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Italian Pages 216/214 [214] Year 2006
Libri di base di filosofia 3 Direttore Vincenzo Fano
Enzo Di Nuoscio
Il mestiere dello scienziato sociale Un’introduzione all’epistemologia delle scienze sociali
Liguori Editore
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Indice
Introduzione
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Capitolo primo Sbagliando si impara: il metodo unificato 1. L’evoluzione dell’albero della conoscenza 2. Che cos’e` un problema 3. Che cos’e` una teoria 4. Come si critica una teoria 5. Il metodo e` uno, le metodiche sono tante 6. La ricerca e` sempre qualitativa Bibliografia ragionata
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Capitolo secondo. Quando la spiegazione `e scientifica 1. Il modello di spiegazione nomologico-deduttiva 2. Gli “abbozzi di spiegazione” 3. I requisiti della spiegazione 4. La tripartizione delle scienze su base metodologica 5. La divisione su base metodologica non introduce una gerarchizzazione tra le scienze Bibliografia ragionata
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Capitolo terzo. Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica 1. La spiegazione in economia 2. La spiegazione in sociologia 3. La spiegazione in scienza politica 4. La spiegazione in psicologia 5. La spiegazione in storiografia 6. La natura epistemologica delle leggi nelle scienze sociali 7. Non c’e` scienza sociale senza ricorso al senso comune 8. Spiegazioni “deduttivamente incomplete” 9. Dall’“abbozzo di spiegazione” alla “previsione potenziale” 10. Dalle leggi ai modelli 11. Spiegazioni scientifiche e interpretazioni ideologiche Bibliografia ragionata
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Indice
Capitolo quarto. Comprendere un’azione: spiegarla 1. Dualismo o monismo metodologico? 2. “Fatto unico” e “spiegazione tipica” 3. “Fatti irripetibili” e “conoscenza per tracce”: la logica dell’abduzione 4. Non c’e` narrazione degli eventi storici senza spiegazione causale 5. Non c’e` funzione senza causa 6. La spiegazione teleologica delle azioni umane 7. La spiegazione teleologica e` una spiegazione causale 8. L’empatia come presunto metodo delle “scienze dello spirito” 9. L’empatia non e` necessaria, ne´ sufficiente Bibliografia ragionata Capitolo quinto. I fatti: la “base” della spiegazione scientifica 1. Vediamo con gli occhi e osserviamo con la mente 2. “Ogni fatto e` gia` teoria” 3. Lo storico costruisce i fatti storici, ma non li inventa ad libitum 4. Fatti che nascono e fatti che scompaiono Bibliografia ragionata
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Capitolo sesto. Il posto dei valori: l’oggettivita` non `e un mito 91 1. La “precomprensione” dello scienziato 91 2. Lo scienziato sociale non ha un compito morale o politico 94 3. I “programmi di ricerca metafisici” favoriscono la ricerca della verita` scientifica 97 4. “Ogni vera storia e` storia contemporanea” 100 5. La spiegazione scientifica come esercizio ermeneutico 103 Bibliografia ragionata 107 Capitolo settimo. Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis” 1. Due tradizioni a confronto 2. Paradigmi metodologici e impegni ontologici 3. Dal collettivismo all’olismo 4. La logica della spiegazione collettivistica 5. Che cosa non e` l’individualismo metodologico 6. L’individualismo metodologico come logica della spiegazione Bibliografia ragionata
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Indice
Capitolo ottavo. L’azione umana ha le sue ragioni 1. Verso un modello di razionalita` Mises-Popper-Boudon? 2. L’azione umana e` sempre intenzionale, razionale ed “economica” 3. Prasseologia e spiegazione dell’azione 4. Spiegare l’azione: risolvere un “meta-problema” 5. “Principio di razionalita`”: individuum non est ineffabile 6. Il “principio di razionalita`” non e` un “criterio di razionalita`” 7. “Razionalita`” e “ragioni”: forma logica e contenuto empirico dell’azione 8. Quando e` razionale credere il falso 9. Prasseologia e “buone ragioni” 10. La spiegazione dei valori: l’etica e` senza verita` ma non senza ragioni 11. Le ragioni sono la causa dell’azione 12. Agire e spiegare: razionalita` e leggi 13. Le differenti accezioni di “razionalita`” Bibliografia ragionata Capitolo nono. Dal micro al macro: la “spiegazione a mano invisibile” 1. Quando i fenomeni sociali sono prodotti dalle azioni ma non dalle intenzioni 2. Alcuni esempi di “spiegazione a mano invisibile” 3. La natura delle conseguenze inintenzionali 4. Individualismo metodologico e spiegazione nomologica 5. Le conseguenze epistemologiche della scoperta degli “effetti emergenti” Bibliografia ragionata
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Capitolo decimo. Dispersione della conoscenza e ordine sociale 1. Le norme sociali per difendersi dagli “effetti perversi” 2. Il micro-macro problem non e` un enigma 3. Taxis e Cosmos: “ordini costruiti” e “ordini spontanei” 4. “Ignoranza individuale” e “ordine esteso” 5. L’“ordine spontaneo” come processo esplorativo 6. Perche´ l’“ordine esteso”: presupposti gnoseologici e conseguenze economiche, politiche, giuridiche 7. Profezie politiche e previsioni scientifiche 8. Epistemologia evoluzionistica ed evoluzione sociale Bibliografia ragionata
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Indice dei nomi
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Introduzione
Ha scritto Albert Einstein che l’epistemologia senza scienza e` uno «schema vuoto» e la scienza senza epistemologia e` «primitiva e informe». Un’epistemologia troppo lontana dalla ricerca scientifica e dalla sua storia rischia di trasformarsi in un insieme di precetti astratti e quindi inutili per il lavoro dello scienziato; mentre una scienza che vuole fare a meno dell’epistemologia, rischia di non poter diventare adulta perche´ priva della consapevolezza dei propri metodi. La riflessione epistemologica serve dunque a far “crescere” la scienza, a renderla maggiormente cosciente delle proprie potenzialita` e anche dei propri limiti. Proprio tale consapevolezza ha indotto i grandi scienziati (si pensi solo a Blaise Pascal, Louis Pasteur, Ernst Mach, oltre allo stesso Einstein) a formulare acutissime riflessioni epistemologiche, le quali hanno rappresentato una vera e propria marcia in piu` nella loro attivita` di ricerca. Riflessione epistemologica e ricerca scientifica sono, infatti, due domini distinti ma non separati: se e` compito dello scienziato e non dell’epistemologo stabilire se una teoria e` vera o falsa e se e` compito dell’epistemologo e non dello scienziato evidenziare, ad esempio, l’impossibilita` logica di dimostrare la verita` di una teoria, e` evidente che queste conclusioni a cui giunge l’epistemologia sono una preziosa guida per la ricerca scientifica. Questo vale per le scienze naturali e a maggior ragione per le scienze storiche e sociali. E non solo perche´ queste ultime sono di piu` recente costituzione, ma anche a motivo del fatto che piu` incerto e` il loro statuto epistemologico e per la ragione che, dato l’oggetto di indagine, esse sono maggiormente tentate di invadere il campo della filosofia e persino quello dell’ideologia. A differenza di quanto spesso capita nelle scienze naturali, nelle scienze sociali difficilmente si assiste all’affermazione di un paradigma o comunque di teorie consolidate che raccolgono un vasto e duraturo consenso nella comunita` scientifica. Al contrario, si registra frequentemente un dissenso, che arriva ad investire gli stessi oggetto e metodo di indagine. E` proprio la mancanza di una riconosciuta fase di «scienza normale», per
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Introduzione
dirla con Thomas Kuhn, che rende ancora piu` urgente la riflessione filosofica sulle scienze storico-sociali. Dall’epistemologia generale la filosofia delle scienze sociali eredita un catalogo di problemi classici, che investono indistintamente ogni scienziato: le teorie descrivono aspetti di un mondo reale, ovvero sono semplici strumenti per risolvere problemi? Lo scienziato e` in grado di dimostrare che una teoria e` vera per sempre? La ricerca scientifica segue il metodo induttivo o quello deduttivo? E` possibile una osservazione “pura”, oggettiva, cioe` non condizionata dalle idee dell’osservatore, ovvero ogni osservazione e` necessariamente carica di teoria (theory laden)? C’e` un modo per capire quale tra due (o piu`) teorie false e` piu` verosimile, maggiormente approssimata alla realta`? Come demarcare tra teorie scientifiche e teorie che scientifiche non sono? E queste ultime, vanno considerate dei non-sensi o invece, non solo sono sensate, ma in alcuni casi possono influenzare in modo decisivo la stessa conoscenza scientifica? E ancora, le leggi scientifiche individuano relazioni causali necessarie o si limitano a rilevare quelle che al ricercatore appaiono come mere regolarita` ricorrenti? I fatti scientifici sono rocce o palafitte: la base empirica della scienza e` incontrovertibile o e` invece smentibile? A questi problemi generali della filosofia della scienza, l’epistemologia delle scienze sociali ne aggiunge degli altri, non meno decisivi: le scienze storiche e sociali usano lo stesso metodo di spiegazione causale delle scienze naturali, ovvero esse utilizzano altri metodi (empatia, spiegazione funzionale, spiegazione teleologica, metodo narrativo)? E piu` in particolare, l’azione umana, con il suo carico di valori e di libero arbitrio, e` suscettibile di spiegazione causale? Fino a che punto il metodo psicologico puo` dare conto dei fenomeni sociali? E` possibile una storiografia scientifica, o invece dobbiamo rassegnarci a una storiografia ideologica o comunque non oggettiva? Uno scienziato sociale e` in grado di individuare le leggi scientifiche che guidano lo sviluppo dell’intera storia umana? Quale e` la relazione che intercorre tra fatti e valori? I concetti collettivi descrivono solo azioni di individui oppure entita` non riconducibili ai singoli? Esistono comportamenti umani che possono essere considerati meri effetti di strutture sociali, culturali o economiche? L’azione umana e` sempre razionale ovvero c’e` un criterio per distinguere i comportamenti razionali da quelli
Introduzione
irrazionali? Perche´ la capacita` predittiva delle scienze sociali spesso non e` paragonabile a quella delle scienze naturali? Le istituzioni sociali sono sempre il frutto di progetti umani o alcune di esse sono sorte inintenzionalmente, senza un progetto prestabilito? E come spiegare la genesi di quegli eventi sociali per la cui realizzazione e` necessaria una quantita` di conoscenza enormemente superiore a quella di cui puo` disporre un singolo o un gruppo organizzato? Si tratta di problemi epistemologici che hanno accompagnato permanentemente le scienze sociali e la cui soluzione condiziona fortemente la formulazione delle ipotesi di spiegazione scientifica. Cosı`, ad esempio, se si accetta la tesi filosofica che esistono solo individui (individualismo ontologico) saranno le azioni umane e le loro conseguenze a rappresentare l’oggetto di studio delle scienze sociali. Se invece, come fanno i collettivisti e strutturalisti, si pensa che vi siano strutture di vario genere che hanno un’esistenza non riconducibile ai singoli, saranno proprio queste entita` a diventare oggetto di indagine. Se si considera che l’azione e` sempre razionale, allora la si riterra` sempre causa degli eventi sociali. Se invece si pensa che alcuni comportamenti siano irrazionali, allora tali azioni verranno considerate degli effetti generati da cause diverse dalle ragioni degli individui. Come e` facile rendersi conto, ogni scienziato sociale non e` in grado di affrontare i vari problemi con i quali si confronta (Da che cosa e` causata l’inflazione che nel 2005 e` stata registrata in Italia? Perche´ e` scoppiata la Rivoluzione francese? Perche´ e` scomparso un certo partito politico? Perche´ e` aumentata la criminalita` in una determinata zona?) senza aver prima risolto, piu` o meno consapevolmente, alcune fondamentali questioni epistemologiche. Ed e` difficile immaginare un piu` marcato condizionamento sulla ricerca scientifica, come quello esercitato dalle soluzioni che si danno a questi problemi metodologici legati alla spiegazione dei fenomeni sociali. Proprio una simile constatazione alimenta la consapevolezza che nel campo delle scienze sociali l’epistemologia sia ancor piu` decisiva per evitare il rischio di una ricerca scientifica «primitiva ed informe», penalizzata da una epistemologia incerta, che non ha impedito in alcuni casi alle scienze sociali di scivolare su un piano inclinato che conduce alla filosofia e persino all’ideologia. E nel Novecento non sono certo mancati scienziati sociali
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Introduzione
che hanno anteposto a quella funzione esplicativa che e` la ragion d’essere di ogni scienza, un impegno per cosı` dire performativo, cioe` esplicitamente e prevalentemente finalizzato a influenzare l’opinione pubblica. Certo, proprio perche´ filosofiche, le teorie epistemologiche sono empiricamente indecidibili, ma non per questo esse si equivalgono. Con William Bartley possiamo dire che siamo in grado di orizzontarci tra le teorie non scientifiche sottoponendole a critica, cioe` facendole scontrare con altre teorie (metafisiche, logiche, scientifiche) che riteniamo maggiormente consolidate e alle quali non siamo disposti a rinunciare. Se abbiamo buone ragioni per non rinunciare all’idea che una teoria per essere scientifica debba superare il controllo empirico, allora possiamo considerare il metodo dell’empatia non necessario, ne´ sufficiente. Se non siamo disposti a rinunciare all’idea che le azioni umane producono anche conseguenze non intenzionali, allora non possiamo accettare quelle teorie costruttivistiche che sostengono che tutti gli eventi sociali sono frutto di piani intenzionali, e dobbiamo pure rifiutare quel corollario del costruttivismo che e` la “teorie cospiratoria” della societa`, la quale porta a concludere che dietro ogni evento sociale negativo vi sia una congiura. Se non siamo disposti a transigere sulla cosiddetta “legge di Hume”, cioe` sull’inderivabilita` logica dei valori dai fatti, diventano di conseguenza inaccettabili quelle filosofie della storia che identificano il processo storico con il progresso (o regresso) umano. Seguendo tale impostazione la filosofia delle scienze sociali si costituisce, in qualche modo, come critica epistemologica, al fine di confrontare le diverse soluzioni ai problemi metodologici, con lo scopo di per evidenziare le piu` o meno feconde conseguenze che ciascuna di esse presenta ai fini della spiegazione scientifica dei singoli fenomeni storici e sociali. Questo manuale di Introduzione all’epistemologia delle scienze sociali e` ispirato proprio a tale principio: al fine di individuare le piu` efficaci soluzioni ai problemi epistemologici legati alla ricerca sociale, vengono comparate criticamente le differenti prospettive metodologiche. Particolare attenzione e` stata riservata alla contrapposizione tra “individualismo” e “collettivismo” e tra “spiegazione” e “comprensione”, cioe` ai due dilemmi classici intorno ai quali la filosofia delle scienze sociali si e` costituita come una disputa ininterrotta che investe diretta-
Introduzione
mente lo statuto epistemologico delle scienze storiche e sociali. Mettendo a confronto le potenzialita` esplicative di queste contrapposte tradizioni epistemologiche, si e` evidenziata la piu` solida capacita` euristica di un metodo che sappia integrare attrezzi concettuali messi a punto dai teorici dell’individualismo metodologico, del modello nomologico-deduttivo e dell’ermeneutica, vale a dire di tre filoni di pensiero i quali, non solo hanno scarsamente comunicato tra di loro, ma che non di rado sono stati interpretati come alternativi. Per concludere, non mi resta che ricordare i numerosi debiti intellettuali che ho contratto nella stesura di questo manuale. Ringrazio di cuore Dario Antiseri, Raymond Boudon, Raimondo Cubeddu, Sergio Galvan, Marco Gervasoni, Luciano Pellicani, Alberto Petrucci, Silvano Tagliagambe, per i preziosi consigli e le puntuali indicazioni che mi hanno aiutato a migliorare il testo. Sono inoltre particolarmente grato a Enzo Fano, per l’attenzione che ha riservato a questo lavoro e per gli acuti suggerimenti che mi ha offerto con grande generosita`.
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Capitolo primo Sbagliando si impara: il metodo unificato
1. L’evoluzione dell’albero della conoscenza La ricerca della verita`, ha scritto Claude Bernard, «non e` altro che un ragionamento per mezzo del quale si sottopongono le idee al controllo dei fatti. La natura del ragionamento scientifico e` sempre la stessa, sia per le scienze che studiano gli esseri 1 viventi, che per quelle che si occupano dei corpi bruti» . Questo pensiero di un grande fisiologo, unanimemente considerato il padre della moderna medicina scientifica, sintetizza con chiarezza l’idea di metodo unificato, difesa da una lunga e consolidata tradizione di pensiero, la quale – oltre a Bernard – annovera filosofi, fisici, chimici, biologi, medici, sociologi, economisti, pedagogisti, storici, quali, tra gli altri, J. von Liebig, W. Whewell, W. S. Jevons, C. Menger, E. Naville, G. A. Colozza, M. Weber (soprattutto l’autore del saggio su Roscher e Knies e i problemi logici dell’economia a indirizzo storico), F. Enriques, G. Vailati, G. Salvemini, L. von Mises, J. Monod, P. B. Medawar, A. Einstein, C. G. Hempel, K. R. Popper, M. Bloch, L. Febvre, E. Carr. Scienziati e filosofi cosı` diversi sono accomunati dall’idea che, al pari della conoscenza di senso comune, la conoscenza scientifica avanzi grazie alla continua revisione di ipotesi sempre smentibili, orientate alla risoluzione di problemi. Il metodo della risoluzione dei problemi per tentativi ed errori (trial-anderror-elimination), metodo che consente alle specie biologiche di evolversi e che pratichiamo di continuo nella vita quotidiana, vale per tutta la scienza. Le singole discipline si distinguono, invece, per la diversita` dei problemi indagati e per le differenti tecniche di controllo delle ipotesi. L’evoluzione della conoscenza umana, aveva scritto ad inizio Novecento un fisico e filosofo come Ernst Mach, procede 1
C. Bernard, Introduzione allo studio della medicina sperimentale (1865), tr. it., Piccin, Padova, 1994, p. 28.
Il metodo e` unico
Tentativi ed errori
Problemiteoriecritiche
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Il mestiere dello scienziato sociale 2 per «congetture e correzioni» , e qualche decennio dopo sara` Karl Popper – principale esponente nel Ventesimo secolo della tradizione del metodo unificato – a parlare di «congetture e confutazioni», sostenendo che tutto il modo di procedere della scienza razionale si riassume in tre parole: problemi-teorie-critiche:
«1) inciampiamo in qualche problema; 2) tentiamo di risolverlo, ad esempio proponendo qualche nuova teoria; 3) impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri 3 tentativi di risoluzione» . Vediamo in dettaglio le tre fasi di questo metodo scientifico.
2. Che cos’e` un problema Le aspettative disattese
La ricerca di nuove conoscenze non comincia dall’osservazione ma dai problemi, cioe` da quella «incongruenza tra pensieri 4 e fatti, e dei pensieri tra di loro» , che si ha quando «una 5 aspettativa e` stata disillusa» , o «c’e` stata una aspettativa erro6 nea» . Dunque, i problemi sorgono nell’ambito dell’orizzonte di aspettative e della conoscenza di sfondo dell’individuo, e le osservazioni sono sempre orientate alla loro soluzione: a risolvere nuovi problemi o a proporre nuove soluzioni per vecchi problemi. Piu` una mente e` ricca di aspettative e di conoscenze, piu` e` fonte di problemi e piu` e` in grado di offrire uno stimolo e una guida per le osservazioni. Al contrario, senza alcuni presupposti cognitivi, determinati problemi semplicemente non potrebbero sorgere: e` chiaro che un soggetto che non possiede la nozione di velocita` non puo` porsi il problema dell’accelerazione, dato che l’accelerazione e` rappresentata da un aumento di velocita`. 2
E. Mach, Conoscenza e errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca (1905), tr. it., Einaudi, Torino, 1982, p. 386. 3 K. R. Popper, Problemi, scopi e responsabilita` della scienza, in Id., Scienza e filosofia, Einaudi, Torino, 1969, p. 146. 4 E. Mach, Conoscenza e errore, cit., p. 175. 5 K. R. Popper, Problemi, scopi e responsabilita` della scienza, cit., p. 138. 6 Ch. S. Peirce, Storia e abduzione (1901), in Opere, tr. it., a cura di M. A. Bonfantini, Bompiani, Milano, 2003, p. 500.
Sbagliando si impara: il metodo unificato
Una osservazione senza problema e` epistemologicamente impossibile, perche´ senza i valori, le conoscenze e gli interessi del soggetto conoscente, il mondo sarebbe una infinita` priva di senso. Se i valori dello scienziato consentono di selezionare una porzione di realta` da indagare, saranno poi le sue teorie a permetterli di introdurvi un ordine, osservando oggetti e relazioni tra oggetti. Se l’osservazione e` necessariamente carica di teoria, allora non e` esagerato affermare che le teorie sono gli occhiali che ci consentono di indagare il mondo; parafrasando Charles Darwin, si puo` sostenere che un «buon osservatore» e` tale proprio perche´ e` un «buon teorico». Lo scienziato non osserva “alla cieca”, le sue osservazioni sono sempre tentativi di risposta a quelle domande, piu` o meno consapevoli, che sono rappresentati dai problemi nei quali ha inciampato. Non puo` pertanto essere accettata quella soluzione osservativistica, che stava tanto a cuore a Francesco Bacone, secondo la quale l’unica via per arrivare ad una conoscenza oggettiva e` quella di riflettere senza deformazioni la realta` nella mente dello scienziato; una mente che dovrebbe essere una tabula rasa, in modo da rispecchiare fedelmente il mondo, senza deformarlo con ido`la di vario genere, e che, proprio grazie ad osservazioni pure, diventa plena di conoscenza. Sennonche´, quello dell’occhio innocente, come ha osservato Nelson Goodman, e` un vero e proprio mito filosofico; la mente umana, infatti, non e` – per usare la metafora popperiana – un recipiente da riempire con sistematica pazienza, ma e` un faro da manovrare con estrema abilita`, il quale, a seconda della direzione in cui viene puntato (gli interessi del ricercatori) e del tipo di luce che proietta (le sue conoscenze), consente di illuminare alcuni aspetti del mondo, strappandoli cosı` al buio dell’ignoto. PROBLEMI ED ESERCIZI, ERRORI E SBAGLI Il problema e` una domanda per la quale chi se la pone non possiede la risposta; l’esercizio, consiste invece in un problema risolto, cioe` nell’applicazione di una soluzione gia` nota a chi lo esegue: dopo la scoperta del vaccino da parte di E. Jenner, la prevenzione del vaiolo e` diventata un esercizio. Se per risolvere un problema occorre procedere verso l’ignoto, armati, oltre che di conoscenze e di una sana attitudine critica, anche di creativita`, immaginazione, fantasia, per effettuare un esercizio, invece, ci si deve
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Non c’e` osservazione senza problema
La mente e` una “tabula plena”
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Il mestiere dello scienziato sociale
rigidamente attenere alla soluzione stabilita, senza aggiungervi nulla di personale. E ben diversi, da un punto di vista epistemologico, sono i fallimenti di questi due tentativi. Affrontando un problema sara` difficile evitare gli errori, la cui individuazione e rimozione e` un preziosissimo indicatore circa la direzione da seguire. Chi esegue un esercizio, invece, non dovrebbe commettere sbagli, perche´ applica una procedura nota e variamente standardizzata. Vanno dunque distinti gli errori della scienza, che, come nel caso della cura dell’AIDS, non ha ancora trovato la soluzione ad un problema, e gli sbagli che il singolo scienziato puo` commettere allorquando applica una soluzione accreditata per risolvere un esercizio, quale potrebbe essere, ai nostri giorni, la cura della malaria.
3. Che cos’e` una teoria Non c’e` ricerca senza ipotesi
Le idee “buone e nuove”
Le teorie sono ipotesi di soluzione dei problemi, tentativi, sempre congetturali, di risposta a domande problematiche. Tentare di risolvere un problema significa sempre introdurre un qualche tipo di ordine causale, scoprire una connessione causa-effetto che consenta di appagare quella sorpresa, quella meraviglia, che sempre accompagna quell’evento inatteso rappresentato dal problema. Mediante l’ipotesi si spiega, dunque, cio` che e` noto (gli effetti) attraverso cio` che e` ignoto (le sue cause), ricorrendo ad un intreccio piu` o meno complesso di leggi universali o generalizzazioni empiriche, che legano casualmente due o piu` fatti (o insiemi di fatti). Come ha scritto Ernest Naville, l’ipotesi e` «una anticipazione del pensiero, senza la quale la scienza ristagne7 rebbe per sempre» , essa e` una «supposizione» indispensabile per qualsiasi scoperta. «La funzione essenziale di un’ipotesi, ha fatto osservare dal canto suo Mach, consiste nel condurre a nuove osservazioni ed esperimenti che consentono di confermare, respingere o modificare la nostra congettura; in breve, di 8 ampliare la nostra esperienza» . Un’idea nuova, possiamo sostenere con Bernard, «si manife-
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E. Naville, La logica delle ipotesi (1880), tr. it., Rusconi, Milano, 1989, p. 136. 8 E. Mach, Conoscenza e errore, cit., p. 236.
Sbagliando si impara: il metodo unificato
sta come un rapporto nuovo e inatteso che la mente scopre fra 9 le cose» . Il fatto e` che non ci sono regole per far sorgere in una mente nuove e buone idee; non esiste una procedura di routine per produrre le ipotesi di soluzione dei problemi, le quali, invece, sono l’esito di una sempre diversa combinazione dei piu` vari ingredienti: preparazione, tenacia, caso, fortuna, abilita`, intuito, creativita`, immaginazione, ecc. Per ragioni strettamente logiche, possiamo dire con Popper che si rivela inutilizzabile il metodo induttivo (sia nella sua versione aristotelica che in quella baconiana) il quale, proponendo di passare ex particolaribus ad universalia, ha tentato di proceduralizzare la logica della scoperta, cioe` il processo di invenzione di una nuova teoria. Aristotele propone una “induzione per ripetizione” che dovrebbe consentire di indurre una legge universale mediante la ripetizione dell’osservazione di casi analoghi e reiterati. Come ha osservato Popper, e` logicamente impossibile passare da un n, quantunque elevato, di osservazioni di casi analoghi, al quantificatore universale “tutti”, poiche´ quel “tutti” e` uguale ad infinito, essendo infinite le conseguenze di una teoria. Nulla puo` quindi escludere che l’osservazione del caso n+1 non possa smentire anche una teoria che abbia superato con successo una enorme quantita` di controlli. Per F. Bacone, come poi per J. S. 10 Mill , e` possibile invece costruire teorie universali mediante una “induzione per eliminazione”: si induce la verita` di una teoria dalla falsita` delle altre teorie (n-1) formulate per risolvere lo stesso problema. Ebbene, neanche questo tipo di induzione funziona, perche´ le ipotesi disponibili potrebbero essere tutte false, ed in ogni caso le teorie formulabili riguardo al problema in esame sono in linea di principio infinite; e` quindi impossibile procedere all’eliminazione di quelle false per scoprire quella vera.
4. Come si critica una teoria Nella scienza come nella vita quotidiana, una teoria non puo` che essere messa a controllo sulle sue conseguenze, per 9
C. Bernard, Introduzione allo studio della medicina sperimentale, cit., pp. 63-64. Piu` vicino a noi e` stato John Earman a riproporre questo tipo di induzione, in Bayes or Bust, Cambridge (Mass.), The MIT Press, 1992. 10
Il metodo induttivo
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Il mestiere dello scienziato sociale
La “teoria semantica della verita`”
L’asimmetria logica tra conferma e smentita
Modus tollens
capire se essa supera la prova empirica. Una volta accettato l’elementare principio che deve essere l’esperienza a decidere le sorti di una teoria, di fronte allo scienziato si dischiudono due strade: cercare di fare vera la teoria, oppure tentare di farla falsa; andare cioe` alla ricerca di quei fatti che si accordano con una o piu` conseguenze della teoria, ovvero tentare di scoprire se ci sono fatti che falsificano l’ipotesi, urtando con almeno una delle sue conseguenze. Di fronte a siffatta alternativa lo scienziato epistemologicamente ben educato – ed e` questo forse il piu` significativo contributo di Popper all’epistemologia contemporanea – non ha facolta` di scelta: deve tentare di falsificare, perche´, per ragioni logiche, non puo` verificare la teoria. Per dimostrare la verita` di una teoria occorrerebbe dimostrare che il suo contenuto, cioe` le sue conseguenze, si accordano ai fatti; operazione, questa, come ha dimostrato Alfred Tarski con la sua Teoria semantica della verita`, logicamente impossibile, dato che, tra l’altro, le conseguenze di una teoria sono infinite e i controlli che gli scienziati sono in grado di fare, per quanto numerosi, sono sempre di numero finito. Inoltre, adottare un atteggiamento ortodossamente verificazionista, andando cioe` alla sistematica ricerca solo dei fatti che confermano la teoria, e` una operazione sempre possibile, che pero` porta lo scienziato a considerare vera una teoria che invece potrebbe rivelarsi falsa. Anche le teorie false, infatti, presentano conseguenze vere, per cui, considerare soltanto i fatti che si accordano con le conseguenze della teoria e trascurare quelli che la smentiscono, induce lo scienziato a scambiare per vere teorie che invece sono false e quindi a proibire il progresso della conoscenza. Una teoria vera, invece, presenta soltanto conseguenze vere, di conseguenza e` sufficiente che una solo fatto contrario per poter dichiarare la sua falsita`. Ci troviamo, quindi, di fronte ad una asimmetria logica tra conferma e smentita di una teoria: un numero quantunque elevato di conferme non rende vera la teoria, mentre un solo fatto contrario, da un punto di vista logico, la rende falsa. Siffatta asimmetria, che rappresenta l’hard core dell’epistemologia contemporanea, puo` essere meglio compresa ricorrendo allo schema falsificante (modus tollens) e allo schema confermante (modus ponens) della logica classica. Il modus tollens descrive il procedimento logico della falsificazione:
Sbagliando si impara: il metodo unificato
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tAp ¬p ¬t la teoria t implica la conseguenza p (tAp); la conseguenza p non si da` nei fatti (¬p=non-p); ergo t e` falsa (¬t=non-t). Il modus ponens descrive invece il procedimento logico della conferma:
Modus ponens
tAp p t la teoria t implica la conseguenza p; p si da` nei fatti; ergo t e` momentaneamente confermata. Se la conclusione del modus tollens (¬t) e` logicamente necessaria, non lo e` invece quella del modus ponens, per cui diciamo che la teoria e` momentaneamente confermata. Ma la strada della verificazione potrebbe riservare delle insidie ancora maggiori: come spesso accade, ci potremmo imbattere in una conseguenza p implicata da due o piu` teorie, per cui essa potrebbe essere una conferma (provvisoria) non della nostra t che ci interessa mettere a prova, ma di un’altra teoria. Vediamo da un semplice esempio i rischi a cui va incontro una strategia verificazionistica. Modus tollens: se piove la strada e` bagnata (tAp), la strada non e` bagnata (¬p), dunque non ha piovuto (¬t). Questo ragionamento, logicamente conclusivo, non presenta difficolta`. Difficolta` che sorgono invece in caso di conferma: avendo premesso che se piove la strada e` bagnata (tAp), il fatto che la strada sia bagnata (p si da`) non autorizza a concludere (provvisoriamente) che abbia piovuto, perche´ la strada potrebbe essere bagnata per altre ragioni. L’attitudine alla verificazione potrebbe in questo caso indurre erroneamente a confermare una teoria t con una conseguenza p che non le appartiene. E` sulla base di queste argomentazioni, di natura essenzialmente logica, che Popper oppone al principio di verificazione
Il “principio di falsificabilita`”
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Il mestiere dello scienziato sociale
avanzato dai neopositivisti del Circolo di Vienna, il principio di falsificabilita`, secondo il quale una teoria `e scientifica quando `e falsificabile ma non falsificata, quando cioe` le sue conseguenze descrivono osservazioni possibili. E` quindi proprio la falsificabilita` a identificare la scientificita` di una teoria, a demarcare tra teorie scientifiche ed interpretazioni di varia natura (teologiche, filosofiche, ideologiche, ecc.). E le teorie maggiormente interessanti per lo scienziato sono quelle che sono caratterizzate da un maggior grado di falsificabilita`, che presentano la piu` estesa categoria possibile di falsificatori potenziali, cioe` di osservazioni in grado di inficiarle. Le teorie, pertanto, piu` dicono e predicono, piu` rischiano di essere smentite e piu` sono scientifiche. «ARGOMENTARE E` CORRERE E NON PORTAR PESI» La scientificita` di una teoria attiene ad un piano strettamente logico, la coerenza interna, ed empirico, la controllabilita` fattuale. La verita` di una teoria e` dunque una questione logica ed empirica, e non psicologica o sociologica: non dipende ne´ dalla procedura attraverso la quale lo scienziato la mette al mondo, ne´ dal grado di accettazione che ad essa riserva la comunita` scientifica. Nella scienza non si applica il principio democratico: consensus non facit veritatem. Semmai, dovrebbe valere il contrario: veritas facit consensum. Galileo, che da solo contro tutti (con l’eccezione di Tommaso Campanella) aveva sostenuto la tesi della non perfetta sfericita` della luna, ha efficacemente sostenuto che argomentare e` «correre» e non «portare pesi». «Se il discorrere circa un problema difficile, scrive nel Saggiatore, fosse come il portar pesi, dove molti cavali porteranno piu` sacca di grano che un caval solo, io acconsentirei che i molti discorsi facessero piu` di uno solo; ma il discorso e` come il correre, e non come il portare, ed un cavallo barbero solo correra` piu` di cento frisoni»11. “Contesto della scoperta” e “contesto della giustificazione”
Con questa tradizione di metodo unificato risulta evidente che ci troviamo di fronte ad una sostanziale scissione tra il momento dell’invenzione di una teoria (contesto della scoperta) e il 12 momento del controllo (contesto della giustificazione) . Non c’e` un 11 G. Galilei, Saggiatore (1623), ora in Id., Opere, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2006, p. 211. 12 Si rimanda, su questo punto, a V. Fano, Comprendere la scienza. Un’introduzione all’epistemologia delle scienze naturali, Liguori, Napoli, 2005, p. 122.
Sbagliando si impara: il metodo unificato
metodo per proporre una nuova teoria, ma c’e` un metodo per controllarla, quello della falsificazione. Gli scienziati devono essere tanto piu` liberi, creativi, innovativi, fantasiosi, persino temerari, nel proporre le soluzione ai problemi, quanto rigorosi, sistematici e implacabili, nel tentare di dimostrarne la falsita`, scorgendo eventuali crepe nelle teorie. Come ha sostenuto un pedagogista ed epistemologo come G. A. Colozza, se occorre l’immaginazione per cercare le soluzioni, e` necessario il 13 «ragionamento» per impedire ad essa di «vagabondare» . Ha osservato R. Musil, che la fantasia «abbandonata all’arbitrio si vendica». L’individuazione e la rimozione dell’errore diventa pertanto il passaggio obbligato nella crescita, piu` in generale del sapere, ed in particolare della conoscenza scientifica. L’errore, scriveva Manzoni, e` come una pietra: ci si puo` inciampare e cadere a terra oppure ci si puo` salire sopra per guardare piu` lontano; nella vita, come nella scienza, apprendere dagli errori significa guardare piu` lontano. Se e` vero che non ogni problema e` un errore, sicuramente e` vero che un errore individuato rappresenta sempre un nuovo problema con cui fare i conti; il quale, a sua volta, attivera` la ricerca di una nuova soluzione, influenzando cosı` l’evoluzione della conoscenza. «Conoscenza ed errore – ha insistito Ernst Mach – discendono dalle stesse fonti psichiche; solo il risultato permette di distinguerli. L’errore riconosciuto con chiarezza e`, come correttivo, altrettanto utile cognitivamente della cono14 scenza positiva» . Ispirato da questa consapevolezza, Ludwig Wittgenstein raccomandava: «Non temere mai di dire cose insensate. Ma ascoltale bene quando le dici».
5. Il metodo e` uno, le metodiche sono tante Il metodo e` dunque lo stesso per tutte le scienze. «La scienza – ha scritto Albert Einstein – ricerca le relazioni che si pensa esistano indipendentemente dall’individuo cercatore. Questo vale anche nel caso in cui la ricerca riguardi l’uomo stesso. […]. Tutte le affermazioni e leggi scientifiche hanno una 13 G. A. Colozza, L’immaginazione nella scienza (1899), Rubbettino, Soveria Mannelli, 1996, p. 129. 14 E. Mach, Conoscenza ed errore, cit., p. 115.
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Conoscenza ed errore
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Il mestiere dello scienziato sociale
Metodo e metodiche
Naville e Salvemini
15 caratteristica comune: esse sono “vere” o “false”» . E persino un teorico dell’ermeneutica come Hans-Georg Gadamer non ha esitato ad affermare che «lo schema di “formulazione dell’i16 potesi” e della sua “prova” vale per ogni tipo di ricerca» . Se il metodo e` unico, quelle che cambiano sono invece le metodiche o tecniche di indagine e di prova; e molte delle critiche all’unicita` del metodo scientifico sono state originate proprio dalla mancata distinzione tra metodo e metodiche. Le metodiche non vanno confuse con la procedura di soluzione di un problema, ma sono invece le tecniche utilizzate dai vari scienziati per l’acquisizione delle informazioni e per il controllo delle ipotesi. Un fisico, un astronomo, un chimico, un biologo, un geologo, un economista, un sociologo, uno psicologo, un linguista, utilizzeranno metodiche differenti nelle loro indagini: un fisico non intervista l’atomo, cosı` come un sociologo non osserva un elettore al microscopio. Ogni scienziato adattera` le tecniche di indagine e di controllo alla natura dell’oggetto di studio: un astronomo ricorrera` al telescopio, un biologo al microscopio, un sociologo a questionari e interviste, e cosı` via. Ognuna di queste metodiche consente l’osservazione di un determinato aspetto di un “oggetto”; ma tale osservazione e` possibile solo in quanto guidata da una ipotesi orientata alla soluzione di un problema. Le tecniche di indagine sono, dunque, strumenti al servizio di una prospettiva teorica, per la “costruzione”, l’elaborazione e l’utilizzo di informazioni, le quali correggeranno progressivamente, in un processo di trial-and-error-elimination, la formulazione di ipotesi di soluzione dei problemi. Le distinzioni che si possono stabilire tra le varie scienze, ha affermato Ernest Naville, riguardano il «modo di verifica delle ipotesi; ma il metodo nel suo insieme resta sempre lo stesso nei suoi tre elementi: osservazione, supporre, verificare. E` il metodo generale che si ritrova, con le differenze derivate dalla diversita` 17 dei suoi oggetti di applicazione, in tutti i metodi speciali» . Della stessa idea e` uno storico come Gaetano Salvemini, per il quale «non c’e` differenza essenziale tra i problemi che affronta lo
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A. Einstein, Le leggi della scienza e le leggi dell’etica (1950), tr. it. in Id., Pensieri, idee, opinioni (1956), Newton, Milano, 1996, p. 101. 16 H.-G. Gadamer, Verita` e metodo (1960), tr. it., Bompiani, Milano, 2000, p. 1021. 17 E. Naville, La logica delle ipotesi, cit., p. 136.
Sbagliando si impara: il metodo unificato
scienziato nel ricostruire il passato astronomico, geologico o biologico, e i problemi che affronta lo storico nel ricostruire il passato degli uomini. In entrambi i casi l’esperto ricostruisce il passato con l’aiuto di testimonianze […]. La tecnica usata dai vari indagatori puo` essere diversa, in quanto essi devono ricorrere ad espedienti diversi, adatti alle diverse informazioni di cui dispongono, ma il metodo di trarre informazioni dalle fonti rimane lo stesso […]. Fatti sconnessi non hanno alcun interesse per se stessi. Essi sono nati tutti liberi e uguali. I fatti cominciano ad acquistare un significato soltanto quando sono raggruppati in un sistema di causa ed effetto. Soltanto allora la conoscenza da` il suo contributo alla scienza»18. L’ESPERIMENTO COME TECNICA DI CONTROLLO Lo stesso esperimento non e` altro che una tecnica di controllo di una ipotesi di spiegazione. L’esperimento ideato da B. Pascal, con il quale si dimostrava che la pressione esercitata dall’atmosfera e` minore ad alta quota, servı` a confutare la teoria dell’horror vacui e a confermare l’ipotesi gia` elaborata e gia` sottoposta a controllo da E. Torricelli con l’esperimento del barometro. Come ha affermato C. Bernard, «l’esperimento e` una osservazione provocata e invocata […] per controllare le idee conosciute». L’esperimento viene, quindi, dopo la formulazione dell’ipotesi. Esso «non dara` idee nuove e feconde a coloro che non ne hanno; servira` solo a dirigere le idee in quelli che ne hanno e a svilupparle a fine di ritrarne i migliori risultati possibili»19.
6. La ricerca e` sempre qualitativa Scongiurata la confusione tra metodo e metodiche si evita, de plano, la falsa alternativa, non di rado riproposta come contrapposizione, tra metodi quantitativi e metodi qualitativi nella ricerca scientifica. Se l’osservazione e` possibile solo in quanto theory oriented, e se la conoscenza avanza per congetture e confutazioni, si puo`
18 G. Salvemini, Storia e scienza (1939), tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1948, pp. 2-3. 19 C. Bernard, Introduzione allo studio della medicina sperimentale, cit., p. 34.
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Il mestiere dello scienziato sociale
Il posto della quantificazione nella ricerca
allora sostenere che la ricerca sara` sempre e per definizione qualitativa. Formulare una ipotesi di spiegazione e sottoporla a prova e` infatti un procedimento metodologico che non e` suscettibile di quantificazione. Questo non significa ovviamente che la quantificazione di proprieta` di eventi non faccia parte della ricerca scientifica, ma semplicemente che l’opzione qualitativo-quantitativo si pone non a livello del metodo bensı` a quello delle metodiche. E` al momento della definizione delle tecniche di indagine e di prova che lo scienziato deve scegliere quelli che sono gli strumenti piu` idonei per acquisire informazioni e per controllare le sue teorie, ben sapendo che in alcune indagini non c’e` alcuna possibilita` di quantificazione (si pensi alla spiegazione proposta da Carl Menger, secondo cui la moneta e` un esito non intenzionale generato dal comportamento di tutti coloro che usando il baratto hanno contribuito, senza volerlo, alla sua genesi) e che in altre ci sono dati quantificabili ed altri non quantificabili. Si prenda il caso del celebre studio di E´mile Durkheim sul suicidio; in questa opera il sociologo positivista francese sviluppa una indagine empirica nella quale sono presi in esami elementi quantificabili (il numero dei suicidi) ed elementi non quantificabli (per esempio l’appartenenza religiosa). Durkheim utilizza le statistiche innanzitutto per falsificare l’ipotesi che i suicidi fossero causati da un effetto di imitazione: la distribuzione dei tassi e` irregolare, incompatibile con «l’ipotesi dell’imitazione». In secondo luogo, egli dimostra invece come le statistiche disponibili confermassero, tra le altre, l’ipotesi del «suicidio anomico»: nei momenti di grande trasformazione sociale (crisi economiche o periodi di forte sviluppo sociale) si verifica una attenuazione della cogenza delle norme e delle regole sociali, con la conseguenza che l’individuo e` piu` esposto alla perdita di identita`; un fenomeno che puo` essere tanto devastante per il singolo fino al punto di indurlo a gesti estremi. «La nostra organizzazione sociale, scrive Durkheim, deve essersi profondamente alterata nel corso di questo secolo per essere riuscita a determinare un simile aumento dei tassi dei suicidi», i quali «sono il risultato non di una evoluzione regolare, ma di un malsano scrollone che certamente e` riuscito a sradicare le istituzioni del passato, senza mettere nulla al loro posto; perche´ non e` certo nel giro di pochi anni che si puo` 20 rifare un’opera di secoli» . 20
E´. Durkheim, Il suicidio (1897), tr. it., UTET, Torino, 1969, p. 207.
Sbagliando si impara: il metodo unificato
Come risulta evidente da questo studio sul suicidio di Durkheim – che rappresenta uno dei primi e piu` riusciti esempi di impiego sistematico di metodiche di tipo quantitativo nelle scienze sociali –, il procedimento di quantificazione e` una tecnica per effettuare osservazioni, le quali consentono di confermare o di falsificare proprio quella ipotesi di spiegazione causale alla luce della quale siffatte osservazioni sono state considerate rilevanti ai fini della ricerca. E` dunque evidente che una qualsiasi osservazione, sia essa condotta con tecniche qualitative o quantitative, ha un senso solo perche´ effettuata da una prospettiva teorica e quindi funzionale al controllo di una teoria: come aveva affermato Charles Darwin: «com’e` strano che nessuno veda che ogni osservazione non puo` non essere 21 pro o contro qualche teoria» .
Bibliografia ragionata Il classico dell’epistemologia falsificazionista e` il saggio di K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica (1934), tr. it., Einaudi, Torino, 1970. Per una sistematica trattazione del metodo problemi-teorie-critiche, in riferimento all’ermeneutica, alla critica testuale, alla diagnosi clinica, oltre che alle scienze naturali e alla scienze storico-sociali, si veda D. Antiseri, Teoria unificata del metodo (1981), Utet Libreria, Torino, 2001. Tra i principali teorici del metodo unificato, si rimanda, in particolare: a C. Bernard, Introduzione allo studio della medicina sperimentale (1865), tr. it. Piccin, Padova, 1994, per un approfondimento sulla funzione del controllo sperimentale; a E. Naville, La logica delle ipotesi (1880), tr. it., Rusconi, Milano, 1989, per una acuta indagine sullo statuto epistemologico delle ipotesi nella ricerca scientifica; a G. A. Colozza, L’immaginazione nella scienza. Appunti di psicologia e pedagogia (1899), Rubbettino, Soveria Mannelli, 1996, per una originale ricognizione sulla funzione assolta dall’immaginazione e dalla fantasia nell’indagine scientifica, e, piu` in generale, nella soluzione di ogni genere di problemi. Sulle tematiche legate alla controllabilita` empirica delle teorie,
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In More letters of Charles Darwin, edited by F. Darwin and A. C. Seward, London, 1903, pp. 176 e ss.
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Viene prima l’ipotesi e poi la quantificazione
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Il mestiere dello scienziato sociale
con particolare riferimento alla questione della “conferma” e della “falsificazione”, si veda il quinto capitolo di G. Boniolo, P. Vidali, Filosofia della scienza, Bruno Mondadori, Milano, 1999 e il quarto capitolo di V. Fano, Comprendere la scienza. Un’introduzione all’epistemologia delle scienze naturali, Liguori, Napoli, 2005. Per un approfondimento circa la natura epistemologica dei problemi e la funzione assolta dall’individuazione degli errori nell’evoluzione della conoscenza, non si puo` che partire da E. Mach, Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca (1905), tr. it., Einaudi, Torino, 1982. Una interessante rassegna critica delle varie tesi filosofiche circa le relazioni tra scienza e metafisica e` proposta da V. Fano e G. Tarozzi, in La filosofia della scienza come “sistema di ricerca”, in V. Fano, G. Tarozzi, M. Stanzione (a cura di), Prospettive della logica e della filosofia della scienza, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001.
Capitolo secondo Quando la spiegazione e` scientifica
1. Il modello di spiegazione nomologico-deduttiva Risolvere un problema, come si e` visto, significa formulare un’ipotesi esplicativa di quell’evento che urta con le aspettative del ricercatore; e tale spiegazione non e` altro che una strategia epistemologica attraverso la quale si rintracciano le cause del fatto da spiegare: scire est scire per causas. Proprio per sottolineare la forza conoscitiva del principio di causalita`, Democrito amava ripetere che preferiva scoprire un nesso causale anziche´ essere il Re di Persia. A partire dal filosofo ed economista John Stuart Mill, esiste una lunga e consolidata tradizione di economisti (W. S. Jevons e C. Menger, F. Simiand), sociologici (il Weber autore del saggio su Roscher e Knies e i problemi logici dell’economia a indirizzo storico), storici (G. Salvemini, E. Carr), epistemologi (C. J. Ducasse, K. R. Popper, C. G. Hempel, E. Nagel), che hanno elaborato un modello di spiegazione causale a loro avviso applicabile, oltre che nelle scienze fisico-naturalistiche, anche in quelle storico-sociali. Nella sua ormai classica formulazione, proposta da Popper ed Hempel (“modello Popper-Hempel”), il modello nomologico-deduttivo detto anche, secondo la definizione di W. Dray, «modello della legge di copertura» (covering law model), stabilisce che un qualsiasi evento (explanandum) e` spiegato scientificamente quando l’asserto che lo descrive e` dedotto, e quindi e` deducibile, da un apparato ipotetico (explanans) formato da «asserzioni singolari» o cause, che descrivono «condizioni iniziali», (C1…Ck) e «asserzioni universali», chiamate «leggi di copertura rilevanti», (L1...Lr), che stabiliscono un nesso tra 1 cause ed effetti, tra «condizioni iniziali» ed explanandum . 1 C. G. Hempel, “The Function of General Laws in History”, in Journal of Philosophy, XXXIX, 1942, p. 235; C. G. Hempel, P. Oppenheim, “Studies in the Logic of Explanation”, in Philosophy of Science, XV, n. 2, 1948, p. 137. Si
Il “modello della legge di copertura”
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Il mestiere dello scienziato sociale
explanans explanandum
Un esempio di spiegazione
C1 , C2 , … Ck L1, L2, …. Lr __________________ E
Spiegare un evento significa ricondurlo alle sue cause (o “condizioni iniziali”) mediante leggi; leggi che rappresentano una necessita` logica, perche´ sarebbe altrimenti impossibile selezionare, tra gli infiniti fatti del mondo, quelli ritenuti causalmente adeguati a dare conto dell’explanandum. Ecco come questo modello esplicativo viene applicato in una banale spiegazione di fisica, proposta dallo stesso Popper2. Un fisico puo` avanzare la seguente spiegazione della rottura di un pezzo di filo: esso si e` spezzato perche´, avendo una ½ kg, e` stato caricato di un peso resistenza alla trazione pari a fl pari ad 1 kg. Questa semplice spiegazione segue chiaramente la logica descritta dal “modello Popper-Hempel”: l’explanandum (la rottura del filo) e` ricondotto ad alcune condizioni iniziali (o cause) descritte da asserzioni singolari (C1: “Il carico di rottura di ½ kg”; C2: “Il filo e` stato caricato con un peso questo filo e` di fl di 1 kg”), sulla base di una legge (L1) descritta da una asserzione universale (“un filo si rompe tutte le volte che viene caricato di un peso che supera il peso che definisce la resistenza alla trazione di quel filo”). In realta`, le leggi di copertura e le condizioni iniziali sulle quali si basa questa spiegazione possono essere specificate piu` dettagliatamente per quel che riguarda le leggi di copertura: L1: “Per ogni filo di una data struttura S (determinata dal materiale da cui e` costruito, dallo spessore, ecc.) esiste un peso caratteristico w, tale che il filo si spezzera` per ogni peso superiore a w che venga sospeso ad esso”; L2: “Per ogni struttura S1 il peso caratteristico w e` uguale a ½ fl ”. C1: “Questo e` un filo di struttura S1”; C2: “Questo filo e` stato caricato con un peso pari a 1 kg”.
veda anche K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica (1934), Einaudi, Torino, 1970, p. 44. 2 K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica, cit., p. 44.
Quando la spiegazione `e scientifica
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2. Gli “abbozzi di spiegazione” Essendo per l’appunto un modello, il covering law model non e` un resoconto dettagliato delle spiegazioni scientifiche; non intende descrivere, in altri termini, la procedura esplicativa effettivamente seguita dallo scienziato. Esso, invece, si limita a indicare un modello logico di spiegazione che consenta – come si e` visto con gli esempi evocati – una ricostruzione razionale delle spiegazioni proposte. Buona parte delle spiegazioni avanzate nelle scienze naturali, cosı` come nelle scienze sociali, sono in realta`, degli «abbozzi di spiegazione» (explanation sketches), che lasciano non di rado «incomplete» e persino «largamente indeterminate» le 3 leggi o le condizioni iniziali ; tali ipotesi, pertanto, «rendono 4 solo parzialmente ragione dell’explanandum» . In casi estremi queste spiegazioni rappresentano delle semplici ma fondamentali «ipotesi di lavoro», le quali esplicitano la nervatura essenziale della spiegazione, suggerendo, in qualche modo, la direzione in cui procedere per una loro ricostruzione razionale. Gli «abbozzi di spiegazione» indicano, cioe`, che «c’e` un tesoro nascosto da qualche parte», e «la loro importanza ed utilita` cresce quanto piu` minuziosamente viene circoscritta la localizzazione del tesoro, quanto piu` esplicite vengono rese le condizioni 5 rilevanti e le corrispondenti leggi di copertura» . Il fatto che si tratti di spiegazioni incomplete non significa, evidentemente, che in esse manchino le leggi o le cause, ma semplicemente che una parte delle leggi e delle cause non sono esplicitate e rimangono sottintese. Ai fini dell’efficacia della spiegazione, dell’economia della teoria e della comprensione della stessa da parte di un certo uditorio di riferimento, lo scienziato ritiene inutile indicare in modo sistematico e dettagliato tutti gli elementi implicati dalla spiegazione, nella convinzione che cio` che in essa e` implicito possa essere facilmente compreso, data la conoscenza di sfondo. Nella spiegazione proposta da Popper (“il filo si e` spezzato perche´, avendo una resistenza alla trazione ½ kg, e` stato caricato di un peso pari ad 1 kg”), le leggi, pari a fl 3 C. G. Hempel, Aspetti della spiegazione scientifica (1965), tr. it., Il Saggiatore, Milano, 1986, p. 39. 4 Ivi, p. 139. 5 Ibid.
La spiegazione come “ipotesi di lavoro”
Cio` che e` implicito nella spiegazione
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Il mestiere dello scienziato sociale
pur essendo logicamente essenziali, non vengono menzionate; mentre le condizioni antecedenti, ritenute causalmente rilevanti, sono citate (C1: “Il filo ha una resistenza alla trazione ½ kg”; C2: “Il filo e` stato caricato di un peso pari a 1 pari a fl kg”); e comunque, come si e` visto, tali cause possono essere ulteriormente precisate. Una parte delle cause e delle leggi possono dunque essere implicite, ma note. Ma puo` anche capitare il caso, come si vedra` nel terzo capitolo, che alcune leggi e condizioni iniziali siano proprio ignote, anche a colui che avanza la spiegazione; in questi casi lo scienziato non riesce a far di meglio che proporre delle «spiegazioni incomplete» o «parziali».
3. I requisiti della spiegazione Affinche´ una spiegazione che segua lo schema logico descritto dal modello nomologico-deduttivo sia scientifica, occorre che vengano rispettati alcuni fondamentali requisiti «empirici» e «logici». Requisiti empirici
a) La proposizione che descrive l’explanandum deve essere, fino a prova contraria, ben confermata: non si puo` spiegare un fatto in tutto o in parte inesistente; b) le asserzioni singolari che descrivono le condizioni iniziali devono avere un contenuto empirico e devono essere falsificabili ma non falsificate. Non puo` essere accettata una spiegazione che indichi come cause eventi in tutto o in parte inesistenti; c) oltre alle asserzioni singolari che descrivono le condizioni iniziali, anche quelle asserzioni universali rappresentate dalle leggi devono essere empiricamente controllate. Nel caso in cui la copertura nomologica tra cause ed effetto fosse assicurata da teorie infalsificabili, saremo al cospetto di interpretazioni (filosofiche, teologiche, ideologiche, ecc.), le quali vanno tenute distinte dalle teorie scientifiche. La falsificabilita` delle leggi rappresenta, dunque, una caratteristica decisiva per assicurare la scientificita` della spiegazione.
