Il lampo nel sambuco della siepe. Storie di film dal web 883460492X, 9788834604922

Se la casa dei film sono e restano i cinema, la rete ha dato delle possibilità inedite agli appassionati. Comodamente se

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Italian Pages 240 [107] Year 2020

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Table of contents :
Copertina
Trama
Massimo Bocchiola
Collana
Frontespizio
Copyright
Epigrafe
Titoli di testa
Pioggia scopre, neve copre
Presto o tardi si staccano dal muro
Rule, Britannia
Territhorror 1 / Scappa con Superissima
Il dolore non vale niente?
Territhorror 2 / Batracica
Un elmo in riva al mare
Paesaggio distruttibile
Il problema di rendersi complicati da mangiare
Omnes composui
Un album fotografico
Dietro il cadavere nella neve
Giochi e supplizi
Piccola fauna
Parallelepipedi rettangoli
Le mani addosso
L’altro, lo stesso
Il corpo in scatola
Ah, la paterna mano
Titoli di coda
Indice
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Il lampo nel sambuco della siepe. Storie di film dal web
 883460492X, 9788834604922

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Se la casa dei film sono e restano i cinema, la rete ha dato delle possibilità inedite agli appassionati. Comodamente seduti sul divano possiamo rivedere un intero film o una sola scena quante volte vogliamo. Massimo Bocchiola, poeta, scriore e cinefilo, ha sfruato queste nuove opportunità per dedicarsi a una ventina di scorribande intelleuali che prendono spunto dalla visione di film celebri, di culto e, in alcuni casi, poco noti per delle “contaminazioni e aberrazioni” che solo la sterminata banca dati presente online rende possibili. Interpolazioni, fusioni, acrobazie e leure trasversali – spaziando da riflessioni filosofiche a ricordi d’infanzia padana, dalle carrellate su luoghi di epifanie cinematografiche del male a panoramiche sulle distopie e i futuri immaginati nel passato, da visioni pulp/metafisiche fino a meditazioni sulla morte e il suicidio – danno la possibilità all’autore di tagliare e cucire opere nuove che, probabilmente, gli autori originali non approverebbero.

Massimo Bocchiola è nato e vive a Pavia. Traduore dall’inglese di leeratura in prosa e in versi, è autore di tre libri di poesia: Al ballo della clinica (1997), Le radici nell’aria (2004) e Mortalissima parte (2007). Ha pubblicato anche il poema in prosa Il treno dell’assedio (2014) e le raccolte di racconti Gli ultimi giorni di agosto oltre al saggio-memoir Mai più come ti ho visto – Gli occhi del traduore e il tempo (2015).

le Onde.

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Massimo Bocchiola Il lampo nel sambuco della siepe Storie di film dal web La nave di Teseo

© 2020 by Massimo Bocchiola Published by arrangement with Agenzia Santachiara   © 2020 La nave di Teseo editore, Milano   ISBN 978-88-3460-599-8   Prima edizione digitale dicembre 2020     est’opera è protea dalla Legge sul dirio d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

…quando la Terra a Tre Dimensioni sembra quasi altreanto visionaria che la Terra a Una, o a nessuna… Edwin A. Abbo, Flatlandia     La storia è questa, intera, e avremmo potuto fermarci lì se raccontarla non fosse stato bello e redditizio; e benché su una lapide ci sia tuo lo spazio per contenere, rilegato in muschio, il compendio della vita di un uomo, sono sempre graditi i deagli. Vladimir Nabokov, Una risata nel buio

Titoli di testa

Più della televisione interaiva, i siti web di film e YouTube hanno cambiato il mio modo di guardare il cinema quando non sono in sala, ma a casa, cioè la massima parte delle volte. Credo che sia successo a molti. Se vedere e rivedere a volontà un film intero o la scena, le scene, di maggiore interesse, è normale dai tempi delle videocassee e poi dei DVD, la sterminata offerta di Internet consente anche in questo ambito (come in tanti altri) ricerche velocissime, acrobazie, aberrazioni e contaminazioni. Fino alla possibilità di tagliare e cucire opere nuove in una maniera personale e arbitraria che spesso, immagino, non sarebbe approvata dagli autori di quelle originali.

Pioggia scopre, neve copre

da I compari (McCabe & Mrs. Miller) di Robert Altman a colori, 1971 ando arrivò a Presbyterian Church, John McCabe era un giocatore d’azzardo e un puaniere. A fargli scegliere la destinazione – un villaggio del Nordovest abitato da un pugno di minatori non troppo svegli, soli o con le famiglie – era stata la seconda specialità. Dicevano che ne avesse una terza, che fosse un pistolero, ma se lo era non intendeva né agire né svelarsi come tale. McCabe si avvicina a Presbyterian Church su un cavallo seguito da un altro cavallo affardellato con i suoi bagagli. Sta cominciando a piovere, e da queste parti basta che cominci e poi viene sempre più forte. La montagna è vicina, gli alberi sono radi e in breve ogni scolatoio si trasforma in torrente, le gocce, percuotendo la pietraia, sembra che scortichino i ciooli e meano a nudo la terra, le sue fibre vivissime e i suoi morti. Baono sulle foglie e sui rami come se volessero soomeerli. Ma prima della pioggia è stato il vento – l’assolo che McCabe ha sentito sopra la ritmica degli zoccoli al passo. Il vento gli ha svegliato nella mente una canzone che parla di lui, come succede quando arriviamo da soli in un posto nuovo: e anche la canzone è vento ritmato, ritmato dai bassi pizzicati di una chitarra. Parla della sua vita e di quello che sarà, con lo stesso sarcasmo persuaso con cui McCabe segue la pista accidentata che lo porta al villaggio di minatori –

poche case di legno ai piedi della chiesa presbiteriana che gli dà il nome, di legno anche lei e arroccata vicino al campanile di legno. E sarà ormai uno sceico McCabe, perché viaggia sui trentacinque anni, età nel West di sogni già al tramonto. È al tramonto anche il West, in questo inizio Novecento, e come il West McCabe è ridoo a giocarsi le poche carte che gli restano in mano nell’estremo Nordovest, soo la pioggia. E sarà ormai uno sceico, ma appena entra nell’abitato scende da cavallo e si toglie il pastrano. McCabe disse qualcosa, una parola o due – al suo cavallo o a se stesso –, probabilmente una sfida alla fortuna, un ciak si gira alla sua nuova impresa. Tra vento pioggia e distanza non lo sentì nessuno, ma non gli importava di farsi sentire. Si tolse il pastrano e si calcò in testa la bombea che, con il vestito scuro e il cravaino sopra la camicia bianca, affermava la sua supremazia sull’andirivieni di uomini e donne dimessi, quasi cenciosi, che doveva incontrare sulla via del saloon. Uomini e donne che gli venivano incontro come trascinati dal torrente in cui si trasformava la strada principale, e unica, del villaggio; uomini che gli araversavano la strada spingendo un carro nel fango, trasportando barili di qualcosa. Rimase quindi nella sua tenuta da giocatore e, sebbene piovesse, intanto che marciava verso il saloon si infilò in bocca un lungo sigaro prepotente. Lo fece perché aveva sbirciato un abitante del villaggio che, sebbene al riparo soo un portico, teneva in bocca la pipa con il fornello volto in basso. Insomma quel giorno McCabe entrò a Presbyterian Church come un re, un condoiero: sicuro che la gente del villaggio fosse succube come le tribù dell’Amazzonia dove i maschi tengono la koteka volta in basso, mentre lui era di quelli che la portano erea, e come no? ando aprì la porta la luce del saloon era umida e calda, gli occhi che incontrò e a cui offrì da bere erano tardi, sfiniti dal lavoro; ma nell’opacità

serbavano barlumi sufficienti a rifleere il suo spirito di iniziativa. John McCabe impiantò un bordello a Presbyterian Church, ma quando incontrò una puana bellissima, inglese e bionda, non la divise con nessuno. La prese come amante e socia in affari. Restava da capire se lei avrebbe amato di più lui o la pipa da oppio. E se la compagnia mineraria lo avrebbe lasciato fare o avrebbe deciso di liquidarlo e gestire le puane in monopolio. Adesso è inverno, la terra si copre di neve, e augureremmo a McCabe di essere avvolto nel bozzolo soporoso del pastrano; o meglio ancora, in compagnia dell’inglese bionda in quel leone sgangherato nella camera sopra il bordello. Ma invece dovrà vedersela con tre sicari inviati dalla compagnia per farlo fuori. Non indossa il pastrano, ma la solita tenuta da giocatore. In pieno inverno il rigagnolo che si confondeva con la strada è diventato un vero corso d’acqua; e al posto della passatoia dove al suo arrivo aveva acceso il sigaro, hanno geato un vero ponte a tralicci. Se McCabe avesse visto Mezzogiorno di fuoco, forse scommeerebbe su se stesso. Lo sceriffo Will Kane aveva eliminato quaro banditi in pochi minuti e con tua la credibilità del real time, grazie alla sua perfea conoscenza del campo di baaglia. McCabe deve affrontare solo tre uomini (sebbene rischino di diventare quaro anche loro, perché scendendo dal campanile dove era salito a spiare l’arrivo dei sicari trova il prete che lo minaccia proprio con il suo fucile, da lui lasciato pigramente in giro). Comunque, come lo sceriffo Kane, McCabe è sul suo terreno, va a occhi chiusi, può indirizzare l’avversario nei punti a lui stesso più favorevoli. Va bene, ma non basta. McCabe è il primo a sapere che era un altro West quello in cui avrebbe potuto contare sulla mira infallibile, e – meglio ancora – su una tacita garanzia di invulnerabilità. Era un West satinato dal sole e votato alle mandrie e all’agricoltura, non un avanzo di bordelli per

minatori mandati in bianco dalle mogli beghine, dove piove o nevica, sempre. Non questo secolo nuovo. Ammazzare i sicari a uno a uno. Arrancare ferito soo la neve senza tingerla di rosso, assorbendo il proprio sangue con la camicia da puaniere, il pancioo da giocatore, la giacca da pistolero. Mentre il prete era stato ucciso e il campanile di Presbyterian Church bruciava, con tua la popolazione occupata a spegnere l’incendio, McCabe zoppicò araverso il villaggio come uno spero scuro nella chiarissima luce nevosa. Aveva scaricato senza errori il suo fucile da assassino e la piccola derringer nascosta nel taschino, ultima risorsa del baro smascherato. Aveva risposto ai colpi a bruciapelo, aveva aperto un buco nella fronte di qualcuno, chissà chi. Ora si trascinava, sempre più solo a ogni passo, più sanguinante in un freddo senza riscontro, aonito nel suo personale labirinto, nell’impossibilità di dare un senso a quel villaggio, bordello, casa, ospedale, leo. Poi si fermò e, questione di minuti, la neve lo ricoprì trasformandolo in un uomo di neve. Poco lontano insisteva la vita, splendida e scriteriata come la faccia dell’inglese bionda distorta dall’oppio nella nuova fumeria, anche lei con una canzone in mente, ma con la sorte di soffermarsi ancora qualche tempo.

Presto o tardi si staccano dal muro

da Shining (e Shining) di Stanley Kubrick a colori, 1980 L’uomo a leo per una malaia qualsiasi, o un semplice malanno, pensa che la carcassa del pentatomide – una cimice delle piante, di quelle che ai primi freschi autunnali cercano il caldo in casa, infestanti, puzzolenti – potrebbe essere ancora là in alto, chiusa all’interno del paralume bianco, nel giorno in cui, se la patologia si rivelasse fatale, lui passerà in quel leo dall’infermità alla morte. Certo non è impossibile che questo ex animale che è lì da mesi ormai, senza dar segni di sfacelo, e che la sua distrazione ha risparmiato dalle pulizie, gli sopravviva in forma di oggeo. Di oggeo ainente alla sua casa come tanti altri che lo circondano: oggei di valore o di memoria, o solo funzionali, dozzinali, che dureranno molto più di lui. Il mobile di famiglia, ma anche la cartina di Roma da anni nel casseo della sua scrivania, omaggio di un hotel sulla Nomentana che non esiste più, più longeva dell’hotel come il cadavere dell’inseo potrebbe esserlo di lui. (Ma magari non del suo cadavere.) Ricorda vagamente quell’albergheo confortevole, elegante come una villa liberty, con glicini, che annunciava le palazzine non distanti dell’università. Un posto dove si sentiva a casa, gli sembrava di essersi portato mobili e suppelleili in un momentaneo trasloco, il campionario di un

viaggiatore di commercio che commercia con la propria vita. Che poi è il mestiere che facciamo tui. Un grande albergo, invece, gli oggei domestici di un uomo o di una donna li contiene al completo. È forse soprauo in questo che l’esperienza della vacanza in hotel si differenzia da quella in case di amici o prese in affio, dove abbiamo il possesso di oggei non scelti da noi e magari nemmeno apprezzati, ma che rimandano a dei proprietari: è diversa perché tui gli oggei con cui abbiamo a che fare – e più sono numerosi, e grandi, e più è così – non sono di nessuno. I quadri alle pareti, i divani, le sedie e le poltrone più o meno, o per niente, logorate da glutei e schiene in transito sui pianerooli o nelle hall, nelle lounge – la stessa nomenclatura internazionale (hôtel, lodge, bureau, concièrge, maître, spa, fitness center, patio) aprono il campo a simulazioni, mascheramenti e millanterie il cui primo segno è dato dalle livree del personale che rimandano i clienti a un’epoca di domestici di solito mai stati al servizio dei loro nonni, ma al contrario coincidenti con i loro nonni; oltre all’abbigliamento dei clienti stessi, che non è mai proprio quello di casa. E poi nel grande albergo abbiamo la certezza che possano essere accadute, o accadere durante la nostra permanenza, o dopo, tue le grandi cose del mondo degli umani. Nascita, morte; incontri e roure decisivi per destini pubblici e privati; inizi ed epiloghi di amori e amicizie. Concepimento di opere d’arte e di intuizioni scientifiche, di figli legiimi e no, voluti e no. E sesso, molto sesso: brevi avventure, avvio di relazioni durature, rimesse in moto di coppie esauste; tradimenti già in corso o stimolati dalla vacanza. E cibo a profusione, insieme a bevande di ogni tipo. Colazioni, buffet, cocktail, happy hour, aperitivi, pranzi, cene, pranzi di gala, cene di gala. Un colpo di telefono alla portineria basta per diventare, secondo l’ambiente, di tuo: sciatori o pescatori d’altura,

sommozzatori, golfisti, deltaplanisti. Noleggiatori di campi da tennis o ingressi in piscina e centro benessere (se non presenti nella struura), di taxi o di automobili private; ma senza escludere pullman, motoscafi, elicoeri, mongolfiere, abiti da sera, costumi da ballo… Nelle occasioni più malaugurate (ma talvolta fantasticate sullo sfondo, come incubi adrenalinici) l’hotel si presta a essere bersaglio di aentati sanguinosi o semplice luogo di un delio. Macchie macabre e oscene sul raso, la spugna, la ciniglia; perché qui più che altrove la vita scorre in camera da leo e nel bagno aiguo. Eppure l’uomo a leo con qualche linea di febbre pensa che in tuo ciò a spiccare non siano tanto le persone, dissimulate dietro la cortesia dei dipendenti, il riserbo e la menzogna, le finzioni e le esagerazioni tra cui si stringono e sciolgono i rapporti. No, sono gli oggei: la miriade di oggei messi lì per tui tranne quelli che vivono stabilmente in albergo. Usati dai clienti per una seimana o due, modellati e distorti a loro immagine, riprendono poi sempre la forma originaria, indifferente, come entità metafisiche. E smisurati: enormi arazzi etnici rinvianti a popoli e culture prima asserviti e poi presi in affido; caminei ciclopici; celle frigorifere simili a groe dell’era glaciale; corridoi moqueati la cui manutenzione tradirà anche la minima decadenza del luogo. E la dispensa con i baraoli grossi come barili di salse, sughi, frua sciroppata (laghi di sangue semirappreso, sospensione di organi dai vivaci colori) apribili con arezzi giganti somiglianti a strumenti di tortura. Pentoloni per cannibali da fumeo, coltellacci da macellaio. E le lavanderie: traboccanti di federe, lenzuoli, asciugamani bianchi. Lavanderie più bianche degli obitori, dei bianchi cori angelici. Non mancherà una riserva adeguata di ricambi meccanici, ricambi per la carpenteria in legno, in vetro, in ferro. Fili elerici, cavi, circuiti. Ferramenta piastrelle vernici tappezzerie.

(Trapani. Sparachiodi. Asce antincendio.) Tue cose che possono trovarsi anche in un graacielo o in un palazzo residenziale, in ospedale o in fabbrica, ma qui la varietà è ben altra e, di nuovo, i pezzi – proprietà di un padrone in assenza che non li userà mai per sé – non sono di nessuno, materialmente ed emotivamente. E non essendo di nessuno, appartengono a se stessi. Sono se stessi, e basta. Tanto più che, come supporti di inoperosa non utilità (siamo in vacanza o no?), servono a non servire. Oimo, pensa l’uomo tornando a guardare la cimice. Ora, meiamo che davvero in ogni casa persistano i fantasmi di chi l’ha abitata: cosa succederà in un albergo dove, transitando un esercito di individui diversi, è ben più probabile che transitino individui perversi? D’accordo, la follia può trovarsi dappertuo, tanto più che nessuno sa davvero cosa sia, perché oltre un certo limite se ne smarrisce il senso, non riusciamo a vederne l’ovvietà, l’intrinseca ragionevolezza. Ma se qualunque casa contiene oggei adai a scatenarla – arnesi da cucina, soprammobili, fermaporte, il fucile da caccia del nonno – in un albergo questi sono moltiplicati per cento, per mille. Se i muri di una casa sono comunque impregnati di malizie, tradimenti, violenze esercitate o traenute (idee, se non ai, di omicidio e suicidio fisico o morale), quanto di tuo ciò non avranno assorbito le cento stanze, i mille corridoi interminabili con i loro pannelli di legno, i loro stucchi, i loro marmi e i loro quadri oscuri? E quanto non saranno pronti a rigurgitarne? La morte, eccola qui: intride i muri. I suoi strumenti sono l’ascia antincendio, l’aizzatoio, la mannaia del cuoco, i pesanti posacenere di cristallo. L’arsenale che nelle case può svelare il colpevole di un delio in famiglia. Se i cadaveri non fossero chiusi nei congelatori la cucina si mostrerebbe per quello che è da sempre, un luogo di tortura, esecuzione e smembramento, come nelle nature morte napoletane di Giacomo, Giovan Baista e Giuseppe Recco. Il dedalo dei corridoi complica la fuga: e come se non bastasse, a volte all’architeo salta in mente di aggiungerne un altro di fuori.

L’uomo malato ricorda quando da bambino passò l’estate in montagna, sulle Alpi, in un albergo che apriva solo in inverno per gli sciatori. Aveva dieci anni, nell’albergo c’erano solo lui, sua madre e suo padre. Dormivano nell’ala riservata ai proprietari e ai loro amici e sulla porta della sua stanza c’era il nome di uno scriore famoso, quello che suo padre avrebbe voluto diventare, e che per causa sua, e di sua madre, non sarebbe diventato mai. Sarebbe diventato, dubbia consolazione, un folle, e si sarebbe sognato assassino, devastatore potenziale di tuo. Gli oggei si sarebbero impadroniti di lui, le parole sarebbero diventate tue uguali, se stesse e niente altro, solo oggei. E in conclusione il padre sarebbe diventato uguale a un altro se stesso, a un altro oggeo o parola, una statua di gelo nel verde del labirinto. Il labirinto esterno di Longleat nel Wiltshire, Inghilterra del Sud – il più lungo di tui (quasi tre chilometri di sentieri, vicoli ciechi e ponti tra le siepi di tasso; costruito nel 1975) – evoca con neezza forse intenzionale il disegno delle circonvoluzioni cerebrali. Non così quello dell’Overlook Hotel, che ricorda piuosto le linee regolari, ree o curve, del modello minotaurico greco-romano. La paura è una cosa semplice. Siamo soli in un corridoio che in fondo ha una porta chiusa, dietro la quale potrebbe esserci quello che non vorremmo mai incontrare. L’Overlook di corridoi ne ha tanti dentro e fuori, e lunghi, e tante porte.

Rule, Britannia

da Zulu (Zulu) di Cy Endfield a colori, 1964 È il 24 gennaio 1965, pomeriggio, in Italia. Un bambino a casa con il morbillo sente dire alla radio che è morto Winston Churchill. Come molti suoi compagni di seconda non va a scuola da parecchi giorni per l’epidemia annuale delle malaie infantili. All’inizio la vacanza, quasi di seguito a quelle di Natale, gli aveva fao piacere, e le rare macchie rosse aorno all’ombelico lo avevano anche un po’ inorgoglito; ma a poco a poco l’esantema si è diffuso su tue le regioni del corpo (persino, con suo orrore, quelle intime), e gli prude. Come se non bastasse, fuori nevica e rimanere al chiuso invece di fare a palle di neve è diventato un cruccio. Se non altro gli piace leggere e può portarsi avanti con i programmi di scuola, ma la giornata è lunga e la TV dei ragazzi inizia nel tardo pomeriggio, prima non c’è nient’altro che i soldatini, oltre al riverbero della neve e al calore della febbriciaola che aggiungono uno strato di isolante al suo mondo infantile. È un mondo popolato da favolose figure – siano reali o immaginarie, i genitori o gli eroi dei fumei – ma anche da vecchi di cui si sa che possono morire: uno zio molto anziano, una nonna cagionevole. L’eventualità di perdere il papà o la mamma è coperta dal tabù, ma si affaccia ogni tanto nei suoi incubi.

