Il governo delle vite. Biopolitica ed economia 8842079979, 9788842079972

Contro, o meglio fuori dei grandi modelli classici - liberalismo e marxismo innanzitutto - ma anche diversamente dai par

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Il governo delle vite. Biopolitica ed economia
 8842079979, 9788842079972

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© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006

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Laura Bazzicalupo

Il governo delle vite Biopolitica ed economia Prefazione di Roberto Esposito

Editori Laterza

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Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-7997-9

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

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Prefazione di Roberto Esposito

1. Prima ancora di entrare nel merito del saggio di Laura Bazzicalupo, vorrei fare un riferimento più ampio all’orizzonte di ricerca in cui esso si inscrive – fortemente mutato rispetto a quello ancora dominante nell’ambito della filosofia politica. Diverso, o trasversale, rispetto all’indagine storico-concettuale alla tedesca, esso non è riconducibile neanche a un’impostazione di tipo normativo di derivazione anglosassone. Quello cui semmai il libro rimanda, sia pure con caratteristiche proprie e peculiari, è l’angolo prospettico che Michel Foucault ebbe a definire «ontologia dell’attualità». Che cosa si deve intendere con quest’espressione? In che modo essa allude a una maniera nuova di fare filosofia? E da che punto di vista si possono riportare ad essa le pagine che seguono? Il richiamo di Foucault era naturalmente al presente – assunto come oggetto, e in qualche modo anche soggetto, dell’analisi. Non è una cosa scontata, anche se è consuetudine dire che qualsiasi discorso nasce da una condizione, e anche da un’esigenza, contemporanea. Nella linea di ricerca indicata da Foucault c’era, infatti, qualcosa di più e di più impegnativo. Rivolgere una domanda filosofica al presente – a ciò che lo connota in modo significativo, al suo spessore, al suo senso, alla sua direzione – vuol dire rovesciare quella che è stata a lungo la vocazione autoreferenziale della filosofia in un pensiero dell’esteriorità: il suo oggetto non va ricercato nella tradizione filosofica, ma nel mondo stesso, nei suoi linguaggi, nelle sue pratiche, nelle sue tecniche. A questo alludeva Deleuze – insieme a Foucault, l’altro autore cui più il saggio della Bazzicalupo implicitamente ed esplicitamente rinvia – quando scriveva che «il filosofo deve diventare non filosofo», per continuare a fare filosofia: alla necessità che la filosofia non soltanto guardi fuori di sé, ma divenga essa stessa un pensiero del ‘fuori’, nel senso oggettivo e soggettivo dell’espressione. V

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L’altra indicazione fornita, con il richiamo all’ontologia dell’attualità, da Foucault riguarda invece il tipo di sguardo – il suo carattere non più longitudinale, ma sagittale. Mentre il primo interpreta il rapporto con la modernità in maniera insieme bipolare ed esterna – cercando ciò che la distingue dalla fase precedente – il secondo include se stesso nell’analisi. Cerca il luogo, la forma, la forza che fa di quello sguardo un elemento della stessa contemporaneità che esso indaga. In questo modo – sovrapponendo soggetto ed oggetto dell’analisi nel nodo del presente – salta tutto l’ordine naturale della successione. La modernità non appare più come un unico flusso, predefinito nella sua origine e orientato nel suo esito, lungo un percorso che arriva fino a noi, ma si spezza in una molteplicità di segmenti eterogenei, di prospettive divaricate, di vettori divergenti che non sono più riconducibili all’unità di un solo processo. Già qui la relazione con il saggio della Bazzicalupo si fa più intrinseca ed evidente. Contro, o meglio fuori dei grandi modelli classici – liberalismo e marxismo innanzitutto – ma anche diversamente dai paradigmi influenti di Carl Schmitt e di Hannah Arendt, l’ipotesi qui messa in campo, sulle orme di Foucault, propone una lettura discontinua e reversibile dei passaggi che nel corso di almeno due secoli hanno caratterizzato la relazione, complessa e contraddittoria, tra economia, politica e vita. Discontinua perché, come già si diceva, le sue fasi diverse – così come i testi che le hanno di volta in volta interpretate – non sono situabili lungo un’unica linea, ma aprono sempre nuovi ambiti di senso. Reversibile perché in ognuno di essi è ripensato lo stesso problema – appunto il rapporto tra politica ed economia nel corpo degli individui e delle popolazioni – in una forma che non dà mai per acquisite le soluzioni precedenti, ma procede per vie che sembrano contraddirne i risultati e alla fine anche se stesse. L’elemento che, anzi, accomuna storie, linguaggi, testi così diversi, è proprio l’antinomia, l’aporia interna, alla quale ogni teoria sembra condannata. 2. Scopo di questa presentazione non è, naturalmente, riassumere il contenuto del libro, che parla da sé. La sua tesi di fondo è che quel paradigma che, proprio a partire da Foucault (in realtà assai prima), ha assunto il nome di biopolitica dà ragione del modo in cui l’economia pervade e condiziona sempre più le nostre vite. O anche, detto altrimenti, che l’economia esprime nella forma più intrinseca la VI

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connessione che, almeno a partire dalla seconda modernità, si è stretta tra politica e vita biologica. Già in questa intenzione è riconoscibile un deciso passo avanti – o laterale – rispetto al quadro della ricerca filosofica che da circa un decennio ha posto a tema la categoria di biopolitica. Se già sembra manifestarsi qualche interesse per il ‘biodiritto’ (in particolare con gli studi eccellenti di Natalino Irti), dopo quello, ampiamente sviluppato, per la bioetica e la biotecnologia, l’economia in quanto tale non era stata ancora assunta ad oggetto di analisi all’interno di questo orizzonte di senso. Ma proprio perché nuovo ed originale nel suo tema di fondo, il libro della Bazzicalupo non poteva evitare il confronto con le maggiori interpretazioni della biopolitica in circolazione. In realtà, nonostante che il campo cominci ad affollarsi – la stessa autrice aveva fornito materiali e spunti significativi in argomento – lo spazio d’intervento non manca. Come è detto nella prima parte del volume, tale spazio è stato aperto dalla divaricazione, o quantomeno indecisione, presente nello stesso testo foucaultiano tra due assi di discorso apparentemente, e anche di fatto, diversi e giustapposti. Si tratta di due modalità di pensare la biopolitica destinate a non trovare facile conciliazione – al punto da poter essere isolate nella loro assolutezza e radicalizzate anche da programmi di ricerca successivamente nati ed ancora operanti. Per la prima, la biopolitica non fa che ripetere antinomicamente il paradigma mortifero del potere sovrano – scambiando la vita degli uni con la morte degli altri in una forma escludente che trova nel nazismo la sua espressione più sinistra ed insieme efficace. Per la seconda lo stesso termine rimanda ad una potenza della vita sempre eccedente e infine sovversiva rispetto alla forma impositiva del comando politico, ormai esteso e generalizzato in una dimensione imperiale. In realtà nessuno di questi due modelli interpretativi, pure elaborati in modo intelligente e suggestivo da Giorgio Agamben e Antonio Negri, risultava fedele all’architesto foucaultiano – che si era sforzato, invece, di combinare il piano teoretico con quello storico, inclinando ora verso l’uno ora verso l’altro, senza però mai optare definitivamente per uno dei due. È all’interno di questa bipolarità che si è aperto lo spazio di ricerca forse più fruttuoso, teso ad articolare, non dialetticamente ma categorialmente, il polo negativo con quello affermativo secondo passaggi a un tempo filosofici e storici. Appunto a questa terza linea ermeneutica – che ha trovato nella categoria di immunizzazione un VII

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primo strumento analitico – il libro della Bazzicalupo fornisce un contributo importante e innovativo, nel senso che individua proprio nell’economia il punto di articolazione decisivo tra politica e vita. È vero che il concetto di biopolitica implica la caduta delle mediazioni – istituzionali, giuridiche, categoriali – che nella modernità facevano da intercapedine tra le due sfere. Ma è proprio l’enfasi su questa assoluta immediatezza a spingere il paradigma biopolitico sulle polarità estreme cui prima si faceva riferimento, col risultato di desumerne o un dominio pieno ed integrale del potere sulla vita o una prevalenza, altrettanto indeterminata, della vita sul potere. La categoria di economia, come luogo di sovrapposizione privilegiato tra vita e politica, serve ad aprire questa tenaglia proprio perché è, in modo diverso, interna ad entrambe. È interna alla vita perché attiene a quell’insieme di bisogni, necessità, desideri radicati nella costituzione biologica – la vita non è mai del tutto nuda, è sempre in qualche modo ‘formata’, relativa ad un sistema, per quanto primitivo, di incremento. Ed è interna alla politica perché, a differenza di quanto sostennero con argomenti differenti Carl Schmitt e Hannah Arendt, non esiste politica che non lavori su questioni di economia – e ciò tanto più quando si fa compiutamente biopolitica. Come potrebbe rapportarsi al bios – o addirittura fare tutt’uno con esso – se non prendesse in conto e lavorasse sulla categoria, essenzialmente ‘vitale’, di oikonomia? 3. Certo, se politica ed economia s’intrecciano lungo tutto il corso della storia, ciò non significa che esse si identifichino. Come dimostra l’autrice, non bisogna mai perdere il senso delle distinzioni storiche ed anche storico-concettuali. Se nella fase aurorale della formazione dello Stato moderno – nel passaggio dalle guerre di religione a Hobbes – il Politico rivendica un livello di autonomia maggiore rispetto all’Economico, già a partire da Locke, e poi compiutamente nel secolo successivo, i due vettori s’intrecciano sempre più strettamente in un alternarsi incrociato di politicizzazione dell’economia e di economicizzazione della politica. Certo, già in Hobbes l’imperativo primario della conservatio vitae non si riferisce mai ad un orizzonte di semplice sussistenza biologica, ma implica anche la richiesta di un benessere vitale. Tuttavia è solo dopo di lui che la crescita economica della popolazione nel suo complesso comincia a diventare fonte sempre più decisiva di legittimazione politica. L’autriVIII

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ce segue il percorso che dalla ragion di Stato e dai saperi di polizia porta alle teorie economiche vere e proprie, centrate sull’esistenza autonoma del mercato – in parte sulla scorta di Foucault, in parte distaccandosene, laddove i suoi testi, e in particolare i due Corsi recentemente pubblicati su Sécurité, territoire, population e Naissance de la biopolitique, le sembrano offrire meno di quanto promettessero. Non so quanto l’obiezione della Bazzicalupo colga nel segno, quanto cioè la riduzione foucaultiana dell’Economico alle strategie governative – la mancata individuazione di un livello immanente alle dinamiche sociali o alle opzioni individuali – derivi da un residuo di inconsapevole statalismo oppure sia la conseguenza logica di un concetto di governo esso stesso già del tutto immanentizzato nella molteplicità delle pratiche. Sta di fatto che l’analisi da lei proposta risulta convincente non solo nei singoli passaggi, ma nel suo complesso. A renderla tale non sono soltanto le singole osservazioni su autori e scuole – preziose, per esempio, quelle su Schopenhauer, come colui che per primo rompe la sintesi classica di Smith e Ricardo, ‘tradotta’ filosoficamente da Hegel e, in forma ribaltata, da Marx. Ma è soprattutto il quadro generale che ne risulta, ricostruito, come già si diceva, in tutti i suoi chiaroscuri, nei suoi strappi e nelle sue pause, nelle sue deviazioni e nei suoi ritorni. L’andamento è comunque quello che dalla rottura della sintesi di primo Ottocento – della political economy e del pensiero dialettico – perviene inevitabilmente a un nuovo criterio ordinativo, a nuove forme di razionalità, non più oggettive, ma soggettive, affidate, per esempio nella scuola marginalista, ad una volontà capace di ricondurre ad unità artificiale i mille pezzi in cui era andata dispersa la logica classica del valore. Quello che, in questo caso, la Bazzicalupo coglie è il carattere corporeo, e dunque costitutivamente irrazionale, della stessa volontà, come prima Schopenhauer e poi Nietzsche hanno esplicitamente teorizzato. Come può una volontà di per sé irrazionale, innervata nella spinta convulsa dei bisogni e dei desideri, farsi essa stessa criterio ordinativo, capacità di tenuta di qualcosa, l’agire soggettivo, che le sfugge da tutti i lati? Ciò è possibile solo attraverso quei dispositivi di sapere, quelle forme di veridizione, che, secondo Foucault, strutturano contemporaneamente i soggetti e le teorie che essi si danno per legittimare a posteriore i loro comportamenti. La verità è che proprio dal punto di vista della biopolitica – o della bioeconomia – politica ed economia sperimentano l’impossibilità della loro composizione orIX

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ganica: l’una delle due tende sempre a sporgere sull’altra. Nel Novecento, per esempio, a un primo livello di autonomia dell’economia, teorizzato diversamente da Mises, Hayek e Schumpeter, segue una ripresa politica nella fase del New Deal e delle teorie keynesiane, per poi delinearsi, a partire dagli anni Settanta, un nuovo, apparentemente assoluto, primato dell’Economico che ancora oggi in qualche modo viviamo. Quello che l’autrice mette bene in risalto in tutti questi passaggi – insieme in avanti e all’indietro – è l’elemento necessariamente contraddittorio che li accompagna: comunque si mettano le cose, qualsiasi siano gli argomenti adoperati, il sapere economico, più ancora di quello politico, risulta attraversato e sventrato dall’antinomia di voler in qualche modo governare ciò che in radice è ingovernabile – vale a dire gli impulsi, i bisogni, le potenze irresistibili del bios. Perciò è sempre in crisi. È così già all’origine del processo, quando la concretezza empirica del rapporto economico con le cose descritta da Locke, Hutcheson e Hume è contraddetta dal carattere astratto della moneta; è così, ancora, con Schumpeter, quando la figura, da lui esaltata, dell’imprenditore-innovatore entra in contrasto col monetarismo economico; è così, infine, ancora oggi, quando l’assoluto primato del corpo e dei suoi desideri narcisistici rischia di evaporare nel carattere sempre più virtuale delle soddisfazioni – mentre l’attuale creatività del lavoro intellettuale è riafferrata e strumentalizzata dai nuovi dispositivi di mercato. Ogni elemento, ogni termine della bioeconomia, rischia, insomma, di rovesciarsi nel proprio opposto. Questo mi pare il risultato conoscitivo più innovativo e rilevante del saggio della Bazzicalupo. 4. Non vorrei, però, trascurare qualche problema che esso apre – anche questa è la funzione e il risultato dei libri riusciti. Innanzitutto sul rapporto tra biopolitica e bioeconomia. In diversi passaggi l’autrice pare identificarle o almeno sovrapporle in una forma che fa dell’una la prosecuzione, o l’intensificazione, dell’altra. Si è già detto del vantaggio che ne deriva rispetto a una concezione bloccata – sia in senso negativo sia in senso positivo – della biopolitica. Naturalmente, come l’autrice ben sa, c’è però un prezzo da pagare. Che è quello di un allargamento progressivo, e dunque anche di una generalizzazione, della categoria di biopolitica. È vero che nessun ambito, come quello dell’economia, è altrettanto interno, o almeno strettamente collegato, alla politica. L’assunzione, anche da parte di Foucault, del liberaliX

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smo, vale a dire della più influente dottrina economica, nel cuore del regime biopolitico va nella stessa direzione, adesso arricchita e sviluppata in modo originale dal saggio della Bazzicalupo. Resta, tuttavia, una questione, non risolta, sui confini del liberalismo – per esempio nei confronti della democrazia. Essi nel libro appaiono un po’ appannati dall’affermazione che la diffusione della bioeconomia in chiave liberale porta ad una progressiva democratizzazione della biopolitica. Forse, su questo nodo storico-concettuale, converrebbe aprire una riflessione più ampia – a partire dagli stessi stimoli forniti dal presente saggio. Personalmente mi inscrivo nel partito – aperto da Carl Schmitt con finalità ed argomenti molto diversi dai miei – della differenza di sostanza tra liberalismo e democrazia. Nel senso, per dirla qui in breve, che se il liberalismo mi sembra effettivamente interno ad una specifica modalità della biopolitica, non è così per la democrazia, almeno nella sua formulazione classica. La democrazia – col suo principio numerico ed egualitario del voto, con il suo riferimento incorporeo al soggetto astratto di diritto – è, almeno in punto di principio, il contrario della biopolitica. Anche se non è inimmaginabile lavorare – io stesso sto cercando di farlo – ad una nozione di democrazia biopolitica o di biopolitica democratica. Ma questo tentativo passa per lo smontaggio radicale di tutti i presupposti concettuale della democrazia moderna. Un’osservazione analoga, ma ancora più marcata, si può fare sull’altra modalità novecentesca della biopolitica, che è quella arrivata ai suoi esiti più parossistici col nazismo. Dico col nazismo, e non con il totalitarismo, perché questo è esattamente il punto che va posto in discussione. Il paradigma di biopolitica non soltanto non è assimilabile, ma è in contrasto frontale con quello di totalitarismo, perché il primo prevede una netta differenziazione lessicale tra nazismo e comunismo, mentre il secondo la nega. È vero che lo stesso Foucault ha sostenuto – invero in rare occasioni e in maniera piuttosto affrettata – la natura bipolitica del socialismo, rintracciandovi una improbabile componente razzista. Ma ha potuto farlo solo in contraddizione con i presupposti stessi del proprio discorso. Tutti i crimini si possono, e si debbono, imputare al comunismo, ma francamente non quello di razzismo – basti guardare alla composizione etnica dell’Unione Sovietica. Con ciò non si vuol sostenere che il comunismo era più ‘avanti’ del nazismo – al contrario, era ancora legato ad una propaggine della filosofia della storia moderna che il seXI

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condo si era drasticamente lasciato alle spalle in nome dell’assoluta differenza razziale dei corpi. Ma appunto perciò resta molto problematico inscrivere il socialismo – un’ideologia, comunque sia stata realizzata, dell’assoluta uguaglianza – nella cornice differenziale della biopolitica. È vero che l’attenzione puntata sull’economia apre, anche nell’orizzonte ermeneutico della biopolitica, un interrogativo nuovo sul carattere del socialismo. Tutto sta a decidere se esso – ma bisognerebbe distinguere al suo interno varie fasi – sia stato più una forma economica o una forma politica, un’economicizzazione della politica o una politicizzazione dell’economia. Io propendo per questa seconda ipotesi, ma mi rendo conto del fatto che si possa, con altrettanti argomenti, sostenere la prima. In questo caso, allora, molte delle tesi affacciate nel libro, per esempio sul marxismo, acquistano nuova forza. La verità è che se non si perviene ad una più ferma definizione di biopolitica, resta difficile valutare quali forme politiche – o economiche – moderne e contemporanee le siano congeniali. Proprio in questa direzione il libro che segue dà un contributo di particolare valore. Non solo in ordine alle risposte che formula, ma anche alle domande che pone.

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Il governo delle vite Biopolitica ed economia

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Introduzione*

1. Biopolitica ed economia Questo saggio muove dall’ipotesi che il paradigma biopolitico possa contribuire a cogliere la dimensione e lo spessore di quel governo quotidiano e pervasivo delle nostre vite che è l’economia. Il paradigma biopolitico – biopolitica è una parola che si sente sempre più spesso – deve sottrarsi a una genericità che ne compromette l’uso. Da una parte l’abuso del termine indica l’esistenza di fenomeni leggibili solo con una terminologia nuova, dall’altra questo stesso abuso svuota di intellegibilità la parola stessa. Naturalmente non c’è da farsi illusioni: la fortuna di un termine è legata appunto alla sua capacità di peregrinare da un evento all’altro catturando l’esigenza di metterne a fuoco il significato in modo nuovo, sottolineando, in questo caso, l’implicazione vitale che il vecchio lessico occultava. E l’implicazione vitale è appunto quel bios, la vita, che la nuova parola porta dentro di sé: quanto di più sfuggente, generico, indeterminabile. Non stupisce che essa si offra a letture diverse, che hanno in comune il negativo della definizione: le forme e le mediazioni che si lasciano sfuggire il senso degli eventi.

* Desidero ringraziare vivamente Roberto Esposito, che ha incoraggiato e seguito la pubblicazione di questo lavoro con amichevole sollecitudine e sapienza. Grazie a Simona Forti, Nello Preterossi e Davide Tarizzo, che hanno letto il saggio e offerto preziosi suggerimenti, anche se ovviamente resto la sola responsabile di quanto scritto. Con gli amici del laboratorio Kelsen non si salda il debito che nasce dallo stimolante e appassionato scambio di opinioni e dalla intesa solidale. Questo libro è per Alfonso Catania: come lui sa, il per è causale e finale al tempo stesso.