Requisiti logici
a) «L’explanandum deve essere la logica conseguenza dell’explanans; in altri termini, l’explanandum deve essere logicamente
Quando la spiegazione `e scientifica
deducibile dalle informazioni contenute nell’explanans»6: se un filo ha una resistenza di ½ fl Kg (C1) ed e` stato caricato con il peso di 1 Kg (C2), data la legge L1 (“Un filo si rompe tutte le volte che viene caricato di un peso che supera il peso che definisce la resistenza alla trazione di quel filo”), da siffatto explanans sara` logicamente deducibile l’explanandum, cioe` quella proposizione che descrive la rottura del filo; b) l’explanans deve contenere «leggi generali» (Hempel) o «leggi universali» (Popper), le quali sono necessarie per dedurre l’explanandum dalle condizioni iniziali. Cio` significa che le leggi contenute nell’explanans devono essere controllate indipendentemente dal fenomeno da spiegare: basare una spiegazione su una legge che vale solo per il caso in esame, significa proporre una “spiegazione ad hoc”. Cosı`, la legge L1 impiegata nella spiegazione appena menzionata, puo` essere considerata scientifica, non solo perche´ rispetta il requisito empirico della controllabilita` empirica, essendo falsificabile e non falsificata, ma anche a motivo del fatto che essa e` universale: spiega tutti i casi nei quali si presentano le medesime condizioni (e non solo il singolo evento oggetto di indagine). c) le condizioni iniziali devono essere distinte dall’explanandum: nel caso in cui una spiegazione da` conto di un fatto da spiegare rimandando direttamente o indirettamente all’explanandum stesso, saremmo in presenza di una “spiegazione circolare”. Quando ne Il malato immaginario di Moliere, il Bachelierus spiega che l’oppio fa dormire perche´ possiede una «virtus dormitiva», propone evidentemente una spiegazione non scientifica, proprio perche´ spiega un evento mediante se stesso; d) l’explanandum e le condizioni iniziali devono descrivere non eventi individuali, bensı` aspetti di eventi individuali, selezionati dal ricercatore sulla base dei propri interessi. Un ricercatore non puo` spiegare un fatto nella sua totalita` o nella sua essenza; egli, invece, indaga un evento sempre da uno o piu` punti di vista, ritenuti rilevanti. E siccome e` sempre in linea di principio possibile inventare una nuova teoria che proponga una nuova prospettiva di indagine, svanisce qualsiasi aspirazione ad una spiegazione totale, intesa come somma di tutte le possibili prospettive di indagine. Nell’esempio esaminato, Popper da` conto 6 C. G. Hempel, P. Oppenheim, “Studies in the Logic of Explanation”, cit., p. 137.
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Il mestiere dello scienziato sociale
dell’explanandum (la rottura del filo) da una prospettiva fisica, ma nulla vieta di indagare questo evento, ad esempio, dal punto di vista economico (il danno economico prodotto dal filo spezzato) o psicologico (la delusione di chi, con questo filo, voleva risolvere un problema e non vi e` riuscito).
4. La tripartizione delle scienze su base metodologica
Le applicazioni del covering law model
Scienza teorica
Scienza storica
Il modello di spiegazione nomologico-deduttiva si applica in tutte le scienze: ovunque c’e` un problema, esso puo` essere risolto – quando cio` e` possibile – soltanto reperendo, grazie al “sapere nomologico” del ricercatore, quelli che tra gli infiniti fatti del mondo possono essere considerati come le cause di quel fatto ritenuto problematico dal ricercatore. Se scire est scire per causas, sia nelle scienze fisico-naturalistiche che in quelle storico-sociali, differenti possono essere le applicazioni che il ricercatore puo` fare del modello nomologicodeduttivo. E proprio in relazione alle tre possibili operazioni che si possono fare con il covering law model, si puo` proporre, sulla scia di C. Menger e K.R. Popper, una suddivisione delle scienze su base metodologica: a) si ha scienza pura o scienza teorica, quando si cercano le leggi. Lo scienziato, in questo caso, contribuisce alla crescita della conoscenza scientifica scoprendo nuove leggi e mettendole a prova, individuando una correlazione causale inedita. Una volta scoperte, le leggi possono essere impiegate per spiegare o per prevedere; b) si ha scienza storica, quando si impiegano leggi gia` note per spiegare un fatto accaduto. In questo caso lo scienziato va alla ricerca di cio` che e` ignoto, le cause, per spiegare cio` che e` noto, l’explanandum, proprio grazie alle leggi di cui dispone. Come e` evidente, in natura non esistono cause ed effetti, ma soltanto fatti, alcuni dei quali possono essere posti in relazione di causalita` solo grazie alle leggi; e un fatto viene spiegato proprio quando diventa un effetto di una o piu` cause. Quando fa scienza storica, sia esso un fisico che spiega una eclissi o un sociologo che spiega l’andamento demografico, lo scienziato fa la storia dell’evento, ricomprendendo in essa soltanto quei fatti, antecedenti o simultanei, i quali – date le leggi note – possono essere posti in connessione causale con il fenomeno da spiegare.
Quando la spiegazione `e scientifica
c) si ha scienza tecnologica o scienza applicata quando si pongono le cause e, sulla base di leggi, si formulano previsioni. In questo caso l’interesse dello scienziato e` diretto, a seconda dei casi, alla realizzazione o alla individuazione di quelle condizioni iniziali che il suo “sapere nomologico” gli dice essere rilevanti per poter prevedere l’accadimento di un evento. E, a parita` di leggi impiegate, la previsione sara` tanto piu` attendibile quanto piu` precisa e` la definizione delle condizioni iniziali. Fanno dunque scienza applicata, ad esempio, sia un astronomo che tenta di prevedere una eclissi, sia un economista che cerca di prevedere l’andamento del tasso di inflazione, sia un politologo che formula previsioni sull’esito di una elezione o sulla durata di un governo.
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Scienza tecnologica
5. La divisione su base metodologica non introduce una gerarchia tra le scienze A seconda dei casi e delle necessita`, ogni scienziato puo` – di volta in volta – orientare la sua attivita` in una di queste tre direzioni. A questo punto, pero`, va fatta una importante precisazione: ci sono intere discipline o aree di ricerca nell’ambito delle quali gli scienziati sono solo consumatori e non anche produttori delle leggi che utilizzano. Essi impiegano, cioe`, in funzione esplicativa e/o previsionale, leggi offerte da altre discipline. La storiografia, come si vedra` meglio in seguito, e` essenzialmente una scienza storica; il suo compito non e` quello di individuare inesistenti leggi storiche, bensı` di applicare leggi e modelli prodotti dalle altre scienze sociali (economia, sociologia, psicologia sociale, demografia, ecc.), oltre che dal senso comune, per spiegare gli eventi passati. LA CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE ECONOMICHE Prima ancora che questa suddivisione delle scienze effettuata sulla base del modello nomologico-deduttivo venisse avanzata da Popper, e dopo che J. S. Mill aveva proposto questa logica della spiegazione per tutte le scienze, e` stato Carl Menger a proporre una tripartizione delle scienze economiche, in: 1) «scienze storiche», che indagano singoli fenomeni (e relazioni tra fenomeni), dal punto di vista statico (la statistica economica) o
La “scienza teorica” non e` la “vera” scienza
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Il mestiere dello scienziato sociale
evolutivo (la storia economica); 2) «scienze teoriche», che ricercano le «connessioni generali» (le leggi) tra i fenomeni economici (l’economia teorica); 3) «scienze pratiche», che offrono un indispensabile ausilio a coloro che intendono realizzare progetti economici, quali i «poteri pubblici» (la politica economica) o qualsiasi soggetto, individuale o collettivo, «fornito di potere finanziario» (la scienza delle finanze)8.
E` bene comunque chiarire che siffatta tripartizione delle scienze su base metodologica serve solo a distinguere concettualmente le differenti operazioni che ogni scienziato puo` effettuare e non introduce una gerarchia tra le scienze. Va dunque evitato il tutt’altro che raro fraintendimento di considerare quella teorica come la vera scienza e di collocare quelle storiche e tecnologiche su un gradino piu` basso di una supposta scala della scientificita`.
Bibliografia ragionata Sul modello nomologico-deduttivo, oltre alla Logica della scoperta scientifica di Popper (cap. 3) e al celebre saggio di C. G. Hempel e P. Oppenheim, “Studies in the Logic of Explanation”, in Philosophy of Science, XV, n. 2, 1948, pp. 135-175, i due testi fondamentali sono quelli di C. G. Hempel, Aspetti della spiegazione scientifica (1985), tr. it., Il Saggiatore, Milano, 1986 e di E. Nagel, La struttura della scienza. Problemi di logica della spiegazione scientifica (1961), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1968. Il volume di Hempel contiene anche un dettagliato esame della spiegazione mediante leggi statistiche e una replica alle obiezioni, come quella di W. Dray, sull’inapplicabilita` del modello nomologico-inferenziale per spiegare l’azione umana. Il volume di Nagel e` una delle piu` sistematiche trattazioni – densa di riferimenti alla storia della scienza – della spiegazione causale nelle scienze fisico-naturalistiche e in quelle storico-sociali. A questi due volumi va affiancato anche il testo di R. B. Braithwaite, La spiegazione scientifica (1953), tr. it., Feltrinelli, Milano, 8 C. Menger, Sul metodo delle scienze sociali (1883), tr. it., Liberilibri, Macerata, 1996, pp. 235-241.
Quando la spiegazione `e scientifica
1966. Un’utile ricostruzione storica, soprattutto in riferimento alla spiegazione nelle scienze naturali, dell’intenso dibattito sviluppatosi a seguito delle tesi avanzate da Popper e da Hempel, e` contenuta in W. Salmon, 40 anni di spiegazione scientifica (1989), tr. it., Franco Muzzio Editore, Padova, 1992. Per una introduzione alla tematica della spiegazione scientifica, si veda il primo capitolo di V. Fano, Comprendere la scienza. Un’introduzione all’epistemologia delle scienze naturali, Liguori, Napoli, 2005.
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Capitolo terzo Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
1. La spiegazione in economia Comparando le condizioni economiche di alcuni Paesi europei, in relazione ai rispettivi sistemi dei dazi sulle esportazioni, Adam Smith si imbatte in un problema: perche´ Spagna e Portogallo, pur essendo molto ricchi di metalli preziosi, «sono forse tra i Paesi piu` miseri» d’Europa? A questo explanandum l’autore de La ricchezza delle nazioni offre la seguente spiegazione: Le tasse e la proibizione sull’esportazioni dell’oro e dell’argento, introdotte in Spagna e Portogallo, provocano una riduzione del valore di questi metalli. «Il basso prezzo dell’oro e dell’argento o, cio` che e` lo stesso, il caro prezzo di tutte le merci, che e` l’effetto necessario di questa sovrabbondanza di metalli preziosi, scoraggia sia l’agricoltura che le manifatture della Spagna e del Portogallo e consente alle nazioni straniere di fornir loro molte specie di prodotto grezzo, quasi tutte le specie di prodotto manifatturato, per una quantita` di oro e d’argento minore di quella per la quale essi stessi potrebbero produrre o coltivare quei prodotti nel proprio paese». Inoltre, «questa cattiva politica non e` compensata in questi paesi dalla liberta` e sicurezza generale del popolo. L’industria non e` ne´ libera ne´ sicura; ed i governi civile ed ecclesiastico della Spagna e del Portogallo sono tali che basterebbero da soli a perpetuare l’attuale situazione di poverta`, quand’anche i loro regolamenti di commercio fossero tanto saggi quanto assurdi e folli sono in massima parte attual1 mente» .
1
A. Smith, Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), tr. it., Utet, Torino, 1950, pp. 490-1.
Adam Smith
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Il mestiere dello scienziato sociale
Le cause e le leggi
Utilizzando il modello nomologico-deduttivo, la spiegazione di Adam Smith puo` essere cosı` ricostruita: sulla base di alcune leggi economiche, egli riconduce il fatto da spiegare (il sottosviluppo dell’economia spagnola e portoghese) alle seguenti tre cause di natura economico-politica: C1: i forti disincentivi all’esportazione dei metalli preziosi presenti in questi Paesi. Tale causa e` collegata all’explanandum mediante una catena di spiegazioni nomologiche, che cosı` puo` essere ricostruita: i) le limitazioni all’esportazione di oro e argento fanno aumentare la quantita` di questi metalli all’interno della Spagna e del Portogallo; ii) l’aumento della loro disponibilita` provoca una loro svalutazione; iii) tale svalutazione fa aumentare il prezzo delle altre merci; iv) siffatto aumento scoraggia gli investimenti economici; v) senza investimenti non ci puo` essere sviluppo economico. Il legame causa-effetto proposto in ognuna di siffatte spiegazioni e` implicitamente coperto da almeno due leggi: L1: la legge della domanda e dell’offerta (il prezzo di un bene e` dato dal punto di incontro tra domanda e offerta); L2: la legge sulla massimizzazione del profitto (gli attori economici tendono ad investire nei settori che garantiscono loro un piu` elevato profitto). C2: la scarsa liberta`; condizione iniziale collegata all’explanandum attraverso la legge implicita: “l’iniziativa economica si puo` sviluppare adeguatamente soltanto se sono sufficientemente tutelate le liberta` individuali”; C3: la scarsa sicurezza; condizione iniziale collegata al fatto da spiegare mediante la legge implicita: “l’iniziativa economica si puo` sviluppare adeguatamente soltanto se e` garantito un certo grado di sicurezza nelle relazioni sociali”.
2. La spiegazione in sociologia Nel suo studio sulla genesi e lo sviluppo della divisione del lavoro, Georg Simmel fa notare come le citta` siano state «i luoghi di piu` forte divisione del lavoro». Per dare conto di questo cosı` diffuso e rilevante fenomeno sociale, Simmel avanza la seguente ipotesi di spiegazione: Georg Simmel
«Via via che si espande, la citta` offre sempre di piu` le condizioni determinanti della divisione del lavoro. Essa
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
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offre una cerchia, che, per via della sua dimensione, puo` assorbire una varieta` di servizi molto diversi. Nello stesso tempo, la concentrazione degli individui e la loro lotta nella ricerca di clienti costringe l’individuo a specializzarsi in una funzione nella quale puo` difficilmente essere sostituito da un altro. E` fuori discussione che la vita di citta` ha trasformato la lotta con la natura per la sussistenza in una lotta interumana per il guadagno che non e` piu` assicurato dalla natura, ma ottenuto dagli altri uomini. Perche´ la specializzazione non e` soltanto il prodotto della competizione per il guadagno ma origina anche dal fatto meno evidente che il venditore deve cercare sempre di sviluppare bisogni nuovi e differenziati del cliente che attrae. Al fine di trovare una fonte di reddito che non e` ancora esaurita e di trovare una funzione che non puo` essere facilmente sostituita e` necessario specializzare i propri servizi. Questo processo promuove la differenziazione, la raffinazione, l’arricchimento dei bisogni da parte del pubblico, il che deve ovviamente condurre a differenze perso2 nali crescenti nell’ambito di questo pubblico» . In questo brano Simmel, che pure non ha lesinato critiche alla spiegazione nomologica nelle scienze storiche e sociali, ricollega, in ultima analisi, l’explanandum (la piu` elevata divisione del lavoro che si registra nelle citta` rispetto alle campagne) alla condizione iniziale C1: «la concentrazione di individui» che si produce nelle citta`; utilizzando, senza menzionarla, la seguente legge: “la maggior concentrazione di individui tende a produrre una specializzazione delle loro funzioni”. Ma, cosı` come aveva fatto Smith nella spiegazione appena esaminata, anche Simmel non si limita ad enunciare la causa, e rende meno indeterminato il suo “abbozzo di spiegazione” proponendo una catena di spiegazioni, al fine di rendere piu` intellegibile il nesso causale che intercorre tra densita` demografica e morale e divisione del lavoro. Egli infatti evidenzia: i) come la maggiore concentrazione di individui provochi nelle citta` una lotta per la sopravvivenza esclusivamente «interumana», servendosi implicitamente della legge: “in un ambiente sociale in cui la sopravvivenza non 2
G. Simmel, Immagini dell’uomo (1899), tr. it., Edizioni di Comunita`, Milano, 1963, p. 539.
Le cause e le leggi
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dipende in modo decisivo dalla natura si afferma una competizione interindividuale per la sussistenza e per il guadagno”; ii) ogni individuo tende a specializzarsi il piu` possibile nella sua funzione e nel suo lavoro per far fronte alla concorrenza degli altri; legge: “piu` un individuo e` specializzato nella produzione di un bene o di un servizio e piu` e` facile che il suo prodotto riscuotera` le preferenze dei consumatori”; iii) gli imprenditori tendono a suscitare nuovi bisogni diffusi; legge: “se si vogliono vendere nuovi prodotti si devono individuare nuovi bisogni e nuove esigenze”.
3. La spiegazione in scienza politica Nell’indagare le dinamiche politiche dell’Italia degli anni Settanta, Giovanni Sartori si propone di spiegare perche` il partito della Democrazia Cristiana tento` di «accreditare agli occhi dell’elettorato una ‘immagine’ di centro-sinistra». «Un partito che (come la DC) occupa il centro non e` solo la conseguenza di una situazione di polarizzazione; e`, a sua volta, causa efficiente di polarizzazione. In una prima fase il partito di centro tiene insieme il sistema. Ma alla lunga e` proprio l’occupazione del centro che alimenta la dinamica centrifuga del sistema. Per questa ragione semplicissima: che se l’elettorato moderato, intermedio, centrista, e` gia` aggiudicato al partito di centro, il sistema non ha piu` centralita`, vale a dire ricompensa i partiti che cercano voti in una direzione centrifuga (scavalcandosi alle ali), e penalizza i partiti che cercano voti in direzione centripeta 3 (convergendo verso il centro)» .
Giovanni Sartori
Le cause e le leggi
In questa sua teoria, Sartori – nonostante abbia decisamente preso in altra sede le distanze dal metodo di spiegazione causale – individua nella occupazione dello spazio politico di centro, la causa della strategia della DC di accreditare si se` una immagine di centro-sinistra. Sartori spiega che, essendo occupato il centro, cioe` essendo gia` “impegnati” gli elettori di 3
G. Sartori, Teoria dei partiti e caso italiano, Sugarco, Milano, 1982, p. 29.
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
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centro, la competizione tra i partiti tende a svilupparsi in direzione centrifuga, per accaparrarsi i voti di quegli elettori “liberi”. Sartori e` in grado di ipotizzare questa connessione causale tra explanandum (tendenze centrifughe dei partiti) ed explanans (l’occupazione del centro), sulla base della semplice legge non menzionata, secondo la quale: “i partiti tendono a conquistare in primo luogo i voti di quegli elettori che non si identificano direttamente con altri partiti”. Tale strategia puo` essere a sua volta spiegata da una legge ancora piu` semplice: “e` piu` facile conquistare i voti di un elettorato fluttuante anziche´ quelli di una elettorato che si identifica fortemente con uno o piu` partiti”.
4. La spiegazione in psicologia Illustrando alcuni esempi concreti di «azioni sintomatiche e casuali» di cui e` costellata la vita di ogni individuo, Sigmund Freud si propone di risolvere il seguente caso: «Un collega mi riferisce di aver inaspettatamente perduto una sua speciale matita che possedeva ormai da piu` di due anni e che gli era diventata preziosa a causa dei suoi pregi. L’analisi diede il seguente risultato. Il giorno prima questo collega aveva ricevuto dal cognato una lettera notevolmente sgradevole, che terminava con la frase: “Per ora non ho ne´ la voglia ne´ il tempo di soccorrere la tua leggerezza e pigrizia”. L’effetto suscitato da questa lettera fu cosı` forte che il collega il giorno dopo prontamente sacrifico` la matita, che era un regalo di questo cognato, 4 per non sentire troppo il peso dei suoi favori» . Dopo aver enunciato l’explanandum (la perdita della matita da parte del collega), Freud ne da` conto ponendolo in relazione con alcune condizioni antecedenti e casualmente rilevanti (C1: la matita era un regalo del cognato; C2: Il giorno prima il collega aveva ricevuto dal cognato una lettera notevolmente 4
S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana (1924), tr. it., Boringhieri, Torino, 1971, p. 220.
Sigmund Freud
Le cause e le leggi
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Il mestiere dello scienziato sociale
sgradevole), individuate sulla base delle seguenti leggi implicite: L1: “gli individui tendono a liberarsi di quegli oggetti che ricordano loro cose spiacevoli”. Legge che rimanda ad una legge piu` generale L2: “gli individui tendono a rimuovere le cose spiacevoli”.
5. La spiegazione in storiografia Nella sua grande opera sul Rinascimento italiano, Jacob Burckhardt vuole spiegare un fenomeno che suscita il suo interesse: perche´, tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, «l’Italia diventa la patria di una “politica estera”, che poi a poco a poco anche negli altri Paesi prevale al diritto riconosciuto, e la trattazione degli affari internazionali, completamente oggettiva e libera da pregiudizi e da ogni ritegno morale, vi raggiunge talvolta una perfezione, che le da` apparenza di decoro e di grandezza, mentre l’in5 sieme suscita l’impressione di un abisso senza fondo» .
Jacob Burckhardt
Le cause e le leggi
Dopo l’enunciazione dell’explanandum, che nella trattazione e` posposta all’individuazione delle cause, lo storico svizzero lo spiega come effetto delle seguenti condizioni iniziali: c1) poiche´ «la maggior parte degli Stati italiani erano all’interno opere d’arte, vale a dire creazioni coscienti», allora «emanate dalla riflessione e fondate su basi rigorosamente calcolate dovevano essere anche i rapporti che 6 correvano tra di loro e con gli Stati esteri» . Questa causa presuppone la legge: “gli Stati di recente costituzione hanno la necessita` di intrattenere relazioni chiare e riconoscibili con gli altri Stati”; c2) «L’essere quasi tutti [gli Stati italiani] fondati sopra usurpazioni di data abbastanza recente e` cosa per essi 5
J. Burckhardt, La civilta` del Rinascimento in Italia (1860), tr. it., Sansoni, Firenze, 1975, p. 87. 6 Ibid.
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
sommamente pericolosa tanto nelle relazioni esterne quanto nella politica interna. Nessuno riconosce il suo vicino senza qualche riserva; lo stesso colpo di fortuna che e` servito a fondare e rafforzare la propria signoria, puo` valere anche per il vicino. Ma non sempre dipende dall’usurpatore che egli possa sedere tranquillo al trono, o no: il bisogno di ingrandirsi e in generale di muoversi suol essere proprio di ogni signoria illegittima»7. In questo caso Burckhardt ricostruisce la situazione servendosi, senza menzionarle, di almeno tre leggi: L1 “gli Stati nati da usurpazioni sono (e si sentono) piu` minacciati degli altri” («l’essere quasi tutti [gli Stati italiani] fondati sopra usurpazioni di data abbastanza recente e` cosa per essi sommamente pericolosa tanto nelle relazioni esterne quanto nella politica interna»); L2 “gli Stati che sono (e si sentono) minacciati, hanno la necessita` di instaurare rapporti chiari con gli Stati vicini” («Nessuno riconosce il suo vicino senza qualche riserva; lo stesso colpo di fortuna che e` servito a fondare e rafforzare la propria signoria, puo` valere anche per il vicino»); L3 “gli Stati sorti illegittimamente tendono ad ingrandirsi perche´ si sentono piu` minacciati” («Ma non sempre dipende dall’usurpatore che egli possa sedere tranquillo al trono, o no: il bisogno di ingrandirsi e in generale di muoversi suol essere proprio di ogni signoria illegittima»). NON C’E` SPIEGAZIONE SENZA LEGGI Se e` vero quanto afferma A. J. Ayer, che «ogni asserzione di una qualsiasi connessione causale comporta l’asserzione di una legge causale»8, risulta evidente come le leggi siano un elemento logicamente necessario per la spiegazione9. Ecco alcune fondamentali leggi impiegate nelle scienze sociali.
7
Ibid. A. J. Ayer, Linguaggio, verita` e storia (1936), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1961, p. 55. 9 Sul posto che spetta alle leggi nella spiegazione scientifica, si veda il secondo capitolo di V. Fano, Comprendere la scienza. Un’introduzione all’epistemologia delle scienze naturali, Liguori, Napoli, 2005. 8
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Il mestiere dello scienziato sociale
Economia – La legge della domanda e dell’offerta: “In un libero mercato il prezzo di equilibrio si raggiunge quando la quantita` richiesta di un bene e` uguale alla quantita` offerta”. – La legge sulla divisione del lavoro di A. Smith. “Piu` e` ampio il mercato e piu` avanzata e` la divisione del lavoro”10. – La legge dei ricavi comparati di D. Ricardo: “In condizioni di libero scambio, il commercio internazionale non e` basato sul confronto tra valori o costi assoluti, ma su quelli relativi”, per cui ciascun Paese si specializza nella produzione di beni comparativamente vantaggiosi, preferendo importare gli altri dall’estero in cambio dell’esportazione dei beni che produce11. Sociologia – La «legge ferrea dell’oligarchia» di R. Michels: «L’organizzazione scinde definitivamente ogni partito in una minoranza che governa e in una maggioranza che ne e` governata»12. – La «legge dell’imitazione» di G. Tarde: una volta che in un gruppo sociale si e` manifestata una idea che rappresenta una soluzione a un problema comune, essa tendera` «a propagarsi secondo una progressione geometrica se tale gruppo resta omogeneo»13. – La «legge di gravitazione del mondo sociale» di E´. Durkheim: l’aumento del volume e della «densita` materiale e morale» di una societa` tende a generare la divisione sociale del lavoro14. Politologia – Le leggi sul legame tra bipartitismo e sistema elettorale maggioritario di G. Sartori: «Nessun sistema elettorale puo` ridurre a due il numero dei partiti nazionali a meno che gli stessi due partiti si trovino ad essere i soli corridori di prima fila in tutte le circoscrizioni»15; «Un sistema maggioritario (uninominale) non puo` da solo ingenerare un sistema bipartitico, ma tendera` a conservarlo una vola che c’e`»16.
10
A. Smith, Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, cit., p. 349 e ss. 11 D. Ricardo, Principi di economia politica e dell’imposta (1817), tr. it., Edizioni Milano Finanza, Milano, 2006, p. 278 e ss. 12 R. Michels, La democrazia e la legge ferrea delle ´elites, in Id., Studi sulla democrazia e sull’autorita`, La Nuova Italia, Firenze, 1933, p. 33. 13 G. Tarde, Les lois sociales (1898), ora in Id., Œuvres, Paris, 1999, p. 69. 14 ´ E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893), tr. it., Edizioni di Comunita`, Milano, 1971, p. 241. 15 G. Sartori, Teoria dei partiti e caso italiano, cit., p. 113. 16 Ivi, p. 115
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
– La legge sul legame tra partiti e gruppi di pressione di G. A. Almond: «Quando i partiti controllano i gruppi di interesse, viene meno la possibilita` di formulare domande precise in forma concreta e pragmatica: i partiti imprimono ai gruppi un contenuto politico di natura ideologica. Per converso, quando i gruppi di interesse controllano i partiti, viene limitata la possibilita` del partito di stemperare le domande specifiche in programmi politici di ampio respiro»17. – La «legge sull’influenza» di C. J. Friedrich: «L’influenza (potere non strutturato) diminuisce quando la relazione tra chi la esercita e chi vi e` soggetto diventa di pubblico dominio»18. Psicologia – La legge sui sogni di S. Freud: «Il lavoro onirico riesce a sostituire tutte le rappresentazioni penose con rappresentazioni opposte, e a reprimere i corrispondenti effetti spiacevoli»19. – La «legge fondamentale» sulla percezione di J. Piaget: «Le totalita` percettive (tendono) ad assumere la “miglior forma” possibile (legge della pregnanza delle “buone forme”): queste forme pregnanti sono caratterizzate dalla semplicita`, regolarita`, simmetria, continuita`, dalla prossimita` degli elementi, ecc.»20. Storiografia La storiografia, come si e` detto, e` una scienza storica, che attinge da altre scienze sociali, in alcuni casi anche dalle scienze naturali, e soprattutto dal senso comune, quelle conoscenze nomologiche indispensabili per la spiegazione. Ecco alcune delle leggi implicitamente (“...”) o esplicitamente («…») utilizzate da alcuni grandi storici. “Piu` un popolo e` diviso da lotte intestine e piu` e facile conquistare il suo territorio” (Tucidide). «Tutti all’inizio [di una guerra] sono piu` decisi» (Tucidide) «Chi non possiede nulla immancabilmente invidia i benestanti» (Sallustio).
17 G. A. Almond, Sistemi partitici e gruppi di pressione (1958), tr. it. in G. Sartori (a cura di), Antologia di scienza politica, il Mulino, Bologna, 1970, p. 339. 18 C. J. Friedrich, Potere e influenza (1963), tr. it. in G. Sartori (a cura di), Antologia di scienza politica, cit., p. 138. 19 S. Freud, Interpretazione dei sogni (1899), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino, 1994, vol. III, p. 504. 20 J. Piaget, Strutturalismo (1968), tr. it., il Saggiatore, Milano, 1968, p. 87.
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«Il potere non e` difficile conservarlo a patto di attenersi a quei mezzi con i quali lo si e` conquistato» (Sallustio). «Un popolo dove in tutto e` entrata la corruzione, non puo` che piccol tempo ma punto vivere libero» (Machiavelli). “Chi ammazza un governante fortemente benvoluto deve subire la reazione del popolo” (Guicciardini). «Il voler tutto riformare e` lo stesso che voler tutto distruggere» (Cuoco). «Il male sopportato pazientemente come inevitabile diviene intollerabile non appena si concepisca l’idea di liberarsene» (Tocqueville). «Gli uomini non abbandonano il vecchio se non quando sorge il nuovo capace di sostituirlo e aborrono dall’anarchia come dal vuoto» (Croce). “Gli uomini che lavorano in condizioni di restrizioni rendono meno” (Bloch).
6. La natura epistemologica delle leggi nelle scienze sociali
Leggi e azioni
Le leggi estratte dalle spiegazioni (di economia, di sociologia, di scienza politica, di psicologia e di storiografia) prese in considerazione nei paragrafi precedenti e quelle appena menzionate si rivelano particolarmente utili per evidenziare alcune loro fondamentali caratteristiche epistemologiche. A. Quelle impiegate nelle scienze sociali sono leggi riferite ad azioni e conseguenze di azioni. In alcuni casi il riferimento ai comportamenti individuali e` diretto (“gli uomini che lavorano in condizioni di restrizioni rendono meno”); in altri casi e` indiretto: si fa riferimento a nomi collettivi solo per riassumere insieme di azioni individuali («un popolo dove in tutto e` entrata la corruzione, non puo` che piccol tempo ma punto vivere libero»). In altri casi ancora, le leggi sono formulate in modo da contenere un riferimento un po’ piu` indiretto ai comportamenti individuali («il potere non e` difficile conservarlo a patto di attenersi a quei mezzi con i quali lo si e` conquistato»); questa massima di Sallustio e` evidentemente riferita agli individui che vogliono conservare il potere. Cosı` come quando Machiavelli si serve implicitamente della legge secondo cui “tutte le terre e le province che vivono libere, in ogni parte fanno profitti grandis-
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
simi”, egli non fa altro che sintetizzare l’esito di comportamenti individuali, ritenendo che piu` sono liberi e piu` sono produttivi, anche dal punto di vista economico. B. Le leggi sono generalizzazioni empiriche sul comportamento umano. Nelle scienze sociali, ma cio` capita in molti casi anche nelle scienze naturali, non abbiamo a che fare con leggi di provata universalita` e non falsificate (si pensi alla legge sulla dilatazione termica dei metalli), ma con enunciati legisimili, cioe` con proposizioni nomologiche, espresse in forma generalizzata, che svolgono la stessa funzione delle leggi universali di collegare cause ed effetti; tuttavia queste leggi sono rese false da fatti contrari. Tali enunciati, infatti, sono per lo piu` generalizzazioni empiriche di ampiezza variabile, che ci dicono che cosa generalmente gli individui tendono a fare allorche´ si trovano in determinate situazioni, e non cosa tutti gli individui necessariamente fanno in quelle circostanze. Queste leggi delle scienze sociali le possiamo definire con Weber «regole di esperienza», cioe` «regole di causazione» tratte dal «sapere nomologico» di senso comune, le quali rendono «intellegibile» l’azione ricollegandola alle sue cause (la situazione nella quale si e` sviluppata) e i suoi effetti. La mancanza di leggi universali le quali, come fa osservare un sostenitore del modello nomologico-deduttivo quale E. Nagel, non possono «venir escluse in linea di principio»21 nelle scienze sociali, non puo` essere interpretata come un elemento che discrimina nettamente queste ultime dalle scienze fisico-naturalistiche, poiche´ anche gli scienziati naturali fanno ampio uso di leggi statistiche, le quali altro non sono che generalizzazioni empiriche espresse in termini quantitativi. C. Le leggi non sono tendenze o generalizzazioni accidentali. Le leggi sono tali perche´ individuano una connessione causale valida per una piu` o meno ampia categoria di eventi tipici. Le tendenze e qualsiasi forma di generalizzazione accidentale, invece, sono semplici descrizioni di fatti, meri resoconti di esperienza, che descrivono alcuni limitati fatti contingenti dopo che si sono istanziati. Esse pertanto non possiedono alcun potere esplicativo e previsionale. Non si puo` evidentemente spiegare l’aumento del numero degli operai nell’Inghilterra della seconda meta` dell’Ottocento, sulla base della tendenza – pure rilevata dagli storici – all’incre21
E. Nagel, La struttura della scienza. Problemi di logica della spiegazione scientifica (1961), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1968, p. 573.
Asserzioni legiformi
Leggi e tendenze
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Il mestiere dello scienziato sociale
mento del proletariato nei Paesi industrializzati in quel periodo storico. Anche in questo caso, e` l’evento singolo (incremento del numero dei proletari in Inghilterra) che contribuisce a consolidare una tendenza, la quale non e` altro che la constatazione di un insieme finito di singoli dati esistenziali, e quindi non puo` dire niente di piu` di quello che descrive. Al pari delle piu` limitate regolarita` esistenziali, anche le tendenze piu` consolidate, quelle che coprono i piu` ampi periodi storici (si pensi alla tendenza costante che ha visto negli ultimi secoli aumentare progressivamente il numero dei regimi democratici) sono dei fatti-explananda che possono essere spiegati – da differenti e complementari prospettive – mediante leggi che li riconnettano a condizioni iniziali.
7. Non c’e` scienza sociale senza il ricorso al senso comune
Le “regole di esperienza”
Questa indagine sulla natura epistemologica delle leggi ci consente di introdurre una tesi decisiva per la metodologia delle scienze sociali, che sara` sviluppata nei capitoli seguenti: se le uniche leggi che trovano cittadinanza nelle spiegazioni degli scienziati sociali sono quelle riferite direttamente o indirettamente alle azioni e alle conseguenze prodotte dalla aggregazione di azioni individuali, e se, come si vedra` in seguito, e` epistemologicamente insostenibile la ricerca di leggi di evoluzione della societa` nel suo complesso, allora, nella sua essenza, la spiegazione nelle scienze sociali e` sempre di tipo nomologico e individualistico: i fenomeni sociali vengono cioe` spiegati (causalmente), come risulta dagli esempi esaminati, come effetti prodotti (intenzionalmente o inintenzionalmente) da azioni individuali. Essendo sempre riferite a comportamenti individuali, le leggi mobilitate dallo scienziato sociale sono molto frequentemente generalizzazioni empiriche di senso comune, “regole di esperienza” che ci dicono che cosa gli individui tendono a fare allorche´ si trovano in determinate situazioni-tipo. Si tratta di una conoscenza nomologica, indispensabile per agire e per spiegare, evolutivamente selezionata dalla tradizione culturale, che e` a posteriori per una determinata collettivita` e a priori per l’attore che pone in essere un’azione. «Le verita` dell’esperienza co-
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
mune» – scrive John Stuart Mill, che ha visto nell’impiego di regole di senso comune una via obbligata per l’applicazione del modello nomologico-deduttivo nelle scienze sociali – rappresentano una «conoscenza pratica dell’umanita`», costituita da «massime» «raccolte a posteriori dall’osservazione dei fatti della vita»22. Si tratta di regole che diventano «leggi empiriche», le quali possono essere proiettate, con ragionevoli possibilita` di successo, oltre i casi gia` istanziati, in quanto rimandano a leggi piu` universali che le spiegano. Considerato quanto diversi siano gli effetti che una analoga circostanza puo` esercitare sui singoli individui, si puo` sostenere che le generalizzazioni empiriche per la spiegazione dell’azione, pur essendo necessariamente «approssimate», sono tuttavia «inestimabili», perche´ «costituiscono la saggezza comune della vita di ogni giorno»23. Il fatto di essere di senso comune, e` bene precisare, non significa che queste “leggi” siano inaffidabili ed arbitrarie. Esse sono l’esito di una lunga selezione culturale, il frutto di un processo evolutivo a cui hanno contribuito un numero enormemente elevato di individui e quindi di conoscenze: ad esempio, la massima utilizzata da Machiavelli, («tutte le terre e le province che vivono libere, in ogni parte fanno profitti grandissimi»), oppure quella impiegata da Salvemini («chi ha rilevanti privilegi tende a difenderli con tutte le sue forze»), sono regole nomologiche tutt’altro che inaffidabili ed arbitrarie, essendo il prodotto di una lunga storia evolutiva. Si puo` concludere su questo punto che la spiegazione nelle scienze sociali non sarebbe semplicemente possibile senza il ricorso alla conoscenza di senso comune, e cio` non equivale ad una deminutio della scientificita` delle spiegazione. D’altronde, esiste un intero filone di pensiero, non solo di origine pragmatista, il quale ha sostenuto che «l’intera scienza non e` che un affinamento del pensiero quotidiano» (Einstein)24 e che la cono-
22 J. S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva (1843), tr. it., UTET, Torino, 1988, vol. II, p. 1143. 23 Ivi, vol. II, p. 1146. 24 A. Einstein, Pensieri, idee e opinioni (1956), tr. it., Newton, Roma, 1996, p. 56.
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La selezione delle leggi di senso comune
“Pensiero quotidiano” e “attitudine critica”
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Il mestiere dello scienziato sociale
scenza scientifica progredisce grazie alla combinazione di 25 «senso comune» ed «attitudine critica» (Popper) .
8. Spiegazioni “deduttivamente incomplete”
Quali requisiti sono rispettati
Non c’e` deduzione logica
Definita la natura epistemologica delle leggi, risulta piu` agevole accertare se e come le spiegazioni nelle scienze sociali rispettino quegli esigenti requisiti che, sia per Popper che per Hempel ed Oppenheim, devono soddisfare le teorie scientifiche. I tre «requisiti empirici» possono essere soddisfatti senza problemi: come risulta dagli esempi di spiegazioni esaminati, risulta tutt’altro che difficile accertare se: (i) la proposizione che descrive l’explanandum e (ii) le asserzioni singolari che descrivono le condizioni iniziali, siano vere fino a prova contraria, e se (iii) le leggi impiegate risultino empiricamente controllate. Al pari di quello dei requisiti empirici, anche il rispetto del terzo e del quarto dei «requisiti logici» (l’explanandum e le condizioni iniziali devono essere (iii) distinti l’uno dall’altro al fine di evitare “spiegazioni circolari” e devono (iv) descrivere non un evento nella sua totalita`, bensı` un suo aspetto) si pone esattamente negli stessi termini, sia nelle scienze naturali che in quelle storiche e sociali. Diverso e` invece il discorso per il primo e il secondo di tali requisiti logici. Come e` facile rendersi conto dagli esempi evocati, non e` soddisfatto il secondo requisito, perche´ nelle spiegazioni non sono presenti (esplicitamente o implicitamente) leggi «generali» (Hempel) o «universali» (Popper). Le leggi impiegate sono invece generalizzazioni empiriche, anche di notevole ampiezza, per le quali non e` difficile trovare istanze contraddittorie. Non basandosi su leggi universali, le spiegazioni nelle scienze sociali non sono in grado di rispettare neanche il primo dei requisiti logici: la deduzione logica dell’explanandum dall’explanans. E cio` perche`, essendo false, tali generalizzazioni non sono in grado di escludere fatti contrari, e quindi 25 K. R. Popper, Due facce del senso comune: un’argomentazione a favore del realismo del senso comune e contro la teoria della conoscenza del senso comune, in Id., Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico (1972), tr. it., Armando, Roma, 1975, p. 59.
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
la verita` delle premesse diventa compatibile con la falsita` delle conclusioni. Ma non e` solo la natura della copertura nomologica a rendere impossibile la deduzione logica del fatto da spiegare dall’explanans, ma anche la natura delle stesse cause, che spesso sono sistemi di interazioni “aperti”, in continua trasformazione, i quali possono essere ricostruiti solo con una certa approssimazione; cio` evidentemente contribuisce a rendere «deduttivamente incomplete» le ipotesi di spiegazione. Essendo «banali», «aproblematiche», «senza importanza» (Popper) e di «natura aperta e porosa» (Gardiner), le leggi nelle scienze sociali, pur logicamente necessarie, sono scarsamente rilevanti dal punto di vista metodologico, cioe` per la costruzione di ipotesi di spiegazione. Ci troviamo infatti di fronte, come si vedra` nell’ottavo capitolo, ad un vero e proprio “primato” dell’analisi situazionale, cioe` della ricostruzione dell’intreccio di condizioni iniziali, che rappresenta magna pars della spiegazione nelle scienze sociali. Quanto piu` la ricostruzione delle cause e` dettagliata, tanto meno e` incompleto (anche dal punto di vista della deduzione logica dell’explanandum dall’explanans) l’abbozzo di spiegazione, e maggiore e` quindi la sua forza esplicativa. Va comunque evidenziato che l’analisi situazionale e` anch’essa una forma di spiegazione nomologico-deduttiva, attraverso cui si ricostruisce il contesto causale che ha generato il fatto da spiegare.
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Il primato dell’“analisi situazionale”
9. Dall’“abbozzo di spiegazione” alla “previsione potenziale” Di fronte all’attendibilita` di molte delle previsioni delle scienze naturali, risalta in tutta la sua evidenza il carattere fortemente incerto ed approssimativo che spesso rivestono le previsione nelle scienze sociali. Mentre un astronomo riesce a prevedere con grande anticipo e con notevole precisione una eclissi, nessun politologo o sociologo e` in grado di prevedere con una affidabilita` neanche lontanamente paragonabile se una certa misura politica sara` o meno approvata il giorno dopo dal Parlamento o quale sara` un determinato esito elettorale. Proprio la difficolta` di formulare previsioni dotate di una certa precisione, e quindi di assolvere ad uno dei requisiti primari della scienza sperimentale, e` stata non di rado considerata come il segno di una deminutio della scientificita` della scienze sociali.
L’incertezza delle previsioni
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Il mestiere dello scienziato sociale
Le cause sono “sistemi aperti”
Ebbene, preso atto di questo stato di cose, va subito detto che tale difficolta` di previsione nelle scienze sociali non solo non va interpretata come incompatibile con il metodo unificato, ma puo` essere spiegata proprio alla luce del modello nomologico-deduttivo. Essendo spiegazione (“scienza storica”) e previsione (“scienza tecnologica”) due operazioni simmetriche, le stesse ragioni per le quali la spiegazione e` “deduttivamente incompleta”, rendono incerte e approssimative le previsioni; e in particolare, la natura delle leggi e la struttura delle condizioni iniziali. Il fatto che le leggi impiegate dagli scienziati sociali siano spesso di natura “aperta” e “porosa”, impedisce la deduzione logica, oltre che dell’explanandum dall’explanans (nella spiegazione), anche del proedicandum (il fatto da prevedere) dal proedicans (condizioni iniziali e leggi che permettono la previsio26 ne), in quanto «consentono un ampio margine di eccezioni» . Ma, piu` ancora che le leggi, e` la natura delle cause a incidere maggiormente sulla “incompletezza” delle spiegazioni e delle previsioni. Si e` spesso sostenuto che la difficolta` a spiegare e prevedere le azioni fosse dovuta al fatto che le condizioni iniziali sono dei sistemi “complessi”, che cioe` presentano un elevatissimo numero di fattori, i quali, per di piu`, si possono combinare tra di loro nei modi piu` svariati. Definita in questo modo, la complessita` non sembra rendere giustizia delle difficolta` esplicative e previsionali legate allo studio dell’azione umana e delle sue conseguenze. Certamente il cervello o l’occhio non sono sistemi, da questo punto di vista, meno complessi del mercato o di un Parlamento. Piu` che alla complessita` cosı` intesa, la difficolta` di previsione e di spiegazione e` dovuta al fatto che le cause degli eventi sociali sono sistemi di interazione ad elevato grado di “apertura”, aperti a nuove informazioni che vengono dall’esterno o che si generano per via endogena, e quindi soggetti a improvvise innovazioni. Piu` in particolare, l’incessante mutamento di questi sistemi di cause e` legata: i) alle “conoscenze disperse” tra tutti gli attori sociali, che si producono e si applicano “all’istante”, cioe` nelle singole circostanze di azione; ii) all’emergenza di conseguenze inintenzionali non prevedibili; iii) alla continua evoluzione delle preferenze di ogni singolo individuo. Tutto questo ci fa capire 26 P. Gardiner, La spiegazione storica (1961), tr. it., Armando, Roma, 1978, p. 114.
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
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quanto sia impossibile prevedere le innovazioni. A cio` va aggiunto che piu` i sistemi di interazione sono “aperti” e piu` aumentano le possibili strategie di azione a disposizione di ogni singolo e di conseguenza anche le possibili conseguenze non intenzionali generate dai loro comportamenti. Cio` finisce per accentuare il carattere indeterminstico dei sistemi di interazione e di conseguenza le difficolta` di previsione. Se vogliamo spiegare o prevedere un’azione, dovremmo considerare una serie enorme di fattori in perenne evoluzione: le conoscenze, gli obiettivi, le risorse, e piu` in generale la percezione della situazione che aveva l’attore. Se poi si vuol spiegare o prevedere un evento macro-sociale, o che comunque e` legato – come le decisioni di un Parlamento – alle azioni di un numero elevato di soggetti, occorrera` moltiplicare questi fattori per quanti sono gli individui coinvolti, tenendo conto che le conseguenze inintenzionali sono sempre in agguato e che continuamente si producono quelle che Hayek ha definito «conoscenze di circostanze particolari di tempo e di luogo», che si generano «all’istante», cioe` soltanto nelle situazioni in cui servono, e che per questo non possono essere previste in anticipo. Quando un astronomo o un oftalmologo formulano le loro previsioni (ad esempio su una eclissi e sul funzionamento dell’occhio), prendono in esame due sistemi che, dati gli scopi della previsione, possono essere considerati senza grosse controindicazioni “chiusi” (anche se, in realta`, non lo sono), ipotizzando cioe` che siano governati sempre dalle medesime dinamiche. La stessa cosa non puo` fare uno scienziato sociale che intende prevedere il comportamento degli elettori, poiche´ esso e` soggetto a nuove informazioni che lo influenzano in modo decisivo fino al momento del deposito della scheda nell’urna. Sono dunque queste peculiarita` che rendono difficile, se non impossibile, il completo accertamento delle cause dei fenomeni sociali, trasformando le spiegazioni in “abbozzi di spiegazioni” e le previsioni in “previsioni potenziali”. Abbiamo pertanto differenti “gradi di spiegazione” e differenti “gradi di previsione”, a seconda dell’ampiezza e dell’affidabilita` delle leggi e soprattutto del livello di precisione dell’analisi situazionale attraverso cui si ricostruiscono le condizioni iniziali. L’affidabilita` delle previsione e` quindi legata al grado di approssimazione della clausola del ceteris paribus (“date queste condizioni, prevedo che”) sulla quale si basa ogni tentativo di prevedere un evento.
La previsione degli eventi macro-sociali
“Gradi di spiegazione” e “gradi di previsione”
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Il mestiere dello scienziato sociale
Da queste considerazioni risulta chiaro come gli “abbozzi” di spiegazione e di previsione siano tali non solo perche´ ci sono dei fattori (cause e/o leggi) impliciti (e tuttavia noti), ma anche e soprattutto perche´ in determinate teorie una parte di essi sono ignoti al ricercatore (o alla comunita` scientifica), in quanto, come e` il caso delle condizioni che influenzano il comportamento degli elettori, per la loro natura non possono essere accertati in modo completo. LA SPIEGAZIONE E LA PREVISIONE COME POSSIBILITA` E NON COME NECESSITA` Come aveva gia` sostenuto Weber, e come poi hanno ribadito autori quali John Dewey e lo stesso Hempel, le spiegazioni e le previsioni nelle scienze sociali indicano, piu` frequentemente di quanto non accada nelle scienze naturali, una “possibilita`” e non una “necessita`”. Lo scienziato sociale formula delle spiegazioni e delle previsioni “come-possibilmente” (how-possibly-explanations e howpossibly-forecasts); avanza, in altri termini, delle spiegazioni e delle previsioni che possono essere definite “come-possibilmente”, legate soltanto a condizioni ritenute sufficienti per spiegare e prevedere; laddove, invece, la spiegazione “why-necessary”, individua condizioni necessarie e sufficienti, le quali, sulla base di leggi universali falsificabili ma non falsificate, consentono di dedurre logicamente l’explanandum. Tale “incompletezza”, che rende le spiegazioni e le previsioni un giudizio di possibilita` (che e` oggettiva, date le informazioni disponibili) e non di necessita` , rappresenta in alcuni casi una differenza di grado ma non di genere rispetto alle spiegazioni proposte dalle scienze naturali. Anche queste ultime, infatti, non di rado riposano su leggi falsificate e piu` spesso dipendono da una ricostruzione necessariamente approssimata dell’intreccio delle cause: si pensi solo alla difficolta` che hanno i geofisici a prevedere i terremoti. «Anche una legge fisica, ha scritto piu` di secolo fa un grande matematico ed epistemologo come Giovanni Vailati, non puo` essere enunciata in modo che in essa figuri la completa enunciazione di tutte le condizioni che devono essere presenti perche´ essa si verifichi»; «l’assenza di necessita` e` quindi lungi, non meno che l’assenza di eccezioni, dal costituire un carattere che distingua le uniformita` e regolarita` di andamento, che si riscontrano nei fenomeni sociali, da quelle che nelle scienze fisiche sono designate col nome di leggi». Nelle scienze naturali, come in quelle storiche e sociali, aveva sostenuto in quegli stessi anni un sociologo ed epistemologo come Max Weber, «la possibilita` di giudizi causali
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
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di necessita` e`, nella “spiegazione” di processi concreti, non gia` la regola, ma l’eccezione»27.
10. Dalle leggi ai modelli Proprio la particolare natura delle leggi impiegate nelle scienze sociali (generalizzazioni empiriche piu` o meno direttamente riducibili a regole di senso comune sui comportamenti individuali) e delle condizioni iniziali (sistemi ad elevato grado di “apertura”, e quindi di imprevedibilita`) sono due fattori determinanti per spiegare perche´ – in modo piu` accentuato rispetto alle scienze naturali – nelle scienze sociali ha assunto speciale rilevanza quel particolare genere di prodotto nomologico rappresentato dai modelli. La grande quantita` e la continua variabilita` delle azioni e delle conseguenze di azioni, che sono alla base dei fenomeni sociali, ha di fatto reso necessario che la ricerca sociale elaborasse «schemi di intellegibilita`» (Boudon), che orientassero la formulazione delle singole ipotesi di spiegazione (e di previsione) dei fenomeni. In altri termini, che si rintracciasse, attraverso i modelli, un qualche tipo di ordine comune ad una certa categoria di fatti storici e sociali, individuando un intreccio tipico (anche molto complesso) di cause e di leggi. La storia delle scienze sociali e` stata profondamente segnata dalla elaborazione di modelli, riferiti a singoli individui, a insiemi piu` o meno vasti di relazioni sociali o anche all’ordine sociale nel suo complesso. Si pensi, in economia, al modello di “equilibrio generale”, di “concorrenza perfetta” o di “homo oeconomicus”; in sociologia, alla distinzione, proposta da F. To¨nnies tra “comunita`” e “societa`”, o a quella avanzata da Weber tra i tre tipi di potere (“legale”, “tradizionale” e “carismatico”); in scienza politica, ai modelli di competizione partitica (“bipolare” o “multipolare”) di Sartori o quelli relativi all’“e´lite dominante” di R. Dahl; in psicologia, ai modelli dei “tipi psicologici” (“introverso”/“estroverso”) proposti da C. G. Jung. 27 M. Weber, “Roscher e Knies e i problemi logici dell’economia politica di indirizzo storico” (1903-1906), tr. it. in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Edizioni di Comunita`, Milano, 2001, p. 66.
I modelli come “schemi di intellegibilita`”
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Il mestiere dello scienziato sociale I modelli sono “generali” e“ideali”
I modelli non sono leggi
La “trappola del realismo”
Questi modelli hanno un peculiare statuto epistemologico: sono generali e ideali, si riferiscono a categorie piu` o meno ampie di fenomeni, ma non si applicano direttamente per la spiegazione di nessun caso concreto. Si tratta, secondo la classica definizione weberiana, di idealtipi, schemi concettuali costruiti dallo scienziato «attraverso l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e attraverso la riunione di una quantita` di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e la` in minore misura, e talvolta anche assenti – che corrispondono a quei punti di vista unilateralmente sottolineati – in un quadro concettuale in se´ unitario»28. I modelli, dunque, appartengono a un genere epistemologico diverso da quello delle leggi: a differenza di queste ultime, essi non possono essere utilizzati per spiegare e prevedere specifici eventi e, pertanto, non possono essere veri o falsi; essi vanno invece ritenuti piu` o meni utili ad indirizzare la formulazione di ipotesi (di spiegazione e di previsione) empiricamente controllabili. Come chiarisce Weber: «il concetto tipico-ideale serve a orientare il giudizio di imputazione nel corso della ricerca: esso non costituisce una “ipotesi”, ma intende orientare la costruzione di ipotesi»29; in quanto tale, il modello deve essere considerato non un “fine”, bensı` un “mezzo” per arrivare ad una spiegazione scientifica. Come ha fatto osservare Georg Simmel, non bisogna dimenticare che buona parte delle teorie delle scienze sociali presentano un carattere «formale» e non «realistico», sono modelli interpretativi e non leggi. Va dunque evitato un grave errore epistemologico, quello di cadere in quella che Raymond Boudon chiama la «trappola del realismo», confondendo i modelli con la esatta descrizione della realta`, scambiandoli per leggi (e, piu` in generale, per teorie scientifiche) e quindi utilizzandoli impropriamente – con esiti spesso iperbolici – per la previsione o la spiegazione di singoli fenomeni sociali. Quando un economista parla di “equilibrio generale” dell’economia o di “concorrenza perfetta”, un sociologo di “societa` aperta” e di 28 M. Weber, ‘L’oggettivita`’ conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale” (1904), tr. it. in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, cit., p. 188. 29 Ivi, p. 187.
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
“societa` chiusa”, non descrivono specifiche realta` effettivamente esistenti in un qualche punto dello spazio o del tempo; ne´ enunciano una legge universale in base a cui spiegare e prevedere; ne´ tantomeno propongono uno standard in nome del quale formulare giudizi di valore. Essi, invece, fanno riferimento a strumenti euristici rappresentati da schemi interpretativi (idealtipi) che non si ritrovano mai allo stato puro in nessuna realta`, ma che suggeriscono che cosa cercare nell’ambito dell’oggetto di indagine. Il modello e` dunque «un concetto-limite puramente ideale, a cui la realta` deve essere commisurata e comparata, al fine di illustrare determinati elementi significativi del 30 suo contenuto empirico» . «I modelli – ha fatto osservare Boudon – sono strumenti indispensabili alla conoscenza; ma 31 sono sempre anche sorpassati dalla realta`» . Quando segue una ipotesi o impiega un modello, lo scienziato, fa notare Marc Bloch, e` come un esploratore: «sa benissimo in partenza che non seguira` l’itinerario prefissosi. Ma, a non averne uno, 32 rischierebbe di errare eternamente a caso» . Se, come si vedra` nel sesto capitolo, una prima e fondamentale forma di ordine e` introdotta nell’indagine dalla scelta dell’oggetto di studio effettuata dal ricercatore sulla base di propri valori, attraverso i modelli si introduce – nell’oggetto selezionato – un ulteriore ordine, questa volta non di natura assiologica, bensı` di tipo, lato sensu, nomologico. Ipotizzando condizioni tipiche, i modelli individuano tendenze, dinamiche, interrelazioni, in altri termini una combinazione non aleatoria di elementi, basata su connessioni causali tipiche. Proponendo un ordine di natura causale, gli idealtipi sono costruiti dagli scienziati sulla base del loro “sapere nomologico”: essi sono elaborati grazie alle leggi, ma non vanno confusi con le leggi. Concludiamo con un esempio. Ne La societa` feudale, Marc Bloch indaga l’organizzazione feudale di alcuni Paesi, definendo esplicitamente un preciso modello di feudalesimo, attraverso il quale egli identifica alcuni aspetti ideali di questo fenomeno: 30
Ivi, p. 190. R. Boudon, Il posto disordine. Critiche delle teorie del mutamento sociale (1984), tr. it., il Mulino, Bologna, 1985, p. 284. 32 M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere dello storico (1943), tr. it., Einaudi, Torino, 1998, p. 143. 31
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I modelli sono prodotti nomologici
Marc Bloch
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Il mestiere dello scienziato sociale
«Soggezione contadina; […]; supremazia di una classe di guerrieri specializzati; vincoli di obbedienza e di protezione che legano l’uomo all’uomo e, quella classe guerriera, assumono la forma particolarmente pura del vassallaggio; frazionamento dei poteri, generatore di disordine; e, ciononostante, in mezzo a tutto cio`, la sopravvivenza di altri tipi di raggruppamento – parentela e Stato»33. Sulla base di siffatto modello, lo storico francese propone delle ipotesi empiricamente controllabili per dare conto, come fa nel caso del Giappone, delle differenze riscontrate rispetto all’idealtipo: nella classe dei guerrieri di professione in Giappone (i samurai) si svilupparono rapporti di «dipendenze personali» che avevano «un carattere di classe molto piu` spiccato che non l’accommendatio europea. […] Il vassallaggio nipponico fu, molto piu` del nostro, un atto di sottomissione, e molto meno del nostro un contratto»; la massa dei vassalli «era troppo grande – molto piu`, a quanto pare, che in Europa – per permettere che si costituissero, a loro profitto, vere e proprie signorie, con forti poteri sui sudditi»34. Bloch e` dunque in grado di osservare alcuni tratti del feudalesimo in Giappone e di proporre delle spiegazioni (che possono essere vere o false) proprio perche´ la sua indagine si e` concentrata su alcuni aspetti («soggezione contadina», «supremazia di una classe di guerrieri specializzati», ecc.) individuati dal modello di “feudalesimo” impiegato.