Churchill era uno di questi vecchi, e quando sente la notizia il bambino comincia sommessamente a piangere. Non è la prima volta che gli succede alla morte di una persona pubblica: lo ha già fao per papa Giovanni e, soprauo, per John Kennedy. Ma in quei casi quasi tui i bambini italiani avevano pianto. Giovanni XXIII era tanto anziano e tanto buono, e l’aentato di Dallas era stato sconvolgente come una quarantina d’anni dopo il World Trade Center. (L’11 seembre del 2001 il bambino si sarebbe ricordato che nel novembre del 1963 faceva la prima elementare, come suo figlio che doveva iniziarla l’indomani.) Invece quel giorno non molti bambini italiani piangono Churchill: probabilmente è l’unico. Ma lui – che, un po’ perché ha oo anni e un po’ perché è fao così, sente fortemente i simboli – collega questa scomparsa alla fine dell’Impero Britannico, e all’Impero Britannico lui vuol bene per almeno tre motivi: i fumei della Collana Eroica, i soldatini Airfix che ora sono seminati sul tappeto del tinello e, soprauo, l’assioma appreso in famiglia per cui gli inglesi hanno salvato noi dal fascismo e il mondo dal nazismo. Mi unisce a Winston Churchill una futile coincidenza: il 18 giugno 1940 è la data in cui pronunciò uno dei suoi famosi discorsi, quello dell’“ora più bella”, e lo stesso giorno di qualche anno dopo sono nato io. Ma un’altra combinazione di date, più suggestiva ma di un soffio inesaa, collega Churchill alle baaglie di Isandlwana e di Rorke’s Dri, combaute in Sudafrica tra il 22 e il 23 gennaio 1879: oantasei anni e uno/due giorni prima della sua morte. La conquista del regno degli zulu da parte dei britannici concluse la guerra più drammatica che abbia opposto un esercito coloniale europeo a uno praticamente – e testardamente – privo di armi da fuoco. Ne avevano in abbondanza, e anche di inglesi, gli “abissini” che qualche anno dopo ci avrebbero sconfio ad Adua. Ho visto Zulu diverse volte, ma ne ricordo soprauo due. La prima da ragazzo, su una televisione privata: conoscevo la baaglia di Isandlwana, ma non sapevo niente di Rorke’s

Dri. La seconda una decina di anni dopo, sempre in televisione ma da una videocassea, a Empangeni, una cià del KwaZulu-Natal dove ero ospite con il mio amico Giorgio di sua madre Giovanna, pediatra cooperante presso l’ospedale locale. Era appena stato abolito l’apartheid. Zulu e xhosa si facevano una guerra terroristica senza quartiere e resa più efferata dall’uso frequente delle armi tradizionali: la zagaglia, la mazza di legno. Solo nel mese in cui Giorgio e io restammo a Empangeni, gli xhosa ammazzarono due infermiere di Giovanna in altreante incursioni nourne nelle township zulu. Le differenze tra i contesti in cui guardai lo stesso film mi hanno lasciato in mente due opere ben diverse. La seconda volta, oltre a sapere già cosa sarebbe successo, sapevo anche che i fai narrati corrispondevano grosso modo alla verità storica, e stavo visitando i luoghi in cui erano avvenuti, i piccoli musei che li commemoravano, il paesaggio – stranamente famigliare, da Appennino scozzese – dell’altopiano e dei colli tondeggianti. Insomma, rivedevo il film da una posizione simile a quella di uno speatore medio britannico o sudafricano che lo vedesse per la prima volta, o di uno speatore medio italiano che guardi un film su un fao noto della nostra Storia. Ma forse ne sapevo anche di più. In ogni caso non corrispondevo al pubblico presunto per cui Zulu era uscito nelle sale il 22 gennaio 1964, oantacinquesimo anniversario dell’inizio dei combaimenti, un anno e due giorni prima della morte di Churchill. A Empangeni, come sempre da allora, lo guardai con un’aenzione soprauo aneddotica. Se i grandi film bellici non mancano mai di episodi e frasi memorabili, delle seconde Zulu è addiriura infarcito (ce lo conferma il sito hp://www.imdb.com/title/0058777/quotes). Forse le più smaglianti sono quelle messe in bocca al sergente maggiore Bourne. Una, verso la fine (al tenente Chard, che aribuisce il miracolo della vioria alle palloole Boxer-Henry, Bourne replica: “E alla baionea, signore, con un po’ di fegato

dietro”), è diventata il titolo di un libro di Sheldon Hall – Zulu: With Some Guts Behind It. Ma io, per il suo senso esistenziale e terragno, trovo da sempre impareggiabile la sua risposta al giovane soldato che gli chiede come mai l’orrida rogna di trovarsi lì in uno contro trenta, soo l’aacco di un’armata indigena che poco lontano, poco prima, ha spazzato via una colonna di millecinquecento uomini armati di cannoni e lanciarazzi, stia toccando proprio a loro. PRIVATE THOMAS COLE:

Why is it us? Why us?

COLOUR SERGEANT BOURNE:

Because we’re here, lad. Nobody else. Just us.

esto scambio di baute segue il primo assalto degli zulu, oltre un’ora e un quarto dopo l’inizio del film e circa mezz’ora dopo che il tenente Chard ha risposto “Aspeeremo” alle domande dei subalterni sul da farsi. Dunque: non è strano che i film sulle baaglie tendano a dividersi in due parti, preludio e combaimento. Però qui è diverso. i, alla mia prima visione (per giunta dilatata dagli intermezzi pubblicitari) ho avuto il dubbio per un’ora abbondante che la baaglia potesse non avvenire mai, di guardare un film bellico di retrovia. Forse gli zulu, come i tartari del Deserto, non sarebbero arrivati, e avrei invece assistito ai dissidi e alle empatie, ai passi falsi e alle redenzioni dei personaggi messi a nudo dalla tipica claustrofobia del fortino minacciato; all’evolversi dei contrasti tra le parlate dei militari per metà inglesi e per metà gallesi, tra le diverse estrazioni sociali dei due tenenti Chard e Bromhead, tra fucilieri e genieri, tra integrati e lavativi, tra regolari britannici e ausiliari boeri. Con il contorno di qualche figura pioresca, come il ladro che marca cronicamente visita, o il prete svedese ubriacone. Fino alla comparsa delle schiere di zulu sulle alture, uno speatore che ignori i fai storici può condividere incertezze e tensioni dei personaggi, l’aesa verbalizzata da Chard ed evocata da Sigfried Sassoon in Before the Bale: Musica di alberi in mormorio taciuta da una brezza vasta d’ali là dove l’acqua, agitata, riluce;

e il fulgore della sera che cala con note aspre in richiamo d’uccelli. Oh, recatemi in salvo tra le tenebre, voi flebili ruscelli.

Ma con una cruciale differenza: noi sappiamo già dai primi minuti del film cosa può aspeare gli uomini di Rorke’s Dri, loro no. Noi abbiamo visto nel prologo il campo di baaglia di Isandlwana dopo il massacro delle giubbe rosse, loro no. Il loro aendere alle corvé assegnate non è turbato da presentimenti. L’eventualità che accada ciò che in effei è accaduto (i loro disciplinati commilitoni travolti da un’orda di selvaggi) non sta per loro né in cielo né in terra. Le immagini umane e i suoni della natura non sono un’ultima sigarea o un tramite sciamanico verso la salvezza. Sono vita di ogni giorno, di quel giorno, acqua e sassi su cui costruire un ponte, leopardi e antilopi da cacciare, vitellini neonati da accudire. Normalità di tui noi prima che ci succeda qualcosa. Per questo al manifestarsi di centinaia, migliaia di coraggiosi guerrieri zulu pronti a gearsi all’arma bianca contro i proieili blindati, speriamo che i britannici ce la facciano. Perché sembrano uomini comuni che d’un trao, senza altro preannuncio che la coscienza/incoscienza di essere mortali, si trovino ad affrontare un’operazione chirurgica ad altissimo rischio. All’inizio del film si vede una lunga danza nel kraal reale tra giovani fidanzati zulu, maschi e femmine. È una scena speacolare e relativamente pruriginosa, che oggi molti riterrebbero sessista e razzista, perché le ragazze hanno il seno nudo e al cinema nel 1964 i seni nudi africani erano meno censurati di quelli europei. Presiede alla cerimonia il re Chetswayo, interpretato dal pronipote Mangosuthu Buthelezi, che era il leader del suo popolo quando mi trovavo in Sudafrica e lo è tuora, a più di novant’anni. Invece nei panni del sergente maggiore Bourne c’è Nigel Green, un bravo aore molto sfortunato. Inglese, ma nato proprio in Sudafrica, soffriva di depressione e morì a quarantasee anni per un eccesso (forse suicida) di farmaci. Era alto più di un metro e novanta e la sua figura torreggia su

Zulu in tui i sensi, come un campione longilineo dei British bulldog che conquistarono il mondo. Invece il vero Frank Edward Bourne era basso di statura, fu il più giovane sergente maggiore dell’esercito della regina Vioria e, pur essendo di origini modeste (non era an officer and a gentleman, come Stanley Baker-Chard chiama Michael CaineBromhead ammonendolo alla compostezza del rango, alla rigidità del labbro superiore), diventò ufficiale e andò in congedo con il grado di tenente colonnello. Morì l’8 maggio 1945, mentre finiva la Seconda guerra mondiale in Europa: nel giorno della salvezza dell’Impero Britannico e dell’avvio della sua liquidazione. A differenza di Churchill, aveva già compiuto novantun anni.

Territhorror 1 / Scappa con Superissima

da Il sorpasso di Dino Risi bianco e nero, 1962 È la metà degli anni Seanta in Lombardia. Sono in tre e potremmo chiamarli con qualsiasi nome, ma per comodità li chiameremo Pirgo, Nietzsche e Poli. Pirgo ha trentadue anni. Dopo le medie ha fao un corso di disegnatore meccanico, non è proprio un geometra ma non lavora in fabbrica. Ha un impiego. Nietzsche ha quasi dicioo anni. È figlio di un notabile del paese. Studia nel capoluogo di provincia. Andrà a laurearsi nel capoluogo di regione. Ha sempre saputo di non appartenere del tuo a qui. Cioè al paese. Poli ha appena compiuto diciannove anni e a scuola se la cavava ma gli piaceva poco. Ha mollato dopo un anno di geometra e fa il manovale. Le loro vite stanno per dividersi. Poli e Nietzsche disprezzano Pirgo. Non lo hanno mai visto con una ragazza. In pratica lo usano come autista. Per andare in macchina. Andare dove? Non sanno. Non hanno la ragazza neanche loro. A volte al cinema, non tanto spesso. Di solito si arriva in un posto e poi si torna indietro. Non si fermano neanche a bere qualcosa nei bar. Perché il bar è uno solo, quello del paese. Tornano sempre lì. La macchina di Pirgo è quello che li lega. È una FIAT 127 bianca. Poi, una sera, in piazza, presentano la nuova Alfa Romeo. Un modello economico che fanno in una fabbrica in Bassitalia. Il venditore insiste molto sul ritornello della pubblicità. Anche

questa è un’Alfa. La gente è un po’ sceica. Grande sconto sull’autoradio. Offrono di provarla gratis, un quarto d’ora. Sono a disposizione due esemplari. D’accordo, non è un GT Junior, ma rispeo alla 127 altra classe. La classe non è acqua. La palla è rotonda. Il calcio non è sport per signorine. È colore blu noe. Ha la linea sportiva. Partono. Poli vuol farsi vedere sulla macchina da una ragazza. Abita nel paese vicino. Un quarto d’ora basta per andare e tornare. Magari lei è seduta fuori dal bar. Nietzsche è d’accordo, perché a lui piace un’amica della ragazza. A Pirgo interessa solo guidare l’Alfa. Ha un difeo di pronuncia. Dice la gi dura al posto della erre. ando parla di motori e di donne fa pietà. Cag-bugatoghe. Gagazza. E non è che tra loro si parli di molto altro. Gli chiedono sempre: “Insomma Pirgo, ce l’hai o no la gagazza?” Il giro: saranno see o oo chilometri in tuo, si fa un pezzo di statale. La radio è accesa. Di sera al buio in macchina con la radio accesa. Smoke on the Water. Sembra già noe fonda. Sembra un film. Come andrà a finire? E chi ha deo che finisce? Araversano il paese delle ragazze. Le ragazze non sono fuori dal bar. Non si vedono. Le sedie fuori dal bar sono vuote. È già ora di riportare la macchina. Tornano per la comunale che corre tra due rogge. Gogge. È strea, passa solo una macchina alla volta. Ogni tot metri c’è una piazzola “di svincolo”. Ma la strada è diria ed è buio. Se viene qualcuno nell’altro senso si vedranno i fari. Comunque Pirgo accelera ma non tanto. Nietzsche è seduto di fianco a lui, fuma un’Ambassador girato verso Poli. Oanta all’ora. Pirgo per un momento si distrae, si volta a metà perché Poli dal sedile di dietro lo sta prendendo per il culo. “Ce l’hai o no la gagazza?” Esce un gao dall’erba sul ciglio della strada. A destra, pochi metri più avanti. Corre araverso la strada. È così che succedono gli incidenti. E qualcuno resta sempre fregato. Le loro vite stanno per dividersi.

Volendo ragionare, i candidati a non tornare a casa sono due. Oltre al gao. Il primo è Nietzsche, quarto figlio ma unico maschio. Il futuro della famiglia proprietaria. Sì, ma non siamo negli anni Seanta? E allora deve toccare a uno povero. Un povero illuso. Illuso che basti comprarsi la macchina. Meere sulla 500 lo stemma dell’Abarth per trasformarla in una fuoriserie. indi restano solo Pirgo e Poli. Che sono sempre due. Volere o volare. Ma anche l’imbarazzo della scelta. Lo zimbello inoffensivo. O il discolo nichilista. Comunque, nulla vieta di farli fuori tui e due. Anzi, magari è meglio. Così Nietzsche – guarite in quindici giorni le scalfiure (del corpo e giusto appena appena dell’anima) – potrà andarsene a studiare a Milano. Bruciati tui i ponti alle sue spalle. Senza neanche aver fao lo sforzo di bruciarseli lui. Di voltare le spalle all’infanzia interclassista. Puntando drio alla maturità borghese. E invece no, sono discorsi inutili. Eppure ci avevamo preso gusto. Ma alla fine non succede niente. Proprio in grazia, o per colpa, dell’aimo di distrazione di Pirgo. Che per rispondere da vero sfigato alla presa per il culo non ha visto il gao. Non ha inchiodato i freni. Né sterzato di colpo. L’auto non si è schiantata contro un paracarro. (Sulle strade ci sono ancora dei paracarri pericolosissimi.) Non è volata via. Non c’è stato nemmeno un testacoda. Non è affondata in una delle due gogge gonfiate dagli acquazzoni. Pur avendo l’imbarazzo della scelta. E il gao? Il gao è passato in mezzo alle ruote. Si è salvato anche lui. Non c’è stato nemmeno un pestacoda. Miracolo. Nessuno si è fao niente. Nessuno si è accorto di niente. Nessuno ha sofferto, né imparato qualcosa. Le loro vite stanno per dividersi.

Il dolore non vale niente?

da Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Head of Alfredo Garcia) di Sam Peckinpah a colori, 1974 Lo straniero senza nome (High Plains Drier) di Clint Eastwood a colori, 1973 Il petroliere (ere Will Be Blood) di Paul omas Anderson a colori, 2007 Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men) di Joel e Ethan Cohen a colori, 2007 e Counselor – Il procuratore (e Counselor) di Ridley Sco a colori, 2013 Colpo di spugna (Coup de torchon) di Bertrand Tavernier a colori, 1981 Chi ucciderà Charley Varrick? (Charley Varrick / e Last of the Independents)

di Don Siegel a colori, 1973 e altri. Il male sta di casa dappertuo, ma esiste una casa del male? Una regione del mondo dove il canale che collega gli uomini all’inferno ha più rami, più sbocchi, e manda fuori più facilmente i suoi mostri? Per rispondere ci vuole un metro di giudizio, e alla fine il migliore mi sembra la durata. ando ferocia, crudeltà, disperazione, miseria hanno esaurito la loro fase acuta, e le trincee e le baracche della morte si sono svuotate, e del napalm resta traccia soltanto nelle foreste in cenere, l’orrore in un particolare luogo può smeere, e impiegare molto tempo a riprendere il sopravvento. Potrebbe anche non tornare più. Ci sono invece luoghi dove un orrore più o meno intenso è abbastanza continuo nel passato e nel presente da ipotecare il futuro. Luoghi che a chi il male vuol raccontarlo si propongono come sedi di un ciclo senza fine. Ma perché anche una sede con le carte in regola venga ampiamente ammessa come tale occorre che i suoi narratori – scriori, registi, reporter – facciano capo a un sistema di comunicazione potente. Con questa premessa è difficile guardare fuori dagli Stati Uniti. Il male americano nelle sue varie versioni (follia o vendea, con redenzione o senza) è valuta corrente in tuo il mondo. Le sue cronache vere e immaginarie coprono ogni angolo del Meraviglioso Paese – from California to the New York Island, from the Redwood Forest to the Gulf Stream waters, cantava Woody Guthrie. Moby Dick ne è l’icona; Testimony – USA di Reznikoff ne è il regesto. Ma a leggere, a guardare e ad ascoltare, la presenza del male sembra farsi più bieca man mano che ci si avvicina a, o si varca, il confine fatale. e Border. La frontiera con il Messico. Tanto per cominciare c’è il paesaggio. I paesaggi. Tuo il Sud dell’Unione in un modo o nell’altro si presta alle epifanie maligne. Le grandi paludi della Florida e della Louisiana, con

uragani e piogge torrenziali. Gli Stati dell’interno gonfi di odio razziale e incupiti dalle coltivazioni estensive. Scarsa popolazione con comunità anguste; squallore, endogamia, alcolismo. Culti oscuri. Eppure, è come se le geografie del Border imprimessero un altro giro di vite. L’inferno vuole il fuoco: e l’aridità del Texas, del New Mexico, dell’Arizona e del Sud della California, il sole a picco, offrono una fornace ideale. Poi c’è il faore principale. Il Messico. L’incubo che si avvinghia al sogno americano. Baratro soo i piedi, mondo al rovescio appena oltre il Rio Grande e qualche volta nella stessa cià. San Diego e Tijuana, El Paso e Ciudad Juárez come carte da gioco dalle figure sdoppiate in opposti. I muri che si vogliono alzare lungo la linea che corre tra loro sono un esorcismo brutale ma fatuo, perché ogni confine ha in sé l’ambiguità e la paura dell’ambiguità. esta paura il cinema l’ha messa a nudo a poco a poco, dal diniego della Baaglia di Alamo e dei Magnifici see al riconoscimento di Frontiera, alla parodia di Machete. Dal maatoio eroico al maatoio da farsa. Sul Border, come su un’asse di equilibrio, Sam Peckinpah ha danzato lungamente nel sangue. Sierra Charriba. Il mucchio selvaggio. Getaway! Convoy. In tui questi film il Messico è lo scolmatore dei peccati yankee, la via di fuga per un nuovo inizio o un riscao dove la morale c’entra poco (e di cui spesso, e non soltanto in Peckinpah, tappa essenziale è un massacro di messicani). Lo stigma è che quando si è superato il confine ritornare è difficile anche per chi lo vorrebbe. Troppe sono le forze oscure in ao. In Voglio la testa di Garcia, Bennie è un ex militare americano spiaggiato in un bar di Cià del Messico. Gli dicono di un premio da un milione di dollari per chi porterà a El Jefe (il Boss) la testa dell’uomo che gli ha inguaiato la figlia adolescente. Ecco, ci viene da pensare: la ricchezza potrebbe liberarlo dal Messico. Ma sbagliamo, perché il Messico è la testa stessa che, una volta spiccata dal corpo di Garcia – il quale nonostante tui i killer alla sua caccia è già stato fao fuori dal caso – resterà

addosso a Bennie fino alla morte. Il Messico è la morte. La Frontiera è l’inferno al di qua prima dell’inferno al di là. alche volta il confine è più lontano, e allora precisare la natura del luogo sarà delegato ai colori canonici. Può bastare anche un cenno, una parola. Restiamo per un aimo in Italia. Nel Deserto rosso di Antonioni potevamo aspearci che il morbo della società industriale fosse rappresentato dall’Italsider di Bagnoli, ma invece il film finisce e di rosso non c’è stato niente. Non è vero, siamo noi che non abbiamo fao aenzione. Perché tornando indietro vediamo che il privé dei piccoli sabba borghesi officiati nella baracca è fao di assi scarlae. E che molte di queste finiranno in un falò. E che sono scarlai i deagli di una nave pestilenziale. Non so se ho divagato. Il nostro cinema, non solo d’autore, negli anni Seanta era un modello. Nel primo western girato da lui stesso, Clint Eastwood – lo Straniero – arriva in un villaggio minerario che si chiama Lago perché sorge sulle rive di un lago, ed è impregnato del male a causa di una colpa colleiva inconfessabile. Dopo aver soggiogato gli abitanti con la sua abilità di pistolero, lo Straniero impone loro di piurare tui gli edifici di rosso e correggere il nome del villaggio in HELL. La vendea che cova non si fermerà a questo, porterà la rovina generale. Alcuni indizi fanno pensare che lo Straniero sia il diavolo: il villaggio infernale è distruo dalle fiamme e, solo per un momento, spunta un paio di corna. Ma sembra più probabile che Eastwood stia interpretando per la prima volta un Cavaliere dell’Apocalisse. Anni dopo sarà il quarto, quello sul cavallo pallido dal nome di Morte. i è più il secondo, su quello rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato il potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada.

Tuavia nell’inferno il diavolo dovrebbe esserci. Peckinpah sembra fissarlo nel caos dell’entropia, causa/effeo della naturale violenza umana. Il male è nelle fibre del mondo, non ha nome né volto. Altri preferiscono creare un personaggio che vi alluda o lo incarni. In ere Will Be Blood, ambientato in vari stati sul confine, la roura del Petroliere

con il figlioccio e la caduta definitiva del primo nell’abiezione si ha quando il secondo gli chiede aiuto per spostare la propria aività in Messico. Come se nel suo viaggio nella noe il Petroliere si sentisse scavalcato. Perché lui non è il diavolo, ma ne è posseduto a mano a mano tramite i demoni dell’avidità e dell’alcool, e può darsi che diventarlo sia il suo vero traguardo, visto che dopo l’ao estremo di ferocia esclama: “I’m finished.” Come a fregiarsi di un primato dopo essersi diviso troppo a lungo con gli altri personaggi il campo dei vizi capitali (compresa la mancanza di lussuria). Da anni il cinema insegue la figura diabolica più colossale creata da Cormac McCarhty, quella del Giudice Holden di Meridiano di sangue, senza afferrarla, proprio come la Balena da cui si fa discendere. Ma se il Giudice è il maligno, il luogo del male e quindi il male stesso è il meridiano che si sposta con lui verso Ovest seguendo l’espansione degli Stati Uniti e incontrando il Messico, dove può tingersi di sangue e di fuoco nelle parole dei messicani stessi. Blood, he said. is country is give much blood. is Mexico. is is a thirsty country. e blood of a thousand Christs. Nothing.

