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ita Pages [188] Year 2023
Ombre del diritto
«La pura luce e la pura oscurità son due vuoti, che son lo stesso. Solo nella luce determinata – e la luce è determinata dall’oscurità –, quindi solo nella luce intorbidata, si può distinguer qualcosa. Parimenti qualcosa si distingue solo nell’oscurità determinata – e l’oscurità è determinata dalla luce –, quindi solo nell’oscurità rischiarata» g.w.f. hegel
Direttore di collana Francesco Mancuso Comitato scientifico Luigi Alfieri; Francisco Javier Ansuátegui Roig; Laura Bazzicalupo; Carlo Cappa; Gennaro Carillo; Pietro Costa; Fabio Donato; Ida Dominijanni; Francesco Fasolino; Pasquale Femia; Marco Innamorati; Jean-François Kervégan; Marina Lalatta Costerbosa; Fernando H. Llano Alonso; Peter Langford; Marilena Maniaci; Giuseppe Martinico; Sergio Moccia; Josep Joan Moreso; Baldassare Pastore; Pierre-Yves Quiviger; Paolo Ridola; Flaminia Saccà; Aldo Schiavello; Giovanni Sciancalepore; Rita Šerpytytė; Laura Solidoro; Giusto Traina; Nadia Urbinati; Eugenio Raúl Zaffaroni. Comitato direttivo Valeria Giordano; Francesco Schiaffo; Antonino Sessa; Francesco Adorno; Giuseppe D’Angelo, Valentina Ripa; Giovanna Maria Antonietta Foddai; Gianmarco Gometz. Comitato di redazione Ernesto Sferrazza Papa; Sandro Luce; Dante Valitutti; Paola Pasquino; Michelangelo Luciano; Carmelo Nigro; Giovanni Chiarini; Valentina Antoniol; Carlo Crosato; Annachiara Carcano; Chiara Magneschi; Emanuele Cornetta; Vincenzo Peluso; Donato Aliberti; Gian Marco Galasso; Xenia Chiaramonte; Rosaria Pirosa; Leonardo Mellace; Gabriele Giacomini; Melissa Giannetta; Sabina Tortorella.
Titolo originale: Penser l’ennemi, affronter l’exception © Éditions La Découverte, Paris, 2007 © 2023 Lit Edizioni s.a.s. Tutti i diritti riservati Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni s.a.s. Via Isonzo 34, 00198 Roma Tel. 06.8412007 [email protected] www.castelvecchieditore.com
Jean-Claude Monod
PENSARE IL NEMICO, AFFRONTARE L’ECCEZIONE Riflessioni critiche sull’attualità di Carl Schmitt
A cura di Francesco Mancuso ed Ernesto C. Sferrazza Papa Traduzione di Ernesto C. Sferrazza Papa
Simulacri di pienezza. Carl Schmitt contro la modernità di Francesco Mancuso Niente da fare, il mio amico aveva torto marcio e Filippini ragione. Schmitt era non solo un genio ma un uomo dabbene. Magari fosse stato davvero un gran figlio di puttana, non si sarebbe lasciato infinocchiare così facilmente dall’usurpatore, il falso capo del nazionalsocialismo. Sarebbe rimasto al suo posto di comandante della nave, imponendo pace e giustizia, il «Nomos della Terra», all’umanità attonita, forse con Freisler come primo ministro. Invece è morto di crepacuore a soli novantasette anni e dopo solo quarant’anni dall’iniquità di cui è rimasto vittima e che l’ha segnato per la vita. c. cases, Benito Cereno, in Il boom di Roscellino
“Un ennesimo libro su Carl Schmitt?”. Un’esclamazione così formulata, magari con tono annoiato, non sorprenderebbe. Se c’è un autore che è stato letto, discusso, criticato, notomizzato in quantità da vero primato questi è proprio il giurista di Plettenberg. Le traduzioni, nelle lingue più svariate, dal farsi al cinese, non si contano più; analisi del suo pensiero molto importanti sono state da tempo svolte nel nostro Paese (ci si ricordi, per non fare che due nomi, dei lavori di Portinaro e Galli, il primo degli anni Ottanta, il secondo dei Novanta); l’Italia fu, con la pubblicazione della silloge del 1972 Le categorie del “politico”, a cura di Miglio e Schiera, capofila nella riscoperta di un thesaurus teorico che, come quello schmittiano, pareva essere pienamente funzionale a riempire un vuoto creato dalla incipiente crisi del marxismo, e perfettamente attagliato, mutatis mutandis, a tempi che richiamavano quelli di Weimar, attraversati da faglie di conflitto e scossi da quasi irreversibili crisi di struttura e di sistema. Nel 2022 è stato ricordato il centenario della pubblicazione di Politische Theologie. Il 2023 è un altro anno per così dire schmittiano, giacché ricorrono i cento anni dalla pubblicazione di una delle più controverse tra le opere di Schmitt e in generale tra quelle, prima, durante e dopo
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Schmitt, centrate sulla idea di democrazia: Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus (non ci si dimentichi, a volte il provincialismo questo produce, che nello stesso 1923 fu pubblicata la seconda, fondamentale parte degli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca, quella in cui il grande teorico della classe politica, sempre impietoso con la democrazia, per lui ulteriormente degenerata in “feudalesimo funzionale”, riscoprì il valore dei regimi rappresentativi). Tali ricorrenze sono state occasioni per la pubblicazione di studi anche collettanei di grande spessore, sicché non ci sarebbe bisogno, apparentemente, di proporre in traduzione italiana un’opera, che, sebbene stratificata, è apparsa la prima volta quindici anni fa. È però curioso notare, e questa è una prima giustificazione dell’operazione editoriale che andiamo a presentare, che proprio laddove l’opera di Carl Schmitt è stata introdotta con grande cautela, ci riferiamo alla Francia, è stato più facile sottrarsi alla sua fascinazione e fare i conti criticamente con il carattere prismatico di un pensiero attrattivo ma scottante, bisognoso quasi sempre di “avvertenze preliminari”, tanto ambivalente, “criptico”, da risultare, insieme, antecedente teorico delle spesso sanguinose negazioni dei postulati democratici, razionalisti e personalistici della modernità, conduttore purissimo per pericolosi cortocircuiti concettuali (alcuni dei quali nascenti da abili distorsioni interpretative operate dallo stesso Schmitt e ottimamente evidenziati, come si potrà vedere nelle pagine a seguire, da Jean-Claude Monod) e però anche importante strumento interpretativo delle tarde patologie della modernità politica e giuridica: dalle mutazioni del concetto di guerra al terrorismo globale, dal ritorno degli identitarismi al populismo (che indubbiamente ha, tra le sue matrici, Schmitt), dalla crisi di legittimità dei regimi rappresentativi contemporanei alla alterazione progressiva della separazione dei poteri, dalla tecnocrazia alle forme palesemente ossimoriche di democrazia illiberale, dalla odierna confusione di eccezione ed emergenza alla dilagante ostilizzazione politica, pare non ci si possa liberare facilmente dell’ombra lunga del controverso pensatore tedesco, che offre a un tempo, e ciò è un segno della sua complessità, sia l’armamentario ideologico per politiche reattive (vedi la recezione schmittiana, via Strauss, da parte del pensiero cosiddetto neocon), sia le fortificazioni teoriche per la critica a quest’ultimo, in un gioco di specchi talmente ripetuto da essere a volte spiazzante.
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La ricerca delle ragioni per cui proprio dalla terra dei Lumi – il cui assetto istituzionale però, e più di tutti gli altri in Europa, mostra una certa contiguità con i capisaldi della dottrina costituzionale di Schmitt – giungono, insieme a bandi poco giustificabili nel campo delle idee (le idee si combattono con le idee, non con le censure), due tra le più equilibrate analisi dell’opera schmittiana, questa che introduciamo per la prima volta per il pubblico italiano, e quella di Jean-François Kervégan (Che fare di Carl Schmitt?), meriterebbe diffusa trattazione a parte. Riteniamo, per una prima approssimazione, che non sia del tutto privo di significato il fatto che in Francia più che altrove (magari in ragione di quelle ipoteche ideologiche su cui lungamente si è soffermato Zeev Sternhell nelle sue indagini sulle origini “francesi” del fascismo) rimane salda una certa prevenzione nei confronti di quelle “idee senza parole” tipiche, come diceva Furio Jesi, del pensiero di destra (cui Schmitt appartiene interamente, sebbene in una posizione che non deve essere confusa né con quella di un tradizionalista cattolico né con quella di un conservatore rivoluzionario), e che spesso si presentano nelle sue opere: basti pensare al concetto di legittimità, mai da lui definito e ridotto, come notò finemente Hasso Hofmann, a tutto ciò che si oppone al (vituperato) concetto di legalità. Non si tratta di rimarcare ancora una volta, e con poco costrutto, le scellerate opzioni politiche schmittiane, che ci furono, unite peraltro a una certa dose di analfabetismo morale, tipico di un certo occasionalismo cinico, quanto di valutare, senza giustificazionismi o condanne inappellabili, la fondamentale anti-modernità delle sue “posizioni” e dei suoi “concetti”: ciò significa essenzialmente vaccinarsi rispetto alla malìa e alle vertigini provocate da un pensiero “abissale”, che è moderno solo nella misura in cui della modernità Schmitt registra, come sensibilissimo sismografo, l’infondatezza, lo strutturale nichilismo, ma senza fuoriuscire da un angusto crogiolamento “tragico” (e forse romantico, nel senso dispregiativo che l’autore stesso diede al termine) in una antropologia fortemente negativa che lo accomuna ai pensatori controrivoluzionari, e che impedisce, quasi alla radice, non solo ogni fiducia nel progresso, non solo il privilegiamento del normativo sul fattuale, ma anche, e nonostante affermazioni contrarie sparse qui e lì ma poco sincere e più che altro volte a lamentose autogiustificazioni, il concepire realmente il diritto come un “freno”, un limite, una
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tutela, un prodotto dell’eguaglianza e per l’eguaglianza (tendenziale) degli uomini, una vera – come lo definiva spinozisticamente Sigmund Freud – “potenza della comunità”, che in Schmitt diventa passiva acclamazione parlante attraverso la bocca del capo, di colui che rappresenta, rende presente (un’assenza). Al di là delle contraddizioni, dei mutamenti (a volte opportunistici) di registro, delle interpretazioni distorte che spesso Schmitt elabora su autori e concetti, come clamorosamente avviene, ad esempio, nel Nomos der Erde, la questione a nostro avviso veramente decisiva da porre a proposito del suo lungo e complesso itinerario intellettuale è: che giurista è colui che non vuole, o meglio, non può concepire la mediazione? Che pur proclamando la permanente validità del motto tomista sul diritto ad alterum, lo concepisce essenzialmente contra alterum? Che è, paradossalmente, antihobbesiano nella sua (inconsapevole?) riproposizione dello stato di natura della guerra di tutti contro tutti nella forma della centralità nascosta ma decisiva della guerra civile-persecutoria (la democrazia come Vernichtung dell’estraneo, del nemico esterno e interno), e ciò molto tempo prima della vittoria dell’Anticristo di Joseph Roth? È questo orientamento all’immediatezza, alla centralità del negativo, che rende strutturalmente instabile il pensiero (non conservatore ma) reazionario di Schmitt, stimolandone contraddizioni non sempre produttive e spesso abbacinanti per chi lo assorbe e lo replica senza i dovuti filtri critici. Al rischio si sottrae abilmente, e con grande finezza, il testo di JeanClaude Monod, già studioso della secolarizzazione, delle dinamiche carismatiche, della governamentalità, che analizza l’uso possibile, e gli abusi perduranti, della e sulla multiforme, a volte vischiosa, prestazione intellettuale schmittiana, rilevandone la natura intrinsecamente farmacologica, le ragioni della sua inestinta fama, il suo inquietante riaffacciarsi in tempi nei quali al diritto come strumento di pacificazione sembra sostituirsi una teologia del bene e del male assoluti, non mediabili, destinati a lottare a morte. Schmitt è, anche per Monod, un autore realmente complesso e difficile da maneggiare, contraddittorio, “plastico”, anche nel senso della sostanza esplosiva: le pagine dell’Introduzione all’edizione italiana, che analizzano le tracce schmittiane in una delle non poche, e lugubri, odierne, eversive dark star rising (come le chiama Gary Lachman nel suo studio sulle ideologie
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e le prassi neoautoritarie), offrono una lettura magistrale, rigorosa e impegnata, di una presenza da cui è impossibile liberarsi: quella di un pensiero suggestivo, spesso geniale, ma in fondo appesantito dal suo essere orientato esclusivamente verso il dominio, quale che sia, e dalla sprezzante svalutazione di ogni tentativo di renderlo meno oppressivo; gravato da una pesanteur (nel senso offerto da Simone Weil) che lo schiaccia sull’immediato e il contingente; lacerato da una weberiana diabolicità che lo condanna non già alla compresenza degli opposti (nel caso di Weber, legalità e credenza, etica della convinzione ed etica della responsabilità, Beruf come passione e come professione), ma a una postura intrinsecamente polemica, negativa, centrata sull’aut aut; ossessionato dalla pluralità ma non sufficientemente “moderno” da concepire l’unità come funzione logica, centro di imputazione di distinti, come genialmente fece, rispetto all’idea di sovranità, l’altro grande giurista e pensatore politico di un Novecento che non passa, Hans Kelsen, che solo chi ne ignora le opere può ritenere autore catafratto rispetto alla essenziale impurezza del diritto e della politica. Nella sua grande ricostruzione del pensiero postmetafisico (Una storia della filosofia, 1), Jürgen Habermas individua i classici “nemici del Politico”, i.e. di Carl Schmitt: «Nello Stato di diritto l’esercizio del dominio politico vincolato a norme universali prodotte democraticamente priva le decisioni del sovrano della loro ampia discrezionalità in nome della razionalità, del diritto e della morale». Ecco, ritenere, come sempre fece Schmitt, che la modernità sia non “anche” ma “solo” una falsa rappresentazione, una deviazione despiritualizzante, una vuotezza fallace da riempire con la coazione al dominio, non può che indurre orecchianti, seguaci e adoratori a rifugiarsi più facilmente nel falso katechon della paura, degli identitarismi, dell’inesprimibile della religio, della comunità «fusionale, senza interstizi» (Chapoutot). In una frase, nel fascismo rideclinato, le cui mobilitazioni contro l’estraneo sono perfettamente compatibili con le spoliticizzazioni tecnocratiche contro le quali, a parole, il primo si scaglia. Con le sue «compenetrazioni di misticismo e relativismo», Schmitt è il perfetto esemplare di, e mentore per tutti gli ennemis intimes de la démocratie (Todorov), ovvero produttore di suggestioni permanenti per molti frequentatori dei piani medio-nobili del “Grand Hotel Abisso”. Che la sua ombra si affacci nelle filosofie neoimperiali e organicistiche oggi
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spiranti da Est, come bene mette in luce Monod, ma anche nelle protette geremiadi in tempi di pandemia, dove l’abuso del concetto di “eccezione” è stato solo pari al rinnovato presenzialismo di taluni corifei, è solo un’ulteriore riprova di ciò.
Prefazione all’edizione italiana Quale “nuovo” Nomos della terra?
Di fronte alla rivoluzione del 1917, nella quale Lenin riuscì a rendere efficace la dialettica hegelo-marxiana di Storia, violenza e Stato, adattandola – fino al punto da renderla irriconoscibile – alla situazione russa, Carl Schmitt nota che «Hegel ritorna dall’Est»1. Si potrebbe dire, cum grano salis, che oggi “Schmitt ritorna dall’Est”. Questo libro, apparso per la prima volta nel 2007 e riedito nel 2016 in un contesto differente, rileva i molteplici usi che sono stati fatti del pensiero dell’autore de Il concetto di “politico” e de Il nomos della terra, in particolare dello stato d’eccezione, della dittatura, della dissociazione tra democrazia e liberalismo, del diritto internazionale e delle forme della guerra. Questi utilizzi hanno visto i concetti schmittiani tingersi di tutti i colori dell’arcobaleno politico. Dopo l’11 settembre 2001 si è aperta una fase di usi rovesciati dalla sinistra e dall’estrema sinistra, con l’obiettivo di criticare gli stati d’eccezione post-11 settembre e la riattivazione del motivo della “guerra giusta”, che coesistevano con i tentativi di giustificare, in una modalità schmittiana, il “diritto internazionale dell’eccezione” e la sospensione da parte del presidente degli Stati Uniti dell’applicazione non solo della Convenzione di Ginevra, ma financo dell’habeas corpus. Oggi, il ritorno da Schmitt attraverso l’Est è piuttosto un ritorno per mano dell’estrema destra. È il caso di Aleksandr Dugin, di cui il 1 Cfr. Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, Duncker & Humblot, 1932 (ed. or. 1927); trad. it. Il concetto di “politico”, in Id., Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, il Mulino, 2013, p. 147.
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grande pubblico ha sentito parlare soprattutto in occasione dell’attentato costato la vita a sua figlia, probabile rappresaglia contro l’accanito impegno del padre (e della figlia) a favore della guerra in Ucraina. Il teorico del “grande spazio” russo ha instancabilmente sostenuto, fin dall’indipendenza dell’Ucraina, la sua annessione con ogni mezzo a disposizione e, più in generale, una “guerra santa” che avrebbe permesso la riconquista di tutti gli Stati (ex Repubbliche sovietiche) che avevano ottenuto l’indipendenza dopo la caduta dell’urss. In un articolo del 1991, apparso inizialmente su «Nash Sovremnik» e in seguito tradotto in francese su un sito dell’estrema destra bretone, Dugin ha sintetizzato ciò che intendeva conservare di Carl Schmitt. La nozione di “grande spazio” (Großraum) era stata elaborata negli anni Trenta da Schmitt nei suoi scritti sul diritto internazionale per legittimare la presa di possesso armata dei territori germanofoni, dai Sudeti all’Austria, ambito d’“influenza” del Reich per il quale l’invasione militare non sarebbe stata squalificata come “aggressione” e sul quale regnava un “divieto d’intervento esterno”, come la Società delle Nazioni aveva cominciato a stabilire nel caso di una “guerra d’aggressione”. Schmitt ha dedicato un grande sforzo a degradare la nozione stessa di “guerra d’aggressione”. Lo sfondo di questa riflessione consiste nel rifiuto del diritto internazionale “liberal-cosmopolitico”, d’ispirazione kantiana, fondato sull’idea dell’uguale diritto dei popoli all’autodeterminazione, nonché sull’unione (Bund) federale e poi mondiale di Repubbliche che si accordano tra loro per bandire la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti. Una simile visione, benché avesse trovato in Germania un’eminente espressione con Kant, risale per Schmitt da un lato al repertorio di idee rivoluzionarie e democratiche emerse dalla Rivoluzione Francese, il cui asse polemico sarebbero le monarchie e le loro teologie politiche; dall’altro lato, a una concezione del diritto internazionale favorevole alle potenze liberali “marittime” come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, privilegiando la libertà di commercio e “forzando” le frontiere per conquistare sempre nuovi mercati in nome delle libertà politiche, economiche e giuridiche (i diritti dell’uomo), fomentando alla bisogna rivoluzioni cosiddette “democratiche”. Stigmatizzando i diritti dell’uomo e l’invocazione dell’umanità come strumenti dell’imperialismo anglosassone (essenzialmente “marittimo”, inglese, e in seguito “aereo”, americano, secondo quella sorta di mi-
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tologia degli elementi drammatizzata da Schmitt in Terra e mare) e francese, Schmitt vi oppone una concezione “continentale” e “ctonia” del diritto, la cui sorgente è con tutta evidenza germanica, i cui princìpi sono gerarchici e imperiali. Lontana da qualsivoglia egalitarismo, questa visione presuppone una gradazione dei diritti, con un (in realtà molteplici) “centro” imperiale superiore che impone la propria legge a popoli e Paesi subordinati, i cui abitanti diventano sub-cittadini dell’Impero. Il diritto non è visto come un sistema di norme universali logicamente coerente la cui espressione politica è lo Stato di diritto, alla maniera dell’avversario di sempre di Schmitt, Hans Kelsen, ma come una “partizione” stabilita da un “atto di forza” che distingue il mio e il tuo e fonda così un “ordine concreto”. Dopo la guerra, Schmitt ha sostenuto che la nozione di “grande spazio” si distingueva da quella promossa dalla propaganda nazista di “spazio vitale” (Lebensraum), il cui ancoraggio “biologico” è assai più marcato, e che si articola con l’idea di una sottomissione, e persino di uno sterminio, dei “sub-umani”. Se la dimensione razziale è effettivamente poco presente negli scritti internazionalisti di Schmitt, il rifiuto dell’idea di uguaglianza tra gli uomini e tra i popoli è patente, e l’antisemitismo impregna non solamente il suo “diario” pubblicato assai dopo la fine della guerra (il Glossarium, apparso nel 1991), ma anche la sua opera sul Leviatano di Hobbes, pubblicata nel 1938. D’altra parte, mentre ne Il nomos della terra Schmitt sviluppa una critica della “illimitatezza” della guerra quando si pretende che venga condotta “in nome dell’umanità”, l’illimitatezza reale della “guerra totale” nazista nella sua dimensione sterminatrice, sostenuta da una visione antiumanista e razzista, non è oggetto di alcun commento – e a ragion veduta, dal momento che proprio durante la Seconda Guerra Mondiale Schmitt è stato capace di sostenere l’idea di “guerra totale” contro un “nemico totale”. In che modo Dugin opera una ripresa delle tesi che Schmitt utilizzava durante il Terzo Reich per giustificare l’espansione tedesca? La trasposizione dell’idea di pluriversum è facile: contro l’“egemonia” anglosassone e soprattutto americana, che pretenderebbe d’imporre un universum giuridico sotto l’egida dell’onu, in particolare attraverso l’estensione dell’economia capitalista e la diffusione mondiale della democrazia liberale (di cui la “rivoluzione arancione” in Ucraina rappresenterebbe un’espressione, interpretata come una sovversione
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innescata dall’esterno per fare capitolare un leader filorusso), si tratterebbe di cedere il passo ad altri “centri” portatori di princìpi politici tradizionalisti, nazionalisti e autoritari, voltando le spalle al “diritto cosmopolitico” e ai diritti dell’uomo. Questi nuovi centri sono la Cina, che Dugin considera in ogni caso una minaccia, e la Russia. Dugin riprende così le tesi de Il nomos della terra per fondare una “geografia santa” che legittimi la difesa di “grandi spazi” civilizzati, primo tra i quali, ovviamente, il grande spazio russo da ricostruire, la cui prima tappa consisterebbe nel ristabilire la sua “influenza” sull’Ucraina, vale a dire la pura e semplice annessione di quest’ultima2. Seguendo ancora un principio fondamentale della visione schmittiana del politico, Dugin organizza tutto ciò intorno alla determinazione del Nemico: in questo caso, il Nemico della Russia è ereditato dalla Guerra Fredda. Dugin si inscrive nei parametri “rossi” del bolscevismo, mescolati con quelli “bruni”: il “nemico ontologico”, essenziale, “l’impero del male” rimangono gli Stati Uniti e, per metonimia, ciò che è designato come “mondo libero”, liberale, democratico, capitalista, “moderno”, individualista, e così via. Allo stesso modo dell’autore di Teologia politica, ma senza la sottile erudizione poggiata sulla storia dei trasferimenti concettuali tra diritto e teologia nel quadro della Chiesa cattolica, Dugin ricorre, contro la modernità, alla risorsa di una teologia politica, in questo caso ortodossa. La viscerale opposizione ai costumi moderni si traduce nel rifiuto delle minoranze sessuali e soprattutto dell’omosessualità, al centro della recente giustificazione, da parte di Kyrill, della “guerra metafisica” della Russia in Ucraina. Inoltre, l’affinità tra fondamentalismi politico-religiosi avversi alla modernità occidentale permette a Dugin di promuovere una sorprendente alleanza ortodosso-islamista tra la Russia di Putin, nuovamente radicata nell’unione di trono e altare, e la Cecenia di Kadyrov, islamista insediato dallo stesso Putin dopo la frantumazione militare di Groznyj, vantatosi di perseguitare gli omosessuali e che ha inviato alcuni battaglioni a combattere la “decadente” Ucraina. Con il suo riferimento cristiano-ortodosso, Dugin non indietreggia di fronte a un aperto razzismo nei confronti dei popoli da assoggettare 2 Si veda Aleksandr Dugin, Pour une théorie du monde multipolaire, Ars Magna, 2013; e Id., Carl Schmitt, 5 leçons pour la Russie, in «Nash Sovremennik», 1992.
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all’egemonia “bianco”-cristiana; allo stesso modo, Schmitt per un certo periodo rivendicò il cattolicesimo contro-rivoluzionario. Così, nel suo articolo dedicato alle lezioni di Schmitt, Dugin scrive: E se non armiamo lo Stato di un’ideologia, che da tempo manca, dovremo armarci con il partigiano russo, colui che si risveglia oggi per portare a termine la missione continentale, a Riga e Vilnius, assomigliando alla “nebbiosa Albione”, all’“annerito” Caucaso, all’“ingiallita” Asia centrale, all’Ucraina “polonizzata” e al Tatarstan “moldovizzato”. La Russia è un grande spazio e il suo popolo porta una grande idea nella sua gigantesca anima eurasiatica e continentale.
Non ci soffermiamo sull’«anima eurasiatica» se non ricordando che Dugin ha pubblicato un volume d’interviste con il fondatore francese della Nouvelle Droite, Alain de Benoist, lui stesso grande appassionato di Schmitt, nel quale dissertano sul «richiamo dell’Eurasia»3. La visione geopolitica di Dugin riposa sull’idea che la Russia ridotta unicamente a se stessa sia troppo debole, e che debba perciò ricostruire uno spazio eurasiatico in modo da costituire un “polo integrale” nel mondo multipolare: Il principio del mondo multipolare introduce il secondo nucleo della filosofia politica eurasiatica: l’integrazione dello spazio postsovietico. Questo è ormai l’obiettivo del programma di Putin. Per costruire questo polo, la Russia ha bisogno di alleati e di processi d’integrazione nello spazio postsovietico. Ha bisogno del Kazakistan, della Bielorussia, dell’Ucraina, della Moldavia, dell’Armenia, e magari dell’Azerbaigian. Ha bisogno delle profondità dell’Asia centrale rappresentate dal Kirghizistan, dal Tagikistan, forse dell’Uzbekistan e persino del Turkmenistan. È un obiettivo a lungo termine, ma la creazione di un polo del mondo multipolare è necessaria4.
3 Aleksandr Dugin, L’Appel de l’Eurasie, Avatar Éditions, 2013. 4 Aleksandr Dugin, Putin vs Putin. Vladimir Putin Viewed from the Right, Arktos, 2014, p. 361.
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D’altra parte, nell’estratto citato, Dugin fa appello al “partigiano”, e l’elaborazione di questa figura da parte di Schmitt nella Teoria del partigiano (1963) rimane ai suoi occhi una delle “grandi lezioni” schmittiane. In origine si trattava di un tipo di combattente o di resistente che si sollevava a seguito della sconfitta di un esercito regolare e combatteva un’invasione o un’occupazione: da Giovanna d’Arco ai partigiani spagnoli, prussiani o russi contro l’Impero napoleonico, fino ai combattenti della resistenza jugoslava o francese contro gli eserciti d’occupazione nazisti. Nondimeno, nel 1963 Schmitt distingueva il “partigiano deterritorializzato”, strumento di una “rivoluzione mondiale” (come Che Guevara, che portava dappertutto la “fiaccola” rivoluzionaria), e il “partigiano tellurico”, che difende la propria terra. Dugin rileva la genealogia “russa” del partigiano, effettivamente presente nella Teoria del partigiano nelle vesti di un combattente irregolare contro gli eserciti napoleonici, trasformato da Lenin e Trockij in combattente nella guerra civile rivoluzionaria, e in seguito da Stalin una volta attaccata l’urss dall’esercito tedesco. Stalin in particolare fu capace di mobilitare l’attaccamento del partigiano per la sua terra e persino per la sua religione. Trasponendo spudoratamente queste analisi nel presente, Dugin presenta i territori russofoni delle ex Repubbliche sovietiche, diventate indipendenti, come territori occupati dal nemico nei quali nuovi “partigiani” devono insorgere per “liberare” queste nazioni dai loro governi “venduti” all’Occidente, all’Europa, alla nato e all’America. Lo sviluppo e la diffusione di gruppi di combattenti filorussi (composti per la maggior parte da soldati russi senza insegne o da mercenari) apparsi “spontaneamente” è la strategia condotta dalla Russia in Ucraina, con le ostilità scatenate nel 2014 in Donbass da gruppi secessionisti filorussi armati dal Cremlino, tra i quali spesso si trova un gran numero di militari russi senza uniforme “regolare”; i combattimenti e le morti – presentate come un “genocidio” commesso contro i russi – “giustificano” l’invasione non solamente del Donbass, ma dell’intera Ucraina! Una lettura delle raccomandazioni indirizzate da Dugin a Putin, rilasciate in particolare a partire dal 2014 e dalle tensioni fomentate in Ucraina, è impressionante per come paiano annunciare ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi. In un saggio la cui traduzione inglese
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titola Putin vs Putin, Dugin suggerisce che Putin, intimamente diviso tra una tendenza ad andare verso l’Occidente liberale e una nazionalista russa radicale, si sia trovato davanti a un bivio senza poter più indietreggiare: doveva scontrarsi frontalmente con il liberalismo e con “l’ordine mondiale” attraverso la “vittoria della guerra” in Ucraina. Ecco un estratto del testo: Putin non può concedere al governo radicalmente antirusso ucraino di dominare un Paese con metà popolazione russa e che conta molte regioni filorusse. Se lo permetterà, sarà finito a livello nazionale e internazionale. Così, sebbene a malincuore, accetterà la guerra. E una volta che avrà imboccato questa strada, non vi sarà altra soluzione per la Russia che quella di vincerla. […] Questa guerra non è contro gli ucraini, tantomeno contro una parte della popolazione ucraina. Non è nemmeno contro l’Europa. Questa è una guerra contro il (dis)ordine mondiale liberale. Non salveremo il liberalismo per i loro fini. Lo uccideremo una volta per tutte. La modernità è sempre stata falsa, e adesso ci troviamo nel punto terminale della modernità5.
Il rifiuto congiunto di liberalismo e modernità si ritrova anche in Schmitt, del quale Hans Blumenberg aveva chiaramente riconosciuto come la sua teoria della secolarizzazione mirasse a porre l’epoca moderna in una situazione di “debito culturale non riconosciuto” nei confronti del cristianesimo e a suggerire che la modernità, non avendo alcuna sostanza propria, fosse perciò destinata al nichilismo. In Dugin, l’orientamento antimoderno sfocia in una nuova variante della rivoluzione conservatrice: l’idea di una consumazione della modernità che faccia spazio a una “svolta” verso un “nuovo cominciamento” antimoderno, affidato non più alla Germania ma alla Russia, è presa in prestito – e, di nuovo, riconfigurata per essere adattata al contesto russo ed “euroasiatico” – da un intellettuale tedesco di spicco impegnato nel nazionalsocialismo: Martin Heidegger. Heidegger aveva tematizzato un “altro cominciamento” che ripeteva il “primo cominciamento” greco per aprire un altro orizzonte dopo il “compimento del nichi5 Ivi, pp. 668-669 e p. 674.
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lismo” nel quale tracimava l’epoca moderna, e del quale la Germania avrebbe dovuto essere il luogo. La Germania, stretta nella “morsa” tra capitalismo occidentale e sovietismo russo, avrebbe dovuto costituire quella terza via di cui Dugin ripete il miscuglio “nazionalsocialista” o “nazionalbolscevico”, secondo il nome del partito da lui creato nel 1994. Ovviamente, la metafisica storica di un oltrepassamento antimoderno della modernità occidentale attraverso il “popolo messianico” russo attinge anche a molte altre fonti oltre a Schmitt: l’estrema destra francese (René Guénon, Alain de Benoist), filosofi russi (Berdjaev), ideologi fascisti (Julius Evola), e così via. Ad ogni modo, si può osservare come questa rilettura ideologica di Schmitt rompa con alcuni aspetti rilevanti della riflessione dell’autore de Il nomos della terra successiva al 1945: questa era orientata verso la difesa dello Jus gentium Europaeum, del “diritto delle genti” come creazione di legisti del XVII e XVIII secolo allo scopo di “contenere” la guerra entro i limiti del diritto. Dugin riprende alcuni motivi della teoria schmittiana del nemico e del pluriversum, ma a discapito dell’eredità dello Jus gentium Europaeum. Oggi Putin sembra seguire alla lettera alcune raccomandazioni di Dugin favorevoli a una sottomissione militare dell’Ucraina, e non nasconde più l’obiettivo di ricostruire un grande spazio russo che includa l’Ucraina, la Bielorussia (dove le rivolte contro i brogli elettorali alle elezioni dell’agosto 2020, protrattesi per diversi mesi, hanno provocato una sanguinosa repressione guidata dall’attuale presidente Lukašenko, sottomesso a Putin e che gli ha messo a disposizione il suo territorio come retrovia per l’attacco all’Ucraina) e forse, un domani, gli Stati baltici. Tuttavia, Putin ricorre con insistenza a un motivo completamente neutralizzato dall’uso massiccio da parte di Dugin di fonti legate al fascismo (Schmitt, Evola, Heidegger, ecc.): è contro i fascisti (ucraini) e i “neonazisti” che Putin pretende di condurre la sua “operazione speciale” di “demilitarizzazione e denazificazione” dell’Ucraina. È questo a consentirgli di mobilitare la carta memoriale della “grande guerra patriottica” contro il nazismo e dell’eroismo realissimo di milioni di combattenti russi morti in questo contesto. Si è spesso detto che Dugin è stato emarginato negli ultimi anni, che non ha più una forte influenza su Putin, e che sono state riesumate altre fonti intellettuali del “putinismo”, come il rappresentante del
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“fascismo cristiano” Ivan Il’in. Tuttavia, oltre all’impressionante convergenza tra lo scoppio della guerra in Ucraina e i desiderata espressi da Dugin quasi dieci anni fa6, si può rilevare che la delegazione russa per le negoziazioni con l’Ucraina era guidata da Medinskij, già ministro ultranazionalista della cultura e storico revisionista, il quale aveva presieduto la seduta inaugurale del circolo Izborski, formato dagli amici di Dugin per il riarmo ideologico della Russia in favore dell’impero eurasiatico. Alcuni osservatori critici in Russia temono che il progetto dell’attuale governo sia senz’altro quello di formare un immenso asse eurasiatico d’alleanza antiliberale che comprenda Ucraina, Bielorussia, Moldavia, forse gli Stati baltici, il Kazakistan (dove movimenti di rivolta sono stati severamente repressi dall’esercito e che è quasi tagliato fuori dal mondo, come comincia a esserlo la Russia), l’Azerbaigian, la Georgia; tutti sotto il giogo russo, provvisoriamente alleati con gli Stati totalitari o ultratotalitari della Corea del Nord e della Cina – per quanto lo stesso Dugin tema l’espansione “gialla” sulla Russia e auspichi unicamente lo “smantellamento” della Cina, considerata tendenzialmente “atlantista” –, sostenuti, nella loro comune opposizione agli Stati Uniti e all’Europa, dall’Iran e dalla Siria. Contemporaneamente, anche in Cina si assiste a una vera e propria “Carl Schmitt-Renaissance”7 in favore di un rafforzamento dell’impero cinese come primo polo del nuovo pluriversum geopolitico, coerentemente con il primato della sua potenza economica. In questo contesto, una visione dell’attualità attraverso il prisma di Schmitt potrebbe offrire strumenti per analizzare il movimento di contestazione dello One World democratico liberale sotto l’egemonia americana, a profitto di un pluriversum i cui nuovi “centri” si presentino come “modelli” alternativi postliberali, autoritari, nazionalisti. La guerra in Ucraina, ma anche l’estensione della potenza economica cinese in Africa e il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, sarebbero, tra gli altri, elementi della vasta trasformazione del Nomos della terra dal quale i “centri” americano ed europeo sono via via marginalizzati a favore di altri centri a Est, ossia la Cina, l’India e la Russia, con quest’ultima che tenta di ricostituire una parte della sua “influenza” e del suo impero, dal 6 https://bit.ly/3Y2xosc. 7 https://bit.ly/3P9GU8E.
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quale gli Stati satellite si erano emancipati posizionandosi progressivamente sotto la protezione della nato. Un nuovo nomos della terra, i cui contorni non sembrano meno inquietanti del precedente, è senza dubbio in procinto di cristallizzarsi. Come uscire dal falso universalismo neoliberale, profondamente inegualitario e fortemente soggetto all’egemonia americana, senza favorire per contrasto un “cattivo pluriversum” i cui “centri” emergenti si sono incamminati verso una strada apertamente autoritaria quando non neototalitaria e bellicista? Il sentiero è ripido e disseminato d’insidie. Ad ogni modo, e com’è accaduto in quasi tutti i momenti della storia della ricezione di Schmitt, è emerso negli ultimi anni un uso della sua riflessione politicamente assai diverso da quello rappresentato dalle dottrine delle potenze antiliberali e virulentemente imperialiste. È ancora Il nomos della terra a essere principalmente sollecitato, ma l’insistenza sul motivo “terrestre” assume un significato del tutto nuovo nell’attuale prospettiva della crisi ecologica. A Schmitt va riconosciuto il merito di aver dato alla questione “geo-politica” una profondità inedita, se non profetica, facendo della spazialità e della territorializzazione, della Terra come spazio condiviso e coltivato, non un semplice “suolo” inerte per il diritto, ma l’importante gioco plastico della conflittualità e dell’organizzazione del mondo, sullo sfondo di una “presa” che ne ridefinisce costantemente le linee. Le letture “ecologiste” de Il nomos della terra, così come le “teologie politiche” ispirate da questo testo8, si sono moltiplicate nel mondo anglosassone9 prima di trovare un’eco importante e inaspettata nell’opera di Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il riferimento al «tossico ma nondimeno indispensabile Carl Schmitt»10 è esplicitamente condotto come ricorso al pharmakon, quel veleno che, a misura delle dosi, può diventare una
8 Cfr. Michael S. Northcott, A Political Theology of Climate Change, William B. Eerdmans Publishing, 2013. 9 Cfr. Claudio Minca, Rory Rowan, On Schmitt and Space, Routledge, 2015; Stephen Legg (a cura di), Spatiality, Sovereignty and Carl Schmitt: Geographies of the Nomos, Routledge, 2011. 10 Bruno Latour, Face à Gaïa. Huit conférences sur le nouveau régime climatique, La Découverte, 2015; trad. it. La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, a cura di Donatella Caristina, Meltemi, 2020, p. 317.
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cura o il contrario. «È tutta questione di dosaggio»11 rileva Latour. Il fatto che Schmitt abbia ricordato che «la terra è detta nel linguaggio mitico la madre del diritto»12 sarebbe sufficiente, secondo Latour, a giustificare il nostro interesse per l’autore de Il nomos della terra. Oltre la svolta apocalittica del suo pensiero, che lo fa risuonare con il nostro “tempo della fine”, vi è tutta una visione della terra a partire da “pratiche di spazializzazione” che può rivelarsi istruttiva per pensare il presente. Latour non pretende di fare di Schmitt un pensatore ecologista avant la lettre. Nondimeno, egli trattiene della convinzione schmittiana per cui non vi è politica senza una separazione tra amici e nemici l’idea che per politicizzare l’ecologia ci si debba assumere l’onere di costruire una nuova conflittualità tra i “Terranei”, difensori di una ecologia radicale destinata a salvare la Terra, e coloro che curiosamente chiama gli Umani13, che minimizzano in ogni modo l’inscrizione dell’umanità su e in una Terra: sia dicendo che non appartengono ad alcun luogo, sia dicendo che appartengono solamente alla Natura e alla sua sovrana necessità. Ma la Terra non è l’indifferente Natura, e non è più semplicemente oggetto di “prese”, come vorrebbe Il nomos della terra che sotto questo aspetto mantiene, e a torto, l’umanità nel suo ruolo d’attore essenziale, quando non unico, del dramma politico. Per i terranei si tratterebbe del contrario: non è solamente l’umanità a prendere la Terra, è la Terra che prende l’uomo, per parafrasare ironicamente una canzone di Renaud («c’est pas l’homme qui prend la mer, c’est la mer qui prend l’homme…»). E questa presa definisce il “nuovo regime climatico”, che si sforza altresì di annunciarsi come Antropocene, allo scopo di uscire dal fuorviante dualismo tra Natura e cultura, dalla “grande separazione” moderna tra una Natura indifferente e un’umanità sì in superficie ma dotata di un’anima, e per pensare a un loop, a una trasformazione reciproca e continua. Certamente ci si potrebbe ancora domandare se sia davvero necessario passare attraverso Schmitt per esporre i princìpi di una poli11 Ibidem. 12 Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Duncker & Humblot, 1950; trad. it. Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus publicum europaeum”, a cura di Franco Volpi, Adelphi, 2011, p. 19. 13 Cfr. Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, cit., pp. 340 sgg.
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tica all’altezza di questo “tempo della fine”, dell’emergenza climatica. Non si rischia una volta di più di sacrificare alcune linee d’amicizia fondamentali, alcune fonti universaliste e umaniste al di fuori delle quali qualsiasi politica rischia di deragliare, compreso quando, e soprattutto quando, reclama di occuparsi della Terra? Anche quando ci si difende, come è il caso di Latour, da qualsiasi ripresa della fatale doppietta “Terra e Sangue” (Blut und Boden)? Si tratta di una nuova questione, che dobbiamo ancora una volta lasciare aperta, situata tra la consapevolezza dell’emergenza ecologica, il riconoscimento della concretezza del riferimento schmittiano e la preoccupazione per i pericoli di una retorica essenzialmente antiumanista e antiuniversalista, la quale porta con sé, più nascostamente che in passato, gli spettri di quell’anti-umanesimo pratico con cui Schmitt, per un certo periodo, strinse patti.
Prefazione all’edizione 2016 Nemico assoluto, stato d’urgenza permanente? Dall’11 settembre al 13 novembre
A volte i concetti diventano realtà. A volte alcune questioni generali di filosofia del diritto incrociano questioni politiche scottanti. A volte il pensiero costruisce figure e scenari che improvvisamente si materializzano in inquietanti figure in carne e ossa, o che prendono vita sotto un’altra forma, in una drammatica ripetizione di ciò che pensavamo relegato al passato, alla finzione o riservato ad altri continenti. Lo stato d’urgenza come variante dello stato d’eccezione; i combattenti irregolari animati da una “ostilità assoluta”, senza frontiere e senza limiti, alimentata da una forma (fanatica, e dunque sanguinaria) di teologia («i teologi tendono a definire il nemico come qualcosa che va annientato» rileva Carl Schmitt nel Glossarium), ma che rispondono anche ad attacchi aerei che non si definiscono come “guerre”1; lo spettro di una “guerra civile” mondiale e molecolare: la nostra attualità ha nuovamente assunto l’aspetto di un sinistro scenario schmittiano. L’attualità delle tesi di Schmitt, che evocavo quando dieci anni fa il libro usciva, si è accentuata e avvicinata. Gli attentati parigini del 13 novembre 2015 hanno portato in Francia tutte le domande e le angosce che si erano riversate sugli Stati Uniti con l’11 settembre 2001, nonché tutti i pericoli che la “guerra al terrorismo” avrebbe comportato per il mondo a venire. Schmitt è 1 Va tuttavia ricordato che Daesh aveva espressamente minacciato la Francia diversi mesi prima del bombardamento francese delle sue postazioni, in particolare in un numero della rivista «Dār al-Islām», nella cui copertina figurava il fotomontaggio di un combattente dello “Stato islamico” che esibiva il suo kalashnikov davanti alla Tour Eiffel.
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un pensatore dell’estremo, e l’estremo ci ha raggiunti. È un cattivo segnale. Ma si tratta anche di una situazione che esige da parte nostra un confronto con le analisi di colui che si è vertiginosamente (e disastrosamente) affannato per porre al cuore della sua riflessione il nemico, l’eccezione, la possibilità della dittatura, la destabilizzazione del diritto internazionale, i nuovi volti della guerra giusta, le contraddizioni del liberalismo, le tensioni tra decisione e deliberazione, le fragilità della democrazia. Questo è ciò che Penser l’ennemi, affronter l’exception tentava di fare nel contesto della war on terror per come l’amministrazione Bush la stava implementando all’epoca. Non ho modificato alcunché del testo per come era stato pubblicato non solo perché non era lo scopo di questa riedizione, ma anche perché – e mi si perdonerà la superbia di questa osservazione – sfortunatamente non trovo molto da correggere oggi. Per quanto concerne lo stesso Schmitt: i lavori pubblicati da allora hanno da un lato confermato la profondità del suo impegno criminale al servizio del regime nazionalsocialista attraverso la giustificazione dell’antisemitismo politico e giuridico del Terzo Reich, della politica espansionista della Germania, della concezione del Führer come fonte di tutto il diritto, ecc.; di contro, altre opere hanno mostrato la forza di alcune sue analisi per comprendere la situazione contemporanea, in particolare sul piano dell’analisi dell’imperialismo delle potenze liberali, della destabilizzazione del diritto internazionale, delle nuove forme di ingerenza, della distruzione di sovrani nemici trattati come criminali dagli Stati dominanti, i quali peraltro non esitano essi stessi a violare il diritto internazionale e a strumentalizzare il motivo della “guerra per il diritto”. Questo insopportabile paradosso – radicale compromissione politica mai rinnegata da un lato, e lucidità quasi premonitrice su altri aspetti dall’altro – è dunque ancora vivo e vegeto. Ma è alla situazione contemporanea che vorrei dedicare questa breve Prefazione, perché è da lì che proviene la spaventosa eco del titolo di questo libro. Dopo essere stata colpita da combattenti irregolari e deterritorializzati, la cui azione terroristica testimonia di una “ostilità assoluta” verso la popolazione attaccata, la Francia, a sorpresa, per decisione
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del suo governo sostenuto dal Parlamento, ha decretato lo stato d’urgenza, lo ha prorogato ed è in procinto di costituzionalizzarlo. Il Paese è impegnato in quella che il presidente della Repubblica ha qualificato come “guerra”. Proteggere i propri cittadini è certamente uno degli obblighi fondamentali di un governo. Non è Schmitt bensì Hobbes a richiamare questo legame essenziale tra obbedienza e protezione (la prima può cessare se la seconda non è garantita) e sottolineare la funzione della “paura della morte violenta” nella fondazione dello Stato-Leviatano. Il ricorso a misure eccezionali o allo stato d’urgenza può giustificarsi in questa prospettiva2, e rimane prerogativa del sovrano decidere sullo stato d’eccezione di fronte a circostanze eccezionali. Che il sovrano sia allora, in Francia, il presidente della Repubblica – in linea di principio lo sarebbe il governo, ma de facto Hollande il 13 novembre ha proclamato lo stato d’urgenza dinnanzi allo stesso Consiglio dei ministri riunito – e non il Parlamento, che certo deve votare lo stato d’urgenza e la sua proroga, è una specificità della democrazia francese rispetto alla maggior parte delle democrazie liberali, compresi gli Stati Uniti; una specificità nella quale si può leggere senza dubbio l’ennesima conferma del carattere di “monarchia repubblicana” del nostro regime piuttosto che una traccia schmittiana depositatasi nella Costituzione della Quinta Repubblica attraverso l’influenza di René Capitant. Bisogna ammettere, con tutta una tradizione repubblicana, che talvolta è necessario il ricorso allo stato d’urgenza – come forma minore e regolata di stato d’eccezione3 – per far fronte a circostanze eccezionali? Il rischio del rifiuto di principio della pur minima possibilità di derogare al diritto ordinario, rischio segnalato da Schmitt come da Machiavelli e dal diretto avversario di Schmitt sotto Weimar, Hans 2 Su questo punto rimane corretta l’analisi di Schmitt contro un normativismo astratto che non vuole saperne alcunché dell’eccezione. 3 La legge sullo stato d’urgenza fu decisa, in particolare da Pierre Mendès France, durante la Guerra d’Algeria, per evitare di scivolare verso uno “stato d’assedio”, ossia una devoluzione del potere alle autorità militari. Schmitt giustamente richiama la differenza tra stato d’eccezione e stato d’assedio (quale situazione de facto che comporta l’autonomia del comando militare) in Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedanken bis zum proletarischen Klassenkampf, Duncker & Humblot, 1921; trad. it. La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, a cura di Francesco Valentini, Laterza, 1975.
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Kelsen, è di abbandonare lo Stato all’incapacità di far fronte a minacce gravi. Nella situazione attuale, si potrebbe obiettare che un’azione terroristica (e quelle del 2015 lo sono state in tutto e per tutto), per quanto traumatizzante possa essere, non minaccia l’esistenza stessa dello Stato o della nazione, a differenza di un’autentica guerra. La confusione della differenza tra guerra e terrorismo, il fatto che il terrorista sia passato dal rango di figura marginale a essere il centro nevralgico dell’attuale ordine interstatale, è un processo del quale abbiamo analizzato le premesse nel periodo post-11 settembre, e che sta oggi portando la Francia in un contesto di estreme turbolenze politiche. Possiamo accontentarci di un pacifismo di principio e della posizione meramente autoflagellante che consiste nel ricordare gli errori realissimi, le dominazioni e i crimini passati e recenti che l’Occidente oggi sta espiando, sostenendo che nessuna risposta securitaria o militare al terrorismo islamico sia accettabile, o che solamente un disimpegno militare della Francia dalle zone dove è attiva oggigiorno, unitamente a un’azione sociale di apertura nei confronti dei terreni di coltura della radicalizzazione, sarebbe in grado di ottenere qualche effetto a lungo termine? È una posizione irenica, che conduce a non opporre la benché minima resistenza alle azioni militari e terroriste di Daesh. Per limitarci a un filosofo discusso in questo libro, tale posizione è stata sostenuta da Giorgio Agamben4, il quale ha postulato (qualche giorno dopo gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi e i loro 130 morti) che uno Stato non può fare nulla di fronte al terrorismo – l’efficacia dello stato d’urgenza è considerata a priori nulla –, suggerendo che sono gli stessi Stati occidentali a provocare il terrorismo per imporre il loro dominio attraverso il terrore. Una volta di più questa ipotesi è di conforto, per una coscienza di sinistra, per evitare qualsivoglia confronto con la realtà del terrorismo islamico e relegare il pericolo allo Stato occidentale. Se questa lettura ci sembra irricevibile e peraltro autocontraddittoria (Agamben sottolinea continuamente l’inanità dello Stato, ma si appella a questa nozione, alla quale non accorda alcun credito, per denunciare lo stato d’urgenza), rimane però la rilevante questione sol4 Cfr. Giorgio Agamben, De l’État de droit à l’État de sécurité, «Le Monde», 23 dicembre 2015.
