Il mio e il vostro Sacrificio: Il liturgista risponde (Italian Edition) 9887851493, 9789887851493

Troppo spesso si ritiene che il dibattito liturgico sia questione di competenti in ambiente accademico, ma in realtà la

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Italian Pages 119 [196] Year 2018

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LA BUONA BATTAGLIA
Indice dei contenuti
Siamo in un mondo di pazzi!
Il Cristianesimo nemico del progresso? Sciocchezze!
L’esistenza di Dio? E’ una questione di intelligenza!
Non c’è amore senza verità
I Dieci Comandamenti. Tutti… nessuno escluso!
Proprietà privata sì! Supercapitalismo no!
La rimozione del Tabernacolo
Anche Cesare deve dare a Dio
Con il Cristianesimo nasce il concetto di Storia
La religione più “sportiva”? il Cristianesimo!
Dall’arte bella all’ “arte” brutta. Come è potuto succedere?
L’omosessualità è contro l’ordine naturale
E’ ancora valido l’ “extra Ecclesiam nulla salus”?
L’inferno è eterno proprio perché Dio è amore
Un peccato grave ormai dimenticato: la sessualità prematrimoniale
E’ importante definire la Chiesa Cattolica anche “Romana”? Eccome!
San Francesco d’Assisi… tutt’altro che pacifista!
L’universo ha una logica
La “Teologia del Dubbio”
Guai a dimenticare la “romanità” della Chiesa
Il tabernacolo nascosto
L’errore fideista
L’insostituibilità del Rosario
L’uomo non è solo i suoi neuroni!
Le civiltà non sono affatto uguali!
L’animalismo: negare il valore della ragione… ragionando
Dio è la sua legge!
Il celibato ecclesiastico? Esiste da quando esiste la Chiesa
Perché si costruiscono chiese brutte? E’ una questione di cattiva teologia
Diminuiscono le culle… perché siamo in un mondo disperato
Gli Ebrei hanno l’obbligo di convertirsi
La sciocchezza di uno Yoga “cristiano”
Misericordia sì… misericordismo no!
Monogenismo o poligenismo… che scegliere?
Dall’invocazione all’utilizzazione
La clonazione? Il problema parte dalla fecondazione in vitro
La sciocchezza del Purgatorio come “invenzione” medioevale
Il tabù della morte
Perché non si sopportano più gli inginocchiatoi?
Senza la vita eterna, il Cristianesimo non lo si capisce
La Tratta degli schiavi negri… è proprio come viene raccontata?
La bellezza inimmaginabile della verità cristiana
Il metodo analogico per indagare Dio
Risorgimento e magia
Come difendere la Chiesa?
Lo shiatsu… cos’è?
Cristianesimo e Modernità
Proprio perché Dio può tutto … non può fare il male
La natura anticristiana del Nazismo
Può esistere una guerra giusta?
La teologia del cardinale Newman
La Notte di San Bartolomeo. Cosa realmente accadde?
Il Cristianesimo tutt’intero!
Ragione razionalista e ragione ragionevole
L’incoronazione divina dei re… altro che rituale sciocco!
L’immutabilità del dogma
La devozione mariana è sempre esistita
Quali le prove della resurrezione di Cristo?
Dio è amore… lo attesta la ragione!
I medievali e la bellezza
Il nichilismo… dissoluzione dei nostri tempi!
Andiamo da sant’Atanasio… e capiremo molte cose di oggi
Il Graal: oggetto magico o religioso?
L’obbligo morale di convertirsi alla Chiesa Cattolica
Heidegger, un filosofo alla moda… ma pericoloso
Sovranismo e Cristianesimo. E’ possibile questo binomio?
Il Cristianesimo non si può ridurre ad “esperienza”
L’Indice dei libri proibiti… lo possiamo davvero considerare uno scandalo?
La sciocca moda dell’Oriente
Il crocifisso negli uffici. Come rispondere?
Che l’uomo abbia un’anima immortale è evidente
La Messa Tridentina
Come capire il mistero della Trinità
Giovannino Guareschi, scrittore autenticamente cattolico
La data del Natale
L’utilità della Bellezza
Le contraddizione di una Chiesa “pneumatica”
La Comunione in mano… da sempre non è stato così
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Il mio e il vostro Sacrificio: Il liturgista risponde (Italian Edition)
 9887851493, 9789887851493

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Corrado Gnerre

LA BUONA BATTAGLIA

Apologetica cattolica in domande e risposte

Copyright © 2019 Chorabooks, a division of Choralife Publisher Ltd.

All rights reserved.

14/F office A. Bangkok Bank Building

No.28 Des Voeux Road Central

Hong Kong

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First eBook edition: May 2019

Cover image: Giovanni Gasparro, San Michele Arcangelo sconfigge il demonio. Olio su tela, 80 X 60 cm, 2018. Collezione privata. Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini

ISBN: 9789887961628

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Indice dei contenuti

Siamo in un mondo di pazzi! Il Cristianesimo nemico del progresso? Sciocchezze! L’esistenza di Dio? E’ una questione di intelligenza! Non c’è amore senza verità I Dieci Comandamenti. Tutti… nessuno escluso! Proprietà privata sì! Supercapitalismo no! La rimozione del Tabernacolo Anche Cesare deve dare a Dio Con il Cristianesimo nasce il concetto di Storia La religione più “sportiva”? il Cristianesimo! Dall’arte bella all’ “arte” brutta. Come è potuto succedere? L’omosessualità è contro l’ordine naturale E’ ancora valido l’ “extra Ecclesiam nulla salus”? L’inferno è eterno proprio perché Dio è amore Un peccato grave ormai dimenticato: la sessualità prematrimoniale E’ importante definire la Chiesa Cattolica anche “Romana”? Eccome! San Francesco d’Assisi… tutt’altro che pacifista! L’universo ha una logica

La “Teologia del Dubbio” Guai a dimenticare la “romanità” della Chiesa Il tabernacolo nascosto L’errore fideista L’insostituibilità del Rosario L’uomo non è solo i suoi neuroni! Le civiltà non sono affatto uguali! L’animalismo: negare il valore della ragione… ragionando Dio è la sua legge! Il celibato ecclesiastico? Esiste da quando esiste la Chiesa Perché si costruiscono chiese brutte? E’ una questione di cattiva teologia Diminuiscono le culle… perché siamo in un mondo disperato Gli Ebrei hanno l’obbligo di convertirsi La sciocchezza di uno Yoga “cristiano” Misericordia sì… misericordismo no! Monogenismo o poligenismo… che scegliere? Dall’invocazione all’utilizzazione La clonazione? Il problema parte dalla fecondazione in vitro La sciocchezza del Purgatorio come “invenzione” medioevale Il tabù della morte Perché non si sopportano più gli inginocchiatoi?

Senza la vita eterna, il Cristianesimo non lo si capisce La Tratta degli schiavi negri… è proprio come viene raccontata? La bellezza inimmaginabile della verità cristiana Il metodo analogico per indagare Dio Risorgimento e magia Come difendere la Chiesa? Lo shiatsu… cos’è? Cristianesimo e Modernità Proprio perché Dio può tutto … non può fare il male La natura anticristiana del Nazismo Può esistere una guerra giusta? La teologia del cardinale Newman La Notte di San Bartolomeo. Cosa realmente accadde? Il Cristianesimo tutt’intero! Ragione razionalista e ragione ragionevole L’incoronazione divina dei re… altro che rituale sciocco! L’immutabilità del dogma La devozione mariana è sempre esistita Quali le prove della resurrezione di Cristo? Dio è amore… lo attesta la ragione! I medievali e la bellezza

Il nichilismo… dissoluzione dei nostri tempi! Andiamo da sant’Atanasio… e capiremo molte cose di oggi Il Graal: oggetto magico o religioso? L’obbligo morale di convertirsi alla Chiesa Cattolica Heidegger, un filosofo alla moda… ma pericoloso Sovranismo e Cristianesimo. E’ possibile questo binomio? Il Cristianesimo non si può ridurre ad “esperienza” L’Indice dei libri proibiti… lo possiamo davvero considerare uno scandalo? La sciocca moda dell’Oriente Il crocifisso negli uffici. Come rispondere? Che l’uomo abbia un’anima immortale è evidente La Messa Tridentina Come capire il mistero della Trinità Giovannino Guareschi, scrittore autenticamente cattolico La data del Natale L’utilità della Bellezza Le contraddizione di una Chiesa “pneumatica” La Comunione in mano… da sempre non è stato così

Siamo in un mondo di pazzi!

Un lettore: cari amici di Radici Cristiane, qui non si capisce più nulla. Si mette in discussione ciò che è scontato. Il normale viene ritenuto “anormale” e l’anormale “normale. Ma cosa è successo? Io non ci capisco più nulla. Caro (…), lei ha perfettamente ragione … punto. Non si dovrebbe aggiungere nulla alle sue parole, ma purtroppo siamo proprio giunti a quei tempi già profetizzati da quel grande scrittore inglese, Gilbert Keith Chesterton, il quale disse che sarebbero arrivati anni in cui sarebbe stato necessario perfino combattere per dimostrare che d’estate le foglie sono verdi. Ci siamo: ciò che è ovvio necessita di dimostrazione, mentre ciò che ovvio non è (ed è perfino innaturale) viene accettato come se nulla fosse. Ma, quando si va contro la logica e contro l’evidenza del reale, c’è sempre un “ma”. Mi riferisco a ciò a cui anche lei si riferisce molto bene, ovvero al fatto che chi vuole negare la verità finisce sempre con l’ “incartarsi” (come si suol dire), cioè col contraddirsi in maniera ridicola. Lei giustamente fa riferimento all’ambito sportivo dove, piaccia o non piaccia, la legge di natura vien fuori: nessuna donna, nemmeno la più imbottita di ormoni atleta della vecchia DDR degli anni ‘70 riusciva ad ottenere perfomances pari a quelle del più schiappa degli atleti maschi di allora. Per non parlare del calcio. Tutto il rispetto (anche se fino ad un certo punto, perché non mi sembra uno sport adatto al sesso femminile) per ragazze che fingono di emulare i vari Messi, Cristiano Ronaldo e Neymar, ma siamo seri: è molto meglio andarsi a vedere il Pizzighettone football club che la più prestigiosa equipe di calcio femminile … anche in questo caso con tutto il rispetto per il Pizzighettone football club. Siamo, insomma, caro (…), nel campo del puro accecamento dell’intelligenza. E qui il discorso va a finire in un altro ambito, in quell’ambito cioè dove ci si

deve chiedere: ma come è possibile che in un tempo in cui si mandano le sonde su Marte, in cui abbiamo conosciuto e continuiamo a conoscere l’infinitamente piccolo, si possano dire tali corbellerie? Corbellerie del tipo: oltre ad essere maschio o donna si può essere anche “intersex” (la Germania ha legiferato sul punto); oppure essere maschio o donna si può decidere dopo, quando si è adulti, come più fa piacere … quasi a dire che se non si può sapere se il nascituro quando sarà grande apprezzerà più la pastasciutta o la pasta in brodo, il mare o la montagna, lo sport o la vita sedentaria … così è giusto che possa decidere dopo che sesso avere. Dunque, accecamento dell’intelligenza e perché? Per due motivi, uno di ambito morale l’altro di ambito intellettuale. Il primo non è altro che il vecchio proverbio “ Chi va con lo zoppo (pardon: con il “diversamente camminatore”) impara a zoppicare”. Che di fatto vuol dire che è un’illusione quella di poter conservare un sano e retto ragionamento se nel proprio comportamento s’instaura cronicamente il disordine. Come dice quella famosa frase “non si vive mai come si pensa, bensì si finisce sempre col penare come si vive”: una volta che il disordine guida il comportamento, quello stesso disordine finirà anche col guidare il ragionamento. Da qui, caro (…), le stupidaggini di tanti intellettuali e maestri di pensiero che pontificano su riviste, quotidiani e talk-show televisivi e che potrebbero essere confutati anche da un bambino di V elementare. Il motivo di ambito intellettuale è un altro, più complesso, ma che logicamente precede quello già detto. Una volta che il pensiero moderno e contemporaneo ha gettato il concetto di verità oggettiva nella pattumiera della storia, allora perché meravigliarsi? Se non esiste la verità, non esiste nemmeno una legge naturale universalmente intesa inserita nella natura razionale dell’uomo, e se non esiste una legge naturale universalmente intesa, ognuno non solo può fare come vuole, ma la può pensare come vuole. Un grande poeta del ‘900 che non la pensava mica bene, che non aveva alcuna risposta religiosa, che morì perfino suicida, come Cesare Pavese, scrisse delle cose che sarebbero da incorniciare relativamente a ciò che stiamo dicendo ma anche per altro: “Idiota e lurido Kant se Dio non c’è tutto è permesso. (…). Solo la carità è rispettabile. Cristo e Dostoevskij. Tutto il resto sono balle.” E’ proprio così, carso (…), se Dio non c’è, cioè se non c’è la Verità, tutto il resto

sono balle, sciocchezze, contraddizioni da far invidia al più classico degli scemi del villaggio.

Il Cristianesimo nemico del progresso? Sciocchezze!

Un lettore: Ho recentemente visto il film “Angeli e demoni”, tratto dall’omonimo romanzo di Dan Brown. Mi sembra che dopo “Il Codice da Vinci”, che s’incentra sulla negazione della storicità dei Vangeli, “Angeli e demoni” parli di una Chiesa che si sarebbe sempre opposta al progresso scientifico. Veramente le cose sono andate in questo modo? Gentile lettore, è evidente che ci troviamo dinanzi ad un ennesimo attacco. Le cose stanno diversamente da come il romanzo e il film “Angeli e demoni” vogliono far apparire. Se l’Occidente è l’Occidente e se esso si è contraddistinto come il “terreno” da cui è partito il vero sviluppo scientifico-tecnologico, ciò è proprio grazie (e non malgrado!) il Cristianesimo. Ci sono almeno due elementi da tenere in considerazione. Il primo è storico. Il secondo è teologico-culturale. Per il primo va detto a chiare lettere che il processo di “planetarizzazione” del mondo è iniziato dal bacino del Mediterraneo. C’é chi dice che sia stata la cultura greca, e non quella cristiana, ad indirizzare la civiltà mediterranea ed europea allo spirito scientifico e tecnologico. Ciò é falso e lo si può dimostrare facilmente. Il contributo del pensiero greco é stato certamente importante, ma non determinante. Nel periodo in cui questo pensiero é protagonista nel bacino del Mediterraneo, in Mesopotamia vi é un grado di sviluppo della tecnica non certo inferiore, anzi per alcuni versi anche superiore a quello greco e a quello dell'intero contesto mediterraneo. Fu dopo il diffondersi del Cristianesimo che nel bacino del Mediterraneo é ravvisabile un'evidente accelerazione del progresso tecnologico. Nella Grecia antica la conoscenza scientifica non sempre si accompagna alla necessità della ricerca per migliorare le condizioni materiali di vita. Ciò vale anche per Aristotele e per lo stesso Archimede, malgrado le macchine di quest’ultimo siano assai sofisticate e per certi versi anche moderne. Veniamo adesso al dato teologico-culturale, che è quello che spiega.

Nella cultura cristiana, per una specifica antropologia e per il mistero dell'Incarnazione, è assente la demonizzazione del corpo e delle realtà materiali. E la tecnologia é quella manifestazione dell’umano che serve proprio al miglioramento delle condizioni materiali di vita. Il mistero dell’Incarnazione va ad inserirsi su un’antropologia -che é già quella dell’Ebraismo- che valorizza l’individualità e soprattutto l’unitarietà dell’individuo. Il “ Dio disse” e il “ Dio vide che era cosa buona” del libro del Genesi evidenziano la volontarietà del gesto creatore, in contrapposizione a visioni gnostiche -diffuse nelle culture pagane- ove la nascita del mondo e delle realtà corporali figurano come conseguenze di una “caduta”, di un gesto non voluto da parte del divino. Questa antropologia biblica non si limita a valorizzare la positività del creato, ma anche la centralità dell’uomo all’interno della creazione...“ E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza,(...) ”(Genesi 1)...e quindi la legittimità dell’uomo di dominare la natura… “ e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo.”(Genesi 1) A questo poi deve aggiungersi che nel pensiero cristiano l’accettazione di una logica realista -per esempio il principio di non contraddizione- e quindi il riconoscimento dell’oggettività della verità, rendono possibile –e di moltol’indagine scientifica. Afferma l’astronomo Jaki nel suo Dio e i cosmologi: “(Il Cristianesimo, introducendo la distinzione fra) il soprannaturale e il naturale permise (...) di considerare (tutta la natura) governata dalle stesse leggi.” Infatti, se ci si convince che la natura è una manifestazione del divino –convinzione dominante nell’epoca precristiana- essa diventa “intoccabile”. Non così con la concezione giudaico-cristiana, laddove la natura si presenta come realtà creata e, quindi, modificabile dall’uomo. Tutto ciò trova conferma nel fatto che i secoli del basso medioevo, epoca che si è volutamente costruita sulla fede cristiana, furono secoli di grande sviluppo scientifico-tecnologico. Un famoso storico della scienza, il francese Jean Gimpel, arriva a dire che in questo periodo vi fu una vera e propria rivoluzione industriale. Così scrive: “La prima rivoluzione industriale risale al Medioevo. I secoli XI, XII, XIII, hanno creato una tecnologia sulla quale la rivoluzione industriale del secolo XVIII si è appoggiata per il suo sviluppo. (…) In Europa, il Medio Evo ha sviluppato in tutti i campi l’uso delle macchine, più di qualsiasi altra civilizzazione. E’ uno dei fattori che più determinano la preponderanza dell’emisfero occidentale sul resto del mondo.” Dunque, Gimpel lo dice chiaramente: grazie al medioevo cristiano si è avuto la preponderanza dell’emisfero occidentale sul resto del mondo. Altro che Chiesa contro la

scienza!

L’esistenza di Dio? E’ una questione di intelligenza!

Un lettore: Cari amici di Radici Cristiane, sono uno studente di liceo. Leggo sporadicamente il vostro mensile perché sono abbonati i miei genitori. Finora non mi sono occupato molto di Dio, nel senso di non averci pensato più di tanto. Poi sono state “provvidenziali” alcune lezioni del mio professore di Filosofia in cui, un po’ maniacalmente, egli ha insistito su come sia poco ragionevole la convinzione di chi crede. A me invece sembra che sia più ragionevole credere piuttosto che non credere nell’esistenza di un Creatore. Datemi manforte. Caro (…), il tuo è il classico caso del discente che ne capisce più del docente. Ovviamente, non ti montare la testa: qui non si tratta di chissà quale “scienza”, ma di un po’ di sale in zucca; e mi sa che mentre tu ne hai, il tuo prof invece farebbe bene a procurarselo. Tu hai centrato bene la questione. Credere in Dio non è qualcosa che riguarda solo la fede ma anche la ragione, anzi soprattutto la ragione. La fede serve per sapere cosa Dio vuole da noi, come dobbiamo rimetterci alla Sua Parola e alla Sua Volontà, ma di per sé non è necessaria per capire che Lui esiste. Per questo – come ho detto- basta la sola ragione, sempre che la si usi correttamente. Mi chiedi di darti manforte. Allora ti offro qualche citazione importante. Iniziamo con la Bibbia. Scrive il Libro della Sapienza al capitolo 13: “Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell'ignoranza di Dio e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l'artefice, pur considerandone le opere. Ma o il fuoco o il vento o l'aria sottile o la volta stellata o l'acqua impetuosa o i luminari del cielo considerarono come dei, reggitori del mondo. Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dei, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza. Se sono colpiti dalla loro

potenza e attività, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati. Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l'artefice.” Scrive il Salmo 18(19): “I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento. / Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. / Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono. / Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola.” Caro (…), è prevedibile che il tuo prof dinanzi alla Bibbia potrebbe storcere il naso, e allora piazzaci queste puntuali parole del buon Cicerone: “Tra tante specie nessun animale, al di fuori dell’uomo, ha una notizia qualsiasi della divinità, e non c’è fra gli stessi uomini nessuna gente così selvaggia e feroce, che sebbene ignori come si debba concepire Dio, non si renda conto che bisogna ammetterne l’esistenza.” ( De legibus, I, 24, 25). Parole pesanti, che non lasciano scampo. Ma il tuo prof se le merita. Dulcis in fundo, caro (…), racconta al tuo professore la storia del filosofo inglese Antony Flew (1923-2010) che, dopo più di 50 anni trascorsi a confutare filosoficamente l’esistenza di Dio, a partire dall’anno 2004, all’età di 81 anni, annunciava pubblicamente, in articoli e interviste, di aver cambiato idea e di ritenere invece l’esistenza di Dio filosoficamente plausibile. Nel suo ultimo libro, Dio esiste, presenta questo suo cambiamento come il coerente punto di arrivo di un processo di ricerca filosofica. Tre punti, in particolare, dello studio dell’universo mostrano, secondo Flew, la traccia di un’Intelligenza. Anzitutto l’enorme complessità presente in una struttura infinitamente piccola, come il DNA, che rende possibile la vita, una complessità che mostra un’Intelligenza all’opera: “ Ritengo che la vita e la riproduzione abbiano origine da una Fonte divina, perché la natura obbedisce a delle leggi”. Le altre due problematiche riguardano le caratteristiche peculiari della vita, il fatto che gli esseri viventi siano organizzati in maniera intelligente e in vista di uno scopo; la terza è l’esistenza stessa della natura. Il caso e la probabilità, spesso invocate come spiegazioni alternative, si mostrano impotenti di fronte alla complessità, che non solo è superiore alla mente umana, ma si manifesta con costanza e regolarità. Flew precisa che la scelta del teismo non si pone come una frattura, ma è lo sbocco coerente della sua ricerca: “ Il mio allontanamento dall’ateismo non fu occasionato da alcun fenomeno o argomento nuovo (…). Quando finalmente giunsi a riconoscere l’esistenza di un Dio, non fu un cambiamento di paradigma,

in quanto esso rimane lo stesso per me, come Platone nella “Repubblica” fa sì che il suo Socrate insista nel dire che bisogna seguire il ragionamento fin dove ci porta”. Caro (…), dunque hai di che parlare con il tuo prof … e che Dio te la mandi buona!

Non c’è amore senza verità

Un lettore: Nell’ultima enciclica, la Caritas in veritate, Benedetto XVI insiste sul fatto che la carità deve sempre partire dalla verità e che addirittura non può esistere carità senza verità. Voi cosa ne pensate? Io sono d’accordo, ma qualcuno mi ha obiettato che in questo modo si corre il rischio di svilire l’amore sottoponendolo ad un’impostazione troppo intellettuale. Come posso rispondere? E’ vero. Il Papa, nella sua enciclica, afferma che la carità deve essere giudicata dalla verità. D’altronde lo stesso titolo è molto chiaro. Al punto n.3 egli dice: “ Senza la verità, la carità scivola nel sentimentalismo”. E ancora, sempre al n.3: “La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale.” Veda, caro lettore, non può che essere così. Già nel Mistero della Trinità è chiaro quanto l’amore debba essere giudicato dalla verità. Se così non fosse, l’amore potrebbe diventare anche il sentimento più pericoloso...come i nostri tempi dimostrano ampiamente. La Trinità è costituita dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. Non si dice: dallo Spirito Santo, dal Figlio e dal Padre o dal Figlio, dal Padre e dallo Spirito Santo; ma: dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. Il tutto in una successione logica ma non cronologica. Cosa vuol dire? Vuol dire che, senza il Figlio, non ci sarebbe lo Spirito Santo e, senza il Padre, non ci sarebbe il Figlio. Ma non che il Padre abbia creato il Figlio e il Figlio abbia creato lo Spirito Santo. Perché, se così fosse, il Figlio e lo Spirito Santo sarebbero delle creature e ciò non è. Dunque una successione logica, ma non nel tempo, cioè cronologica. Il Cristianesimo ortodosso, (quello dei Russi, dei Serbi, dei Greci, per intenderci) è lontano dal Cattolicesimo non solo perché non riconosce il primato del Vescovo di Roma (il Papa), ma anche perché, a proposito della Trinità, non riconosce la dottrina cosiddetta del Filioque, cioè che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. Lo Spirito Santo –dicono gli ortodossi- procede solo dal Padre. Ed è questa una questione molto importante.

Didatticamente si attribuisce al Padre l’azione della creazione, al Figlio quella della redenzione, allo Spirito Santo quella della santificazione. Questo non vuol dire che nel momento della creazione il Padre agiva e il Figlio e lo Spirito Santo non partecipavano, oppure nella redenzione il Figlio agiva e il Padre e lo Spirito Santo erano assenti. Nella creazione ha agito tanto il Padre, quanto il Figlio, quanto lo Spirito Santo e così nella redenzione. Ma metodologicamente diciamo così: il Padre crea, il Figlio redime, lo Spirito Santo santifica. Il Figlio lo chiamiamo anche Verbo (Parola) per indicare il fatto che è il Dio che si manifesta. Il Figlio è anche il Logos, la Verità, mentre lo Spirito Santo è l’Amore. Ed ecco il punto nodale. Già in Dio è pienamente rispettata la processione logica verità-amore. L’amore deve essere sempre giudicato dalla verità, altrimenti può diventare anche la cosa più terribile di questo mondo. Facciamo un esempio. Un padre di figli che lascia la famiglia, perché “s’innamora” di un’altra donna, fa bene? Oggi molti risponderebbero di sì; direbbero: se lo ha fatto per amore. Ma questo è il punto. L’amore, se non è giudicato dalla verità, può diventare molto pericoloso. Facciamo un altro esempio. Perché Hitler e i suoi decisero di perseguitare gli Ebrei? La risposta può sembrare paradossale ma non lo è: per troppo amore nei confronti della razza ariana. Perché Stalin decise di sterminare milioni e milioni di piccoli proprietari? Per troppo amore nei confronti dello Stato socialista. Perché Robespierre decise di tagliare teste su teste? Per troppo amore nei confronti della Rivoluzione che egli sentiva minacciata. Ecco cos’è l’amore sganciato dalla verità. E, se si riflette bene, questo è uno degli errori più tipici dei nostri tempi. C’è chi si lamenta che oggi c’è poco amore. Verrebbe voglia di dire: no, non è così, oggi ciò che manca non è l’amore, ma la consapevolezza della Verità, che è un’altra cosa. Bene, dunque, fa il Papa ha ricordarci che non c’è amore senza verità.

I Dieci Comandamenti. Tutti… nessuno escluso!

Un lettore: Prima di Natale mi capitò di vedere in televisione il commento dei Dieci Comandamenti fatto dal comico Benigni. Devo dire che mi piacque. Certo, non tutto era condivisibile, ma mi ha positivamente impressionato il sentimento religioso che comunque filtrava dalle quelle parole e dai quei gesti. Devo dire che mia moglie non è arrivata alle mie conclusioni, anzi mi ha detto che questi spettacoli sono più pericolosi che edificanti per la fede. Loro cosa ne pensano? Caro (…), mi permetta di dirle che non sono affatto d’accordo con lei, ma con sua moglie. Cercherò di argomentare nella maniera più semplice possibile … ovviamente se ci riesco. E’ vero che non tutti i peccati mortali hanno la stessa gravità. Fermo restando che ogni peccato mortale è grave, è indubbio che ci sono peccati mortali che sono più gravi di altri. Dove si concretizza la differenza? Allorquando si dovesse andare all’inferno per un peccato mortale non rimesso, oppure si dovesse andare in purgatorio per scontare le pene dei peccati mortali rimessi. La gravità dei peccati mortali sta nelle pene che si devono scontare relativamente ai peccati mortali stessi. Ci sono peccati mortali con più pene da scontare, così come ci sono peccati mortali con minori pene da scontare. Ma –attenzione!- ogni peccato mortale è grave e ne basta uno solo non rimesso per andare all’inferno. Questo, caro (…), è bene tenerlo presente, soprattutto in questo periodo di “misericordismo”, che tutt’altra cosa della giusta e corretta misericordia. Vengo alla questione e vengo al nostro, cioè a Benigni. Lungi da me andare ad indagare in foro interno (cosa che può fare solo Dio), mi limito solo a giudicare ciò che è oggettivo. Il comico toscano nel suo commento ai Dieci Comandamenti ha detto delle cose molto discutibili, soprattutto in merito al Sesto Comandamento affermando che sarebbe stata la Chiesa a trasformare quello che era solo inteso come condanna dell’adulterio con il “non commettere atti impuri”. Ora lei mi dice che in questo caso bisogna guardare il classico

bicchiere “mezzo pieno” piuttosto che quello “mezzo vuoto”, perché tutto sommato fa piacere pensare e vedere un vecchio esponente della cultura della sinistra libertaria parlare positivamente della religione e in particolar modo della Bibbia e del Cristianesimo. E invece mi permetto di dirle che non sono d’accordo. Anzi, ritengo molto pericoloso questo atteggiamento, più pericoloso di un rifiuto totale. Per almeno due motivi. Primo motivo, perché è molto più difficile prendere le distanze e formulare delle critiche condite di opportuno discernimento nei confronti di chi si presenta in maniera accattivante e persuasiva, come indubbiamente sa fare uno come Roberto Benigni. Provi, caro (…), a parlare del Sesto Comandamento con dei ragazzi. Mica è cosa facile. Già di per sé è difficile che lo accettino, poi si dà il caso che anche chi parla bene del Cristianesimo si metta a discuterne il valore, la frittata è fatta! In questo caso è più difficile attraversare il sahara a piedi con un cappotto siberiano addosso che convincere i nostri interlocutori. Secondo motivo, perché non sta scritto da nessuna parte che basterebbe credere per salvarsi. Dico questo perché qualcuno potrebbe obiettare: ma se è vero che uno spettacolo come quello di Benigni può essere considerato eterodosso, è pur vero che è edificante vedere come un vecchio irreligioso si sia trasformato in credente. Ma –torno a ripetere- non sta scritto da nessuna parte che basterebbe credere per salvarsi. Caro (…), le chiedo: Lucifero ha mai messo in dubbio l’esistenza di Dio? Ovviamente lei non mi può rispondere, ma la risposta è scontata. Se c’è qualcuno che non ha mai dubitato né mai dubiterà dell’esistenza di Dio è proprio il Principe delle Tenebre, e non mi sembra che questo gli abbia fatto fare molta carriera … Caro (…), attenzione! è molto più pericoloso quando il male si presenta in giacca e cravatta piuttosto che con la sua vera faccia; è molto più pericoloso quando si manifesta intrattenendo gradevolmente piuttosto che quando fa inorridire per la sua intrinseca bruttezza.

Proprietà privata sì! Supercapitalismo no!

Una lettrice: Ho pensato a voi per porre una domanda a cui non so darmi una risposta. Sono convinta che la proprietà privata sia qualcosa di necessario, ma mi sembra che insistere su questo punto –da cattolica- possa significare una giustificazione di certe ingiustizie sociali e anche di un capitalismo selvaggio. Come posso darmi un’adeguata spiegazione? Cara (…), prima di tutto va detto che bisogna distinguere tra capitalismo e legittimità della proprietà privata. Di capitalismo ce ne sono tanti, ma una definizione la possiamo dare. Per capitalismo s’intende il passaggio da un tipo di economia tradizionale ad una di tipo consumistica. In realtà, il capitalismo non è altro che la proprietà privata emancipata da riferimenti sociali, morali e spirituali. E’ ciò che resta della proprietà privata dopo che ad essa sono state tagliate le radici spirituali ed umane. Da ciò si capisce facilmente che mentre il capitalismo è comunque riformabile in quanto cattivo uso della proprietà privata, il comunismo invece non è mai riformabile in quanto negazione totale della proprietà privata. Dunque, cara (…), la negatività del capitalismo è proprio nel suo essere solo proprietà privata, senza che a tale proprietà si diano riferimenti sociali. Il capitalismo comincia con il liberalismo economico, con il Codice Napoleonico, a sua volta preceduto dalla Legge le Chapelier del 1791 (abolizione delle corporazioni e degli organi intermedi) e con l’approvazione dei beni ecclesiastici. Giustamente lei parla di naturalità della proprietà privata. Infatti non è esistita società in cui la proprietà privata sia stata assente. Basti pensare agli antichi rituali di sepoltura dove accanto al cadavere si mettevano alcuni oggetti posseduti in vita. Qualcuno però obietta il contrario, dicendo appunto che ci sarebbero state civiltà che non abbiano conosciuto la proprietà privata. Non è così. Va detto che nell’antichità solo l’uomo, che era realmente considerato tale, aveva il diritto di possedere. Nella civiltà Inca, per esempio, poteva possedere

solo l’Imperatore perché solo questi era considerato come uomo nella pienezza. Cara (…), la proprietà privata è presidio di libertà. L’uomo vive in pienezza la sua libertà sociale solo attraverso i cosiddetti “corpi intermedi”: famiglia, municipio, ecc … Questi “corpi” permettono al singolo di vivere la sua libertà concretamente in una certa struttura: altrimenti sarebbe solo una libertà astratta. Infatti la libertà sociale si può esercitare solo se si ha il supporto giuridico dei “corpi intermedi”. E’ del tutto consequenziale che la mancanza di libertà civile faccia sì che lo Stato estenda totalitariamente il suo potere arrivando ad inglobare l’uomo e a strumentalizzarlo. Ora, il fondamento della libertà civile è proprio la proprietà privata. Il fondamento della libertà è l’indipendenza economica. Senza di essa (l’indipendenza economica), non esisterebbe libertà ma solo condizionamento. La libertà è di per sé indivisibile, per cui non si può eliminare la libertà della proprietà senza eliminare altre libertà. Cara (…), le dico ancora un’altra cosa: la proprietà privata –come tutto d’altronde- si perfeziona con il Cristianesimo. Per il Cristianesimo ogni uomo è soggetto di diritti, per cui ogni uomo ha il diritto alla proprietà. E’ stato il Cristianesimo a determinare un’estensione del diritto alla proprietà. Si pensi al medioevo in cui si era soliti citare una frase che rimarrà famosa nei secoli: ognuno è re a casa sua. Invece il supercapitalismo (che è il capitalismo attuale, una sorta di capitalismo oltre il capitalismo) è una tale concentrazione di proprietà, per cui il potere politico, che dovrebbe naturalmente regolare tale concentrazione, è invece sottomesso a questa. La proprietà privata è garanzia di libertà, per cui più è diffusa, più diffusa è la libertà. Il pericolo del supercapitalismo si può evitare unicamente con la valorizzazione dei “corpi intermedi”. Criticare opportunamente il supercapitalismo non vuol dire che tutti debbano possedere in egual misura, piuttosto che ci sono dei beni inalienabili che non possono essere ridotti a merce.

La rimozione del Tabernacolo

Un lettore: Recentemente si è parlato molto delle dichiarazioni di monsignor Malcom Ranijth, segretario della Congregazione per il culto divino. Dichiarazioni espresse in occasione della presentazione dell’edizione italiana del libro di padre Uwe Michael Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica. Certamente si sente il bisogno di un’ “ordinata” nella liturgia. Vorrei però sapere da voi cosa ne pensate non della posizione dell’altare quanto del fatto che sempre più frequentemente nelle chiese di recente costruzione l’altare non si lega al Tabernacolo, anzi quest’ultimo viene quasi “nascosto” in qualche locale laterale. Caro (…), quello che lei dice è vero. Certamente la questione non si pone tanto per le grandi chiese (cattedrali e santuari) dove la collocazione laterale del Tabernacolo serve soprattutto a non farlo smarrire nella grandezza del tempio, quanto si pone per le chiese di medio-piccola grandezza. C’è un senso in quello che sta avvenendo negli ultimi anni? Penso proprio di sì. Questo va trovato nei motivi che costituiscono l’essenza del pensiero post-conciliare. Uno su tutti: il voler considerare l’edificio liturgico più come realtà di comunione –come indubbiamente anche è- che come realtà di mistero. Chiediamoci: l’edificio liturgico è “luogo” per una assemblea oppure “luogo” per una Presenza? Anche da questa alternativa, o meglio, anche da questo porre l’accento soprattutto sulla prima possibilità (la chiesa come luogo per assemblea) scaturisce quello che si può definire perdita del senso del mistero e dell’incontro. Perdita che –come è sotto gli occhi di tutti- ha reso meno persuasiva la proposta cristiana. Tutte le ragioni utilizzate per giustificare l’uso di porre a lato il Tabernacolo anche se non vogliono diminuire l’atteggiamento di adorazione, ne minano la ragion d’essere. Non esiste una sola ragion d’essere dell’adorazione, se ne potrebbero almeno individuare un paio: l ’adorazione prossima e l’ adorazione presente. La prima è riscontrabile in tutte quelle spiritualità che posseggono almeno una di queste due caratteristiche: riconoscimento dell’uomo come non-creatura oppure riconoscimento dell’uomo come realtà totalmente separata da Dio e quindi

insanabile. In queste spiritualità l’adorazione è prossima, in quanto non esisterebbero le condizioni per poter veramente adorare. L’ adorazione presente è, invece, un tratto tipico del cattolicesimo, perché in questo manca tanto la caratterizzazione panteistica, quanto quella protestantica di demonizzazione del mondo. Nel cattolicesimo di certo la tensione dell’attesa non è assente, ma è fondamentale la convinzione secondo cui tutto ciò che attualmente è sperimentabile dall’uomo è già “luogo” di una Presenza vera e salvifica del mistero del Verbo incarnato. Ciò è della fede nella Presenza reale dell’Uomo-Dio nell’Eucaristia. La Chiesa è sì comunione, ma nella, con e per la Presenza reale di Cristo. La centralità del Tabernacolo è la centralità dell’Eucaristia, cioè della presenza reale, fisica, di Cristo ancor oggi nella Chiesa. La centralità del Tabernacolo ha lo scopo di rendere l’edificio liturgico non luogo per attendere e per ricordare, ma luogo per fare esperienza di una Presenza fisica.

Anche Cesare deve dare a Dio

Un lettore: Spesso mi trovo a parlare di politica, nel senso più ampio del termine. E mi trovo anche a sottolineare l’importanza dello Stato nella dottrina cristiana. Ma non poche volte mi sento dire: ‘Il vero Cristianesimo non dovrebbe interessarsi di politica. Lo Stato dovrebbe essere lontano dagli interessi del cristiano.’ Nello stesso tempo mi si ricorda la famosa frase di Gesù, quando disse: ‘Date a cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio’. Non nascondo che dinanzi a queste obiezioni mi trovo in difficoltà. Come posso rispondere? La famosa risposta di Gesù ai farisei: “Date a Cesare ciò che è di cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Matteo 22,21) viene solitamente interpretata come una sorta di velato rifiuto da parte di Cristo –e quindi del Cristianesimo- della politica e dell’azione politica, proprio perché enorme sarebbe la distanza tra il potere spirituale e il potere politico, tra la realtà soprannaturale e quella naturale. Dimenticando che proprio nel Cristianesimo si afferma la distinzione, ma non la separazione, tra queste due realtà, secondo la nota affermazione: “Gratia perficit naturam”, ovvero la Grazia perfeziona la natura, senza però sostituirla né tantomeno annullarla. Tutto nella logica del rapporto organico tra corpo/spirito e ragione/fede. Questa frase va invece interpretata in tutt’altro modo, ovvero come un riconoscimento da parte di Gesù del valore naturale della potestas, cioè della sovranità. La Chiesa Cattolica nel suo Magistero ha sempre affermato che la sovranità è voluta da Dio e ha sempre definito lo Stato come una società non solo necessaria ma anche a suo modo perfetta (che vuol dire in questo caso “autonoma”) e voluta da Dio stesso. In un discorso del 21 giugno del 1955, papa Pio XII così disse: “Lo Stato è di origine naturale, non meno della famiglia; ciò significa che nel suo nucleo è una istituzione voluta e data dal Creatore. Lo stesso vale per i suoi elementi essenziali, quali il potere e l’autorità che promanano dalla natura e da Dio. Dalla natura, infatti, e quindi dal suo Fattore, l’uomo è spinto ad unirsi in società, a collaborare per il mutuo integramento con lo scambio reciproco di beni, a organicamente disporsi in un corpo, secondo le

diversità delle disposizioni e delle azioni dei singoli, a tendere al comune scopo, che consiste nella creazione e nella conservazione del vero bene generale col concorso delle singole attività.” Dunque, secondo il Cattolicesimo, lo Stato ha una sua naturalità; così come altrettanto naturali sono la Nazione e la Patria. A riguardo le chiarisco la diversità di significati che fanno riferimento a questi termini. Lo “Stato” è legato al concetto di sovranità; la “nazione” è la comunità accomunata da un’identica cultura; la “patria” (che etimologicamente vuol dire “terra dei padri”) sta ad indicare il territorio abitato da un popolo che si riconosce come nazione. Torniamo allo Stato. Per il Cattolicesimo lo Stato non solo è una realtà naturale, ma deve anche naturalmente possedere delle necessarie caratteristiche. Deve essere una società completa e perfetta, composta da una moltitudine di famiglie e di gruppi intermedi, orientata alla realizzazione del bene comune. Completa e perfetta: vuol dire che lo Stato è sovrano nei propri compiti e gode di autonomia nei confronti della Chiesa. Composta da una moltitudine di famiglie e di gruppi intermedi: vuol dire che lo Stato non può essere ridotto all’esclusivo rapporto singolo uomo/potere politico, ma che tra questi devono esistere una serie di realtà che hanno altrettanta rilevanza politica e che rendono lo Stato stesso organico, laddove il bene di ogni realtà che lo costituisce si possa riflettere positivamente sull’intero corpo. Consacrata alla realizzazione del bene comune: vuol dire che lo Stato è finalizzato al raggiungimento del bene comune, che non s’identifica semplicisticamente con la somma dei singoli e diversi beni individuali, ma con il fine oggettivo, naturale e soprannaturale, di tutti gli uomini. Dunque, caro lettore, la dottrina cristiana non si configura affatto come una dottrina “anarcoide”. Anzi, riconosce la necessità e la naturalità dello Stato.

Con il Cristianesimo nasce il concetto di Storia

Una lettrice: Da tempo seguo con attenzione la vostra rivista. La ritengo molto utile sul piano della “battaglia delle idee”. Insegno materie letterarie in un istituto superiore per cui spesso devo confrontarmi con alunni e colleghi su punti cruciali della storia del Cristianesimo e soprattutto su ciò che il Cristianesimo ha prodotto nella storia. Io mi impegno a sfatare luoghi comuni e autentiche falsità che si affermano sulla storia della Chiesa e spesso insisto che senza il Cristianesimo non si sarebbe avuta la nascita di un autentico concetto di “storia”. Vorrei conoscere il vostro parere proprio su questo ultimo punto. Gentile (…), solitamente in questa rubrica cerchiamo di trattare argomenti più “leggeri”. Ci sembra però che un tema come questo sia fondamentale e sia un presupposto (anzi: il presupposto!) di ciò che il nostro mensile offre ai lettori. Sì, lei ha pienamente ragione: senza il Cristianesimo non sarebbe mai potuto nascere un autentico concetto di “storia”. La Chiesa non solo non si è resa colpevole di tanti misfatti che le vengono imputati, ma addirittura ha fatto sì che la storia stessa potesse esistere. Quando si parla di presunte “colpe” della Chiesa nella storia, non ci si accorge che tanto si può parlare di storia in quanto c’è stato il Cristianesimo. Senza il Cristianesimo non ci sarebbe stato il concetto di storia e, in un certo qual modo, nemmeno la preoccupazione di valutare gli eventi. Insomma, quando si dice che il Cristianesimo ha operato male nella storia, non ci si accorge di prendere una cantonata già in partenza perché il concetto di “storia” tanto esiste in quanto è stato soprattutto il Cristianesimo a partorirlo. Ecco perché la nostra civiltà deve molto al Cristianesimo, checché ne dicano i nostri eurocrati che vorrebbero concepire la civiltà europea come qualcosa di sganciato dalle radici cristiane. Ma adesso entriamo nel vivo del discorso. Il rapporto uomo-storia può avere due possibili dinamiche: la prima era quella che dominava precedentemente il

Cristianesimo, la seconda quella che nacque con il Cristianesimo. La prima (quella che dominava prima del Cristianesimo) ci presenta l’uomo come dipendente dai fatti, come vittima della storia, costretto ad accettare tutto ciò che succedeva senza speranza di poter mutare il corso degli avvenimenti. I fatti “determinanavano” l’uomo e non l’uomo “determinava” i fatti. La seconda dinamica (quella che è nata con Il Cristianesimo) ci presenta l’uomo non più come vittima ma come protagonista. L’uomo non è più costretto ad accettare ciò che succede, ma può e deve sforzarsi di mutare il corso degli avvenimenti. La prima dinamica è paragonabile ad una sorta di cristallizzazione della storia, il che vuol dire che è una non-storia. Se utilizziamo in questo caso la parola “storia” è per farci capire, ma qui siamo lontani mille miglia da ciò che questa parola significa per noi uomini di oggi. La storia di suo implica un movimento, una successione di fatti nuovi, cosa che qui non è. Non è un caso che in questa dinamica la storia viene rappresentata circolarmente, cioè come qualcosa che procede senza procedere, una storia che ritorna, una storia sempre uguale. L’uomo era all’interno di questa circolarità, preso nel vortice, così come un lenzuolo nel cestello di una lavatrice, completamente dipendente da movimento che lo avvolge. Invece, nella seconda dinamica (quella nata con il Cristianesimo) la storia è rappresentata rettilineamente, cioè come qualcosa che procede davvero, come successione di fatti veramente nuovi. L’uomo ne diventa protagonista, perché è lui l’autore dei fatti. Da lenzuolo nel cestello, l’uomo diventa fornaio che plasma la pasta del pane dandole la forma desiderata. Se si fa una carrellata nelle culture cosiddette “precristiane”, ci si accorge, pur tra tante distinzioni, che vi è come comune denominatore una visione fatalistica della vita. Una visione, cioè, in cui tutto è già deciso, in cui l’uomo non può far nulla per cambiare il corso degli avvenimenti, in cui è costretto a subire il capriccio degli dei; e in cui gli dei stessi sono vittime di fatti decisi dal Destino. Ttutto questo influiva sull’esperienza esistenziale dell’uomo, che si avvertiva sempre più solo, inappagato...ed inutile. Cosa che non sarà più con l’avvento del Cristianesimo, portatore di quella antropologia biblica secondo cui l’uomo liberamente può decidere se scegliere il

bene o il male. In questo caso la storia diventa la sintesi di due elementi: da una parte l’intervento provvidente di Dio, dall’altra la libertà di ogni singolo uomo.