Le parole, sì. ando ha carne, il male ha anche una bocca. In Non è un paese per vecchi fa avanti e indietro lungo la frontiera nei paesaggi subinfernali tra il Texas e il New Mexico. Ha preso le sembianze di un killer a pagamento che non può morire. Ammazza la gente per soldi e perché, essendo quello che è, fa quello che fa. Non parla molto, ma ama mostrarsi onnipotente negandolo. Classica mossa del diavolo. Ama mostrare che, se la sorte lo contrasta, lui è capace di tirarsi indietro. A un certo punto entra in un negozio e chiede al vecchio negoziante di lanciare una moneta. “Scegli, testa o croce.” Il vecchio è turbato, intimorito, ma lancia e vince. Non saprà mai di essere sfuggito alla morte. Ma il killer sa che la viima non è persa perché tanto si muore, prima o poi. (ando ripeterà lo stesso gioco con una giovane donna, lei intuirà e non ci starà a giocare. Lei ha una morale, la vita non può dipendere da questo. Tanto vale lasciarsi uccidere.)

Altri diavoli di McCarthy parlano molto finendo nell’esibizionismo verbale dei maniaci. Un nuovo Jefe, il narcotrafficante di e Counselor, si dilunga in discorsi filosofici, perfino rigoristi. Le azioni che compiamo creano mondi. Tui dovremmo avere un luogo dove accogliere le tragedie che prima o poi ci colpiranno. Non si può comprare niente con il dolore, perché il dolore non ha valore. Tuavia i suoi impulsi sadici sono un continuo sabotaggio alla qualità della sua dialeica. Il dolore in assoluto è worthless, ma infliggerlo gratuitamente per lui è worthwhile. Il Male deve, anzituo, fare male. Rimane la questione più importante. Che cosa fare se si vive all’inferno senza essere il diavolo, come succede a quasi tui? Colpo di spugna è trao da un grande noir sardonico di Jim ompson, Pop. 1280. Nel film l’azione viene trasferita da Posville, Contea di Pos, nell’Ovest del Texas, in una ciadina sempre inventata dell’Africa occidentale francese – le riprese si svolsero nel Nord del Senegal – però il paesaggio è ancora quello del Border, qui il fiume ha la funzione di trasportare i cadaveri di malati o ammazzati. Le parole nel film sono importanti, ma nel libro lo sono di più, perché il protagonista è anche il narratore. Si chiama Nick ed è un polizioo di mezza età. Sovrappeso, invecchiato, nascosto dietro il suo aspeo fisico e la ghiooneria di chi ha perso tui gli altri piaceri. Sua moglie ospita in casa un fratello scioperato che in realtà non è il fratello ma l’amante, e i due infliggono a Nick continue umiliazioni. Sul lavoro è vessato dai superiori e da qualche delinquente da strapazzo che dovrebbe temerlo e invece lo deride, lo umilia. Solo che le apparenze ingannano. Nick è un libertino capace di diventare assassino. Prima di scaricare la doppiea su Zio John – un poveraccio di colore dall’apparenza innocua – gli spiega che lo ucciderà perché non ne può più dei pranksters, le “carogne beffarde” – se non fosse volgare, in italiano li chiameremmo “merdosi”. Meglio il cieco, ammonisce Nick, del prankster che lo porta a pisciare fuori dalla finestra. Ma chi rientra in questa categoria?

Be’, Cristo, quasi tui, ogni figlio di cane che quando vola la merda si gira dall’altra parte, ogni bastardo che se ne sta seduto sul suo uccello con un pollice in culo e l’altro in bocca sperando che non gli succeda niente, ogni puaniere convinto che il piscio diventerà limonata, ogni malcagato che dovrebbe essere fao a immagine di Dio, al che io penso che non vorrei mai incontrarlo in una noe buia.

Insomma, siamo quasi tui volonterosi aiutanti di Satana. Bestie, e le sabbie roventi ci sono degna tana. In quanto a Nick, lui ha sentito di dover fare qualcosa. Ma non sa bene se la sua parte è quella del diavolo stesso, o del Cavaliere dell’Apocalisse, o dell’Angelo sterminatore, e quale che sia non ne sopporta il peso. Alla fine la stanchezza lo travolge. Nick cede al pianto, forse la farà finita. La soluzione ce la offre Charley Varrick. Anche lui deve vivere nei luoghi del male, anche i soldi che si trovano nelle sue mani sono sporchi. Ma Charley sa che il male è dappertuo e di soldi puliti non ne esistono. Sa che il diavolo non è che una maschera, e con un colpo da maestro si mee sulla faccia il cinismo impenetrabile di Walter Mahau quando non vuol far ridere. La scena in cui ci spiega tuo quello che c’è da spiegare è la morte di sua moglie Nadine, ferita in una sparatoria con la polizia. Non si traa della solita pupa del gangster, ma della compagna e socia di una vita di illegalità. Eppure Charley non fa una piega, passa immediatamente al problema successivo – come sbarazzarsi del cadavere. Non a caso è l’ultimo degli indipendenti. Indipendente dalle parole e dai sentimenti, quindi anche dal male. Non ha bisogno di seminare il dolore perché lui non fa prediche, è davvero convinto che il dolore non vale niente. Siamo noi che non vogliamo saperlo.

Territhorror 2 / Batracica

da Frogs (Frogs) di George McCowan a colori, 1972 Il cuore rivelatore di Alberto Mondadori e Mario Monicelli bianco e nero, 1934 Per prima cosa scuoia il corpo, poi lo sbudella. Infine mozza la testa e le zampe come ha visto fare tante volte a sua madre e a sua nonna. Non si nega il piacere di immergere il cadavere nel catino per guardarlo nuotare ancora a scai. Infine, avendo imparato provvisoriamente a cucire, prende la vecchia fodera scarlaa di un cuscino e cuce al suo interno i resti della rana. Lì dentro nessuno la disturberà. In pace requiescat. Abiea infanzia. Ma oggi è oggi e lui non è più un bambino, è un uomo di almeno quarant’anni. Sta guidando su una strada che per anni ha percorso quasi ogni giorno, una statale declassata, dove anche a noe fonda passa sempre qualcuno e oggi tuo sembrava uguale al solito, finché improvvisamente non è stata deserta e il vecchio reilineo di poche centinaia di metri è diventato lunghissimo, infinito. Scomparsi anche i paesi e le cascine aorno, restano solo i fossi che nella bassa pianura fiancheggiano tue le strade. Uno a destra e uno a sinistra. Oltre i fossi si levano i muri verdi del mais ormai quasi maturo, quasi giallo. Lontano, a ovest, i bagliori del temporale che è passato di qui mezz’ora

prima. Luci violee, arancio. È sera poco dopo Ferragosto. Saranno le dieci, forse le dieci e mezzo, ma sembra l’ora dei morti perché il buio avvolge una campagna che ha completamente mutato aspeo tornando come era forse in un tempo remoto, un regno di piante e di silenzio. Silenzio. Ma adesso l’uomo sentirà dei rumori. È stata l’afa ad acuire i suoi sensi. Non ci sono dubbi. In agosto qui l’afa è una seconda pelle, simile a quella della rana scuoiata. Tuo quello di fuori deve filtrare oltre questo strato. E a furia di filtrare, uno arriva a sentire più o meno tue le cose della terra e anche molte dell’inferno. Ora la sensazione che lui ha da sempre in questi luoghi che sono casa sua, di vivere sedere camminare su un gigantesco addome – cavernoso di ipocondri, fluuante di organi vivi e morti, né vivi né morti, fibrosi e lutulenti, intrisi di una linfa, un limo, un liquor senza nome –, con la trasformazione della strada ha preso una forma sonora in cui subito l’uomo riconosce un gracidio corale come una messa funebre, ritmato come il baito di un orribile cuore. È il gracidio delle ultime rane, forte come non si era mai sentito. Perché le ultime? Perché in questi canali le rane sono praticamente estinte. Veleni, agenti chimici – per quanto lo riguarda, l’uomo non ricorda di averne viste dai tempi in cui le vivisezionava. Tuavia, in pochi aimi il suono ingigantisce fino a rendergli impossibile pensare, parlare; e poi, ecco, le rane cominciano ad araversare la strada davanti a lui. Illuminate dai fari, sono centinaia, migliaia, avanzano fie come lemming sulla scogliera o tartarughe sulla spiaggia, come gli innumerevoli esseri viventi direi verso un qualunque destino. Alcune spiccano balzi mostruosi volando da un ciglio all’altro; altre, gonfie e bitorzolute, rugose, trascinano le zampe posteriori come strascichi. ante di loro sopravvivranno alla macina delle ruote? Sempre ammesso che siano vive – perché gli sembrano assurdamente tante, quindi potrebbero essere fantasmi di rane, zombi di rane volanti o arrancanti verso l’ultima impresa leggendaria.

Uno sterminio di insei; la colonizzazione di una roggia fatale. Ma se fossero vive l’uomo vorrebbe fermarsi, risparmiarle. Dare loro un’altra occasione. Niente, non ci riesce. Cerca di frenare, ma i freni non funzionano. Per decine, per centinaia di metri calpesta con le ruote un tappeto che si muove, e adesso al gracidio si è accompagnato il secondo rumore – borboglio, sciaguaio, uno spremersi ubiquo; e non gli resta che tentare e ritentare alla disperata il pedale dei freni. Alla fine, ad apporre il sigillo su tuo (mentre ancora le sente struggersi soo le gomme), arriva il terzo e ultimo rumore. Viene dal basso. È un suono sciabordante come una borsa dell’acqua calda quando la scrolli o, meglio, la comprimi alla base obbligando la superficie a ondularsi in bolle e cavità. Somiglia in modo impressionante al murmure soomarino di due polmoni invasi. Poi, basta. Anche stavolta senza alcun preavviso, l’uomo si accorge che la strage è finita. La strada alle sue spalle è coperta di cadaveri e le rane non gracidano, non torneranno più. Solo l’ultimo sciabordare dura. C’è un liquido, o una linfa, che trema e, risuonando dalle viscere della pianura, lo chiama. Sono viscere facili da raggiungere, falde acquifere impure, cavità immense e infee, a portata di mano, basta puntare il pugno nella terra, affondare l’avambraccio e seguirlo. E finalmente la macchina frena, si ferma, e l’uomo senza perdere tempo abbraccia l’impulso incontenibile di scendere e sdraiarsi sulla coltre di rane premendo il basso ventre sul ventre della terra, irriguo e sussurrante, prima di esserne ingoiato a brandelli e colare via nell’oltremondo, l’oltremondo melmoso delle rane da cui non torna più nessuno.

Un elmo in riva al mare

da Alessandro il Grande (O Megalèxandros) di eodoros Angelopoulos a colori, 1980 O Megalèxandros è un uomo a cavallo lungo una spiaggia della Grecia, seguito da una fila, una processione di gente a piedi. Lo abbiamo visto di fronte, spuntare in controluce dal di soo, dallo schermo basso di un parapeo, tuo nero di cimiero barba e mantello, sul suo cavallo bianco; e oltre il mureo non si vedeva la spiaggia, ma solo mare, isole, promontori lontani. Anche il sole si abbassa, l’aria è di un tempo che sta per finire: il giorno, la stagione – estate, forse autunno, è difficile capirlo dalle vesti dei personaggi, perché quasi di certo non sono vesti, ma maschere. Sfilano come profughi o prigionieri o accoliti, uomini in marsina e bastone e cilindro, donne con lunghe tuniche bianche sacerdotali. Altre marsine avevamo visto di spalle, perfeamente nere in controluce come sagome finte, prima che comparisse Alessandro. Un uomo con un lungo fucile, seecentesco nella luce malinconica, tallona il cavaliere come uno scudiero o un guardaspalle. Il mare è dominato dalle rovine di un tempio che, se osserviamo da un certo angolo a una certa altezza, non sembrano rovine, ma il tempio ancora in piedi, spodestato, non abitato da nessun dio. Gira nell’aria un’aria di rivolta, la rivolta di un tempo contro un altro tempo, di una visione rozza e sconsacrata contro una realtà carnevalesca e vile.

Sull’uomo a cavallo è d’obbligo indugiare. Si è elevato spuntando dal parapeo come un dio o come un mostro, o un vendicatore: prima il cimiero e poi, nell’allargarsi, l’elmo e tuo il resto. La messinscena è scoperta, la prosopopea trabocca da ogni parte. Se gli altri, il suo corteggio, sono maschere, lui è la Maschera: mascherato da Eroe della Storia e del Mito avanza corpulento, pomposo e doloroso di sé; è come il tempo, seguito dal corteggio dei suoi giorni, gonfio di libagioni ingabbiate dall’afa, agente dell’idropisia moderna; e, come il tempo, non è direo da nessuna parte. Eppure gli altri uomini lo seguono, vanno dietro all’ubriaco che non parla; su questa spiaggia che, nel vago dell’ora e della stagione, del mare nudo e dei promontori deserti, sembra non cominciare né finire. Sembra: perché invece, e lo si era visto subito, è orlata di rovine. Basamenti, monconi di colonne. Li abbiamo visti perché li abbiamo fabbricati noi per munire di uno sfondo l’inganno, l’elmo con il cimiero che dovrebbe unire quest’uomo debordante a un passato; a un giorno da cui un giorno sia venuto. Se si staccasse dalla testa del Megalessandro e cadesse sulla sabbia, l’elmo sarebbe avvolto dal rumore sordo della piccola conca scavata per accoglierlo. Se cadesse sulle pietre delle rovine risuonerebbe, forse rotolerebbe per un po’, e poi comunque resterebbe lì – conca a sua volta, proverebbe a dirci, di echi di voci, camera sonora degli echi immateriali di cose e fai vivi, concreti e immaginari. Si stacca un uomo dalla processione, allontanandosi dal mare verso un interno sabbioso dove crescono cespugli e pinastri, e anche la luce sembra avere sostanza. Ha un ombrello con sé e va a sedersi al centro di un’immensa piana verde su uno sfondo di nuvole e montagne. Seduto come un vecchio o un uomo corpacciuto, piantato simmetricamente sulla sedia, nero da cima a fondo a parte il chiaro del volto che da lontano potrebbe essere un teschio, delle mani che potrebbero essere coperte dai guanti di un impresario funebre, sembra un gonfalone dell’immobilità. Alle sue spalle,

quasi sulla rotaia orizzontale del primo orizzonte – quello dell’erba – un carro nero trainato da un cavallo nero araversa la nostra immagine. L’uomo seduto è la saldezza precaria della vita, o quella più sicura della morte, e il carro è il tempo che procede nella sua direzione, senza ritorno, verso la sua meta. E se carro e cavallo sono neri, ed è nero anche l’uomo, verrebbe spontaneo pensare ai soliti simboli. Oppure, non c’è niente di tuo questo. Il tempo non ha meta, ma come il Pifferaio chiama, si fa seguire, finché la terra manca soo i piedi. E sulla terra restano brevemente le tracce di un passaggio: un velo insanguinato, l’ombra di una nuvola, l’elmo vuoto di un Megalessandro che rimbomba dei suoi echi, lascia che il vento muova i suoi pennacchi e scompare, perché la ruggine lo ha corroso o soltanto perché non è mai esistito. Che si possa pensare lo spazio e non il tempo sembra paradossale, visto che il tempo è l’entità più misurata dagli umani, scansita fino all’esasperazione per unità che vanno dal piccolissimo all’immenso (spiata nel suo muoversi con la stessa facilità con cui al maino ci pesiamo o rileviamo il nostro girovita; e anche per questo sentita come sfuggente e insopportabilmente ecleica); ed è quasi ridicolo il destino, o il caso, di essere annichiliti da un agente che esula dalla nostra percezione, che si sorae alla nostra realtà mentre la assomma tua, al suo completo: il più anonimo degli agenti, asensoriale e fao di nulla. Eppure, l’unica cosa che non sia sogno, che al dunque mostri di essere esistita. Al dunque, alla morte. Magari è questo che l’uomo con l’ombrello vorrebbe dirci uscendo dal corteo; senonché il carro si ferma quasi subito e un altro uomo – pure nero, invernale nei vestiti – corre verso di lui come un araldo di sventura. Ma solo per lasciarci l’impressione rassicurante di non aver capito un cavolo, perché il messaggio che comunica a quello seduto lo fa scoppiare in una lunga risata rauca.

I profughi, gli sradicati, i finti ricchi che accompagnano in fila il Megalessandro non sono particolarmente male in arnese. E come se non bastasse, ci viene da pensare che sappiano che trovarsi su una spiaggia solitaria della Grecia in qualunque stagione e con qualunque luce è anche negare il tempo, smascherare qualcuno dei suoi inganni. Gli echi dell’elmo sono fai di ossa e carne, come le conchiglie seminate sulla spiaggia conservano gli echi di uomini che portavano indosso poco altro oltre all’elmo, e nella loro nudità non sono altro che tempo.

Paesaggio distruibile

da Zardoz (Zardoz) di John Boorman a colori, 1974 esto doveva essere il futuro, pensa Zed fermandosi a pochi passi dal Testone. Il Testone è un hangar-palafia su quaro piloni che si alzano dal fiume. Inaugurato nel 1926, e a Zed sembra di vedere i cappelli a cilindro, le camicie nere e le velee bianche appena mosse dalla brezza di aprile; con qualche mutilato di rappresentanza che nella brezza sente ancora il sangue sparso sugli altipiani, caldo nelle bende, gelatinoso nelle buche del Grappa e del Carso, sbavato dal vento sulle camicie nere, sulle velee bianche. I saluti romani di quel giorno inauguravano la prima linea italiana di aviazione civile. Si volevano sfruare gli specchi e i corsi d’acqua come piste di aerraggio fornite gratis dalla natura: ma l’idroscalo è durato poco, e adesso soo e intorno alla carcassa crescono erbacce e rovi, zampeano i rai e pagaiano le nutrie. L’anfibietà è tuo quello che resta dell’idea che ha portato alla sua costruzione. ando non piove da un po’ i piloni vanno in secco; quando l’acqua si alza l’erba viene sommersa. Ma lungo questa riva, quasi allo sbocco di un naviglio nel fiume e allo sbocco del fiume in un altro fiume, Zed sente l’acqua ovunque posi il piede, sooterra e dentroterra, come se camminasse su un materasso ad acqua o su un corpo malato, con turbamento e insieme piacere infantile.

È infantile il senso che ogni edificio in abbandono possa custodire un mistero, un suo mondo di oggei rivelatori. E lì, soo i piloni, Zed decide che il Testone contiene i futuri sognati nel passato. La natura ipotetica del luogo gli dà adito a visualizzare un interno immenso, ci vorrebbero ore per araversarlo. Non ci sono cartelli né indicazioni di alcun tipo, ma il contenuto è suddiviso grosso modo per generi: una zona molto vasta è occupata dalle astronavi e dagli altri veicoli spaziali, poi ci sono le macchine del tempo e in una sezione angusta, ma bene in evidenza, le curiosità, le stravaganze già avverate o incombenti: i calzoni a campana del Mondo nuovo (ma non erano già in voga ai tempi del libro?), un baraolo di Soylent verde, funghi e asparagi di cui si armavano i Caulomiceti, biciclee volanti. Per un po’ Zed indugia su queste testimonianze… sì, ma testimonianze di cosa? Le immagini che ha in testa gli suggeriscono solo due parole: entropia, distopia. Gli hanno spiegato che la distopia si ha in medicina quando un viscere o un tessuto si sposta dalla sua sede naturale, per lo più a causa di un problema congenito. Invece nella leeratura e nel cinema è la rappresentazione di un pessimo futuro per il mondo, in pugno a regimi totalitari (o dispotici: ma Zed non sa giocare con le parole) guidati da tecnocrati e scienziati malvagi. E indubbiamente le distopie sembrano un dono velenoso dello scientismo, o una truce conseguenza del dono della termodinamica. Nel bazaar delle macchine del tempo, tra gli ooni opachi dello steampunk e le pulsantiere minimaliste del XXI secolo, Zed riconosce quella di H.G. Wells. Nel 1895, all’uscita del libro con quel titolo, Joule e Clausius erano morti da poco e Lord Kelvin era ancora vivo e vegeto: e viene da chiedersi se, dopo la formulazione del foutissimo principio, l’avanzata del malatismo umano abbia tenuto un normale passo entropico – qualunque esso sia – o ne abbia approfiato per assecondare senza remore né dignità l’istinto di morte. Ma a dispeo del suo fantasticare Zed rimane un uomo pratico, forse anche un po’ tagliato con l’accea. Le

invenzioni distopiche a lui sembrano ridondanti. (E con loro il contenuto del Testone: tua la paccoiglia, questo ciarpame nobilitato teso immancabilmente – a gioco lungo, gira che ti rigira, di riffe o di raffe – ad ammiccare alla distruzione.) Sì, ridondanti. Il mondo in cui viviamo – ragiona Zed – non lo è sempre, distopico, e comunque? Distopica è la vita, perché ben che ci vada non avremo compiuto le aspeative della nostra infanzia, o quelle dei nostri genitori, o dei nostri figli, o le nostre verso di loro, eccetera; perché ci ha già colpiti la tragedia, o a un certo punto ci colpirà. E anche se sapremo far fronte a tuo questo, infine subiremo il declino e l’estinzione di noi stessi, quindi di tuo il mondo. (Del mondo individuale: altri non ce ne sono per l’individuo-uomo più che per un tacchino o una robinia.) E non è che il sapiens sapiens sia restato inoperoso di fronte ai propri limiti: ancora ineo a conseguire l’immortalità, si è sbauto per protrarre la vita in una senescenza abnorme e seminata di ansie, paure, petulanza, egotismo e sensi di colpa, di colpa, di colpa – per lo più falsi e vili. esta almeno è la sorte degli Eterni, i liberi dal bisogno asserragliati nella loro ridoa ecocompatibile a sfamarsi con frua di stagione e sfornati a chilometro zero, oltre a fare ginnastica, isterilire bestiole da compagnia e produrre oceani di rifiuti da differenziare, gerarchizzare, dislocare, smaltire. Sempre meglio dei Bruti, comunque: quelli che dalla ridoa sono esclusi. Da qualche tempo a loro il nume entropico accorda – no: impone, scaglia addosso – gli strumenti per crescere e moltiplicarsi all’infinito, vieppiù degradati, mourants de faim, mourants de froid e nel contempo risucchiati in un gorgo di rifiuti indifferenziabili, indislocabili, insmaltibili. E a supplemento gli concede il dirio morale di sopprimere gli Eterni. I quali, al ritrovarsi sub cultro, plaudiranno di essere sgozzati – e mangiati, si spera.

