediato futuro. È noto che Marx ha ripetutamente riconosciuto il carattere “progressivo” dei nuovi rapporti capitalistici nella loro funzione di distruzione dei precedenti rapporti schiavistici e feudali. Personalmente, non sono un ammiratore incondizionato di questo aspetto borghese-progressivo del pensiero di Marx, ed anzi lo considero uno dei punti più deboli e datati
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del suo pensiero. Ma non è questo il problema. Il fatto è che Marx non ha chiarito bene quale sia il criterio che permette di stabilire quando questa funzione progressiva cessa, e quando comincerebbe invece la funzione regressiva. Per essere più precisi, Marx ha bensì fornito un criterio di giudizio, ma l’ha fornito errato, individuandolo nel momento storico dell’insorgenza dell’incapacità di sviluppare ulteriormente le forze produttive, con conseguente stagnazione, parassitismo, eccetera. Insomma, il capitalismo diventerebbe “reazionario” soltanto quando non è più in grado di sviluppare le forze produttive ed i capitalisti da imprenditori creativi diventano percettori oziosi di rendite, tipo i signori feudali. Ora, mi sembra chiaro che questo volenteroso criterio è del tutto errato. Il capitalismo continua a produrre imprenditori di valore ed a sviluppare in modo vertiginoso le forze produttive. Ed allora non può essere questo il criterio giusto. Il criterio deve tornare ad essere pienamente filosofico, e cioè “umanistico”, e deve essere individuato nel modello di illimitatezza della produzione capitalistica complessiva e nell’imbarbarimento sociale ed antropologico delle forme di vita capitalistiche. Si dirà che questo non è più un criterio “scientifico”, ma torna ad essere un criterio filosofico. Ed infatti è proprio così, senza che questo comporti assolutamente un attacco o una sottovalutazione dell’ideazione scientifica propriamente detta. E tuttavia, ho ritenuto opportuno esplicitare questo concetto perché risulti maggiormente chiara la natura dei “marxisti” odiatori della filosofia (intesa non come metodologia della scienza – quella la accettano tutti – ma come ideazione veritativa del tutto autonoma dalla “scienza” propriamente detta) come attività conoscitiva e veritativa indipendente. Qui chiudo. Sono dolente di aver dovuto tornare su questi pagliacci ma non posso definire diversamente coloro che uccidono lo spirito di Marx in nome di una sua (presunta ed arbitraria) lettera.
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Ma ora torniamo a noi, dopo questa doppia fastidiosa parentesi. Il ribadire che esiste un nemico, esiste un nemico principale, che il nemico principale è il capitalismo (senza aggettivi limitativi), e che il capitalismo ha perduto qualsiasi natura vagamente positiva e progressiva del passato nel suo essere divenuto una società di mercato (e non una semplice economia di mercato), è un modo per uscire ancora sani di mente dal ventennio 1989-2009, uno dei ventenni più sporchi ed oligarchici dell’intera storia mondiale comparata, in cui si è fatta apertamente l’apologia della diseguaglianza sociale più sfrenata e dell’allargamento della forbice fra ricchi e poveri, con lo stesso declassamento delle classi medio basse nella palude del lavoro provvisorio, flessibile e precario. A fianco degli apologeti diretti di questo capitalismo il triste ventennio 1989-2009 ha visto in opera movimenti fittizi di pseudo-opposizione, nutriti ed enfatizzati dal circo mediatico di manipolazione. Ne ricordo solo due. Il cosiddetto Movimento Pacifista, caratterizzato non tanto dalla nobile causa della pace, quanto dalla meno nobile causa dell’equiparazione simbolica di aggressori ed aggrediti, connotati entrambi come “violenti”, cui contrapporre mandrie di manifestanti belanti e pecoreschi, preceduti da pagliacci sui trampoli ed accompagnati ai lati da bande pittoresche in passamontagna che, in mezzo alla felicità dei media, spaccavano vetrine ampiamente assicurate, o meglio utilitarie non assicurate di impiegati e di operai. E poi il movimento più inesistente di tutti i movimenti mai esistiti (l’ossimoro kafkiano è voluto), il movimento no-global, movimento puramente virtuale, che ha affermato in modo lapalissiano che un “altro mondo era possibile”, credendo che questo minimalismo tautologico per deficienti potesse fare crescere qualcosa di stabile, e sostenendo di non essere tanto contro il capitalismo in sé, quanto soltanto contro quella sua variante eccessiva definita “globalizzazione neoliberale”. Questa globalizzazione neoliberale, comunque, è entrata in crisi non certo per i belati
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pecoreschi dei no-global, quanto per le contraddizioni interne di questo modello di sviluppo. Il contrario di globalizzazione neoliberale dall’alto non è ovviamente una globalizzazione popolare dal basso, che esiste soltanto nel mondo dei sogni dei bene intenzionati, ma una rinazionalizzazione del capitalismo di tipo almeno parzialmente neoprotezionistica, soluzione forse non ideale, ma certamente migliore di qualunque pervicace insistenza oligarchica neoliberale. E tuttavia le varianti passate di questa soluzione non fanno bene sperare, se pensiamo alle guerre inter-imperialistiche. Il discorso sarebbe lungo, ma per ora chiudiamolo qui: c’è un nemico principale, ed è il capitalismo (senza aggettivi) e le società di mercato.
6. Il nemico principale in politica: il liberalismo Ove ne fossi cortesemente richiesto, sarebbe per me molto facile rispondere alla domanda su quale sia oggi (è bene ripetere: oggi) il nemico principale in politica. Risponderei senza esitare: il nemico principale in politica è il liberalismo, perché il modello di stato liberale oggi è l’involucro politico della società capitalistica di mercato, che resta appunto il nemico principale in economia. Società capitalistica di mercato e liberalismo politico sono oggi i due aspetti inscindibili di un’unica forma oligarchica di dominio, e sono quindi sotto tutti gli aspetti il nemico principale. Tutto questo urterebbe oggi non solo il Politicamente Corretto, ma lo stesso senso comune diffuso, indifferentemente di sinistra, di centro e di destra. Ma mai come in questo caso le mort saisit le vif. Per capirlo, però, è necessaria una breve retrospettiva storica.
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Nell’Ottocento (e più in generale nel lungo secolo 1789-1914) qualunque persona bennata avrebbe risposto che il nemico principale è l’assolutismo monarchico ed aristocratico, che non concede costituzioni scritte, ed in questo modo non solo si oppone al liberalismo, ma impedisce anche la democrazia intesa a quei tempi soprattutto come suffragio universale. Una simile risposta a quel tempo era assolutamente logica, perché tutti gli esponenti popolari erano convinti che la democrazia, intesa come suffragio universale e preminenza del potere legislativo, avrebbe aperto pacificamente la strada, se non proprio al socialismo ed al comunismo, almeno a forme di stato e di governo maggiormente “popolari”. Ma si trattava di una illusione. Senza vari processi di liberalizzazione e di democratizzazione politica avvenuti in Europa fra il 1848 ed il 1914 (ed al “netto” di repressioni tipo Comune di Parigi 1871 e spedizioni colonialistiche) le oligarchie non sarebbero mai riuscite a mobilitare milioni di persone in guerre come quella 1914-1918. Questa guerra, piaccia o no (e generalmente ci si rifiuta di ammetterlo), è stata un prodotto autentico del liberalismo e della democrazia precedenti. Se nel periodo 1871-1914 anche in Russia ci fosse stato un analogo processo di diffusione del liberalismo e della democrazia, è molto difficile che avremmo avuto la Rivoluzione d’ottobre. A molti questo forse avrebbe fatto e farebbe piacere, indubbiamente, ma a me no. E sono io, e non Bobbio o Solženicyn, che firmo questo modesto saggio. Nella prima metà del Novecento (ed in particolare nel periodo 1919-1945) la risposta su chi fosse il nemico principale del pensatore pio e politicamente corretto non sarebbe più stata l’assolutismo monarchico anti-costituzionale, ma sarebbe stata: il nemico principale è il Fascismo, e cioè il Male Assoluto (anche se allora questo termine religioso non si usava ancora, essendo del tutto posteriore al 1990, e cioè in un’epoca caratterizzata dall’Antifascismo rituale e cerimoniale in completa e
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conclamata assenza di fascismo). Questo richiede, ovviamente, una discussione teorica e politica a tutto campo. In questa sede non c’è lo spazio, e neppure la necessità, di discutere ancora una volta sulla natura politica e sociale del fascismo europeo 1919-1945, e sulle differenze e concordanze fra il caso italiano (Mussolini), tedesco (Hitler), spagnolo (Franco), eccetera. Il solo aspetto del problema veramente rilevante e decisivo sta nel fatto che il fascismo è irreversibilmente finito nel 1945, e dopo non è mai più esistito. I cosiddetti fascismi storici sopravvissuti alla sconfitta militare del 1945 perché “tenutisi fuori” dalla Seconda guerra mondiale (Spagna e Portogallo), a partire dal 1947 non hanno più nulla a che vedere con il fascismo propriamente detto, perché sono stati incorporati con un ruolo subalterno all’interno della alleanza occidentale “liberale”. In quanto al kemalismo turco, alla dittatura dei colonnelli greci 1967-1974 ed al cileno Pinochet (1973), tutti questi regimi, e decine di altri ancora, non hanno assolutamente nulla a che fare con il fascismo storico, e vengono “battezzati” così per ragioni del tutto ideologiche, e non certamente storiche. E allora, perché dopo il 1945 è stato mantenuto, ed anzi sempre più accresciuto mano a mano che ci si allontanava dal 1945, un Antifascismo rituale, sacrale e cerimoniale in assenza palese, completa e totale dal fascismo? Si tratta di uno dei problemi di filosofia politica più importanti in senso assoluto del Novecento, e qui non potrò che accennarne rapidamente. Primo, il liberalismo capitalistico è una delle forme più amorali, immorali ed oscene della convivenza umana, dal momento che ha come unico parametro di riconoscimento sociale la ricchezza privata, ed allora ha bisogno di una serie di ideologie di legittimazione etica integrativa, la principale delle quali in Europa Occidentale è stata storicamente quella degli “immortali valori dell’antifascismo”. Lo stesso movimento comunista in Europa Occidentale li ha adottati come riferimento ideologico
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fondamentale, non accorgendosi che in questo modo segava lo stesso ramo in cui era seduto, perché sarebbero bastati solo due o tre “passaggi ideologici” per far passare il comunismo come un totalitarismo, e quindi come un fascismo rosso, indistinguibile dal fascismo nero. Ma qui si ha un ennesimo esempio di un fattore dimenticato dal materialismo storico, e cioè il ruolo decisivo dell’imbecillità umana nella storia. Secondo, il mantenimento destoricizzato di un antifascismo in assenza totale di fascismo (defunto nel 1945) permetteva appunto la creazione di un clima culturale di destoricizzazione integrale, adatto alla natura nichilistica ed astorica del dominio capitalistico realizzato. Ridotto il fascismo ad una sorta di maschera multiuso si poteva applicarla a chi si voleva. In Italia la maschera di “fascismo” fu volta a volta applicata a De Gasperi, Scelba, Andreotti, Fanfani, Craxi, Berlusconi, eccetera, ma il vero inizio di questa tecnica fu Nasser, chiamato “fascista” perché antisionista, cui seguirono poi personaggi a piacere (Milošević, Saddam Hussein, i generali birmani e sudanesi, eccetera). Chi, pur coltivando onorevoli sentimenti politici antifascisti retroattivi (come è del resto il mio stesso caso) non ha ancora capito il ruolo ideologico di mistificazione e di oscuramento attuale del Fascismo come Male Assoluto (1) e come Nemico Principale (2) dovrebbe essere sconsigliato di occuparsi di storia e di politica, dal momento che ci sono argomenti interessantissimi nel meraviglioso mondo della natura. Per coloro che non si fanno acchiappare dai nemici principali dell’assolutismo, del fascismo, del fondamentalismo religioso, eccetera, e che richiedono pietanze simbolicamente più sostanziose, il nemico principale è oggi il Violatore dei Diritti Umani, da portare possibilmente in giudizio, modello Norimberga. C’è però un piccolo particolare, e cioè che, in assenza di un’univoca sentenza divina erga omnes, chi decide quali siano i diritti umani violati non sono giudici imparziali venuti da altri pianeti, ma sono le parti in causa più potentemente
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armate. E quindi gli Usa nel 1999 (Kosovo) e nel 2003 (Iraq) non hanno violato i diritti umani, anche se è palese che hanno invaso ed assassinato in base a menzogne totali (un inesistente genocidio nel 1999, un’inesistente presenza di armi di distruzione di massa nel 2003), mentre invece i capi di stati piccoli e militarmente deboli lo hanno fatto (Serbia, Iran, Birmania, Sudan, Corea del Nord, eccetera). Ora la cosa è talmente oscena e vergognosa che soltanto una condizione di sottomissione morale e culturale può spiegarla, e questo verrà discusso più ampiamente nel nono paragrafo. Il liberalismo resta quindi il nemico principale. Questo non significa, ovviamente, che alcuni suoi “valori” promossi nella prima fase della sua storia (libertà di opinione, di stampa, di religione, eccetera) non siano tuttora buoni, e non meritino di essere conservati, sviluppati, difesi e tutelati. Ma quando si parla oggi di critica al liberalismo non si intende affermare l’irrilevanza di questi “valori”, che peraltro si concretizzano sempre e soltanto in forme oligarchiche (pensiamo a Sky-Tv, Fox-Tv, eccetera). Si intende invece l’involucro politico della forma attuale di dominio capitalistico della società di mercato integrale. È questo il nemico principale. Tutti gli altri, ammesso che ci siano, sono del tutto secondari.
7. Il nemico principale in filosofia: l’individualismo Lo scrittore francese Péguy fece notare una volta un paradosso, per cui spesso gli stessi che giudicavano positivamente il “moderno” giudicavano negativamente il “capitalismo”, senza rendersi conto che in realtà, a considerarli da vicino, il moderno ed il capitalismo coincidono. In realtà il paradosso di Péguy era molto meno paradossale di quanto sembrava, perché il codice genetico del pensiero detto “progressista”, o anche
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di “sinistra”, consiste proprio nell’accettare il moderno e nel respingere il capitalismo, e cioè nel volere il moderno senza capitalismo. È possibile volere il moderno senza capitalismo, o si tratta di un programma contraddittorio? A lungo il pensiero “progressista”, a partire da Marx, rispose di si, e chiamò sbrigativamente “dialettica” questa pretesa, per cui il socialismo-comunismo avrebbe “ereditato” gli aspetti positivi della modernità (progresso scientifico, razionalismo filosofico, eguaglianza politica, libertà di espressione, rafforzamento dell’autonomia dell’individuo, indebolimento della sovranità religiosa, eccetera) e ne avrebbe “superato” gli aspetti negativi (individualismo anomico, diseguaglianza sociale sulla base della proprietà privata, indebolimento delle solidarietà comunitarie, eccetera). Dal momento che questo programma ha già quasi trecento anni, mi sembra corretto tentarne un primo bilancio storico. Prima di tutto, un dubbio iperbolico, per usare un termine di Cartesio. Siamo sicuri che la separazione del moderno dal capitalismo sia un’operazione fattibile, oppure ci si è troppo illusi sulla sua praticabilità? È certo un dubbio iperbolico, ma anche un dubbio legittimo. Il filosofo francese Jean-Claude Michéa, uno dei pochi pensatori che abbia affrontato di petto la questione, ha dei dubbi, e ritiene che la contraddizione principale del presente stia nel fatto che la società mercantile riesce a conservarsi soltanto facendo appello a valori non mercantili che nello stesso tempo tenta in tutti i modi di distruggere. Così si esprime anche Jacques Julliard: «La società liberale sopravvive soltanto continuando ad attingere a fondo perduto in valori preliberali comuni alle società cristiane, aristocratiche e proletarie». Detto altrimenti, l’individualismo può mantenersi pubblicamente soltanto presupponendo il mantenimento privato dei valori comunitari. E Michéa formula così il paradosso: «l’eguaglianza puramente astratta delle monadi-cittadine fini-
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sce sempre per accrescere le diseguaglianze reali e rafforzare così il dominio di classe». Michéa raggiunge così Castoriadis, che parla di «società delle acque basse», caratterizzata dal disincanto come valore, dal narcisismo come profilo antropologico e dal nichilismo come nuova metafisica di fondazione. Tutto questo, ed altro ancora, richiede una diagnosi filosofica, che non è ancora stata fatta, anche perché la corporazione universitaria dei filosofi è soprattutto interessata a non farla, e quindi il problema afferma di essere la soluzione. È interessante anche la posizione di Joseph Ratzinger, filosofo cattolico tedesco in questo momento papa con il nome di Benedetto XVI (ma qui ne parlo esclusivamente come filosofo, non come papa, perché soggettivamente non mi sento membro del suo pur rispettabile gregge). Ratzinger diagnostica nel relativismo il male filosofico principale del nostro tempo, e nello stesso tempo si dichiara costantemente a favore della forma occidentalistica di capitalismo, appena un po’ “ingentilita” da genericità habermasiane politicamente corrette. E così come il paradosso della cultura di sinistra stava nel volere il moderno e non volere il capitalismo, senza mai approfondire la contraddizione di questa affermazione, nello stesso modo il cristianesimo vorrebbe il capitalismo, ma lo vorrebbe senza relativismo. Contraddizione potente, perché la base filosofica del capitalismo è l’individualismo, l’individualismo è necessariamente relativista (ogni individuo è relativo alle proprie insindacabili e sovrane valutazioni), ed il solo “assoluto” del capitalismo è il valore di scambio, che non è un’opinione ma una attualità empirica oggettiva. Ed in questo modo la cultura di sinistra e la cultura cristiana ufficiale sono in preda alla stessa insanabile contraddizione, in quanto la prima vuole il moderno e non vuole il capitalismo (che sono la stessa cosa), e la seconda vuole il capitalismo (solo un po’ ingentilito da geremiadi moralistiche) e non vuole il relativismo (che sono la stessa cosa). Il profano chiederà educatamente: se ne esce? Ed il filosofo (in
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questo caso, la mia modesta persona) risponderà: no, non se ne esce, e non se ne uscirà senza riformulare in modo radicalmente nuovo l’intera questione. Per una volta, lasciamo da parte i tradizionali fantoccioni della tradizione occidentale, e rivolgiamoci al maestro Mo Ti, un filosofo ed organizzatore militare cinese dei tempi di Socrate. Mo Ti inquadra la questione che ci interessa in modo impeccabile, e vale la pena citarlo: «In una società in cui ognuno considera di fatto valido il proprio criterio di giudizio e disapprova quello degli altri, la conseguenza è che i più forti si rifiuteranno di aiutare i più bisognosi, ed i più ricchi si rifiuteranno di dividere le loro ricchezze». Non si poteva dire meglio. Mo Ti mostra così a vantaggio di quali classi sociali vada questo genere di teorizzazioni, e come senza parametri oggettivi e veritativi di valutazione sia impossibile qualunque fondamento etico. Benché io conosca abbastanza bene la storia della filosofia occidentale, non ho mai trovato una formulazione del problema più efficace di quella del vecchio maestro cinese Mo Ti, per cui la mancanza di un fondamento veritativo e la conseguente diffusione del relativismo può portare ad una sola conclusione, e cioè che i più forti si rifiuteranno di aiutare i più deboli ed i più ricchi si rifiuteranno di dividere le loro ricchezze. È difficile aggiungere qualcosa a tanta chiarezza concettuale ed espressiva. Mi raccomando caldamente con il lettore perché, proseguendo la lettura, non dimentichi mai il concetto di fondo espresso dall’antico filosofo cinese Mo Ti, per cui il solo interesse sociale cui corrisponde il relativismo delle opinioni insindacabili dell’individuo è quello del ricco che in questo modo dispone dell’argomento teorico che lo legittima a non dividere le sue ricchezze, perché l’eventuale divisione delle ricchezze non è più un fondamento comunitario veritativo, ma è derubricata ad una delle tante opinioni soggettive possibili. Del resto molti secoli dopo, Nietzsche disse anche lui qual-
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cosa di simile, in un contesto opposto di rivendicazione della volontà di potenza individuale di una soggettività provocatoriamente slegata da ogni obbligo sociale. Il capitalismo occidentale, o più esattamente la società capitalistica occidentale di mercato, la sola forma di civiltà umana che ha posto il suo fondamento nell’individuo, programmaticamente concepito come isolato (il cosiddetto “robinsonismo” di Marx), e programmaticamente concepito come titolare esclusivo ed assoluto di un insindacabile giudizio sul mondo. In nessun altro contesto filosofico del mondo si era affermata in modo tanto palese la tesi per cui non c’è differenza fra verità ed opinione, e la stessa verità è solo un’opinione fra le altre, perché mentre esistono criteri “oggettivi” nelle scienze della natura, questi criteri non esistono nella società. Ancora una volta ribadisco che questo non è né casuale né strano, in quanto non esistono ovviamente società senza Assoluti, ed in questo caso l’Assoluto resta, ma è il valore di scambio, cui effettivamente l’individuo è apparentemente “relativo”, perché vi si relaziona appunto “in relazione” al proprio potere d’acquisto. Certo, nella storia della filosofia ci sono state in passato situazioni apparentemente (ma solo apparentemente) analoghe. Pensiamo alla sofistica greca, ed alla lotta che contro di essa intraprese l’ateniese Socrate. Ma questa analogia è solo apparente. La società ateniese di quei tempi, caratterizzata da un modo di produzione di piccoli produttori e proprietari indipendenti (ed in cui lo schiavismo, pur già esistente, non caratterizzava ancora l’intera sintesi sociale), era ancora basata su fondamenti comunitari, e l’individualismo appariva ancora una patologia marginale e controllabile. La stessa cosa può essere detta per altre situazioni storiche, di cui non esiste qui lo spazio e la necessità per una analisi più approfondita. La cultura dell’attuale forma degenerata di sinistra è a tutti gli effetti una forma di individualismo relativistico che finge di
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criticare il capitalismo e nello stesso tempo ne adotta in forma esasperata e caricaturale il fondamento filosofico (negazione della verità, negazione del carattere conoscitivo e non semplicemente metodologico dell’attività filosofica, esaltazione di ogni tipo di marginalità, frammentazione del genere umano in “omo” ed “etero”, adozione del cosiddetto “marxismo” in versione puramente sindacalistica, futuristica ed antitradizionalistica, eccetera). Se costoro, oltre a Negri, Foucault e Agamben, leggessero anche il vecchio maestro cinese Mo Ti coglierebbero forse il centro del problema, per cui l’apologia del relativismo individualistico ed il rifiuto della verità, spacciata per residuo metafisico, è funzionale ad una cosa sola, e cioè a fornire ai ricchi l’argomento fondamentale per rifiutare la divisione delle ricchezze. Ed a questo punto, l’essenziale è stato detto.
8. Il nemico principale nella società: la borghesia Parlando di “borghesia” bisognerebbe sapere esattamente cosa si intende, perché nessun altro termine si presta tanto a fastidiosi e pittoreschi equivoci. In primo luogo, il termine dovrebbe essere strettamente limitato al contesto storico del capitalismo, evitando di chiamare “borghesi” i cavalieri romani (equites), i mercanti ed i banchieri medioevali e la nobiltà di toga dell’assolutismo francese. Gli storici che usano incautamente questo termine dovrebbero essere puniti con lente scudisciate, ma questo non avviene, a causa dello stesso umanitarismo “borghese”. Personalmente, nutro addirittura dubbi sul fatto che si possano chiamare “borghesi” a pieno titolo persino gli illuministi francesi del Settecento e Kant, anche se non c’è dubbio che costoro abbiano aperto la strada alla legittimazione del mondo borghese-capitalistico propriamente detto.
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Secondo, la tradizionale definizione marxista di “borghesia”, intesa come l’insieme sociale (e sociologico) dei proprietari privati capitalistici dei mezzi di produzione, può soltanto connotare un’articolazione dello “scheletro” del concetto di modo capitalistico di produzione, ma non ci dice praticamente nulla del contesto storico e culturale. Ed infatti i marxisti, consapevoli di questa insufficienza economicistica, ci aggiungono inutili appendici, tipo arte borghese (Beethoven, Stendhal, Tolstoj, Dickens, eccetera) e filosofia borghese (Voltaire, Kant, Hegel, eccetera). Il malcostume è diffuso, ed io stesso ci sono spesso cascato, e mi dichiaro colpevole. In realtà, il solo modo di evitare questi pasticci terminologici, sarebbe quello di distinguere con chiarezza il concetto di capitalismo (largamente strutturale, anonimo, impersonale, riproduttivo ed economico) ed il concetto di borghesia (largamente culturale, psicologico, comportamentale). Ma questo non viene fatto, perché si dà per scontato che là dove c’è borghesia, automaticamente c’è anche capitalismo, e che la borghesia è il soggetto demiurgico che ha creato il capitalismo, lo accompagnerà fino alla sua fine, e se per caso esiste una fine della storia ed il capitalismo è eterno (fino ovviamente al collasso del sistema solare), la borghesia sarà anch’essa eterna come lui. Ma invece non solo questo approccio è errato, ma anche il solo modo per essere sicuri di non capirci mai niente. Sebbene l’espressione possa sembrare a prima vista inutilmente tecnica, macchinosa e pesante, sarebbe bene abituarsi a distinguere sempre fra l’insieme degli agenti strategici della riproduzione capitalistica (che è una funzione di un ruolo strutturale ricopribile da diversi soggetti storici) e la borghesia propriamente detta, intesa come soggettività collettiva politico-culturale. Se ci si abitua a questa distinzione, si vedrà che il processo di produzione capitalistico può tranquillamente essere messo in moto da soggetti non-borghesi (la minoranza religiosa dei parsi indiani, i samurai giapponesi, i mercanti, i banchieri ebrei,
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eccetera), laddove la borghesia vera e propria deve essere indagata sotto due dimensioni, la dimensione storica della sua costituzione all’interno della crisi dei rapporti sociali feudali e signorili europei (è l’aspetto più noto, ma anche quello di gran lunga meno importante), e l’aspetto filosofico della sua dimensione culturale dialettica contraddittoria (è l’aspetto meno noto, ma anche quello di gran lunga più importante e ricco di insegnamenti anche per l’oggi, laddove il primo ha un interesse esclusivamente erudito, storico-archeologico). La borghesia è infatti una classe sociale che produce una soggettività collettiva estremamente dialettica. È collettiva, ma anche anticomunitaria e quindi la sua soggettività è necessariamente scissa. È una classe particolare, che promuove i suoi interessi egoistici attraverso valori mercantili “materialistici” (altro che “idealismo” come connotazione filosofica della borghesia, come sostengono i confusionari poco informati!), riducendo a posteriori mille e cinquecento anni di storia signorile a parassitismo e superstizione, e nello stesso tempo è una classe che si pensa come universalistica, titolare dell’illuminismo (e cioè del “rischiaramento” scientifico dell’intelletto umano) e della conoscenza della teologia del progresso del genere umano. Marx connotò come ideologia e come falsa coscienza il fatto di presentare come universalistico un programma particolaristico, in cui la borghesia europea (e poi americana) si pensa come la guida del genere umano in quanto tale. Marx ha ragione, certamente, ma cade lui stesso in una forma di falsa coscienza (peraltro inevitabile ed anche socialmente necessaria), perché dimentica che lui stesso era un prodotto purissimo ed integrale della coscienza infelice borghese stessa, e dal punto di vista culturale non aveva praticamente nulla a che fare con le identità culturali dominate (prima contadine ed artigiane, poi progressivamente operaie, salariate di fabbrica e proletarie).
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Si tratta di un fatto noto, ma come direbbe Hegel, non esiste nulla di meno conosciuto dell’apparentemente noto. La coscienza infelice (si tratta di una figura fenomenologica di origine hegeliana, che mi permetto di utilizzare liberamente al di fuori di ogni contesto religioso) è un prodotto filosofico borghese di tipo dialettico, in quanto deriva dalla scissione, dolorosamente percepita, fra gli interessi egoistici e particolaristici dei valori mercantili contrapposti al (preteso) parassitismo ed alla (pretesa) superstizione feudale-signorile e la “copertura filosofica” universalistica con cui questi interessi sono legittimati sul piano della conoscenza e della verità universalistica (rivoluzione scientifica, liberalismo politico, ideologia della tolleranza, illuminismo europeo, idealismo tedesco, positivismo scientifico, eccetera). Il comunismo (da tenere ben distinto dal socialismo, che ha invece avuto quasi sempre un’origine operaia e popolare, ed appunto per questo si basa su di una sintesi teorica più confusa, incerta e contraddittoria – si tratta di un fatto che sfugge alla stragrande maggioranza dei commentatori) è stato storicamente un prodotto pressoché integrale dell’elaborazione radicale, rigorosa e sistematico-sistematizzata della coscienza infelice borghese, nella misura in cui quest’ultima è il luogo filosofico privilegiato per la presa di coscienza dolorosa della totale incompatibilità fra gli interessi egoistico-particolaristici e la prospettiva universalistica di legittimazione. Il comunismo, quindi, è un prodotto integrale della coscienza infelice borghese (e vorrei che il termine “integrale” venga sottolineato nella sua provocatoria dirompenza). Marx, laureato in filosofia, era figlio di un avvocato benestante. Lenin, avvocato, era figlio di un preside. Sorel era un ingegnere in pensione benestante. Conosco solo due dirigenti comunisti di origine realmente popolare, l’operaio tedesco Dietzgen, filosofo dilettante ma geniale, e l’osseto-georgiano
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Stalin. Se il lettore ne conosce altri, me li comunichi. In America Latina, conosco l’avvocato Castro ed il medico Guevara. E potrei continuare. Il lettore non deve pensare che si tratti unicamente di poco rilevanti dati personali di tipo biografico, e “ciò che conta” è soltanto l’approdo. L’approdo è magari neutrale e poco rilevante per un ingegnere o un medico di origini popolari, in quanto si tratta in questo caso di un approdo a competenze filosoficamente “neutrali”. Ma quando si ha a che fare con profili culturali, genesi ed approdi sono invece dati essenziali per la conoscenza del problema. Si è allora di fronte ad un paradosso dialettico. La borghesia, intesa come insieme di agenti funzionali e strutturali della riproduzione capitalistica (un “orrore economico” anonimo ed impersonale, gabbia d’acciaio per Weber e dispositivo tecnico per Heidegger), deve distruggere la propria componente di coscienza infelice, dalla quale deriva storicamente non certo l’innocuo sindacalismo rivendicativo (nei termini del sociologo Bauman, la cosiddetta “economicizzazione del conflitto”) ma proprio la contestazione globale della propria funzione storica, che nel Novecento (ma ancora oggi, non si è infatti ancora trovato un altro nome, e finché non si è trovato nei fatti lo si tiene) ha assunto il nome di “comunismo”. All’interno della riproduzione allargata del modo di produzione capitalistico, la vecchia borghesia dialettica (interessi economici particolaristici versus coscienza infelice universalistica) tende a trasformarsi in modo endogeno (tipo girino-rana e brucofarfalla) in una classe globale postborghese priva di coscienza infelice. Sociologicamente parlando, il fenomeno è chiaro, ma aspettiamo ancora una convincente e nuova teoria delle classi sociali all’altezza di questa comprensione. Sul piano letterario, è evidente il passaggio dal grande romanzo borghese ottocentesco all’odierno minimalismo narcisistico, attraverso il momento della letteratura della crisi del realismo (Kafka, Joyce, eccete-
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ra). Sul piano estetico, l’assoluta dominanza oggi dell’estetica del brutto (Mavrakis) dovrà essere prima o poi fatta oggetto di analisi storica. Sul piano filosofico, tutta la storia della filosofia posteriore al fiorire dell’analisi dialettica della coscienza infelice borghese (da Kant a Marx, passando per Fichte a Hegel) è un unico, ossessivo episodio di apologia del relativismo e del nichilismo. E senza citare ancora una volta l’aurea opinione del maestro cinese Mo Ti ricordata nel paragrafo precedente, solo un ingenuo può continuare a non capire che sia il relativismo che il nichilismo (ma il nichilismo non è altro che un relativismo sistematizzato; logicamente rigorizzato e reso coerente) non sono altro che analgesici ed anestetici della coscienza infelice stessa, nella sua istanza di conoscenza e di verità. E potremmo continuare nell’analisi, ma lo spazio è quello che è. Per questa ragione, personalmente, tendo a non usare più il termine “borghesia” (non c’è qui una critica a de Benoist, ma solo una doverosa precisazione), in quanto una borghesia priva di coscienza infelice non è più una vera borghesia. Marx elaborava la coscienza infelice borghese in teoria critica del capitalismo, mentre Bill Gates con in braccio i suoi negretti assistiti elabora soltanto il complesso psicologico di colpa delle nuove svergognate oligarchie finanziarie. Credo che il termine “borghesia” debba essere ormai consegnato agli storici, ai filosofi ed agli studiosi di storia delle idee e della letteratura. Il termine da usare oggi è piuttosto “oligarchie capitalistiche”. Queste oligarchie capitalistiche, globalizzate ma pur sempre radicate in un contesto statale, nazionale e geopolitico, sono oggi largamente postborghesi, come del resto le classi dominate e subalterne (fra cui anche la parte inferiore dei ceti medi, colpiti dal nuovo lavoro detto flessibile e precario) sono oggi largamente postproletarie. Questo è lo scenario su cui oggi deve essere individuato il nemico principale nella società.
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9. Il nemico principale in geopolitica: gli Stati Uniti d’Ame rica La dimensione geopolitica delle relazioni internazionali è generalmente fatta oggetto del comportamento dello struzzo, che finge che non esista, perché se dovesse ammetterne l’esistenza anche solo in via di ipotesi cadrebbe come un castello di carte il suo profilo moralistico da “anima bella”, che non vuole a nessun costo sporcarsi le mani con la dura realtà circostante. Ho già molto insistito sulla figura dello struzzo nei paragrafi precedenti, e vorrei tornarci brevemente sopra, perché oggi lo Struzzo è animale totemico per eccellenza della filosofia capitalistica della scienza. Tutto il carnevale epistemologico contemporaneo dell’orchestra universitaria (Popper, Lakatos, Kuhn, Feyerabend, darwinisti fanatici e tarantolati, eccetera) è in proposito complementare al suo lato (solo apparentemente) polare, il carnevale relativistico-nichilistico, ed in questo modo lo Struzzo, che in generale è tenuto a ficcare il capo sotto la sabbia, è chiamato di tanto in tanto a tirarla fuori, ma non per guardarsi intorno in una savana percorsa da animali feroci, ma per guardare soltanto in un cannocchiale, in un telescopio o in un vetrino da laboratorio. E naturalmente non ne usciremo presto. La figura struzzesca dell’“anima bella”, che non vuole sporcarsi le mani con l’imbarazzante realtà circostante, è una possibile derivazione della coscienza infelice, già a lungo evocata nel paragrafo precedente. Ma mentre la direzione espansiva della coscienza infelice va nella direzione della conoscenza veritativa e dialettica della totalità espressiva, come ha ben chiarito Lukács, il più grande filosofo comunista novecentesco (un laureato in legge ed in filosofia figlio di un ricco ebreo ungherese), la direzione narcisistica patologica della coscienza infelice va invece verso l’anima bella, una figura favorita ovviamente dalle oligarchie al potere, perché trasforma l’impotenza in su-
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premo valore morale. Finché infatti ci si limita a testimoniare dolorosamente la propria aporetica inquietudine, non si rompono le scatole alle oligarchie dominanti. Per sua propria natura, la geopolitica è un “oggetto sporco”, che nessuna anima bella vorrà mai toccare neppure con la punta delle dita. Essa non si occupa infatti di cose gratificanti per le anime belle, come la pietà verso negretti disidratati, la commiserazione verso migranti imbarcati su carrette sfondate dal mare, la partecipazione emotiva ad assemblee operaie che protestano verso eventuali chiusure e delocalizzazioni, il senso di superiorità estetica del semicolto povero verso le manifestazioni di lusso dei paperoni circondati da sicofanti ed attricette con le tette in posizione balistica di combattimento, eccetera. Tutto questo, ed altro ancora, gratifica il senso di superiorità morale dell’anima bella verso le schifezze oligarchiche che lo circondano, anche se non sempre è facile separare con un reagente chimico l’avversario morale e la semplice invidia subalterna del pidocchioso. Ma anche eliminata l’invidia, e lasciando soltanto il senso universalistico della moralità offesa e del senso estetico del buon gusto del semicolto, resta pur sempre il fatto che l’anima bella, anche nel caso che sia una Vera ed Autentica Anima Bella senza secondi fini, continua a non poter avere uno sguardo efficace sul mondo. La geopolitica, invece, ci comunica che il corpo umano non è fatto solo di guance rosse e profumate, ma è fatto anche di intestini e (con rispetto parlando) di merda. In questo senso, occuparsene è qualcosa di assolutamente catartico. Si entra in un mondo di rapporti di forza, che sarebbe inutile censurare, in cui non è necessario aderire ideologicamente ed approvare i contenuti politico-ideologici di un paese o gruppo di paesi (Europa, Usa, Brasile, mondo arabo, India, Cina, Iran, Giappone, eccetera), ma di cui è bene prendere atto preliminarmente.
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Se si giunge a considerare gli Usa il nemico geopolitico principale, è evidente che a questa conclusione non si può giungere soltanto per ragioni interne allo scacchiere geopolitico stesso, ma per ragioni esterne alla considerazione geopolitica pura. Ci vuole infatti prima un giudizio di valore filosofico sul mondo attuale, da cui consegue e deriva in seconda istanza, ma solo in seconda istanza, un giudizio di fatto sui rapporti geopolitici globali. Se infatti una persona fosse in via di principio favorevole al capitalismo, alla società di mercato, all’individualismo, al liberalismo politico, eccetera, non si vede perché dovrebbe volere l’indebolimento strategico degli Usa. Ne dovrebbe invece volere l’egemonia culturale e militare, il rafforzamento strategico, il dominio mondiale (hard o soft che sia, con le buone o con le cattive, eccetera). Si tratta di un’ovvietà. La geopolitica, quindi, non è mai primaria ed originaria, ma è sempre un convincimento geopolitico secondario che deriva da una preliminare valutazione filosofica sulla natura, buona o cattiva, del capitalismo, dell’individualismo, del liberalismo e della società di mercato. E qui veniamo agli Usa propriamente detti. Individuare gli Usa come nemico geopolitico principale non significa affatto essere antiamericani (come l’essere contro il sionismo non comporta affatto essere anti-semiti), e nello stesso tempo non significa affatto “approvare”, e neppure identificarsi con realtà come la Russia post-sovietica degli oligarchi sfrontati o la Cina dei capitalisti-confuciani. Ma neppure per sogno! Questa sembrerebbe una ovvietà, ma nel piccolo mondo di malignità e fraintendimenti in cui viviamo è bene chiarire tutto ciò che c’è da chiarire. Gli Usa si comportano da più di mezzo secolo come un impero mondiale, ma finché esisteva il benemerito e mai abbastanza rimpianto campo socialista guidato dall’Urss non riuscivano ad esserlo del tutto. Dopo il 1991, invece, si tratta di un pro-
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gramma praticabile, anche a causa della fine del benemerito gaullismo in Francia, della sparizione virtuale del benemerito nazionalismo arabo (variante Nasser, variante Saddam, eccetera), del tragicomico crollo del comunismo sovietico, ed infine dell’adesione servile e bovina dei nuovi stati est-europei excomunisti (altro che socialismo dal volto umano, autogestione operaia, ed altre favolette per gonzi!). E tuttavia, anche se non esiste più un campo socialista (al di fuori dei due benemeriti stati-canaglia di Cuba e della Corea del Nord), ed un campo nazionalista (al di fuori dei benemeriti Iran, Sudan, Venezuela e Birmania, che Dio li conservi a lungo!), esistono ancora conflitti di tipo non più ideologico-politico, ma soltanto economicogeopolitico. Questo, mi sembra, è un fatto, non è una opinione. Ma qui si apre appunto la questione. L’anima bella, e cioè l’esito terminale moralistico di “sinistra” della dialettica dissolutiva della originaria coscienza infelice borghese, se ne ritrae inorridita. Ma come, se non sono più in ballo “valori”, ed anzi ormai sono tutti uguali (inoltre, l’Iran opprime le donne, la Birmania opprime gli Shan ed i Karen, il Sudan opprime il Darfur, la Russia opprime la Cecenia, la Cina opprime il Tibet, eccetera), allora non resta che “tirarsi fuori”, condannare tutti, conservare pura, illibata ed intatta la propria anima bella, ed al massimo belare in modo pecoresco e testimoniale “pace” in tutte le lingue del mondo, in modo che Dio, oppure l’Evoluzione della Specie (sono infatti due le varianti, per credenti e per atei), sappiano che noi restiamo con le mani pulite, e non ce le sporchiamo sostenendo dittatori di ogni tipo. Bene, questa evoluzione narcisistico-pecoresca è il provvisorio esito terminale di una deriva regressiva della coscienza infelice borghese. Ma non dimentichiamo che ce ne è stata anche un’altra, quella che ha portato all’universalismo comunista di Marx, con tutti i difetti che in separata sede potremmo imputargli (scientismo, progressismo, economicismo, storicismo, utopismo, e via “ismeggiando”). Bene, se teniamo fermo l’uni
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versalismo comunista come reazione legittima alle insanabili contraddizioni dell’identità borghese (e lo scrivente vorrebbe che si sapesse che lo “ha tenuto ben fermo”), allora il fallimento dell’esperimento di ingegneria sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodetica protetta chiamato comunismo storico novecentesco (da non confondere con il comunismo utopicoscientifico di Marx – l’ossimoro è chiaramente intenzionale) non, ripeto non, e sottolineo non, comporta affatto la fine capitalistica della storia, ma solo una sorta di dolorosa interruzione di un progetto storico che resta legittimo, quello di una società comunitaria senza classi e senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Per questa ragione è interesse universale, in questo momento storico, che un’unica superpotenza non riesca a conseguire un dominio strategico mondiale, hard o soft che sia. E siccome questa superpotenza, oggi, è anche il supremo garante strategico-militare del capitalismo (1), della società di mercato (2), del liberalismo politico (3), della teologia interventistica dei diritti umani (4), della nuova religione olocaustica del complesso di colpa interminabile dell’umanità (5), della sottomissione dell’Europa costretta alla cosiddetta “posizione del missionario” (6), della proliferazione di basi militari atomiche in tutto il mondo (7), del modello culturale televisivo del rimbecillimento antropologico universale (8), della secolarizzazione del presunto mandato messianico assegnato da Dio ad una nazione protestante eletta (9), più altre determinazioni che qui non riporto per brevità, ne consegue che non il popolo americano, non la nazione americana, ma soltanto la superpotenza geopolitica imperiale americana è il nemico principale. La potenza strategica degli Usa, oggi, garantisce la sintesi di tutte le determinazioni prima discusse. Non si tratta certamente di “demonizzarla”, come si usa dire oggi ipocritamente. Chi ha una visione del mondo razionalistico-dialettica, ovviamente, non demonizza nessuno. In quanto la demonizzazione è ap-
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punto il portato di una visione religioso-messianica. Ecco perché è bene auspicare un suo indebolimento, anche se i fattori geopolitici che ne possono causare un indebolimento (Russia, Cina, mondo arabo, Iran, Asia Centrale, nazionalismo latinoamericano, eccetera), presi uno per uno, e considerati “moralisticamente”, possono farci storcere il naso. Personalmente, non storco il naso. Considero la geopolitica un male necessario, e considero le geremiadi delle anime belle nei termini del dilemma di una lettera di Napoleone Bonaparte ad un fratello debole e scemo re di Spagna: «Stupidità o tradimento?». Il dilemma è peraltro di facile soluzione. L’anima bella, essendo stupida per giudizio analitico (l’anima bella è stupida come il corpo è esteso), può anche essere sempre in piena purezza e buona fede, ma si presta all’intrusione del consapevole tradimento.