11. Spiegazioni scientifiche e interpretazioni ideologiche Una volta accettato il modello nomologico-deduttivo come logica della spiegazione e il principio di falsificabilita` come criterio di demarcazione tra teorie scientifiche e interpretazioni (filosofiche, ideologiche, teologiche), esaminando la natura epistemologica delle teorie, si possono dare tre casi: 33 34
M. Bloch, La societa` feudale (1939), tr. it., Einaudi, Torino, 1987, p. 497. Ivi, p. 498.
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
a) due (o piu`) teorie scientifiche risultano complementari, in quanto, spiegando differenti aspetti dello stesso oggetto di indagine, sono incommensurabili. Nell’ambito delle teorie storiografiche di Tocqueville e di Salvemini e` possibile rintracciare spiegazioni complementari dello scoppio della Rivoluzione francese: Tocqueville indaga l’aspetto, per cosı` dire, piu` psicologico, l’atteggiamento dei Francesi nei confronti dell’Ancien Re´gime, sostenendo che un regime dispotico tende ad essere abbattuto non appena comincia ad essere riformato, perche´ i cittadini, evidentemente stanchi di una lunga oppressione, si rendono conto che esso non e` immutabile ed eterno. Salvemini, dal canto suo, guarda ad altre cause, di ordine sociale (le caratteristiche peculiari della borghesia francese, piu` colta delle altre borghesie europee e quindi piu` sensibile alle vessazioni a cui era sottoposta) e politico-istituzionali (la forte centralizzazione, che ha favorito il crollo del regime proprio quando si e` iniziato a riformarlo). Risulta evidente che si tratta di due spiegazioni non incompatibili, che individuano aspetti situazionali diversi, i quali possono coesistere in una piu` complessiva ricostruzione delle cause della Rivoluzione. Semmai, si porra` in un secondo momento il problema del loro rispettivo “peso”, qualora si tentasse di stabilire una gerarchia tra tali condizioni iniziali. b) Una teoria `e falsificata da fatti proposti da un’altra teoria, la quale spiega il medesimo aspetto dello stesso oggetto di indagine. Si pensi alle critiche mosse da L. Pellicani e quell’interpretazione “deterministica” della tesi di Weber, che ha ipotizzato un nesso causale diretto e quasi esclusivo tra “etica protestante” e “spirito del capitalismo”. Dimostrando come gia` prima della Riforma c’era in Europa una diffusa economia di mercato, Pellicani falsifica questa tesi secondo la quale sarebbe stata l’etica calvinista a produrre lo “spirito del capitalismo”. c) Una teoria `e infalsificabile. Un esempio classico di interpretazione teologica della storia umana e` quello avanzato, in de Civitate Dei, da Agostino, per il quale «le leggi della universale Provvidenza di Dio governano tutte le cose». Di conseguenza: «I tempi di tutti i re e di tutti i regni sono ordinati secondo il giudizio e il volere del vero Dio»; «I buoni costumi dei Romani furono premiati da Dio con beni temporali»; «Il vero Dio e` quello che dispone sovranamente dei regni e che ha dato l’impero ai Romani»; «La durata e l’esito delle guerre dipendono dalla volonta` di Dio»; «Dio concesse prosperita` a Costan-
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Teorie incommensurabili
Congetture e confutazioni
L’interpretazione teologica
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Il mestiere dello scienziato sociale
tino imperatore cristiano». E un discorso analogo puo` essere fatto per Croce, quando sostiene che la concezione della storia umana come «storia della liberta`» e` avvalorata «dalla corrispondente filosofia, per la quale quella stessa che e` legge 35 dell’essere e` legge del dover essere» . Come risulta evidente, quelle di Agostino e di Croce sono asserzioni infalsificabili, in quanto da esse non sono logicamente derivabili conseguenze che descrivono osservazioni empiricamente possibili. In questi due casi siamo pertanto al cospetto di interpretazioni (una teologica e una filosofica) e non di spiegazioni scientifiche della storia umana. Tutto cio` ci dice che quella della falsificabilita` e` una regola preziosa e irrinunciabile (soprattutto) per discriminare tra scienza e ideologia, la cui commistione e` stata storicamente uno degli aspetti che spesso hanno danneggiato le scienze sociali nel Novecento.
Bibliografia ragionata Sull’applicazione del modello nomologico-deduttivo nelle scienze sociali, i saggi di M. Weber, “Roscher e Knies e i problemi logici dell’economia politica di indirizzo storico” (1903-6) e “Studi critici intorno alla logica della cultura” (1906), costituiscono due contributi per molti versi ancora non superati. Essi sono pubblicati, in traduzione italiana, nei Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Edizioni di Comunita`, Milano, 2001, una raccolta dei principali scritti metodologici weberiani, i quali, per acutezza e vastita` dei problemi trattati, rappresentano ancora oggi il principale testo di riferimento per chi si occupa di epistemologia delle scienze sociali. Tra gli altri contributi a proposito della spiegazione nomologicoinferenziale nelle scienze storiche e sociali, si veda D. Antiseri, Trattato di metodologia delle scienze sociali, Utet Libreria, Torino, 1996, con un istruttivo corredo di esemplificazioni tratte dalla storia della scienza, e F. Fornari, Spiegazione e comprensione. Il dibattito sul metodo nelle scienze sociali, Laterza, Roma-Bari, 2002, che fornisce anche una dettagliata ricostruzione storica di que-
35 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), Laterza, Bari, 1965, p. 13.
Leggi e modelli: il “tetto” della spiegazione scientifica
ste tematiche. Per quel che riguarda le singole discipline: per l’economia, i testi fondamentali sono quelli di C. Menger: Sul metodo delle scienze sociali (1883), tr. it., Liberilibri, Macerata, 1996 e Lineamenti per una classificazione delle scienze economiche (1889), tr. it., Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998; per la storiografia, tra gli altri, si rimanda al famoso articolo di C. G. Hempel, The Function of General Laws in History (1942) ora in Readings in the Philosophy of Social Science, edited by M. Martin and L. C. McIntyre, The MIT Press, Cambridge Mass., 1994 (questo volume contiene una preziosa raccolta dei testi classici sulle varie tematiche di metodologia delle scienze sociali); al brillante saggio di G. Salvemini, Storia e scienza (1939), tr. it., in Opere scelte, Feltrinelli, Milano, vol. , 1978; e al fondamentale volume di P. Gardiner, La spiegazione storica (1961), tr. it. Armando, Roma, 1978. L’articolo di poche pagine di G. Vailati, “Sull’applicabilita` dei concetti di causa e di effetto nelle scienze storiche” (1903), ora in Id., Metodo e ricerca, Carabba, Lanciano, 1976, e` una delle piu` lucide difese, proposta da un matematico, della spiegazione scientifica in storiografia. Sempre in riferimento alla storiografia, e` utile consultare il volume, di forte ispirazione popperiana, di A. Boyer, L’explication en histoire, P.U.L., Lille, 1992 e mi permetto di rinviare anche a E. Di Nuoscio, Tucidide come Einstein? La spiegazione scientifica in storiografia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004. Una completa panoramica dell’intenso dibattito sviluppatosi a seguito delle tesi avanzate da Hempel, a partire dal 1942, e` fornita dalla preziosa raccolta di saggi Filosofia analitica e conoscenza storica, curata da M. V. Predaval Magrini, La Nuova Italia, Firenze, 1979. Mentre una aggiornata antologia dei piu` recenti contributi sul tema della spiegazione e` rappresentata dal volume curato da R. Campaner, La spiegazione nelle scienze umane, Carocci, Roma, 2004. Sul problema della spiegazione causale in scienza politica, un interessate punto di partenza e` rappresentato dall’articolo di G. Sartori, “Le leggi sull’influenza dei sistemi elettorali”, in Rivista Italiana di Scienza Politica, 1984, n. 1, pp. 3-44. Una difesa del metodo unificato e una lucidissima ricognizione delle difficolta` di previsioni nelle scienze sociali, e` contenuta nel volume, dalla sorprendente attualita` del suo impianto epistemologico, di L. Limentani, La previsione dei fatti sociali, F.lli Bocca Editori, Torino, 1907. Sull’apporto del senso comune all’indagine scientifica si veda, tra gli altri, J. Dewey, Logica, teoria
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Il mestiere dello scienziato sociale
dell’indagine (1949), tr. it., Einaudi, Torino, 1973, F. von Wieser, Il significato scientifico della terminologia corrente (1884), tr. it. in D. Antiseri (a cura di), Epistemologia dell’economia nel “marginalismo” austriaco, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 477-484 e G. Ryle, “Ordinary Language”, in The Philosophical Review, 1953, vol. .
Capitolo quarto Comprendere un’azione: spiegarla
1. Dualismo o monismo metodologico? Da G. B. Vico ad J. Habermas, passando per J. G. Herder, J. G. Droysen, W. Dilthey e gli storicisti tedeschi (compresi gli esponenti della Scuola storica di economia come G. Schmoller), B. Croce, R. G. Collingwood, si e` definita una consolidata e variegata tradizione di pensiero che ha duramente combattuto l’idea di metodo unificato. Una tradizione a cui vanno aggiunti narrativisti (come O. von Ranke) e funzionalisti (come B. Malinowski e T. Parsons), anch’essi convinti che l’indagine dei fenomeni storici e sociali sia possibile ad una condizione: mettere da parte il modello di spiegazione casuale che regna indiscusso nelle scienze naturali, per conferire alle scienze sociali, e alla storiografia in particolare, un autonomo statuto epistemologico. Le tesi di questi storici, sociologi, economisti, antropologi e filosofi, accomunati dalla critica al modello di spiegazione nomologico-deduttivo, possono essere classificate secondo due grandi orientamenti: da una parte c’e` chi (come i teorici dell’empatia quali Dilthey e Collingwood, del narrativismo come Ranke, o del funzionalismo come Malinowski) ritiene che la condizione per ottenere una conoscenza oggettiva dei fenomeni sociali sia quella di rinunciare al metodo delle scienze naturali; dall’altra coloro (come L. Acton, I. Berlin, W. Dray, fino agli esponenti della Scuola di Francoforte come Th. W. Adorno e J. Habermas) che negano diritto di cittadinanza nelle scienze sociali non solo al metodo di spiegazione causale, ma anche alla stessa nozione di oggettivita`, ritenendo che sia impossibile indagare gli eventi umani senza che lo scienziato sociale adotti un atteggiamento di tipo valutativo. Questa disputa sul metodo, come si e` accennato, ha una lunga storia; e ancor oggi e` una questione aperta, che sa tanto di disputatio perennis. E se guardiamo al dibattito sul metodo delle scienze storiche e sociali (Methodenstreit) sviluppatosi in Germania tra Otto e Novecento – che non e` arbitrario inter-
I critici del “metodo unificato”
La disputatio perennis sulla spiegazione
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Il mestiere dello scienziato sociale
pretare in buona parte come una reazione alle posizioni esposte (nel Sistema di logica, del 1843) da Mill, primo sistematico sostenitore del metodo unificato – si puo` facilmente rilevare come i “separatisti metodologici” abbiano basato le loro tesi su due ordini di ragioni ricorrenti: i) le peculiari caratteristiche dei fenomeni storici e sociali (ritenuti fatti “unici” e “irripetibili”) e delle loro relazioni (di cui puo` dare conto solo il metodo della narrazione o della spiegazione funzionale); ovvero ii) le speciali caratteristiche di quel particolare oggetto di studio che e` l’azione umana, ritenuto – dai teorici dell’empatia e della spiegazione teleologica – incompatibile con la spiegazione causale. Vediamo, di seguito, le critiche piu` rilevanti al metodo unificato, con le relative repliche.
2. “Fatto unico” e “spiegazione tipica”
L’obiezione
Una delle principali e piu` ricorrenti obiezioni (sostenuta indistintamente dai teorici dell’empatia e del metodo narrativo) all’adozione del metodo di spiegazione causale nelle scienze sociali, sostiene che, a differenza di quelli fisici, i fatti storici e sociali sono unici e “irripetibili”, dunque incompatibili con qualsiasi regolarita` empirica e di conseguenza con la spiegazione causale. Vediamo distintamente come puo` essere intesa siffatta “unicita`” e “irripetibilita`”. Mentre un fisico e un biologo possono indagare l’atomo o una cellula facendoli rientrare in una classe di elementi omogenea, in quanto sia gli atomi che le cellule presentano caratteristiche ricorrenti, lo scienziato sociale, invece, si occupa di eventi che non possono essere considerati istanze di regolarita` piu` o meno ampie, ma studia fatti nella loro intrinseca individualita`. Il crollo di Wall Street o la Rivoluzione francese sarebbero eventi unici, perche´ presenterebbero caratteristiche (azioni, conoscenze di circostanze particolari di tempo e di luogo, ecc.) che non e` dato riscontrare in nessun altro accadimento. Essendo tali fatti unici, per ragioni strettamente epistemologiche non possono esistere leggi in grado di spiegarli, in quanto, per essere scientifica, una legge deve essere provata indipendentemente dall’explanandum (ricorrendo a fatti analoghi); e siccome i fatti storici e sociali sono ognuno diverso dall’altro, siffatto
Comprendere un’azione: spiegarla
controllo sarebbe impossibile nelle scienze sociali. Non essendo possibile disporre di leggi, non si potrebbe pertanto procedere con la spiegazione causale. La replica che si puo` opporre a queste obiezioni e` tanto semplice quanto efficace. Cio` che e` unico in un fatto storico e` l’intreccio di aspetti tipici: la Rivoluzione francese e` un evento unico nel senso che in essa e` unico l’intreccio di aspetti politici, economici, sociali, psicologici, militari, diplomatici, di circostanze spazio-temporali, ecc. Ma in cio` non vi e` differenza rispetto ai fatti fisici: cio` che e` unico in un terremoto e` l’intreccio di aspetti tipici, ad esempio, fisici, chimici, ma anche sociali, economici, psicologici, ecc. E, come si e` visto, la spiegazione per essere scientifica deve soddisfare proprio il requisito della tipizzazione dell’explanandum: non si spiega un evento nella sua totalita`, ma solo indagandolo da una o piu` prospettive, cioe` esaminandone gli aspetti tipici. Un geologo spiega un evento sismico indagandolo dal punto di vista fisico o chimico, un sociologo si interessera` agli aspetti sociali, un economista a quelli economici, uno psicologo a quelli psicologici, e cosı` via. Questo evento naturale viene cioe` studiato (grazie alle leggi e ai modelli della fisica, della chimica, della sociologia, dell’economia, della psicologia) da una o piu` prospettive tipiche, ritenute rilevanti alla luce dei valori e degli interessi dello scienziato. Ed esattamente la stessa cosa fa un sociologo come Weber, interessato alle conseguenze economiche della diffusione dell’etica protestante, e storici come Tocqueville e Salvemini, quando indagano, rispettivamente, le cause economicosociali e quelle di tipo politico-istituzionali che portarono al crollo dell’Ancien Re´gime. Dunque, si spiega sempre un aspetto tipico di un fatto unico, grazie alle leggi che si hanno a disposizione. Essendo ogni spiegazione possibile solo a condizione di essere tipica, viene meno la contrapposizione, proposta da W. Windelband, tra “scienze idiografiche”, che spiegano l’individuale, e “scienze nomotetiche”, che indagano le caratteristiche generali. Come si e` visto nel secondo capitolo a proposito della tripartizione delle scienze su base metodologica, lo scienziato di volta in volta fa scienza teorica (cerca le leggi), scienza storica o scienza tecnologica (quando le applica per spiegare o prevedere). D’altronde, lo stesso Windelband, che ha considerato la storiografia come la scienza idiografica par excellence, ha affermato che «le scienze
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La replica
“Scienze idiografiche” e “scienze nomotetiche”
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Il mestiere dello scienziato sociale
idiografiche hanno bisogno ad ogni passo delle proposizioni generali che solamente le discipline nomotetiche possono dare» e che quindi «ogni spiegazione causale di un qualsiasi evento storico presuppone necessariamente idee generali sul corso del reale»1.
3. “Fatti irripetibili” e “conoscenza per tracce”: la logica dell’abduzione L’obiezione
La replica
L’“irriproducibilita`” dei fatti fisici
Oltre che “unici”, i fatti storico-sociali sarebbero anche “irripetibili”, e questa caratteristica, a giudizio dei critici del metodo unificato, rappresenterebbe un elemento di profonda differenziazione rispetto agli eventi naturali, i quali, in quanto ripetibili o comunque ricorrenti, consentirebbero l’elaborazione di leggi e il controllo delle ipotesi di spiegazione. Per questa ragione la storiografia, in particolare, non potrebbe essere scientifica. A differenza di una reazione chimica o di una eclissi, si afferma, non si puo` ripetere l’uccisione di Cesare o la battaglia di Trafalgar, e tanto meno la Rivoluzione industriale. Per replicare a questa tesi, occorre intendersi su che cosa si intenda per “irripetibilita`”. Se per irripetibilita` si intende irripetibilita` nel tempo, allora tutti gli eventi, naturali e storico-sociali, sono irripetibili, perche´ accaduti in un preciso istante e una volta per sempre. E anche quando si ripete un analogo esperimento, l’evento ripetuto si collochera` su un altro punto dell’asse temporale. Se invece per irripetibilita` – ed e` questa l’obiezione piu` consistente – si intende irriproducibilita`, allora e` vero che gli eventi storici non possono essere riprodotti (chi puo` riprodurre la Guerra dei cento anni o la Rivoluzione d’ottobre?), ma parimenti irriproducibili sono anche molti eventi naturali: nessun fisico e` in grado di riprodurre il big-bang e nessun biologo l’evoluzione delle specie. Si tratta, dunque, di una obiezione che, se presa alla lettera, indurrebbe a togliere la patente di scientificita` anche alla cosmologia o alla biologia evolutiva. Un esito inaccettabile, anche per i critici del metodo unificato. 1
W. Windelband, Preludi (1881), tr. it., Bompiani, Milano, 1947, p. 175.
Comprendere un’azione: spiegarla
Lo storico, come il cosmologo che studia l’origine dell’universo e il biologo che si occupa dell’evoluzione delle specie, indaga eventi accaduti e irriproducibili, prendendo in esame le tracce che essi hanno lasciato nel tempo. Si tratta di quello che e` stato efficacemente definito il “paradigma indiziario”: si inciampa in un problema e – sulla base della propria conoscenza – si riconosce una traccia lasciata da un evento, trasformandola in un indizio significativo e decisivo per arrivare a una ipotesi di soluzione. IL SEGRETO DI ZADIG Anche a proposito del “paradigma indiziario”, la letteratura non ha atteso i filosofi per illustrare una verita` epistemologica. La novella dei tre principi di Serendippo riproposta da H. Walpole, Le avventure di Augusto Dupin narrate da E. A. Poe, Il nome della rosa di U. Eco, oltre, ovviamente, alle avventure di Sherlock Holmes, rappresentano solo alcune delle detective stories che meglio illustrano le grandi potenzialita` euristiche del “metodo del detective”. Ma, prima ancora, era stato Voltaire, raccontando le avventure di Zadig, a farci capire la dinamica di quella “spiegazione all’indietro” rappresentata dalla conoscenza per tracce. «Un giorno, mentre passeggiava presso un boschetto, scrive Voltaire, Zadig vide arrivare un eunuco della regina, seguito da parecchi ufficiali che sembravano molto inquieti e si sparpagliavano qua e la` come uomini turbati alla ricerca di qualche preziosissima cosa. Giovanotto – gli chiese il primo eunuco, avete per caso veduto il cane della regina? Zadig con garbo rispose: – E` una cagna, non un cane. – E` vero, ammise il Primo eunuco. – E` una cagna piccolina, di razza spagnola – aggiunse Zadig. – Ha da poco avuto i piccoli, zoppica alla zampa anteriore sinistra, e ha ha orecchie lunghissime. – L’avete dunque vista? Disse il Primo eunuco tutto ansante. – No, – rispose Zadig – non l’ho vista, non ho mai saputo se la regina possiede una cagna. Proprio allora, per una delle solite bizzarrie della sorte, il cavallo piu` bello delle scuderie reali era sfuggito alla custodia di un palafreniere. Il Grande cacciatore e tutti gli altri ufficiali lo inseguivano con la stessa ansieta` del Primo eunuco che cercava la cagna. Il Grande cacciatore si rivolse a Zadig domandandogli se aveva veduto passare quel cavallo del re. Zadig rispose: – E` il cavallo piu` bravo di tutti al galoppo, alto cinque piedi, di zoccoli molto piccoli; ha una coda lunga tre piedi e mezzo; le due borchie del suo morso sono d’oro a ventitre´ carati, i ferri d’argento di duecentosessan-
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Il “paradigma indiziario”
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Il mestiere dello scienziato sociale
taquattro grani. – Che direzione ha preso? Dov’e` andato? – domando` il Grande cacciatore. – Non l’ho mica visto, – rispose Zadig, – non ne ho mai sentito parlare». Il Primo eunuco e il Grande cacciatore arrestarono Zadig, perche´ ritennero che fosse lui ad aver rubato la cagna e il cavallo reali. Ma proprio quando il povero Zadig stava per essere frustato e «finire i suoi giorni in Siberia», il cavallo e la cagna furono ritrovati e i giudici dovettero a malincuore cambiare la sentenza, condannano Zadig a pagare una multa «per aver dichiarato di non aver visto cio` che aveva visto». Dopo aver pagato quattrocento once d’oro, Zadig ebbe facolta` di difendersi. «Vi giuro per Orosmada che non ho mai visto la rispettabile cagna della regina e nemmeno il sacro cavallo del re dei re. Udite quanto e` successo. Andavo a spasso verso quel boschetto dove poi incontrai il venerando Eunuco e l’illustrissimo Gran Cacciatore. Vidi sulla sabbia le impronte di un animale e capii facilmente che erano le orme di un piccolo cane. Dai solchi lunghi e leggeri rimasti impressi sui minimi rilievi della sabbia proprio tra le tracce lasciate dalle zampe compresi che si trattava di una cagna con le mammelle penzoloni per aver essa figliato da pochi giorni. Altri segni tracciati in senso diverso ma anche sulla superficie sabbiosa, lateralmente alle orme delle zampe anteriori, mi dimostrarono che la cagna aveva molto lunghe le orecchie, e poiche´ osservai che una delle orme delle zampe sulla sabbia risultava piu` lieve delle altre, capii che la cagna della nostra augusta regina zoppicava un poco, se cio` mi e` permesso di dire. Per quanto riguarda il cavallo del re dei re, concluse Zadig, sappiate che nella mia passeggiata nei cammini del bosco m’accorsi delle impronte dei ferri di un cavallo: erano tutte equidistanti. ‘Ecco’, mi dissi, ‘un cavallo dal galoppo perfetto’. Il polline caduto dagli alberi, in una viottola larga soltanto sette piedi, a sinistra e a destra, tre piedi e mezzo dal centro, era un pochetto sollevato. ‘Questo cavallo’, mi dissi, ‘ha una coda lunga tre piedi e mezzo, che nella sua altalena ora a destra ora a sinistra scopo` il polline’. Vidi pure, sotto gli alberi che con i loro rami formavano una galleria alta cinque piedi, delle foglie cadute da poco, e capii che il cavallo che aveva sfiorato quelle alte fronde, aveva appunto una statura di cinque piedi. E perche´ il morso dev’essere d’oro a ventitre´ carati? Perche´ con le borchie del morso rasento` una pietra di paragone e io potei fare il saggio. Dalle tracce, poi, che i ferri del cavallo lasciarono su sassi di altra specie mi risulto` che i ferri stessi erano d’argento di duecento-
Comprendere un’azione: spiegarla
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sessantaquattro grani»2. Zadig convinse i giudici. La cagna della regina e il cavallo del re, Zadig veramente non li aveva mai visti, ne´ ne aveva sentito parlare. Posto davanti ad un problema, Zadig si e` comportato da vero detective-scienziato: ha riconosciuto le tracce di un evento, trasformandole in indizi per la soluzione. «Cos’altro, in effetti, stava alla base di tutte le tesi di Zadig» di Voltaire, si chiede Th. H. Huxley, «se non il rozzo, banale assunto su cui si fonda ogni atto della nostra vita di ogni giorno, secondo cui e` possibile dedurre un effetto da una causa competente a produrre quell’effetto?». E poi Huxley continua: «La rigorosa applicazione della logica di Zadig ai risultati di osservazioni accurate e prolungate e` stata alla base di tutte quelle scienze che sono state chiamate storiche o palaetiologiche perche´ sono retrospettivamente profetiche e mirano a ricostruire nell’immaginazione umana eventi remoti e scomparsi»3.
E` stato Ch. S. Peirce, con la sua teoria dell’abduzione, a fornire una efficace sistemazione epistemologica a questo tipo di procedimento conoscitivo, proponendo il seguente schema per l’inferenza abduttiva:
L’abduzione
Si osserva il sorprendente fatto C, Ma se fosse vero A, C sarebbe spiegato come un fatto normale; 4 Percio` c’e` ragione di sospettare che sia vero A . la spiegazione di un evento (C) consiste nell’eliminazione di quanto in esso c’e` di sorprendente, nella sua “regolarizzazione”, cioe` nella sua riconduzione a una legge di tipo piu` o meno generale (A). Quello abduttivo e` uno schema argomentativo che va dal problema all’ipotesi, e` un “ragionare all’indietro”, sotto la pressione di una situazione problematica. Soltanto grazie alla “precomprensione” del ricercatore e alla sua abilita` “investigativa”, un fatto puro e semplice puo` essere riconosciuto come una
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Voltaire, Zadig (1747), tr. it., Einaudi, Torino, 1992, pp. 12-15. Th. H. Huxley, “On the Method of Zadig: Retrospective Prophecy a Function of Science”, in Nineteenth Century, 1880, vol. VII, pp. 930. 4 Ch. S. Peirce, Pragmatismo e Abduzione (1903), tr. it. in Id., Opere, Bompiani, Milano, 2003, p. 443. 3
Lo scienziato e il detective
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traccia e trasformato in un indizio per risolvere un problema. Era questa, come e` noto, l’arte in cui eccelleva Sherlock Holmes, la cui fulminate intuizione di notare cio` che altri si limitano a vedere, di non essere prigioniero dell’ovvieta`, di mettere in correlazione elementi apparentemente indipendenti, e` soprattutto una abilita` di intrecciare leggi e regole nomologiche tratte dalle scienze piu` disparate e dal senso comune, al fine di ricostruire connessioni causali, di delineare quello sfondo situazionale che consenta di associare una soluzione a un contesto problematico, in altre parole, di dare un nome all’assassino. Abilita` che il detective ha in comune con lo storico e con il clinico, e che a bene vedere non e` arte ma metodo: il metodo, appunto, dell’abduzione o delle congetture e confutazioni, in questo non vi e` alcuna differenza sostanziale tra Peirce e Popper. Un metodo seguito da storici, detective, clinici, e da qualsiasi scienziato che non ha a disposizione che le tracce lasciate dall’evento da spiegare; un procedimento esplorativo che avanza grazie a uno scienziato dotato di una mente da ricercatore, ricca di problemi e di teorie, e di un atteggiamento critico, che consente di avvistare e, quando e` possibile, di rimuovere gli errori. ESPERIMENTO REALE ED ESPERIMENTO MENTALE Se, almeno a partire da Galileo, l’esperimento ha rappresentato un tratto distintivo delle moderne scienze naturali, il suo impiego e` stato residuale nelle scienze storiche e sociali. Oltre che riprodurre alcune elementari situazioni, come ad esempio la reazione di un gruppo campione alla somministrazione di alcune informazioni, lo scienziato sociale non puo` andare. Molto piu` frequente e influente e` stato il ricorso a esperimenti mentali, con lo scopo di individuare piste di ricerca o singole ipotesi di spiegazione empiricamente controllabili. Si pensi alla celebre fictio dello “spettatore imparziale” di A. Smith o a quella del “velo di ignoranza” di J. Rawls. Tra gli esperimenti mentali un posto di primo piano, nelle scienze sociali oltre che in quelle naturali, spetta ai giudizi controfattuali, attraverso i quali si tenta di comprendere meglio il corso reale degli eventi ipotizzandone uno ideale, che sarebbe potuto accadere ma che non e` 5 accaduto. Si formula, appunto, una ipotesi contra facta . Un esempio
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Sui controfattuali si veda anche il secondo capitolo di V. Fano, Comprendere la scienza. Un’introduzione all’epistemologia delle scienze naturali, Liguori, Napoli, 2005.
Comprendere un’azione: spiegarla
classico e` proposto da Weber6, sulla scia dello storico E. Meyer. Per capire cosa ha rappresentato la battaglia di Maratona, Weber si chiede: cosa sarebbe accaduto se questa battaglia fosse stata vinta dai Persiani, anziche´ dai Greci? E risponde: la liberta` e l’autonomia della civilta` ellenica avrebbe subito un brutto colpo e sarebbe stata fortemente compromessa l’“ellenizzazione” dell’Occidente. Weber non risponde ad libitum alla domanda controfattuale, ma sulla base delle conoscenze storiografiche disponibili. Avendo l’obiettivo di assegnare un significato storico ad un accadimento (ponendolo in relazione causale con alcuni eventi accaduti prima e con altri accaduti dopo), attraverso i giudizi controfattuali lo scienziato immagina un mondo possibile per comprendere il mondo reale. Un mondo possibile, non un mondo fantastico. Come scrive R. Musil ne L’uomo senza qualita`, non si puo` avere il «senso della realta` » se non si ha il «senso della possibilita`», senza cioe` la consapevolezza di cio` che sarebbe potuto accadere ma non e` accaduto. L’utilita` di queste ipotesi, infatti, e` tanto piu` elevata quanto piu` “oggettiva” e` la possibilita` ipotizzata, quanto piu` l’evento immaginato poteva essere contenuto – date le conoscenze disponibili – nell’ordine reale delle cose. Il compito dello scienziato e` quello di dimostrare che la “biforcazione” del reale ipotizzata individua un transito nel possibile e non nell’arbitrario; che, ad esempio, poteva rientrare nell’ordine delle cose che la battaglia di Maratona potesse essere vinta dai Persiani. Non avrebbe invece fornito alcun ausilio alla comprensione di tale evento il ricorso ad una ipotesi controfattuale nella quale, ad esempio, ci si chiedesse cosa sarebbe accaduto se i Persiani avessero utilizzato la bomba atomica; e cio` a motivo del fatto che questa possibilita`, per quanto ne sappiamo, non era associabile alla catena causale di eventi che porto` a quella battaglia. «I controfattuali, ha osservato giustamente B.C. van Fraassen, selezionano tutti quei nodi della rete causale che si trovano sulle linee che portano all’evento»7. Come ha sottolineato R. Aron, i giudizi controfattuali «sono per il passato quello che le
6 M. Weber, “Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura” (1904-1909), tr. it. in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Edizioni di Comunita`, Milano, 2001, pp. 263 e ss. 7 B. C. van Fraassen, L’immagine scientifica (1980), tr. it., Clueb, Bologna, 1985, p. 152.
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Il mestiere dello scienziato sociale
previsioni sono per il futuro»8. Essendo un esperimento mentale, siffatte ipotesi controfattuali non fanno avanzare la conoscenza empirica, e tuttavia esse si rivelano utili perche´ consentono di reinterrogare – a parita` di evidenza empirica – le conoscenze disponibili, di riesaminarle da un altro punto di vista, stimolando la formulazione di ipotesi empiricamente controllabili, al fine di comprendere se la possibilita` immaginata fosse “oggettiva”. Lo scienziato e` in grado di formulare ipotesi controfattuali grazie all’utilizzo di conoscenze nomologiche che gli permettono di ipotizzare una relazione tra antecedente (se p) e conseguente (allora q). L’attendibilita` dei controfattuali, evidentemente, e` legata non solo al carattere realistico dell’antecedente (cioe` della possibilita` immaginata), ma anche alla solidita` delle leggi, alla loro proiettabilita` su casi non ancora istanziati. Risulta dunque evidente che la natura delle cause (“sistemi aperti”) e delle leggi (solitamente generalizzazioni empiriche non molto “ampie”), cioe` di quegli stessi fattori che eliminano il carattere di necessita` delle spiegazioni e previsioni, fanno anche dei ragionamenti controfattuali delle ipotesi ne´ necessarie, ne´ arbitrarie, ma semplicemente “oggettive”, date le conoscenze disponibili.
4. Non c’e` narrazione degli eventi storici senza spiegazione causale L’obiezione
Contro la storiografia valutativa e moraleggiante di matrice romantica e hegeliana, Leopold von Ranke offrı` la sua influente soluzione “positivistica”: la storia non deve essere ne´ francese, ne´ tedesca, ne´ cattolica, ne´ protestante. Cosı` come esiste una sola fisica, parimenti deve esistere una sola storiografia, su base filologica, che, evitando qualsiasi compromissione con la soggettivita` delle idee dello storico, affermi la sua scientificita` raccontando «come sono realmente andate le cose» (wie es eigentlich gewesen ist), poiche´ «la presentazione e` […] la 9 suprema legge della storiografia» . A partire da questa influente 8
R. Aron, Dati e inferenze nella storia (1961), in D. Lerner (ed.), Qualita`, quantita` e altre categorie della scienza (1963), tr. it., Boringhieri, Torino, 1971, p. 228. 9 L. von Ranke, Geschichte der Romanischen und Germanischen Vo¨lker von 1494 bis 1514, in Sa¨mtliche Werke, Leipzing, 1885, vol. XXIII, p. 7.
Comprendere un’azione: spiegarla
formula di Ranke si e` andato definendo una tradizione metodologica (W. B. Gallie, H. Whyte, ecc.) che, con argomentazioni ed accenti diversi, si e` opposta all’adozione del metodo delle scienze naturali in storiografia. Lo storico non avrebbe il compito di spiegare causalmente, dovrebbe invece limitarsi a narrare la genesi e lo sviluppo degli eventi storici. Dovrebbe cioe` fare un resoconto della “serie continua” di quegli eventi che hanno portato all’explanandum. Il metodo della storiografia sarebbe quello della spiegazione genetico-narrativa. SPIEGAZIONE VERSUS NARRAZIONE: MENGER CONTRO SCHMOLLER L’accesa disputa – a partire dagli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo – tra il principale esponente della Scuola storica di economia tedesca, Gustav Schmoller, e il capostipite della Scuola austriaca di economia, Carl Menger, puo` essere considerata un momento altamente significativo nel quale si confrontano argomentazioni di tipo narrativistico e argomentazioni di tipo nomologico-deduttivo. Dopo il crollo del paradigma del valore-lavoro, ad avviso di Schmoller gli economisti non avevano altra scelta: interpretare la scienza economica come storia dei fatti economici, con l’obiettivo di accumulare un enorme quantita` di osservazioni sempre piu` precise e un «materiale descrittivo di esperienze di ogni genere sempre piu` ampio» che consentisse adeguate «concettualizzazioni», «classificazioni» dei fenomeni economici e infine la loro spiegazione causale. Per Schmoller, dunque, la narrazione dei fatti economici doveva precedere il momento della definizione delle teorie. Questo indirizzo storicistico e` contestato da Menger, per il quale non ci puo` essere «scienza storica» senza «scienza teorica». Menger afferma il «primato del teorico», sostenendo che il principale compito degli scienziati sociali deve essere quello di elaborare leggi, senza le quali non ci puo` essere ne´ spiegazione, ne´ previsione. Ridurre la scienza economica a storia economica e a statistica, per poi individuare leggi di evoluzione dei fenomeni economici, come proponevano Schmoller e i suoi seguaci, per Menger significa cadere in una confusione «paragonabile a quella di un carrettiere che pretende di passare per architetto perche´ ha trasportato qualche carrettata di pietre e di sabbia per la sua costruzione»10.
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C. Menger, Gli errori dello storicismo (1884), tr. it., Rusconi, Milano, 1991, p. 56.
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Il mestiere dello scienziato sociale La replica
Replicare a questa obiezione non e` molto difficile. Le teorie storiografiche, come ha notato uno storico ed epistemologo non sospetto di simpatie per il “metodo naturalistico”, come J. G. Droysen, non possono «dare un’immagine, una fotografia di quello che fu, e tanto meno un repertorio di tutti i particolari e 11 notizie tramandati» . Esse sono sempre narrazioni estremamente selettive, selettivamente orientate alla risoluzione di un problema storiografico, che ci parlano di alcuni fra gli infiniti fatti possibili che hanno preceduto e seguito l’evento oggetto di studio. Un primo criterio selettivo e` certamente rappresentato dalla scelta (di valore) della prospettiva da cui indagarlo; ma, una volta effettuata tale opzione, interviene un ulteriore criterio di selezione, questa volta di tipo nomologico: si individuano i fatti da prendere in esame in una teoria sulla base della loro rilevanza causale. Essendo in linea di principio infiniti i fatti del mondo, lo storico non puo` adottare un ordine meramente cronologico nel presentare i fatti, ma deve necessariamente seguire un ordine logico (causale), cercando di capire, in base al proprio sapere nomologico, dove si tratta semplicemente di un post hoc e dove invece si puo` riscontrare un propter hoc. La cronologia, ha efficacemente fatto notare G. Salvemini, «ci impedisce di sostituire l’effetto alla causa, perche´ un fatto un fatto successivo ad un altro non 12 puo` esserne stato la causa. La sua utilita` finisce qui» .
5. Non c’e` funzione senza causa Il funzionalismo
Come ha rilevato E. Nagel, quella di funzione e` una nozione polisemica, che, a seconda dei casi, ha assunto significati anche molto diversi. Nonostante la diversita` degli orientamenti di pensiero spesso genericamente identificati con l’etichetta di “funzionalismo” (si pensi alle critiche dell’individualista e funzionalista R. K. Merton al “funzionalismo assoluto” legato ad una concezione olistica della societa`), nelle scienze sociali e` possibile rintracciare quella che nel secondo dopoguerra e` stata una tradizione di ricerca (A. R. Radcliffe-Brown, B. Malinow11 J. G. Droysen, Istorica. Lezioni sulla enciclopedia e metodologia della storia (1882), tr. it., Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1961, p. 299. 12 G. Salvemini, Scienza e storia (1939), tr. it., la Nuova Italia, Firenze, 1948, p. 36.
Comprendere un’azione: spiegarla
ski, T. Parsons, R. K. Merton) particolarmente influente in sociologia e antropologia, la quale ha tentato di conferire, proprio sulla base della nozione di funzione, un autonomo statuto epistemologico alle scienze sociali. Premettendo che l’applicazione del concetto di funzione alle societa` umane e` «fondata su una analogia tra vita sociale e vita organica», l’antropologo Radcliffe-Brown ritiene che, cosı` come il fisiologo spiega la funzione e non la causa di un organo, in relazione al funzionamento del corpo umano nel suo complesso, parimenti gli scienziati sociali debbano cercare non le cause, bensı` le funzioni dei fenomeni sociali, accertando il contributo che ciascuno di essi arreca al funzionamento dell’ordine sociale inteso come un tutto. La spiegazione funzionale nei teorici del “funzionalismo assoluto” (Radcliffe-Brown, Malinowski, Parsons) finisce per saldarsi con una concezione olistica della societa`. Un antropologo, esemplifica Malinowski, se vuole comprendere effettivamente cosa rappresenta il mito in una societa`, non deve cercarne le cause, ma deve individuarne la funzione, che e` quella di rinvigorire la tradizione, la quale e` indispensabile per la sopravvivenza di ogni cultura. Contro le intenzioni “separatiste” dei funzionalisti, si puo` replicare che la spiegazione funzionale, a cui vanno riconosciuti molti meriti, non puo` essere considerata come una forma di spiegazione sui generis, in quanto anch’essa si basa sul principio di causalita`. Quando si sostiene che di un qualsiasi evento va considerata la funzione che esso assolve rispetto, ad esempio, al funzionamento della societa`, i funzionalisti dicono, in sostanza, che un fenomeno sociale va spiegato mettendolo in relazione con alcuni dei suoi effetti prodotti. Ma cio` significa che il fenomeno indagato e` la causa di tali effetti, i quali possono essere individuati soltanto mediante leggi. La relazione funzionale individua dunque una relazione causale: dire, come si e` visto, che la funzione del mito e` quella di rinvigorire la tradizione, equivale a sostenere che la diffusione del mito e` una delle cause del mantenimento della tradizione. Il funzionalismo puo` essere considerato come un importante tradizione di ricerca, che ha offerto nuove e interessanti prospettive di indagine soprattutto in sociologia e in antropologia. Al di la` della loro concezione filosofica della societa`, e dei presupposti metafisici del loro paradigma (si pensi alla cosiddetta “unita` funzionale” del sistema sociale sostenuta da alcuni
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L’obiezione
La replica
Causa e funzione
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Il mestiere dello scienziato sociale
di essi), si puo` concludere che quando i funzionalisti hanno avanzato delle ipotesi di spiegazioni, empiricamente controllabili, hanno proposto in realta` delle spiegazioni di tipo nomologico.
6. La spiegazione teleologica delle azioni umane L’obiezione
Il sillogismo pratico
Tra le altre significative obiezioni al metodo unificato, resta da esaminare le tesi di coloro che hanno ritenuto che l’azione umana, con il suo carico di intenzioni, valori, significati, sia di per se´ incompatibile con la spiegazione causale. I sostenitori del dualismo metodologico accomunati da questa convinzione si sono poi divisi tra coloro che hanno opposto alla spiegazione nomologica la spiegazione teleologica e coloro che hanno invece proposto il metodo della comprensione empatica; due approcci che, pur presentando aspetti comuni, non possono essere fatti coincidere. Autori di formazione wittgensteniana come, tra gli altri, G. E. M. Anscombe, Ch. Taylor e G. H. von Wright, hanno proposto per le scienze sociali un modello esplicativo «che rappresenta una precisa alternativa al modello di sussunzione teorica sotto leggi di 13 copertura» . Tale metodo consiste nel sillogismo pratico, di derivazione aristotelica, riscoperto dalla Ascombe e riproposto da von Wright, che e` una forma di ragionamento inferenziale nel quale la premessa maggiore individua un obiettivo a cui l’attore aspira; la premessa minore collega l’azione con tale scopo, «all’incirca in 14 una relazione mezzo-fine» ; la conclusione consiste nell’uso di questo mezzo per conseguire il fine. Per spiegare un’azione, il ricercatore deve quindi tentare non di rintracciarne le cause, bensı` di ricostruirne la logica di svolgimento, intrinsecamente orientata al conseguimento di un fine, cosı` schematizzata da von 15 Wright : A intende provocare p A ritiene di non poter provocare p se non fa a A si dispone a fare a. 13 G. H. von Wright, Spiegazione e comprensione (1971), tr. it., il Mulino, Bologna, 1977, p. 27. 14 Ivi, p. 47. 15 Ivi, p. 121.
Comprendere un’azione: spiegarla
Si tratta di un metodo che consentirebbe di pervenire a “spiegazioni teleologiche” che fanno a meno della categoria della causalita`, poiche´ la connessione tra premesse e conseguenze, cioe` tra l’azione e lo scopo, non sarebbe di tipo causale, in quanto il rapporto mezzi-fini e` di natura concettuale e non empirica; si tratterebbe, quindi, una connessione logica e non una relazione causale.
7. La spiegazione teleologica e` una spiegazione causale Si puo` certamente concordare con i teorici della spiegazione teleologica sul fatto che e` impossibile spiegare l’azione senza ricostruirne il legame mezzo/fine, perche´ ogni azione non e` altro che un mezzo posto in essere in vista di uno scopo; ma siffatta relazione mezzo/fine non puo` che essere basata su una connessione causa/effetto. Ritenere che un determinato mezzo sia idoneo a raggiungere un obiettivo, significa essere convinto che esso possa produrre determinati effetti, e tale previsione puo` essere effettuata solamente sulla scorta di regolarita` note. Solo una legge, o una generalizzazione empirica, puo` consentire al singolo di selezionare, tra quelle che sono in linea teorica infinite possibilita`, il mezzo (l’azione) che ritiene piu` congruo per il conseguimento del suo scopo. Come ha scritto L. von Mises, «la 16 categoria mezzi e fini presuppone la categoria causa ed effetto» ; non ci puo` essere dunque teleologia senza causalita`, pertanto la spiegazione teleologica non e` altro che una forma di spiegazione causale. Se, per esempio, dico – per ribaltare l’esempio di von Wright – che un individuo corre per arrivare alla stazione prima che il treno parta, non siamo in presenza «di una spiegazione teleologica genuina» che non presenta alcun riferimento nomologico. Il legame mezzo scelto (la corsa) per conseguire il fine (arrivare prima possibile) non presenta affatto un legame tautologico, ma consiste invece in una legge empirica (una legge fisica, per l’esattezza) che pone in relazione velocita` e tempo di percorrenza. 16
L. von Mises, L’azione umana (1949), tr. it., UTET, Torino, 1959, p. 22.
La replica
Non c’e` teleologia senza causalita`
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Il mestiere dello scienziato sociale
Azione e scopo non sono dunque un prius ed un posterius logici di una relazione analitica, ma semplicemente causa ed effetto coperti da una legge empirica. Come aveva osservato Weber, «c’e` sı` una relazione causale senza teleologia, ma non 17 possono esserci concetti teleologici senza regole causali» .
8. L’empatia come presunto metodo delle “scienze dello spirito” L’obiezione
La “comprensione” dei significati
L’obiezione dei teorici dell’empatia al metodo unificato rappresenta certamente la piu` diffusa e piu` radicale critica all’applicazione del modello di spiegazione causale nelle scienze storiche e sociali; e il dibattito sullo statuto epistemologico di quelle che Dilthey chiama «scienze dello spirito» e` permanentemente segnato dalla Erkla¨ren-Verstehen Kontroverse, ossia dalla contrapposizione tra i sostenitori del metodo della spiegazione causale e i sostenitori del metodo della “comprensione” (Verstehen) o dell’“empatia” (Einfu¨hlung). Lo storico e filosofo tedesco W. Dilthey, che insieme allo storico e archeologo inglese R. G. Collingwood puo` essere considerato il principale teorico del metodo empatico, e` radicale nel rifiutare qualsiasi omologazione metodologica: le Naturwissenschaften “spiegano” causalmente, mentre le Geisteswissenschaften “comprendono” i significati. Le “scienze della natura” e le “scienze dello spirito” utilizzano differenti metodi perche´ radicalmente diversi sono i rispettivi oggetti di indagine. Le scienze naturali studiano fenomeni astratti, “esterni” al ricercatore, che non implicano una relazione con i suoi sentimenti, i suoi valori e, piu` in generale, con le pratiche sociali che storicamente si affermano; essi possono essere pertanto spiegati ponendoli in relazione causale. Le scienze storiche e sociali, invece, si occupano di fenomeni unici, prodotti dall’uomo stesso, i quali possono essere compresi solamente dall’“interno” dell’universo culturale del ricercatore, cioe` ponendoli in relazione con i suoi valori e piu` in generale con la sua “esperienza vissuta” (Erlebnis). Una istituzione, ma anche una battaglia, o 17
M. Weber, “Roscher e Knies e i problemi logici dell’economia di indirizzo storico” (1903-1906), tr. it. in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, cit., p. 83.
Comprendere un’azione: spiegarla
un sistema giuridico, non sono fenomeni sorti per via naturale, ma sono l’esito del pensiero umano, il frutto dell’esperienza vissuta di altri individui. Per queste loro caratteristiche, non avrebbe senso ricondurre tali fenomeni ad astratte relazioni causali, come fanno le scienze naturali. Essi possono essere invece indagati solamente grazie al metodo dell’empatia, immedesimandosi con gli attori, ri-vivendo mentalmente i pensieri, i sentimenti, gli stati d’animo, le intenzioni, i progetti e piu` in generale riproducendo quell’esperienza vissuta di cui quegli eventi umani sono il frutto. La possibilita` di rivivere (Nacherleben) l’esperienza altrui e` quindi cio` che rende possibile l’indagine storica e sociale. Lo scienziato sociale, quindi, non puo` limitarsi al lato “esterno” del fenomeno che indaga, ma deve penetrare all’“interno”, scoprire il pensiero che in esso e` racchiuso e, osserva Collingwood, «vi e` un solo modo in cui possa farlo: ripensandolo nella propria mente».
Rivivere l’esperienza altrui
«Quando uno scienziato, spiega ancora Collingwood, chiede ‘Perche´ quella cartina di tornasole e` diventata rosa?’ egli intende ‘In quale genere di occasioni le cartine di tornasole divengono rosa?’. Quando uno storico chiede ‘Perche´ Bruto pugnalo` Cesare?’ egli intende ‘Che cosa penso` Bruto che lo fece decidere di pugnalare Cesare?’. La causa dell’evento per lui significa il pensiero nell’animo della persona per opera del quale l’evento accadde: e questo non e` qualcosa di diverso dall’evento, e` l’interno 18 dell’evento stesso» . Tale comprensione empatica, pero`, non deve portare a formulare ipotesi puramente soggettive e arbitrarie, ma deve essere la via per arrivare a una comprensione oggettiva degli eventi storici e sociali. Pressato da questa esigenza, il Dilthey maturo non esita ad affermare che l’empatia non coincide con il procedimento dell’immedesimazione, ma deve portare a una comprensione intersoggettiva, riconducendo gli eventi compresi a “forme di vita”, a “connessioni vitali” universali, socialmente
18
R. G. Collingwood, Il concetto della storia (1945), tr. it., Fratelli Fabbri, Milano, 1966, pp. 237-238.
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Empatia e “forme di vita”
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Il mestiere dello scienziato sociale
La Critica della ragione storica
condivise. Il significato di un’azione puo` essere colto soltanto mediante l’empatia e va determinato nella sua connessione con la “totalita`” culturale. La comprensione non coincide pertanto con la mera intuizione, ma diventa un procedimento interpretativo, un esercizio ermeneutico, un dialogo costante tra differenti culture e pratiche sociali. Ma la conoscenza nelle Geisteswissenschaften e` intrinsecamente non solo “ermeneutica”, ma anche “storica”. Il soggetto conoscente non e` un “io trascendente”, ma e` un “io empirico”, che conosce grazie all’esperienza e all’esistenza individuale. L’esperienza del soggetto conoscente, al pari dei valori e dei pensieri oggetto di indagine, sono l’esito di un processo storico e sono sottoposti a una continua evoluzione storica. Assumendo la storicita` (non solo della vita umana, ma anche della conoscenza dei fenomeni prodotti dall’uomo) come la dimensione costitutiva delle “scienze dello spirito”, con la sua Critica della ragione storica Dilthey intende proporre per le scienze storiche e sociali una operazione analoga a quella fatta da Kant per le scienze naturali: definire le condizioni che rendono possibile una conoscenza, la quale e` il frutto della relazione tra la storicita` delle categorie mentali del soggetto conoscente e la storicita` di quel pensiero nel quale si sostanziano gli eventi storici e sociali.
9. L’empatia non e` necessaria, ne´ sufficiente La replica
L’empatia e` un’“espediente euristico”
Al dualismo metodologico sostenuto dai teorici dell’empatia possono essere rivolte alcune critiche fondamentali, proprio dalla prospettiva del metodo unificato. L’empatia, come hanno evidenziato autori come Weber, Hempel e Popper, non e` ne´ necessaria, ne´ sufficiente per spiegare i fenomeni storico-sociali. Non `e necessaria, in quanto uno scienziato sociale, perche´ troppo diverso psicologicamente o culturalmente, puo` non essere in grado di immedesimarsi in determinati individui (non e` facile per uno storico pacifista immedesimarsi in un dittatore sanguinario o per un antropologo occidentale immedesimarsi nell’“esperto della pioggia” di una tribu` che fa la danza della pioggia); e, ciononostante, egli e` comunque nelle condizioni di formulare ipotesi di spiegazione delle loro azioni. Inoltre, quand’anche fosse possibile, l’empatia non sarebbe sufficiente, perche´ la scientificita` della teoria dipende dalla coe-
Comprendere un’azione: spiegarla
renza logica e dalla controllabilita` empirica della teoria stessa, e non dal procedimento attraverso il quale essa e` stata formulata. Nel migliore dei casi, come ha osservato Hempel, l’empatia si rivela soltanto un «espediente euristico» per formulare una ipotesi di spiegazione di un’azione; e tale ipotesi, come si vedra` nei capitoli successivi, e` sempre una proposta di spiegazione causale: cogliere il senso di un’azione significa porla in relazione (causale) – da una determinata prospettiva – con le sue cause (motivi, preferenze, la percezione della situazione che aveva l’agente, ecc.) e i suoi effetti (intenzionali e inintenzionali). Se si ritiene che l’empatia sia un metodo necessario e sufficiente per conferire scientificita` alle scienze sociali, e alla storiografia in particolare, si commette il grave errore epistemologico, contro il quale metteva in guardia gia` Weber, di confondere il processo psicologico relativo alla formulazione di una teoria con il procedimento logico del suo controllo empirico. E` utile, infine, far notare che il Dilthey storico, ma un analogo discorso puo` essere fatto per tutti i teorici dell’empatia, ha utilizzato proprio quel metodo di spiegazione causale bandito dal Dilthey epistemologo. Nell’Introduzione alle scienze dello spirito, egli cosı` spiega l’affermazione della scienza moderna e delle «invenzioni» nell’Europa tardo medievale: «E portatrice del nuovo indirizzo apparve ora […] una nuova classe di individui: il chierico fece posto al letterato, allo scrittore o anche al professore docente delle universita` istituite o riordinate dalle citta` o da principi illuminati. Nelle citta` in cui comparvero questi uomini nuovi, non sussisteva piu` il divario fra una grande massa di schiavi attiva e incolta, e una minoranza di liberi cittadini che consideravano indegno di loro ogni tipo di lavoro materiale. Mentre nelle citta` greche questa situazione aveva ostacolato fortemente il progresso delle invenzioni, nelle citta` moderne si ebbero in rapporto con l’industria invenzioni di grande portata»19.
19
W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito (1883), tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 456.
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“Controllo empatico” e “controllo empirico”
La spiegazione causale in Dilthey
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Il mestiere dello scienziato sociale
In questo “abbozzo di spiegazione” diltheyano non c’e` traccia di Erlebnis bensı` di erkla¨ren: la causa della mancata affermazione della scienza e della tecnologia in Grecia va rintracciata, per Dilthey, nella particolare composizione sociale della societa` greca («una grande massa di schiavi attiva e incolta, e una minoranza di liberi cittadini che consideravano indegno di loro ogni tipo di lavoro materiale»); e una riprova ne e` il fatto che e` stata la rimozione di tale condizione a provocare lo sviluppo della scienza in Europa. E poi Dilthey indica un’altra causa dell’affermazione della scienza moderna: la progressiva desacralizzazione della natura. «L’ampia scena del nostro continente e le enormi risorse di questo mondo moderno instaurarono una connessione ininterrotta di molti lavoratori. E costoro non avevano di fronte la natura come un prodotto in se´ divino: la mano dell’uomo vi si immerge a fondo senza inibizioni, a coglierne, dietro le forme, le forze. Il questo movimento 20 nacque il carattere della scienza moderna» . In questo caso, il filosofo e storico tedesco utilizza implicitamente la legge secondo cui “gli individui tendono a non modificare cio` che ritengono sacro”.