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levata da Agamben in Stato di eccezione, per quanto in una modalità confusa: la banalizzazione dello stato d’eccezione, la sua indistinzione dalla norma, il fatto che ciò che si presenta come eccezione tende sempre più a imporsi poco a poco come norma. Non è forse questo che si realizza in forma spettacolarizzata con l’inscrizione dello stato d’eccezione nella Costituzione e con le gravi ambiguità mantenute in quel periodo dall’esecutivo francese? Il primo ministro ha potuto dire, quasi simultaneamente, che rifiutava categoricamente l’idea di uno stato d’urgenza permanente, pur sostenendo che sarebbe dovuto rimanere in vigore fino all’eradicazione dello “Stato islamico”. Ora, tutti i commentatori politici e militari sono concordi nell’affermare che estirpare Daesh sarà un processo di lunghissimo corso. Certo, è difficile pretendere di giudicare “dall’esterno” l’efficacia di uno stato d’eccezione di cui uno degli effetti è permettere una raccolta di dati accessibili unicamente ai servizi di polizia e di intelligence. Nondimeno, per l’opinione pubblica, il bilancio dello stato d’urgenza successivo agli attentati del novembre 2015 ha evidenziato un clamoroso scarto tra il dispiegamento poliziesco e i risultati raggiunti: 3.021 perquisizioni, 381 arresti domiciliari che hanno condotto a 25 processi per terrorismo, di cui 21 per apologia. Quattro attentati terroristici, se sono stati impediti, non è certo niente, ma non è sicuro che ciò non sarebbe avvenuto rafforzando l’intelligence, senza ricorrere allo stato d’urgenza e a procedure eccezionali. Bisogna domandarsi che cosa corrisponda nello stato d’urgenza a un’autentica necessità di sicurezza, e che cosa a una forma di comunicazione politica mirata a rassicurare e preoccupare allo stesso tempo, congelando in tal modo altre forme di contestazione: è una tendenza osservata nell’applicazione di precedenti stati d’urgenza, e che si è confermata nei primi giorni di questa negli arresti domiciliari di militanti ecologisti all’epoca della cop21. L’applicazione dello stato d’urgenza si allarga così dal suo bersaglio primario (in questo caso il terrorismo) fino a comprendere movimenti sociali e politici che non hanno nulla a che fare con quello. In generale, il clima creato dalla spirale terrorismo-antiterrorismo è quello di una trasversale regressione politica. I movimenti sociali che chiamano in causa ben altri scandali, come il saccheggio ecologico del pianeta o l’oscena concentrazione della ricchezza in poche mani, sono in gran parte ignorati,
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non ascoltati; lo stesso vale per la riflessione sulle “frontiere della democrazia”, nel senso dei progressi da compiere nelle forme effettive della democratizzazione mediante lotte per il riconoscimento da condursi anche attraverso un lavoro di memoria e giustizia sul passato coloniale. L’apertura di un nuovo ciclo di relazioni tra l’Occidente e il Medio Oriente, il Vicino Oriente e i Paesi arabi, dei quali il primo ha sostenuto e accompagnato i regimi dittatoriali come le monarchie fondamentaliste, appare più necessario che mai. Al di là della lotta al terrorismo, è senza dubbio anche questo il compito, estraneo alla concettualizzazione schmittiana, che bisogna oggi assumersi: pensare la pace. In Francia l’oscuramento degli orizzonti democratici, cosmopolitici, d’integrazione e progresso nella giustizia non si traduce solamente nel crescente successo di tesi e pulsioni xenofobe. È l’intera politica che sembra ridotta a dimensioni poliziesche, militari e securitarie. La pratica governamentale è catturata da queste misure, comprese quelle cosiddette simboliche, sebbene il loro simbolismo sia torbido: è il caso della perdita della nazionalità, in bilico tra l’applicazione ai soli cittadini dotati di doppia nazionalità – che darebbe luogo a una rottura dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge – e l’applicazione a tutti i cittadini, che creerebbe apolidi e contravverrebbe alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948. Lo stato d’urgenza reso permanente può permettere al governo di rivendicare di “fare il massimo per la sicurezza” dei cittadini, con il rischio costante di strabordare e banalizzare le violazioni dei diritti dei cittadini e degli stranieri, lasciare alle misure di sicurezza briglia sciolta rispetto al controllo giudiziario, rinunciare all’accoglienza dei rifugiati e alimentare, magari inconsapevolmente, la xenofobia latente. Non è una delle minori contraddizioni del governo Valls, e anzitutto del primo ministro, quella di dotare l’esecutivo e la polizia di poteri così ampi e così poco controllati dal potere giudiziario, appena dopo aver rimproverato gli intellettuali di non allertare a sufficienza l’opinione pubblica sul rischio di una possibile ascesa ai vertici dello Stato di un partito di estrema destra. Di fronte a questa situazione, ricompare la possibilità di un nuovo uso critico del pensiero schmittiano. Lo si è potuto vedere al meglio allorché giuristi francesi, costituzionalisti e lettori critici di Schmitt, hanno denunciato come “inetta” l’idea di costituzionalizzare lo stato
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d’eccezione per combattere il terrorismo, sottolineando il fatto che la lotta al terrorismo non poteva che essere un processo di lunghissimo respiro. Di contro, lo stato d’eccezione, per definizione o per essenza stessa, non poteva che essere una necessità solamente temporanea, limitata nel tempo, in questo senso legittima come misura d’urgenza destinata a far fronte a un attacco terrorista su larga scala come quello del 13 novembre al fine di arrestarne autori e sostenitori, ma non come principio costituzionale5, destinato a governare nel lungo periodo e a organizzare l’architettura della distribuzione dei poteri.
5 È vero che nella Costituzione compaiono già due forme di stato d’eccezione, ma l’art. 46 sullo stato d’assedio rinvia a una situazione di guerra o di guerra civile, e non è mai stato applicato; per quanto concerne il più che discutibile art. 16 sui “pieni poteri” al presidente della Repubblica, che permette l’istituzione di tribunali eccezionali, esso pone nondimeno condizioni precise («la rottura nel funzionamento delle istituzioni»), mentre lo stato d’urgenza, nella riforma proposta, farebbe riferimento a condizioni assai più vaghe ed elastiche (la “minaccia all’ordine pubblico”).
Introduzione
Terrorismo deterritorializzato, tecnicizzato e reso assoluto dalla sua dimensione teologica; stati d’eccezione in via di banalizzazione in democrazie trascinate nella spirale contro-terroristica della riduzione delle libertà, giungendo a pratiche che riducono gli individui a corpi senza diritti; sviluppo di una nuova logica della “guerra preventiva” presentata come indispensabile nella lotta contro i “nemici dell’umanità”; destabilizzazione del diritto internazionale e del diritto dei popoli; destrutturazione della vecchia articolazione del mondo che definiva un equilibrio del terrore; combinazione di un liberalismo economico esacerbato e di una crisi della rappresentanza parlamentare. Tutti questi aspetti del mondo contemporaneo sembrano conferire una stupefacente attualità alle descrizioni e alle analisi di uno dei pensatori politici più controversi del XX secolo: Carl Schmitt. Parallelamente a ciò, da ormai diversi anni sono stati ritrovati, pubblicati e tradotti alcuni documenti che mostrano l’attivo contributo di Schmitt alla legittimazione giuridica di alcune tra le più gravi decisioni del regime nazista, la violenza del suo antisemitismo durante e dopo questo periodo, la terribile portata di certe formule sull’“annientamento” del nemico. Pertanto, non è compromettente la semplice menzione positiva di un simile pensatore? L’unica mossa accettabile nei suoi confronti non consisterebbe nel cercare di smascherarlo come il semplice ideologo nazista che è visceralmente stato, o nel «mostrare che bisogna abbandonarlo alla sua ignominia»1, come 1 Yves-Charles Zarka, Carl Schmitt et la pathologie de l’autorité, editoriale di «Cités»,
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è stato scritto in apertura di una recente polemica francese sul “caso Schmitt”? Va notato che questa clamorosa negazione del minimo interesse teorico per l’opera di Schmitt si è verificata, in Francia, quando l’interesse per i suoi scritti ha conquistato il campo accademico ed è stato rilanciato da filosofi di sinistra di primo piano. Quest’ultimo fenomeno è stato più tardivo in Francia che altrove, se non si tiene conto di un uso classico da parte dei costituzionalisti (compresi quelli di sinistra), presso i quali Schmitt ha beneficiato di un riconoscimento accademico, e in alcuni ambienti cattolici. La prima opera di Schmitt tradotta in francese, Romanticismo politico, la si deve all’editore cattolico Desclée de Brouwer, nel 1928-1929, su iniziativa di Jacques Maritain2; alcuni decenni più tardi la Teologia politica è stata tradotta e curata da Jean-Louis Schlegel, membro della redazione della rivista «Esprit» il quale, nella sua Prefazione, metteva in relazione l’approccio di Schmitt con le più recenti rinascite delle teologie politiche “di sinistra” negli anni Sessanta: le “teologie della liberazione” e della rivoluzione che nelle loro versioni tedesche, in Metz o Moltmann, hanno mantenuto un rapporto dichiarato ma complesso con Carl Schmitt. Nondimeno, la diffusione e la discussione delle teorie schmittiane in Francia rimasero a lungo limitate, essenzialmente, a quella che può essere goffamente definita la “destra” (goffamente, dato che le figure qui richiamate sono assai differenti e ideologicamente ed eticamente irriducibili l’una all’altra): l’estrema destra fascista, con una serie di traduzioni di Gueydan de Roussel, ripubblicate negli anni Ottanta dall’ispiratore della Nouvelle Droite, Alain de Benoist, nella sua collana “Révolution conservatrice” per le edizioni Pardès (lo stesso autore ha recentemente raccolto una bibliografia internazionale su Schmitt); una destra autoritaria, nel commento e prosecuzione n. 6, 2001, p. 3: «Questo numero di “Cités” intende mostrare che si deve abbandonare Schmitt alla sua ignominia per volgersi a orizzonti completamente differenti che permettano di porre il problema della crisi dell’autorità nelle società contemporanee». 2 Maritain intrattenne una corrispondenza epistolare e, in seguito, un rapporto personale con Schmitt, ma in un lungo inciso del suo libro del 1936, Umanesimo integrale, esprimeva la sua visione radicalmente divergente sul senso di una “teologia politica”. Sul rapporto Maritain-Schmitt si veda Michel Fourcade, “Tue et mange!” Maritain et la sécularisation, in «Nunc», n. 7, 2005, pp. 85-95.
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dell’opera di Schmitt che si trova in Julien Freund, in particolare ne L’Essence du politique, ma anche nell’opera di filosofi liberali influenzati da Max Weber il cui pensiero si situa all’incrocio tra la filosofia e la sociologia storica, come Raymond Aron, principalmente nell’ambito delle sue riflessioni su Clausewitz, o Philippe Raynaud, nel suo studio delle questioni “weberiane” sul futuro della razionalità nel campo politico moderno e della loro contrastante posterità (da Schmitt a Habermas). La polemica è scoppiata quando è saltato il blocco di sinistra: l’occasione, o meglio la scintilla per l’accesa controversia, è stata un articolo di Étienne Balibar, apparso in un dossier della rivista «Les Temps modernes» dedicato alla questione della sovranità. Balibar fa riferimento al pensiero di Schmitt sottolineando che «appare alla fine di tutte le vie in cui si è impegnato il dibattito sui limiti nell’applicazione del concetto di sovranità»3. Evocando «i tentativi di ricostruzione di un diritto costituzionale (Beaud), le decostruzioni del “fondamento mistico dell’autorità” (Derrida), le proiezioni utopiche del “potere costituente” (Negri) o – al contrario – le attualizzazioni del “diritto cosmopolitico” (Habermas)», l’autore ritiene che «la teorizzazione schmittiana della sovranità […] appare indispensabile […] per illuminare» questi temi, nonché per comprendere a quali fonti «attingono i discorsi “sovranisti” o “nazional-repubblicani”»4. L’articolo formula così il seguente interrogativo: «Delle formule politiche schmittiane quali, tra quelle che ossessionano sia le difese sia le critiche alla sovranità dello Stato nazionale, mantenere oggi?». 3 Ètienne Balibar, Prolégomènes à la souveraineté, in «Les Temps modernes», n. 610, 2000, p. 50. 4 Ibidem. Balibar qui allude rispettivamente a Olivier Beaud, La Puissance de l’État, PUF, 1994; Jacques Derrida, Force de Loi. Le Fondement Mystique de l’autorité, Éditions Galilée, 1995; trad. it. Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità, a cura di Franceso Garritano e Angela Di Natale, Bollati Boringhieri, 2003; Antonio Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, SugarCo, 1992; Jürgen Habermas, Kants Idee des Ewigen Friedens – aus historischen Abstand von 200 Jahren, in «Kritische Justiz», vol. 28, n. 3, 1995; trad. it. L’idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo, in Id., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di Leonardo Ceppa, Feltrinelli, 2013: tutte opere nelle quali il riferimento a Schmitt è centrale, fosse anche solo a titolo di principale avversario teorico (come nel caso dell’opera di Habermas).
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Vedremo più avanti come rispondere a questa domanda in modo da prendere sul serio il pensiero di Schmitt senza, evidentemente, riconfermarne le conclusioni. Tuttavia, il semplice riferimento a Schmitt in un autore che è senza dubbio (dopo la morte del suo maestro Althusser) il più famoso filosofo marxista francese vivente, è stato giudicato un sintomo inequivocabile e denunciato come scandalo dal direttore della rivista «Cités», Yves-Charles Zarka, nell’editoriale del numero dell’aprile 2001: Zarka vi scorge il segno di un disorientamento della sinistra postmarxista, il cui anti-liberalismo e anti-imperialismo (antiamericano) cercherebbero di dipingersi con colori meno «antiquati» di quelli della retorica marxista, e che non esiterebbero ad attingere a un autore profondamente antisemita e nazista, anche al costo di trasformarlo per renderlo presentabile (Zarka parla di uno «Schmitt da confetteria»)5. È senz’altro legittimo denunciare le letture e i commenti compiacenti, talvolta fino all’accecamento, di Schmitt6, i panegirici (amnesici) della sua «costante lucidità», l’ignoranza di alcuni testi e del loro retroterra, così come è utile e necessario fornire ai lettori di lingua francese i testi più schiaccianti del suo coinvolgimento nel regime nazista. Per contro, l’attacco contro l’articolo di Balibar è parso gratuito: bisognerebbe vietarsi il semplice riferimento a Schmitt su un tema che questi ha effettivamente esplorato ampiamente, ossia la sovranità? Si deve essere così frettolosi nel concludere che l’uso dei concetti schmittiani traduce o porta con sé una confusione nel giudizio, un anti-liberalismo irresponsabile, una nuova versione della collusione fatale degli estremi? Non si può temere, viceversa, che pretendere di «abbandonare Schmitt alla sua ignominia», o vedere in ogni uso del suo pensiero o dei suoi concetti un atto di “ritinteggiamento” di “Carl Schmitt, il nazista”, rientri in una forma di divieto e di amalgama che, alla fine, non giova né alla democrazia né alla comprensione del nazismo stesso? 5 Cfr. Yves-Charles Zarka, Carl Schmitt et la pathologie de l’autorité, cit. 6 Non può che stupire la totale assenza di discernimento da parte di André Dorémus nella sua edizione di Ex Captivitate Salus (Vrin, 2002): il traduttore e commentatore francese arriva a qualificare come “coraggioso” il testo del 1934 (Der Führer schützt das Recht) con il quale Schmitt approva la “Notte dei lunghi coltelli” (e di conseguenza l’assassinio di colui presso il quale era stato consigliere, von Schleicher).
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Non v’è dubbio che il pensiero politico di Schmitt sia un pensiero critico che non può essere accolto in maniera acritica. Se, come lui stesso riteneva, ogni concetto politico ha un significato polemico, qualsiasi interpretazione del pensiero politico di Schmitt rivela un aspetto polemico e presuppone una decisione preliminare: si leggeranno i suoi testi teorici per trovarvi l’inizio, il segno, la conferma di ciò che sarebbe la “verità” di questo pensiero, vale a dire il suo conseguente impegno nel Terzo Reich? O si vedrà nei suoi momentanei collegamenti con il regime di Hitler una semplice parentesi sfortunata che si potrebbe trascurare per trarre profitto dalle analisi “scientifiche” della politica, del diritto internazionale o del liberalismo? Ci sembra che si debba respingere l’una e l’altra posizione, non cadere nella contro-verità che vorrebbe che Schmitt fosse sempre già stato nazista, ma che ci si debba costantemente interrogare su cosa, nel suo pensiero, ha reso possibile la sua adesione al regime. Nondimeno, non si deve negare al nemico, anche se “assoluto”, la capacità di pensare: questa è una regola che dovrebbe prevalere sempre. L’avversione totale che non si può non provare per il nazismo non deve indurre a pensare che tutti coloro che l’hanno sostenuto fossero intellettualmente delle nullità. Non è stato così, purtroppo, ed è uno degli elementi della storia del XX secolo che sarebbe troppo semplicistico ignorare. L’ingenuità di credere che un’ampia cultura o un’intelligenza acuta rendano immuni dal delirio politico razzista ha del resto, e curiosamente, portato menti sagge a sostenere che Schmitt non poteva essere nazista – così Raymond Aron scrive di lui nelle sue Memorie: «Uomo di alta cultura, non poteva essere un hitleriano e non lo fu mai»7. Lo fu eccome, e, curiosamente, Aron sembrava saperne abbastanza a riguardo per rifiutarsi di collaborare a un volume di “omaggio” a Schmitt propostogli da Julien Freund8. E gli ammiratori 7 Raymond Aron, Mémoires, Julliard, 2003; trad. it. Memorie. 50 anni di riflessione politica, a cura di Oreste Del Buono, Mondadori, 1984, p. 671. A tal proposito si vedano le osservazioni di Philippe Raynaud, Que faire de Carl Schmitt?, in «Le Débat», n. 131, 2004, pp. 159-167 (segnatamente pp. 162-163). 8 In una lettera a Julien Freund datata 17 aprile 1967, Aron esprimeva il suo rifiuto a collaborare a un volume in onore di Carl Schmitt: «Ho vissuto il periodo degli anni Trenta e non posso dimenticare il ruolo svolto da Carl Schmitt, volontariamente o involontariamente, consapevolmente o inconsapevolmente» (citato in Jan-Werner
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di alcuni suoi scritti dovrebbero smettere di ritenersi obbligati a mitigare la sua responsabilità o la gravità delle sue azioni, delle sue parole, dei suoi testi durante quel periodo. Ma alla tentazione di discolpare, che nasce dall’ammirazione intellettuale, risponde la tentazione inversa della squalifica totale: si ritiene così, in un certo senso, che un uomo che fu momentaneamente hitleriano non poteva essere un uomo di alta cultura, una mente acuta, un teorico in grado di individuare problemi fondamentali e intuire sviluppi decisivi. Si può evitare di riconoscere le due cose insieme: che Schmitt ha partecipato al disastro, che ha attivamente collaborato a una politica criminale, ma altresì che è un autore degno di interesse? Cercheremo qui di affrontare le due facce del suo “caso”, che rappresentano peraltro le due facce dell’attualità schmittiana: da un lato, la polemica intorno alla sua opera, rilanciata dalla pubblicazione di scritti postumi come il Glossarium, apparso nel 1991, che hanno rivelato un antisemitismo ancora virulento durante il dopoguerra e svelato un retroterra nascosto, a questo punto indispensabile per l’analisi di opere contemporanee alla sua redazione come Il nomos della terra. Ma, dall’altro lato, l’attualità post-11 settembre, che ha prodotto, senza alcuna concertazione, il sospetto facilmente verificabile che pochi scritti siano altrettanto profetici e illuminanti di fronte alla situazione presente de Il nomos della terra, della Teoria del partigiano, e dei testi storici o costituzionalistici dedicati allo stato d’eccezione (La dittatura, Teologia politica, Dottrina della Costituzione, e in maniera più circostanziata Legalità e Legittimità, da poco tradotto negli Stati Uniti, così come Teologia politica e Teoria del partigiano)9. Molti lettori occasionali di Schmitt, spesso agli antipodi delle opzioni politiche e morali del giurista tedesco, in tutto il mondo – politologi, giuristi, filosofi, specialisti di relazioni internazionali, attori di organizzazioni non governative, cittadini preoccupati –, hanno dovuMüller, A Dangerous Mind. Carl Schmitt in Post-War European Thought, Yale University Press, 2003, p. 264). 9 Carl Schmitt, Legality and Legitimacy, traduzione inglese di Jeffrey Seitzer, Duke University Press, 2004; Id., Political Theology, traduzione inglese di George Schwab, University of Chicago Press, 20062; Id., Theory of the Partisan, traduzione inglese di Alfred C. Goodson, Michigan State University, 2004.
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to constatare, come scrisse William E. Scheuerman a proposito della Teoria del partigiano, che il saggio di Schmitt è inquietantemente rilevante [disturbingly relevant] per il mondo politico e giuridico in cui ci troviamo, nel quale il governo americano ha risposto all’11 settembre collocando i presunti terroristi fuori dalla categoria della Convenzione di Ginevra di “combattenti legali” e dotando l’esecutivo di un’incredibile batteria di poteri discrezionali per determinare la loro sorte. Il saggio di Schmitt del 1963 non soltanto anticipa questo sviluppo, ma, laddove letto criticamente, adduce anche solide ragioni per contestare la sua logica profondamente problematica10.
«Inquietantemente rilevante» e «laddove letto criticamente»: è tutto qui. La pertinenza delle analisi di Schmitt è preoccupante, inquietante, ma, come nota tutta una tradizione filosofica, il disturbo, lo squilibrio, quello che Locke chiamava l’uneasiness, è senza dubbio ciò che fa pensare. Questo disturbo è in effetti dovuto al miscuglio di sensazioni che la lettura di Schmitt suscita: il lettore viene spesso colpito dalla forza e dalla capacità di anticipare le analisi, ma insoddisfatto, non solo per le opzioni reazionarie dell’autore che spesso affiorano, ma anche per i ragionamenti troppo ellittici, per i presupposti eccessivi, per la malafede camuffata dall’espressione briosa. Tutto ciò rende indispensabile una lettura critica, fuori della quale, del resto, ci si può domandare, e lo si è fatto, se le analisi schmittiane non servano piuttosto a legittimare ciò che si tratta di contestare radicalmente. Questo è forse l’ultimo e più profondo problema: Schmitt è un autore che si è tentati di usare contro le sue proprie conclusioni e valutazioni, e che vi si presta. La storia della sua ricezione ce lo mostrerà ampiamente. Il nostro scopo in questo libro non è quindi né fornire un’esegesi di Schmitt, né mettere in guardia da un autore “pericoloso”. Si tratta piuttosto di tentare di pensare ciò che è, come diceva Hegel («pensare ciò che è, ecco il compito»), e Schmitt è per noi una delle risorse 10 William E. Scheuerman, Carl Schmitt and the road to Abu Ghraib, in «Constellations», vol. 13, n. 1, 2006.
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teoriche che può essere fruttuoso mobilitare, laddove i concetti da lui elaborati sembrano illuminare di una luce particolarmente nitida gli odierni sviluppi, anche a costo di contestare radicalmente – come si farà spesso – le sue stesse conclusioni. È sorprendente constatare che alcuni degli scritti di filosofia politica che, negli ultimi tempi, sono sembrati maggiormente “in contatto” con il processo di destabilizzazione delle democrazie mediante la banalizzazione degli stati d’eccezione, talvolta giungendo a mettere in discussione alcuni aspetti dell’habeas corpus e dei diritti umani più fondamentali (con l’autorizzazione alla tortura e alla detenzione senza processo né accusa), provenivano, in parte, da autori che si sono riappropriati delle risorse critiche di pensatori politicamente opposti, come Michel Foucault o Hannah Arendt da un lato, e Carl Schmitt dall’altro. Chi, nel campo della filosofia politica europea, si è preoccupato pubblicamente e teoricamente delle rinascite dello stato d’eccezione, della nuova territorializzazione del diritto internazionale, della costituzione di spazi fuori legge, della trasgressione delle norme prodotta dalla dottrina della guerra preventiva e delle confusioni della “guerra contro il terrorismo”? Rispondere: i lettori di Schmitt e solo i lettori di Schmitt sarebbe eccessivo. Ma è vero che Giorgio Agamben, Jacques Derrida, Étienne Balibar, Jürgen Habermas in modo più critico, e altri, in particolare negli Stati Uniti, di cui si parlerà più avanti, hanno dato prova di una “sensibilità all’evento” che è paradossalmente ma direttamente collegata, sembra, al loro interesse per Schmitt e alla capacità dello stesso Schmitt di affrontare di petto fenomeni odierni poco frequentati dalla filosofia politica classica: i limiti della revisione costituzionale, le forme della dittatura, la depoliticizzazione e lo spostamento delle frontiere dell’ostilità politica, la spazializzazione del diritto, l’ascesa del combattente irregolare. Occorre sicuramente rimarcare, con più nettezza di quanto abbiano fatto gli autori citati, i limiti della critica, richiamare i presupposti schmittiani, operare insomma una riformulazione esplicita delle condizioni alle quali tali prestiti possono essere al tempo stesso pertinenti e privi di ambiguità. Ma una volta compiuto questo lavoro di distinzione tra i punti in cui la critica coglie una dimensione delle “cose stesse”, dei processi che si svolgono sotto i nostri occhi, e i punti in cui si reintroduce una certa confusione etico-politica, occorre chiedersi se
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l’urgenza politica non sia oggi quella di individuare, analizzare e combattere, con i mezzi a nostra disposizione, l’instaurazione di un “diritto internazionale dell’eccezione”. E, forse, i lettori di Schmitt sono stati particolarmente sensibili alla gravità degli effetti a cascata degli emergency powers e della preemptive war non malgrado Schmitt e la sua inclinazione verso il nazismo, ma proprio in ragione di questo legame tra la teorizzazione dello stato di eccezione e la situazione in cui si è verificata, che ha condotto al peggiore regime politico che l’Occidente moderno abbia conosciuto. Anche al di là di questa ipotesi, sulla quale ritornerò, sembra semplicemente vano pretendere che il pensiero di Schmitt non contenga nulla che possa interessarci oggi. Ne fornisco tre ragioni, che vengono sviluppate nel prosieguo del libro: 1) Schmitt ha sviluppato una storia e una teoria dello stato d’eccezione, concetto giuridico-politico che ha esaminato tanto nell’ambito della teologia politica quanto nella prospettiva di un approccio al fenomeno della dittatura. Orbene, oggi è questione importante sapere in che misura la “situazione eccezionale” creata da atti terroristici e minacce di inedita portata debba dar luogo a trasformazioni legislative e rischi di comportare, o già comporti, la restrizione o la sospensione di alcuni diritti costituzionali, la parziale emancipazione dei dispositivi di sicurezza o di antiterrorismo da controlli e limiti giuridici. In breve, il contesto post-11 settembre 2001 è caratterizzato dalla tentazione di un’instaurazione “antiterroristica” di varie forme di stato d’eccezione. Il riferimento a Schmitt in scritti considerati spesso di estrema sinistra opera sovente attraverso questo canale; ma, viceversa, ci si interroga anche negli Stati Uniti sulla possibile ispirazione “schmittiana” delle legittimazioni dello stato d’eccezione e dei poteri eccezionali del presidente. 2) Carl Schmitt ha posto al centro del suo pensiero politico la questione dell’ostilità, delle sue modalità religiose e politiche, dalla guerra civile confessionale fino alla ripresa “umanitaria” dell’idea di “guerra giusta” con un obiettivo pacifista; facendo del nemico la figura assiale e insuperabile del politico, egli attaccava esplicitamente l’ottimismo liberale o comunista e le loro speranze in un’umanità riconciliata e postpolitica. Bisogna sperare ardentemente che si sbagliasse, ma, dopo la caduta del comunismo e già prima dell’11
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settembre, la produzione ideologica dei paradigmi internazionali più influenti degli ultimi anni ha conosciuto, su questo tema, un brutale ribaltamento: dall’annuncio entusiasta secondo cui la democrazia liberale non aveva più seri nemici (Francis Fukuyama) all’idea di una ancor più grande ostilità lungo le linee tratteggiate di incontro e frattura tra civiltà (Samuel P. Huntington). Si può, si deve mettere anche in discussione questa tesi dello choc, ma è ancor più importante costruire un’analisi lucida delle forme dell’ostilità e delle nuove linee di politicizzazione teologico-politica cui essere ricorrono. Può aiutarci Schmitt? Sbaglieremmo ad astenerci da questo esame. 3) Carl Schmitt ha ricostruito, in modo tanto netto quanto contestabile, la storia del diritto internazionale classico come Jus gentium Europaeum, ossia la costituzione di un diritto delle genti regolato dalle relazioni tra Stati europei i quali riconoscono reciprocamente la loro sovranità, nonché le trasformazioni della nozione di “guerra giusta” e la sua rinascita come “guerra per il diritto” o come “guerra per l’umanità”. Nella sua Teoria del partigiano ha inoltre osservato l’ascesa e la legalizzazione dello statuto del “combattente irregolare” e del “partigiano motorizzato” di una rivoluzione mondiale. Oggi una nuova figura di terrorismo deterritorializzato e una forma di smantellamento dello statuto di “combattente irregolare” destabilizzano le categorie fondamentali del diritto di guerra. Anche in questo caso è importante vedere che cosa queste analisi ci aiutano a pensare, ma anche mostrare lo sfondo oscuro dell’argomentazione schmittiana e individuare il punto in cui questa è insostenibile, tanto storicamente quanto politicamente ed eticamente. Ma è altresì importante riflettere su questa nuova situazione che porta alla comparsa, all’interno di Stati pur detti democratici, di prigioni segrete, di prigionieri senza accuse, di processi senza difesa e infine di quella che è stata definita la «delocalizzazione della tortura»11 come folle risposta al nuovo “terrorismo deterritorializzato”. 11 L’espressione è stata utilizzata per la prima volta nel febbraio 2005 dal giornale «The New Yorker»: outsourcing torture (che si potrebbe tradurre anche con ‘esportazione della tortura all’estero’), riferendosi alla pratica della extraordinary rendition, secondo la terminologia della cia: sospetti terroristi consegnati dalla cia a governi stranieri che praticano la tortura.
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In ogni caso, si cercherà di discutere la pertinenza delle analisi e dei concetti di Schmitt essenzialmente a partire da tre opere chiave che attraversano il XX secolo: La dittatura (1921), Il nomos della terra (1950), Teoria del partigiano (1963). Si richiameranno anche i suoi molteplici “effetti”, le sue letture paradossali, fino alle sue più recenti “attualizzazioni critiche” da parte di Giorgio Agamben, Étienne Balibar, Jacques Derrida, Antonio Negri, e dei lettori americani di Schmitt. Noi stessi tenteremo una tale attualizzazione, ma sforzandoci di evidenziare le ambiguità e le semplificazioni su cui sovente si basano le “dimostrazioni” schmittiane, e che si ritrovano talvolta nel loro recupero “a sinistra”. Bisogna riconoscere la capacità di queste analisi di renderci sensibili rispetto a certi pericoli, ma di farlo in un modo quasi sempre ambiguo. Ma scopriamo subito le carte. Se qui, nella discussione filosofica, privilegio per tropismo politico le letture di “sinistra” di Schmitt, il mio approccio è, sotto tutti gli aspetti, nei suoi princìpi fondamentali, quello di un “nemico” di Schmitt: un nemico la cui preoccupazione cosmopolitica consiste anzitutto nell’individuare i rischi – e i fatti – reali di regressione al di sotto delle forme dello Stato di diritto e delle norme fondamentali della democrazia liberale, una regressione avallata dalle nuove legittimazioni dell’eccezione, della guerra preventiva e degli statuti straordinari per i “combattenti nemici”.
1. È possibile un uso critico dei concetti schmittiani?
La recente controversia francese intorno a Schmitt nasce dall’incrocio tra una conoscenza arricchita dall’approfondimento sull’antisemitismo e sull’impegno nazista di Schmitt1 e la tarda moltiplicazione di traduzioni delle sue opere in francese, l’aumento dei commenti e un uso sempre più massiccio dei concetti, e più in generale del suo pensiero, che ha lasciato la sua impronta in filosofi o politologi posizionati a sinistra o all’estrema sinistra, in Francia e in Italia. Come spesso accade, la polemica scoppia in Francia con quasi vent’anni di ritardo rispetto a Germania, Italia o Stati Uniti2. Tali dif1 In parte come effetto della pubblicazione postuma dei diari di Schmitt, in particolare il Glossarium, nel 1991. 2 Si veda l’articolo di Volker Neumann, Carl Schmitt und die Linke, in «Die Zeit», n. 28, 8 luglio 1983. L’inizio della “Carl Schmitt Renaissance” in Italia risale alla traduzione curata da Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera di Der Begriff des Politischen e altri testi sotto il titolo “Le categorie del politico” (il Mulino, 1972). All’epoca, la riflessione sull’essenza del politico incontrava l’interesse di giovani marxisti italiani che vi cercavano un rimedio all’insufficiente teorizzazione, da parte di Marx, dello statuto del politico e del peso del potere statale. Citiamo tra i marxisti schmittiani Mario Tronti, la cui opera Sull’autonomia del politico (Feltrinelli, 1977) contiene un saggio su Schmitt, o Massimo Cacciari, futuro sindaco di Venezia, che ne «il manifesto», nel 1978, traccia gli “itinerari dell’operaismo” attraverso uno spostamento dall’esigenza dell’autonomia di classe (operaia) all’idea di un’autonomia del politico (Dall’autonomia della classe all’autonomia del politico. Itinerari dell’operaismo, «il manifesto», 30 maggio 1978). Oltre agli scritti di Negri e Agamben, sui quali ritorneremo più avanti, l’interesse per Schmitt di una corrente del marxismo italiano si è anche tradotta in una serie di colloqui organizzati dalla sezione locale dell’Istituto Gramsci (si veda soprattutto
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ferenze possono dipendere da alcuni documenti apparsi in un secondo momento, che rendono impossibili certe “difese” di Schmitt (in particolare la minimizzazione del suo antisemitismo). Ma il modo in cui si è innescata spesso si trasforma in un processo alle intenzioni: reputare Schmitt un “grande autore” o un “classico” della teoria politica, o addirittura pubblicarlo e commentarlo non come un ideologo affascinato dal nazismo, sarebbe un modo scandaloso di “riabilitare” un “nazista”, i cui testi dovrebbero essere esclusi dalle “raccolte filosofiche” e figurare soltanto tra i “documenti” nazisti3. Una controversia più scandalosa e profonda è in gioco, magari in forma latente, nell’odierno e fondamentalmente ambivalente utilizzo di concetti schmittiani, applicati a una realtà essa stessa ambivalente, ossia: i pericoli del terrorismo teologico deterritorializzato e quelli della “guerra contro il terrorismo”, i quali dispiegano uno stato d’eccezione sia sul piano interno americano sia su quello internazionale. Il fatto che Schmitt sia utilizzato per denunciare pratiche che è talvolta accusato allo stesso tempo di legittimare non è l’ultimo paradosso Giuseppe Duso (a cura di), La politica oltre lo Stato. Carl Schmitt, Arsenale Cooperativa, 1981). Il carattere paradossale della saldatura tra un’estrema sinistra intenta a teorizzare “la classe operaia contro lo Stato” e l’autore della Teologia politica fu assai presto rilevata come un enigma (se non una “anomalia selvaggia”), come testimonia l’articolo pubblicato dal quotidiano del Partito comunista italiano il 24 aprile 1985 alla morte di Schmitt: Perché la sinistra si è innamorata di lui?. Sulla ricezione italiana di Schmitt si veda Ilse Staff, Staatsdenken im Italien des 20. Jahrhunderts. Ein Beitrag zur Carl Schmitt-Rezeption, Nomos Verlagsgesellschaft, 1991. Si veda anche Giuseppe Duso, Pourquoi Carl Schmitt?, in «Le Débat», n. 131, 2004, pp. 138-146. La controversia americana può essere fatta risalire all’articolo di Ellen Kennedy, Carl Schmitt and the Frankfurt School, apparso nel 1987 sul numero 71 della rivista di sinistra «Telos», il quale s’interrogava sulla prossimità metodologica e teorica, malgrado lo scarto politico, di Schmitt e dei rappresentati della “teoria critica”: Franz Neumann, Otto Kirchheimer, Herbert Marcuse, György Lukács. Quest’articolò suscitò aspre reazioni in alcuni rappresentanti americani della teoria critica. La stessa rivista «Telos» dedicò in seguito un intero numero al tema Carl Schmitt: Enemy or Foe? («Telos», n. 72, 1987). Nell’editoriale, Gary Ulmen e Paul Piccone ritenevano che non vi fosse «ragione perché la sinistra si rifiuti di imparare dai suoi avversari» (p. 3), e sostenevano che alcune analisi di Schmitt «gettano una necessaria luce su questioni centrali per la cosiddetta crisi della sinistra» (ibidem). 3 Yves-Charles Zarka, Carl Schmitt, nazi philosophe?, «Le Monde», 6 dicembre 2002, p. VIII del supplemento letterario.
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della sua ricezione in un quadro rinnovato. In realtà, questa tensione prosegue una lunga storia di usi antitetici di Schmitt, sin da quando l’autore era ancora in vita. È anzitutto questo che vorremmo ricordare. Per fare ciò, dobbiamo rievocare alcuni paradossi dell’opera e della sua ricezione, percorrendola interamente e ritornando sui punti salienti, e talvolta ancora discussi, del pensiero politico che vi si esprime e delle opzioni che esso, “situandosi”, ha percorso. Gli usi opposti di Schmitt: una lunga storia Le letture marxiste di Schmitt potrebbero essere oggetto di uno studio a parte, al quale quanto segue tenta solamente di apportare qualche elemento. Bisognerebbe infatti analizzare come, nello stesso Schmitt, il riferimento a Marx svolga un importante ruolo metodologico, politico e polemico fin dai principali scritti degli anni Venti: temi marxiani vengono ripresi e completamente rifondati, deformati, come l’idea di una determinazione strutturale (delle infrastrutture sulle sovrastrutture) che in Teologia politica si riduce all’idea di una “corrispondenza di strutture” tra teologia e diritto. Politicamente, la critica delle monarchie costituzionali del XIX secolo, dello Stato di diritto borghese come risultato di un compromesso di classe e di un doppio rifiuto (né popolo né aristocrazia), riprende più direttamente l’asse della critica marxiana ai compromessi della borghesia del XIX secolo come classe possidente e discutidora: da un lato, questa assicura innanzitutto il “libero” accesso alla proprietà privata, e in seguito le libertà di discutere e votare, contro i privilegi aristocratici e il tradizionalismo cattolico; dall’altro, limita il loro esercizio in modo da escluderne tendenzialmente il popolo e contenere così il “radicalismo rivoluzionario”. Scrive Schmitt: La borghesia liberale vuole un Dio, che però non deve poter divenire attivo; essa vuole un monarca, che però deve essere privo di potere, essa pretende libertà e uguaglianza, e tuttavia anche la limitazione del diritto di voto alle classi possidenti […]; essa non vuole né la sovranità del re né quella del popolo4. 4 Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souveranität, Duncker
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Certo, Schmitt attacca questi compromessi, nonché una certa maniera d’innalzare il compromesso a principio politico, basandosi anzitutto sulla tradizione controrivoluzionaria. Teologia politica sfrutta le analogie tra teologia e diritto per mandare in rovina le “mezze misure” della monarchia costituzionale o del liberalismo borghese del XIX secolo (il Re “che regna ma non governa” è tanto inconsistente quanto il Dio del deismo dell’Illuminismo, che non interviene in alcun modo nel corso dell’Universo una volta creato), e non nella prospettiva rivoluzionaria di un rovesciamento della borghesia a vantaggio della classe sfruttata, il proletariato. D’altronde, non è meno vero che una certa comunanza di vedute tra queste due critiche è osservabile proprio nella critica che esse operano delle “contraddizioni” del discorso e dell’ordine borghese, dei suoi tentativi di depoliticizzazione o di “de-radicalizzazione” della sfera pubblica, di neutralizzazione dei conflitti sociali e politici, a cui i critici reazionari e rivoluzionari oppongono l’esigenza di una decisione e di un confronto aperti. Questa convergenza critica si verifica nei testi di Schmitt: i riferimenti a Marx sono numerosi in Teologia politica come in Il concetto di “politico”, e il loro tono spesso elogiativo li rendono passaggi che Schmitt dovrà “rivedere”, sopprimere o minimizzare durante il periodo nazista5. Il tema centrale delle opere del 1921-1922, La dittatura e Teologia politica, ha in sé una dimensione “rivoluzionaria” in dialogo con Marx: è il richiamo al fatto che ogni ordine, benché tenda a presentarsi come eterno, fondato su una tradizione antichissima, sulla Natura o, dal XVII-XVIII secolo, sulla Ragione, poggia fondamentalmente su una decisione, che esso occulta. Il capovolgimento del punto di vista, che vuole che il diritto si “riveli”, nella sua essenza dipendente da una decisione politica, non nell’ordine che mantiene, sì nel momento in & Humblot, 1934 (ed. or. 1922); trad. it. Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del “ politico”, cit., p. 80. 5 Nel 1935 Karl Löwith (con lo pseudonimo di Hugo Fiala) aveva osservato che Schmitt, mettendosi per così dire in riga da solo, aveva soppresso dalla riedizione del 1933 di Der Begriff des Politischen un passaggio elogiativo su Marx, Lenin e sul marxista, per di più ebreo, György Lukács («Questa attualità di Hegel è particolarmente viva in Georg Lukács». Carl Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., pp. 147-148). Si veda Karl Löwith, Der okkasionelle Dezisionismus, Verlag J.B. Metzler, 1984 (ed. or. 1935); trad. it. Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt, in Id., Marx, Weber, Schmitt, a cura di Ettore Brissa, Anna Giavotto Künkler e Anna Maria Pozzan, Laterza, 1994, p. 151.
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cui si sospende o si fonda, ossia il rovesciamento del primato della regola con la “priorità” ontologica dell’eccezione, è sicuramente l’aspetto che non ha mai smesso di affascinare i lettori marxisti di Schmitt. Questo perché in tal modo diventa possibile una lettura “rovesciata” dello Schmitt contro-rivoluzionario, vale a dire quella che troverà nello stato di eccezione non l’affermazione suprema del potere sovrano, bensì l’abissale momento dell’auto-costituzione del popolo, che ogni forma di “sovranità” cercherebbe di occludere il prima possibile in quanto espressione maggiormente “selvaggia” della democrazia. Questo tentativo di far giocare Schmitt nell’orizzonte di una democrazia radicale è stato intrapreso da Antonio Negri. Collegando il diritto alla sua fonte non giuridica (la decisione sovrana sulla “situazione normale”), Schmitt mirava soprattutto a mettere in luce l’incompletezza del razionalismo costituzionale, la sua rinnegata dipendenza nei confronti di una teologia della “decisione” che crea o sospende il sistema delle leggi. Negri riprende il tema, ma nella sua dimensione di apertura e di auto-posizione del popolo della propria istituzione politica, trovando in Schmitt la «percezione di una inesausta radicalità espressiva […] che promana dalla fonte costitutiva e che si puntualizza nell’esigenza della decisione»6. Negri aggiunge: «Si tratta di sottolineare qui che l’azione del sospendere, lungi dal poter essere definita in termini negativi, fonda ed inerisce alla possibilità del positivo»7. Vedremo più avanti a quali difficoltà si espone l’apertura di Negri nei confronti di questa radicalità espressiva che rifiuta di “congelarsi” in potere costituito. Tornando alle affinità originarie della teorizzazione schmittiana della politica con la valorizzazione marxiana della lotta, un altro punto è particolarmente evidente. Nella critica della visione liberale della politica, l’affermazione centrale di Il concetto di “politico” per cui sarebbe oggi impossibile definire la politica a partire dallo Stato, dal momento che movimenti di massa certamente “politici” (come il movimento comunista) contestano per l’appunto lo Stato (borghese) e promuovono non solo il suo rovesciamento ma la sua estinzione, è inseparabile dal fatto che Schmitt tiene in conto la trasformazione 6 Antonio Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, cit., p. 29. 7 Ivi, pp. 29-30.
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della nozione stessa di politica operata dal marxismo e il suo porre un nuovo “nemico”, ossia il nemico di classe. Ma la stessa centralità che la lettura schmittiana di Marx accordava al tema del nemico rivestiva, in Schmitt, un aspetto polemico e “demistificatore” contro il marxismo. Contrariamente alle sue pretese, Schmitt sostiene infatti che il marxismo non trae la propria forza dal suo carattere “scientifico” e dalla sua pretesa «scienza materialistica della Storia» – «la scientificità del marxismo è metafisica» sostiene Schmitt in un testo del 1923 sulla condizione del parlamentarismo8 dell’epoca –, così come i movimenti comunisti non traggono le loro capacità di mobilitazione dal semplice adeguamento al «movimento reale delle cose» (per citare una significativa espressione del Manifesto del Partito Comunista). Questa capacità di mobilitazione dipenderebbe piuttosto dalla chiara designazione e costruzione di un antagonismo che “chiarisce i fronti”, dalla molla polemica di una filosofia della storia e di un pensiero politico che hanno saputo individuare un nemico in quello che nel XVIII secolo era riuscito a emergere come il “terreno neutro” per eccellenza, il dominio pacifico della non-politica, il “dolce commercio”: l’economia. Non che il risentimento antiborghese fosse un’innovazione del marxismo, ma l’innovazione derivava dalla capacità di articolare questa ostilità sia sul piano concreto di un’analisi delle strutture economiche che gli forniva ragioni oggettive, sia sul piano di una dialettica storica che ne faceva il principio di una dinamica e di un rovesciamento futuri: dalla disumanità dello sfruttamento all’umanità dell’emancipazione. Nota Schmitt: Il contributo di Marx consistette nel fatto che egli sollevò il borghese dalla sfera del risentimento aristocratico e letterario ad un ruolo di storia universale, che doveva essere, non in senso morale, ma in senso hegeliano, l’assoluto non umano, allo scopo di produrre, in immediata necessità, il bene e l’assolutamente umano come la sua antitesi. […] Il conflitto di classe dovrà necessariamente diventare l’antitesi assoluta9. 8 Carl Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, Duncker & Humblot, 1923; trad. it. La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, a cura di Giuliana Stella, Giappichelli, 2004, p. 75. 9 Ivi, pp. 85-86.
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L’elogio del marxismo, in Schmitt, è dunque sempre a doppio taglio: esso omaggia la capacità di aver costruito una linea di ostilità nuova a partire dal campo economico, ma – seguendo in questo Max Weber e molti altri – mette in luce l’illusione del marxismo su di sé; dal momento che si pretende “scientifico”, si nasconde il dovere la propria forza al suo carattere essenzialmente polemico (compreso il suo carattere antiteologico, la sua attiva negazione del peccato originale a vantaggio di un programma di emancipazione umana totale). Questa interpretazione del marxismo si ispira a un pensatore che si è posto, come è noto, nel punto critico tra l’estrema sinistra rivoluzionaria e il fascismo della mobilitazione delle masse mediante il ricorso a “teorie irrazionalistiche”, vale a dire Georges Sorel, di cui Schmitt lamenta ancora nel 1926, nella seconda edizione di La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, che sia «ancora assai poco noto in Germania»10, e che ritiene essere la «chiave di ogni pensiero politico oggi». L’elogio dell’autore delle Riflessioni sulla violenza, unito all’idea che «l’energia dell’elemento nazionale è più grande di quella del mito della lotta di classa»11, sfocia logicamente nei pressi del fascismo; pertanto, Mussolini è citato da Schmitt come colui che, come Machiavelli nel XVI secolo, ha espresso il principio della nuova realtà politica, in questo caso la superiore capacità di mobilitare del mito nazionalista rispetto a quello socialista12. La critica dell’“immagine di sé” del marxismo, che ne sminuisce la dimensione “scientifica” a vantaggio della sua dimensione polemica e “partigiana”, e la sua critica politica, che giudica la sua capacità di mobilitazione inferiore a quella del mito nazionale dal quale attingerebbe talvolta a sua insaputa le proprie forze (in particolare in Russia)13, non impediscono tuttavia a Schmitt di far propria la distinzione e persino l’opposizione, vista all’opera nei bolscevichi (come nei fascisti), tra liberalismo e democrazia. Questo è per intero l’oggetto dello scritto del 1923 sul parlamentarismo. Ritorneremo sulle indiscutibili e temibili conseguenze politiche della dissociazione tra liberalismo e democrazia. La sua combinazione 10 Ivi, p. 93, nota 2. 11 Ivi, p. 104. 12 Ivi, p. 105. 13 Ivi, pp. 103-104.
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con un’interpretazione già razzista dell’omogeneità necessaria all’unità democratica14 induce Schmitt a sostenere che una democrazia […] può escludere una parte della popolazione dominata dallo Stato senza cessare di essere democrazia, e, persino, che finora in generale sempre sono appartenuti ad una democrazia anche degli schiavi o degli uomini, i quali, in una qualche forma, in tutto o in parte, sono stati privati dei diritti15.
Schmitt cita sia la democrazia schiavista ateniese sia le democrazie inglese e francese del suo tempo, che mantengono immense popolazioni colonizzate in uno stato di parziale privazione dei diritti. Laddove ci si aspetterebbe una critica di questa contraddizione tra democrazia e universalizzazione dei diritti, Schmitt sostiene invece che «la forza politica di una democrazia si manifesta nella sua capacità di allontanare o tenere lontano lo straniero», e che «l’uguaglianza di tutti gli uomini in quanto uomini non è democrazia, ma un determinato tipo di liberalismo»16. In Schmitt troviamo una difesa e un chiarimento di un concetto xenofobo e antiuniversalista di democrazia, che ritorna a 14 Ivi, p. 11. Le considerazioni sull’«annientamento dell’eterogeneo», sul diritto dei turchi a evacuare radicalmente i greci o sulla drastica legislazione dell’Australia in materia d’immigrazione indesiderata ricordano quello che alcuni politologi francesi hanno definito “razzialismo” (racialisme), vale a dire l’invocazione o la considerazione dell’origine etnica al fine di decidere del diritto di una categoria di stranieri d’installarsi in un Paese e/o di rimanerci, di assumerne la nazionalità o conservare la precedente, e così via. Si veda per esempio Patrick Weil, Qu’est-ce qu’un Français? Histoire de la nationalité française depuis la Révolution, Grasset, 2002. Così definita, questa categoria è interessante perché maggiormente estesa di quella di “razzismo”, la quale implica una teoria pseudo-scientifica specificamente moderna di gerarchia razziale. L’esclusione di tale o talaltro gruppo di stranieri può basarsi su altri “motivi” rispetto alla convinzione di una ineguaglianza tra le razze: su credenze e pregiudizi ancestrali, sul richiamo alla loro religione, al loro modo di vivere o ai loro costumi, sui loro legami con i Paesi d’origine nel caso di un conflitto tra questi e i Paesi d’accoglienza, e così via. Esistono altri usi del termine; per esempio, Pierre-André Taguieff distingue il razzialismo dal razzismo per il suo carattere di teoria volta all’esplicazione del mondo storico, ma non è su questa definizione che facciamo affidamento qui. 15 Carl Schmitt, La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, cit., pp. 12-13. 16 Ivi, p. 17.