10. Conclusione. Verso un radicale riorientamento gestaltico della visione complessiva del mondo storico e politico Le conclusioni teoriche e pratiche di quanto detto fino ad ora non sono neppure particolarmente difficili da trarre, se si riesce a cogliere il punto fondamentale della questione, e non lo si fa nel modo preferito dalla casta intellettuale, specializzata nel vedere sempre e solo gli alberi, e mai la foresta. Ma dov’è la foresta allora? La foresta sta in un fatto fondamentale, per cui da un lato si vuole soggettivamente (ed anche in buona fede) contestare l’insieme della società in cui viviamo (che pochi connotano ormai come “capitalista”, dato che il politicamente corretto ha delegittimato la parola, ma molti continuano a considerare “ingiusta”, il che in definitiva è poi lo stesso, ed addirittura meglio sul piano simbolico), e dall’al-
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tro si continua ad utilizzare in questa contestazione l’apparato categoriale e concettuale che le oligarchie dominanti lasciano “filtrare” verso il basso attraverso i loro apparati ideologici ed intellettuali ben selezionati e ben sorvegliati. Mi rendo perfettamente conto che è molto più facile presentarsi alle elezioni facendo leva su strati psicologici identitari di appartenenza, interessarsi alle boccaccesche avventure femminili di un Berlusconi ormai in preda a manie presenili, inscenare riti pecoreschi di ostensione di buoni propositi, accompagnati o meno da bande di incappucciati, eccetera, piuttosto che porsi radicalmente il problema della riforma radicale delle categorie politiche con cui soggettivamente intendiamo criticare l’infame sistema in cui viviamo. Eppure, lo ripeto, questo è il problema. Problema per ora insolubile a breve (e forse purtroppo anche a medio) termine, se prendiamo in esame quattro configurazioni ideologiche: il sapere universitario organizzato politicamente corretto, l’evoluzione mercatistica del pensiero di destra, il tradizionalismo conservatore del pensiero della vecchia sinistra, ed infine l’evoluzione dissolutiva e narcisistica del profilo individualistico della nuova sinistra. In questa sede non si potrà fare un’analisi dettagliata per ragioni di spazio, ma almeno si potranno tracciarne alcune linee di fondo. Il sapere universitario organizzato politicamente corretto (parlo ovviamente solo delle facoltà di filosofia e di scienze sociali, e non di quelle di medicina e di scienze naturali, che pure sarebbe ingenuo ritenere del tutto “neutrali”) è oggi un fattore di ostacolo alla comprensione della totalità espressiva del mondo. Esso si è strutturato (con eccezioni puramente testimoniali, e quindi statisticamente irrilevanti) nell’ultimo mezzo secolo sulla base di un codice progressistico di centro-sinistra fondato su di una variante liberalizzata ed individualistica di capitalismo, o più esattamente di Occidente a Guida Americana (OGA). Prevalgono in esso i codici del totalitarismo in
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storiografia, la negazione delle nazioni come semplici “comunità” immaginarie, l’ossessiva psicologizzazione narcisistica dei rapporti sociali, il politicamente corretto con l’ossessiva attenzione esclusiva alle minoranze sessuali, il disprezzo verso il popolo accusato di populismo e di rimbecillimento televisivo, l’apologia del relativismo e del nichilismo in filosofia (che come ho detto in precedenza è di fatto un seppellimento delle istanze veritative che derivavano dalla coscienza infelice borghese), eccetera. Se vogliamo trovare il peggio dei codici filosofici esistenti nel mondo, possiamo rivolgerci con sicurezza ai codici universitari. E tuttavia, questo è già avvenuto in altri casi storici. Ad esempio, nel passaggio storico dal Quattrocento al Settecento, l’intero apparato del sapere universitario dovette essere abbandonato e radicalmente rifondato. Sono sicuro di poche cose, ma di una lo sono, e cioè che lo stesso dovrà avvenire nei prossimi due secoli, a meno che questo indegno sistema capitalistico si rafforzi ancora di più. Se si indebolirà, l’indegno baraccone universitario dovrà essere radicalmente modificato. L’evoluzione mercatistica della cultura di destra è un fatto relativamente prevedibile, in quanto da circa due secoli c’era sempre stata una destra conformista, liberale in politica, liberista in economia, che aveva riciclato il precedente aristocraticismo signorile in aristocraticismo industriale e finanziario (a livello torinese, dal principe Emanuele Filiberto al principe avvocato Agnelli). La sostituzione degli scudi e degli spadoni con i libretti d’assegni e le quotazioni in borsa non può ovviamente lasciare intatti i profili culturali di riferimento. E siccome oggi per governare è obbligatorio assumere formalmente un codice politicamente corretto, l’avvicinamento ideologico di Massimo D’Alema e di Gianfranco Fini non indica assolutamente un inesistente “tradimento” dei valori politici originali (il conflitto fra fascisti e comunisti ha oggi lo stesso statuto ideologico e storiografico del conflitto fra guelfi e ghi-
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bellini), ma un adeguamento sistemico a funzioni strutturali di gestione del consenso e dell’economia. Gli eredi nichilisti del vecchio fascismo e del vecchio comunismo, infatti, devono riunificarsi nella nuova lotta politicamente corretta contro il cosiddetto “populismo”. Questo populismo, purtroppo, oggi è dominato da un codice securitario e paranoico con risvolti provincialistico-razzisti, ideologicamente funzionali ad una nuova eventuale guerra di “civiltà” di un occidente americanosionista contro il resto del mondo. È un peccato, ma è così. Speriamo che in futuro il populismo possa prendere vie più utili e feconde (l’ideale sarebbe Chávez, anche se è improbabile, ma non è ancora proibito sognare). Il codice culturale della vecchia sinistra è fermo al 1945, da allora non è mai stato intenzionalmente rinnovato, e questo non tanto per pigrizia o stupidità, quanto perché rispondeva nell’essenziale ai problemi di legittimazione politica di un sistema sociale ancora caratterizzato da un capitalismo industriale, dalla sovranità monetaria dello stato nazionale, da un tessuto familiare di costumi ancora tradizionale, dalla produzione fordista di fabbrica, dalla politica economica keynesiana, dal riferimento simbolico dell’antifascismo cerimoniale e rituale, dalla contrapposizione ideologico-simbolica comunismo/ anticomunismo, dalla frequenza religiosa non ancora di nicchia, eccetera. Questo mondo è praticamente scomparso nel ventennio 1980-2000, ma sono mancate le soggettività culturali che potessero attuare la grande trasformazione necessaria. O meglio, è mancata del tutto la committenza politica, sociale e culturale che avrebbe potuto essere interessata a questa trasformazione. Non è che oggi potenzialmente non esistano i Labriola, i Gramsci, eccetera, che avrebbero potuto iniziare questo processo di trasformazione dei paradigmi culturali. Certamente esistono, perché le potenzialità dell’innovazione culturale sono un dato biologico esistente in ogni generazione, e non solo in alcune generazioni magicamente privilegiate e
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toccate da una forza creativa divina. Se però non esiste committenza politica e sociale, diretta o indiretta, queste individualità potenziali avvizziscono e spariscono. Come ha scritto una delle mie autrici preferite, la bizantina Anna Comnena, il tempo passa, e porta con sé nel nulla sia le grandi opere che le piccole opere. Per questa ragione il profilo del personaggio tipico della vecchia sinistra cumula in sé sia elementi paranoici che elementi schizofrenici. Da un lato, come ogni buon paranoico, vede ovunque provocazioni, infiltrazioni, complotti, fascisti e populisti. Dall’altro, come ogni buon schizofrenico, fa l’elogio del moderatismo capitalistico, e nello stesso tempo celebra rituali religiosi sul mito sociologico proletario e sulla perenne attualità dell’antifascismo in conclamata e totale assenza di fascismo. Per finire, la cosiddetta nuova sinistra rappresenta una interessantissima (per i sociologi ed i letterati) degenerazione narcisistica dell’individualismo, dovuta al divorzio fra la critica di tipo artistico-culturale alla ipocrisia borghese e la critica di tipo economico-sociale al capitalismo. Secondo l’ipotesi storiografica dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, da me ripetutamente accennata, ma che non mi stanco mai testardamente di riproporre ogni qual volta ne ho l’occasione (e lo faccio perché lì sta il cuore della questione) la sinistra in Europa si era costituita storicamente sulla base di una alleanza fra i ceti popolari, che contestavano il carattere disumano della produzione capitalistica che li sfruttava e li spremeva come limoni, ed i ceti intellettuali, che invece contestavano l’ipocrisia della morale borghese. Si trattava, con tutta evidenza, di una variante della dialettica della coscienza infelice. Ma mentre in Marx ed Engels, e poi Lenin, Gramsci, eccetera, questa coscienza infelice evolveva dialetticamente in consapevole contestazione rivoluzionaria globale del sistema capitalistico, nel ceto intellettuale narcisisticamente degenerato questa contestazione non evolveva in modo rivoluzionario (una cartina di
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tornasole sta nell’antipatia degli intellettuali per Hegel e nella loro simpatia spontanea per Nietzsche), ma si avvitava su se stessa. E quando lo stesso capitalismo, evolvendo per ragioni interne di allargamento del mercato, cominciò a distruggere da solo gli aspetti conservatori e “retrogradi” del codice morale borghese tradizionale, la massa narcisista si intruppò felice (in proposito, non dimentichiamo mai che il mitico Sessantotto è stato il mito di fondazione e la leggenda metropolitana di questo ipercapitalismo individualistico liberalizzato nei costumi), ed il ceto intellettuale diventò il gruppo sociale più omogeneo alla legittimazione dell’attuale riproduzione sociale. Chi vuole opporsi a questo sistema deve quindi sapere che è impossibile continuare nell’equivoco, per cui esso è criticato sulla base di apparati categoriali e concettuali selezionati e filtrati dal nostro stesso nemico. Non è mai successo infatti (ed io mi vanto di possedere un’ampia conoscenza della storia universale comparata, dagli antichi egizi ad oggi) che una guerra venisse condotta sulle carte militari fornite direttamente dal nemico. Ammetto che la realtà supera in proposito tutte le simulazioni di tipo fantapolitico. Ma non dobbiamo stupirci, perché se non si sa neppure quale sia il nemico, come potremmo meravigliarci che lo sciocco gli faccia guerra con le stesse carte militari che il nemico gli ha fornito? Diciamo quindi grazie a chi, magari con alcuni errori di dettaglio, almeno restaura il problema della individuazione del nemico principale. Torino, giugno 2009
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Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo Dialettica della limitatezza, dialettica della corruzione
Questo è un testo filosofico, sconsigliato a chi non ha pazienza e non legge le cose molte volte fino a che non le ha capite. In realtà parte da un recente accadimento dell’attualità politica, il fatto che gli ex-comunisti del serpentone metamorficotrasformista Pci-Pds-Ds-Pd siano in questo novembre 2011 i principali sostenitori del commissariamento economico ultracapitalistico dell’Italia da parte di Monti, uomo della Goldman Sachs. Dal momento però che ho staccato da tempo la spina nel conflitto drogato e manipolato Destra/Sinistra e del Partito dei B/Partito degli anti-B, non intendo perdere tempo con sciocchezze leggibili ogni giorno nel circo mediatico e visibili ogni ora in quello televisivo. Mi occuperò di un problema di lungo periodo, chiamato dialettica. La dialettica è al cuore della comprensione filosofica dei processi storici. Ho così scritto due termini: filosofia e storia, o più esattamente comprensione filosofica dei fatti storici. Viviamo in un tempo in cui si dà per scontato che per capire il lato sociale dell’attualità basti ed avanzi l’economia, integrata dalla letteratura per quanto riguarda i conflitti psicologici degli individui. Sembra che la filosofia non abbia nessuno spazio.
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Chi scrive la pensa diversamente: la filosofia, se bene usata (se male usata è una pura perdita di tempo, meglio l’enigmistica, i romanzi polizieschi e la pesca con la lenza) illumina il presente storico ancora meglio della letteratura (che pure è meravigliosa) ed è certamente meglio dell’economia (che invece è miserabile).. Questo testo filosofico è diviso in quattro parti, rispettivamente: 1. Introduzione sulla dialettica. 2. Il capitalismo, la dialettica dell’illimitatezza. 3. Il comunismo, la dialettica della corruzione. 4. Conclusioni aperte provvisorie. Buona lettura. Ma buona lettura soltanto a chi leggerà con mente aperta, senza ripiegamenti identitari, presunzione di sapere già tutto (il contrario della “ironia” socratica), isterismi da politicamente corretto, boria da intellettuali so-tutto.
1. Introduzione alla dialettica La filosofia, anche quello apparentemente più complicata, parte sempre e soltanto dalla vita quotidiana. Diffidate da coloro che dicono che essa si occupa di cose inaccessibili al buon senso e all’intelletto comune. Costoro sono l’equivalente filosofico dei piazzisti e degli imbonitori. La filosofia però elabora e sistematizza in linguaggio necessariamente specialistico (simile in questo alla fisica) questioni accessibili anche e soprattutto all’intelletto comune. È sufficiente però che l’intelletto comune non si “chiuda a riccio”, ma accetti psicologicamente il terreno della possibile comprensione. La dialettica (risparmio qui al lettore la sua storia, cui io però ho dedicato un libro apposito) parla di come le cose cambiano
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e non restano ferme e sempre uguali nel tempo. Per “cose” si intendono non le scarpe, i sassi, i pesci, ma i processi, e cioè i processi di sviluppo dei fenomeni naturali e sociali. Per quanto riguarda i fenomeni naturali l’applicazione principale della dialettica è la teoria dell’evoluzione, non solo per quanto riguarda le scienze della vita, ma anche la geologia e l’astrofisica. Per quanto riguarda i fenomeni sociali, la dialettica deve tenere conto di un elemento inesistente nei fenomeni naturali, e cioè la volontà umana, che progetta e modifica il mondo che si trova davanti “dato”. In filosofia, questo fenomeno si chiama “prassi”, e non se lo sono certamente inventati Marx e i marxisti (ma andiamo!), ma il termine c’era già presso gli antichi greci (particolarmente in Aristotele) e presso i grandi idealisti tedeschi di inizio Ottocento (particolarmente in Fichte). Quindi, la dialettica parla del cambiamento e del mutamento. Ma ci sono due tipi diversi di cambiamento. Un primo tipo di cambiamento è quello che deriva da un’azione esterna di un soggetto su di un oggetto rimasto passivo (per esempio, il modellare una pietra con uno scalpello). Il secondo tipo di cambiamento è quello che deriva da un cambiamento interno alla cosa stessa (per esempio, l’invecchiamento, che avviene contro la nostra volontà). La dialettica è la comprensione dei cambiamenti interni di un processo, comprensione applicata ai processi storici e politici. La politica, in prima approssimazione, è soltanto lo strato superficiale della storia. Se si parte dalla politica per capire la storia, non la si capirà mai. Se invece si parte dalla storia per capire la politica, non è detto che la si capisca sicuramente, ma almeno ci si può provare. La dialettica, appunto perché pericolosa per i gruppi storicamente dominanti, è diffamata in particolare nelle facoltà universitarie di filosofia, che sono in generale costosi apparati ideologici delle stesse classi dominanti, e devono far diventa-
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re complicate le cose semplici, in modo che l’intelletto comune non le capisca (come fa, del resto, la facoltà universitaria di economia). Non vi è qui lo spazio, e neppure la necessità, per enumerare in dettaglio tutte le numerosissime varianti della diffamazione della dialettica. Ricordo qui solo sommariamente le tre principali (ma ce ne sono molte altre): (1) La dialettica è uno strumento dei filosofi, ma la filosofia non è una conoscenza affidabile del reale. Soltanto la scienza lo è, e la scienza non utilizza la dialettica, ma soltanto la logica comune, applicata alla matematica e all’esperimento controllato. In tremila anni i filosofi non sono mai riusciti a mettersi d’accordo con le loro chiacchiere interminabili ed indimostrabili, mentre la scienza invece ha precisi protocolli di verificazione e di falsificabilità delle ipotesi eventualmente errate. A questa obiezione si può rispondere che, anche ammesso che la scienza non utilizzi ma il metodo dialettico (ma insigni scienziati sostengono che invece lo usa), questo riguarda solo l’oggetto delle scienze della natura (astronomia, fisica, chimica, biologia, genetica, geologia, eccetera), mentre nella storia sociale umana interviene la soggettività progettuale individuale e collettiva, che retroagisce dialetticamente con altri progetti opposti e/o convergenti. (2) La dialettica è uno strumento sofistico per giustificare tutto ciò che avviene, ed in questo modo si può sempre giustificare e spiegare tutto, compreso il male e la malvagità umana, da Auschwitz a Hiroshima, da Stalin a Hitler. Se infatti alla storia viene attribuita una inesorabile necessità storica, allora diventa possibile giustificare tutto come prodotto di una necessità storica quasi “naturale”. A questa obiezione si può rispondere che questo sarebbe vero se la storia fosse una branca delle scienze naturali caratteriz-
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zate dalla categoria modale delle necessità (tipo caduta dei gravi in fisica) ma questo non è. La dialettica non intende affatto giustificare tutto, al contrario. La dialettica aiuta semplicemente a capire il perché un certo processo, partito con certe intenzioni, si è rovesciato alla fine nel suo esatto contrario. Il grande filosofo italiano Vico ha parlato in proposito di “eterogenesi dei fini”, ma anche chi non conosce la storia della filosofia ha sperimentato il fatto quotidiano che spesso ci si ripropone una cosa o un progetto, e si ottiene l’esatto contrario che non avremmo mai voluto. (3) La dialettica è una forma di religione per intellettuali, che si inventano un mondo “alienato” a testa in giù da raddrizzare, laddove il mondo reale non è affatto a testa in giù, e quindi non deve essere affatto raddrizzato, ma va preso così com’è nel migliore modo possibile. In particolare la dialettica marxista, presupponendo che il capitalismo è un mondo alienato da raddrizzare, immagina che ci sia stato un tempo, all’origine della storia, un mondo diritto, normale, che si tratta di restaurare. Si tratta della trascrizione in linguaggio filosofico sofisticato della concezione religiosa monoteistica per cui c’è stato all’origine un Paradiso Terrestre, perduto a causa di un Peccato Originale punito da Dio. A questa obiezione si può rispondere che la dialettica non si occupa di una pretesa ed inesistente restaurazione di una Origine nel frattempo perduta ad opera di un Soggetto demiurgico, che non sarebbe altro che la manifestazione storico-sociale del Corpo di Cristo, in vista di un Fine Ultimo della Storia già prefissato (il comunismo, appunto, ma sarebbe un comunismo per imbecilli), ma di un’analisi degli sviluppi storici da un punto di vista interno al processo stesso, e non invece esterno. Il discorso sarebbe appena cominciato, ma possiamo per ora terminarlo qui, in quanto verrà “applicato” a due fenomeni, trattati separatamente, ma in realtà dialetticamente intercon-
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nessi, la dialettica del capitalismo, caratterizzata dalla illimitatezza, e la dialettica del comunismo, caratterizzata dalla corruzione. Parlo ovviamente del capitalismo realmente esistente, e non di quella rappresentazione utopica di esso caratterizzata dalle presunte armonie del mercato e dalla “mano invisibile” del mercato stesso, e del comunismo realmente esistito, e non di quella rappresentazione idealizzata presa da Marx. Impossibile scrivere queste cose senza irritare qualcuno. Ma se il filosofo si spaventasse per l’eventualità dell’irritazione e del gossip diffamatorio, tanto varrebbe smettere di filosofare ed aprire una baracchetta di pop-corn.
2. Il capitalismo: la dialettica dell’illimitatezza Prima di essere una società dominata dalla riproduzione di vincoli economici ben precisi, il capitalismo è un processo storico sociale caratterizzato da una specifica dialettica. Si tratta della dialettica della illimitatezza, caratterizzata dalla impossibilità di rispettare un limite definito in via religiosa, filosofica e politica. Qui diamo per scontata nel lettore la conoscenza storica della prima globalizzazione capitalistica mondiale (studiata da Wallerstein) fra il Quattrocento ed il Seicento, della periodizzazione economica del capitalismo (studiata da Giovanni Arrighi), della seconda globalizzazione imperialista di fine Ottocento, e dell’attuale terza globalizzazione capitalista (studiata in particolare da David Harvey). Mi limiterò invece volutamente al solo aspetto filosofico-dialettico del problema. La dialettica della illimitatezza fu già studiata in modo mirabile (e di fatto filosoficamente completo) dagli antichi greci, che ovviamente non potevano applicarla ad un ancora inesistente capitalismo, ma la applicavano all’accumulazione illimitata di ricchezze monetarie e di potere politico tirannico e dispotico
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che minacciava la riproduzione comunitaria della polis. Il lettore non cerchi di capirci qualcosa con i consueti manuali di storia della filosofia, costruiti sulla base della destoricizzazione e della desocializzazione. Sembra che ad un certo punto alcuni precursori delle facoltà scientifiche abbiano cominciato a dire che il mondo nasce dall’acqua o dell’aria, che c’è il vuoto oppure non c’è, che il mondo è stato fatto a caso (dei veri precursori di Odifreddi!), oppure che è stato fatto da una mente superiore (dei veri precursori di Ratzinger!). Eccetera, in un’orgia di stupidità. Sciocchezze. I primi filosofi erano prima di tutto legislatori comunitari, che per rendersi autorevoli e credibili presso i loro concittadini in termini di proposte legislative comunitarie (nomoi), rette da un calcolo sociale della buona distribuzione dei beni (logos), che per andare incontro alla giustizia (dike) dovevano prima di tutto applicare la giusta misura (metron), dovevano apparire come conoscitori della natura (physis), visto che per i greci non esisteva nessun patto con Dio, e quindi non ci potevano essere profeti e Messia, non importa se barbuti o rasati, umani o divini. Partendo dalla natura, appariva chiaro che mentre il limite è un principio di ordine (taxis), l’illimitato (apeiron) è invece un principio distruttore ed incontrollabile, e così come lo è in natura, così lo è anche nella società (e cioè il potere illimitato delle ricchezze). Non crediate di poter trovare queste cose nei manuali di filosofia. Li ho adoperati io stesso per 35 anni, ed è come se Galileo fosse stato costretto a servirsi di un manuale geocentrico e Darwin di un manuale fissista. Ma cosa non si fa per la pensione! Pitagora fu il primo a sistematizzare numericamente il principio per cui il limite è migliore dell’illimitato. Platone non ne fu che un allievo ateniese passato per il dialogo socratico. Parmenide fu il primo che con il termine (solo apparentemente
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astratto, ed in realtà concreto) di Essere intese indicare la metafora del mantenimento permanente “eterno” di una buona legislazione politica pitagorica capace di impedire l’irruzione distruttiva della ricchezza (metaforizzata correttamente con il termine di Nulla, che i manuali liceali ed universitari scambiano per il vuoto pneumatico). E potremo continuare. Ma ciò che conta è capire che il grande pensiero filosofico greco, di fronte ai processi di corruzione e di dissolvimento portati dalla ricchezza monetaria e dalla schiavitù per debiti (esattamente lo stesso problema cui siamo oggi di fronte, in una nuova versione capitalistica della schiavitù per debiti), aveva già dialetticamente capito che senza un limite, posto dalla volontà umana ispirata dalla misura, non c’era modo di fermare e di opporsi (katechon) allo scatenamento delle potenze distruttive dell’illimitato. Facciamola corta sulla storia dal Trecento avanti Cristo al Mille e Settecento dopo Cristo. Dal momento però che in mezzo c’è il cristianesimo, che è un fenomeno storico grande come l’Himalaya, non posso “saltare” del tutto il suo “risvolto” filosofico. Per i cristiani l’unico illimitato ed infinito è Dio, mentre gli uomini per loro stessa natura sono “finiti”. Ma la gestione simbolica di questa finitezza è delegata ad un potere particolare, le chiese cristiane (prescindo qui dalle loro divisioni sanguinose), che commisura questa finitezza ai rapporti politici di classe che di volta in volta difende, prima schiavistici, poi feudali, poi signorili, poi assolutisti ed infine capitalistici. Dio è presupposto “neutrale” rispetto all’economia, ma guarda caso è quasi sempre a fianco dei dominanti. Dio però è simbolicamente anche un limite all’illimitata prepotenza dei dominanti stessi, che infatti a fianco non hanno economisti, ma confessori. Non si tratta di pura ipocrisia, anche se l’aspetto ipocrita è provocatoriamente dominante, ed ha sempre nutrito tutti i facili anticlericalismi “laici” successivi. Il fatto però di credere in Dio era di per sé un limite, sia pure spesso fragile, alle tendenze alla illimitatezza del denaro e del potere.
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Il capitalismo non può nascere, soprattutto filosoficamente, sulla base di una limitazione esterna all’economia stessa. Esso nasce quindi come filosoficamente illimitato in via di principio. L’accumulazione del capitale deve pensarsi come teoricamente illimitata, sia pure in presenza dei limiti ecologici della natura e dei limiti dovuti alla moralità umana. Bisogna quindi prestare attenzione alla nascita filosofica del nuovo tipo di limitatezza del capitalismo. Intorno al Settecento circa (risparmio qui le pur interessanti premesse del rapporto fra capitalismo e calvinismo, a mio avviso largamente sopravvalutate) i tre “limiti” teorici al dominio incontrollato dell’economia erano nell’ordine un limite religioso (Dio), un limite filosofico (il diritto naturale, o giusnaturalismo) ed un limite politico (il contratto sociale, o contrattualismo). Perché l’economia politica potesse autofondarsi su se stessa integralmente, senza alcun bisogno di fondazione esterna che la limitasse, bisognava disfarsi dell’ordine di Dio, del diritto naturale e del contratto sociale. Chi compì questa notevole impresa fu una coppia di scozzesi, David Hume ed Adam Smith. In questa sede, non posso scendere nei particolari, e devo accontentarmi del cuore del problema. Ripeto: il cuore del problema è l’autofondazione dell’economia politica su se stessa, senza dipendenze (e cioè senza “limiti”) da parte di fattori esterni all’economia stessa, come Dio (religione), diritto naturale (filosofia) o contratto sociale (politica). Perché l’economia possa avere un potere simbolico assoluto, non deve essere limitata da niente di “esterno”, ed apparire come completamente autosufficiente e sovrana su se stessa. Si tratta di un totalitarismo concettuale che persino le religioni non hanno mai osato sostenere in questa forma (Dio è infatti sempre un “limite” per i comportamenti umani). Qui lascio perdere i nomi, e giungo al nocciolo del ragionamento.
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L’economia è sovrana, perché si basa sulla natura umana, che viene vista come portatrice di una tendenza spontanea e di un’abitudine innata allo scambio fra le attese del venditore e quelle del compratore. Questo meccanismo spontaneo non ha bisogno di nessuna fondazione esterna, che sia Dio, il diritto naturale o il contratto sociale. Seguiamo il ragionamento. Per quanto riguarda Dio, l’economia politica è scettica, e non atea o materialistica. Non c’è nessun bisogno di affermare che Dio non esiste, e che i preti sono sciamani e stregoni che approfittano delle superstizioni degli ignoranti. Questo gli economisti lo lasciano ai laicisti fanatici, ed alla loro versione plebea e stracciona posteriore, i comunisti atei che al posto di Dio mettono un altro Dio ancora più inesistente, la Storia intesa come fatalità irreversibile del progresso. Basta dire che Dio non può interferire nelle armonie economiche, e deve accontentarsi al massimo del regno della morale individuale, in particolar modo sessuale. È veramente il massimo dell’idolatria pensare che Dio, con tutte le cose che presumibilmente ha da fare, debba occuparsi prioritariamente di scopate extramatrimoniali. Comunque, ciò che conta è che Dio non ficchi il suo naso ultraterreno nei meccanismi economici. Per quanto riguarda la filosofia (a quei tempi il diritto naturale, e poi successivamente il sistema idealistico tedesco, la teoria dell’alienazione di Marx, il delirio superomistico di Nietzsche, il pessimismo di Heidegger, fino al disincanto pessimistico di Adorno, Lyotard, Sloterdijk, eccetera), è noto che essa non può dimostrare empiricamente niente di quanto afferma, e quindi è meglio che non rompa le scatole su cose serie come l’economia. Hume consiglia addirittura di bruciare tutti i libri di filosofia che pretendano di parlare della “verità”, ed in effetti se la sola verità è il Pil ed il giudizio dei mercati, a che serve parlare dell’Essere, che è del tutto indimostrabile? In quanto al contratto sociale, Hume ritiene che molti credono che esso sia “causato” dal diritto naturale, “causi” la società umana e
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ne sia una interpretazione (di “destra”, Hobbes, di “centro”, Locke, o di “sinistra”, Rousseau), ma la causalità non esiste neppure, ed in ogni caso non si può fondare la società economica sulla base di una premessa indimostrabile ed inesistente, come la filosofia (la filosofia? Ah-ah-ah!). Come se questo non bastasse, non si può neppure postulare una soggettività stabile preliminare, in quanto ciò che viene chiamato “soggetto” non è che un flusso mutevole di sensazioni e di impressioni (Nietzsche, su questa base, sostenne un secolo dopo che il soggetto non era che un flusso energetico di volontà di potenza, e solo un baffuto allucinato poteva pensare di essere così anche anti-borghese!). Il lettore respiri profondamente. In questo modo, il capitalismo è fondato su di una illimitatezza potenziale assoluta, perché non esistono “limiti” esterni, come la religione, la filosofia e la politica. L’attuale e fatale “giudizio dei mercati”, cui si sono sottomessi i vari “comunisti” (ad eccezione di piccoli gruppi marginali di credenti fondamentalisti), non è che uno sviluppo dialettico di questa premessa autofondata. Il capitalismo non è quindi per nulla “conservatore”, come lo ha creduto per un secolo l’emulsione intellettuale più stupida del sistema solare, e cioè la cultura di sinistra. Al contrario, esso è una forza rivoluzionaria, che definirò però un rivoluzionarismo nichilista. È bene comprendere questa connotazione, perché essa delimita concettualmente i confini teorici della sua comprensione. Esso è rivoluzionario, come aveva già capito Marx, perché rivoluziona e distrugge tutti i sistemi ideologici, economici, politici e sociali precedenti, in quanto non si ferma davanti a niente, non importa se sia un residuo feudale, proletario o borghese (l’errore più stupido della tradizione di sinistra è sempre stato quello di identificare la borghesia con il capitalismo, e cioè una soggettività storica collettiva con un processo anonimo riproduttivo impersonale), in quanto la sua sola finalità è l’allargamento “infinito” ed indetermi-
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nato (apeiron) della forma di merce a tutti gli ambiti possibili di vita individuale o associata e comunitaria. Esso è nichilista, perché il semplice allargamento illimitato della forma di merce è esattamente ciò che nella filosofia greca, a partire da Parmenide, era connotato come il Nulla. I capitalisti, infatti, oggi non sono più neppure “borghesi”, anche se un tempo lo erano. Oggi sono solo delle “maschere di carattere” (Marx), dei ruoli sociali, degli agenti strategici della riproduzione capitalistica, meccanismo anonimo ed impersonale che nella filosofia contemporanea ha già avuto molti nomi (gabbia d’acciaio in Weber, dispositivo tecnico in Heidegger, eccetera). Lo studioso italiano che lo ha capito meglio (e per questo è stato silenziato dalla “sinistra” politicamente corretta) è stato Gianfranco La Grassa, e conviene leggerlo, se si riesce a superare il senso di ripugnanza delle sue espettorazioni contro la filosofia e l’umanesimo, residuo di depositi ideologici estremistici degli anni Sessanta del Novecento. Attualmente siamo in preda alla dinamica dell’illimitatezza. I vari Lagarde, Monti, eccetera, non sono che fantocci, maschere di carattere. La dialettica permette di capire bene questo processo. Ci vuole, ovviamente, un “limite”, ma soffriamo di questa mancanza. Non mi raccontino che sono “limiti” i grotteschi movimenti impotenti, testimoniali e filosoficamente analfabeti (pacifismo, altermondialismo, indignati, eccetera). Costoro non potrebbero limitare neppure il bollire dell’acqua per il caffè. Lo stesso si può dire dei movimenti sindacali, la cui impotenza si manifesta plasticamente nei tamburi e nei fischietti dei loro riti deambulatori. Il movimento del comunismo storico novecentesco (1917-1991), oggi defunto da almeno un ventennio come fattore storico mondiale, è invece stato un limite vero (katechon), sia pure debolissimo. Non parlo ovviamente dei ciarlatani snob dei salotti di sinistra, ma proprio degli Stati comunisti ad economia pianificata ed a estensione geopolitica.
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Ma questi sono finiti. Per tradimento? Ma non diciamo sciocchezze! Sono finiti per una dialettica interna, che cercherò sommariamente di descrivere adesso.
3. Il comunismo: la dialettica della corruzione Esiste un modo consueto per esorcizzare il problema della corruzione interna dialettica del comunismo, e cioè la distinzione tra “veri comunisti”, quelli soggettivamente rimasti tali, (fra i quali, se vogliamo usare questo termine trogloditico, ci sono anch’io) e “falsi comunisti”, o ex-comunisti (tipo Gorbaciov, Eltsin, D’Alema, Veltroni, Napolitano, eccetera). In questo modo, il problema della corruzione irreversibile del comunismo come fenomeno storico viene continuamente rinviato, per non scandalizzare gli ultimi babbioni credenti, che devono essere continuamente rassicurati con la teoria del tradimento soggettivo dei traditori (equivalente ateo della teoria del peccato e della debolezza della carne per i credenti). Io invece sceglierò un’altra strada. Da un punto di vista strettamente filosofico, io sono sempre “comunista”, e lo sono anzi molto più che in gioventù, perché ora il mio comunismo è “purificato”, e non è mescolato con le stupidaggini di “sinistra” con cui l’avevo nutrito per decenni. Ma qui intendo muovermi su di un piano strettamente dialettico, che riguarda soltanto la dinamica processuale del comunismo “concreto”, quello storico, lasciando perdere per ora le grandi idealità filosofiche, di cui sono soggettivamente un cultore (ricordo che la mia interpretazione di Marx ne fa un umanista ed un idealista). Il comunismo moderno che conosciamo, in particolare nella variante di Marx e del marxismo, non trova assolutamente la sua origine in un movimento spontaneo delle classi popolari. Chi cerca questo movimento spontaneo può trovarlo piuttosto
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nel sindacalismo inglese e nel federalismo francese (Proudhon, Sorel, eccetera). Il comunismo moderno (prescindo qui dalla trasformazione della teoria del valore-lavoro di Smith fatta da Marx) ha invece avuto due matrici genetiche, entrambe borghesi al cento per cento ed al mille per mille: l’elaborazione della teoria hegeliana della coscienza infelice della borghesia ed il mito borghese del progresso. Le esamino separatamente, ma sia ben chiaro che si tratta di un’operazione scolastica, perché sono in realtà unite. La borghesia, intesa come classe generale, e non solo come portatrice anonima ed impersonale dei rapporti capitalistici di produzione, distribuzione e consumo, è una classe contraddittoria, e quindi dialettica. Da un lato, pensa se stessa ideologicamente come classe universale, portatrice di benessere, ricchezza e progresso per tutti, e dall’altro è consapevole di essere una classe sfruttatrice, che estorce un pluslavoro da altri, e questo indipendentemente dal modo in cui lo giustifica a se stessa ed ai suoi dominati. Questo spazio dialettico contraddittorio lo chiamo “coscienza infelice” della borghesia, e mi permetto di utilizzare senza il loro consenso le grandi anime di Hegel e di Marx. In particolare il comunismo di Marx non ha assolutamente nessun rapporto con le visioni spontanee del mondo delle classi popolari del tempo, ma deriva linearmente da una geniale coniugazione dialettica della teoria smithiana del valore e della teoria hegeliana dell’alienazione. Tutti i discorsi sull’origine popolare e proletaria del marxismo, ivi compreso quello originario di Marx, sono aggiustamenti ideologici posteriori e mitologie di giustificazione e di legittimazione. Questo è particolarmente chiaro se si riflette sulla bovina ed animalesca adesione del marxismo alla ideologia borghese del progresso, assolutamente inesistente presso gli antichi greci, che erano riusciti a pensare la giustizia, l’eguaglianza, la democrazia e la solidarietà senza bisogno di questo grottesco e mito-
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logico succedaneo. È vero che anche alcuni “marxisti” (faccio qui solo i nomi del francese Georges Sorel e del tedesco Walter Benjamin) stroncarono queste infondata credenza, ma il grande corpaccione della sinistra, luogo storico di coltivazione secolare del marxismo, si definì sempre come “progressista”, in antinomia ed opposizione al capitalismo, tendenzialmente connotato come “conservatore e reazionario”. Il mondo alla rovescia. In realtà il cosiddetto “progresso”, chiamato anche “modernizzazione”, era sempre e soltanto l’approfondimento sociologico ed ideologico dell’estensione della forma di merce “liberalizzata” (a partire dal cosiddetto “costume liberalizzato” dell’individualismo estremo), per cui la cultura di sinistra negli ultimi decenni, almeno dopo il mitico, mefitico e demenziale Sessantotto, fu sempre l’ala marciante della modernizzazione capitalistica, essenzialmente post-borghese, e non certo soltanto post-proletaria. L’ideologia del progresso si basava su di una concezione sostanzialmente lineare della storia, vista come uno spazio simbolico in cui si è Avanti, e non si può andare Indietro. Naturalmente la storia reale non ha nulla che fare con quest’immagine da asilo infantile. Un’automobile sull’autostrada può andare avanti o indietro, ma il tempo storico non è né ciclico né lineare, non gira in circolo con un “eterno ritorno”, ma neppure va avanti. Se invece si adotta questa stupida religione della storia, più falsa ed assurda del paradiso dei testimoni di Geova, in cui tigri e leoni giocano con i bambini nel giardino di famiglie americane rigorosamente monorazziali (Geova infatti pratica l’apartheid, mentre almeno il Dio cattolico ed ortodosso ha accettato, sebbene da poco ed a malincuore, persino i matrimoni misti – quelli gay invece no, o almeno non ancora, anche se il politicamente corretto preme istericamente), la storia diventa il teatro dei vincitori, per cui i perdenti (in questo caso i comunisti) devono immediatamente sostituire le loro divinità perdenti con altre vincenti, e cioè nella fattispecie la Ditta-
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tura del Proletariato con il Fondo Monetario Internazionale, l’Eurocomunismo con la Banca centrale europea, Gramsci con Draghi e Monti, eccetera. Vorrei insistere che qui non abbiamo a che fare con il tradimento, o almeno non solo con il tradimento. Si tratta di dialettica, della severa ed implacabile dialettica di una teoria che ha come fondamento il Nulla, anche se è un nulla diverso (ma convergente) con il Nulla della Merce. Il solo progresso che esiste, infatti, è il Progresso della Merce. Questo spiega molto dell’adattamento dei comunisti a questo processo capitalistico. Naturalmente, abbiamo anche a che fare con le vecchie “tentazioni” del moralismo classico (piacere, ricchezza, potere, onori). Non intendo affatto negarlo. Ma la spiegazione non può essere così banale. Al di là di alcuni “asceti della rivoluzione”, statisticamente minoritari, la maggioranza dei “comunisti” da me conosciuti in mezzo secolo è composta di presuntuosi e cinici opportunisti senza Dio, che regnavano su babbioni del tutto privi di spirito critico (i trinariciuti di Giovannino Guareschi buonanima). Ma non voglio perdermi in particolari grotteschi di costume. Meglio tornare al severo processo della dialettica corruttiva. Ho fatto notare come l’abbattimento di Dio, sostituito da un connubio di Scienza e di Storia, dà luogo ad un esito nichilistico integrale. Per quanto concerne la Scienza, essa è effettivamente un’ideazione conoscitiva e pratica di enorme valore, motore di un “progresso” tecnologico che sarebbe sciocco negare e sottovalutare (e che personalmente non nego e non sottovaluto assolutamente), ma questo vale soltanto, ed è già molto, per la conoscenza della natura e per le applicazioni tecniche e mediche, ma nessuna “mentalità scientifica” arriverà mai a distinguere il Bene dal Male (scritti maiuscoli, ovviamente). In quanto alla storia, la sua divinizzazione finisce con il perdere tutte le conquiste etiche della vecchia religione, che
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magari postulava una divinità trascendente antropomorfizzata non esistente, ma conteneva giganteschi tesori espressivi non solo artistici, ma anche storici, morali e politici. E tuttavia, Marx pensava a se stesso non come un filosofo (erroneamente, pensava di aver abbandonato il terreno della filosofia fin dal 1845, all’età di ventisette anni!), ma come uno scienziato sociale previsionale. Le due tesi fondamentali su cui aveva costruito la sua idea di comunismo erano entrambe errate. Niente di grave, la scienza procede per prove ed errori, e nessuno è perfetto. Ma le due ipotesi di Marx erano entrambe non solo un po’ sbagliate, ma molto sbagliate. Si trattava dell’errata convinzione della presunta incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive, in primo luogo, e dell’errato convincimento sulla capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria, in secondo luogo. E trattiamole separatamente. Come è venuto in mente a Marx che da un certo punto in poi la classe borghese-capitalistica (da Marx non distinta nei sui due elementi) si sarebbe rivelata incapace di continuare a sviluppare le forze produttive? Non lo so, ma posso ipotizzare che si sia trattato di un’errata analogia storica. Le analogie storiche sono ancora più ingannatrici dei miraggi del deserto. Dal momento che le classi dei padroni schiavistici, dei signori feudali e dei dominanti asiatici si erano effettivamente mostrate ad un certo punto dello sviluppo economico incapaci di sviluppare le forze produttive, Marx ne inferì (tipico caso di induzione) che lo stesso sarebbe successo anche per la borghesia capitalistica. Previsione errata. La borghesia capitalistica non è una classe come le precedenti, ma un agente storico anonimo della produzione per la produzione, e cioè per la produzione limitata. E pensare che in altre parti della sua opera Marx sembra accorgersene. Se ne accorge, ma poi non ne tira le conseguenze.