Bibliografia ragionata Una completa rassegna delle obiezioni separatiste e delle relative repliche a difesa dell’unicita` del metodo, e` contenuta in D. Antiseri, Epistemologia contemporanea e didattica della storia (1974), Armando, Roma, 1999; mentre una efficace ricostruzione storica e teorica della Erkla¨ren-Verstehen Kontroverse e` proposta da F. Fornari, in Spiegazione e comprensione. Il dibattito sul metodo nelle scienze sociali, Laterza, Roma-Bari, 2002. Per una selezione dei testi degli autori classici che hanno difeso e criticato le tesi separatiste (storicisti, funzionalisti, neo-idealisti), si veda D. Antiseri, R. De Mucci (a cura di), Metodologi delle scienze sociali, Borla, Roma, 1995. Tra le argomentazioni a difesa del modello 20
Ivi, p. 457.
Comprendere un’azione: spiegarla
nomologico-deduttivo nelle scienze storiche e sociali, particolarmente significative sono le pagine di Weber contro l’empatia, in “Roscher e Knies e i problemi logici dell’economia politica di indirizzo storico” (1903-6), tr. it. in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Edizioni di Comunita`, Milano, 2001, e di E. Nagel e Hempel contro il separatismo dei funzionalisti, rispettivamente in: La struttura della scienza. Problemi di logica della spiegazione scientifica (1961), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1968 e “The Logic of Functional Analysis” (1959), ora in M. Martin, L. C. McIntyre (eds.), Readings in the Philosophy of Social Sciences, The Mit Press, Cambridge Mass., 1994. Sul tema dei controfattuali, oltre che il citato libro di Nagel, il testo classico e` il saggio di N. Goodman, Fatti, ipotesi e previsioni (1954), tr. it., Laterza, Roma-Bari, 1985, nel quale il filosofo americano propone una “soluzione pragmatica” al problema dei controfattuali; soluzione che si rivela particolarmente utile per comprendere la loro funzione nelle scienze sociali, le quali fanno ampio uso di generalizzazioni empiriche. Per un approfondimento comparato della funzione dei vari tipi di esperimenti nella ricerca scientifica, si rimanda all’informato libro di M. Buzzoni, Esperimento ed esperimento mentale, FrancoAngeli, Milano, 2004. Una sistematica ricostruzione storica del “paradigma indiziario” e` proposta da C. Ginzburg in Spie. Radici di un paradigma indiziario (1979), ora in U. Eco, Th. Sebeok (a cura di), Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce (1983), tr. it., Bompiani, Milano, 1983; questo volume raccoglie una serie di contributi che propongono un’analisi epistemologica del “metodo indiziario”. Su questo tema si veda anche il bel libro di M. Baldini, Popper e Sherlock Holmes, Armando, Roma, 1998.
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Capitolo quinto I fatti: la “base” della spiegazione scientifica
1. Vediamo con gli occhi e osserviamo con la mente Se le leggi e i modelli rappresentano il “tetto” dell’edificio scientifico, i fatti di cui si occupa lo scienziato ne costituiscono la “base”. Per base empirica della scienza vanno intesi sia quei fatti che diventano oggetto di spiegazione in quanto assumono una rilevanza problematica agli occhi del ricercatore (l’explanandum e` una proposizione che, per quanto se ne sa, descrive un fatto), sia quelle osservazioni possibili che consentono di mettere a prova una o piu` conseguenze della teoria. Nella scienza, dunque, esistono le teorie e i fatti: teorie che spiegano fatti e fatti attraverso i quali vengono sottoposte a controllo le teorie. Ora, uno dei problemi classici che scienziati ed epistemologi si sono costantemente posti e` il seguente: fatti e teorie presentano la medesima natura epistemologica ovvero i primi sono irriducibili alle seconde e viceversa? In altri termini, le teorie sono il prodotto della mente dello scienziato e i fatti (l’atomo, una eclissi, un tasso di disoccupazione, la Rivoluzione francese) esistono “in se´ e per se´” e hanno una essenza che lo scienziato deve scoprire, oppure anche i fatti sono costruzioni teoriche ed hanno un’esistenza legata a quella delle teorie che li istituiscono? Esiste una lunga e variegata tradizione, che da Bacone arriva ai positivisti di Otto e Novecento, che, pur con accenti e gradazioni diversi, ha inteso fondare la scienza sull’imparziale osservazione di fatti, a loro volta dotati di una precisa identita` ontologica. Per evitare che esistano tante osservazioni dello stesso fatto quanti sono gli osservatori, si e` sostenuto che l’osservazione e` tanto piu` oggettiva quanto piu` consente un fedele rispecchiamento della realta` esterna nella mente dello scienziato. Essa deve essere, in altri termini, “pura”, non inquinata dalle categorie mentali del ricercatore, il quale deve avvicinarsi ai fatti con una mente tabula rasa, ripulita da ogni forma di conoscenza e di “pregiudizio”. Come si diceva, questa concezione “osservativistica” della scienza, sistematicamente teorizzata da Bacone, ha finito
La natura epistemologica dei fatti
L’“osservazione pura” e` impossibile
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Il mestiere dello scienziato sociale
Il mito filosofico dell’“occhio innocente”
per saldarsi con almeno una parte della tradizione positivistica; per il sociologo positivista E´mile Durkheim, il «primo corollario» della scienza impone che «si devono sistematicamente eliminare tutte le prenozioni»1. L’epistemologia contemporanea ha dimostrato l’assoluta insostenibilita` di questa tesi. Quello dell’occhio innocente e` un vero e proprio mito filosofico, perche´ non e` possibile accedere al dato empirico senza una prospettiva teorica. Noi vediamo con gli occhi e osserviamo con la mente: leggiamo il mondo attraverso la rete di concetti e di teorie che ci offre la tradizione, e quanto piu` questa rete e` fitta, quanto piu` e` plena la tabula della nostra mente, tanto piu` siamo in grado di catturare pezzi di mondo, di indagare aspetti nascosti o inesplorati della realta`. Possedere una mente ricca di idee, significa vivere in un mondo ricco di differenze, laddove, invece, come scriveva Ludwig Wittgenstein, «i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo». «L’OCCHIO INNOCENTE E` CIECO, LA MENTE VERGINE E` VUOTA» Come ha fatto osservare Nelson Goodman, adattando la nota massima di Kant, «l’occhio innocente e` cieco e la mente vergine e` vuota». Quando si pone al lavoro, infatti, «l’occhio e` sempre antico, ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni, vecchie e nuove, che vengono dall’orecchio, dal naso, dalla lingua, dalle dita, dal cuore, dal cervello. Esso funziona non come uno strumento isolato, ma come membro ubbidiente di un organismo complesso e capriccioso. Non solo, ma cio` che vede e` regolato da bisogni e presunzioni. Esso seleziona, respinge, organizza, discrimina, associa, classifica, analizza, costruisce. Non tanto rispecchia, quanto raccoglie ed elabora; cio` che raccoglie ed elabora, esso non lo vede spoglio, come una serie di elementi senza attributi, ma come cose, cibo, gente, nemici, stelle, armi»2. Non c’e` dunque un modo unico, oggettivo e definitivo di descrivere il mondo: «Il mondo ha tanti modi di essere quanti sono i modi in cui puo` essere fedelmente descritto, visto, dipinto, ecc. e […] non esiste qualcosa che si possa dire come il modo di essere del mondo»3. Dentro il mondo reale vi
E´. Durkheim, Le regole del metodo sociologico (1895), tr. it., Editori Riuniti, Roma, 1986, p. 46. 2 N. Goodman, I linguaggi dell’arte (1968), tr. it., il Saggiatore, Milano, 1986, pp. 12-13. 3 Ivi, p. 12. 1
I fatti: la “base” della spiegazione scientifica
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sono tanti mondi possibili, «e ogni descrizione vera ne coglie uno»4, per cui, conclude il nominalista Goodman, «il fabbricare mondi, come noi lo conosciamo, e` sempre partire da mondi gia` a disposizione: il fare e` un rifare»5. L’osservazione e` dunque possibile proprio perche´ e` carica di teoria, in quanto guidata da interessi, valori e conoscenze dell’osservatore. «Se spengo la luce della mia esperienza personale, ha scritto Ernst Cassirer, non posso vedere ne´ giudicare l’esperienza degli altri»6; e prima ancora era stato lo stesso Kant a far osservare che «la ragione vede solo cio` che lei stessa produce secondo il proprio disegno»7. Al contrario di quanto spesso si e` pensato, viene prima il problema e la teoria e poi l’osservazione.
2. “Ogni fatto e` gia` teoria” Come scriveva W. Goethe, “ogni fatto e` gia` teoria”. E un grande fisico come W. Heisenberg non ha mancato di sottolineare che «e` la teoria e decidere cosa sia osservabile». Se non puo` esistere una osservazione senza teoria, allora e` chiaro che i fatti della scienza sono anch’essi costruzioni teoriche; come scriveva gia` Ippolito Nievo: «dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un’idea». Con il linguaggio non solo tracciamo differenze di senso, stabiliamo dove termina un significato e dove ne comincia un altro, ma grazie a esso costruiamo anche i fatti e li poniamo in relazione tra di loro. Non e` corretto parlare di dati della scienza, quasi che esistesse la possibilita` di accedere a essi rinunciando alle nostre ipotesi. E` piu` corretto invece parlare di fatti, costruiti – fatti appunto –, dagli scienziati sulla base della propria prospettiva teorica. «Il mondo – ha scritto non a caso Wittgenstein proprio all’inizio del suo Tractatus logico-philosophicus – e` l’insieme dei fatti e non delle cose». 4 N. Goodman, “Ways the World Is”, in Review of Metaphysics, n. 14, 1960, tr. it., in A. Rainone, Nelson Goodman, in A. Negri (a cura di), Novecento filosofico e scientifico. Protagonisti, Marzorati, Milano, 1991, p. 913. 5 N. Goodman, Vedere e costruire il mondo (1978), tr. it., Laterza, Bari, 1988, p. 7. 6 E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Introduzione a una filosofia della cultura umana (1944), Armando, Roma, 2000, p. 345. 7 I. Kant, Critica della ragion pura (1781-17872), tr. it., Laterza, Roma-Bari, 1972, p. 18.
I fatti sono costruzioni teoriche
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Il mestiere dello scienziato sociale
Il massimo sistema diventa un fatto
Quel fatto chiamato atomo
I fatti sono, dunque, teorie. E quando nella scienza si parla di “teorie” e di “fatti”, di “teorie” da controllare sui “fatti”, si introduce una distinzione di tipo pragmatico: si considerato fatti quelle teorie di volta in volta ritenute consolidate, date per buone, ben sapendo che, proprio perche´ sono teorie, essi possono essere parzialmente o totalmente smentiti – rifatti – da un momento all’altro. Se oggi e` un fatto che la terra giri intorno al sole, ai tempi di Galileo cio` era considerato un massimo sistema. E chi per primo ipotizzo` quel fatto oggi ampiamente accertato della circolazione del sangue, fu condannato al rogo per aver osato troppo. Tra fatti e` teorie c’e` dunque un confine variabile e puramente convenzionale: non tutte le teorie sono evidentemente destinate a essere considerate dei fatti per la loro solidita`, e non tutti i fatti sono destinati a rimanere tali e a non essere rimessi in discussione, come testimonia il destino subito da alcuni venerabili fatti, quali ad esempio il flogisto e l’etere, scomparsi per opera di Lavoisier e di Einstein. Ma se i fatti sono teorie, e se le teorie sono la loro storia, allora per uno scienziato l’esistenza dei fatti dipende dalla storia delle teorie che li istituiscono. Ogni fatto ha una vita storica, con tanto di nascita (con paternita` in alcuni casi sconosciuta, spesso incerta, non di rado multipla e anche difficile da accertare), di evoluzione, a volte di scomparsa e, in certi casi, perfino di rinascita. Oggi e` un fatto che l’atomo esista, e la produzione di energia atomica ne e` una conferma. Ma questo fatto ha una lunga storia. Esso fu in qualche modo costruito da Democrito piu` di duemila anni fa con un teoria metafisica, poiche´ a quei tempi incontrollabile, poi e` scomparso per lunghi secoli, fino a ricomparire prima con A. Avogadro nell’Ottocento, per poi trovare piena cittadinanza nel discorso scientifico con L. Boltzmann e con le teorie atomiche dei primi del Novecento. Da allora questo fatto che e` l’atomo e` stato continuamente rifatto dalle teorie atomiche che in quest’ultimo secolo si sono succedute. L’atomo in se´ e per se´, se esiste, lo conosce il buon Dio; non ci dovrebbe essere bisogno dell’epistemologia per ricordare con Kant che noumenorum non datur scientia. Il compito dello scienziato non e` quello di svelare le essenze delle cose, bensı` di indagare le loro manifestazioni empiriche. Noi conosciamo tali manifestazioni grazie alle nostre teorie, e se queste ultime cambiano, per noi muta la conoscenza dell’oggetto; per atomo va dunque inteso quel fatto di volta in volta descritto dalla teoria all’epoca maggiormente consolidata.
I fatti: la “base” della spiegazione scientifica
Tutto cio` vale naturalmente anche nelle scienze storiche e sociali. Oggi consideriamo un fatto che il valore di una merce dipenda dal rapporto preferenze/scarsita`, piu` precisamente dal punto di incontro tra domanda e offerta. Ma questo fatto e` stato costruito alla fine dell’Ottocento da Carl Menger e da gli altri teorici del marginalismo. In precedenza esisteva un altro fatto ampiamente accettato, demolito da Menger, secondo il quale il valore di una merce dipendeva dalla quantita` di lavoro necessario per produrla. E lo stesso discorso vale per fatti come l’“inconscio”, la “devianza sociale”, la “nuclearizzazione della famiglia”, la “divisione del lavoro”, il “potere carismatico”, ecc. Sono costruzioni teoriche che hanno una storia piu` o meno lunga e venerabile e avranno un futuro che l’avanzamento della conoscenza mettera` ogni giorno alla prova. Sarebbe bene non dimenticare quanto scriveva il padre del positivismo, A. Comte, nel Corso di filosofia positiva: «Se da un lato ogni teoria positiva deve necessariamente essere fondata su osservazioni, e` ugualmente evidente, da un’altro lato, che, per dedicarsi all’osservazione, il nostro spirito ha bisogno di una qualche teoria».
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I fatti storici e sociali
3. Lo storico costruisce i fatti storici, ma non li inventa ad libitum Se i fatti di cui parla la scienza sono costruiti dagli scienziati, allora e` lo storico a fare i fatti storici. La guerra di Troia, la battaglia di Maratona, la caduta dell’Impero romano, il Feudalesimo, il Rinascimento, l’Urbanesimo, il Risorgimento, il Fascismo, ecc., sono alcuni fondamentali fatti storici che sono stati istituiti dalle relative teorie storiografiche. Quale sia stata l’essenza ultima e definitiva del Fascismo nessuno storico puo` dirlo, ma certo di questo fatto sappiamo molto dalle numerose teorie storiografiche che, da differenti prospettive, lo hanno costruito e continuamente rifatto in questi ultimi cinquant’anni. E` solo grazie a esse che noi abbiamo conoscenza di questo evento storico. I fatti storici sono certamente accaduti nel passato e sono immodificabili, ma essi rimangono semplicemente “muti” fino a quando qualcuno non li fa “parlare”. E, fino a quando lo storico non ne racconta la storia, questi fatti restano semplicemente ignoti. Se la base empirica della scienza e` anch’essa una costruzione teorica, allora si deve convenire con Raymond
E` lo storico a far “parlare” i fatti storici
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Il mestiere dello scienziato sociale
La tesi dei positivisti
La tesi degli idealisti
Aron quando sostiene che «non esiste una realta` storica gia` definita prima che intervenga la scienza, e che si dovrebbe 2 soltanto riprodurre fedelmente» . Certo, come sosteneva M. Bloch, il passato «e` per definizione un dato non modificabile. Ma la conoscenza del passato e` una cosa in fieri, che si 3 trasforma e si perfeziona incessantemente» . E` dunque grazie ai nostri interessi e alla nostra conoscenza che abbiamo un passato; per cui, se mutano i valori e la conoscenza muta il passato. Il futuro, per il fatto stesso di accadere, cambia la conoscenza del passato. Allo storico, come per ogni scienziato, nessuno fornisce fatti bruti che possano essere considerati come solidi mattoni per costruire una spiegazione storiografica vera; e` egli stesso a creare i suoi materiali, attraverso «ipotesi e congetture, per 4 mezzo di un lavoro delicato ed appassionante» , nel tentativo di risolvere un problema; e se non c’e` un problema, non c’e` ricerca. Si rivela, dunque, una falsa illusione la tesi positivistica che vede nell’autonoma esistenza dei fatti storici una garanzia per l’oggettivita` della storiografia e che assegna allo storico il compito di rimuovere quello strato di ignoranza che lo separa dalla comprensione dei fatti cosı` come essi sono accaduti. Ma se e` inaccettabile la tesi positivistica che considera la storiografia come obiettiva compilazione dei fatti, parimenti inaccettabile e`, sul versante opposto, la prospettiva idealistica che considera i fatti storici come un mero prodotto della mente dello storico, la quale crea e anima i fatti storici, che esisterebbero solo in quanto pensati dallo storico e nelle forme da egli proposte. Concependo i fatti storici come un riflesso del pensiero dello storico, gli idealisti piu` radicali, come Giovanni Gentile, non solo riducono quella storiografica ad una conoscenza sostanzialmente empatica, ma indeboliscono fortemente la possibilita` di un controllo empirico delle teorie, intaccando pesantemente, o addirittura precludendo, la stessa possibilita` di scientificita` della storiografia. La storiografia, in questo modo, scivola verso la filosofia della storia. 2
R. Aron, Introduction a` la philosophie de l’histoire. Essais sur les limites de l’objectivite´ historique (1938), Gallimard, Paris, 1986, p. 139. 3 M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere dello storico (1943), tr. it., Einaudi, Torino, 1998, p. 65. 4 L. Febvre, Dal 1892 al 1933: esame di coscienza di una storia o di uno storico (1933), tr. it. in Id., Problemi di metodo storico, Einaudi, Torino, 1966, p. 74.
I fatti: la “base” della spiegazione scientifica
Non convince, dunque, ne´ la soluzione positivistica, ne´ quella idealistica. E` vero che lo storico costruisce i fatti, ma egli non li inventa ad libitum; e` vero che i fatti sono muti e parlano soltanto se lo storico ne sa raccontare la storia, ma cio` non significa che egli puo` fargli dire cio` che vuole, perche´, essendo costruzioni teoriche, i fatti possono far parte di un discorso scientifico solo se superano i controlli empirici previsti per ogni teoria scientifica. Come ha efficacemente sintetizzato E. H. Carr, lo storico «non e` ne´ l’umile schiavo, ne´ il tirannico padrone dei fatti. Il rapporto tra lo storico e i fatti storici si svolge su un piano di parita`, di scambio reciproco. […] Lo storico e` perpetuamente intento ad adeguare i fatti alle interpretazioni e l’interpretazione ai fatti. E` impossibile assegnare un primato all’uno o all’altro momento». «Lo storico senza i fatti – osserva ancora Carr – e` inutile e senza radici; i fatti 5 senza lo storico sono morti e privi di significato» . I fatti storici, come tutti gli altri fatti scientifici, non sono ne´ roccia su cui fondare teorie certamente vere, ne´ paludi che inghiottono qualsiasi ipotesi, trasformando quelle storiografiche in interpretazioni in ogni caso indecidibili; non sono ne´ certi, ne´ arbitrari, ma, al pari di ogni altra teoria scientifica, oggettivi, quando pubblicamente controllabili e smentibili. Tutta la scienza, e quindi anche la storiografia, non ha un fondamento ma ha una base, una base empirica di una natura ipotetica e congetturale.
4. Fatti che nascono e fatti che scompaiono Essendo costruzioni teoriche, i fatti nascono, vivono, mutano e scompaiono insieme alle teorie che li istituiscono. Per cui nuove teorie, ben consolidate, che superano l’esame della discussione critica faranno nascere nuovi fatti, mentre teorie che vengono falsificate, che cadono sotto i colpi della critica, faranno scomparire fatti esistenti, anche nel caso in cui essi abbiano al loro attivo un lunga e gloriosa storia. Tra i tanti casi che ci offre la storia della scienza, scegliamo due esempi: un
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35.
E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia (1961), tr. it., Einaudi, Torino, 1966, p.
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I fatti come “teorie oggettive”
La scienza non ha un fondamento ma ha una base
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Il mestiere dello scienziato sociale
J. Michelet inventa il “Rinascimento”
fatto storico che nasce: il Rinascimento e un fatto storico che scompare: la Donatio Constantini. E` stato Lucien Febvre a far rilevare come quel fatto da tempo ampiamente accettato e che ha al suo attivo una lunga storia di successi, quale e` il Rinascimento, abbia una precisa paternita`: Jules Michelet; una data di nascita certa: il 1840. A partire da questa data Michelet (che poi nel 1850 pubblichera` il volume Renaissance) utilizza questo termine per identificare una teoria con la quale – scrive Febvre – egli individua un «duplice movimento – lo spogliarsi da parte degli uomini di due o tre generazioni di un abito medievale divenuto per loro pesante e sgradevole, per indossare, sotto una nuova luce, una veste bianca primaverile – assai piu` che un mutamento di ambiente e di costume, assai piu` che il trionfo di un gusto nuovo nelle lettere e nelle arti: la creazione e la progressiva adozione di una concezione rivoluzionaria dell’uomo e del mondo, del posto dell’uomo in un universo ingrandito, allargato e approfondito nello stesso tempo»6. E alla elaborazione di questa teoria fu tutt’altro che estranea l’esperienza personale dello storico: nell’idea di Rinascimento, scrive ancora Febvre, Michelet «verso` bruscamente la brulicante vita che portava dentro di se´; tutto quel gusto nostalgico e violento della morte e dei morti: di una morte che per lui non fu mai che la porta di un’altra vita; tutta la sua fede ardente e immutabile nell’immortalita`; tutta la sua angoscia, l’indomani di un lutto che lo schiacciava; tutta la sua speranza di una passione che lo risuscitava. Cosı` nacque, cosı` uscı` dal profondo dell’anima di Michelet il concetto cosı` fecondo, cosı` originale di Rinascimento»7.
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L. Febvre, Come Jules Michelet invento` il Rinascimento (1950), tr. it. in Id., Problemi di metodo storico, cit., p. 59. 7 Ibid.
I fatti: la “base” della spiegazione scientifica
E` evidente che la forza esplicativa di questa ipotesi non e` dovuta all’orizzonte di vita di quell’“elemento occasionale” che per Gadamer e` l’autore di un testo, bensı` alla solidita` empirica della teoria di Michelet, la quale, in questi centocinquant’anni, ha superato indenne la critica storiografica. Ma questa teoria ha anche conosciuto un successo che poche altre teorie storiografiche possono vantare; un successo legato oltre che alla sua validita` epistemologica anche al fatto che Michelet, contrapponendo il progresso del Rinascimento alla stagnazione del Medioevo, ha posto l’accento su alcuni aspetti del passato che interessavano fortemente gli uomini del suo tempo e soprattutto dei tempi a venire: la rottura con la tradizione in nome di «un rinnovamento totale della vita. Un benessere. Una speranza», per il futuro considerato luogo di emancipazione da individui «che non contemplano piu` le brutture, il declino, la crudele agonia del Medioevo, ma si rivolgono raggianti verso l’avveni8 re» . Quella di Michelet si e` rivelata, dunque, una felice scelta di valore, perche´ ha consentito di indagare un periodo storico da una prospettiva inedita che gli ha permesso di formulare una nuova e solida spiegazione causale di eventi fino ad allora non considerati come un insieme di relazioni e anche a motivo del fatto che questo punto di vista si e` felicemente coniugato con le aspettative, i valori largamente diffusi ai tempi di Michelet e soprattutto nei tempi a venire. Data certa: 1440 e precisa paternita`: Lorenzo Valla, possono essere invece riscontrati per la scomparsa, dopo una secolare esistenza, di un rilevantissimo fatto storico, la Donatio Constantini. A partire all’incirca dal IX secolo era stato ampiamente accettato il fatto che lo Stato pontificio avesse una origine legittima, in quanto sorto grazie a una donazione fatta, nel 313, dall’Imperatore Costantino al Papa Silvestro I, in segno di devozione dopo la sua guarigione dalla peste. E questo fatto si basava su un documento – il Constitutum Constantini – nel quale l’Imperatore elencava i possedimenti donati alla Chiesa. Questo documento arriva pressoche´ indenne fino al 1440, quando Lorenzo Valla dimostra che e` un clamoroso falso, risalente all’incirca all’VIII secolo. Usando le armi della critica
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Ivi, p. 63.
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Il “Rinascimento” e l’“orizzonte di vita” di Michelet
L. Valla fa scomparire la Donatio Constantini
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Il mestiere dello scienziato sociale
La Donatio Constantini e l’“orizzonte di vita” di Valla
testuale e della critica storiografica, Valla distrugge il fatto istituito da tale documento, individuando una mole impressionante di fatti contrari: nel testo della Donatio sono presenti locuzioni, termini, costruzioni sintattiche, inesistenti ai tempi di Costantino; viene nominata Costantinopoli, che invece e` stata fondata soltanto in seguito; si dice che la Tracia e` «volta a oriente», mentre e` «volta a settentrione»; si parla di «scettri imperiali», mentre lo scettro e` uno; si legge che «la Chiesa romana ottenne il possesso per prescrizione», mentre «nessun numero di anni, per quanto grande, puo` cancellare un titolo reale», ecc. Dimostrando la falsita` di questo documento, Valla distrugge il fatto circa l’origine legittima dello Stato pontificio. E merita di essere sottolineato che Valla – le cui argomentazioni sono ancora oggi ampiamente accettate – ha appuntato le sua attenzione critica sulla Donatio Constantini perche´ guidato da un preciso interesse personale: egli era al servizio di Alfonso d’Aragona, re di Napoli, che aveva delle mire espansionistiche rispetto ai territori pontifici. Come risulta chiaro dalle argomentazioni valliane, questa scelta di valore si arresta nell’individuazione dell’oggetto di indagine, perche´ le critiche mosse da Valla alla Donatio hanno una loro indubbia validita` filologica e storiografica, a prescindere dagli intenti politici da cui erano espirate.
Bibliografia ragionata Per un approfondimento circa il carattere teorico della base empirica, si rimanda al cap. 19 del Trattato di metodologia delle scienze sociali di D. Antiseri, Utet Libreria, Torino, 1996, che ricostruisce la storia teorica di molti fatti delle scienze naturali e delle scienze sociali, e a G. Boniolo, P. Vidali, Filosofia della scienza, Bruno Mondadori, Milano, 1999, cap. 3, che propone una ricognizione dei principali approcci epistemologici su questo tema. Nel cap. 3 de L’abuso della ragione (1952), tr. it., SEAM, Roma, 1997, F. A. von Hayek difende la tesi secondo la quale i fatti scientifici sono costrutti teorici, mettendo in guardia, da buon individualista metodologico, dal rischio di reificare i fatti sociali. Per una riflessione sui vari approcci filosofici per la tematizzazione degli oggetti delle scienze sociali, e` utile consul-
I fatti: la “base” della spiegazione scientifica
tare E. Montuschi, The Objects of Social Sciences, Continuum International Publishing Group, London, 2004. Di grande interesse epistemologico e` la storia teorica di quel fatto chiamato “sifilide”, ricostruita da L. Fleck, in Genesi e sviluppo di un fatto scientifico (1935), trad. it., il Mulino, Bologna, 1983.
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Capitolo sesto Il posto dei valori: l’oggettivita` non e` un mito
1. La “precomprensione” dello scienziato La mente dello scienziato, e piu` in generale la mente umana, non e`, come si e` visto con Popper, un recipiente vuoto da riempire osservazione dopo osservazione, ma va considerata invece come un faro, che consente di sottrarre dal buio dell’ignoto alcuni fenomeni, descrivendoli e spiegandoli. Ora, ci chiediamo, in che cosa consiste questa luce che guida l’attivita` dello scienziato; in altri termini, da che cosa e` composta quello che Popper chiama “Mondo 3” e Gadamer “pre-comprensione”, cioe` l’insieme delle idee che fanno di quella dello scienziato una mente da ricercatore, ricca di problemi e di tentativi di soluzione? A ben guardare, nell’universo culturale che il ricercatore mobilita nella sua attivita` di indagine possiamo rintracciare due fondamentali componenti: una saggezza assiologia e una sapienza nomica, ossia un universo di valori in relazione al quale selezionare quella porzione di realta` che si intende spiegare e una conoscenza, in senso lato nomologica, fatta di teorie scientifiche e “regole di esperienza”, indispensabile per la spiegazione. “Riferimento ai (propri) valori” e “sapere nomologico”, per dirla con Weber, sono due componenti dell’universo conoscitivo del ricercatore, necessarie per ogni forma di spiegazione. Senza il “riferimento ai valori” dello scienziato non ci puo` essere spiegazione scientifica e ogni tentativo di conoscenza sfocerebbe inevitabilmente, come sottolinea Weber, in un «caos 1 di giudizi esistenziali» per l’impossibilita` di selezionare – tra gli infiniti possibili – uno o piu` oggetti di indagine; la realta` diventerebbe una caleidoscopica infinita` priva di senso. E` solo in relazione ai propri valori che Galileo ha deciso di studiare i corpi celesti, Darwin l’evoluzione delle specie, Champollion i 1 M. Weber, “L’‘oggettivita`’ conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale” (1904-1909), tr. it. in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Edizioni di Comunita`, Milano, 2001, p. 176.
Saggezza assiologica e sapienza nomica
I valori del ricercatore
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Il mestiere dello scienziato sociale
La spiegazione e` sempre prospettica
Valori dello scienziato e spiegazione scientifica
geroglifici, Tocqueville la democrazia in America, Marx il capitalismo, Weber le religioni, Durkheim i suicidi. Ma in linea di principio infiniti sono pure i punti di vista, le prospettive da cui indagare un determinato explanandum; e anche in questo caso reca ordine la scelta di valore del ricercatore. Nessun oggetto, come si e` detto, puo` essere studiato nella sua totalita` ; e` impossibile fornire una spiegazione completa, di tipo olistico, neanche del fenomeno apparentemente piu` banale, e questo perche´ anche le prospettive di indagine sono teoricamente infinite. Occorre dunque tipizzare l’explanandum, poiche´ la spiegazione e` possibile solo da punti di vista particolari. Dopo aver descritto un sistema elettorale, un politologo non lo indaga nella sua totalita` o nella sua essenza, ma lo studia, ad esempio, ponendolo in relazione al numero dei partiti, alla competizione tra partiti, alla stabilita` del governo, alla rappresentativita` del Parlamento, al rapporto tra legislatore e lobbies di interesse, e cosı` via. Scegliera` uno, o piu`, di questi punti di vista. E molto spesso solo mettendo insieme piu` prospettive di analisi si riesce a ipotizzare soluzioni a problemi, i quali presentano sempre una molteplicita` di aspetti. La ricerca piu` autentica e` pluriprospettica: in natura esistono i problemi, le discipline sono nostre invenzioni per indagarne quei profili che, di volta in volta, riteniamo maggiormente rilevanti. Ci puo` essere un interesse scientifico solo in relazione a una scelta di valore. La ricerca scientifica vera e propria comincia dove finisce la “relazione ai valori”. L’individuazione dell’oggetto e della prospettiva di indagine segnano il punto in cui si arrestano i valori, e piu` in generale quella che potremmo chiamare la Filosofia personale del ricercatore, ed entra in gioco la conoscenza scientifica. Lo scienziato passa dalla saggezza assiologica alla sapienza nomica, cioe` procede alla spiegazione sulla base della sua conoscenza (leggi, modelli, “regole di esperienza”), mediante la quale tenta di ricondurre il fatto da spiegare alle sue cause. E` dunque la precomprensione dello scienziato che permette di trasformare un fatto puro e semplice in un fatto antropologico, politologico, sociologico, storico, cioe` in un fatto che trova cittadinanza nel discorso scientifico. E` a questo proposito utile effettuare una precisazione, che non e` solo una questione terminologica: sulla base dei propri valori il ricercatore seleziona l’evento che gli interessa spiegare, mentre in relazione al tipo di conoscenza nomologica individua i singoli
Il posto dei valori: l’oggettivita` non `e un mito
fatti da includere nella spiegazione in qualita` di condizioni iniziali. Egli e` tanto libero di scegliere l’explanandum, quanto vincolato – dal tipo di leggi e modelli impiegati – nell’individuare i singoli fatti che vanno considerati come condizioni iniziali. Di conseguenza, a parita` di evento e di prospettiva di indagine, se varia la copertura nomologica, cambieranno anche i fatti che il ricercatore considera come cause. Non ci si deve pertanto meravigliare se, ad esempio, teorie storiografiche che intendono spiegare le cause della Rivoluzione francese, magari dalla prospettiva delle condizioni economiche dell’Ancien Re´gime, parlino di fatti in parte diversi, e che alcuni fatti ritenuti causalmente rilevanti in una teoria scompaiono in un’altra, e viceversa. “GIUDIZI DI FATTO”, “GIUDIZI DI VALORE”, “RELAZIONE AI VALORI” Si tratta di tre irriducibili generi epistemologici, la cui chiara distinzione, decisiva per affrontare la questione dell’oggettivita` delle scienze sociali, rappresenta un po’ l’alfabeto per lo scienziato sociale. I giudizi di fatto sono proposizioni che indicano come stanno le cose, proponendo descrizioni e relazioni causali tra fatti e fasci di fatti. Sono ipotesi empiricamente controllabili, e pertanto, possono essere vere o false: vanno accettate o rifiutate non in base alla relazione ai valori che le hanno ispirate, ma a seguito delle risultanze del controllo empirico. Tali giudizi sono quindi validi anche per coloro che aderiscono a princı`pi etici diametralmente opposti rispetto a quelli del ricercatore che li ha formulati. Per ragioni epistemologiche tali teorie, come si e` visto, possono essere proposte solo dopo che la relazione ai valori ha fatto il suo corso: non ci possono essere giudizi di fatto senza riferimento ai valori. Altra cosa sono i giudizi di valore, cioe` valutazioni aventi per un oggetto qualsiasi evento (naturale o storico-sociale), formulate dal ricercatore sulla base della propria scala di valori. Come ha dimostrato David Hume, poiche´ da proposizioni descrittive si possono dedurre soltanto altre proposizioni descrittive, e non anche proposizioni prescrittive, allora dai fatti non si possono logicamente dedurre i valori. Stante la “legge di Hume”, i giudizi di valore non possono essere logicamente fondati sui giudizi di fatto. Per motivi strettamente logici, le valutazioni etiche sono irriducibili alle spiegazioni scientifiche: l’etica valuta e la scienza spiega; non ci possono essere valutazioni scientifiche, ne´ spiegazioni etiche. Essendo empiricamente decidibili, i giudizi di fatto, che attengono al dominio della scienza, possono essere pubblica-
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Il mestiere dello scienziato sociale
mente controllabili; al contrario, essendo empiricamente indecidibili, i giudizi di valore, che attengono al dominio dell’etica, sono soggettivi e dipendono dalle scelte di coscienza dei singoli individui. Benche´ spesso sono in continuo confronto, i problemi della scienza non vanno confusi con quelli della morale, e quindi non si puo` pretendere di risolvere i problemi scientifici con norme etiche, come pure le teorie scientifiche non possono essere risposte a questioni etiche. «Nei giorni di afflizione, ha acutamente osservato uno scienziato e filosofo come Blaise Pascal, la scienza delle cose esteriori non verra` a consolarmi dell’ignoranza della morale; ma la conoscenza di questa mi consolera` sempre dell’ignoranza del mondo esteriore»2. «Il bene, scrivera` in seguito L. Wittgenstein, e` al di fuori dello spazio dei fatti».
2. Lo scienziato sociale non ha un compito morale o politico Una volta chiarita la distinzione epistemologica tra questi tre tipi di “giudizi”, e` molto piu` agevole replicare alle tesi di quanti, scavando un fossato incolmabile tra scienze fisiconaturalistiche e discipline storico-sociali, hanno sostenuto che le scienze sociali, e la storiografia in particolare, non possano, o addirittura non debbano, aspirare all’oggettivita`. Ecco le principali di queste obiezioni e le relative repliche. Il linguaggio valutativo
Le scienze sociali non sono oggettive perche´ non possono fare a meno di usare espressioni valutative. Questa tesi, sostenuta tra gli altri da I. Berlin, coglie nel segno quando dice che e` frequente l’uso di termini valutativi soprattutto in storiografia, ma non e` condivisibile allorche´ arriva a concludere che cio` rappresenta una prova dell’impossibilita` di una storiografia oggettiva. Si deve invece semplicemente ammettere che quando uno storico o un sociologo esprime giudizi di valore, in quel caso non sta spiegando i fatti, ma li sta interpretando; non fa scienza, ma avanza interpretazioni (ideologiche, teologiche, filosofiche, ecc.) basate sulla propria Filosofia personale. 2 B. Pascal, Lo spirito geometrico e l’arte di persuadere (1651), tr. it. in Id., Pensieri, opuscoli e lettere, Rusconi, Milano, 1978, p. 174.
Il posto dei valori: l’oggettivita` non `e un mito
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Le scienze sociali non sono oggettive perche´ non `e possibile spiegare l’azione umana senza darne una valutazione. W. Dray, N. Rescher, R. Nozick, sono solo alcuni tra coloro che hanno sistematicamente ripetuto che i comportamenti umani possono essere spiegati solo stabilendo se essi rappresentano delle soluzioni ottimali o meno, cioe` esprimendo una valutazione sulla adeguatezza della strategia posta in atto dall’attore. Lo scienziato sociale dovrebbe, in altri termini, valutare se l’azione umana e` razionale o irrazionale, sulla base di uno standard di giudizio da egli stesso elaborato. Come si vedra` nell’ottavo capitolo, e` vero che l’azione presenta una irriducibile dimensione valutativa, ma, proprio perche´ e` una scelta, essa e` ex definitione sempre razionale, e, al pari di ogni altro explanandum, va spiegata – mediante ipotesi empiricamente controllabili – rintracciandone le cause, vale a dire le ragioni che l’hanno ispirata.
La spiegazione dell’azione
Le scienze sociali non possono essere oggettive perche´ gli scienziati devono assolvere a un compito etico-politico. Lo storico, si e` sostenuto da piu` parti, che e` colui che conosce gli errori e gli orrori commessi nel passato, deve insegnare al prossimo a non ricommettere queste nefandezze nel futuro. Se la storiografia e` magistra vitae, allora lo storico deve essere magister vitae. Uno storico liberale come Lord Acton, non ha esitato ad affermare che «nell’inflessibilita` del giudizio morale consiste il segreto 3 dell’autorevolezza e dell’utilita` della Storia» . E, sul versante opposto, un sociologo-filosofo di formazione marxista come Th. W. Adorno, ben sintetizzava l’approccio critico che gli esponenti della Scuola di Francoforte proponevano per le scienze sociali, quando affermava che «una sociologia che si accontenta di registrare e riordinare cio` che essa chiama il fatto […] si e` 4 gia condannata a giustificare l’esistente» e che la conoscenza della societa` e` possibile solo se orientata «alla concezione di 5 una societa` giusta» , poiche´ «nel concetto enfatico della verita` e` 6 compresa la giusta organizzazione della societa`» . Queste posi-
Lo storico non e` magister vitae
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J. Acton, Historical Essays and Studies, Macmillan, London, 1907, p. 505. Th. W. Adorno, Sociologia e ricerca empirica in AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia (1969), tr. it., Einaudi, Torino, 1972, p. 97. 5 Th. W. Adorno, Sulla logica delle scienze sociali, in AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia, cit., p. 139. 6 Ivi, p. 143. 4
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Il mestiere dello scienziato sociale
La scienza spiega e l’etica valuta
“Giudizi di valore” e “relazione ai valori”
Croce e Salvemini
zioni si rivelano epistemologicamente inaccettabili, in quanto violano la “legge di Hume” e confondono relazione ai valori e giudizi di valore. Violano la “legge di Hume”, perche´, se i valori non sono logicamente deducibili dai fatti, allora lo scienziato sociale non puo` esprimere valutazioni etiche in nome delle sue conoscenze scientifiche. E se uno storico, un sociologo, un politologo, come spesso accade, formula un giudizio di valore, se non vuole commettere una imperdonabile infrazione alle regole del metodo, lo deve fare in quanto uomo e non in quanto scienziato, poiche´ lo emette non sulla base della propria scienza ma della propria coscienza; ed e` buona regola deontologica che i giudizi di valore siano formulati in modo da risultare chiaro e senza equivoci che si tratta di valutazioni personali. Lo storico si limita a offrire preziosi materiali alle coscienze individuali per giudicare il passato e per orientarsi verso il futuro, ma oltre non puo` andare; come ha osservato Croce, se lo storico fa il giudice lo fa come «giudice istruttore». Per la storiografia, e per le scienze sociali piu` in generale, valgono, a fortiori, le parole di Tolstoj, alle quali si affida Weber per delineare il tratto peculiare della scienza come vocazione: la scienza «e` assurda, perche´ non risponde alla sola domanda importante per noi: che cosa 7 dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?» . Inoltre, queste tesi che negano l’oggettivita` delle scienze sociali confondono giudizi di valore e relazione ai valori. E` vero che non ci puo` essere ricerca scientifica senza l’intervento dei valori dello scienziato, ma questo non vuol dire che la verita`, come sosteneva Adorno, e` legata a un giudizio di valore sull’oggetto di indagine; essa, puo` farsi strada solo dopo che la scelta di valore, da parte del ricercatore, dell’oggetto di indagine ha fatto il suo corso. E la circostanza che spesso lo scienziato sociale ha un coinvolgimento emotivo, rispetto all’oggetto di studio, piu` intenso di quello di un fisico, non cambia la natura della relazione ai valori. Non e` un caso che sull’imperativo weberiano della avalutativita` delle scienze sociali concordino uno storico e filosofo idealista come Croce e uno storico positivista come Salvemini, che proprio nella critica alla storiografia ideologica e moraleggiante 7 M. Weber, La scienza come professione (1919), tr. it. in Id., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1966, p. 25.
Il posto dei valori: l’oggettivita` non `e un mito
hanno trovato uno dei pochi punti di accordo. Ad avviso di Croce, lo storico deve «spiegare e non condannare», evitando di applicare «ai fatti e personaggi […] le qualifiche del bene e del male, quasi si dessero realmente nel mondo fatti buoni e fatti cattivi, personaggi buoni e personaggi cattivi»; e sarebbe «opera presuntuosa» «qualificare le opere 8 storiche come progressi o decadenze» . Per cui, «coloro che, assumendo di narrare storie, si affannano a far giustizia, condannando e assolvendo, perche´ stimano che questo sia l’uffizio della storia, e prendono in senso materiale il suo metaforico tribunale, sono concordemente riconosciuti manchevoli di senso storico; e si chiamino 9 pure Alessandro Manzoni» . Sulla stessa lunghezza d’onda Salvemini: «Lo storico non deve ne´ condannare ne´ assolvere, deve semplicemente spiegare; il suo ufficio si riduce tutto a risolvere il problema […] di incatenare logicamente i fatti in un sistema di concomitanze e di causalita`. Se non avra` risolto obiettivamente questo problema, il suo lavoro non raggiungera` ne´ un valore scientifico, ne´ una utilita` prati10 ca» .
3. I “programmi di ricerca metafisici” favoriscono la ricerca della verita` scientifica La storia delle scienze sociali ci offre un vasto catalogo dei differenti orientamenti culturali che hanno avuto una grande influenza, si pensi solo alla “sociologia cattolica” o alla “storiografia marxista”, alla “sociologia marxista” o alla “storiografia 8
B. Croce, Teoria e storia della storiografia (1917), Adelphi, Milano, 1989, p.
96. 9
B. Croce, La storia come pensiero e come azione (1938), Laterza, Roma-Bari, 1966, p. 36. 10 G. Salvemini, Pasquale Villari, in “Atti della Reale Accademia di Scienze di Torino”, vol. 53, 1917-1918, p. 4 dell’estratto.
Dalla metafisica alla scienza
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Il mestiere dello scienziato sociale
liberale”, e cosı` via. Lungi da costituire una prova contro l’oggettivita` delle scienze sociali, queste tradizioni di indagine possono essere concepite come “programmi di ricerca metafisici”, che hanno offerto una direzione piu` o meno feconda per la nascita di singole teorie scientifiche. COSA SONO I “PROGRAMMI DI RICERCA METAFISICI” I “programmi di ricerca metafisici” sono delle teorie non falsificabili, dunque metafisiche, che favoriscono la nascita di teorie scientifiche. “Evoluzionismo”, “meccanicismo”, “atomismo”, sono state in passato teorie non scientifiche, in quanto empiricamente incontrollabili; esse, pero`, hanno rappresentato dei fondamentali “schemi di riferimento”, che hanno contribuito alla nascita di importanti ipotesi empiricamente controllabili. «Ognuna di queste teorie servı`, prima di diventare controllabile, come un programma di ricerca per la scienza. Indico` la direzione della ricerca, e il tipo di spiegazione che poteva soddisfarci, e rese possibile una sorta di valutazione della profondita` di una teoria»11. Marxismo e liberalismo come “programmi di ricerca metafisici”
Al pari di quello che nel passato hanno rappresentato per le scienze naturali l’“atomismo” o il “determinismo”, anche il marxismo o il liberalismo, tra gli altri, vanno intesi come quadri di riferimento che hanno orientato la scienza sociale, fornendo sia una ispirazione per la scelta di valore dell’oggetto e della prospettiva di indagine, sia schemi di analisi, modelli di interpretazione. Essi hanno offerto preziosi materiali preparatori per la spiegazione scientifica dei singoli fenomeni. Nell’indagare un evento del passato, lo storico liberale, ad esempio, pone l’attenzione sui limiti del potere dello Stato, sui diritti umani, sulle liberta` individuali, sulle regole per il controllo del potere, sul grado di liberta` degli scambi economici, ecc.; lo storico marxista, dal canto suo, e` interessato alle cause economiche dei fenomeni sociali, alle condizioni di vita delle classi lavoratrici, alle dinamiche sindacali, alle forme di organizzazione operaia, e cosı` via. E la fecondita` euristica di questi “programmi” e` tanto maggiore quanto piu` essi favoriscono la nascita di ipotesi empiricamente controllabili, le quali consen-
11 K. R. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, vol. I: Il realismo e lo scopo della scienza (1983), tr. it., Il Saggiatore, Milano, 1984, pp. 207-208.
Il posto dei valori: l’oggettivita` non `e un mito
tono di esplorare prospettive ancora ignote e di scoprire inedite connessioni causali. Come ha acutamente osservato G. Vailati, cosı` come non ci meravigliamo dell’esistenza di una chimica (scientifica) per agronomi e di una chimica (scientifica) per farmacisti, parimenti non ci dobbiamo meravigliare dell’esistenza di una storia (scientifica) socialista e di una storia (scientifica) 12 conservatrice . Deve essere comunque chiaro che questi “programmi” sono propedeutici alla spiegazione scientifica, e che una teoria non e` oggettiva solo perche´ e` di ispirazione liberale o marxista. Lo scienziato sociale e` libero di scegliere il problema e di interrogare le sue fonti, ma non nel fornire le risposte. Come ha efficacemente esemplificato A. Momigliano, «una semplice casa non diventa un santuario perche´ lo storico e` religioso. Ed Erodoto non diventa un documento di lotta di classe perche´ lo studia uno storico marxista. Esiste un necessario rispetto per cio` che i documenti dicono e suggeriscono e per cio` che si puo` legittimamente inferire dalla combinazione di vari documenti: esso e` basato su regole ordinarie (e falsificabili) di ragionamento 13 e di esperienza» . L’oggettivita` di una teoria sociologica o storiografica va dunque intesa come pubblica controllabilita` (logica ed empirica), cioe` come assenza di contraddizioni logiche e di fatti contrari o, in presenza di teorie falsificate, come capacita` di risolvere piu` problemi e problemi all’epoca piu` importanti. L’oggettivita` non puo` dunque essere fatta coincidere con l’eliminazione di ogni forma di influenza dei valori dello scienziato sull’attivita` di indagine, perche´ seguendo questa strada, la constatazione dell’impossibilita` di rinunciare alla “relazione ai valori”, porterebbe, come spesso e` capitato, a sostenere l’eliminazione della stessa nozione di oggettivita` dalle scienze sociali e dalla storiografia in particolare. Ne´ l’oggettivita` puo` essere fatta coincidere con la condivisione sociale dei valori da cui e` ispirata una teoria, cioe` con il fatto che gli oggetti di indagine, come ha sostenuto H. Rickert, devono essere sezionati sulla base di valori validi sub specie 12
G. Vailati, Sull’applicabilita` dei concetti di causa e di effetto nelle scienze storiche (1903), ora in Id., Metodo e ricerca, Carabba, Lanciano, 1976, pp. 181 e ss. 13 A. Momigliano, Le regole di gioco (1974), in Id., Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino, 1984, pp. 483-484.
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Arnaldo Momigliano
L’oggettivita` come pubblica controllabilita`
Oggettivita` e valori condivisi
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aeternitatis o comunque largamente condivisi. Certo, come si e` visto con l’esempio del Rinascimento, la condivisione dei valori che ispirano una indagine puo` suscitare un diffuso interesse, ma il successo di una teoria non va confuso con la sua oggettivita`. Ci puo` essere pertanto una teoria ispirata da una scelta di valore assolutamente unica e non condivisa, che comunque porti ad una teoria oggettiva. I valori dello scienziato si arrestano dove comincia la spiegazione e, semmai, tornano in gioco dopo, nei casi in cui, (come capito` ai fisici che parteciparono alla costruzione della bomba atomica durante la Seconda Guerra mondiale) lo scienziato stesso e` chiamato a decidere che uso fare della propria teoria. ` DELLA TEORIA E OGGETTIVITA ` DELLO SCIENZIATO OBIETTIVITA L’oggettivita`, che e` un attributo della teoria, non va confusa con l’obiettivita`, che invece e` un attributo del ricercatore. Se una teoria va considerata oggettiva quando non vi sono ragioni logiche ed empiriche per metterla in discussione, un ricercatore e` obiettivo quando si comporta correttamente: ha a cuore soltanto la verita` scientifica; non sottomette la verita` scientifica a quella ideologica, a quella politica, o a ragioni di carriera personale; non trascura intenzionalmente le falsificazioni nelle quali incorre la propria teoria; prende in considerazione le critiche che a essa vengono rivolte; riconosce i propri errori. Una teoria e` oggettiva, mentre uno scienziato e` obiettivo. E non bisogna confondere i due livelli, perche´ al ricercatore non basta essere obiettivo per produrre teorie oggettive. Una volta messa al mondo, una teoria scientifica e` un pezzo di Mondo 3 che si distacca dal suo autore ed e` sottoposta, nell’ambito della comunita` scientifica, ad una discussione critica che ha per oggetto il testo della teoria, con tutte le sue conseguenze, e non il suo autore e le sue intenzioni.
4. “Ogni vera storia e` storia contemporanea” Dal presente al passato
Le teorie scientifiche, come si e` visto nel primo capitolo, sono tentativi di soluzione di problemi che sorgono nell’ambito della memoria culturale dello scienziato, problemi che si sviluppano nell’orizzonte vitale di un presente, fatto di valori, conoscenze, sentimenti, aspettative, necessita`, bisogni, aspirazioni, drammi, tensioni, ecc. E` sempre il presente il punto di partenza
Il posto dei valori: l’oggettivita` non `e un mito
di ogni conoscenza scientifica; derivano infatti dal presente le categorie con le quali lo scienziato interroga non solo il mondo storico e sociale, ma anche quello naturale. Non si possono pertanto capire i problemi che uno scienziato sociale affronta senza considerare le vicende storiche di cui e` figlio quello scienziato. Se un sociologo studia i problemi legati all’integrazione etnica, un economista le cause del sottosviluppo dei Paesi africani, un politologo il passaggio alla democrazia di alcuni Paesi nel XX secolo, e` perche´ mossi da precisi valori e interessi del proprio tempo. E questo vale anche per la storiografia. Uno storico non vaga nel passato con l’intento di fare una narrazione sistematica di tutto cio` che accade; questa, direbbe Croce, sarebbe una storia «vuota», «senza problema storiografico». Egli invece concentra l’attenzione su alcuni eventi che considera rilevanti secondo i propri interessi. E` per questo che uno storico come Carr ha fatto osservare che non si possono comprendere le teorie storiografiche senza guardare allo storico e non si riesce a comprendere l’attivita` dello storico senza guardare alle vicende del suo presente. Diventa difficile, ad esempio, capire i problemi affrontati dalla «storia sociale» di L. Febvre, M. Bloch e di tutta la Scuola delle Annales, se non si considerano le esigenze della societa` di massa, le spinte alla democratizzazione che nell’Europa tra le due guerre dovevano fare i conti con resistenze tradizionalistiche e reazioni totalitarie. Pressati dai problemi del presente, la “nuova storia” delle Annales si propone come levatrice di un “nuovo passato”; non guarda piu` alle ´elites, alle classi colte, ai grandi statisti, alle imprese memorabili e alle gesta eroiche, ma scruta un passato inesplorato, fatto di masse amorfe, di epidemie e sofferenze quotidiane, di folle analfabete, anonime nella loro quotidianita`, che forse cercavano quella dignita` sociale e quella liberta` personale che la nascente societa` democratica si apprestava a riconoscere. Lo storico, dunque, guarda al passato dal punto di vista del presente, e grazie agli interessi del presente scruta alcuni aspetti del passato. Se negli ultimi decenni si sono moltiplicati studi e pubblicazioni sulla condizione della donna nell’antichita`, e` perche´ si e` rivolto l’attenzione a un aspetto del passato sulla base di una sensibilita` del presente. Ed era l’interesse di un intellettuale antifascista che spingeva Croce, nella Storia d’Italia e nella Storia d’Europa, a indagare quelle istituzioni, quelle
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Il “nuovo passato” della scuola delle Annales
Croce e il fascismo
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Il mestiere dello scienziato sociale
Col mutare del presente cambia la conoscenza del passato
Croce: “ogni vera vera storia e` storia contemporanea”
dinamiche partitiche, quei movimenti politici, quelle vicende diplomatiche, ecc., che avevano promosso la liberta` e avevano creato le condizioni per difendere i diritti e la dignita` individuali. Croce voleva dimostrare che la liberta` aveva una lunga e solida storia in Italia e in Europa, e che il fascismo non poteva reciderne le radici. Studiare il passato con gli occhi del presente non e` quindi un lusso, ma una necessita` che rende possibile la conoscenza storiografica. Tra passato e presente non vi e` actio in distans, poiche´, come ha sostenuto J. Burckhardt, la storia «e` la registra14 zione di cio` che un’eta` trova di notevole in un’altra» . Se muta il presente e i suoi problemi muta anche la conoscenza del passato, e piu` e` ricco di problemi l’“orizzonte di vita” dello storico e` piu` ricco sara` il passato: «quanto piu` vasta e` l’esperienza dello storico, ha osservato G. Salvemini, tanto meglio egli sara` in 15 grado di comprendere il passato» . E` per questo che la storia va continuamente riscritta: «Via via che sorge un nuovo presente – ha sostenuto J. Dewey – il passato e` passato di un presente 16 diverso» . Ogni generazione ha il diritto di scrivere la sua storia, perche´ ha i suoi problemi; ha dunque il diritto di interrogare le generazioni passate dal suo punto di osservazione, fatto non solo di valori e di interessi, ma anche di conoscenze che gli derivano dal presente; si pensi solo al massiccio ricorso, da parte proprio degli storici delle Annales, alle scienze sociali (statistica sociale, psicologia, economia, sociologia) nell’indagine storiografica. Alla luce di queste considerazioni si capisce bene quanto fosse solo apparentemente paradossale la celebre tesi di Croce – vigorosamente sostenuta anche dagli storici delle Annales – secondo la quale «ogni vera storia e` storia contemporanea». La storiografia, infatti, «balza direttamente dalla vita […] perche´ e` evidente che solo un interesse della vita presente ci puo` muovere a indagare un fatto passato; il quale, in quanto si unifica con l’interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma presente»17. Ma e` un interesse riferito non a un 14
J. Burckhardt, Judgement on History and Historians, Allen and Unwin, London, 1959, p. 158. 15 G. Salvemini, Storia e scienza (1939), tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1948, p. 147. 16 J. Dewey, Logica, teoria dell’indagine (1938), tr. it., Einaudi, Torino, 1949, p. 322. 17 B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 14.