La religione più “sportiva”? il Cristianesimo!

Un lettore: La vostra rivista parla delle radici cristiane dell’Occidente. Sono uno sportivo ed anche un cattolico praticamente. Lo sport di fatto è nato in Occidente. Ebbene, vorrei sapere da voi che rapporto c’è tra il Cristianesimo e lo sport? E fino a che punto il Cristianesimo valorizza l’attività sportiva? Gentile lettore, ho molto piacere a risponderle, perché –le confesso- sono anch’io un amante dello sport e consiglio vivamente –soprattutto i giovani- a praticare attività sportive. Questo anche per migliorare la propria vita spirituale. Non è un caso che il Cristianesimo abbia immediatamente capito l’importanza dell’attività sportiva nell’educazione dei ragazzi. Oggi, quell’intuizione che animò soprattutto gli oratori, si è rivelata davvero profetica. Viviamo in contesto culturale di evidente relativismo. Ciò che oggi si nota non è solo la frequenza della trasgressione, ma soprattutto la perdita del senso della trasgressione. Per dirla cristianamente: si pecca senza più preoccuparsi di peccare; si è perso il senso del peccato. Il relativismo è un cancro; è una malattia gravissima che mina tutto l’uomo: il suo modo di ragionare e il suo comportamento. Da qui il dovere di adottare delle terapie. La prima è quella di ricostruire la consapevolezza del proprio limite. Una consapevolezza però appassionante. L’uomo non solo deve riscoprirsi limitato, ma deve anche appassionarsi a questo limite. Deve capire che se il limite è un dramma non è però una tragedia. Al limite c’è la risposta, c’è la risposta dell’apertura del cuore al mistero, c’è la risposta religiosa. In questo lavoro di ricostruzione, caro lettore, lo sport riveste un ruolo importantissimo, soprattutto per gli adolescenti. Un ruolo direi addirittura “insostituibile”. Lo sport ha avuto successo proprio perché è metafora della vita. La sua universalità sta proprio in questo. Lo sport richiama il senso profondo dell’esistere, con i problemi, le ansie, i desideri di vittoria e di realizzazione. Lo sport è importante in questa opera di ricostruzione soprattutto per due motivi: Primo: Perchè si fonda sul concetto di “ordine”. Secondo: Perchè si fonda sul concetto di “agonismo”.

L’elemento dell’ordine non è un’ optional nello sport, ma è sostanza. Non c’è sport senza regole. Esse non vengono decise di volta in volta, a piacimento, ma devono essere oggettivamente accettate. L’atleta non costruisce le sue regole al momento, bensì deve attenersi a ciò che è stato precedentemente deciso. Altro che relativismo e soggettivismo! Altro che uomo che si crede fondamento di tutto! L’uomo dallo sport impara cos’è la vita. Impara ad accettare un reale che gli si impone e che non può ricostruire a piacimento. Impara ad accettare un giudizio al di sopra di sé. Lo sport si fonda sul concetto di “agonismo”, cioè di “gara”, di “vittoria”. Lo sport non è pura esibizione fine a se stessa. La vita vera, infatti, non è spettacolo, ma sfida, gara. Caro lettore, le devo confessare che la famosa frase di Pierre de Coubertin ( l’importante non è vincere, ma partecipare) mi suona come una sorta di tradimento dello sport. Certo, dipende anche da come la si interpreta. Se per partecipazione si intende il fatto che nessuno si deve sentire escluso e che già partecipare è molto importante, una frase di questo tipo va anche bene. Ma se le si dà un’interpretazione massimalista, quasi di svilimento della tensione agonistica, quasi come se l’agonismo sia secondario, allora diverrebbe un tradimento dell’essenza dello sport. D’altronde la vita è così: o ci si realizza o si fallisce, o si vince o si perde. Chi fallisce la sua vita, difficilmente potrà consolarsi di aver solo partecipato. Da questo punto di vista molto significativo era lo “sport” (utilizzo naturalmente le virgolette per l’uso non storico del termine) nel medioevo. I palii e le giostre non conoscevano il riconoscimento del secondo, del terzo... Veniva premiato solo il primo. Gli altri, dal secondo in poi, risultavano tutti ultimi. Il secondo non poteva pavoneggiarsi nei confronti del terzo, perché arrivare secondo o arrivare ultimo era la stessa cosa. Anche questo era metafora di una mentalità in cui forte era la fede nell’escatologia cristiana. La vita è fatta per conquistare il Paradiso. Le anime dannate preferirebbero non esser mai nate piuttosto che consolarsi per aver almeno partecipato alla vita! Non è un caso, quindi, che il Cristianesimo sia la religione che meglio abbia capito il valore dello sport per l’educazione. Perchè è la religione che più si fonda sul concetto di “agonismo”. Non posso dilungarmi su questioni per le quali occorrerebbe maggiore spazio, ma basta citare questi punti: a) L’importanza della libertà personale, il Cristianesimo rifiuta qualsiasi forma di fatalismo. b) L’importanza che l’uomo meriti la vita divina in sè (la Grazia). c) L’esito ultraterreno che dipende dalle scelte che l’uomo compie. Punti questi che

dimostrano l’essenza “virile” e “agonistica” del Cristianesimo. D’altronde per i “maestri di spirito” cristiani la vita è una “battaglia spirituale”, bisogna lottare e prepararsi continuamente al sacrificio e alla responsabilità personali. Sant’Ignazio di Antiochia era convinto di scendere nell’arena quando al mattino si destava. Insomma, caro lettore, il Cristianesimo non tollera deleghe. Proprio come lo sport.

Dall’arte bella all’ “arte” brutta. Come è potuto succedere?

Un lettore: Cari amici di Radici Cristiane, apprezzo molto la vostra scelta editoriale di insistere sulla bellezza di un certo tipo di arte. Io, infatti, sono convinto che l’arte serva molto per avvicinarci alla verità, e quindi a Dio. Ovviamente quando l’arte esprime davvero la bellezza; non come quella contemporanea che è angosciante e che non si fa capire. Proprio su questo punto gradirei ricevere da voi una risposta: come mai la pittura è così radicalmente cambiata nel corso della storia? Da pittura bella a vedersi e comprensibile, è divenuta una pittura incomprensibile e anche brutta. Penso che ci siano state motivazioni complesse a causare questo cambiamento. E’ così? Caro (…), deve sapere che la realtà è molto più semplice di quanto possiamo immaginare. Alla fine due più due fa quattro anche nelle cosiddette “scienze inesatte”, come quelle umanistiche. Lei si chiede quali complesse motivazioni possano esserci nella cosiddetta arte contemporanea, quella del “ beato-chi-cicapisce-qualcosa” per intenderci. E io le dico che le motivazioni ci sono, ma non sono affatto complesse. Nel senso che sono molto più intuibili di quanto possiamo pensare. Vengo al dunque. Deve sapere che fino ad un certo periodo della storia il metodo della filosofia era quello realista, ovvero quello secondo cui la verità è nell’ adeguamento del soggetto all’oggetto. E non a caso. Oltre ad un motivo di buon senso, perché ovviamente così è, infatti la verità non può fare a meno dell’osservazione, vi era anche un motivo antropologico. Il realismo filosofico è l’esito della convinzione di essere limitati, dipendenti, creature. Il realismo, infatti, conduce alla constatazione di quanto siamo piccoli e di quanto non ci sia dato stravolgere la nostra natura finita. Ma, ad un certo punto, le cose iniziarono a cambiare. Si passò dal realismo al razionalismo. Un “certo” Cartesio (“certo” si fa per dire) operò una vera e propria rivoluzione filosofica. La sua frase rimasta famosa, cogito ergo sum ( penso, quindi esisto), non è solo una frase ad

effetto che molti studenti ripetono a mo’ di cantilena senza capirla (perché non gliela fanno capire), bensì –come dicevo- una vera e propria “rivoluzione” filosofica. Per farla breve: non era più la realtà oggettiva a garantire l’esistenza del pensiero, bensì il contrario, era il pensiero a garantire l’esistenza della realtà. Era il passaggio dall’ oggettivismo al soggettivismo. Ancora non siamo nel relativismo, ma si era presa la cosiddetta “piega” per arrivarci. E’ ovvio che un tale passaggio ha avuto anch’esso delle motivazioni antropologiche. Dal momento che l’essenza della modernità è una sorta di antropocentrismo radicale, occorreva, per sostanziare il delirio di onnipotenza umana, fare man bassa della realtà e promuovere a criterio una sorta di volontà soggettiva onnipotente. Ora, caro (…), tutto questo ha avuto –eccome- dei riflessi nel campo dell’arte. Fino a quando dominava il realismo filosofico, pittoricamente s’impose la descrizione. Quando poi il realismo filosofico, con metafisica annessa, fu fatto fuori, l’elemento descrittivo venne gradatamente abbandonato per far posto al delirio immaginifico, fino alla nascita dell’astrattismo completo. Ciò che conta, insomma, non è più la realtà, ma ciò che il pensiero vede, immagina, crea ed eventualmente distrugge. Caro (…), piaccia o non piaccia, dietro ogni errore –e possiamo aggiungere: dietro ogni bruttezza- c’è sempre una cattiva filosofia… e anche una cattiva antropologia. Ma, caro (…), aggiungo anche un’altra cosa. In tal modo l’arte (sedicente tale!) è divenuta una grande mistificazione. Come infatti si fa dire quando un’opera è bella o meno? Senza criteri oggettivi, l’estetica è passata totalmente in mano ai critici, che ovviamente, secondo i loro interessi, a piacimento fanno il bello e il cattivo tempo… pardon: il bello e il cattivo quadro!

L’omosessualità è contro l’ordine naturale

Un lettore: Lo so che sto per chiedere una cosa di cui si è discusso spesso sulla vostra rivista, ma proprio per questo ritengo che voi siate i più indicati a potermi dare una mano. Frequentemente mi trovo a dover discutere con persone che a proposito dell’omosessualità dicono che non vi sia nulla di male ad assecondare una tale inclinazione. E non vi nascondo che non pochi di questi sono anche cattolici praticanti e frequentatori di attività parrocchiali. Come posso ben impostare il discorso per poter adeguatamente controbattere? Caro (…), procediamo con ordine. Secondo la legge naturale e quella soprannaturale i fini della sessualità umana sono due: procreativo ed unitivo. E’ evidente che il fine procreativo nell’ambito dell’omosessualità non può essere raggiunto. Già questo ci fa capire quanto la pratica omosessuale si collochi fuori dell’ordine naturale. Ma c’è anche un altro punto da tenere in considerazione. Mi riferisco al fatto che l’uomo non è solo il suo spirito (cioè la sua anima) ma anche il suo corpo. Il corpo non è qualcosa di aggiuntivo, per cui se c’è o non c’è va ugualmente bene. Esso è parte integrante della persona umana. Se l’anima è “forma organica” del corpo, vuol dire che questo (il corpo) è costitutivo alla persona umana. L’anima sta al corpo come la forma sta alla materia. Ora – nessuno lo può negare – il corpo è sessuato. Il corpo è maschile e femminile; ed è maschile e femminile per dato di natura, non per scelta. Se è vero che la psiche influenza il corpo e pur vero il contrario, cioè che il corpo influenza la psiche. Tanto è vero che la differenza tra uomo e donna non è solo corporea, ma prima di tutto psicologica. L’uomo è uomo in tutto se stesso. La donna è donna in tutta se stessa. Questa premessa è importante per capire quanto la sessualità umana non sia riducibile ad una “scelta”, bensì è un’espressione di elementi che la precedono e che si offrono come dati di fatto che l’uomo naturalmente deve riconoscere e di cui non può disporre secondo un suo capriccio.

Caro (…), ai suoi amici di parrocchia ricordi il numero 2357 del Catechismo della Chiesa Cattolica dove si dice: Basandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati. Sono infatti contrari alla legge naturale, precludono all’atto sessuale il dono della vita, e non sono frutto di una vera complementarietà affettiva e sessuale. Non possono essere approvati in nessun caso. Dica anche ai suoi amici che qui il termine “natura” fa riferimento alla buona dottrina di Aristotele e non indica, come spesso si crede, ciò che fanno gli animali o ciò che avviene nella natura. La natura è il principio, presente in ogni cosa (quindi anche nella persona umana) che guida la crescita e lo sviluppo della realtà in cui è presente mirando a raggiungere il fine che è proprio di quella determinata realtà. Nel caso della persona umana, essendo essa non solo corpo, ma anche spirito (e quindi ragione), agire secondo la propria natura significa raggiungere il fine che è conforme alla propria natura razionale. Altro discorso vale per le bestie. Ovviamente la morale cattolica opera una distinzione tra orientamento omosessuale e pratica omosessuale. La prima non è suscettibile di giudizio morale, ma ad una condizione: se non è tollerata e assecondata. La seconda invece è sempre da condannare. Caro (…), ricordi anche questo ai suoi amici: a differenza di quanto affermano molte lobbies omosessualiste, va detto che fino al XIX secolo l’omosessualità – intesa come disturbo dell’identità di genere- non esisteva; esistevano, invece, gli atti omosessuali, cioè la sodomia. Nell’Antica Grecia i rapporti tra un maschio adulto e un adolescente avevano uno scopo “pedagogico” e rispondevano ad un rito di iniziazione. Ciò non vuol dire che gli antichi Greci fossero omosessuali (non avevano infatti una inclinazione stabile ed esclusiva verso gli uomini) né pedofili (considerare “naturale” l’omosessualità per questi rapporti significa considerare naturale la pedofilia). A Roma, invece, il modello maschile era sostanzialmente quello militare, e la sessualità era di tipo predatorio, cioè di stupro. Avere dei rapporti sessuali con uno schiavo, o con un prigioniero, significava manifestare la propria superiorità virile e militare. Ovviamente erano quelli tempi –culturalmente- di ignoranza del vero e -al di là della dimensione naturale- di sudditanza dal demonio. Ma non mancarono insegnamenti luminosi. Fra cui quelli di Platone, che pur passa per uno che abbia avallato simili pratiche. Nelle Leggi Platone critica quanti hanno: “… corrotto la norma antica e secondo natura relativa ai piaceri sessuali non solo degli esseri umani, ma anche degli animali.” Poi spiega: “Bisogna considerare che, a quanto pare, il piacere fu

assegnato secondo natura tanto alle femmine quanto ai maschi affinché si accoppiassero al fine di procreare, mentre la relazione erotica dei maschi con i maschi e delle femmine con le femmine è contro natura e tale atto temerario nasce dall’incapacità di dominare il piacere.”

E’ ancora valido l’ “extra Ecclesiam nulla salus”?

Una lettrice: Sono una donna molto anziana (ho più di ottant’anni). Quando feci il catechismo ricordo che si diceva che al di fuori della Chiesa non vi è possibilità di salvezza. Ora sembra che nessuno più affermi una tal cosa. E’ cambiata la Dottrina? Ma se è davvero cambiata, chi ci dice che ciò che si afferma oggi sia più vero rispetto a ciò che si affermava ai miei tempi? Aiutatemi a capire. Gentile (…), stia tranquilla: la dottrina cattolica non è affatto cambiata. Piuttosto si è da tempo diffusa, anche all’interno degli ambienti cattolici, una mentalità di tipo relativista (tutte le religioni sono buone). L’ extra Ecclesiam nulla salus è un’incontestabile verità di fede, è lo è perché è stata continuamente ripetuta dai Padri e dal Magistero. Di esempi se ne potrebbero fare tanti. Le cito Pio XII che dice: “Ora tra le cose che la Chiesa ha sempre predicate e che non cesserà mai dall’insegnare, vi è pure questa infallibile dichiarazione che dice che non vi è salvezza fuori della Chiesa.” (Lettera al Sant’Officio, dell’8.11.1949). Queste parole sono importanti perché un papa dice chiaramente che la verità dell’ extra Ecclesiam nulla salus ( fuori della Chiesa non c’è salvezza) non solo sarà sempre insegnata, ma è anche una dichiarazione infallibile. Il Beato Giovanni XXIII, il Papa del Concilio, dice: “(…)gli uomini possono sicuramente raggiungere la salvezza, solamente quando sono a lui (Romano Pontefice) congiunti, poiché il Romano Pontefice è il Vicario di Cristo e rappresenta in terra la sua persona.” (Omelia nel giorno della sua incoronazione, 4.11.1958). E lo stesso Concilio Vaticano II afferma: “Il santo Concilio (…), basandosi sulla sacra Scrittura e sulla Tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza.”(Lumen gentium, 14). Poi, cara lettrice – diciamolo francamente - è un problema di logica. Se la Chiesa non fosse necessaria per la salvezza, quale sarebbe il motivo per cui Gesù ha comandato di andare fino agli estremi confini della Terra? (Matteo 16, 15-16) . Rimane però una domanda: ma chi si trova senza colpa personale fuori della

Chiesa, può, per questo, essere condannato? La Chiesa Cattolica da sempre (non è una novità degli ultimi tempi) ha affermato che chi si trova fuori della Chiesa senza colpa, non può, per questo, essere condannato. S’ipotizzano due possibili “ignoranze”: la cosiddetta dotta ignoranza e la cosiddetta ignoranza invincibile. Per dotta ignoranza (significativa contraddizione: “dotta”/“ignoranza”) s’intende quella situazione in cui non si è mai ricevuto l’annuncio cristiano, per cui si è in uno stato d’ignoranza incolpevole, ma nello stesso tempo si desidera intimamente (ecco perché si parla d’ignoranza “dotta”) aderire alla Verità che purtroppo non si conosce. Per ignoranza invincibile s’intende invece quella situazione in cui si è ricevuto l’annuncio cristiano, ma lo stato d’ignoranza è tale (invincibile appunto) che non si può superare. Il beato papa Pio IX, un papa non certo del periodo post-conciliare, afferma nell’enciclica Singolari quidam del 17.3.1856: “(…) nella Chiesa Cattolica, per il fatto che essa conserva il vero culto, vi è il santuario inviolabile della fede stessa, e il tempio di Dio, fuori del quale, salvo la scusa di una invincibile ignoranza, non si può sperare né la vita né la salvezza.” Si presenta adesso una questione: se ci si può salvare perché senza colpa si è fuori della Chiesa Cattolica, allora viene meno il “fuori della Chiesa non c’è salvezza”… E invece non c’è contraddizione. Condizione necessaria per far parte della Chiesa è ricevere il battesimo. Ma non esiste solo il battesimo-diacqua (quello che viene amministrato ordinariamente), esistono anche il battesimo-di-sangue e il battesimo-di-desiderio. Il battesimo-di-sangue riguarda il martirio subìto senza che ancora si è ricevuto il Battesimo. Il battesimo-didesiderio invece è quando un adulto in attesa di ricevere il battesimo dovesse morire improvvisamente. Prendiamo in considerazione quest’ultimo tipo di battesimo. Colui o colei che si trova nella situazione della dotta ignoranza o dell’ ignoranza invincibile ha un desiderio di aderire al vero Dio; è un desiderio implicito e non esplicito, ma è ugualmente un desiderio. Dunque, non è formalmente nella Chiesa, ma lo è sostanzialmente. E lo è sostanzialmente grazie ad una sorta di battesimo-di-desiderio. In questo modo viene tanto salvaguardato il principio giusto che possano salvarsi coloro che in buona fede non sono cattolici, quanto il principio dell’extra Ecclesiam nulla salus. A proposito del desiderio implicito, papa san Pio X, nel suo celebre Catechismo,

dice: “Chi, trovandosi senza sua colpa, ossia in buona fede, fuori della Chiesa, avesse ricevuto il Battesimo, o ne avesse il desiderio almeno implicito; cercasse inoltre sinceramente la verità e compisse la volontà di Dio come meglio può; benché separato dal corpo della Chiesa, sarebbe unito all’anima di lei e quindi in via di salute.” Rimane ancora un’altra questione: qual è il criterio che il Signore utilizza per capire se un’anima desidera davvero aderire a Lui? Vi è da dire che qui c’è molta confusione. Spesso si dice: se qualcuno senza colpa non è cattolico, è bene che pratichi “bene” la propria religione. Ciò è invece sbagliato. Se il desiderio implicito di aderire al vero Dio si deve esprimere con lo sforzo di praticare bene la propria (falsa) religione, allora ciò significherebbe che ogni religione è di per sé “via di salvezza”; e se così fosse, verrebbe meno l’esclusivismo salvifico della Redenzione di Cristo. Piuttosto il criterio è un altro: lo sforzo riguarda non la pratica della propria religione, ma l’adesione alla legge naturale. Certamente possono salvarsi anche i musulmani, gli induisti, i buddisti … incolpevoli per il loro non essere cristiani, ma non grazie all’essere musulmani, induisti e buddisti, bensì malgrado siano musulmani, induisti, buddisti … o quant’altro.

L’inferno è eterno proprio perché Dio è amore

Un lettore: Spesso medito sull’inferno. Non discuto sulla sua esistenza. So che è una verità di fede. Gesù ne parla diverse volte nel Vangelo. Mi riesce difficile, però, accettare che l’inferno sia eterno. Ma è mai possibile che Dio, che è infinito amore, possa permettere che sue creature soffrano per l’eternità? Quando mi pongo questa domanda, non mi so dare una risposta. Potete aiutarmi? Caro (…), la sua difficoltà è di molti. Può venire (come si suol dire) “spontanea”. Ma a questa difficoltà c’è una risposta. Una risposta che capovolge il ragionamento e dimostra che è proprio l’eternità dell’inferno ad attestare ancora di più l’amore di Dio. Vediamo perché. Se più vicino a noi uno scrittore come Giovanni Papini, nel suo libro Il Diavolo, pone in forma di domanda se un giorno non l’inferno, ma la pena dei dannati debba finire; nei primi tempi del Cristianesimo già Origene parlava di apocatastasi, che è per l’appunto la negazione dell’eternità dell’inferno. Caro (…), tralascio tutte le citazioni tanto della Sacra Scrittura quanto del Magistero che affermano l’eternità dell’inferno. Dove però mi voglio concentrare è nel farle capire quanto sia falsa l’incompatibilità tra amore di Dio ed eternità dell’inferno. La risposta più corretta ed argomentata è senz’altro quella che dice che in Dio ci sono tutte le virtù al grado massimo, dunque se è virtù la misericordia è anche virtù la giustizia, da qui si capisce come Dio sia disposto a perdonare fino all’ultimo istante della vita di ognuno e poi applichi la sua giustizia. Questa, dicevo, è la risposta più corretta. Ma c’è ne è anche un’altra. Una risposta che fa riferimento solo all’amore di Dio. Come anticipavo: l’eternità dell’inferno è un altro segno dell’amore di Dio. Se l’inferno non fosse eterno, allora sì che ci sarebbe una contraddizione con il suo amore. Sembra paradossale, ma non lo è. Noi sappiamo che Dio ci ha creati per amore e non per

necessità, proprio perché Dio, che è assoluto, non poteva e non può aver bisogno di nessuno. Dio ha dimostrato questo amore dandoci il massimo che poteva darci, massimo che è indicato dalle parole del Genesi: “facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. Questa “immagine e somiglianza” va intesa a livello spirituale, il che vuol dire che come Dio ha una volontà, un’intelligenza ed una libertà, anche l’uomo possiede queste tre facoltà. Si tratta, nell’uomo, di un’intelligenza, di una volontà e di una libertà infinitamente inferiori a quelle di Dio, ma vere. Già! Vere! Immaginiamo che Dio ci avesse donato non una libertà vera, ma una libertà falsa, illusoria. Ciò avrebbe significato che Dio non ci amerebbe. Ora chiediamoci: come si fa a dimostrare che la libertà è vera? Da ciò che produce nel tempo. Mi spiego meglio. Se compro un vestito che non è di marca, dopo qualche lavata non potrò più indossarlo, ma se invece compro un vestito di qualità, allora sì che mi durerà nel tempo. Lo stesso vale per la libertà. Se è falsa, le conseguenze del suo esercizio sono del tutto ininfluenti, ma se è vera, allora il suo esercizio deve produrre delle conseguenze altrettanto vere. Questo vuol dire che la libertà che noi abbiamo ricevuto da Dio (che è vera!) produce degli effetti reali, e gli effetti reali nell’eternità devono essere altrettanto eterni. Faccio un altro esempio. Immaginiamo che Dio tra un miliardo di anni chiuda l’inferno e faccia andare tutti in Paradiso (diavoli e dannati), un po’ quello che diceva Origine, ebbene cosa sono un miliardo di anni rispetto all’eternità? Nulla. Nemmeno un batter d’occhio. Ciò significherebbe che la libertà dell’uomo non avrebbe la possibilità di produrre nulla, dunque che questa libertà non sarebbe vera. Caro (…), ecco perché l’inferno è eterno, ed ecco perché non deve sorprendere che questa eternità sia l’esito non solo della giustizia, ma anche, indirettamente, dell’amore di Dio. L’inferno è eterno, perché Dio non ci ha donato una “patacca”, cioè un falso, ma una libertà vera. La famosa immagine di sant’Alfonso Maria de’ Liguori attesta la vera libertà che fonda la drammaticità, la serietà ma anche la grandezza e la bellezza della vita umana. Dice sant’Alfonso: Se un angelo a quest’ora portasse la notizia ad un dannato che Dio lo vuol cavare dall’Inferno, ma quando? Quando saranno passati tanti milioni di secoli, quante sono le gocce d’acqua, le fronde degli alberi, le arene nel mare e della terra, voi vi spaventereste ma è pur vero che quegli farebbe festa a questa notizia, che non fareste voi se aveste la notizia di esser fatto re di un gran regno. Sì, perché direbbe il dannato: è vero che passeranno tanti secoli, ma verrà un giorno in cui finirà tutto. Invece passeranno tutti questi secoli, quante sono le

arene, le gocce, le fronde e l’inferno sarà da capo.”

Un peccato grave ormai dimenticato: la sessualità prematrimoniale

Una lettrice: Sono una donna sposata e con figli ormai grandi. Da anni faccio anche la catechista ai ragazzi della parrocchia. Penso di saper spiegare bene la Dottrina, ma taccio sulla questione della morale sessuale. Ben sapendo com’è oggi la situazione della vita dei giovani, ho difficoltà ad affrontare la questione della sessualità prematrimoniale. Mi potete offrire qualche spunto? Gent.ma (….), prima di tutto bisogna spiegare cosa è la sessualità secondo il Cristianesimo. Si tratta di un valore, perché creata e quindi voluta da Dio. Per il Cristianesimo non è valore ciò che è conseguito dal peccato, ma ciò che Dio ha iscritto nella natura, in questo caso nella natura dell’uomo. L’essere umano non è stato voluto da Dio come un angelo, cioè con una natura esclusivamente spirituale, bensì come unione di spirito e di corpo. Ora, la sessualità altro non è che la dimensione corporea della reciproca donazione di un singolo uomo verso una singola donna e viceversa, che si sono uniti nel vincolo indissolubile del matrimonio-sacramento. Da ciò si capisce l’illegittimità della sessualità prematrimoniale (e ovviamente anche di quella extra-coniugale). Infatti, tale sessualità non può essere vissuta nella dinamica della donazione. La donazione, infatti, ha bisogno della definitività. Non è definitivo ciò che è ancora temporaneo e provvisorio. Nessuno può negare che il fidanzamento non sia definitivo…se è fidanzamento è proprio perché non c’è alcuna definitività. Né ha senso fare un’obiezione di questo tipo: Ma chi ci dice che il matrimonio sarà definitivo? Obiezione che non regge: ci sarebbe contraddizione in ciò che afferma la Chiesa, se essa ammettesse la solubilità del matrimonio, cosa che invece non è. Cara lettrice, una volta ascoltai una bellissima definizione di castità prematrimoniale. Per giunta l’ascoltai non da un sacerdote o da un teologo, ma da un laico padre di figli. Una definizione che non solo ritengo precisissima, ma

che fa ben capire quanto la castità, in un determinato senso, non si configuri come una forma di rinuncia fine a se stessa, bensì per costruire ciò che conta davvero. La definizione dice così: La castità prematrimoniale è la capacità di rimaner fedeli al proprio marito e alla propria moglie ancor prima di conoscerli. Ricordando questa definizione, può dire ai suoi ragazzi: Chi si sente di negare quanto sia importante rimaner fedele al proprio marito e alla propria moglie, al proprio fidanzato e alla propria fidanzata? E allora perché negare quanto sia importante la fedeltà anche nella prospettiva del futuro? Perché ritenere che la fedeltà sia un valore solo nella contemporaneità –conoscendo il marito o la moglie- e non anche nella prospettiva del futuro, cioè quando ancora non si sa chi sarà il compagno di vita che la Provvidenza vorrà. In merito alla questione dei rapporti prematrimoniali un’altra obiezione che solitamente si riceve è questa: Ma perché privarsi del piacere della sessualità? Non è Dio stesso che l’ha inserita nella natura umana? La risposta non è difficile. Certamente Dio ha inscritto il piacere nella sessualità così come ha iscritto il piacere in ogni bisogno importante della natura umana. Ha iscritto il piacere anche nel mangiare. Immaginate cosa accadrebbe se non provassimo piacere a mangiare. Faremmo questo ragionamento: Adesso devo lavorare con le mandibole…chi me lo fa fare. Mangerò stasera…e poi anche la sera posticiperemmo al giorno dopo e così via… e intanto moriremmo d’inedia. E così anche per la sessualità: se non ci fosse la dimensione del piacere, l’umanità si sarebbe già estinta. Ma –e qui sta il punto- un conto è apprezzare la dimensione del piacere, altro è fare del piacere la componente e il criterio fondamentali. Per ritornare all’esempio del mangiare: se devo mangiare per alimentarmi, va bene apprezzare il piacere del mangiare; ma se in quel momento non è bene che mangi per non danneggiare l’organismo, non posso e non devo mangiare solo per soddisfare un piacere che poi si trasformerà in un danno per la mia salute. Ma oltre a tale motivo, cara lettrice, i rapporti prematrimoniali sono illeciti anche perché sono sempre irresponsabili. Il ragionamento è molto facile: il metodo contraccettivo più sicuro è la pillola antifecondativa, la quale ha una percentuale di “successo” (rattrista utilizzare questa terminologia, ma lo facciamo per farci capire) non superiore al 90%. Il che significa che i metodi anticoncezionali occasionali (quelli che solitamente si usano tra i giovani) hanno una percentuale di “successo” ben al di sotto del 90%. Ciò vuol dire che la sessualità fuori del matrimonio è sempre comunque irresponsabile: si “gioca” con una terza vita che non solo ha il diritto di nascere qualora fosse concepita, ma che ha anche il

diritto di trovare un nucleo familiare stabile, un papà e una mamma. Dunque, la sessualità pre ed extra matrimoniale è, oltre ad un peccato mortale (e già questo dovrebbe bastare per capire), un atto sempre e comunque irresponsabile. Purtroppo, cara lettrice, di queste cose ormai si parla poco. Si prende in considerazione il dato sociologico e quasi ci si arrende. Si pensa: ormai è impossibile venirne fuori. Ora, un simile atteggiamento non solo costituisce un grave peccato di omissione, perché la verità va sempre detta, ma anche una sorta di “complicità” che permette che tante anime si perdano per l’eternità. Sì, ha capito bene: si perdano per l’eternità! La Madonna alla piccola Giacinta di Fatima lo disse chiaramente: I peccati che fanno andare più all’inferno sono i peccati della carne. Certamente i peccati della carne, tra i peccati mortali, non sono quelli più gravi. Ma sono quelli che non solo possono essere commessi più facilmente, ma anche quelli che più pervertono il pensiero. Bestializzando il comportamento, bestializzano anche il ragionamento. Una volta fatta fuori la Legge di Dio dal comportamento, si farà fuori Dio stesso dalle proprie convinzioni e dal proprio giudizio di vita. Penso, cara lettrice, che questo basti e avanzi per capire e per far capire come nel nostro apostolato non dobbiamo trascurare questa importante questione.

E’ importante definire la Chiesa Cattolica anche “Romana”? Eccome!

Una lettrice: Vorrei chiedervi perché la Chiesa Cattolica è definita anche “romana” e perché questa caratteristica, oggi, si ricorda sempre meno? Cara (…), il Catechismo di san Pio X dice testualmente: “ La vera Chiesa si chiama anche ‘Romana’, perché i quattro caratteri dell’unità, santità, cattolicità e apostolicità si riscontrano solo nella Chiesa che riconosce per capo il Vescovo di Roma, successore di san Pietro.” Certamente è questo il motivo primo, ma esistono anche secondi (non secondari) motivi della "romanità" della Chiesa. Essi possono essere ridotti a due: l'essenza universalistica del Cattolicesimo e la vocazione storica del Cattolicesimo. Per quanto riguarda il primo motivo, va detto che nei Vangeli non si fa nessun cenno ad un eventuale comando da parte di Gesù affinché il centro del Cristianesimo dovesse essere Roma. Ma sappiamo che non tutto ciò che Gesù ha detto e ha fatto è scritto nei Vangeli. Dunque, non si può escludere (attenzione: si tratta di un'ipotesi e nulla più) che Gesù stesso abbia dato agli Apostoli (in particolar modo a Pietro, il capo) il mandato di fare di Roma il "centro" della Sua Chiesa. Per quale motivo? Se il Cristianesimo fosse "rimasto" a Gerusalemme, ci sarebbe stato il rischio di confonderlo con il Giudaismo. La Chiesa Cattolica, infatti, si presenta come il "Nuovo Israele", che "sostituisce" il “Vecchio Israele”. A riguardo basterebbe leggere la parabola dei vignaioli omicidi (Matteo 21, 33-45). Dunque, caro (…), Roma ha rappresentato in quel momento storico il "luogo" universale e sovranazionale per eccellenza. La Chiesa è una ed è al di là delle differenze nazionali. Non rifiuta (tutt'altro) le affezioni per la propria patria, ma va oltre. San Paolo dice chiaramente: "Non c'è più Giudeo né Greco (...) "(Galati 3,27).

Questo, caro (…), è uno dei motivi per cui la lingua ufficiale della Chiesa è e resterà il latino, proprio perché fu la lingua che l'evangelizzazione incontrò in una prospettiva di universalizzazione e quindi di allontanamento dal particolarismo ebraico. Veniamo adesso al secondo importante motivo: la vocazione storica del Cattolicesimo. Va detto che il Cristianesimo ha nei confronti della storia un rapporto privilegiato che non ha nessun'altra religione. Si tratta di un prendere in considerazione la storia non nel senso di lasciarsi giudicare da essa, bensì di trovare nella storia il "luogo" della Rivelazione della Verità. Più semplicemente possiamo dire che per il Cristianesimo la Verità non si identifica con la storia, ma si manifesta liberamente (non necessariamente) nella storia dell'uomo e si palesa come "fatto". Prendiamo in considerazione il mistero dell’Incarnazione, ovvero il mistero di Dio che si fa veramente uomo ed entra, altrettanto veramente, nella storia dell'uomo. Ebbene, caro (…), ciò spiega quanto abbiano senso il luogo, il contesto e i singoli accadimenti che hanno determinato la Redenzione. Come non è un caso che l'Incarnazione sia avvenuta in Palestina e all'interno del contesto ebraico; come non è un caso che Dio abbia voluto eleggere un popolo (gli Ebrei) affinché questo popolo potesse portare la salvezza a tutti i popoli della terra (cosa che è realmente avvenuta in quanto gli Apostoli sono il "resto d'Israele"); così non è affatto un caso che il Primato sia del Vescovo di Roma. Caro (…), molti teologi sono disposti a glissare sulla "romanità" della Chiesa, ipotizzando possibili e arditi ripensamenti del primato petrino. Non accorgendosi però che così facendo non solo negano la dimensione storica del Cattolicesimo stesso, ma anche la sua costitutiva e indiscutibile filiazione dall'innegabile elezione ebraica. Cosa che -ovviamente- questi stessi teologi non sarebbero mai disposti a negare. Lo ripetiamo: se è possibile trascurare la "romanità" della Chiesa, perché non trascurare anche la sua derivazione dal grande patrimonio giudaico? Un'obiezione potrebbe però essere fatta: è mai possibile che per Dio, Signore dell'universo intero, possa essere così importante che la Sua Chiesa abbia come costitutivo anche un elemento che fa riferimento ad una dimensione culturale e circoscritta geograficamente, per l'appunto la "romanità"? La risposta è più semplice di quanto si possa immaginare. Dio non solo ama nella singolarità, ma riesce a fare del particolare il Suo "universo". Vuole, insomma, che la Storia

della Salvezza si realizzi anche nel particolare nascosto. Chi duemila anni fa poteva immaginare che la salvezza di tutto l'universo si stesse realizzando non in una grande città, non grazie a chissà quale importante personaggio storico, bensì in un'umile casetta di Nazareth? Caro (…), a Loreto, andando a venerare quella casetta, dobbiamo pensare: qui, in questa modestissima casa, tra queste semplici quattro pareti, si è realizzata la possibilità di salvezza per ogni uomo! Quel fatto che è accaduto lì, quel " fiat" di quell'umile Fanciulla, così come l'evidenza che è avvenuto lì e non altrove, non è più cancellabile, rimarrà indelebilmente nella storia dell'universo intero. Allo stesso modo rimarrà indelebilmente nella storia dell'universo intero la centralità di Roma nella Chiesa di Cristo.

San Francesco d’Assisi… tutt’altro che pacifista!

Un lettore: Carissimi, in questi tempi si parla molto di san Francesco di Assisi, forse perché l’attuale Papa ha scelto il nome del Santo di Assisi. E spesso si ricorda l’incontro che il Santo fece con il sultano musulmano. Proprio su questo punto vorrei sapere da voi notizie precise. Ma come andarono davvero le cose? E perché san Francesco decise di fare quell’incontro? Caro (…), faccio prima una premessa. A differenza di quanto si pensa, san Francesco non ha mai proposto un Cristianesimo pacifista. Egli era indubbiamente per la pace, ma, da santo, non poteva essere per il pacifismo. Essere pacifici vuol dire ritenere che la pace (in primo luogo con Dio) sia un valore importante; essere pacifisti vuol dire, invece, ritenere che la pace sia il massimo dei valori; e questo è sbagliato perché la pace (come assenza di guerra) deve essere subordinata al valore della giustizia. Dopo la conversione, tutta la vita del Santo di Assisi fu segnata dall’ansia di salvare i peccatori e per quanto riguarda i non cristiani non gli interessava il “dialogo accademico” ma la conversione. Veniamo all’incontro con il sultano Melek-el-Kamel. A riguardo ci sono due importanti testimonianze: quella di Tommaso da Celano (il più famoso biografo di san Francesco) e quella di Frate Illuminato, testimone oculare dell’incontro tra san Francesco e il sultano. Iniziamo con Tommaso da Celano. Nella Vita Prima così scrive: “Nel tredicesimo anno dalla sua conversione, partì per la Siria, e mentre infuriavano aspre battaglie tra cristiani e pagani, preso con sé un compagno, non esitò a presentarsi al cospetto del Sultano (Melek-el-Kamel). Chi potrebbe descrivere la sicurezza e il coraggio con cui gli stava davanti e gli parlava, e la decisione e l’eloquenza con cui rispondeva a quelli che ingiuriavano la legge cristiana? Prima di giungere al Sultano, i suoi sicari l’afferrarono, l’insultarono, lo sferzarono, ed egli non temette nulla: né minacce, né torture, né morte; e sebbene

investito dall’odio brutale di molti, eccolo accolto dal Sultano con grande onore!” L’altra testimonianza è quella di Frate Illuminato. Testimonianza molto importante, perché, come ho già detto, questi era presente all’incontro tra il Santo e il Sultano. Egli scrive: “Mentre il beato Francesco era alla corte, il sultano volle mettere alla prova la fede e la devozione che egli mostrava d’avere verso il Signore nostro crocifisso. Un giorno fece stendere nella sala delle udienze uno splendido tappeto, decorato per intero con un motivo geometrico a forma di croce, e poi disse ai presenti: ‘Si chiami ora quell’uomo che sembra essere un cristiano autentico; se per venire fino a me calpesterà con i suoi piedi questi segni di croce intessuti nel tappeto, l’accuseremo di fare ingiustizia al suo Signore; se invece si rifiuta di venire gli domanderò perché commetta questa scortesia di non venire fino a me’. Chiamato, il beato Francesco, che era pieno di Dio e da questa pienezza era bene istruito su quanto doveva fare e su quanto doveva dire, andò dritto dal Sultano. Quegli, ritenendo d’aver motivo sufficiente per rimproverare l’uomo di Dio perché aveva fatto ingiuria al suo Signore Gesù Cristo, gli disse: ‘Voi cristiani adorate la croce, come segno speciale del vostro Dio; perché dunque non hai avuto timore a calpestare questi segni della croce disegnati sul tappeto?’. Rispose il beato Francesco: ‘Dovete sapere che assieme al Signore nostro furono crocifissi anche due ladroni. Noi possediamo la vera croce del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo, e questa noi l’adoriamo e la circondiamo della più profonda devozione. Ora, mentre questa santa e vera croce del Signore fu consegnata a noi, a voi invece sono state lasciate le croci dei due ladroni. Ecco perché non ho avuto paura di camminare sui segni della croce dei ladroni. Tra voi non c’è nulla della santa croce.’ Il Sultano sottopose anche un’altra questione: ‘Il vostro Signore insegna nei Vangeli che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vuol togliere la tonaca. Quanto più voi cristiani non dovreste invadere le nostre terre.’ Rispose il beato Francesco: ‘Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Altrove, infatti, è detto: se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te. E con questo ha voluto insegnarci che se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell’occhio, dovremmo essere disposti a separarlo, allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tenta di allontanarci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo i cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla religione di lui quanti più uomini potete. Se invece voleste conoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore del mondo, vi

amerebbero come se stessi.’ Il Sultano disse: ‘Raduniamo qui i nostri savi e discutiamo della nostra e della vostra fede.’ Replicò il beato Francesco: ‘La nostra fede è superiore alla ragione e la ragione riesce persuasiva solo per chi crede. Inoltre non potrei prendere argomenti dalla Scrittura, perché loro alla Scrittura non credono. Si faccia piuttosto un fuoco con legna di bosco: io entrerò nel fuoco insieme con i vostri savi; quelli che saranno bruciati, segno che la loro fede è falsa.’ Ma subito i savi del Sultano si ritirarono, tanto che il sultano si mise a sorridere dicendo: ‘Non credo che troverei qualcuno disposto a entrare con voi nel fuoco’. Lette queste testimonianze, viene da chiederci il perché san Francesco decise di andare disarmato dal sultano. La risposta è molto semplice ma importante per capire: perché davvero san Francesco voleva convertire il sultano e sapeva benissimo che non era né sarà mai possibile alcuna conversione imposta con le armi. Ciò dimostra come anche il Poverello di Assisi era perfettamente consapevole del fatto che le crociate (così come è attestato dalla storiografia più recente) non scaturissero dal tentativo di imporre la fede con la forza, bensì dall’intenzione di ripristinare il diritto al pellegrinaggio nella Terra Santa. Insomma, caro (…), c’è –eccome- materiale per confutare certi luoghi comuni, ahinoi, dominanti.