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espellere dall’idea moderna di democrazia gli elementi universalisti depositati in un’etica cristiana secolarizzata, nelle tradizioni del diritto naturale e nell’umanesimo dei Lumi. Questa dimensione non è evidentemente ripresa dai lettori marxisti internazionalisti di Schmitt. Tuttavia, vi è un pendant “di sinistra” alla smania di esclusione e legittimazione della violenza contenute nella disarticolazione di liberalismo e democrazia: il rifiuto dell’universalità dei diritti dell’uomo lavora qui in nome della legittima violenza della classe operaia, e il superamento della democrazia liberale parlamentare a favore di una democrazia popolare posta come orizzonte della dittatura del proletariato. Ma questi elementi non sono più promossi oggi, tranne da coloro che non vogliono imparare nulla dal fallimento delle esperienze comuniste del XX secolo. Rimane il fatto che la questione dello statuto del nemico nei regimi totalitari, delle somiglianze e differenze del suo statuto nel regime nazista e in quello comunista (il nemico “di razza” e il nemico “di classe”), è tra quelle che hanno diviso i teorici critici del totalitarismo (Arendt, Aron, Gurian, ecc., tutti precoci lettori di Schmitt) e che continuano a dividere gli storici del XX secolo. Una cosa è certa: una certa massimizzazione dell’ostilità, che ha aperto la possibilità dei crimini di massa contro i “nemici del popolo” e in particolare contro i “nemici interni”, è stata la contropartita “logica”, sia nel comunismo bolscevico sia nel nazismo, della distruzione teorica del liberalismo e dell’universalismo cosiddetto “astratto” dei diritti dell’uomo. Il simultaneo omaggio di Schmitt a Mussolini e a Trockij mette bene in luce che si è giocato qualcosa di comune nell’opposizione al «razionalismo relativo alla separazione dei poteri» e alla «fede nella discussione», a cui una «nuova teoria» preferiva l’«uso della violenza» e l’«azione diretta»: Scrive Schmitt: «Come nota giustamente Trockij contro il democratico Kautsky: nella coscienza delle relatività non si trova il coraggio di usare la violenza e di spargere sangue»17. Di fronte a questa convergenza, occorre allora passare a un certo livello di formalità per ritrovare qualcosa di comune al marxismo e a Schmitt, ma di potenzialmente fecondo, in un certo gesto teorico: non più la separazione di democrazia e liberalismo, ma la dissociazione del 17 Ivi, p. 89.
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politico dallo Stato (e dallo statale), parallela alla volontà di storicizzare, dissociare e riconfigurare i concetti associati dalla filosofia politica moderna allo Stato-nazione: il politico, lo statale, il nazionale, ecc. Étienne Balibar lo rileva in questi termini: «L’equivalenza tra costituzione nazionale e sovranità popolare ha avuto come condizione una posizione storica determinata, transitoria, nel “centro” dominante di un sistema-mondo imperialista». Questa formulazione ricava esplicitamente i suoi termini da «una tradizione marxista che va da Lenin e Rosa Luxemburg a Immanuel Wallerstein»18, ma Balibar trova anche in Schmitt un simile richiamo alle condizioni spaziali ed egemoniche della costruzione degli Stati-nazione europei, con la sua nozione di Nomos e la sua ricostituzione delle condizioni “esterne” alla formazione dello Stato moderno a partire da una situazione di dominio europeo del mondo. Uno dei temi degli scritti di Schmitt sul diritto internazionale, che trovano un compimento teorico ne Il nomos della terra, è infatti il carattere eurocentrico del diritto che non si dice ancora, alla sua nascita, “internazionale”, ma che si qualifica come Jus gentium Europaeum, ‘diritto dei popoli d’Europa’, nella misura in cui tali norme emanate da e per gli Stati europei definiscono il comportamento che questi ultimi riconoscono di dover seguire nei confronti degli eserciti, dei prigionieri e delle popolazioni civili degli altri Stati europei cristiani. Una gradazione di regole definisce poi ciò che è auspicabile osservare al di fuori del “centro”, ma questo proto-“diritto internazionale” moderno non ritiene affatto che le stesse regole debbano valere per il “centro” europeo del mondo e per le sue “periferie”, spazi da conquistare o sottomettere, luoghi di competizione selvaggia tra le potenze. La ricostruzione di Schmitt tende addirittura a suggerire che la “civiltà” osservata al “centro” abbia avuto non solo come rovescio, ma come condizione l’esistenza di uno spazio beyond the line nel quale dare sfogo a una lotta senza freni. Nondimeno, bisognerebbe aggiungere – Balibar non lo fa, ma non v’è dubbio che lo ritenga evidente –, che le conclusioni di questo richiamo in Schmitt e nei marxisti internazionalisti sono agli antipodi: per Schmitt non si trattava di mettere in discussione l’egemonia europea sul mondo (e al suo interno la potenza “tellurica” tedesca 18 Étienne Balibar, Prolégomènes à la souveraineté, cit., p. 74.
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contro l’impero “marittimo” inglese), quanto piuttosto di pensare le condizioni della sua perpetuazione, minacciata dalla diffusione degli ideali democratici di autodeterminazione tra le file dei popoli colonizzati o dominati, dalla potenza deterritorializzata del mercato, e infine dall’avvento di una specie di super-egemonia che squilibrava il rapporto tra potenze telluriche e potenze marittime, ossia la superpotenza liberal-democratica, imperial-marittima, americana. Lo stato d’eccezione a partire dalla «tradizione degli oppressi»: il rovesciamento di Walter Benjamin Il precoce interesse degli intellettuali marxisti per Schmitt è quindi anche un effetto di ritorno, basato su un gioco di echi – a volte inquietante, a volte fuorviante, ma a volte interessante – e su alcune somiglianze morfologiche tra i discorsi. Se il suo interesse per le corrispondenze sociologiche tra strutture, così come per le contraddizioni che minano i sistemi giuridici liberali, lo pone in una certa vicinanza con il marxismo, l’attrazione esercitata dal pensiero di Schmitt su marxisti eterodossi dipende forse anche dal suo fissarsi su dottrine classiche che qualsiasi pensiero moderno della rivoluzione incontra, allo stesso tempo come un anacronismo e una sfida, sul proprio cammino: la sovranità, la dittatura, l’eccezione, la decisione, ecc. Il caso di Walter Benjamin è il più noto e sorprendente. L’interesse di Benjamin per Schmitt si espresse inizialmente in uno scritto di estetica, Il dramma barocco tedesco, composto nel 1925. Nella sua ricostruzione della forma barocca del Trauerspiel, Benjamin studia la teoria della sovranità e rileva che il concetto barocco di sovranità «si sviluppa a partire da una discussione sullo stato di eccezione»19; fa dunque riferimento a più riprese alla Teologia politica, analizzando gli effetti estetici di questa teologia politica barocca: «Un meccanismo che accumula ed esalta i frutti della terra prima di consegnarli alla morte»20. 19 Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Suhrkamp, 1963 (ed. or. 1925); trad. it. Il dramma barocco tedesco, a cura di Flavio Cuniberto, Einaudi, 1999, p. 40. 20 Ivi, p. 53.
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Ma l’appropriazione da parte di Benjamin di temi schmittiani supera ciò che egli stesso rivela nella lettera inviata, insieme al suo libro, nel dicembre 1930 all’autore di Teologia politica, dove sottolinea il debito della sua presentazione della teoria della sovranità nel XVIII secolo con i metodi utilizzati in La dittatura21. Il gesto più importante compiuto da Benjamin, che mostra l’attualità dell’uso critico di Schmitt, non è infatti tanto nell’interesse per i metodi, quanto nel rovesciamento del tema dello stato d’eccezione espresso dall’VIII tesi sul concetto di Storia: La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo arrivare a un concetto di Storia che corrisponda a questa situazione. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo22.
Il rovesciamento è triplice: lo stato d’eccezione è posto come regola (primo rovesciamento: la distinzione tra la regola e l’eccezione non era contestata da Schmitt, anche se l’eccezione si trovava dotata del potere di rilevare l’essenza del diritto) dal punto di vista degli oppressi (secondo rovesciamento: Benjamin, come dice Taubes, pensa “dal basso”, laddove Schmitt pensa “dall’alto”, dal punto di vista dei poteri). A questo stato d’eccezione negato, a questa quotidianità della violenza mascherata dal diritto che sarebbe lo stato d’eccezione permanente del capitalismo, deve corrispondere un «vero» stato d’eccezione, quello che rimarrebbe da instaurare attraverso un processo rivoluzionario. Ora, agli occhi di Benjamin questa prospettiva è (l’unica?) in grado, allo stesso tempo, di consolidare la posizione dei comunisti «nella lotta contro il fascismo» e avocare a sé il fascino dell’eccezione, distogliendola (e con lei lo stesso Schmitt?) dalla prospettiva 21 Cfr. Jacob Taubes, Carl Schmitt – ein Apokalyptiker der Gegenrevolution, in Id., Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fügung, Merve Verlag, 1987; trad. it. Carl Schmitt. Un apocalittico della controrivoluzione, in Id., In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di Elettra Stimilli, Quodlibet, 1996, pp. 36-39. 22 Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Gesammelte Schriften, I, 2, Suhrkamp, 2000; trad. it. Tesi di filosofía della storia, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, 2010, p. 79.
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della restaurazione militare di un ordine. Naturalmente, questo è il capovolgimento finale: lo stato d’eccezione diventa, deve diventare il bersaglio di una politica antifascista. In questo modo, forse, dopo che Marx è stato rovesciato da Schmitt nella sua ricerca del punto di squilibrio nascosto dell’ordine liberale parlamentare, viene “ritrovato” da un nuovo rovesciamento che rimette l’analisi dello stato d’eccezione con i piedi per terra. Questo rovesciamento, come si vedrà, è decisivo per tutti gli interpreti contemporanei di sinistra di Schmitt, che insieme a lui interrogano la figura dello stato d’eccezione, ma in una prospettiva critica che si schiera senza riserve dalla parte degli oppressi e in lotta contro una potenziale fascistizzazione. Ma bisognerà chiedersi se il rovesciamento che vuole che viviamo in uno stato d’eccezione permanente conservi un senso laddove si cessi di aderire all’orizzonte di una dittatura del proletariato o di un “autentico stato d’eccezione”, che sarebbe l’orizzonte del superamento del liberalismo. Intellettuale fuori dal comune, franc-tireur extraaccademico, Benjamin non fu il solo, nella nebulosa marxista e nei paraggi della scuola di Francoforte, a sviluppare un interesse per Schmitt. Questo fu anche il caso, per ragioni più evidenti, di Otto Kirchheimer, spesso indicato come il giurista della scuola di Francoforte. L’autore di Punishment and Social Structure fu allievo di Schmitt e sostenne la dissertazione dottorale nel 1928 a Bonn sotto la sua supervisione. I suoi testi critici nei confronti della Costituzione di Weimar si ricollegavano con e talvolta si basavano su alcune diagnosi di Schmitt (in particolare in Weimar und was Dann?, pubblicato a Berlino nel 1930)23. Un precedente nelle letture opposte di testi schmittiani: Legalità e legittimità e gli scritti del 1932 Durante il periodo di Weimar, Schmitt era spesso considerato uno dei più acuti critici delle difficoltà della Costituzione tedesca, ed era difficile dire se queste critiche avessero lo scopo di abbattere la Repubblica o di consolidarla contro i suoi agguerriti nemici. A tal propo23 Cfr. Franz Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, Oxford University Press, 1942; trad. it. Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, a cura di Mario Baccianini, Bruno Mondadori, 1999, p. 54 e p. 494, nota 89.
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sito, è assai degno di nota il fatto che gli stessi scritti furono oggetto di interpretazioni opposte. Questa fase dell’opera di Schmitt e della sua ricezione è particolarmente interessante per la nostra indagine “preliminare” su un uso di Schmitt che separi le sue elaborazioni concettuali dalle sue opzioni ideologiche. In Legalità e legittimità, oltre che in alcuni articoli e conferenze del 193224, Schmitt sviluppa due temi di una certa rilevanza: il «premio di legalità» accordato dal sistema della libera concorrenza dei partiti a qualsiasi partito che giochi il gioco democratico, e quello dei «partiti totali» che tendono in realtà a una «politicizzazione totale»25 e prendono ordini «a Mosca o forse a Monaco», allusione evidente a Hitler in questo secondo caso26. La grande forza di tali testi risiede nell’incrocio di queste due tematiche, che fa emergere una contraddizione tra le condizioni liberali del gioco democratico e gli obiettivi dei partiti di cui questo gioco è deputato a organizzare la libera espressione. Infatti, le possibilità di competere con forme legali di concorrenza per il potere dello Stato conferiscono un’unzione “legale” e, in questo caso, democratica, a forze il cui scopo è abbattere questa stessa legalità e porre fine alla concorrenza politica tra partiti. Questo uso cinico della concorrenza democratica e delle risorse della legalità era all’epoca effettivamente comune ai movimenti comunisti27 e a quelli fascisti e nazionalsocialisti28. Le forti espressioni utilizzate all’epoca da Schmitt sono rimaste 24 In particolare: Legalität und gleiche Chance politischer Machtgewinnung, apparso nel luglio 1932 durante la campagna elettorale per la rivista «Deutsches Volkstum», e Der Missbrauch der Legalität, apparso il 19 luglio 1932 nella «Tägliche Rundschau», rivista vicina a von Schleicher. 25 Carl Schmitt, Gesunde Wirtschaft im starken Staat, in Mitteilung des Vereins zur Wahrung der gemeinsamen wirtschaftlichen Interessen in Rheinland und Westphalen, Langnam Verein, 1932, p. 18, citato in Olivier Beaud, Les Derniers Jours de Weimar. Carl Schmitt face à l’avènement du nazisme, Descartes & Cie, 1997, p. 67. 26 Carl Schmitt, Konstruktive Verfassungsprobleme, conferenza del 4 novembre 1932 di fronte ai rappresentanti dell’industria chimica tedesca, citato in Olivier Beaud, Les Derniers Jours de Weimar, cit., p. 67. 27 Lenin l’aveva posto come assioma in L’«estremismo». Malattia infantile del comunismo (1920): «I rivoluzionari che non sanno associare le forme illegali di lotta con tutte le forme legali sono pessimi rivoluzionari». Vladimir Lenin, Opere complete, vol. 31 (aprile-dicembre 1920), a cura di Ignazio Ambrogio, Editori Riuniti, 1967, p. 86. 28 Nel 1933 Hitler parlava frequentemente di «rivoluzione legale».
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celebri in quanto avevano previsto, con notevole precisione, ciò che sarebbe in seguito accaduto: un «partito totale», una volta arrivato al potere, «si chiuderà la porta alle spalle, sopprimendo legalmente il principio della legalità»29. Applicazione discrezionale, presunzione di legalità ed esecutività immediata (cioè il diritto, per l’amministrazione, di decidere una sanzione che non è stata espressamente prevista dal diritto comune) sono le tre dimensioni (qui espresse nei termini del costituzionalismo francese, al quale Schmitt ricorre sovente) del premio o «strapotere politico»30 che per l’appunto permetteranno al partito al potere di manipolare i vaghi concetti di “ordine pubblico”, di “pericolo per la sicurezza dello Stato”, di “stato di necessità”, al fine di rivedere radicalmente le regole del gioco, cambiare il regolamento interno del Parlamento o il sistema elettorale a proprio vantaggio, e distruggere i fondamenti di tale legalità. Da qui la questione di Schmitt che colpisce nel segno: può una Costituzione «fornire qualcosa come un metodo legale per la soppressione della sua stessa legalità e […] il mezzo legittimo per la distruzione della sua legittimità»31? La ricezione e gli usi di Legalità e legittimità presentano una dualità di direzioni opposte, che a tal proposito è quasi paradigmatica della successiva storia delle letture di Schmitt. In effetti, il tema del «premio di legalità» avanzato qui da Schmitt («chi dispone del 51% può legalmente rendere illegale il 49%. […] La sua maggioranza cessa improvvisamente di essere un partito, è lo Stato») sarà direttamente utilizzato contro i nazisti dalla redazione del giornale «Tägliche Rundschau», che pubblicò un estratto di Legalità e legittimità accompagnato da un cappello introduttivo dove si metteva esplicitamente in guardia dal voto pro-nazista (e la cui paternità, a torto, è stata talvolta attribuita allo stesso Schmitt)32: 29 Carl Schmitt, Legalität und Legitimität, Duncker & Humblot, 1932; trad. it. Legalità e legittimità, a cura di Carlo Galli, il Mulino, 2018, p. 68 (legg. mod.). 30 Ivi, p. 69. 31 Ivi, p. 91. 32 Paul Noack, Carl Schmitt. Eine Biographie, Propyläen, 1993, p. 143 (ripreso da David Cumin, Carl Schmitt. Biographie politique et intellectuelle, Cerf, 2005, p. 116), ma corretto da Olivier Beaud, Les Derniers Jours de Weimar, cit., p. 224. Sebbene Schmitt non sia l’autore di quest’avvertimento, ha nondimeno autorizzato tale utilizzo del suo testo.
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chiunque procuri il 31 luglio [data delle elezioni legislative] una maggioranza ai nazionalsocialisti, anche se non è nazionalsocialista e vede in questo partito solo un male minore, agisce in modo stupido. […] Consegna interamente la Germania a questo gruppo. Ecco perché se fino a oggi poteva essere un bene, in determinate circostanze, incoraggiare il movimento di resistenza di Hitler, il 31 luglio ciò sarebbe estremamente pericoloso, perché il 51% darebbe al NSDAP un “premio politico” dalle conseguenze imprevedibili33.
La lettura, da parte di René Capitant, degli scritti di Schmitt nel 1932 va nella stessa direzione. Nel suo articolo Le rôle politique du président du Reich, apparso nel marzo 1932 sulla rivista «Politique», il futuro collaboratore di Léon Blum e del generale de Gaulle ritiene che gli argomenti di Schmitt a favore del presidente del Reich come «custode della Costituzione»34, così come le sue riflessioni sulla possibilità di sospendere alcuni aspetti della Costituzione per salvaguardarne il principio, sono più convincenti, nella prospettiva del salvataggio della Repubblica, del ricorso al controllo permanente di costituzionalità che Hans Kelsen raccomandava in risposta a Schmitt35. Le argomentazioni di Kelsen, che contestano che un presidente eletto sia più neutrale e più indipendente dai partiti rispetto a una Corte costituzionale e a magistrati il cui ethos professionale implica tale neutralità, possono apparire corrette in una situazione normale. Ma il dibattito verte proprio intorno a una situazione in cui “custodire” la Costituzione, “preservarla”, significa qualcos’altro rispetto a un semplice controllo di costituzionalità. Capitant ritiene che nelle circostanze di quasi guerra civile vissute dalla Germania salvaguardare la Repubblica non significa esercitare un controllo di costituzionalità su ciascuna delle leggi votate, e la risposta che 33 Citato da Olivier Beaud, Les Derniers Jours de Weimar, cit., p. 224. 34 Carl Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Duncker & Humblot, 1931; trad. it. Il custode della Costituzione, a cura di Antonio Caracciolo, Giuffrè, 1981. 35 Hans Kelsen, Wer soll der Hüter der Verfassung sein?, in «Die Justiz», n. 6, 19301931, pp. 576-628; trad. it. Chi deve essere il custode della Costituzione?, in Id., La giustizia costituzionale, a cura di Carmelo Geraci, Giuffrè, 1981.
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il sig. Hans Kelsen ha di recente rivolto al sig. Carl Schmitt per difendere […] l’istituzione di una Corte costituzionale è evidentemente priva di incisività. Non si tratta di affidare al presidente l’esercizio di una funzione giurisdizionale, ma piuttosto di chiedergli di prepararsi al colpo di Stato e di salvare in Germania le istituzioni democratiche e parlamentari.
Riferendosi all’articolo 48, così tanto commentato da Schmitt, Capitant aggiunge: «Per questo, la Costituzione gli dà delle armi»36. Seguendo Schmitt, Capitant costruisce la sua argomentazione sul fatto che i «partiti anticostituzionali» falsano il gioco democratico. Cosicché «ci si può chiedere se, in certe circostanze, la vera lealtà non obbligherebbe il presidente a violare la lettera della Costituzione per salvarne il principio» osserva Capitant, precisando subito dopo, molto più esplicitamente di Schmitt, ciò che ha in mente: Qualora il Reichstag offrisse a Hitler la maggioranza assoluta finora negatagli, se il Paese si pronunciasse nello stesso senso, allora la legalità costituzionale imporrebbe al presidente di nominare cancelliere il capo nazionalsocialista. Ciò però è ammissibile da un’autentica fedeltà costituzionale37?
Dal richiamo di questi elementi è possibile trarre due conclusioni: 1) sembra difficile negare a queste analisi la loro lucidità analitica e predittiva, qualunque sia il giudizio che si può dare sulla fondatezza politica della “soluzione” che Schmitt al tempo predicava. Spiriti impegnati dalla parte cattiva hanno talvolta dato prova di qualità di analisi, oggettività della situazione, valutazione del rapporto di forze e previsione ben superiori a spiriti politicamente impegnati dalla parte buona; 2) l’esempio del concetto di «premio di legalità» o dell’utilizzo da parte di René Capitant della nozione di «custode della Costituzione», dell’idea di una sospensione necessaria della legalità al fine di salvare le istituzioni democratiche, dimostra che vi è stato un 36 René Capitant, Écrits d’entre-deux-guerres, Panthéon-Assas, 2004, p. 402. 37 Ibidem.
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uso “antinazista” dei concetti schmittiani (approvato d’altronde dallo stesso Schmitt), e questa remota possibilità autorizza a un uso critico dei suoi concetti in una direzione contraria alle sue stesse opzioni politiche. È ugualmente rilevante che uno stesso testo di Schmitt abbia potuto essere letto in senso inverso: è il caso, nella storia della ricezione francese di Schmitt, di Legalità e legittimità, tradotto e “introdotto” nel 1936 da un dottore in diritto promesso a una “brillante” carriera da collaborazionista (sarà direttore della Biblioteca nazionale durante l’occupazione, nonché agente della Gestapo) e accanito antisemita (sarà il fondatore e presidente della Commissione di lotta antigiudaico-massonica): William Gueydan de Roussel. La lettura di Gueydan de Roussel è con tutta evidenza retrospettiva, dal momento che si basa sull’adesione di Schmitt al nazismo, avvenuta nel 1933, per scoprirne la verità dello scritto del 1932. Osserva nella sua Introduzione: Questo libro presenta un interesse tutto particolare per due ragioni: innanzitutto, anticipa e lascia presagire una delle rivoluzioni più sorprendenti e caratteristiche dei tempi moderni [la rivoluzione nazionalsocialista]; inoltre, è il colpo fatale al cuore stesso del sistema che la Germania ha adottato in seguito alla doppia sconfitta politica e militare del 191838.
Schmitt sarebbe stato dunque il becchino di Weimar, e il suo traduttore francese di estrema destra saluta questa “orazione funebre della legalità” come la maniera di Schmitt di anticipare la sua abolizione nazista. Qualcosa però resiste a tale lettura, e un’imbarazzata nota di Gueydan de Roussel aggiunta al testo di Schmitt lo testimonia: l’aggiornamento, da parte di Schmitt, della tensione tra due poli o due parti principali della Costituzione di Weimar, oppone un sistema formale di limitazione del potere e di libera concorrenza dei partiti, indipendentemente da qualsiasi riferimento a valori, a un’altra parte che rinvia in modo confuso a valori attraverso la nozione di “diritti fondamentali” 38 William Gueydan de Roussel, Introduzione a Carl Schmitt, Légalité et légimité, LGDJ, 1936, p. 22.
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(Grundrechte). Ora, in modo singolare rispetto alle sue costanti critiche al carattere vago della nozione di diritti fondamentali, nelle ultime pagine di Legalità e legittimità Schmitt scrive quanto segue: Ciò che era nebuloso e vago nel proposito di Friedrich Naumann, quando – coperto dalle risa di un ignaro positivismo prebellico – avanzò la sua bozza di diritti fondamentali, era pur sempre più vicino all’essenza di una costituzione tedesca che non la neutralità rispetto al valore di un sistema funzionalistico di maggioranze39.
Sottolineando che questa parte sui diritti del cittadino «pone le basi di un ordine sociale» e che i suoi princìpi dovrebbero essere sviluppati, Schmitt è molto lontano dal disprezzo della costituzionalità celebrato da Gueydan de Roussel nella sua Introduzione (in cui non esita a citare Goebbels: «Le costituzioni redatte su carta non daranno mai a un popolo una costituzione»). È degno di nota il fatto che, nella sua lettura delle opere costituzionali del 1932, Otto Kirchheimer ha ritenuto che «il libro di Carl Schmitt Legalità e legittimità si rivelerà superiore agli altri, perché si basa sui princìpi di una teoria politica e per la riserva delle sue conclusioni»40. È proprio questa riserva a imbarazzare Gueydan de Roussel, il quale precisa, nella sua nota (p. 101), che le ultime righe di Legalità e legittimità non testimoniano di una «convinzione profonda» e che i «veri sentimenti dell’autore» si mostrerebbero piuttosto in un articolo del 1934, dove la sola questione decisiva diventa quella dell’«ordine nazionale» e non i problemi di costituzionalità. Si sarebbe quindi tentati di ritenere che Gueydan de Roussel abbia deformato il testo, se non le intenzioni stesse di Schmitt nel 1932, e questo è parzialmente vero41. Come sottolineato da Georges 39 Carl Schmitt, Legalità e legittimità, cit., p. 128. 40 Otto Kirchheimer, Verfassungsreaktion 1932, in «Die Gesellschaft», vol. XI, n. 9, 1932; traduzione inglese Constitutional Reaction in 1932, in Id., Politics, Law and Social Change: Selected Essays, Columbia University Press, 1969, p. 77. 41 Da notare tuttavia che, secondo la testimonianza di Gueydan de Roussel, quando la sua Introduzione venne attaccata nel 1936 da Georges Gurvitch, Carl Schmitt gli scrisse queste parole di sostegno: «Lei è sulla buona strada perché è attaccato dagli ebrei» (William Gueydan de Roussel, Carl Schmitt, philosophie catholique et confesseur, in Piet Tomissen, a cura di, Schmittiana III, Duncker & Humblot, 1991, p. 54).
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Gurvitch nella sua recensione dell’edizione francese di Legalità e legittimità, il sig. de Roussel si mostra ben più lieto della negazione della legalità di quanto non lo sia il sig. Schmitt stesso (è vero che il sig. Schmitt ha scritto prima dell’avvento del regime e il sig. de Roussel dopo). Invece di un’introduzione scientifica, fa semplicemente opera di propaganda politica in favore del terzo Reich42.
Nondimeno, nello stesso Schmitt, nella sua analisi dei due poli o delle «grandi parti» della Costituzione di Weimar, il «polo sostanziale» della Costituzione che Naumann cercava nei diritti fondamentali è per Schmitt anche, o innanzitutto, il polo che rimanda al popolo tedesco. Nella Dottrina della Costituzione del 1928, Schmitt parlava piuttosto favorevolmente del «pathos politico» di Naumann e della sua volontà di dare alla Costituzione tedesca l’equivalente di una «dichiarazione solenne» che sarebbe «un modo naturale di esprimersi della coscienza per dare in un momento decisivo una determinata svolta al proprio destino politico»43. Ma, pur accostando questa forma di dichiarazione alle Dichiarazioni americane del 1776, francese del 1789, tedesca del 1848 e sovietica del 1918, Schmitt valorizzava in esse non l’eventuale dimensione universalistica dei diritti “dichiarati”, bensì l’espressione della risoluzione di un particolare popolo a darsi un orientamento politico e a polarizzare così un’eventuale ostilità contro di lui: atti politici di questo tipo «presuppongono che un popolo con una sua dichiarazione si assuma il pericolo di un raggruppamento politico del tutto nuovo, cioè di un raggruppamento amico-nemico, e si decida a difendere i nuovi princìpi anche in lotta contro un potente nemico politico esterno»44. La valorizzazione dei diritti fondamentali che conclude Legalità e legittimità, quindi, non deve essere interpretata sotto il segno di un’opposizione universalista al disprezzo nazista del diritto e dei diritti 42 Georges Gurvitch, Carl Schmitt – Legalité et legitimité, traduzione e Introduzione di William Gueydan de Roussel, in «Archives de philosophie et de sociologie du droit», n. 6, 1936, p. 235. 43 Carl Schmitt, Verfassungslehre, Duncker & Humblot, 1928; trad. it. Dottrina della Costituzione, a cura di Antonio Caracciolo, Giuffrè, 1984, p. 217. 44 Ivi, p. 218.
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dell’uomo, ma come la valorizzazione di un polo nazionale sostanziale e di una quasi-dichiarazione politica che assuma il “destino” di un popolo particolare. «Colpo fatale» alla Repubblica, come dice Gueydan de Roussel, o corretta valutazione di ciò che implicava, nei termini di un uso-limite della legalità, la preoccupazione di «salvaguardare la Repubblica», come dice Capitant? L’interpretazione di Legalità e legittimità suscita ancora dibattito e, nella sua stessa polarità, sembra annunciare le odierne contrapposizioni intorno alla concettualizzazione schmittiana dello stato d’eccezione, usata contemporaneamente per giustificare e per denunciare la politica americana conseguente al Patriot Act. Retrospettivamente, sembra evidente che i mezzi contrapposti dagli ultimi governi di Weimar all’ascesa al potere dei nazisti non erano all’altezza della sfida, e che una certa logica democratica liberale trovava lì il suo limite. Ma era possibile e legittimo “salvare” la Repubblica con un colpo di Stato? Era questa l’intenzione di Schmitt, oppure voleva passare in tal modo a una forma di Stato fascista? Questo sentiero verso lo Stato autoritario avrebbe sbarrato la strada a Hitler45? Provocato una guerra civile? Si ammetterà che si tratta di problemi complessi, il che spiega la focalizzazione dei più recenti studi schmittiani in area tedesca su questo episodio nel quale era tutto ancora in gioco. Dopo la guerra, Schmitt ha potuto valorizzare la sua attività di consigliere ufficioso e (a volte) ufficiale degli ultimi cancellieri della Repubblica di Weimar (Brüning, ma soprattutto von Papen e ancor più il generale von Schleicher) per affermare che aveva tentato di salvarla. Ma come conciliare questa affermazione con la violenza delle critiche rivolte da Schmitt a questo regime? Non è impossibile che Schmitt abbia attaccato questo regime e allo stesso tempo ritenuto necessario difendere lo Stato tedesco dai comunisti e dai nazionalsocialisti. Per quale motivo? Essenzialmente per motivi di ordine, per sfiducia nei confronti di partiti “rivoluzionari”, nonché per una sorta di principio di sottomissione all’autorità nonostante tutto, o di ultra-legalismo, un 45 Cfr. Lutz Berthold, Carl Schmitt und der Staatsnotstandsplan am Ende der Weimarer Republik, Duncker & Humblot, 1991: «Se Schleicher fosse stato tollerato dal Zentrum e dalla socialdemocrazia, sarebbe riuscito – con il sostegno dell’autorità del Presidente e la forza della Reichswehr – a impedire la presa del potere nazional-socialista mediante l’instaurazione di una dittatura d’urgenza» (p. 10).
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aspetto innegabile dei suoi successivi atteggiamenti politici. La Teologia politica del 1922 cita un motto di Joseph de Maistre: «Ogni governo è buono una volta che è stabilito». In un certo senso, per il giurista cattolico Schmitt ogni governo istituito, anche cattivo, deve essere sostenuto dal momento che è il governo stabilito dello Stato. Il principio di obbedienza all’autorità implicato nel suo concetto di legalità e la valorizzazione assoluta dell’ordine hanno certamente giocato un ruolo nell’atteggiamento di Schmitt sotto Weimar, mescolandosi a una dimensione nazionalista dagli effetti ambivalenti: piuttosto che salvare la Repubblica di Weimar, politicamente vergognosa, si può pensare che Schmitt abbia tentato di salvare lo Stato tedesco in quanto Stato forte, di salvare lo Stato forte contro la debolezza stessa della Repubblica di Weimar, di salvare ciò che Schmitt chiamava la costituzione tedesca, in un senso che poteva e doveva essere separato dalla Costituzione esistente di Weimar. Ed è vero che, in questo quadro (ed entro questi limiti), Schmitt ha sviluppato argomenti che erano “armi” in primo luogo contro i comunisti, ma anche contro i nazisti, in particolare nell’opera del 1932 Legalità e legittimità, nonché nella serie di articoli del 1932. Secondo la testimonianza del giurista e storico Ernst Rudolf Huber, che fu vicino a Schmitt, questi partecipò durante l’estate del 1932 all’elaborazione di diversi piani (proposti al presidente Hindenburg) per promulgare una legge marziale che prevedesse un doppio divieto del partito comunista e nazista46. Negli interventi del 1932 che abbiamo citato, Schmitt può così apparire come un oppositore, diretto o indiretto, degli interessi del partito nazista in ascesa. D’altronde, è da questi testi che attingeranno maliziosamente e a piene mani coloro che, come il suo ex allievo ebreo, convertito al cattolicesimo e rifugiato in Svizzera durante l’ascesa del nazismo, Waldemar Gurian, cercheranno di metterlo in una posizione scomoda presso le autorità naziste, risalendo alle sue più “compromettenti” prese di posizione precedenti al 1933. Peraltro, ci si può domandare come riesca a rendere conto di questo episodio chi sostiene che Schmitt è sempre stato nazista. In compenso, il ruolo di Schmitt è ben più ambiguo nella sua attività come consigliere durante il “colpo di Stato in Prussia”: il colloca46 Si veda Olivier Beaud, Les Derniers Jours de Weimar, cit., p. 22, p. 38 e p. 225.
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mento del Land di Prussia sotto il governo del Reich nel 1932, ovvero un colpo di Stato contro un governo federale socialdemocratico (Otto Braun). In questo frangente, Schmitt ha portato avanti argomenti assai ostili al partito comunista tedesco, e ben più favorevoli al partito nazista, contro il governo federale. Recentemente, in Germania sono state dedicati a questo episodio diversi studi per provare a comprendere con precisione la natura e le conseguenze del ruolo giocato da Schmitt. Il più critico di questi studi, quello di Dirk Blasius, vi scorge il momento in cui Schmitt ha attraversato il Rubicone per raggiungere i ranghi di coloro che volevano abbattere Weimar prima dei nazionalsocialisti, e ha elaborato, attraverso i suoi contatti, i suoi argomenti volti ad abbattere lo Stato democratico prussiano, l’ultimo solido baluardo contro Hitler47. Una compromissione radicale con il nazismo e l’antisemitismo di Stato Non riporteremo qui l’elenco dei peggiori interventi di Schmitt al servizio dello Stato nazista. In questo periodo Schmitt ha scritto testi terrificanti, di un virulento antisemitismo mai rinnegato, e il suo antisemitismo si scatena ancora nel diario tenuto dal 1947 al 1951, pubblicato nel 1991 con il titolo Glossarium. Schmitt ha sostenuto la politica espansionistica del Reich, le sue leggi retroattive, la sua legislazione razziale; nel 1934, dopo la Notte dei lunghi coltelli, si è macchiato di un articolo intitolato Il Führer protegge il diritto; è arrivato a salutare le leggi di Norimberga come «costituzione della libertà»; ha coordinato un convegno di giuristi sull’influenza dello spirito ebraico nella scienza del diritto tedesco, nel quale ha chiesto una degiudaizzazione delle biblioteche e dell’insieme della “scienza del diritto” tedesca, uno smascheramento dei pensatori di origine ebraica che si sarebbero “nascosti” sotto un’identità e un nome tedeschi (o sotto pseudonimi). Al tempo, il suo pensiero del “nemico” si era chiaramente rivolto verso il “nemico interno”, l’ebreo. Sul piano internazionale, la sua teorizza47 Dirk Blasius, Carl Schmitt: Preussischer Staatsrat in Hitlers Reich, Vandenhoeck & Ruprecht, 2001.
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zione del “grande spazio” (Grossraum) tedesco è entrata in risonanza con il programma nazista di conquista di uno “spazio vitale” (Lebensraum), per quanto, come Schmitt ripeterà senza posa dopo la guerra, tra le due nozioni permanga un divario. Un bilancio estremamente pesante sul piano umano, politico, etico. Molti passaggi dei testi di Schmitt, durante e dopo il periodo nazista, sono insostenibili, criminogeni (durante il Terzo Reich) o segnati da un miscuglio di vittimizzazione, di sé e della Germania, che giunge a rovesciare vittime e carnefici, in uno scatenamento di odio verso gli ebrei immediatamente successivo al genocidio che rende alcune pagine del Glossarium un sorprendente documento di infamia. L’accettazione e (anche) l’incoraggiamento dato alla politica antisemita mostrano sia l’impermeabilità di Schmitt all’idea dei diritti dell’uomo in quanto tali, la messa in atto di un larvato antisemitismo, sia la riconversione di una lettura “apocalittica” della Storia che trova nel “giudeo” il provvidenziale nemico. La focalizzazione su questo nemico si riverbera allora su tutti i temi del pensiero di Schmitt: non solo la divisione amico/nemico, ma anche l’anti-liberalismo o l’anti-positivismo, di cui gli “ebrei” sarebbero sempre stati i campioni, da Spinoza (nel caso del liberalismo e del rispetto della libertà individuale) a Kelsen (nel caso del positivismo); l’interpretazione del diritto come essenzialmente legato a una Ortung, una ‘localizzazione’, e sostanzialmente radicato in un popolo, in opposizione alla concezione ritenuta tipicamente “ebraica” del diritto come sistema di norme, architettura che supera il quadro nazionale per prolungarsi in un diritto internazionale e sovranazionale; l’approvazione di una “legge incarnata”, in cui l’espressione della volontà del portatore del Nomos faccia immediatamente legge. Se questa tematica può sembrare estranea all’antisemitismo, rinviando (poiché vi rinvia) a un arcaico tema greco ripreso da san Paolo, Schmitt lo applica ormai al Führer opponendolo esplicitamente all’idea (sempre “ebraica”, kelseniana) di un diritto che dovrebbe superare la personalizzazione del sovrano a favore di un regno anonimo della Legge. Quest’ultimo punto segna la specifica responsabilità di Schmitt nella concettualizzazione giuridica del Führerprinzip, che costituisce una forma di suicidio giuridico: la volontà puramente arbitraria del capo diventa l’unica fonte di diritto riconosciuta.
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Di fronte a questi e a molti altri elementi altrettanto schiaccianti, è ancora necessario tener conto dei profili di complessità legati all’interpretazione di un altro fatto, successivo agli anni 1933-1935? Effettivamente, Schmitt è stato relativamente emarginato, attaccato da una fazione più radicale del partito/movimento nazista: l’organo delle ss, «Das Schwarze Korps», che il 3 e il 10 dicembre 1936 lo esortò violentemente al silenzio, «pena conseguenze ulteriori». Sotto l’effetto di queste intimidazioni e di altre manovre che andavano nella stessa direzione, Schmitt si ritirò dalla scena pubblica; a partire dal 1936 non ebbe più responsabilità di primo piano, ma rimase comunque consigliere di Stato di Prussia. Questo allontanamento, conseguente a una “campagna” diretta contro di lui da intellettuali la cui “anzianità” in materia di aperto antisemitismo razzista era appurata, permetterà a Schmitt e ai suoi difensori, dopo la guerra, di modellare questo ritiro (forzato) nella forma di una risoluta presa di distanza da un regime di cui Schmitt avrebbe dunque colto il carattere barbaro. La figura letteraria di questo allontanamento è quella del Benito Cereno di Melville, che Schmitt racconta aver utilizzato per presentare allegoricamente la sua condizione nello Stato nazista a partire dal 1938 (anno peraltro della traduzione tedesca del racconto di Melville)48. Se questa auto-datazione non è verificata, si dispone invece della testimonianza di Ernst Jünger, che annota nelle sue Strahlungen, alla data del 18 ottobre 1941, a Parigi: Colazione al Ritz con Carl Schmitt, che ier l’altro ha tenuto una conferenza sul concetto della differenza fra terra e mare dal punto di vista del diritto delle genti. […] Conversazione su una delle controversie scientifico-letterarie della nostra epoca. Carl Schmitt si paragonò al capitano bianco, dominato da schiavi negri del Benito Cereno di Melville e citò poi il detto: Non possum scribere contra eum, qui potest proscribere49. 48 Sia nel Glossarium sia nelle Osservazioni in risposta a un discorso radiofonico di Karl Mannheim, in Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus. Erfahrungen der Zeit 1945/47, Greven Verlag, 1950; trad. it. Ex Captivitate Salus. Esperienze degli anni 1945-47, a cura di Franco Volpi, Adelphi, 1987, p. 24. 49 Ernst Jünger, Strahlungen, Heliopolis, 1949; trad. it. Irradiazioni. Diario 19411945, a cura di Henry Furst, Longanesi, 1979, p. 44.
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Nel racconto di Melville, Benito Cereno è costretto a fare rotta verso il Senegal dopo che una rivolta ha consegnato il comando del mercantile agli schiavi neri; incontra una nave americana, il cui comandante Amasa Delano è ingannato dalle apparenze ma, solo dopo essere riuscito a fuggire dal vascello sequestrato, il capitano spagnolo può spiegare che rappresentava una figurehead controllata dagli schiavi. L’analogia è evidente: contrariamente alle apparenze, che a volte portavano a paragonare il ruolo di Schmitt nel nazismo a quello di Rousseau nella Rivoluzione Francese, egli non aveva alcuna influenza sul corso degli eventi nella Germania nazista, almeno dal 1936. Ma, come osserva Bendersky, «la differenza significativa tra Schmitt e Benito Cereno stava nel fatto che Schmitt non aveva mai cercato di scappare, né di intraprendere una qualsiasi azione che potesse minacciare il potere dei nazisti»50, a differenza del suo amico Johannes Popitz, coinvolto nel complotto fallito contro Hitler del 20 luglio 1944, che sarà arrestato e impiccato. Nel 1938 Schmitt pubblica il suo libro sul Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, che successivamente presenterà (e i suoi seguaci dopo di lui) come una velata critica del regime, testimonianza di un “esilio interiore” paragonabile a quello espresso dal suo amico Ernst Jünger in Sulle scogliere di marmo, dove la critica del barbaro Forestaro è, in maniera assai più evidente, diretta contro Hitler. Il libro di Schmitt sul Leviatano presenta alcune prese di distanza, in particolare sulla questione che aveva precedentemente approvato rispetto alla retroattività delle leggi, nonché alcune enigmatiche righe sui tempi in cui «l’anima di un popolo si incammina sul “misterioso sentiero” che conduce all’interiorità. E allora cresce la controforza del tacere e del silenzio»51. Forse bisogna anche riconoscere una certa messa in causa dello Stato hitleriano, attraverso la riflessione sull’obbedienza che sarebbe dovuta solo a un’istanza capace di proteggere, 50 Joseph W. Bendersky, Carl Schmitt Theorist for the Reich, Princeton University Press, 1983; trad. it. Carl Schmitt teorico del Reich, a cura di Maurizio Ghelardi, il Mulino, 1989, pp. 305-306. 51 Carl Schmitt, Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sinn und Fehlschlag eines politischen Symbols, Hanseatische Verlagsanstalt, 1938; trad. it. Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico, in Id., Sul Leviatano, a cura di Carlo Galli, il Mulino, 2011, p. 100.
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ma non a un’istanza radicalmente destabilizzante, là dove Schmitt, commentando Hobbes, scrive così: Questo Stato, o esiste realmente in quanto Stato, e allora funziona come irresistibile strumento di tranquillità di sicurezza e di ordine, […] oppure non esiste realmente e non espleta la sua funzione di assicurare la pace, e allora torna di nuovo a trionfare lo stato di natura, e non esiste più Stato in assoluto52?
Una tale lettura è possibile, ma la discreta presa di distanza che esprimerebbe all’epoca la penna di Schmitt può essere letta anche come l’espressione di un atteggiamento di ritiro forzato, di un cortigiano deluso per essere stato respinto dagli altri, e in ogni caso la sua opera sul Leviatano rimane integralmente antisemita, organizzata intorno a una delirante rilettura del mito del Leviatano divorato dagli ebrei. Il limite dell’opposizione spirituale al nazismo che si cerca in Schmitt dopo il 1936 è non solo l’assenza della pur minima compassione per le vittime, ma anche il fatto che egli non si è mai pronunciato a favore di quei sentimenti etici elementari da cui procede il rifiuto della violenza e dell’odio razziali. Non si può obiettare che si tratterebbe di un anacronismo dovuto al fatto che nel 1936 lo sterminio degli ebrei non era stato compiuto: la brutale violenza dei nazisti contro gli ebrei e contro alcuni dei loro oppositori politici scoppiò fin dai primi mesi del loro regime, e molti osservatori se ne indignarono immediatamente, compresi tanto spiriti ostili al parlamentarismo e al liberalismo (ma per ragioni diverse da Schmitt) quanto autori come lo scrittore satirico austriaco Karl Kraus. Come ricorda Jacques Bouveresse nella sua Prefazione alla straordinaria Terza notte di Valpurga di Kraus, la cui conoscenza dovrebbe ormai vietare tutti gli pseudo-argomenti apologetici del tipo “non si sapeva” o “non si poteva prevedere”, Karl Kraus «non era mai stato, è il minimo che si possa dire, un dichiarato sostenitore del parlamentarismo […] e non era scioccato all’idea di un potere politico guidato da uomini forti, capaci di governare con fermezza ed energia senza lasciarsi influenzare e ostacolare da scrupoli “liberali”»53. 52 Ivi, pp. 82-83. 53 Jacques Bouveresse, “Et Satan conduit le bal…” Kraus, Hitler et le nazisme , Prefazione a Karl Kraus, Troisième Nuit de Walpurgis, Agone, 2005, pp. 35-36.
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Le critiche che Kraus rivolge all’ingenuità e agli scrupoli legalisti dei partiti democratici austriaci di fronte alla gravità del pericolo nazista potrebbero in parte coincidere con le critiche schmittiane del 1932 in Germania. Ma, per l’appunto, il caso di Kraus mostra che «non era affatto necessario essere convinti senza riserve delle virtù e dei meriti della democrazia per convincersi, come egli immediatamente fece, che i nazisti erano prima di tutto, per dirla nei termini che lui stesso aveva utilizzato, “furfanti e assassini” con i quali non era in questione cercare un qualsivoglia compromesso». E la Terza notte di Valpurga, scritta nel 1933, è proprio «la documentazione […] del martirio, della indicibile sofferenza delle innumerevoli vittime del nazionalsocialismo già nel primo anno del suo regno», nonché un’opera di denuncia dei «Worthelfer der Gewalt», gli ‘aiutanti verbali della violenza’54. Se Schmitt fu uno di questi, lo fu senza dubbio, come si è detto, in ragione di un antisemitismo che lo portò non solo ad accettare, ma a ratificare giuridicamente e persino a invitare ad “accelerare” il bando giuridico e “umano” degli ebrei. Ma, forse, ciò può essere anche messo in relazione con il costante disprezzo nei confronti di quello che egli designa, nella sua corrispondenza con Ernst Jünger, come il “culto delle vittime” e le forme di umanesimo morale, sistematicamente assimilate a sciocchezzuole o a mistificazioni. O, infine, forse lo fu in virtù della sua concezione “esistenziale” del nemico come ciò che mette in pericolo l’esistenza collettiva di un popolo ma, allo stesso tempo, costituisce il popolo come un popolo, nell’unità (ri)trovata contro quel(lo) che lo minaccia “esistenzialmente” e lo sprona a superare le sue divisioni. Alla fine della guerra Schmitt fu arrestato, imprigionato per un anno, liberato nell’ottobre 1946, interrogato sulla sua partecipazione alla pianificazione della guerra di aggressione, dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi dalla Germania nazista; ma alla fine fu liberato, e comparve a Norimberga solo come testimone. Fu tuttavia mandato in pensione e perciò non insegnò più, né tantomeno esercitò alcun ruolo di potere accademico dopo la guerra. Ma la sua influenza continuerà a esercitarsi in maniera sotterranea e pervasiva, in particolare tramite i suoi allievi più brillanti.
54 Albrecht Betz, citato da Jacques Bouveresse, “Et Satan conduit le bal…”, cit., p. 38.
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Il “nemico” nel pensiero schmittiano: una costante antisemita? Mi sembra che la discussione sulla partecipazione di Schmitt al regime nazista non riguardi, o non riguardi più, il suo antisemitismo, a lungo negato o per convenienza rimosso dai suoi difensori, ma oggi dimostrato in tutta la sua profondità. Il libro di Raphael Gross, Carl Schmitt und die Juden [Carl Schmitt e gli ebrei], è ormai un punto di riferimento, anche se sembra discutibile su tre aspetti: lo statuto dell’antisemitismo prima del periodo nazista; l’idea che l’opera di Schmitt non ammetterebbe diverse “sfaccettature” e sarebbe interamente organizzata intorno all’antisemitismo; infine, l’impossibilità di potersi appoggiare a concetti o idee di Schmitt senza assumerne furtivamente l’antisemitismo. Sul primo punto, un dubbio attraversa il primo capitolo dell’opera. Gross riconosce che se c’è stato antisemitismo in Schmitt prima del periodo nazista, si tratta di un antisemitismo mantenuto quasi segreto, registrato in alcune lettere e scritti “studenteschi” in una forma che si oserebbe definire «banale»55, condiviso da gran parte dei cattolici tedeschi del suo tempo, per quanto assuma a volte in Schmitt una guisa più appassionata, che peraltro si accompagna (cosa non necessariamente contraddittoria) a dichiarazioni di ammirazione o a «ventate filosemite»56. Dove passa il confine tra banalità socio-confessionale e impegno personale in quello che sarebbe in seguito diventato il cuore nascosto, la pulsione politica fondamentale ma tenuta al margine per convenienze e opportunità professionali negli anni Venti, prima dell’avvento del Terzo Reich? Gross si oppone a quella che è la tradizionale spiegazione “attenuante”: Schmitt non sarebbe stato antisemita per opportunismo, anzi al contrario avrebbe in precedenza nascosto il suo antisemitismo 55 «Inizialmente, l’antisemitismo di Schmitt non andava oltre le “banalità” dell’ambiente cattolico in cui si era formato e dal quale proveniva. Simili risentimenti erano largamente diffusi tra gli intellettuali suoi contemporanei […]. Alcune sue osservazioni potevano tranquillamente provenire dal giovane Thomas Mann o persino da ebrei tedeschi, che in parte utilizzavano loro stessi stereotipi antisemiti assai comuni sugli “ebrei” e l’“ebraismo”» (Raphael Gross, Carl Schmitt und die Juden. Eine deutsche Rechtslehre, Suhrkamp, 2000; traduzione francese Carl Schmitt et les Juifs, a cura di Denis Trierweiler, PUF, 2005, pp. 31-32). 56 Ivi, p. 351. Gross cita come esempio un passaggio da un appunto di Schmitt del 1914: «Ci sono persone più colte tra gli ebrei che tra i cristiani, è per questo che intendersi con loro è più facile».