Lui, Zed, non è né un Bruto né un Eterno: come il Testone, è ciò che il futuro doveva essere. Dopo tanto tempo in cui veniva al fiume solo per pescare, farsi una corsa di salute, remare alla gondoliera, appartarsi sulle rive con Consuella, è la prima volta che si è fermato vicino all’idroscalo a pensare a queste cose. Le cose che ha pensato non gli piacciono, così in poche baute si fabbrica un ordigno mentale per far saltare in aria il mausoleo mentale della distopia. Non fosse che, nel mentre delle rimuginazioni, ha rilevato altre urgenze, più personali: se ogni vita è distopica, anche la sua lo è, e l’unico modo per evitare che vada a male sarebbe porvi fine. Forse però per questo è troppo tardi. Forse avrebbe dovuto farlo prima di perdere… perdere cosa? Benché di poco peso, la domanda è stimolante, perché potrebbe avere un sacco di risposte: i capelli, magari, o un soldatino soo la sabbia in Riviera, o il ricordo di una ragazza della contea di Wicklow, tuo quel verde eccetera. Ma d’altro canto, anche se lo avesse fao avrebbe dato forma a una distopia. Anche se lo facesse ora. Bene, si dice Zed, probabilmente non c’è via d’uscita. È tuo trito, variazioni sul tema. Tengo. Mollo. Tengo. Mollo. Mentre riflee su questo punto, fuma una sigarea e si guarda intorno. Sembra che il fiume con il passare degli anni scorra sempre più lento. Per i divieti di dragaggio, dicono. In mezzo all’erba la carcassa di qualcosa è stata spolpata dai corvi, dai gabbiani, da un altro animale. Si sente già il profumo del sambuco, da qualche anno tue le stagioni finiscono in anticipo.

Il problema di rendersi complicati da mangiare

da You’re Human, Like the Rest of em di BS Johnson bianco e nero, 1967 Fat Man on a Beach di Michael Bakewell a colori, 1973 Sono gli anni Sessanta (è il 1967). Sono gli anni Seanta (è il 1973). La scena è in bianco e nero. La scena è a colori. È un cortometraggio realizzato per il cinema. È un cortometraggio realizzato per la televisione. È tuo girato in interni. È tuo girato in esterni. C’è un trentenne alto e magro, dallo sguardo sarcasticamente disperato, in tre successivi ambienti scolastici. C’è un quarantenne alto e sovrappeso, dallo sguardo sarcasticamente allegro, su una spiaggia solitaria del Galles. ello magro è in una classe di uomini meno giovani di lui: un quarantenne che potrebbe essere un veterano della

Seconda guerra mondiale, alcuni anziani che potrebbero essere veterani della Grande guerra, alcuni vecchi che potrebbero essere veterani delle guerre coloniali. Tui con un’aria operaia, di reduci di fabbriche o miniere o cantieri, gente che ha sempre combauto in pace e in guerra e a cui non la racconti, e tui con problemi alla schiena. Stanno seguendo una lezione sulla spina dorsale e i suoi disturbi, impartita da quella che sembra un’infermiera militare in quella che sembra l’aula didaica di un ospedale o di un ospizio. Cambia la scena e il magro ha un mordace scambio di opinioni con alcuni colleghi nell’aula insegnanti di una scuola. Capiamo a questo punto che è un insegnante anche lui. Cambia la scena ed è lui stesso a tenere lezione a una classe di preadolescenti maschi. ello grasso esegue alcune evoluzioni clownesche sulla spiaggia, quali: scavare una profonda buca nella sabbia camminando avanti e indietro in un time-lapse alla Ridolini; giocare con i petardi e i fuochi artificiali; giocare con un casco di banane. Ma per lo più si limita a rivolgersi al pubblico. Parla del luogo dove si trova, la penisola gallese di Llŷn, raccontando aneddoti e leggendo poesie – soprauo poesie sue, scrie durante un soggiorno giovanile nella stessa penisola. ello magro è un aore che interpreta un personaggio presentato come immaginario. ello grasso è uno scriore che si presenta come se stesso e racconta episodi presentati come reali. (È anche il regista del film in cui compare quello magro.) Il film termina con l’insegnante che spiega agli alunni di essere malato di una malaia fatale. Condannato a una morte

paradigmatica delle condanne del corpo umano: una morte di lento sfaldarsi, di liquefazione interna. Ma che da fuori sembra arida e inerte: un prosciugarsi, un desertificarsi. Sappiamo in ogni caso che la sua è una morte scenica, fiizia, faizia. Il film termina con lo scriore che entra in mare e cammina verso il largo. Poco tempo dopo si sarebbe suicidato davvero, nella sua vasca da bagno. Autocondannato a una morte paradigmatica delle condanne della mente umana: di lenta consunzione, di disseccamento interno. Ma che da fuori sembra amniotica e vitale: tua sangue e sperma, avrebbe deo il suo modello Becke. Sappiamo in ogni caso che la sua è una morte scenica, vera. Il trentenne che deve morire è aggressivo, ma in modo spiritato e oracolare, come se la coscienza della condanna preludesse a una trasfigurazione. Il quarantenne che vuole morire è aggressivo, ma in modo scanzonato e faceto, come se la coscienza della condanna fosse un segreto birbone. ello magro racconta una storia ai suoi alunni, cioè a noi. Parla di certe iguane nella gabbia di vetro di uno zoo, che venivano nutrite con grosse locuste. La narrazione è aseica, sembra una lezione di scienze naturali, fino a quando il narratore non descrive la tecnica di difesa delle locuste: allora, come (appunto) trasfigurandosi in un eroe da teatro – diciamo Amleto, di cui richiama la fisionomia vulgata e la manipolazione ipocondriaca – inizia a parlare in versi. Proprio così, con le pause a ogni “a capo”: e locusts couldn’t get away, of course, they had no defence against being killed, the only thing a locust could do was to make itself an awkward thing to eat by sticking out their arms, and legs and wings.

To make itself an awkward thing to eat. To make itself an awkward thing to eat.

Cioè, più o meno: Per le locuste, è ovvio, non c’era fuga, né una difesa dall’essere uccise, solo una cosa potevano fare: rendersi complicate da mangiare sporgendo in fuori braccia, gambe e ali. Rendersi complicate da mangiare. Rendersi complicate da mangiare.

Ma anche il suo pasto ha un suono secco, disidratato: sentiamo solo scrocchiare tegmini, frangersi membrane, frantumarsi esoscheletri, in tono con il nome di famiglia delle locuste, che è acrididi. ello grasso racconta una storia al pubblico, cioè a noi. Parla del seguito di un incidente stradale tra due automobili e una motociclea a cui aveva assistito durante il suo primo soggiorno a Llŷn. Precisando di avere assistito al seguito, non all’incidente. Il guidatore della moto era finito contro una recinzione metallica che aveva araversato il suo corpo come un filo tagliaformaggi araversa il formaggio. La narrazione è quotidiana, sembra un ricordo emerso tra discorsi da pub, fino a quando il narratore non evoca l’immagine del tagliaformaggi. Allora, come trasfigurandosi in un antieroe da teatro – sarà il monao acculturato di una morgue di provincia – inizia a parlare in versi. O così sembra a noi se trascriviamo il discorso, perché le pause della recitazione non corrispondono agli “a capo”: …having been thrown against this wire fence; and it’s stayed with me that image, that metaphor, wires going through a man like a cheese cuer through cheese, for a long while now. It’s a metaphor for the way the human condition seems to treat humankind. e body as a “so machine” as William Burroughs said.

Cioè, più o meno:

…scagliato contro la rete metallica; e questa immagine è rimasta in me, questa metafora di fili che tagliano un uomo come un tagliaformaggio il formaggio, nel tempo. È una metafora del modo in cui la condizione umana traa l’umanità. Il corpo come una “macchina morbida”, come dice William Borroughs.

Insomma, mentre il magro stacca le frasi secondo la misura della metrica (o la segmentazione degli artropodi) il grasso recita secondo la misura dei contenuti (o la fluidità della marcescenza). A proposito. Nello stesso periodo in cui si girava il film con protagonista l’uomo grasso, So Machine era anche il nome di una band sperimentale inglese e viene quasi spontaneo accostare allo scriore BS Johnson il baerista del gruppo Robert Wya, un pop-intelleuale imprevedibile. Il 1° giugno di quello stesso 1973, durante una festa di compleanno, Wya – in preda come minimo all’alcool – cadeva da una finestra del quarto piano. Da bel ragazzo biondo qual era è rimasto un disabile quanto mai vivo e creativo. Va comunque precisato che in quell’anno lo stesso Wya aveva già lasciato i So Machine per fondare un’altra band chiamata Matching Mole. Il loro secondo e ultimo album, Lile Red Record (“Il discheo rosso”, con un ammiccamento pretestuoso alla rivoluzione maoista ribadito nella grafica di copertina), uscì pochi mesi prima dell’incidente, e vanta almeno un brano il cui testo – dialogo precoitale in un ambiguo buen retiro tra un giovane scafato e una quarantenne inibita – sarebbe potuto piacere a BS. O forse lo conobbe e gli piacque davvero. (Si traa di Nan True’s Hole, con l’arice Julie Christie alla seconda voce soo lo pseudonimo di Ruby Crystal.) Tra l’uno e l’altro film, e tra varie altre cose, Johnson aveva scrio un libro intitolato House Mother Normal. È un romanzo a più voci ambientato in una casa di riposo per anziani, tui

più o meno malati di qualcosa, spesso di quasi tuo. L’ambiente è molto simile a quello in cui troviamo l’insegnante trentenne magro all’inizio del cortometraggio, e anche qui a dirigere le aività c’è una donna, appunto la house mother, dal fare piuosto sgradevole. Viene descria una serata all’ospizio, presentata dal punto di vista di diversi anziani in un climax di patologie organiche e demenza senile, documentate dalle rispeive cartelle cliniche. Si incomincia con Sarah Lamson (seantaquaro anni, svariati acciacchi ma nessun segno di decadenza cognitiva) che canta a menadito le due strofe dell’inno dell’istituzione, dall’aacco: Le gioie della vita vanno avanti per la vecchiaia tua e gli anni tanti…

al finale: La cosa più importante che c’è al mondo è restar vivi ed arrivare in fondo!

Per finire con Rosea Stanton (novantaquaro anni, demente completa) che sa emeere solo grugniti e farfuglii. Nell’unico spiraglio di comunicazione con il mondo l’anziana signora si dichiara prigioniera di se stessa. La sua situazione non appare molto diversa da quella presentata in un film americano di quel periodo, E Johnny prese il fucile (Johnny Got His Gun, 1971), scrio e direo dal grande Dalton Trumbo. Là Joe Bonham, un soldato della Grande guerra ridoo a uno stato di infermità e incomunicabilità da una bomba tedesca, anela a una morte pietosa che non gli sarà concessa; qui Rosea è condannata più o meno alla medesima sorte non dai traumi del conflio armato, ma dall’arito tra il corpo umano e le sue disfunzioni incanaglite dal tempo. È condannata anche la direrice dell’ospizio, la quale si suppone talmente normale che il suo stato dà il titolo al romanzo, ma di fao ospita un bruo male in stato di latenza. Anche di lei ci è fornita la cartella clinica, ma apocrifa; è lo scriore ad averla alterata con il deaglio della morte sicura. Nella finzione la direrice ha in mano tue le cartelle

cliniche tranne la versione completa della propria, quella che forse le salverebbe la vita. Mentre nella realtà lo scriore ha deciso di redigersi di persona quella della propria morte. Rimane la cartella clinica dell’insegnante che, per quanto fasulla o immaginaria, è nelle sue mani, nelle mani dell’insegnante. Può darsi che i suoi compagni alla lezione sui disturbi alla schiena gli abbiano spiegato che in trincea, soo i bombardamenti e la mitraglia, avevano la direiva di assumere all’occorrenza la posizione fetale, imitando gli animali che simulano lo stato di morte per essere complicati da ammazzare.

Omnes composui

da Edipo re di Pier Paolo Pasolini a colori, 1967 Verso la fine degli anni Sessanta Pasolini realizzò due film parzialmente ambientati a breve distanza dal paese dove vivevo allora, e con una scena o due girate nel paese stesso: Edipo re (1967) e Teorema (1968). Io ero bambino ed erano film da grandi, vietati ai minori credo – sono sicuro, anzi, che Teorema lo fosse – e così non andai a vederli. Chissà se avendo l’età ci sarei andato: mi sembra di non avere mai visto un film di Pasolini in sala perché in seguito furono tui per adulti, e quando compii dicioo anni lui stava per morire e in seguito sarebbe uscito Salò o le 120 giornate di Sodoma, che ai tempi non mi interessava vedere: ci ho provato di recente, piantando lì dopo venti minuti. Tuavia credo proprio che almeno Teorema non lo avrei mancato, se non altro per assaporare le immagini dei miei luoghi di allora (tra l’altro ricordo la mia meraviglia quando le cugine più grandi, con qualche censura, me lo raccontarono: perché essendo un bambino i luoghi del cinema per me non erano reali, erano magici). Alla fine ho visto il film qualche anno fa e mi è parso molto vecchio, datato. Mi sono anche chiesto se sia davvero un male. Che un’opera esprima lo spirito della sua epoca in modo così pieno e totale – che quindi bruci verde, facendo molto fumo e poca brace – può derivare da una passione intensa e, nei casi più felici, nobile. Mentre noi, confortevolmente, prediligiamo quello che a distanza ci resta

consonante, magari per meriti e valori dubbi, e lo diciamo capolavoro sulle basi di una durata, o flessibilità, che hanno spesso a che fare con la nostra pigrizia. Con tuo questo, se lo guardo con distacco, a me Teorema sembra un film mal riuscito nel senso più comune del termine, con momenti che sfiorano l’autoparodia. Su un piano personale, invece, la prima volta che l’ho visto (online) ho provato un’emozione forte, quasi un piccolo choc. C’è la breve inquadratura di una strada con un passante, girata appunto nel paese dei miei, di cui ho già scrio un’altra volta, e su cui ora torno solo per un deaglio: la fortuità che mi legava e continua a legarmi, e così intensamente, a quelle immagini, tanto diversa dalle nostalgie dei filmini di famiglia. Come se la siderale noncuranza degli astri mi avesse fiondato davanti, o addosso, un brandello della mia vita rimasto in giro più di quarant’anni, senza senso o ragione; e in ogni caso non al fine di darmi quel senso percussivo di recupero. Oltre che di perdita, come una madeleine irreparabilmente rafferma (pòssa, nel dialeo in questione) e, più che evocativa, allucinatoria. Ma sì, sempre de lo perdido y lo recuperado che in altri evocò il tango. esto ho trovato in Teorema, e poco altro. Alcuni frammenti di modernariato famigliare: Silvana Mangano con i capelli cotonati (mia madre soo il casco dalla parrucchiera), la magnolia in cortile (la villea dove avremmo traslocato di lì a poco). Il paesaggio lunare del finale sull’Etna, particolarmente consono al cinema del periodo – e ripreso da Pasolini già l’anno dopo in Porcile – forse perché si stava andando sulla Luna. In una landa sterile, del Marocco stavolta, si svolge quasi tuo Edipo re, che invece non mi dispiace affao, si avvale di interpreti suggestivi e fantasiosi costumi straccioni. Spiccano tra i primi Carmelo Bene – particolarmente misurato – e Julian Beck, il maestro del Living eater. Tra i secondi, i copricapi a missile già intravisti nell’Armata Brancaleone, ma qui meno stilizzati, più etnici e pauperistici come da paradigma. Con una Sfinge che suggerisce i mascheroni

africani del cubismo – o quelli della sexploitation postcoloniale che, sempre all’epoca, stava venendo di moda. Tarzana, Samoa, Gungala. Nelle due opere il rapporto di presenza tra il deserto e la campagna pavese-lodigiana è contrario: in Edipo re domina il primo, in Teorema la seconda. Nel primo, il verde dei miei luoghi racchiude la storia come tra reggilibri spaziotemporali; nell’altro, il marrone scuro vulcanico la sigilla sull’urlo di Massimo Giroi nudo e trascorrente, non Edipo ma Penteo che si propone (forse invano) allo smembramento. Seembre 1967. Mentre Edipo re è presentato alla Mostra di Venezia, per me sta finendo l’estate tra la quarta e la quinta elementare. Ho ricordi meravigliosi di quell’anno, in cui ho incominciato a giocare a calcio. Giocavamo in strada e al campo sportivo, che era un prato dalle misure regolamentari con due porte, dove la domenica la squadra locale disputava un campionato di dileanti. L’accesso era libero e non c’erano barriere né tribune, solo gli spogliatoi riservati alle partite ufficiali. Ogni tanto gli addei al campo, cioè i giocatori stessi, dimenticavano di togliere le reti dalle porte, e noi provavamo la gioia pura di vederle gonfiarsi per un tiro riuscito. Ritrovare nei film di Pasolini le mie parti di allora mi ricorda soprauo che da bambino non potevo immaginarlo, ma proprio mentre maturava la mia infanzia quel mondo cominciava ad avere gli anni contati, anzi i mesi. Era il momento in cui l’ultima generazione di uomini per cui in Bassa Lombardia fare il contadino era stata una sorte quasi automatica – la generazione dei Cavalieri di Viorio Veneto – cominciava ad andare in pensione. Il crepuscolo di quel mondo rurale è un fao che a chi geo- e anagraficamente ne è stato testimone è rimasto per sempre nel circolo del sangue. Un crepuscolo repentino, come ai Tropici o anche da noi nel novembre che adesso sta iniziando; e un mondo che, dalla lanugine dell’infanzia, dalla fibrosità dell’adolescenza, riemerge patofobico e non così comunitario, non così solidale. Frugale per necessità e scampoli di etica,

ma tribolato da gastropatie maschili per tabagismo e superlavoro, femminili per frastornatezza. Scarso di vitalità, con benessere incipiente ma depressione già diffusa. E non commuove né rallegra il ricordo delle sbornie colleive la domenica pomeriggio, delle bocche sdentate, dei reumi, delle artrosi deformanti – i quaro cavalieri dell’Apocalisse sputati dal lavoro agricolo e dalla nebbia. Né delle superstizioni, delle tragedie belliche rimosse, di peccati domestici a cui non si dava mai nome. Dell’avvelenamento di acque e terre, dello sterminio chimico ad alta intensità di pesci, anfibi, libellule. Ma di contrasto, in noi tui permane il senso che quel mondo avesse una coerenza di forme che suggeriva, per lo meno, una coerenza morale. Coerenza estetica e architeonica: affreschi di cascinali non ancora deserti; poliici di carri a stanghe alzate, cavalli da tiro, enormi mietitrebbia in campi enormi (non solo perché si era bambini, ma per la rarità delle altre macchine agricole, di automobili camion traori); bozzei di cacciatori in velluto sulle bici, con il cane troerellante al fianco. egli ultimi Sessanta non trascolorarono nei Seanta, ma ci caddero a precipizio e senza remissione. Ogni volta mi lascia interdeo il ricordo di come in cinque o sei anni quasi tuo – idee, comportamenti, linguaggi verbali e del corpo – si sia fao più complesso, più stratificato; e di come, riandando alle apparenze, fosse già chiaro il senso di catastrofe che quei reduci di mezzo secolo prima avevano portato con sé da Fossalta, da Caporeo, dal Grappa. Ciò che avevano dentro si lasciava intuire dai loro abiti informi, dai tabarri, dalle giacche con il carniere. L’Et in Inferno ego della loro giovinezza bombardata, mitragliata, gassata, trafia, nel tascapane incartapecorito appeso a un piolo della rimessa dei carri, nella freschezza sorprendente di pelle e muscoli degli avambracci quasi sempre coperti. La scena principale di Edipo re è l’uccisione del padre. Sulla strada di Tebe il protagonista incontra Laio in viaggio su un carreo tirato da due muli, con un auriga ben poco regale e la

scorta di quaro soldati. Dopo il diverbio su chi passa per primo e il ferimento di uno dei soldati, Edipo fugge nel deserto pietroso inseguito dagli altri tre che – come nella leggenda degli Orazi e dei Curiazi – corrono a velocità diverse raggiungendo il fuggitivo uno alla volta, e sfiniti, per essere trucidati da un fuggitivo anche lui sempre più stanco, ma corridore di migliore lena. Sistemata la scorta, Edipo torna al carreo e completa l’eccidio ammazzando l’auriga e Laio. La corsa di Edipo è accompagnata dalle sue urla di ossesso, esaltato dalla dismisura che, di nuovo come Penteo, lo porterà alla rovina finale. Ma qui a spiccare è la desolazione, la miseria di una baaglia tra poveracci in un paesaggio arido: i militari male armati, male addestrati e impauriti come ragazzi del ’99, Edipo il bullo di borgata che diventa assassino come quelli che in seguito avrebbero ucciso l’autore del film. Non ho dubbi che anche chi è cresciuto in paesaggi diversi possa sentirsi scosso dall’urbanizzazione bruta, dalle speculazioni criminali. Però l’occhio che guarda continua a vedere i monti, il mare resta mare. Negli abitati la Bassa si è trasformata non diversamente da altri luoghi: ma fuori è diventata un subdeserto verde. I campi che a certe ore si affollavano, e ai raccolti richiamavano quasi tui gli abitanti dei paesi, sono oggi poco più animati dei sabbioni lavici dell’Etna, salvo in pochi giorni all’anno – e anche in quelli non molto. esto senso di disarmonia sterile, non mossa, ma generata dal passo dei tempi in maniera sgraziata non meno che robotica (l’assurdo di una waste land in realtà parossisticamente coltivata), unito allo spopolamento autoctono e alla scomparsa del dialeo, impone un peso di sfiducia identitaria lenito solo in parte dal benessere e dall’anonimato della vita suburbana. Dormitorio-oratorioambulatorio. In una scena all’inizio di Edipo re il punto di vista è quasi sempre quello del bebè che giace sulla coperta tra l’erba o tra le braccia di sua madre; e quello di sua madre che lo allaa e

rimira. (Rimira, il verbo – sparito prima dall’italiano che dal dialeo – del Gingin che rimira la Violea prima di andare in guerra: soldato-contadino, Gingin, come quei neopensionati spersi da cinquant’anni in terra di nessuno; e non ufficialeproprietario come il padre del bambino nel film.) In questo esterno noto due cose: la campagna d’estate è indubbiamente la stessa mia di allora, ma non ci sono insei né altri animali, né terrestri né volanti. Il bebè disteso, abbandonato dalle giovani donne che giocano, mi fa rabbrividire al chiarissimo ricordo di formiche, zanzare, tafani, i galavrón di Porta – da noi gravalòn o martiné – e altre più viscide creature. Ma la sfilata di alberi e di cielo che rapisce i suoi occhi nel trip lisergico del tempo neonatale è molto emozionante. La seconda cosa, di nuovo nello sguardo del bambino, è il gruppo di donne con i vestiti chiari contro il verde dell’erba e delle foglie. E qui non è soltanto la figura di mia madre – peraltro in scamiciati e sandali di quarant’anni dopo – a cui tornavo dai campi coltivati o dal campo sportivo, tuo sudato (südà culént) come succede sempre. È un’immagine nuova, composita e incoerente, di anni e paesaggi, amalgamata in modo strano da quella mia colloola grondante, da quelle ciocche madide replicate decenni più tardi nei miei figli. E arricchita dalla solita vertigine (Nabokov!) di una culla che dondola sull’abisso: ma su un abisso solido e compao, a rasoterra.