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In quanto alla capacità rivoluzionaria inter-mortale della classe operaia, salariata e proletaria, è esatto che in realtà Marx non ha mai parlato di essa, ma della formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore all’ultimo manovale. Ma all’atto pratico l’intero “marxismo” veramente esistito di fatto ha ignorato questa tesi marxiana (nascosta nel capitolo VI del Capitale, e non a caso “inedito”), e per soggetto rivoluzionario ha sempre inteso la classe degli operai salariati di fabbrica. Ora, chi li ha conosciuti (ed abitando a Torino non si poteva non conoscerli!) sa che la classe operaia senza mediazione dei partiti, sindacati ed apparati tecnici non potrebbe gestire neppure una bocciofila o una società di pesca con la lenza, e questo non a caso. Mentre infatti gli artigiani ed i contadini sono padroni delle tecniche produttive autonome della loro professione, gli operai lavorano sulla base di un processo produttivo a loro completamente estraneo e di cui non posseggono le “chiavi” per la autogestione autonoma (salvo irrilevanti eccezioni). Ora, è terribile fondare la propria causa sulla base di tre presupposti tutti e tre inesistenti: (1) il mito del progresso, che non esiste; (2) l’incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive, che non esiste; (3) la capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria, che non esiste. Le ragioni della dialettica corruttiva del comunismo sono queste, e non certo Gorbaciov che ambisce a pubblicizzare le borse Vuitton e la pizza Hut o D’Alema che vuole pavoneggiarsi su di una barca a vela, come ogni buon capitalista o primario d’ospedale qualsiasi. Questo è solo folklore per straccioni. Ma il tema deve ancora essere approfondito, per poter avere della “corruzione” una comprensione dialettica, e non solo l’illusione moralistica per subalterni irrecuperabili. Ricordo ancora una volta (ma non devo stancarmi, perché vado controcorrente contro il senso comune, e pretendo una
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“conversione” radicale qualitativa della mentalità corrente, che è antropomorfica ed antropomorfizzata) che uso il termine “corruzione” nel senso dialettico di un processo interno a una dinamica storica. Dicendo che il comunismo si è corrotto dall’interno intendo connotare un processo storico, non certo diffamare l’idea marxiana di comunismo (io stesso, a sessantotto anni di età, mi dichiaro “comunista”, ed è improbabile che cambi connotazione nel tempo che ancora mi resta da vivere). Questa dialettica di corruzione si è storicamente intrecciata con la dialettica di illimitatezza del processo di allargamento del capitalismo. Possiamo così definire il senso filosofico intimo e profondo dell’ultimo trentennio di storia dell’umanità: per ora l’illimitatezza è uscita vincitrice della corruzione. E adesso?
4. Conclusioni aperte provvisorie. Dal mondo delle illusioni al mondo della comprensione Le illusioni sono state socialmente necessarie nella storia, dal l’illusione dell’avvento prossimo del regno di Dio (Paolo di Tarso) all’illusione della vittoria sicura del socialismo sul capitalismo (Lenin). Occorre capirlo, e non solo fare sorrisini di disincanto. Ma il tempo della coltivazione delle illusioni mi sembra ormai passato irreversibilmente. D’ora in avanti bisogna sostituire alla dialettica delle illusioni la dialettica della comprensione. Presa nel suo insieme, al di là di alcuni rari punti alti, l’eredità che ci lascia un secolo e mezzo di marxismo è ormai obsoleta. Non si passa dall’idealismo, sia pure radicalmente modificato da Marx, al positivismo di Engels senza doverne pagare il prezzo. C’è ancora chi crede che l’attuale tendenza al capitalismo globalizzato, anziché essere un momento del suo sviluppo il-
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limitato, sia stata soltanto una “risposta” al ciclo storicamente irrilevante delle lotte rivendicative per la distribuzione della classe operaia fordista negli anni Sessanta del Novecento. C’è chi continua a pensare che le crisi capitalistiche siano soltanto dovute alla caduta tendenziale del saggio di profitto, oppure a squilibri fra sovrapproduzione e sottoconsumo. Questi aspetti sono certamente presenti, ma sono aspetti di superficie, perché la “profondità” non è questa, ma la tendenza alla illimitatezza dell’estensione della forma di merce. E potremo continuare, ma è inutile. È impossibile raddrizzare le gambe ai cani. La comprensione parte a mio avviso da due punti discussi in precedenza, la piena assimilazione concettuale delle due dinamiche dialettiche della illimitatezza del capitale e della corruzione del comunismo (inteso ovviamente non come idea comunista, nella quale mi riconosco pienamente, ma come comunismo storico novecentesco realmente esistito). Una volta assimilati questi due punti, non si è ancora risolto assolutamente nulla, ma almeno la strada è sgomberata dai detriti, ed un veicolo può passarci senza restare incagliato o impantanato. La comprensione dialettica dell’oggetto e dell’oggettività (in questo caso la dialettica capitalistica dell’illimitatezza) è ciò che si chiama l’oggetto scientifico (in tedesco Objekt). Ma per trasformare questo “oggetto” in materiale di trasformazione attraverso una prassi storica adeguata (in tedesco Gegenstand, termine usato anche dal giovane Marx, concetto che i sostenitori del carattere unicamente “scientifico” del marxismo non capiranno mai, non più di quanto le cartomanti possano capire la metafisica) ci vuole un modo radicalmente diverso di concepire la soggettività, il soggetto ed i soggetti potenzialmente rivoluzionari, e soprattutto che cosa significa oggi “cultura critica al capitalismo”.
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La situazione attuale è rovinosa. Per motivi storici che ho già ampiamente avuto modo di analizzare, oggi si crede che la cultura anticapitalistica sia in definitiva la “cultura di sinistra” sedimentatasi nell’ultimo cinquantennio nei paesi occidentali, laddove questa cultura (tolte alcune eccezioni, che confermano la regola) è proprio il risultato dialettico della individualizzazione modernizzatrice della tendenza illimitata del moderno capitalismo post-borghese. La situazione, quindi, è per ora ancora peggiore di quanto possano sospettare le correnti più pessimistiche, perché senza potersi socialmente e collettivamente sbarazzarci di questa cultura, o almeno dei suoi aspetti dominanti, non si può neppure cominciare a porre il problema. Ma questo non comporta in me un pessimismo radicale. L’umanità sopravvive sempre agli idioti che ne vogliono monopolizzare l’interpretazione. Peccato, però, non esserci più quando questo avverrà. Torino, novembre 2011
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La crisi culturale della terza età del capitalismo Dominanti e dominati nel tempo della crisi del senso e della prospettiva storica
1 Il tema che ci interessa non è di facile inquadramento teorico, e bisogna allora iniziare con una “buona mossa d’apertura”. La mia mossa di apertura consisterà nel mettere in discussione un grande classico della tradizione culturale occidentale, il Manifesto del Partito Comunista di Marx e di Engels del 1848. Questa messa in discussione servirà solo da punto di partenza, e non ha affatto di mira una discussione critica generale su Marx e sul marxismo, discussione che non è oggetto di questo testo.
2 Nel Manifesto del Partito Comunista Marx ed Engels interpretano tutta la storia passata come storia di lotte di classe, ed individuano le classi fondamentali della società capitalistica nella Borghesia e nel Proletariato. Il termine di “borghesia” è usato come sinonimo dell’insieme dei proprietari privati capitalistici dei mezzi di produzione, che hanno la disposizione reale non solo sulle materie prime ma anche sulla forza-lavoro salariata, mentre il termine di “proletariato” indica l’insieme
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di tutti coloro i quali, esclusi o espropriati dai mezzi di produzione, devono vendere la loro forza-lavoro ai capitalisti sotto l’apparenza di uno scambio eguale (ma in realtà diseguale) fra il lavoro salariato ed il capitale. Questa grandiosa “semplificazione” ha esercitato un fascino enorme, perché non si trattava di una semplificazione infondata, ma dell’effettiva descrizione dello “scheletro” della società capitalistica. Lo scheletro, ovviamente, non è tutto, ma ci vuole anche la carne, il sangue e gli altri organi vitali. È invece sbagliato pensare che lo scheletro equivalga a tutto il corpo. Si tratta, in estrema sintesi, dell’errore fondamentale della maggioranza delle forme di marxismo storico.
3 La mia tesi di fondo, che ispira questo intero contributo, è che Borghesia e Proletariato non sono classi strutturali e permanenti dell’intero corso storico del modo di produzione capitalistico, ma solo classi genetiche, iniziali e provvisorie di esso. Nell’attuale età del capitalismo esse sono nell’essenziale già tramontate, e senza comprendere la dinamica del loro tramonto non è possibile neppure impostare il problema della natura di una crisi culturale. A mio parere siamo infatti oggi in un’età post-borghese e post-proletaria. Ritengo invece di dover usare la dicotomia di Dominanti e Dominati. Mi si potrebbe obbiettare che si tratta di una dicotomia tautologica e generica, che peggiora anziché migliorare la dicotomia precedente. Non lo credo. Non si tratta di fare il giochetto verbale di continuare a chiamare “borghesia” i dominanti capitalisti e “proletariato” i dominati salariati. Si tratta di comprendere che, in mancanza di una credibile terminologia scientifica ammessa da tutti, è meglio fare un passo in-
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dietro e limitarci a chiamare Dominanti e Dominati gli agenti storici attivi e passivi della riproduzione sociale complessiva del modo di produzione capitalistico. Almeno ci sottrarremo agli inganni del linguaggio consueto, quelli che Bacone chiamava idola fori.
4 Nel corso di questo testo userò i termini di “crisi” e di “cultura” in un senso molto preciso che chiarirò subito. Il termine di krisis, usato nella medicina greca, significa il momento cruciale in cui l’ammalato va o verso la morte o verso la guarigione. Al di fuori dell’ultima crisi terminale, dunque, tutte le altre crisi sono positive, benefiche e di guarigione, cioè di riproduzione del corpo e dell’anima. Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società.
5 La seconda “mossa di apertura” che farò consiste nel chiarire che la nozione di crisi culturale non può essere ricavata per estensione né dalla nozione di crisi economica né da quella di crisi politica. Vi è su questo un largo consenso, ma per chia-
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rezza vi dedicherò egualmente alcuni paragrafi, perché ritengo che l’“economicismo” ed il “politicismo” siano approcci riduttivi ed errati al problema che ci interessa. È soprattutto importante capire però, contro l’approccio di Louis Althusser e della sua scuola, che la cultura non si identifica con l’ideologia, che ogni equazione fra cultura ed ideologia è fuorviante, e che respingo ogni tripartizione consueta delle diverse istanze del modo di produzione capitalistico secondo il modello della semplice distinzione fra economico, politico ed ideologico. La paideia, antica, moderna e postmoderna, non è una ideologia. Prima lo si capisce e meglio è per tutti.
6 Non sono un economista, e tanto meno un esperto professionale di crisi economiche del capitalismo. Ho tuttavia studiato un poco la letteratura marxista sull’argomento, e mi pare di poter aderire alla teoria della cosiddetta ricorsività, nella forma in cui è stata esposta da Gianfranco La Grassa in numerose opere. Questa teoria della ricorsività (da non confondere con quella delle cosiddette “onde lunghe” di Ernest Mandel) ha un doppio merito. Primo, intende segnalare l’esistenza di una crisi complessiva dentro il modo di produzione capitalistico, che è allora anche e soprattutto una crisi degli assetti di potere, e non solo una crisi di tipo monetario e/o tecnologico. Secondo, rompe con tutte le mitologie del “crollo” (Zusammenbruch) e della crisi finale e decisiva. Come è noto, questi annunci crollistici sono anch’essi “ricorsivi”, e sono strutturati su di una conce zione storicistica, deterministica e stadiale del modo di produzione capitalistico, di cui si proclama sempre la “crisi finale”. Personalmente, non credo nell’esistenza di una crisi finale del capitalismo, e comunque non certo nel senso della teoria del crollo. Considero questa visione una inconsapevole secolariz-
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zazione in linguaggio economico del profetismo messianico, e rilevo che essa nella storia ha favorito incredibili sbagli anche e soprattutto da parte di persone serie e competenti. Ad esempio, Rosa Luxemburg era convinta che il crollo economico del capitalismo sarebbe derivato dall’esaurimento di tutti gli spazi geografici pre-capitalistici del globo. Mi sembra un errore totale, se riflettiamo sull’attuale mondializzazione capitalistica chiamata “globalizzazione”. Per fare un secondo esempio, Paul Sweezy sostenne a lungo la teoria della stagnazione capitalistica in termini di esaurimento delle capacità di innovazione tec nologica del sistema. Se vediamo cosa sta avvenendo oggi, mi sembra un altro errore totale. Non mi interessa però infierire su questi maestri del pensiero economico, perché considero i loro sbagli una ricaduta ideologica di un wishful thinking, cioè di una speranza politica sul prossimo crollo del capitalismo.
7 Non sono un politologo, e tantomeno un esperto professionale di crisi politiche del capitalismo. A suo tempo, Lenin parlò di crisi rivoluzionaria in termini di incapacità dei dominanti a governare come prima e di rifiuto dei dominati ad essere governati come prima. Non sarà forse un approccio accademico, ma mi sembra un buon approccio. Più difficile è stabilire la natura non delle rarissime crisi politiche rivoluzionarie, ma delle ben più frequenti crisi politiche di riproduzione, legittimazione e rappresentanza. In Italia abbiamo assistito circa un decennio fa ad una tipica crisi politica di passaggio, quella fra la prima e la seconda repubblica. Personalmente, non ho mai ritenuto che si trattasse di una crisi di legittimazione, o meglio di delegittimazione (e cioè i giudici di Mani Pulite che delegittimavano giudizialmente la classe politica professionale corrotta dei vecchi partiti, Psi in primo luogo, ma anche Dc e
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Pci). Queste delegittimazioni sono operazioni a forte impatto emozionale e mediatico, dovute all’approccio moralistico al potere tipico delle ideologie spontanee delle classi dominate, che si muovono in base alla semplice (ma irrilevante) dicotomia Onesti/Ladri. Si è invece trattato a mio avviso di una crisi di rappresentanza, legata all’eliminazione di un sistema elettorale proporzionale che in Italia era storicamente legato non tanto e non solo alla spartizione mafiosa dei posti (che caratterizza al 100%, anche i sistemi elettorali maggioritari), e neppure alle rendite di posizione dell’intermediazione politica corrotta (che caratterizza anch’essa al 100%, i sistemi elettorali maggioritari), ma soprattutto alle richieste di welfare dei gruppi organizzati della società. Bisognava alleggerire ed indebolire la rappresentanza, per alleggerire ed indebolire le richieste di welfare keynesiano (o parakeynesiano), in vista di una maggiore sovranità dei mercati finanziari internazionali. Ogni personalizzazione di questo delicato passaggio in termini di “craxismo” o di “berlusconismo” mi sembra solo una trappola per allodole credulone. Chi non è d’accordo con questa mia valutazione è pregato di riflettere sul fatto che l’ondata giudiziaria di delegittimazione delle classi politiche proporzionalistiche precedenti avvenne “in tempo reale” in quasi tutti i paesi del mondo, dal Giappone alla Germania, dalla Spagna alla Grecia, anche se solo in Italia portò alla curiosa metamorfosi di praticamente tutti i partiti della prima repubblica. Ma siamo pur sempre il paese del Gattopardo, in cui il presupposto della continuità sotterranea è fingere che cambi tutto.
8 Ho esposto brevemente nei due paragrafi precedenti la mia personale opinione sulla natura delle crisi economiche e po-
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litiche, perché ritengo che la base dell’etica della comunicazione sia appunto non nascondere le premesse di valore ed i presupposti interpretativi. Ma non do a questi due paragrafi molta importanza, perché non sono in alcun modo il centro del mio intervento. È invece molto più importante chiarire subito l’erroneità delle posizioni alla Athusser, che identificano di fatto cultura ed ideologia. Una volta chiarito questo possibile equivoco, potremo finalmente iniziare il nostro discorso vero e proprio sulla natura specifica dell’attuale crisi culturale del capitalismo.
9 Il concetto di cultura porta con sé la dimensione della possibile educazione universalistica del genere umano (paideia, Bildung). Si tratta di una nozione prodotta da alcuni illuministi tedeschi alla fine del Settecento, e poi correttamente ripresa da Kant e Hegel. Questa nozione riprende il vecchio concetto greco di paideia, arricchendolo (o impoverendolo, a seconda dei punti di vista) con la nuova consapevolezza della dimensione storica e temporale. L’ideologia invece non è equivalente alla cultura, e non è neppure una sorta di “parte politicizzata” della cultura stessa. L’ideologia è una rappresentazione del mondo, o più esattamente un insieme organico e gerarchizzato di rappresentazioni, che risponde immediatamente (e cioè senza mediazione ulteriore filosofica e scientifica) al problema del conferimento di senso e di prospettiva alla vita quotidiana, non appena questa vita quotidiana diventa oggetto di autoriflessione, o più esattamente diventa un concetto trascendentale riflessivo. Come del resto avviene per la religione, di cui l’ideologia (anche quella atea, ed anzi soprattutto quella atea) è sempre una forma impoverita, semplifica-
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ta e privata delle sue dimensioni esistenziali più importanti, si tratta di una antropomorfizzazione e di una conseguente soggettivizzazione (individuale o di gruppo) del mondo dei significati umani. L’equazione fra ideologia e cultura, fatta da Althusser e dalla sua scuola (con la conseguente tripartizione errata delle istanze del capitalismo in economia, politica ed ideologia), è del resto solo il triste raddoppiamento della precedente equazione fra epistemologia e filosofia, con la riduzione della filosofia stessa a riflessione di secondo grado sulle procedure di costituzione delle scienze naturali e sociali. In questo modo il problema diventa male impostato fin dall’inizio. L’ideologia, o più esattamente la produzione ideologica, è una dimensione strutturale permanente, e quindi antropologicamente e socialmente ineliminabile, dell’attività umana. Non esiste, ed ovviamente non può esistere, nessuna presunta “fine delle ideologie”. Quelle che finiscono, o quasi sempre si indeboliscono, sono solo delle formazioni ideologiche storicamente determinate e congiunturali. La cosiddetta “fine delle ideologie” è a sua volta una ideologia, e per di più particolarmente povera. Parlare di fine dell’ideologia è come sentir dire da un medico, a proposito del corpo umano, che c’è la fine del sudore, dell’adrenalina, dello sperma e degli escrementi. Si tratta di idiozia pura. Filosoficamente parlando, la fine dell’ideologia intesa come fine di ogni falsa coscienza e di ogni ripresentazione antropomorfizzata del destino dell’uomo equivarrebbe ad una impossibile divinizzazione dell’uomo stesso, trasformatosi integralmente in sostanza spinoziana o in Pensiero del Pensiero aristotelico. Una prospettiva da abbandonare esplicitamente.
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10 Nel titolo di questo saggio si parla di terza età del capitalismo. Si tratta di una periodizzazione classica, che in questa forma ho preso dal bel libro in lingua francese di Luc Boltanski ed Ève Chiapello. La prima età del capitalismo, dalla fine del Settecento agli anni Trenta del Novecento, è quella dell’impresa patrimoniale e familiare, del “borghese” e del capitano d’industria alla Sombart. La seconda età del capitalismo, che si sviluppa a partire dagli anni Trenta, è quella del compromesso fordista in cui il proletariato rinuncia progressivamente alla critica sociale in cambio di un flusso stabile e garantito di consumi e di servizi sociali che ne possano propiziare l’accesso alla classe media. La terza età attuale del capitalismo, caratterizzata da una enorme crescita di peso dei mercati finanziari, vede alcune modificazioni radicali non solo in campo economico e politico, ma anche culturale. Ed è appunto questo l’oggetto di questo saggio.
11 Boltanski e Chiapello definiscono in modo corretto il capitalismo come «un processo retto da una norma di accumulazione illimitata del capitale». Ottima definizione. In altra sede ho fatto notare (e continuerò a far notare) che questa norma di accumulazione illimitata è incompatibile con la vecchia sapienza filosofica greca, fondata sul concetto di “limite” (peras), per cui il limite stesso è la precondizione veritativa del fondamento e della verità (logos). Incidentalmente, questa è la ragione per cui non AMO che si definisca il processo di globalizzazione finanziaria e di mondializzazione degli scambi come “occidentalizzazione del mondo”. Il principio della illimitatezza caotica della ricchezza è un principio post-occidentale, non occidenta-
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le. È l’assassinio dei greci, nostri maestri, non certamente l’estensione della visione del mondo dei Greci all’intero pianeta.
12 Boltanski e Chiapello distinguono due diversi tipi di critica culturale al capitalismo, la critica artistica e la critica sociale. Questa distinzione sarà il vero punto di partenza di questo mio saggio, la “terza mossa d’apertura” di cui ho parlato. Boltanski e Chiapello ritengono che l’unione, o quanto meno la convergenza e la sinergia di queste due critiche abbiano in qualche modo caratterizzato, sia pure in modo diverso, le prime due età del capitalismo, mentre il vero problema culturale di questa terza età del capitalismo sta nel fatto che esse si sono trasformate ed indebolite, fino ad assumere un’altra forma. Sono completamente d’accordo. D’ora in poi, però, svilupperò autonomamente questa distinzione in modo del tutto diverso dai due autori francesi cui ho fatto riferimento.
13 La critica sociale al capitalismo è vecchia più di due secoli, si fonda sulle due categorie di eguaglianza e giustizia, e si basa ovviamente sul rilevamento, empiricamente innegabile, della diseguaglianza, della povertà (e spesso di quella forma estrema di povertà che è la miseria, materiale e morale) e soprattutto dell’insicurezza provocate dallo sviluppo del modo di produzione capitalistico. La triplice domanda di giustizia, eguaglianza e sicurezza ha ovviamente una “lunga durata” storica, e non nasce certo solo due secoli fa. Per fare solo alcuni esempi, Thomas Münzer nel 1525 e Babeuf nel 1796 simboleggiano
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questa triplice domanda sociale e culturale, eppure non c’era ancora il modo di produzione capitalistico. La prima, ed a mio avviso principale, caratteristica della critica sociale al capitalismo sta nel fatto che essa eredita elementi simbolici essenziali delle critiche sociali ai diversi modi di produzione precapitalistici (asiatico, antico-orientale, schiavistico, feudale, meso-americano, ecc.). Si tratta di un punto sistematicamente trascurato dai marxisti ortodossi, per cui il mondo inizia solo nel Settecento, e prima è solo una nebbiosa e noiosa palude di arretratezza. Ma il mondo non inizia certo con Marx, e questo vale non solo per i marxisti, ma soprattutto per gli antimarxisti. Quasi tutte le grandi religioni (e ricordo Siddharta Gautama, poi detto il Buddha, Gesù di Nazareth, e lo stesso Maometto) hanno come punto di partenza lo scandalo della miseria e della povertà. Sia per chi ci crede che per chi non ci crede Dio non può essere disgiunto da un concetto pretemporale e sovratemporale di giustizia, con cui gli esseri umani associati esorcizzano e contestano ad un tempo (e segnalo di prestare molta attenzione a questa unità dialettica di esorcizzazione e di contestazione, più esattamente di esorcizzazione teorica e di contestazione pratica) i rapporti sociali in cui vivono. Nell’unità di giustizia, eguaglianza e sicurezza è la giustizia a mio avviso il concetto fondamentale. Hanno dunque torto quei marxisti che, sia pure in perfetta buona fede, sostengono che il marxismo non è una teoria della giustizia, perché la distribuzione ineguale del plusvalore e la sua stessa produzione non derivano da scelte distributive ingiuste, ma da meccanismi del tutto indipendenti dall’etica. Se il marxismo vuole sopravvivere deve diventare una teoria della giustizia, anche se a mio avviso non in forma neocontrattualistica o neoutilitaristica. A differenza di come pensava il “ribelle aristocratico” Nietzsche le domande di eguaglianza e di sicurezza non sono affatto in conflitto con la giustizia, ma ne sono anzi degli
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elementi di specificazione assolutamente organici. Del resto, anche i bambini sanno che negli ultimi duecento anni non si è mai divenuti rivoluzionari dopo aver compreso il meccanismo della teoria del valore di Marx, ma sempre e solo per domanda di senso, richiesta di prospettiva e reazione all’ingiustizia, alla diseguaglianza ed alla insicurezza.
14 A differenza di come pensano tutti i marxisti (e gli stessi Marx ed Engels) ritengo che la sede sociale originaria di questa richiesta di giustizia, matrice della critica sociale al capitalismo, non sia stata la classe operaia ma la classe contadina. Esiste un pregiudizio storico contro i contadini, visti come individualisti, superstiziosi, ignoranti, sempre in bilico fra servile sottomissione e sanguinosa ma breve ribellione, luogo della passività sociale e dell’egemonia dei preti. Più correttamente rileva Gianfranco La Grassa: L’accumulazione originaria del capitale […] non poteva avvenire a spese del solo ceto sociale degli artigiani – con arricchimento di alcuni, diventati capitalisti, e fallimento di altri che si trasformavano in operai –, ma richiedeva il trasferimento di imponenti masse dall’agricoltura all’industria. I contadini possedevano una reale complessiva cultura altra (pur se certo non in grado di diventare dominante nella società tutta) rispetto alla borghesia capitalistica nascente. Il loro trasferimento in un ambiente totalmente diverso, la loro irregimentazione negli stabilimenti industriali, eccetera, creava un violento contrasto sociale con la nuova classe dominante oltre che un legame di solidarietà fra masse di individui in via di espropriazione dei loro saperi, delle loro precedenti modalità di vita e di ambientazione, dei loro usi e costumi, della loro cultura insomma.
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Qui La Grassa a mio avviso coglie il centro della questione. E lo coglie ancora di più quando fa ripetutamente notare che, mano a mano che i contadini si trasformano in operai, non diventano affatto più rivoluzionari, ma anzi si integrano sempre più nei meccanismi di legittimazione e di consumo della società capitalistica stessa. Non si tratta di negare l’assoluta pertinenza della teoria dello sfruttamento e dell’estorsione di plusvalore assoluto e relativo di Marx. La Grassa non la nega e tantomeno la nega chi scrive. Si tratta di capire che la spiegazione del meccanismo dell’estorsione del plusvalore non spiega, e non può spiegare, la reale dinamica della genesi e della formazione di una cultura anticapitalistica alternativa. Qui “cultura” non significa ovviamente solo educazione universalistica del genere umano (paideia, Bildung), ma insieme complessivo ed organico di visioni del mondo, abitudini, concezioni della vita, eccetera. Il sindacalismo riformista ha sempre dovuto lottare contro il cosiddetto “ribellismo operaio”, e lo ha sempre sistematicamente collegato a una classe operaia “arretrata”, in cui l’arretratezza era sempre una allusione alla recente provenienza contadina. Esso coglieva nel segno, assai più degli apologeti dell’operaismo integrale o delle operose formichine addette alla dimostrazione della corretta trasformazione marxiana dei valori in prezzi di produzione.
15 Quanto ho detto nell’importante precedente paragrafo non esclude ovviamente il fatto che è storicamente possibile parlare di “cultura operaia” come cultura improntata alla materialità tecnica ed alla solidarietà etica. Incidentalmente, faccio notare che durante un mio periodo di studi in Germania ho fatto una breve esperienza di “condizione operaia”. Dopo il Sessantot-
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to in Francia alcuni studenti ed intellettuali scelsero la via del cosiddetto établissement, e cioè il lavoro in fabbrica. Robert Linhart vi ha scritto un interessante libro (ma a suo tempo già Simone Weil lo aveva fatto). Voglio qui ricordare un mio fraterno amico, il medico lombardo Dino Invernizzi, mancato prematuramente nel 1992, che per anni scelse di lavorare in fabbrica come operaio. Non mi spaccio certo per esperto, ma so bene che esiste una cultura operaia della materialità e della solidarietà, che considero anzi superiore a certe oscillazioni instabili della piccola borghesia intellettuale accademicizzata o subalterna ai media. Fatta questa ovvia premessa, tutto questo non fa una cultura altra da quella del capitalismo, come è invece possibile dire per la classe contadina (o almeno per molte classi contadine). Su questo punto Antonio Gramsci a mio avviso si è sbagliato, quando ha creduto che l’egemonia (indipendentemente poi da altre questioni come il Moderno Principe o il Blocco Storico) potesse espandersi nell’intera società a partire da un ordine nuovo derivato dall’esperienza collettiva della produzione di fabbrica. Si trattò, ovviamente, di una nobile illusione tipica dell’epoca, e sarebbe sciocco oggi criticarla con lo sterile senno del poi. Non a caso, l’“egemonia gramsciana” fu sempre e solo uno strumento ideologico di mistificazione da parte di burocrazie politiche professionali pienamente integrate nella cultura del capitalismo. Vi sarebbero in questa sede molte cose da dire sulle ragioni strutturali per cui non si è formato in passato un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, di cui la classe operaia avrebbe dovuto essere solo l’avanguardia politicamente e sindacalmente organizzabile. Era questo (e non certo un generico “proletariato”) il vero soggetto rivoluzionario inter-modale ipotizzato da Marx. Ma questo non è l’oggetto del presente saggio, e rimandiamo quindi ai testi in cui è stato discusso nel dettaglio.
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16 I rilievi storici e teorici fatti nei due precedenti paragrafi ci dicono semplicemente che è normale e fisiologico, e non è dunque un “tradimento”, il fatto che nel passaggio dalla condizione contadina alla condizione operaia i lavoratori diventino sempre progressivamente meno rivoluzionari, e non più rivoluzionari. E non si dica, per favore, che diventano meno ribelli, e diventando meno ribelli diventano rivoluzionari più maturi. Questo è un sofisma che non può resistere a qualsiasi esame storico comparativo svolto nell’arco di duecento anni. Bisogna dunque respingere con forza le due pseudoteorie della cosiddetta “aristocrazia operaia” e del presunto “imborghesimento”. La teoria dell’aristocrazia operaia, che sarebbe stata corrotta con dei sovraprofitti imperialistici dovuti allo scambio ineguale dello sfruttamento coloniale, fu come è noto avanzata da Lenin per spiegare l’integrazione politica e culturale delle socialdemocrazie della II Internazionale. Vera o falsa che sia, questa teoria non è una “integrazione” di Marx, ma è un mutamento radicale di terreno rispetto alla concezione autentica di Marx, che era quella della formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato. Esattamente come per la teoria gramsciana dell’egemonia, la teoria leniniana delle aristocrazie operaie delle metropoli imperialistiche ha la scusante di essere stata prodotta in un momento di ricerca e di riflessione su fenomeni inediti. Chi pensa di non sbagliare mai, scagli la prima pietra. La teoria del cosiddetto “imborghesimento” della classe operaia non merita invece tanta comprensione. Ho sempre trovato vergognoso che ci si lamenti del fatto che gli operai vogliano comprare l’automobile, il frigorifero, la lavatrice, il televisore, il videoregistratore, la casetta di cattivo gusto con i nanetti sul prato, le vacanze organizzate, eccetera, anziché adempiere al loro (presunto) compito storico di riempire fumose sezioni di
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partito per organizzare rivoluzioni peraltro sempre dedotte (illusoriamente) da un processo storico (presunto) necessario ed inevitabile. Sul cosiddetto “consumismo” tornerò nel prossimo § 24, dedicato al doppio ruolo della circolazione autoveicolare e della televisione come fattori di una specifica forma storica di “individualizzazione”, e dunque non solo di spreco o di scemenza sociale. Qui mi basta solo ricordare che è assurdo sostenere (anche implicitamente, perché esplicitamente è impossibile farlo senza cadere nel ridicolo) che tutti possono consumare, ma gli operai no. E questo non certo per la nota argomentazione non solo keynesiana, per cui il potere d’acquisto dei salari sostiene la crescita economica e la domanda complessiva, ma per un fatto di etica elementare.
17 La progressiva perdita delle illusioni sulla centralità rivoluzionaria anticapitalistica della classe operaia di fabbrica (illusioni fin dall’inizio dovute alla mancata comprensione del passaggio storico dalla condizione contadina a quella operaia “normale”) ha oggi comportato un visibile spostamento delle attese rivoluzionarie su di un nuovo soggetto sociale complessivo, il “movimento dei movimenti” contro la globalizzazione dell’eco nomia capitalistica. Questo movimento, detto nel linguaggio dei media movimento no-global, sembra per molti aspetti essere l’erede di quello che negli anni Sessanta era chiamato “terzomondismo”. Non è così. Il cosiddetto “terzomondismo” era un elemento ideologico ancora completamente interno al vecchio paradigma rivoluzionario marxista, e recuperava interamente la teoria leniniana dell’imperialismo. L’attuale movimento anti-globa-
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lizzazione, almeno nei suoi vertici mediaticamente legittimati, è invece estraneo ed ostile alla teoria dell’imperialismo, perché sogna una globalizzazione già avvenuta, in modo da avere un oggetto da poter contestare globalmente, appunto. A mio avviso, il recente successo delle tesi “imperiali” di Negri e Hardt è dovuto appunto a questo desiderio di completamento, che è però solo un wishful thinking travestito da analisi teorica. Si tratta di un “desiderio”, impropriamente attribuito a Spinoza anziché a Lacan e Deleuze, in cui appunto il desiderio fa da legittimazione teorica. Il movimento anti-globalizzazione trova la sua fondamentale legittimazione culturale non solo nel senso di giustizia, che resta sempre il vero movente originario, ma anche nella decostruzione del vecchio paradigma operaistico marxista, ormai palesemente insostenibile. Che poi si tratti non tanto di una “decostruzione” quanto di una “metamorfosi” è una mia radicata convinzione, che considero però, ancora troppo prematu ra per essere veramente compresa dai polloi (che propongo di tradurre sia come “molti” che come “polli”). In ogni caso è interessante vedere come Che Guevara, che al tempo del terzomondismo era una persona reale in carne e sangue, sia oggi divenuto un logo, cioè appunto un simbolo consumistico ed identitario criticato da molti no-global scopritori dell’acqua calda.
18 La critica artistica al capitalismo, secondo la proposta terminologica di Boltanski e Chiapello, non è soltanto quella dei pittori, scultori, poeti, e scrittori, e neppure quella soltanto dei filosofi critici della società borghese nelle sue varie fasi storiche. È anche quella di chi ha scelto forme di vita contestatrici
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ed anticonformiste rispetto ai canoni di vita “rispettabili” pro poste appunto dallo stile sociale borghese. Questa critica artistica vede il mondo borghese, e di conseguenza il capitalismo concepito come suo prodotto necessario, come ad un tempo alienato ed inautentico. Più esattamente, inautentico perché “alienato”, in quanto fondato sull’alienazione della vera essenza umana, che è creatrice e “generica” (Gattungswesen), nella sola dimensione unilaterale dei valori borghesi e della riproduzione capitalistica. Nel linguaggio di Erich Fromm, l’Avere al posto dell’Essere. Nel linguaggio di Herbert Marcuse, l’uomo ad una dimensione. Questa distinzione fra le due critiche è benefica per entrambe, perché garantisce l’autonomia e nello stesso tempo la collabo razione dei lavoratori salariati e degli intellettuali critici. Nessuno dei due, in nessun momento delle prime due età del capitalismo, ha mai il sopravvento sull’altro, al di là della presunta unificazione fittizia nel cielo della politica e dell’ideologia, più esattamente nella nebbia dei politici e degli ideologi professionali. I discorsi sulla alienazione e sulla inautenticità si nutrono di fonti filosofiche serissime, che precedono tutte Marx ed il marxismo. Si tratta delle promesse mancate e non mantenute del migliore Illuminismo e del migliore Romanticismo, ed in più dell’elaborazione ulteriore della cosiddetta “coscienza infelice” hegeliana, fonte primaria di ogni critica non solo della religione, ma anche del capitalismo. Le forme di vita anticonformiste prendono nell’Ottocento e nel primo Novecento l’aspetto della cosiddetta bohéme, e nel secondo Novecento il titolo di beat e di hippy. È questo un segno del passaggio dall’egemonia della lingua francese a quello della lingua inglese. Il movimento operaio organizzato sospetta di queste forme di vita anticonformistiche, e ne condanna il carattere piccolo-borghese. Ma nell’essenziale l’alleanza non viene
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mai spezzata completamente, e viene comunque ricomposta dopo ogni crisi.
19 Le cosiddette “avanguardie storiche”, non solo artistiche e letterarie, ma anche filosofiche (anche se questo termine non è usato abitualmente nel campo della filosofia), sono un esempio di questa critica artistica al capitalismo, della sua strutturalità e della sua permanenza. Il destino di tutte le avanguardie, ovviamente, è sempre quello o di morire nel primo grande scontro con il nemico, o di essere superate dal grosso dell’esercito, di riposarsi e di diventare così “retroguardie”. In questo non c’è nulla di strano, nessun tradimento, nessuna corruzione e nessuno scandalo. Tuttavia il carattere ambivalente delle avanguardie, ad un tempo protesta ed anticipazione inconsapevole di tendenze storiche dominanti, sta proprio nel fatto che esse sono certo scandalose nella prima età protoborghese del capitalismo, diventano solo imbarazzanti ed inquietanti nella seconda età borghesematura del capitalismo stesso, ed infine finiscono con l’essere fisiologiche ed organiche alla terza età del capitalismo, integralmente post-borghese e post-proletaria, caratterizzata da nuovi ed inediti ceti sociali, dalla classe media globale americanizzata al nuovo lavoro salariato flessibile e precario. In questa terza età del capitalismo l’obsolescenza rapida delle merci diventa programmata, la pubblicità diventa dominante, e per usare la corretta definizione del situazionismo francese, “il valore d’uso delle merci tende a zero e quello di scambio tende all’infinito”. Ed in questo clima di frenetico movimento l’avanguardismo diventa l’ultimo stadio del conservatorismo. Un educato convegno di antichisti che parlano sottovoce di
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Seneca è infinitamente meno “conservatore” (dello spirito del capitalismo, intendo) di quanto non lo sia un concerto rock dei centri sociali con musica ad altissimo volume. L’apologia avanguardistica del gesto diventa così l’anticamera del falso anticonformismo della pernacchia televisiva. Il mercato dell’arte fagocita tutto, e la critica artistica del capitalismo finisce simbolicamente il giorno in cui un pittore italiano, di cui mi scuso di non ricordare il nome e di non voler perdere tempo a cercarlo, riesce a vendere a buon prezzo un suo barattolino che ha come etichetta “merda d’artista”.
20 Il Sessantotto, il mitico Sessantotto (1968 e dintorni) è certamente una data importante, anche se forse non epocale, nella storia dell’integrazione della critica artistica al capitalismo. Il fatto che molti attori sociali del Sessantotto lo abbiano soggettivamente vissuto come l’anticamera di una rivoluzione comunista classica, edificando nel decennio successivo orga nizzazioni politiche dotate di falsa coscienza ideologica di tipo marxista, leninista, staliniano, bordighista, trotzkista, maoista ed anarchico è certo interessante sul piano della ricostruzione del “vissuto”, ma lo è molto meno sul piano che qui ci interessa, che è quello di una ricostruzione prospettica delle tendenze di fondo e di lunga durata dell’epoca contemporanea. Nell’ottima formulazione sintetica di Gilles Lipovetsky, il Sessantotto è stato una rivoluzione senza finalità, senza programma, senza vittime né traditori, senza cornice politica […] un movimento lassista e molle, la prima rivoluzione indifferente, 1a prova che non c’è motivo di disperarsi nel deserto […] in una società intimistica che misura tutto con il metro della psicologia, l’esito post moderno della logica democratica consiste essenzialmente nel compimento definitivo del seco-
143 lare obbiettivo delle società moderne, cioè il controllo totale della società e, per altro verso, la liberazione crescente della sfera privata consegnata ormai al self-service generalizzato.
Sono perfettamente d’accordo. Da un lato, controllo sociale che si vuole totale. Dall’altro lato, ed in sinergia complementare, self-service generalizzato negli stili di vita personali e di gruppo. Per capire questo quasi tutto il marxismo politico tradizionale è inutile, e ci vogliono soprattutto Alexis de Tocqueville e Christopher Lasch. Ma è interessante che a conclusioni analoghe giunga anche il militante politico italiano Guido Viale: Con il Sessantotto il linguaggio si unifica, nasce il “sinistrese”, un misto di marxismo, di sociologia industriale, di contrattualismo americano, di terminologia medica e psicanalitica. Ma viene parlato da tutti. Scompaiono i dialetti, ma anche il linguaggio accademico e quello letterario. Le condizioni per la scalata del Sessantotto al potere sono poste. Il potere si riorganizza ed il controllo sociale viene restaurato nelle forme, con gli strumenti e con il linguaggio forniti dal movimento: nasce il consenso politico organizzato.
Il Sessantotto è dunque una importante tappa nella storia del l’affermarsi dell’individualismo subalterno che assume in un primo momento adolescenziale di acne giovanile la forma di un collettivismo politico esasperato. Un segreto, ma anche un segreto di Pulcinella.