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per opportunismo (in tal modo avrebbe beneficiato all’inizio della sua carriera dell’appoggio di giuristi ebrei come Hans Kelsen). Il secondo punto, che fa dell’antisemitismo l’unica chiave dell’opera, sembra risentire di quella che Wittgenstein ha definito l’ingannevole seduzione di spiegazioni del tipo “in realtà non è altro che questo”. È legittimo sospettare uno sfondo antisemita in alcune tematiche delle opere apparentemente più neutre di Schmitt, e pensare che questo sfondo sia stato tenuto ai margini della sua vita per curarne la rispettabilità (al di fuori del periodo nazista). Dopo tutto, è stato lo stesso Schmitt ad autorizzare la pubblicazione postuma del Glossario e dei deliri antisemiti, che dunque non sconfessava. Io stesso ho tentato di mostrare che una lettura “sospettosa” delle tematiche del nomos basileus, degli attacchi contro il normativismo astratto di Kelsen57 o ancora, in maniera velata, della critica dell’“umanitarismo” ne Il nomos della terra (cfr. infra, cap. 3), era non solo possibile, ma financo necessaria. Ma bisogna concludere che l’opera di Schmitt ha per contenuto e per chiave unica l’antisemitismo? Che “il nemico” per lui non è altri, dall’inizio alla fine, che “l’ebreo”? È vero che lo stesso Schmitt ha scritto nel suo Glossario: «Gli ebrei infatti restano sempre ebrei, mentre il comunista può migliorare e trasformarsi. Ciò non ha nulla a che fare con la razza nordica, ecc. Proprio l’ebreo assimilato è il vero nemico»58. Da questa “confessione” (che è il commento di un brano di un’opera sulle origini del totalitarismo, The End of Economic Man, dove l’autore, Peter Ferdinand Drucker, notava che «il totalitarismo deve sempre inventare nuove personificazioni di nuovi demoni» e che «in confronto agli ebrei, anche i comunisti hanno una dubbia validità come demoniaci amici») si può trarre la conclusione che in Schmitt non è mai stato, e mai sarà in questione, chi incarni il vero nemico. 57 Jean-Claude Monod, La critique schmittienne du normativisme et la réactivation du Nomos basileus, in Id., La querelle de la sécularisation, Vrin, 2002, pp. 188-191; Id., La sécularisation et ses limites. Entre théologie politique et positivisme juridique, in Michaël Fœssel, Jean-François Kervégan, Myriam Revault d’Allonnes (a cura di), Modernité et sécularisation, CNRS, 2007. 58 Carl Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951, Duncker & Humblot, 1991; trad. it. Glossario, a cura di Petra Dal Santo, Giuffrè, 2001, p. 25 (25 settembre 1947).
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Una tale lettura pare tuttavia errata. Sembra ormai incontestabile che l’antisemitismo non sia stato una semplice concessione opportunista di Schmitt al regime nazista: se Schmitt stesso suggerisce, con una certa plausibilità, che non ha mai veramente aderito alla dimensione razziale dell’antisemitismo nazista59 (l’opportunismo consisterebbe allora in questa colorazione del suo antisemitismo dalle radici teologico-politiche in antisemitismo razziale), non poteva in tutta onestà scrivere, come fa nel Glossario: «Se avessi detto “l’ebreo è il nemico”, i nazisti mi avrebbero dato ragione»60, come se non l’avesse mai detto! Ricordiamo soltanto la citazione di Hitler che chiude il discorso pronunciato da Schmitt nel 1936 sulla lotta contro lo spirito ebraico nella scienza del diritto tedesco: «Lottando contro l’ebreo, io combatto per l’opera del Signore»61! La tesi secondo cui il “nemico” per Schmitt avrebbe sempre indicato “l’ebreo” ha finito però con il rovesciare la tesi dell’opportunismo, rimproverata di solito ai difensori di Schmitt: d’ora innanzi, quando l’antisemitismo non compare in un testo di Schmitt, ciò va attribuito a una dissimulazione opportunistica. Ma una tale spiegazione permette forse di dar conto della modifica da parte dello stesso Schmitt di un testo come Il concetto di “politico” tra il 1927, il 1932 e il 1933? Qui non si assiste solamente al concretizzarsi della figura del nemico, bensì anche alla trasformazione della sua determinazione concettuale. Il nemico è esplicitamente indicato, nella prima edizione, come mu59 A tale riguardo rappresenta un testo curioso il passaggio del Glossarium (datato 2 giugno 1948) nel quale Schmitt presenta l’idea della razza come l’arcano del regime hitleriano: «Voleva [Schmitt qui parla di sé in terza persona] introdursi a viva forza nella classe dei dominatori del mondo e nel suo arcanum; non voleva carpirglielo, ma solo averne parte; voleva farsi accogliere nel club esclusivo ed essere finalmente un gran signore, un lord. Ma in realtà quell’arcanum consisteva nell’idea della razza» (ivi, p. 220). Tuttavia, l’idea della razza non era affatto un arcanum del regime nazista, un segreto che Schmitt avrebbe potuto ignorare e scoprire a malincuore: era una dimensione dichiarata e ostentata della sua ideologia. 60 Ivi, p. 5 (28 agosto 1947). 61 Carl Schmitt, Die deutsche Rechtswissenschaft im Kampf gegen den jüdischen Geist, in «Deutsche Juristen-Zeitung», n. 20, 15 ottobre 1936; trad. it. La scienza giuridica tedesca in lotta contro lo spirito ebraico, in Carlo Angelino (a cura di), Carl Schmitt sommo giurista del Führer. Testi antisemiti (1933-1936), il melangolo, 2006, p. 40 (legg. mod.).
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tevole, oggetto di un rapporto, di una linea mobile di conflittualità, e non come un nemico “eterno”, sostanziale. Che Schmitt abbia, nella riscrittura del testo, solidificato questa figura relazionale del nemico sotto forma di un nemico pensato in termini sempre più chiaramente xenofobi (per quanto non sia esplicitamente designato, ne Il concetto di “politico”, come l’ebreo) è certo. Ma si tratta precisamente di una di quelle evoluzioni verso il nazismo che non si potrebbero individuare se si pretendesse anticipatamente che il nemico unico e prioritario di Schmitt sia sempre stato “l’ebreo”. A partire dal 1927 la determinazione del nemico assume certamente una dimensione xenofoba: il nemico, scrive Schmitt, «è semplicemente l’altro, lo straniero», precisando che «basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero», ma dimodoché, qualora il conflitto fosse concreto, ogni parte debba «decidere se l’alterità dello straniero nel conflitto concretamente esistente significhi la negazione del proprio modo di esistere e perciò sia necessario difendersi e combattere, per preservare il proprio, peculiare, modo di vita»62. Questa retorica del modo di vivere “proprio”, conforme al nostro essere, questo modo di contrapporre un “sé” compatto a uno “straniero” che comporterebbe la “negazione dell’esistenza” dell’altro sono certamente tratti nei quali il pensiero di Schmitt risulta particolarmente pericoloso, rientrando nella costellazione dell’estrema destra nazionalista e xenofoba prima ancora della sua adesione al nazismo. Ma la domanda rimane: in Schmitt la determinazione della politica attraverso la distinzione tra amico e nemico si riduce all’opposizione tra “proprio” e “straniero”? Nella versione del 1927, la pluralità dei focolai di conflittualità è al centro della riflessione sul nemico e sulla sua determinazione “esistenziale”. Uno degli apporti teorici essenziali di questo testo è anche quello di presentare il politico non come un “dominio” a sé stante, ma come una sorta di fuoco fatuo, una linea di conflittualità che può nascere in ogni ambito a partire da questioni religiose, morali, economiche. In questo senso il politico non ha essenza, sorge a partire da un certo grado di intensità della tensione tra individui o gruppi, individui che si costituiscono in gruppi per il loro stesso antagonismo. 62 Carl Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 109.
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È vero che l’essenziale ambiguità di questo pensiero del politico consiste nel ruolo attribuito alla “lotta effettiva”: Solo nella lotta reale si manifesta la conseguenza estrema [die äusserste Konsequenz] del raggruppamento politico di amico e nemico. È da questa possibilità estrema [extremeste Möglichkeit] che la vita dell’uomo acquista la sua tensione [Spannung] specificamente politica63.
È stato spesso sottolineato l’oscillare tra la possibilità e l’effettività: Schmitt parla della «possibilità reale [die Reale Möglichkeit]» della configurazione amico/nemico o della «possibilità reale dell’uccisione fisica», precisando: «La guerra è solo la realizzazione estrema dell’ostilità [die äusserste Realisierung der Feindschaft]»64. Vi è come una specie di linea di fuga che fa sì che, dietro il potenziale combattimento, si profili il combattimento effettivo, dietro il combattimento la guerra e, dietro la guerra, la guerra mortale. Questa deriva verso l’estremo è il pericolo del pensiero di Schmitt, per quanto paradossalmente sia anche il pericolo che pretende di combattere. Questa insistenza sulla lotta come dimensione fondamentale dell’esistenza e della politica è certamente un punto che avvicina Schmitt alla retorica comune agli intellettuali che si uniranno a Hitler, come Heidegger. Una retorica che è centrale nello stesso Hitler. La definizione polemica del politico non ne anticipa la giustificazione? Non rende gloria alla sua fuga bellicosa, magari presentandola come vitale per l’esistenza del popolo? Non è essa stessa un elemento di intensificazione dell’ostilità, interna ed esterna, là dove un approccio della politica in termini – aristotelici, tomisti o repubblicani – di ricerca del bene comune, di organizzazione della vita in comune, favorisce la pace, privilegia la ricerca dell’accordo rispetto al ricorso alla violenza e la via del negoziato a quella del conflitto? Queste domande possono e devono essere poste nei confronti dell’approccio schmittiano alla politica. Esse sin da subito si sono scontrate con la smentita da parte dell’autore e dei suoi ammiratori, 63 Ivi, p. 118. 64 Ivi, p. 116.
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per i quali la definizione della politica attraverso la discriminazione di amico e nemico non è né bellicista né xenofoba (e non sarebbe né di “destra” né di “sinistra”), ma “realista” o “scientifica”: descrittivamente, il politico inizia con la possibilità di distinguere gruppi (siano essi etnici, nazionali) che si scontrano, definendosi per contrasto con altri popoli (i “greci” e i “barbari”) o altre città, e che eventualmente si affrontano in guerra. Che si tratti di gruppi interni a un popolo riuniti attorno a convinzioni religiose opposte che sfociano in scontro aperto: la guerra civile confessionale; che si tratti di gruppi sociali che esprimono i loro interessi antagonisti e si affrontano nell’arena politica o per strada, nel quadro di un confronto democratico, di rivendicazioni di partiti o sindacati (per quanto riguarda la situazione attuale), di manifestazioni tollerate o represse, di scioperi, ecc. Anche in questo caso, nell’eventualità della guerra civile. Insomma, lo si vede proprio da questa discussione: si può esaminare la validità della definizione della politica attraverso la distinzione amico/nemico senza assumere il “nemico” che Schmitt aveva in mente quando ha riscritto Il concetto del politico, ossia probabilmente, tra gli altri, “l’ebreo”. Questo ci conduce all’altro punto contestabile della tesi di Gross, che influenzerebbe la possibilità stessa di un’applicazione dei concetti di Schmitt non contaminata dalle sue profonde opzioni ideologiche, e anzitutto dal suo antisemitismo. Questa tesi implica una sorta di “olismo metodologico”, per il quale rifarsi a un aspetto o a un concetto nati nel pensiero di Schmitt implicherebbe l’assumerne necessariamente (inconsapevolmente o consapevolmente? Il testo di Gross non lo chiarisce) tutto il resto, compreso l’antisemitismo. Non si può discutere la definizione del sovrano come «colui che decide sullo stato d’eccezione» senza essere contaminati dall’antisemitismo inespresso di Schmitt all’epoca della Teologia politica? La domanda stessa ha qualcosa di assurdo. Allo stesso modo, si può rimanere perplessi di fronte alla riduzione di prima, dopo e durante operata da Yves-Charles Zarka: «Non è un caso che Schmitt sia diventato così profondamente nazista. Già prima del nazismo, il suo pensiero lo conduceva verso questo esito. In seguito, il suo pensiero lo ha mantenuto, almeno in parte, nel nazismo»65. Dire 65 Yves-Charles Zarka, Un détail nazi dans la pensée de Carl Schmitt, PUF, 2005; trad. it. Un dettaglio nazi nel pensiero di Carl Schmitt, a cura di Simone Regazzoni, il Melangolo, 2005, p. 17.
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che il pensiero di Schmitt precedente il nazismo lo avrebbe condotto ineluttabilmente al nazismo significa rendersi incapaci di comprendere elementi, ugualmente incontestabili, che fanno di questo caso intellettuale un itinerario dotato di una tensione e una complessità specifiche. La polarità del dopoguerra: consolidare l’ordine liberale repubblicano, pensare la guerriglia Si potrebbe pensare che l’influenza di Schmitt dopo la Seconda Guerra Mondiale, soprattutto in Germania, dovesse a rigor di logica essere nulla. Ma il paradosso consiste nel fatto che la ricostruzione di un solido ordine politico in Germania dopo il 1945 avviene, in parte, incorporando con discrezione elementi della critica schmittiana alle debolezze di Weimar. I personaggi chiave sono Ernst-Wolfgang Böckenförde, uno dei maggiori costituzionalisti tedeschi del dopoguerra, cristiano, socialdemocratico, e il discepolo di Schmitt (e co-curatore del volume di omaggi di amici e discepoli in occasione del suo settantesimo compleanno), teorico dello Stato totale negli anni Trenta e che negli anni Cinquanta e Sessanta diventerà un riferimento imprescindibile per la sua riflessione sullo Stato di diritto sociale, Ernst Forsthoff. Come scrive Böckenförde, «uno dei compiti centrali del nuovo ordine politico in Germania dopo il 1945 […] fu la ricostruzione [Wiederherstellung] e l’elaborazione dello Stato di diritto […]: al posto dello Stato di diritto formale si doveva realizzare uno Stato di diritto materiale, al posto dello Stato di diritto liberale uno Stato di diritto sociale»66. Böckenförde faceva riferimento al volume collettivo curato da Forsthoff: Rechtsstaatlichkeit und Sozialstaatlichkeit (1968). La preoccupazione di combinare Stato di diritto liberale e Stato sociale si ispira a una diagnosi retrospettiva delle debolezze di Weimar che recupera l’interrogativo di Schmitt nella direzione dell’“omogeneità” necessaria al funzionamento di una democrazia. Evidentemente, Böckenförde non formula questa esigenza di omogeneità in termini razziali, etnici o religiosi, ma in quelli di omogeneità politica, favorita dall’azione egualitaria dello Stato sociale: «Ciò che ha portato alla ca66 Ernst-Wolfgang Böckenförde, Recht, Staat, Freiheit, Suhrkamp, 1992, p. 143.
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duta [della Repubblica di Weimar] non è stata una mancanza di libertà nell’ordine giuridico-statale, ma una mancanza di omogeneità politica e di lealtà democratica nei diversi gruppi e nel popolo stesso»67. Da parte sua, la riflessione di Ernst Forsthoff in direzione dello Stato di diritto sociale traduce in termini nuovi la preoccupazione di innalzare lo Stato rispetto alle richieste della società civile che ne farebbero soltanto uno strumento degli interessi sociali, d’altra parte antagonisti68. La medesima preoccupazione di unità politica e integrazione si esprime nell’affermazione della necessità di una “omogeneità” sociale minima, esplicitamente distinta dall’“omogeneità” razziale promossa dal nazismo. Certo, l’influenza di Schmitt, attraverso Forsthoff e Böckenförde, è solo un elemento tra gli altri nell’elaborazione dell’ordine istituzionale della Repubblica Federale di Germania, che ha attinto anche largamente da ex avversari di Schmitt, come Hermann Heller per quanto riguarda lo Stato sociale o Richard Thoma per l’organizzazione del pluralismo. Ma non sembra eccessivo sostenere che la ricostruzione di un ordine repubblicano liberale dopo la guerra è avvenuta in parte con il ricorso ad argomenti schmittiani contro lo Stato debole, o contro la paralisi della decisione e la perdita di unità democratica che produrrebbe una forma di pluralismo e di parlamentarismo non controbilanciata da una capacità “sovrana” di decidere in ultima istanza. Ciò è avvenuto in Germania (e in misura molto minore in Italia)69, ma anche, in un certo senso e in modo più indiretto, in Francia, con il 67 Ivi, p. 169. 68 Si veda il suo contributo al volume pubblicato dall’associazione dei professori di diritto pubblico tedeschi: Begriff und Wesen des sozialen Rechtsstaat. Die auswärtige Gewalt der Bundesrepublik, de Gruyter, 1953. 69 Richiamando il fatto che Schmitt «era uno dei costituzionalisti che mi si chiedeva di studiare quando ero all’università, ossia negli anni Cinquanta», Toni Negri ha di recente ricordato ciò che segue: «In particolare, Schmitt era il “padre” di Costantino Mortati, che fu il direttore degli studi teorici che hanno portato alla Costituzione italiana […]; Mortati era il sosia di colui che fu il teorico dello Stato sociale di mercato in Germania, ossia Ernst Forsthoff, anch’egli allievo di Schmitt. Come lui, Mortati aveva studiato con Schmitt durante il periodo fascista […]. Il grande trattato di diritto costituzionale di Schmitt (Dottrina della Costituzione) era sistematicamente utilizzato negli studi italiani per molto dopo la guerra» (Nicolas Guilhot, Carl Schmitt, le droit, le pouvoir. Entretien avec Toni Negri, philosophe, in «Mouvements», n. 37, gennaio-febbraio 2005, p. 89).
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contributo di René Capitant alla riflessione costituzionale che sfocerà nella Quinta Repubblica70. Colui che fu presidente per la regione di Strasburgo del Comitato di vigilanza degli intellettuali antifascisti nel 1937 e dal 1940 tra i fondatori del movimento di resistenza Combat, conserva ancora delle sue analisi degli anni Trenta l’idea di un conflitto tra sovranità popolare e sovranità parlamentare: in Francia, annota nel 1958 nella sua Prefazione all’opera di Léo Hamon, De Gaulle dans la République, «il parlamentarismo ha assorbito del tutto la democrazia»71. Cercando nel riequilibrio delle istituzioni a vantaggio dei poteri presidenziali (ma anche in progetti di decentramento e di federalismo) un’espressione della sovranità popolare che non passi esclusivamente per la rappresentanza parlamentare, Capitant operò, come aveva fatto nel 1932, una riformulazione repubblicana della critica del parlamentarismo e del liberalismo, i cui termini stessi sono segnati da Schmitt: «Credo che al XX secolo sarà conveniente lo Stato forte della democrazia piuttosto che lo Stato debole e diviso cui aspirano i liberali»72. In Germania, di fronte all’ordine liberale repubblicano allo stesso tempo solidificato e smarcato dalle fragilità di Weimar, dagli orrori del regime nazionalsocialista e dalla cappa di piombo del comunismo imposto nella Repubblica Democratica di Germania (rdt), negli anni Sessanta la “sinistra extraparlamentare” attingerà da altri testi di Schmitt gli strumenti di un’analisi e di una contestazione del nuovo Nomos: non la Dottrina della Costituzione o Il custode della Costituzione, bensì la Teoria del partigiano o Il concetto di “politico”, vale a dire gli scritti in cui la conflittualità è posta in primo piano, dove i tentativi del diritto classico e dello Stato liberale di pacificare le relazioni sociali o internazionali appaiono vanificati da attori storici portatori di nuove forme di ostilità radicali.
70 Capitant giudicava la Costituzione della Quinta Repubblica insoddisfacente perché insufficientemente democratica nella lettera, ma ne apprezzava la pratica “gaulliana”. Sul ruolo di Capitant nella genesi intellettuale della Costituzione del 1958 si veda Dominique Chagnollaud, Jean-Louis Quermonne, La Ve République, vol. I, Flammarion, 2000 (cap. 1, Les origines intellectuelles de la Ve République, pp. 74 sgg.). 71 René Capitant, Préface a Léo Hamon, De Gaulle dans la République, Plon, 1958, poi ripubblicato in René Capitant, Écrits constitutionnels, CNRS, 1998, p. 356. 72 Ivi, p. 366.
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Guerriglia e nemico di classe: come Schmitt seduce l’estrema sinistra Tutti i meccanismi volti a produrre omogeneità sociale per vie diverse dalla rivoluzione proletaria vengono a questo punto denunciati come mistificazioni; le idee di “Stato neutrale”, di “coscienza civile”, di “Stato sociale di mercato” viste come illusioni destinate ad attenuare la coscienza di classe dei lavoratori e a mascherare loro la realtà dell’“ordine sociale” in quanto stato d’eccezione permanente73. Come negli anni Trenta, dunque, quando si assistette a usi diametralmente opposti dei testi di Schmitt, alla volontà di assicurare lo Stato liberale nella sua capacità di integrazione sociale e politica dei gruppi sociali antagonisti, basata su Schmitt, risponderà un’estrema sinistra tedesca impegnata a rivitalizzare il “senso del nemico” di classe, appropriandosi questa volta delle riflessioni di Schmitt sul liberalismo come politica di depoliticizzazione o sulla destabilizzazione del diritto classico attraverso l’accrescimento di potenza del “combattente irregolare”. Fu infatti negli anni Sessanta che si verificò un nuovo riavvicinamento tra Schmitt e l’estrema sinistra, grazie soprattutto alla sua sorprendente Teoria del partigiano (1963), dove lunghe analisi sono dedicate alle strategie della guerriglia comunista, da Trockij a Mao. La capacità di Schmitt di riflettere a caldo su cambiamenti geopolitici e strategici “concreti”, di reinserirli nella storia giuridica europea, ha fatto di questo saggio un ponte verso l’estrema sinistra; così il maoista Joachim Schickel, che pubblicherà alcune interviste con Carl Schmitt, ritiene che questi fosse «l’unico autore contemporaneo che si è espresso con competenza sull’argomento»74. È vero, come osserva Jan-Werner Müller75, che Schmitt era uno dei pochi pensatori di un certo rilievo a essersi seriamente impegnato nello studio di questo fenomeno, all’epoca piuttosto studiato – e celebrato – sulla scia di Che Guevara da giovanissimi intellettuali di estrema sinistra, come Régis Debray in Francia, o, in Germania, da colui che diventerà curatore e accanito difensore di 73 Jan-Werner Müller, A Dangerous Mind, cit., p. 174. 74 Joachim Schickel, Gespräche mit Carl Schmitt, Merve, 1993; trad. it. Dialogo sul partigiano. Carl Schmitt e Joachim Schickel, in Carl Schmitt, Stato, grande spazio, nomos, a cura di Günter Maschke e Giovanni Gurisatti, Adelphi, 2015, p. 415. 75 Jan-Werner Müller, A Dangerous Mind, cit., p. 155.
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Carl Schmitt, Günter Maschke, autore nel 1973 di una Kritik des Guérrillero: zur Theorie des Volkskrieg (Critica del guerrigliero: per una teoria della guerra popolare). L’itinerario di colui che Jürgen Habermas designerà come l’unico vero rinnegato (tedesco) del 1968 in virtù del suo passaggio dall’anti-liberalismo di estrema sinistra all’anti-liberalismo di estrema destra, è colorito: membro del gruppo Subversive Aktion, ammiratore di Castro, Maschke chiede asilo politico a Cuba quando viene ritenuto pericoloso per la sicurezza della rft; presto deluso dal regime del Caudillo, viene espulso da Cuba per “attività contro-rivoluzionarie” (rivendicherà infatti più tardi un progetto di attentato contro Castro). Al suo ritorno in Germania legge Schmitt e si forgia un’identità politica, mescolando la rottura con il marxismo con la continuità nell’anti-parlamentarismo e la critica, ormai tinta di nazionalismo, dell’“umanesimo” liberale quale maschera del dominio imperiale americano. Per quanto riguarda gli specialisti e i costituzionalisti tedeschi vicini a Schmitt, come Böckenförde, sono tre i temi che saranno messi in evidenza nel contesto dell’oscillazione verso il terrorismo di alcuni gruppi di estrema sinistra: l’idea che la Costituzione di Bonn sia in grado di rispondere alla minaccia terroristica senza rinnegare i princìpi liberali fondamentali e senza cadere in uno Stato di polizia, contrariamente a quanto sostiene e auspica l’estrema sinistra terrorista (ossia: mostrare il carattere “fascista” della rft) e l’estrema destra, che fustiga il “lassismo” di questo stesso Stato e fa appello a uno Stato autoritario. Se questa prima idea non ha granché di schmittiano, altri due temi rappresentano espliciti spostamenti e riformulazioni liberali di tesi schmittiane degli anni Venti: l’esigenza di indipendenza e superiorità dello Stato rispetto ai partiti e agli interessi economici, che confuti l’accusa di uno Stato al servizio di interessi di classe; la preoccupazione di una fondazione della Repubblica non su “valori” che rischiano di essere travolti dal relativismo dei punti di vista degli individui o dei gruppi, dal soggettivismo o dal relativismo (a tal proposito, Böckenförde richiama spesso favorevolmente il saggio di Schmitt sulla tirannia dei valori), ma su una base etica e religiosa “sostanziale”, trovata da Böckenförde in un’etica cristiana priva di uno specifico segno confessionale, e che comporta il rispetto della persona, il riconoscimento dell’uguaglianza e l’attenzione per i deboli.
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Teoria politica, teoria e politica Vediamo dunque che ancora negli anni Settanta gli effetti del pensiero di Schmitt hanno superato, e di gran lunga, il suo originario campo ideologico, e che i suoi scritti hanno potuto essere oggetto di letture diverse, talvolta opposte, e di usi politici non meno differenti. Ciò è dovuto in particolare (salvo quando sono completamente sprofondati nell’ideologia e nella messa al bando) alla loro capacità di muoversi a un livello di formalizzazione e di astrazione che tiene a distanza le loro motivazioni ideologiche e tenta di cogliere l’essenza dei fenomeni in questione. Julien Freund, che proveniva dall’impegno nella Resistenza francese, ha espresso la sua costernazione quando ha appreso (da Paul Ricoeur) che l’autore di Il concetto di “politico” era stato nazista, cosa che, dice, «nulla lasciava supporre» dalla lettura di questo testo. Eric Voegelin, precoce critico del nazismo, così come Christian Meier nel suo libro sulla nascita del politico nell’antica Grecia76, hanno ritenuto possibile e necessario distinguere rigorosamente le posizioni di Schmitt dall’elaborazione e dal contributo propriamente teorici de Il concetto di “politico”, ai loro occhi indiscutibili e fondati su un’analisi rigorosa e verificata empiricamente della nozione di politica: c’è politica al di fuori di un determinato orizzonte di ostilità e di una certa divisione tra amici e nemici? La nozione occidentale di politica non è forse influenzata dall’idea greca della polis, che pensa il politico come uno spazio organizzato all’interno e distinto da un esterno, vale a dire da altre città che rimangono pur sempre potenziali nemici? Si può contestare quest’ultimo giudizio, basandosi per esempio sulla lettura 76 Christian Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, Suhrkamp, 1980; trad. it. La nascita della categoria del politico in Grecia, a cura di Carla De Pascale, il Mulino, 1998, soprattutto p. 13 («Con le sue ricerche, Schmitt ha […] dato contemporaneamente l’avvio ad una ridefinizione fondamentale del politico, se non alla scoperta di ciò che oggi occorre intendere con questo termine. Se si prosegue la riflessione in questa medesima ottica […], il politico ci apparirà come un fenomeno sostanzialmente unitario e complessivo») e p. 33 («La definizione data da Schmitt al politico è una definizione teorica e non può essere scalfita da prese di posizione scaturite dall’attualità […]. La definizione schmittiana, viceversa, guarda ad una situazione di fatto evidente e contiene un potenziale analitico che si dimostra straordinariamente fruttuoso nei più diversi contesti»).
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fornita nel 1935 da Karl Löwith, di questo concetto puramente polemico della politica, la cui coloritura antiliberale e xenofoba ha trovato una cristallizzazione tutto sommato logica in ciò che è, ritiene Löwith, l’«esempio migliore» di una determinazione schiettamente polemica del raggruppamento amico-nemico: l’opposizione tra i cosiddetti ariani e i non-ariani, gli ebrei. «In realtà non esiste un esempio migliore di concetto puramente polemico: poiché in genere quel che sia “ariano”, si può definire solo movendo dal dato di fatto che egli non è un non-ariano»77. Entrambe queste linee interpretative, una che dà credito allo sforzo teorico-scientifico e lo dissocia da un determinato contenuto politico, l’altra che ritiene che tale contenuto traspaia nella definizione stessa del politico come distinzione amico-nemico, meritano di essere discusse. Ma accettare questa discussione non significa forse riconoscere che questi stessi testi meritano di essere dibattuti, che la loro elaborazione concettuale li innalza certamente al di sopra di semplici scritti di propaganda? Non si tratta tanto di un circolo ermeneutico quanto di un presupposto di qualunque lettura filosofica animata dal cosiddetto “principio di carità”, centrale per qualsiasi cultura “liberale”, che accorda a priori a ogni autore un afflato, se pur minimo, alla verità. Il principio di carità non fa che allontanarci necessariamente, in quel tempo sospeso della lettura, dalla polarità tra amici e nemici; piuttosto, leggere un nemico teorico presuppone sempre stabilire un certo dialogo con lui, ossia non trattarlo come “nemico assoluto”. Per quanto riguarda Schmitt, alcuni testi si sottraggono a tale lettura: sono i suoi testi maggiormente devoti a un’impresa ideologica odiosa; quelli nei quali, d’altronde, autori ai quali Schmitt aveva in precedenza accordato un credito di afflato verso la verità si vedono trattati come nemici assoluti, perseguitati, etichettati con la qualifica “l’ebreo” X o Y. Qui non c’è niente da salvare. Ma ciò non vale per tanti altri scritti di quest’ampia opera, quando lo spazio teorico vi si dispiega al di là delle “posizioni” dell’autore e potenzialmente se ne distacca, rendendosi disponibile per recuperi, spostamenti, elaborazioni differenti, laddove questi testi hanno vis77 Karl Löwith, Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt, cit., p. 150.
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suto una vita autonoma e hanno segnato tanti spiriti del XX secolo, che li leggevano talvolta all’opposto delle loro premesse ideologiche. Leggere Schmitt caritatevolmente significa evitare di ripiegare l’insieme della sua opera sul suo polo e il suo momento odiosi; per rimanere nel registro biblico, significa separare il grano dalla zizzania. L’autore della Teologia politica, che pur dicendosi e ritenendosi cattolico negava qualsiasi portata politica al comando “ama i tuoi nemici”, non ha lasciato molto spazio alla virtù della carità. Dal momento che ci troveremo spesso su fronti opposti, spetta a noi atei mostrare un po’ di carità, quell’eccedenza di carità teorica rispetto all’ostilità politica.
2. La banalizzazione dell’eccezione: essenza della politica moderna o nuova governamentalità securitaria?
Il nome di Carl Schmitt è legato ad alcune nozioni alle quali ha consacrato una riflessione approfondita e storicamente avvertita, nonostante la maggior parte di esse fosse relegata ai margini dei trattati di diritto costituzionale, della filosofia politica classica, della letteratura specializzata o di quella militante, con uno scopo pratico piuttosto che con velleità teoriche. Così, il concetto di “stato di eccezione” ha raccolto perlopiù considerazioni preliminari e piuttosto imbarazzate nel diritto costituzionale, trovando un ambiente più favorevole in una letteratura grigia, parte di quella che in Germania è stata chiamata la Polizeiwissenschaft, la ‘scienza della polizia’. Allo stesso modo, la figura del combattente irregolare o del “partigiano” non era apparsa che nelle appendici dei manuali militari, nelle cronache delle guerre civili o nei manifesti che segnalano le linee generali di una guerriglia popolare. Uno dei motivi d’interesse dell’opera di Carl Schmitt è che coglie con inedita profondità speculativa quei fenomeni marginali in tempi normali che possono, in circostanze eccezionali, diventare essenziali e che, di conseguenza, illuminano l’“ordinario” di una luce differente, ricordandone così la precarietà. L’attuale ritorno dell’interesse per Schmitt è senza dubbio dovuto proprio al fatto che queste due figure marginali – lo stato d’eccezione e il partigiano – sono tornate al centro di un presente politico segnato dagli effetti a cascata del terrorismo e del contro-terrorismo, così da confondere la frontiera tra il “normale” e l’“eccezionale”. In effetti, la nozione di “stato di eccezione” è violentemente ritornata nel dibattito pubblico, in questi ultimi anni, in seguito agli atten-
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tati dell’11 settembre 2001 e alle misure adottate prima dal governo Bush Jr nel quadro della “guerra contro il terrorismo”, e poi da diversi Stati europei impegnati in un cammino parallelo quando non nello stesso. In Europa, sul piano teorico e filosofico, la riflessione sullo stato d’eccezione è stata segnata dalla pubblicazione della breve opera di Giorgio Agamben, Stato di eccezione1, ma era stata preparata dalla ricezione sempre più consistente dell’opera di Carl Schmitt (dalla quale Agamben attinge ampiamente i suoi strumenti concettuali) e dalla traduzione francese – molto tarda – del saggio La dittatura (1921), per buona parte uno studio storico della nozione di stato d’eccezione. Il breve saggio di Agamben, che articola una rapida storia della nozione di stato d’eccezione con una diagnosi del presente, così come l’opera molto più dettagliata di Schmitt, sono esercizi suggestivi e documentati, ma si può – e, a mio parere, si deve – contestarne con una certa radicalità le conclusioni o i presupposti, al fine di rimettere la riflessione sullo stato d’eccezione su un cammino più sorvegliato, meno sedotto dal fascino di ciò su cui riflette. Princìpi, topologia e storia dello stato d’eccezione Prima di giudicare se la nozione di stato d’eccezione si applichi alla situazione che viviamo in Occidente da qualche anno, è opportuno percorrerne brevemente la logica e la storia. S’impone una precisazione terminologica preliminare: la nozione di stato d’eccezione è una traduzione dell’espressione giuridico-politica tedesca Ausnahmezustand (che non è esattamente sinonimo di Notstand, ‘stato di necessità’). In Francia si parlerà piuttosto di “stato di assedio”, “decreti di emergenza”, “poteri straordinari”; i giuristi rinviano anche al concetto, di uso corrente, di “atti di governo”, introdotto dalla Monarchia di Luglio e da allora utilizzato per designare atti di autorità amministrative che non sono suscettibili di ricorso di fronte a un tribunale. Peraltro, Schmitt fa riferimento a questa nozione francese ricordandone la definizione data da Dufour, «uno dei padri del diritto costituzionale francese», come un atto «sottratto ad 1 Giorgio Agamben, Stato di eccezione. Homo sacer, II, 1, Bollati Boringhieri, 2003.
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ogni riesame giudiziario per il fatto che il suo scopo è la difesa della società, e precisamente la difesa da nemici interni o esterni»2. Nel diritto francese, questa nozione si avvicina, pur rimanendo distinta, alla “teoria delle circostanze eccezionali”, nata nel 1918, in occasione della sanzione di un ufficiale al quale non era stato comunicato il suo fascicolo, decisione giudicata legale in virtù delle circostanze eccezionali. Nell’ambito anglosassone si parla di “martial law” o di “emergency powers” (‘poteri di emergenza’). Queste varianti indicano indubbiamente tradizioni e visioni differenti, ma si può anche ritenere che, nei fatti, questi termini rinviano a pratiche perlopiù simili e si lasciano sussumere sotto il concetto messo in evidenza da Schmitt nel 1921 di stato d’eccezione. Per avvicinarsi alla natura dello stato d’eccezione, Giorgio Agamben solleva la questione principiale del locus, del ‘luogo’ dello stato d’eccezione come punto in cui si gioca il limite del sistema giuridico: si è qui nel diritto o fuori dal diritto? Ma la topografia racchiude un interrogativo politico: il diritto di sospendere il diritto deve essere “incluso” nel diritto, ad esempio nella costituzione, da essa previsto e inquadrato, o sfugge al diritto? La questione ha diviso tanto i giuristi quanto i filosofi politici. Se lo stato d’eccezione designa il momento in cui il diritto “normale” è sospeso, o in ogni caso in cui certi diritti (talvolta giudicati “fondamentali”) sono sospesi a causa di una “necessità” interna o esterna, occorre stabilire, in qualche modo all’interno del diritto, che vi sono momenti in cui si può legittimamente derogare alla legalità “normale”? Proprio da questo interrogativo si vede come lo stato d’eccezione si situi alle frontiere del diritto e della politica: determinare se sia legittimo sospendere il diritto “normale” non rientra infatti in un giudizio o in una decisione politica? Pertanto, ha senso porre il problema dello stato di eccezione a livello giuridico? Si comprende qui l’osservazione di Schmitt, nella Teologia politica, a proposito del disagio (corrente) del giurista di fronte a una nozione che richiama sempre la subordi2 Carl Schmitt, Der Führer schützt das Recht. Zur Reichstagsrede Adolf Hitlers vom 13. Juli 1934, in «Deutsche Juristen-Zeitung», vol. XV, n. 39, 1 agosto 1934; trad. it. Il Führer protegge il diritto. Sul discorso al Reichstag di Adolf Hitler del 13 luglio 1934, in Id., Posizioni e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles. 1923-1939, a cura di Antonio Caracciolo, Giuffrè, 2007, p. 332.
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nazione del diritto al politico o che tocca il limite di ciò che il diritto può e deve “prevedere”. Il giurista tenderebbe a considerare l’ordinamento giuridico come un dato e respingerebbe il fatto che quest’ordine è esso stesso appeso a una decisione politica, la quale può, appunto, sospendere l’ordine normale in circostanze straordinarie. Il problema dello stato d’eccezione può essere formalizzato a partire da due adagi che vertono sul rapporto della legge con la necessità, idoneo a motivare un’eccezione alla legge: da un lato Necessitas legem non habet o Necessitas legem non facit, ‘necessità non ha legge’ o ‘non fa legge’, e dall’altro la frase esattamente opposta: “necessità fa legge”. A partire da queste formule possono essere sviluppate due posizioni opposte. La prima opzione “sgancia” lo stato d’eccezione dal diritto, mette in evidenza il rischio della contraddizione, se non addirittura del “suicidio” del sistema di diritto laddove si pretenda di “far fronte” a situazioni in cui la necessità si impone come fonte alternativa del diritto. Il diritto non può prevedere la sua sospensione, pena aprire la porta alla propria abolizione legale. Un altro adagio tradizionale dice: “La legge non può prevedere tutto”; ciò che non rimanda a princìpi giuridici ma a necessità pratiche, ciò che rientra in “misure” puntuali ed eccezionali, bisogna lasciarlo alla politica o alla “governamentalità”. In questo quadro, la possibilità di un’eccezione motivata dall’estrema necessità non è ignorata, ma si vuole conservarle il suo carattere hors la loi. Questa posizione può derivare da una sorta di analisi logica, dal concetto stesso di diritto. Tra gli autori moderni, essa è perfettamente espressa da Kant a partire da un’argomentazione formale logica. Il diritto è il regno della legge: la legge giuridica, come le leggi della natura, non tollera eccezioni (una legge è universale o non è una legge); un “diritto di necessità” (Notrecht) non ha senso, poiché il diritto ha la sua propria necessità in se stesso, non può riconoscere una fonte di diritto esterna senza perdere la sua coerenza3. Non può ammettere al suo interno un “diritto di eccedere il diritto”, che sia per motivi di “necessità 3 «Non vi può essere nessuna necessità che possa rendere legittimo ciò che è ingiusto»: Immanuel Kant, Die Metaphysik der Sitten. Erster Teil. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, Nicolovius, 1797; trad. it. Princìpi metafisici della dottrina del diritto, in Id., Scritti politici, a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo e Vittorio Mathieu, UTET, 2010, p. 412.
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vitale” (rubare un alimento perché si ha fame, per esempio), o che sia per motivi di “necessità politica” (le “circostanze eccezionali”). Il diritto per Kant deve potersi enunciare in termini di generalità. Un diritto dell’eccezione è quindi una contraddizione in termini: si vuole produrre diritto a partire dal caso meno generale. Allo stesso modo, per Kant un sistema di diritto non può includere un autocontraddittorio diritto alla rivoluzione. Bisogna aggiungere che attraverso questo rigore logico, talvolta denunciato come quasi meccanico, Kant esclude dal campo del diritto in senso stretto anche il diritto di far grazia4 e il diritto di resistenza. Ma questa visione porta evidentemente con sé una sorta di concetto denso di diritto. A rigore, il diritto non deve vertere sul caso limite ma sulla generalità, deve “normare” e non deliberare su situazioni di emergenza: questo è compito del governo. Questa argomentazione formale si ricongiunge così nella sua conclusione a una visione classica, quasi per definizione, del diritto come garante del bene comune attraverso l’istituzione di un ordine, cioè di qualcosa che deve durare, avere una continuità, una consistenza propria. Agamben ritiene che l’idea che una sospensione del diritto possa essere necessaria al bene comune sia rimasta largamente estranea al mondo medievale5. Tommaso d’Aquino la respinge proprio per il fatto che il diritto è ciò che norma “ciò che dura”, delibera su ciò che merita di durare e di perdurare nella vita sociale. Cambiare la legge è dunque un errore in sé, e Tommaso riteneva che si dovesse farlo solo a una condizione: «Che il vantaggio apportato al bene comune controbilanci il torto apportato per sua causa»6. Infine, l’idea di una sospensione salvifica della legge è guardata con diffidenza anche dalle teorie moderne fondatrici dell’ordine politico democratico: le teorie dello Stato di diritto, della separazione o dell’equilibrio dei poteri, dei diritti dell’uomo. Infatti, come si vedrà, la dittatura, nel suo significato originario, può essere considerata la forma politica dello stato d’eccezione. Pertanto, il rifiuto dell’idea di un’integrazione dell’eccezione esprime il timore dell’effetto fatale della 4 Sul diritto di far grazia cfr. ivi, pp. 527-528. Va precisato che Kant non esclude il diritto di far grazia nel caso in cui la lesione ricada sul sovrano stesso (crimen laesae maiestatis). 5 Cfr. Giorgio Agamben, Stato di eccezione, cit., pp. 34-37. 6 Citato in François Saint-Bonnet, L’État d’exception, PUF, 2001, p. 141.
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dittatura sull’equilibrio dei poteri. In quest’ottica Montesquieu, nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza, parla dell’«autorità esorbitante» del dittatore romano e ritiene che la commissione straordinaria che ha fondato il potere di Silla o di Pompeo abbia rovinato l’equilibrio dei poteri nella Repubblica romana, cioè il controllo reciproco delle magistrature; lo stato d’eccezione ha così preparato il passaggio di Roma verso un cesarismo autoritario, mortale per la libertà. Montesquieu nota difatti che, con il pretesto di ristabilire l’ordine, «si è progressivamente caratterizzato come disordine e ribellione quello che un tempo si chiamava “libertà”»7. Questa inquietudine attraversa la tradizione liberale: si ritrova un’analoga avvertenza in un eloquente testo di Benjamin Constant, in un momento in cui in Francia circolava la voce di un colpo di Stato: Il potere, affrancandosi dalle leggi, abdica al suo carattere distintivo e alla sua felice preminenza. […] Perché punire chi cospira contro la Costituzione dello Stato? Perché temiamo che questi cospiratori non sostituiscano un potere oppressivo con un potere legale. Ma se esso stesso ha cospirato contro la Costituzione per afferrare il potere oppressivo che si temeva, in cosa è meglio dei cospiratori? […] Qualsiasi governo si perde uscendo dalla legalità8.
È vero, questo argomento riguarda la pratica del colpo di Stato e non l’inscrizione giuridica di un diritto di «affrancarsi dalle leggi» momentaneamente. Ma è in nome dell’effetto di trascinamento che comporta ogni breccia nel principio di rispetto della legalità, anche laddove si tratti di una breccia “legale”, che l’obiezione di principio contro una consacrazione giuridica dello stato d’eccezione viene spesso sollevata. Questo argomento costituisce una linea di resistenza all’integrazione dello stato di eccezione nel quadro liberale democratico, il quale non potrebbe far posto a questo elemento senza implodere. Nel suo saggio L’État de nécessité en démocratie, Geneviève Camus dedica il settimo 7 Montesquieu, Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, François Grasset, 1734; trad. it. Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza, a cura di Massimo Mori, Einaudi, 1989, cap. XI (pp. 63-72). 8 Citato in Olivier Beaud, Les Derniers Jours de Weimar, cit., p. 204.
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capitolo a L’hostilité de la tradition démocratique à toute réception de l’état de nécessité, e sottolinea che gli Stati che hanno sancito questo principio tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX sono essenzialmente monarchie con un forte potere personale, regimi autoritari dell’Europa centrale o dell’Asia (Costituzioni austriaca del 1867, bulgara del 1879, montenegrina del 1906, giapponese del 1889)9. Svizzera, Italia, Inghilterra, Stati Uniti hanno preferito non regolamentare esplicitamente il problema. Negli Stati Uniti una famosa sentenza della Corte Suprema sancisce il rifiuto di qualsiasi forma di stato d’eccezione: la sentenza ex parte Milligan del 1866. Milligan era un cittadino dell’Indiana, arrestato in virtù della sospensione dell’habeas corpus e della proclamazione della legge marziale, processato da una corte marziale e condannato a morte. La Corte Suprema era stata interpellata sulla questione della legittimità della sospensione delle garanzie costituzionali, e la sua sentenza è categorica: «Nessuna dottrina con conseguenze più perniciose fu mai inventata dallo spirito umano se non quella che permetterebbe che uno qualsiasi dei dispositivi costituzionali fosse sospeso a causa di una necessità di governo»10. Nondimeno, questa linea di resistenza è stata regolarmente minata dal richiamo a un’altra serie di precedenti giuridici: l’Enemy Alien Act del 1798, che conferiva al presidente il potere di detenere senza mandato giudiziario ogni “nemico straniero” originario del Paese in conflitto, o la nozione di “poteri dell’esecutivo in tempo di guerra”, utilizzata nel 1942 dall’amministrazione Roosevelt per internare 40.000 giapponesi e 70.000 americani di origine giapponese. Questi precedenti svolgono oggi un ruolo decisivo nella legittimazione delle trasgressioni dei diritti costituzionali in nome della “guerra al terrorismo”. Per quanto riguarda la tradizione democratica, il rifiuto dell’integrazione dello stato di eccezione nel diritto può compiersi in nome dei diritti dell’uomo, considerati inderogabili e concepiti come la base della democrazia politica e dello Stato di diritto. Questa tematica è decisamente nascosta nelle teorizzazioni di Agamben e a fortiori di Schmitt. Si tratta però di un punto cruciale, che impegna la definizione della democrazia e dello Stato di diritto: fare della democrazia 9 Geneviève Camus, L’État de nécessité en démocratie, LGDJ, 1965, cap. VII. 10 Citato in ivi, p. 288.
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l’espressione di un démos particolare che ha, pertanto, il diritto di definire sovranamente quali diritti riconosce o meno agli stranieri presenti al suo interno può aprire la strada a una “democrazia senza diritti dell’uomo”, una democrazia razzista che è una potenzialità sempre aperta a realizzarsi in futuro, là dove il suo concetto è ridotto a un meccanismo di rappresentazione della volontà del popolo e disarticolato da qualsiasi esigenza normativa universale. Un simile gioco di dissociazioni e nuove sintesi ha permesso di presentare come democrazie, nel XX secolo, regimi dittatoriali, riprendendo la tematica tradizionale secondo cui la dittatura sarebbe una rappresentazione transitoria della volontà del popolo in una fase di costruzione di un nuovo regime, agita o da un successore che si auto-autorizza o da un organo intermedio di legittimazione (il movimento, il partito). È ciò che Schmitt, ne La dittatura, accostava al titolo di «dittatura commissaria» che, in contrapposizione alla «dittatura sovrana», non pretende di sfociare in un nuovo regime. Ma, per esempio nel caso delle democrazie popolari, la cosiddetta “transizione” ha potuto durare anche al di là della promulgazione di nuove costituzioni che avrebbero dovuto, in linea di principio, porre fine alla transizione dittatoriale. Oggi la sensibilità democratica contrappone democrazia e dittatura, percepite come radicalmente incompatibili, e ovviamente ci sono ottime ragioni per questo: le esperienze storiche dei fascismi, appunto, l’insieme dei totalitarismi, le dittature militari con il loro seguito di torture, esecuzioni sommarie, ecc. La domanda diventa allora: bisogna identificare stato d’eccezione e dittatura? Si può concepire uno stato d’eccezione che non diventi dittatura, uno stato d’eccezione, se non “democratico”, quantomeno gestito dallo Stato di diritto, mantenuto in un quadro tollerabile dal punto di vista dei diritti dell’uomo, “controllato” e controllabile? L’integrazione giuridica dello stato d’eccezione: limitazione ed enumerazione delle condizioni A tal proposito occorre riconsiderare la seconda opzione menzionata: quella che vuole “giuridificare” l’eccezione, far sì che il diritto domini anche nei momenti in cui non può più imporsi con mezzi
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“normali”. Qui a essere messo in evidenza è il rischio di una lacuna, di una forma di autismo del diritto, che non vorrebbe sentire parlare della sua relazione con eventi che rischiano di obbligare il politico a sospendere alcuni diritti fondamentali, quando non l’intero sistema di diritto. Il diritto non può fingere di ignorare questa possibilità, deve prepararla e inquadrarla. Ma questo non significa forse preparare sempre la possibilità della dittatura? Il termine latino che corrisponderebbe maggiormente a stato di eccezione, secondo Agamben, è iustitium: ‘sospensione del diritto, arresto del diritto’. Agamben sottolinea ch’esso è formato allo stesso modo di solstitium (‘solstizio’) e che alcuni grammatici latini proponevano un parallelo tra i due: «Iustitium si dice quando il diritto sta fermo, come [il sole nel] solstizio». Il Senato romano emetteva un senatus consultum ultimum (che in Francia durante la rivoluzione e con Napoleone sarà ripreso sotto il nome di sénatus-consulte) con il quale chiedeva ai consoli di prendere tutte le misure necessarie per la salvezza pubblica. Questo senatoconsulto si fondava su un decreto che dichiarava la situazione di emergenza, il tumultus, e proclamava quindi uno stato di eccezione, lo iustitium. Nella storia politica romana, questa pratica corrisponde all’istituzione della dittatura: la dittatura è concepita come una parentesi dovuta a circostanze eccezionali. Una parentesi: significa cioè che si suppone di ritornare, entro un termine che si spera breve, allo stato giuridico “normale” precedente; circostanze eccezionali: la guerra o la minaccia di una guerra (prossima), la sedizione, la guerra civile o la minaccia di una rivolta o di una rivoluzione. La dittatura è dunque una sorta di delega del potere che la Repubblica romana compie allo scopo di proteggersi da un pericolo esterno o interno: il dittatore è designato dal console su richiesta del Senato per condurre una guerra (dictatura rei gerendae) o reprimere una sedizione (dictatura seditionis sedandae). Viene designato per un determinato periodo (di solito sei mesi) e per una specifica missione. Qui si fa eccezione essenzialmente rispetto alle procedure deliberative che normalmente frenano l’esercizio immediato del potere: in dittatura il potere del dittatore non è ostacolato dal diritto di veto dei tribuni della plebe e dalla collegialità delle decisioni. Allo stesso modo, il dittatore ha un potere illimitato di vita e di morte.