Il posto dei valori: l’oggettivita` non `e un mito
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«astratto uomo» contemporaneo, ma a quell’individuo in carne e ossa che e` lo storico, il quale, sulla base del proprio «bisogno spirituale», sottrae dal limbo dell’ignoto alcuni fatti del passato, trasformandoli in fatti storici.
5. La spiegazione scientifica come esercizio ermeneutico Il lavoro scientifico e` un rapporto serrato, per dirla con P. Duhem, tra la ragione «che non vuole stancarsi di capire» e la 18 natura (fisica o storico-sociale) «che non si stanca di produrre» ; un dialogo continuo tra il ricercatore e il suo oggetto di indagine, spesso (e non solo per la storiografia) tra un presente e un passato piu` o meno distanti. In altri termini, la spiegazione scientifica nasce grazie al rapporto tra la precomprensione dello scienziato e quel testo rappresentato dall’oggetto di indagine; un circuito interpretativo, in linea di principio infinito, tra la memoria culturale del soggetto conoscente ed un aspetto di un oggetto di studio. Per questa sua piu` intima natura, si puo` sostenere che nella sua essenza il lavoro scientifico e` un esercizio di tipo ermeneutico, un procedimento interpretativo che si instaura (in storiografia) tra un presente che pone le domande e un passato che offre le risposte; e, piu` in generale, tra un interprete che ha sempre nuove cose da chiedere e un testo che puo` rispondere solo se lo scienziato lo fa parlare. E il carattere “contemporaneo” di ogni storia puo` essere meglio compreso proprio considerando che quella storiografica (e piu` in generale quella scientifica) e` una forma di conoscenza ermeneutica. E` stato d’altronde lo stesso H.-G. Gadamer a sostenere che «ogni scienza include una 19 componente ermeneutica» . Cosı` come accade nell’analisi testuale o nella critica filologica, questo dialogo tra presente e passato, tra storico e fatti storici, e piu` in generale tra ricercatore e oggetto di indagine, non consiste semplicemente nel portare a compimento le anticipazioni dello scienziato, ma ha un valore autenticamente cono18
P. Duhem, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura (1914), tr. it., il Mulino, Bologna, 1978, pp. 27-28. 19 H.-G. Gadamer, Poscritto alla terza edizione tedesca (1972), in Id., Verita` e metodo (1960), tr. it., Bompiani, Milano, 2000, p. 1021.
La “precomprensione” dello scienziato
Il “circolo ermeneutico” della scienza
La revisione delle interpretazioni
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scitivo proprio perche´ procede eliminando gli errori e quindi rivedendo continuamente le interpretazioni. Lo storico, in particolare, va considerato come l’interprete professionista del passato, o meglio delle tracce lasciate dal passato; e` per questo che il suo «primo lavoro», come afferma Ortega y Gasset, «quello piu` elementare, e` ermeneutica, interpretazione»20. Gli «esploratori del passato – ci ricorda M. Bloch – non sono uomini totalmente liberi. Il passato e` il loro tiranno»21. POPPER E GADAMER: UN SOLO METODO Non deve sorprendere il fatto di definire la ricerca scientifica come un esercizio ermeneutico, perche´, nella sua forma piu` compiuta, l’ermeneutica descrive un procedimento interpretativo che non differisce sostanzialmente dalle procedure seguite da uno scienziato. Si prenda il caso di H.-G. Gadamer, il principale teorico dell’ermeneutica del Novecento, che in un linguaggio filosofico-umanistico propone per l’interprete lo stesso metodo suggerito da Popper, in un linguaggio logico-razionale, per lo scienziato. L’interprete ha di fronte a se´ un problema (cogliere il senso di un testo), che tenta di risolvere elaborando, sulla base della propria «precomprensione», una ipotesi di soluzione (un «abbozzo di interpretazione»), che sottopone a critica, mettendola a controllo sul «testo» e sul «contesto». Cosı` come lo scienziato deve essere sempre pronto a «salvare i fenomeni», cambiando la teoria quando questa si scontra con i fatti, parimenti l’interprete «deve essere sensibile, per Gadamer, all’alterita` del testo». Di conseguenza, «il compito ermeneutico, in virtu` della sua stessa essenza, assume la fisionomia di un problema obiettivo e come tale anche sempre si determina. In tal modo l’impresa ermeneutica si trova ad avere un terreno solido sotto i piedi. Chi vuole comprendere non potra` fin dall’inizio abbandonarsi alla casualita` delle proprie presupposizioni, ma dovra` mettersi, con la maggiore coerenza e ostinazione possibile, in ascolto dell’opinione del testo, fino al punto che si faccia intendere in modo inequivocabile e ogni
20 J. Ortega y Gasset, Intorno a Galileo (1933) tr. it. in Id., Aurora della ragione storica, Sugarco, Milano, 1994, p. 37. 21 M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere dello storico (1943), tr. it., Einaudi, Torino, 1998, p. 51
Il posto dei valori: l’oggettivita` non `e un mito
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in comprensione solo presunta venga eliminata»22. Come ha osservato D. Antiseri, il «circolo ermeneutico» di Gadamer e il metodo «problemi-teorie-critiche» di Popper descrivono il medesimo procedimento conoscitivo, che avanza attraverso la progressiva eliminazione degli errori, nei quali ci imbattiamo quando le nostre interpretazioni subiscono un «urto» (Gadamer) o le nostre aspettazioni vengono «disattese» (Popper).
Se per interpretare un qualsiasi testo, come ha insistito Gadamer, occorre prendere in esame la sua storia degli effetti (Wirkungsgeschichte), cioe` la cascata di conseguenze da esso prodotte nel tempo, cio` vuol dire che si e` in grado di assegnare un significato a un evento storico soltanto ponendolo in relazione causale, oltre che ad alcuni eventi che lo hanno preceduto, anche con le conseguenze da esso prodotte. Per diventare “storico”, un evento deve dunque avere il tempo di produrre i suoi effetti; ecco perche´ il tempo e` un fattore decisivo per la comprensione dei fatti storici. «La verita` storica, ha scritto Wilhelm von Humboldt, e` percio` paragonabile in qualche modo alle nuvole, che solo di lontano acquistano una figura per 23 l’occhio» . La distanza temporale tra storico e fatto storico non e`, come sostenevano gli idealisti, un vuoto da colmare “trasportando”, mediante la comprensione empatica, l’oggetto di indagine nel presente; ne´ va intesa, come volevano i positivisti, come uno spazio da azzerare, “tornando al passato” e raccontando i fatti cosı` come essi sono accaduti. La distanza temporale non e` ne´ un ostacolo`, ne´ un impedimento per la comprensione del passato, ma rappresenta invece la condizione decisiva per una piu` adeguata spiegazione degli eventi accaduti, poiche´ piu` essa aumenta, piu` cresce la “storia degli effetti” generata dagli avvenimenti storici. Il tempo storico e` quindi uno spazio pieno, ricco delle conseguenze generate dagli eventi passati, e quanto piu` numerose saranno le conseguenze, tanto piu` lo storico dispone di un preziosissimo materiale per spiegare quell’evento.
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H.-G. Gadamer Verita` e metodo, cit., pp. 557-9. W. von Humboldt, Il compito dello storico (1821), tr. it. in Id., Il compito dello storico, raccolta di saggi pubblicati dal 1791 al 1821, ESI, Napoli, 1980, p. 120. 23
La “storia degli effetti”
Il tempo storico come “spazio pieno”
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Il mestiere dello scienziato sociale
Distanza cronologica e vicinanza logica
Come ha osservato Gadamer, la distanza cronologica tra interprete e testo si converte in vicinanza logica24; cosı` come un biologo di oggi e` in grado di interpretare la teoria darwiniana meglio di Darwin stesso, poiche´ ha a sua disposizione centocinquant’anni di storia degli effetti di questo testo, parimenti uno storico contemporaneo e` in condizioni migliori, rispetto ai suoi colleghi di settant’anni fa, di assegnare un significato storico alla Prima guerra mondiale. Proprio questa consapevolezza spingeva Weber a ritenere che il presente e` caratterizzato da una «non-storicita`», in quanto «non e` ancora diventato una causa storica»25 di eventi futuri, e J. Burckhardt a dire che «il nostro tempo e` meglio attrezzato dei precedenti per conoscere il passato»26. LIBERI PERCHE´ INTERPRETI «Avere un mondo, scrive Gadamer, significa rapportarsi al mondo»27, cioe` poterlo rappresentare senza subire meccanicamente la pressione dell’ambiente. «Avere un mondo» significa avere la liberta` e la possibilita` di «costruirlo» dando un nome alle cose, cioe` di catturarlo dentro le proprie categorie linguistiche. Avereun-mondo e avere-un-linguaggio e` dunque la stessa cosa. «Io mondo e linguaggio, scriveva L. Wittgenstein, siamo, in un certo senso, una cosa sola», per cui «i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo». Grazie al linguaggio gli individui conquistano la liberta` dall’ambiente; ognuno diventa un interprete che ha la possibilita` di comprendere il mondo facendo esperienza, cioe` aprendosi a esso e lasciandosi dire qualcosa da esso. La vita, dunque, e` innanzitutto esperienza della finitezza umana, sicche´ «sperimentato nel senso piu` autentico e` colui che e` consapevole di tale finitezza, che sa di non essere il padrone del tempo e del futuro»28. Tale esperienza e` cio` che ridefinisce l’orizzonte di aspettative, che rinnova e rivitalizza quella tradizione, la quale fornisce agli interpreti, cercatori di
24
H.-G. Gadamer Verita` e metodo, cit., p. 453. M. Weber, “Studi critici intorno alla logica della cultura” (1906), tr. it. in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, cit., p. 251. 26 J. Burckhardt, Meditazioni sulla storia universale (1905), tr. it., Sansoni, Firenze, 1985, p. 15. 27 H.-G. Gadamer, Verita` e metodo, cit., p. 903. 28 Ivi, p. 737. 25
Il posto dei valori: l’oggettivita` non `e un mito
senso e di verita`, la direzione in cui procedere nell’esplorazione dell’ignoto; con la consapevolezza che saranno poi i nostri fallimenti a correggerla e, se necessario, a invertirla. Ragione ed esperienza, tradizione e innovazione sono dunque aspetti complementari di quel grande “circolo ermeneutico” che e` l’esistenza individuale.
Bibliografia ragionata Sull’idea di oggettivita` scientifica intesa come controllo intersoggettivo di tipo falsificazionista, si veda il primo capitolo di K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica (1934), Einaudi, Torino, 1970. Un approfondimento sul tema dell’oggettivita` delle scienze sociali e dell’obiettivita` degli scienziati non puo` che partire dai due fondamentali saggi di M. Weber: “L’‘oggettivita`’ conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale” (1904-1909) e “Il senso dell’avalutativita`” (1910-1917), trad. it. in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Edizioni di Comunita`, Milano, 2001. A questi va aggiunto, sempre di Weber, l’imprescindibile La scienza come vocazione (1919), tr. it in Id., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1966. Un’utile introduzione al tema la si ritrova in M. Hollis, The Philosophy of Social Science. An Introduction, Cambridge University Press, Cambridge, 1994. Una selezione di alcuni dei testi fondamentali dedicati alla questione dell’oggettivita` delle scienze storiche e sociali e` contenuta in Readings in the Philosophy of the Social Science, edited by M. Martin e L. C. McIntyre, The MIT Press, Cambridge Mass., 1994. La sempre meno contrastata tesi circa la sostanziale sovrapponibilita` tra il “circolo ermeneutico” di Gadamer e il “metodo scientifico” di Popper, e` stata avanzata da D. Antiseri, in Teoria unificata del metodo (1981), UTET, Torino, 2001.
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Capitolo settimo Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis”
1. Due tradizioni a confronto La storia delle scienze sociali e` stata interamente segnata dalla continua contrapposizione tra individualisti e collettivisti. Una disputa che ha una storia antica e declinazioni solo in parte differenti nelle singole discipline. Con la polemica tra C. Menger e G. Schmoller e con il dualismo tra M. Weber e E´. Durkheim, il confronto tra individualisti e collettivisti ha segnato profondamente l’affermazione stessa dell’economia e della sociologia come discipline scientifiche. Benche´ di grandi tradizioni di pensiero e` difficile, se non impossibile, stabilire l’esatta primogenitura, il primo rilevante contributo al paradigma individualistico viene – nel XVIII secolo – dalla Scuola scozzese di D. Hume, A. Smith, A. Ferguson e A. Miller, a cui va aggiunto B. de Mandeville con la sua Favola delle api. Nell’Ottocento e nel Novecento si assiste alla definitiva consacrazione dell’individualismo come tradizione di ricerca, grazie al contributo di filosofi, sociologi, economisti, storici, quali, tra gli altri, A. de Tocqueville, J. S. Mill, H. Spencer, M. Weber, G. Simmel, la Scuola austriaca di economia (C. Menger, L. von Mises, F. A. von Hayek), K. R. Popper, J. W. N. Watkins, J. Coleman, R. Boudon, J. Elster. Parimenti variegata e` la tradizione collettivista, che – per rimanere agli ultimi due secoli, periodo in cui si sono affermate le scienze sociali (e quindi senza tener conto delle concezioni organicistiche della societa` succedutesi da Platone in poi) – annovera autori come C. H. de Saint-Simon, A. Comte, G. W. F. Hegel, K. Marx, E´. Durkheim, Th. W. Adorno, N. Luhmann, fino agli strutturalisti francesi, tra i quali, L. Althusser, J. Lacan, M. Foucault, R. Barthes, C. Le´vi-Strauss, e piu` di recente P. Bourdieu.
Gli individualisti
I collettivisti
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Il mestiere dello scienziato sociale
2. Paradigmi metodologici e impegni ontologici I collettivisti realisti
Il principale punto di contrasto fra questi due filoni di pensiero e` di natura squisitamente filosofica, e riguarda lo statuto ontologico dei concetti collettivi. Termini come “societa`”, “ordine sociale”, “classe”, “Stato”, “parlamento”, “popolo”, “nazione”, “chiesa”, “partito”, “mercato”, “socialismo”, “capitalismo”, “rivoluzione”, ecc., si riferiscono a realta` sui generis, che hanno una esistenza reale distinta da quella degli individui che le compongono, ovvero essi non sono altro che forme sintetiche per indicare insiemi, aggregati, di individui? Con questo dilemma si ripropone nella filosofia delle scienze sociali la venerabile disputa filosofica sugli universali, che, almeno dai tempi di Roscellino e di Guglielmo di Champeaux, ha opposto nominalisti a universalisti, cioe` coloro (i nominalisti) che mettono in guardia dalla reificazione di qualsiasi entita` non individuale, sostenendo che i generi, le specie, e piu` in generale i nomi collettivi, sono pura nomina, soltanto stenogrammi per indicare insiemi di individui e di azioni individuali, e coloro (i realisti) i quali ritengono invece che tali concetti corrispondono a realta` effettivamente esistenti, che possono essere trattate come cose, dotate di sostanza propria. Cosı`, per esempio, esisterebbe l’umanita`, intesa non come somma di tutti gli individui, ma come sostanza che li precede e li accomuna: si e` uomini solo perche´ si incarna questa qualita`, e le differenze tra individui e individui sono puramente accidentali. «L’uomo propriamente detto, ha scritto Comte, non esiste, non puo` esistere che l’Umanita`», perche´ i singoli sono come «diversi 1 organi di un solo Grande Essere» . La «scomposizione» dell’umanita` in individui sarebbe pertanto una «analisi anarchica, tanto irrazionale quanto immorale»2. Questa reificazione della Societa` in nome di un principio olistico-organicistico, che tende chiaramente ad assimilare la societa` al corpo umano, era stata espressa con chiarezza gia` da Aristotele nella Politica, quando scriveva che «una citta` e` per natura anteriore a una famiglia e a ciascuno di noi. Il tutto, infatti, e` necessariamente anteriore alla parte». 1
A. Comte, Syste`me de politique positive, Anthropos, Paris, 1851, vol. , p. 363. 2 Ivi, vol. , p. 234.
Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis”
Ai collettivisti-realisti che considerano come cose la societa` o altre entita` diverse dagli individui, si oppongono gli individualistinominalisti, per i quali i concetti collettivi (Kollectivesbegriffe) non vanno ipostatizzati e le uniche entita` effettivamente esistenti sono solo gli individui, perche´ solo essi sono in grado di agire, di pensare, di provare sentimenti, di compiere delle scelte. Come ha esemplificato Mises, nessuno puo` «percepire una na3 zione senza percepirne i suoi membri» . E` una illusione, quella degli olisti, pensare di poter conoscere gli interi in nome del primato del “tutto” sulla “parte”. USO E ABUSO DEI CONCETTI COLLETTIVI Gli individualisti non intendono mettere all’indice i concetti collettivi, perche´, piu` che utili, essi sono indispensabili per comunicare in modo sintetico una grande quantita` di informazioni. Se dico “partito”, con questo semplice termine voglio intendere un gruppo di individui che si riconosce in certe idee, che si e` organizzato in un certo modo, che ha una sua leadership, che quasi sicuramente partecipa alle elezioni, che quindi organizza campagne elettorali, che diffonde la sua ideologia e il suo programma, e cosı` via. Tutto questo, e altro ancora, in sole cinque lettere. Per non parlare di “capitalismo”, “mercato”, “stato”, ecc. La rinuncia a questi concetti, piu` che rendere difficile, impedirebbe la comunicazione. Quello che sta a cuore agli individualisti e` di mettere in guardia da un realismo ingenuo, che induce a confondere i modelli con la realta`, i concetti collettivi con entita` reali, vedendo in essi qualcosa di piu` e di diverso dagli individui (dalle loro azioni e dalle conseguenze di tali azioni) che li compongono. Non bisogna mai dimenticare che i concetti collettivi solo soltanto espressioni sintetiche per riassumere insiemi formati da individui; non puo` esistere uno Stato senza quei cittadini che, con varie funzioni, lo compongono. E per gli individualisti neanche la societa` esiste di per se´, essa, come ha scritto G. Simmel, e` «una astrazione indispensabile per ragioni pratiche», ma «non e` altro che il nome dato a un insieme di individui, legati tra di loro da relazioni reciproche e che per questa ragione possono essere considerati come costituenti una unita`»4.
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L. von Mises, L’azione umana (1949), tr. it., UTET, Torino, 1959, p. 41. G. Simmel, I problemi fondamentali della sociologia (1910), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1983, p. 46. 4
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Gli individualisti nominalisti
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Il mestiere dello scienziato sociale
Le azioni come effetti
Le azioni come cause
Questi impegni ontologici, piu` o meno esplicitati, finiscono per ipotecare le scelte metodologiche riguardo l’oggetto e il metodo delle scienze sociali. Se esistono veramente entita` collettive distinte dagli individui, allora il compito dello scienziato sociale sara` quello di indagare tali identita` e le loro dinamiche, considerandole come cause dei fenomeni sociali e anche delle azioni individuali. Se, come afferma il filosofo marxista e strutturalista L. Althusser, «gli individui sono soltanto gli effetti della struttu5 ra», cioe` «il supporto dei rapporti di produzione» , non avra` alcun senso considerare le azioni individuali come cause dei fenomeni sociali; esse dovranno essere invece considerate come effetti delle forme di produzione. Al contrario, se esistono solo individui, perche´, come sostiene l’individualista Mises, «e` l’unica cosa di cui possiamo 6 avere diretta conoscenza» , allora tutto cio` che riusciamo a sapere sui fenomeni sociali lo dobbiamo all’indagine delle azioni umane e delle loro interazioni. Cambiando i presupposti ontologici, si rovescia la prospettiva metodologica: le azioni diventano la causa, e non piu` l’effetto, degli eventi sociali. Lo scienziato sociale, come ha sostenuto R. Boudon, deve in questo caso considerare «qualsiasi fenomeno sociale» come «il 7 risultato dell’aggregazione dei comportamenti individuali» . Individualismo metodologico e collettivismo metodologico possono essere considerati delle tradizioni di ricerca, le quali si propongono di risolvere problemi attraverso un insieme di regole metodologiche legate a precise e condizionanti assunzioni ontologiche. Non e` un caso che le critiche che vicendevolmente si sono scambiati gli esponenti delle due tradizioni si sono appuntate principalmente proprio sui differenti presupposti ontologici.
3. Dal collettivismo all’olismo Le entita` collettive
Un qualsiasi evento sociale puo` essere spiegato, per i collettivisti, considerandolo come effetto di entita` o strutture che trasformano, in modo piu` o meno deterministico, l’azione 5
L. Althusser, Lire le Capital, Maspero, Paris, 1965, vol. I, p. 164. L. von Mises, L’azione umana, cit., p. 41. 7 R. Boudon, Individualisme me´thodologique, in Encyclopaedia Universalis, Paris, 1984, p. 664. 6
Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis”
umana in un loro prodotto funzionale. Queste entita` extraindividuali che determinano i fenomeni sociali e che di fatto azzerano l’intenzionalita` soggettiva sono differenti a seconda degli autori. Per Marx, e ancor di piu` per Althusser, sono i «rapporti di produzione» economica a determinare l’«essere sociale» e quindi la «coscienza individuale», e non il contrario. Per Foucault l’uomo e` una fugace manifestazione, prossima alla fine, di profonde «strutture epistemiche», oggettivate e sottostanti al sapere, che scandiscono l’evoluzione della storia umana. Per l’antropologo Le´vi-Strauss «il fine ultimo delle scienze dell’uomo non consiste nel costituire l’uomo ma nel dissolverlo»; e l’apparente caos delle relazioni tra i membri di una comunita` dipende dalla «struttura elementare della parentela». Per S. Freud, e ancor di piu` per J. Lacan, l’individuo e` “agito” dal suo inconscio profondo (l’“Es”), che ne determina il comportamento. Per N. Luhmann, la teoria sistemica non va intesa come un mero «metodo di analisi», perche´ «il concetto 8 di sistema denota qualcosa che e` realmente un sistema» . Per il sociologo P. Bourdieu, i comportamenti degli individui sono il riflesso del loro habitus, cioe` di norme e di ruoli derivanti dalla loro posizione sociale, per cui «cio` che esiste nel mondo sociale sono delle relazioni – non delle interazioni o dei legami intersoggettivi tra gli agenti – ma delle relazioni oggettive che esistono “indipendentemente dalle coscienze e dalle volonta` 9 individuali”, come diceva Marx» . “Rapporti di produzione”, “strutture epistemiche”, “strutture elementari della parentela”, “inconscio”, “habitus”, sono solo alcune delle strutture a cui i collettivisti conferiscono potere esplicativo e la cui reale esistenza, a loro avviso, introduce un determinismo piu` o meno vasto e piu` o meno accentuato nell’ordine sociale. Questa indagine sulle entita` collettive spesso e` stata connotata – si pensi agli strutturalisti francesi – da forti accenti filosofici e, in alcuni autori, e` il caso, ad esempio, di Althusser, Foucault, Adorno, anche da marcate inclinazioni ideologiche. La spiegazione collettivistica ha subito cosı` uno slittamento verso la filosofia e l’ideologia, trasformandosi nella ricerca di 8 N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (1980), tr. it., il Mulino, Bologna, 1990, pp. 80 e ss. 9 P. Bourdieu, Re´ponses, Seuil, Paris, 1992, p. 72.
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Le strutture nascoste
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Il mestiere dello scienziato sociale
La “sociologia critica”
meccanismi nascosti, profondi, spesso di oppressione occulta dei singoli, che il filosofo-scienziato sociale deve svelare per contribuire a liberare gli individui da forme di costrizione di cui quasi sempre questi ultimi non hanno consapevolezza. Anche sulla spinta di questa prospettiva filosofico-ideologica, oltre che sulla scia dei grandi successi della linguistica strutturale, l’indagine collettivistica ha assunto una connotazione marcatamente olistica: solo considerando la societa` nella sua totalita` si possono comprendere i fenomeni sociali e le azioni individuali, scoprendo i meccanismi nascosti da cui gli uni e le altre sono prodotti. Una siffatta impostazione la si ritrova nitidamente, tra gli altri, nel filosofo e sociologo francofortese Th. W. Adorno, per il quale il filosofo-sociologo deve necessariamente optare per un atteggiamento critico, al fine di svelare i rapporti di dominio che connotano la societa` moderna. Ma il metodo “critico” e “dialettico”, indispensabile per svelare le contraddizioni sociali, puo` funzionare solo se si adotta una prospettiva olistica, concependo la societa` capitalistica come un “tutto sostanziale”, poiche´ e` impossibile isolare alcune delle sue relazioni sociali: «senza l’anticipazione del momento strutturale, del tutto, che non si lascia mai tradurre in osservazioni particolari adeguate, nessuna singola osservazione potrebbe trovare il 10 suo giusto posto e il suo valore» .
4. La logica della spiegazione collettivistica Il metodo di Durkheim
Con Weber e Durkheim la sociologia, intesa come moderna scienza sociale, riceve una doppia fondazione metodologica. E se, limitatamente alla natura epistemologica della spiegazione, il metodo comprendente weberiano, pur non coincidendo, non e` cosı` alternativo al metodo positivistico durkheimiano, in quanto anch’esso basato sul principio di causalita`, la stessa cosa non si puo` dire per la natura delle cause dei fenomeni sociali proposte dai due autori. A questo riguardo, l’individualismo del sociologo ed epistemologo tedesco e il collettivismo del sociologo ed epistemologo francese rappresentano due prospettive
10 Th. W. Adorno, Sulla logica delle scienze sociali, in AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia (1969), tr. it., Einaudi, Torino, 1972, p. 127.
Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis”
metodologiche radicalmente alternative (soprattutto se si considera il metodo teorizzato piu` che quello praticato da Durkheim). Il positivismo e il collettivismo di Durkheim ha avuto una enorme influenza in tutte le scienze sociali del Novecento, contribuendo in modo decisivo a quell’egemonia (indubbia almeno fino agli anni Settanta) del metodo collettivistico nelle scienze sociali, a cui ha dato il suo apporto significativo anche la filosofia strutturalista. E` bene, dunque, soffermarsi brevemente sulla logica della spiegazione durkheimiana, per comprendere meglio uno dei piu` rilevanti ed influenti esempi di metodologia collettivistica. Innanzitutto Durkheim propone un collettivismo ontologico: la societa` consiste in quei «modi di agire, di pensare e di sentire» che presentano la notevole proprieta` di esistere «al di fuori delle coscienze individuali», e «sono provvisti di un potere di 11 coercizione con il quale riescono a imporsi al singolo» . Essa, dunque, «non e` una semplice somma di individui», ma una «realta` specifica che ha proprie caratteristiche»; e` un «tutto che 12 non puo` venire dagli individui» che ne fanno parte: «non si puo` dedurre la societa` dall’individuo, il tutto dalla parte, il complesso dal semplice. La societa` e` una realta` sui generis», che 13 «ha vita propria» . Non solo, essa plasma i singoli individui: «quasi tutto quello che si trova nelle coscienze individuali viene dalla societa`», la quale fornisce ai singoli una identita` e una tradizione. Solo «sottomettendosi» alla societa`, fruendo della sua «protezione» e della sua «grande potenza intelligente», il singolo si «libera» dalle «forze cieche e inintelligenti» e diventa 14 un essere «rispettabile per eccellenza» . Il sociologo francese «scopre» un nuovo oggetto di indagine, «la societa`», una entita` distinta dagli individui che di volta in volta la compongono, di cui si deve occupare una nuova scienza, la sociologia appunto. Poi Durkheim passa, conseguentemente, dal collettivismo ontologico al collettivismo metodologico: la spiegazione dei fenomeni sociali va cercata «nella natura stessa della societa`», e in E´. Durkheim, Le regole del metodo sociologico (1895), tr. it., Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 25. 12 Ivi, p. 43. 13 ´ E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893), tr. it., Edizioni di Comunita`, Milano, 1971, p. 341. 14 Ivi, p. 342. 11
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Collettivismo ontologico
Collettivismo metodologico
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Il mestiere dello scienziato sociale
La spiegazione dei suicidi proposta da Durkheim
particolare in quei «modi di agire, di pensare e di sentire che presentano la notevole proprieta` di esistere al di fuori delle 15 coscienze individuali» . Le cause di cio` che accade nella societa` vanno pertanto rintracciate «non gia` tra gli stati della coscienza individuale», ma tra i «fatti sociali» antecedenti, rappresentati da «ogni modo di fare piu` o meno fissato capace di esercitare sull’individuo una costrizione esterna» e che e` 16 «indipendente dalle sue manifestazioni individuali» . Le azioni umane sono dunque un mero effetto di questi modi di pensare e di agire (di tipo ideologico, religioso, politico, ecc.) consolidati, che diventano norme collettive, le quali sono «esterne» agli individui, «generali» e «coercitive», cioe` normae agendi, che hanno un potere sanzionatorio nei confronti di chi dovesse trasgredirle. Si capisce dunque perche´, ad avviso di Durkheim, «il postulato antropocentrico […] sbarra il cammino alla scienza»: ponendo al centro dell’indagine l’individuo e le sue azioni si scambierebbe la causa con l’effetto. Con l’indagine sviluppata ne Il suicidio, Durkheim intende proporre una sorta di experimentum crucis per la validita` della sua metodologia: dimostrare che anche la piu` personale delle decisioni, quella di togliersi la vita, e` in ultima istanza l’effetto di cause sociali. E` la perdita del potere normativo (che si puo` verificare nei periodi di grande trasformazione sociale) di quei «fatti sociali» rappresentati dai modi di pensare e di agire che regolano la vita soggettiva a determinare una crisi di identita` del singolo, il quale, non potendo contare sulla «protezione» della societa`, e` di conseguenza esposto a «forze cieche e inintelligenti» e quindi e` indotto a togliersi la vita. Una delle cause prevalenti del suicidio e` dunque l’anomia, la mancanza di norme sociali. Ed e` per questo, secondo Durkheim, che, benche´ la morale cattolica e quella protestante proibiscano severamente il suicidio, i suicidi tra i cattolici, stando ai dati che egli aveva raccolto, sono sensibilmente piu` rari: se confrontati con quelli cattolici, i dogmi protestanti sono meno vincolanti, le norme religiose sono meno penetranti nella vita sociale e individuale, il giudizio e la liberta` personale sono piu` pronunciati, piu` diffuso e` il libero esame. Il protestante, essendo, rispetto ai cattolici, meno socializzato, meno regolato e quindi 15 16
E´. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 31. Ivi, p. 32.
Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis”
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meno protetto dalle norme della sua religione, e` piu` esposto al suicidio nei periodi di grandi cambiamenti. Per Durkheim, dunque, il comportamento di coloro che si suicidano non e` altro che l’effetto di cause sociali; dal suo punto di vista non ha alcun senso indagare le ragioni di chi si toglie la vita (anche se in realta`, egli non riesce a trascurarle completamente), perche´ esse sono il mero prodotto di alcuni «fatti sociali» esterni agli individui.
5. Che cosa non e` l’individualismo metodologico Prima di definire in positivo la natura dell’individualismo metodologico, e` bene sgombrare il campo da una serie di equivoci che ne hanno spesso falsato la comprensione. E` stato un equivoco generato forse per primo da J. S. Mill, che, pur non identificando le scienze sociali con la psicologia, ha ritenuto che il metodo individualistico contemplasse necessariamente una analisi «psicologica» ed «etologica» della personalita` e del «carattere» dell’agente sociale. La psicologia, benche´ utile, non solo non e` essenziale per spiegare l’azione, essa e` anche inservibile – come si vedra` meglio nel nono capitolo – per spiegare quegli importanti fenomeni sociali (della cui rilevanza lo stesso Mill era ben conscio) sorti non intenzionalmente: a nulla servirebbe un’analisi psicologica delle intenzioni quando si deve spiegare eventi prodotti inintenzionalmente. L’individualismo metodologico, benche´ accomunato allo psicologismo dalla radicale critica al collettivismo, se ne distacca su un punto decisivo: insistendo sul fenomeno delle conseguenze inintenzionali, dimostra radicalmente irriducibili la spiegazione di alcuni fondamentali fenomeni sociali a spiegazioni psicologiche. L’individualismo metodologico non e` – come non di rado si e` equivocato – una tesi antropologica, secondo la quale l’uomo e` un soggetto calcolatore mosso da egoismo, ne´ una tesi economica e sociologica, la quale afferma che la libera azione individuale e il perseguimento dell’utilita` soggettiva determinano il maggior benessere collettivo possibile, ne´, ancora, e` una norma etica, che ritiene moralmente elevati i comportamenti che massimizzano
Non e` “psicologismo”
Non e` “egoismo”, ne´ “utilitarismo”
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Il mestiere dello scienziato sociale
l’utilita` soggettiva o collettiva. Esso non va confuso neanche con un generico individualismo filosofico che indaga l’individuo nella sua essenza, ma va inteso come un metodo che consente di spiegare, a condizione di avere le informazioni pertinenti, qualsiasi tipo di comportamento, a prescindere dalle motivazioni (egoistiche o altruistiche che siano) di chi agisce. Non e` “individualismo sociologico”, ne´ “individualismo eticopolitico”
Non e` “riduzionismo”
L’individualismo metodologico si colloca su un piano squisitamente esplicativo e non va pertanto confuso con l’“individualismo sociologico”, che si riferisce a una dimensione descrittiva e neanche con l’“individualismo politico”, che attiene a un livello prescrittivo. Sostenere, come hanno fatto, ad esempio, J. Burckhardt e A. de Tocqueville, che in alcune societa` si andava affermando il valore dell’individualita` e si sviluppava un sempre maggiore grado di autonomia della sfera di azione individuale, significa descrivere un fenomeno sociale e non proporre una tesi di metodo. D’altronde, tale fenomeno cosı` rilevante nelle societa` moderne, e` stato spiegato da individualisti come Burckhardt e Tocqueville e da un collettivista come Durkheim, quando si occupa dell’affermazione della divisione del lavoro sociale. E` stato lo stesso Weber a mettere in guardia da questo equivoco, raccomandando che anche una «economia socialista» (cosa che poi fara`, tra gli altri, Mises) puo` essere spiegata «in termini individualistici». Dal canto suo, l’“individualismo etico-politico”, che e` alla base del liberalismo, e` una proposta etica secondo la quale i fini dell’azione politica debbano essere soltanto gli individui e non entita` non-individuali e afferma con forza che la inviolabile coscienza individuale e` l’unico tribunale per giudicare la moralita` delle norme e dei comportamenti pubblici e privati. Pur avendo in comune la ferma critica a ogni forma di ipostatizzazione di entita` collettive che annullano l’autonomia e la responsabilita` individuale, e cioe` pur presupponendo entrambi l’“individualismo ontologico”, “individualismo metodologico” e “individualismo etico-politico” si muovono su dimensioni epistemologicamente distinte (il primo su quella esplicativa, il secondo su quella normativa), e quindi il primo non implica necessariamente il secondo. Basti pensare a Th. Hobbes, individualista sul piano metodologico, e non certo liberale su quello politico. L’individualismo metodologico non puo` essere identificato
Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis”
con una operazione di riduzione logico-semantica dei concetti collettivi a una pura sommatoria di concetti riferiti a individui. Se ci limitiamo a un uso puramente descrittivo dei concetti collettivi (“popolo”, “partito”, ecc.), tale riduzione, benche´ spesso inutile per le esigenze esplicative, non pone problemi, poiche´ in questo caso i concetti collettivi vengono usati come mera sintesi di aggregati di individui; e tali individui possono essere, almeno in linea di principio, identificati uno per uno. Se invece i cosiddetti concetti “societari” contengono oltre che una descrizione, anche un predicato riferito a un gruppo di individui, la meccanica operazione di riduzione senza residui del predicato riferito al collettivo a una sommatoria di predicati riguardanti qualita` e attitudini di ognuno dei suoi membri non e` possibile. Il predicato riferito al gruppo, in questi casi, non riassume fedelmente le proposizioni attribuite ai singoli membri e non puo` pertanto essere sostituito da una congiunzione finita di predicati che si riferiscono agli individui componenti: se si afferma che un popolo e` piu` ricco di un altro popolo, non si intende che ogni singolo individuo appartenente al primo e` piu` ricco di ogni singolo individuo appartenente al secondo. Alcuni autori, si pensi a M. Mandelbaum, sono arrivati a esiti radicalmente critici nei confronti dell’individualismo metodologico proprio perche´, identificandolo erroneamente con una meccanica procedura di riduzione concettuale del predicato riferito ai collettivi in una somma di predicati riferiti ai singoli, non hanno potuto che constatare che spesso tale operazione e` impossibile. Parimenti, anche coloro che hanno sostenuto che la metodologia individualistica e` inadeguata a dare conto di fenomeni emergenti, hanno presupposto proprio una simile concezione riduzionistica di questo metodo. Solo confondendolo con il “riduzionismo” e l’“atomismo” si puo` rifiutare l’individualismo metodologico sulla base dell’assunzione che, essendo il tutto `e qualcosa di piu` della somma delle parti, i fenomeni macro-sociali non possono essere scomposti nelle loro componenti fondamentali. E` vero che il tessuto di relazioni di cui e` formata la societa` o un’istituzione sociale non si riduce alla mera sommatoria delle sue parti, e che tutto cio` accade perche´ molti fenomeni sociali sono il prodotto di strutture di interazioni particolarmente complesse, difficili da ricostruire e da prevedere. Ma tali interazioni semplicemente non esisterebbero senza le azioni indivi-
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I “fenomeni emergenti”
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duali; e i loro effetti voluti e non voluti sarebbero semplicemente inspiegabili senza il ricorso alla nozioni di “razionalita` soggettiva” e di “conseguenze inintenzionali”, che contrassegnano la spiegazione individualistica. Ne´ puo` essere sostenuta la tesi che i fenomeni sociali, soprattutto quelli macro-sociali, in quanto ordini prodotti inintenzionalmente, una volta sorti diventerebbero entita` a se stanti, semplicemente perche´ sono un esito irreversibile di un numero elevatissimo di azioni e di interazioni soggettive, non di rado impossibile da individuare e ricostruire nelle loro singolarita`. Sarebbe come a dire che, essendo molti i materiali di cui e` stata fatta una casa, quest’ultima possa esistere senza di essi. La contrapposizione tra individualisti e olisti non puo`, pertanto, essere concepita, come e` accaduto soprattutto nel dibattito epistemologico degli anni Cinquanta e Sessanta, come una contrapposizione tra i fautori del riduzionismo e i fautori dell’emergenza, che insistono sulla irriducibilita` relazionale degli eventi sociali ai loro elementi costitutivi. Non e` “atomismo”
L’accusa di “atomismo”, cioe` di concepire gli attori sociali come atomi isolati, senza tener conto delle loro interazioni e in generale dei vincoli culturali e istituzionali presenti nell’ambiente sociale, e` stata forse la critica piu` ricorrente all’individualismo metodologico, una critica sostenuta con vigore da teorici delle interazioni sociali come J. Piaget e P. Bourdieu, e alla quale non sono sfuggiti neanche alcuni dei padri di questa tradizione epistemologica come C. Menger (che ha infelicemente definito la metodologia individualistica «metodo atomistico»), M. Weber e G. Simmel, da parte, rispettivamente, di G. Schmoller, G. Gurvitch e R. Aron. Anche in questo caso siamo di fronte ad un molto evitabile equivoco, che, nella migliore delle ipotesi, nasce da una disputa metodologica piuttosto in debito di conoscenza storica. Basta infatti esaminare alcune delle spiegazioni fornite dagli autori classici dell’individualismo, si pensi a Tocqueville, Burckhardt, Weber, Boudon, per rendersi facilmente conto di come questi storici e sociologi abbiano inserito gli attori sociali in un sistema di interazioni, in una tradizione culturale, e tutto cio` non e` affatto in contrasto con la metodologia individualistica. Quando Tocqueville indaga le cause del crollo dell’Ancien Re´gime e afferma che, a un certo punto, il miglioramento delle condizioni di vita fu uno dei
Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis”
fattori scatenanti la Rivoluzione, egli ricostruisce le ragioni che i rivoluzionari avevano per insorgere in riferimento alle condizioni sociali, economiche, in cui viveva il popolo nell’Ancien Re´gime; ricostruisce come venivano percepiti dai ceti meno abbienti i privilegi dei nobili e il potere monarchico e sottopone a un minuzioso esame le relazioni sociali che intercorrevano tra i vari ceti. Solo dopo aver ricostruito in dettaglio come i rivoluzionari percepivano quest’insieme di elementi, Tocqueville arriva a spiegare come sia stato proprio il miglioramento delle condizioni di vita a favorire la convinzione che le condizioni di poverta` in cui versava larga parte del popolo, i privilegi dei nobili che molti ritenevano odiosi e insopportabili e piu` in generale il regime che veniva ritenuto responsabile di quella situazione, fossero non eterni, non immodificabili, e che quindi con un rovesciamento dell’ordine esistente potevano essere rimosse le cause dell’oppressione e dell’indigenza di larghi strati della popolazione. L’individualismo metodologico, dunque, non e` incompatibile ne´ con la constatazione che, per dirla con Weber, il significato dell’azione e` «codeterminato» dall’interazione con altri individui, ne´ con l’ammissione che l’attore subisce condizionamenti sociali di vario genere; esso e` invece la piu` idonea procedura esplicativa per indagare questi vincoli situazionali. Il sistema di interazione in cui agisce l’attore sociale, le regole di comportamento che spontaneamente si affermano in un certo ambiente sociale, quell’insieme di idee e di soluzioni a problemi che e` la tradizione culturale, infatti, non esercitano sul singolo individuo un condizionamento per cosı` dire standard, ma influenzano in modo diverso ogni singola azione, a seconda di come questi elementi vengono percepiti dal singolo individuo, nella situazione in cui si trova ad agire. Come ha osservato Weber, uno Stato esiste e «orienta» l’agire individuale solo grazie alla «rappresentazione» che di esso hanno di volta in volta gli individui. E uno dei compiti dell’individualista metodologico, come si vedra` nel prossimo capitolo, e` proprio quello di spiegare l’azione formulando delle ipotesi su come il singolo percepiva la situazione, individuando quelle eventuali defaillances di tale percezione che non consentono all’attore di centrare i suoi obiettivi. «Le societa`, ha scritto uno dei piu` accreditati individualisti metodologici contemporanei, come R. Boudon, devono essere
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Weber e il significato dell’azione
Non e` incompatibile con l’“analisi strutturale” e con l’“analisi funzionale”
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Il mestiere dello scienziato sociale
Individualismo e funzionalismo
17 considerate come grovigli complessi di sistemi di interazioni» , senza la cui ricostruzione non e` possibile spiegare ne´ l’azione individuale, ne´ la genesi e il mutamento deli eventi macrosociali. La nozione di “sistema” (“sistema economico”, “sistema sociale”) fa parte, dunque, della cassetta degli attrezzi dell’individualista metodologico. Egli la usa non solo per descrivere selettivamente i contorni di un determinato fenomeno, ma anche per dimostrare che alcune azioni e fenomeni sociali possono essere considerati, secondo la definizione di J. Piaget, come «insiemi non aleatori di elementi». In questi casi lo scienziato sociale procede a una “analisi strutturale”, considerando come “sistema” un certo ambito di relazioni intersoggettive e, se necessario, a una “analisi funzionale”, ricostruendo i ruoli, e quindi le aspettative e tutto cio` che e` a essi connesso, degli individui interessati. Si pensi alle spiegazioni dei comportamenti nell’ambito delle organizzazioni, che devono necessariamente ricostruire il tessuto di interazioni nel quale si sviluppano, nonche´ i ruoli e le funzioni che formalmente e di fatto vengono espletati. L’individualismo metodologico non solo non e` incompatibile, ma, per determinati oggetti di indagine, presuppone sia l’“analisi strutturale”, sia l’“analisi funzionale”, al fine di ricostruire quell’ambiente di relazioni nell’ambito del quale si sviluppano le strategie di azioni individuali e gli effetti prodotti dalla loro aggregazione. E` quello che fece, ad esempio, Boudon nel suo celebre studio su Istruzione e mobilita` sociale, allorche´ esamino` gli effetti non intenzionali prodotti dall’aggregazione delle singole scelte in materia di istruzione. L’incompatibilita` con l’individualismo metodologico scatta, invece, quando si passa dall’“analisi strutturale” o “sistemica” allo “strutturalismo” e dall’“analisi funzionale” al “funzionalismo”, quando, cioe`, all’idea che l’azione soggettiva e` condizionata dall’interazione con i comportamenti di altri individui, si sostituisce l’assunto che essa sia determinata da strutture, da esigenze funzionali, che annullano l’autonomia e l’intenzionalita` dell’attore sociale. In questo caso le azioni non sono piu` la causa, ma diventano l’effetto di norme culturali, di sistemi di interazioni che esistono, come si e` visto con il Marx evocato da Bourdieu,
17 R. Boudon, La logica del sociale (1979), tr. it., Mondadori, Milano, 1980, p. 76.
Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis”
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«indipendentemente dalle coscienze e dalle volonta` individuali». L’individualismo metodologico si definisce, quindi, come un tertium genus tra l’“atomismo” e quello che anche un teorico dell’“analisi strutturale” come J. Piaget, ha definito (criticandolo) «realismo totalitario», cioe` la reificazione di entita` diverse dalle azioni individuali e dai loro effetti. Non sono mancati neanche coloro i quali, pur non disconoscendone la legittimita` epistemologica, hanno pero` negato l’universalita` esplicativa all’individualismo metodologico, ritenendolo idoneo a spiegare soltanto i fenomeni micro-sociali. E` il caso, tra gli altri di A. Ryan, il quale arriva a definire quella tra individualisti e collettivisti una «finta battaglia», in quanto, per spiegare fatti macro-sociali che coinvolgono un numero elevatissimo di soggetti, e` impossibile considerare gli «individui concreti», identificabili con un nome e un cognome; in questi casi occorre invece tipizzare gli individui, ma cosı` facendo si ammetterebbe che essi abbiano un comune riferimento culturale e istituzionale, introducendo in questo modo vincoli societari, a suo avviso incompatibili con la metodologia individualistica. Questa tesi non puo` essere accettata, perche´, come si e` visto, individualismo non va confuso con “atomismo”; esso e` tutt’altro che inconciliabile con il dato di fatto che gli individui siano condizionati dall’ambiente culturale, e che quindi possano avere dei tratti (preferenze, ragioni, strategie di azioni, soluzioni a problemi) comuni. In realta`, la metodologia individualistica non e` vittima di se stessa. E` vero che l’individualista metodologico e` obbligato a studiare l’azione dei singoli e le sue conseguenze, ma e` anche vero che quando si indagano fenomeni macro (una guerra, una rivoluzione, la nascita del capitalismo, ma anche l’inflazione, il fallimento di una riforma scolastica, ecc.), che coinvolgono un numero elevatissimo di attori, egli non e` obbligato a tentare l’impossibile operazione di identificare e studiare uno per uno gli agenti, ma procede, come aveva chiaramente sostenuto Weber, considerando gli individui e le loro azioni «differenziati in modi 18 tipici» . Il ricercatore raggruppa i singoli in categorie omogenee, ipotizzando una comune strategia decisionale e una comune logica di azione. Lo scienziato sociale in questi casi 18
M. Weber, Economia e societa` (1922), tr. it., Edizioni di Comunita`, Milano, 1974, vol. I, p. 16.
Non e` un metodo per spiegare soltanto i fenomeni micro-sociali
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Il mestiere dello scienziato sociale
costruisce un modello di attore e un modello di situazione, i quali saranno tanto piu` utili quanto piu` sono in grado di “riassumere” i comportamenti di quella categoria di individui concreti e di situazioni concrete di cui in qualche modo sono “rappresentanti”. E` quello che quotidianamente fa l’economista, quando costruisce un “attore-tipo” di “consumatore” o di “imprenditore”; e` quello che fanno il sociologo e il politologo, quando, impossibilitati a considerare tutti i singoli elettori di un partito, elaborano il modello di “elettore-tipo” associato a una “situazione-tipo”; e` quello che ha fatto Weber quando ha delineato un idealtipo di imprenditore calvinista. “L’ABBAGLIO DELLA CONCRETEZZA FUORI LUOGO” L’impiego di modelli idealtipici anche per la individuazione degli attori contribuisce a rafforzare quel carattere “formale” che per Simmel e` uno dei tratti peculiari delle scienze sociali. Questa e` una ragione in piu` per evitare quello che A. N. Whitehead ha definito «l’abbaglio della concretezza fuori luogo» e R. Boudon la «trappola del realismo», cioe` di scambiare i modelli per la realta`. Non solo le ipotesi di spiegazioni e la base empirica, ma la stessa identificazione degli attori sono costruzioni teoriche, e, in quanto tali, smentibili. Questo “primato del teorico”, al di la` della solo apparente contraddizione, e` l’unica via per caricare di empiria le scienze sociali, per ancorarle a dati reali e controllabili, quali le azioni umane. In questo modo si evita, da un lato, l’impossibile tentativo positivistico di descrivere la realta` cosı` come essa e`, senza inquinarla con le nostre teorie; dall’altro, il ricorso a entita` e ipotesi metafisiche incontrollabili, o anche a una concezione per cosı` dire “farisaica” delle relazioni sociali, supponendo che esse siano governate da dinamiche occulte. Un’interpretazione, questa, per molti intellettuali allettante, perche´ finisce per conferire loro uno status di maitre a` penser, ma che si rivela epistemologicamente indifendibile.
6. L’individualismo metodologico come logica della spiegazione L’individualismo metodologico e` di universale applicazione
Dopo aver sgombrato il campo da questi ricorrenti equivoci, evidenziando preliminarmente cio` che l’individualismo metodologico non `e, risulta molto piu` agevole definire la sua peculiare identita`. La soluzione piu` convincente e` quella di considerarlo
Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis”
una logica della spiegazione, un procedura esplicativa, legata, come si e` visto, ad alcuni precisi impegni ontologici, la quale propone di spiegare gli eventi sociali partendo dalle azioni degli individui. Una logica della spiegazione che, al di la` della diffusione che storicamente ha avuto nelle singole scienze sociali (generalizzata in economia, in sensibile crescita in sociologia, piuttosto limitata in antropologia), e` di universale applicazione, poiche´ non vi e` alcun legame necessario tra il tipo di metodo da un lato e le dimensioni del fenomeno indagato (micro o macrosociale) o le caratteristiche sociologiche (grado di autonomia e di estensione della sfera di iniziativa individuale) dell’ambiente sociale nell’ambito del quale si producono i fenomeni oggetto di indagine dall’altro. Esaminata nel dettaglio, la spiegazione individualistica viene a coincidere con la ricostruzione della catena causale ragioniazioni-fenomeno sociale. Il ricercatore deve sostanzialmente rispondere a tre domande: 1. Chi sono gli individui, le cui azioni hanno generato il fenomeno in esame?; 2. Perche´ tali individui hanno agito cosı`-e-non-altrimenti?; 3. Come si passa dal livello micro a quello macro-sociale, cioe` in che modo l’aggregazione delle singole azioni ha generato, (intenzionalmente e/o inintenzionalmente) il fenomeno sociale? Si tratta, naturalmente, di tre quesiti isolabili solo concettualmente, e a cui puo` essere data risposta seguendo un ordine, a seconda dei casi, diverso. Tuttavia, essi identificano due ben precise spiegazioni causali: la prima ricollega l’azione alle ragioni di cui e` l’effetto; la seconda riconduce il fenomeno sociale alle azioni di cui, intenzionalmente o inintenzionalmente, e` conseguenza. Se i teorici del modello di scelta razionale (Rational Choice Model), quali ad esempio J. Coleman e G. Becker, nonche´ lo stesso J. Elster, con la loro teoria delle scelte hanno evidenziato quanto sia decisiva la spiegazione dell’azione umana, e se un altro individualista come Hayek ha invece posto l’accento soprattutto sull’irrinunciabilita` della categoria delle conseguenze inintenzionali, nella sua piu` compiuta accezione l’individualismo metodologico va inteso come una logica della spiegazione nell’ambito della quale la spiegazione dell’azione e la “spiegazione a mano invisibile” (invisible hand explanation) dei fenomeni sociali sorti non intenzionalmente, costituiscono due momenti distinti e ugualmente essenziali. Dipendera` poi dalla natura dell’oggetto di indagine e dalle finalita` della spiegazione la definizione
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Le tre domande a cui deve rispondere lo scienziato sociale
Razionalita` dell’azione e conseguenze inintenzionali
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Il mestiere dello scienziato sociale
del peso specifico che, di volta in volta, assumera` ognuna delle due fasi della spiegazione. Le nozioni di teoria della razionalita` e, piu` in generale, di analisi situazionale, indispensabili per spiegare l’azione, e quella delle conseguenze inintenzionali, indispensabile per spiegare gli esiti non voluti delle azioni, rappresentano, pertanto, i due pilastri teorici della metodologia individualistica.
Bibliografia ragionata Il volume di D. Antiseri e L. Pellicani, L’individualismo metodologico. Una polemica sul mestiere dello scienziato sociale, FrancoAngeli, Milano, 1992, offre un serrato confronto tra le ragioni dell’individualista e quelle del collettivista, e rappresenta un buon punto di partenza per approfondire i termini di questa contrapposizione. Mentre i saggi di M. Bunge, Finding Philosophy in Social Science, Yale University Press, New Haven and London, 1994, di B. Valade, De l’explication dans le sciences sociales, in J.-M. Berthelot (sous la direction de), Epistemologie des sciences sociales, PUF, Paris, 2001 e di D. Sparti, Epistemologia delle scienze sociali, il Mulino, Bologna, 2002, offrono una trattazione dei principali paradigmi metodologici nelle scienze sociali contemporanee. Un’utile antologia dei testi degli autori classici, che ben rappresentano le varie tradizioni metodologiche nelle scienze sociali, e` proposta da J.-M. Berthelot, Sociologie. Epistemologie d’une discipline, de Boeck, Bruxelles, 2000; dello stesso autore si veda anche Les virus de l’incertitude, PUF, Paris, 1996. Per quel che riguarda i contributi che tracciano una panoramica storica e teorica dell’individualismo metodologico, vanno segnalati: A. Schatz, L’individualisme ´economique et social, Colin, Paris, 1907, che fornisce una preziosa ricostruzione, da Hobbes fino Pareto, dell’individualismo, nelle sue varie declinazioni; e i piu` recenti volumi di A. Laurent, L’individualisme me´thodologique, PUF, Paris, 1994 e L. Udehn, Methodological Individualism. Background, History and Meaning, Routledge, London, 2001. Tra le opere di carattere generale sull’individualismo metodologico, in riferimento alle singole scienze sociali, si segnalano: per la sociologia, R. Boudon, F. Bourricaud, Dizionario critico di sociologia (1982), trad. it., Armando, Roma, 1991 e R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico (1965), tr. it., Mondadori, Milano, 1972; per l’econo-
Individualismo/collettivismo: la “disputatio perennis”
mia, D. Antiseri (a cura di), Epistemologia dell’economia nel “marginalismo” austriaco, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, che rappresenta una sistematica trattazione del pensiero dei piu` rilevanti esponenti della Scuola austriaca, corredata da una selezione dei loro principali scritti metodologici; per la scienza politica, R. Rezsohazy, Pour comprendre l’action et le changement politique, Duculot, Lovanio, 1996 e R. De Mucci, Micropolitica. Verso una teoria individualistica dell’azione politica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999. Sulle differenti interpretazioni che sono state date della metodologia individualistica, si veda M. Borlandi, Problemi dell’individualismo metodologico, in M. Borlandi, L. Sciolla (a cura di), La spiegazione sociologica. Metodi, tendenze, problemi, il Mulino, Bologna, 2005. In riferimento alla tradizione collettivista, il volume di R. Boudon, Strutturalismo e scienze umane (1968), tr. it., Einaudi, Torino, 1970, e` ancora oggi una delle piu` penetranti critiche epistemologiche e semantiche alla nozione di struttura. Il noto saggio di J. Piaget, Lo strutturalismo (1968), tr. it., Il Saggiatore, Milano, 1968, offre un quadro completo delle potenzialita` euristiche dell’analisi strutturale nelle scienze naturali e in quelle umane e sociali. Una sistematica ricostruzione storica della tradizione strutturalista e` contenuta nei due volumi della Histoire du structuralisme di F. Dosse, La De´couverte, Paris, 1991-92.