21 Dopo il Sessantotto, nel suo apparente momento di massimo successo, il marxismo si frantuma in pezzi disorganici e non comunicanti, costituiti dall’operaismo sindacalistico, dal femminismo differenzialista, dall’ecologismo prima radicale e poi addomesticato dal ceto politico, dal pacifismo generico, dal giornalismo progressista “sinistrese” politicamente corretto,
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ed infine dall’incorporazione dei linguaggi universitari, in cui non c’è alcuna comunicazione fra il dialetto storico, quello filosofico, quello economico, quello sociologico, quello psicologico, quello politologico, eccetera. Questa esplosione della critica marxista è ovviamente preliminare e complementare alla implosione del sistema culturale complessivo del capitalismo di cui parlerò fra poco nel § 23, che è la chiave teorica di questo intero saggio e ne giustifica il titolo. In questa terza età del capitalismo, l’incorporazione universitaria (e poi giornalistica nella forma dell’“opinionismo autorevole”) della critica sociale assume caratteri quasi totalitari. Ci fu un tempo in cui Rosseau, Marx, Engels, Gramsci, ecc., non erano professori universitari e neppure cercarono di diventarlo. Oggi questo “dilettantismo” non è più consentito. In que sto rilievo non intendo affatto riprendere la vecchia polemica contro la cultura universitaria inaugurata da Schopenhauer. In giusti e moderati limiti, io sono un fruitore della cultura universitaria. Ma qui noto un fatto storico e sociale, non un oggetto di facile polemica. L’incorporazione universitaria della critica sociale (ed artistica) al capitalismo ne rappresenta anche in modo evidente la neutralizzazione. Adorno aveva ancora un piede dentro ed uno fuori dall’Università, ma il suo allievo Habermas ormai né è solidamente dentro con entrambi i piedi. Che questo non c’entri nulla con il contenuto del pensiero lo lasciamo a coloro che credono che il 6 gennaio il carbone per i bambini lo porti una vecchietta chiamata Befana.
22 Possiamo qui fare una breve pausa, tirare le conclusioni del discorso iniziato nel § 12, in cui ho proposto la distinzione di Boltanski e Chiapello sulle critiche sociali ed artistiche al ca-
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pitalismo. In questa recente terza età del capitalismo si sono entrambe indebolite ed hanno entrambe subìto un progressivo e graduale processo di integrazione e di neutralizzazione. Il loro spostamento fuori dal sistema capitalistico vero e proprio inteso in senso “metropolitano” (terzomondismo, movimento anti-globalizzazione, ecc.) è certo giustificato sul piano morale, ma sul piano pratico non fa che evidenziare il successo dell’integrazione, o almeno della neutralizzazione. È necessario partire da questa presa d’atto, ammesso che sia esatta (come io credo), per poter avanzare una diagnosi realmente credibile sulla natura profonda dell’attuale crisi culturale del capitalismo. Ed è quello che farò nel prossimo importante paragrafo.
23 L’indebolimento, la metabolizzazione, la neutralizzazione e l’incorporazione dei due tipi di critica precedente, sociale ed artistica, basate sulla convergente denuncia dell’ingiustizia e dell’inautenticità della vita nel capitalismo borghese, hanno portato egualmente ad una crisi culturale del potere in questa terza età del capitalismo stesso. Questa crisi culturale è una crisi implosiva, nel senso che la vittoria temporanea conseguita contro i suoi precedenti critici è stata talmente grande da essere anche eccessiva. In che senso diciamo che è stata eccessiva? Nel senso che essa non si è limitata a dominare il senso e la prospettiva dei suoi critici, ma li ha praticamente annientati, al punto da far sparire non solo il senso e la prospettiva “critici”, ma il senso e la prospettiva in quanto tali. Di una vittoria di questo tipo si può anche morire. Un cabaret culturale fatuo può anche continuare a dire che Dio è morto, Marx è morto, il senso è morto, la prospettiva storica è morta e ciò nonostante non siamo mai stati tanto bene, Aids
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e Bin Laden permettendo. È possibile concentrare nei mercati un gigantesco ammasso di merci e di servizi, ed è anche possibile (anche se molto più difficile) aumentare gradatamente il numero dei potenziali clienti solvibili, ma è impossibile sostenere che tutto questo è senso e prospettiva a sé stesso. I discorsi sul “virile disincanto” del mondo prodotto dalla scienza possono soddisfare qualche laico deluso dal suo precedente marxismo messianico-economicistico, ma sono costretti a coesistere con gli anziani pellegrini di Padre Pio da Pietrelcina con i loro piedi gonfi e le loro immagini sacre. Si possono marginalizzare i critici, definendoli in lingua inglese lunatic fringes (frange folli), etichettare chi si oppone alle guerre ed ai bombardamenti “pacifisti ideologici” (come se gli altri non fossero guerrafondai anch’essi ideologici), insultare chi si oppone ad un unico impero mondiale unilaterale come “antiamericano” (facendo così diventare anti-americani milioni di americani critici e sensibili), ecc. Ma in definitiva questo interminabile cacofonico blabla mediatico non può riempire l’assordante vuoto del senso e della prospettiva. Ora, l’uomo per sua natura è un animale lavorativo, linguistico e simbolico, e dunque un animale “generico” che vive di senso e prospettiva. Possiamo chiamare questo “natura umana”, oppure anche “anima umana”, secondo una prospettiva aperta dal venerando pensiero di Platone e recentemente riproposta con grande coraggio linguistico e teorico dal giovane studioso italiano Luca Grecchi. In ogni caso, comunque vogliamo chiamare questo fondamento veritativo dell’esistenza individuale e sociale, appare chiaro che l’implosione integrale del senso e della prospettiva configurano non solo una crisi, come è evidente, ma una crisi specifica e relativamente inedita, che è necessario prima inquadrare sommariamente nei suoi tratti essenziali, e poi cominciare a discutere in dettaglio. Nei prossimi paragrafi mi limiterò ad alcune osservazioni introduttive per una discussione ancora da fare.
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24 Inizierò con alcune osservazioni di superficie su alcuni fenomeni molto noti ma anche poco compresi come il tifo sportivo, la pornografia, la circolazione autoveicolare ipertrofica ed asfissiante, ed infine la televisione e la sua centralità comunicativa, o meglio escludente. Si tratta di quattro fenomeni ben noti, ma come dice giustamente Hegel, il noto in quanto noto non è ancora conosciuto. Per poter portare la comprensione di questi quattro fenomeni sociali al livello della conoscenza teorica occorre abbandonare ogni visione moralistica, snobistica ed elitaria di questi fenomeni, per comprendere che si tratta di quattro fenomeni di individualizzazione artificiale, e pertanto di socializzazione adattativa, del suddito-consumatore di questa nuova terza età del capitalismo. Il tifo sportivo è spesso visto con disprezzo dalle cosiddette “persone colte”. Vi sono anche persone di cultura, come lo scrittore inglese Tim Parks, tifoso degli “ultra” del Verona, che invece ne rivalutano gli aspetti ludici e comunitari. lo sono totalmente privo di snobismo, la gente comune non mi fa per niente schifo, e tendo dunque a prendere sul serio Tim Parks. Ma Tim Parks, ed i molti come lui, parlano anche di calcio, non solo di calcio. C’è una sottile differenza, che non dovrebbe sfuggire neppure a Parks. Quando lo spettacolo sportivo satura ogni comunicazione mediatica, le squadre vengono quotate in borsa, l’ossessiva chiacchiera calcistica ed automobilistica sostituisce nei bar il precedente “parlare di donne” (forse a causa di una diminuzione del desiderio dovuto all’inquinamento atmosferico), ecc., non siamo più di fronte ad un fenomeno sportivo, ma ad una sostituzione della virtualità alla precedente sportività stessa. È bene ribadire che non intendo affatto sostenere che i nuovi tifosi vengono “distratti” dai loro veri interessi sociali o dalla organizzazione della prossima rivoluzione proletaria. Questo modo inattendibile di vedere le
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cose era tipico dell’ideologia di sinistra, per cui già nell’antica Roma i giochi dei gladiatori e più in generale i circenses avevano il compito di distrarre le masse dalla lotta contro il modo di produzione schiavistico. In realtà, come ha a suo tempo chiarito lo storico francese Paul Veyne, i circenses non avevano lo scopo di “distrarre” le masse da una improbabile rivoluzione, che in forma cristiana avvenne poi comunque, ma di affermare simbolicamente il potere senatorio o imperiale, e poi esclusivamente imperiale. Del resto questo avviene anche oggi, da Agnelli a Berlusconi. Il discorso sportivo socializza in modo artificiale, contrapponendo agonisticamente tifosi socialmente del tutto omogenei, ed in questo modo individualizza in modo adattativo queste stesse persone che vengono teatralmente fatte scannare per Totti e Ronaldo. La pornografia è anch’essa un fenomeno per molti aspetti nuovo ed inedito, e sbaglia chi parla soltanto del mestiere più antico del mondo, o fa notare che l’eccitazione erotica per gli organi sessuali fa parte del corredo biologico della riproduzione umana. Non intendo discutere Charles Darwin, di cui sono ovviamente ammiratore. A suo tempo Herbert Marcuse colse una parte del problema, quando scrisse che una bomba è molto più pornografica del pelo del pube di una donna. Infatti è esattamente così. Ma Marcuse non coglieva integralmente il centro della questione, perché riteneva liberatorio il disvelamento non-repressivo degli ultimi organi sessuali non ancora consentiti dal moralismo borghese. È vero che lo spettacolo più pornografico è quello della violenza organizzata. Personalmente, non ricordo uno spettacolo televisivo più pornografico di quello messo in onda ogni giorno, e parecchie volte al giorno, della partenza dei bombardieri della Nato da Aviano fra il marzo ed il maggio del 1999, direzione Belgrado. La domenica ondate di pornografi socialmente approvati invadevano con le loro automobili i dintorni degli aeroporti militari. Eppure nell’odierna pornografia, venduta in busta chiusa ed in vide-
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ocassetta, e soprattutto dilagante in Internet, c’è qualcosa di specifico, e cioè la derealizzazione della stessa materialità del corpo umano, del contatto fisico e della conseguente affettività che ne deriva (perché nessuno negherà che contatto fisico ed affettività spirituale sono legati), in vista di una virtualità integrale. La masturbazione non è più dunque un momento iniziatico giovanile, ma la modalità adulta normale con cui la sessualità è proposta e praticata nella terza età del capitalismo. Contro la circolazione autoveicolare è stato scritto molto, non solo per le conseguenze devastanti sull’inquinamento ambientale e sulla salute umana, ma anche per la desocializzazione che un inutile uso eccessivamente individuale dell’auto comporta. Sarebbe sbagliato negare che l’auto è stata e può ancora essere un formidabile momento di libertà e di avventura. Chi scrive fa parte della generazione che negli anni Sessanta scoprì l’Europa in autostop, ed io personalmente mi onoro di far parte del ristretto club di chi è andato in autostop fino a Capo Nord in Norvegia (luglio 1963). Non mi piace sputare nel piatto in cui ho mangiato. E tuttavia la circolazione autoveicolare, inferno fordista per i produttori e paradiso turistico per i consumatori, ha imboccato la strada senza ritorno di un modello di vita non più sostenibile. È stato notato che se la circolazione autoveicolare oggi presente negli Usa, in Europa, in Giappone e in Australia, fosse estesa al resto del mondo, gli equilibri ambientali salterebbero definitivamente. Le città storicamente non fatte per le auto (ed io cito solo alcuni casi che conosco personalmente, Napoli, Il Cairo, Istanbul, Atene) sono già state di fatto uccise dalle auto stesse. Ma ancora una volta l’aspetto culturale che ci interessa sta in ciò, che l’individuo viene socializzato in modo ormai del tutto artificiale, come guidatore inscatolato nel traffico in perpetua oscillazione fra la rassegnazione e la rabbia, ed anche come supremo giudice non solo della sua vita ma anche di quella altrui sulla base delle sue sovrane scelte di comportamento e di velocità.
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Fatte queste ovvie ed un po’ banali premesse, è chiaro che la televisione resta a tutti gli effetti lo strumento più noto e meno conosciuto del tempo presente. Jean Baudrillard ha avuto il merito di rilevare il carattere dirompente e passivizzante di questo mezzo rispetto soprattutto alla guerra e alla violenza, ridotte a simulazioni da video gioco ed a luci di tracciati nella notte, senza il contorno di sudore, di sangue e di distruzione. Come molti francesi della rive gauche, egli si compiace narcisisticamente dei suoi paradossi, ma finisce con il cogliere l’aspetto principale della questione. Un aspetto che a mio avviso non è colto molto bene da Popper, altro grande nemico della televisione, che finisce per fare un’eccezione nella sua ostilità al dirigismo per la televisione stessa, in cui sembra che auspichi un intervento di filosofi-re platonici per limitare l’onnipervasività diseducativa di questa scatola di scemenze. Un’interessantissima contraddizione. Ma è forse Pierre Bourdieu che coglie meglio a mio avviso il centro della questione. Nella produzione televisiva della comunicazione il mezzo determina il contenuto del messaggio, scegliendo sistematicamente gli aspetti più superficiali ma anche più “visivi”, e dunque impressionanti, dell’evento riprodotto. In questo modo, ad esempio, la Cnn americana, che è lo strumento televisivo dell’impero, sceglie di rappresentare le “atrocità” che poi serviranno da legittimazione pubblica alla risposta dei bombardieri americani. Tutto questo è rivestito da un’aura di presunta imparzialità ed autenticità che sembra non nascondere niente mentre nasconde tutto, dagli interessi economici in gioco ai precedenti storici. Lo voglia o meno, il giornalista televisivo è al servizio di questo meccanismo di eccezionalità visiva, che gira sempre intorno a tre forme archetipiche di spettacolo, lo spettacolo sportivo, lo spettacolo porno e lo spettacolo di morte in diretta.
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25 Nel paragrafo precedente ho fatto una breve fenomenologia di quattro fenomeni sociali contemporanei. Questa fenomenologia è indubbiamente povera ed un po’ banale, ma il suo scopo era esclusivamente quello di mettere a fuoco il processo sinergico di individualizzazione e di socializzazione del suddito della terza età del capitalismo come cittadino dimezzato di una nuova “folla solitaria”. Utilizzando la classica espressione di David Riesman di “folla solitaria” intendo ricordare che non si ha qui più a che fare con il “popolo”, l’espressione moderna che indica la base sociale ed elettorale di una “democrazia partecipativa”. La folla solitaria non è il popolo. Il popolo produce programmi politici alternativi, li discute e ne fa oggetto di negoziazione razionale. La folla solitaria è oggetto di strategie prevalentemente televisive di seduzione personalizzata di leader mediatici, i cui programmi politici sono al 95% identici in quanto preventivamente compatibilizzati con i vincoli economici e finanziari transnazionali. Solo alla luce di questa comprensione storico-politica è possibile impostare problemi come quelli del discorso sportivo, della pornografia e del sesso virtuale, della circolazione autoveicolare patologica e della manipolazione televisiva. Toccherò in questo paragrafo altri tre problemi, quello della cosiddetta anomia giovanile, quello della famiglia e quello della scuola. Enormi problemi, che però toccherò solo nell’ottica dell’ipotesi della individualizzazione adattiva precedentemente avanzata. Recentemente vi è tutto un fiorire nel mondo (e quindi anche in Italia) di discorsi sulla cosiddetta “afasia giovanile”, sui giovani culturalmente fallati, sull’impoverimento del linguaggio giovanile ridotto a messaggio sms, sulla diminuzione delle capacità di ragionamento e scrittura, sulla malvagità della “violenza di branco”, eccetera. Insegnanti, psicologi, teologi,
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mamme preoccupate, politici ipocriti e distratti, eccetera, tutti si esercitano su questo tema. Alcuni giovani reagiscono con vivacità a queste diagnosi di rincretinimento, ma la maggioranza non se ne accorge neppure. Tentiamo un ragionamento. Personalmente, non credo che i giovani oggi siano moralmente più cattivi ed intellettualmente più cretini di noi o dei nostri padri e nonni. Queste diagnosi ricorrenti, già sicuramente espresse in sumerico, antico egizio e miceneo, sono generate da un’ideologia spontanea della prima senilità (50-70 anni), che in questo modo reagisce fisiologicamente allo spaesamento temporale dei costumi. La seconda senilità è in generale più tollerante, ma non perché invecchiando si diventi più buoni, ma perché con l’approssimarsi della morte si ha altro a cui pensare e non si ha più voglia di perdere tempo sparando sugli adolescenti indifferenti. In ogni caso, bisogna dire che al di là della vecchia ideologia spontanea della prima senilità si è oggi effettivamente in presenza di una novità storica da sottolineare. Se è vero che l’implosione del senso e della prospettiva caratterizza l’attuale terza età del capitalismo, che non solo ha vinto contro le due critiche sociale ed artistica, ma ha stravinto e dunque vinto troppo, allora i giovani sono le prime vittime. I giovani infatti vivono di senso e di prospettiva. Questo fu detto molto bene dai romantici, e da Fichte in particolare. La trasformazione dei giovani in un gruppo consumistico generazionale è effettivamente una preoccupante novità storica. Se gli insegnanti notano nel mondo intero una caduta delle capacità logiche degli studenti, questo è dovuto al fatto che ormai il general intellect capitalistico ha raggiunto un tale livello di incorporazione anonima di conoscenze da avere sempre meno bisogno di una famiglia in cui si parli e di una scuola in cui si ragioni. La questione giovanile è dunque storica e filosofica, non psicologica e pedagogica. I giovani devono tornare ad ave-
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re senso e prospettiva. Allora, si vede subito che recuperano d’incanto capacità logiche, espressive ed emozionali. La tendenza della famiglia a ridursi ad un “centro di consumo” di merci e servizi non è certo nuova. La demenziale ideologia futuristica della cosiddetta “sinistra” ha sempre sparato sulla famiglia, ed ancora una volta la convinzione di essere anti-borghesi ed emancipati ha solo accompagnato una tendenza del capitalismo nel suo passaggio dalla sua seconda alla sua terza età. La borghesia colta, la cultura contadina e le religioni organizzate sono state sempre meno stupide, anche se come si suol dire “ci vuole proprio poco”. I centri di consumo prima implodono nell’ anomia a causa della insensatezza, e poi esplodono in frammenti sulla base della fine della comunicazione sensata fra le tre generazioni (giovani, adulti ed anziani). In un’epoca di rapidissima trasformazione tecnologica gli anziani non hanno più competenze da trasferire ai giovani (computer, ecc.). Diventano inutili, ed il loro patetico brontolio non riesce a vincere il clima di disattenzione in cui vivono. Mamme trafelate passano la giornata ad accompagnare rampolli e rampolle a lezione di inglese, danza, flauto dolce, ecc., ma questo non fa cultura ma solo presenzialità ansiogena. Il deserto familiare è provvisoriamente coperto da tate e badanti messicane negli Usa e moldave in Europa, ma questo non fa senso e prospettiva. La famiglia borghese, che a suo tempo Hegel correttamente ed intelligentemente metteva alla base della “eticità” viene liquidata dal capitalismo stesso, e non certo dai fumatori strafatti di canne e di paglie. Il sistema scolastico si trova di conseguenza nel centro di un tifone, e cioè nella crisi più grande dal tempo in cui ne è nata la versione moderna, fra il Settecento e l’Ottocento. Non si tratta solo di alcune stupidità assolutamente congiunturali ed alla moda oggi, come l’annientamento dell’educazione classica, l’odio provinciale e regressivo per la lingua francese in fa-
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vore di un inglese da portieri d’albergo, l’indebolimento della stessa matematica in favore di una semplice alfabetizzazione informatica, ecc. Queste sono disgrazie come le invasioni delle cavallette, cui si può forse resistere. Più pericolosa e decisiva, a mio avviso (e parlo da competente sulla questione scolastica) è la scelta strategica dei quiz nel sistema di esami e controlli. Il sistema dei quiz, che a mio avviso merita solo di essere fatto saltare con una resistenza ad oltranza, è concepito per distruggere la lunga consuetudine al ragionamento logico ed ancor più al dialogo su cui si basa da più di due millenni la tradizione occidentale. Dialogo significa etimologicamente in greco dialogos, il fatto cioè che la ragione passa attraverso due interlocutori almeno, ed in questo modo si incrementa e si modifica. La fine della scuola del dialogo è la fine della scuola così come l’abbiamo conosciuta, e questo al di là di tutti i discorsi secondari sull’asse umanistico e/o sull’asse scientifico, eccetera.
26 La rapida fenomenologia svolta nei due precedenti paragrafi intende suggerire al lettore che ci troviamo ormai in un paesaggio culturale nuovo. Le vecchie mappe non servono più. Un terremoto ha cambiato il corso dei fiumi ed ha spianato alcune montagne. I ghiacciai si stanno sciogliendo. Questo lo stanno cominciando a capire in molti. Fra questi molti non ci sono però i “marxisti”, o almeno la maggioranza di essi. I più conservatori, numerosi fra i militanti di base e gli animatori dei gruppetti fondamentalisti, sono fermi alla prima età del capitalismo. I più vivaci ed aggiornati sono giunti confusamente a capire che c’è una seconda età del capitalismo, e sono pertanto in ritardo solo di mezzo secolo, e non di un secolo intero. Bravi, mi compiaccio. Mi compiacerei
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però ancora di più se qualcuno prendesse atto che ormai siamo giunti ala terza età, non solo alla seconda. Ma questo presupporrebbe una rivoluzione culturale gigantesca. Io conosco abbastanza bene il mondo culturale dei cosiddetti “marxisti”. Nessuna illusione. Non sono preparati a fare questa rivoluzione culturale. Giocano a fare i progressisti contro i conservatori, e non capiscono che il capitalismo della terza età non intende conservare più niente. Giocano a fare gli atei contro i credenti, e non capiscono che la religione non è più un’ideologia di legittimazione di questo capitalismo maturo, ma lo è stata solo in epoche passate da tempo. Giocano a fare i “sinistri” contro i “destri”, e non capiscono che questa dicotomia obsoleta è rimasta solo una sorta di protesi elettorale artificiale da reintrodurre durante gli scontri simulati delle campagne mediatiche. Giocano a fare i “materialisti” contro gli “idealisti”, senza neppure sospettare che questa dicotomia fu introdotta da Engels nel lontano 1878 sulla base delle classificazioni dei professori positivisti tedeschi, barbuti borghesi che più barbuti proprio non si può. Giocano alle figurine ed alle biglie in un’epoca di videogiochi, e questo non sarebbe neppure sbagliato, se non credessero di essere alla cosiddetta “avanguardia”. Questa impotenza è tragicomica. Alla base, naturalmente, c’è sempre lo smarrimento del senso e della prospettiva. A suo tempo (esattamente nel 1956) il grande Lukács individuò nella “prospettiva”, cioè nella prospettiva storica credibile, l’elemento fondamentale e primario del marxismo teorico e del comunismo politico. Se mi si consente un semplice gioco di parole, un movimento senza prospettiva, non la prospettiva. E questo è proprio il caso del movimento comunista oggi. Lo smarrimento del senso è legato al disprezzo tradizionale del marxismo verso una concezione conoscitiva e veritativa della filosofia. Alla lunga l’overdose di ideologia annienta l’organismo. L’alleanza fra dirigenti cinici e disincantati e militanti credenti ma creduloni ha distrutto per ora ogni tessuto vitale.
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Ma la situazione non è forse irreversibile, anche se tutto è nelle mani di una possibile nuova generazione che sappia disfarsi dell’orribile ciarpame teorico e pratico accumulato nell’ultimo mezzo secolo. Essa deve credere nella filosofia, non smettere di praticare la scienza, ridurre l’ideologia al minimo possibile (non credo nella sua eliminazione integrale, e neppure la auspico), aprirsi agli altri e non credersi autosufficienti.
27 L’implosione del senso e della prospettiva frutto dell’eccessiva e smodata vittoria del capitalismo della terza età sui suoi deboli nemici, si accompagna oggi ad una nuova idolatrica religione imperiale. Essa è compendiata nella stesura del documento sulla Strategia nazionale di sicurezza degli USA, presentata a Washington il 20 settembre 2002, e dichiara testualmente: «L’umanità ha nelle sue mani l’occasione di assicurare il trionfo della libertà sui suoi nemici. Gli Stati Uniti sono fieri della responsabilità che incombe loro di condurre a termine questa importante missione». Questa missione, ovviamente, nessuno gliela ha affidata. Se la sono affidata da soli. Questa è la mossa imperiale per eccellenza. In questa neolingua profetizzata da Orwell nel 1948 non ci può essere conflitto fra la comunità internazionale e gli Usa perché gli Usa si sono autodefiniti “comunità internazionale”. Il “terrorismo” è ciò che viene fatto contro di loro, mentre ciò che viene fatto da loro (e dai loro servi-padroni sionisti) non è terrorismo, ma legalità internazionale. Gli ultimi scritti di Noam Chomsky sono tutti dedicati a questa “neolingua” scandalosa e orribile. La legalità internazionale si manifesta nella forma della guerra umanitaria per liberare i popoli dai dittatori che li opprimono. Diamo la parola a Gian Enrico Rusconi, che ha cercato di definirla:
157 La logica delle guerre umanitarie del nuovo interventismo unilaterale si basa su quattro elementi: a) la prova di gravi crimini, in forma di massacri indiscriminati, di genocidi effettivi o anche solo potenziali; b) questa prova, affidata al sistema mediatico internazionale, colpisce la pretesa di insindacabile sovranità dello stato interessato…; c) il soggetto internazionale deputato ad intervenire in prima istanza è l’Onu, ma in caso di paralisi o lentezza di riflessi dell’Onu si fa valere un’informale comunità internazionale, costituita di fatto dalle grandi nazioni occidentali che si candidano all’intervento umanitario armato; d) lo scopo finale dichiarato dell’intervento è la ricostruzione di un ambiente [...] pacificato, in forme democratiche possibilmente di stampo occidentale.
Il pensiero imperiale è un pensiero fondato su una logica circolare, in quanto parte da se stesso e finisce con se stesso. La prova (evidente) del comportamento non-umanitario è data dal sistema mediatico internazionale (Cnn, ecc.), che mette in movimento l’informale comunità internazionale (da cui sono escluse India, Cina, Africa, mondo arabo, Russia, ecc., in base al principio orwelliano per cui sono tutti internazionali, ma alcuni sono più internazionali degli altri). Questa informale comunità internazionale ristabilisce se stessa allargata. Tutto questo è semplicemente ripugnante per ipocrisia e violenza. L’universalismo non è più un progressivo processo dialogico, ma una proclamazione preventiva in cui ci si autoinveste di una Missione Speciale la cui investitura è quella di un Dio sionista-protestante che per definizione esclude non solo i musulmani ed i buddisti, ma anche i cattolici e gli ortodossi. In sintesi, possiamo dire che il nucleo dell’attuale crisi culturale del capitalismo globalizzato della terza età sta in una implosione del senso e della prospettiva coperta da una idolatrica religione imperiale. È difficile frenare il disgusto scrivendo queste righe.
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28 La resistenza alla religione imperiale della Missione Speciale diventa quindi oggi la premessa per ogni azione culturale dotata di senso e di prospettiva. Questa resistenza non può essere evitata, ed è un dovere dell’ora presente. Essa verrà certamente diffamata come anti-americanismo. Naturalmente non lo per nulla. La resistenza si esercita contro la religione imperiale della Missione Speciale, non contro l’America, il popolo americano nel suo insieme e la cultura americana come tale. Se si è contro Franco non per questo si è anti-spagnoli, se si è contro il sionismo non per questo si è anti-semiti, se si è contro Stalin non per questo si è anti-russi (o anti-georgiani), se si è contro Mussolini non per questo si è anti-italiani. È quasi ridicolo dover ricordare queste banalità, ma ci troviamo oggi in una tale situazione di barbarie e di manipolazione da dover ricordare continuamente anche elementari ovvietà. È invece necessario rilevare (e faccio qui riferimento a temi anticipati nel § 17) che la teoria dominante nel movimento anti-globalizzazione non è in grado di comprendere i termini del problema. Come ha recentemente rilevato in un lucidissimo contributo Danilo Zolo, il movimento detto no-global ritiene che la globalizzazione capitalistica sia escludente, cioè escluda politicamente ed economicamente i popoli e gli stati, laddove al contrario secondo Zolo (ed io concordo pienamente) essa non è affatto escludente, ma è includente. Essa “include”, ovviamente in forma subalterna e con grandi differenziali di ricchezza e tecnologia, il più possibile di popoli e di stati, distruggendo le identità nazionali e le sovranità statuali. Bisogna dunque favorire l’esclusione, nella forma della secessione politica, economica e culturale, non chiedere pietosamente l’inclusione. Bisogna favorire alleanze, federazioni, confederazioni, ecc., di stati, popoli e nazioni che siano dispo-
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sti a resistere all’impero della Missione Speciale, non chiedere in modo querulo di esservi “inclusi”. È questo un punto essenziale, e nello stesso un punto talmente decisivo da poter essere sicuri che le soverchianti forze della “sinistra istituzionale”, dominanti negli apparati politici, partitici e mediatici anche e soprattutto nelle aree chiamate di “movimento”, faranno di tutto per cancellare, confondere ed impedire. È vero che la cultura resta nell’essenziale paideia, educazione universalistica del genere umano, ma se non si ha anche il coraggio di passare attraverso il purgatorio della resistenza politica all’arroganza imperiale non si arriverà mai a nessun universalismo, ed il discorso resterà astratto e vuoto.
29 Segnalando la necessità imprescindibile di resistere alla cultura imperiale della Missione Speciale si è solo posta una precondizione, ma non si è neppure lontanamente impostato il problema di una cultura alternativa alla implosione del senso e della prospettiva concepita come meccanismo di individualizzazione e di socializzazione adattativa. Resistenza significa solo anti, ed ogni cultura costruita solo negativamente sull’anti- (anticapitalismo, antifascismo, anticomunismo, ecc.) è per definizione insufficiente. Un anti (e si pensi solo al cosiddetto ateismo) è sempre prigioniero della problematica cui si oppone, ed è perciò destinato a girare in tondo dentro la circonferenza che lo tiene sotto controllo. Dopo e con la resistenza ci vuole ovviamente una cultura, intesa come educazione progressivamente universalistica del genere umano (paideia, Bildung). In proposito, chi definisce formalisticamente l’universalismo in modo di fatto procedurale (ad esempio Habermas, ma non solo) non avrà mai nes-
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sun universalismo, ma solo l’ipostatizzazione in falsa coscienza delle regole di produzione della propria limitata cultura particolare. La “civile conversazione” di Richard Rorty ne è un esempio, perché si universalizza solo lo stile comunicativo dei campus americani. Nessuna universalizzazione potrà mai avvenire se non si parte dal diritto imprescindibile delle comunità e delle nazioni di preservare la loro identità linguistica e culturale contro i progetti di omogeneizzazione imperiale globalizzata. Questo non solo non è in opposizione all’universalismo, ma ne è un presupposto.
30 Finiamo qui, dove il discorso in realtà incomincia. Ma non avrebbe senso cercare di dire qui qualcosa di più, e cioè “riempire” i contenuti di questa possibile nuova cultura di educazione universalistica del genere umano nella inedita condizione storica, politica e militare di riduzione dello stesso genere umano a “platea di consumatori”. Sarebbe facile riempire pagine con la segnalazione dei contenuti storicamente prodotti dalla paideia greca e dalla Bildung tedesca. Platone ed Aristotele, Kant e Hegel, eccetera, sono a disposizione di tutti. Il novum che verrà fuori nei prossimi decenni non può essere prefigurato e previsto. In questo contributo ho cercato non certo di prefigurarlo e di prevederlo (cosa impossibile) ma solo di inquadrarne sommariamente le condizioni storiche di possibile emersione. Il resto è chiuso da sette sigilli.
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Nota bibliografica Il principale testo di riferimento di questo mio saggio (tre età del capitalismo, critica sociale ed artistica, ecc.) è L. Boltanski È. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999. Sulla distinzione fra Borghesia e Capitalismo (§ 3), vedi il mio La passione durevole, Vangelista, Milano 1989. Sul concetto di educazione filosofica come educazione universalistica del genere umano (§§ 4 e 29) vedi il mio L’educazione filosofica. Memoria del passato, compito del presente, sfida del futuro, CRT, Pistoia 2000. Sulle crisi capitalistiche (§ 6) vedi G. La Grassa, La tela di Penelope. Conflitto, crisi e riproduzione nel capitalismo, CRT, Pistoia 1999. Sulla crisi politica della prima repubblica in Italia (§ 7) vedi G. La Grassa - C. Preve, Il teatro dell’Assurdo, Punto Rosso, Milano 1995. Sul concetto di civiltà post-occidentale (e non invece occidentale, come sempre si dice) si veda D. Fennel, The Postwestern Condition. Between Chaos and Civilisation, Minerva Press, London 1999 (§ 2). Sul Sessantotto (§ 20) si veda G. Lipovetsky, L’era del vuoto. Saggi sull’individualismo contemporaneo, Luni, Milano 1995, e G. Viale, Il Sessantotto. Tra rivoluzione e restaurazione, Mazzotta, Milano 1978, pp. 256-270. Sull’incorporazione universitaria della critica (§ 21) vedi dello scrivente Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi, CRT, Pistoia 1999. Per il § 24 si veda, per la circolazione autoveicolare, Diciamoci la verità, in «Koinè», IX, gennaio-giugno 2001, pp. 21-26, ed i saggi di A. de Benoist in «Diorama letterario», n. 232, gennaio 2000. Sulla televisione si veda K. Popper - J. Condry, Cattiva maestra televisione, tr. it., con scritti di K. Wojtyla, Reset-Don-
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zelli, Milano-Roma 1996, e P. Bourdieu, Sulla televisione, tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1997. I §§ 27-28 sono dedicati al cruciale tema della religione imperiale della Missione Speciale. Sulla “neolingua imperiale” si vedano soprattutto gli scritti di Noam Chomsky, cui c’è ben poco da aggiungere. Sulla nozione di “guerra umanitaria” si veda G.E. Rusconi, Guerra e intervento umanitario, in W. Barberis (a cura di), Storia d’Italia. Annale 18. Guerra e pace, Einaudi, Torino 2002. Sul carattere “inclusivo” e per nulla esclusivo, della logica globalizzante imperiale, e sulla necessità di attuare una secessione organizzata, e non di chiedere in modo querulo (o aggressivo, poco importa) una inclusione, si vedano le sei stupende pagine di D. Zolo, Pace contro l’universalismo imperiale, in «Rivista del Manifesto», n. 32, ottobre 2002. In queste sei pagine è compendiato anche il mio punto di vista sulla questione.
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La saggezza dei Greci Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi
A suo tempo Louis Althusser sostenne che «una filosofia non viene al mondo come Minerva nella società degli dèi e degli uomini. Essa esiste solo per la posizione che occupa, ed occupa questa posizione solo conquistandola nello spazio pieno di un mondo già occupato». Non sono un althusseriano, perché non condivido la riduzione dello spazio filosofico propriamente detto a spazio epistemologico e/o ideologico. In questo senso Althusser non è certo un continuatore dei Greci (che sono infatti del tutto assenti nel suo pensiero – al di là di un uso di Epicuro ridotto a teorico della cosiddetta “aleatorietà”). E tuttavia la sua affermazione si adatta perfettamente a descrivere la situazione di chi intende tentare una nuova interpretazione dei Greci. Le interpretazioni sono infatti state negli ultimi due secoli talmente numerose che chiunque ci provi deve “conquistarsi il suo posto nello spazio pieno di un mondo già occupato”. E questo sarà infatti anche il mio caso. Dividerò la mia argomentazione in sei parti successive. In primo luogo, darò la mia personale interpretazione del “nucleo vivente” (o se vogliamo della “saggezza permanente”) del pensiero greco classico. Qui siamo di fronte evidentemente ad
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uno spazio pieno di un mondo già occupato. In secondo luogo, svolgerò alcune riflessioni sul pensiero ellenistico, a partire dai giudizi opposti (ma a mio avviso segretamente complementari) di Hegel e del giovane Marx. In terzo luogo, mi porrò il sempiterno ed irrisolvibile problema della continuità e/o della discontinuità fra il cristianesimo ed il mondo classico dei Greci, insieme al problema più specifico (e forse più facile da risolvere) della continuità o discontinuità fra Platone ed Aristotele e la teologia cristiana, particolarmente domenicana. In quarto luogo, esaminerò il momento storico di massimo “allontanamento” dai Greci, e cioè il momento della costituzione formalistica del soggetto, da Descartes a Kant passando per Hobbes. In quinto luogo, esaminerò invece il processo storico contrario di progressivo “riavvicinamento” ai Greci, da Hegel ad Heidegger passando per Marx. I capitoli quarto e quinto sono essenziali per comprendere il rapporto dei Greci con la nostra modernità. Nel sesto capitolo farò alcune considerazioni finali, con un commento sull’interpretazione data da Nietzsche al mondo greco.
1. La giustizia, la misura e il caos. Il macrocosmo naturale e il microcosmo comunitario dei Greci Nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia Hegel ci suggerisce una interessantissima chiave di interpretazione del pensiero greco, sostenendo che «da quella infinitezza orientale, dal capovolgimento di tutto il finito, dalla incapacità della persona a conoscersi come individuo, noi siamo giunti all’Occidente, ed abbiamo imparato a conoscere lo spirito greco. Il Greco ha onorato e ad un tempo animato il finito». Questa affermazione di Hegel può essere divisa in due parti. Vi è infatti un’affermazione, tipica dell’epoca e del suo euro
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centrismo sicuro di sé, per cui gli orientali sarebbero stati caratterizzati da una infinitezza e da una sostanziale incapacità della persona a riconoscersi come individuo. In base alle nostre maggiori conoscenze (e non solo in base al “politicamente corretto” che la globalizzazione culturale attuale porta con sé), possiamo dire che questa affermazione di Hegel non può e non deve essere “incollata” all’India, alla Cina, al Vicino Oriente, eccetera. Lasciamo questa operazione pigra ai sostenitori alla Huntington della lotta di civiltà dell’Occidente contro l’Oriente. Per i Greci l’individuo (atomon) era sempre collocato in un insieme sociale (polis, koinonia), e come vedremo più avanti nel quarto capitolo, l’individuo moderno inteso come in-dividuum, e cioè come entità “non ulteriormente divisibile”, ha dovuto aspettare Thomas Hobbes e Robinson Crusoe. Inoltre, la “persona” in greco è la “maschera” (prosopon, di cui persona è solo la traduzione latina), e non a caso Marx la ribattezzerà più di duemila anni dopo “maschera di carattere” (Charaktermaske). In ogni caso, il rapporto fra il “pensiero orientale” (quale? Ebrei, Indiani, Cinesi, eccetera?) e la nascita dell’individualità possiamo per il momento lasciarlo da parte per non appesantire la discussione. La seconda parte dell’affermazione di Hegel è però a nostro avviso geniale, e la adotteremo completamente. Affermando che «il greco ha ad un tempo onorato ed animato il finito» Hegel ci permette di inquadrare il cuore della questione, e di partire così con il piede giusto. Animando il finito, e considerandolo capace di sviluppo autonomo (il termine greco per natura, physis, deriva dal verbo phyo, “crescere”, e non consente quindi neppure concettualmente la distinzione cristiana fra natura naturans e natura naturata, intesa come creatore e creato), il pensiero greco ha prodotto una concezione del mondo in cui al mondo stesso è attribuita la capacità autonoma di sviluppo, e questo esclude di fatto la necessità di ricorrere ad una divinità monoteistica
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creatrice. Questo non comporta affatto la conclusione che i Greci fossero “atei”, o precursori del moderno ateismo (Michel Onfray), ma porta piuttosto a ripensare la tesi per cui il mondo dei Greci fosse “pieno di dèi”, e togliendo ai Greci gli dèi gli si toglieva anche gli uomini (Walter Otto). E tuttavia la chiave di tutto sta nella frasetta per cui i Greci avrebbero “onorato il finito”. Ma che significherà mai “onorare il finito”? In proposito (ma ci ritorneremo nel quarto capitolo) “onorare il finito” non può certamente significare onorare il “finito” dell’individualismo utilitaristico di Adam Smith oppure il finito della conoscenza finita dei fenomeni della critica alla metafisica di Immanuel Kant. Per i Greci il “finito” era sicuramente qualcosa di diverso dai significati (peraltro convergenti) dati a questa parola da Adam Smith e da Immanuel Kant. E che cosa avrà voluto dire allora il termine “finito”? Per capirlo, bisognerà prima metterlo in correlazione dialettica con il termine infinito-indeterminato (apeiron), e comprenderne poi l’esatto significato nel contesto storico e sociale dell’epoca. Troviamo la chiave per farlo in Diogene Laerzio (cfr. IX, I5), in cui Diogene ricorda che il grammatico alessandrino Diodoto aveva già attestato che il poema sulla natura di Eraclito non trattava in realtà della natura, ma del governo dello stato, e che gli accenni alla natura vi stavano dentro in funzione di modello. Eraclito faceva parte della generazione politica di Aristagora di Mileto e di Ermodoro di Efeso, e cioè della generazione che rifiutò la sottomissione ai persiani del re Dario e che restaurò l’isonomia, e cioè l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Questa isonomia, tuttavia, si accompagnava in Ermodoro ed in Eraclito, che era suo seguace e compagno, alla necessità di instaurare in città un’austerità egualitaria che impedisse il lusso e l’ostentazione delle ricchezze. Gli efesini preferirono la sottomissione alla Persia piuttosto che seguire questa via basata sul metron, e cioè sulla misura, ed allora Era-
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clito attuò una secessione personale dalla sua stessa città, che non poteva più amare ed in cui non poteva più identificarsi. Andò a vivere sull’akropolis, e si limitò nei suoi ultimi anni di vita a giocare ai dadi con i ragazzini. Lungi dall’essere un “aristocratico”, Eraclito era dunque una specie di “ultrademocratico”, e non è neppure difficile capirlo con una corretta interpretazione dei frammenti di ciò che restano. Nel frammento 30 sostiene che «quest’ordine [isonomico], identico per tutti non lo fece né un uomo né un dio. Esso è da sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che regolarmente si accende e regolarmente si spegne». Quelli che credono di sapere che per Eraclito «tutto scorre» (panta rei), mentre per Parmenide tutto resta invece immutabile hanno qui qualcosa a cui pensare. Eraclito contrappone ciò che è comune (koinòn), ed è cioè tipico della isonomia democratica, a ciò che è particolare nel diritto consuetudinario nobiliare (fr. 125a), e ripete che il popolo deve combattere in difesa della legge isonomica come combatterebbe sulle proprie mura contro il nemico (fr. 44). Si potrebbe continuare, ma qui non si tratta di argomentare solo una nuova interpretazione “democratica” di Eraclito. Qui si tratta di comprendere invece, secondo la venerabile interpretazione di Diodoto, che l’intreccio fra la dialettica del macrocosmo naturale e la dialettica del microcosmo comunitario è la chiave per intendere correttamente il pensiero greco e la stessa “nascita della filosofia”, che alcuni chiamano anche (scorrettamente e con un’indebita retroazione storica dello spirito dell’illuminismo e del positivismo posteriore) “razionalismo occidentale”. Ma i Greci non si dividevano in irrazionalisti e razionalisti, e neppure in idealisti e in materialisti. Essi cercavano di pensare unitariamente la realtà, ed in questo pensiero unitario coesistevano insieme l’Ideale e il Materiale (utilizzo qui la dicotomia complementare utilizzata dal francese Maurice Godelier e dal russo Evald Il’enkov). Lasciamo al
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vecchio Engels ed al giovane Onfray la retrodatazione ai Greci di un’inesistente contrapposizione fra Materialisti (buoni) ed Idealisti (cattivi). Per i Greci l’Essere esisteva, ma non era certamente l’Essere della onto-teologia cristiana trascendente o della (complementare) onto-teologia immanente del defunto materialismo dialettico sovietico, imposto da Stalin con un decreto del comitato centrale del Pcus del 1931. Per i Greci l’Essere non era neppure un verbo vero e proprio all’infinito (il to einai, che in greco moderno significa “essere”, è un calco dei termini come esse, être, sein, eccetera), ma era il participio sostantivato to on. Ed il to on ha un senso soltanto all’interno di un qualcosa che lo avvolge e lo limita, il periechon. Ad un certo momento, il periechon non è più il Caos e la Notte, ma è l’Etere e la luce (en phaei). Incidentalmente, la cosiddetta “periecontologia” di Karl Jaspers coglie meglio l’eredità greca di quanto riesca a farlo la soluzione di Heidegger che invece afferma che dopo Platone, con il passaggio del concetto di verità dal non-nascondimento (aletheia) all’esattezza visuale (orthotes) si avrebbe già la fondazione vera e propria della tradizione della metafisica occidentale, destinata a rovesciarsi fatalmente in Dispositivo Tecnico Planetario (Gestell). Ma torniamo ai Greci. E torniamo, appunto, al noto frammento di Anassimandro, considerato da molti giustamente l’inizio simbolico della tradizione filosofica occidentale. Lo riportiamo quasi integralmente, e comunque è di facile reperimento. Riportato da Simplicio, questo frammento suona così: Anassimandro ha detto che principio [arché] degli esseri [ton onton] è l’infinito [apeiron] […] di dove infatti gli esseri hanno origine [genesis], lì hanno anche la dissoluzione [phthorà] secondo necessità [katà to chreon]: essi pagano infatti reciprocamente [allelois] la pena ed il riscatto [didonai diken] dell’ingiustizia [adikia], secondo l’ordine [taxis] del tempo [chronos].