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Ancora una volta la famigerata contrapposizione vita-forma? È comprensibile la diffidenza di quanti temono l’ondata di fumose filosofie della vita che, soprattutto nell’area del politico, azzerano pericolosamente il faticoso cammino dei diritti, il luogo stesso della politica come mediazione, lo spazio pubblico del discorso dove si adducono argomentazioni razionali a sostegno di tesi confrontabili. Quando ne va della vita, si entra nel regno della necessità non negoziabile, tutti i ma e i se vengono messi a tacere. Va detto dunque, preliminarmente, che coloro che parlano di biopolitica sono in gran parte impegnati a mostrare gli esiti di questa deriva verso la necessità, che chiude gli spiragli della mediazione; e a rendere espliciti, al di sotto del tessuto di relazioni formalmente ancora vigenti, un profondo cambiamento del potere che fa presa diretta sulla vita modificandola, e, reciprocamente, una trasformazione della vita che solleva pretese sul potere e a sua volta ne modifica la logica, la legittimazione, i fini. Si sottolinea la dimensione estesiologica – l’area del sentire da cui l’estetica prende nome, cioè l’ambito della sensibilità, dell’affettività, dell’emozionalità, fino alla fisiologia delle sensazioni – tono dominante della nostra epoca che, in una realtà planetaria caratterizzata dall’esplosione di differenze, lascia venire a galla quell’elemento biologico, corporeo, quella vulnerabilità che ci accomuna e che è segno della svolta in senso «umano-generico» dell’universalismo illuminista. Insomma la biopolitica non è una scelta di filosofi in cerca di cose nuove, magari più stimolanti. Ma è pensiero/sguardo che, nel tessuto degli eventi, mette a fuoco la attuale tonalità e cerca di seguirne la trama: l’orientamento dello sguardo costituisce l’oggetto. Ora, l’uso recente della parola mostra un importante cambiamento di prospettiva. Solo una genealogia dei dispositivi biopolitici – come proposta da Michel Foucault – può evidenziare gli slittamenti che ha subìto la questione politica del bios e quali siano i tratti di un governo della vita, quali di questi generino positive possibilità di vita e/o rischiose dinamiche di potere. È possibile forse tracciare un percorso parallelo all’autorappresentazione tradizionale del moderno: un percorso noto, ma poco frequentato a causa della esibita separazione artificiale di pubblico e privato, economia e politica, religione e Stato. Non è solo il liberalismo a essere legato a filo doppio alla biopolitica, ma anche la democrazia appare profondamente coinvolta nei suoi processi costitutivi. Fin dalla sua origine es4 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sa incorpora un elemento biologico. La stessa idea di nazione, non solo etimologicamente derivata da quella di nascita, e dunque di «vita», è chiamata a legittimare la democrazia. Ma a sua volta la democrazia, bisognosa di consenso «generale», è destinata al Welfare State e fonda la propria legittimazione inevitabilmente sulla protezione e promozione della vita: dunque seleziona, gerarchizza, gestisce in modo includente-escludente le vite. Come si vede, le due categorie chiave della nostra cultura politica, sia il liberalismo (per la relazione che crea tra libertà e sicurezza, tra pubblico e privato, in nome dell’economia) sia la democrazia (tanto per il momento identitario nascita-nazione, che per il consenso di massa sulla questione sociale e sul tema del benessere) sono legate pragmaticamente, anche se non esplicitamente, alla centralità del concetto di vita. Infine, anche e forse soprattutto il socialismo, che ha mosso per primo il grande attacco al formalismo delle libertà e dei diritti liberali, rivendicando la centralità strutturale dell’economia nel moderno, rimanda ad una gestione biopolitica, oblativa delle vite, pur se attraverso un discorso povero e statico sul nodo vita-potere: riduce infatti la complessità dei bisogni-desideri, non riconosce fino in fondo la valenza simbolica e dunque culturale e identitaria dell’economico, si riferisce insistentemente ad una situazione di scarsità che induce meccanismi deterministici di necessità e quindi rinuncia troppo facilmente, almeno nella vulgata storica del marxismo, alla tensione tra gestione governamentale e partecipazione politica. Da tale vulgata si rovesciano sullo Stato sociale tutti i riduzionismi che rendono meccanico il rapporto tra regimi di sapere e di potere e dunque aprono le contraddizioni che hanno avvolto le sue forme di realizzazione storica ad est di Berlino. Come si vede, la prospettiva biopolitica non può dirsi solo contemporanea. Essa segue il percorso della modernità più o meno sottotraccia, mentre le autorappresentazioni filosofico-politiche, giuridiche ed economiche formalizzano gli attori della scena, rendendo così possibile le grandi sintesi politiche e filosofiche, o meglio filosofico-politiche che, nella cosiddetta modernità classica, hanno ordinato e reso pensabile la vita sociale. Già, perché quello della vita è tema «disordinante» della percezione della vita incarnata, dei singoli corpi che avvertono di essere vivi. E non a caso è nella grande crisi che investe i sistemi idealistici e marx-positivisti, nella crisi delle sintesi universali e astratte che, in modi diversi, si afferma la rivendicazione dei singoli, delle singole vi5 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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te riottose ad essere sussunte nelle grandi mediazioni politiche e economiche: lo Stato innanzitutto, ma anche la classe, il partito, il sindacato. La vita come soglia del non dicibile, sottesa ad ogni forma di vita politica, preme ai margini delle istituzioni e degli status, cercando nuove e complesse espressioni che non erano previste. Il nesso vitapotere, cioè l’emergenza di corpi singolari-plurali alienati in un «senso» e in un ordine, è continuamente riscritto e l’economico – che esplicita, raccoglie e organizza tutta una ampia sezione del vivente – ha anch’esso un ruolo sempre riformulato, a sua volta facendo da mediazione tra quei corpi e l’ulteriore alienazione del politico. Quale ruolo aveva l’economia e quale ha oggi? Cosa c’entra con la vita e il suo governo? Ecco la domanda da cui questo libro nasce e cui cerca di rispondere mettendo allo scoperto alcune nervature semantiche, alcuni vettori di senso ancora parzialmente coperti o indeterminati. La sfera dell’economico si presenta direttamente come innestata sulla vita: se la vita si percepisce incarnata singolarmente, è così perché si sente la fame, la sete, la stanchezza, la paura. Una teoria dei bisogni, come perno della incondizionatezza della vita, sta dietro ad ogni economica, che, da questa radice naturalistica e vitalistica ricava un’aura di necessità, un vincolo, un elemento di determinazione. Anche se non si può parlare di questi bisogni – la fame, per esempio – in senso assoluto, in quanto la percezione è sempre mediata da rappresentazioni psico-culturali: è in questo iato tra la sensazione organica e la mediazione culturale che si innestano i sistemi di sapere e di potere. A partire da quel sentire, da quello stimolo, si mette in moto un agire orientato alla soddisfazione delle esigenze, da quelle naturali a quelle sempre più complesse. Questo campo «prasseologico», orientato all’azione produttiva, è l’economia: teoria delle condizioni di produzione e distribuzione degli elementi materiali e non, funzionali al vivente e prassi funzionale alla vita. Ci sono dunque molti temi che la tradizione liberale e la sua filosofia politica avevano accantonato (e in questo modo anche protetto dalla politica e dalla sua decisione innaturale), attraverso la separazione pubblico/privato, concreto-particolare/astratto-universale, che vanno recuperati da un occultamento epocale: temi che oggi si fanno urgenti e che infatti autori e gruppi non omologabili al pensiero ormai globale mettono in campo: il privato, l’incarnato, il particolare, il sensibile, il quotidiano. Nessuna mitizzazione della loro autenticità contrapposta al formalismo, ma – e questo vale soprat6 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tutto per il tema scelto per questo saggio, l’economico – occorre analizzare senza pregiudizi la dinamica interna di queste istanze vitali e i regimi di potere che le attraversano. Occorre indagarne i dispositivi di persuasione, favoriti dall’aura di necessità che accompagna tanto i discorsi sulla vita quanto quelli sulla scienza economica. È ragionevole espungere, come fa Hannah Arendt, economico e privato dall’agenda politica, con l’argomento che si tratta di dominii minacciati dalla necessità, eterogenei all’orizzonte del binomio di potere-libertà, o è possibile scoprire il carattere politicamente strategico (ma strategico è un altro modo di dire economico) anche del polo che abbiamo appena definito come vitale, naturale? Si tratta di vedere se, assodata la politicità della polarità stessa, sia possibile inserirvi più politica, più decisione, più scelta, più iniziativa, essendo consapevoli che la governamentalità biopolitica getta un’ombra su ognuna di queste parole chiave della cultura occidentale: quello che conta, insomma, è contestare o quantomeno problematizzare quell’aura destinale che avvolge la semantica della vita. Quest’aura destinale si è accentuata soprattutto dopo la rovina del comunismo reale (della soluzione alternativa che esso intendeva fornire al tema dell’economia/produzione/lavoro/bisogni, ma fondandola, in ultima analisi, sugli stessi presupposti oggettivi dell’economia classica e dunque subordinandola alla medesima determinazione sintetica, sia pure di segno rovesciato) in una scena planetaria ormai totalmente occupata dal mercato. 2. Ambivalenze dell’economia Ogni biopolitica è un’economia. Ogni volta che il potere, secondo la famosa espressione di Foucault, «prende per oggetto la vita», assume una economia della salvezza. Cosa significa? Significa che la prospettiva di un potere che ha uno scopo esterno che lo legittima – uno scopo che, per porsi esplicitamente, non può non essere quello della salvezza, in tutta l’ampiezza del termine: la salute, il benessere, la vita e il suo accrescimento – implica l’adozione della logica o economica che lo rende efficace, adatto alla modalità immanente alla vita stessa che lo prende in carico. L’economia rappresenta, dunque, il progetto di salvezza e la sua messa in pratica nella forma di un sapere/potere che gestisce la vita e la produtti7 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vità con fini esterni al potere e immanenti alla cosa stessa che così viene gestita. Sarà possibile un giorno scrivere una storia del mistero dell’economia, di come, cioè, la vita e il governo della vita si siano rivelati sempre più un’economica piuttosto che una politica? È certo che nella storia della nostra cultura e nella storia della politica occidentale un paradigma economico essenzialmente gestionale e non normativo, adattivo e suscettibile d’eccezione, si è opposto e incrociato ad un paradigma politico la cui derivazione, secolarizzata dalla teologia, è più esplicita. L’economia è stata a lungo intesa come spoliticizzazione: il paradigma politico, che trova nella formulazione schmittiana, identitaria, e dunque nella ripresa del modello hobbesiano, una esplicitazione forte, fa perno sull’autoreferenzialità del politico e dunque del potere. La stessa formula della «teologia politica», con la secolarizzazione della creazione divina nella decisione sovrana che pone l’esistenza della comunità politica, appare estranea all’economico, al suo modello di insorgenza spontanea e evolutiva, rispetto a cui lo stesso Carl Schmitt mostrava diffidenza, individuandovi la dissoluzione della politica. Ma anche Hannah Arendt, da un punto di vista diametralmente opposto, antistatalista, giungeva alla stessa diffidenza e estraneità: la politica intesa come partecipazione, come potere condiviso dei molti, è estranea all’economia e si indebolisce quando quest’ultima esorbita dal cerchio chiuso del privato in cui era confinata nella classicità e invade la sfera pubblica, snaturandola in quell’ibrido che è la società. Con l’economia – ma anche, più radicalmente, con la questione sociale che segna la prevalenza delle esigenze biologiche sui temi della «forma» politica – bisogni non negoziabili, pulsioni necessarie, dinamiche di diseguaglianza e soprattutto obiettivi originariamente estranei alla politica stessa ne occupano lo spazio: da quel momento, il fine – un fine che non può che essere vitale, materiale, biologico – soverchia la dinamica della polis, vincolando le decisioni ad essere efficaci, non libere. Ma anche il Leviatano schmittiano è minacciato da questa finalità che lo riduce a tecnica. Anche quando la rifiuta, il linguaggio della politica è chiamato a giustificarsi con gli argomenti dell’economia, proprio perché vige un’economia della salvezza, del benessere. Tale antinomia rimanda evidentemente ad un doppio significato del termine economia. Quando diciamo che il potere sulla vita viene 8 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gestito secondo un’economia di salvezza, o, secolarizzando l’espressione, un’economia di benessere, intendiamo riferirci alla gestione armonica, saggia, opportuna, adeguata delle parti, dei diversi ruoli nella realizzazione del complesso di un’opera, di un progetto. È rilevante un senso, una direzione significativa del progetto, un’intenzione che si può esplicare meglio o peggio a seconda che si tenga conto della normatività interna di ciò che viene gestito: l’umanità nel suo insieme, la piena realizzazione dell’uomo secondo una verità, o una scienza, che guida e orienta il governo. Laddove l’agire politico arendtiano appariva nella sua libertà come iniziativa che rivela chi la compie (politica discorsiva, il cui valore era nell’essere agita e non in ciò che produceva), laddove anche la politica schmittiana assumeva legittimità nell’atto stesso del dare origine all’esistenza di un popolo e solo in subordine alla sua sopravvivenza materiale, l’attuale politica della vita non si ferma ad una dichiarazione enunciativa, ad un agire performativo, ma persegue un fine, scegliendo mezzi adeguati a conseguirlo in modo efficace. La sua azione è un comportamento volontario, come dice Mises, «l’azione è volontà messa in atto e trasformata in azione, il suo tendere a scopi e fini è la risposta significativa dell’io agli stimoli e alle condizioni del proprio ambiente, è adattamento cosciente di una persona allo stato dell’universo che determina la sua vita»1: la sua razionalità sta nella adeguatezza allo scopo che si prefigge. È ovvio, a questo punto, che non c’è stata politica nella nostra storia che non sia stata anche governo subordinato ad un’economia dei fini; non c’è stata politica che non sia stata biopolitica. È difficile districare i momenti, perché la biopolitica non è che una prospettiva, un modo di guardare le cose da una certa angolatura. Certo in questa tarda modernità, a partire dal Novecento, l’orientamento biopolitico si è fatto più forte, le sintesi politiche sono meno credibili o solo volontaristicamente affermate: è come se la genericità della vita, che non richiede idealizzazioni, prendesse il sopravvento. Da quel momento l’economia è divenuta il perno della legittimazione. La stessa economia di salvezza, un piano di salvezza che ha percorso e percorre tuttora la storia occidentale (si pensi oggi alla sindrome da salvatori del mondo dei teocons americani), è divenuta prevaricante. La logica economica, intesa come ottimizzazione dei costi, risposta adeguata al fine, si estende potentemente dall’oggetto specifico dell’economia – la produzione, il consumo, gli scambi – al9 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la modalità della vita tutta, investe le scelte di salute, che sono subordinate non a principi di solidarietà, ma alle disponibilità di spesa, orienta le scelte del sapere e della ricerca, quelle della previdenza futura. È una dinamica irresistibile che non ammette obiezioni: il suo esito è semplicemente ovvio. È un dato: non va discusso. La duplicità di senso del termine economia – modalità di gestione finalizzata e adeguata allo scopo e campo delle relazioni produttive e distributive degli uomini con le cose e, tramite le cose, tra loro – si riduce, con una conseguenza paradossale: l’assolutizzazione del fine estrinseco, così come avviene con la tecnica, sorella gemella dell’economia, svincola l’economia-modalità da ogni connessione con l’esterno e, esattamente come avviene nell’economia-attività, essa diviene autoreferenziale, funzionale a se stessa. Quando faremo cenno alle teorie sociobiologiche comportamentiste, vedremo che la loro aderenza alla totalità autoreferenziale del sistema è esattamente intesa come ottimizzazione dei comportamenti umani in rapporto al sistema produttivo-distributivo, evidentemente divenuto fine a se stesso. La dimensione della scelta politica si stringe, come prevedeva Hannah Arendt, soffocata più che dalle necessità della vita e dei bisogni naturali, da quelle di un’economia ormai dotata di potere ultimativo sulla vita. Questa deriva manifesta oggi un’accelerazione potente dopo un periodo, quello dei «trenta gloriosi» seguiti alla seconda guerra mondiale, di apparente equilibrio. Si era vista allora l’affermazione senza precedenti dello Stato democratico, insieme protettore e organizzatore delle istanze sociali, riproposizione volontaristica e compensativa dell’ordine politico solidale dopo lo sfacelo della guerra. Sembrava che valori politici occidentali e andamento del mondo procedessero in armonia. A partire dalla crisi degli anni Settanta, la fede nell’impulso politico e statale che si accordava al ritmo della vita, la fede nel governo oblativo delle vite vengono meno, soppiantate dal ritorno della visione liberale della regolazione automatica del mercato. I profili economici del fenomeno sono stati macroscopici: il mondo anglosassone e quello americano, negli anni Settanta-Ottanta, li hanno espressi attraverso la deregolamentazione aggressiva delle amministrazioni Thatcher e Reagan. Dieci anni dopo, la caduta del muro di Berlino ha reso esplicita la rotta incondizionata delle economie dirigiste e collettivizzate, l’emergenza di nuovi capitalismi, l’ingresso dell’ex Terzo Mondo (Brasile, India, Cina) nel gioco degli scambi, 10 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cioè l’unificazione del mondo intero sotto il segno del mercato. L’economia accresce esponenzialmente la propria influenza nella determinazione delle vite e nella strutturazione della società proprio mentre si assiste ad una disarticolazione dell’autorità politica. Sono fatti assai noti, e li ricordo solo perché è indispensabile visualizzare lo scenario in cui si colloca l’ultimo displacement: una mutazione globale che riguarda il mercato economico, ma anche i sistemi politici e l’organizzazione sociale con il complesso di credenze e di regimi di verità che ne condizionano le scelte e ne costruiscono le nuove soggettività. Tramonta il grande movimento solidaristico e la potente strutturazione sociale di diritti e di istituzioni attraverso cui ci si era impegnati a governare, a controllare politicamente gli effetti corrosivi della rivoluzione industriale. Non si può escludere che lo stesso Welfare – governo politico delle vite – esplicitando la natura paradossale del rapporto protezione-libertà, abbia favorito le condizioni per una spinta ulteriore in direzione della liberalizzazione, secondo un’eterogenesi dei fini che vede le energie precedentemente orientate rendersi attive autonomamente, e le risorse, accumulate in termini di sicurezza e diritti acquisiti, indirizzarsi al potenziamento di vite estremamente individualizzate. La spinta centrifuga neoliberale ed economicista, che mina la legittimazione di una gestione protezionista e sociale delle vite, ha il supporto potente che ha accompagnato sempre l’economia nel moderno, vale a dire una tecnica sdoppiata nel binomio informazionecomunicazione. Una tecnologia che a sua volta accentua la deterritorializzazione del potere economico già segnata dalla smaterializzazione dell’economia finanziaria e dunque sempre più sfuggente alla presa territoriale delle regole, del controllo democratico. D’altra parte la sovrapposizione del momento politico e di quello economico, privati di un potente schema di articolazione e di sintesi, è tale da rendere assai arduo districarli, tanto più che sono intesi nella loro strutturale triangolazione con la tecnoscienza. Il dominio attuale dell’economia non rivela soltanto il trionfo della gestione spoliticizzata, pragmatica, che è proprio del dispositivo economico rispetto al carattere ontologico della politica. Esso metabolizza le stesse spinte identitarie, comunitarie – politiche per antonomasia – restituendole nella forma omogenea della relazione economica saldamente intrecciate al fine intrinseco che ha in comune con l’inquieto demone della tecnica: l’eudaimonia2. La tecnoscienza 11 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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presiede tanto alla produttività capitalistica, inducendo fenomeni di deterritorializzazione e di astrazione, quanto alla politica, anch’essa tecnicizzata, indirizzata a quel fine che costituisce l’unica indiscussa fonte di legittimazione, l’eudaimonia, il vivere bene, il ben-essere. La silhouette del tecnoscienziato sfuma in quella dell’imprenditore, che, a sua volta, mostra il piglio direttivo e decisionale del politico, finché tutte e tre si dissolvono in una evanescenza mediatica. Il triplice vincolo che così si determina (politico, tecnico/scientifico, economico) resta però confuso e contraddittorio. Questa contraddizione si manifesta anche nella doppiezza, insieme concreta e astratta, dell’economia. Nel lessico economico di questa tarda modernità rifluiscono e confliggono in misura inaudita la nuova centralità del corpo e delle sue «ragioni», la sensibilità, la paticità, la singolarità, la estetizzazione spettacolare dell’esperienza, luoghi tutti della manipolazione del potere sui corpi, tanto più intensa e capillare quanto più questi ultimi rivendicano attivamente soddisfazione, consumo, godimento, creatività. Ma, intanto, il danaro e i suoi derivati sono sempre più eterei, impalpabili; prevale la finanza sulla produttività e il lavoro astratto, relazionale su quello manuale, poietico, operaio. Smaterializzazione che si estende alla realtà tutta, ai beni, agli oggetti, alle merci ormai evanescenti e caduche chiamate paradossalmente a saturare proprio quella richiesta imperiosa di materia, di vita, e tanto più alle relazioni «immateriali» di per sé sottratte alla concretezza sociale. Vale la pena soffermarsi con maggiore concentrazione sul paradosso che nasce dal doppio significato del termine economia, inteso sia come ciò che è funzionale alla vita, sia come sua incrementazione produttiva. Qualcosa di profondo tiene insieme le tre forme dell’agire che invano si tenta di districare e che nella composizione attuale delle dinamiche sociali, si impongono come fattualità inderogabile, essendo sparita ogni legittimità delle potenze che le contraddicevano. Tutte e tre queste energie – l’individualismo differenziale/conformista dell’homo democraticus, l’ossessione acquisitiva dell’imprenditore, l’innovazione trasformativa della scienza – sono anche sradicamento dal luogo, dall’ethos condiviso, dalla casa3. È ancora Hannah Arendt ad aver intuito la connessione tra sradicamento moderno, alienazione dal mondo comune e carattere demiurgico dell’homo faber: ma l’eudaimonia che costituisce la meta, il senso di quell’esodo 12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dall’insoddisfacente presente, complica le cose. La destabilizzazione ossessiva propria di quel triangolo moderno/occidentale di energie contraddice la logica, il tempo e il luogo di quel «godere» che è l’eudaimonia – il sentirsi soddisfatti, sazi, pacificati, protetti dalle regole – cui tutte e tre le attività mirano. Nella realtà premoderna i poteri erano codificati, i corpi radicati nei confini che li contenevano e nelle forme di soddisfacimento consentiti dall’orizzonte comune in cui erano inseriti. Nella modernità si determina il movimento incessante dei flussi, irriducibili allo status tradizionale: «Flussi di proprietà che si vendono, flussi di danaro che scorre, flussi di produzione che si preparano nell’ombra, flussi di lavoratori che si deterritorializzano»4. L’ossessione del progresso tecnologico, incessante, mai stabile, manifesta la sottrazione al legame, al costume, all’ethos, e al contempo allarga la curvatura economica dell’agire produttivo e mercantile, quella curvatura economica del benessere che la democrazia assume come vero luogo del consenso. La figura del polites democratico, attraverso la sua passione egualitaria antiautoritaria, come Tocqueville ha intuito, ha nel suo destino l’inevitabile omologazione sulla soglia biologica in grado di fondare stabilmente la felicità materiale. Governo democratico e sapere tecnico si fondono con l’orientamento cremastico, incrementativo dell’economia moderna che rappresenta il vero nonluogo, il vero effetto di deterritorializzazione che investe l’esperienza attuale. «Allora il merito dell’Occidente, bloccato sul suo angusto capo d’Asia, sarebbe stato di aver avuto bisogno del mondo, di aver bisogno di uscire di casa propria?»5. Ma deterritorializzazione, alienazione dal mondo, spinta astraente sono tutte forme che rendono impossibile proprio quella felicità, quel bene-stare che ne era lo scopo. Dunque uno strano destino è racchiuso in quella parola oikonomia, che nell’oikos, nella casa, porta la promessa dell’eudaimonia, dello stare-bene, della felicità, del benessere materiale, sensibile e corporeo. E che si lancia invece in una continua mobilitazione sradicante, brucia il presente, astrae dalle relazioni concrete, come un pungolo incessante a non contentarsi di ciò che si possiede, a lasciare i luoghi e gli spazi della casa, la sua protezione e ad affidarsi all’insonne sapere scientifico e tecnico. Per avere di più. Possono servirci ancora le parole apodittiche di Mises, prive peraltro di qualsiasi aura neoromantica: 13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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L’uomo attivo è desideroso di sostituire uno stato di cose più soddisfacente ad uno che lo è di meno. La sua mente immagina condizioni che meglio gli si confanno; e la sua ragione tende a realizzare questo stato desiderato. L’incentivo che costringe l’uomo ad agire è sempre una certa inquietudine [...] Ma l’insoddisfazione e l’immagine di uno stato più soddisfacente non sono da soli sufficienti per fare agire un uomo. Una terza condizione è richiesta: l’attesa che un comportamento intenzionale rimuova o almeno allevii la sentita insoddisfazione6.

Volutamente naïf nel suo puntiglioso descrittivismo, Mises raccorda l’azione dell’uomo, che per essere generico è uguale a tutti gli altri, tocquevillianamente democratico, alla finalità economica, alla richiesta tecnica di perfettibilità che sottomette l’azione alla razionalità strategica, dunque ancora economica. È qui che si annoda, in maniera antinomica ma ineludibile, il nesso, cui si faceva riferimento, delle tre forme dell’agire. La modernità disarticola la gerarchia tradizionale che reggeva i luoghi e la casa, iscrivendo sui corpi obblighi e piaceri. E dà rilievo a ciò che rende tutti gli uomini eguali, non alla sacertà della discendenza, ma al corpo di cui si liberano poteri e desideri, in una corsa che ogni volta si sottrae alla meta raggiunta e dunque ai legami, agli obblighi che vi si formano. Teorie come quella di Locke, apparentemente così sobrie, corrette, che del contratto evidenziano la capacità di scambiare beni con reciproca soddisfazione, possono celare un cuore biopolitico oscuro e destabilizzante, una teleologia irrisolta. Ma la fine della corsa, lo scopo, è sempre quello racchiuso nel nomen: l’oikos, l’eudaimonia della casa, la felicità dello stare, il godimento che satura il bisogno. È su questa curiosa contraddizione di due logiche diverse in atto nell’economico, due logiche e due temporalità che non possono trovare pace se non momentanea, che vogliamo concentrare l’attenzione. Sono logiche contraddittorie. La prima radice è nel corpo, nella sua costitutiva apertura e tensione che anela al compimento: dunque nel bisogno o nel desiderio, l’ambigua coppia gemellare, di cui vorremmo sciogliere l’abbraccio, mettendo a fuoco la relazione simbolica, con gli oggetti o con l’Altro, sotto le cui forche caudine è condannata a passare. Ma se il bisogno/desiderio di oikos è radice, il suo essere agito è de-stabilizzante, è sradicante, deterritorializza. Il radicamento dell’agire economico in un bios, un esse, configurato come coppia biso14 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gni-desideri, esibisce subito una situazione di double bind, di necessità che non si può soddisfare. Il bisogno, e tanto più il desiderio, sono moventi dell’agire, muovono verso una direzione allontanandosi da uno stato, un luogo di mancanza e di pena. Il loro oggetto, la loro soddisfazione è un ritorno presso di sé, un ritorno a casa, sazio: ci si allontana dunque ma sognando la casa. Per risolvere questa aporia, Hegel disegna il percorso di «toglimento», di superamento del bisogno, del corpo in una casa più alta, che armonicamente contenga l’esodo, la crescita, il ritorno. Ma la sintesi non si dà nella realtà; bisogni, lavoro, produzione non si tolgono e non si sublimano: restano in frammenti che si ripetono e si inseguono senza sosta. Il coincidere dei bisogni con la percezione che la vita ha di sé, sempre di nuovo li conduce a muoversi finchè si vive e a sperare di stare. La struttura originaria del bisogno e del desiderio resta deterritorializzante, insonne e in-quieta richiesta di soddisfazione, di quiete, dunque di casa. Questa tensione appare irrisolvibile e solleva un’ombra depressiva sull’intera civiltà occidentale: cinetica ricerca di eudaimonia e impossibilità di felicità. E questa contraddizione raggiunge lo spasimo oggi, quando sulla scena planetaria le forze centrifughe sono lanciate all’inseguimento di sempre più felicità, sempre più benessere, guidate dalla tecnica che è destinata a fare tutto quanto si può fare. Oggi, allorché la promessa si volge a uomini che sono interni a regimi di verità che, in modo diverso e da diverse angolature, affermano la piena immanenza del valore della vita e della vita affermano la singolarità, l’individualizzazione, l’assoluto autocontrollo. Da una parte corpi, vite nella pienezza della loro totale legittimità, esposte ad una radicale secolarizzazione che nella crescita del sapere tecnologico e nella promessa di benessere conferisce al potere la sola legittimazione possibile. Dall’altra parte lo svuotamento, la deterritorializzazione, l’astrazione che questa stessa spinta tecnicoeconomica imprime alle vite, rendendo evanescenti, non vive, sommamente astratte le relazioni sociali e le soddisfazioni consumistiche che si offrono a uomini in tutto coincidenti con la falda biologica dei loro corpi. Se la forma-Stato aveva mediato a lungo tale tensione con la promessa di una legge, di una istituzione che rispondesse alla spinta all’eudaimonia attraverso una comunità solidale e si era fatta carico del governo biopolitico delle vite orientandole ad una sintesi di sen15 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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so, l’altra potenza decisiva, quella economica, assorbe ora in sé tutte le mediazioni e le attività, imprimendo una spinta centrifuga a ogni progetto, sforando il luogo, il territorio della casa e dello Stato e oltrepassandone i limiti, le forme con la sua potenza sradicante. Rischiando dunque che la legge che le è immanente, vale a dire, quella di operare strategicamente per soddisfare i corpi, le vite, venga tradita dalla stessa potenza esclusiva del mezzo di cui ci si serve. L’oikos è perduto. Non nel senso che la dimensione privata dell’individuo non sia esattamente quella che trionfa: il corpo e il suo godimento, che sono quanto di più privato ci sia, oggi, non si contrappongono in nessun caso al pubblico inteso come interesse comune, o come sublimazione sacrificale dell’individuo alla collettività. Oggi l’idiotes, il privato i cui bisogni, i cui istinti hanno scompaginato la stabilità della triade moderna, sono l’imperativo imposto al politico, assieme ad una radicale depoliticizzazione della vita sociale gestita e amministrata dall’economico. Ma l’oikos conteneva e contiene la promessa di bene-stare, di durata, di sentirsi a casa. E invece l’economia, che di quella promessa si è assunta l’impegno, pur continuando a gestire uomini ridotti alla falda biologica della vita e del corpo, sembra seguire in modo paradossale la deriva astraente del politico. La vita, il benessere, il godimento delle potenzialità biologicamente iscritte nei corpi, come bisogno e desiderio – questo scopo materiale, triviale o geniale della nostra civiltà – non vengono raggiunti nella corsa affannosa: al contrario, assistiamo alla proibizione, al dilazionamento della meta, alla scomparsa dell’oscuro oggetto del desiderio e alla morte del desiderio stesso. 3. Di questo saggio L’economia è dunque elemento costitutivo della prospettiva biopolitica, di cui disvela la logica, la modalità di esercizio che si dispiega in modo diverso dalla sua autorappresentazione formale. Ed è anche oggetto privilegiato della biopolitica stessa, in quanto attività produttiva e di consumo che coinvolge e governa i corpi viventi. Lo è stata sin dal principio della modernità, offrendosi al potere governamentale o contrastando la governamentalità statale e assumendo una azione diretta sulle vite umane, e lo è oggi in forma nuova, assai più decentrata e assai più direttamente implicata nei corpi oggetto 16 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dei dispositivi di potere, che ambiguamente mostrano quegli stessi corpi come soggetti attivi di un potere produttivo. Il primo capitolo di questo saggio è dedicato alla dimensione governamentale dell’economia: la logica economica si rivela strettamente connessa alla gestione biopolitica della vita. All’interno del concetto-limite della vita, margine non-dicibile di ogni forma, percepito e evocato in una pretesa immediatezza, si apre una differenza, una distanza instabile tra la fatticità e la possibilità implicita nel fatto stesso. E in questa forbice aperta nel vivente tra essere e poter essere che si inserisce l’operari, economico e politico, agito da un potere a sua volta vitale, dall’interno stesso di quel vivente e secondo una logica che si suppone immanente ad esso. È dunque necessaria una ricognizione preliminare sul dispositivo biopolitico che trapassa gli schermi, pure importantissimi, fin quando ci sono, dei diritti, delle istituzioni, delle mediazioni. Solo dopo aver sondato le ambiguità del governo biopolitico dell’economia che oscilla tra Stato-provvidenza e gestione sociobiologica e comportamentista delle condotte, l’analisi si sposterà su tempi e stadi della bioeconomia attuale e dei dispositivi economici che si istallano in modo sempre più diretto sui corpi concreti. Salvo poi accertare che anche quella concretezza sottostante (un tempo si sarebbe detto strutturale) passa attraverso regimi di sapere, assetti di verità, che si dicono iuxta natura e sono invece politici. Un posto centrale in questa ricognizione spetta ovviamente all’opera di Foucault, che offre una preziosa genealogia delle pratiche biopolitiche in cui emerge l’uso strategico della logica economica e la sua subordinazione o tensione con gli assetti di potere. La prospettiva foucaultiana problematizza stili di governo e di cura della vita interni ai regimi di sapere/potere e alle loro benevolenti intenzioni. Saranno poi le letture postfoucaultiane, quella di Agamben, ma ancor di più quella di Esposito, ad illuminare il risvolto tanatologico di questi dispositivi di sicurezza e protezione della vita. Si tratta di una operazione di particolare importanza in quanto disvela il meccanismo immunitario implicito in progetti di gestione migliorativa/oblativa della vita. Un punto di non ritorno rispetto al quale ogni biopolitica affermativa, e dunque a fortiori quella biopolitica affermativa che è l’economia, è chiamata a rendere conto. D’altra parte la genealogia foucaultiana del termine biopolitica – da cui emergono preziose categorie per spiegare la modalità governamentale, economica delle vi17 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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te – situa l’autonomizzarsi dell’economia moderna dal potere politico in una visuale strettamente antigovernamentale, che trascura la forma di governo delle vite che in questa fase l’economia assume in proprio: la prospettiva foucaultiana è cioè ancora connessa ad una opposizione tra economia e politica abbastanza tradizionale. Si renderà necessario procedere oltre Foucault, esaminando il modo in cui proprio la teoria economica moderna assume la vita nella forma del bisogno e del desiderio e ne progetta il governo. Questo nesso tra vita e potere nella gestione economica è dunque analizzato, nel secondo capitolo, attraverso i regimi di sapere, le teorie economiche, che lo hanno strutturato costruendo le soggettivazioni e i modelli di condotta. Al sapere economico, soprattutto di ascendenza scozzese, spetta l’affermazione di un paradigma antiartificialista della vita sociale e della convivenza, che trova la sua metafora nel mercato. L’antropologia economica, empirica e sentimentale, dei primordi del moderno, delinea uomini che vivono in rapporto di adattamento organico, di flessibile inserimento non antagonistico nel contesto sempre solo parzialmente predeterminato, nel quale sono capaci – i concetti di capacitazione e di potenziamento sono ancora cruciali in economisti contemporanei come Amartya Sen – di un agire intelligente e progettuale, a partire da circostanze indipendenti dal loro controllo. È un’antropologia che sfonda il sensibile e il vitale e interpola, manipola, allarga il mondo. Eppure già immediatamente questa antropologia della libertà insorgente si carica della consapevolezza che nella trama degli scambi si nasconda qualcosa di altro – di più «pericoloso», come direbbe Foucault – di troppo coinvolto e dipendente e che vada dunque governata da un sapere, da un nomos/regola che riconduca la pluralità di energie, di sguardi che si incrociano pericolosamente, in un sistema razionale, effetto di composizione che emerge senza saperlo, senza volerlo, dalle azioni individuali. Così la vita, i bisogni, i desideri, l’eccedenza pulsionale rispetto a ciò che sarebbe necessario per vivere e assicurarsi la sussistenza, vengono disciplinati nel modello teorico del mercato: dalla sintesi classica della teoria del valore, al marginalismo e alla teoria schumpeteriana dell’innovazione. Col contrappunto della raffermazione della radicale centralità dei bisogni, il bios, come è teorizzata da Schopenhauer. Anche nelle teorie marginaliste e postmarginaliste, con tono ovviamente diverso, si afferma la intrascendibilità della vita, dei bisogni e dei desideri, salvo poi ripristinarne il governo, il nomos, attraverso il ruolo della volontà nell’azione e 18 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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attraverso la sua razionalità strategica. Come in Schopenhauer, il potere della volontà (e la volontà di potere) poggia sulla capacità di rinuncia e di ascesi: dunque sul movimento di astrazione e di dilazionamento che ripropone un paradossale sacrificio del godimento stesso nell’apoteosi della materialità e del benessere: e in cambio conferisce dominio e maggior godimento. Allo stesso modo il momento attivo, eccedente, del potere nell’innovazione si afferma come capacità e libertà creativa, ma viene ricompreso, attraverso le tecniche del marketing, nell’equilibrio omeostatico del sistema. Questo percorso conduce all’attuale fase di bioeconomia e alla gestione economica diretta delle vite che, in una condizione di completa socializzazione e condivisione della biopolitica stessa, vede modalità diffuse, fluide e coinvolgenti di esercizio del potere. Il corpo vivente e la vita sono soggetto e oggetto di mercato, aperti alla manipolazione, al potenziamento. È necessario, in questa deriva immanentistica dell’economico, aprire spazi di contrasto nel tema della vita: occorre evitare le semplificazioni riduttive sia nel senso della manipolazione sia in quello euforico del potere germinativo, perché lo spazio delle mediazioni è esattamente lo spazio della politica. Il concetto di vita/natura è, ripetiamo, un concetto limite e va pensato in un sistema complesso di verità, di saperi e di poteri, sottraendolo all’aura di necessità ineluttabile. È concetto non scientifico ma ideologico, dipendente a doppio filo dai discorsi che lo reggono e lo legittimano: dunque è un concetto essenzialmente politico, perché pensato per la politica, per una gestione biopolitica delle relazioni umane sotto il segno della necessità e della non-scelta. Il riconoscimento della dimensione contingente e aperta della fatticità biologica, l’analisi della complessità dei condizionamenti, l’articolazione delle dipendenze reciproche nelle relazioni apparentemente trasparenti dello scambio mercantile, dissolvono la necessità, recuperano la pluralità dei poteri, la politicizzazione della scena e riaprono alla politica l’economia. C’è spazio per un pensiero dell’economia più complesso, più realista di quanto non sia quello dei tecnici-esperti dell’economia, la cui logica e i cui valori la politica sembra invano inseguire. Le tematiche biopolitiche-economiche portano in sé una profonda complessità sociale, sono cariche di risvolti identitari e mimetici, gravate dallo spessore contraddittorio di categorie come quelle di bisogni, interessi, desideri, imitazione, invidia e malinconia, tali che non si può non essere perplessi di fronte al riduzionismo 19 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di teorie economiche dominanti come quelle della scelta razionale, funzionali alla lettura destinale degli assetti di mercato. La complessità del mercato, tradita da questa semplificazione funzionalistica, è una trama diffusa di discorsi e di poteri concorrenti, con maggiore o minore pretesa di verità, che si contendono lo spazio della veridizione e dell’influenza, capaci perfino di sovvertire la gestione mercantile stessa nel coinvolgente e fusionista immanentismo della cura gratuita. Conservando però lo stigma pastorale che Foucault aveva sottolineato nella relazione biopolitica. L’ultima parte del saggio apre, per così dire, un cantiere per materiali che invitano a problematizzare la forma del mercato al di là della sua autorappresentazione, ma anche al di fuori della tradizionale lettura francofortese in termini di totale alienazione. Alla fine il processo di astrazione e di deterritorializzazione degli scambi snatura quello che è forse il senso della prima radice, del desiderio: la relazione con l’altro, il debito che il mercato vuole saldato. Nella attuale priorità logica e strutturale del consumo si accende l’immaginosità della vita pulsionale: impulsi, bisogni, interessi appaiono avviluppati nei fantasmi degli oggetti o delle situazioni che si offrono di soddisfarli, ma rimandano una delusione che ne denuncia la natura spettrale, di schermo della relazione primaria di dipendenza e di desiderio dell’Altro, degli altri. Il lavoro a sua volta si autonomizza, diventa attività eccedente, impropria, non immediatamente rispondente al bisogno, quasi ludica e superflua, nascondendo la dinamica dolorosa del condizionamento vitale, dell’esclusione sempre minacciata che respinge gli esclusi in quell’area di povertà in cui la bioeconomia non si occupa più di te e sei lasciato morire. Il carattere biopolitico del mercato balugina dunque nel consumo, nel lavoro-vivo degli inclusi e nella povertà senza redenzione e senza diritti degli esclusi, come biopolitica risulta essere anche la carità, risposta emotiva, coinvolgente, densa di contraddizioni, a quel debito che il mercato voleva saldato.