L’universo ha una logica

Un lettore: Spett.le Redazione di Radici Cristiane, sono un giovane e spesso mi trovo a discutere con alcuni amici che purtroppo non condividono con me la Fede. Ci troviamo a parlare di Dio e loro ne negano l’esistenza. Alla mia obiezione secondo cui l’ordine che esiste in natura non può essere frutto del caso, loro obiettano che la realtà è tutt’altro che ordinata. Anzi, spesso citano teorici del caos che appunto cercherebbero di mettere in evidenza quanto tutto sia all’insegna del disordine. Voi che potete dirmi a riguardo? Che consigli mi potete dare? Caro (…), il primo consiglio che le do e di dire ai suoi amici a chiare lettere che lo sviluppo della scienza conferma che l'universo ha una logica. E se ha una logica ci sono due conclusioni da trarre. La prima: la logica presuppone una mente che l'ha pensata e l'ha posta in essere. La seconda: la logica impone il riconoscimento di un ordine costante. Dunque impone il riconoscimento di una legge, che è il presupposto della verità secondo cui l'autentica libertà non sta nel negare la legge, bensì nel riconoscere ciò che è stabilito prima dell'esercizio della libertà stessa. La legge e la logica precedono tutto. Ma giustamente lei dice che i suoi amici negano l’esistenza di questa logica, e allora il mio consiglio è di informare i suoi amici di questa notizia. Tempo fa i giornali batterono la notizia che alcuni astrofisici hanno scoperto che l'universo è come un enorme ologramma. Wikipedia alla voce "ologramma" dice così: Un ologramma viene creato con la tecnica dell'olografia mediante impressione di una lastra o pellicola olografica utilizzando una sorgente luminosa coerente (laser). Torniamo alla notizia. La adnkronos.com scrisse: Il nostro Universo sarebbe un grande e complesso ologramma. A mostrare una prima evidenza di quanto già

ipotizzato nel 1990 è uno studio internazionale pubblicato su Physical Review che ha coinvolto fisici e astrofisici teorici di Regno Unito, Italia e Canada. I ricercatori hanno pubblicato prove di osservazione che spiegherebbero quindi una visione olografica 2D dell'Universo. Lo studio può aprire nuovi scenari sulla teoria del Big Bang e sulla gravità quantistica, uno dei problemi più profondi di fisica teorica." Riprendiamo la definizione: Un ologramma viene creato con la tecnica dell'olografia mediante impressione di una lastra o pellicola olografica... Ora, ci sono due importanti riflessioni da fare. La Prima: Non può esistere un ologramma senza che vi sia un'impressione, dunque occorre che vi sia una causa che abbia determinato questa impressione. La Seconda: L'ologramma viene fuori da un modello che esiste indipendentemente dalla sua esecuzione, cioè una lastra codificata, progettata e pensata. E' ciò che afferma la filosofia naturale e cristiana: il creato è modellato secondo la Legge Etern a che è espressione intrinseca e ontologica della natura di Dio, il quale è Logos. Legge Eterna che nella comprensione dell'uomo diviene Legge Naturale. Dicevamo: un'affermazione, questa, che è della filosofia naturale e cristiana, ma che fa propria anche tutte quelle corrette affermazioni che sono già presenti nella filosofia antica. L'universo è stato creato attraverso un modello, e questo può essere "dedotto". Come avviene per gli ologrammi che sono in 2D, ma che si possono tridimensionalizzare. Insomma, tanto tempo per dare ragione a ciò che già avevano detto Platone e san Tommaso. E questa non è logica?! Caro (…), mi saluti affettuosamente i suoi amici e non manchi di dirgli che non c’è nessuna logica… a negare la logica dell’universo!

La “Teologia del Dubbio”

Un lettore: Sono un uomo molto anziano, convintamente cattolico e praticante. Ricordo che quando ero ragazzino, il mio parroco, nelle sue frequenti catechesi, insisteva molto sulla conoscenza razionale di Dio. Mi è rimasta impressa una sua espressione: “L’uomo intelligente non può non credere in Dio.” Oggi, invece, nessuno parla più di queste cose. Ma non solo, mi sembra a volte che i sacerdoti insistano su una presunta “assurdità” della fede, che, proprio perché “assurda”, sarebbe meritevole. Voi che ne pensate? Ne pensiamo male, caro (…). Tempo fa un noto vescovo italiano in una sua lectio magistralis ebbe a dire: “Io ogni mattina mi sveglio ateo e poi divento credente.” Insomma, il noto monsignore si riferiva al fatto che il credere nell’esistenza di Dio sia l’esito di un atto di volontà, uno sforzo che prescinda parzialmente o totalmente dalla ragione. Un atto, cioè, se non proprio contro la ragione, almeno oltre la ragione. Ma “l’oltre-ragione” se certamente può e deve valere per le verità di fede (cioè quelle verità che non potremmo mai conoscere senza la ragione), non può valere per le verità di ragione che si chiamano così proprio perché sono di ragione. L’esistenza di Dio è una verità di ragione; infatti, già la sola ragione ce ne può far essere certi. Chiediamoci, caro (…): la frase del vescovo è un isolato incidente di percorso o è un segno di una tendenza teologica molto più diffusa? Ovviamente la risposta è la seconda. Si tratta di una tendenza teologica neomodernistica: tutto deve essere “fideizzato” e “sentimentalizzato”. Nell’atto di fede non deve essere coinvolto l’intelletto perché questo (l’atto di fede) sarebbe tutto sommato un’espressione del sub-conscio. E così vanno a carte quarantotto non solo la ragionevolezza della fede (o intelligenza della fede), ma anche l’insegnamento tradizionale della Chiesa. Ma vediamo, caro (…), cosa dice questo insegnamento tradizionale. Il Concilio Vaticano Primo afferma in maniera chiara che l’esistenza di Dio è una verità di ragione. Nella costituzione dogmatica Dei Filius è esplicitamente scritto: “(…)

la Santa Madre Chiesa tiene e insegna che Dio, principio di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza col lume naturale della ragione umana attraverso le cose create.” Ribadisce il Concilio Vaticano II nella costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum: “Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza col lume naturale dell’umana ragione dalle cose create.” Importante è anche ciò che dice il Catechismo della Chiesa Cattolica al n.31: “Creato ad immagine di Dio, chiamato a conoscere e ad amare Dio, l’uomo che cerca Dio scopre alcune ‘vie’ per arrivare alla conoscenza di Dio. Vengono anche chiamate ‘prove dell’esistenza di dio’, non nel senso delle prove ricercate nel campo delle scienze naturali, ma nel senso di ‘argomenti convergenti e convincenti’ che permettono di raggiungere vere certezze.” E ancora al n.286: “Indubbiamente, l’intelligenza umana può già trovare una risposta al problema delle origini. Infatti è possibile conoscere con certezza l’esistenza di Dio Creatore attraverso le sue opere, grazie alla luce della ragione umana.” Ma torniamo al Vaticano I. Questo concilio afferma che il dubbio è una tentazione e perciò è da rifiutare come pensiero volontario, cioè come dubbio volontario. Ora, caro (…), ciò vuol dire che a maggior ragione il dubbio deve essere rifiutato come “metodo”. La tendenza teologica, a cui abbiamo fatto riferimento prima, utilizza invece il dubbio come tale. L’agnosticismo, pertanto, non può essere né assecondato né tantomeno rispettato. Un conto è rispettare l’agnostico come persona con il dovere di amarlo desiderando la sua conversione, altro è rispettare le sue convinzioni agnostiche, che sono totalmente errate. Ripeto, caro (…): il dubbio involontario non costituisce peccato né è facilmente evitabile a causa della natura umana ferita, ma altra cosa è il dubbio volontario. D’altronde il peccato non sta nel sentire, bensì nell’acconsentire. In conclusione: serba un ottimo ricordo del parroco della sua fanciullezza e preghi perché i nuovi sacerdoti possano parlare come parlava lui.

Guai a dimenticare la “romanità” della Chiesa

Un lettore: Sentivo spesso parlare di “romanità” della Chiesa. Recentemente, però ne sento parlare poco. Ma cosa esattamente significa “romanità” della Chiesa? E’ importante ancora parlarne? Gentile (…), la romanità è un giudizio culturale e un criterio di civiltà che è stato (ed è ancora) importantissimo. Attenzione, importantissimo non solo per la civiltà occidentale in genere, ma anche per il Cristianesimo stesso, per la sua diffusione e quindi per il suo essere fondamento della civiltà occidentale stessa. Le confesso che ho sempre avuto una grande ammirazione per la figura di san Francesco Saverio. Un santo straordinario che da solo partì per le Indie per portare il Vangelo. Partì senza nulla, solo con la ricchezza della propria Grazia e della propria Fede. Un vero gigante della santità. Eppure quali sono stati i risultati della sua missione? Certamente tante conversioni, certamente il grandissimo suo esempio che ammiriamo e che ci edifica ancora adesso…ma l’Oriente e l’Estremo Oriente, purtroppo, sono rimasti culturalmente e numericamente non cristiani. Quali invece sono stati i risultati dei vari san Patrizio, san Bonifacio, san Colombano che hanno evangelizzato il Nord Europa? Di fatto quelle terre sono diventate sia culturalmente sia numericamente cristiane. Dunque, possiamo concludere che san Patrizio, san Bonifacio e san Colombano erano più santi di san Francesco Saverio? Ovviamente no. E allora dove sta la spiegazione? Sta nel fatto che mentre san Francesco Saverio trovò un “terreno” poco predisposto ad accogliere il Vangelo, non è stato così per coloro che evangelizzarono le terre del Nord Europa. San Francesco Saverio trovò delle terre in cui era pressoché assente la dimensione della libertà individuale e quindi la stessa consapevolezza dell’alterità tra l’individuo e il tutto. D’altronde il fondamento filosofico della religiosità orientale ed estremo-orientale è il monismo panteistico in cui non c’è spazio per la realtà individuale. Chi invece evangelizzò l’Europa trovò un “terreno” già predisposto per l’annuncio evangelico, un “terreno” già dissodato. E, caro (…), sa da cosa? Dal diritto romano. Certamente, nel mondo antico ancora non vi era un vero e proprio

concetto di persona, ma è indubbio come nel diritto romano già vi fosse la dimensione dell’alterità tra individuo e istituzione statuale che servirà non poco a far accettare il Cristianesimo con il suo costitutivo riconoscimento della sostanza ontologica della persona umana, della sua individualità e dei suoi inalienabili diritti. Dante Alighieri, che con la sua Commedia sintetizza tutto il pensiero medievale, lo dice: è vero che l’Impero romano ha perseguitato i primi cristiani, ma è pur vero che esso non solo è stato criterio di civiltà, ma ha svolto anche un ruolo provvidenziale per la diffusione del Cristianesimo stesso. Pensi, caro (…), quanto gli apostoli e i loro successori si siano avvantaggiati di un’unificazione politica, culturale e linguistica, date appunto dalla romanità. Ma Dante giustamente va oltre il dato storico del ruolo provvidenziale che la romanità e poi l’Impero romano avrebbero avuto per il raggiungimento della societas cristiana, dice anche che il futuro della cristianità non può che essere nella conservazione anche della sua romanità. In Paradiso Dante dialogherà con una grande aquila formata da tante anime beate. D’altronde fu questo il senso provvidenziale di quella fatidica notte del Natale dell’anno 800 in cui proprio a Roma, per volere del Papa e di un grande re come Carlo Magno, nacque quello che non a caso si chiamò il Sacro Romano Impero. Sacro Romano Impero voluto appunto dalla Provvidenza. Per chi crede –come me e spero anche come lei, caro (…)- che la storia non è solo un succedersi di avvenimenti senza significato o di fatti che casualmente si succedono, ma invece l’azione della volontà di Dio che si serve della libera collaborazione dell’uomo, allora anche certe coincidenze non possono non avere un significato. Caro (…), si è mai chiesto come mai l’Impero Romano inizia con un Romolo e finisce con un altro Romolo (Romolo Augustolo) e come mai anche il Sacro Romano Impero inizia con un Carlo (Carlo Magno) e finisce con un altro Carlo (il beato Carlo d’Asburgo)? Coincidenze? Bah!

Il tabernacolo nascosto

Un lettore: Sono un vecchio cattolico. Frequento giornalmente la Santa Messa. Noto tante novità moderniste, per me non condivisibili, anche perché, nella mia vita, ho frequentato per tanti anni le Messe celebrate da Padre Pio a san Giovanni Rotondo. Adesso non riesco a spiegarmi perché, nelle chiese tenute da parroci modernisti, il tabernacolo centrale sia stato praticamente abolito trasferendo l’Eucaristia nel tabernacolo di una cappella laterale. Lo fanno per maggiore adorazione? No, caro (…), non è affatto per maggiore adorazione; bensì per un motivo che potremmo definire di converso: “per minore adorazione”. Anche questo, infatti, è l’ennesimo segno del processo di protestantizzazione che sta subendo la Chiesa cattolica da diversi decenni a questa parte. E si sa che per il mondo protestante l’Eucaristia o è un semplice simbolo, oppure esprimerebbe (come consustanziazione e non come transustanziazione) la presenza reale, ma solo al momento del rito della mensa e con la presenza dei fedeli. Caro amico, tempo fa ebbi già modo di scrivere che siamo ormai in un contesto in cui la presenza è sostituita con il ricordo. Presenza che in termini di teologia sacramentale vuol dire riattualizzazione. Non dimentichiamo che cattolicamente la Messa è prima di tutto il rinnovarsi in maniera vera, anche se incruenta, del Sacrificio del Calvario. Ma tutto questo deve protestanticamente sparire o almeno passare in secondo piano. E così, dopo aver rimosso la centralità della Croce, da un po’ di tempo a questa parte si è passati a rimuovere anche la centralità del tabernacolo. Ma come Dio insegna sin dagli albori, la sua dimenticanza voluta dagli uomini non si riflette contro Lui, ma sugli uomini stessi. Le chiese, ormai, caro (…), sono divenute luoghi di assenza, e non solo per ciò di cui stiamo parlando; bensì perché ormai sono frequentate da pochi. Quante volte veniamo a conoscenze di vendita di edifici di culto perché ormai inutilizzabili per scarsità di fedeli o/e per scarsità di preti? Si è voluto accantonare la presenza e adesso se ne pagano le

conseguenze: l’ assenza domina su tutti i fronti. Caro amico, ovviamente non finirà in questo modo. Il Signore è pronto per riaggiustare tutto, ma vuole la nostra collaborazione. Per primo esige la nostra buona intenzione di servirlo e santificarci. E poi il nostro sforzo di conservare il seme della fede. Alla domanda di don Camillo su cosa si dovesse fare, il Cristo così rispose: “ Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede a mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più; ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede. Ogni giorno di più uomini di molte parole e di nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri. Uomini d’ogni razza, d’ogni estrazione, d’ogni cultura." Se faremo questo, Dio farà sì che ciò di cui lei, caro…, ha giustamente e legittimamente nostalgia tornerà ad essere l’evidente caratteristica della Fede Cattolica. Un caro saluto.

L’errore fideista

Un lettore: Cari amici di Radici Cristiane, giorni fa ho avuto tra le mani un vecchio libro di commento al catechismo. Leggendolo, mi ha colpito un passaggio sulla ragione. Si diceva che la ragione è un dono di Dio e, con questa, si dimostra che Dio esiste. Io sono abbastanza giovane, ho fatto da poco la scuola, ma l’idea che mi sono fatto è che tra fede e ragione ci sia incompatibilità. Voglio avere qualche chiarimento. Caro (…), Dio ha voluto l’uomo come unione di ragione e volontà. Il che significa che non è solo nobile la volontà ma anche la ragione, e viceversa: non è solo nobile la ragione ma anche la volontà. Ora, se Dio ha voluto l’uomo tanto volontà quanto ragione, vuol dire che questi (l’uomo) deve arrivare a Dio tanto con la volontà quanto con la ragione, né solamente con la volontà né solamente con la ragione. Per una sana teologia (qual è quella cattolica) è certamente un grave errore il razionalismo , la convinzione secondo cui la verità sarebbe conoscibile solo attraverso la ragione, ma è altrettanto un grave errore il fideismo, che è invece la convinzione che basterebbe solo la fede per arrivare alla verità e dunque per arrivare a Dio. Il fideismo è solo la fede senza la ragione; ragione che addirittura verrebbe ritenuta una sorta di “prostituta di satana” come soleva dire l’eresiarca Lutero. E infatti il Protestantesimo è strutturalmente fideista, ma di questo, caro (…) non posso parlare adesso. Cosa dice la Bibbia del fideismo ? Faccio parlare il Libro della Sapienza : (13,9): “ (…) davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere (…). Difatti dalla grandezza e dalla bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore (…) perché se tanto poterono sapere da scrutare l’universo, come mai non hanno trovato più presto il Creatore?” Le parole sono chiare: la ragione, da sola, può arrivare alla certezza dell’esistenza di Dio. Scrive san Paolo ai Romani (1, 19-20): “(…) ciò che di Dio si può conoscere è loro (ai pagani) manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute.”

Caro (…), anche il magistero cattolico ha parlato chiaro. Il Concilio Vaticano I afferma nella costituzione dogmatica Dei Filius (II): “(…) la Santa Madre Chiesa tiene e insegna che Dio, principio di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza col lume naturale della ragione umana attraverso le cose create.” Ribadisce il Concilio Vaticano II nella costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum : “Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza col lume naturale dell’umana ragione dalle cose create.” Importante è anche ciò che dice il Catechismo della Chiesa Cattolica al n.31: “Creato ad immagine di Dio, chiamato a conoscere e ad amare Dio, l’uomo che cerca Dio scopre alcune ‘vie’ per arrivare alla conoscenza di Dio. Vengono anche chiamate ‘prove dell’esistenza di dio’, non nel senso delle prove ricercate nel campo delle scienze naturali, ma nel senso di ‘argomenti convergenti e convincenti’ che permettono di raggiungere vere certezze.” E ancora al n.286: “Indubbiamente, l’intelligenza umana può già trovare una risposta al problema delle origini. Infatti è possibile conoscere con certezza l’esistenza di Dio Creatore attraverso le sue opere, grazie alla luce della ragione umana.” Insomma, caro (…), se ci si riflette solo la Chiesa Cattolica difende la ragione. Un po’ strana questa affermazione se si pensa alle cose che solitamente si dicono a riguardo: l’oscurantismo cattolico contro il razionalismo illuminista ecc… Ora, oltre al fatto che il razionalismo è tutt’altro che una valorizzazione della ragione, va detto che la vera esaltazione della ragione è quando si afferma che essa è “capace” se non di comprendere almeno di conoscere il Vero. Ebbene, questa convinzione alberga solo nel pensiero autenticamente (avverbio che oggi purtroppo dobbiamo sottolineare) cattolico. Nel racconto La croce azzurra Chesterton fa dire a padre Brown, la sua più famosa “creatura” letteraria: “La ragione è sempre ragionevole, anche nell’ultimo limbo, anche al limite ultimo delle cose. So bene che si accusa la Chiesa di abbassare la ragione, ma è il contrario, invece. Sola, sulla terra, la Chiesa fa la ragione veramente suprema. Sola, sulla terra, la Chiesa afferma che Dio stesso è legato alla ragione.” Nello stesso racconto il smascheramento del ladro Flambeau, travestito da prete, avviene in padre Brown perché il malfattore, ingaggiando un discorso teologico con il sacerdote, aveva parlato male della ragione, cosa (almeno per quei tempi di maggiore ortodossia) che era assai improbabile sentire da un sacerdote cattolico …e gli dice: “Voi attaccaste la ragione. Questa è cattiva teologia.”

L’insostituibilità del Rosario

Una lettrice: Cari amici di Radici Cristiane, sono molto affezionata alla preghiera del Rosario. Mi piace recitarlo più volte al giorno e anche quando sono in Chiesa dinanzi al Santissimo Sacramento. Qualcuno però mi rimprovera, dicendo che un conto è recitare un Rosario al giorno, altro è insistere. Non capisco, ma noto che non pochi cattolici hanno come un senso di diffidenza nei confronti di questa preghiera. Voi cosa ne pensate? Cara (…), lasci stare le critiche e continui. Anzi, ringrazi il Signore per il suo amore a questa insostituibile preghiera. Le basti sapere che i Santi approfittano di ogni momento per recitare il Rosario. San Pio da Pietrelcina ebbe il privilegio di recitarne tantissimi al giorno. I Santi, recitando il Rosario, non diventano né degli alienati, né dei disadattati, anzi… chi più di loro capisce davvero la vita, i fratelli e raggiunge una vera sapienza? Non ci sembra che tanti teologi, che per lo studio hanno abbandonato la preghiera e disprezzato l’ “ingenuità” del Rosario, riescano a raggiungere gli stessi livelli di sapienza. Cara (…), una delle critiche che sono state rivolte al Rosario è quella di dire: ma a che serve biascicare tante ‘Ave’, per giunta spesso frastornati da rumori, da distrazioni e quant’altro? E’ evidente che il Rosario vada recitato nel miglior modo possibile. Si sa, per esempio, che la recita dinanzi al Santissimo Sacramento permette di lucrare l’indulgenza plenaria. Ma –attenzione- ciò non vuol dire che se non si hanno queste possibilità, il Rosario non vada recitato. Chi si lascia prendere da questa preoccupazione, si lascia ingannare da uno scrupolo dietro al quale può celarsi probabilmente una tentazione demoniaca… e si sa quanto il demonio abbia in odio questa preghiera. La bellezza del Rosario sta anche nella sua semplicità e facilità; nel fatto, cioè, che può e deve adattarsi a tutte le situazioni. Si racconta di un soldato in trincea che scriveva una lettera alla mamma tra il fragore della battaglia. Un commilitone gli chiese: “Ma come fai a scrivere con questo fracasso? Chissà quanti strafalcioni ci scappano!”“Non fa niente –rispose il bravo soldato- gli

strafalcioni se li corregge la mamma. L’importante è che io le scriva.” A san Pio da Pietrelcina una volta fu chiesto come recitare il Rosario. Il Santo rispose: “L’attenzione deve essere portata all’Ave, al saluto che rivolgi alla Vergine nel mistero che contempli. In tutti i misteri essa era presente, a tutti partecipò con l’amore e con il dolore.” Cara (…), attenzione dunque a certi scrupoli, che nascondono anche un errore tipico di molto cattolicesimo contemporaneo, il quale, nel tentativo di combattere “ingenui devozionalismi”, pone l’esperienza di fede in una prospettiva di tipo intellettuale, dimenticando che essa è sì “intelligenza nella fede”, ma sempre orientata e finalizzata all’affidamento e all’amore. Si è parlato molto di “cattolicesimo adulto”, ma non è vero piuttosto che Gesù lodi proprio i piccoli indicando la loro posizione esistenziale (lo stupore, la meraviglia e l’abbandono) come criterio determinante per ogni cristiano? Il Rosario è dire tante volte alla Madonna “ti amo” e dire tante volte a Gesù “grazie per quello che hai fatto e stai facendo per me” nel tuo mistero di Redenzione (che sto contemplando) e che si è realizzato e che si realizza ancora nella vita individuale e nella storia degli uomini. Un giorno una ragazza protestante chiese ad un vescovo cattolico che aveva parlato del Rosario: “ Ma perché recitare tante ‘Ave Maria’? Non ne basta una?” Il Vescovo, che aveva notato che la ragazza era insieme al suo fidanzato, le chiese: “Tu preferisci che il tuo innamorato ti dica una sola volta ‘ti voglio bene’, o piuttosto ‘tante volte’?” La ragazza capì. Cara (…), Lourdes e Fatima (tanto per citare due apparizioni famose) parlano chiaro. La Vergine, dinanzi al reale pericolo di perdizione delle anime come effetto di un mondo che andava sempre più allontanandosi dalla Legge di Dio, chiese di recitare e diffondere il Rosario. Ella stessa apparve con la Corona fra le mani. Possiamo noi rifiutare questa richiesta? Nel celebre Giudizio universale di Michelangelo (1475-1564) della Cappella Sistina, alla destra di Gesù sono raffigurate delle anime che vengono tirate in Cielo grazie a delle corone di Rosario a cui sono strettamente attaccate. Michelangelo non era un teologo, ma aveva pienamente capito la potenza del Rosario. Potenza che è tutta nella grandezza di Maria.

L’uomo non è solo i suoi neuroni!

Una lettrice: Trovandomi a parlare con amici non credenti, l’obiezione che spesso ricevo è questa: come è possibile credere all’esistenza dell’anima se è dimostrato che l’attività intellettiva dell’uomo è solo nel suo cervello? Questa obiezione mi mette in difficoltà. Come si può rispondere? Cara (…), tra i tratti distintivi della post-modernità vi è non solo il relativismo (che ha come logico e coerente epigono il nichilismo), ma anche la distruzione dell’uomo. E’ evidente che quando si parla di “distruzione dell’uomo” s’intende principalmente la distruzione di ciò che si manifesta come originalità umana: ovvero l’attività intellettiva (intelligenza) e quella volitiva (la libertà). Relativamente all’attività intellettiva, il pensiero postmoderno non è riuscito a negarne l’esistenza. Ciò che però ha fatto è la negazione di tale attività come elemento discriminante il piano della valutazione della dignità della vita umana. Più semplicemente: la mentalità contemporanea tende a ritenere che ciò che conferisce valore alla vita umana non sia il piano intellettivo, ma solo quello biologico. Lo sviluppo – e soprattutto lo pseudo-successo - delle cosiddette neuroscienze tende ad affermare che ciò che l’uomo può pensare, può scegliere, può produrre, insomma tutte le sue dinamiche volitive altro non sarebbero che esiti di meccanismi neuronali. Da qui si capisce, cara (…), perché i suoi amici atei insistano molto su questo punto. Vediamo allora di dimostrare quanto sbagliata sia una simile convinzione. Quando nel Genesi è scritto che Dio permette all’uomo, in quanto creato a sua “immagine e somiglianza”, di usare degli uccelli del cielo e dei pesci del mare, autorizza l’uomo stesso ad orientare a sé il reale. Non a negarlo ( idealismo) né tantomeno a distruggerlo ( relativismo nichilista), ma senz’altro a orientarlo, cioè a “intellegerlo”, a penetrarlo per scoprire in esso un senso. C’è, infatti, qualcosa che va oltre il reale per cui il reale è stato fatto ed esiste. Su questo qualcosa che va oltre, il reale non si perde, ma si orienta e l’uomo ha la capacità di farlo. Ma tale capacità non gli è data solamente dai meccanismi biologici che lo costituiscono, questi sono solo lo strumento perché si realizzi qualche altra cosa:

la libertà dell’uomo che è il pensare, il produrre …e il giudicare. Attività libere, non vincolate da alcun determinismo. Cara (…), l’arte –per esempio- è il giudicare la realtà. Proprio in questo “giudizio” sta il progresso umano. L’animale non riesce a progredire se non in piccolissime cose che non lo elevano sopra la pura istintualità. Un singolo cane può scoprire nel tempo la strada più comoda e più corta per arrivare alla ciotola del cibo, ma non va oltre. L’uomo, invece, modifica totalmente la sua vita. E la modifica perché può giudicarla. Quando Leopardi, pur nella sua negazione di ogni possibile risposta metafisica, pur nel suo sensismo, arriva a denunciare quanto l’uomo stesso abbia un costitutivo bisogno di andare oltre l’ hic e t nunc (il qui e ora), smentisce tanto il suo “nichilismo” quanto il suo sensismo. Nessun animale può arrivare a costatare il paradosso di un uomo che, pur scoprendosi finito, limitato, addirittura semplice “macchina cellulare”, invochi l’infinito e l’assoluto. Platone lo dice chiaramente: l’uomo desidera l’assoluto, l’infinito, la bellezza totale … ma nulla sulla faccia della terra palesa l’infinito, l’assoluto e la bellezza completa. E allora perché l’uomo ha tali desideri? Perché li ha l’uomo e non l’animale? Il paradosso del riduzionismo biologista sta proprio nel fatto che già negare nell’uomo la dimensione spirituale, vuol dire ammetterla. Nessun animale dice di se stesso che è solo materia. L’uomo può dirlo, e può dirlo proprio perché non è solo materia. Cara (…), racconti ai suoi amici atei questo annedoto: quando un amico ateo chiese al celebre scienziato credente Pasteur: “Ma tu come fai a credere che nell’uomo esista un’anima immortale?” Questi rispose con grande semplicità: “E’ proprio la tua domanda che me lo dimostra.”

Le civiltà non sono affatto uguali!

Un lettore: Cari amici di Radici Cristiane, ho letto con molto interesse un recente discorso del papa emerito Benedetto XVI sulla musica sacra. In esso si dice che questa arte ha raggiunto i suoi vertici nell’Occidente cristiano. Ma allora ciò significa che le civiltà non sono uguali e che ci sono civiltà storicamente più importanti. Ma se è così, perché non lo si dice apertamente? Caro (...), che le culture e le civiltà siano uguali è tra le più grandi sciocchezze che si possano dire. Le racconto questo episodio. Diversi anni fa mi trovai, mio malgrado, in un’assemblea studentesca del Liceo Classico della mia città. Erano giorni di grandi discussioni, di manifestazioni pubbliche, di cogestioni, autogestioni e occupazioni, insomma di caos puro. Erano anche giorni in cui si dibatteva a proposito di quella che poi è stata chiamata Seconda Guerra del Golfo. In quella manifestazione, dove ringraziando Dio la maggioranza degli studenti chiacchierava e pensava a tutt’altro, non potevano mancare i cosiddetti “esperti”. Uno di questi, “esperto” in filosofia, disse più o meno cosi: “Le culture sono tutte uguali, non esistono civiltà superiori, cioè più civilizzate, men che meno la superiorità dell’Occidente... pensarla diversamente è pericolosissimo, perché vuol dire accondiscendere all’intolleranza.” Ovviamente nessuno si accorse di nulla, applausi scroscianti tanto da parte di chi aveva cercato di capire quanto da parte dei tanti ragazzi che, distratti, non avevano seguito una parola. Nessuno si accorse della mastodontica contraddizione: da una parte non esisterebbero civiltà superiori, dall’altra bisognerebbe rispettarsi e tollerare. Ma, si poteva obiettare all’ “esperto” intelligentone: e il rispetto e la tolleranza dove sono nati? In Papuasia? A Timbuctu? O sono appunto nate in Occidente? Ora, caro (...), si può discutere sul valore autentico del rispetto e della tolleranza e di come debbano essere adeguatamente intese, ma il ragionamento mi sembra chiaro. E’ evidente che un conto è il rispetto che si deve agli uomini, altro è il sedicente rispetto che si deve alle varie culture e a tutte le loro singole caratteristiche. Caro (...), di esempi per supportare ciò che sto dicendo se ne potrebbero fare

tantissimi, mi limito a citarne alcuni. Il primo: il concetto di persona. E’ questo un concetto nato agli albori della civiltà cristiana. La prima definizione fu quella di Severino Boezio, filosofo cristiano vissuto tra il V e il VI secolo. Una definizione che è rimasta insuperata. La persona è rationalis naturae individua substantia (cioè: sostanza individuale di natura razionale). Dicevo: definizione insuperata. La persona non è semplicemente una sostanza individuale razionale, ma di natura razionale. Dunque anche il bambino ancora non nato è persona, anche l’handicappato intellettivo è persona. Ed ecco perché nel mondo precristiano esistevano su larga scala la schiavitù e l’infanticidio, perché non si era in possesso di un autentico concetto di persona. Un altro elemento è il progresso scientifico-tecnologico. Non è un caso che la “planetarizzazione” del mondo per quanto riguarda questo aspetto sia partito dal bacino del Mediterraneo. I motivi sono diversi, ma soprattutto la positività del creato e la convinzione che la natura è stata creata da Dio e non è panteisticamente Dio. Nel mondo precristiano la scienza non si trasformava in tecnica non solo perché si poteva disporre della forza-lavoro degli schiavi, ma anche e soprattutto perché, considerando la natura come espressione del divino, la si riteneva intoccabile e immodificabile. Per non parlare, caro (...), delle arti figurative. Anche per questo non è un caso che quando si deve pensare ad una grande pittore o scultore vengono in mente solo occidentali... e per non parlare della musica, come ha detto Benedetto XVI. Cosa suonano i grandi direttori di orchestra orientali (per esempio il famoso indiano Zubin Mehta) se non la musica della grande tradizione occidentale? Insomma, caro (...), come vede le civiltà non sono affatto uguali. Per dirlo occorrerebbe negare la realtà e immaginarsi l’inesistente. Cosa, questa, che è imposta dall’astrazione ideologica, ma ampiamente rifiutata dall’intelligenza del sano realismo.

L’animalismo: negare il valore della ragione… ragionando

Un lettore: Mi è capitato di leggere qualcosa del filosofo Peter Singer. Egli fa capire che avrebbe più diritto alla vita un animale sano piuttosto che un bambino malato. Come mai si è arrivati fino a questo punto? Caro (…), l’australiano Peter Singer è il più famoso sostenitore dell’ animalismo. Egli, infatti, rifiuta lo specismo. Se il primo (l’ animalismo) è la convinzione secondo cui uomo e animali avrebbero la stessa dignità, il secondo (lo specismo) è la convinzione della superiorità della specie umana sugli animali. Il fondamento filosofico del pensiero di Singer è l’ utilitarismo, cioè la giustezza di un’azione si misurerebbe solo dalle sue conseguenze. E’ giusta se causa minor dolore, prendendo però in considerazione non solo l’uomo ma tutti gli esseri senzienti che vi sono coinvolti. Insomma, per Singer e l’ animalismo ciò che conta non è la ragione, ma solo la sensazione. Questo tipo di ragionare porta il filosofo australiano a considerare lecito non solo l’aborto ma anche l’eutanasia attiva di neonati malformati. Così scrive in Etica pratica: “Scimmie, cani, gatti, e perfino topi e ratti, sono più intelligenti, più consapevoli di quanto accade loro, più sensibili al dolore e così via, di molti umani cerebro-lesi, degenti nelle corsie di ospedali o in altre istituzioni. Non sembrano esistere caratteristiche moralmente rilevanti che questi umani posseggano e di cui manchino gli animali. (...) E così, sembra che sia più grave uccidere, per esempio, uno scimpanzé, piuttosto che un essere umano gravemente menomato che non è una persona. (...) la nostra attuale protezione assoluta della vita degli infanti è un atteggiamento ebraico-cristiano piuttosto che un valore etico universale. (In altre civiltà) l’infanticidio non solo era permesso, ma, in certe circostanze, considerato moralmente obbligatorio.” Caro (…), faccio tre riflessioni. La prima: questo tipo di pensiero non è completamente nuovo. Già

sant’Agostino dovette confutare l’ animalismo, allora di stampo gnostico. Oggi, con un evidente ritorno di visioni panteistiche tanto di stampo neopagano quanto orientale, questo pensiero ha trovato un indiscusso terreno fertile su cui attecchire. Anche i teorici contemporanei dell’anarchia si richiamano all ’animalismo. La loro è una visione del mondo come processo rivoluzionario di “liberazione” della natura dal dominio dell’uomo. Solo così si realizzerà la vera democrazia, cioè quello che chiamano “uguaglianza anarchica nella biosfera”. Insomma, devono essere eliminate tutte le gerarchie, anche quella dell’uomo sugli animali. La seconda: l’ animalismo di Singer è del tutto contraddittorio. Com’è possibile, infatti, definire ciò che è giusto (in questo caso rinunciare allo specismo) e ciò che è ingiusto (non rinunciare allo specismo) se non utilizzando quella ragione che per Singer non deve essere più un elemento discriminante? Secondo lui, l’uomo, pur avendo la ragione, non è superiore agli animali. Ma l’uomo stesso, proprio perché ha la ragione, può prendere coscienza del fatto che la sua ragione non vale nulla. Non basta questo per capire quanto faccia acqua, sul piano della logica, un pensiero di questo tipo? La terza: ciò che dice Singer si presenta come una sorta di “dovere morale” per l’uomo. Nel senso che io sono tenuto a comportarmi così come dice Singer: devo ritenermi non superiore agli animali, cioè devo rifiutare lo specismo. Io devo credere in questo, devo far questo ... ma gli animali? Agli animali è dovuto qualcosa? Evidentemente no, perché questi non hanno volontà e responsabilità. Io devo. Loro no. Io devo credere in quello che mi dice l’animalismo. Loro no. Io devo praticare il vegetarianesimo; loro invece possono mangiare carne. Io non devo essere “crudele” verso gli animali, mentre gli animali possono essere “crudeli” verso di me. Caro (…), la contraddizione sta proprio nel fatto che solo l’uomo può capire le stramberie di Singer e dell’ animalismo. E forse solo per questo … gli animali sono più “fortunati” di noi.

Dio è la sua legge!

Una lettrice: Recentemente, parlando con amici, si è posto il problema del peccato impuro. Ciò mi ha suscitato una domanda: ma perché, per scegliere e amare Dio, bisogna per forza rispettare delle norme morali? Gentile (…), secondo la filosofia naturale e cristiana Dio non è al di là del bene e del male, ma è il Bene: la sua natura si identifica con il Bene ed è costitutivamente buona. Molti sono portati a pensare alla creazione in un certo modo, ovvero che Dio, dopo aver creato l’uomo, si sia messo a riflettere: “E adesso come lo faccio comportare? Gli do la possibilità di rubare o di non rubare, di dire le bugie o di non dire le bugie…”. Ora, se le cose fossero andate in questo modo, il bene sarebbe stato il male e il male il bene. Invece le cose non sono andate così. Dio non poteva non dire all’uomo “non rubare” o “non dire falsa testimonianza”, perché la sua natura è “non rubare” e “non dire falsa testimonianza”, in quanto – come abbiamo detto prima – la sua natura è il bene. Ecco perché la migliore definizione dei Comandamenti è questa: essi sono la natura di Dio codificata per la vita quotidiana degli uomini. Da tutto questo si capisce una cosa molto importante: dal momento che la Legge di Dio si identifica con la natura di Dio, accettare la Legge di Dio vuol dire abbracciare Dio stesso. Lei, cara (…), si è posta questa domanda: “ma perché, per scegliere e amare Dio, bisogna per forza rispettare delle norme morali?”. Indubbiamente si può rispondere a questa domanda dicendo che un amore che non diventi condivisione di volontà non può essere amore; per cui non si può amare Dio se non si aderisce alla sua volontà. È un argomento ottimo e vero, non c’è che dire. Ma ci si dimentica che il Cristianesimo offre anche un altro tipo di risposta, molto più persuasiva. Ovvero quello che abbiamo detto prima: la Legge di Dio è la natura stessa di Dio, per cui rispettare la Legge di Dio vuol dire di fatto abbracciarlo. E cosa ancora più decisiva: non è possibile abbracciare Dio se non si accetta e non si vive la sua Legge.

Da ciò si capiscono ancora due cose: che il Cristianesimo non può essere ridotto né ad intellettualismo né a moralismo. Il Cristianesimo, infatti, rifugge qualsiasi tipo d’impostazione gnostica, per cui aderire a Dio non significa semplicemente conoscerlo o condividere le sue idee (e quindi cadere in un’adesione esclusivamente intellettuale), ma abbracciare la sua volontà e la sua natura. Inoltre, il Cristianesimo è lontano da qualsiasi deriva moralistica, deriva che conduce a ritenere il rispetto della legge come fine. Kant, parlando dell’etica, ha affermato che la cosiddetta “morale deontologica” sarebbe superiore a quella “teleologica” . La morale deontologica è quella per cui l’agire morale deve essere compiuto indipendentemente del fine. La morale teleologica è invece quella indirizzata ad un fine ben preciso, il raggiungimento della felicità: il bene va compiuto non in se stesso ma in quanto rimanda al possesso della verità e quindi dell’autentica felicità. È ovvio che il Cristianesimo si riconosca nella morale teleologica; mentre la modernità, nel suo scetticismo e indifferentismo religiosi, non poteva non riconoscersi nella prospettiva kantiana. Da qui, da una parte, il fallimento dell’autorità morale nella pedagogia moderna; dall’altra, l’accusa alla morale religiosa di “moralismo”. Ebbene, la teologia cattolica fa capire che così non è: la Legge di Dio è la sua Natura; e – anzi – capovolge i termini della questione, indicando giustamente come moralista la posizione di chi è chiamato a rispettare la legge morale senza conoscerne né il fondamento né tantomeno il fine. Il moralismo non si misura dal numero delle rinunce (per cui più si mettono “paletti” nella propria vita, più si è moralisti), bensì dal numero delle motivazioni che sono alla base della rinuncia. Facciamo un esempio. Un ateo decide di non rubare. Decide di farlo per: 1. rispettare la proprietà altrui, 2. per non andare in galera. Un credente che decide di non rubare avrà invece questi motivi: 1. rispettare la Legge di Dio, 2. rispettare la proprietà altrui, 3. non andare in galera. Ebbene, il comportamento del credente sarà meno moralistico, in quanto egli, avendo una motivazione in più, riuscirà a dare più senso al suo sforzo di volontà. Quello dell’ateo, invece, avendo una motivazione in meno, avrà bisogno di uno sforzo di volontà maggiore, cadendo pertanto nel moralismo.

Il celibato ecclesiastico? Esiste da quando esiste la Chiesa

Un lettore: Spesso si sente dire che la Chiesa cattolica debba eliminare il celibato ecclesiastico. Non sono pochi coloro che affermano che tale celibato risalga al medioevo e che quindi fosse del tutto inesistente nella Chiesa delle origini. E’ davvero così. Su cosa possiamo essere sicuri? Carissimo (…), l’obbligo del celibato sacerdotale non è affatto una norma successiva alla Chiesa degli Apostoli. Sono almeno tre i motivi che sono alla base del celibato sacerdotale: cristologico, ecclesiologico ed escatologico. Il motivo cristologico attiene al fatto che il sacerdote è un alter Christus (un altro Cristo) e celebra in persona Christi (nella persona di Cristo). Dal momento che Gesù scelse per sé il celibato, ecco dunque che il sacerdote deve vivere il celibato. Il motivo ecclesiologico è invece relativo all’impegno del sacerdote. Questi non è un impiegato che può e deve mettersi a disposizione secondo orario, ma un vero e proprio “padre” che deve sempre essere a disposizione delle anime che ha in cura. Se è così –ed è così- come è possibile coniugare nel miglior modo possibile la vita familiare (che richiede una disponibilità totale) con quella sacerdotale (che richiede ugualmente una disponibilità totale)? Il motivo escatologico riguarda ciò che deve rappresentare la vita sacerdotale. Anche i sacerdoti secolari (seppur in maniera minore dei religiosi) sono chiamati a prefigurare quella che sarà la vita del Paradiso. Caro (…), si è detto e si continua purtroppo a dire che oggi l’abolizione dell’obbligo del celibato sacerdotale potrebbe essere una soluzione alla cosiddetta “crisi delle vocazioni”. Che dire? Che all’ingenuità (se vogliamo chiamarla così) non c’è limite. Basterebbe fare questa considerazione: le comunità protestanti e quelle ortodosse patiscono “crisi delle vocazioni” eguali

se non superiori a quella cattolica. Il problema è altro. Ma veniamo al dunque. La storia dimostra che l’obbligo alla continenza sessuale dei sacerdoti non è frutto di una decisione ecclesiastica. L’obbligo al celibato sacerdotale è una pratica antichissima tanto dell’Oriente quanto dell’Occidente. Sì: anche dell’Oriente. Si sa che gli Ortodossi obbligano alla continenza solo i monaci e i vescovi, mentre preti e diaconi possono sposarsi. Questa, sì, fu un’innovazione risalente al 691 con il Concilio Trullano. Il celibato sacerdotale risale al periodo degli Apostoli, cioè all’inizio della Chiesa. C’è un ottimo testo del cardinale Alfons Stickler ( Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, edito dalla Libreria Vaticana nel 1994) dove si dimostra che in nessuno dei documenti antichi il celibato ecclesiastico fu considerato come un’innovazione. A quel tempo accedevano al sacerdozio uomini maturi e spesso già sposati, i quali però lasciavano, con legittimo e reciproco consenso, la vita familiare per dedicarsi al sacerdozio. Il caso dell’Apostolo Pietro è emblematico: era sicuramente sposato (basti pensare all’episodio della guarigione della suocera) poi gradualmente lasciò la vita familiare per dedicarsi all’elevatissimo compito assegnatogli da Gesù. Il cardinale Stickler dice che quando questi uomini ricevevano il sacerdozio (siamo nella Chiesa primitiva) erano appunto tenuti a vivere nella continenza perfetta e non potevano più risiedere nelle loro case ma in edifici a parte. Spesso si dice che sarebbe stato il Concilio di Elvira (in realtà fu un sinodo del IV secolo) ad imporre il celibato sacerdotale. Il cardinale Stickler dimostra invece che in quel concilio non s’introdusse ma si ribadì la norma del celibato e se ne condannarono gli abusi espellendo dal clero chi conservasse la moglie. Padri della Chiesa come sant’Ambrogio (334-397), san Girolamo (347-420) e sant’Agostino (354-430) affermano che i sacerdoti devono rispettare la continenza; e non solo questi, ma anche i diaconi. Alcuni affermano che il celibato sacerdotale addirittura risalirebbe al 1139, con il secondo Concilio del Laterano. Perché l’equivoco? Perché in quel concilio si decise che eventuali matrimoni contratti dai sacerdoti sposati non fossero solo illegittimi ma anche invalidi. Dunque, caro (…), tutt’altro discorso rispetto all’introduzione della norma del

celibato ecclesiastico.