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La prospettiva di un ritorno alla normalità è costitutiva della dittatura (in assenza di ciò, nei termini antichi, non si tratta più di dittatura, ma di dispotismo o di anarchia) e, ovviamente, della nozione di stato d’eccezione. Carl Schmitt parla a tal proposito della «interna dialettica del concetto», per cui la norma è sì negata ma per instaurare una nuova norma o per preservare la norma stessa: «Una dittatura che non mirasse a un obiettivo corrispondente a una idea normativa […], che non si prefiggesse cioè di rendersi superflua, si ridurrebbe a un dispotismo arbitrario»11. Ma bisognerebbe aggiungere – cosa che Schmitt non fa – che può trattarsi di una pura finzione; il “mantenimento” del diritto o della costituzione precedente può essere in grossa parte o addirittura del tutto fittizio, così come la costituzione “a venire” può non venire mai: al diritto precedente può integralmente sostituirsi una pratica di governo che rende il diritto un guscio vuoto, interamente trasformato dall’interno da decreti legge. Lo stato d’eccezione “repubblicano” è inquadrato da alcuni limiti che dovrebbero garantire il ritorno alla normalità: limiti temporali (la durata della “missione”) e limiti legislativi. Nei suoi Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, Machiavelli menziona la dittatura repubblicana sottolineando che qui non si trattava – cosa che non sarebbe stata possibile – di sopprimere le magistrature, legiferare su altre autorità, ecc. Di contro, secondo Machiavelli la dittatura rappresenta una rimozione della distinzione tra deliberazione ed esecuzione: è lo stesso uomo, o la stessa istituzione, a deliberare ed eseguire, senza dover consultare e lasciare deliberare altri organi prima di prendere la sua decisione. Machiavelli ritiene che questa disposizione si adatti bene a situazioni di emergenza. Lo storico del diritto romano Theodor Mommsen traccia un parallelo con lo stato di legittima difesa: caso limite poiché si tratta del pericolo supremo, del pericolo per la propria vita. Ma questo caso autorizza ciò che con tutta evidenza non può generalizzarsi, le circostanze rendono lecito ciò che sarebbe altrimenti illecito: uccidere qualcuno. Dal momento che il diritto penale prevede la legittima difesa, il diritto pubblico costituzionale deve prevedere lo stato di eccezione, strumento di “legittima difesa” dello Stato o dell’“ordine pubblico”. 11 Carl Schmitt, La dittatura, cit., p. 9.
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Salus populi suprema lex: la salvezza pubblica è la legge suprema, al di sopra delle leggi perché condizione di ogni legge. Il parallelismo tra autodifesa e stato d’eccezione si ritrova nei fondatori del pensiero liberale come Locke. Nel capitolo XIV del Secondo Trattato del governo civile (capitolo intitolato Della prerogativa), Locke afferma che «è opportuno che le leggi stesse, in alcuni casi, cedano il passo al potere esecutivo, o piuttosto a quella fondamentale legge di natura e di governo secondo cui, per quanto è possibile, tutti i membri della società devono essere salvaguardati»12. Tuttavia, Locke non nasconde che qui si abbia a che fare con un “diritto” limite, che eccede il diritto positivo e il cui «retto uso» non può essere stabilito da «nessun giudice sulla terra», così come si tratta di una prerogativa che supera qualsiasi mandato popolare: «In tali tentativi i governanti esercitano un potere che il popolo non ha mai messo nelle loro mani»13. Strana inclusione-esclusione: il filosofo liberale include questo limite nel suo ragionamento, ma lo esclude dal diritto e dal sistema di governo che si sforza di promuovere. Ne prevede esplicitamente la possibilità e, in un certo senso, la legittima («è opportuno»), ma la rinvia a una pratica senza mandato, che eccede la delega democratica del potere. Di fatto, nelle teorie moderne, la giustificazione dello stato d’eccezione si trova meno nei trattati di governo dei filosofi che nelle teorie segrete della ragione di Stato e nei trattati di tecnica politica, affrancati sia dalla pubblicità sia della moralità pubblica. Nella prospettiva che conferisce un primato alla sopravvivenza dello Stato su qualsiasi considerazione morale, è chiaro che lo Stato ha il diritto di derogare a qualsiasi legge laddove a essere in gioco è la sua esistenza. In questo senso, Carl Schmitt ha sottolineato il legame essenziale tra due nozioni: lo stato d’eccezione e il sovrano. La domanda “chi è sovrano?” si riduce alla domanda “chi decide (legittimamente) sullo stato d’eccezione?”. La risposta si trova nella Teologia politica del 1922: «Sovrano è chi che decide sullo stato d’eccezione». Il riferimento esplicito è a Bodin: il sovrano è visto come colui che non 12 John Locke, An Essay Concerning the True Original, Extent and End of Civil Government, 1689; trad. it. Il secondo trattato sul governo, a cura di Anna Gialluca, BUR, 2004, p. 283. 13 Ivi, p. 293 (legg. mod.).
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ha nessuno al di sopra. Egli ha dunque la prerogativa sovrana di sospendere l’ordine normale, di «decidere dello stato d’eccezione», così come (solo) Dio può rompere l’ordine naturale, le leggi della natura, attraverso il miracolo, e l’intera teologia politica di Schmitt deriva da questa analogia tra eccezione e miracolo. Per concludere con questo primo aspetto, che concerne la questione del posto dello stato d’eccezione dentro il o fuori dal diritto, occorre osservare che la nozione è stata a tutti gli effetti incorporata e persino sviluppata in maniera esplicita da alcuni Stati liberali come Francia e Germania. Come avviene tale integrazione? L’idea centrale è che si debba inquadrare giuridicamente questo “limite” del sistema giuridico. Sebbene la legge non possa prevedere tutto, occorre riuscire a porre alcune garanzie per poter far fronte a circostanze eccezionali senza che ciò provochi lo sfacelo dell’intero edificio giuridico e di tutte le protezioni garantite ai cittadini. Per fare ciò, si procede all’integrazione dello stato d’eccezione nel diritto e a una enumerazione delle condizioni della sua promulgazione, dei suoi limiti, ed eventualmente dei diritti che è possibile sospendere mediante un elenco di limitazioni (libertà di stampa, ecc.). Ad esempio, le Carte costituzionali francesi del 1815 e del 1830 sottolineano che la capacità di decretare uno stato di assedio in caso di disordini civili è riservata a una legge; inoltre, sottolineano che «ogni cittadino ha diritto al suo giudice naturale», una formula diretta contro la pratica dei tribunali militari. Un diritto costituzionalmente garantito si presenta qui come limitazione dell’azione militare e come ostacolo alla pratica dei tribunali eccezionali. Siamo in presenza dell’espressione di uno Stato di diritto liberale per quanto, nella fattispecie, si tratti di un liberalismo decisamente “autoritario” e ossessionato dal timore dei tumulti popolari. Allo stesso modo, la legge francese del 3 aprile 1878 sullo stato di assedio nota all’articolo 1.1: «Lo stato di assedio può essere dichiarato solo in caso di pericolo imminente, risultato di una guerra straniera o di un’insurrezione a mano armata». Il comma 2 precisa che «solo una legge può decretare lo stato di assedio. Essa fissa il tempo della sua durata. Scaduti i termini, lo stato di assedio cessa di diritto, a meno che una nuova legge non ne prolunghi gli effetti». Un altro esempio, molto più ambiguo, è l’articolo 48 della Costituzione della Repubblica di Weimar: «Il presidente può prendere le
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misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte l’efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153». Carl Schmitt, che ha ampiamente commentato e discusso questo articolo, ritiene che si basi sull’adagio classico enumeratio ergo limitatio: dal momento che esclude ciò che non è presente nell’elenco, l’enumerazione funziona come una limitazione. La regolamentazione dello stato d’eccezione da parte dello Stato di diritto segue qui tre princìpi: 1) limitazione a “casi precisi” (circostanze chiaramente enunciate); 2) indicazione del contenuto dei poteri straordinari ed elenco dei mezzi autorizzati (in questo caso: sospensione della libertà di stampa, della libertà di riunione, diritto di istituire tribunali eccezionali con pene aggravate, diritto di perquisizione semplificato, ecc.); infine: 3) controllo del potere esecutivo (il presidente del Reich dovrebbe informare il Parlamento di tutte le misure, se ci sono margini di ricorso presso l’Alta Corte Costituzionale, ecc.). La riflessione di Schmitt ruota senza posa attorno a questo sforzo enumerativo-limitativo, ritenendo che esso sia in contraddizione con il principio stesso dello stato d’eccezione e dei “poteri eccezionali”, propriamente “dittatoriali” nel caso dei poteri conferiti al presidente del Reich dall’articolo 48, che includono il diritto di condannare a morte e di creare tribunali a tale scopo. Rispetto a questo diritto estremo di vita e di morte, che rimane implicito ma rimanda all’onnipotenza del sovrano, a Schmitt sembra comico che il diritto di sospendere la libertà di stampa venga esplicitamente menzionato. Schmitt vuole fare di tale contraddizione il segnale dell’incapacità dello Stato di diritto liberale di pensare questo limite essenziale: il razionalismo illuminista che lo fonda vorrebbe enumerare tutto e tutto prevedere, ma indietreggia di fronte all’abisso di un’eccezione che può sospendere l’intero sistema. Ritorneremo sull’esempio di Weimar e sulle conclusioni di Schmitt. Per il momento notiamo semplicemente l’integrazione esplicita dello stato d’eccezione nelle costituzioni di Stati che si concepiscono come Stati di diritto, in nome, appunto, di una regolamentazione necessaria delle situazioni eccezionali, per garantire che non sfuggano com-
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pletamente al diritto. Occorre dunque osservare che la riflessione sul “luogo” dello stato d’eccezione (nel diritto o fuori dal diritto) non coincide con una nettissima divisione politica. Per tutelare il diritto, si può pensare che si debba proprio inquadrare l’eccezione attraverso il diritto, porre salvaguardie giuridiche per i casi necessari, affinché si faccia eccezione solo di certi diritti. Per far ciò occorrono limiti, garanzie. Ma si può anche pensare che, integrando in tal modo l’eccezione nel sistema, lo si mina, aprendo la strada a una dittatura legale, a un’abolizione legale dello Stato di diritto. La banalizzazione dello stato d’eccezione nella storia moderna Come la Germania di Weimar, la Quinta Repubblica francese include una forma di stato d’eccezione nella sua Costituzione. Secondo l’articolo 16, il presidente prende le misure necessarie «quando le istituzioni della Repubblica, l’indipendenza della nazione, l’integrità del suo territorio o l’adempimento dei suoi obblighi internazionali sono minacciati in modo grave e immediato e il regolare funzionamento dei poteri pubblici costituzionali è interrotto». Questo articolo è stato utilizzato nel 1961 durante la crisi algerina, ma in questo caso si trattava di una risposta di de Gaulle al tentativo di colpo di Stato dei generali. Il Paese non è precipitato nella dittatura, ma se si considera il suo atteggiamento nei confronti degli algerini in quegli anni, si può ritenere che si comportasse in parte come tale: la “facciata eccezionale” del dominio coloniale confondeva continuamente, in realtà, il confine tra democrazia e dittatura. Del resto, è con uno sguardo alla situazione algerina che, sotto la Quarta Repubblica, la legge del 3 aprile 1955, la quale permette l’instaurazione dello stato d’emergenza, era stata votata e immediatamente applicata in Algeria. Esiste una storia propriamente francese dello stato d’eccezione, legata allo stile tipico dello Stato francese moderno, alla sua “fabbricazione” militare napoleonica, al suo repubblicanesimo colorato di romanità? Nel suo Stato di eccezione, Agamben situa la fonte moderna del concetto nella Rivoluzione Francese, ma gli esempi citati rinviano di fatto allo stato d’assedio, cioè al momento in cui, secondo la formulazione del decreto dell’8 luglio 1791 dell’Assemblea Costituente,
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«tutte le funzioni di cui l’autorità civile è investita per il mantenimento dell’ordine e della polizia interna passano al comandante militare»14. Vi è certamente il precedente romano, espresso nei termini della dittatura o dello iustitium, ma la ricostruzione di Agamben suggerisce che lo stato d’eccezione avrebbe conosciuto una lunga eclissi, e che la sua vera teorizzazione e pratica moderna avrebbe avuto inizio con la Rivoluzione Francese. Questa ricostruzione sembra assai contestabile. Il quadro schizzato da Schmitt ne La dittatura, come quelli di opere più recenti sull’argomento, suggerisce in modo più convincente un’altra pista: lo Stato della ragione di Stato, lo Stato assolutista, le teorie della sovranità e gli arcana dello Stato hanno costituito il vero terreno di coltura della nozione di stato d’eccezione15. La letteratura sugli arcana16, cioè sui “segreti di Stato”, era destinata ad assicurare ai prìncipi e ai governanti alcune efficaci tecniche di governo, anche per la repressione dei tumulti, dei disordini sociali, ecc. La dimensione del segreto (che Schmitt avvicina ai “segreti di fabbrica” degli artigiani) si spiega con il fatto che queste riflessioni comportavano generalmente un invito ad adottare amplissime libertà nei confronti dei princìpi etici cristiani o della morale antica17, usare la violenza quando fosse necessario, ecc. 14 Giorgio Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 14. Agamben si appoggia essenzialmente al libro di Théodore Reinach, De l’état de siège. Étude historique et juridique, edito da F. Pichon, del 1885. 15 Si noti inoltre che l’interesse per la figura storica dello “Stato di polizia” è un elemento condiviso da Schmitt (si veda per esempio La dittatura, cit., p. 184, nota 10) e da un autore spesso richiamato negli utilizzi da sinistra di Schmitt, e in particolare da Agamben, ossia Michel Foucault. I suoi corsi sulla nascita della biopolitica prendono in considerazione i significativi sviluppi della “scienza della polizia”, nonché le prerogative e tecniche dello Stato laddove questo assume come oggetto quell’entità complessa che è la popolazione. 16 Sugli arcana rei publicae, nucleo della letteratura sulla ragion di Stato secondo Schmitt, si veda Carl Schmitt, La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, cit., pp. 52-53; cfr. Ernst Hartwig Kantorowicz, Mysteries of State. An Absolutist Concept and its Late Medieval Origins, in «The Harvard Theological Review», vol. 48, n. 1, 1995; trad. it. I misteri dello Stato, in Id., I misteri dello Stato, a cura di Gianluca Solla, Marietti, 2005, pp. 187-221. 17 Si veda su questo punto Leo Strauss, On Tyranny, Victor Gourevitch, 1948; trad. it. Replica sul Gerone di Senofonte, in Id., Alexandre Kojève, Sulla tirannide, a cura di Gian Franco Frigo, Adelphi, 2010, pp. 201-203.
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Il trattato di Machiavelli vi si inscrive, ma in mezzo ad altri trattati sui segreti delle pratiche di Stato, tra cui quello di Clapmar18. Questi sviluppa tutta una serie di distinzioni per delineare il contorno di una “tirannia legittima”, a partire dall’idea che il sovrano è liberato dalle norme “classiche” poiché può definirle, e che accanto ai diritti sovrani ordinari occorre ritagliare uno spazio, più opaco, per i diritti sovrani straordinari. Ogni governo sarebbe così, strutturalmente, inscritto in una zona grigia, presentando una parte della sua azione sulla scena pubblica, ma avocando a sé un insieme di pratiche invisibili. Ma è stata proprio la democrazia liberale a costruire la propria visione della pubblicità necessaria degli atti di governo contro la pretesa del segreto di un potere che, in questo modo, si sottrarrebbe allo sguardo e al controllo popolari. A questo proposito, non v’è dubbio che oggigiorno si assista a una tensione tra la rivendicazione dei diritti dello Stato sovrano che includerebbero il diritto di sfuggire parzialmente, per la sopravvivenza dello Stato e del popolo, al controllo del popolo, e l’esigenza necessaria e assoluta di rendere pubblici gli atti di un governo democratico. A questo proposito, il momento rivoluzionario francese ha senza dubbio costituito una prima cristallizzazione del problema: assecondando l’esigenza di trasparenza e regolarità espressa dalla filosofia illuminista contro l’arbitrio reale, la dimensione di segretezza e la “straordinaria” sovranità statale non dovevano forse essere abbandonate alla loro oscurità da Ancien Régime, ricacciate nell’universo ormai abolito di segrete sotterranee e carceri medievali? O con la rivoluzione dovevano piuttosto essere trasferite al nuovo sovrano, il popolo? In questo quadro compare evidentemente un nuovo problema: le riflessioni sulla necessità di preservare la salus publica valgono sempre per la minaccia esterna, la guerra, ma in che misura valgono ancora internamente, per la “sedizione”? Come può un governo rivoluzionario pensare il rapporto tra norma ed eccezione? Se il potere promana dalla volontà generale, dalla volontà del popolo, quando lo Stato si 18 Su Arnold Clapmar, autore del De arcanis rerum publicarum (1605), citato da Schmitt in La dittatura, e sulle diverse varianti teoriche della ragion di Stato in Europa (Naudé, Chemnitz, ecc.) si veda Michel Senellart, Les Arts de gouverner. Du regimen médiéval au concept de gouvernement, Seuil, 1995; trad. Le arti di governare. Dal regimen medievale al moderno concetto di governo, a cura di Francesco Di Donato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013, pp. 255-289.
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rivolta contro il popolo si può allora pensare che sia piuttosto il popolo a essere giustificato a difendersi contro di lui. Tutta la questione (simmetricamente opposta a quella della ragione di Stato) del “diritto di resistenza”, o addirittura del “diritto rivoluzionario”, deve dunque essere recuperata all’interno del rovesciamento implicato nella realtà dell’atto rivoluzionario. Si ammette che per imporre un nuovo diritto, una nuova costituzione, bisogna passare attraverso un certo vuoto giuridico, un governo provvisorio, un potere costituente. Il tema della parentesi a-giuridica riemerge sotto la figura della dittatura rivoluzionaria: qui è il popolo a essere la fonte di legittimità della dittatura, e a legittimare per delega coloro designati come “commissari del popolo” al fine di reprimere i “nemici del popolo”. Il problema ossessionò il pensiero e la pratica degli uomini del 1789. In La dittatura, Schmitt richiama ampiamente la storia della Rivoluzione Francese nel suo rapporto con il potere militare e con il problema dei disordini popolari. Osserva che, in un primo tempo, i rivoluzionari del 1789 ricusarono la nozione stessa di legge marziale, detestata dai giacobini. Ma con la persistenza dei disordini, il decreto dell’8 luglio 1791 sullo stato d’assedio opera, come si è visto, il trasferimento dell’autorità militare al solo comando militare, «che la eserciterà esclusivamente sotto la sua responsabilità personale». Sebbene questo rendesse autonomo il comando militare, inizialmente lo stato d’assedio era piuttosto circoscritto, essendo il decreto valido per le roccaforti e i porti militari quando si trovavano in una situazione particolare di isolamento e quindi di rottura forzata della catena di comando, di responsabilizzazione fattuale. Quando, insomma, qualsiasi comunicazione della roccaforte con l’esterno era interrotta. Lo stato d’assedio è allora, come rileva Schmitt, uno «stato di fatto tecnico-militare». Ma esso sarà in seguito esteso, sotto il Direttorio, ai comuni dell’interno agitati da disordini, e soprattutto – innovazione capitale – quando il potere si conferisce il diritto di «mettere una città in stato di assedio»: è l’invenzione di quello che è stato chiamato “stato di assedio fittizio”. Alcune città o regioni vengono così poste “fuori dalla Costituzione”, o, con Napoleone nel 1799, “fuori dall’imperio della Costituzione”: la Costituzione del 13 dicembre 1799 prevede di poter «sospendere l’imperio della Costituzione» in caso di «minaccia per la sicurezza dello Stato».
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Questo tipo di sospensione (non sempre così radicale) si diffonde nel XIX secolo, ma rimanendo talvolta inquadrato da garanzie come quelle citate in precedenza: ricorso alla legge, limiti temporali, elenco di articoli o diritti inderogabili, ecc. L’idea dello stato di eccezione si è integrata nella prassi degli Stati di diritto grazie a una sorta di slittamento. Per dirla grossolanamente, questo slittamento avviene tra il XVIII e il XIX secolo. Si potrebbe dire infatti che le concezioni che costruiscono lo Stato di diritto nel XVIII secolo tendono a escludere l’integrazione dello stato d’eccezione nel diritto (come si è visto con Kant e Montesquieu), e che la sensazione di incompatibilità tra la democrazia e il riconoscimento del diritto di sospendere la Costituzione è stata spesso osservata dai costituzionalisti. D’altro canto, nel corso del XIX secolo l’integrazione dello stato d’eccezione è stata variamente negoziata, ma generale. Si è citato l’esempio delle leggi francesi del 1830 e del 1878, ma si possono altresì citare la legge prussiana, le Costituzioni austriache del 1867, bulgara del 1879, giapponese del 1889; si tratta spesso di monarchie o regimi imperiali autoritari. La storia dello stato d’eccezione tracciata da Agamben richiama giustamente l’attenzione sulla sua progressiva integrazione nei dispositivi legislativi e costituzionali degli Stati moderni. E anche se non è sempre oggetto di un’esplicita elaborazione costituzionale, la si “banalizza” nei fatti: in Italia, nel 1909, per affrontare le conseguenze di un terremoto; la guerra del 1914-1918 dà la stura a un uso massiccio della pratica dei “pieni poteri”: l’istituzione di tribunali militari, la sospensione della libertà di stampa, del diritto di riunione, ecc. In effetti, terminata la Prima Guerra Mondiale, i “poteri speciali” concessi in tempo di guerra tendono a perdurare o a essere reintrodotti per nuovi motivi eccezionali. È il caso degli Stati Uniti di fronte alla crisi economica del 1929: con il New Deal, Roosevelt aveva chiesto al Congresso «poteri estesi quanto quelli che mi sarebbero attribuiti se fossimo stati invasi da un nemico esterno» per intraprendere una «guerra contro l’emergenza», cosa che ottenne con il National Recovery Act del 1933. L’urgenza e la necessità possono quindi estendersi a fenomeni non solo militari e di sicurezza, ma anche sociali ed economici. In Francia, nel periodo tra le due guerre, forme di stato d’eccezione sono invocate anche per far fronte alla crisi economica; per affrontare la minaccia tedesca, il governo francese chiede la possibilità di
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governare con decreti legge (con Poincaré nel 1924, Laval nel 1935, il Fronte Popolare nel 1936, Daladier nel 1938), aggirare le procedure deliberative, il controllo parlamentare, ecc. La Germania di Weimar, infine, farà un uso massiccio dell’articolo 48, in più di duecentocinquanta occasioni, per istituire tribunali speciali autorizzati a comminare la pena capitale, per imprigionare militanti comunisti, ma anche, nel 1932, per espellere il governo socialdemocratico di Otto Braun in Prussia proclamando lo stato d’eccezione per il territorio prussiano e nominando von Papen commissario del Reich per la Prussia. È il “colpo di Stato in Prussia”, al quale Schmitt ha prestato manforte legale. Non si tratta qui di giudicare politicamente, storicamente, la fondatezza dell’uso dello stato d’eccezione sotto Weimar, periodo per il quale il meno che si possa dire è che fu eccezionalmente travagliato. Ma per quanto riguarda la questione se l’integrazione giuridica dello stato d’eccezione preservi la democrazia, lo Stato di diritto, se sia una “garanzia” sicura contro una deriva dittatoriale o totalitaria, questo esempio suggerisce di rispondere negativamente. È cosa nota che il regime nazista non abrogò la Costituzione di Weimar, presentandosi come un lungo, interminabile stato d’eccezione, senza dar(si) una nuova Costituzione. Nello stato d’eccezione, il diritto precedente può essere sostituito de facto da una sorta di “doppione” che vi si sovrapponga interamente: giudici d’eccezione, tribunali d’eccezione, procedure d’eccezione, statuti d’eccezione e, naturalmente, poteri eccezionali, che possono essere pieni poteri. Nel caso nazista, lo stato di eccezione divenne la norma. L’articolo 48 della Costituzione di Weimar ha in un certo senso permesso a Hitler di iscriversi nella legalità nel momento stesso in cui la distruggeva dall’interno: un pericolo che Schmitt stesso aveva indicato notando che nessun’altra costituzione al mondo aveva fatto tanto per rendere legale un colpo di Stato. L’eccezione al presente o il presente come stato di eccezione permanente? Veniamo ora alle attuali applicazioni della nozione e al dibattito contemporaneo. Quest’ultimo è caratterizzato da aspetti rilevanti mol-
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to diversi: dalle coordinate ideologiche tratte dall’esperienza politica del XX secolo alle derive securitarie legate all’attualità internazionale. Il Novecento ha determinato una delegittimazione politica e ideologica della nozione di dittatura, veicolo politico dello stato d’eccezione. L’esperienza dei fascismi, l’evolversi delle dittature del proletariato, le sanguinose pratiche delle dittature militari: non ci sono più molti individui, perlomeno nello spazio occidentale, che reclamino per sé il titolo di dittatore, e questo è indubbiamente un lascito positivo del XX secolo. La sensibilità per i diritti dell’uomo, contro qualsiasi forma di dittatura e di violenza statale, si è rafforzata: per questo esiste una diffidenza profonda nei confronti di qualsiasi stato d’eccezione. Gli appelli di Carl Schmitt a favore della dittatura, i suoi argomenti per dimostrare la compatibilità tra democrazia e dittatura (una democrazia pensata in opposizione al liberalismo) non sono più ripresi esplicitamente da nessuno nella loro forma letterale. E tuttavia si dispiega un altro processo, che offusca il primo. La situazione attuale è caratterizzata da un contesto securitario alimentato dall’idea – e dalla realtà – di una minaccia terroristica che si è attualizzata a più riprese nei quattro angoli del globo. Dopo l’11 settembre 2001, il governo americano ha adottato una serie di misure che ben rappresentano l’instaurazione di uno stato d’eccezione: il Patriot Act del 26 ottobre 2001, il Military Order decretato il 13 novembre 2001, l’istituzione di zone di eccezione giuridica in materia di detenzione (Indefinite detention), di processo (giurisdizioni militari), di status di prigionieri (i simple detainees di Guantánamo, sottratti alla Convenzione di Ginevra). Sono cominciate a emergere pratiche non legali, che costituiscono violazioni non solo dei princìpi costituzionali americani ma di tutte le norme dei diritti umani. Di fronte a questa involuzione sono possibili due letture e due usi di Schmitt. Un uso che rileva come l’attuale eccezione faccia oscillare uno Stato democratico liberale verso una forma di egemonia violenta all’esterno e di biopolitica fascistizzante nel trattare alcuni nemici, mostrando la verità nascosta del liberalismo, o piuttosto di ogni Stato moderno; questa lettura recupera un’ispirazione marxista al fine di denunciare le false apparenze dello Stato di diritto, ma esita a considerare irrilevante la tradizione liberale, sulla quale simultaneamente si appoggia per avvertire dei rischi dittatoriali dello stato d’eccezione.
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Un’altra lettura e un altro uso consistono nel preoccuparsi effettivamente del pericolo di questa deriva, pericolo che si manifesta attraverso la presenza di argomenti schmittiani nell’argomentazione dei sostenitori di una politica liberata dalle costrizioni dei diritti dell’uomo, ma richiamandosi proprio a princìpi derisi o negati sia da Schmitt sia da alcuni suoi lettori (post)marxisti. Se è opportuno e urgente richiamare l’attenzione sui pericoli della sostituzione di una prassi di governo auto-normata alle leggi dello Stato democratico e alle diverse procedure di controllo giuridico e parlamentare che essa implica, ciò può avvenire solo sulla base di questi valori e non avallando l’idea schmittiana secondo cui l’eccezione rivelerebbe la verità nascosta della politica. Ma è con questo uso ibrido del riferimento a Schmitt, che ruota attorno al pericolo ma anche al prestigio pararivoluzionario dello stato d’eccezione, che bisogna confrontarsi. Estremismi, eccezione e normalità Diversi autori provenienti dall’estrema sinistra, come Antonio Negri, Walter Benjamin prima di lui e Giorgio Agamben oggi, sono stati affascinati da questa figura del politico che si sarebbe tentati di definire “estatica”, qualora non si ricodificasse in un linguaggio immanentista, sulla falsariga di alcune affermazioni di Schmitt sulla politica come intensità: lo stato d’eccezione e il potere costituente marcano un modo di essere del politico che sfugge al diritto perché in grado di fondarne o sospenderne l’esercizio, una riapertura della “creatività” politica nell’indeterminazione assoluta del suo potere decisionale, l’instaurazione o la restaurazione di un potere costituente non ancora fissato in un sistema di norme; in breve, un gesto rivoluzionario che può mettersi al servizio di interessi controrivoluzionari, come nel caso di Schmitt. La tesi centrale, il punto d’incontro schmittiano-marxista, resta senza dubbio l’idea di una “radicalità” come fonte occultata ma sempre latente dell’ordine “normale”. Questo tema è la leva per una nuova critica del diritto che deve rivelare le decisioni politiche nascoste dietro l’assolutizzazione del diritto vigente. Questa critica del diritto
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ha essa stessa diverse dimensioni. Da un lato può mettere in causa la normalità come una sorta di stato d’eccezione permanente: sarà l’asse dello stato d’eccezione reso paradigmatico da Agamben; può mirare a rendere sensibile la creatività politica repressa dalle visioni conservatrici del diritto e dal “circolo della sovranità”: sarà l’asse del potere costituente sviluppato da Negri; può infine sondare frontiere e spazi limite del diritto, articolandosi con la comprensione schmittiana del diritto come Nomos (Étienne Balibar). Ma in ogni caso, essa incontra problematicamente lo stato d’eccezione nel senso giuridico classico che si è visto in precedenza, nonché la sua specifica e inquietante attualità. Come si è ricordato richiamando rapidamente la polemica che circonda questo polemico autore, la lettura di sinistra di Schmitt può ispirare il sospetto di un fondo comune di ostilità alla democrazia liberale, rimasto così viscerale da condurre alle peggiori alleanze (teoriche) da parte di ex marxisti disorientati. Balibar, nella sua Prefazione alla traduzione francese dell’opera di Schmitt sul Leviatano19, non nasconde che una possibile lettura dell’inatteso riavvicinamento tra Schmitt e i filosofi marxisti conferma il fatto che gli estremi si toccano, che alcune proprietà del discorso marxista-leninista e di quello fascista – in particolare l’anti-liberalismo, la critica del formalismo giuridico, del parlamentarismo, la legittimazione di una forma di dittatura – sono interscambiabili, e che preferendo leggere Schmitt piuttosto che Lenin i nostri autori non fanno che trasferire altrove le loro confusioni. La strategia sviluppata da Balibar in risposta a questo sospetto è triplice. Essa avanza dapprima un argomento di conoscenza, con il quale non si può non concordare: «Per conoscere il nemico, bisogna andare nel Paese del nemico» (secondo una massima di Lenin riportata da Balibar). Essa consiste poi nel recuperare il tema della congiunzione degli estremi per confermarne la fondatezza parziale, un modo per inscrivere nella riflessione di Balibar una certa ricezione della critica arendtiana del totalitarismo, così come degli studi storici sugli scambi tra il nascente fascismo e il leninismo via Sorel (un autore che, come si è visto sopra, affascinò Schmitt). 19 Étienne Balibar, Le Hobbes de Schmitt, le Schmitt de Hobbes, prefazione a Carl Schmitt, Le Léviathan dans la doctrine de l’État de Thomas Hobbes. Sens et échec d’un symbole politique, Seuil, 2002, pp. 7-65.
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Questa storia va ancora meditata e Schmitt ce lo consente: in La dittatura il suo interesse per gli stati d’eccezione è messo in evidenza storicamente, con esempi che vanno dalla dittatura romana antica alla più che contemporanea dittatura del proletariato. Schmitt qui rileva anche che i grandi filosofi cattolici controrivoluzionari, Bonald e Donoso Cortés, vedono nella centralizzazione operata dall’assolutismo e dal giacobinismo – e dunque lo Stato moderno, che ad essi appare essenzialmente come dittatura – un’opera del razionalismo, che a sua volta può essere superata soltanto da una dittatura di segno opposto. In tal modo questi pensatori cattolici vengono in pratica a trovarsi d’accordo, fin nei particolari delle loro argomentazioni, con i sostenitori di una dittatura del proletariato20.
Che fare di questo accordo tra tutti i sostenitori di destra e di sinistra della dittatura? Sul piano della storia intellettuale è vero, come osserva Balibar, che «il pensiero di destra e quello di sinistra non sono totalità chiuse, le problematiche circolano tra loro. La ragione è l’interesse comune dei rivoluzionari e dei controrivoluzionari a mettere in evidenza le contraddizioni dell’ordine esistente»21. Balibar approfondisce dunque questo tema per riflettere sulla facoltà comune al pensiero rivoluzionario e controrivoluzionario (o «rivoluzionario-conservatore») di demistificare il normale ordine liberale come violenza continua. Le teorie estreme, di sinistra come di destra, penserebbero il politico a partire dallo stato d’eccezione, mentre l’ordine liberale comporterebbe sempre la negazione del suo «profilo eccezionale»22. L’estremismo, dichiara a questo punto Balibar, «è anche al centro»23, ed è in fondo la regola dell’«ordine egemonico» (liberale? capitalista? o di qualsiasi ordine?) in quanto l’ordine giuridico «reprime» un disordine e un’«anarchia» che incombono permanentemente sulla vita sociale. A ciò si ricollega uno degli aspetti della lettura schmit20 Carl Schmitt, La dittatura, cit., p. 263. 21 Étienne Balibar, Internationalisme ou barbarie, intervista apparsa su «Contretemps»: https://bit.ly/3YyJBoM. 22 Étienne Balibar, Le Hobbes de Schmitt, le Schmitt de Hobbes, cit., p. 11. 23 Ibidem.
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tiana del Leviatano: lo Stato garantisce l’esistenza della società civile solo contenendo il suo potenziale di dispersione e di autodistruzione mediante una superiore violenza. La differenza tra Schmitt e il suo commentatore – ossia: il suo rovesciamento politico – consiste evidentemente nel fatto che, per lo Schmitt del 1938, lo Stato sovrano liberale fondato in sede teorica da Hobbes non reprime abbastanza il potenziale («anarchista») di scissione a cui apre il suo germinale riconoscimento del diritto individuale, mentre la rilettura di Balibar di queste tesi perora un ampliamento di quella che egli chiama «libertàuguale» (égalliberté), attraverso l’indebolimento dello Stato sovrano poliziesco (come freno alla libertà) e l’estensione dello Stato sociale protettore (come fattore di uguagliamento). In tal modo, come altri autori del movimento che qui si esamina, Balibar sovrappone impercettibilmente alle categorie controrivoluzionarie di Schmitt la critica di sinistra di un apparato Stato-nazionale coercitivo, il cui funzionamento normale maschererebbe sempre processi polizieschi di esclusione e reclusione, particolarmente visibili ai suoi bordi e alle sue frontiere materiali e giuridiche. Ma quale conclusione politica trarre da questa combinazione di Schmitt e Foucault? È difficile stabilirlo dalla Prefazione di Balibar. Da un lato, la tesi di un estremismo del centro appare una variante rinnovata della “violenza inerte delle strutture”, che l’althusserismo designava come un dato dell’ordine capitalista, nonché come ciò che rendeva legittima la contro-violenza rivoluzionaria. Ma fin dai tempi di Leggere Il Capitale, Balibar ha sviluppato una critica della violenza, anche di una certa forma di violenza rivoluzionaria, che disinnesca questo classico concatenamento; parallelamente, si è avvicinato a una logica democratica liberale, nella quale ha smesso di scorgere solo un gioco di imbrogli per riconoscervi alcuni elementi di una politica di civiltà24. Questo sforzo di reintegrazione teorica delle conquiste del liberalismo giuridico e di una preoccupazione – quantomeno estranea al leninismo – per la 24 Su questo tema si veda Étienne Balibar, La Crainte des masses. Politique et philosophie avant et après Marx, Galilée, 1997; trad. it. La paura delle masse. Politica e filosofia dopo Marx, Mimesis, 2001. Si veda altresì Philippe Raynaud, Les nouvelles radicalités, in «Le Débat», n. 105, maggio-agosto 1999, nonché Jean-Claude Monod, Balibar: aux frontières du marxisme et de la démocratie, in «Magazine littéraire», n. 380, ottobre 1999.
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prudenza politica trova il suo limite in alcune sbandate del discorso di Balibar; il tema dell’estremismo del centro può forse produrre ben altro dalla mera confusione, dal momento che l’estremismo è ovunque e da nessuna parte? Più interessante è la nozione di profilo eccezionale che Balibar avanza distinguendola da quella di stato d’eccezione. Sottolinea Balibar: L’ordine liberale comprende permanentemente il suo profilo eccezionale, confessato o dissimulato, che dipende dal fatto che si incarna in uno Stato garante di interessi comunitari e particolari. È Stato di diritto ma anche Stato di polizia; Stato di integrazione di individui e gruppi nella “comunità dei cittadini”, ma anche Stato di esclusione dei ribelli, anormali, devianti; Stato “sociale”, ma anche Stato di classe organicamente associato al mercato capitalistico25.
Il merito di tale concetto è evitare qualsivoglia idealizzazione repubblicana dello Stato (che non considera altro che il punto di vista dell’ordine o del “buon ordine”) e di puntare il dito contro la sua possibilità di permanente deriva poliziesca, inseparabile dallo Stato come istanza detentrice della violenza legittima; di mirare, cioè, a quel profilo eccezionale che è il luogo del suo rapporto costitutivo con i suoi margini (stranieri, non cittadini, delinquenti, zone di frontiera del diritto). I diritti che lo stesso Stato di diritto garantisce sbiadiscono a misura dell’avvicinarsi ai suoi margini. La constatazione è giusta e implica l’inesausta riattivazione di una critica delle zone d’eccezione al diritto oggi riservate alle frontiere dello Stato di diritto. Ma ancora una volta, e, mi sembra, soprattutto nel quadro di un richiamo al pensiero politico di Schmitt, bisognerebbe ricordare che lo Stato di diritto è anche ciò che evita lo scatenarsi della violenza che uno Stato, in cui il diritto non è soggetto ad alcun controllo esterno al potere politico, è destinato a produrre; uno Stato in cui il diritto è «a nostro piacimento», secondo la massima di Göring. Affrontare l’ordine politico a partire dall’eccezione non deve condurre a considerare nullo il lavoro storico di elaborazione di un sistema giuridico di limitazione del potere sulle persone e di prevenzione 25 Étienne Balibar, Le Hobbes de Schmitt, le Schmitt de Hobbes, cit., p. 11.
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dell’arbitrio, lavoro di cui, come peraltro ha riconosciuto Balibar, la codificazione dei diritti umani è un elemento fondamentale. Una nuova governamentalità securitaria Senza dubbio è in Giorgio Agamben che l’intensità dei concetti schmittiani per un’analisi dell’attualità è più netta, ma è sempre in lui che una certa “indistinzione” politica finisce per confondere tutte le diagnosi. Il tema dello stato d’eccezione incontra una tendenza attuale dei dispositivi antiterroristici, ma l’interesse di Agamben oltrepassa questa dimensione evenemenziale per pretendere di situarsi a un livello paradigmatico. Così facendo, Agamben ratifica (e addirittura, lo si vedrà, intensifica) il privilegio ontologico concesso da Schmitt all’eccezione sulla regola, ciò che il miracolo è per la legge uniforme della natura nell’ordine teologico. Tanto che, a leggere Agamben, non si più è sicuri se per lui lo stato d’eccezione sia il più grande pericolo che minaccia l’eredità della tradizione democratica o se si tratti di un’apertura della politica alla sua verità (metagiuridica). Già in Homo sacer Agamben aveva posto la sua riflessione sul “paradosso della sovranità” sulla scia di Schmitt. Stato di eccezione si presenta come un’indagine filosofica e storica su questa nozione riattivata da Schmitt, ma che ha una storia alle spalle. L’opera intende dimostrare che il concetto è stato ampiamente incorporato e financo sviluppato non solo dalle teorie della dittatura, ma dagli Stati democratici moderni e dagli Stati di diritto. Come osservato in precedenza, Agamben nota che la pratica dello stato di eccezione si è banalizzata nei fatti, poiché qualsiasi sorta di evento naturale, sociale, politico o economico diventa il pretesto per aggirare le procedure deliberative, il controllo parlamentare, e così via. Giustapponendo questi esempi, dalla guerra del 1914-1918 al New Deal, senza analizzare le loro motivazioni e i loro effetti26, Agamben ne deduce che una pratica di governo imperniata sullo stato d’eccezione si è nei fatti sostituita alle forme di potere parlamentare e alle norme dello Stato 26 Paul Rabinow rileva a giusto titolo in Agamben «il profondo disprezzo per i dettagli sconvolgenti della storia e dell’antropologia, per il lavoro meticoloso e senza lustro del genealogista» («Le Monde», 19-20 settembre 2004, Dossier Foucault, p. VI).
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di diritto, le quali pur continuano a essere esposte in vetrina dai Paesi in cui viviamo. Un esempio immediato conferisce evidentemente consistenza alla sua tesi: si è visto, e vi si tornerà in dettaglio, come con il Patriot Act (26 ottobre 2001) e il Military Order (decretato il 13 novembre 2001, in seguito rinnovato) si è assistito negli Stati Uniti alla creazione di aree di eccezione giuridica in materia di detenzione, processo, status dei prigionieri. È indispensabile concentrare l’attenzione su questa zona di indistinzione dell’eccezione, di cui Agamben sottolinea a giusto titolo come sostituisca alle norme giuridiche una pratica biopolitica che apre al peggio, ossia alla riduzione degli esseri umani al loro status di corpi senza diritti (lo si è visto con le torture ai prigionieri iracheni). Ricorrere a un paragone con i regimi totalitari è uno schema assolutamente legittimo per denunciare questa deriva; uno schema che è stato utilizzato anche da un senatore americano dell’Illinois, Dick Durbin27, così come da organizzazioni per i diritti umani (ad esempio, Amnesty International). Ma tra lo schema, consapevole dei limiti della comparazione e della sua dimensione polemica, e l’identificazione completa, c’è un salto che Agamben compie rinunciando a qualsiasi distinzione. Difatti, l’argomentazione di Agamben è catturata nel circolo del suo anti-giuridismo di principio, per cui il superamento di Schmitt curiosamente regredisce a un livello infragiuridico. Volendo fare dello stato d’eccezione il punto di relazione tra il diritto e la vita, Agamben finisce con il denunciare una politica «contaminata col diritto»28, e aspira a una politica liberata dal diritto di cui a fatica si riescono a definire contorni e meriti. Oltre a ciò, il fatto che Agamben consideri la violenza come la cifra della condizione umana non rassicura sul suo eventuale contenuto. Uno sfondo di assiomatica marxista annulla il diritto nel momento stesso in cui Agamben giustamente insorge contro le violazioni dei diritti fondamentali, e un fantasma della politica pura invalida la portata delle sue critiche alla perdita di sostanza delle procedure parlamentari. In che misura l’autore di Homo Sacer sottoscrive egli stesso queste norme la cui violazione lo preoccupa visibilmente, ma di cui non 27 William E. Scheuerman, Carl Schmitt and the road to Abu Ghraib, cit., p. 16. 28 Giorgio Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 112.
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manca di fustigare il carattere illusorio? Agamben sembra piuttosto ammantare lo stato d’eccezione dell’aura di una pratica politica che fa esplodere le menzogne del diritto, esponendo l’ossatura di una generalizzata governamentalità biopolitica. Facendo dello stato d’eccezione il punto di relazione del diritto con la vita, Agamben lo situa a un livello costitutivo e così segna lo scacco della stessa concettualizzazione schmittiana – la quale ne fa solo una potenzialità permanente – a favore della visione di Walter Benjamin, secondo cui a essere effettivo ormai è lo stato di eccezione in cui viviamo e che non siamo più in grado di distinguere dalla regola. Si raggiunge qui un punto in cui le risorse critiche che si possono trovare in tali riflessioni rischiano di perdersi, in cui la critica si diluisce normalizzando la violenza estrema. Se nulla permette più di distinguere lo stato d’eccezione dalla norma giuridica, non si capisce perché Agamben si scandalizzi più di tanto per lo stato di non-diritto in cui versano gli Stati Uniti nella loro “guerra contro il terrorismo”. Ciò richiederebbe un concetto positivo dello Stato di diritto, che in questo caso stranamente manca. Di fronte all’estensione dei poteri discrezionali e alle pretese dell’esecutivo e dei servizi segreti di fare a meno di qualsiasi controllo da parte dei giudici, negli Stati Uniti e in Inghilterra sono state sviluppate argomentazioni da varie istanze giuridiche per limitare il potere dell’eccezione, attingendo a diverse risorse costituzionali e giuridiche: l’idea di proporzionalità tra la misura eccezionale e la minaccia (la Camera dei Lord inglese ha emesso una “Dichiarazione di non proporzionalità” a proposito di alcuni punti dell’Antiterrorism Act, come la possibilità di detenere un sospettato per un periodo di tempo illimitato senza incorrere in infrazioni penali), l’idea della necessaria stabilità del diritto, invocata contro la volontà di cambiare precipitosamente la legge sotto l’influenza di una minaccia temporanea, l’esigenza di un processo equo, di una motivazione delle accuse, ecc. Tutte queste risorse del diritto degli Stati di diritto hanno prodotto effetti, ancora profondamente insufficienti ma reali, contro lo sviluppo di pratiche come quelle che hanno dato luogo alla barbarie di Abū Ghraib.
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Una critica autodistruttiva Il merito degli schmittiani di sinistra o di estrema sinistra rimane quello di puntare il dito contro la messa in atto di una modalità governamentale “democratica” che, in nome della lotta contro nuovi pericoli, dal terrorismo all’insicurezza, banalizza le procedure eccezionali e, a poco a poco, “rosicchia” le garanzie giuridiche che circondano i diritti fondamentali degli individui così come le procedure democratiche. Per contro, la debolezza di questi autori risiede nella contraddizione in cui cadono quando fanno dell’eccezione la norma che da sempre prevarrebbe dietro agli Stati di diritto, i quali vengono così a essere ridotti a mere facciate, valorizzando in maniera assoluta l’eccezione nella sua forma di insurrezione popolare antigiuridica e/o antistatale. Per colpire nel segno, una critica delle attuali derive securitarie non dovrebbe negare la realtà di circostanze nuove create, in particolare, da una minaccia terroristica che non è una fantasia di Washington. Essa dovrebbe altresì essere in grado di rendere giustizia della capacità di resistenza interna agli Stati di diritto e ai meccanismi democratici: negli Stati Uniti, la Corte Suprema ha messo in discussione le condizioni detentive e processuali di Guantánamo, ricordando che ogni imputato ha diritto a un avvocato. Il 3 novembre 2001 il presidente Bush aveva autorizzato la persecuzione da parte di tribunali speciali (commissioni militari) di individui sospettati di aver violato le leggi e le consuetudini belliche rendendosi complici di atti terroristici contro gli Stati Uniti. La Corte Suprema ha successivamente dichiarato tali tribunali illegittimi: nel luglio 2006, nel caso Hamdan vs Rumsfeld, i giudici della Corte Suprema hanno ritenuto che «le commissioni militari convocate per giudicare Hamdan [non erano] competenti perché le loro strutture e procedure violano sia il codice di giustizia militare americano [1] sia le Convenzioni di Ginevra». Quattro dei giudici concludevano allo stesso modo «che i crimini per i quali il sig. Hamdan era stato accusato non potevano essere giudicati, secondo il diritto della guerra, da commissioni militari». Le misure del governo americano rimangono soggette ex post a un controllo di costituzionalità. È tuttavia preoccupante che questi richiami si accompagnino spesso a concessioni: analizzando precedenti sentenze della Corte Suprema, Jean-Claude Paye ritiene che «invece di opporsi all’anomia, essi la in-
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seriscano nel diritto»29. Certo, la Corte Suprema continua anche a ricordare il diritto e i limiti del potere presidenziale; una descrizione che pretende che il mondo occidentale sia puramente e semplicemente precipitato nella dittatura finisce con il trascurare il funzionamento dei contro-poteri e lo stesso modo di intervento dei governi, che sviluppano effettivamente spazi di non-diritto e si comportano talvolta, nelle loro pratiche controterroristiche, come “Stati canaglia”, ma che non hanno abolito le libertà interne e restano soggetti a controllo giuridico e parlamentare, nonché alla sanzione elettorale. È tuttavia vero che alcuni fatti, in primo luogo la pratica della tortura autorizzata o incoraggiata dal potere statale, consentono oggi un confronto con i fascismi. Si può obiettare che, ancora una volta, i media americani e le organizzazioni in difesa dei diritti dell’uomo hanno rivelato e denunciato queste pratiche; che parte dei membri del Senato americano ha aperto inchieste parlamentari, esigendo la cessazione immediata di questi metodi e reclamando processi penali; che i soldati che hanno torturato sono stati, sono o saranno processati. La separazione dei poteri e l’esercizio di contro-poteri, di cui tutti gli approcci schmittiani (e marxisti) tendono, sul solco dello stesso Schmitt, a sminuire l’importanza, rimangono – o dovrebbero rimanere – le fragili barriere che impediscono – o dovrebbero impedire – il perpetuarsi di pratiche eccezionali rispetto alle norme internazionali in materia di diritti dell’uomo, sia all’interno sia (più difficilmente, a causa della capacità di deterritorializzare pratiche segrete) ai margini degli Stati democratici. Bisogna, ahimè, riconoscere (ed è ciò che ci ha obbligato a coniugare al condizionale le frasi precedenti) che questo impedimento conosce oggi un processo di profonda erosione: la fronda, condotta da parlamentari americani come John McCain, contro l’autorizzazione alla tortura da parte del governo ha certamente limitato l’integrazione delle tecniche di tortura più violente nelle prerogative antiterroristiche dei servizi segreti americani, ma non ha chiuso la porta a ogni tortura. Il compromesso finale, votato nel settembre 2006, vieta le «violazioni gravi» dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra, che 29 Jean-Claude Paye, La Fin de l’État de droit. La lutte antiterroriste, de l’état d’exception à la dictature, La Dispute, 2004, p. 38; trad. it. La fine dello Stato di diritto, manifestolibri, 2005.