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Capitolo ottavo L’azione umana ha le sue ragioni
1. Verso un modello di razionalita` MisesPopper-Boudon? Croce e delizia degli scienziati sociali, la teoria della razionale ha rappresentato il terreno su cui gli stessi individualisti si sono maggiormente divisi. Pur concordando sul fatto che l’azione umana non puo` essere spiegata senza una teoria della razionalita` che ne individui alcune caratteristiche ricorrenti, se non invarianti, epistemologi e scienziati sociali si sono scontrati proprio su alcune delle questioni piu` importanti, quali, ad esempio: l’azione umana e` sempre razionale o invece in alcuni casi l’attore si comporta irrazionalmente? E come, eventualmente, stabilire il confine tra azioni razionali e azioni irrazionali? E, inoltre, puo` essere considerata razionale anche un’azione ispirata da credenze palesemente false e infondate? O ancora: il modello di homo oeconomicus e` di applicazione generalizzata anche nelle altre scienze sociali, oltre che in economia, ovvero esso si rivela impotente per dare conto di alcuni fenomeni sociali? Quella di razionalita` e` una nozione che attiene solamente a una dimensione esplicativa, utile cioe` a spiegare l’azione, o invece essa presenta anche una intrinseca dimensione normativa, che rende quindi inevitabile valutare l’azione? Di questa intensa disputa sulla nozione di razionalita`, la quale e` stata notevolmente arricchita dal dibattito sull’action theory sviluppatosi nell’ambito della filosofia analitica, non e` possibile dare conto in questa sede. Quello che si intende fare, invece, e` di proporre un modello di spiegazione dell’azione umana nel quale vengono concepiti come complementari alcune delle principali prospettive avanzate per la spiegazione dell’azione, e segnatamente: i) la prospettiva aprioristica sostenuta da L. von Mises; ii) la logica della situazione messa a punto da K. R. Popper; iii) la razionalita` delle “buone ragioni” elaborata da R. Boudon. Si potrebbe quasi parlare di un modello Mises-PopperBoudon, nell’ambito del quale la prasseologia misesiana e la nozione di “razionalita` cognitiva” boudoniana conferiscono,
La disputa sulla razionalita` dell’azione
Mises, Popper, Boudon
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Il mestiere dello scienziato sociale
rispettivamente, la base logica e il contenuto sociologico alla “comprensione oggettiva” dell’azione suggerita da Popper.
2. L’azione umana e` sempre intenzionale, razionale ed “economica” Gli attributi dell’azione
I “postulati” della prasseologia
Forse unica nel sue genere, la teoria della prasseologia proposta da Mises intende individuare le caratteristiche necessarie e permanenti dell’azione umana. Essa e` una dottrina interamente a priori, la quale intende delineare non la forma e il contenuto contingente dell’azione, bensı` quei caratteri connaturati all’idea stessa di azione, i quali possono essere individuati non attraverso una indagine empirica, bensı` attraverso un’analisi puramente concettuale della nozione di azione. Mises tenta di rintracciare gli attributi dell’azione derivati dalla ragione e non dall’esperienza, che sono pertanto anteriori a qualsiasi istanza fattuale e sono veri ex definitione; essi sono necessariamente presenti in ogni azione istanziata, perche´ sarebbe impossibile pensare a una azione priva di questi connotati senza cadere in contraddizione. Si tratta, quindi, di verita` di ragione e non di verita` di fatto, le quali, per Mises, non differiscono in nulla da quelle 1 della logica e della matematica . Il presupposto che regge l’intera riflessione misesiana e` di tipo filosofico: “esistono solo individui”; e ogni singolo individuo presenta alcune intrinseche caratteristiche: a) essendo homo sapiens, e` necessariamente homo agens (la condizione di permanente non-azione e` una condizione nonumana); b) agisce per rimuovere una “insoddisfazione”, cioe` per risolvere un problema nel quale si e` imbattuto (la condizione di permanente soddisfazione e` una condizione non-umana); c) il mezzo attraverso cui l’homo agens rimuove la propria insoddisfazione e` l’azione;
1 L. von Mises, L’azione umana (1949), tr. it., UTET, Torino, 1959, pp. 30 e ss. e, sempre di Mises, Il compito e il campo della scienza dell’azione umana, in Id., Problemi epistemologici dell’economia (1976), tr. it., Armando, Roma, 1988, pp. 48 e ss.
L’azione umana ha le sue ragioni
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d) ogni individuo tende a eliminare uno stato di insoddisfazione nel modo che, in quella circostanza di azione, ritiene migliore; e) quando sceglie la migliore soluzione, l’attore seleziona sempre i mezzi che considera piu` efficaci e convenienti allo scopo; f) essendo costitutivamente orientata alla rimozione di una insoddisfazione, l’azione ha una intrinseca natura teleologica, e` cioe` orientata al conseguimento di uno scopo. Partendo da questi “postulati” della prasseologia e` possibile derivare, per via puramente deduttiva, alcune caratteristiche intrinseche dell’azione umana: a) se esistono solo individui e se l’homo sapiens e` necessariamente homo agens, allora l’oggetto di studio delle scienze sociali e` rappresentato dalle azioni umane e dalle conseguenze (intenzionali e inintenzionali) da esse prodotte; b) se l’uomo non puo` non essere homo agens e se quest’ultimo agisce perche´ insoddisfatto, allora ogni individuo e` necessariamente non onnipotente e quindi fallibile. La razionalita` umana, e quindi anche quella dell’attore sociale, e` per definizione una razionalita` limitata. Il singolo, pertanto, non puo` aspirare a strategie oggettivamente ottimali, ma soltanto a linee di azione soggettivamente soddisfacenti; c) se l’azione e` sempre orientata a rimuovere una insoddisfazione, allora essa e` sempre problem-oriented e quindi necessariamente intenzionale, intenzionalmente orientata a far fronte alla situazione di incertezza da cui ha tratto origine; d) se ogni attore tende a superare uno stato di insoddisfazione in quello che, in quella situazione e`, a suo avviso il migliore dei modi, allora l’azione sara`, oltre che intenzionale, anche 2 «per definizione sempre razionale» dalla prospettiva di chi agisce: un individuo non puo` essere in contrasto con se stesso, cioe` agire consapevolmente contro quelle che, in quel momento, sono le sue migliori ragioni; e) se un individuo agisce al meglio delle sue possibilita`, selezionando i mezzi che giudica piu` efficaci e convenienti allo 2
L. von Mises, L’azione umana, cit., p. 19.
Le conseguenze metodologiche dei “postulati” della prasseologia
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Il mestiere dello scienziato sociale
scopo, allora l’azione, oltre che intenzionale e razionale, sara` anche sempre, genericamente, «economica», poiche` l’attore non puo` non fare un calcolo, lato sensu, costi/benefici, per selezionare i mezzi. L’azione e` sempre un tentativo di economizzare i mezzi disponibili per conseguire i fini prescelti. Quando poi siffatto calcolo (come e` il caso dell’imprenditore o del consumatore) e` traducibile in moneta, e` cioe` quantificabile, ci troviamo di fronte ad azioni «puramente economiche», oggetto di studio dell’economia; f) se l’azione e` sempre orientata a uno scopo, se dunque essa e` un mezzo posto in atto in vista del conseguimento di un fine, allora il suo orientamento teleologico si basa sul principio di causalita`. Scegliere un mezzo in vista di un fine significa porre una causa in vista dei suoi effetti attesi, i quali possono essere previsti soltanto grazie a un “sapere nomologico”. Tutte le volte che agiamo facciamo in qualche modo “scienza tecnologica”, formuliamo delle previsioni in base alle nostre “regole di esperienza”, e, se riteniamo desiderabili gli effetti delle nostre azioni che siamo in grado di prevedere, non esitiamo ad agire, cioe` a porre con la nostra azione delle condizioni che – ceteris paribus – riteniamo possano produrre le conseguenze sperate. La relazione mezzi/fini presuppone quella causa/effetto; non ci puo` essere teleologia senza causalita`.
3. Prasseologia e spiegazione dell’azione Dalla prasseologia all’“analisi situazionale”
L’azione umana, dunque, e` ex definitione intenzionale, razionale, “economica” e teleologicamente e casualmente orientata. Lungi dall’essere sterile per la spiegazione dell’azione, la soluzione aprioristica misesiana fornisce allo scienziato sociale delle informazioni imprescindibili. Tali caratteristiche necessarie e permanenti dell’azione si trasformano, infatti, in preziosissimi dati per spiegarla in relazione alla situazione nella quale si e` sviluppata. a) Se l’azione e` sempre intenzionalmente orientata alla rimozione di una insoddisfazione, allora lo scienziato sociale deve ricostruire come l’attore percepiva tale insoddisfazione, deve cioe` formulare delle ipotesi su come il singolo interpretava la situazione di incertezza nella quale ha inciampato;
L’azione umana ha le sue ragioni
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b) se l’azione e` sempre razionale, allora lo scienziato sa che dietro ogni azione c’e` sempre un calcolo razionale (espresso o inespresso) che deve ricostruire congetturalmente se vuole spiegare l’azione. E cio` e` possibile solo indagando la situazione nella quale e` maturata l’azione e cercando di capire come questa era percepita da chi agiva; c) se l’azione e` sempre lato sensu “economica”, allora nell’ambito di siffatto calcolo razionale c’e` anche un calcolo costi/benefici, una valutazione comparativa dell’efficacia e del “costo” delle diverse alternative di azione di fronte alle quali si e` trovato l’attore, che non puo` essere trascurata dal ricercatore; d) se l’attore sceglie i fini in base alla sua saggezza assiologica e i mezzi (cioe` l’azione) in base alla sua sapienza nomica, allora il ricercatore, quando ricostruisce come l’attore percepiva la situazione, deve individuare quella “conoscenza nomologica” che il singolo ha mobilitato nel momento in cui ha scelto la propria strategia di azione.
4. Spiegare l’azione: risolvere un “meta-problema” L’analisi puramente concettuale della nozione stessa di azione fornisce al ricercatore un decisivo orientamento alla ricerca: se ogni azione presenta delle caratteristiche invariabili, lo scienziato sociale non cerca a caso, ma deve andare a caccia di tutte quelle informazioni pertinenti per rispondere ad alcune essenziali e precise domande, le quali puntualmente e invariabilmente gli si ripresentano tutte le volte che e` al cospetto di un’azione umana. La prasseologia di Mises conferisce, quindi, una imprescindibile e solida base logica all’“analisi situazionale” popperiana, alla quale lo stesso Popper non era riuscito a offrire una convincente giustificazione con il suo tentativo di definire lo statuto epistemologico del “principio di razionalita`”. Per Popper un’azione puo` essere spiegata solo in riferimento alle circostanze, alla situazione da cui ha tratto origine. Se l’azione umana e` un tentativo di risolvere un problema, di far fronte a una situazione problematica che si e` prodotta nell’ambito dell’orizzonte culturale dell’agente, allora il ricercatore deve far fronte a un doppio livello problematico: il suo pro-
Mises e Popper
L’azione e` un tentativo di risolvere un problema
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Il mestiere dello scienziato sociale
L’empatia e` irrilevante
blema e` quello di spiegare quel problema chiamato azione. Egli deve quindi porsi un problema «a un piu` alto livello»3, deve formulare una metacongettura sulla congettura situazionale formulata dall’attore al momento dell’azione, proponendo una ricostruzione idealizzata della situazione e ipotizzando che l’azione sia «adeguata alla situazione come egli la vedeva»4. Dopo aver ricostruito come l’attore percepiva la situazione, il ricercatore deve formulare una seconda congettura, su come “oggettivamente” era la situazione dal suo punto di vista, ipotesi, questa, indispensabile per evidenziare quelle deficienze di strategia nel caso in cui l’azione fallisca (in tutto o in parte) il suo obiettivo. E` infine importante far rilevare che, se e` vero che un problema puo` sorgere soltanto nell’ambito di un certo ambiente culturale e se e` vero anche che l’azione e` necessariamente un atto theory laden (essendo un’ipotesi per fuoriuscire da una situazione di incertezza che viene messa a prova, con esito incerto, sulla situazione problematica), allora nella spiegazione del comportamento umano diventa irrilevante il procedimento empatico e decisivo invece il momento del controllo empirico. Cosı` come l’azione e` una ipotesi di soluzione di un problema empiricamente controllabile una volta selezionati gli obiettivi, parimenti la sua spiegazione e` una meta-ipotesi (per risolvere un meta-problema) empiricamente controllabile, che cioe` va mantenuta o abbandonata a seconda della sua compatibilita` con le informazioni relative alla situazione, per come e` stata ricostruita dal ricercatore.
3
K. R. Popper, La teoria del pensiero oggettivo, in Id., Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico (1972), tr. it., Armando, Roma, 1975, p. 226. 4 Ivi, p. 235.
L’azione umana ha le sue ragioni
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CON L’AZIONE SI EVOLVE LA TRADIZIONE CULTURALE Se l’azione non e` altro che un tentativo di soluzione di un problema, essa, al pari di qualsiasi teoria, va considerata come una forma di esplorazione dell’ignoto che si sviluppa dentro una tradizione, nell’ambito della quale maturano problemi e le relative ipotesi di soluzione. Ma, proprio perche´ nasce per forza di cose dentro una tradizione culturale, l’azione rappresenta il principale fattore attraverso il quale quest’ultima si evolve. L’azione, infatti, consiste in una nuova soluzione a vecchi problemi o in una nuova soluzione a nuovi problemi; essa, cioe`, si configura come una innovazione adattiva problem-oriented, che sara` sottoposta al un processo di selezione rispetto alla sua capacita` di adattamento alla situazione. Quella concezione evoluzionistica della conoscenza di tipo lamarckiano, che procede per mutazioni orientate alla soluzione di problemi e per selezione, si rivela utile anche per comprendere quella particolare forma di conoscenza che si sviluppa mediante l’azione, attraverso la quale viene messa a prova e si evolve la tradizione culturale. Dovendo risolvere un problema, sia l’attore che lo scienziato sociale che ne deve spiegare il comportamento, procedono per trial-and-error-elimination, per congetture e confutazioni. E` evidente che se non si suppone che l’azione sia un tentativo di superare una insoddisfazione e che per sua stessa natura sia sempre intenzionale, razionale, “economica” e “teleologico-causale”, si indebolirebbe una siffatta concezione evoluzionistica dell’azione umana e per il ricercatore diventerebbe difficile, se non impossibile, formulare e mettere a prova la sue ipotesi di spiegazione.
5. “Principio di razionalita`”: individuum non est ineffabile L’azione umana puo` essere spiegata solo presumendo che gli individui «agiscano in modo adeguato o appropriato, vale a dire 5 in accordo con la situazione cosı` come essi la vedevano» . E` questo il cosiddetto “principio di razionalita`”, un indispensabile principio d’ordine nelle vicende umane, perche´ grazie a esso 5 K. R. Popper, Modelli, strumenti e verita`. Lo status del principio di razionalita` nelle scienze sociali, tr. it. in Id., Il mito della cornice (1994), il Mulino, Bologna, 1995, p. 222.
Il “principio di razionalita`” e` un “principio d’ordine” nelle vicende umane
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Il mestiere dello scienziato sociale
possiamo presumere che il comportamento individuale sia governato da una qualche forma di logica universale e decodificabile, che lo rende comprensibile e spiegabile. E` la presupposizione che le vicende umane non sono una caleidoscopica irregolarita` priva di un senso accessibile a un osservatore esterno, ma che la loro fitta e infinita trama sia l’effetto voluto o non voluto di azioni umane regolate da un principio che conferisce a esse un qualche tipo di ordine; un ordine tanto limitato e locale da un punto di vista sociale, quanto indispensabile e fecondo da un punto di vista esplicativo. E` solo grazie a esso, infatti, che possiamo tentare di gettare un po’ di luce su quegli eventi unici e irripetibili che sono i comportamenti umani, e soprattutto sulle azioni piu` enigmatiche, quali, ad esempio, quelle che falliscono clamorosamente il loro scopo in quanto basate su credenze false o infondate. ` ” E IL “PRINCIPIO IL “PRINCIPIO DI RAZIONALITA ` DI CAUSALITA” SONO COMPLEMENTARI Il “principio di causalita`” ha un senso per l’individuo che agisce (e per il ricercatore che spiega l’azione) proprio perche´ vige il “principio di razionalita`”. Se gli attori non fossero naturalmente protesi alla soluzione dei problemi al meglio delle loro possibilita`, sarebbe pressoche´ inservibile il “principio di causalita`”; chi agisce non lo fa a caso, ma si serve proprio del sapere nomologico per scegliere quella che a suo avviso e` la migliore soluzione (azione) per risolvere il problema. Lo statuto epistemologico del “principio di razionalita`”
Senza “principio di razionalita`”, senza cioe` la presunzione che «ogni individuo agisce in modo adeguato alla sua percezione della situazione», non c’e` dunque spiegazione nelle scienze sociali. Ed e` per questa ragione che la definizione dello statuto epistemologico di siffatto principio e` una delle questioni centrali della filosofia delle scienze sociali. Se esso fosse un presupposto metafisico o un comando di metodo, si ammetterebbe la possibilita` di rinunciarvi, ma questo significherebbe rinunciare all’individualismo metodologico e per un individualista metodologico significherebbe ipso facto rinunciare alla ricerca sociale tout court; e allo stesso esito si arriverebbe se lo si considerasse una ipotesi empirica, poiche´ in questo modo si ammetterebbe che esso potrebbe essere falso e in questo caso dovrebbe essere abbandonato.
L’azione umana ha le sue ragioni
Con la prasseologia di Mises si tagliano alla radice queste contraddizioni: l’intenzionalita`, la razionalita`, l’“economicita`”, l’adattamento al meglio delle possibilita` alle situazioni, sono caratteristiche permanenti dell’azione, sono dei predicati gia` contenuti nella nozione stessa di azione, e possono essere quindi svelati mediante un’analisi puramente a priori. Lo scienziato sociale, quindi, non puo` disporre del “principio di razionalita`”, ne deve prendere atto e applicarlo, altrimenti non gli resta che dimostrare che c’e` una contraddizione nel ragionamento deduttivo di Mises. E` vero che, essendo questi attributi dell’azione umana delle tautologie, la loro individuazione mediante un’analisi puramente concettuale non amplia la nostra conoscenza empirica, ma e` anche vero che l’esplicitazione di queste caratteristiche a priori favorisce la costruzione di solide teorie empiriche per la spiegazione delle singole azioni. Attraverso la prasseologia, Mises deriva da un semplice presupposto metafisico («esistono solo individui»), rafforzato da una constatazione empirica (l’azione umana «e` l’unica cosa di cui possiamo avere conoscenza diretta»), la piu` grande quantita` possibile di informazioni indispensabili per spiegare i fenomeni sociali. Rendendo manifeste quelle caratteristiche permanenti dell’azione umana che altrimenti sarebbero rimaste ignote allo scienziato sociale, il ragionamento aprioristico di Mises individua la struttura logica del comportamento individuale, offrendo in questo modo preziosissime informazioni alle scienze sociali, le quali hanno il compito di catturare il contenuto empirico accidentale che di volta in volta riempie questa forma logica universale. Consentendo di passare, de plano, dall’individualismo ontologico ad un universale individualismo metodologico, la teoria dell’azione di Mises centra un obiettivo decisivo per qualsiasi teoria scientifica: permettere di fare quanta piu` scienza (sociale) possibile con il minimo di impegni ontologici. Va infine sottolineato un ulteriore conseguenza di questa prospettiva misesiana: se tutte le azioni umane presentano necessariamente le caratteristiche esaminate, allora lo scienziato sociale sara` in grado di spiegare (a condizione di avere le necessarie informazioni) qualsiasi azione, a prescindere dalla distanza temporale, culturale e geografica che da essa lo separa. Diventa in questo modo possibile evitare di arrendersi all’ineffabilita` di cio` che e` individuale e proporre una spiegazione intercontestuale dei fenomeni sociali senza ricorrere a controverse nozioni come quella che ammette l’esistenza di una comune e invariabile “natura umana”.
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La soluzione di Mises
Forma logica e contenuto empirico dell’azione
Mises contro l’ineffabilita` culturale
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Il mestiere dello scienziato sociale
6. Il “principio di razionalita`” non e` un “criterio di razionalita`” Razionalita` e irrazionalita` dell’azione
“Principio di razionalita`” e “criterio di razionalita`”
Se si esaminano le definizioni e l’impiego che molti individualisti metodologici hanno fatto del “principio di razionalita`”, non e` difficile scorgere uno slittamento progressivo, ma decisivo, da una dimensione metodologica a una dimensione normativa. Esso e` stato spesso concepito non piu`, o non soltanto, come uno strumento metodologico per spiegare l’azione, ma anche come una norma in base a cui valutare la razionalita` o l’irrazionalita` dell’azione. Nella sua celebre polemica antinomologica con Hempel, W. Dray afferma con chiarezza che nella spiegazione dell’azione esiste «un elemento di valutazione di quanto e` stato 6 fatto», per capire se essa fosse «appropriata» ; per R. Nozick, un comportamento «e` pienamente razionale quando soddisfa tutti gli standard (di un certo tipo) concernenti le ragioni che dovrebbe soddisfare»; per cui definire un’azione razionale «significa farne una valutazione: significa dire che quelle su cui poggia sono ragioni buone e che essa soddisfa gli standard che deve 7 soddisfare» . Piu` vicino a noi J. Elster, ha riaffermato che «per essere razionale, un’azione deve rappresentare il risultato finale 8 di decisioni ottimali» . Questi, e altri autori, ritengono che non sia possibile spiegare un’azione senza in qualche modo qualificarla come razionale o irrazionale, senza cioe` stabilire se essa presenti o meno determinati requisiti. Cosı` facendo, essi pero` propongono non un principio di razionalita`, inteso come ottimizzazione soggettiva, bensı` un criterio di razionalita`, concepito come ottimizzazione oggettiva. Il ricercatore avrebbe il compito di costruire per le singole situazioni una norma d’azione, ritenendo che un’azione sviluppatasi in quella situazione per poter essere considerata razionale non possa scendere al di sotto di un determinato sostegno evidenziale, che il ricercatore stesso ritiene fosse offerto all’attore dalla background knowledge e di cui quest’ultimo non poteva
6
W. Dray, Leggi e spiegazione in storia (1957), tr. it., Il Saggiatore, Milano, 1974, p. 172. 7 R. Nozick, La natura della razionalita` (1993), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1995, p. 139. 8 J. Elster, Come si studia la societa` (1989), tr. it., il Mulino, Bologna, 1993, p. 43.
L’azione umana ha le sue ragioni
non tener conto. Se cio` non accade, il ricercatore sarebbe autorizzato a qualificare l’azione come irrazionale, formulando un giudizio di inadeguatezza o di non conformita` dell’azione rispetto al contesto situazionale da cui essa e` scaturita. Dato un fine, «agire razionalmente, ha scritto Q. Gibson, significa scegliere quello che in base all’evidenza e` il miglior modo di raggiungerlo»9. Risulta evidente che queste posizioni sono incompatibili con la prasseologia di Mises, per la quale e` una contraddizione in termini parlare di azione irrazionale. Uno scienziato sociale che si pronuncia in questo senso lo puo` fare solo sulla base di un giudizio di valore: «se volessimo cercare di distinguere l’azione razionale dall’azione irrazionale – chiarisce Mises – non solo ci innalzeremmo a giudici della scala di valori dei nostri simili, ma staremmo anche dichiarando che la nostra conoscenza e` l’unico corretto, oggettivo standard di conoscenza. Ci arrogheremo la posizione che solo un essere onnisciente puo` occupare»10. Se e` vero che solo sulla base di una scelta di valore un’azione puo` essere considerata irrazionale, intendendo il “principio di razionalita`” come un “criterio di demarcazione” tra azioni razionali e azioni irrazionali, si afferma la tesi che un’azione puo` essere spiegata solo valutandola; tesi, questa, che, come si e` visto, risulta epistemologicamente inaccettabile, in quanto confonde due distinti giochi linguistici, quello della scienza e quello dell’etica, minando alla radice la possibilita` di una scienza sociale oggettiva. Naturalmente, cio` non significa che gli scienziati sociali non possano costruire e utilizzare i modelli di razionalita` (si pensi alla “teoria dei giochi” e piu`, in generale, al largo uso che viene fatto del Rational Choice Model, che associano situazioni tipiche a comportamenti tipici), ma di tali modelli va fatto un uso metodologico e non normativo. Si tratta di strumenti teorici che servono a orientare la ricerca e che non vanno considerati come standard in base ai quali valutare le azioni. Il “principio di razionalita`” serve a spiegare cosa `e accaduto e non a prescrivere cosa sarebbe dovuto accadere.
9 10
Q. Gibson, The Logic of Social Enquiry, Routledge, London, 1960, p. 162. L. von Mises, Il compito e il campo della scienza dell’azione umana, cit., p. 56.
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L’“irrazionalita`” come giudizio di valore
Spiegare e valutare l’azione
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Il mestiere dello scienziato sociale
7. “Razionalita`” e “ragioni”: forma logica e contenuto empirico dell’azione Il self interest
L’homo oeconomicus
L’analisi prasseologica di Mises individua la invariabile forma logica dell’azione e non il suo contingente contenuto sociologico rappresentato dalle ragioni da cui e` ispirata; e sarebbe un grave errore confondere i due piani, identificando il contesto logico dell’azione con il contesto sociologico delle ragioni. Quando Mises dice che l’azione e` sempre «economica» non sostiene – come spesso si e` equivocato – che l’azione e` sempre dettata da ragioni economiche (il perseguimento dell’utilita`, del benessere personale e piu` in generale dell’interesse personale [self interest]), ma individua delle caratteristiche dell’azione che sono «indipendenti dai motivi che la causano e dai traguardi verso i quali e` orientata nel caso individuale», e pertanto «non fa differenza se l’azione e` originata da motivi altruistici o egoistici, da una disposizione nobile o bassa; se e` diretta verso il raggiungimento 11 di fini materiali o ideali» . E` sempre razionale ed «economica» – per essere chiari – non solo l’azione del consumatore o dell’imprenditore, ma anche quella del kamikaze o di Madre Teresa: essi scelgono i mezzi che ritengono piu` efficaci per risolvere al meglio delle loro possibilita` i problemi nei quali si sono imbattuti. La prasseologia di Mises non va dunque confusa con una forma di utilitarismo, che, come nel caso di J. Bentham, scambiando il contesto sociologico delle ragioni per il contesto logico dell’azione, pretendeva di aver scoperto nelle motivazioni economiche (il “calcolo utilitaristico”) una dimensione immanente del comportamento umano che consentisse di spiegare e di programmare gli eventi sociali. Tutt’altro. Mises e` uno dei piu` accesi critici dell’utilitarismo e di quegli economisti classici rei, a suo avviso, di aver fatto coincidere l’attore sociale con «il 12 fantoccio dell’homo oeconomicus» , utilizzando «una immagine fittizia di un uomo spinto soltanto da motivi ‘economici’» che 13 «non ha mai avuto un corrispondente nella realta`» ; mentre, invece, «gli uomini reali sono determinati da molti altri motivi
11 12 13
Ivi, p. 57. L. von Mises, L’azione umana, cit., p. 62. Ibid.
L’azione umana ha le sue ragioni 14 ‘non economici’» . L’economista austromarginalista mette in guardia «dal piu` comune malinteso», nel quale non di rado sono caduti anche molti sociologi, che «consiste nel vedere nel principio economico una dichiarazione sulla materia e il contenuto dell’azione»15; allorche´ gli attributi permanenti del comportamento, a cominciare dalla sua natura “economica”, vanno visti «nel loro significato formale e sono privati di ogni contenuto materiale»16. Tale distinzione tra una forma logica invariabile dell’azione, di cui e` parte integrante la razionalita`, e un contenuto sociologico contingente, fatto di ragioni, conoscenze, preferenze, percezione della situazione, che puo` essere ricostruito solo ex post, presenta, inoltre, due conseguenze molto rilevanti per la spiegazione nelle scienze sociali: essendo la razionalita` una caratteristica permanente dell’azione, l’azione e` sempre razionale a prescindere dal fatto che consegua o meno il fine al quale e` orientata e indipendentemente dalla natura delle ragioni che la ispirano. Di conseguenza, sono razionali sia le azioni che falliscono il loro obiettivo, sia quelle azioni, come l’adesione a un valore, a un sentimento di giustizia, non riconducibili a ragioni di interesse inteso come benessere personale dell’attore. E` proprio il carattere intrinsecamente razionale dell’azione che rende ricostruibili le ragioni (a condizione di avere le necessarie informazioni) da cui scaturiscono anche queste due categorie di azioni.
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Razionalita` dell’azione e natura delle ragioni
8. Quando e` razionale credere il falso L’influenza esercitata dall’idea di matrice positivistica secondo la quale le azioni sono razionali quando si basano su ragioni oggettivamente e universalmente (o comunque ampiamente) condivise, ha portato non di rado a qualificare come irrazionali le azioni che falliscono il loro obiettivo, soprattutto quando si basano su credenze palesemente false o infondate.
14
L. L. cit., p. 16 L. 15
von Mises, Il compito e il campo della scienza dell’azione umana, cit., p. 61. von Mises, Sociologia e storia, in Id., Problemi epistemologici dell’economia, 97. von Mises, Il compito e il campo della scienza dell’azione umana, cit., p. 71.
Le azioni non coronate da successo
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Il mestiere dello scienziato sociale
«AZIONI LOGICHE» E «AZIONI NON-LOGICHE» SECONDO VILFREDO PARETO E` stato forse V. Pareto colui che piu` di ogni altro ha inteso il “principio di razionalita`” come un “criterio di demarcazione”, allorquando non esita a qualificare come «non-logiche» quelle azioni (che rappresentano una regione sterminata dell’agire sociale) le quali non si basano su una «conoscenza logicosperimentale» universalmente accettata e quindi oggettivamente adeguata a connettere mezzo e fine. Per Pareto, puo` essere ritenuta «logica» l’azione dei marinai greci che remavano per far avanzare la nave, in quanto la relazione causale mezzo/fine (tra l’atto del remare e il movimento della nave) e` valida «non soltanto rispetto al soggetto che compie la azioni, ma anche rispetto a coloro che hanno conoscenze piu` estese». Devono essere invece considerate «non logiche» le azioni di quegli stessi marinai, mediante le quali essi offrivano riti propiziatori a Poseidone per garantirsi una sicura navigazione; e cio` perche´ «noi sappiamo – o crediamo di sapere – che i sacrifici a Poseidone non operano minimamente sulla navigazione»17.
L’“esperto del fuoco” e l’“esperto della pioggia”
Proprio sulla base di questo criterio, molti antropologici, studiando le cosiddette tribu` primitive, non hanno avuto dubbi a opporre alla razionalita` dell’azione dell’“esperto del fuoco”, che usava le pietre focaie per provocare la fiamma, l’irrazionalita` del comportamento dell’“esperto della pioggia”, che faceva riti di propiziazione (come la danza della pioggia) per porre termine alla siccita`. Questa soluzione “positivistica”, proponendo, non un principio di razionalita`, bensı` un criterio di razionalita` (per giunta molto selettivo), finisce per decretare l’irrazionalita` di una vasta gamma di azioni umane, e, con essa, l’impotenza esplicativa, per questo tipo di oggetti di indagine, dell’individualismo metodologico. A questo esito ha contribuito non poco l’influenza esercitata dal razionalismo di Cartesio, il quale identificando la razionalita` con le «ragioni certe ed evidenti», riteneva che andasse considerato falso tutto cio` che fosse sol18 tanto «verosimile» .
17 V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), Edizioni di Comunita`, Milano, 1964, § 149. 18 R. Descartes, Discorso sul metodo (1637), tr. it., Editori Riuniti, Roma, 1982, p. 62.
L’azione umana ha le sue ragioni
Bandendo dal discorso sull’azione la nozione di irrazionalita`, la prasseologia permette di riconquistare alla spiegazione individualistica questo interessantissimo terreno di indagine. Se l’azione e` per definizione razionale, ogni azione si basera` necessariamente su ragioni ritenute adeguate da chi agisce; di conseguenza, se una strategia di azione fallisce (in tutto o in parte) il suo obiettivo, significa che l’attore ha avuto buone ragioni per credere in cio` che poi si rivelera` falso. Se ogni individuo si comporta sempre in modo adeguato rispetto alla sua percezione della situazione, quando cade in errore significa che egli si e` comportato in modo adeguato rispetto alla sua inadeguata percezione della situazione. Sono dunque razionali anche quelle soluzioni a problemi oggettivamente (cioe` dal punto di vista del ricercatore) inadeguate a risolverli. E` perfettamente razionale, ad esempio, il comportamento di quei medici che in passato effettuavano terapie (si pensi alla pratica del salasso) che la medicina di oggi ha dimostrato totalmente infondate e persino letali. Questi medici non erano irrazionali, facevano del loro meglio; avevano buone ragioni per credere a una teoria falsa (e` bene ricordare che anche una teoria falsa presenta conseguenze vere), proprio come quei grandi scienziati che per piu` di duemila anni sono stati convinti che fosse il sole a girare intorno alla terra. Il compito dello scienziato sociale, in questi casi, e` quello di capire come l’attore percepiva la situazione per poi evidenziare, mediante una ricostruzione della situazione dal suo punto di vista di osservatore, quelle de´faillances di tale percezione che 19 hanno determinato il fallimento dell’azione . E, quanto piu` tali azioni sembrano incomprensibili, lontane culturalmente, quanto piu` le ragioni delle azioni non sono prima facie evidenti, come nel caso dell’“esperto della pioggia”, tanto piu` le scienze sociali avranno la possibilita` di svolgere una funzione conoscitiva. Presumendo la razionalita` dell’azione, lo scienziato sociale e` spinto a formulare ipotesi, a ricostruire il contesto di riferimento, in altre parole ad acquisire tutte quelle informazioni sconosciute che gli consentono di individuare le ragioni ritenute adeguate a motivare l’azione.
19
Su questa logica della spiegazione dell’azione si veda K. R. Popper, La teoria del pensiero aggettivo, cit., pp. 226 e ss.
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Le “buone ragioni” di credere il falso
Ragioni prima facie non evidenti
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Il mestiere dello scienziato sociale
PERCHE´ E` RAZIONALE LA DANZA DELLA PIOGGIA Se si ricostruisce il piu` complessivo ambiente situazionale in cui si sviluppa, ci si rende facilmente conto che non possiamo etichettare come “magia” la danza della pioggia, la quale va invece considerata come la soluzione che, date le conoscenze disponibili, e` stata ritenuta migliore per far fronte al problema della siccita`. E` impossibile – ha sostenuto Boudon, riproponendo la spiegazione individualistica della magia avanzata non solo da Weber, ma anche da Durkheim (il quale non di rado ha applicato un metodo differente da quello teorizzato) – che attivita` come l’agricoltura possano essere gestite senza teorie generali sull’ambiente fisico, animale e vegetale: «gli Occidentali tendono a prendere a prestito queste teorie generali, almeno in parte, dal corpus del sapere che detiene per essi il monopolio della legittimita`: la scienza. I “primitivi” le prendono a prestito dalle teorie che, ugualmente, offrono loro un’interpretazione generale del mondo e, per questo motivo, sono ritenute legittime, cioe` le teorie religiose in vigore nella loro societa`. Le credenze magiche, pertanto, devono essere considerate come “teorie applicate” che le societa` tradizionali trarrebbero dalle dottrine religiose riconosciute come vere, esattamente, come nelle nostre societa` moderne, gli strumenti tecnici utilizzati dagli ingegneri derivano dal corpus della scienza»20. Se dunque il ricercatore tiene conto della differenza di posizione (cioe` di conoscenze, preferenze, ecc.) che lo separa dall’attore, non si meravigliera` piu`, osservava gia` H. Spencer, «della stranezza delle credenze dei selvaggi» e, anzi, concludera` che anch’egli, in quella situazione, si sarebbe comportato allo stesso modo, poiche´, «date le conoscenze che gli uomini primitivi possedevano, e dati i simboli verbali imperfetti che essi usavano per comunicare e per pensare, le conclusioni che essi abitualmente derivavano erano relativamente le piu` razionali»21. Sbagliare e` razionale
Sulla base dell’indagine concettuale della nozione di “azione” effettuata da Mises, si puo` sostenere che il procedimento logico-argomentativo che presiede a ogni azione e` unico, a
20
R. Boudon, L’arte di persuadere se stessi (1990), tr. it., Rusconi, Milano, 1993, p. 36. 21 H. Spencer, “The Origin of Animal Worship”, in The Fortnightly Review, 1870, n. 7, ora in Id., Essays: Political, Scientific and Speculative (1891), Routledge-Thoemmes Press, London, 1996, vol. I, p. 309.
L’azione umana ha le sue ragioni
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prescindere dal conseguimento dello scopo e quindi dalla validita` scientifica della connessione mezzo/fine. L’adesione a idee false e infondate non solo non e` una prova di irrazionalita`, ma e` l’esito delle argomentazioni piu` irreprensibili e delle procedure piu` consolidate: si crede il falso non perche´ irrazionali o benche´ razionali, ma proprio perche´ razionali. L’adesione alla credenza della danza della pioggia da parte di un uomo primitivo e l’adesione alla teoria atomica da parte di un fisico dei nostri giorni sono due azioni ugualmente razionali, si basano su ragioni ne´ arbitrarie, ne´ assolute, ma ritenute dai rispettivi attori adeguate, date le loro conoscenze disponibili.
9. Prasseologia e “buone ragioni” Se la distinzione tra forma e contenuto consente di non confondere l’azione e le ragioni, la conseguente dura critica di Mises all’universalita` del modello di homo oeconomicus puo` conferire una solida base alla definizione di una “razionalita` delle buone ragioni”, cioe` a quell’imponente tentativo, portato avanti soprattutto da R. Boudon, di definire una concezione “aperta” di razionalita`, che possa essere impiegata con successo per indagare anche quelle azioni non dettate da ragioni di self interest e per la cui spiegazione si rivela di conseguenza impotente la Teoria della Scelta Razionale basata sulla funzione di utilita`. I postulati della prasseologia consentono di scindere la razionalita` dell’azione dalla natura delle ragioni che la motivano, con la conseguenza che nessun tipo di ragioni puo` essere escluso quando si spiega l’azione. Il calcolo utilitaristico, in altri termini, e` solamente una, seppur rilevantissima, delle possibili configurazioni che puo` assumere il calcolo razionale da cui scaturisce l’azione. Esiste certamente una sterminata regione di azioni umane poste in essere dal singolo con l’obiettivo di massimizzare il benessere personale, sia esso materiale (si pensi all’azione del consumatore, dell’imprenditore, ma anche, come fa osservare G. Becker, a quella dei criminali) o immateriale, ad esempio la decisione di leggere un libro o di vedere un film, ovvero di vestire alla moda. Esistono poi comportamenti comunque ispirati dalle loro conseguenze previste, le quali pero` non sono riconducibili al benessere personale: un epistemologo che pro-
La razionalita` non utilitaristica
L’utilita` attesa
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Il mestiere dello scienziato sociale
Razionalita` e conseguenze dell’azione
I limiti del calcolo utilitaristico
pone il “principio di falsificabilita`” poiche´ piu` efficace per risolvere i problemi o J. Rawls che ritiene accettabile un certo grado di disuguaglianza sociale, perche´ la sua eliminazione produrrebbe esiti giudicati negativi, sono scelte compiute sulla base della previsione di effetti che non toccano direttamente chi le adotta. Come ben hanno evidenziato nei loro celebri studi J. Coleman e G. Becker, in questo vasto territorio di azioni puo` dominare incontrastato – e con ottimi risultati – il Modello di Scelta Razionale, il quale presuppone un comportamento orientato da ragioni “economiche”; gli individui agiscono in funzione dell’utilita` attesa. Accanto a questa regione di azioni umane ve n’e` un’altra, non meno rilevante, rappresentata da azioni che sfuggono a una spiegazione di tipo consequenzialista, le quali sono l’esito di ragioni non riconducibili ne´ al self interest, ne´ ad altro genere di conseguenze previste della singola azione. E. Mach e L. Boltzmann avevano ambedue buone ragioni, rispettivamente, per negare e ammettere l’esistenza dell’atomo; ognuno di essi considerava piu` forti le proprie di ragioni, a prescindere dalle conseguenze (scientifiche, sociali, economiche, ecc.) che avrebbe provocato la negazione o l’accettazione dell’esistenza dell’atomo. E se questo vale per molte credenze positive, che descrivono come stanno le cose, vale a maggior ragione per moltissime credenze normative, che indicano come dovrebbero essere le cose: una persona e` contro la discriminazione razziale o la violenza, a prescindere dalle conseguenze che questa decisione produrra` nel tempo. Si potrebbe dire, con Weber, che si tratta di decisioni che hanno un «incondizionato valore in se´» per chi le adotta. Un attore puo` aderire a una teoria perche´ la ritiene utile, ma anche perche´ la ritiene vera o giusta, a prescindere dalle conseguenze che derivano dal considerarla tale. Per spiegare questa categoria di azioni e` inservibile il calcolo utilitaristico o consequenzialistico. E se uno scienziato sociale limita la inchiesta alle ragioni di tipo “economico”, dovra` semplicemente arrendersi di fronte a queste azioni. Non e` dunque un caso che la spiegazione dei valori, dei sentimenti di giustizia, e` stato un terreno spesso ostico per molti individualisti metodologici, perche´, presupponendo – come spesso si e` fatto – che le azioni siano dettate solamente dal self interest o da una valutazione delle conseguenze di altro genere, la constatazione che queste
L’azione umana ha le sue ragioni
ragioni sono insufficienti per spiegare l’adesione a queste credenze ha portato a cercare cause diverse dalle ragioni. In questo modo si abbandona l’individualismo metodologico e si avanzano spiegazioni di tipo collettivistico che interpretano l’azione come esito, ad esempio, di esigenze funzionali, dell’inconscio, di “deficienze cognitive”, come effetti di socializzazione, ovvero come fenomeni biologicamente determinati. Evidenziando i limiti del Rational Choice Model, Boudon intende potenziare la capacita` esplicativa della metodologia individualistica e universalizzare la sua applicabilita`, dimostrando che lo scienziato sociale non puo` limitarsi ad accettare come adeguate a motivare l’azione solo quelle ragioni oggettivamente condivisibili, come e` il caso della funzione di utilita`. La validita` delle ragioni e` per definizione soggettiva, dipende dalle preferenze, dalle conoscenze e dai fini di chi agisce. L’homo sociologicus non puo` essere fatto coincidere con l’homo oeconomicus, cioe` con l’ipotesi di un attore che agisce sempre per massimizzare il proprio self interest, perche´ l’azione umana si sviluppa su registri differenziati: la struttura logica dell’azione e` invariabile, ma cambiano la natura delle ragioni dalle quali e` ispirata.
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Homo oeconomicus e homo sociologicus
10. La spiegazione dei valori: l’etica e` senza verita` ma non senza ragioni La definizione di una piu` articolata teoria della razionalita` che consenta di recuperare alla spiegazione individualistica quello sterminato territorio sociologico rappresentato dalle scelte di valore, trova proprio nella prasseologia di Mises un fondamentale presupposto. Si puo` infatti parlare, come ha fatto Boudon sulla scia di una decisiva intuizione weberiana, di «razionalita` cognitiva» e di «razionalita` assiologica» per identificare ragioni non-utilitaristiche per aderire a credenze vere o giuste, proprio perche` ogni azione presenta alcune caratteristiche permanenti: essendo sempre intenzionalmente e razionalmente orientata alla soluzione di un problema, l’azione sara` sempre dettata da ragioni soggettivamente ritenute adeguate, cioe` legate alla percezione che l’attore ha della situazione. Quasi tutti gli spettatori che assistono all’Antigone, esemplifica Boudon, non hanno esitazioni: si schierano con Antigone e condannano Creonte; e questa loro decisione non e` dettata ne´
“Razionalita` cognitiva” e “razionalita` assiologica”
Ragioni non dettate dalle conseguenze dell’azione
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Il mestiere dello scienziato sociale
L’etica e` senza fondamenti
L’homo ethicus non e` irrazionale
da interessi personali, ne´ da altro genere di conseguenze di tale decisione, che sono inesistenti, visto che si tratta di un avvenimento accaduto in un lontano passato; essi semplicemente la ritengono giusta. Non per il fatto che il Rational Choice Model si rivela inadatto a dare conto di questa scelta, essa puo` essere considerata irrazionale. Questa azione e` invece dettata da ragioni di altro genere, che il ricercatore deve scoprire mediante l’analisi situazionale che ricostruisca come l’agente percepiva tale situazione; essendo l’agente sempre razionale, e` una contraddizione in termini pensare ad un’azione sprovvista di ragioni. E le ragioni ci sono, perche´ nel caso dell’Antigone lo spettatore si e` trovato di fronte a un problema (lo scontro tra la coscienza individuale e una legge dello Stato), che risolve al meglio delle sue possibilita`, scegliendo quella che secondo il suo ordine di valori era la migliore soluzione. Tale azione, in termini misesiani, e` intenzionale, razionale, “economica”; essa e` fornita di ragioni proprio come quella dell’elettore, che pur sapendo che il suo voto non sara` praticamente influente sul risultato finale, comunque decide di votare: quello del voto puo` essere considerato un “paradosso” soltanto alla luce di una prospettiva utilitaristica. Dire che la scelta etica e` razionale non significa affermare che essa e` razionalmente dimostrabile e fondabile. Grazie alla “legge di Hume” si puo` sostenere che i valori non possono essere logicamente derivati dai fatti. Le decisioni etiche sono scelte di coscienza e non prodotti della scienza; la scienza ci puo` aiutare nelle nostre scelte morali evidenziandone le conseguenze, ma e` sempre la nostra coscienza a dover decidere di accettare tali effetti. Si prenda il caso della liberta`: l’epistemologia puo` farci comprendere i presupposti gnoseologici (dispersione e fallibilita` della conoscenza) e le scienze sociali le conseguenze (politiche, economiche, giuridiche) della sua scelta, ma tutto cio` si limita a offrirci preziosi materiali per le nostre valutazioni. Se la “legge di Hume” nega la possibilita` di un’etica dimostrata, sulla scorta della prasseologia si puo` invece sostenere che, pur non avendo un fondamento razionale, le opzioni assiologiche presentano necessariamente un contenuto razionale, sono cioe` l’esito di scelte dettate da buone ragioni. Un kantiano, per esempio, riterra` immorale mentire per la ragione che non accetta le conseguenze (ampiamente prevedibili) dell’universalizzazione di
L’azione umana ha le sue ragioni
un simile comportamento. E` vero che i valori non sono logicamente fondabili, ma non per questo sono irrazionali; essi sono empiricamente e logicamente indecidibili, ma non sono razionalmente indicibili. Se la scienza `e senza certezza ma non senza verita`, l’etica `e senza verita` ma non senza ragioni. Ed e` proprio per il fatto di presentare un intrinseco contenuto di razionalita` che le scelte morali sono spiegabili per via individualistica, ricostruendo le ragioni da cui sono ispirate. Il fatto che de gustibus non disputandum est non significa che de gustibus non explanandum est. Se la “legge di Hume” colpisce al cuore la possibilita` di un’etica oggettiva, valida erga omnes, basata su fundamenta inconcussa (fattori economici, biologici, teologici, antropologici, ecc.), la prasseologia dimostra quanto siano inaccettabili tutte quelle concezioni irrazionalistiche dell’etica, le quali, considerando le scelte morali come l’esito di cause diverse dalle ragioni dei singoli, ne hanno evidentemente proposto una spiegazione non individualistica. Solo commettendo il grave errore di identificare il contenuto con il fondamento razionale delle nostre decisioni morali, di non distinguere tra dimostrazione more geometrico e argomentazione, di identificare il significato di un sentimento morale con un senso assoluto, in altre parole di far coincidere l’intera razionalita` con la razionalita` dimostrativa, si puo` concludere che le opzioni morali siano mera intuizione o atti del tutto irrazionali. Se la “legge di Hume” evita l’assolutismo e fonda il relativismo etico, la prasseologia, facendo scoprire un ineliminabile contenuto razionale nelle scelte morali, evita che tale relativismo degeneri in un nichilismo etico che affermi, non che le proposte etiche abbiano un nihil di senso assoluto, ma che siano invece caratterizzate da un nihil di senso e basta. Ci troveremo in questo caso di fronte a scelte senza ragioni, e quindi l’individualista metodologico dovrebbe riporre i suoi attrezzi. Le decisioni morali, invece, non possono essere sottratte alla spiegazione individualistica, proprio perche´ quella etica, essendo una scelta, non puo` essere espunta dal dominio della ragione, di una ragione che non dimostra ma che argomenta, di una ragione “pratica” che non puo` pretendere di essere “pura”, di un esprit de finesse che e` cosa ben diversa dall’esprit de ge´ometrie.
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“Contenuto” e “fondamento” razionale dell’etica
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Il mestiere dello scienziato sociale
IL “MONDO DISINCANTATO” E` UN MONDO RICCO DI SIGNIFICATI Grazie alla “legge di Hume” e alla prasseologia e` possibile interpretare in chiave anti-irrazionalistica, e quindi da una prospettiva individualistica, le fondamentali nozioni weberiane di «disincantamento del mondo» e di «politeismo dei valori». Il fatto che nel mondo moderno sia definitivamente tramontata l’antica alleanza tra conoscenza del mondo e senso della vita e cioe` che i valori morali non traggono piu` la loro forza dalla conoscenza oggettiva della realta`, non condanna i singoli a vivere in una «caleidoscopica infinita` priva di senso». L’indimostrabilita` della morale e la conseguente impossibilita` di individuare proposizioni etiche valide sub specie aeternitatis non porta, come spesso si e` equivocato, a collocare nell’ambito dell’irrazionale la dimensione assiologica. Proprio perche´ il «mondo disincantato» non ha un senso assoluto di cui qualche interprete privilegiato possa considerarsi scopritore, esso non solo non e` una indistinta infinita` priva di senso, ma diventa un testo che assume tanti significati quanti sono quegli interpreti dei suoi abitanti.
11. Le ragioni sono la causa dell’azione La spiegazione causale dell’azione
Croce spiega causalmente
La teoria della razionalita`, come si e` detto, e` un indispensabile strumento concettuale per la spiegazione dell’azione umana, cioe` per l’individuazione delle ragioni che hanno determinato l’azione; e per ragioni vanno intese quella che, ad avviso del ricercatore, era la percezione che l’agente aveva della situazione (i suoi obiettivi, le sue conoscenze, ecc.). Ebbene, quando lo scienziato sociale individualista ricostruisce le ragioni, non fa altro che rintracciare le cause dell’azione. Egli formula una ipotesi che pone l’azione-explanandum in relazione causale con le sue condizioni iniziali, rappresentate da quella che a suo avviso era la situazione nell’ambito della quale si e` sviluppata, tenendo conto di come l’attore percepiva tale situazione. Affermare che un individuo ha buone ragioni di fare X, significa ritenere alcune ragioni casualmente adeguate a produrre quell’azione, data la conoscenza nomologica disponibile. Nonostante la sua durissima polemica filosofica antinomologica, e` proprio il Croce storico che ci offre un chiaro esempio di spiegazione causale dell’azione, attraverso l’individuazione delle
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buone ragioni. Nella Storia d’Italia egli spiega il perche´ molti elettori decisero di non rinnovare il loro consenso al Partito Repubblicano negli anni Ottanta del XIX secolo: «Nei loro programmi elettorali, come in quello del 1882, i repubblicani mettevano suffragio universale, nazione armata, soppressione della legge sulle guarentigie, confisca di tutti i beni ecclesiastici, ricostituzione delle autonomie storiche, convocazione di un’assemblea costituente, e altrettali cose che bene avrebbero dovuto sapere, e parecchi di essi certamente sapevano, ineseguibili. Cosı` il partito repubblicano divenne sempre piu` esiguo»22. Croce individua le buone ragioni degli elettori italiani per non rivotare il Partito Repubblicano nel fatto che essi ritenessero irrealizzabile il suo programma elettorale. In questo modo egli stabilisce un legame causale tra il comportamento degli elettori (explanandum) e la situazione da essi percepita, cioe` con alcune condizioni iniziali (un programma elettorale considerato dagli elettori non realistico in quel contesto storico), sulla base di una semplice generalizzazione empirica (sottintesa), secondo la quale “gli elettori tendono a negare il consenso a quei partiti che avanzano proposte che essi ritengono radicalmente irrealizzabili”. E, come si e` gia` visto in precedenza, data la “banalita`” della copertura nomologica, in questo tipo di spiegazioni ci troviamo di fronte a un primato dell’indagine situazionale, ossia della ricostruzione dello sfondo causale di cui, a giudizio del ricercatore, l’azione e` stata una conseguenza. La nozione di ragioni, certamente meno equivoca di quelle di significato e di motivazione, e` dunque perfettamente in linea con una spiegazione causale dell’azione, cioe` con la formulazione, da parte dello scienziato sociale, di una ipotesi di connessione causale tra azione e situazione. E, il fatto che la ricostruzione situazionale sia, per l’enorme quantita` di variabili da considerare, spesso imperfetta, fa di queste spiegazione – come si e` visto – degli abbozzi di spiegazione, come capita sovente, non solo in storiografia, ma anche in fisica. 22
B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1927), Laterza, Roma-Bari, 1966, p. 70.
Le ragioni sono il significato dell’azione
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Il mestiere dello scienziato sociale
12. Agire e spiegare: razionalita` e leggi Dopo aver esaminato la natura epistemologica della razionalita` e il posto della causalita` nella spiegazione dell’azione, e` opportuno schematizzare, e illustrare con un esempio, la logica che segue l’attore quando agisce e la logica che segue il ricercatore quando spiega l’azione. La logica dell’azione
La logica della spiegazione dell’azione
(1) L’agente percepisce come C1 la situazione problematica C nella quale si e` imbattuto. (2) L’agente, sulla base della propria saggezza assiologia, individua in S lo scopo da perseguire in tale situazione. (3) L’agente, sulla base della propria conoscenza nomologica N1, ritiene che in una situazione di tipo C1 sia opportuno fare a per conseguire S. (4) L’agente fa a. A. Ricostruzione della situazione “come percepita dall’attore”. (1) Il ricercatore ritiene che l’agente abbia percepito come di tipo C1 la situazione problematica di tipo C nella quale si e` imbattuto e ipotizza che l’attore, sulla base della propria conoscenza nomologica N1, abbia ritenuto che a era la migliore soluzione in una situazione di tipo C1 per perseguire lo scopo S selezionato sulla base della propria saggezza assiologica. B. Ricostruzione della situazione “oggettiva”, come ricostruita dal ricercatore. (2) Il ricercatore ritiene che l’agente sia in una situazione di tipo C. (3) Il ricercatore ritiene, sulla base della propria conoscenza nomologica N, che in una situazione di tipo C sia opportuno fare a per ottenere S. (4) Il ricercatore ritiene che per queste ragioni l’agente faccia a. (5) L’eventuale fallimento dell’azione va spiegato come un eccessivo scostamento di C1 da C e/o di N1 da N, cioe` sulla base della inadeguatezza della ricostruzione della situazione e/o della conoscenza nomologica impiegata.