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Il frammento di Anassimandro ha già avuto moltissime interpretazioni. Ma a noi sembra che valga la pena ripetere alcuni punti fermi. In primo luogo, il fatto che apeiron significhi infinito e indeterminato insieme ci sconsiglia un’interpretazione astronomica di tipo cosmologico, come se Anassimandro intendesse proporci un’ipotesi tipo big bang o steady state, in vista di un premio Nobel per la fisica. L’infinitezza e l’indeterminatezza sono infatti anche e soprattutto concetti sociali, e sono inseparabili da una riflessione sulla comunità politica, e su come essa non potesse essere “indeterminata” (e cioè non determinata da leggi, nomoi) ed “infinita” (e cioè in preda all’infinitezza delle ricchezze di pochi). E se qualcuno pensa che sia scorretto interpretare “indeterminato” come non determinato da leggi, ed “infinito” come in preda all’infinitezza delle ricchezze di pochi, possiamo ricordare Solone di Atene, per il quale la «ricchezza non conosce limiti», ed appunto perché per sua natura non conosce limiti deve essere limitata dai nomoi. Più di duemila anni dopo Karl Marx dirà che «il movimento del capitale è senza misura», ma su questo punto Solone lo aveva preceduto, pur vivendo in una società precapitalistica. L’essere umano (to on) è infatti avvolto ed inserito in una sorta di contenitore più ampio che lo comprende (periechon), e per impedire che questo contenitore diventi infinito ed indeterminato (apeiron) è necessario impedire l’ingiustizia (adikia). Se essa non verrà impedita, allora necessariamente se ne dovrà pagare il fio (diken didonai). Qui si comprende finalmente la frase di Hegel, per cui i Greci avrebbero onorato il finito. In questo contesto, il finito è il finito delle ricchezze eccessive all’interno di una comunità politica. In quanto animale politico, sociale e comunitario (politikòn zoon), l’uomo è in grado di intervenire sulla adikia. In quanto animale che possiede il linguaggio, la ragione e la capacità di calcolo geometrico (zoon logon echon), l’uomo può fissare dei nomoi che regolino la convivenza comunitaria.
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Il problema è allora capire che cosa intendesse esattamente Anassimandro quando parlava di pagare il prezzo dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo. L’interpretazione corrente, secondo cui tutto ciò che nasce muore, e quindi l’uomo paga con la morte il fatto di essere nato, ci sembra falsamente sapienziale ed inevitabilmente banale, oltre ad essere influenzata dal punto di vista individualistico ed atomistico della modernità post-seicentesca. Il termine greco diken didonai parla di Dike, e cioè della “giustizia”. O cercheremo di capire che cosa significa esattamente per Anassimandro Dike, oppure continueremo a girare in tondo al problema senza risolverlo. Secondo George Thomson il termine dike ha avuto una ricca evoluzione semantica, che è passata attraverso i seguenti stadi: 1. Sentiero; 2. Abitudine; 3. Vendetta o Punizione; 4. Giudizio; 5. La personificazione della dea della Giustizia; 6. L’idea astratta di Giustizia. Nel nuovo ordine sociale diviso in classi la Dike vigila, proprio come precedentemente vigilavano le Erinni, la cui funzione specifica era quella di punire chi trasgrediva le antichissime leggi religiose impersonate dalle Moire, che a loro volta rappresentavano le antenate del clan matriarcale, deputate dalla tradizione al mantenimento dei diritti di eguaglianza. E così come le Erinni punivano le trasgressioni alla Moira, così Dike punisce le trasgressioni al metron. Ma cos’è questo metron? Nei poemi omerici la parola metron è usata soltanto nei significati concreti di stecca di misura, oppure di quantità definita di grano, olio o vino. Già in Esiodo il termine comincia a significare anche “moderazione”, perché comincia ad essere chiaro che i nuovi rapporti di classe basati sullo sfruttamento si dissolverebbero in una guerra civile generalizzata di tutti contro tutti se i dominatori non si accontentassero di uno sfruttamento non eccessivo (apeiron), evitando così di spingere gli oppressi all’esasperazione. Il limite, metron, è quindi in primo luogo il frutto di un approccio razionalistico alla nuova realtà della lotta di classe fra ricchi e
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poveri e alla recente dissoluzione delle vecchie forme di vita tribali e comunitarie. Questo spiega anche la centralità del termine katechein per l’interpretazione della società greca antica. Il termine katechein significa freno, e significa soprattutto impedire la comune rovina (pthorà), che avverrebbe infallibilmente secondo l’ordine (taxis) del tempo (chronos) se non intervenisse la misura (metron), di cui gli uomini pur sempre dispongono, disponendo del logos. Ma questo logos non significa soltanto ragione o linguaggio, significa soprattutto calcolo. Ed il calcolo ci porta diritti a Pitagora ed al pitagorismo. Presentato spesso come ingresso della sapienza orientale nel mondo greco (sapienza egiziana, sapienza indiana, metempsicosi, eccetera), il pitagorismo è invece a nostro avviso un fenomeno squisitamente greco, in quanto in esso il katechein, e cioè l’impedimento della dissoluzione sociale derivata dall’accumulazione delle ricchezze e dallo scontro fratricida fra ricchi e poveri, si determina come calcolo numerico delle proporzioni del metron. Il discorso qui si farebbe lungo, ma lo limiteremo alle tre figure di Parmenide, Clistene e Platone. Esse bastano ed avanzano per far capire il punto essenziale della questione che stiamo affrontando. Gli studiosi concordano quasi tutti sul fatto che Parmenide di Elea faceva parte della scuola di Pitagora. Non è possibile qui per ragioni di spazio discutere sulle diverse interpretazioni del termine “essere” in Parmenide. In riferimento alla tesi precedentemente sostenute sul nesso concettuale che lega insieme l’apeiron, la dike, il metron e il katechein, ci limiteremo a dire che è fortemente probabile che in Parmenide il termine “essere” (to on, che personalmente tradurrei come “essente alla luce dell’essere” – mi scuso per l’arbitrio) sia una metafora verbale per indicare indirettamente la stabilità permanente della buona legislazione, che essendo per l’appunto “buona”
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non deve essere più cambiata, in quanto corrisponde ad un doppio nomos, il nomos della natura ed il nomos dei mortali. Lo studioso Panikkar, che si è occupato a lungo del problema della cosiddetta “traducibilità” dei concetti filosofici sorti in differenti contesti storici e geografici, ha proposto il termine di «equivalenti omeomorfi» per indicare questa corrispondenza traducibile. E poiché gli antichi Greci e gli antichi cinesi avevano in comune una concezione umanistico-cosmologica del mondo, possiamo avanzare l’ipotesi che il concetto greco di essere ed il concetto cinese di tao siano appunto equivalenti omeomorfi. È comunque ormai quasi scandaloso che si continui a proporre una nozione di tipo religioso, ieratico, sapienziale ed indeterminata dell’essere di Parmenide, come se non sapessimo nulla su ciò che invece è ben noto, e cioè che i concetti della filosofia antica anteriore al cristianesimo si basavano su di una stretta omologia fra il metron della natura ed il metron della società, e su come la dike reggesse sia il mondo degli dèi che il mondo degli uomini. L’essere del saggio pitagorico Parmenide di Elea era la metafora dell’eterna permanenza “ideale” della buona e stabile legislazione della comunità. Pitagorico era anche verosimilmente il legislatore democratico ateniese Clistene, che nel 507 a.C. effettuò la famosa riforma che divideva il territorio dell’Attica in trenta demoi, uniti a tre a tre in modo da riunire gli abitanti di tre zone a differente grado di ricchezza, la costa (paraliaci), la pianura abitata (pediaci), e la montagna più povera (acriti). Non è noto se Clistene fosse personalmente un pitagorico, ma hanno ragione quegli autori, come il francese Lévêque, che connotano in questi termini la riforma di Clistene, in cui la misura è ottenuta mediante la mescolanza, ed il katechein viene perseguito attraverso la sapienza numerica. Sul pitagorismo indiretto di Platone la discussione dura da secoli, ed anche se è ormai difficile che nuovi dati storici possano essere scoperti, non c’è dubbio sul fatto che Platone è al cin-
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quanta per cento allievo di Socrate e al cinquanta per cento allievo di Pitagora, nel senso di allievo di una concezione fortemente matematizzata e geometrizzata del mondo naturale (il Timeo) e di quello sociale (la Repubblica). La concezione politica di Platone, solitamente definita come aristocratica, è certamente opposta a quella di Clistene, anche se ogni paragone è largamente improprio, in quanto fra i due passa più di un secolo, ed un secolo è più che sufficiente per rendere impropria ogni comparazione. E tuttavia Platone e Clistene hanno almeno un elemento in comune, e cioè che entrambi cercano nel metron il criterio per affermare concretamente nella comunità politica la dike. I parametri moderni di “destra” e di “sinistra” sono del tutto inapplicabili al mondo di cui ci stiamo occupando. Tutti gli studiosi seri del mondo antico ovviamente lo sanno, e tutti gli studenti che si presentano all’esame di maturità sanno bene che questi termini prima del 1791 non esistevano neppure. E tuttavia la forza simbolica della “retroazione concettuale”, quasi sempre inconsapevole, è talmente forte da proiettare sul mondo antico il raddoppiamento delle dicotomie Destra/Sinistra e Borghesia/Proletariato, inventandosi così di fatto una akropolis di destra ed una agorà di sinistra. Ma, appunto, il katechein non è né di destra né di sinistra. E non lo sono l’esigenza di portare con il nomos del cittadino (polites) un ordine (taxis) che impedisca la dismisura delle ricchezze dei benestanti e dell’invidia dei poveri, e che sostituisca al potere dell’apeiron e dell’aoriston il potere del metron e del logos. Questo è il cuore semprevivo dell’insegnamento dei nostri maestri greci. Un cuore semprevivo che è di attualità sconcertante nelle condizioni storiche e sociali in cui viviamo. Siamo infatti di fronte ad un sistema economico e sociale privo di misura (metron), che conosce solo individui e non conosce più comunità, se non nel senso di comunità artificiali da manipolare, che sembra aver dimenticato l’arte antica del kate-
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chein, che ignora il fatto che il raggiungimento della concordia (omonoia) deve necessariamente passare attraverso l’equilibrio (isorropia), e che l’equilibrio non può passare attraverso i mercati finanziari (che Aristotele avrebbe definito in termini di “crematistica” contrapposta all’ “economia”, e cioè al nomos dell’oikos, la regola razionale della riproduzione della casa-comunità), ma può essere conseguito soltanto attraverso un dialogo politico reale, e soprattutto un dialogo politico fra popoli e stati sovrani, e non dipendenti. Immaginare che ci potesse essere una demokratia ad Atene con una guarnigione spartana stabilmente insediata sull’acropoli sarebbe stata un’assurdità per gli antichi. Eppure questa assurdità è oggi la normalità (una normalità anormale, in cui Kafka e Borges hanno sostituito Erodoto e Tucidide) per i popoli europei. Prendere atto di questa situazione per modificarla radicalmente è oggi l’eredità del cuore semprevivo dell’insegnamento dei nostri maestri greci.
2. Gli opposti giudizi di Hegel e di Marx sulla grecità ellenistica. Alcune riflessioni La speculazione filosofica classica presuppone come sua base materiale e sociale la sovranità politica della comunità dei cittadini, e questo è particolarmente evidente in Platone ed in Aristotele. Platone è certamente un critico della democrazia, ma per intenderne correttamente le motivazioni teoriche non è sufficiente ripetere che si oppone alla “democrazia in generale”, in quanto egli si oppone a quel tipo di regime politico che ha condannato a morte Socrate in modo ingiusto. In questo caso concreto la dike è stata violata, ed ha prevalso l’adikia. La ragione socratica non ha saputo e potuto opporsi alle passioni politiche dei cittadini che lo hanno condannato sulla
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base di false accuse, fra l’altro confutate dallo stesso Socrate nella sua Apologia. Nella sua Lettera VII Platone dice infatti apertamente che la condanna a morte di Socrate è stata il fattore scatenante che ha messo in moto il suo pensiero filosofico. La condanna a morte di Socrate sta alla filosofia di Platone come la crocefissione di Gesù di Nazareth sta allo sviluppo del cristianesimo successivo. In termini freudiani, possiamo dire che la condanna a morte di Socrate è stata la “scena primaria” della storia della filosofia occidentale. E lo è stata al punto da essere riuscita a far dimenticare la precedente genesi della filosofia stessa, genesi che abbiamo visto originarsi non da un processo e da una condanna a morte di un imputato innocente, ma dalla necessità di contrastare l’adikia prodotta dalla dissoluzione della comunità solidale dei cittadini a causa di quel vero e proprio apeiron (l’infinito indeterminato) della smisuratezza della ricchezze, smisuratezza che può soltanto essere contrastata dal ristabilirsi di un nomos, metaforizzato nel termine “essere” (to on) per connotare simbolicamente la stabile permanenza nel tempo della buona legislazione umana. Il processo a Socrate è allo stesso tempo un fattore che evidenzia e nasconde il cuore semprevivo dell’interrogazione filosofica degli antichi Greci. Lo evidenzia, perché mette tea tralmente in scena l’incapacità delle maggioranze democratiche di garantire realmente la dike, per cui al di sopra della casuale maggioranza politica si segnala l’esistenza di una verità superiore, cui si può accedere soltanto attraverso una via razionale di tipo pitagorico. Lo nasconde, perché a Platone non è già più chiara l’origine integralmente comunitaria del concetto di Bene, che infatti in Platone “decolla” verso il cielo dell’Iperuranio. La soluzione bimondana dell’idealismo platonico è anche (non solo, certamente, ma anche) la presa d’atto di una perdita irreversibile. Eraclito, a differenza di Platone, pensava ancora chela costituzione isonomica di Ermodoro potesse essere difesa “sulle mura” da tutti i cittadini (fr. 44).
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Il pensiero di Aristotele segnala che l’oblio delle origini della speculazione filosofica ha fatto ancora un passo avanti. Ricostruendo nel primo libro della Metafisica la storia della filosofia che lo precede, storia vecchia a quei tempi di trecento anni, Aristotele mostra di non essere più in grado di comprenderne le origini comunitarie, e classifica i suoi predecessori in base al criterio del tutto estrinseco delle cosiddette “quattro cause” (materiale, formale, efficiente e finale). Il criterio classificatorio delle quattro cause proposto da Aristotele più di due millenni fa sta ancora alla base della compilazione dei manuali di storia della filosofia, e questa fatto – ai miei occhi almeno – è una vera e propria vergogna. Evidentemente la destoricizzazione del pensiero è funzionale ad una società che non è in grado di storicizzare la legittimità dei propri fondamenti sociali, e questo è avvenuto nel precedente feudalesimo signorile così come avviene nel moderno capitalismo globalizzato. Lo sviluppo della filosofia ellenistica è stato giudicato in modo opposto da pensatori eminenti come Hegel e Marx, e vale la pena riflettere autonomamente sul loro modo rispettivo di valutare il pensiero di Epicuro nel contesto più ampio della filosofia antica. Il loro modo opposto di giudicare Epicuro, infatti, può essere interessante per noi, in quanto noi non siamo costretti a seguire l’uno oppure l’altro, ma possiamo maturare un’opinione personale proprio partendo dalle loro rispettive unilateralità. L’unilateralità nel giudizio filosofico, infatti, è sempre e solo un sintomo di una più ampia incertezza storica e sociale. La distanza storica che ci separa sia da Hegel che da Marx, infatti, permette di comprendere meglio le motivazioni profonde rispettive che li hanno portati a dare giudizi tanto diversi su di un autore particolarmente significativo come Epicuro. La natura della filosofia di Epicuro è solo apparentemente “semplice”. Il suo “quadri-farmaco” può essere imparato a
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memoria in pochi minuti, ma l’insieme della sua riflessione, prescindendo qui dalla relativa facilità del suo apprendimento, non pone problemi interpretativi minori di quelli posti ad esempio da Platone e da Aristotele. L’ateismo di Epicuro, già percepito come tale dagli antichi, non corrisponde per nulla a ciò che viene oggi definito e percepito come “ateismo”, ed i suoi “dèi” esistono appunto come “mortali felici”, con una consapevole antropomorfizzazione, che risulta dialetticamente proprio dalla precedente disantropomorfizzazione “scientifica” del suo modello atomistico. Più di duemila anni dopo il filosofo marxista Lukács ha sostenuto che quanto più le varie scienze procedono nella via della disantropomorfizzazione conoscitiva del mondo, tanto più avviene necessariamente una riantropomorfizzazione umanistica del mondo, e ci si chiede necessariamente il “come” ed il “verso-dove” del mondo stesso. In questo senso Epicuro è interamente “umanista”, ed è fortemente problematico che lo si possa interpretare in senso anti-umanistico come primo fondatore del cosiddetto «materialismo aleatorio» (Louis Althusser e seguaci, eccetera). In Epicuro uomini e dei camminano di fatto sempre insieme. Mentre la provenienza spirituale della scuola degli stoici antichi dal vicino oriente mediterraneo non è più messa in discussione, la natura della filosofia epicurea è invece tuttora controversa. Dal greco Charalambos Theodoridis al francese Jean Fallot, vi è un’intera scuola filosofica che ritiene Epicuro, assai più di Platone e di Aristotele, il “vero” rappresentante esemplare della sapienza filosofica degli antichi, e l’unico del tutto “incompatibile” con il posteriore “recupero” cristiano. La questione resta aperta, ed è in realtà insolubile. Ogni generazione ha il diritto assoluto di rapportarsi a Epicuro come crede. Nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia Hegel dà un giudizio sprezzante sull’insieme del pensiero di Epicuro, anche se fa alcune concessioni sull’“elevatezza” della sua morale, co-
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gliendo inoltre in modo acuto il fatto che in Epicuro la stessa felicità è frutto di una conoscenza filosofica e non di una semplice sensazione irriflessa (come era per i precedenti cirenaici), per cui «lo stesso godimento è un risultato della filosofia» (sic!). Ma il rifiuto dell’epicureismo da parte di Hegel resta totale, anche perché attraverso la polemica con Epicuro Hegel conduce in realtà “per interposta persona” la sua polemica contro il sensismo materialistico del Settecento francese, un profilo filosofico che disprezza e con cui non intende in alcun modo scendere a patti. Un po’ per scherzo ed un po’ sul serio sostiene che delle trecento opere che gli vengono attribuite egli “ringrazia il Signore” che non abbiano potuto arrivare fino a noi, e dobbiamo addirittura “deprecare” il fatto che altri suoi scritti possano essere ancora ritrovati. Hegel si dimostra qui ancora più “estremista” dello stesso Nietzsche, filosofo notoriamente abituato a non fare prigionieri ed a filosofare «con il martello». Ma l’estremismo di Hegel può essere compreso, se lo si colloca all’interno del percorso (Denkweg) della sua riflessione. Egli intende infatti riproporre la piena attualità della grande filosofia classica dei Greci, da Platone ad Aristotele, ed intende soprattutto esprimere una valutazione globalmente negativa sulla filosofia ellenistica nel suo complesso, vista come una forma subalterna di “interiorità all’ombra del potere”, valutazione che assomiglia peraltro come una goccia d’acqua a quella data dal marxista Lukács nella sua opera La distruzione della ragione a proposito della cosiddetta filosofia “borghese”contemporanea. E allora necessariamente Epicuro finisce per farne le spese. Ogni giovane generazione deve in qualche modo “uccidere il padre”. E l’uccisione rituale del padre Hegel fu compiuta dai suoi immediati successori, che la storiografia filosofica definisce generalmente “giovani hegeliani”, laddove essi erano invece “giovani anti-hegeliani”, e dovrebbero per chiarezza essere definiti in questo modo, anziché nel modo consueto
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largamente fuorviante. E questo fu il caso del giovane Marx, che si laureò in filosofia nel 1841 all’università di Jena, con una tesi sulla Differenza fra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro. Marx probabilmente non lo sa, ma a distanza di duemila anni si può dire di lui quello che Diodoto disse del poema di Eraclito, che apparentemente parlava della natura, ma in realtà lo faceva metaforicamente per parlare della società. E come Eraclito più di duemila anni prima, anche Marx parla apparentemente soltanto dei sistemi atomistici di Democrito e di Epicuro, ma in realtà sviluppa una metafora della libera scelta personale ed individuale (in questo caso, della sua libera scelta personale ed individuale di aderire ad una critica della società borghese anziché integrarsi in essa nella forma del conformismo universitario specialistico). Rilevando la centralità del concetto di “deviazione” degli atomi di Epicuro (clinamen, parénklisis), Marx metaforizza apertamente la sua propria individuale “deviazione”, che diventa così una sorta di sublimazione filosofica della sua scelta rivoluzionaria. La filosofia di Epicuro diventa così una sorta di “eleuteriologia”, intesa come un sapere della libertà. Si dirà che in questo modo Marx rompe con Hegel, visto come filosofo della necessità. Dipende ovviamente da come noi interpretiamo Hegel e prima di lui Spinoza. Spinoza è stato spesso interpretato come filosofo della necessità, ma alcuni autorevoli studiosi lo interpretano invece oggi come filosofo della libertà (Stanislas Bréton, André Tosel), senza che questo implichi la sua interpretazione in chiave di “materialismo aleatorio” (Antonio Negri, eccetera). In quanto a Hegel, si fa oggi strada una sua interpretazione nuova, che ne fa un maestro di eleuteriologia e non di giustificazionismo storicistico (cfr. B. Mabille, Hegel. L’épreuve de la contingence, Aubier, Paris 1999). Il discorso qui si farebbe lungo, ed è impossibile svilupparlo adeguatamente per ragioni di spazio. Il problema-Epicuro resta aperto,
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ed è chiaro che né Hegel né Marx hanno detto in proposito l’ultima parola.
3. Il rapporto del cristianesimo con il mondo classico e con la filosofia degli antichi Se domani arrivasse sulla terra un’astronave che porta con se una commissione di filosofi extra-terrestri provenienti da un altro sistema solare, filosofi del tutto estranei alle polemiche delle scuole filosofiche “terrestri”, ci si potrebbe forse aspettare da costoro una soluzione al problema della continuità, o viceversa della discontinuità, fra la filosofia classica dei Greci ed il cristianesimo successivo. Noi “terrestri” non possiamo darla, e non abbiamo mai potuto darla nei secoli che ci precedono, perché non si tratta in alcun modo di un problema erudito, filologico o storiografico, ma si tratta di un problema fortemente “ideologico”, in quanto concerne il modo con cui noi personalmente ci riferiamo al problema del rapporto fra la filosofia e la religione, o più esattamente fra la conoscenza filosofica e la fede religiosa. Prima o poi, l’ateo opterà per la discontinuità, ed il credente “teologo” per la continuità, facendo diventare Platone ed Aristotele dei “precursori”, o come fu detto un tempo, dei “Mosè che parlavano greco”. E tuttavia, la radicale estraneità del pensiero di Aristotele con la successiva teologia domenicana posteriore resta qualcosa di molto difficile da negare (cfr. L. Rougier, in «Krisis», n. 23, 2000, pp. 136-148). Anche Stalin usava Hegel, ed Hitler ha usato Nietzsche. Non per questo possiamo dire che Stalin fosse hegeliano o Hitler fosse nicciano, con tutto il rispetto per il rapporto istaurato da Tommaso d’Aquino con il pensiero filosofico di Aristotele. Poiché però da qualche parte bisogna pur cominciare, è possibile farlo partendo da un rilievo fatto da Hegel nelle sue
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Lezioni sulla filosofia della storia. Hegel rileva che proprio il fatto, apparentemente ecumenico e tollerante, per cui i romani avevano accolto nel loro Pantheon tutti gli dèi possibili ed immaginabili, aveva causato una sorta di disincantamento generalizzato nei sudditi dell’imperatore romano (da Hegel definito come «La persona delle persone autorizzata al possesso di tutti» – definizione che ricorda irresistibilmente lo strapotere del presidente imperiale Usa oggi). Se tutti gli dèi potevano essere accolti nell’unico Pantheon “autorizzato” imperiale, ciò non poteva che significare che nessuno di essi esisteva veramente, perché nessun dio degno di questo nome avrebbe mai accettato di essere incorporato in un simile Pantheon idolatrico. Il mondo romano secondo Hegel sarebbe stato caratterizzato da «disorientamento e dolore per l’abbandono da parte di Dio», e questo avrebbe generato necessariamente il «dissidio con la realtà» preparando così il terreno per un «superiore mondo spirituale». È evidente che qui Hegel dà un’interpretazione provvidenzialistica dell’avvento del Cristianesimo, interpretazione provvidenzialistica che non potrebbe certamente essere condivisa da chi dà invece una valutazione globalmente critica del cristianesimo (cfr. A. de Benoist, Jesus et ses frères, Association Les Amis d’Alain de Benoist, Paris 2006). Ma qui non si tratta ovviamente di decidere chi abbia torto o chi abbaia ragione fra Hegel ed Alain de Benoist. Ognuno pensi quello che vuole. Qui siamo sempre nel campo che Hegel chiamava dell’“opinare” (meinen). Il problema sta invece nell’interpretare l’espressione hegeliana «disorientamento e dolore per l’abbandono da parte di Dio». Se tentiamo un’interpretazione razionalistica e secolarizzata del termine «abbandono da parte di Dio» giungiamo a due conclusioni probabili. In primo luogo, abbandono da parte di Dio significa che per il momento Dio ci ha abbandonati, ma è sempre possibile che ritorni, ed in questo caso avremmo ciò che Martin Heidegger ha inteso con l’espressione «solo un Dio
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può ancora salvarci». In secondo luogo, e questa seconda spiegazione è effettivamente più razionalistica e secolarizzata della precedente, abbandono del mondo da parte di Dio significa che il mondo in cui viviamo non possiede più alcuna vera legittimazione etica e politica, e quindi religiosa. Personalmente, aderisco a questa seconda interpretazione. Tutti i tentativi alla Habermas di “legittimare” la società liberale contemporanea producono evidenti risultati a metà fra l’ipocrisia ed il ridicolo. Il mondo in cui stiamo vivendo oggi è del tutto privo di vera legittimità, e non è certamente stata la caduta implosiva e dissolutiva del comunismo storico realmente esistito (1917-1991) a rilegittimarlo. Se questo è anche solo parzialmente vero, diventa allora comprensibile l’espressione hegeliana «dolore per l’abbandono da parte di Dio». In questo momento storico tutte le persone critiche, pensanti e sensibili stanno provando sulla loro pelle il sentimento di dolore per l’abbandono da parte di Dio, e se vogliamo tradurre in linguaggio filosofico razionalistico e secolarizzato, il sentimento di dolore per l’assoluta mancanza di qualunque legittimazione comunitaria del modo di vita alienato in cui siamo immersi. Questa rilegittimazione non possono certo darla né i seguaci di Ratzinger, che rilancia una forma di aristotelismo tomistico solo superficialmente “aggiornato”, né coloro che credono che basti rilanciare Darwin ed il pensiero scientifico moderno contro il creazionismo ed il cosiddetto “irrazionalismo”. Non esiste peggiore irrazionalista di colui che crede che la “ragione” di cui ha bisogno l’uomo si possa risolvere in una addizione di Galileo, Darwin, Freud ed Einstein. Questi quattro grandi spiriti sono certo importanti, ma non sono certo sufficienti per attenuare il disorientamento ed il dolore per l’abbandono del mondo da parte di Dio. E qui dunque sta il problema, e non nell’ennesima ripetizione di argomenti già noti a proposito dell’irrisolvibile problema
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della prevalenza della continuità, o viceversa della discontinuità, nel rapporto fra la filosofia classica “greca” ed il nuovo spirito “cristiano”. Oggi questo spirito “cristiano” è comunque ancora più in crisi, o se vogliamo ancora più assente dal mondo, di quanto lo sia la stessa saggezza antica. Ma sulla presenza, o viceversa, sulla assenza nella scena contemporanea di Platone di Atene e/o di Gesù di Nazareth, possiamo tranquillamente affidarci all’interminabile opinare dei partecipanti a quello che Richard Rorty ha definito il «dialogo democratico», la cui caratteristica è quella di non essere né “dialogo”, né “democratico”, perché la dittatura manipolatrice del sistema mediatico e la ristrettezza disciplinare del sistema universitario lo riduce ad essere un’ombra di simulacri alla Debord ed alla Baudrillard (e pensiamo ad “opinionisti” del tipo di Glucksmann e di Henri-Lévy in Francia, vera e propria vergogna per questa antica e nobile nazione).
4. Lontano dai Greci. La costituzione formalistica del soggetto e della società da Descartes a Kant I grandi filosofi “platonici” del rinascimento italiano del Quattrocento (Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, eccetera) sono generalmente considerati come i portatori spirituali di una “ripresa dello spirito degli antichi Greci” nella nuova situazione storica del cosiddetto «tramonto del Medioevo», per usare l’espressione di Huizinga. Su questa valutazione, generalmente data per ovvia e scontata, ci sarebbe in realtà da discutere. Lo spirito degli antichi Greci era profondamente comunitario, e si può fortemente dubitare del fatto che una “ripresa” di questo “spirito” abbia potuto conciliarsi con un estremo individualismo. Si può certo essere individualisti, se lo si vuole e lo si ritiene opportuno, e si possono anche mettere in evidenza
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i “vantaggi” che questo individualismo porta con sé. Quello che non si può fare, invece, è attribuire ad un profilo culturale unitario tramandatoci dall’antichità classica qualcosa che non gli appartiene per nulla, e che invece è il prodotto di una novità storica assoluta. E l’individualismo rinascimentale, sia pur ricoperto con abiti platonici, è una novità storica assoluta, ed il fatto che sollevi il ritratto di Platone e lo metta al centro della scena (pensiamo alla Scuola di Atene di Raffaello) non significa che ne possa recuperare lo “spirito” (pneuma). Anche Lutero si nascondeva dietro San Paolo, Robespierre si nascondeva dietro Plutarco e Trockij si nascondeva dietro i giacobini. Non per questo tutti costoro potevano essere richiamati in vita. Lo spirito della filosofia classica sorgeva da una comunità regolata dal nomos, e si rivolgeva contro l’apeiron e l’aoriston della Dismisura delle Ricchezze e dell’Invidia. I platonici rinascimentali si muovevamo all’interno di un mirabile museo archeologico, ed aspiravano al riconoscimento non certo del demos ateniese, ma alla benevolenza delle corti di ex-mercanti nobilitati (Medici, eccetera). Lo spirito della filosofia rinascimentale, anche se si “copriva” con le vesti classiche di Platone e di Aristotele, era in realtà caratterizzato dallo sviluppo di un individualismo sempre più consapevole dei suoi diritti assoluti ed illimitati. E proprio quando faceva retoricamente riferimento ai Greci, proprio allora si allontanava da essi, in quanto il suo individualismo era incompatibile con il loro spirito comunitario. I secoli che vanno dal Cinquecento fino alla fine del Settecento sono in Europa i secoli del massimo allontanamento spirituale dagli antichi Greci. La tesi può sembrare a prima vista paradossale ed esagerata, ma apparirà meno “estremistica” se la si considererà più da vicino. La prima forma del nuovo individualismo è stata ovviamente quella della riforma protestante di Lutero e di Calvino. Mentre nel caso del precedente neoplatonismo rinascimentale fiorentino il nuovo individualismo si nascondeva ancora sotto le
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vesti degli antichi Greci (l’uomo come «microcosmo divino» di Marsilio Ficino), nel caso di Lutero e soprattutto di Calvino il nuovo individualismo si presenta come apertamente ostile alla filosofia classica ed al suo spirito, si collega direttamente a San Paolo, che aveva sostenuto che il suo messaggio di salvezza era «scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23), invita alla lettura ed al commento quotidiano dell’Antico Testamento, un testo di origine mesopotamica il cui spirito è quanto di più provocatoriamente incompatibile possa esistere in rapporto alla filosofia classica dei Greci, ed uccide Atene in nome di Gerusalemme, o più esattamente di una Gerusalemme adattata ai nuovi compiti ideologici dell’organizzazione sociale della nuova religione riformata. Si è scritto molto (Max Weber, eccetera) sul rapporto fra il nuovo spirito individualistico calvinista e lo sviluppo del capitalismo, e a distanza di un secolo è molto difficile affermare con sicurezza se Max Weber ha avuto ragione o si è ingannato. La facilità all’adattamento allo spirito dell’accumulazione capitalistica da parte di culture rimaste estranee allo spirito del monoteismo occidentale, e di quello protestante in particolare (India, Cina, Giappone, eccetera) farebbe pensare che la mentalità capitalistica non ha probabilmente bisogno di un “motore d’avviamento” di tipo protestante, basato sul concetto di Beruf inteso sia come vocazione che come professione. Ma il tema resta aperto. Nella situazione odierna, nonostante certi “ritorni” dell’integralismo cattolico e del suo tentativo (per ora largamente fallito) di “ricristianizzazione” dell’Europa, non bisogna però farsi ingannare e scambiare il secondario per il principale. I tentativi di papa Ratzinger (un papa filosofo di professione, attirato dalla concezione aristotelica della natura umana, che tende a concepire come una nozione normativa della morale di tipo anti-nichilistico ed anti-relativistico, nozione che possa prima o poi sostituire il sempre più “incredibile” racconto biblico di tipo apertamente mitico) di rivitalizzare il cattolicesimo resta-
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no un dato politico e geopolitico del tutto secondario. L’elemento principale, se vediamo la cosa a livello mondiale, resta la sottomissione culturale strategica della chiesa cattolica ad una politica imperlale Usa sempre più legittimata in base ad un messianesimo di tipo protestante-sionista (i neo-cons americani, eccetera), messianesimo del tutto estraneo alla tradizione universalistica cattolica sorta soprattutto a partire dalla controriforma cinquecentesca. Chi comanda nel mondo sono i protestanti messianici americani alleati con il sionismo israeliano (da non confondere ovviamente con l’ebraismo, che è un fenomeno culturalmente plurale e non riconducibile al messianesimo territoriale sionista), mentre il cattolicesimo li segue a ruota, spesso costretto al ruolo subalterno di organizzazione non-governativa di tipo umanitario. I protestanti bombardano, ed i cattolici vengono dopo per curare i feriti delle bombe. Una simile divisione ipocrita del lavoro comporta effettivamente ciò che a suo tempo Hegel aveva definito «l’abbandono del mondo da parte di Dio». Una seconda forma del nuovo individualismo è stata certamente quella che lo studioso canadese Crawford Macpherson ha definito «individualismo possessivo», che trova in Hobbes e poi in Locke i suoi principali esponenti. Qui siamo veramente non solo lontani dai Greci, ma addirittura ai loro antipodi. L’individuo non è definito in base alla sua anima (psyché), ma in base alla sua proprietà. Nella filosofia di Hobbes l’odio verso la filosofia politica di Aristotele è ostentato e manifesto, in quanto alla concezione antropologica comunitario-razionalistica di Aristotele (l’uomo come animale politico, comunitario e sociale, e l’uomo come animale dotato di capacità di ragione e di linguaggio) si contrappone l’atomo individuale (in-dividuum, non ulteriormente divisibile), che si trova in uno stato di guerra permanente (bellum omnium contra omnes) ed è un lupo per l’altro uomo (homo homini lupus). Non si tratta certo solamente di antropologia “pessimistica”. Ridurre il tutto
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alla semplice dicotomia di ottimismo e/o di pessimismo significa non cogliere il cuore filosofico della questione. La società politica del capitalismo acquisitivo deve essere prima fondata sulla base di un pessimismo agonistico, perché possa essere poi “liberalizzata” sulla base di un ottimismo antropologico (la teoria della “simpatia” di Adam Smith, che traduce lo scambio di merci fra venditore e compratore nella immedesimazione psicologica simpatetica che permetta al venditore di “anticipare” per empatia i desideri nascosti del compratore). A suo tempo Karl Marx ha parlato di “robinsonismo” per connotare questa costruzione super-individualistica della realtà sociale, cui viene tolto ogni possibile statuto comunitario. La critica di Locke all’idea metafisica di “sostanza” è anche presumibilmente una critica metaforica alla “sostanza comunitaria” che stava sotto (substantia, hypokeimenon) alla semplice rete degli scambi fra individui isolati ridotti alla funzione economica di compratori e di venditori, la cui “sostanza” diventa a questa punto il semplice potere d’acquisto individuale. La critica di Hume alla categoria di causalità è anche presumibilmente una critica metaforica alla teoria del contratto sociale, o più esattamente alla teoria del contratto sociale fondato sul giusto riconoscimento dei diritti naturali innati dell’uomo. Nell’ottica utilitaristica di Hume non esistono diritti naturali e non esiste nessun contratto sociale, concetti che Hume propone di gettare via insieme con i libri che li propongono. La società infatti non è “causata” da un contratto sociale di tipo inevitabilmente politico, il che comporterebbe inevitabilmente un primato della politica sull’economia, ma si auto-istituisce mediante una rete non politica e puramente economica di scambi mercantili. Non a caso, questa concezione di auto-istituzione della società è solidale ed omogenea con la parallela e poi convergente concezione della auto-istituzione della natura veicolata dalla teoria di Charles Darwin. Il lettore non mi fraintenda. Non intendo affatto sostenere il creazionismo contro l’evoluzioni-
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smo. Da quanto posso capirne, Darwin ha ragione nell’essenziale. Ma qui non si parla dello statuto epistemologico della teoria darwiniana dell’evoluzione della specie. Su questo non mi pronuncio per manifesta ignoranza di non-specialista, e lascio la discussione ai competenti. Qui mi pronuncio in ambito strettamente ideologico, e faccio notare che per gli odierni apologeti della normalità capitalistica l’auto-istituzione della società senza preventivo ricorso al contratto sociale e l’autoistituzione della natura senza preventivo ricorso alla creazione divina sono diventati due fondamenti metafisici da non mettere più in discussione. Se sono queste le “colonne metafisiche” del pensiero cosiddetto “laico” di oggi, allora temo veramente che «solo un Dio può ancora salvarci». E tuttavia l’allontanamento dai Greci è particolarmente visibile partendo dalla parte più teorica ed “astratta” della filosofia moderna, e cioè da quella che definirò come la “Costituzione Formalistica del Soggetto” (Cfs) visibile nel processo storico che va dal 1620 al 1790 circa, e cioè da Descartes a Kant, o più esattamente dal cogito ergo sum di Descartes all’Io Penso (Ich Denke) di Kant, l’“io penso” inteso appunto come suprema categoria unificatrice delle categorie, e quindi come “appercezione trascendentale”. Qui si è proprio al centro del massimo allontanamento sia dalla lettera che soprattutto dallo spirito degli antichi Greci. Il soggetto è non solo pensato, ma addirittura trascendentalmente costituito prescindendo interamente da ogni legame che potrebbe metterlo in rapporto organico e costitutivo con gli altri componenti della comunità in cui è inserito. Il “soggetto” di Descartes e di Kant non ha più nessun rapporto con il “soggetto” di Platone e di Aristotele, e non è neppure difficile comprendere il perché. Il fatto che Descartes accetti l’esistenza delle cosiddette “idee innate” ed affermi la possibilità razionale della dimostrazione dell’esistenza di Dio, mentre come è noto Kant dà una risposta negativa ad entrambe queste tesi è certo parzialmente dovu-
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to all’empirica personalità individuale e contingente dei due grandi filosofi, ma è ancora più dovuto al differente periodo storico in cui vivono. Descartes vive all’alba dei nuovi rapporti capitalistici di produzione, in piena età tardo-feudale e signorile, e non è quindi un caso che nella sua costituzione formalistica del cogito, che in lui è il punto di partenza soggettivo per l’intera costruzione razionalistica della realtà, restino significative “tracce” della metafisica precedente, dall’esistenza delle idee innate alla possibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio. Già in Locke le idee innate non esistono più, e questo non è un caso, perché la rete empirica dei rapporti capitalistici di produzione e di scambio (ivi compreso lo scambio e la vendita di schiavi, di cui Locke era azionista) non richiede appunto nessuna fondazione metafisica precedente. La mente umana per Locke e la società capitalistica nascente di cui era azionista (di schiavi – lo ripeto perché a volte lo sgradevole è anche catartico) avevano infatti un minimo comun denominatore, quello di essere entrambe una tabula rasa. Kant nasce quando Descartes e Locke sono morti da tempo, e quando non era più socialmente necessario fare “concessioni” alla metafisica religiosa tardo-signorile. Egli porta allora a compimento quella costituzione formalistica del soggetto che in Descartes era già stata ampiamente abbozzata, ma non era ancora stata perfezionata. In Descartes, infatti, non esisteva ancora neppure potenzialmente quella cruciale distinzione kantiana fra intelletto (Verstand) e ragione (Vernunft) che permette appurato la sovranità assoluta della logica dell’intelletto unita con la critica a tutte le cosiddette “pretese” della metafisica. E non si pensi che Kant abbia soltanto di mira le pretese normative in campo sociale della metafisica teologica. La logica della filosofia dell’intelletto di Kant, che dovrebbe appunto più opportunamente essere chiamata “filosofia dell’intelletto astratto” anziché “filosofia critica”, come viene chiamata da due secoli, è proprio la logica che, lungi dal “criticare”, impedisce di criti-
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care la nuova totalità dei rapporti sociali di produzione capitalistici. Come sempre avviene in filosofia, disciplina accessibile soltanto a chi è dotato di senso dell’umorismo e di capacità di straniamento (Bertolt Brecht), le cose sono sempre rovesciate rispetto a come sembrano. Il presunto “criticismo” di Kant è una potente macchina da guerra teorica che impedisce appunto di criticare la nuova realtà sociale che si sta costituendo. Il moderno “pensiero astratto” (pensiamo all’astrazione del valore-lavoro) presuppone evidentemente come sua base materiale il nuovo “lavoro astratto”, il lavoro qualitativamente omogeneo e quantitativamente calcolabile. E l’unione fra lavoro astratto e pensiero astratto (e qui anche chi non ha simpatia per Karl Marx dovrà ammettere che la sua distinzione fra base e sovrastruttura riesce ad individuare il cuore della questione) presuppone un portatore, e questo portatore è appurato il “soggetto astratto” di Descartes e di Kant. La costituzione di questo soggetto è però del tutto formalistica perché è il movimento dell’economia capitalistica ed il suo allargamento a tutti gli ambiti dell’attività umana concreta che gli dà il contenuto, laddove la “forma” deve restare per l’appunto soltanto “formale” (mi scuso per la ripetizione), in quanto essa è la condizione trascendentale astratta del suo possibile rapporto con il “contenuto”, che è dato dalla “materia”, in questo caso dalla materia dell’immenso mucchio di merci prodotte dal lavoro umano “astratto” e dal mercato capitalistico “concreto”. Pochissimi pensatori hanno fino ad oggi compreso il punito essenziale della questione, rimasto oscuro anche se facilmente visibile (ma ci sarebbe appunto voluto un “riorientamento gestaltico”, come dicono gli psicologi della Gestalt, per cui il becco di un’anatra viene finalmente visto come le due orecchie di un coniglietto). Lungi dall’essere un principio filosofico “popolare” ed addirittura “proletario”, il concetto moderno filosofico di “materia” nasce nel Settecento (e non è quindi una “continuazione lineare” del cosiddetto “materialismo” di Democrito,
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Epicuro e Lucrezio), e nasce come proiezione concettuale del medium omogeneo in cui possono liberamente scorrere in tutte le direzioni le merci capitalistiche, non più “disturbate” dalla distinzione qualitativa fra l’alto ed il basso, Dio ed il mondo (cfr. M. Antonopoulou, Κοινωνική Πράξη και Υλισμός. Σπουδή στην Kοινωνιολογία της Γνώσης (Social Action and Materialism. Study in Sociology of Knowledge), Alexandreia, Athens 2000, in greco moderno, ahimè). E questo non è un caso. Il nuovo modo di produzione capitalistico, che stava maestosamente entrando in scena, attuava una vera e propria “sincronizzazione” (Gleichschaltung) di tutti gli ambiti del pensiero filosofico. Il lavoro astratto comportava un pensiero astratto di cui fosse portatore un soggetto astratto. Lo spazio veniva integralmente riorganizzato ed unificato sotto il dominio di un concetto astratto, il concetto di materia. Il tempo veniva integralmente riorganizzato ed unificato sotto il dominio di un concetto astratto, il concetto di progresso. E mi sono limitato qui soltanto alle linee generali. Scendendo più in profondità sarebbe emerso un quadro ad un tempo unitario ed articolato. Il pensiero astratto moderno si oppone frontalmente al pensiero concreto dei nostri maestri greci. Ed i nostri maestri greci erano appunto “concreti” perché il loro pensiero era ad un tempo cosmocentrico ed umanistico. In quanto cosmocentrico, cercava di prescindere dal punto di vista puramente soggettivistico. In quanto umanistico, ricollocava il soggetto stesso in una struttura comunitaria. Questo allontanamento dal pensiero classico effettuato da Descartes e da Kant è oggi visibile nei suoi tratti fondamentali, mentre i contemporanei erano troppo eccitati dal contesto spirituale del razionalismo illuministico (o più esattamente, “intellettualistico” nel senso del Verstand di Kant) per potersene rendere conto. La sola vera eccezione è stata Spinoza, ma la posteriore distinzione kantiana fra razionalisti ed empiristi non gli fa giustizia. Spinoza non è un “razionalista” nel senso di Descartes e di Leibniz.