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vieta i «trattamenti inumani e degradanti». Ma la definizione di queste «gravi violazioni» è lasciata nell’ombra ed è precisato che il presidente degli Stati Uniti ha il potere di giudicare l’interpretazione e l’applicazione delle Convenzioni di Ginevra; ora, l’ipotermia, la simulazione di annegamento (waterboarding), il mantenimento del corpo in posizioni dolorose (stress positions) e altre tecniche di interrogatorio di cui è noto che la cia ha fatto ricorso contro i sospettati di aver partecipato a un’impresa terroristica, non sono considerate forme di tortura dalla Casa Bianca. Uno Stato che integra la pratica della tortura nel suo esercizio merita ancora di essere chiamato uno Stato di diritto? No. Ma per denunciare questo ribaltamento abbiamo bisogno di un concetto di Stato di diritto. Ora, questa posta in gioco non è riconosciuta da Agamben: la distinzione tra Stato di diritto e Stato totalitario, tra democrazia autentica e fascismo, sembra allora svanire, e questa tendenza all’indistinzione ci riconduce a un’interpretazione radicalmente negativa della modernità alla base della filosofia della Storia, o dell’anti-filosofia della Storia, di Schmitt; solo che qui il nazismo è la figura onnipresente assegnata al male chiamato “modernità”. In effetti, in Agamben una biopolitica nazista si trova dappertutto sullo sfondo, a un livello quasi costitutivo della pratica quotidiana degli Stati nazionali, al punto tale da permettergli di paragonare «le zones d’attente negli aeroporti internazionali francesi, in cui vengono trattenuti gli stranieri che chiedono il riconoscimento dello statuto di rifugiato», al rastrellamento del Velodromo d’Inverno, e fare del campo di concentramento il paradigma della modernità politica30. Questa volta, una tale indistinzione è talmente radicale da suscitare resistenze. Antonio Negri ritiene che il concetto di biopolitica così ridefinito da Agamben sia indifferente all’antagonismo e renderebbe indistinti stato d’eccezione e potere costituente. Osserva in maniera pertinente: Lo stato d’eccezione appare qui come sfondo indifferente che neutralizza e scolora tutti gli orizzonti e li riconduce ad un’ontologia incapace di produrre senso se non in termini distruttivi. […] Tutto 30 Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995, p. 195 e tutto il capitolo VII.
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quello che avviene nel mondo, oggi, è come se si fosse fissato in un orizzonte totalitario e statico, come “sotto il nazismo”31.
Ma Negri ritiene che ci siano due Agamben: quello che ci colloca in questo orizzonte di glaciale terrore e di indistinta biopolitica, e un altro, spinozista-deleuziano, capace di fare del diritto un «dispositivo utopico» che «irrompe, penetra, sfonda diacronicamente istituzioni e sviluppo giuridico»32. L’invito a una «politica liberata dal diritto» che chiude Stato di eccezione e che può ben apparire come una bella utopia a Negri, a noi appare di una indeterminazione troppo grande per non essere potenzialmente spaventoso (si pensi alle forme di giustizia popolare praticate nella Cina maoista), e le varie esperienze di politica falsamente metagiuridiche del secolo scorso non ci incoraggiano a seguirlo su questo punto. Suggerire che il diritto in quanto tale è iniquo o antipolitico non ha senso. Se momenti costituenti, come ad esempio la democrazia diretta dei consigli operai e altre assemblee popolari, possono essere effettivamente assunti quali modelli di una forma di democrazia più viva, più immediata, più “reale” rispetto alla prosaica e tendenzialmente depoliticizzata quotidianità delle democrazie parlamentari in un regime capitalistico inegualitario, tale valorizzazione non è valida, a nostro avviso, in quanto suggerisce che la vivacità democratica sarebbe proporzionalmente inversa alla formalizzazione giuridica e all’istituzionalizzazione del pluralismo; è valida in quanto valorizza esempi di presa di parola e di controllo politico mantenuti nell’intensità di una partecipazione politica piena, non delegata, e quindi più egualitaria nelle sue modalità e nei suoi effetti. L’intensificazione della democrazia non passa per il declino del diritto. Cosa trattenere di questi approcci schmittiano-marxiani all’attualità? A nostro parere, essi si soffermano su un fenomeno decisivo, una gravissima minaccia del presente, ossia il pericolo di una silenziosa oscillazione delle democrazie, e in primo luogo della democrazia americana, verso regimi eccezionalisti che aggirano i meccanismi di controllo, di contro-potere e di espressione della volontà popolare, il che contribuisce alla precaria legittimità dei loro governi. Queste sospensioni dei 31 Antonio Negri, Il frutto maturo della redenzione, «il manifesto», 26 luglio 2003. 32 Ibidem.
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diritti producono talvolta il puro orrore dei trattamenti disumanizzanti di individui sospettati, ridotti allo status di corpi senza diritti, o alla kafkiana condizione di detenuti a tempo indefinito senza capi d’imputazione né accuse, così come del ritorno della tortura in Stati che, a questo punto, non meritano più di essere chiamati Stati di diritto. Ma questi approcci (si) rendono anche incapaci di sviluppare una critica articolata, normalizzando essi stessi l’eccezione come lo stato naturale delle democrazie capitaliste e/o come la forma tipica della biopolitica moderna, nella quale saremmo fatalmente catturati. La virulenza di alcuni di questi scritti contro le false apparenze dello Stato di diritto liberale deve essere interrogata. Tuttavia, si tratta di scritti isolati, di voci politicamente assai minoritarie rispetto al mainstream neoconservatore e alla moltiplicazione, ai vertici e nelle sfere direttamente responsabili dell’esercizio del potere statale, di dibattiti a favore dell’allentamento antiterroristico delle norme dello Stato di diritto. A essere rimessa in discussione è allora una visione “di destra” dello stato d’eccezione, molto più vicina a quella difesa originariamente da Schmitt stesso, e ripresa negli anni Settanta da alcuni giuristi a lui vicini. Müller lo ricorda a proposito di alcune diagnosi fatte da schmittiani ultraconservatori contro la debolezza imputata alla Repubblica Federale di Germania di fronte al terrorismo (all’epoca di estrema sinistra) negli anni Settanta: questo «presunto realismo», osserva Müller, celava un risentimento di destra (a right-wing ressentment)33 da parte di intellettuali provenienti dalla rivoluzione conservatrice o emarginati per il loro sostegno al nazismo, che lì trovava un’occasione per glorificare nuovamente lo Stato forte contro lo Stato democratico liberale, in particolare contro il governo socialdemocratico dell’epoca. Ci può essere qualcosa del genere anche nella denuncia di una presunta incapacità dello Stato liberale e dell’irenismo democratico di far fronte al “nemico”. Tuttavia, nella Germania della Repubblica di Bonn, a differenza degli anni 1920-1930, questa ironia si esercitava nella modalità dell’understatement e non osava più articolarsi con l’aperta aspirazione a un potere forte, liberato dal peso dello Stato di diritto. In Germania simili formule ricordavano un passato troppo recente. Ciononostante, a partire dall’11 settembre 2001 tale aspirazione è stata pubblicamente 33 Jan Werner Müller, A Dangerous Mind, cit., p. 187.
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espressa, a volte apertamente, a volte con mezzi termini, e soprattutto si è tradotta legislativamente, in particolare, ma non solo, negli Stati Uniti. La prossimità tra le argomentazioni a favore dei poteri eccezionali del presidente come “capo dell’esercito”, che potrebbe decidere di sottrarre alle convenzioni internazionali tutta una serie di persone e di luoghi, e le arringhe di Schmitt a favore di un esecutivo forte, capace di decidere sullo stato d’eccezione, o persino, negli anni di sostegno a Hitler, per il Führer come fonte diretta di ogni diritto, è stata a torto o a ragione rilevata da alcuni intellettuali e giuristi americani. Infatti, è emerso ultimamente negli ambienti giuridici statunitensi un interrogativo su una possibile ispirazione schmittiana delle giustificazioni avanzate per la dottrina dell’unitary executive, dei poteri eccezionali del presidente come capo dell’esercito e del non-diritto in cui si troverebbero i combattenti nemici degli Stati Uniti. In particolare, uno dei consulenti legali di G.W. Bush, John Yoo, è stato accusato di voler schmittianizzare la politica antiterroristica americana. Notava recentemente un articolo della «New York Review of Books»: Secondo tutte le fonti Yoo ha avuto voce in capitolo in quasi tutte le principali decisioni legali riguardanti la risposta americana agli attacchi dell’11 settembre, e in ogni occasione, per quanto ne sappiamo, il suo parere era praticamente sempre lo stesso: il presidente può fare tutto ciò che il presidente vuole fare. Il più famoso documento di consulenza redatto da Yoo è stato un memorandum dell’agosto 2002 dove si sostiene che, nonostante gli Stati Uniti abbiano firmato e ratificato una convenzione che proibisce assolutamente e in ogni circostanza la tortura, e nonostante anche il Congresso abbia approvato una legge seguendo questa convenzione che proibisce senza eccezione alcuna la tortura, al presidente non può essere costituzionalmente impedito di ordinare di praticare la tortura in tempo di guerra. Yoo ha sostenuto il seguente ragionamento: poiché la Costituzione fa del presidente il “comandante in capo”, nessuna legge può limitare le azioni che può intraprendere durante la guerra34. 34 David Cole, What Bush wants to hear, in «New York Review of Books», vol. 52, n. 18, 17 novembre 2005.
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In un articolo dal titolo The Return of Carl Schmitt, Scott Horton, professore alla Columbia University e presidente della Commissione giuridica internazionale dell’Ordine degli avvocati di New York, istituisce un simile parallelismo tra, da un lato, l’argomentazione di Yoo sul fatto che le convenzioni internazionali non vincolerebbero il presidente in periodo di guerra (anche se giuridicamente dubbia come la “guerra al terrorismo”) in quanto capo dell’esercito e, dall’altro, gli argomenti di Schmitt sotto il Terzo Reich a favore dei poteri del Führer come fonte di ogni diritto. Horton ritiene che questo accostamento sia tanto più fondato se si considera l’alta probabilità che Yoo abbia avuto accesso all’opera di Schmitt: nel 2005 Yoo era resident presso il tempio del movimento neoconservatore, l’American Enterprise Institute. È risaputa l’importanza del ruolo di Leo Strauss nella formazione di questo movimento e il posto occupato da Schmitt nel suo pensiero politico (è nota la celebre discussione critica che vi ha dedicato fin dal 1932). È questo canale straussiano ad aver permesso la traduzione delle opere di Schmitt presso la casa editrice dell’Università di Chicago (dove Strauss fu professore), lo stesso editore di Yoo. «È quindi altamente plausibile ritenere che Yoo non ignori gli scritti di Schmitt. D’altra parte» aggiunge Horton «è facile indovinare il motivo della sua reticenza a riconoscere di appoggiarsi a un autore così stigmatizzato»35, notoriamente antisemita, sostenitore del regime nazista e nemico dichiarato degli Stati Uniti in quanto nazione emblematica del liberalismo. Horton fa così giocare l’eterogeneità delle dottrine schmittiane rispetto alla tradizione americana contro la pseudo-legittimazione patriottica che Yoo e i suoi colleghi tentano di conferire alla loro critica del diritto internazionale umanitario, collegandola a una «tradizione sovranista dei Padri fondatori americani» (Washington, Lincoln, ecc.). Che una tale genealogia possa essere avallata segna, per Horton, la sconfitta del pensiero critico: Le concezioni di Yoo sul diritto internazionale umanitario non hanno assolutamente nulla a che fare con i Founding Fathers. Sono un’importazione dall’Europa centrale degli anni Venti e Trenta, un’importazione a buon mercato e di poco credito. Vista da questa prospettiva, diventa sempre più chiaro dove si rischia di arrivare. 35 Scott Horton, The return of Carl Schmitt, in «Balkanization», 7 novembre 2005.
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Questa argomentazione patriottica rovesciata ha una certa pregnanza retorica, ma presenta tutti i difetti del genere: il male non proviene “da noi”, dalle nostre profonde radici democratiche, ma da una maligna «importazione». Quale che sia l’importanza strategica nei dibattiti politici del riferimento al passato nazionale, la questione non è se queste pratiche abbiano precedenti americani né se possano legittimamente richiamarsi ai Padri fondatori, bensì di determinare se siano giuste, accettabili oppure no. C’è qualcosa di vano nel tentativo di indicare un’influenza diretta del pensiero di Schmitt su argomentazioni a favore delle prerogative “totali” del capo dell’esecutivo e del sovrano. Certamente, tali argomentazioni non sono prive di analogie sia nella costruzione sia nelle conclusioni con quelle sviluppate da Schmitt negli anni 1920-1930, ma abbiamo visto che appartengono a una lunga storia giuridico-politica, anche della tradizione repubblicana. Come abbiamo rilevato, ci sono precedenti di certe eclissi del diritto nella storia giuridico-politica americana, come l’Enemy Alien Act del 1798, o la nozione di «poteri dell’esecutivo in tempo di guerra» utilizzata nel 1942; parlare di “guerra contro il terrorismo” permette di affermare che l’attuale situazione americana autorizzi almeno le stesse azioni concesse, per esempio, a Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale. La ricerca di una figura filosofico-politica “malvagia” che ispirerebbe la politica del governo americano nei suoi aspetti peggiori ha un qualcosa di teoricamente seducente, forse soprattutto per intellettuali che possono così “combattere idee” identificabili con e messe in forma da un autore a sua volta “confutabile” (e per di più, nel caso di Schmitt, storicamente “compromesso”); tuttavia, non vi è dubbio che ciò ometta la realtà, allo stesso tempo più complessa e più prosaica, di una politica elaborata da statisti e consiglieri che non hanno avuto bisogno di leggere Schmitt per trovare i fondamenti dello stato d’eccezione, non più di quanto non abbiano bisogno di Strauss per giustificare (con difficoltà, qualora si tentasse davvero di farlo a partire da Strauss) il programma di diffusione della democrazia manu militari36. 36 Ringrazio Pierre Hasner che, in occasione di una precedente e più breve versione di questo capitolo, apparsa su «Esprit» (nn. 8-9, settembre 2006), ha attirato la mia
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Tornando a Schmitt, la sua affascinante teorizzazione dell’eccezione lo ha portato a trascurare una questione fondamentale per qualsiasi regime democratico: quella della proporzionalità tra minaccia e misura eccezionale, dal momento che questa è la pietra di paragone delle argomentazioni giuridiche volte a pronunciarsi sulla legittimità delle misure eccezionali. Gli argomenti della Corte Suprema americana contro i tribunali speciali e contro alcuni aspetti dell’“ordine giuridico” di Guantánamo invocavano proprio questo “test di proporzionalità” tra il pericolo e la misura contestata. Come valutare questa proporzione? Nel suo recente saggio sullo stato d’eccezione, François Saint-Bonnet richiama un sentimento (comune) dei governati e dei governanti secondo cui il superamento dei limiti giuridici non costituirebbe una violazione, ma rientrerebbe in «misure evidentemente necessarie». È questo criterio dell’evidenza, derivato dal diritto medievale, che mancherebbe al discorso schmittiano, il quale rimanda a una decisione puramente personale e arbitraria che, in realtà, può giustificarsi solo nella condivisione di un certo sentimento e di una certa evidenza creata dalla situazione. Se è vero che tali situazioni sono imprevedibili e non possono essere predefinite, se in questo senso sfuggono al normativismo, come Schmitt ha sottolineato, non ci rimandano comunque al puro decisionismo. La critica di Saint-Bonnet vuole giustamente sottrarsi al dilemma normativismo/decisionismo sul tema chiave dello stato d’eccezione; ma tutto il problema è allora spostato sulle condizioni politiche di condivisione di una “evidenza” nella diagnosi di una situazione critica, con tutte le manipolazioni dell’opinione pubblica che il suo eventuale stato di choc può comportare. Il ricorso al registro dell’istinto di sopravvivenza non ci sembra probante: dire che «le azioni compiute seguendo l’istinto (di conservazione) non possono essere decisioni in senso pieno»37 significa postulare un istinto collettivo, affezioni che riguarderebbero l’insieme del corpo sociale, prendendo questa metafora alla lettera laddove il tema della decisione rimanda, attenzione sul rischio di appiattire, attraverso una lettura “teoreticista” e quasi cospirazionista della politica americana, già esemplificata dalle speculazioni sulla sua reale ma ingigantita influenza, Leo Strauss sui neoconservatori americani e questi sulla politica estera dell’amministrazione Bush. 37 François Saint-Bonnet, L’État d’exception, cit., p. 315.
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malgrado tutto, al carattere voluto, ponderato e consapevole di ogni atto politico. La pratica contemporanea dello stato d’eccezione e la riflessione su di essa hanno portato così a una riattualizzazione delle riflessioni condotte da Schmitt tra le due guerre mondiali. Orientata agli eventi successivi all’11 settembre, questa attualizzazione apre generalmente a una critica dello stato d’eccezione e della sua banalizzazione, in quanto rischia di sfociare ed è già sfociata in pratiche intollerabili – tra cui la tortura, su cui ritorneremo – e in quanto costituisce una possibile china verso prassi totalitarie. Occorre denunciare instancabilmente la logica dei “buchi neri” giuridici, delle detenzioni arbitrarie o segrete, la costituzione di zone di interrogatorio deterritorializzate e di procedure poliziesche senza controllo, la pretesa dell’esecutivo o dell’esercito di svincolarsi dalle norme giuridiche internazionalmente riconosciute per rispondere a un’emergenza. Nel caso dei più recenti usi critici delle analisi schmittiane dello stato d’eccezione, sfortunatamente questi moniti si accompagnano all’ambiguo richiamo allo stato d’eccezione o come rivelatore della verità dello Stato moderno in tutte le sue forme, o come un modo per confermare la concezione della politica come continuazione della guerra con altri mezzi, e aspettandosi da una forma “del tutto differente” di stato d’eccezione una sorta di redenzione della miseria della regolamentazione giuridica liberale. Un secondo “effetto d’attualità” delle analisi schmittiane è suscitato dalle evoluzioni ideologiche e geopolitiche successive al crollo del blocco orientale, vale a dire l’incontrastato dominio del liberalismo economico e politico nell’ordine internazionale e, soprattutto, la ricomparsa di una nuova figura della guerra giusta sotto forma di “guerra per l’Umanità” o “per il Diritto”. Schmitt può rappresentare una risorsa critica contro i pericoli di questa evoluzione? Per poter rispondere, bisognerà anche valutare in che misura la critica schmittiana dell’imperialismo provenisse da un nazionalismo patente, che nel dopoguerra si è trasferito e “allargato” in eurocentrismo. Un nuovo paradosso apparirà allora sulla scorta di queste selvagge attualizzazioni, legato proprio alla loro simultaneità e potenziale incompatibilità. Infatti, mentre la riflessione sullo stato d’eccezione mira a un superamento del principio di sovranità, sfociando il più del-
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le volte in una messa in discussione dell’assolutizzazione della sovranità, gli argomenti schmittiani mobilitati dalla critica della nuova guerra giusta hanno piuttosto qualcosa che seduce le sensibilità “sovraniste”, nella misura in cui la destabilizzazione del diritto internazionale classico è attribuita soprattutto alla distruzione del quadro fornito dal riconoscimento reciproco delle sovranità. È a questa lettura della destabilizzazione del diritto internazionale che dobbiamo ora dedicarci.
3. La destabilizzazione del diritto della guerra: verso un diritto internazionale dell’eccezione?
In un articolo sull’intervento della nato in Kosovo, la cui giustificazione pubblica era anzitutto umanitaria (impedire massacri di popolazioni albanesi da parte dell’esercito e delle milizie serbe paragonabili a quelli perpetrati in Bosnia), Jürgen Habermas richiamava il violento sospetto avanzato da Schmitt sull’invocazione dell’umanità nelle relazioni interstatali: «Chi parla di umanità, vuol trarvi in inganno»1. Parafrasando la massima di Proudhon, con questa formula lapidaria Schmitt mirava a quello che per lui non poteva che essere un uso altamente ideologico della nozione di umanità: Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il suo avversario, di un concetto universale per potersi identificare con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso, civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche […]. L’umanità non è un concetto politico e ad essa non corrisponde nessuna unità o comunità politica e nessuno status2. 1 Jürgen Habermas, Humanität, Bestialität, in «Die Zeit», 29 aprile 1999; trad. it. Umanità e bestialità. Una guerra ai confini tra diritto e morale, in «Caffè Europa», a cura di Raffaele Oriani, 14 maggio 1999. Cfr. Carl Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 139. 2 Carl Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., pp. 139-140.
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Dal canto suo, Habermas allontanava il sospetto di un inganno consustanziale al motivo umanitario, e concludeva il suo articolo ritenendo che un intervento militare di questo tipo dovesse basarsi su un diritto cosmopolitico ancora inesistente e che dovesse far nascere un diritto dei popoli alla protezione nei confronti dei crimini contro l’umanità, superando i limiti che il diritto internazionale dell’epoca, ancora fortemente inquadrato dalle prerogative delle potenze statali sovrane, gli imponeva. Se si adotta un punto di vista schmittiano su questa argomentazione, vi si può scorgere un eccellente esempio della destabilizzazione del diritto internazionale mediante motivi umanitari che compromettono la limitazione della guerra operata dal diritto internazionale classico, basato sul principio di sovranità, e che rischiano di trascinare le potenze in tremende spirali interventiste e di criminalizzazione dell’avversario. Quali che siano i giudizi sulle differenti azioni militari condotte in nome dell’umanità negli ultimi decenni, è difficile negare una qualche forza descrittiva e predittiva al lavoro svolto da Schmitt sulle nuove forme di legittimazione della guerra nel XX secolo, e spazzare via con un’alzata di spalle le sue preoccupazioni sulla trasformazione-riattivazione della nozione di guerra giusta in guerra per il diritto. Ma a sconcertare è la stabilità stessa del nucleo argomentativo del pensiero di Schmitt sul tema: in gran parte costruita contro l’ordine giuridico emerso dalla Prima Guerra Mondiale e dal Trattato di Versailles, posto sotto l’egida della Società delle Nazioni, la riflessione schmittiana sul diritto internazionale sembra essersi in seguito dispiegata a partire dal medesimo asse critico, anche dopo la Seconda Guerra Mondiale (nonostante il nazionalismo tedesco abbia potuto – meglio, dovuto – ricalibrare su un piano “europeo” i propri obiettivi politici). Proprio questa costanza dimostra che Schmitt non ha mai tenuto in conto, da un punto di vista teorico, la rottura rappresentata dai crimini commessi dal regime nazista, con cui ha collaborato dal 1933 al 1936. Ora, l’ordine europeo e mondiale dopo il 1945, la sensibilità dell’opinione pubblica, l’idea stessa di intervento umanitario o, più recentemente, il “dovere di ingerenza” sono stati in parte impregnati da questa memoria qui rifiutata, attraverso il concetto – respinto da Schmitt – di crimine contro l’umanità. Una discussione della critica schmittiana alla destabilizzazione del Jus publicum Europaeum deve quindi includere una discussione sui suoi silenzi.
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L’indagine di Schmitt sul nuovo regime di legittimazione e delegittimazione della guerra nel XX secolo si pone all’intersezione di due assi principali del suo pensiero: da un lato, la sua riflessione sulla politica – e sulla depoliticizzazione liberale –, e dall’altro il suo interesse per la storia dello jus gentium, letta attraverso le metamorfosi degli ordini spaziali delle epoche successive, come ricostruito nel nomos della terra3. Seguiremo essenzialmente il filo di questa impressionante opera, scritta negli anni Quaranta ma pubblicata nel 1950, che mette in gioco gli strumenti concettuali fondamentali dell’approccio schmittiano al diritto internazionale. Il Nomos e il limite Il concetto che dà il titolo all’opera designa l’atto fondamentale di divisione spaziale che è, secondo Schmitt, all’origine e al cuore di ogni diritto: il Nomos visto come primitiva «forza di diritto» (Rechtskraft) consiste in un atto originario che conferisce ordine a un luogo, recinta un campo, delimita uno spazio proprio, una proprietà. Il diritto, secondo Schmitt, è originariamente una certa combinazione di Ordnung e Ortung: Ordnung, cioè ‘ordinamento’, ordine che stabilisce di per sé una regola (Ordnung ha allo stesso tempo il significato di ordine, di ordinamento, e di regola, di regolamento) e Ortung, ossia ‘determinazione del luogo’ (Ort). Questa, più che una semplice localizzazione di un luogo su una mappa, è un’autentica appropriazione del luogo mediante una misura, una delimitazione e un uso che lo “situano” tra altri spazi. La nozione greca di Nomos porterebbe con sé tutta questa rete di significati dimenticati dalle concezioni moderne del diritto, le quali respingono il problema della fondazione del diritto e della sua iscrizione in uno spazio: rifiutando la traduzione corrente di Nomos con Gesetz (‘Legge’), Schmitt fa giocare le sue diverse radici e parentele filologiche per restituire questo rapporto del diritto con lo spazio. Così, richiama il legame tra Nomos e nemein, ‘prendere’, che ricorda la prima «presa (di terra)», la quale precede e fonda qualsiasi partizio3 Cfr. Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 65.
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ne di diritto. L’articolo di Schmitt Nomos – Nahme – Name raccoglie ciò che è stato semanticamente separato mediante l’accentazione della parola sulla prima o sull’ultima sillaba4: Nómos nel senso di ‘legge’ e nomós, con l’accento sull’ultima sillaba, che designa (in particolare in Omero) ‘un pascolo, una porzione di terra o una dimora’. Difatti, ritiene Schmitt, nomos è un nomen actionis di nemein, e nemein notoriamente significa ‘dividere’ [teilen] e ‘spartire’ [verteilen], ma sorprendentemente anche ‘pascolare’ [weiden] […]. Il fatto che il pascolare da un lato e il dividere e lo spartire dall’altro siano espressi con la stessa e medesima parola nemein dimostra […] un’unità profonda che viene salvaguardata e mantenuta nel linguaggio anche quando il suo ricordo è da lungo tempo svanito dalla coscienza corrente5.
Potremmo domandarci cosa farcene di queste meditazioni filologico-mitologiche e di questo fondo arcaico del diritto. È chiaro che, per Schmitt, l’origine qui in questione non viene mai abolita del tutto. Sia il diritto interno sia quello internazionale, formali e normativi quanto si voglia, rimangono sempre influenzati da questi atti fondamentali, le cui differenti modalità sono determinate con forza dal rapporto dei Paesi con gli elementi dove si gioca la loro difesa e si esercita la loro potenza: la terra, il mare, e nel XX secolo, mediante uno sconvolgimento tecnico i cui effetti geopolitici rimangono incalcolabili, l’aria. Il valore politico del limite Ma non è tutto: il concetto di Nomos è già portatore di una certa concezione normativa della politica, la quale privilegia sistematicamente 4 Accentazione che Schmitt ci ricorda risalire all’epoca alessandrina, e che quindi potrebbe aver introdotto una differenza laddove in origine ci sarebbe stata unità o perlomeno grande prossimità semantica, in seguito occultata: cfr. Carl Schmitt, Nomos – Nahme – Name, in Siegfried Behn (a cura di), Der beständige Aufbruch. Festschrift für Erich Przywara, Glock & Lutz-Verlag, 1959; trad. it. Nomos – presa di possesso – nome, in Id., Stato, grande spazio, nomos, cit., pp. 349-350. 5 Ivi, pp. 351-352.
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ciò che Schmitt chiama la Hegung, parola forgiata a partire dal verbo hegen, ‘custodire, circondare accuratamente’: la limitazione, la cerchia, il recinto dove può mantenersi un legame originario con uno spazio proprio, contro tutti i tentativi di Entortung, di ‘delocalizzazione’ di un diritto sconnesso da qualsiasi ordine concreto. Da qui, due conseguenze: 1) le pretese di estensione globale di norme giuridiche simili e di intervento universale sono anticipatamente condannate dalla concezione del diritto come combinazione di Ordnung e Ortung. Il progetto cosmopolitico di farla finita con tutti i limiti nazionali è così percepito da Schmitt come un programma antipolitico sostenuto dall’economia e rilanciato dal liberalismo, così come l’opposizione di Schmitt al positivismo, al formalismo e al normativismo si ancora all’esigenza di un legame sostanziale tra il diritto e un ordine concreto delimitato, che gli conferisca il suo radicamento e la sua profondità storiche; 2) se la politica ha, agli occhi di Schmitt, un legame essenziale con il limite, non è solo nel senso del confine spaziale, ma anche in quello metaforico per cui la politica traccia sempre un limite tra amici e nemici. Qualsiasi idea di un’umanità politicamente unita e riconciliata, che ha superato la politica e l’antagonismo che essa implica, è dunque considerata da Schmitt una chimera: la politica comincia con Caino, quindi con la possibilità dell’omicidio. Agli occhi di Schmitt tutti i grandi pensieri della politica sono “realisti”, nel senso che partono dal postulato della pericolosità dell’uomo per l’uomo. È Hobbes a dare la chiave antropologica del Leviatano: lo Stato deve contenere la violenza interumana, e il superamento dello Stato in nome di una pretesa liberazione dell’umanità non farebbe che scatenare la violenza nel ritrovato stato di natura. Conseguenza anarchica che, secondo Schmitt, incombe su tutti i pensieri la cui premessa antipolitica è quella della bontà naturale dell’uomo, che i meccanismi sociali ostacolano: da Rousseau a Marx, fino agli anarchici e agli stessi liberali, i quali in ultima analisi sostengono il deperimento dello Stato. Una corretta concezione politica deve quindi mirare a circoscrivere la violenza interna e la guerra, a contenerla, ma non ad abolirla. Oltre a essere illusoria, qualsiasi pretesa di realizzare uno stato politico dell’umanità unita e del tutto libera dalla politica è anche nefasta: agli occhi di Schmitt, il suo successo
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equivarrebbe a una regressione verso l’animalità di una vita senza conflittualità, senza possibilità di sacrificio, senza altro orizzonte che il consumo e il divertimento. Qui veut faire l’ange fait la bête? No, dice Schmitt, poiché l’epoca non crede più agli angeli: qui veut faire l’homme fait la bête6. È su un piano più strettamente giuridico che si colloca l’affermazione fondamentale de Il nomos della terra, logicamente derivata da queste opzioni politico-metafisiche: «Il diritto e la pace poggiano originariamente su delimitazioni in senso spaziale [Hegungen] […]. Il problema centrale di ogni ordinamento giuridico non è tanto quello dell’abolizione della guerra, ma piuttosto quello della sua limitazione [Hegung] o regolamentazione»7. L’affermazione è al passato, ma per l’appunto: c’è stata, in passato, una pace di tal fatta, «regno della ragione relativa», mentre la soppressione della guerra non è mai stata oggetto che di progetti. Ora, per un paradosso simile a quello valido sul piano della politica interna, la volontà di abolire la guerra deve sfociare, per Schmitt, nel suo scatenarsi: la negazione concettuale della violenza prepara la sua radicalizzazione reale. Il nomos della terra vuole fornire l’illustrazione storica di questo assioma. Il libro si apre con l’unificazione del mondo, divenuto un “globo” misurabile e presto scientificamente misurato, in ragione della scoperta dell’America, e dove può quindi instaurarsi un vero Nomos di tutta la terra. Con la scoperta del Nuovo Mondo appare «un’area libera per l’occupazione e l’espansione europea»8 e ciò si traduce nella comparsa delle prime «linee globali»: la linea tracciata dalla bolla Inter caetera divina di Papa Alessandro VI del 4 maggio 1494, le rayas mediante cui due prìncipi cristiani si accordano sull’acquisizione delle terre di popoli “pagani”, le amity lines franco-inglesi che differenziano uno spazio di relazioni tra popoli cristiani e un’area situata “oltre la linea” («beyond the line»), dove atti ritenuti riprovevoli al di qua (alleanze con eretici o pirati, assalti alle navi, ecc.) vengono, al di là, nuovamente ammessi. A proposito di questa linea, che Richelieu situava al Tropico del Cancro, Schmitt scrive: «Qui cessava il diritto europeo, o perlomeno il vecchio “diritto pubblico europeo”. Qui aveva fine dunque anche la 6 Carl Schmitt, Glossario, cit., p. 273 (25 agosto 1948). 7 Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 65. 8 Ivi, p. 83.
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limitazione della guerra operata dal diritto internazionale fino ad allora vigente, così che la lotta per la conquista territoriale diventava sfrenata»9. Troviamo dunque qui la figura, al tempo stesso sorprendente e stranamente familiare, di una “limitazione” della guerra essa stessa limitata geograficamente e geopoliticamente: l’Europa si dota di altri teatri di scontro oltre al suo suolo o ai suoi mari, costruisce linee al di là delle quali può esercitarsi una concorrenza o una lotta selvagge che disapprova quando esercitate al suo interno. L’esperienza coloniale per l’Europa, e la Guerra Fredda per le nuove grandi potenze, presenteranno alcune analogie con questa mescolanza di contenimento nei “centri” e spostamento verso la periferia, beyond the line, dei terreni di scontro diretto o di aperta concorrenza militare. La sequenza storica privilegiata da Il nomos della terra presenterà una limitazione della guerra, relativa perché riguarda unicamente il suolo europeo e si accompagna a guerre coloniali, del tutto conseguente a una delle più grandi prese di terra della Storia: la presa delle Americhe. La fine della Respublica christiana, l’avvento degli Stati sovrani e la neutralizzazione della guerra giusta La concettualizzazione schmittiana degli ordini concreti non fa intervenire solo l’ordine spaziale, ma anche quello istituzionale: Schmitt si volge così alla sociologia delle élite dirigenti e alla storia dei tipi di argomentazione sviluppati da queste ultime o dai loro consiglieri per formare convinzioni, giustificare decisioni, e così via. Il concetto di «centro di riferimento» (Zentralgebiet) utilizzato nel sorprendente testo del 1929, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, permette a Schmitt di concettualizzare schematicamente la successione storica dei «centri di riferimento» intellettuali che hanno prevalso in Europa dal XVI secolo, per prendere in considerazione la progressiva destituzione della teologia a vantaggio finale della morale umanitaria e dell’economia, la cui combinazione caratterizza secondo Schmitt il pensiero liberale10. 9 Ivi, p. 92. 10 Cfr. Carl Schmitt, Das Zeitalter der Neutralisierungen und Entpolitisierungen, in «Europäische Revue», vol. 5, n. 8, 1929; trad. it. L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Id., Le categorie del “politico”, cit., p. 171.
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Infatti, con l’emergere di una nuova entità politica, lo Stato moderno, uno degli spostamenti decisivi della lingua parlata dalle élite nei loro giochi di potere è quello che eclissa la teologia a vantaggio di un’altra lingua: quella della politica e del diritto secolare. Il fatto storico che Schmitt presenta come decisivo per la “deteologizzazione” dell’argomentazione giuridico-politica e la costituzione di un ordine secolare europeo consiste nel superamento delle guerre civili confessionali da parte di una nuova autorità capace di imporre la “pace religiosa”, e che trae da questa capacità la sua legittimità: lo Stato sovrano soppianta la Chiesa – o le Chiese lacerate – in quanto Leviatano capace di contenere o di porre fine alla violenza scatenata dall’agitazione teologica. «Lo Stato è il prodotto essenziale di una guerra civile religiosa, e in particolare del suo superamento tramite la neutralizzazione e la secolarizzazione dei fronti confessionali, cioè tramite la deteologizzazione»11. Il nomos della terra esamina questo processo dal punto di vista dello jus gentium e della neutralizzazione della dottrina medievale della guerra giusta. Parallelamente alla fine della dottrina del tiranno, che autorizzava gli interventi della potestas indirecta (‘potere indiretto’) del Papa, il nuovo ordine territoriale assistette alla fine delle crociate, cioè dei mandati pontifici validi come titoli per la presa di terra del suolo dei popoli non cristiani. A modificarsi fu anche la concezione della guerra tra prìncipi cristiani. La comparsa dello Stato sovrano è il fattore che permette l’emergere di un nuovo argomento rispetto a un ordine concreto precedentemente posto sotto l’autorità della Chiesa in materia di diritto delle genti. Il passaggio dal Medioevo alla Modernità si compie in una duplice separazione di due ordini di idee che per tutta la durata del Medioevo erano apparsi inseparabili: nel definitivo distacco dall’argomentazione ecclesiastica e teologico-morale da quella giuridico-statale e nel distacco egualmente importante della questione morale e giusnaturalistica della justa causa da quella tipicamente giuridico-formale dello justus hostis, distinto a sua volta dal criminale, vale a dire dall’oggetto di un’azione punitiva12. 11 Carl Schmitt, Glossario, cit., p. 27 (27 settembre 1947). 12 Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 133-134.
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È all’opera una formalizzazione che permette di respingere la “dubbia questione” della giusta causa a vantaggio della nozione non discriminante di justus hostis: la guerra interstatale diventa una relazione tra Stati che, sul modello del duello, un combattimento controllato e osservato che deve obbedire a determinati codici, si riconoscono reciprocamente. Vattel esprime in maniera esemplare questa formalizzazione-neutralizzazione dell’idea di guerra giusta: «La guerra en forme, quanto ai suoi effetti, deve essere considerata giusta da entrambe le parti»13. Questo Jus publicum Europaeum classico, che si sarebbe imposto in Europa tra il XVI e la fine del XIX secolo, non ha mai inteso abolire la guerra, ma ha avuto per effetto di circoscriverla in quelle barriere giuridiche evocate, nella rêverie terminologica di Schmitt, dalla parola Hegung (un neologismo formato sul verbo hegen che significa ‘proteggere, nutrire, custodire, conservare’, riferito in particolare alla protezione della foresta: der Hegemeister è il nome della guardia forestale). Ma l’ordine così costruito sulla base degli Stati sovrani riuscì in un’impresa storica: non solo il riassorbimento della guerra civile interna per ragioni confessionali, ma anche l’assenza di guerre di annientamento interstatali per due secoli. Ecco però che nel XX secolo una nuova figura della guerra giusta pretende di imporsi, non esitando peraltro ad arruolare alcune grandi personalità teologiche (in primo luogo il teologo di Salamanca Francisco de Vitoria, spesso presentato come padre del diritto internazionale, e addirittura, per la sua difesa dei diritti degli indios, come padre dei diritti dell’uomo) erroneamente presentate come i padri del diritto internazionale “umanitario”: non più la guerra giusta in nome di una justa causa teologica (il mandato missionario), ma la guerra giusta in nome di un concetto assoluto di umanità. Nuovo paradosso schmittiano: quando la guerra è criminalizzata, diventa ancora più criminale. «La teoria odierna della guerra giusta mira proprio alla discriminazione dell’avversario in quanto artefice di una guerra ingiusta. La guerra stessa diviene un crimine nel senso penalistico del termine. 13 Emer de Vattel, Le Droit des gens, ou principes de la loi naturelle, appliqués à la conduite & aux affaires des nations & des souverains, 1758, lib. III, cap. 12, par. 190.
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L’aggressore viene definito criminale nel peggiore significato del termine, ed è posto outlaw come un pirata»14. Il cambiamento di significato e di percezione della guerra è visibile nella Prima Guerra Mondiale, o più precisamente nei trattati di pace che la concludono, in primo luogo nel Trattato di Versailles. La criminalizzazione del vinto, l’attribuzione della responsabilità della guerra alla Germania (e al suo imperatore Guglielmo II, che si intendeva condurre dinanzi a una corte di giustizia internazionale), con l’esigenza di riparazioni finanziarie che l’accompagna, è una delle ferite storiche determinanti per la visione schmittiana del diritto internazionale, in quanto momento di oscillazione verso un concetto discriminatorio di guerra. Questo episodio d’altronde concentra tutta l’attenzione dell’ultima parte de Il nomos della terra, redatto negli anni Quaranta e pubblicato nel 1950, mentre la Seconda Guerra Mondiale è oggetto solo di alcune menzioni analogiche. Nel pensiero del diritto internazionale democratico liberale la guerra è generalmente condannata, ma tuttavia riemerge, riqualificata, quando le potenze che dicono di condannarla devono farla; si parlerà allora preferibilmente di “operazioni di polizia internazionale”, di “mantenimento dell’ordine mondiale” o di “interventi umanitari”. In questo quadro, il nemico non deve più essere rispettato nella sua aequalitas formale, ma squalificato come nemico radicale, “definitivo”, in misura opposta all’enfasi morale della “parte buona”: da qui la regressione di una nozione di justus hostis nel suo rigore giuridico a «una nozione quasi teologica del nemico». La «propaganda umanitaria» si riallaccia infatti secondo Schmitt alla dimensione «totale», anzi totalitaria; il termine appare nel Glossario a proposito della dimensione «totalitaria»15 che la teologia introdurrebbe nella politica e che Schmitt distingueva da una placida logica giuridica: «I teologi tendono a definire il nemico come qualcosa che va annientato»16. Si vede come l’argomentazione di Schmitt chiuda il cerchio: lungi dall’essere un progresso, la criminalizzazione dell’avversario e la nuova nozione di guerra giusta umanitaria costituiscono una regressione 14 Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 135. 15 «La teologia è necessariamente totalitaria quanto alla sostanza, al risultato»: Carl Schmitt, Glossario, cit., p. 435 (4 ottobre 1950). 16 Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus, cit., p. 91.
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verso l’epoca delle guerre di religione e delle Crociate, ma senza più l’autorità ecclesiastica. La guerra di annientamento L’analogia che Schmitt imbastisce con la guerra civile confessionale si accompagna tuttavia a un rifiuto dell’ascendenza cristiana che talvolta la guerra giusta moderna ricerca: «Le tendenze moderne non portano in sé alcuna resurrezione di dottrine cristiane bensì sono un fenomeno ideologico concomitante nato con lo sviluppo tecnico-industriale dei mezzi di annientamento moderni [Vernichtungsmittel]»17. Né diritto rigoroso né teologia autentica: nella sua versione moderna, la guerra giusta di intervento non sarebbe che ideologia secreta dalla tecnica. Ora, questa menzione del fattore tecnico della guerra di annientamento, richiamato in chiusura dell’opera, solleva una serie di questioni che lo stile oscuro e definitivo di Schmitt lascia nell’ombra. Così, supponendo che si ammetta il quadro generale della storia delle relazioni internazionali dipinto ne Il nomos della terra, e in particolare la sua osservazione sull’apparizione di una forma di guerra di annientamento o totale nel XX secolo, bisogna veramente cercarne le cause nella criminalizzazione giuridica della guerra, negli effetti rovesciati dell’umanitarismo bellico, piuttosto che nelle nuove tecniche militari e nella loro potenza distruttiva di massa? L’articolo del 1937 Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat (Nemico totale, guerra totale, Stato totale) sostiene che «in un certo senso ci sono state guerre totali in tutte le epoche», ma che «sotto l’impressione delle esperienze dell’ultima grande guerra [1914-1918] la formula della guerra totale ha poi ricevuto un significato specifico e una particolare efficacia»18. Questo significato ampio viene in seguito dettagliato: mobilitazione totale, indistinzione di civili e soldati, materiale di guerra capace di annientamento: tutto ciò non intrattiene alcun legame specifico con l’“ideologia umanitaria”. Il rapporto di 17 Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 430. 18 Carl Schmitt, Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat, in «Völkerbund und Völkerrecht», n. 4, 1937; trad. it. Nemico totale, guerra totale, Stato totale, in Id., Posizioni e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles, cit., p. 389.
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quest’ultima con la guerra totale si sarebbe manifestato nella «capacità di un’inimicizia totale», come mostrato dalla «propaganda mondiale» impiegata dall’Inghilterra nel 1914-1918 «per mobilitare in nome della civiltà e dell’umanità, della democrazia e della libertà immense energie spirituali e morali contro il militarismo tedesco-prussiano»19. Ma, da una parte, la mobilitazione totale come la tematizzava Jünger (esaltando la guerra da un punto di vista estetico profondamente estraneo a Schmitt)20, dall’altra parte la “guerra di materiali” che può realizzare un annientamento del nemico, sono effetti della tecnicizzazione moderna, non dell’umanesimo giuridico. Se Schmitt ne trova il preludio nella rappresentazione giacobina della levée en masse, è difficile pretendere che nel XX secolo i regimi democratici liberali avrebbero avuto l’appannaggio della mobilitazione totale, e a fortiori della guerra totale. D’altra parte, bisognerebbe approfondire ulteriormente l’indagine storica della “demonizzazione” dell’avversario nella sua supposta “illimitatezza”: la descrizione dell’avversario come mostro e il votarsi all’annientamento del nemico sono vecchi motivi delle retoriche belliche, che hanno senza dubbio scandito le guerre di epoche diverse, dalle guerre di religione e sante sino alle guerre di conquista coloniale. L’effetto dell’umanitarismo – e di quello che comunemente è stato chiamato diritto internazionale umanitario – non è piuttosto quello di dissociare i dirigenti politici dalle popolazioni, di “criminalizzare” i primi (esempi recenti, dei quali bisognerebbe ulteriormente differenziare lo statuto: Ṣaddām Ḥusayn, Milošević, i talebani) tentando 19 Ivi, p. 394 (legg. mod.). 20 Si veda l’articolo Politik redatto da Schmitt nel 1936 per l’«Handbuch der neuzeitlichen Wehrwissenschaften», n. 1, p. 549: «Secondo la concezione di un mero Nient’altro-che-la-guerra, la guerra trova in sé stessa il proprio senso, il suo diritto e il suo eroismo; come dice Ernst Jünger, “l’uomo non è fatto per la pace”. […] Una tale visione, nella misura in cui è puramente bellica, si oppone alla visione politica. Il punto di partenza di quest’ultima, al contrario, è che le guerre, ed è questo a conferire loro senso, sono condotte in vista della pace e sono un mezzo della politica». Se questa seconda concezione sembra meno inquietante di quella di Jünger, bisogna precisare che Schmitt conclude il suo articolo sostenendo che essa «è anche l’interpretazione dell’essenza della politica sottesa alla politica – diretta allo stesso tempo verso l’onore e la capacità di difendersi militarmente e verso la pace – del Führer e cancelliere del Reich Adolf Hitler».
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(ancora una volta, ogni “esempio” meriterebbe un’analisi propria) di risparmiare il più possibile i secondi? Se la retorica militare contemporanea pratica anche forme di eufemizzazione per manipolare l’opinione pubblica, bisognerebbe prestare attenzione agli effetti reali della preoccupazione umanitaria nella condotta di queste guerre (che Schmitt non ha certo conosciuto), il cui bilancio in termini di vittime civili è incomparabilmente inferiore a quello delle guerre precedenti al 1945: i tanto sbeffeggiati “attacchi chirurgici” e gli “interventi mirati” sono concepiti proprio per evitare di annientare le popolazioni civili, rompendo con la condotta della guerra totale. Si può certamente ritenere che le promesse su questo punto non vengano mai mantenute e/o che siano menzognere, dal momento che non possono essere mantenute: i tristemente famosi “danni collaterali” dimostrano che una guerra colpisce sempre anche la popolazione civile. La discussione si collocherà allora, ai nostri occhi legittimamente, sul terreno umanitario pacifista, ma non nella prospettiva di Schmitt, che limitava la questione dell’umanizzazione della guerra alla sua formalizzazione e al riconoscimento giuridico del nemico. La distinzione tra le popolazioni e i loro dirigenti “incriminati”, che si può considerare un progresso nell’ottica dei diritti dell’uomo, veniva percepita da Schmitt come una breccia nel principio di sovranità: negli anni Trenta come nei Cinquanta, Schmitt insorge contro l’idea di giudicare i leader dei Paesi incriminati, dal momento che il diritto interstatale ancorato nella sovranità considerava sempre il sovrano come l’interlocutore riconosciuto dei negoziati del dopoguerra. Si potrebbe dire: senza rispetto per il sovrano, nessuna dignità del nemico. Ma che un sovrano possa far sprofondare “il suo” Stato nell’indegnità e nel crimine è un fatto storico di cui il diritto doveva – e deve sempre – tenere conto: dato ciò, la dissociazione con “il suo” popolo non era forse necessaria, per evitare qualsivoglia criminalizzazione giuridica di un intero popolo? È esistito ed esiste un “esercizio criminale della sovranità statale”, ed è precisamente ciò che la nozione di “crimine contro l’umanità” tenta di far valere, ivi compreso per giudicare i capi di Stato. Anche questo ha dato forza all’idea di un diritto, se non addirittura di un dovere di ingerenza al fine di salvare popolazioni dallo sterminio, il che effettivamente implica che uno Stato perda la sua sovranità quando
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massacra “la sua” popolazione (o quando intraprende la distruzione di una popolazione vicina): la solidarietà dell’umanità deve allora prevalere sulla sovranità statale, poiché esistono «limiti all’autonomia interna di un regime»21. Uno dei punti ciechi delle teorie di Schmitt è il non dar credito alcuno all’esigenza di un limite che non derivi da un atto della sovranità, o di un limite diverso da quello che si esprime nell’immanenza della storia del Nomos: un limite alle azioni dello Stato che si impone dall’esterno all’interno, nella comunicazione tra comunità internazionale e individui che fanno valere il loro diritto fondamentale all’esistenza. Questo punto cieco della sovranità era stato indicato da Hans Blumenberg nella discussione della teologia politica schmittiana condotta in La legittimità dell’età moderna22. In Schmitt, come si è visto, il processo di esternalizzazione dei conflitti e il passaggio dalle guerre civili confessionali alle guerre tra Stati nazione erano descritti come una sorta di progresso. Schmitt ritiene che in Età Moderna i conflitti interstatali fossero, in qualche modo, de-assolutizzati, regolati dallo Jus publicum Europaeum, il diritto delle genti: ogni Stato riconosceva l’altro, il nemico era distinto dal criminale, e la questione della “giusta causa” o della “guerra giusta” era neutralizzata a vantaggio della “guerre en forme”. Si può discutere sulla realtà storica di questo “addomesticamento” della guerra in Età Moderna, ma sembra storicamente pertinente ritenere che la guerra civile confessionale avesse fornito la dimostrazione sperimentale del suo carattere intollerabile e della necessità di “decongestionare” i conflitti, trovare un’istanza più neutrale di regolazione dei conflitti confessionali: lo Stato sovrano secolare. Ma non è questa, se così si può dire, la fine della storia. Da parte sua Blumenberg, richiamando la «corrispondenza speculare dell’assolutismo politico rispetto a quello teologico»23, suggerisce che la costituzione dello Stato assoluto nel XVII secolo non ha fatto altro che spostare il problema: dalla divisione confessionale in fazio21 John Rawls, The Law of Peoples with “The Idea of Public Reason Revisited”, Harvard University Press, 1999; trad. it. Il diritto dei popoli, a cura di Sebastiano Maffettone, Edizioni di Comunità, 2001, p. 104 (legg. mod.). 22 Hans Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp, 1966; trad. it. La legittimità dell’età moderna, a cura di Cesare Marelli, Marietti, 1992. 23 Ivi, p. 96.