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Capitolo primo

Economia e governo

1. Biopolitiche? L’attuale fase della globalizzazione evidenzia fenomeni nei quali ne va direttamente della vita biologica degli uomini. Alcuni hanno natura schiettamente politico-identitaria: la radicalizzazione dei conflitti internazionali e il ricorso alla guerra come soluzione/semplificazione dei problemi; il terrorismo che fa politica con e su la vita: bombe umane e vittime umane, non come prezzo di uno scontro politico ma come muta esibizione di un impossibile dialogo; una gestione poliziesca delle popolazioni in continuo stato di eccezione e, dunque, un indebolimento delle garanzie giuridiche in nome di sicurezza e sopravvivenza; una deriva identitaria razzista che fa perno sull’assolutizzazione di caratteri biologici. Altri fenomeni, solo meno platealmente drammatici, tagliano la scena all’altezza del dispositivo economico mondiale assunto oggi come destino e che come un destino seleziona vite disperate che abbandonano le radici in cerca di sostentamento, nuovi schiavi della produttività dei cui diritti umani nessuno si ricorda a fronte di potenze finanziarie anonime, il cui fatturato è ben maggiore del bilancio di uno Stato. Bioeconomia è anche il gigantesco movimento sentimental-economico degli aiuti umanitari che proprio la scena della povertà, dell’immigrazione, della schiavitù, suscita; povertà e bisogni sempre più gestiti al di fuori del quadro dei diritti. È, infine, l’inarrestabile orientamento a medicalizzare il corpo attraverso le biotecnologie e le grandi politiche della salute, anche queste innervate, selezionate, sostenute o boicottate in base a criteri economici di costi e profitti. Questa radicalizzazione biopolitica è espressione – causa ed effetto insieme – di una caduta generalizzata delle mediazioni. Restringe lo spazio delle categorie giuridiche e politico-istituzionali 21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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moderne, Stato, legge, cittadinanza, diritti: lessico certamente ancora in uso, ma continuamente scavalcato da appelli diretti al popolo, alla legge della sopravvivenza, dalla minaccia di tracolli e di impoverimento; lessico sospeso, messo in mora da trasgressioni tollerate in nome della più efficiente risposta alla domanda di vita. Rispetto a quelle categorie, in antitesi dunque con l’autorappresentazione che le società moderne si danno in termini di razionalità e di simmetria, il paradigma biopolitico si afferma accentuando in modo ambivalente l’uguaglianza generica dei corpi e dunque il processo di immanentizzazione che questo comporta, ma anche, all’opposto, recuperando la dipendenza, la cura, la diseguaglianza gerarchica nella forma della competenza o della convenienza, in nome di un’asimmetria vista come produttiva ed efficace, come positiva, nel senso del porre, del concreto produrre relazioni di inclusione/esclusione1. Lo snodo concettuale che regge questo cambiamento è la falda biologica della vita – luogo di una legittimazione ad oltranza dell’intera dinamica socio-politica. Scelte e decisioni politiche vengono sempre più di rado giustificate nel quadro del diritto, ma attraverso appelli diretti al sentire pubblico che viene posto di fronte ad alternative appassionate: vita o morte, benessere o povertà. Nonostante non ci sia mai stata una stagione politica in cui si siano tanto moltiplicate le Carte, le Costituzioni, le Dichiarazioni di diritti – ciò che mobilita l’opinione pubblica è sempre un discorso diretto, semplice e riduttivo, eppure (come è tipico della gestione biopolitica) sempre supportato e reso cogente da discorsi esperti, a forte pretesa di verità. L’informazione oscilla tra eleganti diagrammi ed equazioni e storie strappalacrime di bimbi affamati, tra complessi equilibri del Pil, delle Opa bancarie, indici statistici e borsellino della spesa vuoto davanti al bancone della frutta. Cooperano a questa semplificazione tanto lo slittamento dell’esperienza in senso mediatico derealizzato – compensato da un profluvio di immagini forti, sanguigne e alternative simili a slogan – che la paradossale e ambivalente centralità del corpo, ultimo stadio del processo moderno di individualizzazione, ma anche ultima soglia di un essere-comune a tutti. Ha senso deplorare, come ha fatto Hannah Arendt, la spoliticizzazione che ne deriva? Possono essere estromessi dall’agenda politica temi biologici, economici, privati, che vi hanno fatto irruzione già nella stagione moderna e che oggi rappresentano questioni cruciali 22 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sulle quali la domanda è avvertita come appunto vitale? Quando si evoca la vita il registro è sempre antinomico: «la vita – diceva già nell’Ottocento Marie-François-Xavier Bichat – è l’insieme delle funzioni che si oppongono alla morte»; ogni discorso sulla vita si staglia sulla sua negazione, la morte. E così abbiamo una linea di analisi biopolitica che mette a nudo il doppio processo intrecciato di difesa ad oltranza della sopravvivenza e di altrettanto radicale produzione di morte di massa attraverso meccanismi di distruzione, selezione degli uomini in base alla appartenenza biologica. Repressione in nome della sopravvivenza: quella che potremmo chiamare tanatopolitica, e che ha come luoghi topici il potere escludente della sovranità, l’iscrizione immediata della vita nella politica attraverso la natalità/nazione, la statizzazione del biologico attraverso un sapere biomedico semplificatorio e aggressivo come il razzismo, il campo di sterminio come metafora ed esito finale di tale processo2. Dall’altro lato abbiamo il filone che analizza la biopolitica come governo della vita per proteggerla/promuoverla in senso incrementativo, positivo. È fondamentale ricordare che questo confortante aspetto «progressista» non è mai stato separato né separabile dall’altro: è fondamentale ricordarlo, perché la protezione e l’incremento della vita passano attraverso l’economia, ma ogni scelta economica ha un prezzo e spesso anche in termini di vite umane, vendute, consumate, spese. Ma per quanto in generale questo filone ermeneutico sia meno suggestivo ed emotivamente coivolgente del primo, rimane a mio avviso degno di indagini ulteriori, perché è proprio il potenziamento e l’appropriazione della vita, questo elemento produttivo e incrementativo, che rende il paradigma biopolitico così persuasivo. Ora il punto su cui va concentrata l’attenzione è che questa biopolitica che si presume affermativa presenta a sua volta facce, e dunque possibilità esegetiche, contraddittorie: da una parte le interpretazioni interne alla stessa logica biopolitica, non problematizzata, che chiamerei tecnocratiche, umanistiche o progressiste, che si proiettano sulla politica sociale, sottolineano la capacità delle grandi politiche sanitarie o di incentivazione economica di rispondere ad una esigenza dal basso. Dall’altra, in contrasto a questa modalità, direi conciliata e welfaristica, si situano i discorsi di quanti denunciano il sistema di poteri sottesi a questo dominio biopolitico morbido, ma affermativamente fanno leva sulla vita, sulla sua potenza e potenzialità per contrapporla, in chiave tardo-romantica, al sistema di 23 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dominio, come energia produttiva capace di sottrarsi alle forme, nomade e mobile, inafferrabile e produttiva, vita resistente, vita autocreativa, macchina desiderante3. A mio avviso sono possibili altre prospettive nell’ambito delle analisi di biopolitica affermativa, altre dal riformismo ottimistico e dall’anelito rivoluzionario che semplicemente ne rovesciano il segno. 2. Ambivalenze e rovesciamenti del «Welfare» Due biopolitiche? Lucidamente, ci viene ricordato da Roberto Esposito e da Simona Forti che l’una biopolitica non è che il rovescio dell’altra4, e che il 1939, l’anno in cui Hitler proclamò «l’obbligo di essere sani», è lo stesso anno in cui questa cura della salute fu messa in atto attraverso la morte pietosa di organismi deboli dichiarati esistenze indegne di vita. E nessuno dimentica che il piano Beveridge, massimo impegno di solidarietà e promozione sociale, è contestuale alla guerra e poggia sulla mobilitazione bellica. Molti dei suoi punti di forza – piano di sviluppo economico, diritti sociali, previdenza, politica sociale e sanitaria – erano in realtà già presenti in Stati totalitari nazional-sociali, nonché ovviamente in quelli comunisti; e i programmi salutisti del Welfare non sono estranei all’eugenetica negativa, anche nella civile Svezia o in California5. Questo rovesciarsi del discorso di vita in quello di morte ci rende cauti, esitanti: l’invito è a sorvegliare i passi del percorso biopolitico, a non sottovalutarne le insidie nel momento stesso in cui se ne riconoscono le capacità persuasive, l’aderenza ad un sensus communis assai diffuso, «democratico». Un’interpretazione persuasiva suggerisce che il Welfare State, acme del governo affermativo della vita, che si è sviluppato in Europa dopo il 1945, possa pensarsi come un approdo tutt’altro che lineare di un drammatico rapporto tra Stato e vita, le cui radici vanno fatte risalire al XIX secolo: questo nesso è complesso ed enigmatico, non completamente riconducibile alle categorie politiche della rappresentanza né alle stratificazioni sociologiche tradizionali, quali ad esempio quella di classe6. Già a partire dalla fine del Settecento la politica riformista affronta le sfide vitali delle grandi epidemie attraverso politiche della salute, che implicano pesanti interventi dirigisti nell’economia: sarà Foucault a sottolineare, nella sua geniale rico24 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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struzione, il significato pregnante e spiazzante di questa «presa in carico». La lettura classica evolutiva dello Stato sociale, che lo riconduce nell’alveo delle categorie rappresentative tradizionali, è quella mediata dal testo di Thomas Humphrey Marshall7, per il quale esso rappresenterebbe l’esito necessario e armonico dello sviluppo storico della cittadinanza. Secondo la sua ricostruzione, nella terza generazione dei diritti troviamo i diritti alla salute, all’educazione, al lavoro, alla pensione, ad un livello minimo di vita dignitosa, e per essi la garanzia politica dello Stato sociale. Dunque si tratterebbe di un grande progetto di cooperazione sociale in cui, nel fuoco delle grandi sintesi filosofico-politiche ottocentesche democratiche e socialiste, in nome del progresso, la vita è assunta nel progetto dello Stato. La logica finalistica di questa assunzione, o presa in carico, passa attraverso la centralità delle categorie economiche e amministrative. Ma anche la tesi funzionalista sullo Stato sociale e quella operaista socialdemocratica, che riconduce lo sviluppo del governo statale sulla vita alla capacità di contrattazione e di organizzazione della classe operaia in una prospettiva di solidarietà nazionale, restano in realtà nel cono d’ombra di un pensiero conciliativo e progressista, destinato ad essere sventrato dall’esplosione accecante della seconda guerra mondiale. Ciò che più colpisce, in simili letture, è la pretesa di estromettere dal percorso schiettamente biopolitico proprio quella terrificante esperienza di educazione, gestione e miglioramento delle vite biologiche attraverso la morte che fu il nazionalsocialismo. Certo, la versione di Stato sociale degli anni Cinquanta europei è complessa, soprattutto per la sua capacità di includere nella «democrazia politica» la critica marxista all’idea formale di cittadinanza e il ruolo di attrazione-competizione dell’esperienza del socialismo reale: di includerla e di «toglierla». La sintesi proposta dal Welfare è infatti biopolitica, ma ha forma giuridica, conserva la mediazione cruciale dei diritti, anche se deve sottoporre i concetti giuridici, e in particolare i diritti della tradizione liberale, ad una trazione forte a causa della nuova logica dell’economia e della vita che essi vanno a coprire. Intreccio problematico, anche paradossale, come paradossale è l’ircocervo delle due logiche, giuridica e biologica, che in esso si tengono. Intanto, nonostante i caratteri di pesante riduzione di questa visione armonica (vita sussunta ed elevata dalla politica in nome del miglioramento e del progresso), opinioni come quella di Heideg25 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ger – che nel 1949 inseriva in un’unica deriva la meccanizzazione dell’agricoltura, le camere a gas fino alle bombe a idrogeno8 –, nel loro catastrofismo poi ripreso in modo diverso da Marcuse, sarebbero dovuti servire a segnalare la necessità di sguardi nuovi e più taglienti sul nesso enigmatico politica-vita. Meccanizzare l’agricoltura per avere maggiore disponibilità di cibo, in linea con il piano Beveridge, non è la stessa cosa che meccanizzare la produzione industriale di un genocidio. Perché si abbia tale esito nichilistico, occorre infatti, come rileva lucidamente Esposito, un sapere biorazzista circa la vita che introduca classificazioni e giudizi sulla vita stessa, rendendo possibile la selezione e lo sterminio. Eppure lo stesso autore ci avverte dell’ambivalenza per cui la stessa politica – «il potere sull’uomo in quanto essere vivente», un «potere di far vivere e lasciar morire» o ancora di «stabilire una cesura tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire» – possa configurarsi alternativamente, o anche simultaneamente, come manipolazione o accoglimento della vita9. È il senso di quella raggelante contiguità temporale tra il Primat des Staates in der Gebiet des Lebens, guidato dalla politica razziale, e l’economia morale dei progetti del Comitato interdipartimentale sui problemi della sicurezza sociale e i servizi, istituito da Churchill. Certo possiamo chiederci se questo progetto di politica sociale non sia, come afferma qualcuno10, «una svolta nettissima, uno spostamento di binario» rispetto alla logica della gestione statale delle popolazioni che nella guerra e nel razzismo trova il suo esito. Secondo tale versione, il rapporto Beveridge è un progetto di società egualitaria, promessa all’intera popolazione britannica al termine dell’impegno bellico. La sua forza sta nel far leva su una rinnovata interpretazione della categoria giuridico-politica di cittadinanza e sul suo nesso con l’identità nazionale: la full membership of a community include nei diritti sociali del cittadino uno standard of living dignitoso per tutti e la libertà dal bisogno. Si sposta profondamente l’asse del consenso e della legittimazione sulla pace e sul benessere, in modo forse irreversibile. E il compito – biopolitico – viene affidato all’economia politica. Il supporto teorico che rende possibile questo progetto di solidarietà nazionale è qualcosa di diverso dalla semplice composizione utilitaria degli interessi: in questo senso l’economia politica dello Stato sociale che governa e protegge la vita si iscrive in quella sintesi sociale e cooperativa, di ispirazione idealistica, che già più volte era stata messa in forse prima di essere volontaristicamente riaffermata 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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a cavallo dei due ultimi secoli e poi riaccesa dalla spinta ideale della guerra antinazista. Nella Dichiarazione del 1948, la tematica dei diritti umani supporta, in quel momento cruciale, la costituzione dello Stato sociale. Mentre il liberalismo individualista ortodosso, per esempio di Friedrich von Hayek, la riconduce all’interno dell’universalismo dei diritti naturali (teorizzato da John Locke, Thomas Paine, Thomas Jefferson), l’ambigua dizione di diritti dell’uomo li apre all’orizzonte biopolitico, includendovi quel complesso di nuovi diritti che definiscono appunto lo Stato sociale (diritto al lavoro, all’istruzione, alla sanità, alla sicurezza sociale, ad un salario decente, all’associazione sindacale). E però il carattere umano, e dunque legato al vivente generico, di quei diritti rimanda comunque, sia pure con segno rovesciato, alla centralità del biologico dell’esperienza tanatopolitica del nazismo, contro cui pure i diritti umani sono formulati. Il centrale «diritto alla vita» (si pensi alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950), che salda questa generazione di diritti con quelli sociali, rimane inevitabilmente interno alla stessa logica di gestione del vivente che era stata propria del nazismo, ma anche del comunismo, se ci riferiamo all’economia politica piuttosto che al biologismo. E lo stesso progetto rooseveltiano delle Nazioni Unite è tutto centrato sulla traduzione del diritto alla vita in un’idea di grande sviluppo economico generalizzato. Questo slittamento sempre più esplicito del progetto politico dalla questione della forma a un piano di benessere – sarebbe meglio dire a un’economia della salvezza, che proprio sul benessere e la materiale libertà dal bisogno fa perno – veicola contraddittoriamente una tesi che, maturando, finirà con indebolire lo Stato sociale stesso e occuperà centralmente il campo al suo lento tramonto: l’idea che l’abbondanza economica libera dal Male politico. Secondo questa prospettiva sempre meno messa in discussione, l’ordine economico del mercato e l’individualismo possessivo che lo innerva sono il modello sociale capace di superare il conflitto, poiché evitano la scarsità che scatena la guerra dei desideri e perché inducono relazioni sociali pacifiche anche se non solidali, di reciproca soddisfazione. Mettendo al centro della politica l’economia, nel doppio senso di economicizzare la politica stessa e di subordinare alla sua efficienza le scelte politiche, è possibile perseguire un’abbondanza che sarebbe capace di disinnescare il conflitto e di diventare il vero scudo dei diritti umani. E in27 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tanto, storicamente, lo Stato sociale viene indebolito dalle disfunzioni economiche che genera: fiscalizzazione ad oltranza, debito pubblico, assistenzialismo. Si verifica così una eterogenesi dei fini: l’economia è la logica della governamentalità dello Stato sociale e della sua protezione dei diritti di vita, ma l’economicizzazione dei diritti, il passaggio da un esercizio giuridico e politico all’eteronomia della gestione più adeguata, economica delle esigenze, comporta lo svuotamento del progetto di diritti, e dunque di solidarietà e cooperazione sociale, e l’affermazione del primato dell’economico puro come strada più adeguata al raggiungimento dell’agognato benessere. Paradossalmente, in testi molto diversi, da quelli istituzionali a quelli critici di David Riesman, di George Orwell, di Hayek o della stessa Arendt dei medesimi anni, emerge un senso comune dell’epoca forse più significativo dell’esplicita e soffocante guerra fredda: una percezione che il discorso sul sistema dei bisogni (Arendt avrebbe detto sul «processo vitale inteso nel suo senso biologico più elementare»)11 si impone prepotentemente nello spazio pubblico, rompendo la diga del privato che l’aveva trattenuto. Discorso che, del resto, la guerra e la biopolitica degli Stati totalitari avevano già posto in primo piano: biopolitica ed esigenze delle masse, biopolitica e democrazia, biopolitica ed economia mettono in crisi una politica di forme, di istituzioni, di autonomia e libertà. Occorre dunque una prospettiva completamente diversa. Bisogna capire come la storia, già dalla seconda metà dell’Ottocento e poi nel XX secolo, abbia dentro di sé un’elemento di radicale riformulazione della modernità borghese o di quella che possiamo chiamare modernità classica. E questa trasformazione ha come centro un riposizionamento del vivente nei regimi di sapere e nelle articolazioni delle soggettività e delle prassi conseguenti, un riposizionamento del destino riservato alla vita. La traiettoria da ripensare è dunque quella per cui gli interventi biopolitici del potere statale sulla vita, con le sue derive catastrofiche e con i suoi trionfi tecnologici e progressisti, si rovesciano alla fine nell’odierno mercato mondiale e consumo di massa che si salda – senza sintesi e senza possibilità di conciliazione – con guerre identitarie, razzismi nuovi, povertà crescente. Ma quando negli anni Sessanta si comincia ad usare il termine biopolitica questo avviene all’interno di una visione conciliata di vita e politica, in una versione umanistico-progressiva o, che è lo stesso, scientista-progressiva. 28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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3. Biopolitica umanistica, tecnologica, positivista Cerchiamo di ricostruire le riflessioni su questo neologismo – biopolitica – a partire dal dopoguerra: esse si situano pienamente nell’orizzonte positivista secondo cui la socialità, carica dei problemi letteralmente vitali che un dopoguerra difficile determina, diventa soggetto e oggetto di nuove tecnologie di governo e obiettivo di nuove scienze, tese a ristrutturarla in nome del progresso. Ciò che viene presunto, in questi casi, è una traducibilità reciproca dei linguaggi economici, filosofici, scientifici e politici – una traducibilità che deriva dall’essere tutti espressioni teoriche del medesimo oggetto, l’uomo sociale: proprio come nella vecchia sintesi dialettica che, magari tacitamente, viene ripresa. In particolare: la biologia è politica come lo è l’economia, che a sua volta risponde ad esigenze biologiche, esse stesse sottoposte ad una logica economica; questa reciproca traducibilità rende possibile un progetto politico coeso, coerente. C’è del volontarismo consapevole in questa dichiarata conciliabilità, perché già più volte gli eventi hanno mostrato una riottosità ad essere rappresentati, le soggettività ad essere ricondotte in ruoli prefissati, gli interessi ad essere conciliati alle regole, interi segmenti sociali che sfuggono alla razionalizzazione tecnocratica – ma proprio questa spinta centrifuga accresce la domanda di efficace governo politico delle vite. Il riferimento al bios passa ovviamente per la scienza pilota della contemporaneità, la biologia, attraverso «lo studio sistematico delle basi biologiche di ogni forma di comportamento sociale» secondo il criterio neodarwiniano per cui «ciascun fenomeno è valutato per il suo significato adattivo»12. Il modo di pensare la relazione con il bios, che così si determina, è schiettamente tecnologico: grazie alla calcolata azione umana, orientata scientificamente attraverso le nuove teorie, è possibile migliorare tanto la qualità della vita che la vita stessa, in alleanza con gli interessi privati delle imprese biotecnologiche i cui fini si tramutano in vantaggi sociali al di fuori di patti di solidarietà. Soprattutto a partire dall’affermazione della genetica del Dna, si prospettano possibilità concrete di previsione delle deficienze, di individuazione delle anomalie. O meglio, la lettura genetica delle deviazioni, delle anomalie e addirittura delle personalità antisociali, in nome di una maggiore efficienza e riduzione dei costi collettivamente vantaggiose, rende convenienti biopolitiche di gestio29 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ne, se non selettivamente eugenetica, biologicamente migliorativa della specie. La spiegazione delle caratteristiche del vivente in termini di ereditarietà viene collegata all’individuazione di sottogruppi umani che, in un’ottica funzionalistica di ottimizzazione economica dell’insieme sociale, sono riottosi all’ordine, alla codificazione, e dunque implicano dispersione di energie e impossibilità di integrazione. Così politiche esplicitamente o cripticamente selettive e opzioni eugenetiche si affermano senza troppa difficoltà nella visione tecnica, manipolativa, propria della nostra cultura. In nome di fondamenti biologici, le connessioni di questi comportamenti devianti con gli assetti sociali passano in subordine13. L’applicazione di strumenti matematici per simulare interazioni sociali vincolate alla funzione di ottimalità, come per esempio l’altruismo reciproco, evidenziano l’aspetto governamentale di tipo economico della cibernetica sociobiologica (implicito nello stesso termine cibernetica)14. È interessante notare, dal nostro punto di vista, che tra le prime tracce di indagine sociobiologica c’è un modello che si propone di risolvere una vistosa anomalia che già lo stesso Charles Darwin aveva notato, occupandosi di comportamenti in chiave evoluzionistica: la discrepanza tra gli assunti individualistici della teoria (survival of the fittest) e i numerosi comportamenti altruistici osservati nelle specie animali, comportamenti che appaiono più vantaggiosi per l’idoneità (fitness) di uno o vari alter che per quella di ego. La risposta è complessa e ci interessa relativamente: ovviamente propone un modello conciliativo dei comportamenti discordanti15. Colpisce invece che la scienza biogenetica individui la normalità nell’egoismo economico. La logica economica dell’ottimizzazione egoista assume, nelle metafore e nei termini stessi adoperati per descrivere le competizioni di pool genetici, l’oggettività di un dato biologico, naturale. La cooperazione e la solidarietà sono anomalie da ricondurre alla logica unitaria, appunto di carattere economico, che governa la vita. Ora, evidentemente, non si tratta che di metafore. Gli scienziati soprattutto, nonostante qualche tonalità deterministica e velatamente arrogante, si muovono con prudenza, sottolineando la neutralità morale tanto dell’egoismo che dell’altruismo biologico e con la consapevolezza, sottolineata da numerosi oppositori (tra i quali Richard Lewontin) che il biodeterminismo è stato usato in direzione mortifera non solo dal nazismo, ma anche dalle politiche eugenetiche di paesi come gli Stati Uniti tra il 1910 e il 1930. Ma la na30 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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turalità della logica di ottimizzazione economica non viene posta in discussione. In una chiave diversa, rispetto ai modelli quantitativi della biogenetica, Edgar Morin, già negli anni Sessanta, esplora la variabililità e le potenzialità della specie attraverso narrazioni storico evolutive e grandi disegni interattivi-sistemici: alla biopolitica vengono assegnati i temi, anzi i compiti, della nutrizione, natalità, riduzione della mortalità, opzione eco-politica, assistenza sociale, politica dei bisogni: compiti di natura economico-sociale da «risolvere» nella complessità del sistema vita. La biopolitica, in polemica al dominante e arido economicismo quantitativo della scienza politica, sarebbe, per Morin, l’auspicabile raccordo della politica alla natura. Se ne sottolinea così l’anima sociale, umanista e altruista, l’aderenza al codice affettivo della cura16. Ed è esattamente questo il segno (sociale, terapeutico, umanista, pedagogico, esperto) sotto cui avviene la ripresa, negli anni Sessanta e Settanta, delle tematiche della vita – qualità, protezione, promozione – in quel grande dispositivo biopolitico che è lo Stato sociale. Negli anni Sessanta-Settanta, l’Organisation au Service de la Vie pubblica i «Cahiers de la biopolitique». I temi presi in esame, rubricati entro la categoria generale di biopolitica, sono sviluppo/sottosviluppo, promozione e potenziamento di istituzioni di tutela della vita, finalizzate all’edificazione di un miglioramento del genere umano. Qui per biopolitica si intende scienza del biosviluppo, della condotta degli Stati e delle collettività umane, tenuto conto dell’ambiente naturale e dei dati ontologici della vita17. Questi «Cahiers» nascono – ed è un elemento che conferma il nesso biopolitica-politica sociale – dallo scacco e dall’eredità di un socialismo storico che non ha saputo risolvere i problemi di sussistenza e de-umanizzazione indotti dal capitalismo. La biopolitica, attribuendo alla tecnoscienza tale compito, resta interna alla società di mercato, ma sollevando la questione della vivibilità, della qualità della vita: si tratta di fare buon uso del progresso. Negli anni Settanta, la biopolitica parla americano, sotto il segno della naturalizzazione neodarwinista e sociobiologica che ha reso possibile il riduzionismo delle scienze sociali in nome della logica economica. Nel 1975, il Research Committee on Biology and Politics promuove un convegno tutto di area anglosassone, su problemi politici in una prospettiva esplicitamente biopolitica. Esso verte sul 31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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contributo che biologi, farmacologi, etologi possono fornire alla politica. Il volume Biology and Politics18 raccoglie studi sulle basi biologiche del comportamento umano che potrebbero costituire una svolta per l’analisi e il controllo della condotta politica. Da notare che Albert Somit, David Easton e John Wahlke, nomi di punta di questo progetto, scienziati della politica di orientamento economicista, anche se non sviluppano il tema in chiave analogico-simbolica e dunque organicista (in polemica con la sociobiologia piattamente positivista), criticano fermamente l’idea che i comportamenti siano esclusivamente razionali e/o condizionati socialmente. Il problema sollevato finisce con il riguardare la natura e la condotta umana nella prospettiva aperta dai progressi della neurologia, della farmacologia, della biologia molecolare e dell’etologia. L’obiettivo dichiarato è riscrivere i caratteri dell’animal umano: dei tratti di questa ridefinita natura biologica, e dunque dei patterns comportamentali, si farà un uso politico. La natura biologica dell’umano è presentata come un dato di partenza, sul quale adattare procedure culturali e politiche. Ancora una proposta, dunque, del behaviourismo americano, magari più complessa e articolata. Emerge soprattutto – diversamente dall’antropologia umanista moriniana – una esigenza schiettamente tecnico-politica di previsione e condizionamento del comportamento: l’utilizzo della conoscenza biologica per nuovi modelli di governance e dispositivi di condizionamento, in cui gli agenti o i consociati sono sempre meno connotati come soggetti giuridici e sempre più come viventi. Il quadro teorico è l’utilitarismo, dunque ancora la logica economica della massimizzazione dell’utile: è importante tenere presente, per il nostro punto di vista, che i dispositivi biopolitici sottintendono una logica conseguenzialista del tipo utilitaristico anche quando, come in taluni di questi casi, gli attori sono sociali o addirittura sistemico-funzionali e non individuali. L’utilitarismo nelle sue regole auree offriva un modello economico persuasivo ad un riformismo che, senza discutere l’edonismo egoistico che sembrava emergere dai «fatti», dalle «esperienze», promuovesse anche l’interesse generale, attraverso il governo, l’arbitrato autorevole dei tecnici in grado di allocare le risorse nel modo più efficiente. Come vedremo, alcuni caratteri tipici di questa mediazione degli interessi utilitari in eventuale conflitto o ciechi nella scelta adeguata, mediazione affidata al sapere governamentale, presuppongono la persistenza di diseguaglianze gerarchiche all’interno del32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la stessa economia. D’altra parte la diffusione del tema si giova anche di uno scollamento delle problematiche della political theory accademica, incentrate sulla giustificazione etica delle scelte di cooperazione welfarista, rispetto a problemi «concreti», manageriali, di domanda di governo, di competenza e di efficienza. Mi sembra opportuno ricondurre anche le biotecnologie sotto questa rubrica, in qualche modo tecnoscientista-umanista-progressista: da Rabinow, da Rose, da Stengers19 in anni molto recenti, viene rivendicata la dignità di un’eugenetica positiva contro l’ombra lunga dell’eugenetica negativa del nazismo, alla Gunther, o Verschuer20. Le nuove tecnologie riproduttive trasformano dati fino ad oggi naturali come la vita, la maternità, la consanguineità, e li aprono alla scelta: scelte possibili significano logica economica di costi e di alternative. È la nostra via secondaria all’eugenetica in nome del miglioramento della vita umana. Questo discorso intelligente e articolato diventa particolarmente adatto a rilevare la parossistica esclusività della vita, non solo come luogo di applicazione del potere ma come luogo di legittimazione politica. Chi potrebbe dire di no a più salute, più vita, più benessere? Magari a qualunque costo o in qualunque tipo di governo? È esattamente il carattere governamentale, di tecnica per la vita, che Foucault descrive in modo originale; l’attivismo protettivo, il regimi di verità/sapere, i dispositivi di sicurezza e di miglioramento della vita, l’umanesimo della politica sociale sono gli stessi che – giusto il paradigma immunitario, che sarà evidenziato da Roberto Esposito – si rovesciano nella manipolazione della vita e anche nello sterminio. 4. Genealogia foucaultiana delle pratiche biopolitiche: logica economica del governo L’intuizione di Foucault – che rende la sua lettura della categoria di biopolitica un punto di partenza ineludibile per le riflessioni di oggi – è che ci sia una serie di pratiche di gestione delle vite umane corrispondenti a determinati regimi di verità, pratiche risalenti nella storia occidentale, che alterano l’autorappresentazione artificialista e essenzialista dello Stato moderno. Perché Foucault è il punto di non ritorno per un ripensamento critico della prospettiva biopolitica? Perché nella sua concezione si 33 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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determina una completa rotazione dell’asse prospettico rispetto alle teorizzazioni finora esaminate: non si chiede di riflettere sulla biopolitica come se si trattasse dell’acquisizione di nuove tematiche che si offrono alla politica, giustapponendosi in maniera estrinseca all’area del privato, della sanità o dell’economia. Questa è la modalità con cui un autore come Morin, per esempio, salda alla politica il campo di azione della vita perché, sottraendosi al formalismo astratto delle regole, ci si occupi duttilmente – duttile è la vita – dell’assistenza, della cura, dell’educazione. Pur concependo Morin in modo rinnovato e più complesso la natura umana, pur essendo aggiornati sulle nuove scoperte neurobiologiche gli studi anglosassoni, il dato naturale e il dato politico sono incrociati nella supposizione di una sintesi, all’interno dunque di una possibile mediazione. Ma l’obiettivo di una riflessione sulla biopolitica non può essere quello di decidere la verità ultima della natura e della vita, e quale politica ne promuova lo sviluppo con più efficacia – sarà morto un uomo quando il cuore cessa di battere, quando non respira da mezz’ora o quando l’elettroencefalogramma è piatto? L’obiettivo è piuttosto quello di cogliere la dinamica che intreccia i regimi di verità (ciò che è considerato vero sulla vita e perciò necessario) con le pratiche di governo politico ed economico che gestiscono la vita, anzi le vite, i corpi, dunque con il registro del potere. La biopolitica, il progetto di miglioramento socio-biologico, che si colloca nel fuoco prospettico della biologia e dell’economia, descrive l’uomo per oggettivarlo, sia in quanto essere biologico-vivente che come attore produttivo/consumante, attraverso quelli che Foucault chiama «discorsi di veridizione», quello della biologia e quello dell’economia, che sono regimi di sapere-potere. La biopolitica elegge queste verità-potere – che, in quanto scientifiche, hanno l’aura della indiscutibilità e della certezza, sono cioè nella condizione di esprimere enunciati nel registro dell’opposizione vero/falso – a metro di riferimento della gestione dei comportamenti. L’obiettivo di Foucault è esattamente quello di mettere a nudo gli effetti politici della verità o meglio dei discorsi con pretesa di verità. Non ne consegue una semplicistica condanna etica, peraltro estranea alla logica foucaultiana. Per di più Foucault stesso assume posizioni diverse, dalla messa in evidenza della deriva razzista che emerge dalla statizzazione del biologico (in Bisogna difendere la società) ai più complessi e prudenti rilievi dei corsi del ’77-79, dove la 34 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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capacità delle strategie biopolitiche e governamentali di aderire all’immanenza della realtà vitale e alle sue norme intrinseche, autolimitando l’azione politica, appare un dato sempre più rilevante in relazione all’artificialismo estrinseco delle limitazioni giuridiche della sovranità e alla possibilità di autogoverno21. Ad ogni buon conto, rispetto alla sociobiologia, ma anche rispetto all’umanesimo della politica sociale, la ripresa foucaultiana del tema biopolitico cambia radicalmente di segno, perché sottrae a spazi culturali dominati dalla pretesa di verità esperte, come la biologia o l’economia, la gestione di questioni di grande importanza, riconoscendo la valenza eminentemente politica delle decisioni che le riguardano. Va tenuto presente che Foucault avanza l’ipotesi biopolitica quando l’originario schema polemologico (la politica come guerra di razze, di gruppi, trasversale rispetto all’ordine del discorso giuridico) gli appare inadeguato a dar conto della complessità del potere moderno. Reinterpretando in chiave biopolitica i precedenti studi di microfisica del potere, sul sistema disciplinare penale, sulla clinica e sulla follia, Foucault avanza una nuova griglia interpretativa, quella appunto della biopolitica, che recupera tutta una serie di pratiche la cui radice è premoderna e che nel moderno occupano un posto marginale nella autorappresentazione classica: marginale anche perché destabilizzante. Il concetto centrale di guerra (che è pur sempre un concetto di scontro vitale) si depotenzia e lascia spazio a quello più duttile di strategia, concetto che rimanda alla razionalizzazione economica e alla ottimizzazione dei costi in vista di uno scopo, che implica relazioni di potere più complesse rispetto alla secca dicotomia sovrano-sudditi, vita-morte, inclusione-esclusione della legge. È il governo la modalità del potere che ne esprime la nuova natura biopolitica. Il potere non è tanto un affrontamento tra due avversari o l’obbligo di qualcuno nei confronti di qualcun altro, quanto una questione di governo [...] Governare [...] significa strutturare il campo di azione possibile degli altri. La relazione specifica del potere non dovrebbe dunque essere cercata dal lato della violenza o della lotta, né dal lato del legame volontario (questi possono essere tutt’al più degli strumenti di potere) ma piuttosto nell’area di quel singolare modo di azione, né bellico né giuridico, che è il governo22. 35 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Governamentalità è il modus che il potere assume quando prende in carico un oggetto duttile come la vita o le singole vite. E a sua volta questo potere modifica il suo oggetto governandolo, cioè oggettivandolo in vista di una soggettivazione, in un progetto di crescita che ne adempia le possibilità vitali. L’idea di governo è complessa: va distinta dall’imposizione del dominio sovrano tipica del discorso giuridico, che non offre alternative intermedie tra il dentro e il fuori. La governamentalità invece, almeno in linea di principio, esclude un completo dominio, perché esprime un’influenza temporanea, riconoscendo una certa indipendenza all’altro polo, il governato, che nella relazione di potere è oggetto di cura, di tutela per il suo bene. Dunque il governato mantiene, e addirittura coltiva, un qualche potere, se non antagonista, deuteragonista; un potere inclinato, orientato, incentivato verso una certa direzione e dunque disincentivato verso altre scelte. Ciò che mi preme sottolineare, nonostante non sia esplicitato da Foucault, è che la sua riconduzione della biopolitica alla governamentalità esclude l’immanentismo totalizzante che fa da sfondo a molte riprese del tema oggi: immanentismo che, riferendosi alla nuda vita come luogo privo di modalità e differenze, non lascia spazio, non dico alle mediazioni, ma neanche alla complessità che dà conto delle differenze interne. La governamentalità, non riducibile all’ordine della legge piramidale coerente e unitaria, è una relazione che si modella sul regime di sapere considerato vero: «la giusta disposizione delle cose che prende in carico per condurle al fine loro conveniente»23. Una costellazione di caratteri che si tengono e si rimandano trovando – anche oltre l’esplicitazione di Foucault – conferma nella biopolitica contemporanea: il fine e, in relazione ad esso, l’efficacia; la pretesa di verità, non la giustizia, come sapere adeguato al fine; la gerarchia definita in base al sapere e gravata di responsabilità, ma in via transitoria; la norma individualizzante che fa tutt’uno con il carattere generico del corpo vivente; il potere internamente regolato dal modus, relazione mobile tra due poli, governante e governato, reciprocamente influenti e resistenti. La prospettiva foucaultiana illumina la complessità della sovranità moderna24, accostando ad un fine difensivo e statico, proprio dell’organizzazione centripeta autoreferenziale del potere giuridicodisciplinare, un fine esogeno di incremento, non di pura conservazione. La temporalità del primo fine è conservativa, l’emozione che 36 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la caratterizza è la paura hobbesiana, la cui logica circoscrive, chiude, concentra; la nuova finalità è regolata invece dai ritmi e tempi dinamici del progetto e dei dispositivi adeguati a raggiungerlo. La genealogia di questa combinazione di dispositivi affonda nella stagione premoderna a partire dal pastorato cristiano, nella connessione originale di potestas et benevolentia che troviamo nel diritto canonico. Già nel pastorato, disciplina dei corpi e governo delle anime sono facce complementari del processo di governo e normalizzazione, la cui logica fa emergere una famiglia di strumenti concettuali della biopolitica (tipici del lessico aziendale e medico) di cui è importante sottolineare, anche oltre Foucault, la persistenza: 1) Il fine. La salvezza fisica e spirituale dei governati nella sequenza salvezza-sussistenza-vita: il potere pastorale e biopolitico è per definizione benefico in relazione a persone minori da curare e salvare, proteggere e promuovere25. Il carattere finalizzato, e dunque tecnico, della politica implica l’indebolirsi delle problematiche dell’origine, del fondamento e della legittimità, correlative al modello sovrano/diritti, a favore dell’efficacia; al binomio legittimo/ illegittimo si sostituisce surrettiziamente la coppia riuscita/fallimento. 2) Il rapporto con la verità. Ogni gestione pastorale si riferisce ad un regime di verità, cioè a discorsi con pretesa di verità (si potrebbe rovesciare l’assunto hobbesiano: veritas non auctoritas facit legem, o meglio la verità fa la norma di ciò che deve svilupparsi secondo la sua stessa regola naturale, iuxta propria principia). Chi sa la verità? Secondo la cruciale domanda di Nietzsche, chi parla? Per Foucault, come è noto, non c’è una soggettività donatrice di senso, e questo cambio di prospettiva permette un’analisi delle pratiche storiche attraverso cui il soggetto si costituisce e che coopera a costruire. Anche se, osserviamo, si indebolisce il tema della responsabilità: chi è responsabile delle pratiche economiche che lasciano morire di fame un terzo del mondo? Se i soggetti si trovano nel punto di intersezione tra pratiche sociali e regimi di verità, è fondamentale riconoscere i modi in cui gli individui si legano a delle verità o a delle forme che essi riconoscono come vere. Nel regime pastorale, vera è la pronoia/provvidenza che disegna un’economia di salvezza; il pastore la mette in opera, è esecutore e obbediente non meno del governato e, attraverso le pratiche della confessione e della direzione spirituale, educa il soggetto a quel dominio di sé, all’autogoverno, che è stato poi il terreno di sviluppo della nostra moderna razionalità politica. 37 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Nella ragion di Stato della Polizei, è il sovrano che sa la verità e agisce in suo nome sotto il segno della necessità, una necessità, una urgenza che inerisce alle cose piuttosto che alle leggi umane. E necessarie, indiscutibili, sono le scienze statistiche: il numero dei consociati, i loro bisogni vitali, l’alimentazione, la salute, la povertà, i rischi, i mestieri, gestire i quali implica conoscenze e decisioni in qualche modo sottratte ad ogni contrattazione, primarie, vitali. Alla necessità corrisponde la sospensione della legge, lo stato di eccezione inteso come irruzione della necessità e dell’emergenza nell’esperienza ordinaria. Nella fase fisiocratica, e poi liberale, si ha il fondamentale capovolgimento: la veridizione non appartiene al sovrano, che ne determina la regolamentazione; la verità è nella natura e nella sua autoregolazione immanente, sta nei meccanismi spontanei del mercato che il sovrano – Foucault lo sottolinea con energia, facendone la condizione della libertà liberale – non conosce26. Questa rivoluzione del sapere è una rivoluzione del potere: è la socializzazione della politica, il ruolo centrale della società civile nei suoi rapporti con lo Stato. In questo passaggio il regime di verità/potere diventa sempre di più l’economia: in tensione aporetica tra l’interventismo e il dirigismo (mercantilista della Polizei ma anche del Welfare) da un lato – dove la politicizzazione dell’economia promuove il potenziamento delle popolazioni secondo bisogni che lo Stato conosce e armonizza meglio dei singoli, ed è dunque tecnica di governo statuale – e la fisiocrazia e poi il liberalismo dall’altro, dove i saperi economici strutturano soggetti attivi, contropoteri rispetto al potere del sovrano, poteri antagonisti, che chiedono meno governo esogeno, più autoregolamentazione. Anche se poi paradossalmente avranno bisogno di più governo per gestire la propria libertà di agire in sicurezza. Foucault non è interessato a quanto sia vero il naturalismo economico del mercato liberale, ma a quanto questo regime di proposizioni funzioni nella strutturazione dei nuovi assetti di potere. 3) La norma individualizzata. Il governo biopolitico è un potere che individualizza, in contrasto e in parallelo con la generalità e astrattezza della legge. Esso è al servizio dei governati, uno per uno: il che implica tecniche personalizzate, molteplicità di iter gestionali, difficilmente confrontabili, un incessante lavoro di scavo nelle biografie, nelle coscienze, nei corpi. Dunque implica il processo stesso dell’individualizzazione occidentale, anche qui ambivalente, in direzione di una persuasione al conformismo, ma anche paradossalmen38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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te di una meritocrazia e del potenziamento dell’originalità produttiva. Un governo della molteplicità che però – ed è questo l’elemento paradossale della centralità del corpo – quanto più è individualizzato, tanto più affonda nella genericità del biologico e della specie, tanto più si dissolve nella popolazione fantasmatica e nelle sue necessità statisticamente accertate. La norma gestionale corrisponde all’ordine immanente della regola (il modus del diritto canonico, la misura interna alla realtà più che sovrapposta ad essa; o la loi montesquieiana interna alle articolazioni del sociale) e, essendo personalizzata, è extragiuridica, eccezionale, flessibile, poiché la flessibilità e l’imprevedibilità sono i caratteri dell’oggetto-vita cui si riferisce. Si ha un atteggiamento ortopedico della condotta, la cui efficacia durevole si fonda sul controllo interiorizzato: la norma interna, immanente, plasma il processo di soggettivazione. 5. Ancora Foucault: economia antigovernamentale Che cosa succede ora se, attraverso questa consolidata prospettiva biopolitica – che organizza il vivente in un codice di dipendenza, di cura, di potere manipolativo, e che, ciò nondimeno, si presenta subordinato ad una razionalità efficientista naturale, fattuale – vogliamo mettere a fuoco l’economia? Della biopolitica è stata evidenziata la logica, strutturalmente ambivalente, di repressione-protezione (repressione in quanto protezione), ma anche valorizzazione della potenza della vita, come resistenza e come molteplicità produttiva e affermativa. In ogni caso ci troviamo di fronte al tema della insignificanza delle autorappresentazioni: giuridiche, istituzionali, politiche, ma anche economiche, tutte insufficienti ad evidenziare il corto circuito bios/nomos, la nuova presa diretta del potere sulla vita, vita che, a sua volta, trasforma la logica del potere. Si tratta di una prospettiva immanentistica che sottrae la politica ad ogni presupposto trascendentale, avvitandolo alla vita stessa. Questo aspetto risulta certamente più evidente, più drammatico, se ci si riferisce a quella biopolitica tematizzata da Foucault in Bisogna difendere la società e poi sviluppata, al di là di Foucault, da Esposito, da Forti o da Agamben, che ha per oggetto corpi, salute, razza, biologizzazione della politica e politicizzazione del biologico: aspetto della cui attualità, anche dopo l’apice drammatico del nazismo, non cessiamo 39 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di stupirci, dovendo fare i conti con continui, violenti impatti del potere sui corpi delle persone. Il settore delle nostre riflessioni – l’economia – è meno evidente e meno drammatico: lo stesso Foucault lo prendeva e lasciava cadere, senza riuscire a metterlo veramente a fuoco, a determinarne appieno la natura biopolitica e a dare un senso compatto alla sua ricerca, in questo caso più frammentaria e discontinua del solito e poi, stranamente, abbandonata per seguire altra via – quella della costruzione estetico/etica del soggetto, che è tutt’altra cosa. Il problema è che, trattandosi di economia, l’immanentismo, appena evocato, il corto circuito bios/nomos, fa problema. Un problema ineludibile, perché quando si vuol parlare di economia, economia che non sia la semplice sussistenza, è chiaro che bisogna aprire all’interno di quel corto circuito vita-potere (dell’immanenza dunque) degli scarti, o almeno, delle differenze, dei dilazionamenti: una, diciamo così, trascendenza nell’immanenza, una «transimmanenza», come dice Jean-Luc Nancy. L’economia moderna non nasce sotto il segno della sopravvivenza, non è concepibile, anzi, se non quando il segno della necessità e della pura sopravvivenza si allenta. D’altra parte sappiamo, anche se non vorremmo saperlo, che la festa del benessere è circondata, assediata, invasa dalle sterminate regioni della povertà, della sete, della fame, della sofferenza e dunque della vita che si staglia appena sulla morte. L’economia non è forse, anche solo intuitivamente, il luogo della lotta per la sopravvivenza e perciò del potere vero di decisione sull’esistente? Non è l’ambito decisivo delle relazioni degli uomini con le cose e tra loro che già per Hannah Arendt definiva il moderno e che oggi ha acquisito in una prospettiva globale un carattere destinale, planetario, di indiscusso luogo della legittimazione? Ora che il benessere, insieme alla salute fisica, soppianta tutte le differenziazioni culturali, tutte le interpretazioni multiculturali dei diritti. Salute, benessere, ricchezza sono parole che mettono a tacere la differenza, facendo discendere il luogo della legittimazione dall’alto della sfera dei diritti dei soggetti giuridici alla comunità biologica dei corpi umani, che hanno tutti esigenze materiali e biologiche assimilabili. E se è inevitabile parlare di economia, che relazione ha questa con la biopolitica? Che ci sia un problema, d’altra parte, nel pensare la biopolitica attraverso i fenomeni economici, è evidente nel modo con cui lo stesso Foucault ha lavorato su questa prospettiva. 40 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Innanzitutto, se, come abbiamo visto, il biopotere si esercita nelle forme della governamentalità e quest’ultima ha una logica strategica espressa da fini, mezzi, norme piuttosto che da leggi, Foucault rifiuta ogni facile riduzionismo del potere alla sua versione economicista, sia nella versione liberale sia in quella marxista. Dopo essersi chiesto se l’analisi dei poteri possa dedursi dall’economia, polemizza con l’economicismo liberale – che fa del potere un bene che si possiede, si scambia, si trasferisce, secondo il modello giuridico-economico – e con il determinismo marxiano – che stabilisce una «funzionalità economica» del potere, che avrebbe il ruolo di mantenere i rapporti di produzione e dunque la dominazione di classe: Nel primo caso abbiamo [...] un potere politico che troverebbe nel processo dello scambio, nell’economia della circolazione dei beni, il suo modello formale. Nel secondo, un potere politico che avrebbe nell’economia la sua ragione d’essere storica, il principio della sua forma concreta e del suo funzionamento attuale27.