Perché si costruiscono chiese brutte? E’ una questione di cattiva teologia

Una lettrice: Cari amici di Radici Cristiane, ho notato che la vostra rivista insiste molto sull’importanza dell’arte e della bellezza. Chiedo allora a voi: ma come mai negli ultimi tempi si costruiscono chiese brutte? C’è una spiegazione o è un fatto casuale? Cara amica, prima di tutto va detto che le chiese devono esprimere la dimensione del sacro. Il problema però è che su questo sono d’accordo tutti, anche coloro che progettano chiese con le forme più strane. La questione è che ci sono infatti due modi di intendere il sacro. Uno corretto ed uno scorretto. Il corretto è intenderlo come categoria che irrompe nel profano senza farsi contaminare dal profano stesso e senza confondersi con esso. Il secondo (quello scorretto) legge il sacro sì come un’irruzione nel profano, ma nel senso di una fusione con esso. Cara (…), le faccio questo esempio. Se verso un po’ di olio in un bicchiere pieno di acqua, il liquido penetra nell’acqua, ma poi va verso l’alto e si differenzia dall’acqua anche se non se ne distanzia; si pone al di sopra dell’acqua adagiandosi su di essa. Se invece verso del vino nello stesso bicchiere, il vino penetra nell’acqua ma in questo modo rimane, tant’è che vien fuori un nuovo liquido con un colore diverso. Fuor di metafora: il sacro è irruzione nel profano, arricchimento di esso, ma ben distinto dal profano e non confusione con esso. Negli ultimi decenni si è imposto il modo scorretto d’intendere il sacro. Perché? I motivi sono molteplici. Sarebbe difficile elencarli tutti, ne cito almeno due: la svolta antropologica della teologia contemporanea e la cosiddetta teologia della secolarizzazione. La prima riguarda l’uomo che di fatto sostituisce Dio. L’uomo diventa il centro. Ma non solo l’uomo come uomo, anche l’uomo con le sue faccende, con il suo

vissuto, con la sua storia individuale. In perfetta coerenza con uno dei capisaldi del pensiero di Heidegger (un importante filosofo di riferimento di certa teologia contemporanea) secondo cui l’ essere si manifesta solo nella dimensione individuale del vissuto umano. Se dunque l’ essere è conoscibile solo nell’ ente e se addirittura l’ essere trova la sua reale espressione nell’ ente, allora anche il sacro perde la dimensione metafisica per acquistare rilevanza e senso solo nel mondo e nella storia, cioè solo nel profano. I luoghi sacri, secondo certa teologia contemporanea alla moda, non devono essere visivamente distinti dal quotidiano, bensì dentro il quotidiano: non “adagiati” sul quotidiano come l’olio sull’acqua, bensì “confusi” nel quotidiano come il vino nell’acqua. Il secondo elemento è logicamente conseguente al primo. La teologia della secolarizzazione si basa su un’errata concezione del mistero dell’Incarnazione che viene letto come salvezza per tutti, nel senso che il Verbo, per il fatto stesso che si è incarnato, avrebbe automaticamente realizzato la salvezza per tutti. “Realizzato”, dunque indipendentemente dalla libera corrispondenza delle singole anime. In questa prospettiva se tutto è “salvato”, tutto è anche “santificato” e “sacralizzato”. Il secolo, cioè il tempo, diventa il sacro per eccellenza, ecco la definizione “teologia della secolarizzazione”. Da qui le chiese che non solo possono non essere più chiese, ma non devono essere più chiese. Detto questo, chiediamoci: ma allora come devono essere le chiese? Verrebbe semplicemente da rispondere: chiese …solamente chiese! Ovviamente non basta una tale lapalissiana risposta. C’è chi ha giustamente detto che dal momento che la Chiesa è sacramento universale di salvezza, le chiese devono esprimere un linguaggio sacramentale e questo linguaggio –aggiungio io- lo possono esprimere se sono costruite con questo “linguaggio”. Ci sono pertanto dei simboli, delle forme, delle atmosfere che non possono essere omessi. Certo, questi simboli, queste forme, queste atmosfere, possono e debbono variare nel tempo; ma un conto è variarli altro è cancellarli. Una cattedrale barocca non è una cattedrale gotica, ma è indubbio che entrambe con sensibilità e simbologie diverse esprimono un “linguaggio sacramentale”. Si può dire che la cattedrale gotica ancor di più di quella barocca esprima questo linguaggio, ma è indubbio che entrambe lo facciano. Non è così per le chiese che si costruiscono oggi, dove è proprio la dimensione “sacramentale” ad essere volutamente omessa.

Diminuiscono le culle… perché siamo in un mondo disperato

Un lettore: In questi giorni si sta parlando della forte denatalità che colpisce il nostro Paese. Stiamo praticamente andando verso l’estinzione, visto che il tasso delle nascite è inferiore a quelle delle morti. Secondo voi, quali sono le cause di tutto questo? Non si mettono al mondo più bambini. Perché avviene questo? Gran bella domanda, caro (…). Le rispondo dicendole prima di tutto che la causa cosiddetta economica non mi convince affatto. Per un motivo ben preciso: perché da quando gli Italiani hanno iniziato a stare bene economicamente, hanno anche iniziato a mettere al mondo meno figli. La diminuzione delle nascite si palesò agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso. Inoltre, diciamocela tutta, caro (...), un tempo era davvero una fatica accudire i figli. Oggi, tra pannolini usa-e-getta e altro, ci sono molte più comodità. Ma, caro (…), se non sono le cause economiche, o perlomeno non sono soprattutto queste, quali potrebbero essere quelle vere? A mio parere sono due: una superficiale ed una più profonda. La causa superficiale ci dice che il benessere, almeno che non si sia spiritualmente maturi, conduce all’egoismo e a gestire sempre più “comodamente” la propria vita. La causa profonda riguarda la famiglia e il suo esistere. Nei nostri tempi c’è stata una perversa alleanza di resa da parte di chi non doveva arrendersi. Si è arresa la cultura, proponendo un pericoloso nichilismo. Si è arresa la Chiesa mettendo ai margini del suo Annuncio la Croce, facendo sì che venisse meno quella maturità spirituale che sarebbe stata capace di governare il boom economico. Il risultato:

un disorientamento esistenziale generale. A causa di tutto questo non si capisce più perché si vive; e quindi non si capisce nemmeno più perché ci si debba sacrificare; e perché si debbano mettere al mondo dei figli. Un tempo, caro (…), si piantavano i noci, alberi che crescono con una lentezza tediante. Lo si faceva comunque, affinché i figli o i nipoti ne potesse gustare i frutti. Oggi non si piantano più. Si piantano già grossi, con lo zollone, o si piantano i pini dell’Arizona che schizzano subito in alto. C’è, insomma, l’ansia di avere tutto e subito, perché si è inconsciamente convinti che oltre la vita non ci sia nulla. Un tempo no. Un tempo addirittura si facevano le cose belle anche se non si potevano guardare: pensi ai decori sulle guglie delle cattedrali. Ciò perché si aveva la certezza che tutto ciò che si fa viene riposto per poi essere ritrovato nell’eternità. Insomma, se oggi non si mettono più al mondo bambini è perché, caro (…), si è perso il senso della Speranza… e se non c’è la Speranza, vuol dire che c’è la disperazione. Il nostro è un mondo disperato. Duole dirlo, ma è così. Nei nostri tempi la fabbrica del divertimento è sempre aperta (24 ore su 24), ma ciò che manca è la gioia, manca un atteggiamento positivo nei confronti della vita. E tutto questo ha svuotato le culle!

Gli Ebrei hanno l’obbligo di convertirsi

Una lettrice: Sono una ragazza che da tempo cerca di aiutare il parroco nella catechesi. Cerco di fare del mio meglio per approfondire la teologia. Ci sarebbero tante questioni che vorrei sottoporre, ma ne scelgo una. Da più parti ormai si sente affermare che gli Ebrei non dovrebbero convertirsi in quanto la loro “elezione” sarebbe definitiva. Voi cosa ne pensate? A me sembra disorientante… Cara (…), come capisco il suo disorientamento. Lei, essendo molto giovane, non avrà sentito facilmente parlare di “ teologia della sostituzione”; e allora le dico prima di tutto che cosa è. Per “ teologia della sostituzione” s’intende la convinzione secondo cui l’Antico Israele, in quanto non rimasto fedele alle promesse divine per il rifiuto ad accettare Gesù, sarebbe stato “sostituito” da un “Nuovo Israele”, che è la Chiesa Cattolica. Si tratta, cara (…), che-che ne dica la teologia neomodernista contemporanea, di un’evidenza incontestabile. Israele era la “ vigna” del Signore. Nonostante che Dio l’avesse amata con tenerezza di padre, la vigna non produsse l’uva sperata, ma solo “foglie avvizzite” (Geremia 8,13), deludendo così le attese del Signore. Per questo la vecchia vigna è stata abbandonata da Dio e sostituita dalla “nuova vigna” che è la Chiesa Cattolica, il popolo della Nuova Alleanza, di cui Gesù è la “vera vite”. Nel Vangelo di Matteo Gesù lo dice chiaramente (Matteo 21,4345): “ Per questo vi dico: ‘Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a gente che ne produca i frutti (…) E i principi e i sacerdoti, udite le sue parabole, compresero che parlava di loro.” Cara (…), chi vuole negare la “ teologia della sostituzione” si appella ad alcune parole di san Paolo, precisamente quando nella Lettera ai Romani (11,28-29) , alludendo al popolo ebraico, scrive: “Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” Queste parole però non negano

affatto la “ teologia della sostituzione”. Tale “ teologia” non significa non riconoscimento dell’elezione del popolo ebraico né che questo riconoscimento non vada perennemente ricordato, quanto che questo popolo (escluso il cosiddetto “resto d’Israele”) non è rimasto fedele alla Promessa. Insomma, il problema non sta nel fatto che Dio non abbia conservato i doni ad Israele, bensì che Israele li abbia poi chiaramente rifiutati. Così scrive un illustre e compianto teologo come monsignor Brunero Gherardini: “ Mantengo un rispettoso silenzio su discorsi e scritti ufficiali relativi alla permanenza degli Ebrei nell’Alleanza salvifica, la prima e mai revocata (?), anzi l’unica, la quale in quanto ‘non revocata’, non sarebbe né antica né nuova, ma proprio per questo sarebbe ugualmente via di salvezza per il mondo ebraico e per quello cristiano. La ragione addotta, vale a dire l’irrevocabilità delle promesse e dell’Alleanza, tiene conto del fatto che ‘i doni di Dio sono irrevocabili’, ma ignora un dato di decisiva importanza e cioè che tali doni possono essere rifiutati. Israele li rifiutò rifiutando Cristo e la sua redenzione, continua anzi a rifiutarli, dunque non li possiede, dunque non è “a Dio carissimo” se l’esser cari a Dio presuppone ed esige la piena ed incondizionata adesione al suo progetto salvifico in Cristo.” (B. GHERARDINI, Quale accordo fra Cristo e Beliar? Osservazioni teologiche sui problemi, gli equivoci ed i compromessi del dialogo interreligioso, Verona 2009, p.86). Insomma, cara (...), gli Ebrei hanno l’obbligo di convertirsi, eccome se ce l’hanno!

La sciocchezza di uno Yoga “cristiano”

Un lettore: Molti cattolici si appassionano allo Yoga. Non mancano corsi di preghiera che inseriscono seminari sullo Yoga. Secondo voi è giusto tutto questo? O ci si trova dinanzi ad un chiaro caso di sincretismo religioso? Gentile (…), è vero, ogni tanto si sente parlare di qualche monastero cattolico che organizza corsi di spiritualità arricchiti di seminari sullo Yoga. D’altronde non sono pochi i libri che presentano una possibile –e secondo i loro autori opportuna- coniugazione tra spiritualità cristiana e Yoga. Per non parlare di tanti cattolici praticanti che, per sconfiggere ansia o quant’altro, frequentano palestre che organizzano corsi di Yoga. Che dire di tutto questo? Prima di tutto che qualsiasi sincretismo religioso si pone come negazione della religione in quanto tale. Anche (e questo può sembrar contraddittorio) di quelle religioni che ammettono o addirittura consigliano più appartenenza religiose. E’ inevitabile che ogni esperienza religiosa si ponga in una dimensione di esclusività; e se vi rinuncia, finisce col smarrire la sua ragion d’essere. Se è vero che l’Induismo ammette la doppia appartenenza (per esempio: si può essere induisti e cristiani contemporaneamente) è pur vero che ritiene necessaria la credenza nella reincarnazione, credenza questa che è del tutto rifiutata dal Cristianesimo. Il che vuol dire, secondo l’Induismo, che si può essere induisti e cristiani contemporaneamente, ma, sempre secondo l’Induismo, il Cristianesimo vero non sarebbe quello che esclude la reincarnazione, bensì un altro, ideale e soggettivo, che l’ammetta. Ecco un esempio che dimostra come anche quelle religioni che figurano come tolleranti e disposte ad accettare più appartenenze, si pongono comunque in una prospettiva esclusivista. Né può essere diversamente, se si considera lo statuto specifico dell’essere “religione”. Ma –caro (…)- torniamo al punto iniziale. Dunque, un bel corso di Yoga rivolto a chi vuol fare un corso di spiritualità cristiana! Ma –chiediamoci- lo Yoga è cristianizzabile? O meglio: lo Yoga è coniugabile con il Cristianesimo?

Assolutamente no. Lo Yoga è un sistema a cui si ispira un ben precisa scuola indù. Fu elaborato nei 194 Yoga sutra scritti da Patanjali nel V secolo d.C. E’ un metodo (perciò è bene parlare di “sistema”) con il quale si cerca di ottenere il dominio su tutte le forze spirituali, guidandole nella direzione desiderata. Ma qui sta il problema. Qual è questa direzione? E’ il raggiungimento della pace interiore, è il raggiungimento della conoscenza suprema, è la liberazione dai legami del mondo e dalla materia. Riflettiamo: il raggiungimento della pace interiore deve avvenire non con l’aiuto di Dio, ma con le proprie forze. Insomma, il raggiungimento della conoscenza suprema è incompatibile con la nozione cristiana di una dimensione creaturale dell’uomo. La liberazione dai legami del mondo e della materia è altrettanto incompatibile con la convinzione cristiana della positività tanto del creato quanto della dimensione terrena. Né ha senso, come fanno in molti, distinguere lo Yoga come pura tecnica di rilassamento dallo Yoga come filosofia di vita. Non ha senso perché le due fasi classiche ( Hatha Yoga e Raja Yoga) sono in una successione di propedeuticità e di complementarietà. Il primo, lo Hatha Yoga, si propone il controllo totale del corpo e delle energie attraverso una rigorosa pratica di esercizi fisici; il secondo, il Raja Yoga, è la forma successiva dove si raggiungerebbe l’intuizione suprema dell’unità del tutto, che è puro monismo panteista, cioè identificazione del divino con la natura, anche quella umana. La prima fase non ha senso senza la seconda. Quando si è ancora al livello più basso deve esserci il desiderio di proseguire, tra l’Hatha e il Raja c’è successione e non alternatività. Caro (…), l’insalata russa, gastronomicamente, sarà anche una leccornia; ma, religiosamente, è una poltiglia insapore ed indigesta.

Misericordia sì… misericordismo no!

Una lettrice: In questi tempi si parla molto di misericordia di Dio, ma non della sua giustizia. Vorrei avere un loro parere. E’ giusto che si insista molto su questo punto? Non si corre il rischio di banalizzare l’offesa a Dio, cioè il peccato? Quando io ero giovane si sentivano omelie e consigli spirituali di tutt’altro tenore. Cara (…), mi permetta una premessa importante. Che Dio sia infinitamente misericordioso è dottrina di fede che non può essere affatto messa in discussione. Che s’insista molto su questo punto, ritengo sia opportuno. D’altronde chi può dirsi di non aver bisogno di questa consolante verità? Altrimenti corriamo il rischio di fare la fine del “bravo” fariseo che non tornò a casa giustificato a differenza del povero peccatore. Detto questo, c’è un “ma”. Ciò che oggi pone problema (ecco perché sono d’accordo con le sue perplessità) non è che s’insista sulla misericordia infinita di Dio, è che questa insistenza non è accompagnata da un’altra, ovvero che Dio oltre ad essere infinitamente misericordioso è anche perfettamente giusto. Dio perdona sempre il peccatore pentito, ma castiga quello impenitente e quello che (è importante sottolinearlo oggi) tenda ad abusare della sua misericordia. Forse, cara (…), mi sarà già capitato di ricordarlo (non lo so) ma c’è una frase di san Pio da Pietrelcina che relativamente a questo argomento cade come a pennello. Egli disse: “A me non fa tanto paura la giustizia, quanto la misericordia di Dio.” Detta così, sembra una frase senza senso e invece il senso ce l’ha eccome. E’ stesso il Santo Cappuccino a spiegarla. Della giustizia di Dio -diceva- non si può abusare, mentre della sua misericordia sì. Ecco il punto. Pensi, cara (…), che un grande teologo moralista, qual è stato sant’Alfonso Maria dei Liguori, che tanto ha scritto contro il rigorismo giansenista, diceva che per i peccatori recidivi di peccati gravi, arrivati alla terza caduta, qualora non vi fossero stati segnali oggettivi di progresso (tempo

trascorso, altre occasioni di peccato vinte, ecc…) si poneva seriamente il problema ai confessori di assolverli, pena il pericolo di rendersi complici del peccato di sacrilegio. San Pio da Pietrelcina seguiva attentamente la linea di sant’Alfonso. Capitava spesso che non assolvesse immediatamente, rimandando i penitenti. Questi, dapprima ne avevano a male, ma poi, proprio grazie alla dura esperienza di essersi visti respinti dal confessore, riflettevano seriamente sulla gravità dei peccati commessi e tornavano da san Pio non solo veramente pentiti, ma anche disposti a cambiare vita seriamente. Non pochi di loro mutarono così bene la loro condotta da divenire tra i migliori figli spirituali del Santo. Sempre a questo proposito, cara (…), le dò da leggere ciò che dice il citato sant’Alfonso in un suo sermone (in occasione della Domenica di Quinquagesima): “ Viene a dire che Dio ha pazienza, ed aspetta sino a certa misura; ma quando è piena già la misura dei peccati che egli ha determinato di perdonare, più non perdona, e castiga il peccatore, o facendolo morire improvvisamente nello stato infelice in cui si trova; oppure abbandonandolo nel suo peccato secondo il castigo minacciato per il profeta: Auferam sepem eius et erit in direptionem (Isa. 5. 5). Se uno ha un territorio che l'ha coltivato per più anni, vi ha piantata la siepe dintorno per tenerlo custodito e vi ha fatte molte spese; ma vede che con tutto ciò il territorio non gli rende alcun frutto; che fa? Scassa la siepe e lo lascia in abbandono, aperto ad entrarvi chi vuole, uomini e bestie. Così tremate che Dio non faccia con voi. Se non lasciate il peccato, andrete perdendo sempre più il rimorso di coscienza, il timore del castigo divino; ed ecco che tolta la siepe, resterete abbandonati da Dio, castigo peggiore della stessa morte.” E allora come concludere, cara (…)? Confidiamo nell’infinita misericordia di Dio, ma impegnandoci seriamente a raggiungere la santità …per non incorrere nei castighi della perfettissima giustizia di Dio.

Monogenismo o poligenismo… che scegliere?

Un lettore: Ho sentito recentemente parlare di monogenismo e di poligenismo a proposito del fatto se l’umanità sia scaturita o meno da una sola coppia. Gradirei sapere come la dottrina cattolica risolve la questione. D’altronde molti sono convinti che non sia possibile che un’umanità fatta da miliardi e miliardi di individui possa essere scaturita da una sola coppia. Voi cosa ne pensate? Caro (…), per tanto tempo si è detto ch’era impossibile credere che l’umanità intera si fosse sviluppata da una sola coppia. Da questa convinzione è scaturita la teoria poligenista che si è contrapposta a quella monogenista. Per monogenismo si intende la convinzione secondo cui l’intero genere umano sia scaturito da una sola coppia, mentre il poligenismo afferma che il genere umano sia scaturito da più coppie. La dottrina cattolica come si pone di fronte a questa questione? Per essa è accettabile solo il monogenismo. Scrive Pio XII nell’ Humani generis del 1950: “I fedeli non possono abbracciare (il poligenismo, perché inconciliabile) con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un peccato veramente commesso da Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio.” Infatti, san Paolo dice in Romani 5, 12-19: “Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. (…) . Quindi, come per il delitto di uno solo venne sopra tutti gli uomini la dannazione, così per la giustificazione di uno solo è in tutti gli uomini la giustificazione vivificante. Così pure per la disobbedienza di un solo uomo, molti sono costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo, molti saranno costituiti giusti.” Caro (…), quando Pio XII disse quello che disse nella sua Humani generis ci fu una levata di scudi: ma è mai possibile –dicevano in molti- che la Chiesa vada

così contro l’evidenza? Come si può credere, in pieno XX secolo, che miliardi e miliardi di uomini possano essere scaturiti da una sola coppia? L’ Humani generis è del 1950 e solo tre anni dopo l’americano Watson e l’inglese Crick scoprirono il DNA. Ebbene, oggi, attraverso l’analisi del nucleo mitocondriale, sappiamo che l’intero genere umano è scaturito da una sola madre. Viene da ricordare la celebre frase di Pasteur: “Poca scienza può allontanare da Dio, ma molta scienza avvicina a Lui.” Parafrasando: più progrediscono le conoscenze scientifiche e più la Rivelazione viene confermata. D’altronde, caro (…), non può che essere che così. Come ho ricordato citando l’ Humani generis di Pio XII e san Paolo, negare il monogenismo vuol dire negare il peccato originale e, negando quest’ultimo, si nega il Cristianesimo stesso nullificando tutta l’opera redentiva di Cristo. Caro (…), dobbiamo stare molto attenti su questo punto. Il peccato originale è necessario per capire il Cristianesimo e anche per capire e cogliere l’’autentica dimensione della libertà umana che smentisce le tante derive deterministiche e utopiche delle ideologie sviluppatesi nella modernità. Molti teologi contemporanei, che spesso indulgono in derive “razionaliste” ed “evoluzioniste” del dato rivelato, dovrebbero stare molto attenti. Il Concilio di Trento parla in maniera chiara (Sessione V, decreto sul peccato originale, canone 1): “Se qualcuno non confessa che Adamo, il primo uomo, Adamo, avendo trasgredito il comandamento di Dio nel paradiso, abbia subito perduto la santità e la giustizia in cui era stato costituito, e abbia incorso, per l’offesa di tale prevaricazione, l’ira e l’indignazione di Dio, e perciò la morte, che prima Dio gli aveva minacciato, e con la morte, la schiavitù sotto la potestà di colui che di poi ebbe l’impero della morte, e cioè del diavolo, e che tutto Adamo sia stato mutato in peggio nel corpo e nell’anima per quella offesa di prevaricazione, sia scomunicato.”

Dall’invocazione all’utilizzazione

Una lettrice: Recentemente sono stati pubblicate statistiche in merito all’uso di sostanze stupefacenti da parte dei giovani. Sono cifre terribili. Ci stiamo letteralmente assuefacendo all’autodistruzione. Ma cosa sta accadendo? Sono una mamma e non vi dico che preoccupazione che ho… Gentilissima amica, un grande santo come Alfonso Maria de’ Liguori amava dire: “Chi prega si salva, chi non prega si danna.” C’è un grande aumento di sostanze stupefacenti e di cocaina. A proposito di quest’ultima, da tempo il Ministero dell’Interno ne denuncia aumenti di consumo. Addirittura si riconosce che è così grande la richiesta di tale sostanza, da poter difficilmente arginarne il mercato. Una così grande richiesta ne attesta la diffusione in tutte le fasce sociali. Si parla di giovani, di adulti e perfino di anziani. Si parla di disoccupati, di operai, di camionisti, e -ancor più previdibilmente- di artisti, di politici e di professionisti. Si parla anche di chirurghi che prima di operare utilizzerebbero la cocaina per ottenere la concentrazione adatta. Riprendiamo la frase di sant'Alfonso. Essa esprime una verità indiscutibile: solo chi prega può conquistare il Paradiso. Ma questo significato primo ne sottende altri ( secondi ma non secondari). Per esempio, sottende il fatto che senza la sapienza dell' invocazione l'uomo smarrisce la comprensione di se stesso e della sua solitudine, cioè del fatto che può sentirsi “solo” dentro ogni avversità. Invocare significa anche "chiamare dentro": non solamente “chiamare”, ma chiamare affinché colui che viene chiamato possa fare qualcosa in qualcosa: in un problema o in una situazione. Dunque, invoca chi fa esperienza della solitudine, della solitudine in un problema: Come faccio da solo ad affrontare questo problema? Chi me ne darà la forza? Cara amica, l'assurdità del nostro tempo è nell'aver censurato il bisogno della compagnia (si crede di potercela fare da sé) per sostituire all' invocazione l'

utilizzazione. Tanto nell' invocazione quanto nell' utilizzazione l'uomo cerca di risolvere il suo problema. Se però l' invocazione nasce dal desiderio di colmare una solitudine; l' utilizzazione invece implica la presunzione secondo cui non serve un “altro”, ma solo un “qualcosa” per poter risolvere, da solo, il problema. L’ invocazione sottende un rapporto interpersonale (s'invoca soprattutto una persona) e quindi sottende una sorta di abbraccio; l' utilizzazione sottende invece un rapporto strumentale e quindi una sorta di possesso: il possesso di uno strumento e basta. La persona s' invoca, l'oggetto si utilizza. Il paradosso attuale dov'è? E' nel fatto che l'uomo contemporaneo, per non umiliarsi, ha rinunciato ad invocare; e ha deciso, per possedere, di utilizzare. Ne è scaturito che, rinunciando ad invocare, l'uomo (per possedere e per non allontanarsi dall’illusione di poter bastare a se stesso) ha perduto proprio se stesso, autodistruggendosi. La forza non è più da ottenere nell’ invocazione (la preghiera), ma nell’ utilizzazione (per esempio della droga). La droga è sempre esistita, è però divenuta sociologicamente diffusa a causa di cattivi maestri, ma anche perché ha trovato un terreno fertile su cui attecchire. Il terreno fertile sta proprio in un uomo a cui è stato insegnato ad utilizzare e non ad invocare, a cui è stato insegnato che può farcela da sé: che avrebbe bisogno solo di qualcosa e poi tutto si risolverà. Cara amica, la soluzione? Fermo restando l’importanza di utilizzare ogni mezzo per arginare e penalizzare il fenomeno, va proclamata la Verità sui tetti. Bisogna conquistare le anime a Dio. Bisogna entusiasmare alla bellezza della verità cristiana. Infatti, il Cristianesimo è l’unica religione che davvero riesce a colmare ogni solitudine. Primo: è determinante sapere che il Dio cristiano è talmente disposto ad amare la sua creatura, da aver dato tutto se stesso …fino al punto di farsi addirittura mangiare. Altro che droga! Secondo: solo il Cristianesimo offre la centralità della tenerezza materna nella dimensione esistenziale. Il Dio cristiano dona l’Immacolata, Colei che permette di affondare tutte le angosce nella dolcissima tenerezza di una madre. Non è un caso che i santi amassero e amino dire: “Gesù e Maria, voi siete l’unica ragione della vita mia!”

La clonazione? Il problema parte dalla fecondazione in vitro

Un lettore: Carissimi, gradirei porvi una questione. Non molto tempo fa venne diffusa la notizia che in Cina si sarebbe riusciti a operare la clonazione di due scimmie. La notizia ovviamente destò molto scalpore. E anche a me turbò non poco, anche perché sono convinto che ormai stiamo prendendo un crinale da cui non solo non è possibile uscirne, ma in cui non ci si vuole nemmeno fermare. Io sono inoltre convinto (e su questo vorrei avere conferma da voi) che, quando si legittima la fecondazione artificiale della vita umana, non si può non arrivare a queste aberrazioni. Siete d’accordo con me? Caro (…), ricordiamo perfettamente la notizia secondo cui avrebbero recentemente in Cina clonato due esemplari di macachi. In realtà va detto che di casi di clonazione ce ne sono già stati, anche non recentemente. Ma è indubbio che questa notizia colpisce in misura maggiore per una certa (“certa”, si badi bene) somiglianza genetica tra questi animali e l’uomo. Per cui il timore è che queste operazioni possano essere fatte a breve anche per la generazione umana. E’ evidente, caro (…), che si tratterebbe di cosa abominevole. Non mi intrattengo su questo perché penso sia argomento a disposizione di tutti coloro che abbiano almeno un po’ di buon senso. Mi preme però ricordare una cosa importante a conferma della sua intuizione. Quando usci l’enciclica Humanae Vitae (1968) si attaccò soprattutto la sottolineatura che in questo documento veniva fatta dell’unione indissolubile tra atto coniugale e generazione della vita. Una sottolineatura che poi fu fatta propria anche dai documenti successivi con cui fu condannata apertamente qualsiasi tipo di fecondazione artificiale. Il principio era ed è chiaro: la vita non può prescindere dall’atto coniugale, perché essa è qualcosa che l’uomo può

proporre, ma non tecnicamente disporre. Qualora si svincolasse la generazione della vita dall’atto coniugale, ci sarebbe una riduzione meccanica della generazione e tutto potrebbe divenire possibile. Tutto! A proposito della FIVET, quando qualche teologo obiettò che si poteva ammettere, perché nel caso della fecondazione omologa vi sarebbe comunque la presenza di atti coniugali all’interno della coppia di sposi, il Magistero giustamente tenne fermo sulla condanna ad oltranza. Tutto questo per una logica ben precisa. A parte che la FIVET omologa richiede anch’essa il sacrificio di embrioni (che sono vita a tutti gli effetti), a parte questo -dicevo- svincolare la generazione da un ben preciso atto di amore coniugale, vuol dire rendere possibile la vita al di fuori del mistero e dell’amore stesso; e quindi renderla a disposizione della volontà di potenza di ognuno. Ora, caro (…), tutto questo a conferma del fatto che lei ha intuito molto bene che c’è un legame tra fecondazione in vitro per generare una nuova vita e possibile clonazione umana. Se il singolo atto coniugale diviene un optional per la generazione della vita, allora questa può “coerentemente” divenire una sorta di palla impazzita e generare tutto ciò che tecnicamente è possibile fare.

La sciocchezza del Purgatorio come “invenzione” medioevale

Un lettore: Mia figlia ha frequentato il primo liceo classico. Mi ha detto che la sua professoressa di italiano, spiegando Dante, ha parlato del Purgatorio come un’ “invenzione” della Chiesa medievale. Mia figlia ha cercato di obiettare, ma era scritto proprio così sul libro di letteratura. Come si può rispondere? Caro (…), purtroppo nei testi scolastici spesso si afferma che il Purgatorio sia una verità che non abbia alcun fondamento biblico e che sia stata una sorta di “invenzione” della Chiesa medievale, per incrementare indulgenze e Messe di suffragio…e i nostri figli frequentemente ci cascano. Ma non è affatto così. Prima di tutto va detto che la Sacra Scrittura fa riferimento al Purgatorio. Nell’Antico Testamento vi è l’episodio riguardante la morte di Aronne, allorquando vennero offerti sacrifici per trenta giorni. Ora, se è possibile offrire sacrifici per un defunto, vuol dire che il defunto può espiare anche dopo la morte. Sempre restando all’Antico Testamento ancora più importante è il capitolo 12 del Secondo Libro dei Maccabei, dove si narra che Giuda Maccabeo, dopo che gli Ebrei ebbero vinto un’importante battaglia per la loro indipendenza, si recò sul campo di battaglia e si accorse che sotto la tunica di ciascun caduto vi erano oggetti idolatrici, fu così che decise di pregare e fece anche pregare il popolo d’Israele affinché Dio perdonasse il peccato di quei soldati. Si legge ancora che Giuda Maccabeo fece fare una colletta e la inviò a Gerusalemme affinché fosse offerto un sacrificio espiatorio. Dunque, un sacrificio espiatorio per i defunti, il che vuol dire che vi era la convinzione che si potesse pregare per i defunti, il che vuol dire anche che si era convinti che nell’aldilà ci fosse un “luogo” di espiazione. Passando al Nuovo Testamento importante è ciò che è scritto al capitolo 5 del vangelo di San Matteo: “Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato

in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo.” (5, 25-26). Ancora il vangelo di San Matteo: “Perciò io vi dico: qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro.” (12, 31-32). Significativo è anche ciò che è scritto nella Prima Lettera ai Corinti: “Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito; tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco.” (1 Corinti 3, 10-17). Basterebbe questo per capire quanto la verità del Purgatorio abbia un fondamento biblico. Ma aggiungiamo qualche altra cosa. Un esempio si può trarre dal diario di santa Perpetua, santa che fu martirizzata a Cartagine il 7 marzo del 203. Mentre si trovava in prigione, Perpetua ebbe una duplice visione. Nella prima vide suo fratello Dinocrate, “morto a sette anni per un cancro che gli aveva devastato la faccia” al punto che, scrisse la Santa, “la sua morte aveva fatto inorridire tutti.” Perpetua vide il suo fratellino uscire “da un luogo tenebroso dove vi era molta altra gente; era accaldato e assetato, sudicio e pallido. Il volto era sfigurato dalla piaga che l’aveva ucciso.” E, sempre in questa prima visione, santa Perpetua vide suo fratello che cercava, senza riuscirci, di bere ad una piscina e con ciò capì che Dinocrate stava soffrendo. Impietosita da questa visione, pregò per l’anima del suo fratellino. Il Signore ascoltò le sue preghiere e in una seconda visione poté vedere Dinocrate perfettamente guarito, in grado di bere, capace di giocare come fanno tutti i bambini. Interpretando questa seconda visione, Perpetua scrisse: “Mi svegliai e compresi che la pena (del Purgatorio) gli era stata rimessa.” Ebbene, questo diario è sicuramente prima del 203, anno di morte della Santa. Quindi, di un periodo molto precedente al medioevo! E’ del II secolo una famosa iscrizione tombale, quella di Abercio, forse vescovo di Ierapoli in Asia Minore. Fu proprio lui a comporre, prima di morire, il suo epitaffio, che dice: “Queste cose dettai direttamente io, Abercio, quando avevo precisamente settantadue anni di età. Vedendole e comprendendole, preghi per Abercio.” Dunque, Abercio invita colui che sulla

sua tomba a pregare per lui, il che vuol dire che Abercio (II secolo!) è convinto dell’esistenza del Purgatorio. Un’altra preziosa testimonianza ci viene data da Tertulliano (155-222), che nel De Corona scrive: “Nel giorno anniversario facciamo preghiere per i defunti.” Ancora un’altra testimonianza da Tertulliano. Egli scrive nel De monogamia: “La moglie sopravvissuta al marito offre preghiere per la gioia di suo marito nei giorni anniversari della sua morte.” Anche sant’Agostino ci è di aiuto. Nel De fide, spe et caritate scrive: “Non si può negare che le anime dei defunti possono essere aiutate dalla pietà dei loro cari ancora in vita, quando è offerto per loro il sacrificio del Mediatore (la Santa Messa) , oppure mediante elemosine.” E sant’Agostino è vissuto tra il IV e il V secolo! E per finire: sant’Efrem di Siro (306-373) scrive nel suo Testamentum: “Nel trigesimo della mia morte ricordatevi di me, fratelli, nella preghiera. I morti infatti ricevono aiuto dalla preghiera fatta dai vivi.” Caro (…), penso che ciò possa bastare per smontare la menzogna di un Purgatorio “inventato” nel medioevo.

Il tabù della morte

Un lettore: Cari amici di Radici Cristiane, ho notato che nella società in cui viviamo si riflette poco sulla morte, cioè sul destino dell’uomo. Eppure nei notiziari, per televisione, per radio, è un continuo parlare di catastrofi e tragedie, nonché di assassinii. Capisco che la questione è profonda, ma gradirei conoscere il vostro parere del perché di questa contraddizione…se è contraddizione. Caro (…), gli attuali mezzi di comunicazione banalizzano il reale, arrivando a renderlo funzionale alla comunicazione. Ormai siamo arrivati al punto (la considerazione ovviamente non è mia) in cui non è l’informazione per la notizia, ma il contrario: è la notizia per l’informazione. Lei ha citato la questione della morte. Indubbiamente su questa si esprime una sorta di “schizofrenia” della cultura contemporanea. Da una parte –come dicevoi mezzi di comunicazione tentano di banalizzare la morte, spettacolizzandola. Basterebbe pensare a ciò che accade per gli omicidi passionali. Dal post-pranzo fino a pomeriggio inoltrato se ne parla scandagliando tutto, ficcando il naso fin nelle faccende più intime di malcapitati e sospettati, arrivando a proporre – diciamocelo francamente- una sorta di “pornografia del dolore”; dall’altra, la morte figura come il grande tabù dei nostri tempi. Un tabù che non tanto è ravvisabile nel fatto che non se ne debba parlare, quanto nel fatto che vadano spese tutte le energie per cercare di darne una spiegazione che renda “controllabile” l’imponderabilità e la facilità della morte. Caro (…), non so se ci ha fatto caso, ma quando avviene una catastrofe naturale, o anche un omicidio efferato, c’è sempre una ricerca dell’eventuale responsabile o responsabili. Una ricerca spasmodica di qualcosa che non ha funzionato e che, se avesse funzionato, non avrebbe reso possibile ciò che è successo. Insomma, si nega l’imponderabilità e la facilità della morte, perché a questa (alla morte) l’uomo contemporaneo non sa più dare un senso, cioè una ragione. E i motivi ovviamente stanno nel fatto che l’uomo di oggi vive come se Dio non esistesse (ateismo pratico). Invece non c’è nulla da fare: la morte è sempre in agguato.

Quanto vere sono le parole che sant’Alfonso Maria de’ Liguori scrive nelle sue Massime eterne: “Che ci vuole a morire? Una gocciola che cade sul cuore, una vena che ti si rompa nel petto, una soffocazione di catarro, un torrente impetuoso di sangue, un animaletto velenoso che ti morda, una febbre, una puntura, una piaga, una inondazione, un terremoto, un fulmine, un lampo basta a levarti la vita. Quanti la sera si sono posti a dormire e la mattina si son trovati morti. Non può forse ciò succedere anche a te?”

Un tempo l’uomo conviveva con la morte. Non solo perché era facile morire: bastava poco, una semplice polmonite …e via; ma anche perché la morte non faceva tanto paura. C’era sì il timore (quello è ineliminabile), ma non c’era la fobia della morte. E questo perché l’uomo di un tempo viveva nella convinzione dell’esistenza di Dio. Oggi non è più così. L’uomo contemporaneo beneficia di un’aspettativa di vita che è quella che è. La vita media si è allungata, così come vi è un’aspettativa di vita tutt’altro che trascurabile anche in casi di gravi malattie, ma la morte fa terribilmente paura. Ed ecco, caro (…), il paradosso di cui parlavo precedentemente. Il sistema massmediatico contemporaneo enfatizza singole morti, costringendo il fruitore di tale sistema a riflettere sull’accaduto che viene proposto, analizzato, discusso e dibattuto; ma poi la Morte (con la “M” maiuscola) viene occultata. Un conto sono i “morti” e le singole “morti”, altro la Morte! Caro (…), eppure la soluzione ci sarebbe per rapportarsi bene alla morte e quindi per potersi riconciliare con la vita. Ne Il fu Mattia Pascal Luigi Pirandello dice una cosa vera: “Non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte. Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscire da questo labirinto, il lume insomma deve venirci di là, dalla morte.”

Perché non si sopportano più gli inginocchiatoi?

Un lettore: Da tempo mi sono accorto che diminuiscono gli inginocchiatoi nelle chiese. Anzi, nelle costruzioni moderne, spesso si trovano banchi senza la parte deputata ad accogliere il fedele genuflesso. Non ne capisco il motivo. Ho pensato inizialmente che ciò potesse in tal modo facilitare uno stile più penitenziale: inginocchiarsi a terra è molto più scomodo che farlo su assi con le imbottiture. Ma ho capito che non può essere questa la spiegazione. Anche perché ci sono i bambini, ci sono soprattutto le persone anziane. Cosa mi dite? Caro (…), la sua impressione non è affatto sbagliata. E’ notizia di questi giorni che finanche nella Basilica di Loreto abbiano messo molti banchi senza inginocchiatoi. Ed ormai da diversi anni questa tipologia di acquisti sta diventando una moda. Per cui devo dirle che c’ha preso! La spiegazione ovviamente non sta in un invito a fare maggiori penitenze, tutt’altro. Anzi, la spiegazione è più semplice di quanto possiamo immaginare, e sta in una definizione: “aula liturgica”. Oggi molte chiese non vengono più definite tali, ma –appunto- “aule liturgiche”. L’avversione verso gli inginocchiatoi non riguarda il fatto che essi occupino più spazio, bensì che le chiese oggi non devono essere tanto chiese quanto piuttosto aule. Caro (…), la chiesa implica il concetto di luogo con una presenza, l’ aula invece il concetto di luogo per riunirsi. Una chiesa vuota, rimane chiesa, perché c’è Lui, c’è Dio in corpo, sangue (anche nell’ostia c’è il sangue!), anima e divinità nel Santissimo Sacramento; ma un’ aula vuota non è più nulla, a causa del suo essere vuota in quanto la sua ragion d’essere è solo nell’accogliere un’assemblea Dunque, caro (…), la situazione è chiara: l’accento si deve spostare dall’ adorazione alla partecipazione. La liturgia non deve più fondarsi sull’

adorazione, bensì sulla partecipazione, non più sul ricevere, ma sul dare. Quando si riceve, la posizione più naturale è inginocchiarsi o tutt’al più inchinarsi; quando invece si dà, la posizione più naturale è quella di rimanere in piedi. Insomma, tutto questo rientra logicamente in quella famosa svolta antropologica che segnò la riforma liturgica. Dalla centralità di Dio alla “centralità” dell’uomo. L’uomo, perfettamente consapevole della sua dignità, non dovrebbe più inginocchiarsi dinanzi a Dio, perché Dio non vorrebbe più questo. Ora, caro (…), oltre al fatto che l’uomo diventa veramente grande quando si inginocchia e non quando stupidamente allarga le spalle o gonfia il petto, perché solo inginocchiandosi dà ragione coerentemente al suo essere che è segnato inevitabilmente dall’esigenza di invocare… oltre a questo -dicevo- è un’illusione credere che l’uomo possa essere talmente maturo da non doversi più inginocchiare. L’uomo quando non s’inginocchia più dinanzi a Dio, finirà con l’inginocchiarsi dinanzi agli idoli: il potere, le mode, il mondo… Ciò che purtroppo, caro (…), sta capitando a tanti cattolici e a tanta sedicente cultura e teologia cattoliche ormai da molti anni a questa parte.