Un album fotografico

da La Jetée di Chris Marker bianco e nero, 1962 Per semplice calcolo delle probabilità, tui dovremmo avere un doppio; o vorremmo averlo, non avendo di meglio di fare. Un mio amico parzialmente immaginario, forse doppio lui stesso di me stesso, sostiene che il suo doppio sia un ex compagno delle scuole medie. Di scuola, non di classe. Ricorda che condividevano le ore di ginnastica, ma non sa neanche se l’altro frequentasse il suo anno o fosse di un anno più giovane. È quasi sicuro che non abbiano mai scambiato nemmeno una parola. Anche fisicamente si somigliano poco, forse qualcosa nella corporatura, ma no, più che se stesso gli ricorda un suo compagno di università. Però le differenze non contano, perché il mio amico ha scelto quest’uomo come doppio, e non lo ha scelto a caso. Dice che è l’unica persona sconosciuta di fao, ma di fao presente nella sua vita da oltre quarant’anni, e incontrata regolarmente negli ultimi trenta, in media cinque o sei volte l’anno. Troppe per perderlo di vista, per non riconoscerlo più, ma troppo rare per non notare i solchi sul suo volto, i lenti progressi della stempiatura, le fasi di stanchezza a volte affranta alternate a riprese dei colori, a momenti di serenità e oimismo aribuibili a situazioni favorevoli o episodi confortanti: una cena con gli amici, una vioria della squadra per cui fa il tifo, forse anche successi personali.

Non lo ha mai visto male in arnese, ma niente nel suo vestire o nel suo portamento fa pensare a una vita trionfante. Probabilmente prende tui i giorni il treno per Milano e, a parte questo, sembra un po’ dimesso, un po’ costernato: non drammaticamente, ma abbastanza da suggerire che conduca un’esistenza grigia. Forse celibe, forse senza amanti. L’impressione è che le cose gli siano andate più o meno come poteva aspearsi, o anche un po’ peggio. Ma non è la possibilità che queste congeure rispondano alla condizione reale del mio amico a fargli eleggere a doppio proprio lui. Vi cospirano invece la continuità dei loro incontri, la sua identità ignota – meglio che il doppio sia uno specchio scuro – che lo avvicina al mondo degli speri: segnale di altre presenze sperali non ancora riconosciute. Maschera, soprauo, di lui stesso in cammino come tui verso una forma sperale, ma forse, e decisivamente, una multiforma al di là del tempo. Tu specchio scuro, pallido compagno: chi meglio di noi stessi può esserlo per noi stessi? Un uomo ancora giovane sfoglia un album di fotografie. È un libro voluminoso, testimone di una parte ampia e importante della sua vita. In più momenti. All’inizio osserva alcune foto di quando era bambino e i suoi genitori lo portavano al molo dell’aeroporto di Parigi. Sono bellissimi ricordi, ma le immagini gli mostrano anche un delio: un tale viene ucciso sul molo davanti ai suoi occhi. Corre per salvarsi, ma qualcuno gli spara alle spalle e non ha scampo. Nella sequenza di fotografie non si vede il suo volto, ma fao sta che l’uomo che sfoglia l’album non ha memoria di quell’episodio. È incredibile, pensa, come l’ho cancellato; e chi era quella persona, quell’individuo vago, ma certamente di sesso maschile, la cui morte si è impressa in modo così violento, così profondo nella mia mente, da dover scomparire? Poi l’album contiene un formidabile salto temporale. Ed ecco, la grande cià è stata distrua. Dopo la Terza guerra mondiale l’umanità non popola più la superficie della Terra e i sopravvissuti si sono rifugiati nel soosuolo, nel ventre di

Parigi. Ma non hanno più niente, servono medicinali energia macchinari. Per fortuna sono rimasti alcuni scienziati – esseri tui intelleo, senza cuore, indifferenti al dolore dell’individuo – che prima della catastrofe sono riusciti a costruire una macchina per viaggiare nel tempo. E quest’uomo nelle fotografie vede se stesso, scelto dagli scienziati per recarsi nel futuro e chiedere aiuto agli uomini di domani, o alle creature che gli uomini saranno diventati, o che li avranno sostituiti sulla Terra. Prima, però, dovrà collaudare la macchina viaggiando nel passato – perché certo, viaggiare nel passato è più facile. Il presente ci aiuta ad affrontarlo, a rimeerci mano, a farne quasi quello che vogliamo. Dunque niente di strano che nel passato lo sfogliante abbia incontrato la donna della sua vita e che la coppia si muovesse in una Parigi non ancora rasa al suolo, con la padronanza tipica, quasi esclusiva, delle coppie di innamorati. I grandi viali, le mostre, i concerti, sono gli scenari della loro spigliatezza. Solo le foto del museo di storia naturale, con le sue inquietanti creature imbalsamate – avvoltoi calvi, marabù africani – insieme a una minuta ombra d’ansia negli sguardi dei due amanti, pongono il dubbio che tanta felicità vada a scadere. E infai è così: le pagine successive dell’album mostrano sfondi magmatici e indistinti su cui aleggiano delle sagome, creature dal vago aspeo umano. Sono i nostri discendenti, presso cui in seguito lo sfogliante è stato inviato per chiedere soccorso. indi il fao che ora sia qui, a questo tavolo, con un album aperto soo gli occhi, dovrebbe dimostrare che il soccorso non è stato negato; che gli uomini del futuro, esangui e onniscienti, hanno fornito i mezzi per salvare il presente dalla desolazione; o, ancora meglio, per contraffare il passato in modo che Parigi resti intaa, che non scoppi nessun conflio. E se fosse così, perché non credere che la donna incontrata allora sia ancora vicino a lui? Forse è al lavoro in un arrondissement del centro, o in cucina, o sta dormendo

beata mentre il suo compagno spulcia il libro dei suoi ricordi, dei loro ricordi drammatici e pieni di vita. Però un’altra domanda è rimasta nell’aria. Come mai gli scienziati, tra tanti superstiti ricchi di forze e di volontà, avevano scelto proprio lui, un uomo di caraere, ma introverso e possibilista? La risposta è semplice: perché era ossessionato da un’immagine del passato. E lo era perché l’uomo che ha visto uccidere sul molo dell’aeroporto con i suoi occhi di bambino, e che può continuare a rivedere adesso, grazie alla libertà di chi ha raddoppiato, moltiplicato la propria vita ripartendola in una moltitudine di immagini fisse – il segreto dell’album stava in questo – non è altri che lui stesso. Riconoscerlo ha l’effeo istantaneo di trasformare l’album in pellicola, le foto in fotogrammi che scorrono da soli, uno dopo l’altro, a una velocità presto intollerabile, e non tornano indietro. Fino a quando lo sfogliante, che ormai è incamerato dalle immagini di cui prima deava ordine e durata, non si ritrova sul molo, ed è un adulto, forse già vecchio, e ha proprio quel vestito. E in un aimo è ucciso dagli spari.

Dietro il cadavere nella neve

da Profondo rosso di Dario Argento a colori, 1975 L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento a colori, 1970 Blow-up di Michelangelo Antonioni a colori, 1966 Nel quadro c’è un paesaggio bruegeliano. La visione dall’alto, quasi aerea, riprende i Cacciatori nella neve, ma la scena è ristrea, come uno zoom puntato sul fao di sangue al centro – dove una figura che sembra maschile, vestita di scuro e con il volto nascosto dalla tesa del cappello, sta infierendo a coltellate su una donna vestita di chiaro, ancora viva ma stesa nel suo sangue con le braccia alzate in un gesto di riparo, la bocca spalancata e le ginocchia tirate su come se partorisse. Un fotografo osserva il quadro perché pensa che contenga la soluzione di un vero caso di omicidio. Il fotografo si chiama TH, e da anni non è neanche più un fotografo. Ha fao quel lavoro nella Londra psichedelica di fine Sessanta, ma la passione della sua vita è il jazz. Così, dopo aver guadagnato bene, ha deciso di diventare finalmente quello che è sempre stato. I più ingenui credono ancora che gli piacesse immaginarsi come il bel perdente con

la boiglia di scotch sul pianoforte in un locale di terz’ordine. Bello, lo è di sicuro, nello stampo maschile della swinging London: non tonico ma asciuo, lo sguardo un po’ ouso e torbido, il cascheo di capelli ondulati. Ma l’immagine era falsa, e lui lo sapeva: per questo non ha impiegato molto per riprendere il filo di un successo che sembra arridergli qualunque cosa faccia, da quando era bambino. alunque cosa, quindi anche la musica. D’altra parte è da lì che ha cominciato. Perché il fotografo, o meglio il pianista, è stato una delle voci bianche predilee da un famoso compositore e direore d’orchestra. Si trova ancora nei negozi un disco del Ballo in maschera in cui interpreta un po’ eccentricamente la parte di Oscar. All’epoca i suoi genitori si erano preoccupati perché era noto che al Maestro piacevano i ragazzini. Ma gli piacevano secondo il modo elfico, non faunesco: e il suo struggimento per il pubere TH non prese mai nessuna forma concreta. Scortato dalla fama di fotografo di moda e alla moda, gli è bastato applicare la sua nativa musicalità a uno stile convenzionale in un periodo – i primi anni Seanta – di esperimenti e stravaganze, per ritrovare in breve i buoni contrai e le code di ammiratrici. Il fumo e i vetri sudici dei pianobar li ha lasciati ai suoi ex compagni di studi. Come l’amico inseparabile di un tempo, l’italiano che dopo tanti anni TH ha appena rivisto al Coppedé – o a Torino, o a Friburgo –, o in una finta accademia modernista, nel caos del nuovo giro di concerti. L’amico inseparabile, oggi alcolizzato, cliente di transessuali e sempiterno paggio della madre, un’arice in pensione che non c’è più tanto con la testa. In questa specie di cuccagna che finora è stata la sua vita, TH ha avuto la caiva sorte di assistere a ben due omicidi. La prima volta senza saperlo. ando ancora faceva il fotografo ha scaato nel parco una foto che, ingrandita, mostrava la pistola di un assassino spuntare da una siepe. La seconda è di

pochi giorni fa. Alzando gli occhi dalla strada al piano superiore di un palazzo ha visto una donna percossa con una mannaia da macelleria da uno vestito come l’assassino del quadro e poi sgozzata dai vetri della finestra che ha travolto mentre crollava a terra. Sul secondo omicidio TH ha deciso che indagherà di persona. Forse è convinto di scoprire il colpevole meglio e più in frea della polizia; ma soprauo trovarsi testimone di due delii è più di una coincidenza, è una chiamata. Viene però da chiedersi se abbia le qualità per farlo. Vediamo. Come jazzista non dovrebbe mancargli l’istinto del movimento a scai, per petites secousses, senza la pretesa di sintetizzare il mondo (e quale mondo?), ma dipanando nota dopo nota la catena dei deagli. Come fotografo, il minimo che ci si aspea da lui è che sia un osservatore e abbia in dote una vista seleiva. Ma c’è un ostacolo: TH, che si esprima nel campo dell’immagine o in quello della musica, che ascolti un’eco o scruti uno scenario, resta sempre un artista. Studiando il quadro dell’omicidio nella neve si fissa sull’ao cruento come se l’operatore dello zoom fosse lui stesso. Ma se così non è, non dovrebbe piuosto dedicarsi agli elementi omessi dell’originale? Esaminare i personaggi di Bruegel che rincasano in lontananza, dove ardono i fuochi; concentrarsi sui borghi più remoti, sui laghi ghiacciati gremiti di gente che lavora, gioca, aacca lite. Alcune figure sembrano a terra: sono vive o morte? Non c’è da districare tuo un groviglio di ambiguità, o di autentiche complicità? E poi, il vetro. Sebbene il vetro gli si presenti di continuo nella sua capacità di pungere e tagliare, di recidere e trafiggere, a interessare molto di più TM sono i suoi scintillii (che evocano l’obieivo della macchina), i suoi tintinnii (che evocano i tasti del pianoforte). ando ripensa al secondo delio, gli viene in mente prima di tuo la vetrata di quel bar sulla piazza, e come somigliava al quadro di Edward Hopper; e si consuma troppo in quell’immagine per fare l’ovvia

considerazione che ogni ritrao è anche uno specchio e che le facce negli specchi possono essere facce vere, e non solo dipinte. E poi, l’intonaco. Cercando nella villa abbandonata dove il suo intuito gli ha deo che era iniziato tuo, non gli è sfuggito un minuscolo foro nella parete. Intuito e sguardo, le virtù del detective… senonché, dopo avere raschiato via l’intonaco – di nuovo, con una scheggia di vetro – a TH è bastato che emergesse sul muro un bambino dipinto con un coltello insanguinato in mano; e che a sinistra del bambino apparisse un uomo con il ventre squarciato; e subito si è messo a pensare che (forse) anche lui, da ragazzino avrebbe voluto uccidere suo padre, per abbandonarsi (forse) alle carezze del Maestro. E ora, davanti al quadro con il delio nella neve, valuta che lo stile è il medesimo del dipinto sul muro, si perde a ricordare che a destra del bambino c’era un albero di Natale. È un artista: ed essendo un artista dal medio talento – di quelli capaci di mostrare al pubblico le cose che il pubblico crede di scoprire araverso di loro, e per questo li ammira e li ringrazia, ma che in realtà ha già visto e conosce fin troppo bene – per lui in fondo trovare il colpevole conta meno dell’occasione di rimuginare su suo padre, sulla foto che non ha mai scaato, sul pezzo musicale che non ha ancora scrio e che potrebbe diventare uno standard. Ma si può aggiungere ancora una cosa che gli è riuscita bene, ed è il ricordo esao di una poesia studiata a memoria ai tempi del liceo in Inghilterra, o a Torino, o a Baden-Salsa. È di un poeta importante che per un po’, prima di un’aspra roura, era stato l’amico e il libreista del Maestro. Dietro il cadavere nella neve, la signora che recita a memoria, dietro l’uomo che beve, c’è sempre un’altra storia, c’è sempre più di quello che si vede. La voce bianca che stupisce l’orecchio,

il lampo nel sambuco della siepe, l’andito di ritrai nello specchio, serbano sempre un segreto caivo, un privato motivo.

La poesia dice tuo, e averla ricordata potrebbe essere determinante. Ma il fao è che una casa non nasconde mai un unico segreto: o meglio, il segreto nascosto in ogni casa è una falsa unità, ha sempre precedenti e successori, più di una testa, gente che va e che viene nella neve. Ma invece di fermarsi e continuare a raschiare con il vetro, TH si allontana anzitempo, prima che l’intonaco crolli spontaneamente mostrando il resto della scena e, ancora una volta, il vero assassino: come un sipario che si alza, o piuosto si abbassa fino a terra, perché l’arice questa volta non sta recitando, non è solo una figura in uno specchio che riflee altre figure. Usa coltelli veri, e presto o tardi lo farà contro di lui.

Giochi e supplizi

da Astataïon ou Le festin des morts di Fernand Dansereau bianco e nero, 1965 e altri. Nel ranking internazionale del lacrosse la rappresentativa della Confederazione Irochese (Iroquois Nationals) occupa aualmente il terzo posto dopo le oime prove dell’ultimo campionato mondiale (a Netanya, Israele, nel 2018). Partecipare ai mondiali per questa nazionale non è ovvio, perché la Confederazione non è riconosciuta ovunque e i passaporti irochesi esibiti da giocatori e tecnici non sono sempre validi nei paesi ospitanti. Da qui una serie di aneddoti piuosto avventurosi. esto sport si gioca con una palla rotonda, tradizionalmente all’aperto, ed è un po’ un incrocio tra la pallamano e l’hockey su prato. Con il secondo ha in comune soprauo le protezioni (caschei, mentoniere) e la mazza, che però non sembra tanto una mazza quanto l’incrocio tra una racchea e un retino, in cui la palla è traenuta prima del passaggio a un compagno o del tiro verso la porta avversaria. Il lacrosse è diffuso nel Canada e nel Nordest degli Stati Uniti, dove i nativi lo praticano da secoli, ed è sicuro che a dargli il nome francese (quello indiano è baggataway) sia stato il missionario gesuita Jean de Brébeuf nel 1636. Nella sua relazione di quell’anno inviata al reverendo Paul Le Jeune, superiore della missione della Compagnia

nell’insediamento di ébec in Nuova Francia, Brébeuf racconta di avere assistito a una partita tra due squadre della nazione degli Uroni, e che il gioco comportava l’uso di crosses, cioè mazze a forma di pastorale. Se il lacrosse è ancora oggi uno sport di contao molto energico, a quei tempi gli incontri tra squadre di villaggi o tribù potevano essere disputati su campi lunghi chilometri da centinaia di giocatori come una forma di guerra non cruenta per decidere le controversie. Ma cruenta è la parola. ando quei popoli, la guerra, la facevano davvero, non sdegnavano nessuna efferatezza. Tra scrupolo antropologico e senso di colpa postcoloniale (volti paterni del suprematismo bianco), oggi si spiega che i conflii armati tra nativi nordamericani e amerindi in genere avevano un forte elemento rituale. Si protraevano per generazioni come una catena di vendee con lo scopo essenziale della caura di prigionieri da adoare, rendere schiavi o uccidere, in sacrificio o per il gusto di farlo. Distruggere un popolo nemico avrebbe significato rompere la catena e porre fine al rito. La guerra di annientamento, quindi, sarebbe entrata nella mente degli indiani solo a seguito dell’incontro con gli europei, con le loro armi da fuoco e con la competizione tra tribù creata dalla loro aggressività mercantile. Eliminando un popolo concorrente si oeneva il monopolio sul commercio con i bianchi di pelli, pellicce e archibugi. Resta il fao che nessuna delle tre sorti possibili – adozione, schiavitù o morte – escludeva dall’essere sooposti a torture spaventose, e che i guerrieri sconfii scampati al tomahawk venivano normalmente messi al rogo. E resta il fao degli Irochesi. L’espansionismo delle Cinque Nazioni (Cayuga, Mohawk, Oneida, Onondaga e Seneca) degli Irochesi, o haudenosaunee, “il popolo della casa lunga”, nel XVII secolo; e la loro annichilazione/assimilazione degli altri indiani dei territori dei Grandi laghi – gli Uroni innanzituo – non sembrano piovere dal nembo irato degli europei insieme alla polvere da sparo e alle malaie infeive, ma trarne slancio e stimolo a

un parossismo guerriero. All’espressione colleiva e molto efficiente di una fenomenale indifferenza, o di un piacere fenomenale, per la crudeltà verso il corpo del nemico. Un piacere condiviso anche dalle loro viime. Approvato. Esercitato di rimando. Osserva con sollievo un missionario: …la pluspart des Hiroquois qu’ils [gli Uroni] ont pris à diuerses fois, ayant esté bruslez à l’ordinaire, ont troué le chemin du Ciel au milieu des flammes, et leur salut à l’heure de la mort.