Viene contestato così il livello d’analisi riduttivo che subordina il potere all’economia cui sarebbe funzionale e di cui riprodurrebbe le logiche mercantili: non è questo il senso dell’economicità del potere. Quello che Foucault cerca è un livello diverso di connessione, diverso sia dalla subordinazione funzionale sia dall’isomorfismo formale. Quale? Innanzitutto quello relativo ad un biopotere che, teso a preservare la vita e a incrementarla, rifugge dal dispendio assoluto della sovranità e calcola «con il minimo di dispendio e il massimo di efficacia». Il potere disciplinare è stato grande «strumento della costituzione del capitalismo industriale»28; «questo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi nell’apparato della produzione, e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici». La politica come governamentalità è in questi «metodi di potere suscettibili di maggiorare le forze, le attitudini, la vita in generale... a livello dei processi economici, del loro sviluppo, delle forze che vi sono all’opera e che li sostengono»29. Foucault attiva l’attenzione sul «sapere economico» quando, in Bisogna difendere la società, sottolinea come il sapere storico della nobiltà abbia cercato di inserire un cuneo di disgiunzione tra il sapere giuridico e quello economico-tecnico dell’amministrazione, cercando in questo modo di renderla meno docile al sovrano stesso. Dunque 41 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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attribuisce peso strategico al sapere amministrativo «delle ricchezze attuali o virtuali, sapere delle imposte sopportabili, delle tasse utili»30. Questo sapere-potere economico-amministrativo è permeato di vocazione biopolitica, attento com’è ai processi riproduttivi della popolazione in connessione con i fenomeni economici. Dunque, nonostante che in quel testo l’esito biopolitico sia poi legato alla statizzazione del biologico attraverso il razzismo, già abbiamo l’annuncio di una ipotesi non giuridica, ma economica, del potere. Di logica economica, come si evince da espressioni quali ottimizzare uno stato di vita, o massimizzare le forze 31. È in Sécurité, territoire, population, però, che assistiamo ad una serie di slittamenti molto interessanti in questa direzione. Il corso si apre enunciando l’obiettivo di studiare esattamente il biopotere, «i meccanismi attraverso i quali ciò che, nella specie umana, costituisce i suoi tratti biologici fondamentali entra all’interno di una politica, d’una strategia politica, d’una strategia generale di potere»32, ma di fatto si parla di biopolitica solo nei termini di governamentalità, che è il vero oggetto di questo corso, così come del successivo, Naissance de la biopolitique, interamente strutturato sulla governamentalità del liberalismo, vera, moderna tecnica biopolitica. Questo slittamento non è argomentato, anche se è assolutamente centrale e, a mio avviso, opportunamente centrato. Che cosa è avvenuto? Di che cosa il testo foucaultiano non dà conto pur presupponendolo? Innanzitutto, e su questo Foucault è esplicito, c’è la sostituzione della nozione individuale di corpo con quella di popolazione, che sta ad indicare la possibilità di prendere ad oggetto masse consistenti di viventi in quanto specie generica, con problemi e esigenze «umane» altrettanto generiche: questo rende biopolitico tutto ciò che ad esse si riferisce. Il governo delle popolazioni passa dal riferimento più tradizionale all’autorità pubblica – che si prende cura della sicurezza e del potenziamento delle popolazioni in una prospettiva di sapere del sovrano, e della ragion di Stato, nonché delle tecniche di Police – al concetto fisiocratico di gouvernement économique. È questo il passaggio cruciale che mette in rilievo l’economia politica come tecnica di gestione delle popolazioni e scienza che ne oggettivizza ruoli ed esigenze: l’essenza stessa del governo, nel suo senso moderno, è l’economia, l’arte di esercitare il potere nella forma dell’economia. Si ha così un ulteriore slittamento molto significati42 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vo, per cui la parola «economia», che designava una forma di governo, di amministrazione e di provvidenza pastorale fino al XVI secolo, indicherà dal XVIII un piano di realtà, un campo di intervento per il governo. Questo spostamento, mai definitivo, dell’Economico da modalità del potere, logica strategica, a oggetto di potere evidentemente governato da questa stessa logica – luogo dove si produce di che vivere e si gestiscono le forze produttive (in quanto riferito direttamente alle esigenze di vita delle popolazioni, dei governati in quanto corpi viventi) – lascia delle perplessità. Infatti una modalità di gestione originariamente relativa ai singoli e alle anime (come dimostra la genealogia cristiana del pastorato, poi divenuta gestione politica) manifesta una connessione importante, ma da esplicitare analiticamente, con un campo, quello del mercato e dello scambio, che in altro luogo Foucault afferma estraneo alla logica pastorale, sottolineando la cesura tra i due momenti. Evidentemente una delle due affermazioni, a mio avviso la seconda, non è totalmente sostenibile. Foucault nel ricostruire la genealogia del governo – per definire il quale cita una frase di Guillaume de La Perrière: «Governo è la giusta disposizione delle cose, delle quali si prende carico per condurle al fine conveniente»33 – sottolinea, infatti, una cesura tra governamentalità pastorale e economia «moderna», assumendo dunque il regime di verità e di soggettivazioni con cui la scienza economica si autorappresenta. Questa autorappresentazione fa perno (in parallelo con quella dei soggetti giuridici e politici del contratto) sulla logica economica dell’efficienza e dell’ottimizzazione del profitto, nonché sulla presunzione di indipendenza e razionalità della scelta dell’agente economico; ma questi caratteri che hanno, per così dire, «costituito» gli agenti della scena del mercato occultano l’essenziale biopoliticità del fenomeno economico che, a sua volta, non è estraneo, come dichiara, dalla dipendenza, dalla gerarchia e dalla modalità oblativa tipiche della gestione pastorale. La mia ipotesi è dunque che vada approfondita l’analisi del comportamento economico «moderno» per cogliervi i caratteri persistenti di governamentalità anche al di là dell’azione gestionale della economia da parte dello Stato. Foucault, infatti, riferisce l’attività gestionale precipuamente, se non esclusivamente, allo Stato, anche se l’essenzialismo dello Stato stesso viene smontato nella serie di tecniche e strategie di potere che 43 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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lo attraversano. Dire governo come sinonimo di Stato indica la complessità e l’immanenza delle forze della statizzazione (étatisation) e significa che lo Stato non è altro che il fascio di forze e relazioni di potere immanenti alla società. A questo complesso di forze statizzate si riferiscono i dispositivi di potere governamentale, secolarizzazione dei modelli di gestione pastorale cui abbiamo già fatto riferimento: la loro economicità sta nella modalità finalistica, volta all’effettualità, incrementativa e non repressiva, che li contraddistingue. Certo – dal momento che la biopolitica è quel tratto della politica moderna che sconvolge e smentisce la classica rappresentazione della separazione tra pubblico e privato, vita e forme, universale e particolare, incarnato e astratto, individuando esattamente nella presa diretta sui corpi privatissimi la specificità moderna del potere – ci si sarebbe forse aspettato che le forme di potere e i regimi di sapere che le oggettivizzano venissero esplorate da prospettive diverse, secondo logiche di agonismo o di resistenza, comunque interne alla semantica del potere. Per Foucault, invece, l’economico/amministrativo, nella sua prima forma di modalità di «gestione delle cose in modo adeguato alla loro convenienza», è interamente ricondotto alla gestione dello Stato. Quando, con la fine del Settecento, l’economia propriamente detta, crescendo, si rende autonoma e si riferisce ad un meccanismo naturale – che, come Foucault sottolinea, il sovrano ignora nel suo complesso – essa diviene un test di attendibilità del governo statale stesso. L’esternità di regime di sapere economico e luogo politico della governamentalità è esattamente la chiave di lettura di questa fase biopolitica liberale che mira all’essere meno governati. Colpisce la prospettiva che Foucault fa propria (nel senso che la riconosce come origine delle soggettivazioni e oggettivazioni di potere contemporanee della gestione economico-politica del mercato): non viene preso in considerazione il governo strategico dell’economia (genitivo soggettivo), quelle prassi di individualità, quegli organismi e istituzioni economiche che a loro volta sono governo e poteri, spesso antistatalisti o antagonisti di quello politico, ma comunque poteri. E viene sottovalutata anche, tranne in alcuni punti del discorso in cui si sfiora appena la tematica complessa della società civile, la socializzazione della politica che sostiene e accompagna la crescita della nuova prassi economica, cioè il far propri, da parte degli individui, nei meccanismi di autogoverno e legittimazione democratici, degli obiettivi dell’ambito socio-economico: 44 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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il cui esito è poi quella democratizzazione della biopolitica che oggi ne incrementa smisuratamente il potere. La stagione, tutt’ora in corso, della governamentalità liberale appare strutturata sulla limitazione, tramite la veridificazione economica, dell’eccesso di politica, con una contraddizione evidente: in cambio delle libertà produttive e di mercato si chiedono quei dispositivi di sicurezza che paradossalmente reprimono la libertà invocata. Siamo nel pieno dispositivo moderno dell’immunizzazione34. Quando, verso la fine del XIX secolo, la governamentalità statale liberale è costretta a mutare registro e a riequilibrare le disfunzioni sociali scaturite dalla socializzazione della produzione, attraverso dispositivi di assicurazione che fanno perno esattamente sulla crescita di governamentalità, sull’interventismo e dirigismo economico e sulla politicizzazione dell’economia, ci saremmo aspettati che questa svolta interventista dell’economia capitalista fosse considerata l’apice della governamentalità economica biopolitica, in quanto è proprio allora che emerge la gestione di nuovi bisogni inerenti al corpo della popolazione: salute, vecchiaia, sicurezza, tutti temi che intrecciano irreversibilmente la vita biologica e la vita economica, chiamati in causa dal nuovo più complesso meccanismo di legittimazione politica. In realtà, pur riconoscendo le contraddizioni tipicamente immunitarie che si rivelano in questo esito biopolitico della governamentalità liberale, Foucault dedica il suo corso del ’78-79, dall’enfatico titolo Nascita della biopolitica, non al Welfare e all’economia politica, ma al contrario alle teorie antiwelfariste che maturano nell’ambito delle scuole economiche neoclassiche, tedesca e americana. Indubbiamente alcune sue considerazioni sono di grande rilievo, soprattutto in relazione alla necessità di contestualizzare sempre e comunque il concetto di libertà. Ne deriva un dispositivo, quello del liberalismo, flessibile e polimorfo, che può tanto difendere l’autonomia dell’agente economico e quella del mercato, quanto richiedere l’intervento regolativo del ciclo economico nel New Deal; centrale nella governamentalità liberale è il gioco immunitario di sicurezza e libertà, per il quale dispositivi liberogeni si rovesciano nel loro opposto: «meccanismi produttori di libertà, quegli stessi che sono stati messi in campo per assicurare e fabbricare questa libertà, produrranno di fatto degli effetti distruttivi che prevarranno anche sui loro effetti produttivi»35. Quello che sembra interessare Foucault è in 45 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ogni caso il classico antagonismo di economia e politica, mercato e governo, in chiave, direi, libertaria, antistatalista. Le teorie della scuola austriaca e di quella di Chicago sono fatte oggetto di una disanima che non si cura delle prassi concrete di gestione del potere economico, col sottinteso che questi regimi scientifici di veridizione siano adeguati a mostrare come siano strutturate le figure soggettive e oggettive della scena attuale, poiché l’hanno costruita. Il mercato, dunque, come luogo di veridizione e test di attendibilità del governo: l’ordoliberalismo tedesco mira a legittimare l’intervento del governo statale proprio al fine di preservare le condizioni di perfetto equilibrio del mercato, demolendo le coartazioni storiche e contestuali che ne minano il carattere indipendente e spontaneo; l’anarcoliberismo americano mira ad estendere la razionalità spontanea del mercato e le sue regole ai domini sociali tutti, attraverso la teoria del capitale umano che fa perno sull’agency dell’homo oeconomicus, imprenditore di se stesso e modello di qualsivoglia scelta-tra-alternative-in-un-campo-di-scarsità. La logica economica utilitarista della scelta razionale tra panieri di beni possibili e concorrenti, alternativi in una situazione di scarsità, diventa la logica della convivenza politica e sociale. L’autorappresentazione dell’uomo economico capace di scelte di utilità e di interesse è l’altra faccia del soggetto giuridico-politico, in quanto la presunta spontaneità dell’uno fa da contrappeso e da calmiere all’artificialità del secondo, limitando il potere di governo. Il discorso foucaultiano, ripreso sommariamente nei suoi nuclei fondamentali nell’ottica che ci interessa, lascia molte questioni aperte, alcune delle quali già accennate: innanzitutto lo slittamento del paradigma biopolitico in quello della governamentalità; poi la cesura istituita tra prassi governamentale di ascendenza pastorale e economia moderna, cesura che segue, senza problematizzazioni, la discontinuità dell’autorappresentazione moderna e neoclassica dell’economia. Sono aggirati, in una tonalità, ripeto, libertaria, affascinata dalla scoperta della energia antigovernamentale del liberismo economico contemporaneo, le ambiguità della ratio economica che, se da una parte si afferma come logica strategica e utilitarista di qualsivoglia potere, dall’altro manifesta la persistenza dei caratteri di norma interna, di regolarizzazione extragiuridica, di relazioni gerarchiche fondate sulla competenza e la fiducia. Non si fa cenno infine alla eccedenza di senso del mercato, che contraddice tanto la linearità 46 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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della logica di ottimizzazione quanto la presunta indipendenza degli agenti, e mostra piuttosto una complessa inerenza ai processi psicosocio-antropologici dei viventi. L’implosione delle forme di governamentalità statale, prevalentemente veicolate da dispositivi economici, che negli anni dei corsi foucaultiani già era all’orizzonte, avrebbe forse richiesto un ripensamento in chiave biopolitica degli stessi poteri socioeconomici, richiedendo meccanismi ermeneutici più fluidi in luogo della rigida polarizzazione Stato/mercato. La rappresentazione neoliberista (contraddittoriamente ripresa da Foucault), che riduce a relazioni quantitative la complessità della prassi economica, di fatto scioglie ancora una volta il problema del carattere biopolitico del mercato stesso dal nodo decisivo con il vivente, i suoi bisogni, le sue necessità o i suoi desideri, le sue dipendenze, in direzione della rigida relazione tra governare e essere governato, e dunque orienta l’analisi contro l’eccesso di governo. 6. Incremento della vita e governamentalità economica Dunque il discorso di Foucault è stimolante, apre delle prospettive nuove, ma non le sviluppa fino in fondo. La sfida che mi è sembrata più importante raccogliere è l’inserimento dell’economia nel quadro biopolitico, in quanto l’economia (insieme alla medicina con cui intrattiene una relazione non estrinseca né precaria) rappresenta oggi un nodo indiscusso di legittimazione ad oltranza in nome della vita. Sono luoghi di sapere, regimi di verità potentissimi, non discutibili, su cui poggia, ben al di là dell’ambito giuridico dei diritti, il consenso attivo, perno dell’obbligo politico e della coesione sociale. È proprio questa legittimazione assolutamente immanentizzata che ha permesso una completa democratizzazione della biopolitica, anche quando lo Stato-nazione sembra tramontare nel tempo della globalizzazione, perché parla un linguaggio assolutamente transnazionale e assolutamente generico, quello del benessere, della vita, della salute, dell’edonismo. Intendo per democratizzazione della biopolitica la interiorizzazione dei suoi fini, la forma soggettiva che gli attuali discorsi di sapere considerano come vera e adeguata, e che concerne prevalentemente la vita naturale (scienza medica e scienza economica). Una volta accolta la sfida che nasce dalla constatazione che gran parte del consenso attivo 47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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oggi si gioca nel cerchio biologico di sopravvivenza-produzione-riproduzione-cura del corpo-benessere, va sottolineato che i due nodi tematici della medicina e dell’economia presentano entrambi, nella modernità occidentale, una configurazione non orientata alla sopravvivenza ma alla incrementazione della vita, con un andamento non circolare, ma a spirale. E qui tentiamo una prima risposta ai quesiti posti dalla lettura foucaultiana, e dunque al problema dell’immanentismo. La mia impressione è che, se, sulla scia di Foucault o di Agamben, centriamo la biopolitica sull’autoconservazione della vita, dunque sul dispositivo difensivo della sicurezza, sul rapporto tra bisogno e mancanza e sul presunto equilibrio omeostatico da ripristinare dopo la minaccia, finiamo per perdere qualcosa della sua struttura complessa. Ripeto, è lo stesso Foucault a usare continuamente il termine sécurité, e indubbiamente il meccanismo immunitario risulta centrale in questa logica di reazione compensativa e difensiva: infatti Foucault ne ha fatto il cuore del liberalismo, della sua oscillazione tra produzione e neutralizzazione del rischio. E però forse è opportuno sottolineare energicamente la differenza di funzioni tra medicina e economia nel mondo premoderno e moderno: essa sta nel quid di incremento, di potenziamento, e quindi di sbilanciamento della vita, che viene perseguito. Non un semplice meccanismo di preservazione e di difesa, dunque di autoconservazione, ma un indispensabile movimento dinamico di accrescimento. Anzi di accrescimento indefinito della vita. Un eccesso, un surplus è il senso cremastico dell’economia moderna: essa è ossessionata da quell’eccedenza di profitto, che permette il ciclo produttivo e mira dunque ad una spirale di crescita, e da quell’eccedenza del bisogno, che innesca la spirale del consumo. Ci possiamo chiedere poi se questo dinamismo e questo accrescimento siano un portato della centralità cristiana della vita e dunque carico di un’eccedenza sacra, o se, più probabilmente, si tratti dell’innesto dell’homo faber e della sua temporalità attiva, tecnica e prometeica all’interno della sfera biologica. O se addirittura sia costitutivamente inerente alla temporalità evolutiva antropologica, propria dell’organismo biologico, lo schema che spinge all’incremento: quella singolare legge economica che, saturata la necessità, persegue la ricchezza come condizione per soddisfare futuri bisogni e desideri ancora negati, e inevitabilmente trasforma l’eccedenza 48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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della ricchezza ottenuta in necessità; surplus che si scambia con ciò che per un altro è necessario; eccedenza che diventa base per nuove esigenze. Occorre ad ogni buon conto sottolineare il carattere immanentizzato, secolarizzato, del potenziamento, della crescita nelle nostre società. La crescita «è il principio di autoaffermazione e autolegittimazione dell’Occidente, l’ideologia che ne supporta la vocazione universalistica. Ma anche l’elemento dinamico che lo condanna alla saturazione, al conflitto sociale, all’implosione ambientale e alla desertificazione morale – dunque squilibrio, patologia, metastasi». Anche se non si condivide l’intonazione apocalittica di coloro che vedono esattamente nei presunti valori positivi dello sviluppo, della tecnologia produttiva, nel «connubio di mercato e democrazia – asse su cui poggia la società aperta», il «principio di distruzione, profanazione e manipolazione della vita», certamente la indefinita crescita tecnoscientifica e produttiva presenta i tratti rovesciati della teodicea: «Nell’arena delle società del benessere il male entra regolarmente in scena con la maschera del bene»36. È questo il carattere biopolitico della crescita economica, che ne rivela il tipico dispositivo immunitario per cui il bene, il phàrmakon, si rovescia nel male. L’ossessione produttiva capitalista crea distruggendo: «Un elemento di violazione e di violenza è presente in ogni fabbricazione, e l’homo faber, il creatore del mondo dell’artificio umano, è sempre stato un distruttore della natura»37. Per Hannah Arendt, la processualità biologica del lavoro trascina la produzione dell’opera, dell’artificio, nel vortice del consumo, dunque nella ciclicità vorace del vitale. Un vortice in cui sono attratte e consumate le risorse del pianeta e quelle fisiche degli uomini che lavorano, dove vengono dissipate immense quantità di cose e dissolte comunità umane che disperdono la loro appartenenza e i loro ricordi, inseguendo quel miglioramento in una parte del globo lontana da casa, in una situazione caratterizzata da un perpetuo squilibrio vitale. In fondo nessun aspetto dei fenomeni riguardanti l’umanità globale mostra questo tratto biopolitico come quello della indefinita crescita che divora il pianeta; quella «effettiva forza motrice», «l’aspirazione verso il di più», che Elias Canetti avrebbe detto propria della muta di accrescimento38. Questa spinta produttiva-dissipativa, che reclama la vita e ha in modo più sotterraneo a che fare con il desiderio, con la morte e con la paura, soprattutto riflette in uno specchio oscuro il volto biopoli49 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tico di quell’economia, tanto vorticoso e distruttivo quanto essa si presenta costruttiva, positiva, razionale. Ma, quale che sia la pulsione, il motivo o l’ascendenza culturale che stimola la rincorsa, in quel più vita, o più di vita, si inserisce il potere, la gestione, la governamentalità dell’accrescimento stesso; si inserisce un vettore simbolico, come non potrebbe avvenire nel circolo chiuso di necessità-riequilibrio della sussistenza, se mai un circolo strettamente naturale fosse pensabile. Lo iato del più è lo spazio aperto all’opera dell’uomo, alla sua tecnica che trasforma in ogni fenomeno la potenzialità della vita in dispositivo di biopotere. Se la vita è il fine immanente alla vita stessa39 l’economia (e la medicina moderna) è legata all’incrementazione di quella vita, prodotta dalla tecnica: con essa l’immanenza del circuito vita-potere, bios-nomos, apre la forbice della governamentalità, fa spazio al simbolico e diventa gestione. Questo spiega lo slittamento del discorso foucaltiano che annuncia la biopolitica e parla di governamentalità. Il motivo dello slittamento tra i due concetti sta nella forbice che si apre offrendosi all’opera del potere: una forbice tra la vita come è, su cui poggia il pesante suggello del biopotere, e la vita come trasformazione. In realtà quello che chiamiamo vita è un discorso sulla vita. La biopolitica economica (come quella medica) apre il «fatto» vita e lo sottopone alla norma di potenziamento imponendogli il procedimento incrementativo40. Il corporeo, i bisogni, la popolazione, che ne rappresenta il corrispettivo collettivo, non sono che una serie di processi, materia in movimento, costellazione di fatti con una loro opacità e ostinatezza, con dinamiche e logiche proprie poco penetrabili. O meglio, sono penetrabili e gestibili solo a condizione che le misure e le linee di intervento e di gestione politica siano ponderate, appropriate, flessibili come l’oggetto cui si riferiscono. Siano, cioè, tali da cogliere la «norma interna» del loro esplicarsi e non si calino dall’alto attraverso l’istanza politica classica, sintetica e trascendente, dello Stato e del diritto, pena un circolo degenerativo e inefficace. La governamentalità specificamente economica si rivela come la capacità di costruire la genericità nei corpi singoli, la capacità di individuare e stabilizzare la omologazione dei bisogni, che esistono nella misura in cui sono individuate e costruite le equivalenze, le regolarità comportamentali, da parte di un governo, statale o sociale: un lavoro di sollecitazione, di selezione, da parte di un certo 50 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sapere, di un’autorità sovrana-pastorale che le rende più efficienti. Questo tratto di autorità pastorale non ha i caratteri artificiali e volontaristici della sovranità giuridico-politica hobbesiana. La sua autorevolezza sta nell’essere erede di una pastoralità che proviene dalla cura del vescovo-pastore cristiano o dal modello paternalistico con cui esso condivide la sapienza dei fini, il regime di verità senza il quale nessuna biopolitica ha senso, e dunque dall’autorità come competenza ma anche e soprattutto come augmentum, incremento: la gestione del potere in nome e dalla parte dei governati, secondo la loro stessa natura, iuxta propria principia, destinata a sollecitarne e accrescerne le forze, il benessere – in fondo, a ottimizzarne l’efficienza. Siamo da sempre attirati nel cerchio della produzione-consumo, e ci muoviamo in esso, orientati, guidati, sollecitati da influenze che parlano in nome dei nostri interessi, che mirano ad aumentare la nostra produttività e a realizzare, come consumatori, i nostri bisognidesideri. Nessuno ci costringe, qualcuno ci aiuta a scoprire le potenzialità e i desideri che erano sopiti nella nostra carne. Almeno qui, almeno nel nostro pezzo di mondo. Come sottolinea Deleuze, il modello disciplinare, concentrazionario individuato da Foucault si dissolve in forme di controllo diffuso, modulare41. Siamo continuamente sollecitati a cooperare col sistema, ad assumere il nostro ruolo, la nostra soggettivazione, quella che ci guida a vivere al meglio; un meglio che è quello di tanti altri, ovviamente. Ma solo con il regime di veridizione che stabilisce quelle equivalenze, quelle omologazioni – costruite in modo flessibile e appropriato ad un movimento dal basso e ad un’esigenza spontanea che viene ora stimolata, ora indirizzata, ora neutralizzata, per orientarla verso uno scopo più produttivo, più utile – solo con un regime di veridizione dunque, gli oggetti politici possono emergere e politici possono essere anche gli oggetti, le regolarità, i comportamenti economici di produzione e consumo. La governamentalità pastorale descritta da Foucault – interrotta a suo parere dalla nuova economia liberale antagonista alla intromissione del governo, poi paradossalmente ripresa dall’interventismo statale del New Deal, e infine ancora respinta in quanto «eccesso di governo» – sperimenta oggi, in una fase tardomoderna che Foucault non poteva saggiare, una nuova attualità. Non nell’eccesso del governo interventista statale, ma nella gestione flessibile e personalizzata, capace di strutturare corpi e desideri che i molti poli del potere sociale, economico e commerciale controllano. Questa svol51 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ta smentisce l’autorappresentazione moderna dell’economico e presenta in maniera massiccia tratti biopolitici che ci rimandano proprio le tracce di quella antica governance. È la questione, a mio avviso, aperta e lasciata cadere da Foucault: la cesura che l’autorappresentazione dell’economia pone tra logica economica, razionalità strategica e efficientista, e logica pastorale, quella logica che a lungo, anche nelle forme della Police e della ragion di Stato, ha «governato» le vite biologiche, ma anche produttive e economiche, delle popolazioni. Quando ripercorriamo, sulle tracce di Foucault, la genealogia teologica, pastorale, oikonomica del governo, che da governo delle anime si farà governo dei corpi e delle condotte, scopriamo che in prima istanza è lo scopo salvifico-incrementativo a secolarizzarsi nel binomio salute-benessere. La pastoralità deriva dalla capacità di persuasione di un’autorità di origine sacrale secolarizzata che ha conoscenza della verità e della bontà del fine, e indirizza «in modo conveniente alla loro natura» le energie dei governati, perché maturino le loro implicite possibilità, attraverso un’influenza diretta, personalizzata, intima, convincente, condivisibile, tipica delle strutture tradizionali di cura, di sollecitudine, di affetto. Tanto nel diritto comune quanto nel diritto canonico, si parla di un criterio normativo diverso dalla legge, di un modus, di una misura interna alla realtà piuttosto che sovrapposta ad essa, più finalizzata ad una entelechia della cosa, al fine che ne rappresenta la piena realizzazione, che orientata all’ordine in se stesso, a quell’autoreferenzialità conservativa tipica del politico. Questo modus è una forma di razionalità gestionale, quella che oggi sarebbe chiamata un management, che si smarca dalle rigidità dell’ordine giuridico, mescola pubblico e privato; una cura et sollecitudo in cui in primo piano è il criterio del servizio (del munus), dell’efficacia, della salvezza delle anime e dei corpi e che dà più spazio alle concrete misure di organizzazione economica, patrimoniale e umana, piuttosto che alla concettualizzazione rigida di queste misure. Ora, da questo management pastorale, non condotto in nome proprio ma a vantaggio dell’impresa (religiosa, amministrativa, individuale), deriva una famiglia di strumenti concettuali tipica del lessico aziendale e medico, che oggi, presenti nella prassi economica, difficilmente sono inseribili in una concettualizzazione astrattamente razionale e atomistica delle scelte economiche. 52 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Quello stesso circolo sistemico, ricursivo, del pastorato – biologico più che logico, che si riconosce non in una legge esterna e imperativa ma in una norma immanente e dunque endogena, di sviluppo, tale che la condotta conforme sia spontanea – si presenta nel mercato nel miracolo della espansione di interessi privati divergenti e tenuta del tutto, relativamente, disciplinata. Così l’ordine immanente – ipotesi sottesa da sempre all’ideologia del mercato e sostituto moderno del sacro, dell’indisponibile – nel quale è vissuto come eteronomo un processo di autogoverno spontaneo. Così le norme gestionali dell’impresa, ma ancora di più del risparmio e dell’investimento – che agiscono come se l’equilibrio dei prezzi fosse una verità incondizionata, un dato (eteronomo), mentre quel punto di equilibrio è condizionato dall’interno dagli stessi comportamenti delle imprese42. Così le scelte che avvengono sotto la guida di agenzie di rating, di promoters e di intermediari – la cui competenza consiste nel precedere le scelte della popolazione – seguendole. Così le norme gestionali extragiuridiche, personalizzate, come richiede il ruolo centrale del marketing – che si modella sul cliente (come un tempo sul governato) per assecondarne e sollecitarne le esigenze, i sogni, le possibilità; relazioni di potere dove è centrale la fiducia, l’affidamento, la expertise, l’autorità appunto per competenza, ma dove il contenuto di verità è esattamente nella fiducia di colui che ad esso si affida; e dove si smentisce appunto ogni decisione autonoma del consumatore e dell’investitore, che non potrebbe in nessun caso assumere tutte le informazioni significative del mercato e valutarne l’affidabilità. La flessibilità è costitutiva di queste regole e ricalca la mobilità sempre maggiore e l’imprevedibilità di mercati psicologizzati e socializzati, nei quali si intrecciano prospettive plurali e influenze molteplici e contraddittorie, e dove i comportamenti, indirizzati da bisogni e motivazioni non controllabili, richiedono un continuo adattamento. È l’imprevedibilità dell’oggetto-vita cui le regole economiche fanno riferimento diretto, in quanto non sono volte a ristabilire un ordine trasgredito (giudizio, sanzione, legittimità), ma a instaurare un ordine vitale attraverso una ortopedia della condotta che permetta un controllo interiorizzato. Disarticolando i caratteri di questa norma gestionale al fine di individuarne le tracce nel comportamento economico contemporaneo, risalta la struttura finalistica cui è indirizzata: la salvezza e la salute. Il binomio economico riuscita/fallimento si sostituisce così sur53 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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rettiziamente a quello legittimo/illegittimo. La legittimità è riassorbita dalla utilità: utilità e cura della vita si tengono nell’immaginario del consenso, anche se la visione complessa dell’economico e la continua eccedenza di senso, che si produce nelle sue relazioni e transazioni sociali, implicano fattori di legittimazione più complessi e identitari, dal momento che le scelte «utilitarie» possono interpretarsi come testimonianza di appartenenza a gruppi o come aspirazione a farne parte. Si è detto del rapporto stretto della governamentalità con il regime di verità, con discorsi a pretesa di verità, un tempo si sarebbe detto oggettivi. La pretesa di verità crea diseguaglianza tra chi è esperto e chi non lo è, con effetti di potere a favore del primo. Il tratto dell’autorità come competenza richiama la responsabilità, quello che Foucault chiama «l’inversione del sacrificio»43, per cui chi è autorevole si assume la responsabilità dei governati e ne risponde: a questo proposito si può notare, nella stessa gestione dell’economico, una oscillazione non dissimile a quella riscontrabile nel linguaggio politico, della categoria della responsabilità, tra il significato giuridico e uno più complesso di responsività, attenzione, risposta all’altro: non importa che la risposta «adeguata» non sia ispirata da affetti, da solidarietà o da etiche del dono, perché rappresenta comunque una corrente di rapporto personalizzato, di fiducia su cui poggia la scelta. Si colloca dunque nella presa in carico delle richieste altrui, nella cura, che, infatti, oggi viene enfatizzata nei rapporti delle aziende con gli utenti (ti telefonano per sapere se un nuovo prodotto risponde ai tuoi bisogni, ti mandano gli auguri per il compleanno) e che, contrariamente ad una visione stereotipa dell’economia neoclassica, è invece un elemento significativo di questa gestione economica e fa da tramite alla sua discussa relazione con l’etica. Il fatto economico, presunto dato naturale/spontaneo, è frutto di una doppia costruzione veridica: i dati sono costruiti in modo da stare al passo o coincidere con le categorie burocratiche degli Stati moderni o con il marketing degli organismi di gestione e di controllo (banche, organismi internazionali, reti di cura), che mirano ad identificare gli individui e a definire i gruppi; ma è anche frutto del principio su cui viene fondata la costruzione, un principio di scambio rappresentato come naturale, vero, oggettivo, veridizionale: pratiche di governo (non solo statale, ma assai più ampiamente sociale) e effetti di verità. Così l’economia, luogo oggi di veridizione scientifica, 54 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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chiama lo Stato a giustificarsi, ad assumere logiche e argomentazioni che non gli sono proprie, con un linguaggio che lo vede inevitabilmente rincorrere una piena legittimazione senza mai raggiungerla, laddove le diverse agenzie di potere e influenza economica la ottengono attraverso l’obiettivo del miglioramento del livello di vita. In verità assistiamo, a riprova di una confusione delle logiche di governo politico ed economico, a uno scambio e a una sovrapposizione, a una assimilazione di élites propriamente politiche (ma che condividono la gestione con la controparte burocratica, i mandarins britannici e i grands commis francesi) con i vertici che controllano il mondo degli affari: d’altra parte, già nel corso del tardo Novecento, si affermano nuovi modelli di potere al controllo delle grandi corporations, con risorse intellettuali e morali diverse da quelle degli imprenditori storici. All’insieme estremamente complesso di una corporation corrisponde una capacità di costruzione e di governo organizzativo che sappia sintetizzare gli input esterni, la pluralità degli ambienti, tecnologico, finanziario, dei consumatori, della concorrenza, e infine la pluralità dei contesti politici con cui la corporation viene in contatto. Questo significa che del manager conta la capacità di persuadere e coinvolgere le controparti, di negoziare con loro, se necessario di corromperle, di minacciarle, e insieme di valutare il potenziale economico delle conoscenze scientifiche, delle innovazioni tecnologiche, dei sistemi organizzativi. Conta la capacità di creare e comunicare l’immagine del gruppo, che, per quanto affidata a specialisti, resta comunque responsabilità del vertice: come non pensare alle machiavelliche virtù politiche della «volpe» e del «lione»? Come non pensare alle sempre più numerose personalità di imprenditori prestati alla politica, in luogo dei weberiani politici di professione, dove nel capitano d’industria o nel manager si riconosce la guida di successo che ha risolto i problemi della propria azienda, ne ha moltiplicato la ricchezza e la redditività, e di cui ci si può «fidare»? Certo, ha dunque grande importanza l’aver scelto, da parte di Foucault, i discorsi con pretesa di verità degli economisti contemporanei, perché essi costituiscono l’autorappresentazione del processo di soggettivazione degli agenti economici: qualificano i loro bisogni, il valore dei loro comportamenti e il loro proprio valore. Ma evidentemente questo potere di soggettivazione non spiega abbastanza il complesso mescolarsi di logica dell’ottimizzazione del profitto e logica 55 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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della mediazione tra le parti, logica utilitarista e logica dell’affidamento, della «fiducia». Anche qui possono avanzarsi dei problemi. Il fatto che la modalità biopolitica dell’economia smentisca l’assunto liberale della separazione tra sfera pubblica e sfera privata e presupponga una idea di politica che va al di là dello Stato (ampliamento e incarnamento del concetto di politica che oggi non può che essere confermato) spinge a sottoporre a critica l’autorappresentazione economica non meno di quella politica. Come si è proceduto recentemente al disoccultamento dei temi che la tradizionale legittimazione liberale aveva accantonato (ma anche in questo modo protetto dalla politica e dalla sua decisione artificiale) con la separazione tra privato/pubblico, particolare/universale, corpo/soggetto giuridico, così questo luogo del potere che è il privato, nell’incrocio del biologico, del familiare, del quotidiano e naturalmente dell’economico, non può essere pensato – così come è stato fatto in modo parallelo e conforme alla razionalità delle scelte pubbliche dei contrattualisti, magari con un sovrappiù di spontaneità e di equilibrio autoregolativo. Deve al contrario pensarsi attraverso lo sguardo biopolitico che non rimuove la densità vitale del suo baricentro di senso. E in questo Foucault ci aiuta poco. Forse di Foucault va ripresa a questo punto proprio quella magistrale lezione che vedeva il potere plurale e distribuito in una rete di flussi dissimmetrici nell’intero ordito sociale. Questa visione reticolare, infatti, si attaglia al quadro che abbiamo definito assai meglio che non l’ottica statalista, cui Foucault è pervenuto a proposito di governamentalità pastorale e biopolitica, ritenendo che la gestione della popolazione fosse di scala tanto ampia e richiedesse una serie di dispositivi tanto complessi che solo lo Stato e la sua grande macchina potesse governarli. Invece la svolta tardomoderna vede indebolire la potenza dei dispositivi statali e accrescersi quelli plurali e disseminati del sociale e soprattutto dell’economico. L’economia rappresenta la vastissima e incoerente rete di relazioni influenti e asimmetriche, che determina in modo non univoco le nostre vite.