L’azione umana ha le sue ragioni
Tale logica della spiegazione puo` essere illustrata con un esempio di spiegazione (individualistica e nomologica) dell’azione, tratto dalla storiografia di Machiavelli. «Era tanta disunione nella Repubblica romana intra la Plebe e la Nobilta` – scrive lo storico fiorentino – che i Veienti, insieme con gli Etruschi, mediante tale disunione pensarono poter estinguere il nome romano. E avendo fatto esercito e corso sopra i campi di Roma [...] non cessavano i Veienti con assalti e con obbrobri offendere e vituperare il nome romano»23. Machiavelli ha di fronte a se´ una serie di azioni-explananda: gli «assalti» e gli «obbrobri» con i quali i Veienti e gli Etruschi offendevano e vituperavano «il nome romano». Per spiegare tali azioni Machiavelli ricostruisce la situazione per come era percepita dagli attori, ipotizzando che essi avessero ritenuto opportuno attaccare Roma, per conseguire il loro obiettivo («estinguere il nome romano»), poiche´ «era tanta disunione nella Repubblica romana intra la Plebe e la Nobilta`». Machiavelli ritiene che i Veienti e gli Etruschi abbiano scelto la loro strategia di azione, una volta selezionato il loro obiettivo, sulla base della banale regolarita` empirica, implicita in questa spiegazione, secondo la quale “e` piu` facile conquistare un popolo quando quest’ultimo e` diviso e lacerato da lotte interne”. Poi Machiavelli ricostruisce la situazione dal suo punto di vista, al fine di spiegare perche´ tale azioni non sono state coronate da successo: «E fu tanta la loro temerita` [dei Veienti e degli Etruschi] e insolenzia che i Romani disuniti diventarono uniti; e venendo alla zuffa gli ruppano e vinsono. Vedesi pertanto quanto gli uomini si ingannano nel pigliare de’ partiti; e come molte volte credono guadagnare una cosa e la perdono. Credettero i Veienti assaltando i Romani disuniti vincerli; e quello assalto fu cagione della unione di quegli e della rovina loro». 23
N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1520), Rizzoli, Milano, 1984, pp. 64-65.
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Machiavelli spiega causalmente
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Il mestiere dello scienziato sociale
Machiavelli, infine, spiega il fallimento di questa strategia di azione evidenziando come la situazione percepita dagli attori si discostasse troppo dalla situazione come era oggettivamente (cioe` dal suo punto di vista): «la cagione della disunione delle Repubbliche il piu` delle volte e` l’ozio e la pace; la cagione dell’unione 24 e` la paura e la guerra» . Egli utilizza implicitamente la legge secondo la quale: “un popolo diviso da lotte interne in tempo di pace tende a ritrovare la sua unita` se minacciato nella sua stessa esistenza da un nemico esterno”.
13. Le differenti accezioni di “razionalita`” Tre tipi di razionalita`
Razionalita` come atteggiamento personale
Quella di “razionalita`” e` una nozione polivalente, che spesso riveste una molteplicita` di significati, tra i quali non sempre e` agevole orientarsi. La enunciata distinzione tra “principio di razionalita`” e “criterio di razionalita`” costituisce a questo proposito un utile regola di orientamento. Il “principio di razionalita`” ci dice che l’azione e` una scelta sempre razionale, sia quando, come e` il caso del consumatore, essa consiste in un “banale” calcolo costi/benefici universalmente condivisibile, sia quando, come e` il caso della danza della pioggia, essa si rivela una strategia tutt’altro che coronata da successo; sia, ancora, nei casi in cui tale scelta ha per oggetto una norma etica. Questa razionalita` intrinseca dell’azione va tenuta ben distinta da almeno altre tre accezioni di razionalita`, spesso impiegate da filosofi e scienziati, a cominciare da Popper: i) razionalita` dell’atteggiamento personale; ii) razionalita` della scienza e iii) razionalita` della metafisica. Si tratta di tre rilevanti nozioni accomunate dal fatto di proporre un “criterio di razionalita`”: esse hanno il dichiarato intento non di favorire ipotesi di spiegazione scientifica, bensı` di proporre – sulla base di una precisa scelta di valore – uno standard in base al quale demarcare cio` che e` razionale da cio` che razionale non e`. Tale razionalita`, ha scritto Popper, «consiste nella disponibilita` a correggere le proprie credenze. Nella sua forma intellettualmente piu` alta corrisponde alla prontezza ad analizzare criticamente le proprie opinioni e a correggerle alla luce delle 24
Ivi, p. 65.
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25 discussioni critiche con altre persone» . L’argomentazione popperiana e` molto chiara: data l’impossibilita` logica di dimostrare con certezza la verita` di una teoria, se vogliamo risolvere i problemi, dobbiamo accettare la discussione critica come strumento per individuare e tentare di rimuovere i nostri e gli altrui errori. Quel se indica, evidentemente, una scelta di valore in favore della conoscenza e, piu` in generale, del benessere morale e materiale. Chi, pur compiendo questa scelta di valore, non opta per la discussione critica, data la fallibilita` della conoscenza, puo` essere considerato irrazionale.
Il medesimo standard di valutazione della razionalita` (e quindi dell’irrazionalita`), Popper lo ripropone anche per gli scienziati e per le teorie scientifiche. Lo scienziato razionale e` colui che, data l’asimmetria logica tra conferma e smentita di una teoria, opta per il metodo della falsificazione. E la «razionalita` 26 della scienza consiste semplicemente nella discussione critica» , per cui una teoria scientifica e` razionale se, oltre a essere logicamente coerente, e` anche empiricamente falsificabile. Di conseguenza, data l’asimmetria logica tra verificazione e falsificazione, e` irrazionale quello scienziato che, avendo fatto la scelta di valore in favore dell’avanzamento della conoscenza, cerca le conferme e non le smentita della propria teoria. Inoltre, stante l’impossibilita` logica di dimostrare la verita` definitiva di una teoria, va considerata irrazionale quella teoria che intende risolvere un problema scientifico mediante una soluzione non falsificabile, cioe` empiricamente incontrollabile.
Razionalita` delle teorie scientifiche
Anche questo genere di razionalita`, su cui ha insistito Popper, e soprattutto W. Bartley, si fonda sulla scelta di valore in favore della soluzione ai problemi. Se le teorie scientifiche sono tentativi di soluzione di problemi scientifici, le teorie metafisiche sono tentativi di risolvere problemi metafisici (L’uomo e` libero o e` determinato? La storia umana ha un senso? Dio esiste? Ci sono diritti che sono parte integrante della natura umana? Qual e` la migliore forma di governo? Puo` esistere un fenomeno senza cause?). Ora, le teorie metafisiche sono ex
Razionalita` delle teorie metafisiche
25 K. R. Popper, Modelli, strumenti e verita`. Lo status del principio di razionalita` nelle scienze sociali, cit., pp. 241-2. 26 Ivi, p. 214.
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Il mestiere dello scienziato sociale
definitione infalsificabili, dunque la razionalita` di tali teorie non e` legata alla loro controllabilita` empirica, ma dipende invece dalla loro criticabilita`. Una teoria metafisica pertanto e` razionale quando e` criticabile, ed e` criticabile quando si scontra con un’altra teoria (scientifica o metafisica, ma anche un teorema logico o un risultato matematico) all’epoca ben consolidata e alla quale non siamo quindi disposti a rinunciare. Se una teoria scientifica e` razionale quando puo` scontrarsi con un fatto, una teoria metafisica e` razionale quando puo` scontrarsi con un’altra teoria. La teoria filosofica dell’induzione e` criticata da Popper facendola scontrare con quella teoria, a cui egli non e` disposto a rinunciare, rappresentata dall’impossibilita` logica di sottoporre a controllo tutte le infinite conseguenze di una teoria. L’induttivismo e` quindi una teoria metafisica razionale in quanto criticata (e quindi criticabile), sulla base di strumenti concettuali ritenuti da Popper maggiormente consolidati. Puo` dunque essere considerato irrazionale quel filosofo che, avendo optato per la migliore soluzione possibile dei problemi, non sottopone a critica la sua teoria metafisica, pur essendo quest’ultima criticabile. Cosı` come irrazionale potra` essere considerato, sulla base di tale criterio, anche colui che, pur volendo risolvere al meglio un problema morale, non sottopone a critica la sua proposta etica, benche` quest’ultima sia incompatibile con altre teorie a cui egli non e` disposto a rinunciare. “Razionalita` metodologica” e “razionalita` normativa”
Sulla base di alcuni presupposti (soprattutto di natura logica ed epistemologica), queste tre nozioni di razionalita` propongono una norma attraverso cui giudicare la razionalita` di teorie e di atteggiamenti posti in essere da persone che hanno in comune una determinata scelta di valore; una scelta (quella per la migliore soluzione possibile dei problemi) che, evidentemente, non cessa di essere tale per il solo fatto di essere largamente condivisa. Deve essere comunque chiaro che queste tre accezioni di razionalita` presentano una carattere normativo e non esplicativo: servono a valutare cio` che e` accaduto sulla base di uno standard ottimale che stabilisce come dovrebbero andare le cose e non intendono invece spiegare perche´ le cose sono accadute in un certo modo.
L’azione umana ha le sue ragioni
Bibliografia ragionata Tra la sterminata letteratura sulla razionalita` dell’azione, i contributi di J. Coleman, Fondamenti di teoria sociale (1990), tr. it., il Mulino, Bologna, 2005, di G. Becker, L’approccio economico al comportamento (1976), tr. it., il Mulino, Bologna, 1998 e de Gustibus (1996), tr. it., Universita` Bocconi Editore, Milano, 2000, e di J. Elster (per approfondire le posizioni di questo autore un agile punto di partenza e` Come si studia la societa`, (1989), tr. it., il Mulino, Bologna, 1993), rappresentano i migliori esempi di applicazioni del Rational Choice Model. Per quel che concerne invece il tentativo di R. Boudon di definire un modello piu` esteso di razionalita`, per la spiegazione di credenze positive (vere e false) e normative (i valori), si vedano i suoi due testi fondamentali: L’arte di persuadere se stessi (1990), tr. it., Rusconi, Milano, 1993, Il vero e il giusto (1995), tr. it., il Mulino, Bologna, 1997 e anche il piu` recente Teoria della scelta razionale e individualismo metodologico: sono la stessa cosa?, in M. Borlandi, L. Sciolla (a cura di), La spiegazione sociologica. Metodi, tendenze, problemi, il Mulino, Bologna, 2005. Una completa rassegna dei vari approcci metodologici per la spiegazione dei valori e la proposta di una loro spiegazione per via individualistica, e` contenuta nel volume, sempre di R. Boudon, Il senso dei valori (1999), tr. it., il Mulino, Bologna, 2000. In Philosophie des sciences sociales, PUF, Paris, 1999, A. Bouvier propone – nel solco della tradizione individualistica – una interessante definizione storica e teorica di un punto di vista “argomentativo” per la spiegazione dell’azione e delle credenze. In C. G. Hempel, Aspetti della spiegazione scientifica (1965), tr. it., Il Saggiatore, Milano, 1986, si trova una efficace replica alle tesi di coloro, soprattutto W. Dray, che hanno negato la possibilita` di una spiegazione causale dell’azione. Su questo tema si veda anche A. Rosenberg, Philosophy of Social Science, Westview Press, Boulder Col., 1995. Un utile esame del dibattito sviluppatosi in filosofia analitica sulla razionalita` e sulla spiegazione delle azioni, condotto in riferimento alla contrapposizione tra individualisti e collettivisti, lo si trova in A. Rainone, Filosofia analitica e scienze storico-sociali, ETS, Pisa, 1990 e in R. Ogien, Philosophie des sciences sociales, in J.-M. Berthelot (dir.), Epistemologie des sciences sociales, PUF, Paris, 2001.
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Capitolo nono Dal micro al macro: la “spiegazione a mano invisibile”
1. Quando i fenomeni sociali sono prodotti dalle azioni ma non dalle intenzioni Molto frequentemente le teorie sociali si trovano a dover spiegare eventi – si pensi all’inflazione o a una rivoluzione – prodotti dall’aggregazione di un numero molto elevato di azioni. In questi casi lo scienziato sociale oltre a spiegare perche´ gli attori si sono comportati in un certo modo, deve anche stabilire come tali azioni hanno prodotto il fenomeno da spiegare. Per questo tipo di spiegazioni la ricostruzione del legame ragioniazioni e` solo la prima fase della spiegazione individualistica, la quale va completata, come si e` gia` anticipato, indagando il legame che intercorre tra azioni e fenomeno da spiegare, cioe` ricostruendo i processi di aggregazione delle azioni. Le relazioni tra le singole azioni e i fenomeni sociali da esse prodotti possono essere distinte in due grandi categorie, a seconda se l’evento e` un esito generato intenzionalmente o non intenzionalmente. La fondazione di un partito politico, il saccheggio di Roma da parte dei barbari, la stessa realizzazione dell’Unita` d’Italia, sono tutti fenomeni che possono essere considerati come conseguenze intenzionali di un certo numero di azioni, cioe` come l’esito voluto, programmato e quindi previsto (almeno nelle linee essenziali) di progetti umani. Un ingorgo automobilistico, l’inflazione, la disoccupazione, una carestia, ma anche la genesi delle piu` importanti istituzioni sociali (linguaggio, Stato, moneta, mercato, divisione del lavoro, ecc.), sono invece conseguenze inintenzionali (ma sono stati anche definite “effetti emergenti”, “effetti di composizione”, “effetti di aggregazione”, “effetti spontanei”) di azioni umane intenzionali; vanno cioe` considerati come eventi prodotti dalle azioni e non dalle intenzioni umane. E` evidente che i fenomeni sociali che sono esito di progetti umani presentano spesso un basso tasso di problematicita`, e la loro spiegazione, nella sostanza, si risolve nella spiegazione
L’asimmetria tra intenzioni ed esiti delle azioni
Il compito delle scienze sociali teoriche
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Il mestiere dello scienziato sociale
delle azioni che li hanno generati. Ben diverso e` l’interesse esplicativo che suscitano i fenomeni sorti inintenzionalmente (o spontaneamente) e le azioni che non raggiungono i loro obiettivi, in quanto si tratta di eventi (spesso) prima facie incomprensibili. E` proprio in virtu` del loro carattere problematico, che le azioni che hanno fallito (in tutto o in parte) i loro obiettivi e i fenomeni generati inintenzionalmente vanno considerati come i due principali oggetti di studio delle scienze sociali teoriche; due momenti distinti di una logica unitaria di spiegazione individualistica, che comprende l’analisi situazionale, per spiegare le azioni, e la “spiegazione a mano invisibile”, per dare conto delle loro conseguenze inintenzionali. RE MIDA VITTIMA DEGLI “EFFETTI PERVERSI” Come spesso e` accaduto, il senso comune non ha atteso la filosofia e la scienza per impossessarsi di alcune verita`, a cui e` arrivato per il tramite dell’esperienza quotidiana. E cosı`, l’idea che le azioni umane possano conseguire (soltanto o in parte) obiettivi diversi, e persino opposti, rispetto a quelli previsti, prima ancora che nella nozione di «mano invisibile» di Adam Smith, di «socievole insocievolezza» di Kant, la ritroviamo in quelle regole di esperienza rappresentate dai proverbi, che ci ricordano che “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno” e che “ogni impedimento e` giovamento”. Certo, come faceva osservare Croce, i proverbi ci informano di «una di due verita`», indicano cioe` una possibilita` e non una necessita`, ma si tratta di una possibilita` reale, che storicamente e socialmente ha spesso giocato un ruolo decisivo. E la stessa letteratura ha contribuito enormemente a diffondere questa consapevolezza, basti pensare non solo alla celebre Favola delle api, nella quale B. de Mandeville evidenzia come molti «vizi privati» possono essere all’origine di fondamentali «pubbliche virtu`»; ma alle avventure, raccontate da Voltaire, di un uomo di intelligenza superiore come Zadig, che per la sua inarrivabile capacita` di risolvere problemi passa tutte le fortune e le disavventure di questo mondo; per finire con M. Kundera, che ne Lo scherzo, narra le disavventure del giovane Ludvı`k, comunista convinto, che, nella Cecoslovacchia della fine degli anni Quaranta, cade in disgrazia nei confronti del regime e vede la propria vita privata devastata a causa di un banale scherzo: aveva inviato un messaggio spiritoso alla donna amata. Ma la piu` efficace rappresentazione plastica degli “effetti perversi” e` contenuta nella favola del re Mida, il ricchissimo e avidissimo sovrano che accetta la tentazione di poter trasformare in oro tutto quel che tocca; ma,
Dal micro al macro: la “spiegazione a mano invisibile”
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cosı` facendo, egli rischia di morire non solo di fame, ma anche di infelicita`, per aver trasformato in un pezzo d’oro inanimato (abbracciandola) la persona che piu` ama, sua figlia la principessa Dorina. E solo quando si ravvede, l’incantesimo punitivo finisce, e il Re, appresa la lezione, si rivolge alla figlia dicendo: «Avevi ragione tu. Una rosa e` piu` bella di un qualsiasi gioiello».
2. Alcuni esempi di “spiegazione a mano invisibile” Se il senso comune ha registrato la consapevolezza che non necessariamente le conseguenze coincidono con le intenzioni che ispirano l’azione, se l’arte, come diceva Picasso, «e` una bugia che dice la verita`», perche` ci fornisce conoscenze sul mondo reale pur parlando di un mondo immaginario, spetta agli scienziati sociali fare un uso scientifico della categoria di conseguenze inintenzionali e ai filosofi proporne un’analisi epistemologica. E` quello che ha fatto una consolidata tradizione di pensiero, che comprende filosofi e scienziati sociali, quali, tra gli altri, gli esponenti della “Scuola scozzese” (A. Smith, D. Hume, A. Ferguson), della “Scuola austriaca di economia” (C. Menger, L. von Mises, F. A. von Hayek), ma anche H. Spencer, K. R. Popper, R. Boudon, J. Elster. Una tradizione a cui possono essere ricondotti anche storici come A. D. Xe´nopol, E. Carr, G. De Sanctis, B. Croce, G. Salvemini, i quali hanno convincentemente dimostrato il carattere spontaneo di molti degli eventi storici. Prima di passare a un’analisi epistemologica della nozione di conseguenze inintenzionali, soffermiamoci su quattro significativi casi di “spiegazione a mano invisibile”, proposti da alcuni dei principali esponenti della tradizione individualistica.
I teorici delle conseguenze inintenzionali
Pur riconoscendo che certamente «ci sono degli esempi di determinate merci dichiarate moneta da una legge», Carl Menger, caposcuola degli austromarginalisti, scrive che «nella maggior parte dei casi, la deliberazione legislativa determino` […] il riconoscimento ufficiale come moneta ad una merce che gia` serviva come tale». In questi casi la moneta e` sorta «spontaneamente […], senza un accordo espresso degli individui». Per Menger, una merce tende spontaneamente ad assurgere a
La genesi della moneta secondo Carl Menger
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Il mestiere dello scienziato sociale
numerario e quindi a moneta, perche` il baratto si rivela un sistema oltremodo difficoltoso per far incontrare la domanda e l’offerta di merci. A queste difficolta` si cerco` di porre rimedio constatando che «talune merci, e precisamente quelle che rispondevano a bisogni molto generali, erano domandate piu` delle altre, e che percio`, portando al mercato queste e non altre merci meno agevolmente vendibili, piu` facilmente riusciva a trovare, proprio tra coloro che domandavano queste merci, coloro che offrivano le merci che desiderava». Cosı`, «l’interesse economico porta i singoli attori economici, con una maggiore conoscenza del loro interesse individuale, senza qualsiasi accordo, senza coazione legislativa, anzi addirittura senza alcun riguardo verso l’interesse pubblico, a scambiare le merci proprie con altre aventi un mercato piu` vasto, anche se di queste non hanno un immediato bisogno; e tra queste merci saranno preferite quelle che sono piu` adatte a servire alla funzione di mezzo di scambio nel modo piu` comodo ed economico». Accade, dunque, che «sotto il potente influsso della consuetudine, appare quel fenomeno, che e` dato osservare dappertutto col crescere della cultura economica, vale a dire che un certo numero di beni, e precisamente quelli che nei riguardi del tempo e del luogo sono i piu` facilmente smerciabili, trasportabili e durevoli e piu` agevolmente divisibili, siano accettati in cambio da tutti e percio` possono essere permutati con qualsiasi altra merce. Questi beni – conclude Menger – furono dai nostri antenati chiamati moneta». L’origine della moneta, quindi, puo` essere «compiutamente spiegata nella sua realta` soltanto se sappiamo ravvisare in quest’istituzione sociale il prodotto irriflesso, il risultato involontario dell’attivita` specificamente indivi1 duale dei membri di una collettivita`» . La genesi del linguaggio secondo Herbert Spencer
«L’evoluzione del linguaggio, scrive Herbert Spencer, mostra che tutte le sue parole e le principali caratteristiche della sua struttura hanno avuto una genesi naturale». E non solo essa e` stata «naturale fin dall’inizio, ma e` stata anche spontanea. Ne´ il linguaggio e` un astuto schema escogitato da un sovrano o da un corpo di legislatori. Non c’e` stata nessuna assemblea di selvaggi che ha inventato le parti del discorso e che ha deciso quali 1 C. Menger, Principi fondamentali di economia politica (1871), tr. it., UTET, Torino, 1986, pp. 118-120.
Dal micro al macro: la “spiegazione a mano invisibile”
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principi si dovessero seguire. Di piu`. Avanzando senza l’intervento di alcuna autorita` e senza alcuna regolazione stabilita, questo processo naturale si e` sviluppato senza che alcun uomo si accorgesse di tale evoluzione. Unicamente sotto la pressione del bisogno di comunicare le loro idee e i loro sentimenti – e quindi soltanto perseguendo i loro interessi – gli uomini a poco a poco hanno sviluppato il linguaggio nell’assoluta inconsapevolezza che quello che stavano facendo e pensando fosse qualcosa di piu` del perseguimento dei loro interessi. Dell’intera popolazione del globo probabilmente non piu` di una persona sa che con il suo parlare quotidiano egli sta facendo avanzare il processo attra2 verso il quale il linguaggio si evolve» . «Non vi e` governo, afferma Vincenzo Cuoco, il quale non offra a molti molti beni e non abbia molti partigiani. Quando colui che dirige una rivoluzione vuol tutto riformare, cioe` vuole tutto distruggere, allora ne viene che quegli stessi, i quali bramano la rivoluzione per una ragione, l’aborrono per un’altra: passato il primo momento dell’entusiasmo ed ottenuto l’oggetto principale, il quale, perche` comune a tutti, e` sempre per necessita` con piu` veemenza desiderato e prima degli altri conseguito, incomincia a sentirsi il dolore di tutti gli altri sacrifici che la rivoluzione esige», cosicche´, conclude Cuoco, «la mania 3 di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione» .
L’esito controrivoluzionario delle rivoluzioni secondo Vincenzo Cuoco
Commentando le tesi di Weber, Boudon sostiene che la sensibile riduzione del ruolo della magia nella societa` moderna debba essere considerata, oltre che l’esito dei successi della scienza, anche una conseguenza non voluta della diffusa adesione alle religioni monoteiste. «L’insediamento, con il giudaismo, di un Dio unico e onnipotente tendeva in effetti a squalificare le pratiche magiche; la magia cessa di essere funzionale quando gli dei non sono concepiti come influenzabili; e 4 un Dio onnipotente non puo` esserlo» .
La scomparsa della magia secondo Raymond Boudon
2 H. Spencer, Specialized Administration (1871), ora in Id., Essays: Scientific, Politic and Speculative (1891), Routledge-Thoemmes Press, London, 1996, vol. III, p. 403 3 V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli (1801), Rizzoli, Milano, 1999, p. 159. 4 R. Boudon, “Razionalita` e religione”, in Biblioteca della liberta`, 2001, n. 158, p. 18.
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Il mestiere dello scienziato sociale
G. B. VICO: IL «MONDO DELLE NAZIONI» COME CONSEGUENZA ININTENZIONALE Il «mondo delle nazioni» – ha scritto G. B. Vico, ben conscio dell’origine spontanea di molte istituzioni sociali – «e` uscito da una mente spesso diversa e alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari che essi uomini si avevano proposti; dei quali fini ristretti, fatti mezzi per salvare fini piu` ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione su questa terra». «Dall’impulso della libidine sono nati i matrimoni e le famiglie; dall’ambizione smodata dei capi sono nate le citta`; dall’abuso della liberta` dei nobili sopra i plebei sono nate e leggi e la liberta` popolare. La provvidenza rivolge ai fini della conservazione e della giustizia della societa` umana le azioni e gli impulsi apparentemente piu` rovinosi»5.
3. La natura delle conseguenze inintenzionali Perche´ esistono
Le conseguenze inintenzionali, dunque, esistono. Ma perche´ esistono? A questa domanda si puo` rispondere che questi effetti di aggregazione sono dovuti a due ragioni strettamente logiche: i) le conseguenze di ogni azione sono, in linea teorica, infinite; ii) in linea di principio infinite sono pure le possibili combinazioni casuali di catene causali (di azioni) indipendenti. Di queste infinite conseguenze di azioni e possibili combinazioni tra azioni e` evidentemente impossibile prevedere tutte quelle che fattualmente si verificheranno in un determinato orizzonte spazio-temporale. Vi e` inoltre una ulteriore condizione che facilita la proliferazione delle conseguenze inintenzionali: nei sistemi di interazioni a elevato grado di “apertura”, come quelli generati dalle azioni umane, nei quali cioe` le dinamiche sono continuamente modificate da “informazioni” (obiettivi, conoscenze, nuove azioni) provenienti dall’esterno o che si generano all’interno, le possibilita` di combinazioni casuali tra catene di azioni indipendenti sono sempre piu` elevate, contribuendo cosı` ad accrescere le conseguenze di azioni non contenute nelle intenzioni degli attori.
5 G. B. Vico, La scienza nuova (1744), Laterza, Bari, 1960-1961, vol. III, p. 1048.
Dal micro al macro: la “spiegazione a mano invisibile”
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Quali sono invece le caratteristiche che possono assumere le conseguenze inintenzionali? A questo proposito si possono individuare quattro coppie di attributi, che si possono liberamente combinare tra di loro; tali conseguenze possono essere: semplici o complesse, prevedibili o imprevedibili, desiderabili o indesiderabili, riconoscibili o irriconoscibili. Le conseguenze inintenzionali possono essere considerate, secondo una distinzione proposta da Boudon, come effetti semplici, quando il fenomeno sorto spontaneamente e` il prodotto della mera sommatoria di un certo numero di azioni orientate ad altri obiettivi. E` il caso, ad esempio, della «profezia che si autoadempie» (self-fulfilling prophecy) di cui parla R. K. Merton: «ciascun investitore, ritenendo possibile il fallimento della banca, e` indotto a ritirare i suoi depositi, e tutti insieme provocano quel 6 fallimento che nessuno desiderava» . In altri casi, invece, lo scienziato sociale si trova al cospetto di effetti complessi, di fenomeni inintenzionalmente prodotti da sistemi di interazione non riducibili alla semplice giustapposizione delle singole azioni. Si pensi all’inflazione, che e` il risultato non voluto di un intreccio di comportamenti (di consumatori, imprenditori, investitori finanziari, di autorita` politiche e monetarie) o alle situazioni descritte dal dilemma del prigioniero, nelle quali l’interazione delle decisioni liberamente adottate da due o piu` attori, volte a conseguire quella che essi ritengono la migliore opportunita` raggiungibile, produce per tutti un risultato insoddisfacente. Nel ricostruire questo tipo di effetti occorre, dunque, prendere in esame ruoli, aspettative, funzioni, che condizionano quei grovigli di interazioni che generano gli esiti spontanei.
Semplici o complesse
Pur non essendo contenute nelle intenzioni, ci sono delle conseguenze inintenzionali che possono essere previste, a condizione di possedere le informazioni pertinenti; poi, tra quelle prevedibili, troveremo quelle effettivamente previste da chi agiva (o da altri) e quelle non previste. Il fatto che – come ha osservato Croce – la persecuzione dei cattolici da parte di Bismarck finı` per rafforzarne l’organizzazione e rinsaldarne l’identita`, poteva essere previsto da chi avesse avuto conoscenza
Prevedibili o imprevedibili
6
R. K. Merton, Teoria e struttura sociale (1968), tr. it., il Mulino, Bologna, 1971, p. 766.
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Il mestiere dello scienziato sociale
della storia e del radicamento sociale dei cattolici nella societa` prussiana. In altri casi, invece, la particolare configurazione della situazione rende imprevedibili gli esiti inintenzionali, perche´ diventa difficile, se non impossibile, il possesso delle informazioni necessarie per prevederli. Coloro che nell’antichita` praticavano il baratto, non erano nelle condizioni di prevedere che, nel lunghissimo periodo, queste loro azioni avrebbero contribuito, senza volerlo, a far nascere la moneta e quindi a trasformare alla radice i connotati dell’intera economia. Desiderabili o indesiderabili
Non per il fatto di essere non volute tali conseguenze di azioni devono essere necessariamente indesiderabili. A seconda dei valori, degli interessi, degli obiettivi degli attori che le provocano e di coloro che comunque sono interessati dalla loro emergenza, le conseguenze inintenzionali – una volta che si sono verificate – possono essere considerate (da ogni singolo) desiderabili o indesiderabili. Gli ingorghi automobilistici che si formano nei pressi degli incroci stradali delle grandi citta` sono certamente una conseguenza inintenzionale generata dalla decisione di un elevato numero di automobilisti, i quali ritengono che percorrere quella strada rappresenti la migliore soluzione al loro problema di attraversare la citta`. L’aggregazione di un elevato numero di queste azioni, perfettamente razionali, impedisce a questi comportamenti di centrare l’obiettivo. Ora, e` evidente che per gli automobilisti in coda all’incrocio, l’ingorgo e` un esito indesiderabile; ma questo stesso evento e` certamente desiderabile, per esempio, per coloro che vivono proprio grazie agli ingorghi, chiedendo l’elemosina, vendendo merci di vario tipo agli automobilisti in fila o lavando i vetri delle automobili. E se questo evento e` indesiderabile per gli abitanti della zona, perche´ provoca rumore e inquinamento, e per gli amanti delle opere d’arte, perche´ lo smog le corrode, non e` escluso che esso possa essere valutato desiderabile da coloro che invece trovano un lavoro proprio restaurando le opere d’arte rovinate dall’inquinamento prodotto dagli scarichi delle automobili. Il carattere desiderabile o indesiderabile delle conseguenze inintenzionali e` stato al centro dell’interesse dei teorici della “spiegazione a mano invisibile”: se autori come A. Smith, C. Menger, F. A. von Hayek, spiegando la genesi del linguaggio, del mercato, dello Stato, della moneta, hanno maggiormente insistito sugli esiti (a loro avviso) positivi delle interazioni, altri individua-
Dal micro al macro: la “spiegazione a mano invisibile”
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listi, si pensi a L. von Mises, a K. R. Popper, a R. Boudon, indagando il fallimento dei tentativi di pianificazione economica e sociale e di introduzione di vaste riforme sociali, hanno sottolineato soprattutto il carattere negativo (spesso ampiamente prevedibile) delle conseguenze non intenzionali generate dalla volonta` di imporre “ordini costruiti” su vasta scala. Questi effetti emergenti indesiderabili possono essere efficacemente chiamati, secondo la fortunata definizione di Boudon, «effetti perversi». Si puo` parlare di esiti inintenzionali solo quando si riconosce un determinato fenomeno o evento sociale come il prodotto di azioni umane, ma non, per usare le parole di A. Ferguson, dell’«umano progettare». Tale riconoscimento, evidentemente, e` legato al possesso delle necessarie informazioni. Una delle principali sfide dell’individualismo metodologico e` proprio quella di consentire un pubblico e condiviso riconoscimento del carattere emergente di molti eventi sociali. L’esistenza di tali effetti e` pertanto legata alla solidita` logico-empirica delle teorie che ricostruiscono questo legame non voluto tra azioni umane e determinati fenomeni sociali. Per Tocqueville il crollo dell’Ancien Re´gime fu un esito spontaneo della combinazione di una serie di azioni (dei sudditi, dei nobili, della monarchia) che erano destinate, tra gli altri scopi, anche a migliorare le condizioni di vita del popolo. Per l’Abate Barruel, invece, la Rivoluzione francese e` una congiura internazionale ordita dai giacobini, dietro i quali c’era gente come Voltaire e anche Federico II. Se Tocqueville vuole dimostrare come la Rivoluzione «uscisse quasi spontaneamente dalla societa` che avrebbe distrutto», la tesi di Barruel e` che «in questa Rivoluzione francese tutto – persino i crimini piu` spaventosi – e` stato previsto, ponderato, calcolato, deciso e stabilito». Il riconoscimento del crollo dell’Ancien Re´gime come effetto inintenzionale o come evento pianificato, dipende dagli esiti del controllo empirico di queste due teorie; controlli che, nel tempo, hanno dato ragione a Tocqueville. E` bene che lo scienziato sociale tenga presente queste caratteristiche delle conseguenze inintenzionali, al fine di poter meglio svelarne la genesi e indagarne l’impatto sociale. In particolare, e` buona regola metodologica che, quando ricostruisce la situazione oggettiva (cioe` come lui la vede) nella quale si
Riconoscibili o non riconoscibili
Il compito del ricercatore
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Il mestiere dello scienziato sociale
sono sviluppate le azioni e i processi di composizione delle loro conseguenze, il ricercatore spieghi: i) se gli attori avevano effettivamente previsto alcune delle conseguenze inintenzionali prevedibili; ii) perche´, eventualmente, essi (data la loro percezione della situazione) erano nelle condizioni di prevederne delle altre, che pure sono accadute; iii) perche´, invece, per essi era impossibile prevedere eventuali altri effetti inintenzionali prodotti dalle loro azioni; iv) quali individui sono stati interessati dall’emergenza di tali conseguenze, tenendo conto che queste ultime non di rado interessano anche soggetti diversi dagli attori che le hanno generate; v) chi sono, e per quale ragione, coloro che hanno usufruito di conseguenze inintenzionali ritenute, post factum, desiderabili dagli stessi interessati, e coloro, invece, che hanno subito delle conseguenze inintenzionali che hanno considerato indesiderabili.
4. Individualismo metodologico e spiegazione nomologica Ragioniazionifenomeno sociale
Weber e la genesi del capitalismo
La logica della spiegazione individualistica, come si e` detto, consiste nel ricostruire la sequenza ragioni-azioni-fenomeno sociale; se mediante l’analisi situazionale si spiega l’azione ricostruendo la relazione causale tra ragioni e azioni, mediante la “spiegazione a mano invisibile” si ricostruisce il legame che intercorre tra le azioni e quei fenomeni prodotti inintenzionalmente dalla loro aggregazione, e tale connessione e` anch’essa di tipo causale. Le conseguenze inintenzionali sono, per l’appunto, conseguenze, cioe` effetti, di cause rappresentate da azioni e interazioni. Si prenda la spiegazione della genesi del capitalismo avanzata da Weber. Il sociologo tedesco da` conto di questo fenomeno rispondendo alle tre domande canoniche per un individualista: i) chi ha contribuito a provocare il fenomeno: gli imprenditori calvinisti, che hanno evitato di accumulare i guadagni e li hanno continuamente reinvestiti; ii) perche´ hanno agito in questo modo: perche´, sulla base di una idea religiosa, essi hanno considerato il successo professionale come un signum salutis, un forte indizio di appartenere agli electi; e tale convinzione in qualche modo alleviava quella loro angoscia circa la loro sorte dopo la vita terrena derivante dall’adesione alla credenza della predestinazione; iii) come si passa dal livello micro
Dal micro al macro: la “spiegazione a mano invisibile”
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delle singole azioni a quello macro dell’evento storico: la semplice sommatoria di un numero elevatissimo di azioni di imprenditori calvinisti che si sono comportati in questo modo ha fatto sorgere quello che Weber definisce lo «spirito del capitalismo». Weber ricostruisce il problema che questi individui avevano di fronte, spiega poi perche´ scelsero quel mezzo (cioe` quel tipo di comportamento) per tentare di risolverlo e, infine, evidenzia come quel grande evento storico rappresentato dalla genesi del capitalismo possa essere considerato anche come un esito non intenzionale dell’aggregazione di queste azioni. «Se prendiamo come punto di partenza – scrive Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – le nuove creazioni di Calvino, del calvinismo e delle altre sette puritane, cio` non deve essere inteso nel senso che noi ci attendiamo di trovare in taluno dei fondatori o dei rappresentanti di tali comunita` religiose la creazione di cio` che noi chiamiamo “spirito del capitalismo” quale scopo dell’opera sua. Noi non potremmo credere che l’aspirazione e l’attivita`, rivolte ai beni mondani, pensate come fine a se stesse, abbiano rappresentato per alcuno di essi un valore etico […]. La salute delle anime era il solo cardine della loro vita e della loro opera. Le loro finalita` e gli effetti pratici della loro dottrina furono tutte imperniate intorno ad essa, e furono conseguenze di motivi puramente religiosi. E dovremmo pertanto convincerci che gli effetti della Riforma sulla civilta` furono in gran parte – anzi, per il nostro speciale punto di vista, per la maggior parte – conseguenze impreviste e addirittura non volute dell’opera dei riformatori, spesso divergenti o addirittura opposte a tutto cio` che essi sognavano nei loro ideali»7. La teoria di Weber si articola in una doppia spiegazione causale: i) quando sostiene che gli imprenditori calvinisti reinvestirono i loro profitti perche´ credevano che il successo professionale fosse un indizio della loro salvezza, egli propone 7
M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), tr. it., Sansoni, Firenze, 1977, pp. 160-161. Corsivo aggiunto.
Leggi e conseguenze inintenzionali
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Il mestiere dello scienziato sociale
Un metodo individualistico e nomologico
Collettivisti nomologici e individualisti antinomologici
una relazione causale tra queste azioni e le ragioni da cui esse sono ispirate, sulla base di una legge implicita, secondo la quale “chi vuole estendere le proprie attivita` economiche, tende a reinvestire i propri guadagni”; ii) quando esplicita il legame tra le singole azioni degli imprenditori e lo “spirito del capitalismo”, utilizza la legge che cosı` puo` essere esplicitata: “la diffusione su larga scala della tendenza a estendere le attivita` economiche da parte dei singoli imprenditori fa nascere quel sistema di relazioni economiche chiamato capitalismo”. Sulla scorta di questo esempio arriviamo a una importante conclusione: se nella realta` sociale non esistono altre entita` che gli individui e le loro azioni; se, di conseguenza, l’oggetto di studio delle scienze sociali e` rappresentato dalle azioni e dalle loro conseguenze; se spiegare un’azione significa rintracciarne le cause, ricostruendo anche quella relazione causale che e` la connessione mezzo/fine; e se, infine, i processi di aggregazione delle singole azioni vanno considerati come le cause che, per via intenzionale o inintenzionale, generano i fenomeni sociali, allora si puo` sostenere la tesi che individualismo metodologico e spiegazione nomologico-causale non solo non sono incompatibili, ma, se correttamente intesi, sono indissociabili l’uno dall’altra. Da un lato, come si vedra` in seguito, non sono epistemologicamente difendibili le posizioni di quei collettivisti nomologici (A. Comte, G. W. F. Hegel, K. Marx) che hanno inteso la spiegazione causale come un tentativo di svelare le leggi di sviluppo storico dell’intera societa`, dall’altro appaiono non condivisibili le tesi degli individualisti antinomologici (W. Dilthey, B. Croce, R. G. Collingwood) sostenitori del metodo dell’empatia, i quali, consapevoli dell’insostenibilita` epistemologica di una concezione della spiegazione causale riferita all’evoluzione dell’intera societa`, hanno finito per bandire le nozioni stesse di legge e di causa dal vocabolario delle scienze sociali. Il metodo nomologico-individualistico, che – sulla scorta di una consolidata tradizione di pensiero, la quale comprende, tra gli altri, gli economisti austromarginalisti, G. Salvemini, K. R. Popper, C. G. Hempel, E. Nagel, E. Carr – si propone in questa sede, rappresenta un tertium genus tra la filosofia della storia dei collettivisti-nomologici e lo storicismo metodologico dei teorici dell’empatia, sostenuto dagli individualisti-antinomologici.
Dal micro al macro: la “spiegazione a mano invisibile”
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5. Le conseguenze epistemologiche della scoperta degli “effetti emergenti” La scoperta che le azioni umane generano esiti non contenuti nelle intenzioni di chi le ha poste in atto ha conseguenze decisive non solo nel campo della scienza (sociale), ma anche in quello delle teorie non scientifiche, poiche´ tale scoperta consente di criticare importanti teorie filosofiche. “Costruttivismo”, “teoria cospiratoria della societa`”, “psicologismo”, “metodo dell’empatia”, “determinismo sociale”, sono alcune influenti concezioni filosofiche ed epistemologiche che – sulla base della tesi della razionalita` delle teorie metafisiche esaminata nel capitolo precedente – possono essere criticate proprio partendo dall’irrinunciabilita` della nozione di conseguenze inintenzionali. La constatazione che ci sono fenomeni sociali, piccoli e grandi, che non sono esiti di progetti umani, rende inaccettabile il costruttivismo, cioe` quella teoria che sostiene che tutti gli eventi e i fenomeni sociali, nella loro genesi e nel loro mutamento, sono eventi pianificati e realizzati da singoli o da gruppi organizzati.
Costruttivismo
Con il costruttivismo diventa pure insostenibile una sua diretta conseguenza, la teoria cospiratoria della societa`, secondo la quale, se tutti gli eventi sono frutto di piani intenzionali, allora quelli negativi (per un individuo, per un gruppo o per l’intera collettivita`, quali: epidemie, carestie, rivoluzioni, disoccupazione, inflazione, fallimenti di imprese, sconfitte elettorali, scomparsa di partiti politici, fallimenti di riforme politiche ed economiche, insuccessi professionali, ecc.), sono evidentemente l’esito di cospirazioni da parte di qualche nemico che va, quindi, individuato e combattuto. Ora, e` un dato di fatto che nella storia dell’umanita` le congiure ci sono sempre state, ma il riconoscimento dell’insorgenza di eventi sociali non pianificati impedisce di considerare intenzionali, e quindi frutto di complotti, tutti i fenomeni indesiderati. Le epidemie, le carestie, l’inflazione, la disoccupazione, non sono conseguenze di congiure, e quindi nessuno e` autorizzato a una caccia alle streghe (che proprio sulla base di questi errati presupposti epistemologici si e` avuta, per lunghi secoli, non solo in senso metaforico) al fine di individuarne i mandanti. Di questi eventi ritenuti indesiderabili
Teoria cospiratoria
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Il mestiere dello scienziato sociale
occorre invece, molto piu` correttamente, rintracciarne le cause, ed essere ben attenti a che quelle strategie mirate alla loro eliminazione non finiscano a loro volta – come non di rado accade – per conseguire esiti opposti a quelli sperati. LA RICERCA DEL CAPRO ESPIATORIO: LA STORIA DELLA “COLONNA INFAME” Tra gli eventi storici erroneamente e tragicamente interpretati come frutto di cospirazioni, ve ne e` uno che e` diventato il simbolo del tragico fanatismo che inevitabilmente viene alimentato dalla ricerca a tutti i costi di un capro espiatorio: la condanna a morte di Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, raccontata da Alessandro Manzoni nella sua Storia della colonna infame. «La mattina del 21 di giugno 1630, scrive Manzoni, verso le quattro e mezzo una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, […] vide un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell’occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che `e subito dopo voltato il cantone, e che, a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. All’hora, soggiunse, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno di quelli che, a’ giorni passati, andavano ungendo le muraglie. Presa da tal sospetto, passo` in un’altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener d’occhio lo sconosciuto, che s’avanzava in quella: et viddi, dice, che teneua toccato la detta muraglia con le mani»8. Comincia cosı` la tragica vicenda di Guglielmo Piazza, sospettato di essere un untore: se c’era la peste a Milano e` perche´ qualcuno l’aveva voluta e diffusa. Nonostante indicibili torture, Piazza non si stanca di riaffermare la propria innocenza, ma non venne creduto. Per i suoi accusatori era inconcepibile che un fenomeno come quello della peste potesse diffondersi senza che qualcuno lo volesse. Per di piu`, essi applicavano rigidamente il principio di colpevolezza e il principio di verificazione. Bastava un minimo sospetto per essere ritenuti colpevoli, e, per affrancarsi dalla condanna, occorreva dimostrare la verita` della propria innocenza. Ma la verificazione di una teoria e` un procedimento impossibile, perche´ sono infinite le conseguenze di
8 A. Manzoni, Storia della colonna infame (1842), Mondadori, Milano, 1984, p. 11.
Dal micro al macro: la “spiegazione a mano invisibile”
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una qualsiasi ipotesi, e cosı` Piazza non riesce a chiarire tutte le circostanze; e questa difficolta`, agli occhi dei suoi accusatori, rappresentava una conferma che stava mentendo e che meritasse la tortura. Con l’inganno, promettendo l’impunita`, le autorita` riescono nell’intento di far confessare a Piazza un reato che, in realta`, non ha commesso, e a fargli ammettere il coinvolgimento di altri, tra cui Giangiacomo Mora. Quest’ultimo, benche´ innocente, confessa anch’egli di essere un untore, pur di evitare i supplizi della tortura. E tuttavia, proprio perche´ inventate, le confessioni dei due non sono perfettamente concordi, e «il detto di ognuno di quei due infami valse contro l’altro». Pur reoconfessi, furono accusati di mentire e condannati a morte. In questo modo, commenta Manzoni, i giudici del «supremo tribunale di Milano», riuscirono «non solo a fare atrocemente morire degli innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morire colpevoli»9. E in quel «tumulto di chiacchiere» non fu ritenuta rilevante la circostanza che Piazza fosse un «commissario della Sanita`». Ai giudici che «condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati di aver propagandato la peste con certi ritrovati sciocchi non meno che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella speranza medesima, dopo aver decretato, in aggiunta de’ supplizi, la demolizione della casa di uno di quegli sventurati, decretarono che in quello spazio si innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con una iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E non si sbagliarono: 10 quel giudizio fu davvero memorabile» . Dopo ben centoquarantasette anni, durante i quali anche illustri intellettuali non mancarono di confermare questa versione dei fatti, Pietro Verri rifa` questo fatto storico, individuando chi erano stati, in questa vicenda, i «veri carnefici»: «la colonna infame fu atterrata nel 1778».
La consapevolezza dell’esistenza di fenomeni non voluti, compreso il fallimento delle singole strategie di azione, e` la piu` efficace argomentazione contro lo psicologismo, cioe` quella sempre presente tendenza a ridurre la sociologia a psicologia e quindi la spiegazione dei fatti sociali all’introspezione psicologica degli attori che li hanno prodotti. Se l’evento sociale e` un esito spontaneo, si pensi alla moneta, a nulla servirebbe indagare le motivazioni psicologiche di coloro che, praticando in ba9 10
Ivi, p. 79. Ivi, p. 3.
Psicologismo ed empatia
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Il mestiere dello scienziato sociale
ratto, hanno contribuito – senza volerlo – alla genesi di questa istituzione sociale. La psicologia puo` anche essere di aiuto a ricostruire le intenzioni che presiedono a un’azione, ma e` evidentemente impotente a spiegare eventi che, pur essendo esiti di azioni, non sono contenuti nelle intenzioni di chi agisce. E, per le medesime ragioni, rivela tutti i suoi limiti anche quel metodo psicologistico che e` l’empatia. Non solo, come si e` visto, questo procedimento, quando e` possibile, si limita a fornire un eventuale ausilio per formulare una teoria, la quale comunque e` una ipotesi (di spiegazione causale dell’azione) la cui validita` e` indipendente dal procedimento di penetrazione simpatetica; ma, per di piu`, il metodo dell’empatia si rivela totalmente inutilizzabile per dare conto di fenomeni non prodotti intenzionalmente dalle azioni, per la cui spiegazione e` di conseguenza irrilevante l’immedesimazione empatica finalizzata a comprendere le intenzione degli attori. Determinismo sociale
La continua insorgenza di questi effetti di superamento del bersaglio (overshooting effects) e il fatto che essi non possono essere tutti previsti (in quanto le conseguenze di una teoria e le sue possibili combinazioni sono in linea di principio infinite), mina alla radice qualsiasi determinismo sociale, cioe` i tentativi di individuare le dinamiche di sviluppo di vasti ambiti sociali o addirittura della societa` nel suo insieme. Le conseguenze inintenzionali, infatti, retroagiscono continuamente sul sistema di interazione in cui si producono, il quale, in quanto parzialmente mutato, produrra` altre modalita` di interazione, che genereranno altre conseguenze inintenzionali di diversa natura, le quali, a loro volta, cambieranno ancora il sistema di interazione, e cosı` via. Si sviluppa, cosı`, un processo evolutivo, il cui carattere aperto rappresenta un elemento di difficolta` per la formulazione di previsioni scientifiche su vasta scala e nel lungo periodo, e, come si vedra` nel prossimo capitolo, contribuisce a trasformare in profezie politiche quei tentativi di individuare lo sviluppo ineluttabile dell’intera storia umana.
Bibliografia ragionata Una analisi teorica della nozione di conseguenze inintenzionali e una rassegna storica della sua applicazione da parte degli
Dal micro al macro: la “spiegazione a mano invisibile”
esponenti della Scuola austriaca di economia e di Popper, e` contenuta in D. Antiseri, L. Infantino, G. Boniolo, Autonomia e metodo del giudizio sociologico, Armando, Roma, 1987. In Effetti “perversi” dell’azione sociale (1977), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1981, R. Boudon propone una istruttiva analisi del fallimento di alcune riforme sociali e politiche, mentre ne Il posto del disordine. Critiche delle teorie del mutamento sociale (1984), tr. it., il Mulino, Bologna, 1985, egli formula una critica ormai classica allo strutturalismo e al determinismo sociologico, avanzando una interpretazione in chiave individualistica del mutamento sociale. Le potenzialita` esplicative della nozione di conseguenze inintenzionali sono inoltre bene illustrate da J. Elster nel suo Come si studia la societa` (1989), tr. it., il Mulino, Bologna, 1993, un volume che rappresenta una efficace introduzione alla logica della spiegazione individualistica, e da M. Cherkaoui, Le paradoxe des conse´quences. Essai sur une the´orie des effets inattendus et non voulus des actions, Librairie Droz, Gene`ve, 2006.
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Capitolo decimo Dispersione della conoscenza e ordine sociale
1. Le norme sociali per difendersi dagli “effetti perversi” La inevitabile insorgenza di conseguenze inintenzionalmente ha da sempre rappresentato, per gli attori sociali, un fattore di incertezza in vista del conseguimento dei loro obiettivi. Incertezza destinata ad aumentare esponenzialmente nei casi in cui il singolo puo` centrare il suo scopo solo combinando il suo comportamento con numerose altre strategie di azione. Le norme sociali, cioe` le regole di comportamento che si affermano in un certo ambiente sociale, possono essere interpretate anche come degli strumenti che sorgono per governare sistemi di interazioni particolarmente complessi; come regole che hanno lo scopo di massimizzare le esternalita` positive generate dalle interazioni e di minimizzare quelle ritenute indesiderabili, al fine di ridurre il piu` possibile l’incertezza circa l’esito delle singole azioni. Regole di azione relative ai rapporti interpersonali (il saluto, scegliere l’abbigliamento in modo adeguato alle situazioni), all’organizzazione familiare (la ripartizione dei compiti tra moglie e marito), all’organizzazione del lavoro (rispettare le indicazione dei superiori), piu` in generale alla distribuzione delle risorse, vanno considerate come norme di comportamento, in alcuni casi di origine stipulativa (concordate tra i membri di un determinato gruppo), molto piu` spesso invece di origine evolutiva, che si sono spontaneamente affermate nel corso del tempo proprio perche´ hanno consentito di ridurre, per la risoluzione di problemi o famiglie di problemi individualmente rilevanti e socialmente diffusi, gli “effetti perversi” generati dalle interazioni. Tali regole, selezionatesi evolutivamente, sono dunque degli a posteriori per una tradizione evolutiva e degli a priori per il singolo individuo. Cosı`, ad esempio, le consuetudini legate alla definizione dei rapporti di proprieta`, o le cosiddette “buone maniere” (essere coerenti, dire la verita`, non offendere il prossimo, ecc.) sono tentativi, selezionati dalla tradizione, di introdurre una qualche forma di ordine nelle relazioni umane, per
Le norme e l’azione
La selezione evolutiva delle norme
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Il mestiere dello scienziato sociale
La riduzione del rischio
L’efficacia delle norme spontanee
rendere meno approssimative possibile la previsione circa gli esiti dei nostri comportamenti (ad esempio le reazioni altrui). Si tratta di regole che fissano principi da rispettare allorquando gli individui perseguono piani non realizzabili contemporaneamente e autonomamente. Se e` vero che in molti casi i costi di eliminazione degli “effetti perversi” sono proibitivi, spesso ci affidiamo a delle regole che li riducono sotto una certa soglia ritenuta accettabile; e lo facciamo anche se queste soluzioni, a loro volta, generano conseguenze indesiderate, le quali – date le condizioni – vengono tuttavia considerate un accettabile e inevitabile prezzo da pagare. Si pensi al traffico. L’eliminazione di tutti gli incroci stradali (mediante ponti o tunnel) e` economicamente proibitiva, per questo ci si affida alla “regola” dei semafori, che riduce l’“effetto perverso” degli ingorghi e che comunque genera altre conseguenze non desiderabili (costi economici, rischi per la incolumita` dei pedoni e degli automobilisti nel caso di violazione di questa regola), le quali, pero`, vengono giudicate – comparativamente – accettabili. L’eliminazione o la riduzione delle conseguenze indesiderabili e` legata ad un calcolo costi-benefici, il quale, a sua volta, si basa su previsioni incerte, per l’impossibilita` di contemplare tutte le circostanze e di possedere tutte le informazioni rilevanti. Proprio per questa ragione, le norme sociali che si affermano spontaneamente nel corso di spesso lunghissimi periodi di tempo sono maggiormente efficaci, perche´ si sono sviluppate sulla base di una vastissima casistica di tentativi ed errori; sono il prodotto dell’esperienza di molte generazioni, quindi di una quantita` di conoscenze enormemente superiore a quella di cui puo` disporre un singolo o un gruppo. Va infine osservato che l’affermazione delle regole sociali alle quali i singoli, in determinate circostanze, tendono a conformare il loro comportamento, riflettono sempre scelte di valori e di interessi, diffusi, radicati e condivisi: se si interviene per regolamentare il traffico e` perche` risulta socialmente condivisa la scelta di valore di difendere l’incolumita` delle persone e di garantire a tutti la piu` celere circolazione possibile.
Dispersione della conoscenza e ordine sociale
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2. Il micro-macro problem non e` un enigma La nozione di conseguenze inintenzionali ha un senso solamente nell’ambito della metodologia individualistica; si puo` infatti parlare di esiti inintenzionali delle azioni solo presupponendo una azione intenzionalmente e razionalmente orientata alla soluzione di un problema. Se invece viene intesa come mero effetto di strutture collettive o di variabili culturali, l’azione sarebbe priva di razionalita` e di intenzionalita`; e se non c’e` azione intenzionale non si potra` evidentemente parlare di conseguenze inintenzionali. Grazie alla scoperta della discordanza che spesso si riscontra tra le intenzioni e le conseguenze delle azioni, l’individualismo metodologico permette di non considerare un enigma il micromacro problem, cioe` il passaggio dalla dimensione dei singoli individui a quella macro-sociale. Se non esiste altra realta` che quella rappresentata dalle azioni individuali e dalle loro conseguenze, come e` possibile – si sono chiesti filosofici, storici, sociologici, economisti, linguisti – che individui singolarmente dotati di una razionalita` cosı` limitata abbiamo dato vita ad istituzioni sociali ed eventi storici per la cui realizzazione occorreva una quantita` di conoscenze enormemente piu` elevata di quella posseduta da un singolo o anche da un gruppo organizzato, e che quindi non possono essere considerati frutto di un progetto umano? Rinunciare a considerare il linguaggio, la moneta, lo Stato, il mercato, la divisione del lavoro, ecc., come effetti di aggregazione di un numero elevatissimo di azioni (destinate ad altri e piu` immediati obiettivi) che si sono succedute in un lunghissimo periodo di tempo, significa ipso facto abbandonare il terreno della spiegazione scientifica e optare per nozioni epistemologicamente insostenibili (e incompatibili con il metodo individualistico), come quelle, ad esempio, di leggi ineluttabili di sviluppo storico, di ontologie collettivistiche, di teorie della cospirazione. Privandosi della nozione di conseguenze inintenzionali, dunque, il micro-macro problem diventa un enigma che paralizza al cuore le scienze sociali e apre la strada a interpretazioni non scientifiche. Se, ad esempio, il linguaggio non venisse inteso come un lento e progressivo esito spontaneo, non resterebbe che considerarlo, ha fatto notare Spencer, come un «dono miraco-
Non c’e` inintenzionalita` senza intenzionalita`
Dal micro al macro
Spiegazione scientifica e conseguenze inintenzionali
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Il mestiere dello scienziato sociale 1 loso» di «origine soprannaturale» . Operazione, questa, certamente possibile e legittima, ma che si colloca fuori dal discorso scientifico. Come pure non scientifiche, come si vedra` in seguito, si rivelano quelle filosofie della storia – si pensi alla «legge dei tre stadi» di Comte, o alla dialettica di Hegel e di Marx – che hanno interpretato l’evoluzione sociale come il risultato di leggi (empiricamente incontrollabili o ampiamente falsificate) che ineluttabilmente guidano l’evoluzione storica della societa` nel suo complesso.