Ma più che giudicare, interessa notare che quella regione del mondo in quel tempo potrebbe somigliare all’inferno, ma per chi cerca la corona del martirio è piuosto un antiparadiso e un ideale ante-paradiso. Jean de Brébeuf arriva tra gli Uroni con perfeo tempismo, a trentatré anni: ma per adempiere alla sua Imitatio Christi dovrà aspeare a lungo. Ci riuscirà nel 1649, soltanto nove giorni prima di compiere cinquantasei anni – e di raggiungere, sommando le cifre che compongono l’Annus Domini alla sua età e agli anni trascorsi dall’inizio della sua missione, il numero tre volte cristologico di 33+33+33 (questi deagli potevano essere importanti, Dio non sta in loro?) – per mano del popolo che oggi di fao rappresenta tue le nazioni indiane nel gioco al quale lui aveva dato il nome. Brébeuf patì il martirio insieme al giovane fratello laico Gabriel Lallemant. Furono gli ultimi in ordine cronologico dei martiri gesuiti canadesi, tui canonizzati soo diversi papi, dopo René Goupil (1642), Isaac Jogues (1646), Jean de Lalande (1646), Antoine Daniel (1648), Noël Chabanel (1648) e Charles Garnier (1649). Ma tra questi martiri Brébeuf è il principale ed è patrono del Canada. La sua ordalia è descria nella relazione di padre Paul Raguenau relativa agli anni 16481649. Le Relations de ce qui s’est passé de plus remarquable aux missions des Pères de la Compagnie de Jésus en la Nouvelle France inviate dai missionari ai loro superiori a Parigi coprono il quarantennio 1632-1673, in pratica dall’arrivo di Brébeuf all’abbandono delle missioni, e sono il principale

documento sugli inizi del Canada moderno insieme ai di poco precedenti Voyages de la Nouvelle France occidentale dicte Canada dell’esploratore, soldato e fondatore di ébec, Samuel de Champlain; così come la morte violenta dei frati è parte delle fondamenta della nazione. Che alle radici ci sia un figlio di Dio, o un figlio di nessuno come il Milite Ignoto, l’umanità ha sempre avuto bisogno di far sbocciare i suoi fiori dal sangue. Il sangue, il sangue. E i morti. Tra gli Uroni Astataion o athataion era la festa dei morti, ed è proprio Brébeuf che la descrive nella medesima relazione in cui parla del lacrosse. Spiega come la festa consista nella celebrazione di nuove esequie e, tenendosi ogni dieci o dodici anni, implichi il traamento di cadaveri in condizioni molto differenti. Les vnes ſont toutes decharnées, & n’ont qu’vn parchemin ſur les os; les autres ne ſont que comme recuites & boucannées, ſans monſtrer quaſi aucune apparence de pourriture; & les autres ſont encor toutes grouillantes de vers.

La serenità con cui gli indiani maneggiano gli esiti della morte corporale, la pietas nauseabonda dei loro contai con i cadaveri, suscitano nel padre gesuita un vero entusiasmo, tanto che Brébeuf invita i suoi domestici ad assistere alle cerimonie. C’è l’apprezzamento dell’eccellenza in pratiche che erano anche caoliche, erano anche francesi – l’esumazione, le onoranze rinnovate – ma nelle sue parole aleggia il senso oscuro di un riscao della carne oenibile, in vivo come in vili, per sorazione, per scalcamento: en fin au bout de quelque temps ils les décharnent, & en enleuent la peau & la chair qu’ils ieent dans le feu auec les robes & les naes dont ils ont eſté enſeuelis.

anti temi della storia del Cristianesimo sono apparsi nella leeratura odierna e nel cinema con la stessa frequenza e intensità del conseguimento (o elusione) del martirio – soprauo dopo la tappa che sarebbe inumana, se non fosse così diffusa tra gli uomini, della tortura? Solo sulle vicende dei missionari gesuiti conosco quaro film: Astataïon ou Le festin des morts (1965, di Fernand Danserau), Mission (e Mission, 1986, di Roland Joffé), Manto

nero (Black Robe, 1991, di Bruce Beresford) e Silence (Silence, 2016, di Martin Scorsese). Hanno tui finali diversi (il supplizio può concludersi con la morte, con la fuga o con l’apostasia; un frate che, come il fondatore Ignazio di Loyola, ha lasciato il mestiere delle armi le riprende a soccorso degli oppressi). Due sono stati realizzati in Canada e riguardano i santi canadesi: Manto nero, trao da un bel romanzo dell’irlandese-canadese Brian Moore che ha scrio anche la sceneggiatura, e Astataïon. ale che sia il migliore, Astataïon è il più affascinante. È vero che gli indiani non sembrano affao indiani (e infai non lo sono), ed è vero che le bocche aperte dei suppliziati mostrano ourazioni impeccabili; è vero anche che della Festa dei Morti in pratica non si vede nulla. Tuavia tra onirismi, stralunamenti, nouvelle vague e la brutalità ancora insolita per i tempi di alcune scene, il risultato è stortamente credibile e le immagini incisive. Nella parte di Brébeuf, Alain Cuny è statuario e grave come lo era il santo secondo ogni testimonianza. La fine del giovane frate che è l’altro protagonista, e in parte il suo alter ego, sembra ispirarsi invece a quella di père Anne de Nouet. Ucciso dagli stenti tra la neve, lui non sarà canonizzato. Al suo martirio manca una decisa volontà di morte, e – più ancora – manca il sangue. Cioè la sostanza, insieme alla forma. La forma è data dalle sevizie e dagli strumenti con cui vengono inflie. Per abbracciare l’atrocità della sorte a cui aspiravano, Brébeuf e gli altri non avevano bisogno di risalire alla Passione di Cristo o ai protomatiri. Né l’estremo sadismo era una prerogativa dei Sauvages. Nel XVII secolo e oltre, nell’Inghilterra protestante era in auge per i colpevoli dei crimini più gravi, tra cui la predicazione papista, l’esecuzione per hanging, drawing and quartering (dove drawing significa “sventramento”) e i gesuiti Edmund Campion e Robert Southwell giustiziati a Tyburn tra i peggiori tormenti erano due modelli molto vicini. Nelle immagini del suo martirio, Brébeuf subisce le torture legato a un palo come Cristo alla colonna della flagellazione:

un Cristo più vicino a quello prestante e coriaceo del Bramante che a quello virile ma sofferente di Antonello da Messina. Però, le sensazioni perturbanti, le avvertiamo spostandoci verso l’altro modello iconografico per eccellenza, cioè il supplizio di san Sebastiano. i Antonello ritrae un agnello sacrificale: un efebo trasognato, ma dalla virilità curiosamente plateale soo un perizoma che sembra un costume da bagno degli anni Sessanta. Mantegna invece passa dal santo di Vienna trafio da una nube di frecce, somigliante al Macbeth giapponese di Kurosawa (Kumonosujō, “Il castello della ragnatela”, in italiano Il trono di sangue, del 1957), a quello di Parigi, ancora più aitante ma molto umanamente straziato, e poi a quello di Venezia, dipinto in articulo mortis dell’artista: sfigurato, quasi mostruoso tra il dolore e l’estasi. Il martirio si tinge del suo inevitabile erotismo perverso. Cee image de la douleur, à la fois extatique (?) et intolérable. Nelle Lacrime di Eros Bataille racconta della malia, anzi dell’ossessione da lui contraa per la fotografia di un cinese sedato con l’oppio e sooposto al supplizio del lingchi, la “morte dai mille tagli”. Naturalmente anche quest’uomo appare legato a un palo; ed essendo una foto, l’immagine è davvero impressionante. Ma c’è anche almeno un martire caolico – di più, per la leggenda – che fu ucciso secondo quel rituale: il religioso (non gesuita) francese san Joseph Marchand, in Vietnam nel 1835. Nell’iconografia del suo martirio Marchand è legato al palo. Si conta anche una flagellazione. Lo circondano a volte i suoi carnefici, dei nanerooli sanguinari quadrisavoli dei vietcong del Cacciatore; e a volte, metonimicamente, gli strumenti di tortura seminati a terra. Gli occhi del santo, quasi sempre collocati in un cranio troppo grande, guardano verso il Cielo. Non conosco musiche ispirate al martirio di Brébeuf o degli altri gesuiti canadesi; ma ispirandosi a Bataille (la foto famigerata è sulla copertina dell’album) il grande visionario John Zorn nel 1992 ha pubblicato Leng Tch’e, una stentorea

danza macabra. Per i cultori delle combinazioni gratuite, un altro dei numerosissimi dischi di Zorn si intitola Lacrosse, ma solo perché le improvvisazioni che contiene sono presentate come un gioco, uno sport. Esiste anche un gruppo rock belga dal nome di Leng Tch’e. I membri definiscono la loro musica razorgrind, cioè una contaminazione tra il grindcore, il death metal, lo stoner rock e il metalcore. Sebbene avessi leo come si chiamavano agli inizi della carriera, ho cominciato ad ascoltare il loro disco Death by a ousand Cuts, ma presto mi è sembrato di vedere i nomi dei generi a cui si rifanno giacere seminati intorno a me come strumenti di tortura.

Piccola fauna

da L’ora del lupo (Vargtimmen) di Ingmar Bergman bianco e nero, 1968 La casa su un’isola del piore Johan Borg e di sua moglie Alma è nourna ed è circondata dai mostri. (È la voce di Alma a raccontarlo.) Sono mostri prodoi dai ricordi di Borg e dai suoi desideri, i mostri dei suoi sogni, e l’unico rimedio sarebbe non dormire mai. Per questo quando viene l’ora del lupo, il tempo tra la mezzanoe e l’alba più propizio alla morte e al partorire, lui accenderebbe un fiammifero dopo l’altro, per tener fuori il buio con la sua popolazione di maestri di scuola sadici, uomini-uccello e uomini-ragno, mangiatori di uomini. È possibile allontanare queste figure? Uscire dalla casa e camminare sull’isola non ha altro effeo che invitare i mostri a farsi avanti, a invitarlo a casa loro: sulla scogliera, dove lo spingeranno a ucciderli prendendo le sembianze di un bambino dallo sguardo malvagio e caricando Borg del peso di un delio; nel castello, dove vorranno torturarlo e divorare la sua anima. Ma come si può, allora, tenerli fuori? Restando dentro: respingendo le immagini, ascoltando i suoni della casa. I suoni bianchi e anodini della vita domestica che prendono sostanza e danno conforto nel silenzio degli abitanti. Accioolii, sfregamenti, fruscii. Sciacquii di vino versato. Un cucchiaio, un bicchiere, un orologio. La lancea dei secondi

corre nel piccolo quadrante del minuto e Borg, insistendo su un paradosso di suddivisione infinitesimale, dimostra che il tempo non trascorre, che non verrà la noe. Può dimostrarlo ad Alma, ma con il solo risultato di convincerla che il continuo dei suoni, la persistenza del tempo, la persistenza degli oggei di casa che producono suoni e misurano il tempo, aualizzano la fine del rapporto del marito con lei e con il mondo. La scomparsa di Borg in controluce. Controluce o contro-ombra. Sarà nella realtà devastatrice dell’ora del lupo, nello spegnersi dell’ultimo fiammifero – brevissima candela – o nella finzione luminosa del giorno seminato di sogni all’aria aperta, che il piore andrà a dileguarsi? Perché la realtà dice che uscire gli è comunque indispensabile: dentro la casa non c’è la sua piura, e dentro la casa c’è sua moglie. Così Borg esce, o ha il sogno, o l’incubo di uscire, tui i giorni. Il giorno fuori è sempre pieno di sole, di luce. E un giorno non incontra i mostri, né i loro scostanti emissari. Incontra Veronica, la sua bellissima ex amante. Più bella di Alma, senza dubbio, e intraprendente nel suo portamento quanto l’altra sembra ormai rinunciataria, programmaticamente sfiorita. Borg è ai piedi di un dosso e vede prima le caviglie e le gambe di lei che sta avvicinandosi in discesa. Veronica non è vestita di scuro come i mostri: i suoi capelli biondi sono bianchi nel sole e la pelle chiarissima non appare meno bianca del suo abito succinto ed eccitante come una sooveste, un prendisole. Borg è conscio che si traa quasi certamente di un sogno, ma non può fare a meno di ricordare come in Alma, al contrario, tuo sia grigio, medio, spento. E anche la voce di Alma via via che racconta sta diventando più grigia. È il colore con cui Borg l’ha dipinta via via che si estinguevano la sua piura e l’amore per lei. Ora Veronica è vicinissima a Borg e gli si accosta scoprendo un seno perfeo, con accanto un livido lasciato dal suo impeto di amante; si accosta fino a una schiea intimità erotica – gli dà le spalle e gli chiede di abbassarle la lampo del vestito. Lui non esita a farlo e porta le mani avanti, sui seni.

Ma all’improvviso, proprio come nei sogni, il dominio del bianco si conclude. Borg si ritrova avvolto nell’ombra o finalmente scomparso del tuo, ombra lui stesso. Forse si è solo svegliato nel buio. Oppure non voleva più continuare, e questo nero che alluderebbe alla sua morte biologica, o morale, o a entrambe, è soltanto una morte fotografica, un’immagine fissa che rende l’aimo eterno, ma eternamente trascorso. La negativa del quadrante dei secondi in movimento. Come quando sogniamo un incidente fatale. L’automobile scivola fuori strada e giù da una scarpata che diventa un baratro, librandosi nel vuoto per un istante in cui abbiamo tempo di pensare “sono morto” prima che l’ironia del buio aorno al risveglio ci faccia ancora per un istante – un’istantanea – pensare di esserlo veramente. E che dopo, e più a lungo, la costanza del buio ci sprofondi nella vita uterina senza tempo. I misfai di Borg, il suo tradimento della moglie con Veronica, l’uccisione brutale del bambino che lo fissava mentre stava pescando, la sepoltura in mare del piccolo cadavere, sono stati commessi soo il sole. Veronica e il bambino sono biondi, e chiari; e in piena luce come la colpa che dirama da loro. Grigia è Alma, e i mostri sono vestiti di nero come uno dei loro tirapiedi, che alla fine entra in casa di Borg. Ammeerlo all’interno è un ao consapevole e decisivo: ne consegue acceare il suo invito al castello e acceare la pistola che offre a Borg perché possa difendersi dalla piccola fauna dell’isola. La piccola fauna? Vuol dire che se altri bambini lo tormenteranno con i loro sguardi Borg potrà minacciarli, o ucciderli? Ma lui invece, come era prevedibile, decide di sparare tre colpi a bruciapelo contro sua moglie, liberandosi di lei, e di andare al castello dove finalmente insieme a Veronica potrà ritrovare la liberazione, la sua piura di colori chiari.

Però è Alma che resta, ed è lui che è scomparso. Alma accende la luce, e nella casa non c’è più il buio interroo dal raschiare dei fiammiferi. È stata Alma a uccidere Borg e a seppellirlo in mare perché Borg aveva ucciso il bambino, e il bambino era lo spero di loro figlio, lo spero di un infanticidio o di un aborto. Oppure il bambino era lo stesso Borg, e Alma ci ha raccontato che suo marito è morto suicida, che si è affogato in mare. In fin dei conti è sempre stata lei a raccontare, tu’al più a leggere il diario di Borg, incerto e manipolabile come tui i diari. In ogni caso, in qualche modo, un bambino in carne e ossa, figlio o non figlio loro che sia stato, ha condoo Borg a non desiderare più il corpo di sua moglie, a tradirla. Forse è stato il fantasma di un bambino, o il bambino era la parte di Borg che Borg odiava, il piccolo mostro che tui abbiamo dentro, inespugnabile.

Parallelepipedi reangoli

da Ascensore per il patibolo (Ascenseur pour l’échafaud) di Louis Malle bianco e nero, 1958 alche tempo fa ho leo un articolo di giornale che parlava della produzione delle angurie quadrate in Italia. È vero che qualunque fruo, essendo un solido, ha tre dimensioni, quindi in realtà quelle angurie si dovrebbero definire cubiche. Ma a parte questo, leggendo ho pensato: tui sappiamo che la geometria è un’invenzione umana che si è rivelata vantaggiosa, però un punto essenziale a cui non avevo mai fao caso è che sono invenzioni non soltanto i teoremi e i postulati, i corollari e le postille che compongono il sistema euclideo e tui gli altri. Lo sono anche la forme geometriche stesse. Sarà perché si traa di una nozione ovvia ed evidente? Non so. Nel mio caso, e anche in tanti altri, non ci giurerei. Credo che il primo e più semplice motivo sia che siamo abituati a vederle. In effei, osservando gli uomini che vivono in stati e contesti vicini a quelli primitivi e confrontando con le figure della geometria le loro realizzazioni – case, utensili, e anche sistemi mentali – le prime si evidenziano in tuo il loro artificio; il mero illusionismo di quelle piane e la corposa regolarità di quelle solide testimoniano più che altro la tensione degli uomini a ridefinire il mondo a proprio uso. Ma con gradi diversi di distacco e astrazione. Il cilindro o la sfera, per esempio, sono suggeriti da oggei che l’uomo può conoscere con facilità (il sole e la luna; i tronchi d’albero

e le conchiglie), ma il parallelepipedo, cioè proprio la figura che si è dimostrata ideale per contenere e proteggere gli uomini e le loro cose, dal mondo naturale è quasi assente. Gran parte delle nostre abitazioni e dei recipienti di qualsiasi utilità e volume, senza i quali la vita che viviamo sarebbe molto diversa (cassei container graacieli scatole da scarpe) nascono da un raddrizzo del mondo, da un suo riao indubbiamente funzionale, ma altreanto deforme da qualsiasi punto di vista terrestre tranne il nostro. Allo stesso modo, la simmetria lineare e irrelata delle cose di faura umana – specie quelle di uso più comune – si oppone alla volubilità così comunicativa, così patetica, dei casi della vita. L’ordine ripetuto di poche forme è quanto ci basta per governare il mondo, mentre la varietà la lasciamo all’arte: che difai, soo la specie di ragguaglio rapsodico del reale, è l’unica a darne conto complessivo. Inoltre, proprio come il nostro corpo mostra da fuori una compostezza discorde dal misterioso accalcarsi degli organi interni – l’armonia dei lineamenti contro l’informe matassa degli intestini, lo slanciarsi simmetrico degli arti contro la ressa e il labirinto del cuore, dei polmoni, dei vasi, se vogliamo il profumo normalmente neutrale della pelle contro i miasmi metabolici, e così via – le facciate e le paratie, i soffii e i tramezzi dei nostri edifici (di treni e filovie, di teleferiche e montacarichi, di armadi scrivanie frigoriferi scatole di medicine) reificano e squadrano i corsi disperati di amore dolore tenerezza violenza; degli esseri vivi che ne usano la capacità. La storia ha inizio qui, da questa opposizione, nonché da una comune geometria variabile. C’è un triangolo amoroso, quindi una doppia coppia formata da tre soli individui: gli amanti Florence e Julien, belli e ancora giovani, e Simon, il marito di Florence, che non è più giovane e non è mai stato bello. Di cognome Julien fa Tavernier, come se fosse un viaggiatore e un artista. Simon si chiama Carala, che pronunciato dai due amanti e associato alla sua figura suona singolarmente ignobile.

Non ci sorprende che la coppia clandestina sia legata da un’intensa passione, mentre in quella legiima la passione non deve essere mai stata travolgente, per lo meno da parte della donna. È più probabile che l’abbiano convinta l’opportunismo sociale ed economico: ma se l’eros è il punto di contao tra Florence e Tavernier, il denaro non lo è soltanto tra Florence e Carala, ma anche tra i due uomini, perché Tavernier è un dipendente del marito della sua amante. Ed è sempre il denaro, cioè la determinazione degli amanti a non perdere le ricchezze di Carala, che li convince a ordirne l’assassinio anziché andarsene e chiedere semplicemente il divorzio. Volendo, disponiamo ancora di un elemento per comporre il quadro di paralleli e opposti in cui si svolge la storia. Julien Tavernier è un ex paracadutista che solo pochi anni prima ha combauto valorosamente nella guerra d’Indocina. Simon Carala invece è un uomo d’affari che si è arricchito in maniera losca – con le colonie, con la Seconda guerra mondiale? – e sta arricchendosi ancora di più con la guerra d’Algeria. Siamo nel 1957: l’abbandono dei territori africani, che allo scoppio dei disordini il ministro Mierrand aveva definito per sempre francesi, è ancora lontano. Ma è anche l’anno della Baaglia di Algeri: si è scatenato il caos che finirà con il rimpatrio dei pieds-noirs e l’abbandono degli harkis, lasciando alla retorica gollista di camuffare l’ignominia e i massacri che in genere accompagnano la partenza dei bianchi. Avremmo quindi il solito terzeo: il soprano e il tenore si amano, ma c’è il baritono di mezzo. Se giocassimo una mano di morra cinese stereotipata, Florence in quanto donna dovrebbe essere la carta, il padrone Carala sarebbe il sasso e Tavernier, l’uomo d’azione, le forbici. Però la trama non ce lo permee. i le forbici rompono il sasso e si associano alla carta in un breve percorso di rovina. Meglio quindi tornare alla geometria. Il triangolo dei personaggi è indomito, irrequieto; vuole perdere un lato; e questo sembra trovare riscontro negli oggei, spianati dalle

due dimensioni dello schermo (una Flatlandia resa credibile dalla consuetudine di ognuno con i sogni) e dal taglio delle inquadrature. Le forme delle cose che aorniano e contengono i due amanti ci ripetono che il loro comploo non può fallire perché non mostra curve, spire o arabeschi, ma solo linee sicure e angoli rei. Le finestre della sede della dia hanno le stesse proporzioni della cabina telefonica da cui Florence parla con Tavernier prima che l’azione cominci. L’interno del palazzo, come in genere i palazzi commerciali, è suddiviso in vani regolari e ritmati dagli archivi-armadieischedari-casseiere della modernità preinformatica, già indirizzata ai vuoti postmoderni dall’agonia del colonialismo. Così la fuga geometrica di pilastri che incornicia l’ufficio di Carala sembra un invito a Tavernier a dimostrare il teorema formulato con Florence – entrando in uno spazio proporzionale al casseo del suo, di ufficio, da dove era uscita la pistola soraa a Carala dalla moglie infedele. (Ora vediamo che Carala ha capito molte cose. ando vede la pistola puntata contro di sé, dice a Tavernier che tanto non gli sparerà, proprio perché è un soldato – e non per onore di soldato, ma per la speciale ineitudine dei militari. Si raduna dall’ombra un corteo di generali appena sconfii soo i loro geometrici chepì oocenteschi, con cognomi oocenteschi: Salan, Navarre, Challe, Jouhaud; Leclerc de Hauteclocque precipitato con l’aereo; de Lare de Tassigny ammazzato dal cancro e dalla perdita del figlio in guerra. Tavernier fa immediatamente fuoco.) Ma la fuga di pilastri è fasulla, quasi un trompe-l’œil, quinte di palcoscenico dietro le quali brulica la ridda degli aori dispeptici, dei truccatori in crisi d’identità. La pentola riesce senza coperchio, probabilmente lo ha perduto a Diên Biên Phu; o il diavolo è di nuovo nei deagli, o il veleno nella coda. E mentre l’eroe di guerra sta per allontanarsi sulla sua bella spider, spunta proprio una coda. Non proprio. Spunta una corda, la corda che gli era servita per salire di nascosto al piano dell’ufficio di Carala e

assassinarlo. ella corda Tavernier l’ha dimenticata e ora penzola inerte dal balcone, come uno spot patibolare non annebbiato dal costume nazionale della ghiglioina. È questo primo segno di disordine – la corda appesa al rampone – che impone a Tavernier di ritornare, sempre di nascosto, nel suo ufficio. E quando poi, recuperata la corda e finalmente al sicuro, sta scendendo di nuovo, il custode leva la corrente al palazzo per il fine seimana e l’omicida si ritrova bloccato nel parallelepipedo al quale, adesso è chiaro, avevano alluso tui gli altri: la cabina dell’ascensore. Di tuo questo, il caos che da qui si scatena non è che il seguito, o meglio il corollario di un teorema ostile. Alla sequenza geometrica di Florence/Julien subentra un’aneddotica contraria. Alla coppia di amanti che non abbiamo mai visto insieme, e a questo punto potrebbero anche non ritrovarsi mai più (forse in un’aula di tribunale? o, melodrammaticamente, sul palco dell’esecuzione?) subentra un’altra coppia: un ragazzo e una ragazza che, al contrario, compaiono sempre uniti. Come i primi due amanti si sono impadroniti della pistola automatica di Carala, questi si impadroniscono dell’automobile di Tavernier e, aprendo un altro casseo – il comparto dei guanti della macchina – della sua rivoltella. Che proprio come la prima, e come di dovere non solo al cinema, è destinata a sparare. I due giovani che formano la coppia (lei è molto semplice e un po’ sciocca, lui è un balordo, entrambi sono di estrazione modesta) danno il loro contributo primitivo e chiassoso alla deriva di casualità sposata perfidamente – e potremmo insinuare: fin dal principio – dalla ristreezza tecnologica degli ascensori e delle cabine del telefono. Anche l’avvenenza dei due ragazzi non serve ormai ad altro che a ripetere che l’equilibrio esteriore è soltanto una mistificazione. Insomma, c’era un mondo. Indocina francese, Algeria francese, reangoli e parallelepipedi, finestre e ascensori. Chepì. In questo mondo sono nati i progei e le macchinazioni di Florence e Julien. È nato anche il loro delio, ma noi non li giudichiamo: tanto a questo penserà il

magistrato, e come andrà a finire lo si sapeva già dal titolo. Ci limitiamo a constatare che le colonie vanno perdute, le luci si spengono, gli ascensori si guastano. A sparare c’è sempre una pistola in più del previsto. E comunque, se il titolo non bastasse, il caraere ambiguo – no, antitetico, di tua questa storia di oggei contraffai e sospesi nel vuoto era subito chiaro dalla colonna sonora di Miles Davis, non casualmente improvvisata in studio su un telaio di accordi in progressione.