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ni infrastatali, animate da convinzioni assolute e che danno luogo a un’assoluta ostilità, si passa all’opposizione, anch’essa assoluta, tra Stati nazionali “unificati”. Gli Stati proiettano la categoria di ostilità assoluta sugli altri Stati, verso l’esterno. «La categoria del rapporto incondizionato amico-nemico è stata applicata ai conflitti degli Stati nazionali» osserva Blumenberg24. Negli anni Sessanta, è chiaro agli occhi di Blumenberg che gli Stati-nazione moderni hanno ugualmente fornito la dimostrazione sperimentale di ciò che poteva avere di umanamente insopportabile l’assolutismo politico (e nazionale). Questa espressione deve senz’altro essere qui assunta in un senso ampio, in modo da comprendere quella forma di nazionalismo estremo che ha generato le guerre mondiali. In questo senso, il trasferimento dei conflitti assoluti dall’interno all’esterno, dalle guerre civili alle guerre interstatali, non risolve nulla: Blumenberg richiama così il «momento in cui la propagazione di crisi esterne cominciò a superare in mortalità tutte le possibilità di quelle interne, squalificandosi quindi come alternativa»25. Detto altrimenti: l’unificazione nazionale contro un nemico esterno non è una “buona” alternativa alla conflittualità interna. Dopo due guerre mondiali, lo sappiamo anche dall’esperienza; «tre secoli dopo che lo Stato nazionale ebbe assunto le qualità pseudomorfe dell’istanza assoluta» osserva Blumenberg «si può riconoscere che la proiezione della categoria di ostilità sul rapporto tra gli Stati non può più riuscire»26. Il grande spazio imperiale contro l’universalismo umanitario: il rovescio della critica Per Schmitt, “annientamento” è ciò che uno Stato (o un’alleanza di Stati) può infliggere a un altro Stato nel contesto di una guerra in cui questa eventualità risulterebbe aggravata dall’uso della “propaganda umanitaria”, ma mai quello che uno Stato può infliggere alla propria popolazione, a una minoranza nazionale, o a una minoranza 24 Ibidem. 25 Ibidem. 26 Ivi, p. 97.
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che perseguiterà in tutti gli Stati vicini (mediante quella «ingerenza del crimine»27 caratteristica del genocidio nazista). Il pensiero di Schmitt è stato di fatto associato a tali pratiche. La sua teorizzazione negli anni Trenta del Großraum, dal quale uno Stato-Impero centrale si sarebbe potuto irradiare e nel quale regnerebbe un «divieto di intervento» esterno, compresi interventi a favore di minoranze la cui esistenza è minacciata, è particolarmente sinistra quando la si legge (seguendo il principio schmittiano di interpretazione dei testi politici) in riferimento alla situazione concreta che andava a toccare. Così, per ripulire meglio il regime nazista, con la sua concezione di una «totalità del popolo» (völkische Totalität) fondata sul «carattere pluralistico del mondo del politico come anche del mondo dello spirito oggettivo», da ogni sospetto totalitario28, nel 1939 Schmitt attribuirà alle istituzioni internazionali, come la Società delle Nazioni, una totalitaria «pretesa di totalità» perché universaliste e irrispettose dei grandi spazi in via di costituzione. L’universalismo democratico veniva dunque respinto a favore di un pluralismo non individualista, il quale non doveva riconoscere che diritti differenziati ai popoli presenti nel grande spazio costituito attorno a un centro (il Reich tedesco). Si nota come la ricusazione dei diritti dell’uomo abbia potuto combinarsi con l’idea di una gerarchia razziale (anche se quest’ultima gli era originariamente estranea: Schmitt ha “nazificato” una teoria che all’inizio si distingue, proprio per la sua mancanza di un carattere razziale, dalla nozione di Lebensraum, di ‘spazio vitale’, privilegiata dai nazisti), e come la critica alla 27 Alain Finkielkraut, La Mémoire vaine. Du crime contre l’humanité, Gallimard, 1989, p. 22. 28 «Specialmente nei Paesi anglosassoni, è utilizzata propagandisticamente una rappresentazione sommaria e addirittura panica della totalità per additare il cosiddetto Stato totalitario come un Leviatano nemico dell’umanità e divoratore di uomini. Ma nonostante le incredibili suggestioni che emanano da siffatte concezioni ed annebbiano l’atmosfera spirituale in tutti i Paesi della democrazia occidentale, è facilmente riconoscibile la differenza fondamentale. Totalità e neutralità di diritto internazionale non si compensano. Esse si condizionano ed appoggiano reciprocamente» (Carl Schmitt, Neutralität und Neutralisierungen, in «Deutschen Rechtswissenschaft. Vierteljaresschrift der Akademie für Deutsches Recht», vol. 4, n. 2, 1939; trad. it. Neutralità e neutralizzazione, in Id., Posizioni e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles, cit., pp. 476-477.
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svolta verso un concetto discriminante della guerra sia giunta infine a giustificare annessioni e aggressioni. Per un certo periodo, non lo si può dimenticare, questo è stato il rovescio della critica schmittiana alla visione umanitaria liberale: gli attacchi contro «un’ideologia universale imperialistica, per così dire paninterventista, che dietro pretesti umanitari si immischia in ogni situazione»29 erano allora mirati alle possibili reazioni internazionali agli impegni espansionistici della Germania all’interno del grande spazio di “irradiamento” del Reich30, che il regime hitleriano si impegnava a conquistare «sulla base del nostro concetto nazionalsocialista di popolo»31. Infine, va osservato che la distruzione dell’antico Nomos compiuta dalla Seconda Guerra Mondiale, così come lo scatenarsi stesso della guerra, furono accettati senza remore da Schmitt nel 1942, purché si potesse credere che la Germania nazista fosse uno dei centri predominanti del nuovo Nomos della terra: Non vi è dubbio che il vecchio Nomos stia venendo meno, e con esso un intero sistema di misure, di norme e di rapporti tramandati. Non per questo, tuttavia, ciò che è venturo è solo assenza di misura, ovvero un nulla ostile al Nomos. Anche nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate32.
Alla luce delle azioni del regime al quale Schmitt offrì i suoi contributi teorici, ci si potrebbe attendere ch’egli ritornasse criticamente, ne 29 Carl Schmitt, Völkerrechtliche Großraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte, in Id., Staat, Großraum, Nomos. Arbeiten aus den Jahren 19161969, Duncker & Humblot, 1995 (ed. or. 1939); trad. it. L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale con divieto di intervento per potenze straniere. Un contributo sul concetto di impero nel diritto internazionale, in Id., Stato, grande spazio, nomos, cit., p. 130. 30 «Un ordinamento dei grandi spazi rientra nel concetto di impero […]. Non v’è dubbio […] che ogni impero abbia un grande spazio, in cui irradia la propria idea politica, che non può essere soggetto a interventi stranieri» (ivi, p. 147). 31 Ivi, p. 145 (legg. mod.). 32 Carl Schmitt, Land und meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Klett-Cotta, 1942; trad. it. Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, a cura di Giovanni Gurisatti, Adelphi, 2011, p. 110.
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Il nomos della terra del 1950, su queste nozioni. Tuttavia, immutato rispetto agli anni Trenta, vi si ritrova lo stesso attacco all’umanesimo accusato di favorire una guerra di annientamento, ma nulla sull’annientamento genocida perpetrato dal regime nazista nel suo grande spazio conquistato. La lettura del diario tenuto da Schmitt tra il 1947 e il 1951, il Glossarium, non lascia dubbi sul senso di questo silenzio. Non solo a Schmitt non passa per la testa che il genocidio di ebrei e zingari possa implicare una revisione delle sue riflessioni sul grande spazio, ma la nozione di crimine contro l’umanità non gli ispira che sarcasmo: Che cos’è un “crimine contro l’umanità”? Esistono crimini contro l’amore? Un omicidio è un crimine, come lo è la violenza carnale, il ratto di minori, ecc.; una volta sottratti questi dati di fatto, che cosa resta come puro delitto di disumanità? La struttura del possibile obiettivo di difesa e di attacco di un tale crimine, che non si determina a partire dalla descrizione delle circostanze, ma solo in base alla sua generica efferatezza. In confronto a ciò i crimini contro il pudore e la pietà sono definiti in modo fin troppo rigoroso33.
C’è con tutta evidenza qualcosa di eticamente insopportabile nell’ironia di Schmitt sulla nozione di crimine contro l’umanità, nel totale rifiuto della preoccupazione giuridica di creare una nuova qualificazione per tentare di cogliere e prevenire un tipo di crimine così radicalmente mostruoso. Ma è pur vero che la categoria di crimine contro l’umanità comporta una certa vaghezza34: il punto determinante non è il numero di vittime, per esempio, ma un determinato attacco alla dignità umana, una negazione della qualità di uomo, un rifiuto della comunità umana, o, nel caso del genocidio, una “intenzione” di distruggere un popolo. Schmitt ritiene così che l’elemento costitutivo del crimine non sarebbe fattuale, ma da cercarsi unicamente «dal punto di vista soggettivo», nella «evidentissima volontà distruttiva», 33 Carl Schmitt, Glossario, cit., pp. 158-159 (12 marzo 1948). 34 Si veda a tal proposito Mireille Delmas-Marty, Pour un droit commun, Seuil, 1994, pp. 278-279. Tuttavia, ci si potrebbe domandare se la proposta di Delmas-Marty di rendere la clonazione un crimine contro l’umanità non rischi di produrre ulteriore “vaghezza”, dannosa per la nozione.
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quindi in un animus, una disposizione di spirito, non in un realus, un fatto «reale»35. Nondimeno, il Tribunale di Norimberga, senza distinguerlo nettamente dai crimini di guerra, dava alla nozione di crimine contro l’umanità un contenuto per enumerazione: «Lo sterminio, la riduzione in schiavitù e ogni altro atto disumano commesso contro qualsiasi popolazione civile», mentre la Convenzione onu del 1948 precisava il concetto di «genocidio», fissandone la definizione (articolo 2, sezioni a-e della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 9 dicembre 1948): Ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo all’altro.
D’altra parte, la nozione in gioco al Tribunale di Norimberga ha risentito della preoccupazione geopolitica di escludere a priori dal possibile campo di applicazione del crimine contro l’umanità gli atti perpetrati dalle potenze vittoriose contro il fascismo e dai loro eserciti. I problemi che un tale approccio doveva porre sono emersi, per esempio, quando si è trattato di giudicare i crimini commessi in Francia durante l’occupazione, come nel caso del processo Barbie. Temendo che l’avvocato di Barbie, Jacques Vergès, presentasse reclami sui crimini commessi dai francesi in Algeria, la Corte di Cassazione precisò la definizione data dal Tribunale di Norimberga dimodoché, per essere definito “contro l’umanità”, il crimine doveva obbligatoriamente essere stato commesso «in nome di uno Stato che pratica una politica di egemonia ideologica» (il che poteva permettere l’esclusione dell’esercito francese dal suo campo di applicazione). Con ciò, il Tribunale di Norimberga voleva anche sottolineare il ca35 Carl Schmitt, Glossario, cit., p. 204 (6 maggio 1948).
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rattere di messa in opera di un programma politico, sistematicamente applicato nel caso della politica di sterminio nazista. Ma in seguito, facendo leva su questa sentenza, la sezione d’accusa di Parigi del 13 aprile 1992 accordò un non luogo generale in favore di Paul Touvier, dal momento che i giudici ritennero che Vichy non praticasse una tale «politica di egemonia ideologica». A quel punto, la Corte di Cassazione affermò che un crimine contro l’umanità poteva essere commesso solo da un Paese europeo dell’Asse (Germania o Italia) o in complicità con questo Paese. Touvier poteva quindi essere condannato per crimini contro l’umanità solo a condizione che il suo crimine risultasse imputabile alle autorità tedesche, mentre era stato deciso di propria iniziativa36. Queste manovre giuridiche hanno alterato la nozione di crimine contro l’umanità, che già contiene una potenziale difficoltà; la distinzione con il crimine di guerra fa intervenire un’intenzione genocidaria che, come rileva Schmitt, non è certo scevra di complessi problemi di accertamento, ma che non è impossibile stabilire con un lavoro d’indagine, grazie alla scoperta di documenti che testimoniano tale intenzione (come è avvenuto in occasione della Conferenza di Wannsee), o mediante il controllo incrociato di informazioni a partire da indizi di un’organizzazione orientata a tale scopo, e così via. Lungi dunque dallo sviluppare una critica convincente della nozione, Schmitt finisce per procedere a uno stravagante rovesciamento, di cui vedremo altri esempi, quando nel 1948 scrive: «“Crimini contro l’umanità”: non è che la più generica di tutte le clausole generali per l’annientamento del nemico»37. Secondo una classica strategia di negazione, il crimine reale di annientamento genocida (la cui qualificazione giuridica a Norimberga traduce agli occhi di Schmitt solo l’assoggettamento del diritto a nuovi «criminalizzatori»)38 svanisce dietro la proiezione di un annientamento a fronti rovesciati: la Germania diventa la vittima dell’annientamento giuridico-politico del nemico, e 36 Sulle difficoltà giuridiche emerse durante i processi Barbie, Touvier, Papon, si veda Éric Conan, Le casse-tête juridique, in «L’Express», 2 ottobre 1997, nonché il saggio di Jean-Paul Jean e Denis Salas, Bouvier, Touvier, Papon. Des procès pour la mémoire, Autrement, 2002. 37 Carl Schmitt, Glossario, cit., p. 204 (6 maggio 1948). 38 Ivi, p. 376 (23 settembre 1949).
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il crimine contro l’umanità non è che lo strumento costruito in vista della criminalizzazione della Germania. La vittimizzazione di sé e della Germania, esplicita in uno scritto semi-privato come il Glossarium, scompare ne Il nomos della terra, che ostenta una volontà scientifica. Ma il silenzio de Il nomos della terra a proposito della natura e specificità dei crimini della Germania nazista è evidente tanto quanto la sua volontà di attribuire all’umanesimo o all’umanitarismo gli effetti più disumani delle nuove guerre. Non si tratterebbe, secondo Schmitt, di un paradosso: l’umanesimo avrebbe sempre comportato un lato escludente. Così Schmitt evoca l’esclusione “fuori dall’umanità” di alcuni esseri umani (gli indiani, i cannibali) da parte di figure dell’umanesimo filosofico (Bacone, Barbeyrac) in questi termini: «Non è affatto paradossale che tali argomenti inumani siano sostenuti proprio da pensatori umanisti e umanitari. L’idea di umanità ha infatti due facce»39, un versante positivo e un versante negativo, dualità che spiega la «forza discriminatrice e di spaccatura propria dell’ideologia umanitaria». Così, conclude Schmitt, «soltanto con l’apparire dell’uomo inteso come umanità assoluta [del XVIII secolo] fa la sua comparsa, quale rovescio del medesimo concetto, il suo nuovo nemico specifico, il non-uomo [Unmensch]»40. La riflessione di Schmitt su questo soggetto può apparire, in un certo senso, come il pendant giuridico della decostruzione dell’umanesimo metafisico che Heidegger aveva compiuto nel 1947 nella Lettera sull’“umanismo”. È in particolare la pretesa di qualunque umanesimo di fissare una “determinazione” dell’umanità (dell’«essenza dell’uomo» dice dal canto suo Heidegger) a essere chiamata in causa, in maniera più marginale, da Schmitt, ma con la sua abituale perentorietà: «Alla base di ogni umanitarismo [c’è] la pretesa: chi è uomo, lo decido io»41. Ora, questa determinazione dell’essenza dell’uomo sarebbe ne39 Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 107. Come rilevato nella nota 41 della traduzione francese (Le nomos de la terre dans le droit des gens du Jus publicum Europaeum, a cura di Lilyane Deroche-Gurcel, PUF, 2001), Schmitt è in errore nel sostenere che Barbeyrac approvi l’argomento di Bacone. Nella sua traduzione di Pufendorf, che cita l’argomento di Bacone per respingerlo, Barbeyrac si limita a segnalare che non ha trovato traccia di quest’argomento di Bacone nell’opera citata da Pufendorf. 40 Ivi, p. 108 (legg. mod.). 41 Carl Schmitt, Glossario, cit., p. 268 (17 agosto 1948).
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cessariamente portatrice di una classificazione e di una potenzialità escludente, del rifiuto di una parte dell’umanità “fuori dell’umanità”, di una bipartizione tra l’uomo “veramente umano” e il “barbaro”, tra l’uomo nel senso pieno del termine e le forme di “sub-uomini”. Conveniamo sul fatto che c’è nell’umanesimo, in quanto basato su una determinazione dell’Homo humanus opposto all’Homo barbarus, una potenzialità discriminante che si è attualizzata, in particolare nel colonialismo, attraverso la pretesa di una civiltà di costituire il modello dell’umanità compiuta (ed esportandolo con la forza al prezzo di una vera e propria “decivilizzazione”, secondo l’espressione impiegata dall’antropologo Robert Jaulin a proposito della distruzione delle culture colonizzate e annientate): la cosiddetta “missione” storica dell’Europa è servita come paravento per atti disumani. Ma se una critica dell’umanesimo sembra legittima in questa prospettiva (che implica una critica del latente etnocentrismo di molte versioni dell’umanesimo filosofico), lo è nella misura in cui punta il dito contro l’insufficienza del sentimento dell’uguaglianza umana, compromesso da una convinzione di superiorità civilizzatrice. Ora, Schmitt non contesta più di tanto una tale pretesa di superiorità nell’ambito coloniale o in quello della conquista dell’America: al contrario, rimprovera al teologo di Salamanca, Francisco de Vitoria, difensore dal 1539 dei diritti degli indios contro le pratiche dei conquistatori europei42, di averla disconosciuta e di aver sostenuto un concetto di umanità totalmente neutralizzato, disarticolato dalla considerazione della superiorità storica del conquistatore43. Inoltre, è contro ogni probabilità storica sostenere che una discriminazione radicale del nemico sarebbe stata possibile solo sulla base dell’assolutizzazione moderna dell’umanità: si potrebbero infatti citare numerosi esempi di questa dialettica che ritiene che la designazione dei cannibali come inumani legittimi atti inumani nei loro confronti, 42 Francisco de Vitoria, Relectio de Indis, 1539; trad. it. Relectio de Indis. La questione degli Indios, a cura di Ada Lamacchia, Levante Editori, 1996. Su Vitoria si veda Jean-François Courtine, Vitoria, Suárez et la naissance du droit naturel moderne, in Id., Nature et empire de la loi. Études suaréziennes, Vrin/EHESS, 1999, pp. 115-161. Sull’ambivalente lettura di Schmitt dell’opera di Vitoria si veda anche Jean-Claude Monod, La querelle de la sécularisation, cit., pp. 167 sgg. 43 Cfr. Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 110-114.
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in un contesto che non deve nulla all’umanesimo moderno e al preteso «fanatismo dei diritti dell’uomo»44. Nel 1950 l’attribuzione all’umanesimo di una forza di scissione discriminante senza eguali si scontra evidentemente con l’immediata esperienza della discriminazione radicale, e radicalmente antiumanista, all’opera nel razzismo nazista. Attraverso uno dei suoi giochi di prestigio, Schmitt suggerisce a posteriori un’interpretazione del razzismo nazista come derivato dell’umanesimo: la scissione tra Übermensch e Untermensch radicalizzerebbe la divisione tra l’umanità e coloro che l’umanesimo aveva posto “fuori dall’umanità”. La precedenza cronologica diventa un argomento a carico dell’umanesimo del XVIII secolo, a cui ormai è da mettere in conto la possibilità del razzismo; quello stesso umanesimo di cui il nazismo si presentava tuttavia come la negazione, e di cui Schmitt, nel suo periodo di partecipazione al regime, non ha mancato di stigmatizzare l’egualitarismo e l’universalismo astratti. Disumanità dell’umanesimo, annientamento favorito dalla propaganda umanitaria, totalitarismo dell’universalismo, discriminazione radicale promossa dall’assolutizzazione dell’umanità: tutte le categorie si rovesciano a volontà, in Schmitt, per imputare all’umanesimo ciò che gli umanitaristi imputano ai loro nemici. Questa operazione deve essere giudicata anche a misura della confusione che ha prodotto nel giudizio politico. 44 L’esempio scelto da Schmitt in Der Begriff des Politischen come in Der Nomos der Erde è quello del disgusto dell’umanista Bacone per le pratiche disumane dei barbari (il cannibalismo), che lo porta a giustificare il massacro degli indios (Carl Schmitt, Il concetto di“politico”, cit., pp. 139-140, nota 41). Ma lungi dall’essere tipica dell’umanesimo filosofico, una simile “dialettica” compare già nel quadro che Schmitt presenta come preumanista della Respublica christiana nei confronti della “conquista”. È sufficiente richiamare il resoconto del colonizzatore spagnolo Cortés: «Accadde anche che uno spagnolo sorprese un indio […] mentre mangiava un pezzo di carne di un indigeno che avevano ucciso nel paese quando vi entrarono, e me lo venne a denunciare; e io subito lo feci bruciare vivo […] facendogli sapere la causa per cui lo giustiziavo, avendo ucciso quell’indigeno, e mangiatolo, cosa proibita da Vostra Maestà […]; avendo ucciso e mangiato un uomo, lo facevo bruciare vivo perché non volevo che uccidessero nessuno» (Tzvetan Todorov, La conquête de l’Amérique. La question de l’autre, Seuil, 1982; trad. it. La conquista dell’America. Il problema dell’“altro”, a cura di Aldo Serafini, Einaudi, 1984, p. 217).
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L’antipolitica liberale al servizio dell’economia e la deterritorializzazione radicale La critica della destabilizzazione dello Jus publicum Europaeum mediante le nozioni assolute di pace e umanità finisce con l’incrociare la messa in causa di Schmitt del liberalismo, il quale rimodellerebbe l’insieme dei concetti del diritto internazionale a misura dell’ascesa dello spazio americano nel nuovo Nomos della terra. La ricostruzione storica fa perno su alcuni fatti difficilmente contestabili: la crescente egemonia dell’America nel XX secolo, annunciata dalla costituzione dell’emisfero occidentale, è parallela a un mutamento dei concetti del diritto internazionale dopo la guerra del 1914-1918. Schmitt rileva che l’assenza degli Stati Uniti dalla Società delle Nazioni (che chiama polemicamente la “Lega di Ginevra”) non significava il suo ritiro dagli affari europei e mondiali, ma la sua preferenza per un metodo indiretto di influenza politica, la cui connotazione più importante consisteva nell’assumere il libero commercio (libero nel senso di statualmente libero) e il libero mercato come standard costituzionali del diritto internazionale, in modo da scavalcare, mediante il ricorso al principio della porta aperta e della nazione più favorita, i confini politici territoriali,
dal momento che la separazione ideologica tra politica ed economia maschera in realtà il «primato di motivi economici»45. Il dominio americano si eserciterebbe così in una modalità che combina «presenza e assenza»46, con una dialettica complessa di isolazionismo e interventismo47. Questa percezione di depoliticizzazione liberale ed egemonia capitalista, che si eserciterebbero attraverso un duplice processo di apertura degli spazi alla presenza economica del mercato e di apparente assenza (di intervento) politica, e che all’occasione possono tramutarsi in impresa militare, con uno stile d’intervento fondato sulla supremazia aerea e invocando la pace per meglio fare a meno del diritto, sembra 45 Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 329. 46 Ivi, p. 389. 47 Ivi, pp. 389-394.
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conservare una certa pertinenza. Un determinato stile dell’iper-potenza americana si è ben intrecciato con la combinazione tra una morale “planetaria” che auto-istituisce la “prima democrazia del mondo” garante del diritto e della pace, anche mediante una indefinita serie di “guerre per il diritto” (ma contro il diritto positivo e ultimamente in spregio delle convenzioni internazionali) e “contro il terrorismo”, dietro le quali si sospettano, in modo assai meno convincente, motivazioni essenzialmente economiche (convincente per la zona irachena, ma poco plausibile per il Kosovo o l’Afghanistan). E il mondo multipolare che alcuni attori europei vogliono contrapporre all’egemonia americana ha un qualcosa di strutturalmente analogo (ma per fortuna irriducibile quanto al contenuto politico e alla visione dei popoli “dominati”) al pluriversum dei grandi spazi strategici che Schmitt contrapponeva all’universum sotto il dominio liberale americano. A queste intuizioni schmittiane bisogna aggiungere la diagnosi-prognosi di un altro effetto di questa mondializzazione economico-giuridica: Schmitt ritiene che vi corrisponda e vi corrisponderà sempre più, sul piano strategico, una Entortung, una delocalizzazione assoluta che rende possibile la guerra aerea. Il dominio dell’aria inaugura un nuovo tipo di guerra, in cui i belligeranti non si affrontano più sullo stesso piano: la relazione tra la popolazione a terra e chi la attacca dall’aria non assomiglia più a quella tra uomo e uomo48, il faccia a faccia può non avere mai luogo: da qui la possibile combinazione tra “zero morti” da un lato e un numero indefinito dall’altro. Ma a questa deterritorializzazione della guerra convenzionale risponde colui che, oggi, può apparire come una delle figure più suggestive della concezione schmittiana dell’attualità (sulla quale ritorneremo più in dettaglio nel capitolo seguente): quella del partigiano deterritorializzato e «motorizzato», di cui la Teoria del partigiano tracciava il ritratto in contrasto con il partigiano classico. Questi prendeva le armi per respingere un invasore dal suo Paese, mirando così a un “nemico reale” e a obiettivi limitati, e la sua ostilità cessava con la ritirata del nemico; di contro, il partigiano motorizzato si fa strumento di un progetto “rivoluzionario” di dimensioni mondiali, mirando a un “nemico assoluto”, secondo una concezione non più “tellurica” bensì “teologica” del nemico. L’atten48 Cfr. ivi, pp. 426-429.
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tato dell’11 settembre 2001 conferma forse il legame intuito da Schmitt tra la concezione – letteralmente – teologica del nemico e la figura del «partigiano motorizzato», che all’occorrenza riesce a rivoltare contro una grande potenza l’elemento stesso della sua potenza, ossia l’aria. Nonostante le sue folgoranti intuizioni e la chiarezza della sua costruzione, e indipendentemente anche dalle disastrose posizioni in cui si è articolata al tempo, la concezione schmittiana del diritto internazionale conduce tuttavia a un vicolo cieco. Messa da parte la difesa del grande spazio tedesco, di cui il minimo che si possa dire è che non limitasse la guerra, Schmitt non trova altro da opporre all’universalismo democratico (necessariamente imperialista) e al pacifismo giuridico della comunità internazionale in fase di costruzione che l’eredità del diritto pubblico europeo classico, di un tempo (idealizzato da Schmitt) in cui l’Europa poteva ancora sognarsi centro del mondo, l’equilibrio defunto delle potenze europee, o ancora un principio di sovranità di cui Il nomos della terra non nasconde che esso stesso non ha garantito la limitazione superata della guerra (intervenivano altri elementi come i legami economici, sociali e strategici, la coesione dell’Europa, i residui di una morale cristiana condivisa, ecc.). L’opera di Schmitt conserva tuttavia un valore di sospetto e monito: la trasgressione del diritto internazionale classico in nome di un diritto d’urgenza sottoposto alla valutazione selettiva delle potenze dominanti comporta rischi permanenti di manipolazione e incistamento, nonché un accaparramento indebito del titolo di “umanità”. L’attualità di questa critica assume una particolare evidenza quando la Casa Bianca decreta la dottrina della “guerra preventiva”, trasgredisce le regole del diritto internazionale per condurre una “guerra per la pace” enunciata nei termini teologici della “crociata” e dello scontro contro l’“Asse del Male”. Ci sono discorsi che, rivendicando il titolo di umanità e la giustificazione della guerra, o di una serie di guerre, come una missione finale, paiono inventati per confermare l’idea schmittiana dei pericoli della propaganda liberale umanitaria: «Oggi l’umanità ha in mano l’opportunità di garantire il trionfo della libertà sui suoi nemici. Gli Stati Uniti sono orgogliosi della loro responsabilità di condurre questa importante missione»49. 49 George W. Bush, estratto del National Security Strategy of the United States of America, citato in «Le Monde», 24 settembre 2002, p. 18.
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La pertinenza della diagnosi non consacra tuttavia la giustezza dei princìpi. Combattere le trasgressioni e le manipolazioni del diritto internazionale (senza per questo feticizzarlo) e le violenze imperialiste messe in opera “in nome dell’umanità” (senza per questo disconoscere le violenze scatenate fuori, o contro, questo orizzonte ideologico) non implica il rifiuto dei princìpi giuridici universalistici, democratici e umanitari in quanto tali, bensì il contrario. A nostro avviso, si tratterebbe di rinforzare tali princìpi attraverso la critica degli ordini e dei disordini internazionali, anche contro gli Stati che possono rivendicarli per sé e che abusano, oggi, della forza di legittimazione che deriva loro dallo status di potenze democratiche.
4. Il terrorista: nuova figura del nemico?
Dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo del comunismo sovietico, negli Stati Uniti è emersa la dottrina degli “Stati canaglia” (rogue States); andava lì sicuramente delineandosi una nuova figura del “nemico degli Stati Uniti”, che includeva tutti gli Stati sospettabili di compiere, più o meno a breve termine, un’azione terrorista contro gli Stati Uniti e i suoi alleati, ossia tutti gli Stati intrinsecamente “inaffidabili” sul piano del loro rapporto con la sicurezza collettiva. L’elemento determinante di questa nuova figura del nemico non era dunque il suo carattere ideologico né, come suggerirà nel 1996 Huntington avanzando il paradigma dello “scontro delle civiltà”, una linea di frattura tra civiltà (il nemico qui non è l’Islam, né esclusivamente l’islamismo, né esclusivamente il terrorismo islamico), bensì la potenzialità terroristica in quanto tale, nonché l’imprevedibilità, la non affidabilità, il mancato rispetto delle norme del diritto internazionale. La grande novità storica di questa determinazione è che il terrorista diventa la quintessenza, la figura centrale per eccellenza del nemico; un “ordine” internazionale si struttura intorno a lui, contro di lui, cosicché la guerra convenzionale passa in secondo piano, o viene messa al servizio di questa lotta: dopo l’11 settembre, questa sarà la guerra contro il terrorismo. In un certo senso, si tratta di un rovesciamento delle categorie tradizionali e della gerarchizzazione che faceva della guerra un affare veramente “serio”, che impegnava la storia e le relazioni tra Stati, metteva in gioco eserciti regolari di intere nazioni, incommensurabile rispetto al terrorismo: un tipo di ostilità subalterno, composto da gruppuscoli, frutto di reti di individui forse manipolati
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da potenze, un affare di polizia e contro-spionaggio. A questo proposito, si assiste a un rovesciamento: il terrorista era colui al quale non si faceva la guerra in senso classico, nel quadro di una relazione tra Stati. Orbene, oggigiorno non si fa guerra che ai terroristi; si potrebbe dire che “terrorista” è il nome assegnato a qualsiasi nemico, statale o meno (si parla di “Stati terroristi”), dal momento che si ritiene possibile e/o necessario fargli la guerra. In questo senso, il terrorista è senz’altro la nuova figura generica del nemico, un quasi-sinonimo del nemico. Si può situare tale novità in funzione di diversi parametri rispetto a questa gerarchizzazione tradizionale, a questa tradizionale categoria di nemico, di nemico giusto, di justus hostis, per come è stata costruita nel diritto delle genti moderno richiamato da Carl Schmitt ne Il nomos della terra, ma anche nella storia della relazione tra combattente regolare e irregolare, quella che Schmitt abbozza sotto il titolo di una “teoria del partigiano”. Il problema teorico sollevato nel 1963 da Schmitt è quello del trattamento giuridico dell’irregolare, del tipo di diritto che può corrispondere a una figura che, in un certo senso, si caratterizza per la sua irregolarità, per la sua esteriorità alle categorie giuridiche statali classiche. L’ultimo punto che bisognerebbe affrontare, cosa che Schmitt non fa, è la questione del contraccolpo sulla democrazia liberale, sullo Stato di diritto e sui diritti dell’uomo, della determinazione del terrorista come figura stessa del nemico. Il diritto delle genti moderno e il suo concetto di guerra Come si è visto, ne Il nomos della terra Carl Schmitt ripercorre la formazione del diritto delle genti europeo tra il XVI e il XVII secolo, dedicandosi in particolare all’elaborazione dell’idea di justus hostis, di ‘nemico giusto’, che si inserisce in un immane lavoro di definizione, regolazione e “riconoscimento” giuridico reciproco delle istanze secolari produttrici di diritto, ossia gli Stati moderni. Il quadro istituzionale, l’ordine concreto, come dice Schmitt, è qui quello della costruzione delle sovranità e del riconoscimento (reciproco) tra Stati. Questa costruzione ha un effetto sulla nozione di guerra propriamente detta, che è solamente guerra tra Stati: «La guerra è
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una relazione tra Stato e Stato», secondo una definizione di Rousseau espressione di questa costruzione razionale. Vale a dire, in un certo senso, che solo un altro Stato è “degno” di essere considerato un nemico riconosciuto, cioè anche formalmente uguale al suo avversario. È l’analogia, molto presente in questa elaborazione, che avvicina la guerra al duello: 1) non ci si batte a duello con chiunque, ma con un avversario del proprio rango; 2) non si combatte come che sia, ci sono regole da seguire: la guerra deve essere dichiarata, certe armi o strategie sono proscritte perché indegne di Stati civili e cristiani. Questa restrizione non è trascurabile: le regole definite qui valgono per il “centro”, l’Europa cristiana, ma non per i popoli barbari, al di là di alcune “linee” che Schmitt richiama: la raya portoghese, le amity lines franco-inglesi, ossia “linee globali” sulle quali si accordano le potenze europee per “limitare” il diritto, autorizzando determinate pratiche proibite che non lo sono più beyond the line; 3) ci si batte in un certo senso “sotto lo sguardo” di terzi, cioè degli altri Stati che vigilano sull’osservanza delle regole; 4) in linea di principio, ci si batte per controversie precise, con obiettivi bellici determinati; la guerra è dunque limitata, momentanea, deve sfociare in una pace negoziata e non mira all’annientamento dell’avversario. Il sovrano avversario rimane, durante la guerra, un interlocutore con il quale si dovrà negoziare la pace. Il riconoscimento formale ha effetti di simmetria, reciprocità, regolazione: il nemico, justus hostis, è distinto dal criminale. Da un lato, la violenza interna è controllata; dall’altro, la guerra interstatale moderna è in linea di principio meno scatenata della guerra civile interconfessionale, con la sua figura del “nemico assoluto”, letteralmente “demonizzato”, ricondotto all’Anticristo, al diavolo, costituito da masse di infedeli, empi, eretici e che provoca massacri reciproci (e talvolta fratricidi) di popolazioni civili e innocenti. Secondo Schmitt, per il quale l’essenza del diritto risiede nella forma, in questo nuovo quadro istituzionale secolare la limitazione della violenza dipende in larga parte dalla chiarezza delle distinzioni: pace/ guerra, civile/militare, combattente regolare/irregolare. I grandi legisti e giuristi dello Jus publicum Europaeum hanno lavorato, appunto,
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per delimitare la guerra con il riconoscimento del nemico persino in guerra, in modo da evitare che essa fosse senza fine, assoluta, fino all’annientamento. La delimitarono in modo che si svolgesse secondo regole e da eserciti regolari, per evitare che straripasse e trascinasse tutto nell’ostilità generale, verso il caos. Questo modello ha prevalso, secondo Schmitt, dalla fine del XVI secolo fino alla fine del XIX secolo, approssimativamente fino alla guerra del 1914-1918. In seguito, ha subìto una profonda trasformazione a causa di diversi fattori. Fattori innanzitutto e senza dubbio principalmente tecnici: l’articolo Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat (1937) ritiene che «in un certo senso ci sono state guerre totali in tutte le epoche», ma che «sotto l’impressione delle esperienze dell’ultima grande guerra [1914-1918] la formula della guerra totale ha poi ricevuto un significato specifico e una particolare efficacia»1. Questo significato ampio viene in seguito dettagliato: mobilitazione totale, indistinzione tra civili e soldati, materiale di guerra capace di annientamento. Schmitt ne trova le premesse nella rappresentazione giacobina della levée en masse, collegando in maniera inquietante l’escalation verso la guerra totale all’espansione del fattore “democratico”: la “mobilitazione totale” sprofonda nella tendenza a fare appello a tutta la società, a fare appello al popolo o alla nazione intera qualora l’esercito regolare risultasse fallimentare o venisse sconfitto. Come in Spagna contro le truppe napoleoniche, i partigiani rilevano l’esercito regolare sconfitto e la guerriglia subentra alla guerra. I fattori indicati successivamente da Schmitt sono più discutibili, dal momento che coinvolgono la sua lettura della storia contemporanea e le sue ideologiche prese di posizione. Si tratta infatti di fattori ideologici, legati all’ascesa dell’ideologia democratica liberale, in linea di principio pacifista, e dei progressi di una visione dell’organizzazione politica mondiale di ispirazione liberale e umanitaria alla quale Schmitt ascrive unicamente effetti disastrosi. Per far ciò, ricorre alla classica immagine dell’inferno lastricato di buone intenzioni. Così, sullo sfondo dell’affermazione dell’unità politica e cosmopolitica dell’umanità, che trova un’iniziale concretizzazione giuridica nella Società delle Nazioni, risulta sempre più complicato giustificare una 1 Carl Schmitt, Nemico totale, guerra totale, Stato totale, cit., p. 389.
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guerra: condannata la guerra di aggressione, la guerra non può che essere difensiva. Per Schmitt, il perverso effetto paradossale di questa evoluzione è che, quando si conduce una guerra, il vecchio sistema di limitazioni, ancorato al rispetto delle sovranità, diventa obsoleto: l’avversario sarà “criminalizzato”, posto “fuori dall’umanità”. La guerra viene negata, presentata come un’operazione di police bombing finalizzata a mettere fuori gioco un tiranno, un malfattore (abbandonando il concetto di justus hostis); oppure, viene presentata come una guerra per l’umanità, per il diritto, che produce la medesima squalifica del nemico, demonizzato. Da qui il ritorno di una figura della guerra giusta riferita alla giusta causa o all’umanità, invocata come fonte di un diritto superiore al diritto (positivo): un “diritto d’urgenza” che autorizza a trasgredire il diritto internazionale e il diritto delle sovranità. Questi mutamenti sconvolgono anche le distinzioni classiche. Nel quadro moderno, la qualità statale regolare dell’esercito è ciò che garantisce (in linea di principio) il suo carattere disciplinato e la sua espressione di nemico giusto, vale a dire anche il rispetto di un certo jus in bello, un diritto in guerra una volta intrapresa. Di contro, nei confronti dei “nemici ingiusti”, combattenti irregolari, pirati, banditi, outlaws, partigiani, le regole si interrompono, non valgono più (si comprende anche perché queste regole avessero un carattere eurocentrico, dal momento che erano legate al riconoscimento della “qualità” statale regolare degli eserciti). La distinzione combattente regolare/irregolare comportava effettivamente un certo degradarsi dei diritti, dal momento che le stesse qualità, in qualche modo la stessa “dignità”, non vengono riconosciute all’irregolare tanto quanto al regolare. Se la guerra (classica) è una relazione tra Stati, deve essere una relazione tra eserciti regolari: ciò che resta fuori dipende dallo sconvolgimento delle regole del gioco e rimane hors la loi. Di conseguenza, ai metodi irregolari rispondono pratiche sbrigative, non regolamentate, misure repressive immediate. Nella Teoria del partigiano, Schmitt rievoca l’irritazione degli ufficiali di fronte al fenomeno dei combattenti irregolari e cita alcuni tipici adagi: «La truppa combatte il nemico [regolare]; i predoni sono liquidati dalla polizia», o quella frase di Napoleone a un generale: «Dovunque ci siano partigiani bisogna combattere alla partigiana». Diversi aspetti di queste riflessioni risultano interessanti per la storia recente e per l’attualità, che è in parziale continuità con questo
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modello “classico” ma che ne rappresenta anche, per certi versi, la dissoluzione. Tuttavia, imputare gli aspetti più terrificanti delle guerre del XX secolo alla sua dissoluzione, come suggerisce Schmitt, è assai discutibile2. Il combattente irregolare: ai limiti del diritto In molti contesti, gli Stati occidentali hanno avuto difficoltà a riconoscere il carattere di guerra a conflitti che li opponevano quasi esclusivamente a “nemici irregolari”. Questo è stato con tutta evidenza il caso delle guerre di decolonizzazione, poiché i combattenti si battevano per raggiungere l’indipendenza, per costituire Stati-nazione; di conseguenza, non appartenevano ancora a un’organizzazione “statale” e non erano dotati, nell’ottica classica, di “eserciti regolari”. In questo quadro, la negazione del carattere di guerra partecipa della negazione di legittimità al nemico: in Indocina e in Algeria la Francia per molto tempo ha parlato di “operazioni di polizia” e non di guerra, negli stessi termini in cui la Russia ha parlato della guerra in Cecenia, salvo quando l’ha inclusa nella “guerra contro il terrorismo” islamico. Parlare di operazioni di polizia, in questo caso, significa anche un’affermazione di sovranità. Vediamo allora i limiti di queste “nette distinzioni” tanto celebrate da Schmitt. Esse sono legate a un punto di vista eurocentrico e statalista, che riconosce in fondo valore giuridico solo agli attori “regolari” statali, in primo luogo europei. Sullo sfondo del diritto internazionale classico vi è una certa spazializzazione, un ordine spaziale eurocentrico, come sottolinea del resto Il nomos della terra. Nondi2 Tralascio le obiezioni che si potrebbero muovere alla presentazione stessa della “guerra giusta” religiosa, che andrebbe distinta più nettamente di quanto non faccia Schmitt dalla “guerra santa” e dalla crociata, nonché al modo con cui Schmitt la contrappone alla guerre en forme, in particolare per quanto riguarda la dimensione “sterminatrice” dell’una in contrapposizione all’autolimitazione politica dell’altra. Su questo punto si vedano i rilievi critici di Frédéric Gros, États de violence. Essai sur la fin de la guerre, Gallimard, 2006, in particolare pp. 183 sgg.: «Il principio di moderazione rimane essenziale nel quadro della guerra giusta, e contraddice assolutamente il perseguimento dell’annientamento del nemico» (p. 189).
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meno, un fatto rilevante della storia del XX secolo è rappresentato dall’ascesa dei combattenti irregolari e dalla loro progressiva integrazione giuridica. Schmitt non ignora affatto questo fenomeno, dal momento che il saggio del 1963, Teoria del partigiano, gli è in larga parte dedicato. Schmitt vi propone una storia della nozione di partigiano, dalla guerra dei partigiani spagnoli contro l’esercito napoleonico fino a Mao Zedong e l’Organisation Armée Secrète (oas). Questo processo di integrazione giuridica è stato sporadico, discontinuo e assai risalente: Schmitt cita ordinanze francesi relative alla resistenza contro un’invasione nemica del 1595 che già usavano il termine “partigiani”. Ma sono state le Convenzioni dell’Aia del 1907 e in seguito le Convenzioni di Ginevra del 1949 ad aver operato uno sforzo sistematico, ispirato nell’ultimo caso dall’esperienza della Seconda Guerra Mondiale che aveva comportato la sconfitta di eserciti regolari e la moltiplicazione di fenomeni di resistenza all’occupazione straniera da parte di partigiani e corpi di volontari in Francia, Belgio, Olanda, nello spazio “jugoslavo”, ecc. La legittimità di questi movimenti è stata riconosciuta sin dalla liberazione dei Paesi in questione: militarmente, con la concessione di titoli militari ai combattenti o l’integrazione nell’esercito regolare; politicamente, attraverso il riconoscimento del loro ruolo nella ricostruzione politica del Paese. Ovviamente questo è stato il caso anche delle guerre di decolonizzazione e d’indipendenza, nelle quali i movimenti partigiani sono stati le matrici dei poteri e dei nuovi Stati indipendenti (per esempio il Front de Libération Nationale in Algeria). Le Convenzioni di Ginevra cercavano di rafforzare e ratificare giuridicamente questa possibile regolarizzazione dell’irregolare e dei corpi volontari, già prevista dalla Convenzione dell’Aia. A tale scopo stabilirono dei criteri: avere alla guida del gruppo una persona responsabile dei suoi subordinati; avere un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; portare le armi apertamente; rispettare le leggi della guerra. A tali condizioni, gli individui catturati vengono considerati prigionieri di guerra e rientrano nella terza Convenzione. Schmitt ironizza su questi criteri nella misura in cui presuppongono un atteggiamento contraddittorio rispetto alla strategia stessa del partigiano. Gli si chiede di moltiplicare i segni visibili del suo carattere di combattente organizzato, mentre la sua forza è piuttosto di sorprendere,
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confondersi tra la popolazione, essere invisibile, ecc. Essere «come un pesce nell’acqua», secondo la formula di Mao. Ma c’è una questione più generale: l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale (e delle guerre di decolonizzazione) ha dimostrato che movimenti irregolari, qualificati come “terroristi” dalle potenze in gioco, potevano essere più autenticamente legittimi dei loro nemici regolari. È proprio a questo proposito che vanno distinti terrorista e partigiano. Non vi è dubbio che questi ultimi fossero definiti terroristi dai loro avversari; per esempio, la Resistenza francese era definita terrorista dai tedeschi e dalle autorità che vi collaboravano, ma si tratta evidentemente di una caratterizzazione polemica. Per noi, oggi, secondo le definizioni che con difficoltà vanno costruendosi nel diritto internazionale contemporaneo, i terroristi sono individui o gruppi che attaccano essenzialmente popolazioni civili e che collocano la loro azione principalmente sul terreno psicologico: vogliono suscitare terrore nella popolazione civile, destabilizzare i poteri, fare pressione su governi e opinioni pubbliche. Mi sembra però che il punto essenziale sia il carattere civile delle popolazioni intenzionalmente prese di mira; si potrebbe aggiungere il carattere civile degli stessi combattenti, che tuttavia spesso si autodefiniscono come un “esercito”. In questo senso, non tutti i combattenti irregolari sono “terroristi”. Viceversa, capita che eserciti regolari facciano intenzionalmente vittime civili: si pensi al massacro di Oradour-sur-Glane o ad attacchi la cui dimensione di pressione psicologica sull’avversario è evidente, come Hiroshima. Una distinzione netta non è quindi realmente possibile: eserciti regolari possono mettere in pratica strategie del terrore anche in un quadro “antiterroristico”; combattenti irregolari possono rispettare maggiormente la distinzione civile/militare rispetto a quanto non faccia l’esercito regolare avversario, ad esempio in un contesto di resistenza a un esercito di occupazione, proprio perché si tratta, nel caso di chi resiste, della “sua” popolazione. Non sto cercando di confondere i confini suggerendo che non si dovrebbe condannare in punta di principio il terrorismo. Tuttavia, ciò non deve impedire l’analisi delle differenze interne di ciò che oggi si tende a presentare come un’unità monolitica: “il” terrorismo internazionale. Può trattarsi di un inganno, come si è sperimentato quando il
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governo Aznar ha preteso di attribuire all’eta gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. Tale imputazione godeva di scarsa credibilità per via della differenza tra la struttura politica, il tipo di ostilità, il rapporto con la popolazione rappresentato da un movimento indipendentista che ricorre al terrorismo (principalmente contro rappresentanti dello Stato spagnolo, ma non solo) e un movimento come Al-Qā‘ida. La direttrice del Servizio Sicurezza inglese ha sottolineato la singolarità di Al-Qā‘ida per quanto concerne la recente storia del terrorismo: «Questa nuova fase è meno nazionale e meno regionale; è caratterizzata da attentati che cercano di infliggere danni ingenti alla popolazione civile da parte di gruppi che non hanno alcun interesse a negoziare», a differenza di movimenti nazionalisti, indipendentisti o “rivoluzionari”, che si preoccupano di ottenere un minimo di sostegno pubblico, avanzano rivendicazioni e negoziano. Il partigiano deterritorializzato Alcune distinzioni schmittiane potrebbero una volta di più aiutarci a cogliere le differenze e individuare le novità: in particolare, l’opposizione sviluppata in Teoria del partigiano tra il partigiano tellurico e il partigiano motorizzato, deterritorializzato. Il partigiano tellurico difende la sua terra, il suo Paese, vuole scacciarne l’invasore, il colonizzatore, l’occupante. Il secondo, osserva Schmitt, «si fa strumento manipolato da un’aggressività che mira alla rivoluzione mondiale». Il partigiano tellurico ha un nemico “reale”, dice Schmitt, cioè relativo, tanto che l’ostilità s’interrompe una volta che il nemico è respinto fuori dalle frontiere o sconfitto. Ad esempio, il fln non voleva la distruzione della Francia, l’eta non vuole quella della Spagna, ecc. Il “nemico reale” è l’oggetto di una relazione, cessa di essere un nemico se cessano le cause dell’ostilità; così, per riprendere l’esempio citato da Schmitt in Teoria del partigiano, Giovanna d’Arco vuole «cacciare gli inglesi dalla Francia», ma, quando, durante il processo a suo carico, il giudice ecclesiastico le chiede se lei ritenga che Dio odi gli inglesi, lei risponde: «Se Dio ama gli inglesi o li odia, io non lo so; so solo che devono essere cacciati dalla Francia».