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Capitolo secondo

Il nesso vita-potere nei regimi di sapere economico

1. Percorso Vorrei, in queste pagine, tentare una lettura trasversale di quei saperi economici che hanno preparato l’attuale svolta bioeconomica, per rilevare come mettono a tema la falda biologica della vita, produttiva e consumativa: sia la vita che si autoconserva sia la vita che viene valutata per essere migliorata. Perché intanto il nesso tra vita e potere nel fuoco dell’economia si costituisce oggi, storicamente, come bioeconomia, rendendo problematica la comprensione categoriale con la quale siamo abituati a trattarlo, nella sua connessione con la politica e con la tecnica? Abbiamo, sulle orme foucaultiane e andando oltre le sue affermazioni, messo a fuoco la relazione costitutiva che, nella prospettiva biopolitica, si istaura tra economia e governo. La logica del governo delle vite è economica e, in sovrappiù, ha per oggetto privilegiato l’economia propriamente detta. A sua volta quest’ultima – al di là di un’autorappresentazione che la contrappone al governo politico che voglia gestirla con logica esterna – si rileva come attività gestionale e governamentale, mantenendo alcuni dei caratteri propri della logica biopolitica: flessibilità della norma, pretesa scientificità dei suoi statuti e conseguente autorevolezza degli esperti, finalità esterna benevolente ed effettualità preponderante sulla legittimità, ordine vissuto come oggettivo e eteronomo pur essendo originato dalla combinazione dei comportamenti spontanei degli individui, che non sanno, non controllano il complesso della organizzazione vitale. Ora, la connessione tra economia e governamentalità, tra management ed economia, è stata rappresentata e vissuta, a lungo, nel quadro teorico di una più organica e complessa traducibilità dei linguaggi politici, sociali e economici: come politicizzazione dell’eco57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nomia ed economicizzazione della politica. È questa traducibilità che, nella tarda modernità, viene meno, lasciando esplodere l’autonomia anarchica dei fenomeni economici, che si innestano direttamente sulle vite, mettendo in crisi la capacità della politica, e più generalmente della filosofia politica, di organizzare il senso complessivo e armonico della realtà sociale. Il percorso che tenterò di tracciare ci rimanda infatti ad una cesura storico-concettuale, profonda, ma occultata e ricomposta dalle sintesi operate dal pensiero dialettico da una parte e dalla political economy dall’altra. L’attuale configurazione del nesso bioeconomico – che spiazza e disorienta tanto il sapere politico quanto quello filosofico-sociale – si origina, non meno di quanto accade nella biopolitica, dalla crisi delle forme storiche culturali e pratiche che a lungo lo hanno organizzato. Questo non significa che ci sia mai stata un’equazione tra economia e politica, una perfetta reversibilità degli agenti immediati del processo economico in categorie del pensiero dialettico o in soggetti della teoria economica classica. Si dava, tuttavia, una reversibilità reciproca dei termini, ricompresi all’interno di una pensabilità unitaria dei fenomeni sociali. Questa corrispondenza del politico e dell’economico ha avuto anche una serie di importanti riscontri storici: a me sembra che a questo livello del problema – politicizzazione dell’economia, economicizzazione della politica – vada collocata l’analisi foucaultiana, anche se questa reversibilità si radicava nel livello più profondo della connessione di regimi di verità e di sapere che strutturano rapporti concreti di soggettivazione e di potere: il pensiero politico e quello economico dicevano un mondo comune e la filosofia, politica ed economica ad un tempo, lo sintetizzava, lo generalizzava, gli conferiva un senso. Il Novecento riconosce la progressiva perdita di peso di queste sintesi: vite e senso, esperienze e forma universale, bisogni e ordine. Già precedentemente, andando a ritroso, alcuni regimi di sapere avevano manifestato una tendenza centrifuga in nome della immediatezza del bios, della vita concreta: l’attacco di Schopenhauer alla conciliazione hegeliana in nome della irriducibilità delle istanze biologiche nel sistema delle rappresentazioni; la irrilevanza, che le scienze positive denunciano, della sintesi hegelomarxiana; il riposizionamento, da parte della scuola economica marginalista, del nesso economia-politica a un livello solamente empirico-positivo, non 58 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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normativo e perciò problematico e fragile. Tutte queste esperienze testimoniano una crescente complessità ed indeterminatezza di agenti riottosi ad essere sussunti in un intero: una indeterminatezza che svuota gli sforzi sempre reiterati, nel secolo appena trascorso, di ricucire la trama del sistema a partire da qualche affinità intrinseca delle logiche dei diversi domini e dei diversi linguaggi. Tentativi sempre più volontaristici, che devono limitarsi a una coordinazione solo procedurale, a un governo politico sempre più estrinseco, tecnico, delle aporie dell’economia e delle sue implicazioni sociali. È il tormento weberiano della impossibile coerenza e onnicomprensività della rappresentanza, che muove dalla consapevolezza della eterogeneità delle forze socio-economiche e dell’incompatibilità delle loro logiche. Se la dimensione politico-tecnica ne guadagna in autonomia – come sembra che accada nelle teorie «disincantate» del primo Novecento, giuridiche e politiche –, questa neutralizzazione ha un prezzo. Il linguaggio del potere politico risulta sempre più estrinseco, rispetto alla logica dei suoi oggetti. Si tratta di un processo di scollamento e di irrappresentabilità che viene, decisionisticamente, «superato» dalla violenta totalizzazione delle esperienze sociali, economiche, statali e tecniche nei regimi totalitari; totalizzazione riproposta, con segno rovesciato e irenico, negli anni di reidealizzazione del Welfare successivi al 1948 e ora disintegrata nella radicale svolta culturale, economica e politica, impressa dalla globalizzazione, con effetti di integrale svuotamento del quadro classico e sintetico della società. Il nesso vita-potere è sempre più indeterminato mentre appaiono – rivendicando visibilità e frammenti di potere – soggetti sempre meno rappresentabili, sempre meno sintetizzabili, non solo nel quadro idealistico o materialistico, ma anche nell’ordine empirico e strumentale della teoria economica neoclassica. Mentre il politico arretra al ruolo di semplice tutela dell’autonomia di quella società economica che era stata oggetto del suo governo, si palesano sempre più soggetti non rappresentabili e non sussumibili nel suo ambito esploso e ormai globale: soggetti che governano aree di influenza sulla vita secondo propri linguaggi e proprie finalità anarchiche. Una volta dissolta la sintesi della politica, la presa diretta e eterogenea dell’economico sulla vita segue logiche proprie, sconnesse dall’insieme, moltiplicate e contraddittorie, nelle quali la posizione di quanti appaiono eterodiretti va interamente ripensata. Logiche gestionali attraversano i soggetti che le fanno proprie in modo solo par59 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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zialmente conforme; vite, bisogni, desideri si ripiegano su se stessi o si orientano in modo centrifugo, mentre il politico, il governo in senso stretto, non è che uno dei vettori, una delle specializzazioni che non supera e non toglie alcunché, neanche a livello tecnico-procedurale. Ma la crisi della politica è anche la crisi del governo dell’economico, che pure sembra trionfante. Nato dalla critica della sintesi politica idealistica e governamentale, l’ordine economico è destabilizzato da un’infinità di spinte eterogenee e sempre meno prevedibili, cui proprio attraverso quella critica si sono spalancate le porte. L’anarchia delle differenze produce vuoti all’interno del suo potere di razionalità strumentale, indebolisce la sua capacità di previsione, in misura tale che diventa difficile coprirla e mistificarla. Briciole di comportamenti anarchici e ondate di conformismi inattesi riposizionano ininterrottamente il nesso vita-potere. E allora? Ci interroghiamo, risalendo a ritroso alla loro origine moderna, su come i regimi di sapere hanno elaborato il nucleo residuale, biologico, che è sotteso all’agire economico e alle sue logiche. I regimi di sapere strutturano, costituiscono le soggettivazioni, ma anche definiscono, nelle relazioni reciproche di potere, le pulsioni, i bisogni, le necessità che sembrano scoprire, organizzando le dinamiche che sono destinate a soddisfare o a non soddisfare quelle necessità: dunque i regimi di sapere sono regimi di potere e di governo delle vite. Ma come e in che senso? 2. Empiria: le ricchezze, le soggettività e l’astrazione della moneta Le ricchezze. La teoria economica inizia come analisi della ricchezza. Il dato che suscita le prime osservazioni è un’eccedenza di beni che si accumula secondo una dinamica di cui il sapere politico, del governo propriamente detto, sa poco o nulla: dunque bisogna partire dall’osservazione diretta dei fatti, delle nuove contingenze. È singolare notare come la teoria classica, di Smith e poi di Ricardo e di Marx, sia una rappresentazione costruita per rispondere, in modo organico e sistematico, a pezzi di osservazioni empiriche – le osservazioni di un Galiani, di un Graslin, di un Turgot – che descrivevano, senza pretesa di sistematicità, processi di accumulazione, di valutazione e di scambio il cui criterio era l’utile1. 60 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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L’approccio soggettivista a queste pratiche governate dall’utilità, intesa come capacità di soddisfare una esigenza o un desiderio – l’appagamento del bisogno che qualcuno trae dal consumo di una certa quantità di un bene – già rintracciabile nelle opere di Aristotele e in alcuni pensatori medievali, si sviluppa nel XVIII secolo. Condillac, ma anche Turgot, oppure l’economista italiano Ferdinando Galiani giudicano il prezzo di un bene come l’effetto della valutazione soggettiva di singoli compratori: l’utilità ne determina la domanda e, a sua volta, la domanda ne determina il prezzo. Il sapere economico descriveva un intreccio di comportamenti, una scena brulicante di azioni con direzionalità diverse, sulle quali lo sguardo del potere sovrano si soffermava per prelevare qualcosa, per favorire l’ordine, per evitare la pressione dell’accattonaggio. Questo vuol dire che prima del modello sistematico dell’economia classica, abbiamo i fenomeni empirici e l’osservazione che li lascia essere nella loro realtà, nella loro concretezza disordinata. Le cose sono lì, una a fianco all’altra, e non se ne riduce la differenza. Le cose economiche, cioè i bisogni innanzitutto, ma anche il commercio, i prezzi del mercato e le lettere di cambio, le banche, la borsa, la girata, lo sconto: strumenti che «si trovano anche fuori del mondo occidentale e della sua sacrosanta razionalità [...] essi sono un’eredità, una lenta accumulazione di pratiche, e appunto, la vita economica ordinaria, a forza di agire, li ha semplificati e perfezionati»2. Grande narratore di queste pratiche concrete della vita materiale, Braudel continua: sarebbe necessario un termine chiaro per designare l’insieme di queste rotture, di queste innovazioni, di queste crescite; esso invece ci fa difetto e non abbiamo una parola che indichi tutte queste forze esterne che attorniano, spezzano un vecchio nucleo, questi fasci di azioni parallele, queste accelerazioni visibili al vertice con i grandi assi della vita bancaria e borsistica da cui l’Europa è attraversata e dominata efficacemente, ma visibili anche alla base, con la diffusione rivoluzionaria del merciaio ambulante, per non dire del colporteur3.