3. Taxis e Cosmos: “ordini costruiti” e “ordini spontanei” Spencer e Hayek
Le organizzazioni
Senza la nozione di conseguenze inintenzionali e` dunque impossibile proporre una soluzione scientifica al micro-macro problem. Tale nozione, infatti, consente di distinguere, come hanno fatto, tra gli altri, Spencer e Hayek, tra “ordini costruiti” e “ordini spontanei”: Taxis e Cosmos secondo la definizione hayekiana. Gli ordini costruiti sono quelle organizzazioni (ospedali, universita`, ministeri, partiti politici, piani di studi, associazioni di vario tipo, ecc.) progettate e realizzate da un singolo o molto piu` spesso da un gruppo di individui. Si tratta di ordini nell’ambito dei quali ai singoli membri – sulla base di norme di organizzazione – sono assegnati precisi ruoli e funzioni; sono stabilite specifiche regole di comportamento, modalita` di interazione e di scambio di informazioni. L’articolazione e il funzionamento delle organizzazioni e` orientato al conseguimento di fini prestabiliti, cioe` a far fronte ad alcuni problemi considerati rilevanti, la cui soluzione rappresenta la ragion d’essere di tali ordini. Essendo il risultato di un progetto umano, queste realizzazioni saranno inevitabilmente condizionate dalle conoscenze di coloro che le hanno pianificate. Risentendo inevitabilmente dei limiti delle conoscenze dei loro costruttori, siffatte organizzazioni non possono che essere semplici e limitate, sono cioe` in grado di “ordinare” soltanto limitati ambiti sociali. L’«ordine 1
H. Spencer, Specialized Administration (1871), ora in Id., Essays: Scientific, Political and Speculative (1891), Routledge-Thoemmes Press, London, 1996, vol. III, p. 402.
Dispersione della conoscenza e ordine sociale
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organizzato», come lo chiama M. Polanyi , non solo e` possibile, ma e` anche utile per il conseguimento di finalita` limitate e condivise, la cui realizzazione viene ritenuta al di fuori delle possibilita` di singoli individui e della loro spontanea coordinazione. Questa concezione di ordine, la quale presuppone una deliberata programmazione in vista di un fine stabilito, non esaurisce la gamma degli ordini possibili. Anzi, essa rappresenta soltanto una species di un piu` vasto genus. Accanto alle organizzazioni, infatti, abbiamo quegli ordini spontanei che si sono sviluppati inintenzionalmente, senza un deliberato progetto, grazie a una non programmata combinazione di azioni umane destinate ad altri e spesso piu` ravvicinati obiettivi. Rilevantissimi eventi e istituzioni sociali, quali il linguaggio, la moneta, lo Stato, il mercato, la divisione del lavoro, le citta`, vanno considerati come degli ordini autoorganizzati, esito non programmato di un lungo processo di aggregazione di singole azioni finalizzate a risolvere problemi condivisi, diffusi e ricorrenti nel tempo. Il mercato rappresenta un esempio classico di ordine autoorganizzato, generato da quella che Spencer definisce la «cooperazione spontanea» tra gli attori sociali. I protagonisti dello scambio, infatti, non si muovono sulla base di un copione prestabilito, ma, seguendo la logica della massimizzazione del profitto e della soddisfazione delle loro differenti e mutevoli preferenze, producono – senza volerlo – quell’ordine spontaneo chiamato mercato. «Non e` dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio – si legge in un famoso passo della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith – che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanita`, ma al loro 3 egoismo» . In questo come in altri casi, sembra quasi che «l’individuo sia spinto da una mano invisibile a promuovere un fine che non rientrava nelle sue intenzioni. Ne´ per la societa` e` sempre un male che questo fine non entri nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello 2
M. Polanyi, La logica della liberta` (1951), tr. it., Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, p. 245. 3 A. Smith, Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), tr. it., UTET, Torino, 1950, p. 56.
Gli “ordini spontanei”
Il mercato
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Il mestiere dello scienziato sociale
L’adattamento all’imprevedibile
della societa` in modo piu` efficace di quanto intenda volontaria4 mente promuoverlo» . Consentendo la piu` efficace utilizzazione possibile della conoscenza socialmente disponibile in vista della soluzione di problemi presenti e futuri, l’ordine spontaneo si rivela un potente strumento di adattamento a circostanze ignote e imprevedibili. Per questa sua connaturata qualita`, una qualche forma di autoorganizzazione spontanea non puo` essere del tutto assente anche negli ordini costruiti, i quali, per quanto possono essere minuziosamente programmati, non sono mai in grado di prevedere in dettaglio tutte le situazioni alle quali essi dovranno fare fronte. In questi casi saranno proprio le conoscenze disperse di quei membri che si troveranno ad affrontarle a consentire, nel rispetto di regole stabilite, di risolvere i problemi. Gli ordini costruiti sono quindi anch’essi sottoposti, in una certa misura, a una evoluzione spontanea, a un adattamento non prevedibile; e sarebbe opportuno che le organizzazioni fossero articolate tenendo conto che, pena il loro fallimento, esse si dovranno adattare in futuro a circostanze imprevedibili al momento della loro creazione.
4. “Ignoranza individuale” e “ordine esteso”
Il “paradosso della conoscenza”
Non solo singole istituzioni sociali, ma la societa` nel suo complesso puo` essere considerata un ordine spontaneo su vasta scala, un ordine esteso che nasce e si sviluppa inintenzionalmente, al quale contribuiscono, oltre che le singole azioni individuali, sia le organizzazioni (partiti, associazioni, ecc.), sia i piu` limitati ordini spontanei in essa contenuti (linguaggio, moneta, divisione del lavoro, Stato, ecc.). L’ordine esteso consente di non rimanere vittima di quel paradosso della conoscenza che e` magna pars del micro-macro problem: sulla base delle loro conoscenze e delle loro preferenze gli individui elaborano strategie di azione per la cui realizzazione, pero`, sono necessarie conoscenze di cui essi non dispongono e non sono in grado di possedere. E non ne dispongono perche´ non ne possono disporre in quanto, come ha evidenziato 4
Ivi, p. 529.
Dispersione della conoscenza e ordine sociale
Hayek, e come aveva fatto prima di lui un alto grande individualista ed evoluzionista come Spencer, una parte importante della conoscenza umana e` necessariamente dispersa tra gli individui. Se alcune conoscenze, come le teorie scientifiche, una volta scoperte, sono centralizzabili, esistono invece le «conoscenze delle circostanze particolari di tempo e di luogo» che si gene5 rano e si applicano «all’istante» ; sono legate cioe` alle situazioni problematiche nelle quali vengono a trovarsi i singoli. Potendone disporre esclusivamente coloro che si trovano in quelle circostanze, tali conoscenze non possono essere possedute in anticipo (prima che l’attore sociale si imbatta in quella situazione) e quindi non sono centralizzabili. Solo il medico che accorre al capezzale di un malato sa, se lo sa, cosa deve fare in quel caso, perche´ solo lui e` legato a quella circostanza. Certo, egli utilizza conoscenze precedentemente accumulate, tuttavia senza l’acquisizione di rilevanti informazioni riferite a quella particolare situazione egli non sarebbe nella condizione di agire. E quello che vale per il medico vale pure per il consumatore, l’imprenditore e, piu` in generale, per la risoluzione di una serie infinita di problemi dei quali e` costellata la vita di ognuno. Nell’ordine esteso la dispersione sociale della conoscenza, che altrimenti sarebbe un gap paralizzante, diventa una formidabile opportunita` di problem solving. Interagendo spontaneamente con gli altri soggetti, ogni individuo e` nelle condizioni di beneficiare, per la realizzazione dei propri piani, di una conoscenza enormemente superiore a quella da lui posseduta. Si pensi al consumatore, che in un sistema di mercato riesce a soddisfare le proprie preferenze beneficiando di conoscenze (altrui) che non sara` mai in grado di possedere. Soprattutto nelle societa` moderne, altamente “artificializzate”, nelle quali ogni abitante non e` un essere autarchico nella soluzione dei propri problemi, ma vive in un mondo (economico, tecnologico, commerciale, culturale, ecc.) che dipende in buona parte da conoscenze altrui, e` piu` che mai evidente che la sconfitta dell’ignoranza non e` una battaglia che il singolo puo` condurre individualmente, accrescendo le proprie conoscenze. E non solo perche´, per quanto possa essere incrementata (nei 5
F. A. von Hayek, L’uso della conoscenza nella societa` (1945), tr. it. in Id., Conoscenza, mercato, pianificazione, il Mulino, Bologna, 1988, p. 279.
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L’“ignoranza” come risorsa
La “sconfitta” dell’ignoranza
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Il mestiere dello scienziato sociale
Il “segreto” degli “ordini spontanei”
Cio` che non si conosce non si puo` pianificare
casi in cui e` possibile), la sua conoscenza sara` sempre molto limitata e insufficiente per realizzare molti e decisivi progetti; ma anche a motivo del fatto che ci sono conoscenze, come quelle «di circostanze particolari di tempo e di luogo», di cui puo` disporre solo chi e` in quella determinata situazione. Se nell’ordine costruito ogni membro puo` usufruire della conoscenza altrui soltanto nell’ambito di piu` o meno standardizzate procedure di interazione, l’ordine spontaneo consente di avvalersi della maggior quantita` possibile di conoscenza altrui senza seguire regole concordate; il singolo e` nelle condizioni di risolvere problemi, non benche´, ma proprio perche´ la conoscenza e` dispersa e proprio perche´ l’ordine spontaneo gli consente di beneficiarne. E` questo il “segreto” della superiore capacita` problem solving degli ordini spontanei, nell’ambito dei quali e` possibile la realizzazione (come e` il caso del mercato) di un numero elevatissimo di progetti individuali proprio grazie alle asimmetrie conoscitive che caratterizzano gli individui interessati. L’ordine spontaneo e`, dunque, lo strumento che ha consentito di evitare di rimanere vittima del paradosso della conoscenza, e che ha permesso di introdurre un ordine su vasta scala; un ordine che sarebbe impossibile perseguire mediante un piano, proprio per l’impossibilita` di prevedere e di possedere quelle conoscenze che sono disperse. E cio` che non si conosce non puo` essere evidentemente pianificato. Quale individuo o quale gruppo di individui poteva avere le informazioni necessarie, nei tempi antichi, per inventare la moneta e sostituirla al baratto o per progettare e realizzare lo Stato moderno? Si puo` dunque osservare che la condizione sociologica di ignoranza (avere bisogno delle conoscenze altrui per poter realizzare buona parte dei propri progetti) che caratterizza ogni individuo, non va interpretata come un paralizzante limite esistenziale, in quanto – grazie all’ordine spontaneo – essa diventa una grande opportunita` per la soluzione dei problemi.
5. L’“ordine spontaneo” come processo esplorativo L’efficacia dell’ordine spontaneo come strumento per l’adattamento a circostanze imprevedibili e piu` in generale per l’esplorazione dell’ignoto e` legata ad alcune sue intrinseche caratteristiche: esso e` astratto, ateleologico, teleonomico, autopoietico, policentrico.
Dispersione della conoscenza e ordine sociale
E` astratto, nel senso che non e` orientato a uno scopo specifico e non e` prevedibile il contenuto concreto che, di volta in volta, assumera`. L’ordine spontaneo non e` orientato a fronteggiare una singola e specifica situazione problematica, ma rappresenta un habitat che consente la soluzione del piu` grande numero e della piu` vasta gamma possibile di problemi. Non essendo, a differenza delle organizzazioni, orientato a fini stabiliti, esso permette la realizzazione del maggior numero possibile di piani individuali compatibili, non condivisi e non concordati. Gli individui, che non sono nelle condizioni di conoscere quali saranno in futuro i propri bisogni e i problemi nei quali si imbatteranno, grazie alla loro cooperazione spontanea saranno nelle migliori condizioni per farvi fronte quanto si trovano ad affrontarli E` ateleologico, perche´, essendo astratto e di origine inintenzionale, tale ordine non e` e non puo` essere orientato a un fine prestabilito e quindi prevedibile. L’ordine spontaneo `e senza un fine e senza fine. E` teleonomico, ossia tende ad autoorganizzarsi sulla base di un processo di adattamento che seleziona regole e forme di interazione maggiormente idonee a rispondere alle fondamentali esigenze funzionali di un gruppo sociale. La circolazione delle merci, ad esempio, e` un ordine che tende ad affermarsi perche´ garantisce una efficace soddisfazione delle preferenze. La selezione evolutiva che si produce con l’ordine spontaneo non riguarda tanto i singoli comportamenti, quanto norme sociali, regole di funzionamento di un gruppo, istituzioni. La selezione tra forme di organizzazioni (group selection) e` il dispositivo dell’evoluzione sociale, ed essa non e` che l’esito di una sezione di norme di comportamento (rule selection), la quale, non solo non e` incompatibile con i canoni dell’individualismo metodologico, ma e` spiegabile unicamente da questa prospettiva, visto che i gruppi sono insiemi di individui e le norme sono l’esito non intenzionale della combinazione di azioni intenzionalmente e razionalmente orientate alla soluzione dei problemi rilevanti per i singoli. E` autopoietico, perche´ contiene in se´ il principio della propria evoluzione: la spontanea interazione tra gli individui. Principio di evoluzione che non va confuso con una legge di evoluzione: per il
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L’“ordine spontaneo” e` astratto
L’“ordine spontaneo” e` ateleologico
L’“ordine spontaneo” e` teleonomico
L’“ordine spontaneo” e` autopoietico
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suo carattere spontaneo, questo tipo di ordine e` per definizione incompatibile – come si vedra` in seguito – con la insostenibile ricerca di una legge di evoluzione che ne predica lo sviluppo ineluttabile. Nell’ambito di questo principio di evoluzione rappresentato dalla spontanea interazione tra gli attori sociali, un posto di primo piano spetta alla dinamica della concorrenza tra gli individui per la realizzazione dei loro progetti. LA COMPETIZIONE COME “PROCESSO DI SCOPERTA” Negli ordini spontanei, quali la scienza, il mercato, la democrazia, e, piu` in generale, nell’ordine esteso rappresentato dal sistema sociale nel suo complesso, la competizione tra individui per la definizione dei margini di compatibilita` dei rispettivi progetti individuali (si pensi solo alla ripartizione delle risorse e del potere) diventa lo strumento piu` efficace per esplorare l’ignoto. La ricerca della verita` nella scienza, la ricerca del profitto soddisfacendo le preferenze dei consumatori in una economia di mercato e la ricerca del consenso politico in un sistema democratico, trovano il loro principale impulso nel principio di competizione, che e` un viaggio esplorativo, condotto in modo agonistico, verso la scoperta di nuove soluzioni. Se e` vero che, competendo, i singoli concorrono a risolvere problemi comuni ritenuti rilevanti, si puo` allora concludere che – se effettuata nel rispetto di regole condivise, quali quelle dello Stato di diritto – la competizione tra proposte alternative diventa una forma di cooperazione tra gli individui che le sostengono, perche´ le soluzioni trovate saranno ben presto socializzate. L’“ordine spontaneo” e` policentrico
E` necessariamente policentrico, perche´ – per sua natura – l’ordine spontaneo non dipende da un centro ordinatore e quindi i suoi abitanti, a differenza dei membri di un’organizzazione, non ricevono ordini da un vertice. Esso ha tanti centri di propulsione quanti sono gli individui, le loro interazioni e le situazioni problematiche nelle quali si trovano; e ognuno di questi “centri” contribuisce all’estensione e allo sviluppo dell’ordine spontaneo nel suo complesso. Tale carattere policentrico risulta ancora piu` chiaro e marcato in quell’ordine esteso che e` il sistema sociale, il quale si afferma spontaneamente sotto la pressione dei tentativi di soluzione di problemi e non sulla base di una variabile politica, ossia di un potere centrale ordinatore che lo promuove.
Dispersione della conoscenza e ordine sociale
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La dimensione politica interviene solo quando l’ordine esteso ha gia` assunto una certa consistenza, e rappresenta uno dei fattori che ne influenza l’evoluzione.
6. Perche´ l’“ordine esteso”: presupposti gnoseologici e conseguenze economiche, politiche e giuridiche L’essere umano non solo e` fallibile, ma e` anche “ignorante”. Laddove conosce, non e` in grado di arrivare alla certezza per l’impossibilita` logica di dimostrare la verita` di una teoria; ma intorno a questa conoscenza fallibile si dispiega una sterminata regione di “ignoranza”, popolata dalle «conoscenze delle circostanze particolari di tempo e di luogo», che il singolo, per ragioni strettamente epistemologiche, non e` in grado di possedere. Fallibilita` (nel senso popperiano) e “ignoranza” (nel senso hayekiano) sono i presupposti gnoseologici della nascita dell’ordine spontaneo, ai quali va aggiunto il carattere limitato delle risorse disponibili. Se l’uomo fosse un essere infallibile e onnisciente, e se non dovesse fare i conti con il problema della scarsita` delle risorse, sarebbe perfettamente in grado di realizzare autarchicamente tutti i suoi progetti e, di conseguenza, non sarebbe nato quello scambio interindividuale nel quale trova le sue scaturigini l’ordine spontaneo. Da questi presupposti gnoseologici ed economici (fallibilita`, “ignoranza”, scarsita` delle risorse) possono essere derivate alcune fondamentali conseguenze economiche, politiche, etiche, giuridiche, a conferma della tesi dell’impossibilita` epistemologica di fare a meno, su vasta scala, dell’ordine spontaneo.
Fallibilita` e “ignoranza”
Solo quell’ordine spontaneo rappresentato dal mercato e` in grado di rilevare, in tempo reale e su vastissima scala, quelle conoscenze disperse rappresentate dalle preferenze dei consumatori e dalle strategie degli imprenditori. Il gioco della domanda e dell’offerta e` una continua registrazione di una quantita` enorme di conoscenze, che si producono “all’istante”. Tali conoscenze vengono efficacemente riassunte dal prezzo di mercato, il quale costituisce un indice che sinteticamente trasmette una grande quantita` di informazioni; informazioni che dovranno essere poi interpretate da coloro che sono interes-
“Mano invisibile” e calcolo economico
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Il mestiere dello scienziato sociale
sati. E` proprio il sistema dei prezzi, come ha fatto osservare L. von Mises gia` a partire dagli anni Venti, a consentire il calcolo economico relativo alla produzione e alla distribuzione dei beni, e piu` in generale all’allocazione delle risorse. Registrando le preferenze dei consumatori, la dinamica della domanda e dell’offerta, e quindi i prezzi, rappresentano per gli imprenditori una irrinunciabile bussola per la direzione da seguire nel loro tentativo di adeguarsi alle preferenze dei consumatori, per la valutazione del rapporto costi/benefici, per la combinazione dei fattori di produzione, per un adeguato impiego, attraverso la divisione del lavoro, delle differenti capacita` individuali, per la formulazione di previsioni circa le possibilita` dei loro futuri progetti imprenditoriali. Essendo un ordine di illimitata estensione, basato su conoscenze «di circostanze particolari di tempo e di luogo», evidentemente non disponibili in anticipo, l’economia di mercato basata sul sistema dei prezzi non puo` essere sostituita da una decisione politica centralizzata. Nessuna autorita` centrale puo` disporre delle informazioni necessarie per sostituire il calcolo economico assicurato dal mercato con un piano di produzione di origine politica. Per ragioni strettamente epistemologiche, dunque, i tentativi di pianificazione economica, come puntualmente si e` verificato, sono destinati al fallimento. L’ingegneria sociale utopica
Il principio, secondo il quale cio` che non puo` essere conosciuto non puo` essere pianificato, vale a maggior ragione per l’intera societa`. Fallibilita`, “dispersione della conoscenza”, razionalita` limitata, “legge di Hume”, individualismo ontologico, conseguenze inintenzionali, sono argomentazioni filosofiche, logiche ed epistemologiche che rappresentano formidabili strumenti di critica di ogni forma di pianificazione sociale che, in nome di un disegno razionale (di ispirazione ideologica o religiosa), tenti di rimodellare l’intera societa`. Il razionalismo costruttivistico che ha partorito i tentativi di ingegneria sociale di cui sono stati espressione i regimi totalitari (comprese le teocrazie) del Ventesimo secolo, non a caso si e` basato su una concezione antiindividualistica della realta` sociale, la quale ha portato a sacrificare i singoli in nome della societa` sulla base della convinzione, avocata a se´ da qualcuno, di possedere una conoscenza assoluta delle dinamiche sociali e dell’evoluzione storica. Ispirati da filosofie atee o da concezioni teologiche, singoli o gruppi hanno ritenuto di aver accesso a un punto di vista privilegiato, e quindi di sapere in
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modo definitivo cio` che e` Bene e cio` che e` Male; e, in nome di questa presunzione hanno conseguentemente cercato di pianificare ab imis fundamentis l’intera societa`. Quasi un secolo prima che Mises, Hayek e Popper rivolgessero le loro devastanti critiche epistemologiche al totalitarismo (nazista, fascista e stalinista), era stato Spencer a evidenziare con grande preveggenza come il tentativo di imporre una «cooperazione obbligatoria» su vasta scala porti inevitabilmente ad una «societa` militare», in grado di reggersi soltanto attraverso «mezzi coercitivi»; una societa` nella quale non c’e` posto per la proprieta` e l’iniziativa privata e nella quale «l’individuo e` posseduto dallo Stato», perche´ «la conservazione della societa` e` il fine supremo». Laddove, invece, grazie alla «cooperazione spontanea», all’origine della «societa` industriale», si afferma un «governo rappresentativo» che assicura la piu` estesa iniziativa individuale e il maggior benessere collettivo possibili6. CONTRO L’USO RETORICO DEGLI “EFFETTI PERVERSI” La constatazione e la previsione dell’insorgenza di effetti perversi generati dal razionalismo costruttivistico non e` un argomento antiriformistico, e quindi a favore della conservazione sociale. La constatazione dell’impossibilita` epistemologica di pianificazione sociale, e quindi del fatto che, come sottolineato da Spencer, «il tentativo di deviare il corso evolutivo di una societa`» produce «mali collaterali non cercati» «spesso piu` gravi di quelli originari»7, e` una argomentazione contro l’ingegneria sociale utopica, ma non contro l’ingegneria sociale gradualistica. Accettare l’ordine spontaneo e il principio di competizione come fonte delle innovazioni sociali, significa – come hanno fatto, tra gli altri, proprio Spencer, Hayek e Popper – proporre un riformismo gradualistico, tertium genus tra pianificazione sociale e conservazione. Il politico razionale, epistemologicamente immune dalle tentazioni utopiche e costruttivistiche, dovra` rifuggire – osserva ancora Spencer – da «speranze chimeriche» e «accontentarsi di speranze piu` moderate,
6
H. Spencer, Istituzioni politiche (1882-1896), tr. it., Casa TipograficoEditrice S. Lapi, Citta` di Castello, 1904, p. 20 e ss. 7 H. Spencer, Over-legislation (1853), ora in Id., Essays: Scientific, Political, Speculative, cit., p. 242.
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mentre pero` dovra` perseverare e non diminuire i suoi sforzi. Sebbene sia convinto che relativamente si puo` fare ben poco, egli capira` che anche quel poco e` degno di essere fatto, e alla energia del filantropo sapra` unire la calma del filosofo»8. “Ignoranza” e liberta`
Non e` difficile rinvenire, nella storia del pensiero filosofico, una vasta gamma di tentativi di giustificazione della liberta` umana: si va da argomentazioni teologiche (la liberta` e` un dono di Dio) ad argomentazioni giusnaturalistiche (la liberta` e` insita nella “natura umana”), fino a concepirla come una scelta neanche argomentabile. Sulla scia delle teorie epistemologiche esaminate ( fallibilismo, “dispersione della conoscenza”, individualismo metodologico, ordine spontaneo), e` possibile affiancare a queste prospettive un efficace tentativo di giustificazione evolutiva della liberta`. Se gli individui sono fallibili e “ignoranti”, e se solo grazie all’ordine spontaneo riescono a realizzare progetti per i quali non dispongono (singolarmente) delle conoscenze necessarie, allora la liberta` diventa la condizione essenziale per mobilitare quante piu` conoscenze possibile, per far fronte a circostanze non prevedibili, per la propagazione delle innovazioni; in altri termini, per favorire il gioco della cooperazione spontanea. Poiche´ ogni individuo, a seconda dei casi, ha necessita` delle conoscenze altrui per raggiungere i propri obiettivi e ha un vantaggio rispetto a tutti gli altri, in quanto e` il solo a possedere determinate informazioni relative alla situazione in cui si trova, di conseguenza, piu` esso e` libero di agire e piu` e` nelle condizioni di offrire la propria conoscenza ad altri e di acquisire quella altrui per i propri fini. Ma la liberta` e` il piu` efficace habitat non soltanto per distribuire, ma anche per produrre la conoscenza: piu` e` estesa la sfera di azione individuale e maggiori saranno le possibilita` di scambi interindividuali, di innovazioni e di circolazione delle informazioni; tale mobilitazione delle conoscenze aumentera` il numero dei progetti realizzati, con il conseguente accrescimento delle conoscenze disperse; in questo modo si accentuano le asimmetrie conoscitive tra i singoli, creando nuove le possibilita` di interazione, e cosı` via. I comportamenti liberi, dunque, avranno una particolare efficacia evolutiva perche´, accrescendo la 8 H. Spencer, Introduzione alla scienza sociale (1880), tr. it., Fratelli Bocca Editori, Milano, 1911, p. 371.
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diversita` e le possibilita` di cooperazione spontanea, faranno lievitare la capacita` di problem solving di un gruppo sociale. La liberta` e` pertanto la migliore risorsa per far fronte all’incertezza e per esplorare l’ignoto. Non e` certo un caso che – storicamente – le societa` libere sono state anche le societa` nelle quali e` stata piu` elevata la produzione di conoscenza e di ricchezza. Dobbiamo essere liberi perche´ siamo “ignoranti”, e saremo “ricchi” proprio perche´ liberi. «Se esistessero uomini onniscienti, ha fatto osservare Hayek, se potessimo sapere tutto quanto tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i bisogni e le aspettative future, resterebbe poco da dire in favore della liberta`. […] La liberta` e` essenziale per far posto all’imprevedibile e all’impredicibile» e, «per quanto umiliante possa essere per l’orgoglio umano, dobbiamo riconoscere che il progresso e anche la conservazione della civilta` dipendono dal maggior numero possibile di occasioni che si presentano», le quali non possono essere previste, ma possono essere affrontate al meglio 9 solo lasciando libero il talento individuale . La ragione umana progredisce perche´ e` libera, libera dal controllo sociale. Le norme dello stato di diritto rappresentano proprio il tentativo, portato avanti sulla base di una scelta di valore, condivisa in una societa`, di definire confini e regole entro le quali possa liberamente manifestarsi la cooperazione spontanea tra i singoli; ad esempio, combattendo gli intolleranti e garantendo uguali opportunita` ai protagonisti dell’ordine spontaneo. Alla luce della dispersione sociale della conoscenza e della constatazione dell’emergenza spontanea delle regole dell’ordine esteso, e` possibile capire meglio la natura e i limiti dell’intervento dello Stato nel campo del diritto. Va abbandonata l’idea, difesa da un certo positivismo giuridico, secondo la quale e` il legislatore l’unica fonte (o la fonte privilegiata) delle leggi che regolano la societa`. In realta`, l’intervento legislativo avviene in un secondo momento, quando l’ordine sociale e` gia` articolato sulla base di regole affermatesi spontaneamente. Sulla scia di Spencer e Hayek, occorre pertanto distinguere tra legge e legislazione, tra un diritto evolutivo, che si afferma inintenzionalmente sotto la spinta delle necessita` di sopravvivenza e di convivenza di un gruppo, e un diritto positivo, 9
60.
F. A. von Hayek, La societa` libera (1960), tr. it., SEAM, Roma, 1998, p.
“Ignoranza” del legislatore e diritto evolutivo
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posto in essere da un legislatore sulla base delle sue scelte di valore. La legislazione e` una forma di ordine costruito, legato alle (limitate) conoscenze di un Re o di un Parlamento, quindi idoneo a stabilire norme di condotta per limitate sfere di comportamenti umani; la legge, invece, e` un ordine spontaneo, esito dell’interazione di un numero potenzialmente illimitato di individui e quindi di conoscenze, e per questa sua genesi possiede un grado di astrattezza inarrivabile anche per il piu` imparziale legislatore. Cio` significa che il legislatore, se vuole evitare pesanti effetti perversi delle sue decisioni, deve essere consapevole della propria ignoranza e quindi non deve confondere legge e legislazione. Per ragioni ancora una volta gnoseologiche, chi detiene il potere normativo deve evitare tentazioni costruttivistiche e non abusare della legislazione, pensando di cambiare per legge una cospicua porzione dell’ordine sociale. Proprio per questa asimmetria conoscitiva tra diritto evolutivo e diritto positivo, il legislatore – che, per il loro costo di produzione in termini di conoscenze, non e` in grado di elaborare ex nihilo regole di condotta – in molti ambiti deve riconoscere valore formale alle norme sorte spontaneamente. Come afferma Spencer nella sua polemica contro il positivismo giuridico di J. Bentham: «non e` la legge che crea il diritto, ma e` il riconoscimento del diritto che crea una nuova legge»10. E proprio per la loro solidita` evolutiva, siffatte regole comuni spesso costituiscono un argine al potere del legislatore. “LEGGE DI HUME” E “FALLACIA NATURALISTICA” Il tentativo di giustificazione evolutiva della liberta` e dell’ordine spontaneo non va visto come un inaccettabile caso di fallacia naturalistica, che consisterebbe nell’identificare cio` che e` giusto con cio` che e` piu` evoluto, violando in questo modo la “legge di Hume”, poiche´ il giudizio morale verrebbe derivato dal fatto evolutivo. Attraverso questa prospettiva, invece, non si confonde processo storico con il progresso umano. La liberta` individuale e l’ordine spontaneo sono fatti storici, progressivamente selezionatisi, i quali, di per se´, non sono ne´ giusti ne´ ingiusti; soltanto i singoli, con le loro scelte di coscienza, possono qualificarli moralmente. Evidenziando i 10 H. Spencer, L’individuo contro lo Stato (1884), tr. it., Bariletti, Roma, 1989, p. 122.
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presupposti gnoseologici e le conseguenze sociali di questi fatti, l’epistemologia ci fornisce preziosi materiali affinche´ essi possano esseri valutati a “occhi aperti” e non a “occhi chiusi”. Il fatto che quella morale sia una decisione informata (circa i presupposti e le conseguenze prevedibili da essa generate), non elimina il momento della valutazione, ma semmai la rende una scelta piu` consapevole. L’opzione etica in favore della liberta` non puo` essere fondata sulle sue conseguenze (migliore possibilita` di risolvere i problemi, di produrre ricchezza, ecc.), poiche´ anche queste ultime sono dei fatti che devono essere oggetto di valutazione da parte dei singoli. Va infine osservato che c’e` anche un’altra ragione che impedisce di considerare intrinsecamente morale l’ordine spontaneo: essendo astratto, non si puo` sapere in anticipo quali saranno i problemi concreti che esso consentira` di risolvere; mentre il giudizio morale, dal canto suo, non puo` che riguardare i contenuti concreti che, di volta in volta, quest’ordine produce.
7. Profezie politiche e previsioni scientifiche Sulla base delle argomentazioni epistemologiche esaminate, non sembra esserci alternativa all’idea che l’intera societa` sia un ordine esteso, che si evolve spontaneamente. E cio` risulta ancora piu` chiaro se si considerano le critiche epistemologiche che, proprio sulla scorta (soprattutto) delle tesi di Spencer, Hayek e Popper, possono essere rivolte alle filosofie della storia, cioe` a quei filosofi e scienziati sociali storicisti (tra gli altri, Platone, SaintSimon, Comte, Hegel, Marx), i quali, concependo la societa` come un ordine ortogenetico, teleologicamente orientato verso un fine prevedibile e ineluttabile, hanno preteso di individuare le leggi ineluttabili che guidano lo sviluppo dell’intera storia umana e in base alle quali prevedere l’evoluzione sociale. Vediamo sinteticamente per quali ragioni logico-epistemologiche si rivela insostenibile la ricerca di leggi di sviluppo storico e quindi la pretesa di formulare previsioni ad ampio raggio sul destino delle societa` umane. a) E` impossibile costruire un autopredittore scientifico: se «il corso della storia umana e` fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana», e se noi «non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo della cono-
Critiche epistemologiche alle filosofie della storia
L’evoluzione della conoscenza e` imprevedibile
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Il mestiere dello scienziato sociale
Conoscenze che si manifestano “all’istante”
L’innovazione non e` meramente “adattiva”
Leggi e tendenze
scenza scientifica» (dentro la scienza di oggi non c’e` quella di domani, altrimenti sarebbe la scienza di oggi), allora «non 11 possiamo predire il corso futuro della storia umana» . b) Al pari della conoscenza scientifica, saranno imprevedibili anche le «conoscenze di circostanze particolari di tempo e di luogo», poiche´ esse saranno legate al verificarsi di situazioni problematiche e interazioni, le quali, riguardando praticamente tutti gli individui ed essendo spesso di origine inintenzionale, non possono essere previste. c) Strettamente legata all’impossibilita` di prevedere l’evoluzione della conoscenza e delle circostanze nelle quali la conoscenza stessa si sviluppera` e` l’impossibilita` di prevedere l’innovazione. Cosı` come per l’evoluzione biologica, il meccanismo mutazioni e selezione rappresenta il dispositivo anche dell’evoluzione sociale. Ora, non possiamo accettare una concezione “strutturale” dell’innovazione, avanzata da una certo evoluzionismo di stampo collettivistico quale quello di T. Parsons, intesa, secondo uno schema rigidamente lamarckiano, come il deterministico prodotto dell’istruzione ambientale, cioe` inscritta nella struttura sociale e funzionale alla sua riproduzione. Come hanno efficacemente evidenziato evoluzionisti e individualisti come J. A. Schumpeter e M. Weber, insistendo, rispettivamente, sul ruolo innovativo svolto dagli imprenditori e dalle ´elites carismatiche, l’innovazione ha un intrinseco carattere imprevedibile e strategico e non puo` quindi essere ridotta a una mera funzione adattiva. Non e` una meccanica risposta a esigenze ambientali, bensı` il risultato di strategie individuali, condizionate sı` dall’ambiente, ma legate alle capacita` creative dei singoli, e quindi difficili da prevedere. d) Gli storicisti hanno scambiato semplici tendenze, prevalenti in un certo periodo storico (ad esempio, la crescente proletarizzazione dei ceti medi constatata da Marx nella seconda meta` dell’Ottocento) con leggi universali. Le tendenze individuano quelle che M. White ha chiamato «regolarita` esistenziali», cioe` eventi storici, che, in quanto tali, sono reversibili; esse sono 12 quindi dei fatti che vanno spiegati mediante leggi .
11
K. R. Popper, Miseria dello storicismo (1957), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 13-14. 12 Ivi, pp. 106-107.
Dispersione della conoscenza e ordine sociale
e) I filosofi della storia intendono fare previsioni scientifiche, ma 13 finiscono per formulare profezie storiche politiche . Mentre la previsione scientifica e` un’asserzione condizionata, formulata sulla base di condizioni iniziali (le cause) e leggi di copertura rilevanti, che – come si e` visto nel secondo capitolo – devono rispondere a esigenti requisiti logici ed empirici, le previsioni proposte dai filosofi della storia sono pura profezia, in quanto la loro validita` non e` subordinata ad alcuna condizione (il comunismo, per il Marx de Il Capitale, si affermera` necessariamente). Ne´, d’altra parte, e` sostenibile l’idea di aver scoperto leggi di copertura rilevanti, per prevedere scientificamente l’evoluzione dell’intera storia umana. Una tale operazione, infatti, condurrebbe inevitabilmente a spiegazioni circolari, perche´ per essere scientifiche, le leggi devono essere controllate indipendentemente dall’evento da spiegare (o prevedere); e l’evoluzione umana e` un evento che per le sue caratteristiche non puo` essere inserito in una 14 classe di eventi omogenei per essere tipizzato . f) Lo storicista e` un olista, e cade in un grave errore allorche´ 15 crede di poter conoscere la societa` nella sua totalita` . Mentre, invece, una qualsiasi descrizione scientifica e` sempre necessa16 riamente selettiva. La spiegazione, possiamo dire con Weber , e` sempre parziale, cioe` effettuata sulla base di una prospettiva teorica. E se cambia l’angolatura teorica, cambiano le informazioni che noi riusciamo a catturare relativamente a quel fenomeno. Per ragioni strettamene epistemologiche, quindi, anche dell’oggetto piu` semplice e` impossibile dire tutto, e una volta per sempre. g) Gli storicisti non considerano che le azioni umane intenzionali producono sempre e di continuo conseguenze non intenzionali, le quali, essendo solo in parte prevedibili (perche´ infinite sono le conseguenze di una qualsiasi azione e le possibili
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K. R. Popper, La societa` aperta e i suoi nemici (1945), tr. it., Armando, Roma, 1996, vol. I, p. 21. 14 K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica (1935), tr. it., Einaudi, Torino, 1970, pp. 44 e ss. e C. G. Hempel, P. Oppenheim, “Studies in the Logic of Explanation”, in Philosophy of Science, vol. 15, n. 2, 1948, pp. 142 e ss. 15 K. R. Popper, Miseria dello storicismo, cit., pp. 74 e ss. 16 M. Weber, “L’‘oggettivita`’ conoscitiva della scienza sociale e politica” (1904), tr. it. in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Edizioni di Comunita`, Milano, 2001, pp. 170 e ss.
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Previsioni e profezie
Storicismo e olismo
Conseguenze inintenzionali
196
Il mestiere dello scienziato sociale
Processo storico e progresso umano
combinazioni casuali tra catene di azioni indipendenti), introducono un decisivo fattore di indeterminazione nelle vicende umane. h) Data la “legge di Hume”, non sono accettabili le pretese degli storicisti di formulare una valutazione oggettiva della storia umana, in nome della quale, magari, porre in essere conseguenti strategie politiche. Il processo storico e` un fatto che, in quanto tale, non puo` essere identificato con l’idea di regresso (Platone) o di progresso (Saint-Simon, Comte, Hegel, Marx) umano. Un periodo, o un singolo evento storico, puo` essere considerato progressivo o regressivo solamente sulla base di una valutazione, che, data la “legge di Hume”, sara` necessariamente soggettiva. LA CRITICA ALLE “FILOSOFIE ORACOLARI” E` ` APERTA” UNA DIFESA DELLA “SOCIETA La ricerca di leggi ineluttabili di evoluzione sociale non solo e` epistemologicamente velleitaria, ma si puo` rivelare anche pericolosa per le ragioni della “societa` aperta”. Chi crede di aver scoperto la chiave dello sviluppo dell’intera storia umana, riterra` di aver scoperto l’essenza del destino umano, e quindi pretendera` di essere l’interprete privilegiato che ha accesso a un significato oggettivo della storia; un significato che va imposto, magari, anche con la forza a coloro che non ne sono consapevoli. Questa pretesa gnoseologica e` quindi una pericolosa minaccia per la liberta` di cooperazione spontanea e per la liberta` di interpretazione, da parte dei singoli, di quel testo che e` il mondo in cui vivono. Non e` dunque un caso che la battaglia filosofica per la difesa delle ragioni della democrazia, condotta da autori come Popper e Hayek, passi innanzitutto per il tentativo di demolizione delle pretese gnoseologiche delle «filosofie oracolari», come le definisce Popper, formulate dagli storicisti.
8. Epistemologia evoluzionistica ed evoluzione sociale L’evoluzione sociale come “processo di scoperta”
E` stato D. T. Campbell ad utilizzare l’espressione «epistemologia evoluzionistica» per individuare quelle teorie epistemologiche che (da H. Poincare´ e E. Mach, fino a K. R. Popper) hanno interpretato – sul modello dell’evoluzione biologica – lo sviluppo della conoscenza umana come un processo che avanza
Dispersione della conoscenza e ordine sociale
per trial-and-error-elimination, cioe` mediante l’invenzione di nuove ipotesi e l’eliminazione selettiva di quelle false. Ebbene, l’epistemologia evoluzionistica puo` essere utile per comprendere meglio l’evoluzione sociale (ma anche l’azione umana), che si configura anch’essa come un procedimento di scoperta avente natura lato sensu conoscitiva. a) Le innovazioni sociali, cosı` come le azioni e le teorie scientifiche, non sono altro che tentativi di soluzione di problemi; tentativi che vengono selezionati (selective ritention) sulla base della loro adeguatezza rispetto alla situazione problematica. b) Quelle variations rappresentate dalle mutazioni genetiche, dalle azioni umane e dalle teorie scientifiche, sono possibili solo grazie a una struttura ereditata: cosı` come le variazioni biologiche scaturiscono nell’ambito della “memoria biologica” di una certa specie e l’azione nell’ambito della background knowledge di riferimento dell’attore sociale, le innovazioni sociali sono impensabili fuori da una tradizione culturale. c) L’evoluzione sociale, come quella della conoscenza, e` un processo infinito, che non raggiungera` mai uno stadio di equilibrio, in quanto l’emergere di nuove mutazioni comportera` un cambiamento ambientale, il quale, sara` a sua volta lo scenario di nuove variazioni, e cosı` via. d) L’evoluzione delle specie, dell’ordine sociale e della conoscenza, e` un processo, caratterizzato da una transizione asimmetrica (asymmetric transition): non si puo` cioe` tornare indietro. Se con Darwin possiamo dire che l’evoluzione delle specie e` processo che guadagna informazioni e con Boltzmann che la vita e` un processo che guadagna energia, con Hayek possiamo dire che la societa` e` un ordine che guadagna conoscenza. e) Va infine rilevata una differenza tra evoluzione biologica ed evoluzione sociale: pur non potendo essere ridotta al modello lamarckiano, l’evoluzione sociale e` contraddistinta da una piu` rilevante istruzione ambientale; laddove, invece, l’evoluzione della conoscenza – se si eccettuano le tesi collettivistiche di alcuni sociologi della scienza come D. Bloor, secondo cui le teorie sarebbero induttivamente e meccanicamente determinate da un certo contesto sociale – e` scandita in modo piu` marcato da invenzioni creative. Queste ultime sono tentativi di risposta a problemi, per l’affermazione dei quali ci devono comunque essere, nell’ambito della conoscenza di sfondo, specifici presupposti cognitivi.
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Innovazioni e adattamento
Variations e tradizione culturale
Evoluzione senza fine
Transizione asimmetrica
Istruzione ambientale e innovazioni creative
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Il mestiere dello scienziato sociale
Bibliografia ragionata Tra coloro che in modo piu` compiuto hanno proposto una “spiegazione a mano invisibile” dell’ordine sociale, un posto di primo piano spetta a H. Spencer e F. A. von Hayek, due autori che hanno sistematicamente teorizzato e applicato un metodo individualistico ed evoluzionistico, legando il problema dell’evoluzione sociale a quello della dispersione della conoscenza e sviluppando una conseguente dura critica ai tentativi di pianificazione sociale. Per orientarsi nella sterminata produzione spenceriana, si rimanda a E. Di Nuoscio, Epistemologia dell’azione e ordine spontaneo. Evoluzionismo e individualismo metodologico in Herbert Spencer, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000. Di Hayek si veda soprattutto il primo libro di Legge, legislazione e liberta` (1982), tr. it., Il Saggiatore, Milano, 1986, nonche´ La presunzione fatale (1988), tr. it., Rusconi, Milano, 1997 e i saggi sulla dispersione della conoscenza e sulla funzione della competizione contenuti in Id., Conoscenza, mercato, pianificazione, il Mulino, Bologna, 1988. Un utile approfondimento sulla teoria dell’ordine spontaneo di Hayek, e` rappresentato dai saggi di R. Cubeddu, Tra scuola austriaca e Popper, ESI, Napoli, 1996 e di P. Heritier, Ordine spontaneo ed evoluzione nel pensiero di Hayek, Jovene, Napoli, 1997. Sull’impossibilita` epistemologica di una pianificazione economica e sociale, si vedano anche i due fondamentali contributi di L. von Mises, Socialismo (1922), tr. it., Rusconi, Milano, 1990 e Burocrazia (1944), tr. it., Rusconi, Milano, 1991. Per una ricostruzione delle interpretazioni dell’ordine sociale come esito spontaneo nella Scuola scozzese, nella Scuola austriaca di economia e in alcuni autori classici del pensiero sociologico, si veda L. Infantino, L’ordine senza piano, Armando, Roma, 1998. Mentre il volume di L. Parri, I dilemmi dell’azione sociale. Un’analisi di piano e mercato, Carocci, Roma, 2004, e` una limpida illustrazione dell’efficacia della prospettiva individualistica per lo studio delle istituzioni macro-sociali. Per un’analisi epistemologica delle organizzazioni in relazioni al problema della conoscenza, il volume di S. Tagliagambe e G. Usai, Organizzazioni. Soggetti umani e sviluppo socio-economico, Giuffre` Editore, Milano, 2000, costituisce un utile approfondimento. Una spiegazione individualistica delle genesi e dello sviluppo dell’ordine sociale, condotta sulla base di una rigorosa applicazione del Rational Choice Model, e` proposta da J. Elster, ne Il cemento della societa`. Uno studio sull’or-
Dispersione della conoscenza e ordine sociale
dine sociale (1988), tr. it., il Mulino, Bologna, 1995. Un approfondito esame della spiegazione del passaggio dalla dimensione micro a quella macro-sociale, effettuata nel solco della “sociologia analitica”, e` proposta da F. Barbera in Meccanismi sociali. Elementi di sociologia analitica, il Mulino, Bologna, 2004. Riguardo alla spiegazione individualistica delle norme sociali, si veda, oltre al citato volume di Elster, anche i saggi di F. A. von Hayek, Regole, percezione e intelligibilita` e Note sull’evoluzione delle regole di condotta, contenuti in Id., Studi di filosofia, politica ed economia (1967), tr. it., Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998. Sempre in merito alla spiegazione dell’affermazione e della trasformazione delle norme sociali, intese come strumenti per la ripartizione della capacita` di azione dei singoli, si rimanda al sistematico lavoro di P. Demeulenaere, Les normes sociales. Entre accords et de´saccords, PUF, Paris, 2003. Una efficace indagine circa l’efficace del paradigma dell’evoluzionismo nelle scienze sociali, condotta in riferimento all’evoluzionismo biologico, prima e dopo Darwin, e` sviluppata da D. Guillo, in Sciences sociales et sciences de la vie, PUF, Paris, 2000.
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Indice dei nomi
Acton J. (Lord), 57, 95 Adorno Th. W., 57, 95, 96, 109, 113, 114 Agostino (Sant’), 53, 54 Almond G., 39 Althusser L., 109, 112, 113 Anscombe G. E. M., 70 Antiseri D., 5, 22, 54, 56, 76, 88, 105, 107, 126, 175 Aristotele, 11, 110 Aron R., 65, 66, 84, 120, 126 Avogadro A., 82 Ayer A. J., 37 Bacone F., 9, 11, 79 Baldini M., 77 Barbera F., 199 Barruel F. (l’Abate), 167 Barthes R., 109 Bartley W. W., 4, 155 Becker G., 125, 145, 146, 157 Bentham J., 140, 192 Berlin I., 57, 94 Bernard C., 7, 10, 11, 17, 19 Berthelot J.-M., 126, 157 Bloch M., 7, 40, 51, 52, 84, 101, 104 Boltzmann L., 82, 146, 197 Bonfantini M. A., 8 Boniolo G., 20, 88, 175 Borlandi M., 127, 157 Boudon R., , 5, 49-51, 109, 112, 120, 122, 124, 126, 127, 129, 144, 145, 147, 157, 161, 163, 165, 167, 175 Bourdieu P., 109, 113, 120, 122 Bourricaud F., 126 Bouvier A., 157 Boyer A., 55 Braithwaite R. B., 28
Bunge M., 126 Burckhardt J., 36, 37, 102, 106, 118 Buzzoni M., 77 Campanella T., 14 Campaner R., 55 Campbell D. T., 196 Carr E. H., 7, 21, 67, 85, 100, 101, 161, 170 Cassirer E., 81 Champollion J.-F., 91 Cherkaoui M., 175 Coleman J., 109, 125, 146, 157 Collingwood R. G., 57, 72, 73, 172 Colozza G. A., 7, 15, 19 Comte A., 83, 109, 169, 179, 193, 196 Croce B., 40, 54, 57, 96, 97, 101, 102, 150, 151, 160, 161, 165, 170 Cubeddu R., 5, 198, 199 Cuoco V., 40, 163 Dahl R., 49 Darwin Ch., 9, 19, 91, 106, 197, 199 Darwin F., 19 De Mucci R., 76, 127 De Sanctis G., 161 Demeulenaere P., 199 Descartes R., 142 Dewey J., 48, 55, 102 Di Nuoscio E., 55, 196 Dilthey W., 57, 72-76, 170 Dosse F., 127 Dray W., 21, 28, 57, 95, 138, 147 Droysen J. G., 57 Ducasse C. J., 21 Duhem P., 103 Durkheim E´., 18, 19, 38, 80, 92, 109, 114-118, 144
202
Indice dei nomi
Earman J., 11 Eco U., 61, 77 Einstein A., 1, 7, 16, 43, 55, 82 Elster J., 109, 125, 138, 157, 161, 175, 198, 199 Enriques F., 7 Erodoto, 99
Hollis M., 107 Humboldt W. von, 105 Hume D., 4, 93, 96, 109, 148-150, 161, 188, 192, 196 Huxley Th. H., 63
Fano V., 5, 14, 20, 29, 37, 64 Febvre L., 7, 84, 86, 101 Ferguson A., 109, 161, 167 Fleck L., 89 Fornari F., 54, 76 Foucault M., 109, 113 Freud S., 35, 39, 113 Friedrich C.J., 39
Jenner E., 9 Jevons W. S., 7, 21 Jung C. G., 49
Gadamer H.-G., 16, 87, 91, 103-107 Galilei G., 14, 64, 82, 91, 104 Gallie W. B., 67 Galvan S., 5 Gardiner P., 45, 46, 55 Gentile G., 84 Gervasoni M., 5 Gibson Q., 139 Ginzburg C., 77 Goethe W., 81 Goodman N., 9, 77, 80, 81 Guglielmo di Champeaux, 110 Guicciardini F., 40 Guillo D., 199 Gurvitch G., 120
Lacan J., 109, 113 Laurent A., 126 Lavoisier A. L., 82 Lerner D., 66 Le´vi-Strauss C., 109, 113 Liebig J. von, 7 Limentani L., 55 Luhmann N., 109, 113
Habermas J., 57 Hayek F. A. von, 47, 88, 109, 125, 161, 166, 180, 183, 189, 191, 193, 196-199 Hegel G. W. F., 109, 169, 180, 183, 186 Heisenberg W., 81 Hempel C. G., 7, 21-23, 25, 28, 29, 44, 48, 55, 74, 75, 77, 136, 147, 170, 195 Herder J. G., 57 Heritier P., 198 Hobbes Th., 118, 126
Infantino L., 175, 198
Kant I., 74, 80-82, 160 Knies K., 7, 21, 49, 54, 72, 77 Kuhn Th. S., 2 Kundera M., 160
Mach E., 1, 7, 8, 10, 15, 20, 146, 196 Machiavelli N., 40, 43, 153, 154 Malinowski B., 57, 69 Mandelbaum M., 119 Mandeville B. de, 109, 160 Manzoni A., 15, 97, 172, 173 Martin M., 55, 77, 107 Marx K., 92, 109, 113, 122, 170, 180, 193-196 McIntyre L.C., 55, 77, 107 Medawar P.B., 7 Menger C., 7, 18, 19, 26-28, 55, 67, 75, 101, 109, 120, 161, 162, 166 Merton R. K., 68, 69, 165 Meyer E., 65 Michelet J., 86, 87 Michels R., 38 Mill J. S., 11, 22, 27, 43, 58, 109, 117 Miller A., 109
Indice dei nomi
Mises L. von, , 109, 111, 112, 118, 129-131, 133, 137, 139-141, 144, 145, 147, 161, 167, 188, 189, 198 Momigliano A., 99 Monod J., 7 Montuschi E., 89 Musil R., 65 Nagel E., 21, 28, 37, 68, 77, 170 Naville E., 7, 10, 16, 19 Negri A., 81 Nievo I., 81 Nozick R., 95, 138 Ogien R., 157 Oppenheim P., 21, 25, 28, 44, 195 Ortega y Gasset J., 104 Pareto V., 126, 142 Parri L., 198 Parsons T., 57, 69, 194 Pascal B., 1, 17, 94 Pasteur L., 1 Peirce Ch. S., 8, 63, 64, 77 Pellicani L., 5, 53, 126 Petrucci A., 5 Piaget J., 39, 120, 122, 123, 127 Platone, 109, 193, 196 Poe E. A., 61 Poincare´ H., 196 Polanyi M., 181 Popper K. R., , 7, 8, 11-13, 19, 21-23, 25-29, 44, 45, 64, 74, 77, 91, 98, 104, 105, 107, 109, 129, 130, 133-135, 143, 154-156, 161, 167, 170, 175, 189, 193-198 Predaval Magrini M. V., 55 Radcliffe-Brown A. R., 68, 69 Rainone A., 81, 157 Ranke O. von, 57, 66, 67 Rawls J., 64, 146 Rescher N., 95, Rezsohazy R., 127 Ricardo D., 38
203
Rickert H., 99 Roscellino, 110 Roscher W., 7, 21, 49, 54, 72, 77 Rosenberg A., 157 Ryan A., 123 Ryle G., 56 Saint-Simon C. H. de, 109, 196 Sallustio G. C., 39, 40 Salmon W., 29 Salvemini G., 7, 16, 17, 21, 43, 53, 55, 59, 68, 96, 97, 102, 161, 170 Sartori G., 34, 35, 38, 39, 49, 55 Schmoller G., 57, 67, 109, 119 Schumpeter J. A., 194 Sciolla L., 127, 157 Sebeok Th. A., 77 Seward A. C., 19 Simiand F., 21 Simmel G., 32, 33, 50, 109, 111, 120, 124 Smith A., 31-33, 38, 64, 109, 160, 161, 166, 181 Sparti D., 126 Spencer H., 109, 144, 161-163, 179183, 189-193, 198 Tagliagambe S., 5, 198 Tarde G., 38 Tarozzi G., 20 Tarski A., 12 Taylor Ch., 70 Tocqueville A. de, 40, 53, 59, 92, 109, 118, 120, 121, 167 To¨nnies F., 49 Torricelli E., 17 Usai G., 198 Vailati G., 7, 48, 55, 99 Valade B., 126 Valla L., 87, 88 van Fraassen B. C., 65 Verri P., 173 Vico G. B., 57, 164 Vidali P., 20, 88
204
Indice dei nomi
Voltaire F. M. A., 61, 63, 160, 167 Walpole H., 61 Watkins J. W. N., 109 Weber M., 7, 21, 41, 48-50, 53, 54, 59, 65, 72, 74, 75, 77, 91, 92, 96, 106, 107, 109, 114, 118, 120, 121, 123, 124, 144, 146, 163, 168, 169, 194, 195 Whewell W., 7
White M., 194 Whitehead A. N., 124 Whyte H., 67 Wieser L. von, 56 Windelband W., 59, 60 Wittgenstein L., 15, 80, 81, 84, 106 Wright G. H. von, 70, 71 Xe´nopol A. D., 161
Libri di base di filosofia Collana diretta da Vincenzo Fano
1. 2. 3.
M. Dalla Chiara, R. Giuntini, F. Paoli, Sperimentare la logica V. Fano, Comprendere la scienza. Un’introduzione all’epistemologia delle scienze naturali E. Di Nuoscio, Il mestiere dello scienziato sociale. Un’introduzione all’epistemologia delle scienze sociali