Senza la vita eterna, il Cristianesimo non lo si capisce

Un lettore: L’annuncio cristiano si è troppo appiattito su questioni sociali e terrene. Mi sembra, questo, un grande tradimento del Vangelo. Voi cosa ne pensate? Caro (…), ha colto nel segno. Per tanti, troppi, cristiani oggi i veri problemi sono tutti nel mondo: la guerra, il terrorismo, la fame, l’ingiustizia sociale. Tutti problemi seri, per carità! Ma sono davvero i problemi più gravi? Forse, a riguardo, un po’ di ripasso del catechismo non farebbe male. Dio non è venuto nel mondo per eliminare la guerra e il terrorismo, né per offrire il panino a tutti risolvendo i problemi della fame e della giustizia sociale, ma per portare la salvezza con la “S” maiuscola. Certo, i cristiani devono anche alleviare questi problemi, sforzarsi di costruire un mondo dove questi problemi possano essere ridotti il più possibile; ma prima di tutto devono essere portatori di quella salvezza che il Dio incarnato, patendo e morendo, ha conquistato per noi. Caro (…), il cristiano deve convincersi che il problema più grande è il peccato, e che è questo la causa di tutti gli altri problemi: guerra, ingiustizia, ecc. E deve convincersi anche che la disgrazia più grande è perdere il Paradiso. Eppure, oggi, queste cose non vengono più dette; e la confusione regna. Ma perché non vengono più dette? Per almeno due false convinzioni che hanno caratterizzato e che caratterizzano la teologia contemporanea. Primo: la convinzione secondo cui l’Incarnazione sarebbe un avvenimento salvifico indipendentemente dalla scelta individuale. Secondo: la convinzione secondo cui la storia non sarebbe solo il “luogo” della Rivelazione, ma Rivelazione anch’essa. Semplifichiamo. La prima convinzione dice che il Verbo, incarnandosi, non solo avrebbe redento

il mondo, ma avrebbe salvato automaticamente tutti gli uomini. Questi, indipendentemente dall’esercizio della loro volontà e libertà, quasi per inerzia sarebbero salvati grazie alla passione e alla morte di Gesù. La seconda convinzione, invece, dice che la storia non sarebbe solo il campo in cui l’uomo è chiamato a scegliere tra Dio e il male, ma una sorta di rivelazione che in maniera incontrovertibile condurrebbe l’uomo e le civiltà verso il progresso materiale e la salvezza eterna. E’ evidente che da queste convinzioni non può che venirne fuori un’altra, e cioè che, risolto il problema della vita eterna (tutti si salvano), non resta che risolvere il problema della vita su questa terra. Tutti i nostri sforzi e tutte le nostre preghiere dovrebbero solo rivolgersi alla risoluzione dei problemi di questo mondo. Questo modo di pensare, però, non solo va contro la dottrina di sempre della Chiesa, ma dimostra una fragilità enorme. Se Dio ha già salvato tutti, perché permette la sofferenza? Perché permette l’ingiustizia? Perché soffre un bimbo? Perché avvengono catastrofi in cui a morire sono migliaia e migliaia di innocenti? A cosa serve questa sofferenza? A cosa l’ingiustizia? E’ mai possibile che un Dio a cui non serve la nostra libertà, possa poi permettere la sofferenza per provare la nostra libertà? Caro (…), c’è una grande contraddizione in questo errato modo di pensare. Da una parte, ci si concentra sul mondo per rendere Dio troppo amico del mondo; dall’altra, è proprio ciò che accade nel mondo a dimostrare la “spietatezza” di Dio. Infatti, che senso avrebbe la salvezza ultraterrena di tutti se poi su questa terra permanesse la più grande ingiustizia: il dolore ripartito in parti non uguali, l’innocente che può soccombere e il malvagio che può prosperare? Dobbiamo invece tener presente che la Verità rivelata, la dottrina cattolica, è così perfetta e armonica che, quando volessimo togliere qualcosa o annacquare altro, non solo non raggiungeremmo lo scopo, ma renderemmo tutto palesemente contraddittorio. Caro (…), questo è stato ed è il destino di certa teologia contemporanea: alla prova della logica e del buon senso, è costretta a sciogliersi come neve al sole.

La Tratta degli schiavi negri… è proprio come viene raccontata?

Un lettore Recentemente chiacchierando con un amico che non ne vuole sentire parlare di Cattolicesimo, questi mi ha elencato tante “colpe” della Chiesa e dei cattolici, tra cui la cosiddetta “tratta degli schiavi negri” che partì dal XVI secolo. Egli mi ha detto che questa non solo fu gestita da Paesi cattolici, ma che la Chiesa non avrebbe mai denunciato. In questi casi che risposta bisogna dare? Vi sarei grato se mi aiutaste. Caro (…), indubbiamente la tratta degli schiavi provenienti dall’Africa è una grande questione che riguarda l’apologetica storica. Anche se vi è da dire che essa non chiama in causa la Chiesa e il Cristianesimo quanto la civiltà occidentale che pure dal Cristianesimo è venuta fuori. Che dire? Almeno tre cose. Primo. Questo gran brutto fenomeno si sviluppò, non a caso, dal XVI secolo. Ciò vuol dire che si trattò di un fenomeno che in un certo qual modo tradì lo sviluppo stesso dell’Occidente. Per tutto l’Alto Medioevo (periodo che arriva fino al Mille) vi fu un graduale ma deciso processo di liberazione degli schiavi, soprattutto per la diffusione della mentalità cristiana. Schiavi che, invece, costituivano gran parte delle società pagane e precristiane. Ebbene, il XVI secolo segnò un’inversione di tendenza non casuale, perché questo fu un secolo contrassegnato da una vera e propria fissazione, quella di imitare il mondo classico e pagano. Secondo. Fu questo (la tratta degli schiavi africani) un fenomeno che riguardò soprattutto i Paesi protestanti e calvinisti, cioè quei Paesi che in quel tempo erano considerati l’avanguardia del progresso. Terzo. Fu questo un fenomeno che riguardò anche gli esponenti del cosiddetto pensiero “laico”. Se andiamo oltre il XVI secolo troviamo Voltaire, razionalista e

mangiapreti doc, che era uno dei soci di una lucrosa agenzia per la tratta di schiavi negri. Non c’è che dire: un gran bell’esempio di ragione illuminata! Ma non solo Voltaire, dopo un periodo in cui era stata soppressa, nel 1802 la schiavitù fu ristabilita nelle colonie francesi da chi si credeva il paladino degli ideali della Rivoluzione francese, Napoleone Bonaparte. Detto questo, non bisogna dimenticare che anche Paesi tradizionalmente cattolici, come la Spagna, il Portogallo e soprattutto la Francia, parteciparono a questo brutto mercato. E allora che risposta dare? Perché paesi tradizionalmente cattolici hanno fatto una cosa di questo genere? Caro (…), una vera e propria risposta non c’è, se non di tipo economico. Si può però dire che questi Paesi si mossero tradendo chiaramente e consapevolmente quelli che erano gli ammonimenti della Chiesa. Le condanne dei papi iniziarono subito. Alcuni esempi: tanto Paolo IV nel 1537 quanto Pio V nel 1568 condannarono esplicitamente lo schiavismo, Urbano VIII nel 1639 definirà la tratta degli schiavi con queste testuali parole: “abominevole commercio di uomini” e nel 1734 Benedetto XIV ebbe parole di fuoco contro quei cristiani che pretendevano rendere schiavi altri uomini. Va detto inoltre che questo mercato avveniva con la necessaria complicità di molti uomini di colore . Spesso erano i capi tribù ad offrire in vendita i loro fratelli. Nell’Ottocento molti schiavi liberati misero “a frutto” la liberazione gestendo a loro volta tratte di schiavi. Per non parlare del caso della Liberia, Stato africano fondato da schiavi neri liberati da alcuni americani di buoni sentimenti (da ciò il nome “Liberia”), che per decenni ha visto la riduzione a schiavitù dei neri del posto da parte dei nuovi arrivati, neri anche loro. Inoltre, questa macchia non è solo delle società cristiane, ma anche e soprattutto di quelle islamiche. Ricordiamo che la shar’ia (l’immutabile legge desunta direttamente dal Corano) ammette la schiavitù. Caro (…), mi permetta adesso una conclusione tutta personale e, proprio perché personale, la prenda pure con le dovute pinze. Sforzandomi d’immedesimarmi in un cristiano del tempo (seppur cristiano solo di nome) intento a fare cose del genere, penso: che per caso costui non abbia avuto la possibilità di verificare il modo in cui vivevano molti uomini nelle tribù africane? Infatti, tutti quelli che

venivano deportati erano già schiavi in Africa e molti venivano anche utilizzati in sacrifici umani. Si potrebbe obiettare: ma allora perché non liberarli? Qui viene da pensare ai diversi trattamenti che questi poveri uomini subirono secondo la direzione che prendevano. Nei paesi cattolici, pensiamo al Brasile, la loro vita, seppur misera, non sarebbe mai stata contrassegnata da segregazione. Il Brasile, infatti, non ha mai conosciuto una vera e propria questione razziale. Cosa invece è successo negli Stati Uniti e nel Sudafrica calvinisti? Il Calvinismo che afferma che Dio ha già deciso di salvare e di dannare chi vuole, indipendentemente dai meriti e dai demeriti personali, ha da sempre favorito la mentalità secondo cui una differenza di colore di pelle potesse già essere un segno della non elezione da parte di Dio. Caro (…), è evidente che questa conclusione non vuole affatto essere una giustificazione di ciò che avvenne, ma un tentativo per capire e per convincerci che lo studio della storia è molto più complesso di quanto s’immagini.

La bellezza inimmaginabile della verità cristiana

Una lettrice: In alcune occasioni ho sentito dire da qualche predicatore che i racconti di resurrezione da morte, narrati nei vangeli, in realtà potrebbero anche significare altro. Potrebbero essere dei ritorni ad uno stato di coscienza dopo aver subito –per esempio- uno stato di coma. Loro che ne pensano? E’ possibile in merito a questi racconti dare un’interpretazione anche di questo tipo? A me sembra un po’ assurdo… Gent.ma (…), ciò che lei afferma e che ha sentito dire non può essere accettato, per un motivo molto semplice: l’interpretazione autentica su questi miracoli è che si trattarono di autentiche resurrezioni. Ovviamente furono resurrezioni diverse da quella che sarebbe avvenuta per Gesù. Infatti, Lazzaro, la figlia di Giairo, il figlio della vedova di Nain (e forse anche altri casi che i vangeli non riportano) furono ritorni a questa vita con un corpo ancora non glorificato, cioè un corpo con tutte le necessità della vita terrena. E quindi con un corpo ancora destinato alla morte. La resurrezione di Gesù fu invece una resurrezione che determinò la glorificazione del suo corpo. Corpo che attualmente è in Paradiso e lo sarà per l’eternità. Detto questo, aggiungo che queste interpretazioni sminuenti e più “naturali” sono un patetico tentativo di alterare quella che io definisco come “inimmaginabilità cristiana”. Chiarisco: tutto il Cristianesimo poggia su un fatto umanamente inimmaginabile qual è l’Incarnazione, ovvero che Dio non si è limitato ad apparire come uomo, bensì si è fatto veramente uomo. Ora, gent.ma (…), cosa c’è di più inimmaginabile di un Dio che si fa uomo? Se Dio si è fatto veramente uomo, tutto diviene possibile. Come disse l’Angelo a Maria nell’Annunciazione. Insomma, cara (…), è più difficile che Dio faccia risorgere un morto o che Lui stesso si faccia veramente uomo? Questo dovrebbero chiedersi in tanti e io dico “in troppi” visto che la tendenza a “naturalizzare” il Cristianesimo e i Vangeli è purtroppo molto diffusa. Ma questa posizione oltre ad essere illogica (e abbiamo

visto perché) è anche ridicola, perché –verrebbe da chiedere- a che pro dirsi cristiani se poi tutto potrebbe rientrare in una spiegazione naturale? Siamo alla follia. Pertanto, cara (…), respinga al mittente queste interpretazioni… e si lasci conquistare dalla bellezza inimmaginabile della Verità Cristiana!

Il metodo analogico per indagare Dio

Un lettore: Tempo fa, proprio da questa rubrica, si è parlato dell’esistenza di Dio. Meglio: della possibilità di conoscere con la ragione l’esistenza di Dio. Certo, si tratta di un argomento utilizzato da autentici filosofi cattolici. Anche la Teologia Cattolica tiene fermo su questa possibilità. Ma mi chiedo: è logico ritenere che il nostro modo di pensare “finito” possa rapportarsi a Dio, cioè a Colui che è infinito? Caro (…), non è affatto illogico e adesso le spiego perché. Ci sono tre metodi per rapportarsi a Dio, e quindi per rapportare la realtà naturale a quella soprannaturale, ovvero il creato al creatore. Sono: l’ univoco, l’ analogico ed l’ equivoco. Due sono errati e conducono ad errori molto pericolosi; uno invece è corretto e conduce alla verità. Mi servirò di un esempio che, caro (…), la conduce idealmente in una pinacoteca e la invita ad immaginare che ci sia una guida che sta illustrando un bel dipinto. Un primo caso. La guida, dopo aver illustrato il quadro, conclude dicendo: … il dipinto e il pittore sono la stessa realtà! Quale sarebbe la sua reazione? Certamente questa: la guida non sta utilizzando il cervello! Affermare, infatti, che il quadro e il pittore sono la stessa cosa è una illogicità. Questo è il metodo univoco, cioè la pretesa di affermare che esista perfetta identità tra la realtà naturale e quella soprannaturale, tra creato e Dio. E’ un metodo che conduce al panteismo, che è appunto la convinzione secondo cui Dio è natura sono la stessa cosa. Facciamo adesso un secondo caso. La guida, dopo aver illustrato il quadro, afferma: … non si sa se il quadro sia stato dipinto da qualcuno o sia venuto fuori così. Caro (…), la sua reazione sarebbe sempre la stessa della precedente: la guida è un matto da legare! Dire infatti che un quadro possa venir fuori dal nulla, senza nessuno che l’abbia dipinto, è un andare contro l’ordine naturale delle

cose. In questo caso abbiamo un metodo equivoco. Ovvero, tra realtà naturale e realtà soprannaturale non ci sarebbe alcun rapporto. Un metodo del genere conduce all’ agnosticismo: non si può sapere se esiste Dio, perché non ci sarebbe alcun legame tra creato e creatore. Terzo caso. La guida, dopo aver descritto il quadro, afferma: … da ciò che stiamo ammirando possiamo capire molto del pittore che l’ha fatto. Possiamo capire quanto sia stato bravo. Possiamo capire come la pensava, quali erano i suoi sentimenti, le sue motivazioni più profonde. Certo, non possiamo capire e sapere proprio tutto di lui, ma molto sì. Caro (…), in questo caso -diciamocelo francamente- non le verrebbe da sbottare, anzi. Ciò che ha detto la guida è perfettamente logico: il quadro non è il pittore, ma c’è un legame con lui, per cui osservando l’opera molto si può capire dell’artista. In questo caso il metodo è analogico: né perfetta identità tra realtà naturale e soprannaturale, né totale diseguaglianza, bensì analogia, somiglianza. Un metodo del genere conduce alla posizione più corretta: il teismo, ovvero la convinzione dell’esistenza di un Dio come causa prima, che ha creato, ma che non si confonde con il creato. Come vede, caro (…), non c’è alcuna illogicità (anzi) nel ritenere che con una ragione finita si possa indagare e scoprire l’Infinito.

Risorgimento e magia

Un lettore: Cari amici, di radici Cristiane, una volta lessi un articolo sulla grande diffusione della magia negli ambienti che hanno fatto il nostro Risorgimento. Voi cosa ne pensate? Caro (…), l’articolo a cui fa riferimento dice il vero. Gli ambienti risorgimentali subirono molto il fascino della magia. E non a caso. Ogni qual volta si vuole propagandare il razionalismo e l’anticlericalesimo, l’esito è sempre lo stesso: il dilagare dell’irrazionalismo. Il Risorgimento per porsi come inizio di una nuova società e di una nuova era, aveva bisogno di una mitologia su cui fondarsi. Bisogno questo non nuovo nel corso della storia. Era già toccato alla Rivoluzione francese. Ancor prima alla Guerra dei Trent’anni, laddove il mito dei Rosa-Croce fu ideato a tavolino per dare alla Lega protestante un fondamento para-religioso. Ebbene, caro (…), nel Risorgimento la fa da padrone il concetto mitico di segretezza. Segretezza che accomuna tanto la Massoneria, quanto la Carboneria e la stessa Giovine Italia. Tentativo di eludere il controllo poliziesco? Non solo. Le associazioni segrete avevano un proprio rituale, puntigliosamente elaborato e rispettato, che andava ben al di là di esigenze puramente di azione. Il filosofo tedesco Georg Simmel affermava, quasi in contemporanea al Risorgimento italiano, che il segreto era una delle più grandi conquiste dell’umanità. Ed un altro tedesco, Reinhart Koselleck, celebre storico dei concetti, ha sottolineato quanto l’idea di segreto sia servita alla realizzazione della modernità come categoria storica e filosofica. Segreto viene dal latino “secernere”, che vuol dire “separare”, “distinguere”. Da qui l’agire segretamente per una trasformazione radicale, per la realizzazione di qualcosa che sia totalmente nuova, che sia separata e distinta da ciò che la precede. L’agire nel segreto come agire mitico per la costruzione di qualcosa che sia altrettanto mitica. Ma questo tipo d’irrazionalismo può interessare fino ad un certo punto. Nel

Risorgimento vi fu anche un irrazionalismo di carattere individuale. L’uomo ha bisogno di risolvere nel sacro i limiti della propria condizione. Nel momento in cui il proprio bisogno di sacro non è soddisfatto nella dinamica religiosa, inevitabilmente avverrà in quella magico-irrazionale. Quanto spiritismo in Casa Savoia! E quanto spiritismo nella Torino sabauda! Massimo D’Azeglio perderà tanto del suo tempo dietro ai “tavoli ballerini”. Cavour stesso si farà protettore di molti spiritisti, fra cui Vincenzo Scarpa, suo celebre collaboratore. Quest’ultimo diventerà direttore di un periodico molto diffuso nella Torino del tempo, dal significativo titolo: “ Gli annali dello spiritismo”. Incarico prestigioso che non costituì ostacolo, anzi!… per una futura pluridecorazione da parte dello stesso Vittorio Emanuele II. Per non parlare di Giuseppe Garibaldi. Il Nizzardo, che definiva Pio IX “un metro cubo di letame”, che non sopportava la Chiesa cattolica e la gerarchia, che considerava il Cattolicesimo una stupida superstizione, si fece iniziare alla magia “egiziana”, diventò “Grande gerofante” massonico e – dulcis in fundo- praticò la medianità nell’ isola di Caprera. Nel suo scritto, Sull’arida terra di Caprera, scrisse di esser riuscito a mettersi in contatto con le anime delle piante, e che si stava sforzando di fare lo stesso per le anime delle farfalle... Caro (…), c’è da perdere la stima un po’ di tutti. Giuseppe Mazzini credeva fermamente di essere la reincarnazione di un extraterrestre. Anche lui riteneva che il Cattolicesimo fosse una stupida superstizione per ignoranti; e tutto questo non per un atteggiamento ateistico o scettico, ma per credere nella reincarnazione. Egli diceva che non si possono ricordare le vite precedenti perché ancora non si è giunti a vivere sul pianeta più in alto. Sarà solo allora che, potendo guardare in basso, così come si può fare da un ultimo piano di un palazzo, si potranno ricordare le vite precedenti. Scrisse testualmente: “Il viaggio dall’una all’altra esistenza si fa come intorno ad un’enorme piramide di modo che, pervenuti ad una certa altezza cominciamo a discernere il cammino percorso. Saliti al culmine, poi, lo si vede intero. Qui nella terra siamo in continuazione di viaggio provenienti da altri astri o pianeti. Non ce ne ricordiamo perché siamo ancora troppo in basso. Arrivati più in su, ad altre stelle, ci si scoprirà la spirale corsa e, gettandovi su l’occhio, ricorderemo il passato.” Il risultato di tutto questo? Caro (…), le faccio leggere le parole che il giornalista-editore Ferdinando Martini scrisse a Giosuè Carducci. Sono parole al di sopra di ogni sospetto perché è un massone che scrive ad un altro massone, un

risorgimentale ad un altro risorgimentale. “Dopo il male –scrive il Martini- che noi, tutti noi, caro Giosuè, abbiamo fatto siamo in grado di provvedere ai rimedi? A chi predichiamo noi? Noi, borghesia volterriana, siamo noi che abbiamo fatto i miscredenti; ora alle plebi (…) ritorneremo a parlare di un Dio che ieri abbiamo negato? Non ci presterebbero fede; parlo delle plebi delle città e dei borghi, le quali di un Dio senza chiese, senza riti, senza preti non sanno che farsene. A tutto il male che noi –non tu ed io: noi come ceto- abbiamo fatto per spensierata superbia, le tombe sono troppo scarso compenso. La scuola doveva, nelle chiacchiere dei pedagoghi, sostituire la Chiesa. Bella sostituzione! Te la raccomando! (…) ”.

Come difendere la Chiesa?

Una lettrice: Sono una catechista che dà una mano in parrocchia da tanto tempo. Da qualche anno il parroco mi affida anche dei corsi di cresima. Impegno tutt’altro che facile perché si tratta di parlare a ragazzi avvezzi a leggere, ad approfondire, che frequentano licei. Non nascondo di trovarmi non poco in difficoltà. Molti di loro mi assillano con domande tipo: “Ma dove è scritto nel Vangelo che la Chiesa debba essere gerarchica?” Oppure: “Ma come si fa a credere che la Chiesa sia divinamente assistita se la sua storia è piena di ombre?” Sono domande, queste, che mi mettono in difficoltà… Cara (…), capisco le sue difficoltà. Ciò che però non capisco è perché il suo parroco le fa fare un’attività molto delicata. Tenga presente che per gestire questi incontri occorre avere una buona conoscenza dell’apologetica …ma purtroppo oggi l’apologetica è completamente dimenticata. Comunque le rispondo, con la possibilità che questo poco spazio mi consente. Iniziamo con ordine. La questione della gerarchia. Nei Vangeli è ovviamente presente tutto, ma se pretendiamo in essi di trovare le parole che solitamente utilizziamo, qualche difficoltà immancabilmente ci viene. Eppure nei Vangeli la gerarchia della Chiesa è chiarissima. Cara (…), provi a chiedere nelle sue catechesi: “Quanti discepoli aveva Gesù?” Sicuramente le risponderanno: “Dodici!” E le dico che le risponderanno anche con sicurezza, come chi è convinto di affermare una cosa certissima. E invece non è così. I “Dodici” sono gli Apostoli, non i discepoli. Se andiamo al capitolo 10 del Vangelo di San Luca leggiamo che Gesù inviò “ settantadue discepoli” ad evangelizzare. Dunque, come minimo (può darsi anche che fossero di più) Gesù aveva settantadue discepoli. Questi avevano sì l’impegno di evangelizzare, ma lo facevano non abbandonando il luogo di origine, né la propria famiglia. Possiamo dire, utilizzando un’espressione tutt’altro che simpatica, che evangelizzavano part-time. Questi discepoli sono la prefigurazione dei laici, cioè di coloro che,

pur essendo battezzati, dunque con l’impegno di evangelizzare, non si consacrano totalmente ad essa. Ma Gesù, oltre ai discepoli, elegge gli Apostoli, che sono dodici. Questi lentamente lasceranno il loro luogo di origine, così come il proprio lavoro, per seguire Gesù giorno e notte. Saranno loro ad essere presenti, per volere di Gesù, nell’Ultima Cena dove il Signore istituirà i due sacramenti specifici del sacerdozio: l’Eucaristia e l’Ordine Sacro. Essi riceveranno il sacerdozio nella pienezza, che è l’episcopato. I presbiteri (cioè i preti) ricevono dal vescovo per delega parte del sacerdozio. Tra i Dodici Gesù ne sceglie uno come capo, Pietro: “Beato te, Simone, figlio di Giona, perché queste cose non te le ha rivelate né il sangue né la carne ma il Padre mio che è nei cieli. E io ti dico che sei ‘cefa’, roccia, e su questa roccia io fonderò la mia Chiesa. Le porte degli inferi tenteranno sempre la mia Chiesa, ma non prevarranno mai.” (Matteo 16) Ora, cara (….), se ci fa caso la gerarchia è ben chiara. C’è una piramide: 72-121. Un piccolo argomento, ma per dire che bisogna stare molto attenti e non cadere in quelle sciocchezze che dicono i simil-protestanti, ovvero che la Chiesa, il suo mistero, la sua divina struttura altro non sarebbero che pure invenzioni umane e storiche. Per quanto riguarda la questione della storia della Chiesa, deve sapere, cara (…), che è proprio questa che di fatto dimostra quanto la Chiesa stessa sia divinamente assistita. Potrei scomodare quelle famose parole che vennero dette dal cardinale Consalvi a Napoleone: “Imperatore, in tutti questi secoli non ci siamo riusciti noi preti a distruggere la Chiesa, figuriamoci se può riuscirci lei…” Ma voglio andare oltre. Per chi non crede, la Chiesa figura come un’organizzazione umana a carattere statuale con un suo diritto (quello canonico) che fondamentalmente non è mutato da duemila anni. Cara (…), provi a chiedere nelle sue catechesi: “Quale Stato o quale impero è riuscito a resistere integro e senza mutare struttura per tutto questo tempo?” Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma ci sono religioni che resistono da tanto tempo e che esistono addirittura da prima del Cristianesimo…” E’ vero, ma qui non si sta parlando della Religione cristiana, bensì della Chiesa Cattolica, che –torno a ripetere- se la si considera senza la fede, figura essere una semplice organizzazione umana. E dica anche un’altra cosa ai ragazzi del catechismo: “Per tutti coloro che hanno

voluto combattere la Chiesa… la Chiesa ne ha sempre celebrato i funerali”. La saluto e le auguro: buona catechesi!

Lo shiatsu… cos’è?

Un lettore: In questa nostra società multi…caotica, dove nascono a getto continuo iniziative di ogni genere, e dove la persona umana, individualmente unica ed irripetibile, chiamata alla sua piena umanizzazione, è di fatto come assorbita dalla massa, dai gruppi, dalle comunità, è da segnalare la novità dello Shiatsu, disciplina promossa da operatori volontari ad hoc. Voi cosa ne pensate? Caro (…), prima di tutto ricordiamo ai nostri lettori cosa è lo shiatsu. La definizione viene da due parole giapponesi: shi, che significa dito e atsu, che significa pressione. Dunque, lo shiatsu è una tecnica di pressione digitale su alcune parti del corpo. Fin qui non c’è nulla di strano. Sappiamo (e forse non pochi hanno la possibilità di sperimentarlo) che effettivamente, in periodi di particolare stress o quando si torna a casa stanchi alla sera, un massaggio diventa un metodo di rilassamento tutt’altro che trascurabile. Lo stress (ne parlo con il buon senso popolare non essendo un esperto in materia) determina un irrigidimento dei muscoli, per cui massaggi, pressioni digitali su alcune terminazioni nervose, indubbiamente causano un effetto di miorilassamento. Un rimedio della nonna per il mal di testa è quello di mettersi una fascia stretta all’altezza delle tempie per alleviare o addirittura annullare il dolore. Il fatto è però, caro (…), che il successo dello shiatsu pone due questioni che un po’ sono insite nella sua domanda. La prima riguarda cosa ci sia dietro tale tecnica, la seconda il perché di un successo così evidente. Veniamo alla prima: cosa c’è dietro questa tecnica? Lo shiatsu è solo una tecnica di rilassamento o presuppone qualche altra cosa? Se prendiamo la famosa enciclopedia online Wikipedia alla voce shiatsu troviamo scritto: “ Lo Shiatsu è una tecnica di riequilibrio energetico del corpo diffusa in Giappone sin dal VI secolo. Esso affonda le sue radici nelle forme di manipolazione e massaggio tradizionali cinesi, come l' ‘am-ma’, l' ‘an-fa’, il ‘tui-na’.” Dunque, non si tratta

di una tecnica e basta, non si tratta del classico rimedio popolare di far pressione sui nervi per distenderli, si tratta invece di una “tecnica di riequilibrio energetico del corpo”. E qui sta un punto non trascurabile che, caro (…), può avere implicazioni sul piano delle proprie convinzioni cristiane. Deve sapere che tanto le religioni orientali (Induismo e Buddismo) quanto quelle estremo-orientali (Taoismo, Confucianesimo, Shintoismo) sono accomunate da una prospettiva panteista (tecnicamente si dovrebbe parlare di monismo panteista, ma non è il caso ora di fare accademia), ovvero da una prospettiva secondo la quale esiste una sola sostanza (una sorta di divino impersonale) alla base di tutto e che le varie differenze sarebbero solo apparenti ma non reali, in quanto modi diversi di esprimersi di questo divino impersonale. Tutto sarebbe accomunato da un’energia cosmica perché tutto sarebbe sostanzialmente uguale. Si tratta di tipiche convinzioni gnostiche assolutamente incompatibili con il Cristianesimo. Ebbene, lo shiatsu presuppone il monismo panteista. L’altra questione, caro (…), è relativa al perché si diffondono tali tecniche. A riguardo ci sono due risposte possibili. La prima attiene all’atmosfera culturale. Signor (…), si è mai chiesto perché in un salotto radical-chic se uno dicesse di essere devoto della Madonna ti guarderebbero come uno sciocco di altri tempi, bigotto e stupido; mentre se uno dicesse di credere nella divinità delle zucchine e dei peperoni (il divino nella natura) ti guarderebbero a bocca aperta ammirati e affascinati? La spiegazione sta nel fatto che mentre il Cristianesimo è incompatibile con la mentalità moderna e postmoderna, perché il Cristianesimo presuppone la differenza incolmabile tra Creatore e creatura, la religiosità orientale e qualsiasi altro panteismo sono perfettamente compatibili con tali mentalità perché, di fatto, affermano che l’uomo è dio. La seconda riposta attiene ad una questione molto più terra-terra: l’ignoranza. Dice il noto proverbio: l’erba del vicino è sempre più verde. Ma perché sembra più verde? Perché la si guarda da lontano e perché, forse, non si conosce la propria. Ecco: oggi molti cercano nel “lontano” le risposte, perché, prima di tutto, non conoscono bene il “lontano” (in questo caso la religiosità orientale), ma anche perché non conoscono il “vicino”: la bellezza della verità cristiana.

Cristianesimo e Modernità

Una lettrice: Sono una mamma di una ragazza che studia filosofia al liceo. Ella ha un’insegnante che si definisce cattolica, ma che continuamente esalta il concetto di “modernità”. Dal momento che anch’io ho fatto studi filosofici, mi sembra che l’insegnante non sappia bene discernere. Loro cosa ne pensano? Cara (…), certamente nell’ambito della filosofia, una questione importante è quella relativa alla categoria della modernità. Attenzione: non a caso ho utilizzato il corsivo, perché -evidentemente– bisogna leggere questo termine ( modernità) dandogli un significato particolare. Parto affermando una cosa importante; anzi, fondamentale per capire adeguatamente tale categoria: bisogna saper distinguere tra la modernità cronologica e quella ideologica. Differenza importante, perché la modernità cronologica è una condizione temporale, quella ideologica è una condizione culturale. Se non si tiene in considerazione una tale differenza, si finirà con il prendere (come si suol dire) lucciole per lanterne arrivando a confondersi e a confondere le idee (come nel caso di sua figlia) e a non capire come stanno davvero le cose. Qualche volta, in ambito cattolico, si sente dire una frase di questo tipo: la modernità avrebbe espresso domande giuste dando però risposte sbagliate. E’ davvero così? Che forse anche in questo caso non dobbiamo tenere in considerazione la differenza di cui sopra, ovvero che la modernità cronologica non è quella culturale? E allora, cara (…), prima di tutto chiediamoci: quali sono le domande che ha posto la modernità? Interrogativo a cui -diciamolo francamente- non è difficile rispondere. La modernità come categoria filosofica (cioè culturale) ha posto fondamentalmente due comande, da intendersi come aspirazioni: la centralità dell’uomo e lo sviluppo del suo pensiero sia culturale sia scientifico. Ora, queste domande sono esclusivamente moderne? Solo la modernità le possiede? Nella

societas christiana (come si dovrebbe chiamare il Medioevo) vi era tanto una centralità dell’uomo (potremmo definirlo “antropocentrismo teocentrico”) quanto un adeguato sviluppo scientifico-tecnologico. Tanto è vero che sono state proprio la cultura e l’antropologia cristiane a determinare la traduzione della conoscenza scientifica del mondo antico in sviluppo tecnologico e quindi a far sì che il bacino del Mediterraneo “planetarizzasse” il mondo. Dal secolo XI al XIII vi fu un periodo d’intensissima attività tecnologica, addirittura tra i più fecondi della storia per quanto riguarda le innovazioni. C’è chi ha parlato di “prima rivoluzione industriale”. Lo ha fatto il francese Jean Gimpel (uno dei più famosi storici della scienza) per il quale le tecnologie dei secoli medievali costituirono le fondamenta da cui si sarebbe originata la rivoluzione industriale del XVIII secolo. Certo, le domande giuste e peculiari della modernità ci sono, ma riguardano problemi che ha posto e ha causato la modernità stessa, tanto è vero che essa ha dovuto necessariamente attingere a ciò che l’ha preceduta. Pensiamo –per esempio- a quelle encicliche sociali che hanno cercato di rispondere ai guasti di un certo tipo di industrialismo e liberismo. Dunque, cosa significa che la modernità ha posto domande giuste dando però risposte sbagliate? Lo ripeto: le cosiddette domande che ha posto la modernità sono domande perennemente presenti nell’ordine naturale che solo (o se si vuole: soprattutto) il Cristianesimo può adeguatamente promuovere grazie al suo non conflittuale, ma armonico, rapporto con la ragione e con la legge naturale. Affermare questo non significa passatismo né rinuncia al valore del progresso. Il vero progresso è acquisizione di esperienza, è utile uso della storia; guarda caso il contrario della modernità che ha fatto della storia non un mezzo ma un fine: si pensi allo storicismo, non a caso corrente filosofica determinante nella modernità. Prendere le distanze dalla modernità non vuol dire avversare qualsiasi sano sviluppo né tantomeno credere ingenuamente che l’uomo non sia collocato nel divenire storico, piuttosto tener presente che la storia è anche applicazione di una mentalità all’azione umana e che ogni epoca va valutata per questo giudizio di fondo. Il giudizio di fondo della modernità è sì la promozione dell’uomo, ma volendo trasformare l’ antropocentrismo teocentrico del medioevo in un antropocentrismo radicale; e lo sviluppo del pensiero scientifico–tecnologico in una deriva tecnocratica della stessa. Tutto questo per due motivi che non

possono essere trascurati nello studio della modernità: la dimenticanza della creaturalità dell’uomo e la negazione del peccato originale. Pio XI definì il socialismo intrinsecamente perverso per far capire come le dottrine socialiste non possono essere separate da un immanentismo di fondo, dando così un colpo notevole a chi – alla Maritain - voleva considerare il socialismo come una sorta di “eresia cristiana”: tolto l’ateismo, potrebbe essere recuperato. Lo stesso va fatto per la modernità. Lo studio della sua essenza ne palesa l’intrinseco errore e ne impedisce qualsiasi recupero. Altra cosa è il valore del progresso. Buono studio della filosofia a sua figlia!

Proprio perché Dio può tutto … non può fare il male

Una lettrice: Faccio da anni la catechista nella mia parrocchia. Cerco ovviamente di documentarmi e di prepararmi ogni qual volta devo parlare ai bambini. Ma l’altro giorno mi è capitata una domanda che mi ha messo in difficoltà, una domanda semplice che avrei dovuto prevedere ma a cui onestamente non ho mai pensato. Un bambino, un po’ più sveglio degli altri, mi ha chiesto: “Ma se Dio può tutto, può anche fare il male?” Confesso di essermi trovata in difficoltà. Mi potete aiutare? Gentilissima lettrice, lei si ricorderà certamente di sant’Agostino. Non che nella scuola italiana se ne parli molto, ma qualcosa si dice del suo pensiero e certamente si accenna alla sua concezione del male. Sant’Agostino dice che Dio è solo amore e il male non ha una derivazione divina, bensì vien fuori quando la creatura intelligente (angelo o uomo che sia), utilizzando in maniera sbagliata la libertà, decide di allontanarsi da Dio, generando per l’appunto il male, che è di fatto allontanamento da Dio, cioè non-bene. Poniamoci l’interrogativo a cui lei ha fatto cenno: Dio, che è onnipotente, può fare il male? Si sarebbe tentati di rispondere affermativamente: se Dio è onnipotente vuol dire che può fare tutto e, se può fare tutto, vuol dire che, se volesse, potrebbe anche fare il male. E invece no, cara (…), una risposta di questo tipo sarebbe totalmente sbagliata. Proprio perché Dio è onnipotente, non può fare il male; proprio perché Dio è massimamente libero (chi può essere più libero di Dio), non può fare il male. L’uomo, se volesse, potrebbe rubare, ammazzare…Dio no. Proprio perché è infinitamente più libero dell’uomo, Dio non può fare il male. Qualcuno potrebbe obiettare: molto strano! Più si è liberi e più si può; e, se più si può, più si può fare anche il male. Eh no! E’ proprio questo il punto. Dio, pur essendo massimamente libero, non può fare il male perché il male non è essere ma mancanza di essere: è non-essere. Ma se uno uccide, l’uccisione c’è. Vero, ma l’origine di quel gesto (l’omicidio) non è l’adesione all’Essere (Dio), bensì l’esito dell’allontanamento da Lui, cioè è nonessere. Sembra complicato ma non lo è.

Dunque, Dio, proprio perché è massimamente libero, non può fare il male. Questo, cara (…), sul piano pratico (ma non solo su quello pratico) ci fa capire qual è il senso della vera libertà. Solitamente si confonde la libertà naturale con quella morale e viceversa. La libertà naturale è la semplice possibilità di scegliere, per esempio tra il bene o il male. La libertà morale invece non è la semplice scelta tra due o più possibilità, ma è il liberarsi dal non-essere, il liberarsi dal male. Ed ecco perché Dio è infinitamente più libero di ognuno di noi, perché mentre noi, poiché siamo fallibili, possiamo rovinare la nostra vita, Dio invece per la sua infallibilità non può farlo. Cara (…), visto l’interessante domanda che lei ha posto, mi permetto di fare una digressione che ritengo utile e pongo una domanda: la concezione contemporanea della libertà è simile a quella della filosofia naturale e cristiana? Domanda con risposta facilmente prevedibile: no. Siamo nella postmodernità, immersi e scioccamente convinti di una concezione della libertà tipicamente postsessantottina. Il ’68 è stato un movimento soprattutto filosofico che ha voluto trasferire il concetto di “rivoluzione” dal piano socio-politico a quello antropologico, precisamente nell’interiorità dell’uomo. Secondo la concezione cristiana, il vero uomo dovrebbe rispettare in sé un rapporto gerarchico tra: istinti (alla base), la ragione (più su) e la volontà (al vertice); il ’68 invece ha proposto un nuovo tipo di uomo, totalmente istintivizzato e bestializzato proprio perché ha preteso imporre una concezione (mi si permetta il gioco di parole) totalmente libertaria della libertà. Ed ecco l’amore libero, la musica rock per disinibirsi, il libero uso degli stupefacenti e allucinogeni per (come si amava dire) “ allargare la coscienza”. Tutto questo perché –lo ripeto- la concezione della libertà di questo movimento non era quella di una libertà intesa come allontanamento da ciò che è male, ma, partendo dalla convinzione che non esisterebbe un Bene assoluto, concepiva la libertà come un valore assoluto in sé. Insomma, la libertà come pura e semplice scelta: l’uomo non si realizzerebbe nell’utilizzazione positiva della libertà, ma solo nell’esercizio stesso della libertà. Non a caso il noto esistenzialista Jean-Paul Sartre (1905-1980) diceva che l’unico criterio della vita umana è l’esercizio della propria libertà: si può fare quello che si vuole. Si pensi anche al cosiddetto situazionismo (anch’esso riferibile alla postmodernità) o etica della situazione: il giudizio morale dovrebbe adattarsi alle varie situazioni senza derivare da nessuna categoria immutabile. Ebbene, cara (…), quali le conseguenze di questa nuova concezione della libertà? L’uomo ne uscito più grande o ha constatato drammaticamente il proprio fallimento? Basta un po’ di onestà intellettuale per poter e saper rispondere.

L’uomo realizza pienamente la sua umanità (e quindi anche la sua libertà) solo ancorandosi alla Verità: Ecco perché Gesù dice: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi.” (Giovanni 8,31)

La natura anticristiana del Nazismo

Un lettore: Sono un papà di un figliuolo che frequenta l’ultimo anno di Liceo. Mio figlio mi ha riferito che il prof di Storia ha parlato del Nazismo come un fenomeno che in un certo qual modo ha ereditato la cultura cristiana. Ma io ho cercato di dire a mio figlio che il Nazismo con il Cristianesimo non ha avuto nulla a che fare, anzi… Caro (…), anni fa, per pubblicizzare il film “Amen” (film che offende la storia facendo eco alla menzogna di una responsabilità della Chiesa cattolica riguardo all’Olocausto) fu creata una locandina, ideata dal noto fotografo Oliviero Toscani, in cui era raffigurata una croce cristiana da cui fuoriusciva una svastica. L’idea era chiara: la natura del nazismo sarebbe scaturita dal cristianesimo. Ma questo è una grande sciocchezza. Prima di tutto va detto che la svastica non è un simbolo cristiano, ma precristiano; precisamente indoeuropeo; anzi, se si vuole essere precisi, abbondantemente presente nell’iconografia indù e in quella buddista. Secondo. L’essenza del nazismo non fu affatto cristiana, ma anticristiana, precisamente pagana. Adolf Hitler faceva parte di una società culturale (sarebbe meglio dire “segreta”) chiamata “Thule”, che aveva come scopo quella di restaurare l’ “anima” pagana non solo della Germania ma anche di quella che veniva ritenuta la “vera civiltà”. Non è un caso che la prima realtà a capire quale fosse la vera essenza del nazismo fu proprio la Chiesa cattolica, basti pensare alla Mit brenneder sorge di Pio XI nel 1937. Terzo. Che cos’era, nelle menti dei teorici del nazismo, questa “vera civiltà”? Non era l’Occidente, o almeno non era l’Occidente così come noi lo intendiamo. Era piuttosto la sintesi tra Oriente e Occidente. L’Occidente così come oggi si presenta era invece da rifiutare perché in contrapposizione con l’Oriente.

Quarto. Per i teorici del nazismo l’Occidente, così come esso si è formato nella storia, si è posto in contrapposizione all’Oriente soprattutto a causa della contaminazione della cultura giudaico-cristiana. Sarebbe stata questa cultura, con la valorizzazione della dignità individuale e con un inopportuno (dal punto di vista del nazismo) concetto di pietas, a snaturare l’Occidente e a spingerlo a tradire la sua vera essenza che invece sarebbe quella gnostica e pagana. Potrebbe obiettare qualcuno: ma è pur vero che Hitler ebbe dei cristiani un concetto meno severo. Verissimo. Ma non perché stimasse il cristianesimo, tutt’altro. La spiegazione sta principalmente in due motivi. Primo: al tempo del nazismo tutti i tedeschi erano cristiani, protestanti e cattolici, ma cristiani; e Hitler non poteva prescindere da questo. Secondo: Hitler pensava che i cristiani fossero in un certo qual modo vittime di quell’errore culturale ch’era principalmente dell’ebraismo. Ma tanto il nazismo ebbe anche del cristianesimo un giudizio negativo che la persecuzione contro i cristiani fu dura e decisa. San Massimiliano Kolbe si trovava ad Auschwitz perché sacerdote cattolico. Caro (…), che il prof di suo figlio legga queste citazioni. Una manciata rispetto a quelle che si possono reperire a riguardo. Sul Westdeutcher-Beobachter del 24.5.1935: Per i parroci e i vescovi ci sono campi di concentramento e non più i pulpiti delle chiese tedesche. Sul Basler National-zeitung del 31.5.1937: Dopo il discorso del ministro Goebbels, una cosa è chiara: il Terzo Reich non desidera alcun ‘modus vivendi’ con la Chiesa cattolica, bensì l’annientamento, tra le menzogne e il disonore, onde far posto ad una chiesa germanica, al cui centro sta la glorificazione del sangue tedesco. Alfred Rosenberg, uno dei teorici del nazismo, in un suo discorso del 10.12.1937: La terra che abitiamo non deve interessare la Chiesa; per le cose di questo mondo e nel nostro territorio solo il nazionalsocialismo deve dettare leggi. Adolf Hitler sul Bayrischer Kurier del 25.5.1923: Non vogliamo altro dio che la Germania. Penso, caro (…), che questo possa bastare per il prof di suo figlio.

Può esistere una guerra giusta?