Il primum è, dunque, l’osservazione di un universo, diviso anche al proprio interno, ripartito inegualmente contro se stesso: un’infinità di meccanismi particolari da smontare e rimontare, per cercare fra i loro elementi, somiglianze, analogie, regolarità, gerarchie. L’esplosione dei mercati richiede, per la formazione del processo capitalisti61 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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co, che la società sia complice senza saperlo, e che favorisca l’accumulazione paziente delle ricchezze, la rivalità e la promozione sociale, la trasmissione dei beni, la crescita invidiosa e orgogliosa dei patrimoni e una ascesa sociale «se non facile, almeno possibile»4, perché la gerarchia venga sentita come mobile, instabile, e dunque aperta. Desiderio/bisogno, rarità, scambiabilità attraverso la moneta: tutto l’insieme dell’economia pre-smithiana è prassi empirica e il suo fuoco prospettico è la psicologia soggettiva che le dà valore. Non a caso Hayek, citando l’abate Galiani, loda l’intuizione soggettivistica che ebbero «i primi economisti, poi ricacciata nell’ombra dai tentativi di rendere l’economia oggettiva»5. Le soggettività. Come le cose economiche sono lì, affiancate, in una relazione – Hume direbbe – di pura associazione, così i soggetti che le cercano, le desiderano, le scambiano sono pensati, all’inizio di questo percorso, in modo radicalmente empirico, emergenti dal dato della prassi in cui si rivelano, in opposizione a qualsiasi deduzione trascendentale o genesi psicologica. È questo modo di porsi di fronte alla questione della natura umana che rende i modelli antropologici dei primordi dell’economia così interessanti. La prassi economica vi si rapporta senza doversi giustificare e, addirittura, secondo l’espressione di Dumont, trovandovi i propri presupposti 6. Qual è la costituzione mentale dell’uomo moderno che permette e supporta il primato cui la prospettiva economica è destinata? Non ho qui la pretesa di fermarmi su un tema che ha avuto importanti e ormai classiche sistemazioni analitiche e critiche; vorrei solo far cenno ad alcuni specifici caratteri di quell’approccio. Poiché il modo di porre la domanda sulla natura umana, più ancora che la risposta, influenza la relazione del potere con la vita, sorprende notare come l’idea di soggettività sottesa ai primordi dell’economico – idea interessante, ricca di implicazioni che potrebbero oggi problematizzare molte rigidità essenzialiste relative al concetto di vita umana – sia stata soverchiata dalla forzosa, progressiva assimilazione al vincente paradigma razionalista. Probabilmente l’originario paradigma appariva scarsamente governabile e «pericolosa» la sua apertura alla contingenza, all’àisthesis, l’ammissione di debolezza e potenzialità insieme e, soprattutto, le tracce di ineludibile dipendenza che minacciavano il mito occidentale dell’autonomia. Sin dal principio, questo modello appare innestato, embedded, nei dispositivi economici con62 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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creti e storici da cui emerge, e perciò discontinuo e irregolare, bilanciato da altre istanze ideologiche, soprattutto razionalistiche, di ordine e di prevedibilità. Negli scrittori dell’Illuminismo scozzese, in Locke, in Hutcheson, ma soprattutto in Hume, il soggetto non è premesso all’azione, ma si rivela nella prassi economica e nel nascente regime di governamentalità liberale e di civil society7. Secondo la incisiva lettura di Deleuze dell’opera humeana, «il soggetto si definisce mediante e come un movimento, il movimento di autosvilupparsi. Ciò che si sviluppa è soggetto». Questo significa che la questione posta dall’empirismo inglese non è «che cos’è la natura umana», questione condannata a trovare risposta nel dualismo corpo-mente, che semplifica le cose ma le condanna ad un vicolo cieco: la questione è un soggetto che si definisce mediante e come un movimento di autosviluppo, attraverso la duplice potenza – qui intesa nel senso di dy`namis – del credere e dell’inventare8. Questo soggetto si «costituisce nel dato», e dunque la sua antropologia, se possiamo chiamarla così, è a posteriori, non premessa, ma immanente al flusso del sensibile e dell’apparente. A nostro avviso, è questo specifico taglio immanentista della soggettività che la rende fedele al coacervo di istanze vitali produttive che è al centro dell’economico. La realtà ci viene data solo in quanto la attraversiamo con i nostri sensi e la muoviamo con le nostre azioni, con le nostre impressioni e anticipazioni sensoriali e con le nostre pretese. L’esperienza ci consegna un mondo indeterminato, infinitamente aperto ad una sovrabbondanza di possibilità non previste. Perciò è un’antropologia del fare piuttosto che dell’essere: «non ci si deve domandare che cosa sono i princìpi ma che cosa fanno»9. L’aspetto pratico del sentire orienta uomini «esposti» nel campo a sorpresa del mondo, eccedenti la pura necessità di modificarlo. Nessun orientamento percettivo, come quello economico è, d’altra parte, più strettamente legato allo sviluppo della capacità di agire in commercium con le cose. Alla modalità deduttiva del paradigma giuridico fa riscontro, soprattutto nell’empirismo di Hume, un modo di pensare l’interazione sociale tra uomini che non cancella l’insorgenza contingente, l’evenienza e la differenza dei plures e che conserva il tratto, non metafisico ma puramente eccedente, emergente, della libertà: c’è una eccedenza «spontanea», germinativa, dal momento che ciò che fa sì che un soggetto sia un soggetto è il credere e l’inventare, dunque uno stare dentro al dato e insieme sporgere da esso: un oltrepassarlo. 63 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Dal dato, io inferisco l’esistenza di un’altra cosa che non è data: io credo. Cesare è morto, Roma è esistita, il sole sorgerà, il pane nutre. Con la medesima operazione, nello stesso tempo, io giudico e mi pongo come soggetto: oltrepassando il dato. Io affermo più di quanto sappia10.