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Egli è piuttosto un “anticipatore” della reazione alla costituzione formalistica del soggetto e del conseguente “ritorno ai Greci” di cui ora parleremo.
5. Il ritorno ai Greci. La costituzione progressiva di una metafisica del mondo terrestre umano da Hegel a Marx a Heidegger L’elemento paradossale della critica kantiana alla metafisica tradizionale sta in ciò, che essa arriva proprio quando la metafisica che intendeva criticare stava cessando di esistere, nel senso che stava cessando di esserle funzionale ai suoi compiti ideologici precedenti. È infatti evidente che nella società feudale-signorile europea la metafisica religiosa aveva una funzione normativa di tipo politico e sociale, in quanto appunto esercitava la funzione di giustificazione trascendentale di una realtà gerarchica pienamente umana e terrena. Quando Kant nel ventennio 1770-1790 distrugge la vecchia metafisica decostruendola con pazienza tedesca, questa vecchia metafisica aveva di fatto cessato quasi completamente di esercitare il suo precedente ruolo, in quanto questo ruolo era stato preso e sostituito da una nuova “metafisica terrestre”, che si era ormai incorporata nelle nuove strutture sociali e politiche che Marx più tardi avrebbe definito, con un termine apparentemente oscuro ed in realtà chiarissimo, «sensibilmente sovrasensibili». Ed infatti la totalità riproduttiva capitalistica è certamente fatta funzionare da strutture “sensibili”, e cioè del tutto materiali (il cosiddetto “orrore economico” è la cosa più sensibile che esista!), ma nello stesso tempo per comprenderla occorre fare una deviazione (détour) del tutto sovrasensibile, costruendo cioè un “concetto” (Begriff), che possa permetterci di unificarla nel pensiero.
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Il pensiero filosofico che rifiuta di prendere in considerazione questo compito è il pensiero cosiddetto “laico”, il quale concettualmente si è fermato al 1790, e da lì non si è mai più mosso. Certo, i suoi sostenitori sanno che anche dopo la filosofia è proseguita, e sono a conoscenza del fatto che dopo ci sono Schopenhauer e Nietzsche, Bergson e Popper, eccetera. E tuttavia la critica alla metafisica “celeste” di Kant è la loro ultima trincea. Dopo rifiutano testardamente di andare, e non possono nascondere la loro irresistibile antipatia verso i “metafisici” posteriori, che si chiamino Hegel, Marx o Heidegger. Anche qui, però, esiste un elemento paradossale che vale la pena rilevare. È infatti assolutamente vero che Hegel, Marx e Heidegger sono dei “metafisici”, non però nel senso dato a questo termine da coloro per cui il pensiero umano si è irrevocabilmente chiuso nel 1790 con la critica kantiana alla metafisica religiosa dell’intelletto, la stessa che da circa duecento anni in Europa ha perso ogni funzione sociale ed ideologica. Hegel, Marx e Heidegger sono infatti a pieno titolo dei “metafisici” della terra, e dei critici delle categorie “metafisiche” che si sono nel frattempo incorporate in rapporti sociali, proprio quelle che i fautori kantiani della costituzione formalistica del soggetto rifiutano testardamente di prendere anche solo in considerazione. Lo “sganciamento” di Habermas da Adorno, tanto migliore e più profondo di lui, è in proposito un insegnamento luminoso per tutti coloro che vogliono impadronirsi concettualmente della questione. In proposito, non è concettualmente e terminologicamente importante il fatto che i nostri tre autori sopra indicati vengano connotati come “metafisici” o come “critici della metafisica”. Come è noto, il termine greco di “metafisica” è un termine inesistente, che riguarda solo la collocazione delle opere di Aristotele sulla “filosofia prima” (prote phylosophia), che il loro curatore mise appunto subito dopo i libri di Aristotele sulla fisica vera e propria.
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Tornare ad interrogare la “prima filosofia” significa ovviamente – e non potrebbe essere diversamente – tornare ad interrogare i Greci. Il ritorno ai Greci dopo la critica di Kant alla metafisica celeste dell’intelletto, vera e propria macchina da guerra per impedire e delegittimare ogni possibile interrogazione critica ulteriore, significa ristabilire la corrispondenza fra il termine greco logos ed il termine tedesco Vernunft. Entrambi i termini non possono essere limitati a un significato gnoseologico ristretto, ma alludono ad una totalità concettuale da ricostruire. Qui ci sta propriamente il ritorno ai Greci, che non è un ritorno alla loro lettera, ma è un ritorno al loro spirito. Con il fatale avvento del cristianesimo, i Greci sono volati via dal mondo, e non restano di loro che delle tracce (in proposito, ritengo che la massima intuizione di questa irreversibilità stia nella poesia del poeta greco moderno Giorgos Seferis intitolata Il re di Asine). Ma da queste tracce, da queste orme pallide sulla sabbia, resta qualcosa del loro spirito. Ed il loro spirito – mi si permetta una formulazione sintetica – sta nella sfida del passaggio dall’intuizione immediata del kosmos alla successiva – ma non distinta – elaborazione intellettuale del logos. Sono questi i geci. Sono questi i nostri maestri, che con tutto il sincero rispetto che nutriamo per i prodotti dello spirito umano, non vogliamo confondere con l’Enuma Elish, con il libro egiziano dei morti, con l’Avesta di Zarathustra, con le Upanishad, con il Tao Te Ching, e sopratutto con quella tarda elaborazione ebraica del precedente patrimonio mitico sumerico ed assiro-babilonese chiamata Antico Testamento (per il Nuovo Testamento farei un discorso diverso, in quanto a mio avviso in esso la grecità spirituale è maggiormente presente). Hegel ha costruito un monumento perenne alla filosofia dei Greci nelle sue lezioni sulla storia della filosofia e nelle sue lezioni sulla filosofia della storia. È evidente che nella filosofia antica non ci poteva essere un’anticipazione della sua filosofia universalistica e teleologica della storia (l’identità di Reale e
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di Razionale nell’interpretazione che ne ha dato Herbert Marcuse nel suo libro del 1941 Ragione e rivoluzione), e questo per un dato messo in evidenza dallo studioso tedesco Koselleck, per cui il concetto di Storia unificato in una sola nozione astratta di tipo trascendentale e riflessivo non nasce prima della metà del Settecento europeo, ed è derivato (anche se concettualmente separabile) dall’idea protoborghese di progresso. E tuttavia, non bisogna certamente cercare nei Greci un concetto universalistico di storia mondiale, sia che questo concetto ci piaccia sia che questo concetto invece non ci piaccia, e ci sembri pericoloso per le conseguenze eurocentriche ed occidentalistiche che inevitabilmente porta con sé, almeno dal punto di vista delle sue utilizzazioni ideologiche. Fra gli innumerevoli riferimenti che Hegel fa al pensiero antico ce n’è uno che a mio avviso è essenziale. Riferendosi alla Repubblica di Platone Hegel critica le posizioni, già presenti al suo tempo, che la interpretavano come una “utopia irrealizzabile”, e cioè come una sorta di anticipazione ateniese dell’Utopia di Tommaso Moro. A suo avviso, invece, la Repubblica di Platone non era stata affatto scritta per descrivere una sorta di finzione utopica impossibile, ma corrispondeva invece pienamente allo spirito dei Greci. Qui non ci si riferisce alle concrete soluzioni date da Platone all’organizzazione della sua Repubblica, che sono ovviamente contestabili e non possono essere riproposte in un contesto sociale e storico ormai profondamente mutato in modo irreversibile, ma all’elemento comunitario e non individualistico che ne pervade lo spirito. Vi è però un’opera essenziale in cui Hegel riprende lo spirito filosofico dei Greci, ed è la sua grande Scienza della logica. La sua Scienza della logica, scritta espressamente contro il criticismo di Kant (la cui funzione – non ci stancheremo di ripeterlo – è quella di non permettere la critica della totalità sociale umana, spostando questa critica stessa nell’irrilevante mondo della metafisica tradizionale, che nel frattempo ha perduto
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la sua funzione di legittimazione politica e sociale), restaura la concezione filosofica classica, che era stata mirabilmente espressa da Aristotele, dell’unità delle categorie del pensiero e dell’essere, unità infranta dal dualismo kantiano. Tutti gli studenti del primo anno di filosofia sanno bene che la concezione dell’unità ontologica profonda delle categorie del pensiero e dell’essere accomuna Aristotele e Hegel e contrappone entrambi a Kant, ma pochi hanno veramente riflettuto sul significato di questo dato. Ciò che è noto – dice lo stesso Hegel – non per questo è veramente conosciuto. L’unità delle categorie del pensiero e dell’essere significa infatti il recupero di una visione unitaria di tipo cosmocentrico, ed è incompatibile con quella forma di antropocentrismo formalistico ed astratto che a sua volta è solo il raddoppiamento “umano” del teismo religioso, già correttamente criticato da Spinoza, per cui è impossibile rimettere veramente al centro l’uomo se prima non ci si libera di una concezione antropomorfica e teleologico-progettuale della divinità stessa. L’unità delle categorie del pensiero e dell’essere, elemento comune ad Aristotele, Hegel e Marx, e che collega direttamente questi due ultimi pensatori “moderni” al pensiero classico e li fa diventare incompatibili con Kant e con tutto il neokantismo formalistico contemporaneo, da Bobbio a Rawls a Habermas, non ha a sua volta nulla in comune con quella sua deformazione positivistica che fu il materialismo dialettico di Engels, Lenin, Stalin e Mao Tse-tung. Il materialismo dialettico parla di “leggi unificate” della dialettica della natura e della storia umana, e compie così un’indebita “naturalizzazione evoluzionistica” della storia stessa, laddove l’unità delle categorie dell’essere e del pensiero è cosa ben diversa, in quanto permette una trattazione qualitativamente distinta sia dell’ontologia dell’esserle sociale sia dell’ontologia dell’essere naturale, secondo la corretta impostazione dell’ultimo Lukács, che ha trovato in Francia un grande interprete nello studioso di origine romena Nicolae Tertulian.
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Karl Marx ha ereditato integralmente da Aristotele e da Hegel il concetto di unità ontologica tra le categorie del pensiero e le categorie dell’essere. In questo modo, la critica alla metafisica ha potuto essere riportata dal cielo alla terra, come era già avvenuto ad Atene, e non certo a Gerusalemme, con tutte le conseguenze del caso. Per quanto concerne Aristotele, lo stretto rapporto fra Aristotele e Marx è stato discusso, analizzato e problematizzato mirabilmente in Francia da Michel Vadée (cfr. Marx penseur du possible, Meridiens Klincksieck, Paris 1992). Lo stesso passaggio dal capitalismo al comunismo, che la tradizione marxista ha pensato in forma necessitaristica, deterministica, naturalistica e teleologica (queste quattro determinazioni ne fanno in realtà una sola, di tipo positivistico, o più esattamente influenzata dalla concezione positivistica della scienza ottocentesca), è pensato piuttosto da Marx (almeno secondo la lettura di Vadée, che mi sembra plausibile) secondo la modalità aristotelica del cosiddetto “essente-in-possibilità” (dynamei on), e non secondo la modalità del possibile inteso come contingente, casuale ed aleatorio (katà to dynatòn), come avviene oggi per i seguaci dell’ultimo Althusser (Antonio Negri, eccetera). Marx è un aristotelico moderno, e per capirne fino in fondo le ragioni può essere utile studiare con attenzione le pagine dedicate da Hegel ad Aristotele nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia. A proposito di Marx, è noto che Engels ne ha dato nel 1888 (e quindi cinque anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1883) un’interpretazione “scientifica”, come di colui che ha consentito con la sua opera il passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza. Se così fosse, allora Marx non sarebbe per nulla un erede del pensiero dei Greci, ma sarebbe invece, secondo le letture di Lucio Colletti e di Louis Althusser, un erede del concetto di scienza naturale moderna di Galilei e di Newton. In realtà Marx intendeva realmente arrivare ad una “scienza”, ma non certo nel senso positivistico del termine (poi eredi-
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tato dall’intero marxismo novecentesco), quanto nel senso di Hegel di “scienza filosofica” (philosophische Wissenschaft). Vi sono peraltro anche riscontri di carattere filologico di difficile possibilità di confutazione. In una lettera ad Engels del 20 febbraio 1866 Marx presentava la sua opera come un «trionfo della scienza tedesca» (ein Triumph der deutschen Wissenschaft), un trionfo riportato contro la povertà della scienza inglese (e cioè di quell’empirismo destinato poi a trionfare nel marxismo successivo). Ma già in una precedente lettera a Lassalle del 12 novembre 1858 Marx aveva affermato che «l’economia come scienza nel senso tedesco del termine [im deutschen Sinn] resta ancora da fare». E si potrebbero ancora fare molte altre decisive citazioni, recentemente reperite dal filosofo francese Jean Vioulac. Ma si tratta qui di vedere l’intera foresta e di non perdersi nella contemplazione dei singoli alberi. Quando Marx parla di Triumph der deutschen Wissenschaft e di scienza im deutschen Sinn (con buona pace degli althusseriani passati presenti e futuri) ha chiaramente in mente il concetto di scienza filosofica elaborato da Hegel nella sua Scienza della logica, che a sua volta simboleggia quel recupero critico e creativo dell’eredità del pensiero classico dei nostri maestri greci abbandonato nel periodo della costituzione formalistica del soggetto da Descartes a Kant, costituzione formalistica del soggetto che è a sua volta funzionale a quel Dominio dell’Oggetto rappresentato dall’apparente onnipotenza e “naturalità” della produzione capitalistica incontrollata e smisurata, equivalente moderno (e postmoderno) di quella smisuratezza che gli antichi seppero individuare come apeiron e seppero frenare con il katechein. E la mancanza oggi di un pensiero caratterizzato appunto dal katechein è sotto gli occhi di tutti. In quanto ai più di cento anni di tradizione marxista, non si tratta certo di buttarla tutta via, ma si tratta di capire, usando l’espressione a suo tempo coniata da Charles Bettelheim, che
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non si tratta né di una filosofia né di una scienza (Etienne Balibar ha parlato di pseudo-scienza e di quasi-religione nel suo studio sulla Filosofia di Marx), ma di una specifica “formazione ideologica”, o più esattamente di una successione di formazioni ideologiche in lotta reciproca. In modo forse un po’ troppo duro, ma corretto nell’essenziale, Jean-Marie Vincent, che resta a mio avviso uno dei più originali pensatori marxisti francesi del Novecento, ha sostenuto che oggi il vero compito per chi vuole in qualche modo ricollegarsi spiritualmente a Marx resta quello di «sbarazzarsi del marxismo» (se débarrasser du marxisme), vera e propria pars destruens preliminare a qualunque altra operazione filosofica e concettuale (cfr. Un autre Marx. Après les marxismes, Page deux, Lausanne 2001, pp. 221-235). Lo stesso “materialismo” di Engels è una ripresa del realismo gnoseologico, la concezione della teoria della conoscenza di Tommaso d’Aquino, e questo non è un caso, perché tutte le religioni hanno necessariamente una teoria della conoscenza fondata sul realismo gnoseologico, e non importa poi molto se questo realismo conoscitivo ha come presupposto esterno dato Dio oppure la Materia (la materia divinizzata, ovviamente). Per chi riesce a cogliere il cuore della questione, gran parte della filosofia marxista novecentesca si riduce ad un episodio ideologico minore del neokantismo, quella corrente che a partire dal 1860 circa ha cercato di respingere ancora una volta i Greci in un passato inattuale pigramente archeologico ed archivistico. In estrema approssimazione, tutta la filosofia di Martin Heidegger può essere interpretata come una reazione novecentesca al neokantismo, e quindi anch’essa come un tentativo di ritorno critico ai Greci. La sua opposizione ai limiti della fenomenologia di Husserl e del neokantismo di Cassirer non può essere interpretata diversamente. A proposito di Heidegger, il principio metodologico fondamentale per intendere correttamente il suo pensiero non sta solo nel rifiutare il gossip po-
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liticamente corretto di Farias, ma sta nel prendere sul serio una sua affermazione contenuta in una raccolta di saggi e di conferenze, in cui afferma che «ogni pensiero essenziale attraversa intatto la folla dei sostenitori e degli avversari». Ed è proprio così, dal momento che anche i suoi avversari più accaniti devono ammettere che Heidegger ha saputo pensare il Novecento in modo “essenziale”. Pensare il Novecento in modo essenziale, seguendo l’affermazione di Hegel per cui la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero, vuol dire prima di tutto cercare di concettualizzare ciò che è primario, e lasciare ciò che è secondario ai commentatori universitari di seconda fila. Non è facile ovviamente riassumere qui l’“essenziale” del pensiero filosofico di Heidegger. Volendo tentare di farlo, potremmo riassumere il tutto in tre punti principali. Primo, Heidegger si ricollega anche lui ad Aristotele, Hegel e Marx nel respingere frontalmente la critica di Kant alla metafisica “celeste” nel frattempo resa obsoleta dall’incorporazione “terrestre” delle sue categorie, e nello studiare pertanto questa incorporazione terrestre nel modo più radicale possibile. Secondo, Heidegger propone una ben nota interpretazione della storia della filosofia occidentale che certamente “rovescia” per molti aspetti Hegel, e che per altri versi è incompatibile con la teoria della centralità della contraddizione sociale in Marx, secondo la quale la lunga storia della Metafisica Occidentale si è ormai completamente risolta nell’avvento della Tecnica Planetaria. Terzo, Heidegger diagnostica la presenza di una sorta di Dispositivo anonimo ed impersonale (Gestell), dispositivo che sembra inattaccabile da ogni progetto di tipo “umanistico” volto a rovesciarlo. Non vi è qui lo spazio, e neppure la necessità, di discutere i due problemi connessi del maggiore o minore rapporto con i Greci di Hegel, Marx o Heidegger e della compatibilità o
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meno della teoria marxiana della contraddizione dialettica risolutrice con la teoria heideggeriana che esplicitamente nega la presenza storica di una simile contraddizione dialettica risolutrice. Qui conta soltanto sottolineare ancora una volta l’essenziale, che abbiamo segnalato già molte volte in precedenza: il pensiero classico dei Greci si è storicamente costituito sulla base del katechein delle forze distruttive messe in moto dall’apeiron, ove questo apeiron diventi il principio distruttivo della politeia degli uomini, ed il kaos finisca così con il distruggere il nomos; questo pensiero si basava necessariamente su di una visione cosmocentrica unitaria, in cui le categorie dell’essere e le categorie del pensiero fanno tutt’uno e sono unificate dalla dialettica intesa in senso ontologico; il pensiero ellenistico, nonostante la sua grandezza (Epicuro, gli stoici, eccetera) ha disperato di poter far fronte a questo caos, e ha “ricentrato” il potere della ragione in una comunità di amici (Epicuro) o in una comunità cosmopolitica di dotti (lo stoicismo); il pensiero cristiano ha correttamente mantenuto l’unità fra le categorie del pensiero e le categorie dell’essere (e qui sta la sua relativa superiorità sul pensiero “laico” posteriore, che è sempre e soltanto una secolarizzazione kantiana del precedente individualismo calvinista “ingentilito” e privato dei suoi fastidiosi aspetti di fanatismo messianico), ma ha prodotto uno sdoppiamento fra l’uomo, il cosmo e Dio che ha finito con il perdere l’unità cosmologica ed umana del mondo dei Greci; la modernità si è costituita con il massimo possibile di allontanamento dai Greci, attraverso la costituzione formalistica ed astratta del soggetto da Descartes a Kant; per nostra fortuna, tuttavia, si è verificata dopo il 1790 un ritorno critico ai Greci, che ha trovato nelle tre grandi figure di Hegel, Marx e Heidegger i suoi momenti principali, sia pure ovviamente non unitari e certamente non compatibili l’uno con l’altro; e per finire, noi siamo ancora nella loro scia, e sarebbe presuntuoso dire che saremmo già “oltre” a loro; chi lo dice (ed il pensiero post-moderno
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lo dice) inganna se stesso e chi gli crede; noi siamo probabilmente “postumi”, ma non certo “postmoderni”.
6. Brevi riflessioni conclusive Il lettore filosoficamente informato avrà forse notato in questo testo alcune assenze, in primo luogo l’assenza di Nietzsche. Non c’è dubbio che Nietzsche sia stato un interprete geniale ed acuto della grecità in quanto civiltà espressiva unitaria, e non certo in quanto oggetto specialistico del sapere universitario. E tuttavia ritengo che chi pensa in grande spesso fraintende anche in grande. Certo, chi pensa in piccolo o non sa pensare non può neppure fraintendere. Il fraintendimento implica pur sempre un atto originale e critico del pensiero. Engels ha frainteso il concetto di “scienza filosofica” del suo amico fraterno Marx, e gli ha attribuito una nozione positivistica della scienza stessa (e se non l’avesse fatto, il suo committente politico diretto, la socialdemocrazia tedesca della seconda rivoluzione industriale, non avrebbe probabilmente adottato il “marxismo” come formazione ideologica identitaria di appartenenza di partito e di sindacato). Eppure Engels resta per molti aspetti un grande. Nietzsche è stato certamente più “grande” di Engels, eppure i “suoi Greci” mi sembrano veramente del tutto inesistenti. I Greci di Nietzsche non onorano il finito, esaltano la hybris anziché combatterla con il katechein, e sembrano considerare la riflessione filosofica come una “decadenza”. Forse qualcuno si farà convincere. Ma mi resta il sospetto che questi Greci nicciani inesistenti siano solo una proiezione funzionale alla propria (fortemente rispettabile) opposizione alla società borghese in cui Nietzsche era inserito, e cui tuttavia essendo riluttante, cercava di sfuggire.
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Nessuno può dichiarare di conoscere i “veri” Greci. I “veri Greci”, infatti, non esistono più. Di essi non restano che orme sulla sabbia. Ma queste orme, a mio avviso, valgono mille volte di più di tutti i fondamentalismi biblici e di tutte le riproposizioni formalistiche neokantiane, tipiche di questi tempi di miseria.
Bibliografia essenziale M. Antonopoulou, Κοινωνική Πράξη και Υλισμός. Σπουδή στην Kοινωνιολογία της Γνώσης (Social Action and Materialism. Study in Sociology of Knowledge), Alexandreia, Athens 2000. A. de Benoist, Jésus et ses frères, Association des Amis d’Alain de Benoist, Paris 2006. B. Mabille, Hegel. L’épreuve de la contingence, Aubier, Paris 1999. M. Vadée, Marx penseur du possible, Klincksieck, Paris 1992. J.-M. Vincent, Marx. Après les marxismes, Page deux, Lausanne 2001.
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Demos e libertà
1. La democrazia oggi. Non c’è nessuna democrazia. Il trucco c’è, si vede, e non gliene frega niente a nessuno In una vignetta di Altan il suo solito personaggio surreale con il baschetto afferma solennemente: «Il trucco c’è, si vede, e non gliene frega niente a nessuno». Partirò da questo motto memorabile per analizzare il problema della democrazia in quattro punti. 1) Oggi non c’è nessuna democrazia. Democrazia significa, in senso statico, potere del popolo, ed in senso dinamico, accesso del popolo al potere. I due significati non sono sovrapponibili. Chi si accontenta del significato statico, dirà che viviamo in democrazia (sia pure ovviamente limitata, imperfetta, minacciata, ed altri aggettivi compromissori che hanno come compito quello di impedire un’analisi radicale della questione), perché il popolo è coincidente con il corpo elettorale, il corpo elettorale può votare a scadenze regolari, se qualcuno si astiene la colpa è solo sua perché rinuncia unilateralmente ad un diritto che gli è garantito, ci sono inoltre anche garanzie per il dissenso radicale (si possono presentare, se vogliono, anche Luca Casarini e Alessandra Mussolini), ed insomma viviamo
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nel migliore dei mondi possibili. Vi-va Bob-bio, vi-va Sar-tori, vi-va il gran-de U-li-vo! Chi passa invece al significato dinamico, si renderà conto che l’accesso del demos al suffragio universale ed alle garanzie liberali per il dissenso (più esattamente, per il raggio del dissenso ferreamente perimetrato dalla dittatura del partito unico del politicamente corretto), non ha assolutamente significato l’accesso del demos alla sovranità politica. Sovranità politica significa sovranità decisionale sui temi fondamentali della propria esistenza sociale, e non solo sulla scelta simbolica se consentire veri e propri matrimoni omosessuali oppure solamente dei cosiddetti Pacs. Questa sovranità decisionale non esiste. Per questa ragione l’affermazione per cui non c’è nessuna democrazia non è affatto una sparata estremistica di gruppettari alienati, ma una sobria e scientifica conclusione che possiamo tirare dalla congiuntura storica presente. 2) Il trucco c’è. Abbiamo detto che il termine democrazia è inscindibile dalla decisione politica sovrana. In questo modo (ed è ovviamente una scelta) respingo la tesi per cui la democrazia è semplicemente un metodo “neutrale” rispetto ai valori etico-politici per prendere decisioni a maggioranza. Se accettiamo questa definizione, diventa “democratica” la decisione di consentire a maggioranza alla propria messa in schiavitù, alla rinuncia della propria sovranità nazionale, via via fino al taglio delle teste, al rogo delle vedove ed al genocidio degli stranieri. A mio avviso, tutti i tentativi di definire la democrazia in termini di metodo neutro che prescinde dai contenuti vanno incontro a contraddizioni insanabili. La democrazia deve essere per forza “protetta” da una cintura di sicurezza etico-politica che storicamente ha sempre assunto due forme variamente interconnesse: una cintura di sicurezza religiosa e una cintura di sicurezza filosofica (ispirata in generale ad una interpretazione “veritativa”, e quindi non relativistica, del di-
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ritto naturale). Il cosiddetto “diritto costituzionale”, visto da un punto di vista filosofico, è per l’appunto questa cintura di sicurezza consapevolmente sottratta al puro gioco delle contingenti maggioranze e minoranze. Chi identifica la democrazia con il cosiddetto relativismo filosofico dei valori (Hans Kelsen, Richard Rorty, eccetera) non sa letteralmente che cosa dice, perché quanto dice è storicamente controfattuale. La democrazia implica dunque effettività reale della decisione politica democratica sovrana. Se non c’è sovranità, dunque, non c’è democrazia, ma solo un gioco di simulazione e di legittimazione, e nient’altro. Oggi la sovranità della decisione democratica non c’è. E non c’è per due ragioni. Elenchiamole separatamente, anche se in realtà fanno tutt’uno. La prima ragione è il dominio dei mercati e del capitale finanziario transnazionale (o multinazionale) Qualunque decisione prendano i popoli o i partiti che si presentano alle elezioni (non importa se di centro, sinistra e destra, la cui differenza c’è, ma solo nei due parametri minori della simbologia sportiva e della torchiatura differenziata fra ceti sociali interni) viene svuotata automaticamente da entità metafisiche (direbbe Marx, «sensibilmente sovrasensibili») come i mercati finanziari, le agenzie di rating, eccetera. Questo dà luogo ad una situazione di vera e propria “post-democrazia” (cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, tr. it. di C. Paternò, Laterza, Roma-Bari 2004). In seconda ragione è il dominio imperiale americano, la cui rete di basi militari sparse per il mondo comporta un ricatto atomico permanente, che svuota di fatto ogni sovranità nazionale. Senza sovranità militare non c’è infatti sovranità nazionale. Il pacifismo generico e salmodiante ha come ragion d’essere storica proprio il non far capire questa elementare verità (cfr. C. Preve, L’ideocrazia imperiale americana. Una resistenza possibile, Settimo Sigillo, Roma 2004).
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3) Il trucco c’è e si vede. La cosa curiosa di questo doppio trucco (svuotamento economico-finanziario, svuotamento imperiale-militare) è che questo trucco è sotto gli occhi di tutti. È sotto gli occhi di tutti che la gente è invitata a tifare a intervalli regolari per Schröder contro la Merkel, Prodi contro Berlusconi, eccetera, ma che poi a urne chiuse le regole vengono dettate dai mercati finanziari, il cui comandamento unificato è: proseguire nella finanziarizzazione del capitale, smantellare lo stato sociale, incrementare la flessibilità e la precarietà del lavoro, eccetera. Nello stesso tempo, si viene talvolta vagamente a sapere che le truppe americane stoccano armi chimiche a Sigonella o ad Aviano (a sessant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale!), ma questo non fa neppure parte oggi del dibattito politico che il circo mediatico manipolato devia verso il tema epocale se Previti abbia o no rubato (la mia risposta: è chiaro come il cristallo che ha rubato, ma non potrebbe importarmi di meno). Bisogna allora passare al quarto punto. 4) Non gliene frega niente a nessuno. È questo il solo punto teorico veramente problematico ed interessante. Che non ci sia democrazia intesa come esercizio di una decisione politica sovrana, che il trucco ci sia, e che si veda come alla luce del giorno, è infatti talmente evidente da non essere neppure molto interessante. Il solo vero problema teorico è quello di sapere perché non gliene frega niente a (quasi) nessuno.
2. Il problema delle radici storiche e sociologiche dello svuotamento consensuale passivo della democrazia Spero che a questo punto sia chiaro al lettore quale sia il centro della questione. Il centro della questione non sta nello “smascheramento”, nello spiegare cioè perché la democrazia è stata svuotata da due elementi ad essa esterni, la dittatura del
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mercato (sostenuta dalla complementare dittatura del clero mediatico, l’unico vero e proprio clero rimasto) e la dittatura imperiale americana. Ci sono a disposizione nelle biblioteche centinaia di ottimi libri “smascheratori”, per cui resta davvero poco da aggiungere. Il solo problema teorico interessante sta allora nello spiegare le radici materiali dell’indifferenza generalizzata verso questo duplice svuotamento. Se non si chiariscono spregiudicatamente queste radici materiali è del tutto impossibile ripartire veramente. In questo paragrafo cercherò di elencare due probabili ragioni di questa indifferenza generalizzata di massa, che utilizzando il linguaggio di Altan definirò come “non gliene frega niente a nessuno”. In primo luogo, ha probabilmente ragione Gianfranco La Grassa, che nei suoi due ultimi ottimi libri ha chiarito come la forma storica normale in cui avvengono le lotte decisive fra le classi non è mai lo scontro diretto fra le classi fondamentali dei dominanti e dei dominati (padroni di schiavi e schiavi, feudatari e servi della gleba, borghesia e proletariato, capitalisti e operai, eccetera), ma è quasi sempre lo scontro fra settori delle classi dominanti con interessi strategici divergenti. Solo quando quest’ultimo tipo di scontro si apre, si apre anche un “varco provvisorio”, una brevissima “finestra di opportunità storica” anche per le classi dominate. A mio avviso, La Grassa ha perfettamente ragione, ed appunto per questo quanto dice è completamente ignorato (o frainteso, il che di fatto è lo stesso) da un popolo ideologizzato di sinistra che cent’anni di marxismo (marxismo = positivismo per poveracci) ha abituato a credere che sia sempre in presenza di un vero scontro storico diretto fra dominanti (borghesi) e dominati (proletari). Questo popolo ideologizzato non vuole che gli si dica la verità, ma vuole continuare ad essere tossicodipendente dalla droga dell’illusione edificante. Se si riflette anche solo un poco, si capirà il perché dello svuotamento della democrazia e del perché questo avviene oggi in piena e generalizzata indifferenza.
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I dominanti, infatti, per il momento sono ancora uniti nell’essenziale, e per questa ragione non si sono ancora aperti varchi per un eventuale intervento strategico dei dominati. Certo, so bene che vi sono molti conflitti economici fra Usa, Europa e Giappone, e non li illustro in dettaglio dandone scontata la conoscenza. Ma questi conflitti economici non sono ancora purtroppo diventati veri conflitti geopolitici (cfr. C. Preve, Filosofia e geopolitica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2005). Non essendo ancora diventati conflitti geopolitici l’unità della classe mondiale dei dominanti si fa ancora politicamente e geopoliticamente sulla base del comune consenso alla subordinazione all’impero militare e culturale americano. Non si vede ancora purtroppo un vero e proprio potere di coalizione Parigi-Berlino-Mosca-Pechino (o altre diverse coalizioni). Dicendo purtroppo segnalo che le due grandi rivoluzioni socialiste novecentesche (Russia 1917 e Cina 1949) sono entrambe avvenute grazie a fenomeni primari di conflitti destabilizzatori fra dominanti, in cui si sono inserite volontà politiche organizzate di dominati e non certo solo fenomeni movimentistici destinati regolarmente sempre a rifluire dopo una promettente primavera. In breve, fino a che non si apriranno veri conflitti fra dominanti (e ce ne accorgeremo non solo in base ad irrilevanti processioni di salmodiatori ma in base a fatti reali, come l’espulsione delle basi militari americane dall’Europa o la messa in atto di veri patti militari strategici tipo RussiaCina, Cina-India, Russia-Iran, eccetera) bisogna solo aspettare, come direbbe Edoardo De Filippo, che passi la nottata e venga il mattino. So che tutto questo è odioso all’attivismo da formichine del militante ideologizzato tipo, ma non so che cosa farci. Se volete che conti balle, lo farò. Se invece volete che dica quello che penso, ebbene, questo è quello che penso. In secondo luogo, e qui ritorno al già citato in precedenza Colin Crouch, la democrazia novecentesca (cfr. E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, tr. it. di B. Lotti, Rizzoli, Milano 1995) è sta-
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ta sempre una democrazia organizzata di sindacati e partiti che esercitavano una sovranità reale, sia pure parziale, sul rapporto fra economia e politica. Ma questa sovranità si esercitava sulla base della sovranità nazionale. La decadenza di questa sovranità nazionale dovuta al sempre maggiore dominio di istituzioni sovranazionali ha portato allo svuotamento non tanto della democrazia in generale, ma di quel particolare tipo di democrazia novecentesca nata sotto la costellazione del compromesso sociale caratterizzato dal nesso fra produzione di massa fordista, integrazione consumistica di massa resa possibile proprio da questo tipo di produzione di massa, ed infine messa in atto di sistemi sociali di stato del benessere con i suoi due parametri fondamentali (sanità e pensioni). La fine di questo periodo storico (la cosiddetta rivoluzione neoliberista, il cui carattere rivoluzionario non muta anche se la si chiama più correttamente “controrivoluzione”) ha comportato uno sbriciolamento individualistico della società che trasforma i cittadini associati in consumatori individualizzati. In questo nuovo scenario atomizzato è assolutamente normale che anche se il trucco c’è, e si vede, non gliene freghi più niente a nessuno. E non gliene frega più niente a nessuno perché nessuno pensa veramente più di poter cambiare le cose con un voto a liste elettorali formalmente rivali ma unificate da una comune sottomissione allo Standard and Poor’s o alle classifiche del «Financial Times». Restano ovviamente “nicchie” di militanti testimoniali o di friggitori di salsicciotti in feste di partito, ma si tratta di nicchie simili a quelle formate da amatori di auto d’epoca, pedofili informatici, studiosi di sanscrito, parlatori di esperanto, praticanti sport estremi ed osservatori degli ufo. Mi limito per ora a segnalare questi due tipi di spiegazioni. Varrà invece la pena dedicare un paragrafo apposito ad una modalità ancora più importante di crisi della democrazia, la crisi della democrazia come prevalenza del demos.
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3. La crisi della democrazia come prevalenza del demos Quando la situazione ci sembra bloccata e senza uscita, la migliore cosa da fare è cambiare radicalmente ottica ed approccio. Questo non vale solo per le cose cosiddette “concrete”, ma anche per i più ardui problemi storici, filosofici e politologici. Se infatti non c’è più democrazia, e sostanzialmente non gliene frega niente a nessuno, se non a piccole minoranze testimoniali di nicchia, allora è inutile lamentarsi, smascherare, denunciare, richiamare i riottosi individualisti al senso civico, deprecare la plebe irredimibile che si occupa solo dei propri interessi materiali immediati, eccetera. Tutto questo non serve proprio a niente. È bene introdurre una nuova ipotesi, ed è esattamente quello che farò in questo paragrafo. Il modo formalistico–istituzionale alla Giovanni Sartori ed alla Norberto Bobbio di concepire la democrazia deve essere abbandonato. Questo modo separa preventivamente economia e politica, funzionamento oligarchico dei mercati e tecniche elettorali, ed in questo modo, lo si noti bene, non c’è possibilità di evitare la conclusione che negli Usa di George Bush c’è la democrazia mentre nella Cuba di Fidel Castro invece non c’è. È buffo che si pensi di poter opporsi ad un nemico accettando la sua visione del mondo filtrata nel modo apparentemente neutrale ed asettico di organizzare le categorie teoriche. In questo approccio, Blair è democratico mentre il venezuelano Chávez non lo è, perché è vero che Chávez rispetta il multipartitismo, ma è anche vero che il suo potere è parzialmente carismatico, ed il carisma diretto del leader è considerato populistico e sospetto al pensiero occidentale politicamente corretto, non importa se di destra o di sinistra (ed infatti il pensiero politico politicamente corretto di sinistra in Venezuela è contro Chávez, e fra l’alta finanza oligarchica ed il populismo carismatico preferisce la prima).