Un lettore: Sono un giovane liceale. Il mio insegnante di Religione Cattolica in una lezione ha detto che per un cristiano la guerra non può mai essere giustificata; e quindi che non esisterebbe affatto una “guerra giusta”. Una tale concezione sarebbe solo un retaggio del passato quando la teologia cattolica diceva cose che oggi non sono più proponibili. A me sembra, però, che un’idea di questo tipo non solo non sia corretta, ma anche pericolosa, perché tende a relativizzare l’insegnamento della Chiesa nel corso dei secoli. Che risposta mi date a riguardo? Caro (…), mi verrebbe da dirti: un insegnante di Religione di questo tipo è meglio perderlo che trovarlo. La tua impressione è giusta. Il prof ti ha detto (anzi: vi ha detto, perché lo ha detto all’intera classe) una grande sciocchezza. E ti spiego subito, sinteticamente, cosa realmente afferma la morale cattolica. La guerra, sia difensiva che offensiva, può essere lecita, quando vi è un motivo giusto tanto grave da permettere mali gravissimi quali sono quelli provocati da una guerra. Ovviamente bisogna tener presente la proporzione tra il fine buono che si vuole raggiungere e i danni che si arrecano. Per la guerra difensiva la liceità sta nel fatto che è permesso difendersi contro un ingiusto aggressore. Per la guerra offensiva la liceità sta quando non vi sia alcuna autorità superiore che possa proteggere dei diritti importanti. Un esempio storico: le Crociate in realtà furono guerre giuste in quanto non furono motivate dall’intento di convertire con la forza i musulmani, bensì da quello di ripristinare il diritto dei cristiani di poter andare in pellegrinaggio in Terra Santa. Ovviamente, queste liceità vengono meno quando tali problemi si possono risolvere incruentemente con la diplomazia. Quando la guerra è certamente lecita, ciascuno può parteciparvi come soldato. Se esiste un dubbio circa la liceità della guerra e non si riesce a risolverlo, i soldati già reclutati possono lecitamente combattere. Ciò vale anche per i sudditi

che dallo Stato vengono obbligati alla partecipazione. A nessuno, invece, è lecito partecipare ad una guerra che sia chiaramente ingiusta. E’ però assai difficile, se non impossibile, per un suddito stabilire se una guerra sia giusta o meno. Piuttosto la responsabilità cade sui governanti. Nella condotta della guerra è lecito tutto ciò che è necessario per raggiungere il fine, sempre che non sia proibito dal diritto naturale o divino o anche dal diritto delle genti. E’ lecito: porre tranelli , usare insidie belliche , bombardare obiettivi militari e strategici , esigere prestazioni di guerra. Non è però lecito: bombardare massicciamente e indiscriminatamente, usare bombe distruttive (come per esempio quella atomica), far partecipare coloro che non sono soldati alle battaglie, uccidere i prigionieri nemici solo perché sono nemici, depredare la proprietà privata, appropriarsi di oggetti di valore dei soldati che dovessero morire senza restituirli ai legittimi eredi, forzare contribuzioni nei territori occupati per arricchirsi. Insomma, caro (…), hai avuto buon fiuto a capire che il tuo prof ha detto una grande sciocchezza. Il tuo è il classico caso in cui c’è più sapienza nell’alunno che nell’insegnante!

La teologia del cardinale Newman

Una lettore: Ho da poco letto L’elogio della coscienza di Benedetto XVI. Ritengo d’averne compresi i contenuti, la dimensione culturale, le tematiche e la prospettiva teologica. Ma m’è parsa ostica, difficile ad accettare e paradossale, la citazione del beato Henri Newman riportata a p.19 secondo cui, se si dovesse proporre un brindisi alla religione “(…) io brinderei per il Papa. Ma prima, per la coscienza, e poi per il Papa.” Prima per la coscienza e poi per il Papa: che vuol dire? Io credo che, quantomeno, vada distinta la figura e il ruolo del Pontefice nei suoi articolati e vari momenti di vita e di ministero. Quando parla e scrive per l’ordinaria azione pastorale è lecito doversi, talora, interrogare, ma quando in Lui rifulge lo Spirito della Rivelazione e della Fede, per il fedele cattolico altro non v’è se non l’obbedienza. Se non si chiarisce questo aspetto, l’espressione di Newman potrebbe legittimare una libertà “a prescindere” che potrebbe assumere forma di “libero esame”, nefasto principio i cui danni sono da secoli visibili. Chiedo, perciò, cosa vuol dire: “brindare prima alla coscienza e poi al Papa”? Caro (…), con la sua domanda lei mette in evidenza una questione importante, anzi determinante per l’essere cattolico, ovvero la necessaria obbedienza alla chiesa docente, cioè al Magistero. Indubbiamente l’essere cattolico si contraddistingue da questo. Infatti i protestanti, a qualsiasi confessione appartengano, affermano un evidente soggettivismo religioso. Venendo alla frase del cardinale Henri Newman le rispondo tenendo presente due aspetti. Il primo riguarda il fatto che le frasi autorevolissime dei santi non vanno mai considerate nelle loro singolarità, ma sempre inserite in un contesto generale, che, nel caso dei santi, non può che essere di adesione completa al Magistero e alla Tradizione perenne della Chiesa. Molto spesso tali espressioni figurano come tentativi di rispondere a particolari situazioni e nulla più. Prendiamo come esempio sant’Agostino. Si sa che il suo pensiero è stato maldestramente

interpretato da chi lo ha voluto leggere come un’anticipazione della predestinazione sul modello calvinista, ma perché? Perché il Santo di Ippona insiste molto sulla Grazia piuttosto che sulle opere, relativamente alla salvezza. Ma ciò lo fa non perché voglia discostarsi dall’autentica dottrina cattolica, quanto per rispondere ad un’eresia molto pericolosa a quei tempi, il pelagianesimo, ovvero la convinzione secondo cui la Grazia non sia necessaria per la salvezza stessa. Tanto sant’Agostino non voleva discostarsi dall’autentica dottrina cattolica che arrivò chiaramente ad affermare: Colui che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te. Il secondo aspetto verte sull’autentico pensiero di Newman. Davvero fu una sorta di cattolico liberale? Tutt’altro. Caro (…), preferisco non parlare io, ma far parlare il diretto interessato. In quello che è passato alla storia come Biglietto Speech, composto in seguito alla notizia del conferimento della berretta cardinalizia da parte di Leone XIII, Newman così scrisse: “(…) mi compiaccio di poter aggiungere che fin dall’inizio mi sono opposto ad una grande sciagura. Per trenta, quaranta, cinquant’anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione. Mai la santa Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimè! si tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra; e nella presente occasione, così grande per me, quando è naturale che io estenda lo sguardo a tutto il mondo, alla santa Chiesa e al suo futuro, non sarà spero ritenuto inopportuno che io rinnovi quella condanna che già così spesso ho pronunciato. Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. E’ contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni.” E non finisce qui. Caro (…), le voglio anche far leggere ciò che nel 1877 Newman scrisse. Si tratta di una riflessione profetica, realistica e che condanna qualsiasi spirito di ribellione: “In questi cinquant’anni ho pensato che si stiano avvicinando tempi di diffusa infedeltà, e durante questi anni le acque, infatti, sono salite come quelle di un diluvio. Prevedo un’epoca, dopo la mia morte, nella quale si potranno soltanto vedere le cime delle montagne, come isole in un vasto mare. Mi riferisco principalmente al mondo protestante; ma i leaders cattolici dovranno intraprendere grandi iniziative e raggiungere scopi importanti, e avranno bisogno di molta saggezza e di molto coraggio, se la santa Chiesa deve liberarsi da questa terribile calamità, e, sebbene qualunque prova che cada

su di lei sia solo temporanea, può essere straordinariamente dura nel suo decorso.”

La Notte di San Bartolomeo. Cosa realmente accadde?

Un lettore: Ho visto che Radici Cristiane difende molto bene la verità cattolica. Ci sono però dei fatti che gettano molta ombra sulla storia della Chiesa cattolica. Uno di questi fu la cosiddetta strage della notte di san Bartolomeo. Voi cosa ne pensate? Caro (…), capisco le sue difficoltà, però attenzione: anche su questo episodio sono state raccontate tante sciocchezze pur di fare campagna anticlericale. Era la notte tra il 23 e il 24 agosto del 1572 quando uomini armati penetrarono nella casa dell’ammiraglio di Coligny. Fu l’inizio del massacro. Caterina dei Medici (regina madre di Francia) aveva incaricato alcuni suoi uomini fidati di far scomparire i capi degli ugonotti (protestanti calvinisti) che ostacolavano i suoi progetti. Ma ben presto a questi uomini si unì la parte peggiore del popolo parigino che iniziò la caccia a chiunque fosse accusato di protestantesimo. E nei giorni che seguirono, per comando proveniente da Parigi, il massacro continuò anche nella provincia: a Troyes, Angers, Lione, Rouen, Orléans...Va detto che molti governatori cattolici si rifiutarono di eseguire l’ordine e cercarono di frenare il massacro. L’accusa è ben precisa. La Chiesa cattolica sarebbe stata l’istigatrice (o almeno la complice) della Notte di san Bartolomeo. Si dice che il papa Gregorio XIII fece cantare un Te Deum e coniare una medaglia commemorativa. Vediamo invece di chiarire perché le cose non sono da giudicarsi in questo modo. Che la Notte di san Bartolomeo fu un crimine è fuor di dubbio, ma un crimine che ebbe come unica responsabile Caterina de’ Medici e non la Chiesa cattolica. Caterina era la regina madre e voleva una cosa ben precisa: poter influenzare il giovane re Carlo IX, cercare di opporsi alle ambizioni dei Guisa (famiglia che capeggiava il partito dei cattolici) e praticare una politica di equilibrio tra ugonotti e cattolici. Nel 1572 però i protestanti erano diventati molto potenti, grazie soprattutto alle

influenze che il loro capo, l’ammiraglio Coligny, aveva su Carlo IX. La minaccia era concreta: se Coligny avesse convinto Carlo IX, la Francia sarebbe stata condotta in una guerra contro lo spagnolo Filippo II per aiutare i protestanti dei Paesi Bassi. Caterina invece non voleva affatto la guerra contro la Spagna. Allora che fece? Si avvicinò ai Guisa e machiavellicamente decise di far fuori il Coligny. Il 18 agosto si celebrò il matrimonio tra Enrico di Navarra e Margherita di Valois e da tutte le parti della Francia giunsero nobili protestanti. Il 22 agosto Coligny sfuggì ad un attentato, i protestanti minacciarono Parigi e Caterina si spaventò, disse al re ch’era stata lei ad organizzare l’attentato e si fece dare il permesso di far uccidere non solo il Coligny, ma anche tutti i capi ugonotti presenti a Parigi. Il re accettò. Rimane però da chiarire qualcos’altro. Si obietta: perché il papa san Pio V esortò Carlo IX e Caterina de’ Medici a sterminare i protestanti francesi? Va detto che le lettere sono certamente autentiche e va detto anche che quello era il tempo delle cosiddette “guerre di religione” e il papa voleva una politica vigorosa; ma non voleva affatto un massacro di persone inermi, piuttosto una lotta contro gente armata che si era ribellata e che agiva per la protestantizzazione della Francia. La Notte di san Bartolomeo non fu premeditata da nessuno, neppure dalla regina madre (cioè da Caterina), ma fu di fatto improvvisata per il panico che prese Caterina quando vide ch’era stato sventato l’attentato contro il Coligny. E’ vero che il clero di Parigi abbia fatto celebrare una Messa di ringraziamento così come papa Gregorio XIII abbia fatto cantare addirittura un Te Deum, coniare una medaglia commemorativa, si sia felicitato con Carlo IX e abbia fatto dipingere un affresco che descrive il fatto; tutto vero, ma ci si dimentica di dire che il clero di Parigi non sapeva in che modo fosse avvenuto il massacro, perché si presentò il fatto come la conseguenza di uno sventato attentato al re. Lo stesso vale per Gregorio XIII che conobbe solo la versione che dei fatti diede la corona di Francia e che diceva: “Un attentato calvinista schiacciato proprio a tempo”. Certo, i fatti sono fatti e nessuno vuole giustificarli; ma nell’analisi storica bisogna essere massimamente attenti anche ai particolari per non incorrere in letture “ideologizzate” della storia.

Il Cristianesimo tutt’intero!

Un lettore: Leggendo ogni tanto un po’ di teologia, sono venuto a sapere che nella teologia cattolica del XX secolo si è fatta strada, per motivi ecumenici, l’idea di un cristianesimo “essenziale” distinguibile da un cristianesimo da accettare nella sua interezza. A me sembra un’idea errata. Voi cosa ne pensate? Caro (…), inizio a risponderle con un esempio. Quando due persone non vanno d’accordo è da saggi proporre di pensare a ciò che è importante e di trascurare il superfluo. Le discussioni umane riguardano l’umano e, nell’ambito dell’umano, si può tendere alla verità ben sapendo che è difficilissimo raggiungere la verità tutt’intera. Questo però vale per le discussioni umane, ma non può e non deve valere per le questioni religiose, perché, in tal caso, non siamo più nell’ambito della verità umana, ma della Verità rivelata; quindi non più del tendere verso la verità, ma della conoscenza della Verità tutt’intera. Come lei dice bene, almeno dall’inizio del secolo XX nell’ambito di una certa teologia cattolica (dico “certa” perché non sempre coincide con la vera teologia cattolica) si è fatta strada la cosiddetta teoria dell’ “essenza del Cristianesimo”. Ovvero quella teoria secondo la quale il Cristianesimo sarebbe costituito da un’essenza e da elementi puramente accidentali, cioè meno importanti. Un po’ come la differenza tra la bistecca e l’insalata: la bistecca è la sostanza; l’insalata, il contorno. Insomma, questa teoria afferma che il Cristianesimo avrebbe un “cuore” che lo renderebbe tale e la semplice adesione a questa “essenza” basterebbe per definirsi cristiano. Ma per quale scopo questa certa teologia cattolica ha tenuto a lanciare una simile teoria? Anche questo -lei caro (…) l’ha detto- per motivi ecumenici. E’ evidente che il dialogo con gli ortodossi e i protestanti, in tal modo, sarebbe molto più facile. Ma si tratterebbe di pura svendita e rinnegamento del patrimonio di verità del Cattolicesimo; il dialogo si deve fare nella verità non a discapito della verità. Ora, per capire quanto questa posizione sia sbagliata basterebbe ricordare il noto

adagio “Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu”. Il bene, infatti, è nell’accettare la verità tutt’intera, perché nell’ambito della verità assoluta solo l’interezza conta. Ma adesso, caro (…), le offro qualche autorevole citazione con cui può meglio capire quanto sbagliata sia questa teoria dell’ “essenza del Cristianesimo”. Sant’Agostino, nel Commento al salmo 54 (precisamente al numero 19), afferma: “ In molte cose (di fede) concordano con me; in alcune con me non concordano; ma per quelle poche cose in cui non convengono con me a nulla serve loro essere con me d’accordo in molte.” Scrive Leone XIII nella sua Satis Cognitum: “Ripugna infatti alla ragione che anche in una sola cosa non si creda a Dio che parla. (…) Gli Ariani, i Montanisti, i Novaziani, i Quartodecimani, gli Eutichiani (qui Leone XIII elenca alcune famose eresie) non avevano abbandonato in tutto la dottrina cattolica, ma solo questa o quella parte; e tuttavia è cosa nota che essi sono stati dichiarati eretici ed espulsi dal seno della Chiesa (…). Tale è infatti la natura della fede che essa non può sussistere se si ammette un dogma e se ne ripudia un altro. (…) Colui che anche in un sol punto non assente alle verità da Dio rivelate, ha perduto tutta la fede, perché ricusa di sottomettersi a Dio, somma Verità e motivo proprio della fede. (…) Perciò la Chiesa, memore del suo ufficio (di custodire il deposito della fede), non si è mai con ogni zelo e sforzo tanto affaticata come nel tutelare in ogni sua parte l’integrità della fede.” Anche Benedetto XIV allude a questo errore, precisamente nella sua Ad Beatissimi Apostolorum Principis: “La Fede o si professa intera o punto non si professa, perché la natura della Fede è tale che essa non può sussistere se si ammette un dogma o se ne ripudia un altro, perché colui che anche su di un solo punto non assente alle verità da Dio rivelate, ha perduto tutta la Fede, poiché ricusa di sottomettersi a Dio, somma verità e motivo proprio della Fede.” E anche il Magistero attuale ne accenna. Nell’udienza generale del 20 agosto del 1997, Giovanni Paolo II pronunciò delle parole che richiamano chiaramente la condanna di questo errore. Il Papa disse in quell’occasione: “Il Concilio esorta i fedeli a guardare a Maria, perché ne imitino la fede ‘verginalmente integra’, la speranza e la carità. Custodire l’integrità della fede rappresenta un compito impegnativo per la Chiesa chiamata ad una vigilanza costante, anche a costo di sacrifici e di lotte. Infatti, la fede della Chiesa è minacciata, non solo da coloro

che respingono il messaggio del Vangelo, ma soprattutto da quanti, accogliendo soltanto una parte della verità rivelata, rifiutano di condividere in modo pieno l’intero patrimonio di fede della Sposa di Cristo. Tale tentazione, che troviamo sin dalle origini della Chiesa, continua purtroppo ad essere presente nella sua vita, spingendola ad accettare solo in parte la Rivelazione o a dare alla Parola di Dio un’interpretazione ristretta e personale, conforme alla mentalità dominante e ai desideri individuali. Avendo pienamente aderito alla Parola del Signore, Maria costituisce per la Chiesa un insuperabile modello di fede ‘verginalmente integra’, che accoglie con docilità e perseveranza tutta intera la Verità rivelata. E con la sua costante intercessione, ottiene alla Chiesa la luce della speranza e la fiamma della carità, virtù delle quali, nella sua vita terrena, è stata per tutti esempio ineguagliabile.” Penso, caro (…), che possa bastare.

Ragione razionalista e ragione ragionevole

Una lettrice: Benedetto XVI diceva molto spesso che la Fede debba essere fondata sulla ragione. Giovanni Paolo II scrisse un’enciclica sul punto, intitolata ‘Fides set Ratio’. Per quel che mi ricordo quando la studiai a scuola, la filosofia medievale cercò di armonizzare ragione e fede. Mi viene però da farvi una domanda: se il Cattolicesimo è anche valorizzazione della ragione, perché il laicismo lo accusa di essere oscurantista? Cara (…), per rispondere alla sua domanda bisogna tener presente la differenza (che non è da poco) tra due concezioni di ragione che io solitamente definisco in questo modo: la ragione-razionalista e la ragione-ragionevole. Prima di tutto dobbiamo dire che la ragione per essere veramente tale e per potersi offrire come mezzo efficace di conoscenza del reale non può sfociare nel razionalismo. Una ragione che pretenda di comprendere tutto, condannerebbe l’uomo all’incapacità di conoscere davvero la sua vita e il suo significato. La concezione illuministica non costituisce una vera e propria urgenza. Infatti, la concezione dominante oggi è quella postmoderna, che si esprime con la presa d'atto del fallimento della modernità. Postmodernità che produce visioni dichiaratamente relativistiche e perfino nichilistiche; e che quindi rifiuta qualsiasi tipo di certezza, fosse anche quella scientifica o pseudo-tale. Eppure – come lei giustamente ha scritto- spesso sentiamo ancora qualche delirio di stampo neoilluminista. Sentiamo “pontificare” i vari Odifreddi, Dawkinks, Haack, Flores d'Arcais, Veronesi, Pievani… e altri ancora. Proprio il professor Umberto Veronesi disse qualche tempo fa che la religione non aiuterebbe a ragionare, perché solo il dubbio muoverebbe la ricerca scientifica. Ma dove l'impostazione neoilluminista è evidente è allorquando si parla della ragione come un mezzo che, per essere veramente tale e per essere veramente utile, dovrebbe spiegare tutto, cioè dovrebbe esaurire completamente il reale. Da qui -ovviamente- la convinzione secondo cui le convinzioni religiose dovrebbero

fondarsi unicamente sull'atto di fede. Quante volte si sente dire da parte dei vari “sacerdoti” della “chiesa neoilluminista” che certamente si è liberi (e ci mancherebbe!) di essere religiosi, ma si dovrebbe comunque ammettere che ogni credo religioso altro non sia che un andare contro la ragione, insomma: una sorta di favola. E allora su questo punto io la ringrazio perché mi permette di fare delle importanti precisazioni. Prima di tutto va detto che la ragione illuministica è il contrario della vera ragione. La ragione infatti non si misura con la capacità di spiegare tutto o di ridurre il reale ad un’equazione matematica; bensì con l’individuare la ragionevolezza di un’affermazione o di un fatto così come dinanzi ad essa si presentano. Vediamo perché. La ragione che pretende esaurire tutto il reale, in realtà fa esaurire (nel senso di esaurimento nervoso) l'uomo stesso. Ciò perché verrebbe inevitabilmente a crearsi una dissociazione tra le convinzioni intellettuali e la vita quotidiana in cui l'uomo deve necessariamente applicare un altro tipo di ragione, che -come abbiamo avuto modo di dire- si limita ad indagare la ragionevolezza delle affermazioni e di ciò che accade. Se infatti analizzassimo una giornata-tipo di ognuno di noi, ci renderemmo conto che essa è costituita più da atti di fede che da certezze razionali, razionali nel senso illuministico. Siamo assetati e chiediamo un bicchiere d'acqua. Ebbene, chi ci dice che in quel bicchiere che ci offrono ci sia solo dell'acqua e non anche qualcos'altro? Per esserne razionalisticamente certi dovremmo prendere il bicchiere d'acqua, portarlo al primo laboratorio di analisi e attendere il risultato ...e intanto moriremmo disidratati oltre che con il cervello sbalestrato. Invece in questo caso la ragioneragionevole ci direbbe di bere dopo aver ragionevolmente capito di poterci fidare. Certo, se chiedessimo dell'acqua ad uno che sappiamo esser solito fare degli scherzi pesanti, ovviamente la ragione-ragionevole ci direbbe di non fidarci. Cara (…), c'è un filosofo che a tal riguardo può dirci delle cose interessanti ed è il grande Giambattista Vico (1668-1774). Si tratta di un filosofo che a scuola spesso viene insegnato in maniera non corretta. Soprattutto viene definito uno storicista quando fu tutt'altro. Ebbene, la grandezza di Vico, e anche la sua profonda cattolicità, stanno nella sua critica serrata al modello razionale cartesiano, alla pretesa cioè di poter geometricamente e matematicamente ridurre

il reale. Vico dice che il reale è il fatto ( verum est factum) e dinanzi al fatto il metodo non è la comprensione (nel senso letterale di ' cum-prehendere', cioè di mettere tutto nella mente umana), bensì il riconoscimento dell'evidente. Insomma, è ciò che dice Gesù allorquando loda i bambini: " Se non diventerete come bambini, non potrete entrare nel Regno dei Cieli." (Matteo 18, 3). Il bambino non pretende esaurire con la sua mente il reale che gli sta dinanzi, piuttosto si lascia guidare dallo stupore e dalla meraviglia. Così è la vera ragione, così è la ragione-ragionevole: constatazione dell'evidente, non inclusione del reale e del suo mistero nella capacità intellettiva individuale. Un famoso convertito, Alexis Carrell (1873-1944), celebre medico nonché premio Nobel del 1912, soleva dire: " Poco ragionamento e molta osservazione conducono alla verità, molto ragionamento e poca osservazione conducono all'errore.". E il grande scrittore inglese Chesterton, anch'egli convertito al cattolicesimo, diceva: " Chi crede ai miracoli è perché ha dei fatti a favore di essi; chi non crede ai miracoli è perché ha delle teorie contro di essi." Cara (…), è proprio così: la ragione è nell'evidenza del fatto, non nella presunta esattezza della teoria. Quest'ultima è solo l'alienazione della follia. Infatti, la ragione-razionalista conduce, per eterogenesi dei fini, proprio al suo contrario: alla follia dell'alienazione. A quella follia alienante che fece dire al comunista Lunacarskij (1875-1933): " Se i fatti non ci daranno ragione, peggio per i fatti!"

L’incoronazione divina dei re… altro che rituale sciocco!

Una lettrice. Sono un’insegnante di lettere in una scuola media e tra tante cose, quest’anno, mi tocca parlare anche del medioevo. E’ un’epoca che mi piace, che ci ha dato tanto; ma ci sono cose che avvenivano allora e che mi sembrano assurde. La butto lì: l’incoronazione dei Re per diritto divino. Ma che senso aveva? Non so darmi una risposta. Cara (…), che pensereste di un papà (ce ne sono molti!) che dica ai suoi figli: ti ordino di andare alla Messa!..e poi lui non ci va? I figli, fin quando saranno piccoli forse obbediranno, ma poi? Poi faranno come gli parrà: non ci andranno più. L’educazione, quella vera, non è fatta solo di parole ma soprattutto di testimonianza. Se io voglio che gli altri facciano una determinata cosa, dovrò io per primo agire coerentemente. Questo principio deve fondare anche l’agire politico e il senso proprio dell’autorità politica. La concezione medievale dell’autorità politica verteva sulla convinzione che chi deteneva il potere dovesse prima di tutto rispettare la legge e agire coerentemente con ciò che insegnava e rappresentava. Non a caso nel pensiero politico medievale si distingueva chiaramente il concetto di potestas da quello di auctoritas. Il primo è l’esercizio del potere, il secondo è l’autorità suprema. Ciò per evidenziare che il potere politico doveva sempre essere giudicato da un’autorità ad esso superiore; evitando, pertanto, qualsiasi deriva assolutista e ben che meno totalitaria. Questa concezione del potere politico come qualcosa che doveva riconoscere un giudizio superiore e soprattutto come esercizio obbligato a manifestare obbedienza ad una legge e ad un’autorità che lo trascendesse, era chiaramente rappresentato dal rito d’incoronazione dei Re. Roba da secoli bui, sciocchezze incivili e antidemocratiche? Nulla di tutto questo, anzi. L’incoronazione per diritto divino aveva un significato pedagogico chiaro e nobile. Il re poteva far capire ai sudditi quanto fosse giusto ubbidirgli, dimostrando che anch’egli si faceva suddito di un altro Re. Insomma, era come se dicesse: mi dovete

ubbidienza, perché anch’io mi rendo ubbidiente a Qualcun altro. E’ lo stesso principio per cui un papà può insegnare ai figli ad essere “figli”, se anche lui si fa “figlio” di Qualcun altro. Nei Proverbi (8, 15) è scritto: “E’ per me che i Re regnano e i principi comandano ciò che è giusto.” Infatti, il Re veniva unto secondo il rito descritto nella Bibbia per la consacrazione del Re d’Israele. Cara (…), il rituale iniziò in Spagna con i sovrani visigoti (cristiani) di Toledo che furono i primi a chiedere alla Chiesa di incominciare il loro regno con una speciale consacrazione. Si dette poi tanta importanza alla cosa che nei secoli immediatamente successivi iniziò a diffondersi il racconto delle origini miracolose dell’unzione regia. L’arcivescovo di Reims, Incmaro (845-882), raccontò che il suo predecessore, san Remigio, ricevette dal Cielo, portata da una colomba, la sacra ampolla contenente l’olio per l’unzione. Lo stesso Incmaro consacrò nell’868 Carlo il Calvo di Lotaringia e nell’877 Ludovico il Pio. Da allora i Re di Francia e di Inghilterra saranno unti ed incoronati. Altro elemento che sottolineava l’importanza di questo rituale ai fini della sacralità della regalità, ma anche della concezione della stessa come “servizio di Dio a favore dei fratelli”, stava nel fatto che i Re di Francia e d’Inghilterra, dopo esser stati consacrati, imponevano le mani sugli scrofolosi per guarirli. E sempre all’insegna di questa “ministerialità” del potere regale, va ricordato che l’Imperatore del Sacro Romano Impero, dopo esser stato unto, arrivava a servire la Messa come suddiacono. Insomma, cara (…), si trattava di sapienza… altro che sciocchezze!

L’immutabilità del dogma

Una lettrice: Faccio vita di parrocchia e mi trovo spesso a partecipare ad incontri pastorali e di catechesi. Sono convertita da poco, ma in questo poco tempo ho notato quanto sia frequente in questi ambienti la parola “cambiamento”. Sembra che tutto debba cambiare, anche la verità. Ma è possibile che i dogmi possano cambiare? Gentile (…), darle torto sarebbe impresa titanica. A meno che non si mandi a quel paese la logica, “sport”, questo, molto più diffuso di quanto si immagini e in cui in molti aspirano a conquistare trofei di vittoria. Siamo arrivati a tal punto di “cecità” intellettuale che in pochi si accorgono che la contraddizione non può essere legittimata, pena la stessa natura razionale dell’essere umano. E’ vero, una delle caratteristiche tipiche della crisi del cattolicesimo oggi (anzi è la caratteristica per eccellenza) è quella di ritenere la verità modificabile, una sorta di storicismo teologico o di teologia storicista, per la serie: è la storia che giudica la verità e la può modificare come vuole, per cui ciò che era vero ieri non necessariamente deve essere considerato vero oggi e ciò che era sbagliato ieri non necessariamente deve necessariamente essere ritenuto sbagliato oggi. L’eresia modernista arrivò ad affermare che il dogma non avrebbe nulla di definito, ma sarebbe una semplice “smagliatura” del tempo, modificabile ed elasticizzabile come si vuole. Alla fine è il singolo credente che sarebbe chiamato ad un’interpretazione del dogma stesso confacente alla propria storia e alla propria psicologia. Eresia modernista che il grande san Pio X condannò immediatamente definendola “ sintesi di tutte le eresie” , ma che, a mo’ di fiume carsico, è andata sottoterra per poi riemergere negli ultimi decenni in maniera spaventosa e di fatto trionfando su tutti i fronti. E allora, cara (…), è giusto porsi la domanda: ma è legittimo modificare il dogma? Ovviamente la risposta è più che ovvia: il dogma è immutabile di suo e non lo si può affatto modificare. Ciò però non vuol dire che in merito al dogma

qualcosa possa cambiare nel tempo, vediamo cosa. Per essere precisi possiamo dire così: le formule dogmatiche sono immutabili quanto all’ essenza , cioè al loro contenuto sostanziale, ma possono essere approfondite per una maggiore penetrazione delle stesse. Qui, cara (…), il grande maestro è san Vincenzo da Lerino (V secolo) che si occupò proprio di questa questione nel suo celebre Communitorium . Egli afferma che il dogma può essere penetrato , cioè approfondito, da parte della Chiesa come Magistero e anche da parte dei singoli fedeli, ma a condizione che questa penetrazione (approfondimento) avvenga nel rispetto del genere , del senso e del contenuto del dogma stesso. Concetto, questo, che fu fatto proprio anche dal Concilio Vaticano I. Ma cosa significa che il dogma può essere “penetrato” solo nel rispetto del suo genere , senso e contenuto ? Che il dogma non può cambiare intrinsecamente ma solo approfondito estrinsecamente . Per essere più precisi possiamo dire che il dogma non può cambiare né in sé (cioè non può subire mutamenti intrinseci) né sostanzialmente (non può passare da una verità ad un’altra che sia sostanzialmente diversa dalla prima), ma può essere approfondito estrinsecamente da parte del soggetto che conosce, soggetto che, come abbiamo detto prima, può essere il Magistero della Chiesa, ma anche il singolo fedele, ovviamente sottomettendosi sempre al giudizio della Chiesa docente. Approfondimento che può riguardare anche la ricerca di espressioni che lo rendano più comprensibile. Insomma, cara (…), il dogma non può affatto cambiare. Non c’è né teologo, né storia, né mondo …e nemmeno Papa che tenga. Sì, nemmeno Papa perché Pietro e i suoi successori non sono stati investiti da Cristo per essere “padroni” ma “custodi” della Verità. L’unico progresso legittimo che si può ammettere per il dogma non è né in sé né nella sostanza, ma solo in merito alla sua conoscenza e alla sua espressione.

La devozione mariana è sempre esistita

Una lettrice: Carissimi, ho pensato a voi per risolvere un mio dubbio. Sono una devota della Madonna. Non riesco ad immaginare la mia vita di preghiera senza la splendida e tenera figura di Maria. Qualcuno però afferma che la devozione mariana non è sempre esistita nella Chiesa, che sia cioè sorta dopo. Come si può rispondere ad uno sciocchezza del genere? Gentilissima (…), come li ha detto: è proprio una sciocchezza! Fu il Concilio di Efeso nel 431 a decretare la “maternità divina” di Maria e così i protestanti hanno preteso affermare che da lì sarebbe partita la devozione mariana tra i cristiani. Invece non è affatto così: la devozione mariana esiste da quando esiste il Cristianesimo. A conferma di ciò che lo sto dicendo basti ricordare che il Concilio di Efeso si celebrò in un edificio dedicato alla Vergine, il che fa capire chiaramente che il culto mariano già esisteva. La più antica preghiera rivolta a Maria di cui si ha traccia, Sub tuum praesidium ( “Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”), è stata trovata ad Alessandria d’Egitto in un papiro egiziano, copto, acquistato nel 1917 dalla John Rylands Library di Manchester e pubblicato la prima volta nel 1938. Secondo gli studiosi, risalirebbe agli inizi del III secolo. Di sicuro risale ad un tempo molto anteriore al Concilio di Efeso (431) che –come abbiamo già detto- attribuirà a Maria il titolo di “Madre di Dio”. In un’antica colonna nella Basilica dell’Annunciazione a Nazareth, colonna probabilmente del II secolo o al massimo del III, è leggibile un’iscrizione in lingua greca, scritta da una pellegrina, che, in ginocchio (così scrive), “sotto il luogo sacro di Maria”, ha lasciato inciso il proprio nome e quello dei suoi cari,

per affidarli alla Madonna. Ma cosa interessante: nell’iscrizione la pellegrina precisa di aver eseguito i riti e le preghiere prescritte. Ancora a Nazareth, contemporaneamente alla scoperta di questa iscrizione, ne è stata trovata un’altra (sempre del II secolo, massimo del III), che testimonia con certezza il culto che i primi cristiani prestavano a Maria. In questa iscrizione, scoperta dall’archeologo padre Bellarmino Bagatti (1905-1990), si legge facilmente il saluto angelico: “Ave Maria”. Nelle catacombe di Priscilla, a Roma, si trova una rappresentazione che risale al III secolo. In essa si vede la figura di un vescovo, che, imponendo ad una vergine un sacro velo, le indica come modello Maria Santissima, che è dipinta con il Bambino Gesù in braccio. Sempre nelle catacombe della via Salaria si può osservare un epitaffio posto davanti al loculo di un defunto di nome Vericundus. Il nome è tracciato su due tegole unite tra loro, che chiudono il loculo. Fra queste due tegole, sulla calce che le unisce, spicca, dipinta molto probabilmente dalla stessa mano che tracciò il nome del defunto, una “M” che, secondo la nota studiosa Margherita Guarducci, significa Maria. Insomma, si voleva porre sotto la protezione della Vergine l’anima del defunto. Ebbene, questo epitaffio risale al II secolo. A Roma, sotto l’altare della confessione nella Basilica di San Pietro, nel cosiddetto “muro G2”, che conteneva le ossa dell’apostolo Pietro identificate dalla studiosa Margherita Guarducci, sono state trovate incise diverse scritte, databili all’inizio del IV secolo, dunque prima del Concilio di Efeso (431). Tra questi graffiti, molti dei quali furono scritti per impetrare la felicità del Paradiso ai defunti, si trova spesso un’acclamazione di vittoria di Cristo, di Sua Madre e ovviamente dell’apostolo Pietro. Vi è anche un graffito in cui il nome di Maria appare per intero e non abbreviato, come si usava fare nell’antichità. Sempre per capire quanto la devozione alla Vergine preceda il Concilio di Efeso (431), va ricordato come prima di questo concilio siano state istituite varie feste in onore di Maria Santissima, a Betlemme, a Gerusalemme e anche a Nazareth. E’ certo che una solennità mariana esisteva a Costantinopoli prima del Concilio di Efeso. Ci sono, infatti, tutti gli elementi per considerare autentico un discorso del 429 di san Proclo, patriarca di Costantinopoli, nel quale si fa cenno ad una solennità liturgica in onore della Madonna.

Ci sono, inoltre, bellissime preghiere rivolte alla Vergine e composte da sant’Atanasio, san Giovanni Crisostomo, sant’Ambrogio, sant’Agostino. Santi che sono vissuti prima del Concilio di Efeso. E poi, cara (…), come dimenticare la raffigurazione della Madre di Gesù nel cimitero di Priscilla, sulla via Salaria Nuova, a Roma? In questa raffigurazione la Vergine stringe al petto Gesù. L’opera si fa risalire al II secolo, dunque ben prima del Concilio di Efeso.

Quali le prove della resurrezione di Cristo?

Una lettrice: Subito dopo Pasqua, un’amica, sapendomi credente, mi ha chiesto quali fossero le prove della Resurrezione di Gesù. “A me sembra una favola” ha sentenziato. Io non ho saputo darle una risposta convincente. Potreste aiutarmi? Cara (…), nel corso della storia chi ha cercato di negare la verità della Resurrezione si è servito soprattutto di due teorie: quella della frode e quella dell’ allucinazione. La prima, quella della frode, afferma che gli apostoli avrebbero inventato tutto; la seconda, quella dell’ allucinazione, che gli apostoli sarebbero stati vittime in buona fede di una visione immaginaria causata dal loro fortissimo desiderio di vedere Gesù risorto. Per capire la prima teoria dobbiamo immaginare questa situazione: Gesù è da poco morto e il suo corpo è stato messo nel sepolcro. Gli apostoli capiscono il loro fallimento per aver seguito chi aveva promesso tante cose ma che invece era stato condannato facendo la morte di un malfattore. A loro che avevano lasciato tutto per seguire Gesù cosa restava da fare per rifarsi dinanzi all’opinione pubblica? Non restava che andare di nascosto al sepolcro, trafugare il corpo e poi diffondere la voce che quel Gesù era risorto, per dimostrare che loro (gli apostoli) avevano fatto bene a seguirlo. Questa teoria, però, mostra chiaramente la sua inconsistenza. Se gli apostoli avessero trafugato il corpo di Gesù, vorrebbe dire che sapevano che Gesù non era risorto, ma se Gesù non era risorto, perché morire per Gesù? Quasi tutti i testimoni oculari della Resurrezione si faranno uccidere pur di non rinunciare a diffondere tale notizia. Quando vengono portati dinanzi al Sinedrio, Pietro e Giovanni dicono: “non possiamo non parlare di queste cose che abbiamo visto e udito. ( Atti 4,19) ”. Dunque, gli apostoli, perché hanno visto, accetteranno il martirio. Ora chiediamoci: è credibile che chi sa di non aver visto nulla, che chi

sa che è tutto falso, si faccia uccidere per ciò che lui sa essere falso? Un pazzo, cara (…), si può anche trovare, ma tanti no. Passiamo alla seconda teoria, quella dell’ allucinazione. Gli apostoli in realtà non hanno visto nulla, piuttosto hanno creduto di vedere; sarebbero stati vittime di un’allucinazione. Ma anche questa teoria fa acqua. Prima di tutto, cos’è un’allucinazione? E’ un vedere qualcosa che non esiste nella realtà. L’allucinazione può sì avvenire, ma ha bisogno di stati particolarissimi, tanto particolari che nei vangeli non sono presenti. Va detto che per chi volesse credere in questa teoria, i vangeli si presentano come documenti sinceri perché scritti, o fatti scrivere, da persone che erano in buona fede, che credevano che Gesù fosse realmente risorto. Ma se i vangeli dicono il vero, ci sono delle cose che rendono impossibile l’allucinazione. Prima di tutto, nell’allucinazione non si può non riconoscere l’oggetto dell’allucinazione stessa. L’allucinazione è il prodotto della propria psiche, che può essere definitivamente alterata (la psicopatologia) o temporaneamente alterata (febbre alta, forte emozione, ecc.), ma proprio perché è il prodotto della propria psiche, questa deve riconoscere ciò che ha prodotto. Ebbene, stando ai vangeli, quante volte Gesù risorto non fu immediatamente riconosciuto? Basterebbe pensare all’episodio dei discepoli di Emmaus: solo allo spezzare il pane riconobbero il Signore. Inoltre, come spiegare un’allucinazione che si fa toccare (la mano di Tommaso nel costato del Signore) e soprattutto un’allucinazione che consuma il cibo (il pesce arrostito consumato più volte da Gesù risorto per dimostrare di non essere un fantasma). Ma non finisce qui. Se davvero gli apostoli fossero stati vittime di un’allucinazione, allora perché i farisei non presero il corpo di Gesù per farlo vedere al popolo e così dimostrare quanto visionari fossero quegli uomini? Ecco dunque, cara (…), che le due teorie ( frode e allucinazione) si escludono a vicenda; e viene da chiedersi: occorre più fede per credere che Gesù sia davvero risorto o piuttosto per credere che Gesù non sia risorto? Paradossalmente (ma non troppo) la fede cieca, irrazionale, nell’incredibile, è proprio in coloro che non vogliono riconoscere ciò che avvenne e che iniziò duemila anni fa in quel sepolcro vuoto ... è proprio, cara (…), nella “sentenza” della sua amica.

Dio è amore… lo attesta la ragione!

Una lettrice: Carissimi amici di Radici Cristiane, sono una studentessa all’ultimo anno di Liceo Classico. Mi appassiona molto la filosofia e anche la teologia. C’è un punto su cui rifletto abbastanza ed è quello che riguarda il rapporto tra Dio e il Male. So che la Teologia Cattolica afferma che Dio è solo Bene e non è anche Male. La mia domanda è questa: tale affermazione è solo di fede, oppure può essere fondata anche sulla ragione? Cara (…), la ragione umana non solo può arrivare alla certezza dell’esistenza di Dio, ma anche alla conoscenza di alcune sue caratteristiche. “Alcune”, perché Dio non può essere totalmente compreso dalla mente umana: un bicchiere non può contenere tutta l’acqua del mare; l’uomo, che è finito, non può contenere Dio, che è infinito. Ebbene, tra le caratteristiche che si possono conoscere razionalmente vi è anche e soprattutto l’amore di Dio. Vediamo come. Mi segua in questi passaggi. Primo: Dio non ci ha creato per necessità. Se Dio ci avesse creato per necessità, significherebbe che Dio non è assoluto; e, se non fosse assoluto, Dio non sarebbe più Dio. Dio esiste ed è tale perché è assoluto, cioè da Lui dipende tutto, ma Lui non dipende da nulla. Secondo: Se Dio non ci ha creato per necessità, vuol dire che lo ha fatto liberamente. Terzo: Creare liberamente vuol dire creare per amore e non per altro. Ipotizziamo che Dio ci abbia creati per vederci soffrire. Ebbene, in questo caso il volersi rendere conto di qualcosa, implicherebbe comunque una necessità e ciò non è possibile per la natura di Dio. Quarto: L’unica spiegazione razionalmente accettabile è che Dio ci abbia creato per amore, per pura gratuità, senza poter ricevere da noi nulla che lo potesse soddisfare. Non dimentichiamo che Dio, nella sua infinità, può soddisfarsi solo

con se stesso. Facciamo questo esempio: ci troviamo sulla banchina di un porto, prendiamo un po’ d’acqua da una bottiglia e la versiamo nel mare, vedremmo alzarsi il livello del mare? Certamente no. Ebbene, la differenza che intercorre tra il mare e mezza bottiglia d’acqua è infinitamente (infinitamente!) minore rispetto a quella che intercorre tra Dio e l’uomo. Dunque, cara (…), l’unica spiegazione razionale è ammettere l’amore di Dio, che, creandoci, ha agito disinteressatamente, perché nulla avrebbe potuto ricevere da noi: ha voluto che altri partecipassero al suo essere, alla vita...e liberamente e gratuitamente ha creato e crea. Dunque, creandoci, Dio si è manifestato amore e da ciò si può logicamente concludere che Dio è solo amore. Qualcuno, però, potrebbe obiettare: se è vero che Dio ha creato liberamente e gratuitamente, chi ci dice che, oltre ad essere buono, Dio non può essere anche cattivo? Risposta: va detto che in Dio può esistere la contrarietà, ma non la contraddizione. In Dio possono coesistere giustizia e misericordia, ma non giustizia e non-giustizia; né tantomeno misericordia e non misericordia e così amore e non-amore, che vuol dire bene e male. Seconda obiezione: se Dio è onnipotente, può far tutto; e se può far tutto, potrebbe anche fare il male. Risposta: Dio è onnipotente, ma proprio perché lo è, non può fare il male. Infatti, il male non è essere ma è mancanza di essere, questo perché Dio è solo amore e non può avere in sé la contraddizione. Dunque, la mancanza di essere è causata da chi ha la deficienza (come la creatura), ma non da Chi è onnipotente. Dunque, dall’eternità esiste solo l’Amore perché solo Dio esiste dall’eternità. Il male non esiste da sempre: è l’esito di una scelta di privarsi del Bene, cioè di Dio. Sant’Agostino, infatti, afferma che il male è privazione di Bene . E se, cara (…), lo dice sant’Agostino… penso che possiamo abbondantemente fidarci.