La modalità del soggetto è estensiva-acquisitiva «oltrepassare significa andare dal noto all’ignoto»11. È vero che, se questa insorgenza del nuovo ha in sé il disordine del bios, l’intero percorso delle teorie economiche sarà volto a controllarlo e governarlo. Ma la suggestione di questa ipotesi di soggettività, che dispiega il suo fascino libertario e contingente ancora oggi, sta nella combinazione di potere germinativo e di contestualizzazione, dunque socialità, espressa quest’ultima in termini di abitudine, ethos condiviso, gusto e senso comune. In tutti questi casi è sempre lo sguardo sull’altro e dell’altro che condiziona le mie valutazioni e in relazione ad esso si orienta il mio movimento. La socialità, difesa in quanto sviluppa ed adempie la natura – dunque non in hobbesiano contrasto con essa – permette di pensare la convivenza sociale non sotto il segno del controllo e della limitazione, ma in termini di estensività e accrescimento, che sono i tratti specifici dell’economia moderna. La natura, il bios, viene qui ad essere il residuale della storia, ciò che la storia non spiega e che non si può definire, ma che rifluisce nella storia delle motivazioni. In Hume, in Smith, contrariamente al riduzionismo di Mandeville, è tautologico definire egoista una prassi-tendenza volta a perseguire la propria soddisfazione. Piuttosto che egoista, l’uomo è parziale: non nel senso che è parte di un tutto, ma nel senso che è di parte, parziale, cioè differenziato, situato in una rete di legami, di relazioni affettive preferenziali: una pluralità di parzialità. Si fa spazio così ad una psico-sociologia. La società non ha il suo perno nella legge, ma nell’istituzione, che, orientata dal modello utilitario, è, in Hume, una «impresa», un’invenzione artificiale di strumenti positivi chiamati a mitigare la mancanza, il bisogno. L’utilità – principio della prassi economica già «osservato» dagli economisti presmithiani – rapporta l’istituzione al bisogno e lo soddisfa, dandogli forma e regola. È l’istituzione sociale, non il contratto, a organizzare le soggettività in modo obliquo, indiretto, contingente, sviluppandosi senza progetto unitario e volontario: così la ritroveremo in Hayek. Invenzione e immaginazione – cioè i luoghi della soggettività emergente dal dato – sono anche la chiave di una socialità orche64 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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strata non dalla ragione ma dai sentimenti, ancora una volta più prossimi al bios: sentimenti di simpatia che non significano affatto sentimenti di benevolenza12, ma testimoniano la indispensabile ricerca di un coinvolgimento, per Hume un «contagio» con l’altro, orientato da ammirazione, invidia e imitazione. Questi sentimenti simpatizzano, cioè si immedesimano nello status altrui, nella sua prospettiva o nei suoi valori e desideri. Il simpatizzare spezza la solitudine atomistica dell’individuo attraverso una immedesimazione passionale, ambivalente tra amore e invidia, nei valori che essi ammirano, nei beni che essi desiderano. Legati e slegati ad un tempo, sognando la simbiosi identitaria e chiusi nel carcere delle differenze in concorrenza reciproca: a metà strada tra questo eccesso di vicinanza e eccesso di lontananza sta la relazione mimetica che – per Smith – costruisce il sociale e motiva le azioni, morali non meno che economiche. Quest’ultime, così, manifestano un senso che eccede il puro commercium con la natura e le cose per garantire la sussistenza, divenendo una modalità di convivenza dipendente e circospetta, affascinata e ostile, prudente (la prudence è la virtù dell’uomo sociale e economico) e reciproca senza essere solidale: una modalità che offre una nuova pregnanza alla kantiana socievole insocievolezza. È veramente incredibile quanta sapienza del desiderio e della sua natura obliqua e triangolare, quanta consapevolezza della specularità delle identità antagoniste e concorrenziali, diverse e mimetiche fino allo spasimo, si possa trovare nelle pagine di Smith. Naturalmente mediate, come vedremo, in un sistema che le riequilibria in un tutto armonico, disinnescando quell’aggressività che si cela sotto ogni imitazione e ammirazione. Qui ci basti notare che le soggettività empiriche – di cui ipotizziamo qualcosa a partire dai movimenti che compiono – sono ad un tempo differenti e reciprocamente dipendenti. Esse sono capaci, a detta di Smith – in quella trama di sguardi obliqui sugli altri, attori e spettatori di volta in volta –, di accedere all’imparzialità dello spettatore che «supera» le parzialità delle differenti prospettive. Salvo poi a verificare che questa imparzialità non può essere che il senso comune, il comune buon gusto o ethos diffuso nella comunità di vicini, dal cui giudizio aspettiamo riconoscimento e amore: common sense e dunque, in ultima analisi, conformismo13. Anche questa intuizione vedremo riattivata nella odierna tensione di differenza e conformismo della società dei consumi. 65 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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L’astrazione della moneta. Eppure, in tanta concretezza empirica, c’è una cosa ambivalente. La cosa più importante tra le cose economiche è la moneta, l’oro; la sua materialità porta in sé direttamente il potere di verificare la ricchezza: è ricchezza in sé e segno di ricchezza. Non c’è bisogno di sublimazioni: lo scambio, la valutazione del prezzo avvengono in presa diretta. Questo schema rassicurante e semplificatorio, in cui il segno porta in sé il suo valore, è, in realtà, la breccia attraverso cui passa il processo di astrazione di quegli scambi al principio così reali, così concreti. Il segno si articola in modo più complesso via via che il metallo – l’oro – perde la sua concretezza divenendo funzione monetaria. E contemporaneamente diventa funzionale e astratto l’intero movimento di scambio. Il processo, ripeto, muove da una connessione immediata, immanente ed empirica: la ricchezza è ciò che si può rappresentare nella moneta, ma è anche ciò che è raro e desiderato da qualcuno. Se nessuno desidera una cosa bella, quest’ultima non è una ricchezza. L’immediatezza cede alla mediazione intersoggettiva. Quando leggiamo gli scritti dei pionieri del discorso economico, ciò che ci sorprende è l’indiscussa referenzialità, socialità del processo: lo stesso danaro, per quanto perda di concretezza, acquista di intersoggettività, di medietà. La governamentalità politica entra in questa relazione materiale, vitale con una sua logica e un suo sapere non economico, funzionale a se stesso e funzionale alla propria economia di salvezza. Il potere gestisce l’economia con una ratio che le è estranea, anche se assume, gradatamente, la sua logica strumentale. Metodi statistici, prelievi sulla produttività, analisi demografiche ruotano attorno a questo universo di bisogni, di scambi, di ricchezze che, nelle prime autorappresentazioni, si manifesta come disorganico, centrifugo e autonormativo. Ma il processo, come si è visto, muove inevitabilmente in direzione dell’astratto. La moneta diventa sempre più il segno e pegno del credito e dello scambio: la politica diventa indispensabile. Si potrebbe sostenere che il carattere convenzionalistico e tecnico della modernità – quel carattere che doveva essere denunciato, tanto tempo dopo, da Hannah Arendt, come segno dell’alienazione dal mondo – si afferma, più che nella scienza galileiana, nella dissoluzione del legame della moneta con la materialità dell’oro e nella sua trasformazione in pegno, secondo l’espressione di Locke14. La presunta innocenza e spontaneità del mercato diventa problematica: la trasformazione della moneta in medium permette l’incrementazione 66 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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e l’accumulo di capitale, la diseguaglianza e il lavoro salariato. Per Locke, l’accumulazione monetaria della proprietà svincola i soggetti dall’originario stato di necessità e capacità di lavoro. È il segno convenzionale per il quale diventa cruciale la politicità – sia nel senso della convenzione generale che garantisce che quella moneta potrà essere scambiata con quella stessa quantità di merce, sia nel senso più sottile che, attraverso di essa, viene veicolato potere intersoggettivo. La moneta è infatti credito e dunque fiducia. La nitida eleganza del ragionamento lockiano, per il quale tutto si evolve «secondo ragione e natura», non può occultare l’irruzione della biopolitica nel regno dell’economia. La moneta è credito e dunque differimento. Nel differimento, il gioco immediato e vitale del bisogno-domanda-consumo si articola nella relazione di potere tra quanti sanno differire la soddisfazione, e accumulano ricchezza per investire e produrre maggiore ricchezza, e quanti non sanno o non possono dilazionare. La moneta è anche differimento in quanto credito: implica dunque che l’autorità, la garanzia politica, entri direttamente nel gioco degli scambi. Nel differimento si inserisce il meccanismo di validazione del potere e si salda l’economico con il tecnico-produttivo. Questa è la modernità: si parte per la corsa ad una soddisfazione dei bisogni mai satura. Mentre Mosè nel deserto del Sinai attende quaranta giorni, senza mangiare né bere, sul monte Horeb, che Dio gli consegni le tavole della Legge per il popolo ebreo ormai libero dalla schiavitù egiziana, questo stesso popolo divenuto impaziente, chiede ad Aronne un «dio che cammini alla sua testa». Aronne allora, raccolti e fusi i loro gioielli, plasma un vitello d’oro, attorno a cui si scatena la danza perversa. Mosè, quando discende dal monte, dà sfogo alla sua ira: qual è l’oggetto idolatrico contro cui si scaglia la collera del profeta? Il racconto è ambivalente e saremmo tentati di pensare che sia l’oro, il metallo splendido e sordido, destinato ad essere standard di ogni moneta, l’oro, lo sterco del demonio, Mammona, ad essere oggetto della dura condanna del Padre della Legge. Ma forse non è l’oro, ma il vitello: la figura del toro, simbolo arcaico di fecondità e potenza naturale, dispensatore della vita nelle religioni naturali più antiche. Forse ciò che viene condannato è il ripiegarsi del popolo sull’immediatezza del piacere, del materiale, del biologico, che Mo67 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sè con la sua Legge interdice. Da quell’interdetto derivano insieme un principio di smaterializzazione e la proibizione del primitivo desiderio concreto e sensibile. L’intervento di Mosè fonda simbolicamente il duplice percorso della sublimazione normativa che vieta l’immediata soddisfazione sensibile e insieme mette in opera un principio di astrazione che influirà all’interno della cultura occidentale anche nella sua piena secolarizzazione, proprio attraverso l’oro, lo splendente metallo. Se conosciamo assai bene l’interdetto – che, spostando la soddisfazione del bisogno, apre al desiderio, alla sublimazione, alla cultura, alla morale –, va ripensato il motivo della smaterializzazione, che assume una evidenza paradossale proprio oggi quando le proibizioni, gli spostamenti, le censure della materialità sono tutti caduti. Il motivo centrale della modernità, la progressiva astrazione dei rapporti umani dalle condizioni materiali della vita, si afferma in modo paradossale e prepotente insieme al fatto indiscusso che le nostre società ammettono sempre meno valori diversi dal danaro e dai suoi derivati. Il rigido principio interdittivo del piacere, dell’animalesco, ha generato un tortuoso, contraddittorio ritorno a quel simulacro perverso. Simulacro divenuto sempre più astratto, più sfuggente sul piano emozionale. Questo dato conferma l’«astratta indifferenza» del «mondo amministrato» che Theodor Adorno lamentava, ma non cessa di stupirci, perché questo sradicamento e questa astrattezza negano la tanto affermata fisicità dell’uomo. Ci aspetteremmo che l’economico, trionfando, dia una risposta ai bisogni di nutrimento, di godimento, e che i suoi strumenti siano l’acqua, il pane, il riposo, qualcosa di utile, o di piacevole, o almeno di decente, aggiungendo magari – secondo una aggiornata teoria dei bisogni – anche il riconoscimento sociale. Ma la società va in direzione opposta. Il denaro si orienta alla sua massima astrazione, riprendendo paradossalmente l’impulso di astrazione e purificazione che opera nella fondazione del monoteismo. Il danaro, oggi totalmente astratto, codice digitale senza sostanzialità alcuna, disgiunto da qualsiasi base di valore materiale diventa misura virtuale, neutra della libertà-potere. Residui concreti non ve ne sono. Si tratta, col danaro digitale, di puri dati dell’informazione, spersonalizzati e privi di connotazione etica: non fa differenza se qualcuno, attraverso il monitor del computer, dispone una transazione di miliardi per acquistare grano oppure per avviare un bombardamento. Già Georg Simmel notava la relazione 68 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tra libertà (direi libertà-potere) e danaro, sottolineando il carattere negativo di questa libertà, sciolta dall’oggetto concreto dalla cui manipolazione traeva origine – la terra, l’arnese, lo strumento garante e memore dell’operosità personale. La funzione sociale del danaro, questo medium astratto che rende astratte le relazioni sociali, è esattamente quella di istituzionalizzare il principio della libertà. La civiltà occidentale non conosce dunque, kantianamente, che la negatività della libertà, la sua totale, nichilistica e paralizzante indeterminatezza. L’astrazione del danaro rappresenta il potenziale soddisfacimento dei bisogni, ma produce effetti paradossali. Se il desiderio si naturalizza, rendendo plausibile la soddisfazione come se fosse un semplice bisogno, il danaro si flette a saturarlo con infiniti oggetti in cui, come diceva Simmel, è persa la traccia del contenuto di vita, la operosità che li ha fabbricati, il senso del loro uso. 3. La mediazione: il valore e il lavoro Una moneta divenuta pegno e credito che chiede garanzia porta con sé la necessità di una prospettiva più sistematica, organica dei poteri economici e politici. Il sapere economico svolta verso il riposizionamento delle esperienze frammentarie e concrete, dei rivoli vitali, in un organismo sistemico, in un bios unitario della società. Tra i bisogni, i desideri e loro soddisfazione, la mediazione è la teoria del valore. Il valore è il medio che permette l’ordine e rende commensurabili le tensioni disordinate, volte in modo incoerente a soddisfare i bisogni, la pulsione dei desideri, la passione del possesso. La danza frenetica attorno al vitello d’oro per il godimento immediato è stata interdetta. Il valore è relazione e mediazione. Niente vale in sé; puoi avere fame, sonno, sete: il cibo, il letto, l’acqua non valgono niente, finché non c’è qualcuno con cui scambiarli e qualcuno che te li ceda. Ma anche ciò che non ti serve o che ti è superfluo vale solo se e quando qualcuno te lo chiede15. Che cosa determina la proporzione secondo la quale una merce è scambiata con un’altra? I valori di scambio di due merci sono determinati dalle loro rispettive proprietà qualitative, ovvero dalla loro utilità, oppure è una qualche altra proprietà che permette di confrontare il valore di scambio di un prodotto con quello di un altro? 69 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Anche se non si può affermare che la teoria di Adam Smith sia centrata sul ruolo del valore-lavoro, come quella di Ricardo e poi di Marx, è a Smith che va attribuita la rotazione di prospettiva che sposta, decentra l’empirico bios – bisogni e commercio – descritto dai precursori dell’economia, per i quali, come abbiamo visto, il valore d’uso serviva come criterio assoluto per i valori di scambio e dunque sottostava all’ingovernabile flusso dei bisogni-desideri. Attraverso un colpo d’astrazione, il baricentro è ora la teoria del valore lavoro16. Non il valore d’uso, non i desideri soggettivi: si delinea una società che vive in quanto c’è cooperazione, cioè divisione del lavoro: così l’attenzione passa all’incremento di produttività-ricchezza che esso comporta. Potrebbe essere questo il luogo per osservare che ci troviamo nel culmine della «storia» metafisica dell’Occidente: la storia che letteralmente produce la dimenticanza dell’Essere, del piano del bios, spostandolo sul Valore, che è condizione del Potere politico-economico-scientifico. L’immanenza della vita si traduce senza residui in Valore valutato: ma la teoria classica e hegelo-marxiana dell’economia non consegna il Valore alla soggettività e alla volontà di potenza, come faranno i suoi critici. La teoria classica del valore costruisce un sistema di relazioni, oggettive-intersoggettive, di reciproco condizionamento (la teoria della divisione del lavoro, ma anche quella delle classi antagoniste e interdipendenti), che dà ragione del nesso economia-politica: l’economia è intrinsecamente politica e la politica intrinsecamente strutturata nelle relazioni economiche, in un orizzonte filosofico (di filosofia politica) che ne dispiega il senso. Siamo dunque di fronte ad una grandiosa sintesi oggettiva, nonostante la centralità del Valore che qui è unità di misura. Il Valore implica la natura tecnica della produttività: l’attenzione si sposta dal disordine soggettivo e imprevedibile del consumo alla oggettività e intersoggettività della produzione e dunque del lavoro, assai più prevedibile e governabile. Produttività e incremento, appunto: il sovrappiù, il di più è il concetto centrale dell’economia moderna e, come abbiamo detto, la dimensione su cui si inserisce la sua governamentalità. Ai rapporti di scambio orientati a una pura riproduzione del sistema, si affianca, grazie alla divisione del lavoro e alla conseguente crescita di produttività, l’eccedenza, il sovrappiù produttivo, che diventa reddito e capitale. Il lavoro, organizzato nella cooperazione sociale, massimizza la produttività e diventa il perno del sistema. Da un punto di vista teorico, si ha la sostituzione, che Ricardo e 70 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Marx porteranno avanti, del piano dell’immanenza degli oggetti come portatori diretti della capacità di soddisfare i bisogni con il piano relazionale di una funzione, il lavoro. Certo, il lavoro non si sradica dai bisogni, cioè dal tallone biologico: sono i bisogni che portano la corporeità, la pesantezza che condiziona il lavoro e la sua necessità, e che del lavoro costituiscono il limite, l’obiettivo, l’equivalenza salariale17. In Smith la ragione dello scambio, la concretezza di ciò che è scambiato restano i bisogni. La misura, l’unità di riferimento e dunque le gerarchie, le differenze vengono segnate invece dal lavoro, che ha a che fare sì con la vita perché è fatica, usura dei corpi, energia spesa, ma non è impulso, Trieb, pura potenza: è tempo. Il lavoro si rappresenta non attraverso la fisicità diretta, ma attraverso la sua riduzione a tempo, in anonime, sempre identiche e intercambiabili ore di fatica, che producono cose. Ciò che organizza gerarchicamente le cose, le merci negli scambi, ciò che le classifica in base al loro valore è il travaglio (travajo, labor: l’etimologia è densa della penosità fisica del lavoro) che le ha prodotte e sedimentate nell’opera: fatica per trasformare, manipolare, fabbricare, tutta tradotta in ore, in giornate tutte uguali, per poterle sommare e commensurare. Lavoro come tempo. Lavoro come prodotto. La fatica e la pena sono cancellate: si chiudono nell’oggetto manipolato, trasformato, e non si vedono più, sono nascoste, alienate nelle cose, di cui, in quanto tempo, determinano il valore. Le pagine di Marx sull’alienazione sono un insuperato esempio di critica biopolitica dell’economia. Questa è dunque la nuova centralità della sintesi ricardiana: la produzione, il modus di produzione piuttosto che il momento dello scambio. La produzione precede e condiziona la circolazione dei beni. Mettendo a fuoco l’operari trasformativo del lavoro e della produzione è possibile inserire il momento economico nella complessità della società e dunque nella politica. Da questo spostamento deriva la possibilità di pensare il processo economico come modalità della relazione sociale e diventa possibile gerarchizzare classi e ruoli e strutturarli in un sistema di interdipendenza. Diventa possibile individuare e organizzare in modo coerente le traiettorie di potere che si applicano alla vita, attraverso la necessità dei bisogni e la fatica del lavoro. La sintesi, in Adam Smith, è ancora estrinseca: una «mano invisibile» volteggia sul mercato come deus ex machina, metafora tra71 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scendente di una composizione spontanea dell’offerta e della domanda nel giusto prezzo. La società vive nell’ordine socializzatore del mercato, in quanto c’è cooperazione, cioè divisione del lavoro18. Ricardo disegna una società in cui la interdipendenza dei consociati è obbligata, perché la società stessa è strutturalmente minacciata dalla scarsità. Come nel cupo scenario malthusiano, mancano, e mancheranno sempre, cose necessarie alla sopravvivenza e dunque i bisogni non si riducono alla capricciosa percezione soggettiva19. La scarsità è originaria, oggettiva: si delinea quella ontologia e antropologia della mancanza che fa da sfondo all’intero pensiero occidentale. La metafisica della mancanza viene sottratta alla variabilità del giudizio soggettivo: è un dato, una premessa che condiziona fortemente la svolta biopolitica moderna in quanto lega potere e vita, in un vincolo di necessità fisiche e materiali, rendendo prioritario il tema della sopravvivenza. Non c’è spazio per l’emergenza soggettiva e contingente del desiderio; non c’è l’imprevisto o il famoso paradosso delle preferenze: il desiderare l’oro che è tanto meno utile del ferro. C’è solo una catena di necessità strutturali e prevedibili. E il lavoro è necessario per la sussistenza. L’economia – scienza triste – organizza i suoi modelli a partire dalla ontologia della carenza fondamentale e della finitezza umana, deducendone l’indispensabile peso del lavoro che travaglia i viventi: il luogo del bios si colloca nella coppia bisogno-lavoro. La teoria classica del valore/lavoro pensa il vivente non come agente di scelte, mosso dal desiderio di cose che potrebbero soddisfarlo, ma come il mortale che trascorre la propria vita, logorando le forze per mantenersi, per sopravvivere, sotto il segno della necessità. La ricchezza stessa, dalla cui analisi la teoria economica aveva preso le mosse, sparisce nel suo splendore; rimane nella sola forma del meccanismo del profitto indispensabile perché l’economia giri e la sopravvivenza sia assicurata: una vita il cui sfondo è la morte. I bisogni e i correlativi desideri non hanno peso/potere, perché si restringono alla naturalità della sussistenza. Né Marx ha veramente rinnovato lo schema ricardiano: piuttosto ha rovesciato i suoi equilibri lanciando nella escatologia del riscatto il pessimismo dell’economista inglese. La necessità del bios si rovescia, allo stremo della propria soggezione al potere che le lascia la sola sopravvivenza, nella speranza rivoluzionaria della liberazione dal bisogno, dal lavoro, dal potere. Ma la logica marxiana è interna alla 72 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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teoria classica, anche se è più complessa e articolata, come non poteva non essere dopo la geniale sublimazione del lavoro compiuta da Hegel. Pensatore capace di grandi intuizioni sul carattere biopolitico della modernità e sulla pesante gestione dei corpi che l’economia capitalista esercita, a dispetto delle affermazioni circa la libertà sovrastrutturale e giuridica degli spiriti, Marx si immerge totalmente nella svolta biopolitica stessa, sentendo che essa rappresenta il destino dell’Occidente. Entrato nella logica del determinismo economico, muove la sua rivoluzione a partire dalla legge della necessità biologica, dalla naturalizzazione dell’esistenza, dal condizionamento dell’ambiente materiale sulla critica, dalla fedeltà agli individui «reali: la loro azione, le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione»20. Solo Marx, in modo così esplicito, riconduce l’umanità dell’animale-uomo alla produzione dei propri mezzi di sussistenza e dunque ad un lavoro che, nascendo dall’esigenza di vita, la condiziona, divenendo la sua specifica forma di vita (bios) 21. Come Nietzsche, come Freud, esercitando il sospetto su idealizzazioni e sublimazioni, egli assume pienamente il piano dell’immanenza della vita, annodandovi un potere che non ha trascendenza. Nella società capitalista, il sovrappiù, per Marx, è sovrappiù di lavoro, fonte di profitto22. Esso è celato dal fatto che i rapporti di cooperazione, necessari per il funzionamento del sistema economico, tra i lavoratori appartenenti ai vari settori – per Marx, le brutali relazioni di sfruttamento – si manifestano nella forma estraneata, alienata, dei rapporti di scambio sul mercato. La teoria del lavoro marxiana, interpretata come specifica teoria dell’alienazione – del gesto e della fatica che si nascondono, reificati nell’oggetto prodotto e espropriato –, coglie una caratteristica della vita sociale di grande importanza antropo-filosofica per un discorso che voglia mettere a fuoco le dinamiche di potere immanente sulla vita. Il lavoro umano, nel momento stesso in cui assume la forma di merce, trasforma se stesso in astratto portatore (Träger) di danaro, il cui comportamento è regolato da anonime leggi di mercato: dunque si disumana e si oggettivizza23. «La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce»24. Le grandi pagine marxiane dei Manoscritti, pagine di filosofia 73 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dell’economia, di riflessione sul nascosto carattere di manipolazione della vita implicito nell’assetto capitalistico del lavoro, illuminano il circuito della piena immanenza di bios e nomos: «Il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all’uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare l’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. È la vita che produce la vita... la vita stessa appare soltanto come mezzo di vita»25. Rimane all’interno di questa immanenza l’azione rivoluzionaria del riscatto? O l’ambiguità del ruolo del lavoro, così come denuncia Hannah Arendt, porta Marx ad assumerne la possibile dimensione liberatoria che il maestro Hegel aveva profilato? L’opera della rivoluzione appare come il lavoro che produce politicamente una sintesi socio-politica nuova. Grazie alla filosofia della storia, grazie all’assunzione del carattere produttivo della species umana, Marx intraprende il tragitto che abbandona l’immanenza del bios e muove verso il riordino di società, economia e politica in un sistema strettissimo di interdipendenze orientato, organizzato da un senso, da una finalità filosofico-politica, giusta, buona, solidale e oblativa, che lo trascende. Le esperienze del socialismo storico, volgarizzando il progetto, realizzano la sintesi biopolitica del controllo della vita nella gabbia di una misera, burocratica statualità. Il perno della degenerazione sta nell’estensione della produttività del lavoro all’opera rivoluzionaria: che non si presenta come agire, apertura di possibilità, impredicibile e libero inizio, ma come attuazione di una volontà operativa, di cui si controlla l’esito, che violenta il reale, forzandolo in un modello teorico, estraneo alla vita stessa. La centralità del lavoro – dunque della produttività – inchioda Marx all’interno delle dinamiche della Volontà di potenza che caratterizzano il moderno. La grande sintesi hegeliana che vede nel lavoro il mediatore universale, il trasformatore e realizzatore della sintesi, si rovescia, rimanendo intatta nella sua logica, che vede strutturati e traducibili i momenti della vita empirica – con il Bisogno nel ruolo dell’antitesi dialettica – nel loro inveramento razionale e politico. Hegel sviluppa la sua concezione del lavoro in uno col concetto di società civile: costruisce la sistematica sussunzione dell’economia nella politica attraverso il nesso lavoro-società civile. Il lavoro fa da tramite tra la società di natura (i bisogni) e la società civile, che viene pensata in relazione all’esperienza storica del mercato capitalista 74 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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e sulla scia delle osservazioni teoriche degli economisti inglesi. Il lavoro è il luogo della trasformazione dialettica, dove i bisogni, gli interessi particolari, gli scambi concorrenziali (dunque il particolarismo vitalistico e differenziale) accedono alla dimensione razionale, componendosi in vista dell’universale politico26. La competitività e il mercato sono modalità sociali, ma la potenza dinamica sta nell’azione dell’uomo – nel lavoro appunto – che permette il passaggio dal bios, cieco e ripetitivo, alla società civile. Quest’ultima innesta nella sfera dei bisogni naturali un elemento di coesione e educazione, la Bildung, in direzione della realizzazione dell’Idea etica, dell’interesse universale e razionale dello Stato. Il lavoro produce, il lavoro educa: quando Hannah Arendt scriverà la sua critica della società come luogo di spoliticizzazione proprio dell’animal laborans, l’oggetto della sua polemica sarà il concetto educativo e dialettico di lavoro che Marx, con alcune vitali contraddizioni, ricava da Hegel. La sua disamina critica nasce dalla consapevolezza che sulla centralità del lavoro – alienato, ma anche sublimante – poggia la sintesi ordinatrice natura/stato, bios/nomos della modernità, così come si autorappresenta nel nostro linguaggio politico. Attraverso il riscatto, idealistico ma anche marxiano, del bios, attraverso l’astrazione del lavoro dalla sua concreta immediatezza fisica – labor condizionato dal corpo, agito dal corpo, finalizzato al corpo e al suo mantenimento – passa il mainstream del pensiero politico occidentale. Un pensiero che, con coloriture diverse (anche marxista), adempie al ruolo di sussumere in un quadro politico la vita, la pluralità degli interessi, la cieca ripetitività della fame, della sete, del bisogno. Tutto questo disordine viene accolto dalla capacità razionale, mediativa, prima della società civile e poi dello Stato, che unifica e organizza le forze vitali antagoniste, «eleva» la fatica, la «toglie», restituendola come Valore. Infatti, lasciati alla pura dinamica dell’immanenza, nella società commerciale, «il bisogno e il lavoro [...] costituiscono [...] un immenso sistema di comunanza e dipendenza reciproca, una vita del morto muoventesi in sé». Il lavoro, subordinato com’è alla propria vitalistica, cieca naturalità, sarebbe riluttante ad essere reinserito nella cooperazione e nella sintesi dialettica, «si muove di qua e di là ciecamente e in modo elementare e come belva feroce ha bisogno di essere continuamente soggiogata e domata»27. Soggiogare, domare significa ricondurre al sociale. Come già nello schema organico smithiano, il perseguimento della soddisfazione di ciascuno 75 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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permette e coopera a quella generale; l’egoismo soggettivo si trasforma in «un anello della catena di questa connessione»28, contribuendo alla soddisfazione dei bisogni di ciascun altro. Alla grande opera socializzatrice del mercato collaborano la cultura e la tecnica, le organizzazioni economiche, le istituzioni politiche, le classi. La negazione – rappresentata dalla limitazione che la naturalità soggettiva subisce quando entra nella relazione sociale – svolge il suo ruolo di toglimento e sussunzione: dal lavoro concreto a quello astratto. L’educazione spiritualizza, trasforma la naturalità del bios nell’agire sensato. La Bildung è il processo di formazione che conduce i soggetti fuori dalla materialità informe e indeterminata della vita del morto, e-duca alla vita reale razionale, guida all’Aufhebung, al superamento del mercato nella società civile. La potenza della sintesi dialettica hegeliana al fine di costruire un nesso di sussunzione tra bios e nomos, tra vita e razionalità politica, sarà assai presto sottoposta alla pressione delle soggettività irrappresentabili, che, empiricamente e teoreticamente, sfuggono al suo controllo. Eppure la capacità di durata del sistema classico, della filosofia politica e dell’economia politica, si spinge ben oltre il suo acme, fino al XX secolo. Regge e governa sintesi democratiche e autoritarie – con sempre maggiore difficoltà e con alte dosi di volontarismo, repressione o retorica – a seconda degli schieramenti. La teoria del valore inteso come lavoro, la metafisica della carenza oggettiva, su uno sfondo di scarsità e di lotta per la sopravvivenza, continua a risolvere mancanze, finitezze, conflitti nella positività concreta della gerarchia dei poteri e nella presunta coesione dei linguaggi, sempre accordabili e traducibili reciprocamente. Sempre si ripete il modello hegeliano e positivista della astrazione e organizzazione (quelle stesse operazioni di adeguamento che Foucault leggerà in termini di dispositivi disciplinari e normalizzanti). E intanto la società civile – nonostante i suoi retori la esaltino come spazio pubblico – piuttosto che luogo di educazione alla libertà, è sempre più intesa come il luogo della produttività economica, nel senso che vi si producono merci, ma anche bisogni, desideri, identità in forma di merci. È il modello di una società, come enunciano le nostre Costituzioni, fondata sul lavoro, senza che questo termine porti con sé altro che la irrinunciabilità della mediazione. Ancora a lungo – per esempio in quell’esperienza di governo economico delle vite che è il Welfare/Workfare – il lavoro continuerà ad essere il lasciapassare della 76 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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partecipazione sociale, il medium per accedere alle identità e ai diritti, il luogo della ricomposizione sempre possibile e auspicabile delle forze29. 4. La dissoluzione della sintesi e il flagello del «bios» Bisogni che si ripetono e non si trascendono. Prima di parlare della frattura imposta alla political economy classica dalla svolta marginalista – svolta che nella prospettiva della bioeconomia è cruciale – mi sembra che possa servire a evidenziare lo svuotamento di quella sintesi classica il pensiero di Schopenhauer e, naturalmente, il cambiamento di sentire e di vivere che esso esplicita. Il piano su cui si colloca ogni antihegelismo è il rifiuto del «toglimento» che trascende e supera le contraddizioni. Le rappresentazioni della conciliazione falliscono: le differenze, le esperienze, i bisogni – dunque la fame e la sete, la paura e la stanchezza di ciascuno – recalcitrano a farsi identificare, commensurare attraverso classi, ruoli, lavoro. Il Sein, i bisogni del bios si ripresentano sempre uguali e sempre differenti: differenza e ripetizione, sono queste – poi riprese nella geniale endiade di Deleuze – le tracce del vivente. «Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l’appagamento [...] il desiderio appagato dà tosto luogo ad un desiderio nuovo»30. Schopenhauer lo sa. A noi il suo pensiero può essere d’aiuto, non per l’architettura metafisica cui perviene, non per il suo pessimismo neoromantico, ma per una testarda fedeltà all’effettualità, al piano delle pulsioni, che resero i suoi libri così fortunati molto tempo dopo che furono scritti. Quel piano del Sein, doloroso, non sublimabile se non nelle illusioni: come in Leopardi. Esplode il piano della vita e genera spavento: il dover essere kantiano è fragile costruzione illusoria – anzi, a leggere bene Kant, come lo legge Schopenhauer, il dover essere non è, non è reale – ma anche la razionalità immanente del reale, la trasfigurazione della vita nella positività dell’ideale politico di Hegel è puro fallimento31. Nanà si ubriaca e si prostituisce. E per l’agrimensore K. non c’è redenzione, né senso. La figlia di Venteuil rimane nel proprio degrado, senza che l’arte, la bellezza della musica la salvi. Thomas Buddenbrook, senatore di Lubecca e segreto lettore di Schopenhauer, si 77 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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perderà per un dente cariato. Il negativo sta là e si tiene, sempre ricompare, sempre si ripete in una monotonia che non genera universalità ma si dissemina nella differenza di ciascun singolo che la vive sulla propria pelle32. Schopenhauer ha successo perché denuncia la liquidazione del piano della sintesi, del senso della vita come pura illusione, velo di Maia. Dalla fattualità, dal bios, dipende direttamente, senza mediazione, immediatamente, l’operari. Dunque ancora empiricità: ma non quella di Condillac, che inseguiva la causalità degli stimoli fisiologici o degli stati morali, capace comunque di attingere all’universalismo, in versione illuminista. Non l’empirismo di Bentham, convinto di poter governare economicamente e razionalmente la vita, assumendone la logica produttiva e finalizzandola – persiste un fine sensato – se non verso il bene, verso il meglio, verso il progresso. La sistematicità del moderno, in queste prospettive, per quanto empiriche e antimetafisiche, è ancora intatta. La vita, in Schopenhauer, non è raggiunta attraverso una epistemologia empirica, sdrammatizzante e orientata al progresso: sta lì ontologica e intrascendibile, dunque positiva, capace di dar conto della condotta degli uomini e effettuale sulla loro condotta. «Ciò che la volontà sempre vuole è la vita, appunto perché questa non è altro che il manifestarsi di quel volere»33. La rivendicazione di effettualità – «un dato individuo in ogni singolo caso può fare soltanto un’azione»34 – va tenuta ben presente, perché assimila questo versante della frattura anticlassica alla polemica realista della teoria economica marginalista, e anche perché annoda queste riflessioni al tema della strumentalità, dell’economia in modo significativo: anche se Schopenhauer non parla mai di economia, se non con snobismo. Non c’è psicologismo, c’è ontologia: il bios è il piano ontologico della natura umana – come sono fatti davvero gli uomini e come realmente si muovono, anzi sono mossi. Nella vita e sulla vita, anzi sul corpo, si innesta il movimento che è motivo dell’agire. Per la volontà umana esiste, è vero, una legge in quanto l’uomo fa parte della natura, e precisamente una legge ben dismostrabile, inviolabile, senza eccezioni, incrollabile, che comprende la necessità, non vel quasi come l’imperativo categorico, ma realmente: è la legge della motivazione [...] ogni azione può aver luogo soltanto in seguito ad un motivo sufficiente.35 78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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E questo innesto diretto lo rende effettuale, efficace: saranno effettuali i comportamenti non velati da presunzioni metafisiche. Si dà voce così alle differenze che venivano messe a tacere nelle dinamiche ordinate e coerenti delle sintesi classiche. La vita si manifesta come movimento, motivazione, bisogno concreto, singolare (Schopenhauer dice «soggettivo»), che si direziona verso la propria soddisfazione, né si danno comportamenti liberi, cioè incondizionati o autonomi36. I comportamenti li si può studiare senza fare ricorso a leggi universali, senza ipotesi metafisiche, ma risalendo alla direzionalità interna del movimento stesso. Ci si comporta in un certo modo per un motivo: c’è un movente ed è il bisogno, l’interesse, la ricerca di soddisfazione di ogni singolo vivente. Non c’è il lavoro a trasfigurare l’operare per il bisogno nella comunità etica, non c’è lo spostamento dell’oggetto buono dal soggetto, attraverso il lavoro, nel sociale. L’oggetto buono del singolo resta su se stesso, ed è la soddisfazione soggettiva del bisogno37. La prospettiva della vita, del bios, è sempre assolutamente singolare eppure generica, si ripete sempre, e non viene trascesa. Sono liberi l’azione, la prassi, il potere, che su questa necessità dei bisogni si innestano? Il corto circuito del bios dissolve l’iter ad libertatem hegeliano: siamo dentro al bios, dunque alla necessità, e operari sequitur esse38. «L’operari tocca alla necessità»39. La necessità si chiama Mondo, volontà della vita che vuole se stessa, Volontà alla Vita. Per noi questo modo di presentarsi del tema del bios è significativo, perché – diversamente dal sapere della biologia, che offre al potere una presa sulla vita oggettivata – si dà nella stessa forma ontologica che sottende l’operare economico. Il bios è innervato dal movimento/motivo della volontà autoreferenziale (e dunque nichilistica) e si manifesta come movimento, perché, come nell’economia, è mancanza, bisogno40. Mentre però, in Ricardo o in Malthus, la mancanza è scarsità di risorse, di mezzi per vivere, e dunque è inerente all’oggettivo, alla terra, in Schopenhauer la mancanza è ontologica e costitutiva dei soggetti e si manifesta come «fame» di eudaimonia, come desiderio di felicità, necessario e insieme impossibile da soddisfare. Questo desiderio struttura i corpi, le soggettività, la cui natura è esattamente e solamente Volontà di adempiere il desiderio di felicità. Schopenhauer opera la radicalizzazione del lascito dualistico di Kant: fenomeno e noumeno non si sintetizzano. Sempre, continuamente e di nuovo si dà l’operare fenomenico degli uomini, mos79 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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si dalla ricerca della soddisfazione, che non sarà mai saturata, perché l’in sé, l’essenza kantiana, è Volontà pura che vuole se stessa, Volontà di nulla, Volontà di vivere, e dunque, appunto, bisogno, mancanza, tensione. L’incessante lavorìo dell’operare umano ha il suo fondamento nell’immutabilità dell’Essere, del bios, che non è altro che Bisogno infinito e eterno e dunque Volontà infinita e ripetentesi di soddisfarlo. Il Desiderio, sempre inquieto, sempre insoddisfatto, rappresenta la tonalità, il colore, la temperatura passionale di un Bisogno/Mancanza che si propone metafisicamente come Volontà. Schopenhauer evidenzia, dunque, il lascito nichilistico di Kant alla modernità, tanto etica che economica: se al centro dell’agire si pone la Volontà in sé, pura e autonoma, essa coincide con la Vita: vita che vuole e vita valorata che è voluta, inseguita, vita che si brucia nella fiamma del desiderio ripetibile e che si ripete, desiderio che non sazia il bisogno, ma anzi lo trasforma in Mancanza strutturale. Mi sono soffermata sulla identificazione schopenhaueriana dell’essenza del bios con la Volontà (che è anche Desiderio-Bisogno-Mancanza), perché questa strada, tracciata da Kant, viene ripresa, con tono ovviamente diverso, anche dalla scuola austriaca marginalista: la Volontà è il luogo della irriducibile individualità delle scelte, ma anche il tramite della loro razionalità strategica, del passaggio alla tecnica e al potere. Si conferma l’antropologia negativa, l’ontologia della finitudine – intesa come mancanza di una pienezza perduta, di una quiete perfetta, di una beanza pacificata – che già segnava la scienza triste di Ricardo e oggi ancora segna la cultura occidentale. D’altra parte, se Schopenhauer pensa la vita, vita in sé, lo fa necessariamente nella modalità della cultura cui appartiene: cultura dell’intero, della simbiosi, della perfezione e dell’ordine. Quando quest’ordine, quest’Uno esplode e i frammenti sono flagellati dalla propria finitezza, il bios disordinato sarà pensato attraverso il bisogno, cioè la mancanza della pienezza perduta. La vita è fame, «volontà affamata», e insegue senza tregua la pienezza dell’eterno, dunque la morte. Pessimismo, paralisi della volontà, aporia depressiva. Tutto troviamo in Schopenhauer, che pure ha stracciato il velo che, nella sintesi classica, laboriosamente congedava la vita da se stessa, delegando alle istituzioni, alla politica il senso, l’identità, la ragione che in sé non possiede. Il lavoro, la grande mediazione tra uomo naturale e cultura/società/senso, torna alla radice, la triade vivente che lo ha motivato: i 80 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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suoi fini sono la sua origine, senza nessun sublimante movimento a spirale. Il lavoro è strumento di sopravvivenza e nasce dal bisogno. Non dimentichiamo questa trasformazione del ruolo del lavoro nella prospettiva vitalistica, perché può aiutarci a capire alcune cose di oggi. La schietta ammissione della strumentalità del lavoro implica anche il suo limite: esso non coincide con la identità e la vita, come è accaduto a lungo nel lessico e nella prassi moderna. L’operari, il lavorare, è strumento dell’esse, del vivere. Banale, di quella banalità che è l’esistenza: il lavoro non è libero e non rende liberi. Come denuncia Hannah Arendt, che sa della scritta hegeliana sui campi di Auschwitz, il lavoro è servo del bisogno, della necessità che, secondo la temporalità circolare del vivente, si ripete sempre, sempre ritorna. Stupiva che Arendt disconoscesse al lavoro qualsiasi dimensione teleologica, finalizzata, come invece è proprio dell’opera dell’homo faber: evidentemente voleva sottolineare che la connessione materialistica del lavoro ai bisogni da soddisfare lo immette nel cerchio del tempo senza senso, senza altro respiro che quello animale. Poi Schopenhauer continua il suo percorso, aprendo una divaricazione tra la coscienza della struttura originaria e intrascendibile del bisogno – della volontà di vita come volontà di soddisfare sempre e di nuovo il bisogno – e l’aporetica possibilità di essere veramente felici, non più sentire la mancanza, colmare il desiderio attraverso la negazione della vita stessa, non volendo la volontà di vita, sospendendo l’operare, in una in-operosa quiete. Così ci allontana dall’analisi folgorante dell’effettualità necessitante del bios. Si apre lo spazio per un differimento, per una aporetica dilazione tra bisogno, volontà strumentale di soddisfarlo e volontà capace di trattenimento di se stessa, di esitazione, anche se questo rimando è sempre finalizzato all’appagamento, ad una fruizione maggiore. Movimento aporetico, ma anch’esso, dal nostro punto di vista, molto interessante41. Si potrebbe immaginare infatti, nella prospettiva bioeconomica, che l’ascesi, il trattenimento e la negazione del soddisfacimento della pulsione, che caratterizzano l’etica normativa di Schopenhauer, possano essere assimilati al comportamento dell’imprenditore capitalista, colui che nel processo economico sa negarsi il godimento immediato, lo dilaziona, risparmia per investire e – mentre la massa degli uomini comuni dissipa se stessa nel lavoro servile e nel consumo immediato, incapace di crescita – ottiene potere sulla vita, signoreggia le vite altrui, trae soddisfazione maggiore per sé. 81 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Ma si tratta, anche in Schopenhauer, di un cedimento alla logica potente dell’Aufhebung, dove il bisogno, la vita non è che l’antitesi che prepara attraverso il lavoro una futura pienezza: si tratta in realtà del nomos, che sempre opera per signoreggiare il bios. 5. Dai bisogni ai desideri: la teoria marginalista Può sembrare paradossale constatare l’affinità del Sein, come è prefigurato da Schopenhauer, con la fedeltà al piano empirico del bios della teoria marginalista. Il piano della vita è, in entrambi i casi, quel meccanismo delle pulsioni che muove alla ricerca di soddisfazione: pulsioni esperite da tutti, singolarmente, ciascuno attraverso la propria sensibilità. Lo sfondo è ancora quello della ontologica e antropologica finitezza e l’eudaimonia – da tradurre in termini di benessere – rimane l’orizzonte delle motivazioni. Come vedremo, si indebolisce invece la necessità, la cogenza dei bisogni e il dominio inflessibile del desiderio che diventa dilazionabile, organizzabile in scale di preferenze, mentre la necessità, che contrassegnava il Sein, si trasferisce sulla logica della Volontà42. Le categorie biopolitiche sono dunque le stesse, con valenze diverse. Gossen, precursore del marginalismo, negli anni intorno al 1870, analizzava le sensazioni di godimento e utilità come fondamento della determinazione del valore, privando quest’ultimo della sua oggettività43. I singoli corpi e le loro sensazioni concrete tornano ad essere, come nelle osservazioni empiriche dei presmithiani, il baricentro e questa rotazione di prospettiva apre la strada al passaggio da una teoria del valore ad una teoria della scelta. L’economia non significherà più, da questo punto in poi, analisi della ricchezza e della produttività, ma studio dell’umana attività di scelta. Il recupero della soggettività si riverbera sul mondo delle merci, degli oggetti che vengono presi in considerazione solo in relazione ai bisogni che sanno appagare. L’utilità, cioè la capacità di un oggetto di soddisfare il desiderio individuale, viene a dipendere da imprevedibili forze centrifughe. L’analisi è radicalmente antidialettica e esplicitamente prende le mosse dal fallimento delle sintesi idealistiche e materialistiche. Il limite della teoria classica, per Mises, è nel «globalismo», che abbandona le differenze empiriche in direzione di totalità oggettive – le classi, la nazione, il mercato stesso – che sono in realtà vuoti fanta82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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smi44. Si dichiara l’impotenza del lavoro alla mediazione universale, dal momento che esso non è che un’impresa come le altre, sottoposta al calcolo di costi (il disagio del lavoro stesso) e benefici (il salario); ma si rinuncia anche a cercare un qualsiasi concetto che lo sostituisca in questo compito di mediazione. Semplicemente non c’è trascendimento dell’Essere e le prospettive soggettive, guidate da logiche strumentali – dunque i flussi di potere, volti al massimo godimento – vengono lasciate al loro spontaneo, disordinato incrociarsi. A questo intreccio si riduce la società. Probabilmente avrà il sopravvento nella realtà orizzontale del mercato, quella traiettoria di potere che, esercitando una dilazione sulla soddisfazione immediata, sul frui, saprà astenersi, accumulerà la propria energia, la utilizzerà (l’uti), ottenendo alla fine il massimo vantaggio e il massimo potere sulle altre. La posizione dominante del capitalista è testimonianza di una Volontà che, padroneggiando – come l’asceta schopenhaueriano – il desiderio, ottiene maggior soddisfazione e potere. È interessante notare come, sul piano del bios, che viene descritto come spazio orizzontale dove le forze si incrociano, comincia a manifestarsi un gioco di poteri interno all’economia, che non ha bisogno del trascendimento nel politico per dar luogo a gerarchie e organizzazione sociale. La società, il comune non è, ad ogni modo, ethos oggettivo, perché la relazione dialettica è fallita. Il vincolo sociale è dato solo dal calcolo economico del quantum di utilità un eventuale scambio con altri possa procurare45. Nonostante l’apparente analogia con il mercato smithiano, manca qui ogni senso della società nel suo complesso. Le curve di utilità soggettive sono analizzate senza trascendimento possibile; le funzioni di potere e le posizioni dominanti sono lasciate a se stesse, orientate singolarmente dalla razionalità microeconomica del calcolo degli imprenditori: non a caso tutti gli agenti sono dichiarati imprenditori del proprio godimento, anche e soprattutto i consumatori46. Le dinamiche del riconoscimento e della reciprocità che, nella sintesi classica (non solo in Hegel, ma anche in Smith) avviavano verso l’universale o, più modestamente, verso il complesso macroeconomico del mercato, si spengono. Non c’è simpatia né con-vivenza, perché non «serve», in quanto gli altri entrano nella relazione in modo funzionale al calcolo utilitario e questo li rende, come persone, evanescenti. Non c’è fine comune: la soggettività individuale è l’unico criterio di valore, unico e sempre dif83 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ferente, an-archico, senza principio. «La felicità (il benessere) – aveva detto Kant – non ha un principio, né per chi la ottiene, né per chi la procura (l’uno la ripone in questo, l’altro in quello); in quanto riguarda la materia del volere essa è empirica e si sottrae all’universalità di una norma»47. Questa rivoluzione di prospettiva può datarsi intorno agli anni Settanta del XIX secolo. Nel 1871 Karl Menger pubblica Grundsätze der Volkswirtschaftslehre e William Stanley Jevons la Theory of political economy, tre anni più tardi escono gli Eléments d’économie politique pure di Léon Walras. E sono contemporanee anche le idee di Alfred Marshall, poi pubblicate nel ’90: l’approccio è analogo: sono le soddisfazioni soggettive il riferimento per spiegare le previsioni di domanda e i prezzi relativi48. La determinazione oggettiva dei processi economici dipende da valutazioni dei soggetti in termini di godimento o atteso godimento. Essi sono semplici, contingenti relazioni orizzontali di scambio, dispositivi di formazione dei prezzi e meccanismi distributivi: manca qualunque attenzione alla dimensione sociale dello scambio, all’eventuale eccedenza di senso rispetto al puro calcolo, e manca qualunque consapevolezza tragica della vanità che assedia ogni ricerca di soddisfazione. Jevons o Menger non esplicitano nemmeno la dipendenza tra valore e utilità, tra valutazione soggettiva e valore. Per rendere possibile un coerente giudizio di valore, sarebbe necessaria una visione sistemica, un contesto complesso. Ma la vita non è coerente e l’economia mostra la sua presa sulla vita senza infingimenti: la soddisfazione è una misura contingente e determina un prezzo contingente e un meccanismo di distribuzione specifico. Il concetto di utilità marginale – incremento o decremento, nell’utilità totale, del consumo di un bene, derivante dall’aumento o diminuzione di un’unità supplementare della quantità consumata da ciascun soggetto – introduce nella «scienza» economica un fattore psicologico, come abbiamo visto, incoerente e variabile. La domanda, soggettivamente determinata da fattori psicologici – Schopenhauer avrebbe parlato della natura obbligante del carattere –, diventa il perno della relazione economica e dunque la fonte del flusso di influenza o di potere, che essa veicola. Inutile dire che tutto lo sviluppo successivo della teoria dell’utilità marginale sarà mirato a ridurre l’aspetto edonistico e dunque introspettivo, fisiologico e psicologico dell’utilità per renderne possibile il controllo49. A questo fine è cruciale la con84 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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taminazione con l’utilitarismo benthamiano, che calcola piaceri e pene come se fossero quantità numeriche cardinali misurabili. La teoria di Pareto inserisce, poi, in luogo della quantificazione assoluta numerica, la relazione ordinale, del più e meno, e dunque la scala di preferenze: la quale implica la determinazione di quanto si è disposti a sacrificare per ottenere la soddisfazione che viene preferita50. D’altra parte l’uso di concetti quali preferenza e sacrificio ci fa pensare ad un quadro più complesso del bios, più complesso di quanto queste argomentazioni sobriamente effettuali vogliano riconoscere. La soggettività concreta muove sì dalla pulsione del bisogno, di cui conosciamo il radicamento «territoriale» nella natura umana, ma va in direzione della soddisfazione maggiore. È disposta alla rinuncia e al dilazionamento orientato al più di godimento: dunque anche qui, come nel trascendimento hegeliano, ci si allontana dall’immediatezza del vitale, dalla ripetitività del semplice e immediato consumo. Se è vero che, con la teoria marginalista, l’imperativo della soddisfazione dei bisogni – quel movente del bisogno, che abbiamo trovato esplicitato in Schopenhauer – svolge tutta la sua carica biopolitica51, questo stesso bisogno subisce uno slittamento di vitale importanza, perché allenta il suo originario legame con la necessità (con la Mancanza ontologica) e traduce la sua pulsione nel lessico del Desiderio. E dei desideri, come abbiamo detto, si può fare una tassonomia, una gerarchia di valore. Nel regime del puro bisogno, del bios naturalistico o ontologico, come nel pensiero di Ricardo o di Schopenhauer, non c’è spazio per la scelta: i comportamenti sono necessitati, direzionati dalla dura legge della sopravvivenza e dal tarlo infinito della Mancanza o Scarsità, come dall’insufficienza del soggetto fenomenico. Occorre invece, nell’economia, che ci sia la possibilità della dilazione del bisogno – dunque non troppo e non sempre cogente –, perché si apra lo spazio alla gerarchia dei desideri, i quali possano apprezzare (letteralmente: dare un prezzo a) le utilità, la capacità dei vari beni di fornire maggiore o minore godimento. Quel prezzo è un sacrificio, e questo – contrariamente a quanto è portato a credere Pareto – significa che non si tratta di concetti quantificabili, ma di spostamenti del desiderio, ridondanti di senso. Certo, si dichiara che il differimento della soddisfazione non mira all’ascesi, ma è prassi concreta utile a generare il profitto, il guadagno dell’imprenditore, che vale più di quello della rendita e del salario e, materialmente, darà maggior soddisfazione. Ma la coppia 85 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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astinenza e sacrificio e la conseguente tassonomia delle preferenze è, in verità, l’apertura del percorso del desiderio, percorso che è accessibile solo per chi ha potere, per chi ha potuto sottrarsi alla cogenza del bisogno. Dal bisogno alla sua dilazione nel desiderio: questo determina la posizione dominante, secondo la legge di utilità. Il rovesciamento investe non solo il Lavoro, la Produzione, la Domanda, il Consumo, ma anche il concetto stesso di Valore. Vale ciò che è desiderato di più e che risponde ad una legge di maggiore utilità. Valore è semplicemente il prezzo che si è disposti a pagare hic et nunc, a partire da questo desiderio di oggi e di qui. Nella filigrana di questo mutevole valore si intravede un complesso di condotte di vita: l’apprezzamento delle cose, la disponibilità allo scambio, la comparazione, il sacrificio, la dilazione del piacere. Dipendendo da questi grovigli di contingenze, il Valore non può essere costante e fungere da misura, da mediazione: L’impossibilità della misura non è dovuta alla mancanza di metodi tecnici per ottenerla, ma all’assenza di relazioni costanti [...]. Il fatto principale è che non ci sono relazioni costanti. L’economia non è, come i positivisti ignoranti ripetono continuamente, arretrata perché non quantitativa. Essa non è quantitativa e non misura perché non ci sono costanti52.