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Ora, io non nascondo al lettore di preferire mille volte Fidel Castro a Bush e Chávez ai suoi oppositori oligarchici. Sono sicuro che sia così anche per la stragrande maggioranza dei lettori di questa rivista, che so però essere lettori di “nicchia”. Tutto questo però vale meno di zero se non si mettono in luce le ragioni di questa preferenza. Per quanto mi riguarda, queste ragioni non stanno certamente nella stucchevole dicotomia archeologica fra democrazia borghese e proletaria, dicotomia che (su questo punto il buon Norberto Bobbio non aveva tutti i torti) manifesta solo l’incurabile incapacità del pensiero marxista di maturare una sua propria teoria politica “performativa” (capace cioè di successo al di là del momento iniziale di mobilitazione messianica, la cui durata di vita è come quella dei cani e dei gatti, e non come quella delle tartarughe). Per questo, è bene recuperare il significato originale greco di democrazia. Questo significato è stato precisato in modo insuperabile da Aristotele, per cui democrazia significa prevalenza del demos (prevalenza, non semplicemente potere istituzionale), ed il demos era formato dalla maggioranza dei cittadini, e questa maggioranza era anche la maggioranza dei più poveri, o quanto meno dei più svantaggiati rispetto al potere del denaro. Vista sotto questa ottica, la politica democratica era un correttivo rispetto al potere del denaro. Dove domina il denaro domina un sistema politico che correttamente i greci (infinitamente più intelligenti e meno ipocriti dei marpioni universitari e mediatici di oggi) chiamavano oligarchia, non democrazia. La democrazia non è dunque una particolare forma di governo e di stato, ma è semplicemente lo stato di prevalenza del demos, in cui il demos tramite la correzione politica democratica corregge appunto la sproporzione di potere data dal possesso di denaro. Questa definizione di democrazia come prevalenza del demos è ignorata da tutte le bande accademiche politicamente corret-
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te di oggi, e pour cause. È bene però segnalare, per chi volesse approfondire la questione, che essa è stata ripresa recentemente da Arthur Rosenberg (cfr. A. Rosenberg, Democrazia e socialismo. Storia politica degli ultimi centocinquant’anni (1789-1937), tr. it. di G.E. Rusconi e A. Scaglia, De Donato, Bari 1971) ed anche da Luciano Canfora (cfr. L. Canfora, La democrazia. Storia e ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004). Se proprio il lettore volesse un trittico, a fianco di Rosenberg e di Canfora segnalerei anche Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo (Laterza, Roma-Bari 2005), in cui si “smontano” molti miti che sono ancora oggi moneta corrente presso la tribù del politicamente corretto dei semicolti occidentali in fregola di esportazione armata dei diritti umani nel mondo tenebroso degli stati-canaglia e dell’asse del male. Il fatto è che il demos, per essere demos, deve essere politicamente organizzabile. La riduzione del demos ad atomi individuali portatori di vaghe opinioni politiche significa appunto la sua neutralizzazione politica. Certo, i greci hanno previsto molto, ma non potevano prevedere che un popolo organizzato politicamente potesse un giorno votare in massa per il monopolio del potere da assegnare ad oligarchie del denaro. La conclusione di tutto questo discorso è la seguente: la democrazia può vivere oggi solo come decisione politica sovrana (ed essa non lo è in presenza di mercati finanziari e di basi militari imperiali nel suo territorio – nessun ateniese avrebbe mai pensato di poter esercitare la democrazia con basi militari spartane o persiane sull’Acropoli), esercitata da un demos politicamente organizzato. Lasciamo dunque le esercitazioni politologiche alla tribù dei formalisti. La politologia è la scienza dei nullatenenti. Oggi bisogna avere il coraggio di nuotare contro corrente, e di dire apertamente che la democrazia è la prevalenza del demos: i punti alti della democrazia nel mondo sono oggi, a mio avviso, la Cuba di Fidel Castro, il Venezuela di Chávez, e l’Iran di
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Ahmadinejad, non certo la banda di collaborazionisti americani tipo Blair e D’Alema. Detto questo, però, sarebbe stupido, o meglio idiota, o ancor meglio criminale, non far tesoro delle implacabili lezioni del Novecento. E queste lezioni si compendiano tutte in un punto, che sintetizzerò così: la democrazia intesa come prevalenza del demos non è stabile, e dimostra di non poter mai diventare tale, se non riesce a garantire stabilmente (e quindi anche giuridicamente) la libertà di opinione e di espressione pubblica, individuale e collettiva, a tutti i cittadini nessuno escluso. E come ha detto a suo tempo Rosa Luxemburg in modo geniale e definitivo, la libertà è sempre libertà di chi la pensa diversamente. Affrontiamo allora il problema spregiudicatamente.
4. Democrazia come prevalenza del demos e libertà di espressione per tutti coloro che la pensano diversamente Nella tragicomica ondata di pentitismo scatenata dalla miserabile generazione intellettuale sessantottina (1968) domina da quasi un trentennio una generalizzata demonizzazione ed una ripetuta esecrazione della rivoluzione in quanto tale. I miserabili devono esorcizzare i loro fantasmi di quando uccidevano i poliziotti ed elaborare il lutto della loro superficiale gioventù. Per questa ragione sentono il bisogno di spingere il loro odio verso la rivoluzione fino al 1789 francese ed al 1917 russo. Il mio punto di vista è esattamente opposto: le rivoluzioni ogni tanto sono necessarie, in nome del profondissimo principio filosofico per cui quando ci vogliono ci vogliono. Nel 1789 ci voleva la Rivoluzione francese, nel 1917 ci voleva la Rivoluzione russa, nel 1959 ci voleva la rivoluzione cubana. Il lettore sa perfettamente che potrei portare a questo punto mille pagine di dotte motivazioni storiografiche, ma non lo faccio per due
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ragioni: non ne ho nessuna voglia ed inoltre lo spazio di questa rivista non me lo consentirebbe. Tutto questo per dire che sono un amico (non incondizionato) delle rivoluzioni, e con chi mi dice seriosamente che ogni progetto utopico di cambiare il mondo degenera infallibilmente in totalitarismo politico cambio immediatamente discorso passando a Simenon, Agatha Christie e soprattutto Del Piero. In quanto amico delle rivoluzioni trovo anche normale (forse deprecabile, ma normale) che per qualche anno dopo la riconquista della democrazia gli ateniesi non lascino libertà di espressione pubblica ai fautori degli spartani, che per qualche anno dopo il 1789 i francesi non lascino libertà di espressione pubblica ai realisti borbonici, e che infine per qualche anno dopo il 1917 i russi non lascino libertà di espressione pubblica ai seguaci degli zar. L’ho appena detto: forse deprecabile, ma normale. Una normale “sospensione”, dovuta ad uno stato di conclamata ed evidente emergenza. Se però l’emergenza diventa normalità allora c’è una patologia in atto, che in termini gramsciani potremo definire un deficit di egemonia. Questo deficit di egemonia ha caratterizzato l’intera storia del comunismo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991). È evidente che un sistema egemone avrebbe consentito la formazione pubblica del Partito del Feudalesimo Russo Eterno, del Partito Polacco per il Capitalismo Occidentale Totale, del Partito Cinese per la Restaurazione Manciù, per il Codino Obbligatorio e per i Piedi Piccoli Erotici per le Donne confucianamente Obbedienti. Un simile sistema egemone avrebbe consentito ogni tipo di riviste e di gazzette letterarie, la «Rivista della Libertà», il «Giornale del Proletario Privato», il «Quotidiano Individualista», così come i capitalisti sono riusciti di norma a permettere legalmente la «Voce Operaia», «Lotta Continua», «Potere Operaio», «Servire il Popolo» ed i bollettini Carc. Questa strutturale incapacità di mettere in atto una democrazia degna di questo nome (de-
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mocrazia = prevalenza degli interessi del demos + principio di maggioranza + garanzia giuridica della libertà di opinione e di dissenso) può essere spiegata in molti modi, di cui qui per brevità mi limiterò a tre. Prima spiegazione: l’accerchiamento capitalistico ed imperialistico, l’azione della Gestapo prima e della Cia poi, l’emergenza geopolitica permanente. Si tratta di pretesti penosi. Se infatti il capitalismo può permettersi di tollerare giuridicamente il dissenso verso di esso (ad esempio, questa rivistina su cui scrivo, di nicchia quanto si vuole) mentre il socialismo non può farlo, cade il principio marxista per cui esso sarebbe un sistema sociale di tipo storicamente “superiore”. Seconda spiegazione: il malvagio monopolio del potere sequestrato dalla burocrazia, questa escrescenza parassitaria dovuta al debole sviluppo delle forze produttive ed alla scarsità di beni e servizi che ne consegue, cosicché non si ha un vero socialismo, ma uno stato operaio burocraticamente degenerato (con varianti). Si tratta, come è noto, del paradigma trotzkista. Il lettore che mi segue sa che l’ho sempre trovato penoso. Questo paradigma si basa su di un presupposto metafisico non dimostrato, e cioè il demos, organizzato in consigli di democrazia diretta, potrebbe esercitare direttamente l’autogoverno politico e l’autogestione economica. Dal momento che questa capacità astrattamente attribuitagli in nome di una metafisica operaistica ottocentesca si è dimostrata una pittoresca ed inesorabile incapacità storica, a questa incapacità si è dato il nome di “burocrazia”. Nello stesso modo, si è dato il nome di “diavolo” all’incapacità di far prevalere stabilmente nell’uomo i buoni istinti sui cattivi. Terza spiegazione: se l’avarizia (intesa come attaccamento al denaro, non come la spilorceria) è il principale difetto dei ricchi, l’invidia è il principale difetto dei poveri. Se allora la prevalenza del demos non riesce a lasciarsi alle spalle il doppio nesso
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fra avarizia ed invidia, ne conseguirà che in qualsiasi momento (Cina 1978, Urss 1991) la restaurazione oligarchica capitalistica sarà sempre in agguato. Mi si dirà che questa spiegazione è troppo psicologica, e quindi non “strutturale”. Errore. Si tratta di una spiegazione strutturale. La privazione della libertà di opinione, che il marxista sciocco ed economicista riterrà probabilmente sovrastrutturale, è invece pienamente strutturale. Se infatti la cosiddetta “struttura” consiste nella dinamica dialettica fra la crescita delle forze produttive sociali e la natura classista o meno dei rapporti sociali di produzione, allora il fatto che questa dinamica dialettica avvenga in regime di libertà d’espressione o viceversa in regime di repressione statale di quest’ultima fa parte della struttura, non della sovrastruttura. Ripetiamolo ancora, perché mi rendo conto che questo è scandaloso per le orecchie a sventola del marxista medio: la libertà di opinione e di espressione politica, filosofica, religiosa, letteraria ed artistica fa parte della struttura di una società, non della sovrastruttura. Spieghiamoci meglio nel prossimo paragrafo.
5. Una rivoluzione copernicana nella teoria marxista Il più importante problema teorico che possa seriamente discutere la comunità degli studiosi marxisti oggi sta nel decidere se il marxismo stesso possa mutare di paradigma scientifico (Kuhn), il che comporta ovviamente una rivoluzione scientifica di paradigma, sulla propria stessa base assestata nell’ultimo secolo (oppure attraverso un ritorno radicale a Karl Marx “saltando” tutto quanto è venuto dopo), oppure al contrario se questo sia ormai impossibile, e ci voglia qualcosa di molto più radicale, e cioè una teoria dell’analisi e dell’emancipazione sociale completamente nuova, di cui la tradizione marxista non sarà che una componente.
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Lascio aperto questo dilemma, che non è l’oggetto di questo mio intervento, e voglio insistere solo su di un punto cruciale. A mio avviso, se si vuole in qualche modo mantenere il dualismo fra struttura e sovrastrutture di un modo di produzione capitalistico in particolare, allora propongo che la libertà e la democrazia (più esattamente la libertà di creazione artistica, letteraria e filosofica, ed in più la libertà di opinione e di organizzazione politica giuridicamente garantita, e la democrazia intesa come somma di tre elementi, principio di maggioranza, garanzia per le minoranze e perseguimento sostanziale del bene politico) vengano in qualche modo inserite nella struttura. Il mettere alla base della struttura lo sviluppo delle forze produttive porta, come è noto, all’economicismo e al tecnologismo (che sono fratelli gemelli, al punto che si potrebbe parlare esattamente di Tecno-economia o di Econo-tecnica). Non mi soffermo su questo punto, perché un serio bilancio dell’ultimo secolo parla da solo. Ma anche il mettere alla base della struttura il solo rapporto sociale di produzione classistico non è corretto (fu questa la via dell’althusserismo ed in generale del maoismo occidentale ed europeo). Esso porta ad una sorta di iper-rivoluzionarismo attivistico, di sociologismo mistico (la classe operaia deve dirigere tutto e da essa possiamo aspettarci tutto il meglio possibile, eccetera), e quindi di nichilismo. Più in generale il nichilismo in ambiente marxista può assumere due aspetti assolutamente complementari ed in solidarietà antitetico-polare: il nichilismo di destra (economicismo produttivistico) ed il nichilismo di sinistra (sociologismo classistico). La società deve essere invece considerata in modo olistico come un “intero” (ed è del resto ciò che sostiene correttamente il miglior pensiero ecologista ed ambientalista). In quanto “intero”, non è per nulla sovrastrutturale il fatto che la ripro-
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duzione conflittuale dei rapporti sociali avvenga garantendo stabilmente ai membri della società stessa sia il metodo (democratico) sia i presupposti antropologici di questo metodo stesso (la libertà di creazione e di espressione). Nessuno sceglie il periodo storico in cui vivere, ma in esso siamo “gettati” (come dice correttamente Heidegger) dall’incontro casuale dei nostri genitori. A me è successo di frequentare per decenni veri e propri idioti che mi hanno riempito la testa con l’idea che la libertà di creazione e di espressione è qualcosa che non interessa ai lavoratori ed ai proletari (a cui interessano evidentemente solo gli indici di produzione del carbone, del petrolio e dell’acciaio), ma riguarda soltanto i piccolo-borghesi anarcoidi ed incapaci di disciplina. Quando il quotidiano «Lotta Continua» aprì un dibattito sui dissidenti sovietici di metà degli anni Settanta ricordo che la stragrande maggioranza delle animalesche risposte sosteneva la seguente tesi: i burocratici sovietici hanno espulso Solženicyn, ma i proletari lo avrebbero fucilato. Se qualcuno volesse toccare con mano che cosa significa incapacità di egemonia, vada nelle emeroteche e si fotocopi questo dibattito. Non stupisce allora che per nascondere il fatto di aver avallato queste indegne porcherie i responsabili di questo avallo si siano riciclati in ammiratori di Bush ed in “bombardatori umanitari”.
6. Conclusioni In conclusione credo di poter riassumere le mie tesi di fondo in due soli punti, il primo critico-negativo ed il secondo “positivo”. 1) Primo punto. Chi oggi parla di democrazia in atto, di democrazia sia pur fragile, minacciata o imperfetta, eccetera, o è un ingenuo in buonafede o è un mentitore in mala fede. A volte
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i confini fra i due gruppi sono labili e le posizioni si mescolano. L’ingenuo in buona fede diventa talvolta un mentitore in malafede, pur non avendo all’inizio questa intenzione, perché rifiutando di prendere in considerazione la realtà, e decidendo appunto di “non sapere”, scivola inavvertitamente dalla prima alla seconda posizione. Una volta che lo scivolamento è avvenuto, esso diventa purtroppo un avversario, mentre prima era un legittimo interlocutore. Ho riassunto prima le due ragioni di fondo per cui la decisione democratica è oggi resa impossibile. Essa è espropriata e svuotata da una doppia mancanza di sovranità, la sovranità economica (il dominio anonimo dei mercati transnazionali) e la sovranità militare (le basi americane potentemente armate a sessant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale). In queste condizioni la pretesa di “esportare” la democrazia (eretta a primo dei cosiddetti “diritti umani”) diventa veramente paradossale. Si esporterebbe infatti non la democrazia, ma appunto la non-democrazia (che nella dizione di Crouch, che ritengo insufficiente, diventerebbe più pudicamente una post-democrazia). Ora, l’esportazione virtuale ed ideologica della non-democrazia fatta passare per democrazia, il che appunto non è, segnala l’enigma ideologico principale del nostro tempo, la crescente sostituzione della realtà virtuale alla realtà reale. Senza l’attività quotidiana della saturazione mediatica tutto questo non sarebbe tecnicamente possibile. Non è comunque un caso che la filosofia accademica segua il suo committente come un cagnolino segue il suo padrone, sostenendo con pomposi ragionamenti che la verità non esiste, il bene politico è una chimera utopica indimostrabile, e tutto è relativo. Questa sofistica ultracapitalistica (in cui Wittgenstein riscrive in inglese le tesi a suo tempo scritte in greco antico da Gorgia) si basa su di un segreto di Pulcinella: in un mondo in cui tutto è in relazione con un unico “assoluto”, il valore d’uso della merce ed il suo potere d’acquisto differenziato, gli
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intellettuali di regime diranno che tutto è relativo. Il solo “assoluto” che essi ammettono è allora l’insieme di “diritti umani” che consentono l’esportazione armata e coattiva del loro doppio relativismo (doppio in quanto ad un tempo merceologico e filosofico). Abbasso la loro democrazia! Nessuna concessione alla loro retorica democratica! Solidarietà piena a che resiste ad essa! 2) Secondo punto. Partendo dallo “smascheramento della menzogna dell’esportazione della democrazia attraverso embarghi e bombardamenti molti superficiali sono arrivati alla frettolosa ed errata conclusione per cui la “libertà” e la “democrazia”, essendo orpelli ideologici di copertura dei dominanti, per ciò stesso non siano valori che possano ambire legittimamente all’universalità. Nella mia concezione, l’universalità non è un dato a priori (se lo pensassi, sarei un pensatore religioso, il che è comunque meglio di essere un cosiddetto laico relativista), ma è un processo storico di universalizzazione mondiale che può avvenire solo attraverso un dialogo sistematico fra culture, senza alcun presupposto di superiorità esplicito o implicito (ed è infatti quasi sempre ipocritamente implicito). Sostenendo che la libertà di creazione e di espressione, insieme con il metodo democratico, fanno parte della struttura e non della sovrastruttura, dico esattamente la stessa cosa di quelli che dicono che esse sono dei valori universali. Certo, so benissimo che a volte nella storia esse possono essere “sospese”, e che di per sé non garantiscono il bene politico. Socrate fu condannato a morte per tradimento e Gesù di Nazareth fu condannato a morte per terrorismo, laddove in realtà, studiando e ristudiando i loro processi (ma questo non può essere l’oggetto di questo mio intervento) si arriva facilmente alla conclusione che entrambi erano innocenti, che Socrate era un patriota ateniese che voleva essere il moscone fastidioso del nobile cavallo della polis degli ateniesi, e che Gesù era
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un pacifista messianico che intendeva proclamare un «anno di misericordia del Signore» (traduzione: remissione dei debiti e quindi liberazione di tutti gli schiavi per debiti). Nessuna persona filosoficamente educata può sostenere che di per sé il principio di maggioranza porta alla verità filosofica o al bene politico. È chiaro che così non è. Ma da questo fatto evidente non bisogna affrettarsi a tirare delle conseguenze anti-democratiche, come ad esempio il Platone della Repubblica. La democrazia è infatti un processo di educazione progressiva attraverso la pratica dialogica di un homo democraticus, sulla base del presupposto che una pratica dialogica ben condotta può giungere a convincere tutti (o quasi tutti) della soluzione migliore. Soluzione migliore che a sua volta presuppone la generalizzazione di un punto di vista solidale-comunitario e non egoistico-individualistico fra gli uomini. La democrazia si basa quindi su di una scommessa, in un senso molto più vicino al possibilismo di Pascal che al determinismo meccanicistico del marxismo ortodosso. L’idea di poter costruire non democraticamente una nuova umanità comunista è stata praticata nel Novecento da Stalin, ed è fallita. A proposito di Stalin, io condivido nell’essenziale l’idea di Canfora per cui Stalin ha impersonato una forma di prevalenza del demos, e quindi non condivido l’interpretazione trotzkista del dominio di una oligarchia burocratica che corrispondeva ad Est al dominio dell’oligarchia capitalistica normale ad Ovest. Ma questo non cambia di un grammo le cose. Prevalenza del demos o meno, la mancanza di libertà e di democrazia soffoca strutturalmente lo sviluppo sociale. Posso allora terminare qui. La libertà è libertà di creazione (filosofica, artistica e letteraria) e libertà di espressione (politica e religiosa). Ma la libertà non è nulla senza un sistema giuridico che la garantisca ed impedisca gli abusi giudiziari. La democrazia è allora un insieme di tre elementi inscindibi-
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li, il principio di maggioranza, la garanzia per le minoranze ed il perseguimento del bene politico. Le due sole categorie di persone con cui non desidero più confrontarmi sono queste: coloro che dicono che tutto è relativo, e non esiste un bene politico, e coloro che affermano che la libertà è un lusso per borghesi e piccolo-borghesi.
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Le radici storiche, politiche, filosofiche e comunitarie della democrazia antica dei Greci
Scrivere un saggio sul nesso fra filosofia e democrazia all’interno della comunità antica in un contesto di appoggio politico, culturale e morale alla lotta della comunità valsusina contro la Tav potrebbe essere accusato di indebita “attualizzazione”. Personalmente, non sono un amico dei cosiddetti “collegamenti” ad ogni costo che l’ultima generazione dei pedagogisti pazzi e distruttori ha cercato di appiccicare ad ogni costo allo studio della storia del passato. Il passato deve essere studiato iuxta propria principia (mi si scusi questo innocuo latinorum), ed ogni sua indebita attualizzazione deve essere scoraggiata. Nello stesso tempo, però, aveva ragione Benedetto Croce quando diceva che “ogni storia è sempre storia contemporanea”. Non si tratta allora di imporre ad ogni costo strumentali ed artificiali “collegamenti”. Non è questo il problema. Se (come dicono) la storia è maestra di vita, allora non possiamo fare a meno di indagare il passato alla luce del presente. Il problema del rapporto fra decisione democratica di una comunità, competenza scientifica nel processo di decisione ed argomentazione razionale sui pro e sui contro di questa decisione stessa può essere facilitato da un uso cauto ma anche esplicito dell’analogia storica. Ed è indubbiamente questo uno degli aspetti del pro-
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blema Tav che salta agli occhi anche di un osservatore distrat to. Si potrebbe compilare un’interessante antologia filosoficoumoristica degli insulti rivolti a coloro che lottano contro la Tav. L’insulto principale è naturalmente quello di essere contro il Progresso e contro l’Economia, e questo non è un caso, perché nel clima generalizzato di “morte di Dio” della società contemporanea, con la religione tradizionale ridotta ad agenzia di assistenza psicologica per le fasce deboli e poco imprenditoriali della popolazione, la religione è stata ridefinita come idolatria dell’economia. La critica filosofica diventa allora necessaria per “smontare” le pretese di questa trinità rovesciata (Progresso, Tecnica, Economia). Questa trinità rovesciata, espressione di una sottostante caduta relativistica e nichilistica di un’etica comunitaria realmente universalistica, dovrebbe essere fatta oggetto di una nuova critica della religione all’altezza dei tempi. Ma così non avviene. Dalla rivista «L’Ateo» ai trattati di ateologia di Michel Onfray i nuovi (ed in realtà vecchi come il cucco) critici della religione mostrano di non capire assolutamente il nocciolo del problema, e cioè che oggi la nuova Idolatria si basa su di una trinità secolarizzata rovesciata (il Progresso come Padre, La tecnica come Figlio e l’Economia come Spirito Santo). A questi curiosi dilettanti sembra più facile (ed infatti lo è) prendersela con la verginità di Maria, l’Immacolata Concezione, il disegno intelligente nella creazione del mondo, l’etica sessuale e famigliare della chiesa cattolica, eccetera. Beati loro! Come gli strateghi francesi della linea Maginot del 1939 anche questi nuovi presunti “illuministi” (sit venia verbo) conducono una guerra con le carte militari della guerra precedente! Per coloro che non si lasciano convincere dai turiboli e dall’incenso dell’Idolatria Trinitaria contemporanea (Progresso, Tecnica, Economia) c’è una seconda linea di combattimento, e cioè l’ideologia dell’inesorabile sovranità della Competenza. In poche parole, la Tav deve farsi, anche contro l’unanime decisione della stragrande maggioranza dei membri della co-
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munità valsusina, perché i Competenti dicono che si può e si deve fare. Vediamo meglio questa seconda linea di combattimento dei nuovi idolatri che hanno detronizzato il vecchio Dio per mettere al suo posto una divinità molto peggiore della precedente. Dal momento che, come diceva Platone, il vero “pensatore dialettico” è colui che padroneggia la totalità dei problemi come se si riassumessero tutti in uno solo (o gar dialektikòs synoptikòs), il Competente Supremo dovrebbe avere almeno quattro lauree con rispettivi master (laurea in medicina, laurea in geologia, laurea in ingegneria mineraria, laurea in economia dei trasporti internazionali). Il fatto, però, è che questa mitica figura di Competente Supremo Quadrilaureato (Csq) finirebbe con l’esprimere anche lui un’opinione fallibile, in quanto altri eventuali Csq potrebbero sempre esprimere opinioni opposte sulla base delle stesse competenze professionali presupposte come egualmente oneste e specialistiche. Chi non capisce questo è sempre un Idolatra, perché anziché credere nella religione trinitaria precedente (Padre-Progresso, Figlio-Tecnica, Spirito Santo-Economia) sarebbe un credente in un monoteismo più rigoroso ed unico, il monoteismo della Scienza. Ma la Scienza, eretta a Dio, non è più scienza, ma appunto idolatria. Fatte queste premesse demitizzanti, resta il fatto che una comunità (in questo caso la comunità valsusina nella sua lotta – da me condivisa – contro la Tav) può anche sbagliare. Una comunità, per il fatto di essere una comunità coesa ed in buona fede, non per questo ha automaticamente ragione. Potrebbe infatti anche avere torto. Il principio comunitario deve allora unirsi al principio razionale. Più esattamente, il principio democratico della decisione comunitaria deve unirsi al principio filosofico della decisione razionale argomentata. La figura di Socrate, infatti, rappresenta proprio la messa in discussione problematica e “dialettica” del carattere razionale o meno
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delle decisioni prese a maggioranza dalla comunità democratica ateniese. La filosofia e la democrazia sono dunque le due mani, destra e sinistra, di un unico corpo sociale, che è quello comunitario. Questa è la ragione per cui, essendomi stato cortesemente richiesto dalla comunità valsusina un testo sulla democrazia degli antichi Greci (e degli Ateniesi in particolare), ho scelto di collegare organicamente democrazia e filosofia, principio di maggioranza e ricerca problematica della verità e della giustizia. Detto questo, posso iniziare. Per chiarezza e comodità di lettura, dividerò il mio testo in paragrafi numerati successivi.
1. Note sulla nascita della filosofia nell’antica Grecia La filosofia è un’interrogazione veritativa complessiva sul significato della vita e del mondo naturale e sociale. Paradossalmente (ma non troppo) potrebbe essere definita come la conoscenza veritativa di problemi vitali irresolubili. In questo caso la “verità” non consiste in un accertamento fisico di fenomeni naturali o in un calcolo esatto di grandezze misurabili, ma in un rapporto dell’uomo con la comunità in cui vive, un rapporto che per sua natura non può avere una soluzione definitiva. Dire “filosofia” e dire “problematicità” è la stessa cosa. Per questa ragione la pratica della filosofia è una pratica libera, che ha bisogno della garanzia della libertà di opinione e di espressione come l’organismo umano ha bisogno dell’aria da respirare e dell’acqua da bere. L’affinità della filosofia con la democrazia sta appunto nel fatto che ho appena indicato. Un tempo era diffusa l’idea un po’ eurocentrica che la filosofia fosse una “invenzione” degli antichi Greci. In realtà, come a suo tempo ha sostenuto il filosofo tedesco Karl Jaspers nella sua teoria del “periodo assiale” (e cioè il periodo storico
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600-300 a.C., che vide contemporaneamente Buddha in India, Confucio in Cina, Zarathustra in Persia, i profeti in Israele ed infine i filosofi in Grecia), la filosofia come pratica individuale e sociale sorse contemporaneamente in zone diverse del mondo senza che vi sia bisogno di ipotizzare un’impossibile ed inesistente coordinamento reciproco oppure un unico luogo di origine con successiva diffusione. E questo non è certamente stato un caso. Al tempo delle società impropriamente e scorrettamente definite “primitive”, a parere degli antropologi che le hanno studiate, esisteva una indistinzione, e quindi di fatto una fusione, fra percezione del macrocosmo naturale e percezione del microcosmo sociale. L’indistinzione fra macrocosmo (naturale) e microcosmo (sociale) non permetteva lo sviluppo di uno spazio propriamente “filosofico”, e cioè dialogico e razionale, ma soltanto di uno spazio totemico, magico e soprattutto mitico. Ma quando per ragioni sociali questo unico spazio indifferenziato si cominciò ad incrinare ed a “fessurare”, in questa fessura si formò lo spazio per l’interrogazione filosofica vera e propria. Questo “spazio” si formò quasi contemporaneamente in Grecia, in India ed in Cina, e questa è una dimostrazione lampante dell’universalità dell’interrogazione filosofica. E tuttavia solo nella Grecia antica la filosofia diventò una vera e propria istituzione riconosciuta socialmente come tale. In proposito, possiamo solo fare delle ipotesi di massima sul perché e sul come questo “miracolo” ha potuto avvenire. Il discorso a questo punto si farebbe lungo, e per brevità mi limiterò a discutere due sole ipotesi “genetiche”. In primo luogo, il sorgere della libera interrogazione filosofica razionale in Grecia è certamente legato non tanto ad una presenza, quanto proprio ad una assenza, e cioè all’assenza di una religione rivelata, con libri sacri e con un clero sacerdotale organizzato in una struttura unitaria. Vi erano ovviamente
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i cosiddetti “miti” e le teogonie (Esiodo), ma questo insieme mitico non era l’equivalente delle Upanishad indiane, della Bibbia ebraica, del Nuovo Testamento cristiano e del Corano musulmano. I miti erano per loro stessa struttura del tutto “incredibili”, in quanto apertamente favolosi ed antropomorfici, ed erano “creduti” (se così posso dire) solo sulla base di una loro “decostruzione” razionale e di una loro interpretazione figurata. L’assenza di un clero sacerdotale unificato sulla base di una gerarchia basata sulla pretesa di unica e corretta “interpretazione” dei libri sacri (la situazione storica che ha caratterizzato il Medioevo europeo) diventava in questo modo la premessa logica e storica per la libera pratica filosofica, che ridivenne possibile in Europa solo a partire grosso modo dal Settecento. In secondo luogo, la pratica filosofica divenne possibile sulla base proprio del pluralismo democratico dei punti di vista, ognuno dei quali era costretto a passare attraverso il filtro della convinzione razionale. Oggi il termine “retorica” ha assunto un significato negativo, ma a quei tempi così non era, perché indicava la capacità di riuscire a convincere partendo da posizioni razionali. È vero che gran parte della filosofia greca realmente esistita critica spesso la democrazia sulla base della critica al principio di maggioranza, che di per sé non garantisce ovviamente che chi si trova in maggioranza abbia anche ragione (ed è questa la posizione di Pitagora e di Platone). Ma questa critica è molto spesso interna e non esterna alla pratica della democrazia. In questo senso Socrate, che talvolta è presentato come un nemico della democrazia ateniese, è piuttosto un patriota della democrazia ateniese stessa. Egli vuole curare e guarire la democrazia dai suoi eccessi, e non certo ucciderla. Se avesse voluto ucciderla, si sarebbe pronunciato per la tirannia (termine che a quei tempi era usato per connotare quella che oggi è chiamata “dittatura”), laddove Socrate si pronuncia continuamente contro la tirannia stessa.
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2. La distinzione greca fra sapienza (sophia) e saggezza (sophrosyne) Nel paragrafo precedente ho cercato di mostrare sommariamente che l’enigma della genesi storica della filosofia antica non può essere risolto se non si considera prima una precondizione negativa (la mancanza di una religione monoteistica rivelata mediante libri sacralizzati la cui interpretazione è monopolizzata da una gerarchia sacerdotale organizzata) e poi una precondizione positiva (il suo essere molto spesso al servizio di una gestione comunitaria democratica di una società politica, la cosiddetta polis). Questo non risolve certamente il problema, ma almeno lo delimita all’interno di una gamma di posizioni opposte. Da un lato, infatti, c’è chi insiste sul fatto che la filosofia greca ha pur sempre la sua origine diretta in una sapienza religiosa ed iniziatica precedente di tipo orfico prima e pitagorico poi, per cui non sarebbe saggio “laicizzarla” troppo con una evidente retroazione artificiale di punti di vista moderni (cfr. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975). Dall’altro, invece, c’è chi insiste sul fatto che la filosofia trova la sua origine storica nella piazza pubblica greca detta agorà, in cui i cittadini mettevano in mezzo (es meson) la loro capacità di ragione, linguaggio e calcolo (logos), e che questa messa in mezzo comunitaria era rivolta a portare la misura (metron) nelle cose pubbliche di tutti (ta koinà), in modo che concedendo ai cittadini l’eguale accesso regolato alla parola pubblica (isegoria) si potesse raggiungere un nuovo equilibrio (isorropia), e questo nuovo equilibrio potesse portare infine alla concordia fra cittadini (omonoia). È questo il punto di vista che personalmente prediligo (cfr. J.-P. Vernant, Le origini del pensiero greco, tr. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1976). Nello stesso tempo sconsiglio
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fortemente il lettore che vuole capirci qualcosa in un campo tanto difficile e delicato di opporre in modo troppo netto la spiegazione sapienziale (Giorgio Colli) e la spiegazione politica (Jean-Pierre Vernant). Entrambi colgono a mio avviso gli aspetti principali del problema. L’influsso del precedente pensiero sapienziale orfico e pitagorico è infatti storicamente indiscutibile, e negarlo significherebbe negare la realtà storica. Nello stesso tempo, però, è possibile considerare sobriamente il dibattito filosofico “razionale” che noi conosciamo (prima Protagora, Democrito e Socrate, e poi Platone ed Aristotele) come una vera e propria “secolarizzazione” della sapienza religiosa e mitica precedente. Personalmente preferisco il termine “secolarizzazione”, che allude ad una segreta continuità tematica, al termine “rottura”, come se i filosofi greci che conosciamo avessero “rotto” con il patrimonio mitico precedente. Del resto, sono d’accordo con chi ritiene che anche duemila anni dopo il pensiero detto “moderno” (Hobbes, Locke, Rousseau, eccetera) non abbia fatto che secolarizzare precedenti categorie della teologia politica cristiana. Tuttavia, a farmi inclinare leggermente dalla parte di Vernant piuttosto che dalla parte di Colli è un fatto molto importante. La vecchia sapienza (sophia) fu sempre adorata dai Greci, al punto che fu poi anche “santificata” dallo stesso cristianesimo orientale (Santa Sofia, eccetera), ma il fatto stesso che questa sophia dovesse poi applicarsi alla decisione ed alla deliberazione politica (boulesis, prohairesis) trasforma questa sophia stessa in saggezza pratica (sophrosyne). E qui appunto sta il nodo storico e politico che ci dice qualcosa ancora oggi, e direi anzi soprattutto oggi. Il sapiente sa infatti molte cose, ma il saggio è colui che di volta in volta fa la scelta migliore nella situazione concreta. Questa capacità (quella appunto di fare la scelta migliore di volta in volta nella situazione concreta) è chiamata in latino prudentia. Il termine è ovviamente tradotto in italiano con “prudenza”,
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ma qui bisogna fare attenzione all’inevitabile slittamento semantico compiutosi in venti secoli. Oggi il “prudente” è generalmente identificato con il cauto, il pauroso, il conservatore, il nemico della decisione e dell’innovazione, mentre il significato originale del greco sophrosyne e del latino prudentia non era questo. Mio padre, nato nel 1910 e morto nel 1993, che parlava piemontese ed era ancora fortemente legato alla cultura popolare di Cuneo, diceva sempre per giudicare qualcuno “l’è n’om prudent”, per indicare la sua capacità di prendere le decisioni giuste volta per volta. La democrazia greca può essere filosoficamente interpretata come una grande operazione di collocazione della sapienza (sophia) nel mezzo della piazza della polis (es meson), ed in questo modo, attraverso il dialogo razionale (logos) la sapienza stessa può diventare saggezza collettiva dei cittadini (koinè sophrosyne ton politòn). L’elemento dialogico fa sì che si preferisca sempre la decisione caso per caso alla fissazione astratta di norme generali universalizzanti spesso inapplicabili. In proposito la scelta etica di Aristotele (il giusto mezzo nella decisione caso per caso, mesòtes) è opposta alla scelta di Kant di porre principi formali universalistici a priori, che non si riescono poi ad applicare mai concretamente caso per caso. Una parentesi filosofica personale. Ritengo che la schizofrenia presente nella filosofia contemporanea, per cui gran parte della comunità filosofica universitaria elogia la morale di Kant come la frontiera insuperabile dell’etica “laica” moderna (laica nel senso di essere indipendente da fondamenti religiosi prescrittivi antecedenti), laddove concretamente nella vita quotidiana nessuno la applica mai e tutti si conformano spontanea mente alla scelta caso per caso debba essere spiegata. Non è facile farlo. Credo però che il centro della questione l’abbia colto Max Weber, che ha sostenuto a suo tempo che la cosiddetta “razionalizzazione” dei tempi moderni, basata su norme generali ed astratte, sia consustanziale ed organica al fun-
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zionamento dell’economia capitalistica, che mette la merce e non l’uomo concreto al centro del panorama storico e politico. Mentre l’uomo è sempre concreto, la merce è sempre astratta. Più esattamente, è indubbiamente concreto il suo “valore d’uso”, ma poiché quest’ultimo passa attraverso l’“astrazione” del valore di scambio, il solo che possa essere calcolato e quantificato, la razionalizzazione diventa così paradossalmente nemica della razionalità. La razionalità vorrebbe che i bisogni dell’uomo in comunità venissero sempre messi al centro (es meson) della politica, mentre la razionalizzazione economica richiede invece appunto la nuova religione prima indicata (Padre-Progresso, Figlio-Tecnica, Spirito Santo-Economia). I sacerdoti di questa religione sono i Competenti, la cui “competenza” si basa non sulla totalità riproduttiva degli uomini in comunità, ma sulla frammentazione disciplinare del sapere contemporaneo. Si tratta di un paradosso. In filosofia esiste però una disciplina particolare, denominata “dialettica”, il cui compito è appunto quello di spiegare razionalmente i paradossi. Mi sono però un po’ allontanato dal tema, e ci ritorno subito. Per ritornarci nel modo migliore, dedicherò due paragrafi distinti alle due premesse antropologiche della democrazia antica, e cioè l’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon) e l’uomo come animale dotato di linguaggio, ragione e capacità di calcolo (zoon logon echon).
3. L’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon) Un frate francescano impegnato nella lotta comunitaria contro la Tav, Beppe Giunti, ha scritto di essere stato offeso da uomini in divisa del suo paese che gli hanno detto testualmente: «sei un animale, porta via queste bestie, io sono lo stato, eccetera»
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(cfr. lettera a «la Repubblica», 20-12-2005). È ovvio che questo comportamento lo abbia indignato ed intristito. Il poliziotto che lo ha insolentito, certamente ignaro di storia e di filosofia antica, ha però involontariamente detto una cosa giusta. Padre Beppe Giunti è infatti veramente un “animale”, ma non nel senso spregiativo dato a questo termine dall’inconsapevole poliziotto. Padre Beppe Giunti è infatti a tutti gli effetti un “animale politico” (politikòn zoon), un animale che si prende cura degli altri, un animale che non si è ancora convertito alla Nuova Religione Trinitaria prima accennata e continua ad interpretare in modo umanistico la sua vecchia religione tradizionale, quella in cui Dio si incarna in un Uomo, e non in una astrazione progressistico-tecnico-economica. A questo punto, la specifica “animalità” di Beppe Giunti deve essere messa al centro della nostra attenzione. Il termine greco politikòn zoon si traduce in genere come “animale politico”. Come nel caso precedente del termine latino prudentia, tuttavia, questa traduzione può diventare fuorviante. Oggi abbiamo tre parole diverse per indicare la politica, la società e la comunità, ed a fine Ottocento in Germania è addirittura nata una corrente di pensiero politico che distingueva nettamente fra Società (Gesellschaft) e Comunità (Gemeinschaft), distinzione che poi nel Novecento diventò addirittura la base per classificare le posizioni di Sinistra e di Destra, con tutti gli equivoci e le strumentalizzazioni del caso. Tutto questo non aveva senso per gli antichi Greci. Oggi la “politica” è percepita fondamentalmente come competizione fra partiti, all’interno dei quali poi c’è una sotto-competizione fra cordate rivali che mirano al controllo politico dei partiti stessi. Che questo sia un prodotto inevitabile della divisione del lavoro e della rappresentanza di interessi confliggenti oppure sia una degenerazione guaribile con un maggiore tasso di “partecipazione di base”, eccetera, non può certo essere
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discusso qui, e non è neppure necessario che se ne discuta, perché in proposito ognuno può avere l’opinione che vuole, in quanto è un segreto di Pulcinella che gli interessi concreti di una data comunità vengono spaccati e frammentati dall’inserimento in essi di un gioco di opinioni astratte, e questa dialettica distruttiva degli interessi comunitari è chiamata “democrazia”. Qui si parla del modello classico di democrazia, e ad esso è bene ritornare. La migliore traduzione del termine politikòn zoon è a mio avviso quella di “animale sociale”, ed infatti nel Seicento se ne rese conto molto bene Thomas Hobbes, quando volle sostituire a questa concezione la sua concezione dell’uomo non certo come “animale impolitico”, ma proprio come “animale asociale” (homo homini lupus). La socialità degli antichi aveva però una dimensione direttamente comunitaria, il che impediva anche concettualmente una distinzione fra “comunità” e “società”. I Greci si autointerpretavano allora come coloro i quali, rifiutando il dispotismo monarchico dei grandi imperi orientali (egizi, babilonesi, assiri, persiani, eccetera), erano riusciti a dare una forma “politica” (polis, politikè) alla loro società comunitaria (koinonia), in modo che tutto ciò che essi avevano in comune (koinòn) potesse essere messo in mezzo (es meson). Il poliziotto aveva dunque completamente ragione. Nel senso greco del termine, padre Beppe Giunti era proprio un animale.