Le mani addosso

da In fondo al buio (Laughter in the Dark) di Tony Richardson a colori, 1969 È stato l’incidente ad aprirmi gli occhi. Viene quasi da ridere, perché nell’incidente ho perso la vista, ma si sa: Odino, Omero, san Paolo, orbi completi o mezzi, momentanei o definitivi, tui hanno appreso un altro modo di guardare, più penetrante, e non servono l’oculista e il neurologo per spiegare che i nostri occhi ci permeono forse di vedere il mondo come crediamo che sia mentre in realtà vediamo solo un oggeo – no, anzi, vediamo un deaglio di un oggeo. Nel mio lavoro ho guardato studiato scrutato ispezionato quadri per un ventennio non vedendo mai più che un particolare alla volta e insomma la menzogna di vedere l’insieme, la chimera di cogliere un senso di unità quando le cose sono frammenti, ma del resto non è così tua la nostra vita? Non fingiamo che abbia un senso, la chimera, pur sapendo benissimo il contrario? E di questo siamo tui coscienti, benché il cervello simuli di aivare una vista diversa da quella oculare, anzi una visione, come un grandangolo di profondità, e tenga moltissimo a quella che in sostanza è la sua ragion d’essere e alla fine voglia averla sempre vinta lui e l’abbia vinta sempre, quasi sempre. Deo ciò sarà meglio che vi racconti subito la mia storia, e ve la racconti come se ci fosse una storia da raccontare, mentre basterebbe un’epigrafe (che so: Viltà – inganno –

vendea?), quindi inizio dicendo che non sono mai stato un uomo caivo nel senso convenzionale del termine, forse sarei anche stato un brav’uomo se per brav’uomo non si ha la pretesa che uno sia aivamente interessato al bene degli altri intendendo per gli altri proprio tui, a partire dalla famiglia e dagli amici; abbastanza interessato, cioè, da meere in ombra il suo, di bene; perché io no, questo non lo sono mai stato, non verso mia moglie, non verso mia figlia, anche se per tanto tempo la vita, cioè il disporsi dei suoi frammenti, dei suoi innumerevoli numerevoli prima e dopo, non mi ha dato modo di rendermene conto, come succede sempre, quasi sempre, a molti, quasi a tui. Un uomo così è probabile, a maggior ragione se dispone di buoni mezzi economici, un uomo così è probabile che passati i quarant’anni e non prima perché non sarebbe un brav’uomo e inoltre stiamo parlando di un soggeo che gli ormoni maschili stimolano senza assillarlo, passati i quarant’anni è probabile che tradisca la moglie con un’amante giovane e bella; e se poi non si traa genericamente di un uomo di questo tipo, ma di me stesso in particolare, cioè di un critico e collezionista di arte moderna con una sostanziale debolezza di caraere, è più che probabile che si riduca a fare della sua amante una mantenuta e se ne innamori, cioè si innamori del suo corpo al punto da apprendere un altro modo di guardare, che non è quello che aveva prima e non è ancora quello del futuro, cioè di quando sarà diventato cieco, ma è più vicino al secondo che al primo; guardare il mondo e unire i suoi puntini, guardare i quadri alle mostre nei musei alle aste e cercarne l’insieme araverso il tao, araverso le sue mani sul corpo di lei, e non occorre che scenda in deagli, per quanto poco resti all’infuori di loro, dei deagli voglio dire, su come il corpo di una bellissima donna di vent’anni possa sconvolgere un uomo che ne ha più di quaranta e che da più di dieci si unisce sessualmente – avrei deo si unisce carnalmente fino a qualche anno fa, persino si congiunge carnalmente, ma questo è un altro discorso su cui forse potrei tornare tra breve, questo fao che Margot abbia cambiato anche le mie parole – a una moglie piacente ma ogni anno un

po’ più opaca nella carnagione, meno liscia e compaa soo le mie mani; e qui potrei anche aggiungere senza sembrare rude che dopo la nascita della nostra bambina la moglie si era faa più abitudinaria, più remota, e aggiungere di nuovo a denti strei e con un’ombra di vergogna che forse proprio questo mi aveva allontanato dalla nostra bambina oltre che da lei: ma se non esistono limiti alla falsità di un racconto, esiste un limite alla falsità del mio. Ora è giusto che dica due parole su Margot, non senza aver fao presente a chi non può o non ha interesse a ricordarlo la tristezza di avere quarant’anni in Inghilterra al tempo in cui succedono queste cose: perché io e i miei coetanei eravamo cresciuti in un tempo in cui la carta geografica del mondo era ancora colorata di rosa, ma in una nazione stravolta dalla perdita di mezza generazione maschile, perdita abominevole per shrapnel e gas, una nazione immiserita e piagata dai sindacati, malata di comunismo e di paura; e senza neanche il tempo di sbarcare dall’adolescenza siamo stati sbauti dalle onde di un’altra guerra che sì, ci avrebbe promossi tui quanti come eroi sebbene io, di un anno troppo giovane, non l’abbia combauta, ma in ogni caso è durato poco, tuo spazzato via dalla liquidazione dell’Impero, vent’anni, il tempo per Margot di nascere e diventare una mantenuta; vent’anni per cancellare mezzo millennio di grandezza, cinismo, coraggio sofferenze crudeltà sangue sudore lacrime fatiche – ma quando mai si è vista una cosa simile? – così oggi i ragazzi di vent’anni hanno voltato le spalle a tuo, si fanno crescere i capelli e non hanno per noi né gratitudine né rispeo. Eppure, appunto, la mia relazione con lei c’entra relativamente col giorno d’oggi: allungale il vestito, accorcia gli orecchini, cambia la curva della messa in piega, e potrebbe situarsi in qualsiasi nicchia di questo secolo, in cui ordine e caos portano sempre nella stessa direzione, il fallimento, e allora tanto vale risparmiarsi giri viziosi e volgere a favore di destino un bouquet di circostanze palesemente infausto: il fao che lei fosse la maschera in un cinema di Londra

frequentato da maschi di mezza età, e che fosse bellissima, bene, d’accordo, di quel tipo di bellezza dal sorriso soilmente corroo che in una donna giovane suggerisce (tradisce?) la disponibilità a ricevere denaro dagli uomini più vecchi, in effei a spillargliene, e in effei quando l’ho conosciuta aveva un amico dai contorni indefiniti, indefiniti i contorni della loro amicizia voglio dire, perché lui era basso tozzo e con l’aria di sapersi accontentare, di non avere grandi pretese. Di alcun genere. Era tuo scontato? Sì, insomma, la sua guerricciola di capricci e risentimenti, di lesina degli amplessi mirata a farmi lasciare casa e famiglia, la mollezza con cui mi sono adeguato alle sue bizze e quindi alla disapprovazione e al ripudio generale? Mah, io credo di sì, talmente al lumicino il trantran aveva ridoo la mia lealtà e il mio senso dell’onore, direi peggio, la mia già non eccelsa capacità di amare, e poi naturalmente il vuoto creato aorno a me sembrava fao apposta per essere colmato da Rex, il suo ex (non mi soraggo al gioco di parole; e perché dovrei?) e l’unico uomo che avesse amato più di un rosseo o uno smalto per le unghie. E poi oziosamente, dolorosamente, non riesco a non chiedermi: era ordito tuo dal principio o Rex è arrivato dopo, insinuandosi tra noi ed erodendo (non che ci abbia messo molto) quel po’ di aaccamento di Margot nei miei confronti, e siccome il gaglioffo non è un genio ma è furbo, ed è più giovane e bello di me, anche se forse questo era superfluo dirlo, mi ha fao becco spacciandosi per intenditore d’arte, dunque fratello minore o possibile discepolo, con qualche guizzo d’intuito devo dire, ma sì, glielo concedo; e per omosessuale, la trovata da circo per star vicino impunemente a lei, e anche Rex aveva qualcosa aorno alla bocca, non il sorriso ma una piega putrida del labbro, che avrebbe dovuto meermi sul chi vive se lo avessi voluto, cioè se mi fosse importato di qualcosa oltre al corpo di Margot, se

in tuo il mondo fosse esistito un ao più eccitante anche solo di accarezzarle i piedi. E la vista, si sa, in questi casi è il peggiore dei sensi, ovvio, lei registra soltanto quello che vogliamo, finché il buffone della realtà non fa una capriola nei suoi stracci arlecchino, l’automobile si impenna e cade a gambe all’aria su una strada della Riviera; e quando mi hanno tolto le bende dagli occhi e con il dovuto, indicibile orrore mi sono reso conto di essere diventato cieco, ho anche saputo che non sarei più stato ingannato perché, via quelle bende, a unirmi a Margot restava unicamente l’esaezza del tao e non sarei mai più arrivato troppo tardi al leo di una bambina moribonda per essermi aardato a leo con una bambina di poco meno giovane ma imbevuta dell’unica vita che tenessi ad avere. Ma se una frode rimaneva in ao, e doveva rimanerci fino a quando la coppia parassita non mi avesse spolpato di tue le sostanze, allora sarei stato io a condurla: dipendente dagli altri quasi in tuo e per tuo, mi sono trovato finalmente al centro della ragnatela, non più inseo degenerato, ma ragno consapevole e signore dei fili, non inseguendo le cose araverso le goffe soffiate della retina, ma gustandole con mani orecchi palato narici nella loro polposa ricchezza (tuo come una musica su disco, i suonatori possono non esistere nemmeno, il cane che abbaia è l’abbaiare, il bagno è acqua e porcellana, i sapori dei cibi e dei vini nell’offuscarsi sono l’assente di ogni mazzo), libero di fare loro il bene o il male, spogliandole via via della loro ambiguità più e meglio di come avevo spogliato Margot delle sue deliziose minigonne indecenti, della biancheria intima scarsa di due o tre taglie. E intanto in lei, Margot, e nel suo maquereau, inoculavo il mio veleno e mi accingevo a predigerirli. Ho lasciato che Rex si infiltrasse da subito nella mia casa da infermo (in mezzo a un prato di mezza montagna) che aveva scelto insieme a lei, ho lasciato che si credesse un clandestino inafferrabile; ho lasciato che dormissero insieme, fingendomi sordo ai cincischiamenti e arrotolii di stoffe, agli sciaguaamenti bivalvi; che lui mi si accostasse per

canzonarmi da bellimbusto volgare, così mi sarà facile ammazzarlo con la stessa pistola con cui ucciderò me stesso. anto a Margot, vada pure dove vuole, i soldi le dureranno poco e a conti fai le sono grato: senza di lei la mia vita sarebbe stata, come dicono, troppo lunga e monotona. Ah, e senza tradimenti. In fondo, che cos’altro ci distingue dalle bestie e dai morti?

L’altro, lo stesso

da Tangos − L’esilio di Gardel (Tangos – El exilio de Gardel) di Fernando E. Solanas a colori, 1985 Infine quasi tuo è presentato come un gioco di specchi. Iterazioni, antifrasi, reboot, remake. E a un certo momento si vorrebbe chiudere, ci si sente in dovere di voltar pagina. Senonché non è facile quando è venuta l’ora in cui ogni cosa sembra un sinonimo o un contrario, o i sinonimi e i contrari sembrano la cosa stessa. (E poi: l’ora, ma quale? Solo a volerlo ammeere, era già venuta da un pezzo.) Insomma tuo, comprese le scoperte che ancora si presentano e potrebbero rischiarare la vita, e a volte la rischiarano davvero; quasi tuo, alla fine, è incorporato per affinità, contrasto, diagnosi differenziale. Niente sta più solo sulle sue gambe, e se la ripetizione è la regola, come non ripetere la ripetizione? Invece voltar pagina presuppone che esistano altre pagine e, prima ancora, che esistano delle pagine. Dunque, vediamo. Maria è una bella ragazza di vent’anni e da oo manca dal suo paese, l’Argentina. Vive a Parigi in esilio con la madre, un’arice famosa in patria, e capisce che sta iniziando a perdere il ricordo di Buenos Aires, se pure lo può chiamare un ricordo nei termini della sua vita di oggi, perché quella cià la ricorda soltanto come un nido, una membrana infantile, solamente con gli occhi della bambina che non è più. Succede anche a tanti che non sono in esilio, con la differenza che se loro decidono di tornare possono farlo, e lei no.

E qui c’è un primo dubbio: non può veramente, o non vuole? Perché per molti aspei la giovinezza di Maria, figlia dell’arice Mariana e di un avvocato sequestrato e ucciso dai militari nel golpe del ’76, più che il recupero sembra cercare lo sradicamento, sull’esempio di una fine di secolo in cui tante radici cominciano a sfibrarsi, le radici del mondo sono stanche e a spingere nel terreno rimane, abbastanza funerea, la loro parodia. Anche Carlos è un bel ragazzo, solo che non è vero: sembra un ragazzo, e invece è un bell’uomo di cinquant’anni. E per di più, da cinquant’anni è morto. Raccontano che negli anni Trenta, appunto mezzo secolo fa, il suo esilio a Parigi avesse incarnato i sogni di tui gli argentini dell’epoca. Un po’ perché Parigi tra le due guerre era un sogno universale, e un po’ perché il suo esilio non è stato un esilio ma piuosto una tournée, o una residenza artistica. Auto di lusso, alberghi di lusso, donne di lusso, concerti insieme a Josephine Baker. Per Carlos, figlio di madre incerta e padre indefinito, assunto al cielo come argentino per eccellenza anche in virtù delle sue origini vaghe (francesi? uruguaiane?) e quindi della vastità dei suoi confini – per Carlos, i tanghi che canta lontano da Buenos Aires formano le radici del suo mondo, il mondo della leggenda, quello delle radici più profonde. E qui un secondo dubbio, che è quasi una certezza: ammesso che ci sia un giorno giusto per rompere lo specchio e guardare se tuo è solo riflesso o se al di là del vetro c’è qualcosa, questo è il giorno sbagliato. Per pensare a Carlos e Maria bisogna concedersi alla contraddizione, sfida al senso comune e quindi ancora replica e memoria. Carlos è Gardel, l’eroe del tango di cui si sanno poche cose certe. Dicono che, nonostante i successi e i guadagni del suo esilio immaginario, a Parigi fosse davvero preso dalla nostalgia e che perciò il suo amico poeta e paroliere Enrique Cadícamo abbia scrio per lui i versi di Anclao en París, che descrivono i sentimenti di un esule sempre finto, ma un po’ più plausibile. (In compenso lo sfondo è pura cartapesta,

perché quando compose il testo Cadícamo non si trovava né a Parigi né in Argentina, ma a Barcellona.) Lontana Buenos Aires, quanto devi esser bella! Sono quasi dieci anni che mi hai visto salpare… i in questo Montmartre, faubourg sentimentale, io sento che il ricordo affonda il suo pugnale.

Realismo magico in seenari, ed Enrique probabilmente qualcosa di magico lo aveva, visto che morì a 99 anni nel 1999. Ma questa è una postilla, uno staccheo in conclusione della strofa del tango. Ritorniamo a Maria. Maria, dunque, è alle prese con la sua età, con il suo corpo e la sua epoca, e dovrà superare l’intoppo del mondo tridimensionale, accodarsi a Mariana e ai suoi amici esuli, con la loro ostinazione confusionaria a meere in scena una tanguedia – mezcla de drama, comedia con acordes de tango y jazz – sul soggeo di Gardel a Parigi, se proprio desidera carpire il ricordo della Parigi di Carlos, e da lì ipoteticamente gli altri ricordi che le stanno a cuore, di suo padre e di Buenos Aires. Ma aenti a quello che desideriamo. Chi in Argentina è il nume del realismo magico, se non Borges? E se in Volver, il tango del ritorno, Gardel con le parole di Le Pera dichiara che l’oblio distrugge tuo, Borges ribae che la memoria è una forma di oblio. Dunque anche la memoria distrugge tuo, e nel tuo distrugge anche se stessa. Oppure no: solo l’oblio si salva dall’oblio (come può l’oblio perdersi, del resto? Forse nemmeno Borges sa rispondere), cioè la memoria è salva in quanto cancella ed esclude. Alla fine Gardel, che non è fao di carne, ma di tango, e come il tango quindi è oblio e memoria – può tornare a Buenos Aires con la fronte incartapecorita e le tempie imbiancate anche se ha i capelli neri e lustri di brillantina, la

lobbia sghimbescia e la faccia liscia come quella di un bimbo, così uniforme tranne per il sorriso a salvadanaio che scopre perfeamente l’arcata di sopra. Proprio per questo ha perso quaranta chili: per entrare nel frac e nello smoking, e sorridere sempre. Che i denti possano essere finti, o i capelli tinti (ma perché poi?); o che, chissà, lo fascino come una mummia per non farlo scoppiare dal vestito; che indossi scarpe speciali per sembrare più alto: niente di questo importa, perché il suo corpo è il suo canto e come il canto quindi è oblio e memoria. Lui non si è mai arrestato di fronte alla contraddizione: è un vero modernista, no, anzi è postmoderno, è zen, è ensō, il cerchio che non è tenuto a chiudersi, il cui trao assoluto può sbaffare. In ragione di questo non gli manca niente per rappresentare tui gli esuli argentini, i loro tanti esili diversi. Perché non lo diminuisce (al contrario, è una contraddizione in più) il fao che pochi mesi prima di Anclao en París abbia cantato ¡Viva la patria! per festeggiare il colpo di stato del generale Uriburu, il primo degli oo perpetrati nell’Argentina del Novecento. Oo colpi di stato in quarantasei anni e l’oavo – il seimo andato a segno, e l’ultimo – è quello in cui è morto il padre di Maria. Non dobbiamo stupirci se Maria come voce di esiliata si perde quasi subito, perché lei non vuole essere una voce, vuole essere viva e fare l’amore con il fidanzato che oggi è ancora argentino, ma domani sarà francese. Come non ci stupisce la morte di Gardel, moderna come gli incidenti aerei – quindi eccellente per la sua leggenda, ma anche per le leggende alternative che lo vogliono sopravvissuto, sfigurato e scomparso, o simulatore. Forse perché preferiva tornare basso e grasso, provare a non guardarsi più in nessuno specchio. Dunque, Maria e Carlos hanno in comune la condizione di esuli fiizi. Ne nascondono altri – cioè gli stessi, come insinua Borges? Nel cancan mitologico degli argentini in Francia, quando l’evanescenza di Gardel li tradisce (la tanguedia non andrà mai in scena, i parigini non la capirebbero, Parigi è la cià della Ragione) subentra per un

poco San Martín, il Libertador padre della patria, morto a Boulogne-sur-Mer dopo vent’anni di vero esilio francese, vero esule in eterno, irriducibile. Eppure il tango insiste che veinte años no es nada; che, in quanto la memoria ci inganna, Buenos Aires si può ancora raggiungere. Ed è San Martín stesso a dire agli esuli che è ora di tornare, e che per tornare è necessario andar via da Parigi, e a questo punto ormai abbiamo capito che lo sanno anche loro, gli esuli, che in Argentina i militari non ci sono già più da anni, è ritornata la democrazia. Chi subentra a Maria? Non sua madre, che è poco meno evanescente di Carlos, ma l’uomo di sua madre, Juan. A differenza di San Martín sarebbe deciso a subentrarle definitivamente, perché ha sentito nella voce della ragazza l’incertezza, l’esilio che si sgretola, mentre lui anche se non vuol saperlo preferirebbe restare ancorato a Parigi, nei vasti appartamenti dei sostenitori facoltosi, le stanze mezzo vuote, i soffii alti, le modanature, le porte e le finestre decorate. Restare in compagnia del repertorio di cose che hanno accompagnato lui e i suoi amici dall’Argentina: cappelli, sigaree, leere, telefonate chilometriche da cabine a geoni. E più di tuo i vani, splendidi tanghi struggenti e infuocati. Pei che si premono, cosce incollate, inguini, bocche schiuse dal desiderio. Sì, è vero: nel fraempo a Buenos Aires c’è chi è morto prima del ritorno dei cari assenti. Però è così difficile staccarsi dall’esilio con il suo fascino di incubo e vacanza, di antagonista sornione del tempo. E va a finire che, malgrado i suoi vent’anni, anche la voce di Maria sembra incrinarsi un po’. Sul calar della tela la sentiamo cantare: “Vado vengo rimango, qui tuo è sempre grigio come Parigi.” È tuo sempre grigio o ha il colore del tango, che è quello della perdita e del ritrovamento. El otro, el mismo.