I medievali e la bellezza

Una lettrice: Apprezzo molto la vostra rivista. Per un motivo molto semplice, perché sapete unire bene Fede e Bellezza. A questo proposito vorrei che voi mi parlaste di come i medievali amassero la Bellezza. Io quando vedo le cattedrali gotiche rimango incantata… Cara (…), ha proprio ragione. I medievali non solo amavano la bellezza, ma la ritenevano in un certo qual modo necessaria. Lei ha fatto riferimento alle cattedrali gotiche, ed io le ricordo un particolare. Le guglie di queste cattedrali sono state fatte benissimo fino alla cima, adornate di disegni e di decorazioni che nessun uomo potrebbe mai ammirare e che possono essere viste solo da Dio e … dai piccioni. Un particolare, questo, che solitamente non viene messo in risalto, ma che è di grande importanza per capire come i medievali intendessero la bellezza. Per loro, infatti, la bellezza non era qualcosa che necessitava di esser vista, ma qualcosa che necessitava e basta. Mi spiego meglio. I medievali non pensavano che a dover decidere se la bellezza fosse tale o meno dovesse essere il giudizio dell’uomo, ma che la bellezza fosse tale in quanto bellezza, indipendentemente dall’osservazione e dal giudizio dell’uomo. Questa mentalità si coglie anche in un altro elemento: i medievali non avrebbero mai concepito l’idea del “museo”, che invece, non a caso, nasce con il razionalismo del XVIII secolo. La bellezza è talmente necessaria che deve essere nella realtà, nella vita dell’uomo, non può essere separata dalla quotidianità, bensì in un certo qual modo deve “informare” (nel senso letterale di “dare forma”) l’esistere dell’uomo. Alla base dell’idea moderna di “museo” vi è invece la convinzione che la bellezza sia un prodotto di una particolare elaborazione intellettuale del soggetto, un’elaborazione pensata partendo da un distacco dalla vita, come se il vero artista dovesse necessariamente alienarsi, staccarsi, emanciparsi dal vivere per

immergersi in una sorta di delirio dell’immaginazione in cui la costruzione puramente intellettuale svolgerebbe un ruolo non solo protagonistico ma anche esclusivo. Insomma, l’arte staccata dal vivere quotidiano, relegata in una sorta di “riserva” per farsi vedere e sottoporsi ad un giudizio di un’ élite. Cara (…), c’è una favola medioevale che ben si allaccia a ciò che stiamo dicendo. Racconta di due penitenti che si accostano ad una immagine della Madonna per invocare una grazia. Uno è un bravo suonatore di viola, l’altro un povero calzolaio. Il primo si mette di impegno e suona la più bella melodia che conosce; e la sua preghiera viene esaudita. Il povero calzolaio, invece, dinanzi a quella musica stupenda non osa proporre nulla alla Vergine e crede che il suo pellegrinaggio sia stato vano; poi gli balena un’idea: potrebbe creare per la Madre di Dio delle graziose scarpette, così che possa apparire ancora più bella tra le schiere degli angeli. Si mette di buona lena e fabbrica delle stupende scarpette dorate; ma non ha il coraggio di offrirle alla Madonna: dopo che Ella aveva ricevuto in dono una melodia così bella, non osa presentare alla Vergine così poca cosa come un paio di scarpette, anche se finemente decorate. Si fa comunque coraggio ed anche a lui la Madonna concede immediatamente la grazia. La Vergine apprezza quelle scarpette, quanto la bella melodia. Ciò che rende gradito un dono non è il contenuto in sé, né tanto meno la forma, ma il dare il meglio di se stessi -quindi il proprio cuore- nel momento in cui si produce il dono. Insomma, cara (…), altro che tempi bui!

Il nichilismo… dissoluzione dei nostri tempi!

Un lettore: Cari amici di “Radici Cristiane”, recentemente ho letto un articolo sul nichilismo. Mi ha incuriosito molto. Ho capito che si tratta di un errore tipico dei nostri tempi. Però su questo desidererei avere idee semplici, sintetiche e chiare. Vorrei, per esempio, capire cos’è, come combatterlo, perché è nato, capirne gli effetti… Caro amico, prima di tutto le spiego cos’è il nichilismo. Si tratta di una teoria che afferma il primato del Nulla assoluto, e quindi consequenzialmente la negazione di ogni verità. Se volessimo essere più precisi e “filosofici” potremmo dire che il nichilismo è una sorta di malattia dell’intelletto, in quanto è dapprima un’ antimetafisica (negazione e rifiuto teoretico dell’ essere) e poi un antirealismo (rifiuto della possibilità di conoscere la verità dell’ essere). Veniamo adesso alla seconda questione che lei ha posto: come si può combattere il nichilismo? Lo si deve fare riproponendo una filosofia che si fondi tanto sull’ essere quanto sulle reali capacità delle facoltà conoscitive di raggiungere la verità. Caro (…), deve sapere che la vera filosofia è innanzitutto metafisica (filosofia dell’essere) e poi gnoseologia (filosofia del conoscere). Come l’azione deve seguire l’essere, così anche il conoscere deve seguire l’essere. Insomma, bisogna proclamare il primato logico della Verità! Non a caso il buon Aristotele chiamò lo studio del fondamento dell’essere “filosofia prima”, proprio per far capire che il primo problema della filosofia è conoscere la verità delle cose. Se non si arriva alla verità, qualsiasi speculazione filosofica successiva diventa del tutto inutile. Dove ha origine il nichilismo? In realtà già nell’antichità si hanno forme di nichilismo, celebre è quello del sofista Gorgia che diceva: “Nulla esiste. E anche se esistesse, non sarebbe conoscibile. E se anche fosse conoscibile, non sarebbe esprimibile.” E’ pur vero, però, che sarà la modernità a concepire l’embrione di quel nichilismo che diventerà poi l’essenza della filosofia postmoderna. Il pensatore da cui inizia questo tipo di nichilismo è Cartesio (1596-1650), il quale

ribalta i rapporti intelletto-realtà oggettiva, conferendo il primato alla conoscenza e non alla realtà: non è l’intelletto che deve conformarsi all’oggetto reale, ma è la realtà che diviene un prodotto dell’intelletto umano (idealismo): si tratta del famoso cogito ergo sum. Dopo questa svolta cartesiana (che troverà ampio seguito nella filosofia moderna) sarà la postmodernità a far trionfare il nichilismo. La modernità, infatti, seppur debolmente e contraddittoriamente, conserva ancora il concetto di certezza e quindi la possibilità che il pensiero umano avrebbe di poter raggiungere delle certezze; con la postmodernità, invece, viene meno il concetto stesso di certezza. Quali conseguenze produce il nichilismo? Almeno tre. 1) La negazione di ogni realtà fondata sull’Essere, quindi la morte di Dio, ovvero l’Essere sussistente che dà fondamento a tutto. 2) La negazione di ogni fine ultimo dell’uomo, che gli causa inevitabilmente la demotivazione e la disperazione, ovvero la perdita del verso significato del vivere. 3) Il relativismo: tutti i giudizi –anche contraddittori- avrebbero uguale valore. Caro (…), insomma tutto nella logica: non esistendo la verità, scompare l’errore, e così si può dire tutto e il contrario di tutto; ma scompare anche il Significato di tutto. E’ la dissoluzione totale. E’ la dissoluzione dei nostri tempi!

Andiamo da sant’Atanasio… e capiremo molte cose di oggi

Un lettore: Ho sentito parlare di sant’Atanasio, il quale avrebbe vissuto un periodo di crisi della Chiesa molto grave, paragonabile in un certo qual modo a quella attuale. Ma chi fu veramente sant’Atanasio e perché la sua storia sarebbe attuale? Caro (…), è proprio così, perché l’’epoca in cui visse sant’Atanasio fu di grande crisi della ortodossia, cioè della dottrina autentica. Come oggi. Nella seconda metà del IV secolo la verità cattolica rischiava di scomparire. Celebre è la frase di San Girolamo che descriveva quei tempi: “E il mondo, sgomento, si ritrovò ariano.” In tale contesto, sant’Atanasio non si piegò. Egli era un giovane vescovo di Alessandria d’Egitto. Rimase talmente solo a difendere la purezza della dottrina che per quasi mezzo secolo la sopravvivenza della fede autentica in Gesù Cristo si trasformò in una diatriba tra chi era per e chi era contro Atanasio. Sant’Ilario di Poiters racconta che gli ariani ebbero sempre la scaltrezza di rifiutare ogni scontro dogmatico in merito alla questione della natura di Gesù perché sapevano che le loro tesi non potevano essere fondate sulla Tradizione né sul Magistero definito. Si limitavano a fare ciò che solitamente fa chi non sa controbattere in una discussione: invece di rispondere sugli argomenti, calunnia. La discussione dottrinale veniva spesso trasformata in conflitto su questioni personali. Il povero sant’Atanasio fu accusato delle più grandi nefandezze. Una tecnica che non passa mai di moda. Gli ariani però non si limitarono a questo. Operarono anche con grande astuzia. Prima di tutto cercarono di occupare quante più sedi episcopali e poi lanciarono quello che successivamente è stato definito come semiarianesimo. Altra tecnica tipica delle eresie: una volta condannate, riemergono proponendo un compromesso tra la verità e l’errore. Gli ariani propagandarono la necessità di sostituire il termine stabilito dal Concilio di Nicea homoousion (a proposito del rapporto tra Padre e Figlio all’interno della Trinità) con il termine homoiousion. Differenza di una

sola lettera, minimale, ma che cambiava tutto. Infatti, il primo termine ( homoousion) significa “della stessa sostanza”, il secondo termine ( homoiousion) significa “simile in essenza”. Traducendo si capisce quanto la differenza non sia di poco conto. Mentre molti vescovi si lasciarono convincere da questo compromesso terminologico, che era cedimento sulla dottrina, sant’Atanasio tenne fermo, resistette come un leone. Subì l’esilio per ben cinque volte, ma non cedette. Nel 335 a Tiro, in Palestina, fu convocato un sinodo per dirimere la controversia e dunque per decidere quale atteggiamento avere nei confronti di ciò che affermava sant’Atanasio. Il concilio definì il Vescovo di Alessandria con questi termini: “arrogante”, “superbo” e “uomo che vuole la discordia”. Il papa Giulio I cercò di difenderlo, ma poi di lì a non molto morì e il povero sant’Atanasio fu nuovamente attaccato. Intanto anche il potere politico si accaniva contro di lui: l’imperatore Costanzo l’odiava. Fu convocato un concilio ad Arles e qui si costrinsero i vescovi a sottoscrivere una condanna di sant’Atanasio. Chi si opponeva, difendendolo, veniva mandato in esilio, fu il caso di Paolino di Treviri. Stessa sorte toccò anche al papa legittimo Liberio, che venne sostituito da un antipapa, Felice. Fu allora che accadde ciò che viene ricordato come “caduta” di un papa. Liberio, per ottenere il potere e tornare a Roma come papa legittimo, decise anch’egli di accettare l’ambigua definizione semiariana, eppure fino ad allora si era distinto per una convinta definizione dell’ homoosius del Concilio di Nicea. Altri concili segnarono il trionfo dell’eresia: quelli non ecumenici di Rimini e di Seleucia, siamo nel 359. Ma era prevedibile che per come era stato trattato sant’Atanasio e soprattutto per come era stata rinnegata la vera fede il castigo fosse alle porte. All’imperatore Costanzo, morto nel 360, successe Giuliano detto “l’apostata” (330-363), che arrivò a ripudiare il battesimo cercando di restaurare il paganesimo. Non passò molto tempo e il nuovo imperatore Valente, così come il nuovo papa Damaso, capirono che sant’Atanasio aveva ragione e lo riabilitarono. L’intrepido difensore della fede cattolica morì il 2 maggio del 373. Caro (…), due cose vanno messe in rilievo. La prima: ai tempi di sant’Atanasio a difendere la fede ci fu solo lui e una piccola comunità, i vescovi dell’Egitto e della Libia. Solo loro seppero mantenere accesa la luce della fede. La seconda: è significativo che colui che combatté da solo contro l’eresia ariana, non fu mai un teologo. La sua grande sapienza teologica, più che dagli studi, gli venne dall’incontro con i suoi maestri cristiani che testimoniarono il martirio

durante le persecuzioni di Diocleziano; e soprattutto dall’incontro con il grande sant’Antonio. Ario, invece, raccoglieva grande consenso per la sua grande preparazione biblica e teologica. Era insomma, caro (…), come tanti teologi che oggi vanno per la maggiore nei dibattiti, nelle prime pagine dei quotidiani e nei talk-show televisivi.

Il Graal: oggetto magico o religioso?

Una lettrice: Chi vi scrive è una mamma di un ragazzo di quindici anni. Da tempo mio figlio legge libri sul Graal. Sfogliandoli, però, mi sono accorta che sono testi impregnati di magia, esoterismo, occultismo e altre cose per nulla “serene”. Ma il Graal è o non è il calice che Gesù utilizzò nell’ultima cena? E se sì, allora cosa c’entra con la magia? Chiaritemi le idee, così posso anche mettere in guardia mio figlio. Gent.ma (…), molti sanno cosa sia il Graal, ma pochi ne conoscono il vero significato. Per Graal s’intende il calice che Gesù utilizzò nell’ultima cena, cioè quando istituì l’Eucaristia e trasformò il vino nel suo Sangue. Ma perché questo Graal è stato oggetto di numerose leggende? La risposta è duplice. Primo: Perché il Graal è stato visto come l’oggetto “magico” per eccellenza. Secondo: Perché è stato visto anche come l’oggetto “religioso” per eccellenza. Ovviamente si tratta di due convinzioni totalmente diverse. Quando si parla di “magia” s’intende una sorta di atteggiamento di “potere” con il quale l’uomo pretende mettersi al di sopra del divino; anzi, di divinizzarsi lui stesso. Quando, invece, si parla di “religione” s’intende il contrario, un atteggiamento di “servizio” con il quale l’uomo, riconoscendosi creatura, si sottomette al divino. Nella tradizione tanto esoterica (la verità sarebbe nascosta e solo per pochi) quanto occultistica (la verità sarebbe il frutto del potere della mente) il Graal è stato visto come l’oggetto per eccellenza affinché l’uomo potesse impadronirsi dell’onniscienza e dell’immortalità; insomma, lo strumento per realizzare il desiderio dei desideri: la propria divinizzazione. In queste tradizioni (esoterica ed occultistica) la figura di Gesù è stata spesso vista in chiave gnostica. Gesù sarebbe il modello da imitare, sì, ma non nel senso del Dio-fatto-uomo quanto dell ’uomo-che-diventa-Dio. Il Verbo sarebbe quel divino buono che sarebbe presente a mo’ di scintilla in ogni uomo. Incarnandosi, questo Verbo avrebbe insegnato all’uomo come liberarsi dalla “prigionia” del corpo e quindi come spogliarsi del peso dell’individualità (l’apparente creaturalità) per riunirsi al

divino originario. In tale prospettiva il Graal è una sorta di materializzazione di questa convinzione e di questa aspirazione. Ma, cara (…), abbiamo detto che il Graal può essere considerato anche in maniera totalmente diversa, come il segno che riconduce al vero senso della vita, cioè all’appartenenza al divino. Nel Graal il vino fu trasformato nel Sangue di Cristo, quel Sangue che è segno dell’Amore per eccellenza, dell’offerta di Dio all’uomo per la salvezza dell’uomo. Il Graal, quindi, è il segno del bisogno di Dio, di quanto l’uomo abbia avuto e abbia ancora necessità di Dio. Cosa sarebbe la vita di ognuno di noi senza il Sangue di Cristo? In questa prospettiva il Graal è la vita; e la sua ricerca è il vero senso della vita. Nelle saghe bretoni per poter occupare l’ambito “ Seggio del pericolo” occorre una condizione indispensabile: essere puri di cuore. Cioè per realizzare pienamente la vocazione fondamentale (la ricerca del Graal, che è la ricerca di Dio) non è necessario possedere tanto le capacità intellettuali quanto aprire il proprio cuore e praticare l’esercizio della virtù. La vocazione fondamentale è il compito su cui l’uomo si gioca veramente tutto, non a caso il seggio è appunto chiamato il “ Seggio del pericolo”. Cara (…), il fatto che suo figlio si sia appassionato a tutto ciò che parla del Graal non è preoccupante, anzi. Piuttosto si tratta di un interesse che va correttamente orientato. Provi a dirgli ciò che adesso le dirò. Il Graal non si sa dove sia, ma si sa che è sempre presente. La teologia cattolica afferma che nel Sacrificio eucaristico il sacerdote agisce in persona Christi, il che vuol dire che ogni qualvolta il sacerdote consacra, le sue mani non sono più le sue mani ma le mani stesse di Cristo. Ciò vale anche per gli oggetti che sono utilizzati in questo sacrificio: il calice non è più quel calice che fu acquistato in un determinato negozio, ma diventa, in quel preciso momento, veramente il Graal. Ogni uomo dovrebbe porsi dinanzi alla propria esistenza secondo il modello della stupenda figura di Parsifal. Interessa poco sapere della sua esistenza storica; interessa piuttosto tener presente che la sua vita è vera, in quanto vita offerta alla ricerca di ciò che rappresenta veramente il Tutto dell’esistenza umana. Parsifal è senz’altro un eroe antimoderno. Lo è perché sa che la vita va spesa non solo nella dimensione orizzontale (aiutare gli altri) che è pure importante, ma soprattutto in quella verticale. Parsifal sa bene che l’uomo, più che del cibo materiale, ha bisogno di ciò che davvero può riempire la sua esistenza: la risposta totale per tutte le proprie ansie. Cara (…), faccia capire a suo figlio che in ogni nostra faccenda, in ogni nostra preoccupazione, in ogni nostra ambizione, dobbiamo incontrare lo sguardo di

Parsifal e ammirare il suo cuore… per decidere che la sua ricerca diventi anche la nostra ricerca.

L’obbligo morale di convertirsi alla Chiesa Cattolica

Un lettore: Ho sentito dire che molti anglicani sono passati alla Chiesa Cattolica. Ma è giusto permettere questo? Ho sempre saputo che l’ecumenismo esige il dialogo, non la conversione. Gentile (…), purtroppo possono esserci due tipi di ecumenismo. Il “purtroppo” le sarà subito chiaro. C’è un ecumenismo corretto, che è quello che mira al dialogo, non per il dialogo in sé, ma per realizzare l’unità tra i cristiani che, inevitabilmente, deve prefiggersi il ritorno alla Chiesa Cattolica Apostolica e Romana, l’unica Chiesa voluta e fondata da Cristo. C’è poi (ecco il mio “purtroppo”) un altro tipo di ecumenismo, quello che oggi è presente nell’immaginario di molti fedeli e anche di molti teologi ed ecclesiastici, ovvero un ecumenismo che dovrebbe servire solo a formare una sorta di “super-chiesa”, secondo la nota convinzione del cosiddetto Consiglio Ecumenico delle Chiese, nato ad Amsterdam nel 1948. Al fondo di questo tipo di ecumenismo vi è la convinzione secondo cui l’unica santa Chiesa voluta da Gesù, pur esistendo, non si sarebbe ancora manifestata in modo visibile. Ad essere visibili sarebbero solo le tante chiese separate fra loro; per cui l’unità visibile dei cristiani si realizzerà solo grazie alla confluenza di tutte le “chiese” cristiane in una nuova Chiesa visibile, diversa ma anche più perfetta. Si tratta di un’affermazione inaccettabile, perché l’unica santa Chiesa voluta e fondata da Gesù esiste già in modo visibile, ed è appunto la Chiesa Cattolica. L’unità dei cristiani va sì auspicata, ma deve realizzarsi con il riconoscimento da parte di tutte le comunità cristiane della Chiesa Cattolica e quindi della necessità di ritornare ad essa. Va detto che Gesù ha voluto e fondato una chiesa “visibile” a tutti fino alla fine del mondo, come la “ città posta sul monte” ( Matteo 5, 14). Ora, se questa chiesa oggi fosse invisibile, vorrebbe dire che Gesù avrebbe detto il falso e che la sua missione sarebbe fallita.

Fu proprio nel periodo in cui stava per nascere il Consiglio Ecumenico delle Chiese –precisamente nel 1943- che Pio XII scrisse nella Mystici Corporis: “Si allontanano dalla verità divina coloro che immaginano la Chiesa come se non potesse raggiungersi né vedersi, quasi che fosse una cosa ‘pneumatica’ come dicono, per la quale molte comunità di cristiani, sebbene vicendevolmente separate per fede, tuttavia sarebbero congiunte tra loro da un vincolo invisibile.” Caro (…), solo la Chiesa Cattolica ha storicamente conservato nei secoli il collegamento con Pietro. Solo la Chiesa Cattolica si è preservata “Una” come Gesù promise quando disse: “ un solo ovile e un solo Pastore” ( Giovanni 10, 16). Solo nella Chiesa Cattolica si è conservata davvero intatta la stessa dottrina. Infatti: la Chiesa Ortodossa nacque definitivamente nel 1054, il Protestantesimo nel 1517 e l’Anglicanesimo nel 1534. Veniamo adesso al ritorno degli anglicani. Caro (…), le indico tre punti importanti. Primo. Indubbiamente ciò che è avvenuto è un fatto positivo, anche perché costituisce un precedente che può aprire prospettive molto interessanti in merito al numero di conversioni alla Chiesa cattolica. Secondo. Va evitato, però, di trattare questo avvenimento esclusivamente alla luce della libertà coscienza. Molti, infatti, spinti da convinzioni iper-ecumeniche (nel senso di quell’ecumenismo “scorretto” di cui ho parlato prima) e dimentichi della dottrina tradizionale che vuole la Chiesa cattolica come unica realtà salvifica, hanno cercato di spiegare l’accaduto solo motivandolo come questione di libertà di coscienza; trascurando, invece, l’obbligo morale di aderire alla Chiesa cattolica e quindi, per gli scismatici ed eretici, di ritornarvi. Terzo. Bisogna convincersi che a rendere legittima una scelta di adesione alla Chiesa cattolica non può essere solo lo scandalo e quindi il rifiuto di aberrazioni ormai frequenti nella “chiesa” anglicana come l’ordinazione femminile o i matrimoni gay, ma –appunto- il riconoscimento della verità cattolica. Non a caso tra i punti (su alcuni occorrerebbe un’adeguata spiegazione per evitare errate interpretazioni) della Costituzione apostolica Anglicanorum Coetibus (documento con cui si regola il ritorno di questi anglicani) vi è anche l’adesione al Catechismo della Chiesa Cattolica.

Heidegger, un filosofo alla moda… ma pericoloso

Un lettore: Non ho studiato filosofia, per cui certi nomi mi sono del tutto sconosciuti. Alle volte il mio parroco (uomo di grande cultura) cita ed elogia il filosofo Heidegger. Poi questo stesso filosofo me lo sento nominare da mio figlio che ha fatto l’ultimo anno di liceo e che ha una passione per la filosofia, ma lo nomina come filosofo tutt’altro che cristiano. Ma chi è costui? Se lo nomina il mio parroco tanto cattivo non dovrà essere … Caro amico, ha perfettamente ragione: Heidegger è diventato una sorta di “prezzemolo” filosofico e teologico, lo si mette un po’ dappertutto. Il problema però è che fin quando lo utilizzano coloro che seguono certe mode imperanti, non c’è da stupirsene … ma se lo si utilizza in teologia (per esempio un parroco), sono dolori. Lei mi chiede di fare una sintesi del pensiero heideggeriano mettendone in luce i pericoli. Mi propone un’ardua impresa col poco spazio che ho a disposizione, ma farò del mio meglio. Certamente storceranno il naso coloro che masticano di filosofia, ma questa è una rubrica delle lettere e non si può né si deve andare tanto per il sottile. Per Heidegger l’ essere non si manifesta mai direttamente, ma sempre come l’ essere di un ente , cioè l’ essere di un singolo uomo, di un singolo cane, di un singolo tavolo, ecc... In tal modo l’uomo non è più conoscibile attraverso Dio (come afferma la buona filosofia cristiana), bensì attraverso se stesso, per giunta attraverso la sua singolarità e ciò che gli accade. Una svolta “antropologica” che purtroppo farà propria, con conseguenze che scontiamo ancora oggi, una diffusa teologia contemporanea, per esempio quando si dice che nel giudizio morale sul comportamento umano non si deve tener presente una legge morale universale quanto le singole circostanze che definiscono l’esistenza individuale; per cui alla fine tutto si giustifica: non esiste più oggettivamente il peccato, ma ciò che l’uomo avverte soggettivamente come tale. Una precisazione importante: criticare Heidegger non vuol dire convincersi che l’uomo possa essere alienato dalla sua singolarità storica, bensì affermare che tale singolarità non può dissolvere l’essenza dell’uomo.

Caro (…), in realtà ci sono anche delle affermazioni interessanti nella filosofia di Heidegger, soprattutto quelle sulla morte e sulla precarietà dell’esistenza umana. Ma –come dicevo- Heidegger “fa acqua” proprio quando affronta il discorso metafisico. Se l’essere è solo nella singolarità, allora l’ essere è sempre cangiante, ineffabile e fondamentalmente inconoscibile; e quindi non solo diventa tutto e il contrario di tutto, ma diventa perfino “nulla”. Attenzione però. Caro (…), “nulla” non vuol dire inesistenza o assenza. Per il “nichilismo heideggeriano” il nulla è l’ombra dell’essere. Caratteristica essenziale dell’ essere sarebbe quella di mostrarsi e di velarsi. Secondo Heidegger, l’ essere ritorna all’uomo nella sua essenza soltanto quando non è più costretto nelle categorie logico-razionali della metafisica occidentale che lo definiscono (e lo circoscrivono) come: Dio, soggetto, ragione, scienza, progresso, ecc. L’ essere appare allora come terra sacra, celebrata dai poeti. Che dire, caro (…)? Che pur di non riconoscere il limite dello stupore, Heidegger va a carte quarantotto. Come ho già detto, egli dice cose belle sulla natura limitata dell’uomo, ma le sue affermazioni sull’essere lo conducono allo snaturamento del limite. Dire che l’ essere non è sostanza ma evanescenza, dire che l’ essere può essere colto non attraverso il metodo filosofico bensì attraverso quello poetico, vuol dire concepire l’ essere non come realtà che riconduce l’uomo al vero, bensì come possibilità di emancipare l’uomo da qualsiasi vincolo. Insomma, Heidegger crede di liberare l’uomo dal dominio logicorazionale dell’essere; ma non solo non lo libera, lo rende schiavo di un’inconoscibilità del reale che si trasforma sempre e comunque in “reali” costruiti a proprio piacimento e che impietosamente lo dissolvono. Un’ingenua e pericolosa contraddizione: Heidegger pensa che la concezione tradizionale di “essere” abbia determinato lo sviluppo della tecnica che poi si sarebbe ritorta contro l’uomo … e non si rende conto che è proprio il contrario: annullando qualsiasi definitivo valore ontologico, permane solo il potere di ciò che sa imporsi, dunque anche della tecnica che diventa impietosamente “tecnocrazia”.

Sovranismo e Cristianesimo. E’ possibile questo binomio?

Un lettore: Sono un giovane e vi leggo sempre con piacere. Ho da porvi una domanda che -penso- in questi giorni molti si stiano ponendo. Meglio: si tratta di due domande che riguardano il cosiddetto “sovranismo”. La prima domanda: perché del sovranismo se ne parla così male? La seconda: quale giudizio dare del sovranismo da un punto di vista cristiano? Grazie anticipatamente per la risposta che mi darete. Caro (…), cerco di rispondere quanto più semplicemente ai due interrogativi che ha gentilmente posto. Non le nascondo che mi sarà molto facile farlo, perché proprio in questi giorni ho avuto la possibilità di trattare questi argomenti su altre pagine. Prima questione: perché si parla tanto male del sovranismo? La risposta è molto semplice, ma richiede che ci si richiami a qualche reminiscenza storica. L’economia dell’Alta Finanza ha nei secoli recenti lavorato per l’abbattimento di frontiere e dazi doganali (lo stesso cosmopolitismo illuminista rispondeva anche a questa volontà). Si tratta di un “dogma” del supercapitalismo (che qualcuno definisce anche con la felice espressione di mercatismo), che è funzionale alla pretesa di sottomettere la dimensione comunitaria all’economia e non viceversa, così come invece avveniva nella società cristiana tradizionale. La borghesia finanziaria e imprenditoriale, che è stata protagonista della svolta ipercapitalista della modernità, ha sempre prediletto il superamento delle identità nazionali ai fini di realizzare la trasformazione dei beni immobili da beni “rappresentati dal denaro” in beni “rappresentativi del denaro”. Trasformazione che si realizzò con la legge Le Chapelier (anno 1791) durante la Rivoluzione francese. Detto questo -e vengo alla sua seconda domanda- si capisce anche il motivo per cui il sovranismo è non solo perfettamente compatibile con il pensiero sociale cristiano, ma è anche un valore in sé. Come precisato precedentemente, ho avuto

modo di scriverlo da altre parti: è un grave errore confondere il sovranismo con il nazionalismo. Il primo ha una dimensione difensiva, il secondo espansiva. Quest’ultimo (il nazionalismo) è un tentativo di prevaricazione di un’identità nazionale su altre. Il nazionalismo esplose non a caso in piena modernità, proprio perché funzionale al progetto di abbattimento delle diversità territoriali. Insomma, s’imponeva il modello nazionale perché ad esso doveva corrispondere un preciso modello economico. Il sovranismo, invece, ha un altro significato: difensivo e non espansivo. La difesa della propria autonomia per difendere (chiediamo scusa della ripetizione) la priorità della dimensione comunitaria su interessi economici, finanziari e di mercato. Da qui -ecco la mia risposta- il valore pienamente cristiano del sovranismo. Un valore che recupera la necessità e l’importanza del modello familiare. Uno Stato che esautorasse la famiglia sarebbe moralmente inaccettabile, così sarebbe altrettanto moralmente inaccettabile un’economia che esautorasse lo Stato. Da qui anche tanti ingenui cattolici i quali pensano che, attaccando il sovranismo, rendano chissà quale buon servizio alla causa della solidarietà, quando invece è tutt’altro. Insomma, il sovranismo è naturale, così come è naturale che la famiglia goda di autonomia e le venga riconosciuta una libertà; e così come sono naturali i corpi sociali intermedi senza che questi vengano totalitaristicamente spazzati via.

Il Cristianesimo non si può ridurre ad “esperienza”

Un lettore: Cari amici di Radici Cristiane, sono uno studente universitario. Mi sono da poco avvicinato alla Fede e questo grazie anche a degli amici che fanno parte di un movimento ecclesiale abbastanza famoso. C’è però qualcosa che non mi convince di ciò che dicono. Affermano continuamente che il Cristianesimo sia unicamente una “esperienza”. Che questo basta sapere, il resto sarebbe superfluo. E che addirittura si potrebbe soprassedere sulla conoscenza della verità. Forse sto forzando un po’ i loro argomenti, ma mi sembra tutto sommato questo. Voi cosa ne pensate? Caro (…), ho capito bene a quale gruppo si riferisce. Le dico subito che presentare il Cristianesimo in questo modo non è corretto. Il Cattolicesimo non è riducibile ad “esperienza”, ma è verità che produce e giudica l’esperienza. Bisogna sempre aver presente che non è l’esperienza che giudica la verità, ma il contrario: è la verità che giudica l’esperienza. Faccio un semplice esempio per farmi meglio capire. Se io dico: sono cristiano perché mi sento felice di esserlo … come la mettiamo con il musulmano o con il testimone di geova che possono ovviamente rispondere: anche noi siamo felici di essere ciò che siamo? Certamente è importante il riscontro dell’essere cristiano nella propria vita, ma non è determinante. Come abbiamo detto prima: è la verità che giudica l’esperienza, non il contrario. Caro (…), identificare Gesù con la felicità non è affatto sbagliato, anzi è verissimo, ma non basta. Cristo è la felicità perché è la Verità. Certamente oggi, per l’annuncio cristiano, potrebbe (ma non è detto!) essere non molto efficace un metodo ben strutturato come quello tomista che parte dalla centralità della verità, mentre potrebbe essere più persuasivo quello agostiniano che parte dalle esigenze esistenziali dell’uomo, ma ciò non vuol dire che anche partendo dalle aspettative dell’uomo e dal suo bisogno di senso non si debba poi completare l’annuncio facendo capire la priorità logica della Verità. Insomma, per dirla semplicemente, se si sceglie sant’Agostino piuttosto che san Tommaso, lo si deve scegliere come primo approccio, non per sostituire il secondo con il primo.

Facciamo un esempio: l’ideale è vedere un film partendo dall’inizio; ciò non toglie però che lo si può capire anche se si arriva al cinema a proiezione in corso; poi, una volta che lo si vede per intero aggiungendo la parte iniziale a cui si è mancati, la trama diviene comprensibile. Indubbiamente l’uomo di oggi non è quello del XIII secolo, è un uomo completamente destrutturato che –appuntodeve essere prima di tutto coinvolto attraverso i bisogni esistenziali; ma ciò non toglie –come abbiamo già detto- che una volta utilizzato questo approccio, sia necessario fargli capire che tutto inizia e tutto ha senso nella Verità. Caro (…), la Verità Cattolica è unione di verità e bellezza. Essa non solo è vera ma è anche bella, cioè non solo soddisfa l’intelligenza ma anche il cuore. E’ una sorta di cattedrale di cristallo; “cattedrale” perché è tutto logico, ordinato, consequenziale; “di cristallo” perché questa logicità, ordine e consequenzialità si traducono in una bellezza armonica irresistibile, così come il cristallo sa far risplendere le forme dell’oggetto di cui è materia. Inoltre, caro (…), bisognerebbe precisare cosa significa “felicità”. Felicità non è lo stato d’animo che riconosce che tutto è positivo e che quindi si traduce sempre in una condizione di consolazione e di gaudio. Se fosse questa la felicità, i santi avrebbero qualche problema in merito; basterebbe pensare a tutte le prove che contrassegnano la loro vita: desolazioni, notti, tentazioni … la felicità in senso cristiano non è alternativa alla sofferenza (che è ineliminabile), ma alla disperazione. La felicità è la pace dell’anima che può e deve coniugarsi anche con l’esperienza delle prove più terribili. Ma per capire questo –e torniamo al punto iniziale- bisogna che l’esperienza cristiana sia sempre esito del riconoscimento di ciò che è vero.

L’Indice dei libri proibiti… lo possiamo davvero considerare uno scandalo?

Un lettore Cari amici di Radici Cristiane, di accuse alla storia della Chiese se ne formulano tante. Tra queste vi è la questione della censura, quella ricordata come Indice dei libri proibiti. Un argomento come questo viene utilizzato per attaccare la Chiesa e accusarla di essere stata nemica del progresso culturale. Voi che ne pensate? Caro (…), con piacere rispondo alla sua domanda. Anche perché, personalmente, ho già avuto modo di interessarmi a questo argomento. Dico subito che l’Indice dei libri proibiti non fu oscurantismo o bieca censura, come dice invece la cultura progressista. Vediamo perché. Questo Indice era l’elenco dei libri che la Santa Sede indicava come pericolosi per la dottrina e la morale. Libri quindi che i fedeli non potevano né leggere né tantomeno conservare, a meno che non avessero ricevuto un particolare permesso. La Chiesa cattolica ha sempre condannato i libri pericolosi. Prima del secolo XV si limitava ad imporre di consegnare o di bruciare gli scritti pericolosi; ma dopo l’invenzione della stampa e soprattutto dopo la Riforma, questi libri si diffusero talmente che la Chiesa cattolica decise di fare un catalogo di quegli esemplari che non potevano essere letti né studiati. Censura e oscurantismo, secondo la cultura progressista. No, non è così. Ragioniamo. Primo. La Chiesa ha il dovere di guidare i fedeli e quando afferma che un determinato libro può far perdere la fede o corrompere il cuore, compie un atto

di bontà e di attenzione alla salvezza dei propri figli. Soprattutto dei più semplici che più facilmente possono essere manipolati e conquistati dalla menzogna. Secondo. La vera libertà non è sapere tutto, ma avere la libertà di realizzarsi e salvarsi. Quando il medico prescrive al diabetico di non poter mangiare i dolci, certamente proibisce, ma chi si sognerebbe di dire che è una proibizione sbagliata o un’ingiusta privazione di libertà? Terzo. Quando si dice che l’ Indice sarebbe stato un ostacolo alla diffusione della cultura letteraria e scientifica perché avrebbe chiuso l’accesso a numerosi capolavori e ad opere di valore scientifico, si dice un falso. Pochissimi furono i capolavori colpiti dall’ Indice: le opere dell’Antichità furono scartate “propter pulchritudinem formae”, cioè “per la bellezza letteraria”. Quarto. Coloro i quali arrivavano a frequentare studi superiori o avevano una cultura alta da renderli capaci di controllare, discernere e capire il contenuto di un libro, ottenevano tutti i permessi possibili. Certo, caro (…), anche l’ Indice, come tante altre cose del passato, va contestualizzato, soprattutto va capito inserendolo in un contesto culturale che aveva paura del pluralismo culturale e religioso, soprattutto in conseguenza dello scoppio della Riforma e di tutte le guerre religiose che, a causa della Riforma, seguirono. Detto questo, va aggiunta anche un’importante considerazione; e cioè che la cultura letteraria e scientifica non possono diventare i fini della vita, perché, come l’arte, devono essere sempre sottoposti al giudizio delle leggi superiori della morale. La verità non è vera perché è bella; è la bellezza che è bella perché è vera, cioè perché è in sintonia con la verità. E poi –siamo seri- la Chiesa cattolica che cosa deve ancora fare per dimostrare quanto ami e abbia amato l’arte? Tutto quello che oggi possiamo ancora ammirare è per la stragrande maggioranza frutto del suo messaggio e della sua opera evangelizzatrice. Piuttosto va detto che la Chiesa se avesse la possibilità di scegliere, certamente sceglierebbe un atto di carità che non tutti i libri di questo mondo. Perché? Perché il suo ideale è il “santo”, non l’uomo che studia per il solo amore dello studio.

La sciocca moda dell’Oriente

Un lettore: Spettabile redazione di Radici Cristiane, il vostro mensile svolge un’opera benemerita per la valorizzazione delle vere radici dell’Occidente, affinché – diciamolo francamente- possiamo sempre più affezionarci a questo Occidente che sembra essere sempre più malvoluto. Non vorrei sbagliarmi, ma proprio Benedetto XVI invitò l’Occidente a tornare ad amarsi. Queste riflessioni le lego a ciò che ho scoperto in molti miei colleghi di lavoro, ovvero un fascino sempre più insistente verso la religiosità orientale (Induismo, Buddismo…). A me sembra che chi si lascia affascinare da tale religiosità non solo non conosca pienamente quella della propria cultura (il Cristianesimo), ma ignori anche delle contraddizioni evidenti che ci sono in essa. Loro che ne pensano? Caro (…), le rispondo con ricordarle una celebre canzone di Giorgio Gaber che dice: “Non riesco a digerire i corsi accelerati da Lenin all’Oriente”. E’ una canzone degli inizi degli anni ’70, che parla di un fenomeno allora ancora ridotto, ma che sarebbe aumentato negli anni successivi, e cioè la migrazione vero le “rive del Gange” di molti sessantottini e marxisti delusi. Eppure c’era e c’è un perché a tutto questo. E’ sotto gli occhi di tutti che una certa mentalità moderna riesca a “flirtare” con la religiosità orientale molto meglio che con il cristianesimo. Preciso che quando parlo di “modernità” intendo una categoria filosofica e non il progresso scientifico-tecnologico in quanto tale. Caro (…), la “modernità” è un giudizio culturale e non la lavatrice, l’asciugacapelli o l’automobile, ovvero il progresso scientifico-tecnologico. Ebbene, tra “modernità” e cristianesimo c’è una incompatibilità di fondo, perché essa (la “modernità”) si è costruita sulla pretesa di rendere l’uomo autosufficiente, dio di se stesso, allergico nei confronti di qualsiasi autorità esterna alla sua coscienza. Il cristianesimo, invece, si pone in una dimensione completamente diversa, afferma che l’uomo è creatura e che Dio è creatore, che l’uomo sarà sempre dipendente e giudicato da Dio e che l’uomo non può realizzarsi e salvarsi se non nell’appartenenza a Dio stesso. Da qui l’incompatibilità. Da una parte, nella “modernità”, l’uomo deve cercare

l’onnipotenza; dall’altra, nel cristianesimo, l’uomo deve appassionarsi alla sua dimensione di creatura. Con la religiosità orientale il “flirt” è invece possibile; nel senso che questa religiosità non solo non condanna la pretesa dell’uomo di svincolarsi da qualsiasi giudizio, ma arriva a qualcosa di più grosso, arriva a dire che ogni uomo è Dio. Certo, lo afferma con tutta una serie di argomentazioni complicate, ma di fatto lo afferma. Dice che, non essendoci differenza nella sostanza tra l’uomo e tutte le cose e tra l’uomo e il divino (monismo), l’uomo, nel suo spirito, è espressione del divino, è Dio stesso. Caro (…), capisce bene che questa è dolce melodia per le orecchie della “modernità”. Sentirsi dire “tu sei Dio” è quanto di più “moderno” si possa ascoltare. Ma c’è sempre un “ma”. A cosa serve sentirsi dire “tu sei Dio” se poi bisogna convincersi di non esistere? Mi spiego meglio. La religiosità orientale, da una parte, afferma che ogni uomo è Dio perché “scintilla” che si è momentaneamente separata dal divino; dall’altra, afferma che l’io individuale non esiste. Non esiste perché ogni uomo sarebbe una “scintilla” destinata a ritornare nel divino stesso. L’uomo come “sostanza” non esisterebbe. Ecco perché si parla di reincarnazione; perché l’individualità determinata nella storia umana sarebbe apparente e transitoria. Ora, caro (…), ragioniamo: a cosa serve sentirsi dire “tu sei Dio” se poi si dice anche “tu non esisti”; che me ne faccio della mia “divinità”, se poi io non esisto? Insomma, la religiosità orientale da una parte dà, dall’altra toglie! Il cristianesimo, invece, pur affermando “tu non sei Dio, ma creatura”, dice anche che l’individualità non è un’onda sulla superficie del mare destinata a scomparire nel mare stesso, non è un incidente di percorso, ma realtà duratura ed eterna. Ci dice che ognuno di noi vivrà come “io” per l’eternità. E questo vuol dire che tutti gli affetti che noi costruiamo nella vita terrena non sono illusioni, ma realtà durature che possiamo incontrare di nuovo nell’eternità. Nella religiosità orientale, invece, gli affetti non contano nulla. Se l’io individuale non esiste, chi siamo noi che amiamo e chi sono le persone oggetto del nostro amore? Caro (…), penso che adesso abbia buoni argomenti per “chiacchierare” con i suoi colleghi.

Il crocifisso negli uffici. Come rispondere?

Una lettrice: La recente sentenza della Corte Europea dice che i crocifissi non devono essere presenti nelle aule scolastiche e negli uffici pubblici. A me sembra inaccettabile. Ho l’impressione, però, che la motivazione di carattere culturale (i crocifissi devono esserci perché sono segno di un’identità del popolo italiano) sia un po’ debole. Loro cosa ne pensano? Solitamente le risposte che si danno per difendere il crocifisso negli uffici pubblici sono due: la prima di carattere culturale, la seconda riguardante una giusta concezione della laicità. Cara (…), gliele espongo dettagliatamente. La prima afferma che il crocifisso ha una valenza culturale. La nazione italiana ha le sue radici prevalentemente nel Cristianesimo, per cui è giusto che negli uffici pubblici, attraverso il crocifisso, vi sia questo richiamo. La seconda risposta riguarda una giusta concezione della laicità. La laicità può essere di due tipi, quella che prende origine dalla Rivoluzione francese, ovvero la laicità come eliminazione della presenza pubblica di qualsiasi identità religiosa; oppure quella che prende origine dalla Rivoluzione americana, ovvero la laicità come offerta a tutte le identità religiose di presenziare pubblicamente. Nel primo caso l’identità religiosa deve essere omessa in quanto identità religiosa; nel secondo caso tutte le identità religiose hanno lo stesso diritto di espressione. Nel primo caso, ad evitare la confessionalizzazione dello Stato è la proibizione; nel secondo caso è la legittimazione del pluralismo religioso. Caro (…), mi sento di darle ragione. Le “risposte”: il crocifisso come simbolo culturale o come espressione di una delle tante identità religiose da salvaguardare, mostrano un’evidente debolezza. Nel primo caso, perché se il crocifisso è un simbolo culturale, anche un’altra significativa raffigurazione potrebbe esserlo. Nel secondo caso, perché se il crocifisso va salvaguardato in quanto va salvaguardata la presenza pubblica di qualsiasi identità religiosa, allora non si capisce perché solo il crocifisso e non altro. Un credente di altra

religione potrebbe benissimo pretendere di affiggere i propri simboli in un’aula scolastica o in un ufficio. In realtà, ciò che sta accadendo è l’esito di come si è voluto impostare il rapporto Stato-Chiesa in molti Stati di tradizione cattolica. Sarebbe ingenuo non riconoscere che il concetto di laicità dello Stato (meglio di “neutralità” dello Stato in materia di religione) come in Italia si è espresso nel Nuovo Concordato del 1984 renda molto debole la motivazione per conservare il crocifisso negli uffici pubblici. Il professor Roberto den Mattei, con grande lungimiranza, scrisse proprio all’indomani della stipula del Nuovo Concordato: “L’abolizione del principio confessionale e la proclamazione dell’opposto principio della neutralità religiosa avrà una sua simbolica espressione nella rimozione del Crocifisso da tutti gli edifici pubblici: scuole, tribunali, ospedali, caserme, prefetture. La presenza del Crocifisso negli edifici statali esprimeva infatti l’omaggio pubblico reso dall’Italia alla religione cattolica. Se lo Stato italiano cessa di essere ufficialmente cattolico per proclamare il principio di neutralità religiosa, questo omaggio pubblico non ha più ragione di essere e costituisce anzi una prevaricazione nei confronti delle altre confessioni religiose e degli atei.” (R. de Mattei, L’Italia cattolica e il Nuovo Concordato, Roma 1985, pp.54-55). La Chiesa ha sempre affermato che lo Stato e la Chiesa sono entrambi necessari e supremi nel proprio ordine e relativamente al loro fine. Però tra il fine terreno, proprio dello Stato, e quello spirituale, proprio della Chiesa, vi è un rapporto di subordinazione del primo al secondo. Infatti, a cosa varrebbe la felicità temporale qualora non si raggiungesse quella eterna? La Chiesa, perciò, non interviene negli affari puramente temporali; ma ciò che interessa sia l’ambito naturale che quello soprannaturale (come, per esempio, il matrimonio, l’educazione dei giovani, ecc.) deve essere trattato dallo Stato in modo che non vengano danneggiati, a giudizio della Chiesa, i beni superiori dell’ordine soprannaturale. Qui viene un punto importante: i doveri verso Dio devono essere resi alla divina Maestà non soltanto dai singoli cittadini, ma anche dal Potere civile, che, negli atti pubblici, rappresenta la Società civile. Dio, infatti, è l’autore della Società civile e fonte di tutti i beni che, attraverso di essa, sono indirizzati a tutti i suoi membri. Questo discorso attiene alla regalità sociale di Cristo. Pio XI, nella Quas primas del 1925, afferma che Cristo è Re per diritto nativo, perché è Figlio di Dio; ma è Re anche per la sua umanità, ovvero per diritto acquisito, perché ci ha redenti. Questa regalità è diretta sulle cose spirituali, mentre sulle cose temporali è

ugualmente diretta ma non esercitata direttamente (San Tommaso, S.T.III, qq.5859). Va detto che un conto è dover accettare un dato di fatto e quindi cercare di raccogliere ciò che è possibile raccogliere; altro è invece teorizzare il principio della neutralità religiosa dello Stato. Insomma, è contraddittorio cercare di salvaguardare un’opzione preferenziale per il Cattolicesimo (per esempio rivendicando la presenza dei crocifissi) e poi favorire la dottrina della neutralità religiosa dello Stato. Quando si afferma che il Cattolicesimo può comunque rivendicare un ruolo preferenziale perché religione più consistente numericamente, non ci si accorge che si afferma un qualcosa di pericoloso: prima di tutto perché una religione non si misura con criteri sociologici o quantitativi; secondo, perché la maggiore consistenza del Cattolicesimo è proprio esito di un riconoscimento de iure dello stesso che si è avuto nei secoli.