4. L’uomo come animale dotato di linguaggio, ragione e capacità di calcolo (zoon logon echon) Oltre ad essere un animale sociale, politico e comunitario, l’uomo è un animale (zoon) che possiede (echon) il logon (accusativo di logos), che a sua volta significa capacità di dialogo, di parola, di razionalità e di calcolo geometrico e matematico.
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In proposito, dal momento che questo non è un testo dedicato alla filosofia, ma alla democrazia (o meglio al modello democratico degli antichi), dovrò limitarmi ad alcune brevi osservazioni. In primo luogo, il fatto che il termine logos significasse cose diverse, o che oggi si sono diversificate fino addirittura a sembrare incommensurabili le une con le altre, come ad esempio la parola pubblica in assemblea da un lato ed il calcolo ingegneristico e matematico dall’altro, non deve essere visto come un difetto primitivo, una cosiddetta “mancanza di specializzazione”, ma al contrario come una risorsa molto intelligente che nel frattempo si è perduta. Il logos è infatti l’espressione semantica dell’unità fondamentale della ragione umana, che non è affatto divisa in “spicchi” come un’arancia, ma rappresenta unitariamente il rapporto dell’uomo con il suo mondo circostante, mondo che è ad un tempo naturale (la natura come ambiente di vita) e sociale (la comunità come ambiente di specializzazione). Il logos è dunque unico, mentre le arti, i mestieri e le specializzazioni diverse nate dall’inevitabile divisione del lavoro sociale e tecnico sono diverse (technai). Oggi tutto questo tende a perdersi, e ci sono persone plurilaureate che si credono molto intelligenti e che pensano che il fatto che esistano dipartimenti universitari e cattedre professionali distinte rifletta una (in realtà inesistente) distinzione ontologica di principio dell’essere naturale e sociale oggetto della conoscenza e della prassi umana. In secondo luogo, il fatto che il termine logos significasse sia ragione che linguaggio ci indica il fatto che la stessa razionalità umana non nasce in un laboratorio, ma sorge direttamente dalla socialità umana, che si esprime appunto con l’uso ed il padroneggiamento progressivo del linguaggio. È certo che una volta acquisita questa capacità la si può esercitare anche da soli ed isolati, ma l’acquisizione primaria è necessariamente comunitaria, ed anche i sostenitori aristocratici della sag-
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gezza solitaria esercitata da chi ha ritenuto di dover compiere un “esodo” o una “secessione” dalla comunità di origine e di appartenenza non possono negare questa genesi originariamente comunitaria. Anche la “solitudine”, quindi, è nell’uomo una dimensione che trova nel rapporto con la comunità la sua stessa genesi. In terzo luogo, il fatto che logos significhi anche calcolo (e quindi non solo Socrate e Platone, ma anche Pitagora ed Archimede) non è certo senza conseguenze pratiche. Il “calcolo”, che oggi si indica generalmente con il nome di “scienza” (dimenticando che anche il sapere dell’uomo è una scienza, e più esattamente una scienza filosofica, e non un insieme opinabile di opinioni irrilevanti), trova infatti sempre la sua radice materiale nel bisogno di servire interessi umani. Al centro non c’è dunque mai la cosiddetta Scienza, ma sempre e solo l’Uomo in Comunità (politikòn zoon) che si serve della scienza, e non viceversa. In linguaggio cristiano, è il Sabato al servizio dell’Uomo, non l’Uomo al servizio del Sabato. È allora curioso che oggi filosofi dotati continuino a denunciare le “imposture” delle religioni (madonnine in pietra che piangono, reliquie che fanno guarire, eccetera), dimenticando di denunciare le imposture di tipo nuovo, quelle che si legittimano feticizzando in modo idolatrico la Scienza stessa. Ma Scienza in greco si dice episteme, dal verbo greco epistamai che significa “sto solidamente con i piedi sul terreno”. E che cos’è questo “terreno”? Questo “terreno” non può che essere il terreno della pacifica convivenza della comunità sociale democraticamente amministrata con la partecipazione di tutti. E questo ci permette allora di passare finalmente all’esame della genesi, dello sviluppo ed infine del tramonto del modello greco di democrazia.
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5. La prima fase di sviluppo della democrazia degli Ateniesi: la riforma di Solone Si possono dare, e sono state date, molte e diverse definizioni del termine “democrazia”. Etimologicamente “democrazia” significa “potere del popolo”, dal greco demos (popolo) e kratos (potere). Pochi sanno però che la traduzione non è esatta, perché “popolo” in greco si dice laos, ed il potere del popolo si dice in greco laokratia. Come vedremo nel prossimo paragrafo, dedicato alle riforme di Clistene, il demos era originariamente una circoscrizione territoriale e non certo un aggregato sociale “naturale”. La traduzione esatta allora potrebbe suonare come “potere della comunità popolare organizzata in circoscrizioni territoriali volutamente artificiali”. Si capisce allora che la democrazia non è affatto qualcosa di “naturale” e “spontaneo”, ma è una vera e propria techne, cioè un prodotto di un progetto razionale (logos). La democrazia è allora a tutti gli effetti un prodotto del logos umano comunitario e razionale. Oggi è diffusa la tendenza a definire la democrazia in base a due principi complementari, il principio di maggioranza nell’elezione degli organismi del potere esecutivo e legislativo (definizione che non è applicabile alla polis antica, in cui il potere legislativo non era “eletto”, ma gestito direttamente da tutti i cittadini, ed in quanto al potere esecutivo una larga parte era affidata al sorteggio), ed il principio di garanzia giuridica per le minoranze dissenzienti (quasi assente nell’antichità, il che spiega ad esempio il processo e la condanna a morte di Socrate). Non voglio certo oppormi a questo tipo di definizione, ma personalmente preferisco definizioni meno “formalistiche” e più “sostanzialistiche”. Darò dunque subito la mia personale definizione.
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A mio avviso la “democrazia” è prima di tutto una tecnica politica rivolta a limitare ed a addomesticare la dinamica spontanea dell’arricchimento illimitato di pochi, dinamica che porta infallibilmente alla dissoluzione esplosiva della comunità. Ogni definizione “formalistica” che non tenga in considerazione questo elemento cruciale a mio avviso passa a fianco del problema. In proposito, anche se so che oggi non è di moda e va contro la Dittatura del Politicamente Corretto (Dpc), citerò Karl Marx, che a mio avviso coglie molto bene il centro del problema: «La circolazione semplice delle merci – la vendita per la compera – serve da mezzo per un fine ultimo che sta fuori dalla sfera della circolazione, cioè per l’appropriazione di valori d’uso, per la soddisfazione di bisogni. Invece la circolazione del denaro come capitale è fine a sé stessa, poiché la valorizzazione del valore (di scambio) esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura». Questo è allora il punto: il movimento del capitale è senza misura. Nell’antica Atene non esisteva certamente il capitalismo in senso moderno, ma esisteva già la minaccia dissolutoria dell’accrescimento illimitato del potere del denaro che portava all’esplosione sociale. Solone, il grande riformatore ateniese, non aveva probabilmente ancora letto Marx, ma si esprime negli stessi identici termini: “la ricchezza non conosce limiti”. Il fatto che Solone e Marx dicano la stessa identica cosa è a mio avviso dovuto al fatto che persone sensibili ed intelligenti, messe di fronte a situazioni analoghe, tendono a dare diagnosi e prognosi simili, e questo al di là degli anni e dei secoli. Chi non crede alla philosophia perennis (ma io ci credo) dovrebbe farci un pensierino. L’antica comunità degli Ateniesi uscita dal cosiddetto “medioevo ellenico” era un insieme di clan parentali e tribali, e cioè di famiglie allargate. Niente moneta, praticamente niente mercato, proprietà privata ridotta al minimo ed invece molto pos-
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sesso comunitario su base appunto famigliare e tribale. I culti religiosi erano anch’essi in gran parte culti famigliari e tribali separati. La legittimazione del potere si basava sul culto di “antenati comuni” largamente mitizzati. La mitologia infatti, lungi dall’essere un gioco letterario, era direttamente uno strumento politico di legittimazione sociale e politica. Con il VII secolo a.C. sorsero nell’Attica nuove comunità che non erano più unite da legami di parentela, ma si configuravano come organizzazioni collettive di cui gli individui facevano parte in quanto possessori di qualche bene in un determinato territorio. La moneta, che giunse ad Atene soprattutto da Chio, da Egina e dall’Eubea, disgregò definitivamente le comunità tribali residue, ed impose il dominio della ricchezza sempre più incontrollata. Per chi ama i paragoni storici, avvenne qualcosa di simile a quello che avviene oggi con la cosiddetta “globalizzazione”. Nasce il mercato. La parola. “mercato” nasce dal greco meros, che vuol dire “parte”, e dal verbo greco meiromai, che vuol dire “divido in parti”, “distribuisco in parti”. Per i Greci, tuttavia, la parte (meros) deve sempre sottomettersi alla misura (metron), perché per i Greci l’illimitato (apeiron) era un principio distruttivo e cattivo, tanto è vero che il filosofo Anassimandro vede nel fatto che l’origine del mondo sta appunto nell’apeiron la ragione per cui gli uomini dovranno pagarne il fio. Altro che “uomo copernicano”, universo infinito ed altre sciocchezze prometeiche di questo tipo, che se sono sensate sul piano astronomico e geofisico diventano idiozie sul piano filosofico. L’uomo infatti è per natura (katà physin) portatore di limite (peras) e di misura (metron), e non certo di idiota e positivistica illimitatezza. La democrazia è gestione della misura (metron) e non dell’illimitato (apeiron). Nei trent’anni che precedono la riforma di Solone (592 a.C.) il ceto dell’aristocrazia tribale ateniese, che prima gestiva la proprietà collettiva della terra in nome della dea Atena, che ne era simbolicamente la sola proprietaria legittima, comin-
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ciò a privatizzare ed a vendere le terre ai mercanti egineti, e questo processo di privatizzazione selvaggia portò ad una generalizzata schiavitù per debiti. Situazione simile per molti aspetti all’attuale disgregazione privatistica della precedente proprietà collettiva nei paesi ex-comunisti, in cui da un lato si polarizzano bande mafiose di baroni ladri e di oligarchi ricchissimi, e dall’altra si “liberano” milioni di persone consegnate ad una vita di stenti e di emigrazione, in un arco di situazioni che vanno dalle oneste badanti fino alla prostituzione ed alla feroce delinquenza dei saccheggiatori e torturatori delle ville isolate. Atene stava diventando un inferno di oligarchi straricchi e di schiavi per debiti. Solone abolì la schiavitù per debiti. Non fu invece abolita la divisione in reddito della popolazione, per cui gli Ateniesi furono suddivisi in quattro diverse classi di censo. L’ultima classe, quella dei “teti” (thetai) era esclusa dall’accesso alle cariche, ma le si permetteva comunque di partecipare all’assemblea (ecclesia). Tecnicamente parlando, Atene diventava così una polis, ma una polis oligarchica. Non era dunque ancora una polis democratica. Nello stesso tempo, mi è sembrato giusto retrodatare a Solone le origini della democrazia ateniese per il fatto che, nonostante la soluzione politica oligarchica, abbiamo già in azione il primo elemento di ogni democrazia, e cioè l’intervento politico cosciente e consapevole contro la dinamica autonoma disgregatrice della ricchezza privata.
6. La seconda fase di sviluppo della democrazia degli Ateniesi: la riforma di Clistene Il passaggio di Atene alla democrazia compiuta avviene solo nel 506 a.C., e cioè quasi un secolo dopo la riforma di Solone. Solone non aveva certamente voluto “restaurare” la proprietà
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tribale collettiva (non era stato cioè un “comunista”, per usare un termine moderno), aveva accettato la nuova proprietà privata ed il cosiddetto “mercato”, ma aveva imposto alla dinamica proprietaria spontanea la misura (metron), da attuarsi attraverso l’intervento politico nell’economia. Come ha chiarito molto bene lo studioso novecentesco Karl Polanyi, l’economia antica era “incorporata” (in inglese embedded) in una totalità primariamente politica, laddove oggi la situazione è di fatto invertita, ed i cosiddetti “politici” di oggi sono quasi sempre solo fantocci di legittimazione che eseguono i cosiddetti “imperativi sistemici” imposti da anonime ed impersonali divinità idolatriche denominate Mercati (ho scelto la maiuscola per indicarne l’indiscutibile carattere divino). La democrazia ad Atene nacque da un appello al popolo rivoluzionario. Clistene aveva infatti dovuto condurre una sorta di guerra civile a bassa intensità contro il partito oligarchico ateniese guidato da Isagora, che era addirittura ricorso per due volte all’occupazione militare diretta della polis da parte di soldati spartani. Le cose non cambiano mai. La “democrazia” non può sorgere da una occupazione militare straniera, ma al contrario da una ribellione patriottica dei cittadini che prendono su di sé il compito della propria autodeterminazione. Fra il 506 a.C. ed il 2006 d.C. non ci sono differenze sostanziali. Ma questa volta Clistene non si fermò al compromesso oligarchico di Solone. Tutti i cittadini di Atene, e cioè dell’Attica (escludendo però le donne, gli stranieri e gli schiavi), ebbero allora accesso al potere politico, compresi i “teti” che prima ne erano esclusi. Ma Clistene era probabilmente un pitagorico, ed allora fece intervenire il logos (e cioè il calcolo numerico equilibratore) nel modo di far accedere i cittadini alla partecipazione politica. Clistene non aveva una concezione “sindacalistica” della positività del conflitto (i Greci erano comunitari, non conflittualisti, e non amavano il conflitto dentro la comu-
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nità, visto come sintomo di possibile dissoluzione), ma una concezione retta della “concordia” (omonoia) e dall’equilibrio (isorropia), da raggiungere però attraverso un passaggio politico che doveva implicare la piena legalizzazione dei punti di vista differenti, e cioè la libertà (eleutheria). Per questo Clistene non poteva consentire che i ricchi ed i poveri si organizzassero politicamente in partiti sindacali opposti (del tipo Cobas contro Confindustria, mi si permetta l’attualizzazione), ma organizzò i cittadini in circoscrizioni (demoi) in cui potessero essere riuniti insieme poveri, benestanti e ricchi nello stesso demos. Il territorio dell’Attica venne “ritagliato” in tre parti, la costa (paraliaci), la città vera e propria in pianura (pediaci) e la montagna (acriti). Queste tre parti, però, non potevano organizzarsi indipendentemente (se no i paraliaci ricchi avrebbero massacrato economicamente gli acriti poveri), ma erano raggruppate in un certo numero di demoi in cui c’era un pezzo di costa (ricca), di pianura (benestante) e di montagna (povera). Quanto dico è ovviamente ben noto agli studiosi di lingua e di storia greca, ma so bene che non è affatto noto alle persone comuni, comprese le persone colte (o presunte tali). Si pensa in genere che la democrazia greca fosse un simpatico casino assembleare, che è oggi impossibile da riproporre, perché oggi vi sono Stati con milioni di persone che non possono certamente essere riunite tutte in una piazza, mentre un tempo le comunità erano più piccole, e questo era possibile. Questo è certamente anche in parte vero, ma non sta qui il centro del problema. Il centro sta sempre altrove, e cioè nel fatto che tutte queste operazioni pitagoriche di equilibrio numerico fra grandezze sociali armoniche erano al servizio della sovranità della decisione politica sugli automatismi economici, e non viceversa, come invece è oggi. Il discorso sarebbe ancora molto lungo, ma non è questa la sede per ampliarlo. Per ora, basti tenere a mente che Solone intervenne per imporre il principio della misura (metron), e
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Clistene per imporre la tecnica dell’equilibrio (isorropia) in vista della vera concordia (omonoia). Con la cosiddetta “democrazia” di oggi, che è una oligarchia di ricchi legittimata da referendum periodici in cui i cittadini espropriati di ogni potere di vera decisione politica (perché i due principi del dominio oligarchico dei mercati finanziari e dall’occupazione militare straniera a sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale non vengono messi ai voti e si sottraggono dunque alla decisione politica) possono solo al massimo scegliere fra due gruppi rivali di ceto politico professionale, la democrazia greca non c’entra proprio niente. Il lettore noterà che non ho detto poco. Ho detto proprio niente, e ci terrei a ripeterlo a scanso di fraintendimenti. Se poi qualcuno dirà che sono “esagerato”, “eccessivo”, “estremista”, ed altre piacevolezze, non me ne avrò certamente a male. Ad essere chiari si pagano sempre dei prezzi, e questo prezzo, se paragonato ai prezzi pagati da Socrate o da Giordano Bruno, è veramente ridicolo.
7. La malattia della democrazia ateniese: la scelta sbagliata ed ingiusta presa da una maggioranza legittima dei cittadini A questo punto, il lettore ha forse bisogno di un chiarimento. Non ho avuto mai e non ho nessuna intenzione di tessere un’apologia astorica del “miracolo greco” o del modello insuperabile della democrazia degli antichi. Ovviamente non condivido, ed ho sempre trovato anche un po’ meschina e miserabile, la concezione di Benjamin Constant per cui la libertà degli antichi consisteva nella partecipazione politica comunitaria mentre la libertà per i moderni consiste nel libero godimento individuale delle rendite della propria proprietà privata. So
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bene che questa miserabile teoria (e l’aggettivo un po’ “pesante” è ovviamente voluto), formulata per la prima volta nel lontano 1819, è tutt’oggi alla base non tanto del pensiero liberale (che a mio avviso non esiste più, da quando ha deciso di incorporarsi servilmente alla semplice logica riproduttiva del capitalismo mondiale globalizzato), quanto della pratica sociale individualistica, anomica e frammentata di oggi. Nello stesso tempo, però, non intendo neppure idealizzare e santificare la democrazia greca come insuperabile esempio di democrazia diretta e partecipata e non delegata e professionale. So che c’è chi lo fa, ma non è questo il mio caso, e considero onesto il dirlo. Personalmente, sono un grande ammiratore del mondo antico, e non ho mai cercato di “conciliare” Atene e Gerusalemme. Sono sempre stato, e sono tuttora più che mai, per Atene e non per Gerusalemme. Non credo nel Dio monoteistico cristiano, per ragioni che si possono filosoficamente trovare in Epicuro, Spinoza, Hegel, Marx, Darwin, eccetera, e che non avrebbe senso riassumere qui. E tuttavia l’anticlericalismo ed il laicismo anticlericale mi sono estranei ancor più della pratica religiosa, e fra Ratzinger e Pannella non ho mai avuto dubbi: mille volte meglio Ratzinger! La disputa sulla esistenza o, viceversa, sulla non-esistenza di Dio non mi ha mai interessato, persino quando la mia coscienza filosofica era più immatura di oggi, e mi hanno sempre invece interessato i contenuti morali e politici che erano incorporati “diagonalmente” nei credenti e nei non-credenti. Detto questo, chiudo su questo punto, e ritorno ai Greci. La democrazia ateniese, che ho qui sommariamente descritto nel suo processo di costituzione storica e filosofica da Solone a Clistene, presentava difetti e limiti giganteschi. In primo luogo, era chiusa al sesso femminile, ed il fatto che questa “chiusura” non fosse affatto ovvia e naturale ma com-
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portasse una sorta di disagio può essere rilevato sia a livello filosofico (la proposta di eguaglianza dei sessi contenuta esplicitamente nel quinto libro della Repubblica di Platone) sia a livello teatrale (la magnifica figura femminile di Antigone nell’Antigone di Sofocle e le figure femminili “contestatrici” nella Lisistrata e nelle Ecclesiazuse di Aristofane). In secondo luogo questa democrazia comportava l’esclusione degli schiavi, anche se le immagini storiche dell’antica Atene come di una comunità di liberi parassitari che vivevano del lavoro degli schiavi sono sostanzialmente false, perché l’antica Atene del periodo “democratico” (il periodo ellenistico e romano è un’altra cosa, perché Atene diventa veramente quello che oggi è Venezia, e cioè una città parassitaria che vive di turisti ricchi) era sostanzialmente una comunità di piccoli produttori indipendenti, ed appunto per questo era “democratica”, come d’altronde capivano perfettamente i contemporanei, in primo luogo Aristotele. In terzo luogo, infine, questa polis democratica era imperialistica, e viveva anche (anche, non solo) di sfruttamento delle colonie e delle città subalterne della lega delio-attica. Quando qualcuno si ribellava, ad esempio gli abitanti dell’isola di Milo (quella della Venere di Milo o Melo), gli Ateniesi ne massacravano e facevano schiavi gli abitanti. Insomma, c’era l’imperialismo, l’esclusione delle donne e lo sfruttamento degli schiavi. Detto questo, non ritengo che tutto questo, che mi è perfettamente noto fino ai più piccoli dettagli, sia sufficiente per gettare via il bambino della democrazia con l’acqua sporca di quanto ho finora detto. Per fare un ennesimo paragone “attualizzante”, non ho mai pensato che gli errori ed i crimini del cosiddetto “comunismo storico novecentesco 1917-1991”, da cui occorre ovviamente congedarsi senza inutile nostalgismo, siano di per sé sufficienti per buttare a mare gli elementi critici, egualitari ed umanistici della tradizione di pensiero che si rifà a Karl Marx (ed in cui mi colloco apertamente, sia pure
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ovviamente in modo autonomo ed indipendente da qualsiasi inquisizione ideologico-politica, non importa se soft o hard, paleo-stalinista o neo-politicamente-corretta, eccetera). Questa parentesi era necessaria per non nascondersi al lettore. Da tempo ritengo infatti che la sola “oggettività” possibile in filosofia e nelle scienze sociali sia l’esplicitazione sincera delle proprie premesse di valore, dal momento che non si dispone della coppia “oggettiva” costituita dal calcolo matematico e dall’esperimento che si ha invece nelle cosiddette “scienze dure” (fisica, chimica, biologia, genetica, in parte medicina, eccetera). E a questo punto possiamo veramente tornare alla democrazia degli Ateniesi. Il difetto fondamentale di questo modello fu perfettamente diagnosticato dal filosofo ateniese Socrate. La democrazia è infatti un metodo per prendere delle decisioni a maggioranza, ma può darsi (ed infatti avviene spesso) che la maggioranza abbia torto, mentre era la minoranza sconfitta che aveva ragione. Di fronte a questo fatto del tutto ovvio (ma l’oggetto privilegiato della filosofia e del metodo filosofico è proprio la problematizzazione dell’ovvio) ci possono essere due atteggiamenti. Il primo è quello che potremmo definire nichilistico-relativistico, per cui il Torto e la Ragione non esistono se non come convenzioni sociali provvisorie, dal momento che non esistono né il Vero ed il Falso né il Giusto e l’Ingiusto se non appunto come convenzioni sociali. Le coppie Vero/Falso e Giusto/Ingiusto non esistono, se esistessero sarebbero inconoscibili, e se per caso fossero conoscibili sarebbero incomunicabili. Questa posizione è quella che secondo Socrate e soprattutto Platone caratterizzava i cosiddetti “sofisti”, anche se la loro testimonianza deve essere sempre presa con beneficio di inventario. In varie forme, questa posizione di tipo relativistico-convenzionalistica (che considero nichilistica, secondo l’opinione che condivido con Ratzinger, a differenza di come ritiene la stragrande maggioranza della filosofia laica
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contemporanea, da Bobbio a Rorty a Habermas) ha poi attraversato tutta la bimillenaria storia della filosofia occidentale, e come ho detto è tuttora maggioritaria (pragmatismo, pensiero debole, eccetera). Il secondo atteggiamento, che è ovviamente opposto al primo, consiste nel sostenere che invece le due coppie Vero/Falso e Giusto/Ingiusto non dipendono affatto da opinioni contingenti di gruppi intellettuali oppure da tradizioni popolari anche maggioritarie e ben radicate, e dunque non dipendono neppure da un principio di maggioranza sia pure espresso democraticamente, ma dipendono da un tipo di conoscenza “oggettivo”, nel senso che si possono conoscere quegli oggetti “ideali” chiamati appunto Vero e Giusto. Questa, come è noto, è la posizione difesa da Socrate e dal suo allievo Platone, sia pure con esagerazioni ed argomenti che oggi non appaiono più molto convincenti e sono anzi di fatto addirittura “respingenti” (come la preferenza di Platone per una sorta di dittatura eugenetica in cui i capi dello Stato decidono anche gli accoppiamenti migliori fra uomini e donne). Come si vede, è la stessa esistenza della democrazia che fa da presupposto alla nascita ed allo sviluppo dei due più grandi problemi della filosofia politica, se esistono oppure non esistano il Vero ed il Giusto al di là delle contingenti opinioni della maggioranza, in primo luogo, e se la capacità di prendere posizione su questi problemi sia potenzialmente alla portata di tutti i cittadini oppure se, a causa della difficoltà di questi problemi, questa capacità sia soltanto di alcune minoranze competenti che si sono occupate a tempo pieno di questi stessi problemi. Nel contesto della discussione filosofica ateniese (per quanto almeno ne sappiamo oggi, ed è pochissimo) la prima posizione di fiducia maggioritaria era quella di Protagora, mentre la seconda posizione di preferenza minoritaria per un piccolo gruppo di esperti competenti era di Socrate. Con
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questo Socrate non era un nemico della democrazia ateniese, ma si considerava piuttosto (e lo diceva) come un “moscone fastidioso” il cui compito era quello di darle fastidio ed in questo modo di tenerla sveglia (oggi diremmo un “rompiscatole”). A questo punto, un paragone con l’attuale situazione della cosiddetta lotta anti-Tav salta alla mente, e bisognerà dedicarci un paragrafo apposito.
8. Intermezzo. Che cosa c’entra il problema fondamentale della filosofia politica greca con la lotta anti-Tav della comunità valsusina? Come ho già detto in precedenza, già duemila anni fa ad Atene fu proposto il rimedio alternativo alla decisione democraticocomunitaria, e questo rimedio era l’equivalente platonico del Competente Supremo Quadrilaureato (Csq), cioè colui che, in nome della vera conoscenza ottenuta all’interno di una preparazione autoreferenziale, può prendere decisioni migliori di quelle che potrebbero prendere gli incompetenti cittadini comuni in assemblea. I Valsusini sono oggi confrontati a qualcosa di simile. Si dirà che le cose oggi non stanno come allora. La scelta di costruire la cosiddetta Tav è stata infatti presa in Italia ed in Europa da istanze istituzionali pienamente legittime, e cioè da governi nominati da parlamenti a loro volta eletti a suffragio universale, laddove i filosofi-re della Repubblica di Platone erano scelti all’interno di una sorta di dittatura pedagogicopaternalistica in cui non erano mai previsti momenti elettivi di alcun genere. Tuttavia, se si vede la cosa più da vicino, oggi gli elettori sono periodicamente chiamati a scegliere gruppi dirigenti che si presentano come alternativi (Berlusconi contro Prodi con rispettivi seguiti ideologicamente pittoreschi
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ma praticamente di fatto espropriati di ogni influenza reale), che a loro volta delegano tutte le scelte a gruppi di cosiddetti “competenti”. Divisi ideologicamente fra prodiani e berlusconiani per ragioni prevalentemente storiche ed identitarie del tutto estranee alle concrete scelte comunitarie, i Valsusini hanno dovuto scoprire duramente (ed infatti il loro motto è sarà dura!) che la sceneggiata ideologica di tipo “generalistico” con cui sono stati divisi non ha letteralmente nulla a che vedere con i loro problemi concreti, come del resto non ha mai nulla a che fare con i reali problemi della gente comune (in primo luogo l’instabilità di vita prodotta dalla generalizzazione sciagurata del lavoro flessibile e precario e da modelli di consumo e di vita che ritardano anche di un decennio le fisiologiche scelte matrimoniali e famigliari durate secoli ed addirittura millenni). Certo, oggi la dittatura del Csq è fatta su basi “scientifiche” e non “filosofiche”. Siamo nell’epoca di Galilei e di Newton, non in quella di Platone e di Aristotele. Si dirà che almeno questo è un “progresso”. Non ne sarei così sicuro. La totalità filosofica di tipo platonico non sarà stata molto “scientifica” in senso moderno, ma almeno prendeva in considerazione la totalità vitale della riproduzione umana, e non invece i cosiddetti “vincoli sistemici” dei trasporti europei. È triste dirlo, ma a me sembra che i Valsusini cominciano già a perdere quando sembra quasi che si vergognino degli argomenti puramente “sanitari” (polveri di amianto, uranio, eccetera) ed insistono allora sugli argomenti puramente “economici” (rapporto fra tir e treni nel trasporto merci, eccetera). A questo punto si è infatti introiettata la logica perversa dell’avversario. Nello stesso tempo, come ho detto prima, è normale e positivo che la comunità per difendersi scelga il terreno della razionalità degli argomenti impiegati. A questo punto, mi scuso per l’intermezzo e torno alla questione storica e filosofica del modello della democrazia greca.
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9. Il tramonto e la fine della democrazia degli Ateniesi: il ritorno all’oligarchia dei ricchi e l’evergetismo Non è compito di questo scritto seguire nei dettagli il tramonto del modello democratico ateniese dopo la guerra del Peloponneso e soprattutto dopo l’unificazione del mondo ellenistico (oikoumene) per opera delle conquiste di Alessandro il Macedone e poi per opera delle successive conquiste romane. Quello che conta è che la democrazia finì. Il governatore macedone che occupò militarmente Atene dopo il 322 a.C. abolì immediatamente la costituzione democratica, tolse ai “teti” il diritto di voto e restaurò la costituzione oligarchica di Solone abolendo quella di Clistene. Ciò che prima era oggetto di discussione pubblica (isegoria), e cioè di decisione presa dall’assemblea dei cittadini, diventò oggetto di una sorta di dispotismo illuminato di benefattori (everghetai). Si tratta del cosiddetto “evergetismo”. Anche qui siamo di fronte ad una costante della stona. Terminato il periodo politico in cui le ricchezze monetarie (chremata) sono sottoposte pubblicamente alla misura (metron) della buona riproduzione sociale complessiva (oikonomia, e cioè il nomos della oikos, la regola della casa comune), e divenuto il possesso delle ricchezze monetarie potenzialmente infinito ed indeterminato (apeiron), la sovranità dei cittadini (kyrarchia) sparisce, ed al suo posto giunge la benevolenza unilaterale dei ricchi filantropici (everghetai, phylanthropia). Conosciamo il nome di molti evergeti illustri, fra cui Erode Attico, che costruì a sue spese il grande teatro sotto l’Acropoli, che ancora funziona ed in cui personalmente ho potuto assistere a molte tragedie e commedie antiche recitate in greco moderno. Oggi siamo di fronte a qualcosa di analogo. Le Olimpiadi di Torino del 2006 sono state il frutto, dichiarato e non messo in dubbio, della potenza sociale del Grande Evergete Torinese, e cioè l’Avvocato, o meglio il padre di tutti gli avvocati. Migliaia
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di uomini, mezzi uomini, omuncoli e qua-qua-ra-qua (uso qui la quadripartizione storico-antropologica proposta a suo tempo da Leonardo Sciascia, e che considero da un punto di vista classificatorio e tassonomico migliore ancora della dicotomia Borghesi/Proletari proposta da Marx o dalla dicotomia Destra/ Sinistra proposta da Bobbio) si danno oggi da fare come frenetiche formichine per realizzare la scelta di potere compiuta a suo tempo dall’Evergete Automobilistico. L’Uomo dell’Anno del 2005 è stato scelto da un pool di giornalisti e manipolatori sociali in Bill Gates, il magnate dell’informatica, per il suo aiuto finanziario alle installazioni sanitarie nel cosiddetto Terzo Mondo. E questo ovviamente non è un caso. Avendo la cosiddetta “globalizzazione finanziaria” tolto agli stati, ai popoli, alle nazioni ed infine agli individui la sovranità monetaria (perché la sovranità è anche monetaria, ed una sovranità politica non monetaria è un’illusione ed una presa in giro) restano soltanto gli evergeti. Che parlino greco come Erode Attico o inglese come Bill Gates è solo un dettaglio secondario dell’evoluzione storica. Intorno a loro saltellano gli omuncoli e le donnuncole, pieni di disprezzo verso i montagnini e le campagnine non ancora convertiti alla nuova religione trinitaria globale che ho già ricordato in precedenza. Per descrivere le probabili conseguenze dello sfascio ecologico ed ambientale ci vorrebbero tragici come Euripide. Ma per descrivere il frenetico agitarsi “progressistico” degli omuncoli e delle donnuncole basterebbero comici come Aristofane. Ma di artisti così se ne è perso lo stampo. Al loro posto ci sono nuovi cortigiani che, come a suo tempo disse Tacito per i cortigiani di Tiberio, erano talmente frenetici nel correre ad omaggiare il vincitore che addirittura inciampavano e cadevano (ruere in servitium).
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10. Due parole in conclusione A questo punto posso proprio chiudere, anche se alla fine aggiungerò una piccola bibliografia generale senza pretese sui rapporti fra filosofia e democrazia. Come finirà la storia della Tav non posso saperlo nel momento in cui scrivo queste righe (dicembre 2005-gennaio 2006). In compagnia (anche se questa sola volta, per carità!) con Ceronetti penso che i dominanti cercheranno di fregare con il “dialogo” quelli che non sono ancora riusciti a fregare con i bastoni ed i manganelli. Come le specie vegetali ed animali, anche la manipolazione sociale è sottoposta alle leggi darwiniane dell’evoluzione, ed il “dialogo” è certamente più performativo delle rozze bastonate precapitalistiche. Spero solo che i contadini continuino ancora ad avere scarpe grosse e cervello fino, e che il rimbecillimento mediatico circostante non abbia ancora intaccato la loro testa. Per quanto mi riguarda, comunque andrà a finire, io sono già convinto da tempo che il movimento anti-Tav abbia ragione. Certo, vorrei anche che potesse vincere, ma sono anche consapevole della ferocia dei dominanti. In ogni caso ho ispirato la mia vita al detto del poeta latino Lucano, che nel suo poema Pharsalia esalta la resistenza di Catone (quello di Utica, non il vecchio Catone censore, schiavista ed anti-cartaginese) ed afferma in modo lapidario: «la causa vincente sarà anche piaciuta agli dei, ma quella vinta piacque invece a Catone» (causa victrix diis placuit, sed vinta Catoni). Ho trovato questo motto riportato nelle riflessioni di pensatori diversissimi, dal marxista György Lukács all’antimarxista Hannah Arendt, ma non ho mai avuto bisogno delle loro auctoritates per apprezzarlo. Ovviamente spero di essere smentito dalla possibile vittoria della comunità valsusina. In questo caso prometto che verrò a bere un bicchiere con voi per festeggiare la vittoria. Da filosofo di professione e prima di vocazione ho sempre pensato che le scuole filosofiche non si dividono su questioni come
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il materialismo e l’idealismo, l’ateismo o la fede, la metafisica e l’empirismo, eccetera, ma si dividono soprattutto fra coloro che si sottomettono all’ingiusto vincitore e coloro che gli resistono in nome di un’idea concreta di Bene. Ho scritto il Bene con la maiuscola. Mi è scappato dalla penna? Ma neppure per sogno. L’ho scritto così volutamente.
Breve nota bibliografica generale Scrivo qui alcuni riferimenti bibliografici utili agli eventuali montagnini e campagnini valsusini che, nemici del Progresso, della Tecnica e dell’Economia non hanno però ancora perso il bene dell’intelletto. Si tratta di segnalazioni soprattutto di testi che toccano il problema del rapporto fra filosofia e democrazia. Dal momento che, come dice un proverbio inglese, la beneficienza comincia a casa propria, il lettore non si scandalizzerà se comincio a segnalare me stesso. Ho scritto un saggio sul concetto di comunità che è fondato sul rifiuto di tutte le possibili versioni del comunitarismo che in passato hanno legato questo concetto al provincialismo, alla chiusura, al razzismo, all’espansionismo economico e militare, al cosiddetto “organicismo” (e cioè al rifiuto della democrazia in nome della cosiddetta compattezza sociale), esaltandone invece gli aspetti democratici e razionali (cfr. Elogio del Comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006). Ho scritto un libro sulla democrazia che esalta non tanto il suo pur necessario lato formale, ma indaga la sua natura di movimento egualitario e partecipativo, senza la quale la democrazia semplicemente non c’è (cfr. Il popolo al potere. Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici, Arianna, Cesena 2006).
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Da un punto di vista filosofico, il problema della democrazia è connesso all’esistenza o meno di valori universali condivisibili ed estendibili all’intero genere umano, ed al fatto che talvolta l’universalismo diventa un pretesto per l’esportazione violenta ed illegale del solo modello occidentale di vita sociale fatto passare per “universale”, il che comporta ovviamente ripensamento e cautela (cfr. Per un buon uso dell’universalismo, Settimo Sigillo, Roma 2005). Infine, dal momento che le mie due principali competenze filosofiche “specialistiche” (sono infatti anch’io uno specialista in alcuni campi, e non un presuntuoso tuttologo concionante in salotti lottizzati) sono la filosofia degli antichi Greci e la filosofia di Marx e dei marxismi successivi segnalo anche un lavoro in cui mi occupo dei rapporti fra i due campi di studio (cfr. L. Grecchi - C. Preve, Marx e gli antichi Greci, Petite plaisance, Pistoia 2005). E con questo la beneficienza che ho fatto a me stesso è conclusa, e posso passare ad altre segnalazioni. La mia personale concezione della democrazia è simile a quella espressa nel classico libro di A. Rosenberg, Democrazia e socialismo. Storia politica degli ultimi centocinquant’anni (1789-1937), tr. it. di G.E. Rusconi e A. Scaglia, De Donato, Bari 1971, De Donato, Bari 1971 (ma il libro è del 1938). Uno studio critico di utilissima lettura è quello di L. Canfora, La democrazia. Storia di una ideologia, Laterza, Roma-Bari 2005. Certo, è un libro per “palati forti”, e non per il coro cantato del politicamente corretto del pecoresco internazionale. Su come funziona (o meglio, non funziona) oggi la democrazia si veda il fondamentale saggio di C. Crouch, Postdemocrazia, tr. it. di C. Paternò, Laterza, Roma-Bari 2004. Si noti che Crouch non è un pericoloso anarco-insurrezionalista che popola i sonni inquieti del ministro Pisanu, ma un moderatissimo studioso laburista inglese. Crouch dimostra pacatamente come il normale funzionamento degli automatismi finanziari
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neo-liberali semplicemente non lascia alcuno spazio alla decisione democratica. Sul carattere sostanzialmente “democratico” del pensiero originale di Marx si veda il saggio di J. Texier, Rivoluzione e democrazia. Marx, Engels e l’Europa continentale, tr. it., Bibliotheca, Gaeta 1993. Una critica molto efficace all’attuale tendenza ad identificare la democrazia con il suo esatto contrario, e cioè con l’esportazione a mano armata dei cosiddetti “diritti umani” si veda D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000. Non aggiungo qui testi e nomi molto noti, perché mi sento personalmente estraneo al canone politicamente corretto che oggi va per la maggiore. Riprendendo qui un saggio consiglio di Anton Cechov, il lettore cui è stata offerta una tazza di caffè non si lamenti perché non ci ha trovato dentro della birra. Bussoleno, 8-01-2007 Assemblea del Comitato istituzionale al Polivalente
Indice
Nota sull’origine dei testi
p. 9
Prefazione di Carlo Formenti
p. 11
Introduzione di Alessandro Monchietto
p. 23
Il nemico principale
Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale. Considerazioni politiche e filosofiche
p. 39
Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo. Dialettica della limitatezza, dialettica della corruzione
p. 101
La crisi culturale della terza età del capitalismo. Dominanti e dominati nel tempo della crisi del senso e della prospettiva storica
p. 123
La saggezza dei Greci. Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi
p. 163
Demos e libertà
p. 205
Le radici storiche, politiche, filosofiche e comunitarie della democrazia antica dei Greci
p. 225
Alessandro Monchietto (1985) è stato allievo di Costanzo Preve e si occupa di problemi di filosofia sociale e della storia nella riflessione moderna e contemporanea. La sua ultima pubblicazione è Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel, uscito nel 2015.
Opere di Costanzo Preve Volume I Collana a cura di Alessandro Monchietto
Dal punto di vista di Costanzo Preve, oggi, in Italia, non esiste un pericolo fascista (come d’altronde non esiste alcuna prospettiva comunista), per il semplice fatto che non ce n’è bisogno. Le classi subalterne non costituiscono una minaccia, la democrazia moderna è in corso di smantellamento, la morale è ultraindividualista e – a livello geopolitico – siamo in piena fase di ricolonizzazione. Il nemico principale è un altro. L’attuale crisi della democrazia non è la conseguenza di un complotto o di un attacco, ma di una nuova configurazione nei rapporti di forza tra le classi che ha portato al trionfo del liberismo reale. Il quale, senza più avversari, si è ripreso con gli interessi ciò che aveva dovuto cedere in passato. Il concetto di democrazia è così stato quasi completamente svuotato dal suo significato originario, che non risiede nell’affermazione del principio di maggioranza, nella tutela istituzionale delle minoranze o nel mantenimento di uno spazio pubblico. La democrazia non è fatta solo di procedure formali, ma è una questione di contenuti, di accesso del demos al potere, di controllo collettivo del popolo sulla sua riproduzione economica. È una questione di comunità reale.
€ 12,00
ISBN ebook 9788855291033