Il corpo in scatola

da Lancilloo e Ginevra (Lancelot du Lac) di Robert Bresson a colori, 1974 Alla fine del romanzo che porta il suo nome, il condoiero àvaro Chadži-Murat cade in baaglia come un eroe dell’epica classica. Ferito mortalmente e già aerrato, rimane in sé fino a quando Chadži-Aga, suo amico e seguace di un tempo, non si avvicina e lo colpisce alla testa con un lungo pugnale. Per un istante a Chadži-Murat sembra di essere preso a martellate, ma non capisce più da chi, né perché. Per Tolstoj questa è l’ultima sensazione cosciente del suo legame con il suo corpo. Poi non sentì più niente, e i nemici calpestarono e sciabolarono qualcosa che non aveva più niente in comune con lui. La descrizione di questa morte – quasi sempre dal di dentro: dall’interno del morente, un passo alla volta, con un distacco che allestisce una credibilità quasi sovrumana – è stranamente confortante. Il corpo eccezionale dell’eroe, prima coinvolto allo stremo nella loa e poi straziato dai colpi, ora è altro da lui, può essere vilipeso senza alcuna reale conseguenza. Chadži-Aga gli taglia la testa e la calcia via, badando a non sporcarsi gli stivali con il sangue rosso che zampilla dal collo, con quello nero che cola dalla testa mozzata. Nel deaglio dei colori diversi il punto di vista transita dall’ucciso all’uccisore, peraltro già riassorbito dalle immediatezze quotidiane come la sua viima è riassorbita dalla materia inanimata, senza sentire più il vento che soffia o lo scorrere dell’acqua, o i richiami degli animali, ma anche lui

vento e acqua, non animale ma richiamo. Non umano ma corpo. Corpo, quindi carne. Oppure no? Deve chiederselo ora Lancilloo, in questo affastellarsi di ricordi che si dice preceda la fine. La fine l’avrà vista da vicino chissà quante volte, ma nella mischia, o in duello, era troppo impegnato a scongiurarla. O forse no, nemmeno questo: era impegnato a eseguire la routine di affondi, fendenti e parate, di finte e di improvvisi, che l’avrebbero scongiurata. Poi è tornato dalla ricerca del Graal insieme a una trentina di superstiti della centuria di cavalieri che re Artù aveva inviato. Sì, Artù. Lancilloo non sopportava più di prolungare l’inganno ai danni del suo re e, al ritorno, ha chiesto a Ginevra di scioglierlo dalla promessa d’amore. Da allora si sono susseguite le disgrazie. Mordred, geloso del suo favore presso il re, ha smascherato l’adulterio, e Ginevra è stata chiusa nella torre del castello. Lui, Lancilloo, l’ha liberata; hanno deciso di comune accordo che dovesse tornare dal marito, e così è stato; ma nel fraempo Mordred e i suoi seguaci si erano ribellati venendo a baaglia contro Artù e i cavalieri rimastigli fedeli. Lancilloo è accorso in aiuto del re, tuavia lo scontro non ha seguito sempre le regole della cavalleria. Ci sono stati anche duelli leali, è vero, ma i nemici tendevano agguati ovunque, arcieri arrampicati come gai diabolici sugli alberi per tempestare di frecce chi vorrebbe combaere con onore. Frecce che hanno colpito anche il cavallo di Lancilloo, che è stramazzato, e solo adesso lui si rende conto di essere stato colpito a sua volta, che la testa sanguinante del suo cavallo potrebbe essere la sua. Suo l’occhio enorme del cavallo, sgranato. Insomma, morirà. Tuo finisce in meno di un minuto. Lancilloo raccoglie le sue ultime forze e si alza in piedi, va ad appoggiarsi a un albero. La baaglia si è combauta nella foresta, gli zoccoli a percuotere un pacciame di foglie e corteccia e rami umidi, le frecce andate a vuoto a conficcarsi nei tronchi, nelle radici in superficie. È una maledizione dover sempre combaere in un

bosco, dover spronare il cavallo in questi labirinti verdi e cupi, generalmente ostili. Era stato così anche durante la ricerca del Graal: e i cavalieri più avidi, quelli che avrebbero voluto impossessarsi della coppa per i suoi poteri magici (e poi tenersela), sono stati i primi a cadere nelle insidie, nei tranelli, nella soovalutazione di un nemico. Lancilloo fa ancora qualche passo e si lascia cadere sui cadaveri degli altri cavalieri della Tavola Rotonda, vicino a re Artù. Dice ancora qualcosa, una parola, ed è morto. Non abbiamo visto i suoi occhi sgranati, e Artù lo abbiamo riconosciuto solo dall’elmo con la corona. Erano veramente cadaveri quelli su cui si è lasciato cadere? Ed erano davvero Lancilloo e il suo re quelli che conosciamo dal cimiero? Dalla testa ai piedi sono coperti dalle armature; ora che sono morti, per un momento sembrano solo un mucchio di ferraglia. Per un momento. Ma da quanto tempo gli uomini che adesso sono stesi qui nel bosco non si toglievano le armature? Forse questo, e non Ginevra, non il suo sovrano, nemmeno il Graal e il sangue divino raccolto da Giuseppe d’Arimatea, è stato l’ultimo pensiero di Lancilloo prima di morire. Da quando è cavaliere l’ha sempre avuta addosso, e alla fine sentiva di essersi trasformato in una laa, una cisterna di sangue, un baraolo di salsa vermiglia costruito per questo far la guerra senza capo né coda, questa cruenta tiritera di va’ e vieni nello scuro dei boschi, sul pacciame, soo le frecce. Guardarsi le mani, guardarsi la faccia allo specchio era diventato una molestia, gli faceva paura come da bambino vedersi le pustole del morbillo sul ventre. E tuo questo ferro, infine, a che serviva? Tra peorali, gambiere, manopole, restavano immancabilmente troppi varchi, un numero straordinario di punti deboli che il dardo ben direo, la punta acuminata di una lancia o il filo di una spada avrebbero trovato di certo, prima o poi. O forse non ce ne sarebbe stato bisogno: una mazza lo avrebbe preso a martellate lì dentro, tra le pareti fredde – ma di un caldo rovente, allucinante, dopo mezz’ora al sole – di quello

scafandro, o scaldabagno, soo l’elmo o la corazza, senza neanche doversi fare strada, soltanto deformando qualche placca. Sia come sia, l’ultima sensazione cosciente di Lancilloo è il ferro che circonda il suo corpo, il ferro che è il suo corpo, come lo è sempre stato, in realtà, fin dai tempi del morbillo, fin dal primo vagito. L’ultimo suono che darà il suo corpo è il cadere di un’armatura su un’altra già immobile, già tornata a se stessa. Ma è un suono che non ha più niente in comune con lui.

Ah, la paterna mano

da Strategia del ragno di Bernardo Bertolucci a colori, 1970 Nel novembre di due anni fa è morto a Roma Bernardo Bertolucci. Strategia del ragno è stato il suo sesto film in ordine di uscita anche se lo aveva iniziato prima del quinto, Il conformista. È ambientato a Tara, un paese immaginario della Pianura Padana il cui nome ricorda Via col vento. Le scene sono state girate in gran parte nelle province di Mantova e di Parma, a Sabbioneta e a Brescello. Un villaggio del West. La strada principale, che è quasi sempre l’unica. Gli edifici di legno potrebbero essere solo facciate e non c’è nessuno in giro, qualche cespuglio che rotola, un po’ di sabbia alzata dal vento in una stagione qualsiasi. C’è una stazione dove fermano pochissimi treni. Arriva un uomo a cavallo, lo vediamo di spalle, porta un cappello da pistolero e probabilmente è vestito di scuro o con un poncho. Non ha nome e nessuno nel villaggio lo riconoscerà, almeno non subito, ma era già stato qui e ritorna in cerca di una verità o di una vendea. È possibile che conosca già la verità e cerchi solo vendea; ma stiamo sicuri che, se è la verità che sta cercando, scoprirla lo condurrà alla vendea. Nel West non c’è un altro sistema. E altrove? Un paese della Bassa. Poche vie secondarie si diramano da quella centrale, aperta sulla piazza e su slarghi con palazzi rinascimentali in semiabbandono, fiancheggiata da boeghe e

da una pensioncina. C’è una stazione dove passano pochissimi treni, ma questa volta uno si ferma e scende un uomo con una valigia. Lo vediamo di fronte, ha la giacca aperta su una camicia sboonata come usava nella Bassa in estate alla fine degli anni Sessanta, inizio dei Seanta. È giovane, anzi è un giovanoo, parola che oggi somiglia a “pistolero” nel senso che non si usa quasi più, quindi indica un uomo giovane di alcuni decenni fa, come “pistolero” indica un uomo proveo con la pistola di alcuni decenni fa. Il giovanoo, che si chiama Athos Magnani e torna in un paese che dovrebbe essere il suo, ma di cui non conserva più neanche il ricordo, cerca la verità. È convinto di cercare solo quella, alla vendea non pensa nemmeno; ma anche se non riconosce luoghi e persone, tui riconoscono lui perché è identico a suo padre, è il suo ritrao e ne ripete il nome. Suo padre è stato un eroe. Il paese lo celebra con un busto in piazza e gli ha intitolato di tuo. È un martire antifascista, un cospiratore che nel 1936 (l’anno della conquista dell’impero, prima della morte in carcere di Gramsci e dell’assassinio dei fratelli Rosselli) preparava un aentato contro il duce, ma è stato ucciso lui, da agenti del regime rimasti ignoti. Il motivo per cui Athos il giovane non mira alla vendea si vede subito: la verità non gli interessa tanto per punire i colpevoli quanto per fare luce sull’ombra paterna che lo sovrasta, e possibilmente liberarsene. Bene, ma non sarebbe una vendea anche questa? E non starebbe a un giovanoo del 1970 come la sparatoria sta a un pistolero di cent’anni prima? Prevedibilmente, nessuno intorno a lui vuole una verità diversa. Non i compagni di loa dell’altro Athos, che, è palese, nascondono un segreto; non l’amante ancora bella dell’altro Athos, che nel figlio ritrova il padre senza nemmeno troppi sointesi. E non la vogliono gli abitanti del paese, le comparse ostili a ogni rischio di scalfire la leggenda. Nella Bassa come ovunque (anche nel West) quando la verità si scontra con la leggenda vince la leggenda, anche se è

ignobile: e non è questo il caso. esta è una bella leggenda, orgoglio della comunità. Peccato per quelli a cui la leggenda fa torto, ma dietro il torto non c’è solo la vioria, o la rivalsa, degli altri: c’è che la verità non si definisce facilmente, e quando non è provata dalla scienza (qualunque cosa sia) è troppo spesso articolo di fede, o legata a una fede. Altrimenti è una costruzione narrativa, una finzione. In questo caso, dunque, Athos pretende di essere qui solo per stabilire cosa è successo quella sera. Ma la risposta, anche se coincidesse con la versione pubblica, sarebbe comunque fiizia, raccontata, perché Athos è stato assassinato (dai fascisti o da altri?) nel palcheo di un teatro durante uno speacolo, come in un racconto di Borges il cui personaggio non ha nome né patria né partito, o ne ha tanti, e a sua volta è messo lì a replicare la fine del presidente Lincoln. Insomma, siamo entrati nel labirinto, nella tela di ragno che ci aspeava fin dal titolo. Prevedibile anche questo? Dedali e ragnatele sono simboli così immediati e antichi da furoreggiare in ogni campo espressivo, e la moderna liturgia del dubbio ne ha fao i suoi addobbi. Pescando dai ricordi adolescenziali (in ogni senso), di seguito alla Strategia erano usciti due film italiani senza grandi ambizioni: Nella strea morsa del ragno (1971) di Anthony M. Dawson, come si firmava Antonio Margheriti, e L’occhio nel labirinto (1972) di Mario Caiano. Il groviglio di fili o gallerie senza filo in cui immancabilmente andiamo a perderci assomiglia da tempo a una scorciatoia per non correre il pericolo di trovare noi stessi. La liturgia è un’escapologia. Pertanto, anche se Athos iunior vorrebbe conoscere solo la meccanica dell’assassinio, appena comincia a indagare è preso (e noi con lui) nella palude famigliare (di nuovo, in ogni senso) dell’ambiguità. I fai della morte di suo padre non possono non rimeerne in forse l’eroismo; anzituo perché, se l’omicidio è stato commesso non dal nemico, ma dai suoi compagni, bisognerà indagare ancora, almeno fino al punto in cui il padre apparirà per quello che biograficamente è

stato: un traditore offertosi alla morte per impersonare l’eroe utile alla causa antifascista, cioè la causa di cui era nemico. O in cui prima poteva aver creduto, e che aveva tradito. A tuo ciò si aggiunge un effeo collaterale forse indesiderato: la nuova verità fa vacillare l’identità stessa del nemico, la nostra forza di aribuirgliene una e la sua forza di conservarla. Il potere fascista contro cui si era messa in moto la passione e morte di Athos padre finisce tra parentesi, dietro le quinte del melodramma. Verità nuove e vecchie. Ma perché quella di cui disponiamo adesso deve valere meno? Athos padre è un eroe di fao. Non ha sacrificato veramente la vita cadendo dalla parte giusta (secondo gli autori della storia, secondo noi) pur avendo militato in quella sbagliata? E allora, quale vantaggio darebbe al giovane Athos la scoperta di un’altra verità, puramente contabile? Suo padre resterà quello di prima con l’unica variante di essere un eroe redento alla fine di un percorso sofferto. E anche se intimamente fosse rimasto un traditore? Se, ormai alle corde, avesse usurpato una gloria postuma? O, peggio ancora – in fondo siamo nel 1936, questa non è la Resistenza se non a posteriori, è ancora solo opposizione al regime – se avesse avuto lo scopo occulto di avvalorare la cantilena che chi tocca Mussolini è in pericolo di morte? Niente di tuo questo è dimostrabile. Ma, a pensarci, il vantaggio di Athos iunior potrebbe stare proprio nella possibilità, una volta stabiliti i fai, di scegliere anche lui la propria parte nella guerra infinita. Athos senior è caduto in una guerra civile, cioè nel conflio in cui ogni eroe è anche traditore, e viceversa; il conflio in cui ognuno ha la responsabilità, il dovere di una scelta. Scegli chi è il tuo nemico. Potresti avere in sorte di uccidere tuo fratello, o tuo padre. Ma, nonostante tuo, la figura di Athos il vecchio risulta più elusiva che mai, e sembra un paradosso, perché ce la vediamo riproporre di continuo nei flashback, vestita di una sahariana ammiccante, o reincarnata nella fisionomia del figlio e in un

accumulo quasi affranto di emblemi della sua vita e della sua morte. Vediamo sfilare le case di una Sabbioneta spogliata di ogni fascino da gita scolastica (ci passammo anche noi in quarta ginnasio, nel 1972), in uno squallore da Venerdì Santo (soofondo di bàole), alla deriva nel mare della Bassa dove d’estate galleggiamo nella salsedine del nostro sudore in compagnia di mosche, vespe, zanzare, tafani. Uno stagno globale, negato giorno e noe al refrigerio e diffidente dei soffi di vento. Uguale sorte tocca alla stazione di Brescello, già testimone dei viavai di Peppone e Don Camillo in un mondo piccolo all’apparenza meno disfunzionale. i nella prima scena Athos figlio è l’unico a scendere dal treno; e alla fine, quando vorrebbe ripartire dopo lo scioglimento che non ha sciolto nulla, capisce che il suo arrivo era stato un’aberrazione, o un sogno, oppure qualcosa è cambiato, perché il treno su cui deve salire è sempre più in ritardo, anzi forse di treni a Tara non ne passano più, i binari sono invasi dalle erbacce. È probabile – ma soltanto probabile – che lui a Tara non sia mai arrivato perché da Tara non era mai partito, non si era mai distaccato dal padre perché il padre è lui stesso, e quindi verosimilmente è già morto. Come lo siamo tui, direbbe l’esistenzialista che fu in noi. Sia pure, ma fraanto apriamo una parentesi, perché è anche da morti – soprauo da morti – che possiamo godere insieme ad Athos dei complementi estetici che una sceneggiaturafantasma sa allestire. I quadri di Ligabue dei titoli di testa, omaggio a una scoperta di allora ma anche sfilata di tigri, leoni e serpenti dipinti come predatori e predati, viime e carnefici. La musica di Verdi. Rigoleo, l’opera più popolare della trilogia popolare; la più padana negli echi di osteria e di acque amare e la più surreizia nello svolgere il tema del figlicidio. Nel Trovatore Azucena in trance commee il grossolano errore di bruciare il suo bambino invece di quello

del conte di Luna. Nella Traviata il borghese di provincia Germont manipola Violea uccidendo Alfredo per procura. Ma è in Rigoleo che il disegno ha la geometria vischiosa della ragnatela. Il Gobbo vorrebbe vendicare l’onore perduto della figlia sul Duca di Mantova, ma lo vendica su di lei, che nell’estasi ero(t)ica del martirio trasforma il padre in mostro, nel ragno stesso. Eppure Rigoleo si era scelto il nemico con una furia così irreprensibile, così conforme; ma un secolo abbondante prima di Athos fa l’amara scoperta che il nemico è lui stesso, la sua natura umana gonfia di vanità e violenza. E la vendea diventa una delle tante forme di suicidio – direo o interposto, eroico o ipocrita – che la coscienza moderna mee a disposizione. Nell’insieme, tuo questo ordigno per giocare la solita mano con la figura paterna sembra persino ridondante. Proprio per questo sarà meglio lasciare dietro le quinte – là, con i mancati figuranti in camicia nera – il Bernardo primogenito di Ailio e suo emulo mancato in poesia, migrato presto a un cinema di dialoghi imperfei e perfee inquadrature, di occhio infallibile. Altrimenti dovremmo concludere che il padre vince sempre, che i versi ipocondriaci della Camera da leo hanno trovato come sempre il loro soma nel corpo del figlio; mentre è più sano fermarci all’ereditarietà dei temi passati dalle pagine alla pellicola. Le estati enormi della Bassa, il Tempo. Ligabue, Verdi, Borges. La pletora di storie raccontate dai padri ai figli, dai figli ai loro figli. Che, diffuse, diventano di tui e di nessuno, come forse sono state da sempre: come padri, fratelli, guerre, nemici. Come le ragnatele e i labirinti che infine ci sollevano dal giusto patire della scelta fingendo che una scelta sia impossibile. C’era una volta la Bassa Padana come luogo di segreti, e c’era una volta il West. Grazie all’amicizia di Ailio con Pasolini, Bernardo Bertolucci aveva iniziato il suo cinema da Roma; ma poi, negli anni tra Prima della rivoluzione e Strategia del ragno, Pasolini lo ha seguito nella valle del Po. Edipo re. Teorema. Nello stesso anno del secondo, il 1968, usciva C’era una volta il West al cui soggeo Bertolucci aveva lavorato con

Dario Argento insieme al regista Leone. Un pistolero arriva in un villaggio per vendicare suo fratello. Ha ben chiaro il nemico che si è scelto (anche se sono passati tanti anni e il nemico è invecchiato, sembra il padre di se stesso) e la certezza del suo proposito è ciò che lo identifica e gli dà un corpo. Il nemico di Armonica deve essere il male, e che Armonica sia il bene, oppure no, non conta e nessuno si prenderà la briga di dircelo. La ragnatela non è il nostro cuore impenetrabile, solo un gioco di spari tra facciate dipinte.

Titoli di coda

Come succede sempre, le storie e le non-storie contenute in questo libro contengono delle citazioni (o ne sono formate quasi per intero). alche volta, non spesso, le citazioni sono consapevoli, ma non mi è sembrato necessario riportare la fonte. Mi sono limitato a scriverle in corsivo. Caso particolare è quello di Dietro il cadavere nella neve, che allude ampiamente ad alcune vicende che hanno legato l’aore David Hemmings a Benjamin Brien e lo stesso Brien a W.H. Auden; inoltre la filastrocca verso la fine è una versione modificata dell’ultima strofa di At Last the Secret Is Out dello stesso Auden. Secondo un aforisma nietzschiano un buono scriore non ha solo il suo spirito, ma anche quello dei suoi amici. Grazie a Luigi e (come sempre) Roberto, modelli di passione cinefila dagli anni del liceo. E a Franci, Carlo e Guido per tuo, proprio tuo.

Indice

Titoli di testa Pioggia scopre, neve copre Presto o tardi si staccano dal muro Rule, Britannia Territhorror 1 / Scappa con Superissima Il dolore non vale niente? Territhorror 2 / Batracica Un elmo in riva al mare Paesaggio distruibile Il problema di rendersi complicati da mangiare Omnes composui Un album fotografico Dietro il cadavere nella neve Giochi e supplizi Piccola fauna Parallelepipedi reangoli Le mani addosso L’altro, lo stesso Il corpo in scatola Ah, la paterna mano Titoli di coda