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Al contrario, il partigiano deterritorializzato che «si fa strumento di una rivoluzione mondiale» mira a un nemico mondiale e assoluto. Schmitt qui ha chiaramente in mente i “focolai” di guerriglia comunista teorizzati da Che Guevara. Si ritrova in effetti in Che Guevara l’espressione di una “inimicizia assoluta”; nel suo testo Creare due, tre, molti Vietnam si può così leggere: «L’odio intransigente del nemico, che spinge oltre i limiti naturali dell’essere umano e ne fa un’efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere: così devono essere i nostri soldati»3. L’ostilità ideologica si innesta qui su lotte telluriche, su guerre di liberazione o d’indipendenza, su ostilità differenti, ma le fa convergere verso l’orizzonte di una guerra rivoluzionaria allo stesso tempo “totale”, mondiale e definitiva. È da notare che la questione della genealogia dell’inimicizia assoluta nel XX secolo è oggetto di una controversia storiografica e politica alla quale Schmitt non è del tutto estraneo: si può sostenere che nella catastrofica catena del “secolo degli estremi” il bolscevismo sia stato il “primo” a indicare un nemico assoluto, ossia il nemico di classe? Com’è noto, questa è in larga parte la tesi del “revisionismo” tedesco, anzitutto di Ernst Nolte: stando così le cose, il nazismo appare come “reazione”, costruzione di un contro-nemico “giudeo-bolscevico”. Raymond Aron aveva individuato e contestato l’espressione di questa tesi già nello stesso Schmitt, per rigettarla completamente nel secondo volume del suo monumentale Pensare la guerra. Secondo Aron il comunismo bolscevico manteneva teoricamente l’orizzonte di una comune umanità che permette al “nemico di classe” di potere essere “rieducato” e reintegrato nella comunità futura, mentre il “nemico di razza” del nazismo è radicalmente privo di umanità; in tal senso, è proprio su questo versante che bisogna cercare la comparsa del nemico assoluto4. Se si cercasse di applicare le categorie della Teoria del partigiano alla diversità dei movimenti “terroristi” passati e presenti, si giunge3 Ernesto Che Guevara, Crear dos, tres, muchos Viet Nam. Mensaje a la Tricontinental, Ocean Sur, 2007, p. 16 (ed. or. 1967; trad. it. Creare due, tre, molti Vietnam, Dalai, 1997). 4 «Per chi voglia “salvare i concetti”, rimane la differenza tra una filosofia la cui logica è mostruosa e quella che si presta a un’interpretazione mostruosa» (Raymond Aron, Penser la guerre, Clausewitz. L’âge planétaire, vol. II, Gallimard, 1976, p. 219).
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rebbe certamente a evidenziare logiche differenti. E questo vale nonostante talvolta si osservi lo slittamento dall’una all’altra, e malgrado la descrizione di Schmitt si tinga di un fondo nazionalista tradotto nella preferenza accordata a priori ai movimenti cosiddetti “tellurici” (tralasciando la valorizzazione della “terra” contro il “mare”, elemento di un arci-nazionalismo che oppone le potenze terrestri, come la Germania, alle potenze liberali marittime, come l’Inghilterra e gli Stati Uniti). Non è meno vero che, in linea sia di principio sia di fatto, l’ostilità di un movimento di liberazione nazionale non è assoluta: il fln, l’ira o l’eta non cercavano né l’annientamento della potenza “occupante” né la sottomissione del mondo intero a un’ideologia o a una fede. Ma quale posto riservare ai movimenti partigiani antinazisti in questo quadro? Bisogna concludere dall’analisi schmittiana che avrebbero dovuto limitarsi alla liberazione del loro Paese, e che la distruzione del nazismo da parte delle forze alleate procedesse da una “ostilità assoluta”? Se osserviamo ora da questa prospettiva Al-Qā‘ida (ma focalizzarsi su Al-Qā‘ida ha a che fare anche con la ricerca, in un certo senso “rassicurante”, di un’organizzazione identificabile e “visibile”, o quantomeno strutturata e nominabile; ciò aggira la nuova forma propriamente “rizomatica”, in rete, di un reclutamento via Internet e di una auto-organizzazione in “cellule” che possono attivarsi in maniera “autonoma”), le cose sono forse più complesse di quanto sembri. Si può pensare che la genesi di Al-Qā‘ida abbia seguito un movimento di progressivo ampliamento, un passaggio da gruppi di partigiani “tellurici” a una rete deterritorializzata volta a una sorta di insurrezione mondiale (paragonabile su questo piano al comunismo), appellandosi a “partigiani motorizzati” e presenti in tutti i continenti. La dimensione tellurica era evidentemente presente in Afghanistan, nella lotta contro l’invasione sovietica, all’epoca in cui gli Stati Uniti sostenevano i mujaheddin come “combattenti della libertà” mentre i sovietici li qualificavano come “terroristi”. Ma questa dimensione è presente anche nell’itinerario politico di bin Laden per come lo si è potuto ricostruire5 e per come traspare dai suoi testi e dalle sue 5 Si veda Gilles Kepel, Jihad. Expansion et déclin de l’islamisme, Gallimard, 2003, pp. 479-494; trad. it. Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, 2004; nonché i saggi e le analisi raccolte in Gilles Kepel (a cura di), Al-Qaeda
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dichiarazioni. L’ostilità di bin Laden sembra essere inizialmente nata dalla presenza delle truppe americane sulla “Terra Santa” dell’Arabia Saudita, vicino ai luoghi santi della Mecca e di Medina, durante la Prima Guerra del Golfo e anche in seguito. Bin Laden esorta dunque gli americani ad abbandonare quei luoghi santi, contaminati dalla loro empia presenza. In questa fase si può parlare di un’ostilità limitata, tipica di un partigiano tellurico, poiché segnala che cesserà non appena gli Stati Uniti avranno lasciato quei luoghi. In seguito, si realizza un collegamento con la Palestina: la Jihād contro gli Stati Uniti non cesserà finché la Palestina non sarà libera e al sicuro (dichiarazione del 7 ottobre 2001). Si assiste allora al cristallizzarsi dell’immagine di un nemico assoluto: “gli ebrei e i crociati” e i loro alleati, principalmente americani. La dichiarazione del Fronte islamico internazionale contro gli ebrei e i crociati, cofirmata da bin Laden e resa pubblica nel febbraio 1998, chiama «ogni musulmano» a «uccidere gli americani e i loro alleati, civili e militari, in qualsiasi Paese ciò sia possibile». I fondatori di AlQā‘ida stabiliscono così un principio di indistinzione radicale tra civili e militari (in altri testi si precisa che non c’è bisogno di distinguere tra uomini, donne, bambini, ecc.) e un principio di piena deterritorializzazione, appellandosi a «ogni musulmano» come potenziale combattente. Si assiste dunque a una combinazione tra la determinazione teologica del nemico assoluto (in una prospettiva di guerra santa che esclude qualsiasi aequalitas, riconoscimento del nemico, negoziazione, scopo non escatologico) e quella del partigiano radicalmente deterritorializzato e motorizzato. Stato di diritto e dispositivi di sicurezza: i pericoli dell’“auto-immunizzazione” La pertinenza delle categorie costruite dalla Teoria del partigiano sembra dunque confermata. Tuttavia, l’esempio di Al-Qā‘ida inviterebbe anche a riconsiderare profondamente i presupposti schmittiani: dans le texte, PUF, 2005; trad. it. Al-Qaeda. I testi, Laterza, 2006, a cui si aggiunga il profilo di bin Laden del giornalista inglese Robert Fisk comparso su «Le Monde», 19 settembre 2001.
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c’è qui, in queste dichiarazioni di guerra santa, un rifiuto del nemico “fuori dall’umanità” che non procede in alcun modo dall’“ideologia umanitaria”, ma esprime piuttosto un radicale rifiuto dell’idea di universalità etica, dei diritti umani in nome dei quali le democrazie, dal canto loro, sono chiamate a proteggere in una certa misura anche gli stessi terroristi presunti o accertati. Questo è uno degli aspetti dell’attuale problematica del contro-terrorismo in democrazia: è opportuno non sottovalutare né diluire questa violenza e la sfida che essa rappresenta per l’umanità; ma, allo stesso tempo, si tratta di garantire un trattamento umano e conforme ai diritti umani per questo nemico che, in un certo senso, rifiuta il principio di umanità condivisa. Occorre allora riprendere, distanziandosi da Schmitt, la questione del legame necessario tra democrazia (autentica), Stato di diritto e diritti dell’uomo. Sul piano del diritto delle genti, si è potuto osservare un legame storico tra lo sviluppo delle democrazie nel mondo e il massimo ampliamento (possibile) del diritto umanitario, lo sforzo per proteggere al massimo ogni persona dagli «atti di barbarie», menzionato nel Preambolo alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Le Convenzioni di Ginevra hanno partecipato a questo processo di ampliamento, cercando inoltre di non lasciare nessuno senza protezione. Schmitt, si è visto, osservava con una certa ironia il processo giuridico di “regolarizzazione dell’irregolare”, e si preoccupava della cancellazione della chiarezza delle distinzioni classiche. Ma si può e si deve scorgervi piuttosto un progresso: quello di un’estensione dei diritti umani oltre i soli diritti e leggi della guerra convenzionale regolare. Da questo punto di vista, alcune pratiche successive all’11 settembre, al Patriot Act, possono apparire come un impressionante regresso, uno sgretolamento, una volontà di sottrarre alcune categorie di persone a questa integrazione nel diritto operata dalle Convenzioni dell’Aia e di Ginevra, un tentativo di ristabilire un trattamento irregolare dell’irregolare radicale, vale a dire il terrorista. È sorprendente, a questo proposito, vedere che l’ironia di Schmitt sul fatto che si vorrebbe che il partigiano fosse “assicurabile”, che ottenesse sicurezza, diritti, pensione, vantaggi sociali, in totale contraddizione con il rischio assoluto che rappresenta logicamente il suo impegno, trovi oggi eco nella giustificazione degli stati d’eccezione
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dei prigionieri di Guantánamo e nella giustificazione delle leggi eccezionali. Alcuni di questi argomenti a favore di una “irregolarità degli irregolari” sono stati raccolti da Ronald Dworkin6. Il primo è l’argomento della reciprocità: «Non concederemo a questi uomini [i prigionieri di Guantánamo] diritti che essi rifiutano di riconoscere ai nostri soldati» e ai nostri civili. Questo argomento può radicalizzarsi nella critica del “rispetto delle procedure” o della legalità in vigore nelle democrazie occidentali, diventate un handicap nel rapporto di forze: «Non ci lasceremo penalizzare dal nostro rispetto della procedura» dice un giudice citato da Dworkin. Questa preoccupazione delle forme e delle garanzie fondamentali diventerebbe una minaccia in una situazione di emergenza, di fronte a un nemico che utilizza le protezioni legali, l’apertura, la tolleranza, la lentezza delle procedure e la complessità delle garanzie legali come altrettanti punti deboli degli Stati occidentali e delle democrazie. Questo argomento tocca un nervo scoperto: la questione del rischio di autodistruzione dello Stato di diritto o delle democrazie liberali. Ma l’autodistruzione può essere intesa in due sensi, percorrendo due vie opposte: le democrazie e gli Stati di diritto possono distruggersi per non essersi difesi, essersi esposti eccessivamente, non essersi protetti abbastanza; ma possono anche distruggersi rinnegando i propri princìpi, derogando ai diritti fondamentali, creando stati d’eccezione che si perpetueranno dando vita a Stati di polizia e dittature. Le due dimensioni sono tenute insieme nella riflessione di Jacques Derrida7 sull’immunizzazione e sull’“auto-immunizzazione”; una riflessione che, peraltro, rischiando di parlare della comunità come «auto-co-immunità», prolunga, sotto certi aspetti, la riflessione di Schmitt sulla distinzione amico/nemico come criterio della politica8. 6 Ronald Dworkin, The Threat to Patriotism, in «The New York Review of Books», vol. 49, n. 3, 28 febbraio 2002. 7 Jacques Derrida, Voyous: deux essais sur la raison, Galilée, 2003; trad. it. Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, a cura di Laura Odello, Raffaello Cortina, 2003. 8 Ivi, pp. 61-62 e p. 221. La discussione non viene sviluppata in questo saggio. Rilevando che «non è sicuro il fatto che “democrazia” sia un concetto del tutto politico», Derrida aggiunge, tra parentesi: «Lascio qui aperto il luogo di una discussione interminabile su Schmitt e con Schmitt» (p. 66). È piuttosto in Politiques de l’amitié e in Force de loi che avrà “luogo” una discussione di Schmitt, con Schmitt e contro Schmitt.
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Sul primo fronte c’è il rischio di una debolezza della democrazia che, in fondo, non vuole avere nemici, poiché l’orizzonte naturale della democrazia è il cosmopolitismo, l’unità del genere umano, l’amicizia tra i popoli. Di conseguenza, la democrazia autentica “protegge” anche i suoi nemici e talvolta “alza” le proprie difese, con il rischio di lasciarsi distruggere assicurando ai suoi peggiori nemici di poter circolare liberamente, consultare liberamente le loro e-mail, essere liberati al più presto in caso di problemi procedurali, ecc. Una tale descrizione del rischio corso dalle democrazie si sviluppa spesso dopo il trauma di un attacco terroristico. Lo si vede oggi in Inghilterra, dove gli attentati londinesi hanno scatenato una vasta critica pubblica dello Stato di diritto e del liberalismo giuridico e politico, che avrebbero facilitato il compito dei terroristi o l’instaurazione di un islamismo radicale che moltiplica gli oltraggi verbali. Sotto lo choc di un attacco si constata dunque una strategia immediata di auto-immunizzazione: si restringono le libertà o le garanzie, ci si inietta una dose del male e della brutalità che si combatte. Per combattere la cieca violenza del terrorismo, il suo mancato rispetto per il diritto alla vita degli innocenti, si ricorre a procedure meno rispettose dei diritti fondamentali, ci si avvicina a una certa violenza e a un maggiore rischio di arbitrarietà (due cose subito verificatesi con l’adozione del metodo shoot to kill da parte della polizia britannica, che lo utilizzò su uno studente brasiliano). Il grande pericolo è qui quello della spirale, del mimetismo di una contro-violenza che ne alimenta altre e finisce con il produrre un’altra forma di indistinzione. L’argomento tipico della strategia di immunizzazione è senz’altro il seguente: nessuna libertà per i nemici della libertà. Ora, si tratta precisamente dell’argomento di Saint-Just a favore del Terrore. Come nel caso dello stato d’eccezione, è difficile sapere dove termina la determinazione del nemico, che secondo la contaminazione propria della logica del Terrore sarà sospettato di essere un “nemico della libertà”: è la “legge dei sospetti”, che condanna non per atti ma per presunte intenzioni (di complotto o altro), atteggiamenti, appartenenze, o financo opinioni. Questo rischio di un terrore esercitato in nome della libertà contro i “nemici della libertà” è presente in qualsiasi politica antiterroristica che metta in discussione la distinzione tra sospettato e colpevole, aprendo la strada a un’estensione indefinita di una logica del sospetto.
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Il terzo argomento a favore di un “ammorbidimento” in funzione controterroristica delle categorie e delle garanzie giuridiche è quello del nemico inedito, che sfida tutte le categorie tradizionali del diritto, e che perciò va sottratto a tutti gli statuti e convenzioni esistenti. Judith Butler9 ha individuato tale logica nei discorsi di alcuni funzionari americani su Guantánamo, se non addirittura nel concetto stesso di “combattenti nemici” concepito dall’amministrazione americana alla fine del 2001 per “classificare” i detenuti a Guantánamo fuori dalla portata della legge e dei tribunali americani10: uno slittamento, un’incessante riqualificazione che mira in realtà a squalificare. “Queste persone non sono soldati, ma criminali” si dice prima ancora che siano processati: ma in questo modo li si sottrae allo status di soldati prigionieri di guerra previsto dalla Terza Convenzione di Ginevra, anche laddove si trattava manifestamente di soldati afgani che combattevano sotto il comando dei talebani, in un momento in cui questi rappresentavano il governo del loro Paese. In mancanza di uniforme e di segni distintivi, dovrebbero rientrare nello status di «combattente non privilegiato» dell’articolo 5 della Quarta Convenzione di Ginevra oppure, ai sensi della stessa Convenzione, nello status di altre «persone protette», nel quale dovrebbero rientrare anche individui sospettati di essere membri di un’organizzazione terroristica internazionale (anche i cittadini di uno Stato che non è parte in causa del conflitto, benché esclusi dalla Convenzione, beneficiano a ogni modo della protezione offerta dall’articolo 75 del Primo Protocollo). Ma ben presto si precisa che non sono, di fatto, “criminali” che si potrebbero e dovrebbero giudicare secondo le leggi penali, ma individui intrinsecamente pericolosi ai quali bisogna impedire di nuocere. Vengono allora sottratti al diritto («non sono un giurista»: così si difese Donald Rumsfeld)11, alle norme procedurali, al due process of law richiamato dal Quinto Emendamento. Eventualmente, si applica loro la procedura di extraordinary rendition (‘restituzione extra-ordinaria’), sulla quale ritornerò a breve. 9 Judith Butler, Détention illimitée. Guantánamo, ou la gouvernementalité souveraine, in «Vacarme», n. 29, 2004, pp. 124-131. 10 Nel giugno 2004 la Corte Suprema americana ha riconosciuto la possibilità ai detenuti di contestare la loro incarcerazione davanti a tribunali americani. 11 Citato in Judith Butler, Détention illimitée. Guantánamo, ou la gouvernementalité souveraine, cit., p. 124.
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A tal proposito si dovrebbe rivisitare la figura dell’“individuo pericoloso” per come è stata costruita dalla psichiatria legale e dalla criminologia dell’Ottocento, e che Michel Foucault ha analizzato in diversi lavori12. Foucault sottolineava che l’idea di un individuo intrinsecamente, essenzialmente o potenzialmente pericoloso, rappresenta una figura limite per il diritto. Il diritto deve giudicare gli atti; ora, si tratterebbe di decidere sulle potenzialità, sulle intenzioni presunte, e nel caso della psichiatria sulle intenzioni inconsce e gli impulsi. Nel caso che ci interessa, queste intenzioni sono imputate agli individui a causa della loro “associazione”, che può essere a volte semplicemente una compresenza, una prossimità fisica o geografica, con combattenti appartenenti a un’organizzazione terroristica. Per Foucault, questa categoria criminologica è il negativo dell’idea umanistica di emendamento. L’individuo inemendabile è colui che bisogna sia “custodire” a vita sia sopprimere: due forme di reclusione indefinita o di condanna a morte che la coscienza giuridica umanitaria moderna disapprova in maniera ineguale (com’è noto, la pena di morte non è abolita dappertutto, in particolare negli Stati Uniti). Questo è dunque il punto in cui quelli che Foucault altrove chiama «dispositivi di sicurezza»13 entrano in contraddizione con i princìpi del diritto (giudicare un atto, o se si vuole un individuo, ma a partire dai suoi atti accertati, e non da sospetti e possibilità). Se permane sempre una certa tensione tra i dispositivi di sicurezza e una logica giuridica rigorosa, occorre sottolineare l’attuale pericolo per cui, seguendo un certo “populismo penale” conseguente lo choc degli attentati, i dispositivi di sicurezza pretendono di affrancarsi dagli “ostacoli” del diritto e dei diritti umani per svilupparsi in pratiche autonome, discrezionali, sottratte al controllo e al “lavoro di civilizza12 Si veda soprattutto Michel Foucault, About the Concept of the “Dangerous Individual” in the 19th Century Legal Psychiatry, in «Journal of Law and Psychiatry», vol. 1, n.1, 1978, pp. 1-18; trad. it. L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria legale del XIX secolo, in Id., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Vol. 3: 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di Alessandro Pandolfi, Feltrinelli, 1998, pp. 43-63. 13 Cfr. Michel Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Gallimard/Seuil, 2004; trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di Paolo Napoli, Feltrinelli, 2007.
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zione” del diritto. L’indagato diventa allora una figura più importante del colpevole, le logiche dell’intelligence e del sospetto prevalgono sulle logiche e le esigenze giudiziarie (presunzione di innocenza, presentazione delle prove, garanzie procedurali), e il rischio diventa la giustificazione di una contro-violenza preventiva. Nel quadro della “guerra al terrorismo”, queste tensioni sono esacerbate: i dispositivi di sicurezza tendono a emanciparsi o a tentare di imporre la loro “legge” al diritto, che è chiamato a conoscere una certa “eclissi”, secondo quell’iustitium dell’istituzione romana rievocato da Agamben: un “arresto del diritto” presentato come necessario per la sopravvivenza dello Stato. La paziente e regolata logica del diritto è invitata a piegarsi al funzionamento elastico della “gestione dei rischi”, considerata più adatta all’urgenza, accettando un certo margine di errore: un’ampia percentuale di innocenti può essere catturata durate le “retate”, un arbitrio precauzionale può tentare di imporsi (per “trattenere” qualcuno che è stato giudicato e dichiarato innocente, ma su cui ancora aleggia un’incertezza…). Questo incremento nella dimensione di gestione dei rischi, precauzioni, profiling, quasi di calcolo delle probabilità, è una risposta che i governi sono naturalmente tentati di ostentare in quanto sembra “all’altezza” del nemico terrorista di cui mima le caratteristiche: la dimensione probabilistica, l’arbitrarietà della retata, la sorveglianza diffusa rispondono all’anonimato, all’incertezza sull’aspetto fisico, sul numero, sulla strategia, sulle “abitudini” del nemico terrorista. È facile immaginare che governi o servizi segreti chiamati in causa per la loro incapacità nel prevenire un attentato, come è avvenuto in seguito all’11 settembre o agli attentati londinesi, cadranno nella tentazione di assegnare maggiori margini di manovra ai dispositivi di sicurezza a scapito delle garanzie giuridiche, o addirittura di sviluppare forme di neutralizzazione preventiva di persone, gruppi, persino Stati “a rischio”, in contraddizione con tutti i princìpi fondamentali del diritto delle genti e dei diritti umani. Con l’idea di guerra preventiva, il governo americano invoca dunque una sorta di diritto all’autodifesa preventiva, di cui fissa e inventa le regole: la governamentalità securitaria si libera a questo punto delle norme universalmente accettate in situazioni “normali”. Dal momento che gli Stati Uniti sono quasi in posizione sovrana nell’ordine internazionale – proprio nel senso che
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Bodin assegnava a questo termine: «È sovrano colui che non ha nessuno al di sopra di sé» – e dal momento che l’autodifesa (dell’esistenza stessa) è una situazione limite che autorizza comportamenti che non sarebbero “normalmente” ammessi (ad esempio uccidere qualcuno), un nuovo diritto internazionale dell’eccezione sembra in procinto di prendere forma. Di fronte a questa sfida, bisogna cercare di discernere tra ciò che è forse necessario di fronte a una situazione effettivamente nuova, eccezionale, all’altezza della novità di questo nemico, che insomma risulta inevitabile per motivi di politica interna, e ciò che deve essere assolutamente rifiutato, che è inderogabile pena il tradimento dei più fondamentali princìpi umanitari e democratici. I primi due punti non possono essere ignorati: una politica antiterroristica in democrazia è anche una politica interna, e in questo senso si sforza di dare una sensazione di azione, di “confortare” una società o un’opinione pubblica “brutalizzate”: allo choc dell’attentato risponde lo spettacolo di un’azione poliziesca o militare, una dimostrazione di forza, un attivismo legislativo e governativo. Philip Heymann14 distingue l’azione efficace per ridurre il rischio terroristico dall’azione utile a calmare il timore pubblico: quest’ultimo aspetto può essere denunciato come polvere negli occhi, demagogia, ma non può essere trascurato adottando un punto di vista unicamente giuridico. Una politica antiterrorismo è anche una risposta al clima e al trauma di una società sconvolta da eventi violenti, il che la porta ad accettare più facilmente una certa contro-brutalità, una restrizione dei diritti. È precisamente a questo che bisogna resistere oggi, perché non si tratta affatto di una “legge” sociale. Si può temere che, ritenendo a priori che una società brutalizzata “richiederà” una contro-violenza, si giustifichi (sulla base di un’opinione pubblica muta o strumentalizzata) un pericoloso aumento dell’arbitrio e una restrizione dei diritti. Ma gli attentati di Madrid non hanno comportato una politica di questo genere, il che è sufficiente a dimostrare che la gestione politica post-attentato può essere estremamente varia e rimane una questione di scelte politiche. L’opzione dello stato d’eccezione securitario non ha alcunché di automatico. 14 Philip B. Heymann, Terrorism, Freedom and Security. Winning without War, MIT Press, 2003.
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In ogni caso, in questo contesto di minaccia terroristica reale alcune misure in materia di videosorveglianza, durata della detenzione, cooperazione dei servizi e procedure di estradizione sono senza dubbio accettabili, ma ciò che è davvero essenziale è chiarire ciò che deve essere assolutamente rifiutato, il campo dell’inderogabile: in particolare, i princìpi del diritto di ciascuno a un equo processo e la proibizione assoluta del ricorso alla tortura. Quest’ultima questione, emersa a proposito di Guantánamo e altre strutture detentive americane, è diventata oggetto di esplicito dibattito tra il governo americano e il Senato; lo stesso è avvenuto in Inghilterra, a seguito di una quasi accettazione de facto della tortura attraverso una sentenza della Corte d’Appello britannica che riconosceva valore giuridico a confessioni verosimilmente estorte sotto tortura, ma al di fuori del territorio britannico. Tale decisione fa eco alla terrificante pratica della “restituzione extra-ordinaria” (extraordinary rendition, secondo la terminologia della cia), oggi dimostrata e ben documentata15: individui catturati o rapiti dai servizi segreti americani (a volte in Europa: si è a conoscenza di un caso in Svezia, uno in Macedonia, del caso di Khaled El-Masri, un tedesco di origini libanesi rivenditore di automobili, erroneamente rapito a causa di una confusione di nomi e detenuto cinque mesi in una “prigione segreta” in Afghanistan, l’imām Abu Omar, rapito a Milano e torturato al Cairo, ecc.) e consegnato a Paesi dove viene praticata la tortura, come l’Egitto e la Siria. La «delocalizzazione della tortura»16 sarà la risposta al partigiano deterritorializzato? Si vede con chiarezza che qui si è in procinto di toccare un limite assoluto, «una delle proibizioni più fondamentali del diritto internazionale, una quasi-norma 15 Si veda l’articolo di Stephen Grey, Les États-Unis inventent la délocalisation de la torture, in «Le Monde diplomatique», aprile 2005, che riprende l’espressione del «New Yorker», “Outsourcing torture”, utilizzata nel febbraio 2005. Si veda inoltre «Libération», 17 marzo e 16 dicembre 2005; Sur la piste des activités cachées de la cia en Europe, «Le Monde», 9 dicembre 2005, pp. 24-25, nonché il rapporto del 2005 sull’Egitto dell’Osservatorio sui diritti umani. 16 Come ha di recente ricordato Scott Silliman, già avvocato militare e professore di diritto alla Duke University: «La baia di Guantánamo è un luogo alquanto unico da un punto di vista giuridico. Il territorio è sotto la sovranità di Cuba, ma gli Stati Uniti ne hanno il completo controllo. Di conseguenza, possono sostenere che qui la Convenzione di Ginevra non si applichi» («Libération», 13 giugno 2006, p. 5).
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dello jus cogens: valida sia in tempo di pace sia in tempo di guerra, ha come soli equivalenti l’attacco di civili innocenti in tempo di guerra o, per l’appunto, il terrorismo», come ricorda Julien Cantegreil17. Detto altrimenti: la nuova figura del nemico rischia di contaminare gli Stati che si impegnano in questa strada e che diventano essi stessi “Stati canaglia”, nel senso di Stati che maltrattano i propri abitanti e rappresentano una minaccia per i cittadini di altri Paesi, alleandosi peraltro alla bisogna con quegli Stati precedentemente classificati come Stati canaglia. Anche per questo motivo bisogna diffidare della parola d’ordine della “guerra al terrorismo” e dell’unificazione del terrorista come figura del nemico. Queste formule ci suggeriscono che i nemici dei nostri nemici (i terroristi islamici) sono nostri amici (la Siria, l’Algeria dei generali, la Russia di Putin), o che le critiche indirizzate agli uni fanno il gioco degli altri. È importante difendere il diritto di non lasciarsi imporre i propri nemici e i propri amici.
17 Julien Cantegreil, Terrorisme et liberté. La voie française après le 11 Septembre, in «En temps réel», n. 20, gennaio 2005, p. 48.
5. Conclusione
Ne Il nomos della terra Schmitt si domandava se «il pianeta fosse maturo per il monopolio globale di un’unica potenza o fosse invece un pluralismo di grandi spazi in sé ordinati e coesistenti, di sfere d’intervento e di aree di civiltà, a determinare il nuovo diritto internazionale della terra»1. La descrizione schematica del mondo sotto la logica del Nomos è attraversata da uno scetticismo riguardo all’efficacia dell’universalismo giuridico “incarnato” dalle Nazioni Unite, in seguito alla Carta dell’organizzazione internazionale e al suo principio dichiarato di pari peso degli Stati membri, controbilanciato nei fatti dal predominio dei membri del Consiglio di Sicurezza e dalla reale egemonia derivante dai rapporti di forza. È su questo fronte che si gioca, agli occhi di Schmitt, una partizione reale, una lotta per l’influenza o il dominio su grandi spazi organizzati attorno a potenze economiche e militari egemoniche. Nella seconda metà del XX secolo il quadro globale di questi rapporti è stato costituito da una dualità e una lotta ideologica mondiali, in cui alcune speculazioni vedevano il preludio a un’unificazione dell’umanità. A tal proposito, Schmitt annotava nel 1951: «La Storia rimane più forte di qualsiasi filosofia della storia. È per questo che ritengo l’attuale dualità del mondo non un preludio alla sua unità, bensì un passaggio in direzione di una nuova pluralità»2. 1 Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 311. 2 Carl Schmitt, Die Einheit der Welt, in «Merkur», vol. 6, n. 1, 1952; trad. it. L’unità del mondo, in Id., Stato, grande spazio, nomos, cit., p. 285.
5.
conclusione
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Su questo punto Schmitt aveva ragione: l’uscita dal mondo strutturato dall’opposizione tra liberalismo e comunismo non ha avvantaggiato né quello One World promesso da un certo ottimismo liberale, né l’unificazione dell’umanità sotto la bandiera dell’Internazionale proletaria. Il crollo del comunismo sovietico ha partorito un mondo senza dubbio tendenzialmente dominato da un’iperpotenza, ma poco pacificato, e la cui unificazione cosmopolitica in uno Stato mondiale, in un al di là delle nazioni o delle collettività civilizzate, non è più annunciata da nessun filosofo della storia. Al posto della “fine della Storia” profetizzata dall’hegelo-marxismo e più recentemente celebrata come realizzatasi mediante una forma di hegelismo liberale, si è assistito alla crescita di polarità religiose e culturali e di antagonismi teologico-politici3. Il paradigma dello “scontro di civiltà” ha potuto allora apparire come una versione imbastardita (perché basata su un concetto “ontologico” del nemico, formato da “blocchi” di civiltà misteriosamente unificati) delle riflessioni di Schmitt4 sul fatale risorgere dell’ostilità e sul persistere di un pluriversum geopolitico in cui nuove potenze si costituirebbero in grandi spazi di influenza. Con il suo scetticismo sulle prospettive ireniche di un certo pensiero umanitario che oscilla tra ingenuità e interesse ideologico, Schmitt non ha mai smesso di mettere in evidenza le contraddizioni, l’ipocrisia e i limiti della logica liberale di fronte al problema dell’esercizio del potere e dell’ineguale rispetto di cui esso dà prova nei confronti di norme proclamate come universali. La credibilità della retorica democratica universalista è stata recentemente compromessa dalla dimensione imperialista e unilaterale della politica estera americana, dalle trasgressioni del diritto internazionale operate in nome della pace e 3 La ripoliticizzazione delle identità religiose ha suscitato un rinnovato interesse per la problematica “teologico-politica”, seppur in un’accezione sensibilmente differente rispetto a quella conferita da Schmitt alla nozione di teologia politica. Si veda JeanClaude Monod, Le “problème théologico-politique” au XXe siècle, in «Esprit», vol. 2, n. 250,1999, pp. 179-192. 4 Un parallelismo tra le tesi di Huntington sul clash of civilizations e quelle di Schmitt è avanzato da Marc Crépon, L’imposture du choc des civilisations, Pleins Feux, 2002, e da Étienne Balibar, L’Europe, L’Amérique, la Guerre. Réflexions sur la médiation européenne, La Découverte, 2003; trad. it. L’Europa, L’America, La Guerra, a cura di Stefania Bonura, manifestolibri, 2003, pp. 124-137 (Lo “scontro di civiltà” e Carl Schmitt: una coincidenza?).
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del diritto, dalle violazioni dei diritti umani “autorizzate” dallo stato di emergenza controterrorista. Ma il “realismo” critico di Schmitt si risolve spesso nel rifiuto di riconoscere il minimo progresso all’edificazione di un sistema di norme collettive e nella malcelata valorizzazione di logiche nazionaliste o “imperiali”, secondo la convinzione per cui un ordine internazionale è “per ottime ragioni” un ordine di dominio, e che esiste una gerarchia sostanziale tra i popoli e tra le civiltà. In altre parole, la critica dell’ipocrisia liberale democratica non si realizza in Schmitt nell’orizzonte di una migliore realizzazione dell’uguaglianza e della libertà degli individui e dei popoli: questo orizzonte di progresso è rifiutato, nella tradizione controrivoluzionaria, in quanto contrario alla dottrina del peccato originale e al pessimismo antropologico che dovrebbe esserne dedotto, mentre le sue componenti cosmopolitiche sono respinte in nome di uno pseudo-realismo “terraneo”. La “realtà” del cosiddetto “ordine mondiale” risiede così per Schmitt sempre nella risposta alla domanda: chi si appropria di cosa? Anche per questo il suo pensiero riecheggia in orecchie allenate al marxismo. Se mi si domanda, ora, […] qual è oggi il Nomos della terra, posso rispondere chiaramente: è la divisione della terra in regioni industrialmente sviluppate o meno sviluppate, insieme alla questione di chi fornisce aiuti a chi, ed anche di chi accetta aiuti e da chi. Questa distribuzione è ora la vera costituzione della terra5.
C’è qualcosa di incontestabile nell’idea che la “vera” costituzione della terra non risieda nei proclami giuridici di uguaglianza tra i popoli, bensì nell’effettiva ripartizione degli spazi e delle loro ricchezze, e nel peso che tale ripartizione conferisce alle potenze distribuite su questa scacchiera. Ma c’è anche un vizio di fondo in questo pensiero, talvolta non percepito da coloro che scorgono in questa constatazione un’eco della demistificazione “materialistica” dell’idealismo giu5 Carl Schmitt, Die Ordnung der Welt nach dem Zweiten Weltkrieg (ed. or. 1962), in Id., Staat, Großraum, Nomos, cit.; trad. it. L’ordinamento planetario dopo la Seconda Guerra Mondiale, in Id., L’unità del mondo e altri saggi, a cura di Alessandro Campi, Antonio Pellicani Editore, 1994, p. 339.
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ridico e delle critiche di sinistra dell’ordine mondiale, e che perciò lasciano correre6. Un vizio nel modo in cui viene considerata l’ineguale ripartizione come fondatrice di norme, vale a dire nella volontà di considerarla non solamente de facto ma persino de iure: un Nomos che giuristi e politici, invitati a rinunciare alle sterili finzioni dei diritti uguali per tutti e dei diritti dell’uomo – un’astrazione, come diceva Joseph de Maistre – dovrebbero consacrare. Ritenere non soltanto che il diritto è essenzialmente e in eterno una ripartizione ineguale, ma che non serve a nulla pretendere di porre rimedio a questa “essenzialità”, e ancora di più, che ogni volontà di costruire un diritto uguale per tutti (individui e popoli) si rivela un inganno ideologico («chi parla di umanità, vuol trarvi in inganno»), è una “decisione” politica, antropologica (senza dubbio ancorata per Schmitt, in ultima istanza, a un credo teologico), della quale l’itinerario stesso di Schmitt mostra tutte le tremende conseguenze. I suoi entusiasti lettori di sinistra, sedotti dal «ruolo demistificatore» della sua «iperpolitica decostruzione del linguaggio del consenso»7 liberale e dell’«internazionalismo» morale come facciata dell’imperialismo, dovrebbero ponderare il loro entusiasmo con la consapevolezza che questo presunto “realismo” passava per un ostentato disprezzo di qualunque sforzo volto a istituzionalizzare procedure di divisione dei poteri e di deliberazione collettiva, negava qualsiasi valore al processo di equiparazione giuridica dello statuto delle “minoranze” (fino a fare dell’emancipazione degli ebrei e del principio della libertà di 6 Mi sembra questo il caso di Gopal Balakrishnan nel suo brillante “ritratto intellettuale” di Carl Schmitt, là dove scrive: «Per Schmitt il diritto internazionale è sospetto non perché la sua portata sia universale, ma piuttosto perché non lo sarà mai in quanto Stati potenti, o intere alleanze di Stati, avranno privilegi inscritti nel diritto internazionale o si sottrarranno alla sua giurisdizione su questioni di sicurezza che ritengono vitali» (Gopal Balakrishnan, The Enemy: An Intellectual Portrait of Carl Schmitt, Verso Books, 2016, p. 269). Balakrishnan attribuisce così alla critica schmittiana un’assiologia universalista che non le appartiene, e per un chiaro motivo: il problema per Schmitt non è che il diritto internazionale «non sarà mai universale», ma che tenta di esserlo al posto di assestarsi risolutamente nella prospettiva inegalitaria dell’“ordine spaziale” e in una distribuzione delle parti per cui la Germania (negli anni 1920-1930) e poi l’Europa dovevano rimanere “centrali”, dominanti, “influenti”, cioè anche “soverchianti” per i popoli sui quali avrebbero dovuto “irradiarsi”. 7 Ivi, p. 68.
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coscienza i fattori della distruzione dello Stato), rifiutava la nozione di autodeterminazione laddove applicata alle ex colonie, ecc. Certo, come notava Hugo Ball in uno dei primi saggi sulla teologia politica di Schmitt, «se il compito specifico del filosofo è produrre tensioni all’interno dei movimenti di pensiero del suo tempo, allora qui viene provocata una crisi del concetto di dominio che non va sottovalutata»8. Lo sguardo di Schmitt si dirige soprattutto agli effetti di questa crisi che possono essere imputati al “dominio liberale” e ai suoi supposti promotori (le potenze “marittime” mercantili, anglosassoni, lo spirito rivoluzionario francese, i pensatori ebrei e protestanti, i quali secondo la costruzione storico-mitologica del libro sul Leviatano come simbolo politico cercano di emanciparsi dalla tutela romana, ecc.). I processi che egli intenta in questa prospettiva sono talvolta segnati dal risentimento e dal delirio nazionalisti, talvolta più acuti, soprattutto quando riguardano momenti in cui le democrazie liberali si rivelano anche Stati disposti a sacrificare i princìpi “umanitari”, da cui traggono la loro legittimità e il sistema di giustificazione della loro superiorità sugli avversari, quando dimensioni “primarie” dell’esistenza collettiva sembrano imporre la loro legge “suprema”. L’unico modo di leggere Schmitt in modo veramente proficuo, a mio avviso, consiste nel leggerlo alla rovescia rispetto a ciò che egli ha valorizzato e alle sue prese di posizione etico-politiche. Nel suo caso, la creatività concettuale e il virtuosismo analitico non erano votati al sentimento di giustizia o alla preoccupazione per l’uguaglianza; il rispetto dell’umanità in ogni uomo era l’ultima delle preoccupazioni di questo spirito il cui anti-umanesimo non fu solo teorico, ma pratico. Non rimane che impadronirsi, come di una cassetta degli attrezzi, dei suoi concetti e della dimensione autenticamente illuminante del suo scetticismo di fronte all’uso fallace e imperiale delle nozioni di Diritto, Umanità, Pace e Mondo migliore. Non per erigere l’ostilità a orizzonte insuperabile del nostro e di tutti i tempi, ma per preservare queste nozioni dalla loro definitiva deformazione ideologica.
8 Hugo Ball, Carl Schmitts politische Theologie, in «Hochland», vol. 21, n. 2, 1924; trad. it. La teologia politica di Carl Schmitt, Appendice a Carl Schmitt, Aurora boreale. Tre studi sugli elementi, lo spirito e l’attualità dell’opera di Theodor Däubler (ed. or. 1916), a cura di Valeria Bazzicalupo, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, p. 116.
Postfazione di Ernesto C. Sferrazza Papa
Il libro di Jean-Claude Monod Penser l’ennemi, affronter l’exception, la cui prima edizione risale al 2007, è un tentativo di fare i conti con Carl Schmitt. L’ampio apparato di prefazioni che via via negli anni l’autore ha allegato al corpo principale del volume, e che abbiamo deciso di tradurre integralmente, testimonia della presenza carsica di Schmitt sia nel lessico della politica contemporanea sia nella sua realtà materiale e storica. La convincente intuizione di Monod, il filo rosso che attraversa Penser l’ennemi, è che la filosofia di Schmitt, come una cicatrice che non smette di dolere, riemerge nei momenti di massima crisi delle strutture politiche e giuridiche che si sforzano, con risultati non sempre eccelsi, di mettere in forma il disordine mondiale. Crisi è la parola che apre il castello di Barbablù. Schmitt è un pensatore della crisi nel senso più profondo che questa nozione può assumere. Come ha rilevato Reinhart Koselleck, nell’antichità greca il concetto di krisis «poneva di fronte ad alternative nette: ragione o torto, salvezza o dannazione, vita o morte»1. L’accezione originaria del termine proviene dall’area medica, in particolare dal corpus ippocratico e con la decisiva mediazione di Galeno, dove designa quel punto della malattia in cui ne va della regressione o del letale peggioramento. Le accezioni giuridiche (krisis come giudizio, Urteil, al termine di un processo) e teologiche (krisis come Giudizio Universale, dove si 1 Reinhart Koselleck, Krise, in Id., Otto Brunner, Werner Conze (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexicon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Klett-Cotta, 1972-1997; trad. it. Crisi. Per un lessico della modernità, a cura di Gennaro Imbriano e Silvia Rodeschini, Ombre Corte, 2012, p. 31.
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realizza una torsione pienamente apocalittica del termine) procedono da questa significazione originaria di cui condividono l’estensione teorica. In tutte queste declinazioni, la crisi si presenta come rottura, taglio, cesura, identificazione di un prima e un dopo. “Critico” è insomma quel punto che divide, nel quale ciò che è in crisi viene “deciso”. Ma è anche, e proprio per questo, un operatore epistemologico, quel momento che permette di scoprire la verità e il destino del corpo in crisi. La crucialità della crisi consiste dunque nell’essere una «manifestazione definitiva»2, la messa in scena di un punto oscuro finalmente illuminato. Questa è l’accezione che fa dell’impresa teorica di Schmitt una filosofia della crisi, ma è anche il motivo per cui da ogni crisi politica sembra fare capolino il suo profilo. Per parafrasare un’abusatissima espressione di Gramsci: la Storia impartisce le lezioni più importanti durante le sue crisi. Da questo punto di vista, Schmitt aveva il physique du rôle per essere un eccellente scolaro. Porsi nei punti massimamente critici è stata la grandiosa abilità del Kronjurist (secondo lo sprezzante titolo conferitogli da Waldemar Gurian) di Plettenberg, il suo indubitabile spessore filosofico. Schmitt ha sempre prediletto, come mostra bene Jean-Claude Monod scegliendo con cura gli elementi della vasta opera schmittiana su cui appuntare la propria analisi, i momenti e le figure della crisi: la decisione sovrana, l’eccezione, la dittatura, la Landnahme come atto costitutivo del diritto, la politicizzazione di una Verfassung, il partigiano, il pirata, e così via. Nella crisi e nelle sue possibili incarnazioni Schmitt ha sempre ritenuto si celassero il segreto e la verità della politica e del diritto. Nondimeno, è forse proprio la radicalità di un pensiero vertiginoso, nonostante i fiumi d’inchiostro versati per far confessare ogni singola sillaba della sua opera, a renderne faticosa una decostruzione scientifica rigorosa. A mancare è spesso stata quella distanza necessaria per interagire criticamente con un pensatore. È il destino forse di tutti i grandi autori politici e polemici quello di dividere i fronti: di qua gli entusiasti, di là chi non li considera meritevoli nemmeno di una sbirciata. In parti davvero erudite del suo saggio, Monod illustra bene questa diatriba che sembra talvolta declinare la dialettica politica Freund-Feind sullo stesso Schmitt. Lo si vede con 2 Ivi, p. 32.
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grande chiarezza nell’analisi delle differenti recezioni nazionali dell’opera di Schmitt, che oscillano tra un’accettazione supina delle sue tesi – è il caso delle “interpretazioni” maggiormente reazionarie dell’opera schmittiana – e un rifiuto radicale e senza appello – esemplificato nella messa all’indice dei testi di Schmitt promossa da un grande studioso francese come Yves-Charles Zarka, che sul giurista tedesco ritiene di poter esercitare una sorta di nuda proprietà interpretativa. Recezioni che testimoniano, peraltro, della difficoltà di non far risuonare un pensiero come quello di Schmitt con le varie ontologie storico-politico-giuridiche locali. L’esempio italiano, nel quale si è assistito da sinistra a una vera e propria infatuazione per il pensiero di Schmitt, lasciando spesso e volentieri correre sulla bancarotta morale e politica cui è andata incontro la sua opera, è da questo punto di vista un esemplare caso di studio. Penser l’ennemi, attraverso un serrato corpo a corpo con alcuni luoghi particolarmente rilevanti dei testi schmittiani, è un invito a sottrarsi a questa scelta prescritta. Per il filosofo francese c’è un uso possibile e proficuo della filosofia schmittiana, che quando non degrada in prescrittivismo è capace di suonare come un “segnalatore d’incendio” (l’espressione è di Michael Löwy che la forgia a misura della nemesi teorica e biografica di Schmitt: Walter Benjamin). Si tratta allora di esercitare nei confronti di Schmitt una sorta di jujitsu filosofico, che usa contro l’avversario la sua stessa forza. Così facendo ci si potrebbe rendere conto, rimanendo all’interno della lettera schmittiana come fa Monod sottoponendolo a un’accanita ermeneutica, che proprio alcune parti della sua teoria, e in particolare la critica dello scadimento del nemico a “nemico assoluto”, potrebbero essere giocate contro le scellerate scelte ideologiche e politiche dello stesso Schmitt. Si tratta di una metodologia critica particolarmente proficua, che consiste nell’individuare l’ipocrita scarto tra la teoria e la prassi, un mestiere che la filosofia pratica a dire il vero con una certa costanza. Lo scopo non è denunciare l’autore davanti a un’immaginaria inquisizione filosofica, anzi: si tratta di salvarne la teoria malgré lui. Nondimeno, esiste un limite oltre il quale la speculazione del filosofo di Plettenberg sembra essere ormai inutilizzabile. E questo non dipende dalle infami pagine antisemite di Schmitt, né dal fatto che la sua filosofia “plastica” (come la definisce Monod) sembra poter essere
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usata in ogni stagione (da rivoluzionari e conservatori, da sinistra e da destra), ma è la resa dei conti con il suo approccio al diritto. È in questo Gebiet che precipitano tutte le contraddizioni schmittiane. Schmitt è un giurista paradossale che non ha alcuna fiducia nel diritto. Per lui, la capacità di mise en forme del disordine raggiunta dallo Jus publicum Europaeum si presenta come un hapax nella storia politica dell’umanità a cui guardare con nostalgia. Questo sguardo a ritroso, una vera e propria petitio principii intorno alla quale Schmitt costruisce la sua critica della fine del Nomos della terra, ha un che di profondamente antistorico. Schmitt, imputando a questa estinzione della funzione ordinante del diritto tutte le crisi che hanno colpito il XX secolo, conferma ciò che si tratterebbe in realtà di dimostrare. La fallacia teorica appare evidente al netto della suggestività dell’impresa. Monod ha difatti ottimo gioco nel mostrare che le nevrosi politico-giuridiche che hanno segnato il secolo passato (banalizzazione dell’eccezione, ritorno della logica della guerra giusta, aumento a dismisura della possibilità di guerra d’annientamento, ecc.) non dipendono affatto dalla crisi del Nomos europeo come sostenuto da Schmitt, o comunque non ne dipendono integralmente. Il diritto, anche e soprattutto il diritto internazionale, ha conosciuto in realtà evoluzioni e progressi che Schmitt non riconosce o che addirittura calunnia come regressivi. In realtà, la possibilità di estendere universalmente i meccanismi protettivi (una logica che Schmitt bollerebbe come imperialista), senz’altro spesso contaminata da ideologiche volontà di potenza che urge sottoporre costantemente a critica, non incappa necessariamente nel destino che Schmitt le assegna. Il destino, che è autorità inattaccabile in quanto trascendente e astratta, non esiste. Di contro, esiste l’inazione, la rinuncia, la rassegnazione che permette alle profezie di auto-avverarsi. Nondimeno, sarebbe un errore far pesare interamente il peso dei meccanismi protettivi sul piano giuridico. Il diritto da solo non è in grado di realizzare le sue promesse. Un diritto che non trovi agenti sociali in grado di praticarlo e di essere alla sua altezza rischia di risolversi in un inutile formalismo. Ma allo stesso modo la politica, priva dei limiti che la cultura giuridica le impone, può scivolare nel più brutale esercizio della forza. Per parafrasare un brocardo kantiano, potremmo dire che il diritto senza politica è vuoto, la politica senza diritto è cieca. Schmitt, paradossalmente, ha sottratto al diritto la sua
postfazione
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funzione d’impregnare l’azione politica contenendone le azioni. Lo ha cristallizzato nell’eterno presente di una monolitica modernità spesso estetizzata, ignorando o disconoscendo la sua evoluzione storica. Certo questa evoluzione del diritto, la sua capacità di comprendere sempre più individui, non è mai assicurata una volta per tutte. Il diritto, per essere un possibile strumento di emancipazione, reclama per sé la protezione che promette per gli altri. Schmitt ha ignorato deliberatamente questa dimensione del diritto, condannandolo a essere la subdola giustificazione della pura forza. Si tratta, come ha fatto Monod in Penser l’ennemi, di non rassegnarsi a questa sentenza.
Indice
Simulacri di pienezza. Carl Schmitt contro la modernità di Francesco Mancuso
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Prefazione all’edizione italiana. Quale “nuovo” Nomos della terra?
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Prefazione all’edizione 2016. Nemico assoluto, stato d’urgenza permanente? Dall’11 settembre al 13 novembre
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Introduzione31 1. È possibile un uso critico dei concetti schmittiani? 2. La banalizzazione dell’eccezione: essenza della politica moderna o nuova governamentalità securitaria? 3. La destabilizzazione del diritto della guerra: verso un diritto internazionale dell’eccezione? 4. Il terrorista: nuova figura del nemico? 5. Conclusione
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Postfazione di Ernesto C. Sferrazza Papa
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Nella stessa collana
Christoph Menke, Diritto e violenza, a cura di Francesco Mancuso e Giovanni Andreozzi Alfonso Catania, Decisione e norma, a cura di Valeria Giordano e Francesco Mancuso Giorgio Ridolfi, Identità e continuità dello Stato Christian Ingrao, Il sole nero del parossismo, a cura di Francesco Mancuso e Giusto Traina, in corso di pubblicazione
Stampato da Puntoweb Via Variante di Cancelliera snc, Ariccia (RM) per conto di Lit Edizioni s.a.s.