Che l’uomo abbia un’anima immortale è evidente

Un lettore: Sono credente, ma molte volte mi assillano dei dubbi in merito all’esistenza dell’anima spirituale. Oggi, poi, si stanno diffondendo teorie che negano la spiritualità e l’immortalità dell’anima spiegando tutto in termini biologisti e genetisti. Caro (…), mi sembra che ai suoi dubbi si possa facilmente risponde partendo dall’esercizio della libertà. Nell’uomo esistono due libertà: la libertà naturale e la libertà morale. La prima è la semplice possibilità di scelta, la seconda è invece l’obbligo di aderire al bene. La prima è presupposto della seconda, ma la seconda –ovviamente- è l’autentica libertà, che –guarda caso- coincide con un obbligo morale, perché non c’è libertà senza verità. Da qui –per esempiol’errore dell’ideologia liberale secondo cui la libertà giudicherebbe la verità e non viceversa. Attenzione però: peculiare dell’uomo non è soltanto la libertà morale, ma anche quella naturale. Infatti, l’animale non ha libero arbitrio. Le sue azioni sono necessitate. Fin qui, caro (…), c’è abbastanza accordo. Dove però vi è differenza è allorquando si dice che tale esercizio della libertà scaturisca solo dal cervello, dunque dalla materia e basta. Qui però si manifesta una grande contraddizione. Il corpo, e tutto ciò che è organico, si esprime attraverso impulsi e pulsioni. Da questo punto l’illuminista La Mettrie aveva ragione a dire che l’uomo non è che una macchina. Ovviamente aveva ragione secondo la sua logica: se l’uomo non è che il suo corpo, egli non è che una macchina. Così come aveva ragione anche il famigerato de Sade: se l’uomo non è che una macchina, e se la macchina funziona solo attraverso i suoi impulsi, l’uomo non può che assecondare ogni impulso indipendentemente se questo sia moralmente legittimo. Ma dov’è l’errore di una simile convinzione? Se l’uomo non ha che il corpo e il suo pensiero non è che il suo cervello, l’uomo stesso non potrebbe mai formulare degli atti di volontà in contrasto con gli istinti. Ovvero: se la ragione umana avesse una natura materiale, quindi fosse della stessa natura degli istinti, non

potrebbe dare dei comandi in contrasto con gli istinti stessi. Il fatto stesso che ciò succede, significa che la ragione dell’uomo ha una natura diversa dagli istinti. Se gli istinti hanno una natura materiale e attengono alla dimensione corporea, la ragione ha una natura spirituale. Un animale non potrà mai rispettare una dieta alimentare, l’uomo sì … certo, dipende dalla sua forza di volontà … ma può riuscirci. Adesso, caro (…), le do qualche argomento per fortificarsi nella convinzione dell’immortalità dell’anima. Da un punto di vista biologico si sa che il nostro organismo attuale non è l’organismo che avevamo dieci anni fa, e non semplicemente nel senso che è cresciuto e invecchiato; piuttosto nel senso che è cambiato totalmente. Nessuna cellula di tanti anni fa esiste più, a quelle si sono sostituite delle altre. Ciò significa che il corpo muta e muta radicalmente, mentre il pensiero, l’io, la propria identità restano immutabili. Ciò dimostra l’incorruttibilità dell’anima rispetto alla corruttibilità del corpo. Il legame animacorpo -che indubbiamente esiste- non significa che l’anima subisca la corruttibilità del corpo: infatti, se la corruzione e la morte del corpo portassero alla morte dell’anima, allora si dovrebbe verificare che, con l’invecchiamento del corpo, anche l’anima s’indebolirebbe e sappiamo bene che ciò non accade. La propria identità, il proprio io, la sensibilità di questo non sono dipendenti dall’età del corpo. Certo, il pensiero dell’uomo alcune volte può alterarsi, ma non perché automaticamente segua l’età e l’indebolimento del corpo, bensì perché esso è legato agli organi, per cui quanto questi non funzionassero correttamente anche il pensiero ne risentirebbe. E tanto il pensiero non è legato all’età dell’organismo che, quando gli organi in questione riprendono il loro normale funzionamento, il pensiero ritorna ad essere quello originario. Si potrebbe però, caro (…), fare un’obiezione: ma se il pensiero è incorruttibile, mentre il corpo lo è, perché nel momento in cui le attività cerebrali sono compromesse (stato di coma o addormentamento anestetico), il pensiero dell’uomo è inesistente? La risposta è già contenuta nelle parole che abbiamo espresse precedentemente. Per esempio, una lesione cerebrale non indebolisce l’intelligenza, bensì le facoltà sensitive interne della memoria e dell’immaginazione, che sono cooperatrici indispensabili dell’intelligenza stessa, e che hanno nel cervello il loro organo. Il modo di conoscere è sempre proporzionato al modo di esistere. Finché l’anima è unita al corpo, essa conosce attraverso i sensi, altrimenti conosce in modo diverso. A tal riguardo si può fare un esempio. L’organismo umano si deve nutrire attraverso il sangue, ma il modo attraverso cui il sangue deve nutrire l’organismo, può variare. L’elemento

sostanziale è il sangue che deve nutrire l’organismo, l’elemento accidentale è il modo attraverso cui il sangue deve nutrire l’organismo. Infatti, nella vita intrauterina, l’organismo riceve il sangue dalla madre; nella vita extrauterina se lo deve procurare autonomamente attraverso l’alimentazione e la respirazione. Il fatto che l’organismo umano all’inizio della sua vita abbia necessariamente bisogno della madre, non vuol dire che ne avrà bisogno per sempre.

La Messa Tridentina

Un lettore: Eg. Dott. Gnerre, ho letto con grande interesse e speranza l'articolo del n. 100 di "Radici Cristiane", " La Messa che salva" a cura di Maddalena Della Somaglia che intervista Don Claude Barthe. L'articolo mette in risalto l'importanza essenziale del Motu Proprio di Papa Benedetto XVI, "Summorum Pontificum Cura". Mi chiedo se la Santa Messa dopo il "Novus Ordo Missae" del Beato Papa Paolo VI sia anch'essa salvifica e in quale misura. Grazie. Con simpatia. Caro amico, le dico subito di stare tranquillo …anche se relativamente tranquillo. Capirà subito il senso di questo avverbio. Il Novus Ordo è un rito valido e quindi salvifico. Ci sono però dei problemi, ecco perché prima ho detto “relativamente”. Avendo questo Rito delle deficienze e soprattutto essendo stato costruito per realizzare una sorta di "rivoluzione antropologica" (non più Dio, ma l’uomo al centro) potrebbe non spingere a curare la partecipazione del fedele che rende più fruttuosa la Messa. La Messa ha un valore in sé (che è infinito), ma i suoi frutti dipendono dalla partecipazione del fedele. Ma vediamo perché la Messa detta “di San Pio V” (in realtà si dovrebbe chiamare “in Rito Romano Antico”) facilita maggiormente la corrispondenza del fedele al Mistero ed è anche più rispondente alla verità Cattolica. Sarò schematico. 1. Nella Messa in Antico Rito il sacerdote celebra ai piedi di un altare che è rialzato per rappresentare la collina del Calvario. Questo fa chiaramente capire ciò che è davvero la Messa, ovvero la riattualizzazione incruenta del Sacrificio di Cristo sulla Croce. 2. Il sacerdote è rivolto verso Dio, con le spalle al popolo, perché agisce come altro-Cristo ( in persona Christi). 3. I fedeli sono più in basso in quanto impersonano (in un certo senso) Maria e

san Giovanni ai piedi della Croce. 4. Tutta la celebrazione si rivolge in maniera verticale, dall’uomo a Dio; tutto è orientato verso l’Eterno Padre. 5. Il testo della consacrazione sottolinea senza equivoci l’ attualita dell’azione sacrificale. La posizione (“ Chinato sopra”) e il tono della voce ( “segretamente”) del sacerdote mutano dal momento in cui questi riproduce le mosse di Gesù, realizzando in tal modo il miracolo della transustanziazione (la trasformazione del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo). Dunque, c’è differenza rispetto ad un tono uniforme che potrebbe dare invece l’impressione di una semplice narrazione di un evento e non della sua ri-attualizzazione. 6. Nella Consacrazione la frase “Ogni volta che farete ciò, lo farete in memoria di me” è certamente più chiara rispetto all’espressione “Fate questo in memoria di me”, che più facilmente può essere interpretata come semplice ricordo. L’espressione “ questo calice” rispetto al semplice “ il calice” è anch’essa indicativa. L’aggettivo dimostrativo “ questo” vuole infatti significare che il calice, sul quale il sacerdote proferisce la formula consacratoria, non è un calice qualsiasi, ma è misticamente quello stesso calice impugnato da Gesù consacrante. 7. La genuflessione del sacerdote immediatamente dopo la Consacrazione di ciascuna delle due Specie sta a significare che l’Eucaristia non è tale solo se (come affermano i protestanti) vi è la partecipazione dei fedeli, ma già unicamente nel potere ministeriale del sacerdote. 8. Il sacerdote compare per quel che è: ministro di Dio avente ontologicamente una qualità che i semplici fedeli non hanno. In questo rito non c’è spazio per una confusione tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale e gerarchico del celebrante. Per esempio: il Confiteor iniziale è detto prima dal prete, e poi dall’accolito in nome del popolo. Questa distinzione segna chiaramente la differenza esistente tra il celebrante e i fedeli. 9. Il fedele si prepara alla Comunione con il Confiteor proclamando non una sola volta ma per ben tre volte la propria indegnità, precisamente con queste parole: “ O Signore, non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato”. L’espressione nella mia casa rispetto a partecipare alla tua mensa è sicuramente più chiara per far capire che l’Eucaristia non è

semplicemente una mensa (in senso protestante) ma l’entrata di Gesù vero e vivo nel fedele. 10. La Comunione si riceve in ginocchio, direttamente in bocca, sottolineando l’adorazione dell’Eucaristia e facendo più facilmente capire le verità della Presenza Reale e del Sacerdozio ministeriale. 11. La Messa non termina immediatamente dopo la Comunione. Dunque il ringraziamento non è a discrezione del fedele, ma un atto doveroso e fondamentale per rendere fruttuosa la Comunione stessa. 12. Dopo la Comunione il sacerdote non si siede, gesto (questo) non “educativo” perché potrebbe spingere i fedeli che hanno ricevuto l’Eucaristia a fare altrettanto. 13. La liturgia della Parola non dura di più rispetto alla liturgia eucaristica, centro e apice della Messa; e la Comunione non è relegata all’ultimissima fase del Rito. 14. A proposito del latino. Esso ha la funzione di lingua sacra e solenne e aiuta il fedele a comprendere la grandezza del Mistero che si sta realizzando: la straordinarietà di ciò che accade sull’ altare-Calvario è sottolineato appunto dall’uso di un linguaggio straordinario (fuori dall’ordinario), non quotidiano. Benedetto XVI disse che nella liturgia l’uso del latino è un superamento dello spazio e del tempo. Dello spazio, perché indipendentemente da dove ci si trovi, la lingua è sempre la stessa; del tempo, perché essendo il latino una lingua non in evoluzione, meglio esprime la stabilità del dogma. Inoltre, bisogna chiedersi: la Messa va capita o vissuta? Caro (…), oggi abbiamo un paradosso: tutti capiscono le parole della Messa, ma nessuno sa più cos’è la Messa. Un tempo non si capivano le parole della Messa, ma molti di più sapevano cosa è la Messa. 15. I silenzi del Rito Antico fanno adeguatamente capire che il compito del fedele che partecipa alla Messa non è tanto quello di “vocalmente” partecipare quanto quello di “aderire”. Il modello per eccellenza è la Vergine Maria che ai piedi della Croce non parlava, ma contemplava ed offriva. Chi più di Lei ha fatto fruttificare quell’Avvenimento? Insomma, per rendere fruttuoso il Mistero della Messa bisogna condividere e nascondersi piuttosto che apparire. Si tratta di una vera e propria partecipazione cordiale, nel senso di adesione del cuore (dal latino

“cor-cordis” che vuol dire appunto “cuore”), piuttosto che di comprensione intellettuale. A conclusione, caro Leone, voglio ricordarle ciò che scrisse san Pio V nella Bolla Quo Primum Tempore del 14 luglio 1570 con la quale promulgò quello che noi oggi chiamiamo Rito Romano Antico: “ In virtù dell’Autorità Apostolica, noi concediamo, a tutti i sacerdoti, a tenore della presente, l’ Indulto perpetuo di poter seguire, in modo generale, in qualunque Chiesa, senza scrupolo veruno di coscienza o pericolo di incorrere in alcuna pena, giudizio o censura, questo stesso Messale, (…). Nessuno dunque, e in nessun modo, si permettano con temerario ardimento di violare e trasgredire questo Nostro Documento: facoltà, statuto, ordinamento, mandato, precetto, concessione, indulto, dichiarazione, volontà, decreto e inibizione. Che se qualcuno avrà l’audacia di attentarvi, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio onnipotente e dei suoi beati Apostoli Pietro e Paolo.”

Come capire il mistero della Trinità

Una lettrice: Cari amici di Radici Cristiane, mi sono da poco convertita a questa bellissima fede cattolica. Non nascondo però che ci sono questioni che ancora non mi sono chiare. Prima fra tutte quella della Trinità. Come può Dio essere unico e trino nello stesso tempo? Non riesco a capire questo mistero? Grazie per la risposta che mi darete. Cara (…), non riesce a capire il mistero della Santissima Trinità? Stia tranquilla. Non solo non è preoccupante, ma sta anche in buona compagnia. Inoltre, la Chiesa intera (quella di duemila anni di storia!) le dà manforte, perché le dice che se si vuole vuol capire il mistero della Trinità, allora si deve riconoscere di non capirlo. Non è un gioco di parole. E’ proprio così. D’altronde se così non fosse, il mistero della Trinità, non sarebbe un mistero. Piuttosto, cara (…), dobbiamo bene intenderci su cosa sia un mistero nell’ambito della fede cattolica. E’ certamente qualcosa che è al di là delle capacità umane di comprensione, ma non è qualcosa d’irrazionale. E’ oltre la ragione, ma non è contro la ragione. Faccio un esempio spicciolo-spicciolo: la ragione ci fa capire in maniera inequivocabile che Dio non può che essere unico. Ebbene, se il mistero della Trinità ci dicesse che non esiste un solo Dio, ma tre, allora sì che ci sarebbe un’evidente contraddizione con ciò che la ragione può capire. Ma tale Mistero non dice questo. Dice piuttosto che Dio, pur essendo unico, è misteriosamente distinto in tre persone e queste tre persone non compromettono l’unicità di Dio. Increato è il Padre, increato il Figlio, increato lo Spirito Santo. Immenso è il Padre, immenso il Figlio, immenso lo Spirito Santo. Eterno è il Padre, eterno è il Figlio, eterno lo Spirito Santo. Onnipotente è il Padre, onnipotente è il Figlio, onnipotente è lo Spirito Santo. Ma non ci sono tre increati, tre immensi, tre eterni, tre onnipotenti; ma un increato, un immenso, un eterno e un onnipotente. Come questo avviene ci è difficile capirlo, anche se possiamo intuirlo. C’è un semplice esempio che si può fare. Prendiamo tre candele, le accendiamo e le poniamo ad una certa distanza l’una dall’altra. Ebbene, le fiammelle sono tre. Ma se avvicinassimo le candele, noteremmo che

la fiammella diverrebbe una sola. Ecco dunque come in realtà l’ unicità può coniugarsi con la Trinità: le candele sono tre, la fiamma è una. Certo è un semplice esempio che spiega e non spiega, ma qualcosa fa intuire. Piuttosto, cara (…), lo sa che -oggi come oggi- questo Mistero è importante per avere giudizi ben chiari su alcune questioni problematiche? Prendiamo il dialogo interreligioso che è sempre più di moda fare in maniera eccessivamente “spinta”, fino ad affermare che tutto sommato Cristianesimo, Ebraismo e Islam crederebbero nello stesso Dio. Ebbene, tale Mistero chi fa capire che così non è. L’elemento trinitario, infatti, non è un elemento accidentale in Dio, ma sostanziale. Non è un abito che se Dio si toglie, rimane comunque quello che è. No. Dio è Trinità nella sua sostanza! L’altra questione, cara (…), su cui il mistero della Trinità ci illumina è quella della famiglia. Oggi (ma non da oggi) si manifesta a pieno regime un attacco di dissoluzione di quella che è la cellula fondamentale della società. Un attacco sul piano morale, politico, sociale ed economico. Ebbene, il mistero della Trinità ci fa capire che Dio è nella sostanza “famiglia” e che se si prescinde da questo elemento comunitario, nulla è concepibile… iniziando dalla natura dell’uomo.

Giovannino Guareschi, scrittore autenticamente cattolico

Un lettore: Sono un studente laureando in lettere. Ho deciso di fare una tesi su Giovannino Guareschi. Prima però di addentrarmi nello studio dello scrittore emiliano, gradirei sapere se la sua scrittura fu autenticamente cattolica. Ci sono pareri discordi a riguardo. Visto che il loro mensile tiene ad essere fedele alla buona dottrina e visto che si interessa anche di espressioni artistiche, ho pensato di avere dei chiarimenti da voi. Grazie. Caro (…), Giovannino Guareschi non è stato solo un grande scrittore e umorista cattolico, ma quel che è ancora più significativo anche un grande filosofo cattolico. Certamente la sua non è stata una filosofia nel senso comune del termine: non formulò mai un pensiero sistematico; ma è stato comunque un pensiero ben preciso. E’ stato il pensiero del “senso comune”, cioé un pensiero autenticamente cattolico. Leggendo i suoi racconti, si pensa al mondo così com’è: piccolo, piccolo. Non a caso lo scrittore emiliano chiamò “ mondo piccolo” lo scenario delle sue novelle. Ma, caro (…), di quale piccolezza si tratta? Di quella della semplicità; che è però filosoficamente grande, grandissima, perché legata a quel “senso comune”, che è a sua volta infallibile giudizio di ciò che accade. Si scrive “senso comune”, ma si legge “buon senso”: capacità di giudicare esattamente, in maniera umana ed equilibrata, senza lasciarsi ingabbiare da ideologie e astrazioni di sorta, senza pretendere di “chiudere” il reale in categorie intellettuali e soggettive. Facciamo un esempio: per dimostrare che Dio esiste non occorrono argomentazioni di alta filosofia, basta stupirsi dinanzi alla bellezza del creato. E questa possibilità è di tutti; anzi, è particolarmente di chi conserva un animo semplice, piuttosto di chi cade in un inutile intellettualismo. Ecco perché Gesù indicò la condizione del bambino come la condizione indispensabile per andare in Paradiso. Ma, caro (…), torniamo allo scrittore emiliano e alla sua chiara filosofia. La

grandezza di Guareschi è stata di saper individuare nei suoi personaggi quel buon senso di cui ho parlato prima, di averla saputa individuare in tutti, anche in chi combatteva dalla parte sbagliata. Basti ricordare l’episodio del comunistissimo Peppone che chiede il Battesimo per il figlio, volendogli imporre il nome di “Giuseppe, Stalin, Lenin”; e, al rifiuto perentorio di don Camillo, non lo dice chiaramente, ma con la sua reazione scomposta quasi arriva a “catechizzare” il curato di non poter rifiutare un sacramento che è necessario per la salvezza. Per un comunista ortodosso, è quanto dire! Cederà poi sul nome, inserendo anche “Camillo”, ma non sulla richiesta del Sacramento. Qui c’è tutta la poesia del buon senso, l’affezione ad una tradizione dei padri che nemmeno una “fede” ideologica di quella portata può scalfire. C’è un cuore che è rimasto ancora semplice, anche se la mente è da tutt’altra parte. Lo so che questo modo di Guareschi di descrivere i suoi personaggi non è stato ben digerito da tutti. Lo scrittore emiliano è stato anche accusato di non aver ben capito la tragicità del comunismo; quasi di averlo inteso come una sorta di “cristianesimo impazzito” (per dirla alla Maritain, cioè un’ideologia errata solo per il suo ateismo e non per altro) e non come un’ideologia “intrinsecamente perversa” (come aveva giustamente affermato papa Pio XI). Sono accuse che posso capire, ma che non condivido. E non le condivido perché Guareschi, presentando i suoi personaggi in questo modo, non solo riesce a demolire qualsiasi ideologia contro l’uomo, ma, riguardo al comunismo, riesce ugualmente a dimostrarne l’intrinseca perversità. Tanto intrinseca e tanto perversa che anche il comunista più ortodosso è costretto a comportarsi e a vivere in modo diametralmente diverso rispetto a quello che gli impone l’ideologia …a patto che sia come Peppone, cioè che il suo “buon senso” stia ancora lì, a guidarlo. Caro (…), c’è chi ha definito Guareschi una sorta di “eretico della risata”; e infatti lo è stato. “Eretico” di quello che oggi si suole chiamare “politicamente corretto”. Da una parte, ha fatto divertire, non nascondendo le sue simpatie politiche e facendo capire da quale parte fosse la ragione (e non è poco se si pensa dove andasse la cultura in quegli anni); dall’altra, ha riproposto il “buon senso”, quel sano realismo, che in anni di trionfo filosofico di situazionismo (non esiste una morale oggettiva ma ogni azione si giudica situazione per situazione) e nichilismo (non esiste alcun valore), costituiva davvero un’eresia.

La data del Natale

Un lettore: Tornando da scuola, mio figlio, che frequenta le Elementari, mi ha detto: “Papà, oggi la maestra ci ha detto che Gesù non è nato il 25 dicembre. Che è tutta un’invenzione il freddo e il gelo che patì il Bambinello, perché i primi cristiani per festeggiare il Natale presero un’antica festa pagana…”. Io non ho saputo rispondere. Anzi, questa notizia ha scosso anche me. Sapete dirmi qualcosa in merito? Caro (…), la questione della data di nascita di Gesù è ovviamente relativa. Nulla cambierebbe se Gesù fosse nato in estate, in autunno o in primavera piuttosto che in inverno. Ma è pur vero che anche dalle piccole cose si può capire la fedeltà ai fatti e fino a che punto ciò che viene raccontato anche oralmente sia meritevole di credibilità. Ciò che lei dice è vero. L’opinione che va per la maggiore afferma che il Natale collocato al 25 dicembre altro non sarebbe che la “cristianizzazione” di un’antica festa pagana per celebrare l’inizio dell’allungamento della luce solare. Cristo è la “luce che è venuta nel mondo”, da qui il passaggio che sarebbe stato fatto: dal Sole a Cristo. La tesi ha una sua logica, ma, caro (…), si tratta di una tesi che è stata smentita da recenti scoperte che invece dimostrano che realmente Gesù è nato il 25 dicembre, giorno più, giorno meno. Vediamo cosa è stato scoperto. Tra i documenti rinvenuti a Qumran ve ne è uno chiamato Libro dei Giubilei. In esso s’indicano le date in cui le classi sacerdotali di Israele officiavano al Tempio di Gerusalemme, ciclicamente da sabato a sabato e sempre nello stesso periodo dell’anno. Ebbene, il documento riferisce che alla classe di Abia, classe a cui apparteneva il sacerdote Zaccaria, padre di Giovanni Battista, toccava officiare nella settimana compresa tra il 23 e il 30 settembre. Ora, come ci dice il

Vangelo di Luca, Zaccaria venne a sapere dall’Angelo che sua moglie aveva concepito proprio quando stava officiando, dunque si era in quella settimana. Sarà poi lo stesso Angelo a dire alla Vergine Maria che Elisabetta era già al “ sesto mese”. Se dunque, caro (…), contiamo sei mesi da fine settembre, arriviamo a fine marzo, il che vuol dire che l’Annunciazione è avvenuta a fine marzo. Nove mesi da fine marzo… e si arriva a fine dicembre. Gesù è nato a fine dicembre. Non sarà stato proprio il 25 dicembre, ma il periodo è quello. Resta però un fatto con cui si potrebbe fare un’obiezione: il Vangelo racconta che quando Gesù nacque si era di notte e alcuni angeli incontrarono dei pastori che in aperta campagna facevano da guardia alle greggi. Betlemme è molto alta e d’inverno fa freddo. E’ difficile stare all’aperto in quella stagione. Ma, caro (…), a questa obiezione c’è una risposta. I Giudei distinguevano tre tipi di greggi. Il tipo di pecore di lana bianca, il tipo di pecore di lana in parte bianca e in parte nera e il tipo di pecore di lana nera. Le pecore di lana bianca erano considerate pure e, dopo aver pascolato, potevano rientrare nei centri abitati; le pecore di lana in parte bianca e in parte nera, ritenute semi-impure, potevano entrare nei centri abitati solo di sera; le pecore invece di lana nera, considerate completamente impure, non potevano mai entrare nei centri abitati, nemmeno di notte e nemmeno di inverno. Ed ecco perché, malgrado la stagione fredda, gli angeli incontrarono dei pastori che stavano all’aperto di notte. Ma c’è ancora un altro particolare che attesta la veridicità di ciò che stiamo dicendo. Il testo evangelico dice che i pastori facevano i turni, dunque, se facevano i turni, significa che il clima era freddo e che non si poteva stare all’aperto per un’intera notte. Dunque, caro (…), lo ripeto: la data della nascita di Cristo non è di per sé importante; ma queste notizie ci fanno capire come il Cristianesimo sin dai dettagli si configura come fatto e non come mito.

L’utilità della Bellezza

Una lettrice: La loro è una rivista che dà molto spazio alla dimensione della Bellezza. E’ una linea che approvo, ma spesso –quando ne parlo- ricevo obiezioni in merito alla futilità dell’arte. Mi dicono che il Cristianesimo deve perseguire un certo essenzialismo, altrimenti si distrarrebbe dal servire Dio e l’uomo. Come posso rispondere a queste obiezioni? Cara (…), sono state mosse tante accuse alla “bellezza”, soprattutto negli ultimi tempi. Si dice che la Bellezza renderebbe indifferenti alle questioni più importanti e toglierebbe valore alle cose su cui si dovrebbe, invece, rivolgere la propria attenzione. Ma non è così. La Bellezza –quando è vera- è strettamente legata ai concetti di giustizia e di moralità. Cosa fa il Bello? Dà espressione ad un concetto astratto, rendendolo percepibile ai sensi. Quando si osserva la Bellezza, la percezione si amplia e si viene distolti dalle preoccupazioni individuali. Ma non solo. L’attenzione tende a rivolgersi verso l’esterno (altro che egoismo!), verso gli altri esseri umani; e così la contemplazione della Bellezza diviene anche contemplazione di una Bellezza “etica”. O, per dirla più precisamente, di una Bellezza con implicazioni etiche, cioè con implicazioni nel comportamento morale di chi la esperimenta e di chi la gusta. La Scolastica ha sempre tenuto fermo sul binomio verità-bellezza. Se non altro per il fatto che l’artista debba comunque sottostare ad un giudizio morale. Ora, cosa c’è di più utile della verità? E cosa c’è di più “impegnato” e “socialmente importante” se non la ricerca e l’applicazione della verità? L’intelligibilità (cioè la possibilità, anche se solo parziale, di esser conosciuto) è una delle proprietà trascendentali dell’essere. E tra queste vi è anche il Bello. La vera bellezza non chiude le porte all’altro, ma il contrario: dispone all’altro, perché ancorata ad un “centro”. Quel famoso “centro” di cui, per una certa arte moderna e contemporanea, Hans Sedlmayr ne lamentò la perdita.

Certo, cara (…), non basta parlare semplicemente di “Bellezza”, ma occorre indicare quale “Bellezza”. Infatti, l’arte e l’estetica moderne –in parte- e quelle postmoderne –totalmente- si sono allontanate da questa prospettiva e perciò hanno considerato il Bello come fine a se stesso: una sorta di cellula chiusa non comunicante con altro e che troverebbe, inevitabilmente, il fondamento estetico in se stessa. Ed è su questa –solo su questa- convinzione che è potuta sorgere l’idea secondo cui la Bellezza sarebbe inutile; e che sarebbe egoista chi la studiasse e chi la ricercasse. Ma c’è ancora un altro punto, cara (…). Chi dice che la Bellezza e le opere d’arte siano inutili non si rende conto che già una convinzione di questo tipo (cioè che l’arte è inutile) dimostra quanto l’uomo ragioni, quanto sappia distinguere ciò che utile da ciò che è inutile, quanto sia diverso dalle bestie che vivono solo assecondando i propri istinti. L’animale non ha bisogno di contemplare la Bellezza. L’animale non sa distinguere il bello dal brutto, perché non sa distinguere il bene dal male. L’uomo, contemplando la Bellezza, affina la sua sensibilità. Capisce, cioè, che il suo destino non è solo nel tempo, in ciò che si dissolve irrimediabilmente. La contemplazione della Bellezza rende misteriosamente consapevoli di portare un desiderio di eternità e, grazie a questo desiderio, di riconoscere che la propria natura non è solo “animale”. Insomma, l’uomo ha bisogno della Bellezza, non ne può fare a meno. La sua natura, che non è solo corporea, ma anche spirituale, esige che si appassioni a ciò che è bello e non solo a ciò che utile. Se l’uomo si potesse soddisfare solo con ciò che riempie il ventre, la questione non si porrebbe. Ma l’uomo è un mistero alto. L’uomo, prima ancora di soddisfare il corpo, è chiamato ad una soddisfazione più alta. Egli si accorge che non c’è nulla di più conveniente che contemplare la Bellezza. Dice Leopardi nello Zibaldone: “La convenienza al suo fine è quello in cui consiste la bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella.” Contemplare la Bellezza, cara (…), ha una sua convenienza. “Convenienza” viene da “convenire”, che significa “convergere”. La contemplazione della Bellezza genera una convergenza di stati d’animo che si finalizzano nella piena realizzazione del proprio esistere.

Le contraddizione di una Chiesa “pneumatica”

Un lettore: Spettabile redazione di Radici Cristiane, scrivo a voi perché ho una questione che non so risolvere da solo. Sono un cattolico praticante e sono convinto che il Cristianesimo debba anche essere attenzione per ciò che accade nella vita degli uomini e quindi anche tentativo di migliorare le condizioni materiali di vita. Ma –vi confesso- mi sembra molto strano vedere uomini di chiesa profondere tante energie per schierarsi su problemi pratici opinabili, fra cui anche la questione dei rifiuti. Eppure negli ultimi tempi si è tanto parlato di una chiesa che dovrebbe essere quanto più “spirituale”. Caro (…), le rispondo ricordandole ciò che Benedetto XVI disse alla Curia Romana il 21 dicembre dell’anno scorso: “(i vescovi non devono) cedere alla tentazione di prendere personalmente in mano la politica e da pastori trasformarsi in guide politiche.” Dunque, prendo spunto da queste parole. Nel periodo cosiddetto postconciliare si è teorizzato e scritto molto contro la cosiddetta chiesa postcostantiniana accusandola di essersi troppo compromessa con il potere politico. Tutta la nouvelle theologie, figlia del modernismo teologico, ha invocato e sostenuto una sorta di "pneumatismo" della Chiesa. La Chiesa -si è detto e si dice- deve essere quanto più “spirituale”: non deve compromettersi con il potere, né tantomeno avere aspirazioni mondane. Insomma, caro (…), con queste affermazioni si voleva e si vuole attaccare la cosiddetta regalità sociale di Cristo, ovvero la regalità di Gesù non solo sulle anime e sulle famiglie, ma anche sui governanti e sugli Stati e quindi l'obbligo da parte non solo delle anime ma anche dei governanti e degli Stati di renderGli culto. Colgo l’occasione per ricordarle che i motivi del rifiuto della regalità sociale di Cristo sono due. Il primo è remoto e attiene alla dimensione più specificamente teologica. Il secondo è prossimo e attiene alla dimensione della teologia della storia. Il motivo remoto fa riferimento ad una sorta di gnosticizzazione del Cristianesimo. La gnosi implica la convinzione secondo cui l'uomo sarebbe una

sorta di “scintilla divina” imprigionata in un corpo. L'uomo sarebbe della stessa natura di Dio, per cui all’uomo stesso spetterebbe il dovere di distaccarsi dalle cose del mondo. Attenzione però: non si tratta necessariamente di un distacco nel senso di un non uso. Niente affatto: lo gnostico può benissimo “godere” dei beni terreni, l'importante però che conservi la convinzione intellettuale della loro inconsistenza e quindi del fatto che non possano costituire dei valori ai fini della salvezza. La dottrina autenticamente cattolica della regalità sociale di Cristo, invece, si basa sul principio che Cristo può e deve regnare non solo sulle realtà spirituali ma anche su quelle materiali, perché queste hanno comunque la dignità di creature. Il motivo prossimo del rifiuto da parte della teologia modernista del principio della regalità sociale di Cristo attiene -come ho già detto- alla teologia della storia. Si tratta di quell'influenza del pensiero relativista massonico secondo cui bisogna aspirare alla realizzazione di un governo mondiale basato sul “politicamente corretto”, quindi sulla convinzione della sovranità del relativo e del nulla. Il cattolicesimo, con la pretesa di affermare l'esistenza di una verità assoluta (Gesù Cristo) e di un'unica realtà salvifica (la Chiesa), può essere al limite permesso se ridotto alla dimensione privata, ma non certamente se pretendesse di tradursi in civiltà. Ora, caro (…), tutto questo produce una grande contraddizione che è sotto gli occhi di tutti… e anche –come ha detto- sotto i suoi. Il cattolicesimo tradizionale (cioè di sempre) da una parte ambiva ed ambisce giustamente alla traduzione della Fede in giudizio politico, mirava e mira alla realizzazione del valore della societas christiana e considerava e considera l'azione politica come espressione dell'atto di fede nelle cose temporali; dall'altra conservava e conserva la sua vocazione fondamentale che è quella di portare gli uomini alla salvezza eterna, additando il peccato mortale come la più grave tragedia e promuovendo il messaggio fondamentale che è quello di indirizzare l'uomo alla Vita di Grazia e alla conquista del Paradiso. Il cattolicesimo modernista, invece, si esprime nel contrario. Da una parte afferma che non si deve pensare ad alcuna civiltà cristiana, dall'altra fa passare in secondo piano la prospettiva soprannaturale e la salvezza eterna, anteponendo a questi i problemi del mondo o addirittura l'utopistica realizzazione di una società perfetta. E così, caro (…), abbiamo il paradosso che negli stessi ambienti in cui si afferma che la Chiesa dovrebbe totalmente spiritualizzarsi, ci si concentra prioritariamente (e molto spesso esclusivamente) su problemi profondamente

materiali, del tipo: il debito estero, la disoccupazione, fino a che punto dovrebbero essere governati i flussi migratori...per arrivare perfino all'importantissimo (si fa per dire!) problema della raccolta differenziata della spazzatura; dimenticando che l'unica cosa che conta è la conquista del Paradiso: “Non temete coloro che uccidono il corpo e dopo non possono far più nulla. Vi mostrerò invece chi dovete temere: temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella geenna.” (Luca 12,4-5)

La Comunione in mano… da sempre non è stato così

Un lettore: Spettabile redazione di “Radici Cristiane”, ormai è frequentissimo vedere fedeli che vanno a comunicarsi prendendo l’Eucaristia in mano. A me sembra sbagliato. Ne ho parlato con un sacerdote e questi mi ha detto che Gesù nel cenacolo diede la prima Eucaristia nella mani degli Apostoli e non in bocca; e inoltre che nei primi tempi della Chiesa non vi era l’usanza di ricevere l’Eucaristia direttamente in bocca. Chiedo dunque a voi: è’ proprio così? Caro (…), prima di risponderle, faccio parlare il papa Giovanni Paolo II che nell’ Ecclesia de Eucharistia scrive al n.61: “Dobbiamo badare con ogni premura a non attenuare alcuna dimensione o esigenza dell’Eucaristia. Così ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono. (…) Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero!” Fatta questa autorevole premessa, vengo al dunque. A proposito del fatto che Gesù nell’Ultima Cena non diede agli Apostoli l’Eucaristia direttamente in bocca ma in mano, prima di tutto va detto che ciò non è affatto scontato. Anzi, è possibile supporre che Gesù abbia dato il pane direttamente in bocca a ciascun apostolo. In Medio Oriente, al tempo di Gesù vi era un’usanza che perdura tuttora: il capofamiglia nutre i suoi ospiti con la propria mano, mettendo un pezzo simbolico di cibo nella bocca degli ospiti. Ma, ammesso e non concesso che sia andata davvero così, cioè che Gesù abbia dato l’Eucaristia nelle mani degli apostoli, caro (…), va fatta una precisazione importante: in quel momento gli Apostoli già erano stati ordinati sacerdoti, addirittura sacerdoti in pienezza, quindi vescovi. Per quanto invece riguarda il secondo argomento e cioè che i primi cristiani ricevessero la Comunione in mano vanno fatte due premesse. Prima premessa. Non è detto che ciò che vi era nell’antichità è sempre migliore di ciò che si è approfondito e si è istituzionalizzato in seguito. Liturgicamente, come è sbagliato il progressismo, per cui ciò che viene dopo sarebbe sempre

migliore di ciò che è venuto prima, è altrettanto sbagliato l’ archeologismo, ciò che è venuto prima sarebbe sempre migliore di ciò che viene dopo. Seconda premessa. Nei primi secoli del Cristianesimo si facevano forti penitenze per l’Eucaristia, per esempio ci si asteneva da qualsiasi cibo e bevanda dalla vigilia fino al momento della Comunione. Ora, se valesse il principio archeologista, bisognerebbe chiedere a tanti sostenitori della Comunione nella mano: ma perché non si recuperano anche le rigide penitenze dei primi secoli? Se è giusto riprendere ciò che vi era all’inizio, allora si riprendano anche le dure penitenze dell’inizio. Mi sa, caro (…), che molti si tirerebbero indietro. Ma veniamo ai fatti. Davvero nei primi tempi della Chiesa l’Eucaristia si riceveva nella mano? Niente affatto. Ci sono testimonianze certe che attestano come sin dall’inizio era diffusa la consuetudine di deporre le Sacre Specie sulle labbra dei comunicandi e anche della proibizione ai laici di toccare l’Eucaristia con le mani. Solo in caso di necessità e in tempo di persecuzione, assicura per esempio san Basilio, si poteva derogare da questa norma e quindi era concesso anche ai laici di comunicarsi con le proprie mani. Papa Sisto I fu papa dal 115 al 125. Questi proibì ai laici di toccare i vasi sacri, per cui è ampiamente fondato supporre che vietasse agli stessi di toccare le Sacre Specie eucaristiche. Sant’Eutichiano, papa dal 275 al 283, affinché non toccassero l’Eucaristia con le mani, proibì ai laici di portare le Sacre Specie agli ammalati. Il Concilio di Saragozza, nel 380, emanò la scomunica contro coloro che si fossero permessi di trattare la santissima Eucaristia come in tempo di persecuzione, tempo nel quale –come abbiamo già detto- anche i laici potevano trovarsi nella necessità di toccarla con le proprie mani. Sant’Innocenzo I, dal 404, impose il rito della Comunione solo sulla lingua. Papa Sant’Innocenzo I (401-417), nel 416, nella Lettera a Decenzio, Vescovo di Gubbio, che gli chiedeva direttive riguardo alla liturgia romana che intendeva adottare, rispose affermando per tutti l’obbligo di rispettare al riguardo la Tradizione della Chiesa di Roma, perché essa discende dallo stesso Pietro, primo Papa. Ebbene, lo stesso Sant’Innocenzo –come abbiamo detto prima- dal 404

aveva imposto il rito della Comunione solo sulla lingua. San Gregorio Magno narra che sant’Agapito, papa dal 535 al 536, durante i pochi mesi del suo pontificato, recatosi a Costantinopoli, guarì un sordomuto all’atto in cui “gli metteva in bocca il Corpo del Signore”, dunque l’Eucaristia si dava direttamente in bocca. Il Concilio di Rouen, verso il 650, proibì al ministro dell’Eucaristia di deporre le Sacre Specie sulla mano del comunicando laico: “(Il sacerdote) badi a comunicarli (i fedeli) di propria mano, non ponga l’Eucaristia in mano a nessun laico o donna, ma la deponga solo sulle labbra con queste parole…” ‘. Sulla medesima linea il Concilio Costantinopolitano III (680-681), sotto i pontefici Agatone e Leone II, vietò ai fedeli di comunicarsi con le proprie mani e minacciò la scomunica a chi avesse avuto la temerarietà di farlo. Il Sinodo di Cordoba dell’anno 839 condannò la setta dei “casiani” a causa del loro rifiuto di ricevere la sacra Comunione direttamente in bocca. In Occidente, il gesto di prostrarsi e inginocchiarsi prima di ricevere il Corpo del Signore si osservava negli ambienti monastici già a partire dal VI secolo (per esempio nei monasteri di san Colombano) Più tardi nei secoli X e XI questo gesto si diffuse ancora di più. Quando san Tommaso d’Aquino espose nella Summa (III, 9, 82) i motivi che vietavano ai laici di toccare le Sacre Specie, non parlò di un rito di recente invenzione, bensì di consuetudine liturgica antica come la Chiesa. Ecco perché il Concilio di Trento (Decreto sull’Eucaristia, Sessione III) poté affermare che non solo nella Chiesa di Dio fu una consuetudine costante che i laici ricevessero la Comunione dai sacerdoti, mentre i sacerdoti si comunicassero da sé, ma anche che tale consuetudine è di origine apostolica: “ Nell’assunzione di questo Sacramento (l’Eucaristia) fu sempre costume nella Chiesa di Dio che i laici ricevessero la comunione dai Sacerdoti e i Sacerdoti celebranti invece comunicassero se stessi, costume che con ogni ragione deve ritenersi come proveniente dalla Tradizione apostolica.” Abbiamo iniziato con papa Giovanni Paolo II, concludiamo con lui. Sempre nella Ecclesia de Eucharistia, al n.49, scrive: “Sull’onda dell’elevato senso del mistero si comprende come la fede della Chiesa nel mistero eucaristico si sia

espressa nella storia non solo attraverso l’istanza di un interiore atteggiamento di devozione, ma anche attraverso una serie di espressioni esterne.” Insomma, caro (…), ne ha di argomenti per rispondere al sacerdote.