Dunque il regime di discorso della teoria marginalista rivoluziona, o tenta di rivoluzionare, l’assetto socio-economico del regime classico, dove biopolitica dell’economia significava la gestione politica e sociale del bios economico. Il reticolo di rappresentazioni, di ordini, di parole che organizzavano il potere economico della vita in un linguaggio e un senso politico, si disfa progressivamente, mostrando i tratti dell’attuale assetto bioeconomico. I bisogni tendono a organizzare proprie traiettorie motivazionali e di potere secondo le loro stesse esigenze e priorità, e i viventi ripiegano la loro prassi sulle funzioni della vita, senza spingere più addentro lo sguardo o la speranza. Le equivalenze, l’ordine degli scambi, l’orientamento di tutti i processi economici verso la produzione e la relazione sociale che la rendeva possibile: tutto si indebolisce, mentre i poteri veri, i poteri di influenzare il mercato, assumono direzioni contingenti e incoerenti. Ai consumatori è dato di far ricco il povero e povero il ricco. Sono essi che determinano in modo preciso ciò che dovrebbe essere prodotto e 86 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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relative qualità e quantità. Egoistici e spregiudicati, sono pieni di capricci e di fantasie, mutevoli e imprevedibili. Per essi nulla conta all’infuori della propria soddisfazione [...] crudeli e testardi, senza considerazione per gli altri53.

Nessuna teoria ha lasciato essere così «immediatamente» le pulsioni dei viventi, ma l’animalità, l’apertura dell’uomo alla vita immediata e felice, appagata, è comunque negata – anche se non viene trascesa. Infatti, tutta l’esperienza dell’uomo è fisica e corporea; ma non è meccanica, omogenea e generica come quella animale: non è semplice bisogno, ma desiderio. Ciò che il consumatore compra non è semplicemente cibo o caloria. Questi non vuole cibarsi come un lupo, desidera mangiare come un uomo54.

E ancora, è stato asserito che i bisogni fisiologici di tutti gli uomini sono della stessa specie, e che questa eguaglianza è uno standard per la misura del grado della loro soddisfazione oggettiva. Esprimendo tale opinione e raccomandando l’uso di tali criteri di guida per una politica di governo, si propone di trattare gli uomini come l’allevatore tratta il suo bestiame. I riformatori non si rendono conto che non vi sono principi universali di alimentazione validi per tutti gli uomini. La scelta tra vari principi dipende interamente dagli scopi che desidera raggiungere55.

Nello stile polito, volutamente freddo, di un neokantiano disincantato come Mises lampeggia la nuova energia vitale dell’economia, ben al di là del bisogno e della sua triste, meccanica necessità: il desiderio, la sua anarchia e la sua estrema soggettività, che lo rende incommensurabile e che costringerà la teoria a spostare il suo oggetto. Ma la prima tappa di questo nuovo regime di sapere economico è esattamente l’esplosione del bios, in quanto desiderio. Un desiderio, che è tensione e inquietudine dei corpi, a sua volta assoggetta la produzione, dunque il corpo vivente che lavora. La finitezza antropologica degli individui, nella teoria marginale, non è un dato estrinseco ma interno al vivente: sta nel cuore stesso del desiderio. Mentre il corpo e il desiderio erano, nella teoria classica, il negativo che veniva trasceso, ora la positività del vivente finito che consuma, che 87 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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lavora, che scambia, assume la forma cava del desiderio, del negativo, dell’alienazione, del disconoscimento di sé. La teoria trasforma la centralità dei bisogni, da cui muove, nella gerarchia dei desideri, delle preferenze: ma l’impensato resta appunto il desiderio, il motivo, il movente, l’oggetto che costantemente sfugge al regime di discorso: «La moderna economia soggettiva comincia con la soluzione dell’apparente paradosso del valore [...] senza riguardo ai motivi che spingono la gente a comprare o a vendere o a astenersi dal comprare o dal vendere»56. L’enigmatico, egoistico, irriducibile desiderio ha per sempre smarrito la sua misura. 6. Dal desiderio alla volontà: il governo del «bios» nella teoria marginalista Il lessico di questo regime di sapere lascia in sottofondo, nell’impensato, il disordine dei desideri su cui pure si fonda. È lessico dell’utilità, è lessico degli interessi, ed è questa la via che permette di nuovo la mediazione della ragione e del calcolo. Con la teoria marginalista, a mio avviso cruciale nell’approccio biopolitico all’economia, assistiamo a un percorso di decostruzione del sistema metafisico ed essenzialista della teoria classica e all’esplosione indisciplinata della potenza dei desideri e delle scelte differenti, come differenti e irriducibili sono i soggetti viventi. Ma i regimi di sapere non possono descrivere la vita senza organizzarla in forme, che veicolano dispositivi di controllo e di potere: in questo caso, nell’idea della volontà razionale dell’azione. Con questo obiettivo, Mises – sotto un profilo filosofico, autore tra i più affascinanti – opera il recupero neokantiano della volontà, facoltà che trasforma il desiderio in scelta, in preferenza, subordinando poi la scelta alla razionalità economica/strategica dell’agente economico. Questi, in qualsiasi direzione si orienti, applica alla scelta che gli conviene, la modalità razionale. Cosa significa questo? In realtà Mises attua uno spostamento cruciale dell’oggetto della scienza economica, nel momento stesso in cui ne recupera il centro vitale, il bios: l’economia assume per oggetto non l’ingovernabile anarchia dei desideri, il dato irriducibile delle preferenze, ma la modalità razionale, strategica, cioè economica, dell’azione e della scelta. E di colpo la vita, appena liberata dai co88 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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strutti idealistici, torna sotto il nomos. I flussi di potere possono controllarla, razionalizzarla, indirizzarla: flussi di potere che non si riferiscono più ad un potere esogeno, politico o statale che governi abusivamente l’agire socio-economico, ma alla logica interna dell’azione stessa, al regime prasseologico che la governa dall’interno. Di nuovo c’è il governo economico del desiderio. Lo scarto, che fa scivolare il bios dall’anarchia del desiderio alla volontà, raggiunge il duplice obiettivo di rendere l’azione prevedibile attraverso la sua logica, ma anche di sottrarre il desiderio stesso al regime ambiguo e disordinante della libertà o della spontaneità, facendo di esso – del desiderio – la passione della volontà. La volontà è facoltà del potere e dell’affermazione della vita in se stessa e anche contro se stessa: «L’azione umana è comportamento volontario. Ovvero anche: l’azione è volontà messa in atto e trasformata in azione»57. La volontà è assolutamente autoreferenziale; vuole ciò che vuole: «il termine volontà non significa altro che la facoltà dell’uomo a scegliere tra differenti stati di cose, a preferirne uno, a scartarne un altro»58. Qualunque oggetto o azione può essere il suo contenuto, il suo motivo ed è vano tentare di giudicare, di valutare gli scopi e le volizioni altrui. La stessa vita non è necessario fine esterno della volontà, ma piuttosto struttura la sua tensione dall’interno e – esattamente come in Schopenhauer – coincide con essa. Una volontà che, nei suoi fini, è sempre criterio a se stessa e che discende quindi paradossalmente dalla volontà morale, autonoma, incondizionata di Kant, che spazio lascia al governo? In quale modo si può fare di essa un regime di sapere e dunque di potere? Semplicemente: se è vero che agire significa preferire, scegliere, determinare e cercare di raggiungere un fine, se consumare e godere sono azione volontaria come astenersi dal consumare e dal godere e se queste azioni, opere o astensioni restano insindacabili e incommensurabili, è vero però che ogni azione o omissione volontaria è anche «necessariamente razionale». Se nessuno è qualificato a giudicare il fine ultimo di un’azione o di una scelta che «è sempre la soddisfazione di qualche desiderio», sono invece razionali, calcolabili, i mezzi che implicano «un giudizio di convenienza e adeguatezza del procedimento impiegato», «l’idoneità o meno a conseguire il fine»59. Il governo che l’economia esercita sulle vite degli uomini passa attraverso la logica strategica, razionale, che presiede alla scelta dei mezzi adeguati per ottimizzare gli scopi che ciascun individuo, 89 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nell’assoluto disordine della propria macchina desiderante, avrà scelto. Possiamo dunque parlare di una forma di biopolitica economica, in cui la norma interna del comportamento lo orienta in base alla sua efficacia e effettualità, ne ottimizza il perseguimento del fine che, secondo il modello biopolitico, è esterno alla condotta. Ma la finalità biopolitica e generale dell’incremento della vita, capace di convogliare l’intero movimento del sociale in una direzione unitaria, viene sostituita, nell’anarchica ottica marginalista, dai fini divergenti di individui assoluti, dalle differenze esplosive dei concreti, singoli viventi. Spostata la governabilità dal fine alla logica razionale economica che presiede alla scelta, avremo una combinazione esplosiva e destabilizzante tra una assoluta anarchia delle direzionalità comportamentali e una ferrea armonia della gestione egoistica, interessata delle azioni, tale da garantire la previsionalità e l’equilibrio dell’insieme del mercato. La prima conseguenza di questa combinazione, non-sintetica, è l’estremo ampliamento del campo dell’economia a tutta la «prasseologia», ampliamento che esattamente si conferma nell’attuale configurazione bioeconomica. Tutti i comportamenti orientati e intenzionali, per quanto diverse e contraddittorie possano essere le scelte, sono governati da una logica strategica ed economica che mira a ottimizzare gli sforzi. Questo significa l’assoluto dominio moderno della razionalità strategica, unica ad essere governabile e prevedibile, dal momento che, messa in relazione al criterio principe dell’adeguatezza di mezzi e fini, può essere consigliata, guidata da autorità competenti60. La seconda conseguenza è la circolarità che si viene a creare tra l’azione razionalizzata del singolo individuo e quelle di tutti gli altri, aventi fini diversi ed eguale razionalità strategica, la quale ha per esito l’equilibrio dei prezzi: si trova sempre chi compra, se la tua offerta è adeguata alla tua volontà di vendere. Non è un caso dopotutto che la teoria venga detta neoclassica. Ripropone infatti, paradossalmente, in uno scenario totalmente rivoluzionato dal tramonto delle sintesi e del fondamento oggettivo, la pluralità delle preferenze e insieme il loro aggiustamento, attraverso la logica economica, nella stabilizzazione dei prezzi sul livello della convenienza di ciascuno e di tutti. Il calcolo strategico e egoistico che, in Hobbes, generando la guerra di tutti contro tutti, ha bisogno di un potere sovrastante per tacitare il conflitto, conduce invece ad uno spontaneo, calcolato, bilanciamento degli interessi. 90 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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È un equilibrio già postmoderno, fragile e contingente, in cui hanno un ruolo significativo non le oggettive compensazioni nel quadro della cooperazione sociale, ma le traiettorie di potere che con maggiore lucidità avranno calcolato le proprie convenienze, i propri interessi, assumendo posizioni dominanti nel mercato. L’equilibrio della combinazione non volontaria delle volontà autonome – che testardamente perseguono, ignorandosi reciprocamente, il proprio solitario interesse – ha una certa analogia con l’ordine della complessità biologica, che emerge dal disordine delle parti secondo regole endogene di organizzazione: è un dato concreto e effettuale, non un costrutto artificiale61. Effettualmente ogni fenomeno è determinabile solo in relazione ad un altro, non in relazione a una forma a priori del meccanismo economico. La forte ascendenza kantiana di un Mises, e in genere della scuola austriaca, sembra lontanissima dall’irrazionalismo vitalistico: eppure la logica strategica è logica della Volontà di potenza che razionalizza il mondo per esercitare potere su di esso. Sarà vera la sistemazione della materia economica che permette di estendere questo dominio, questo controllo. C’è un grande patrimonio di idee e categorie nuove, che la teoria marginalista ha lucidamente messo in gioco: i desideri, le preferenze, l’azione, l’iniziativa, la centralità della domanda e del consumo, con le dinamiche di potere che all’interno di esse avrebbero determinato le vite. Ma la minaccia di un multiverso anarchico non contenibile spinge le successive teorizzazioni economiche a recuperare l’oggettività perduta, cosicché l’indagine si sposta dalle analisi introspettive e psicologiche ai comportamenti effettivi, empiricamente rilevabili, dichiarativi delle preferenze, e dunque a studi statistici ed econometrici, che permettono analisi scientifiche. A sua volta la deriva econometrica viene, poi, bilanciata da una rinnovata attenzione, negli anni Settanta del secolo appena trascorso, alle reazioni provocate nella domanda da un cambiamento specifico in una o più proprietà di un bene62, e dunque alle qualità oggettive delle cose, delle merci, oggetto di scelta, ipotizzando una reazione standard del consumatore sulle preferenze. In questo modo le cose sono più padroneggiabili e i comportamenti umani – in un’ottica behaviourista, che, come abbiamo visto, si rende disponibile alla governamentalità biopolitica – possono essere standardizzati e resi statisticamente prevedibili e gestibili. Il sapere economico, individuando una misura oggettiva dell’utilità delle 91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cose, si concentra sulle loro caratteristiche materiali per influire sulla domanda. L’economia ruota comunque attorno alla domanda. Era quello il polo della relazione di scambio che, messa in gioco dai marginalisti, accoglie i nuovi dispositivi di potere sociale: il principio della sovranità del consumatore veniva, già da Mises, assimilato al potere politico e riconosciuto superiore63. Se ne sottolinea, adesso, la insindacabilità, la capacità di influenzare produzione e mercato, di punire o premiare secondo logiche non prevedibili che – andando oltre gli equilibri marginalisti – non hanno a che fare solo con i prezzi. E allora? Ci avviciniamo alla configurazione bioeconomica e ai suoi poteri interni all’economia. La domanda si può «creare» e dunque «controllare» sia tramite prodotti nuovi attrattivi, sia attraverso inserzioni pubblicitarie, sia, infine, mediante informazioni sulle merci possedute o ricercate dal consumatore: questo è il marketing. Attraverso questa via, dopo un secolo, la teoria soggettivistica dell’utilità della domanda riscopre l’importanza dell’approccio psicologico, lavorando però sull’ipotesi (tipicamente biopolitica, behaviouristica e statistica) di una reazione prevedibile e standardizzata all’oggetto. Si rende visibile, così, un campo di battaglia, un conflitto di poteri e di influenze, uno spazio di forze dissimmetriche nella piazza del mercato. La domanda si fabbrica, la scelta si manipola e dall’altra parte i consumatori si organizzano, esercitano pressioni sui produttori in merito alla qualità e quantità dei beni prodotti. La microeconomia delle scelte mostra inedite energie di resistenza alle pressioni del mercato insieme a un desolante conformismo dei gusti. Va sottolineato – al di là di quest’ultimo slittamento dal potere dei consumatori alla guerra della seduzione e manipolazione delle scelte – l’impoverimento che, nell’econometria neoclassica, subisce la stessa intuizione marginalista e bioeconomica che aveva lasciato affiorare i dispositivi endogeni di bios/nomos, che guidano bisogni, scelte, desideri. Molte illuminanti e originali intuizioni, che trovano visibilità nella bioeconomia attuale, sono lasciate allo stadio germinale o soffocate dalla pretesa di un controllo quantitativo che assicuri alla teoria lo statuto di scienza. Soprattutto, il desiderio viene evocato ma non pensato: non se ne approfondisce la natura relazionale e agonale. Non si mette a fuoco come esso, pur essendo passione individuale del singolo corpo, abbia però una natura obliqua e, 92 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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come aveva già intuito il solito Smith, dipenda dal desiderio dell’altro: si ignora così la sua carica socializzante all’interno della presunta neutralità dello scambio mercatile. In esso si incrociano domande solo parzialmente interessate alla soddisfazione e, in realtà, formulate sotto lo sguardo dell’altro, secondo la dinamica dell’invidia antagonistica e mimetica. Ma, ripetiamo, la teoria abbandona il desiderio, la psicologia, per la volontà e per la sua ratio economica che, garantendo omogeneità, permette i dispositivi di potere. Va in questo senso l’insistenza sulla problematica tesi della scelta razionale e dell’indipendenza del sistema di preferenze di ciascun soggetto economico dalle preferenze degli altri, tesi che disegna una poco credibile silhouette di homo oeconomicus autonomo e autoreferenziale: l’unica influenza riconosciuta delle scelte altrui sulle scelte di ciascun singolo consumatore è quella, indiretta, dei prezzi di mercato. O quella oggettiva dell’attrattiva della merce, behaviouristicamente manipolabile. È un equilibrio che non conosce e non riconosce crisi. La cosiddetta esternalità, cioè il fatto decisivo che il comportamento degli altri influisce sul mio sistema di preferenze, viene escluso: almeno nel marginalismo puro64. Ma, già con Hayek, l’obiettivo dell’equilibrio comincia a perdere la sua oggettività. La scelta – presunta razionale – del soggetto, che resta al centro del processo, avviene in condizioni di incertezza e modifica le aspettative e le conoscenze iniziali in un processo continuo. Abbiamo, a questo punto, un altro contributo interessante della scuola austrica, leggibile in chiave di logica biopolitica e, come abbiamo accennato, riconducibile alla bio-logica della complessità: un’ipotesi che implica una forma «insorgente» di libertà e una derubricazione dei nessi di causalità e volontà. Il singolare carattere del problema di un ordine economico razionale è costituito proprio dal fatto che la conoscenza delle circostanze di cui ci si deve servire non esiste mai in forma concentrata o integrata, ma unicamente sotto forma di frammenti disseminati di conoscenza, incompleti e sovente contraddittori, che ciascun individuo possiede [...] in breve si tratta di un problema di utilizzazione di conoscenza che non viene fornita ad alcuno nella sua totalità65.

Hayek assume pienamente nel sistema l’incertezza e il limite propri di Hume66, ma sia il sistema dei prezzi cui si riduce l’informa93 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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zione parziale dei singoli, sia la limitatezza delle conoscenze, sia la frammentarietà dei punti di vista – in una parola il disordine e la finitezza del bios – trovano un punto di coordinamento oggettivo. La catallassi è la risposta, che ripropone in sistemi viventi e complessi una idea di ordine e di organizzazione, non antitetica alla libertà. Il presupposto di Mises dell’intenzionalità e della volontà debbono riferirsi esclusivamente al progetto di potere del singolo e alla sua indeterminatezza e finitezza (limite di conoscenza che è anche finitezza di potere): in relazione all’insieme emerge la libertà, il cui concetto si distacca da quello di volontà – e quindi di costruzione tecnica del potere – e rifluisce in quello di insorgenza, emergency of freedom, che era stato avanzato dall’empirismo inglese e dai primi economisti67. Se è facile sollevare obiezioni all’ipotesi di applicazione di un modello di insorgenza al groviglio di poteri, di interferenze, di veti che domina lo spazio economico68, resta interessante, in un’ottica biopolitica, l’adozione di una logica del sociale, fondamentalmente affine alla modalità di organizzazione che i biologi individuano nella inconsapevole cooperazione delle parti e degli organismi viventi nelle totalità cui afferiscono. Una logica di interdipendenza che non si solleva alla sintesi conoscitiva e produttiva della totalità: non c’è nessuno che sa e dunque può orientare e organizzare l’insieme, pena il suo snaturamento e il tradimento della sua logica interna. Per Hayek – che preclude al proprio ragionamento ogni esito utopico – semplicemente l’ordine complessivo, non saputo né progettato da nessuno, si autoorganizza nel tempo: Gli ordini spontanei risultano dal fatto che i loro elementi obbediscono a certe regole di condotta [...] si sono evolute delle regole [ma Hayek usa anche il termine regolarità] che conducono gli individui a comportarsi in modo da rendere possibile la vita sociale69.

L’ordine è un dato storico, una realtà che si ricompone senza astrazione, rispetto alla quale la pretesa costruttivista e coartativa che presume di sapere e dare forma, è distruttiva e fallimentare. Sia pure con le debite differenze, non possiamo non pensare ad una certa affinità con Hannah Arendt, che predica la imprevedibilità dell’azione del singolo e la non controllabilità degli esiti: anche se non accetta la ideologica rete di recupero, rappresentata dalla utopia dell’ordine spon94 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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taneo, lascia agli agenti – che per Arendt sono agenti politici – la libertà/potere dell’inizio privandola del controllo/dominio degli esiti dell’azione, apprezzando della politica il libero e imprevedibile intrecciarsi degli interventi e delle iniziative di tutti. Anche in Hayek – seppure all’interno di una rete protettiva di ordine che sempre si costituisce spontaneamente dal disordine – c’è la fiducia nel fatto che, se fosse possibile evitare gli abusi di chi pretende di sapere e di controllare, l’agire plurale e le iniziative dei partecipanti allo scambio troverebbero una combinazione spontanea e vitale. Questa modalità di autogoverno che il mercato (se si liberasse dell’intervento politico) avrebbe dentro di sé, ignota nella sua totalità e nella sua direzionalità, ma originata dal comportamento di ciascuno e di tutti, evidenzia (almeno sul piano controfattuale e polemico) una forma di nomos/bios, di vita spontaneamente ordinata che tenga insieme la libertà anarchica delle scelte e dei desideri e l’ordine della loro compatibilità complessiva. Si può capire quindi l’interesse di economisti e sociologi, in tempi di biopolitica dei poteri sociali e di bioeconomia, alle ricerche sulla nuova logica dell’organizzazione e della complessità. Non può sfuggirci, d’altra parte, la somiglianza di quest’ordine spontaneo con la funzione organizzatrice e identitaria del sacro: in entrambi i casi ci troviamo di fronte a un ordine, a un dover essere che, originato inconsciamente dai singoli comportamenti, si autorappresenta come esogeno, come una Legge indisponibile – la indiscussa legge del mercato – la cui naturalità funge da collante sociale tra individui fra loro assolutamente slegati. 7. Innovazione L’ultimo tassello, sul quale vogliamo richiamare l’attenzione, nel nesso bios-nomos dei regimi di sapere economico, è il problema dell’innovazione, del novum. Concetto enigmatico e denso di spessore, che addirittura coincide con la modernità e ne riassume l’essenza, ma che mette in crisi la meccanicità del progresso. Il novum è tale se è indeducibile dalle condizioni che ne permettono l’emergenza; per Hume, come abbiamo visto, è l’oltrepassamento del dato, grazie alle fragili potenze del credere e dell’inventare. Novum è evento contingente e imprevisto, salto, inizio. Ma pensare e dire l’inizio (che, per Arendt, è libertà, nella metafora della natalità) è difficile, 95 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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perché significa entrare in contatto con la concretezza germinativa della vita e lasciarla essere. In economia, la crisi – produttiva e sovraproduttiva, crisi endogena delle forze economiche che non risultano compatibili nell’organizzazione del lavoro, ma anche crisi esogena, indotta dalle istanze politiche, ideologiche, che turbano i flussi della domanda – rappresenta una sfida cruciale all’equilibrio del mercato. La crisi stessa è disordine e propone l’inatteso, l’inedita combinazione di eventi che non si lascia risolvere con la gestione abituale delle proporzioni che riporta il sistema al suo equilibrio omeostatico. La risposta alla crisi esige un salto qualitativo, rende necessaria una decisione, il coraggio di un cambiamento di rotta, la capacità di affrontare il rischio e giocare d’azzardo: questo significano le innovazioni, introdotte dagli imprenditori e finanziate dai banchieri. Imprenditori e banchieri tornano ad essere, come nell’eroica alba del capitalismo, figure attive, poteri sporgenti dalla routine del quotidiano, le cui scelte determinano l’evoluzione dell’economia. A questo punto, le scelte di consumo e di astinenza, di risparmio e di calcolo razionale del vantaggio, centrali nel regime di sapere marginalista, diventano secondarie. Con Schumpeter e la teoria delle innovazioni, la scuola neoclassica muta la sua ottica, prevalentemente statica, subordinata ai meccanismi di equilibrio del mercato, aprendosi al dinamismo costitutivo dei processi economici70. È un parziale (il quadro rimane lo stesso) ma formidabile cambiamento di prospettiva, preparato dalle teorie dell’azione sociale, dal soggettivismo volontaristico di Mises, dall’anarchismo libertario che sottende l’anticlassicismo dei marginalisti. La concorrenza, finora pensata come pura reciprocità di aggiustamenti comparativi, diventa dinamica, perché gli imprenditori riescono ad uscire dall’empasse di una stagnazione sempre in agguato solo enfatizzando la crescita, introducendo sempre nuovi processi produttivi e sempre nuovi attraenti prodotti. Il profitto, il surplus, degli imprenditori-innovatori poggerà su costi ridotti grazie all’innovazione tecnologica e su nuovi beni. E dinamica si fa anche la domanda di finanziamento: i banchieri assumono un ruolo attivo, decisionale, stimolato dalla rischiosa aspettativa della nuova redditività. Ci avviciniamo all’universo di oggi: la realtà economica è in strutturale disequilibrio e vive immettendo continuamente nel mercato cose nuove e processi produttivi più efficienti. La crisi viene conti96 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nuamente rimandata, non risolta, attraverso un’azione frenetica e incessante di rinnovamento. Esiste un concetto strettamente tecnologico di innovazione: il nuovo viene pensato, dalla sintesi classica della political economy, come l’articolazione puramente tecnica dello sviluppo. Eppure si tratta di una costellazione di temi dirompenti, nel discorso economico: evidenzia l’assillo del nuovo, del non deducibile, quindi estraneo al divenire del modello classico; è elemento critico, l’unico capace di porsi all’altezza del disequilibrio delle crisi; è, anche, elemento di potere, se potere è cambiamento, capacità di influenza; ed è, infine, elemento umano, specificamente riferibile alla creatività, all’artificio, all’eccedenza del vivente umano sulla routine ripetitiva del biologico e dell’animale, cui, per esempio, Arendt riduceva il lavoro. Quello dell’imprenditore/innovatore non sembra lavoro, ma Beruf weberiano. Ci sono, nell’innovazione, libertà e volontà insieme, ma anche tecnica e strumentalità: dunque originalità subordinata alla necessità. In effetti la complessità dell’influenza che le nuove idee, i nuovi processi scientifico-tecnici hanno sulla realtà economica rimanda alla questione: come diviene realtà il novum? Attraverso quali campi di possibilità concreta, quali limitazioni e quali condizionamenti il novum si realizza, legandosi ad interessi determinati, portatori di forze che permettono il suo sviluppo? Attraverso quali condizioni, cioè, il novum diventa potere di trasformazione? A lungo le teorie neoclassiche hanno pensato la relazione scienza-economia come estrinseca: in modo non problematico le conquiste innovative-trasformative della scienza venivano a garantire e a supportare lo sviluppo economico produttivo. E la produzione capitalista si autorappresentava sicura che il suo rapporto con la ricerca e l’innovazione fosse naturaliter sintetico. La teoria dello sviluppo economico di Schumpeter registra lo sfaldamento del rapporto «oggettivo» tra scienza ed economia: superando la fragile staticità del discorso marginalista, essa individua, all’interno del processo produttivo, le forze propulsive dello scarto innovativo, che rende nuovamente competitivo e dunque dinamico il modello. Uno scarto, denso di contingenza e di rischio, che invalida i sistemi di equazione che lo volevano determinato, prevedibile, e ne fa un novum, che resta indeducibile dal flusso della riproduzione semplice. C’è un nesso strutturale tra ricerca e sviluppo: 97 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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L’evoluzione economica, per conseguenza, non può procedere senza scosse: al contrario essa è per sua natura squilibrata, discontinua e la disarmonia è insita nel modo stesso attraverso cui operano i fattori di progresso71.

Lo squilibrio è riconosciuto, qui, in tutta la sua profondità e connessione con la vita. La violenza, la conflittualità, la crisi, il disordine del bios tornano in prima linea, dopo l’ottimismo catallattico. E il processo innovativo riacquista, di conseguenza, la sua ambivalente natura tra libertà creativa e volontà di potenza, vita e potere sulla vita: individualità creative e progetti rivoluzionari non sono riconducibili allo sviluppo armonioso della dialettica e nemmeno alla funzione «integrativa» dell’imprenditore misesiano, che «agisce con un certo anticipo, mentre altri sanno soltanto imitarlo»72. Non basta l’operari calcolante e deterministico, occorre l’azione, imprevedibile, che scompagina l’assetto produttivo routiniero esistente, provocando il mutamento; è necessario, dunque, il potere, creativo ma anche decisionale, che determina nuove combinazioni organizzative, produttive e di mercato. Nonostante alcune semplificazioni73, emerge in Schumpeter una capacità di analisi sociologica e politologica pari a quella di Weber. La consapevolezza della coppia crisi-innovazione fa sì che la loro analisi guardi all’economico come ad un sistema di potere integrato in una riorganizzazione della società intera. L’azione dell’imprenditore innovatore non sta nel potere di applicare dei risultati del progresso scientifico-tecnologico, ma è ben più strutturale, dal momento che i nuovi salti tecnologici-organizzativi hanno assai poco di puramente scientifico o tecnico. Sono piuttosto funzione di vasti programmi di ricerca scientifica, orientati attraverso un’adeguata trasformazione degli istituti, degli organi della ricerca, e tramite investimenti che implicano la scommessa aleatoria sui risultati. La tecnoscienza ha spezzato il cerchio della sua autonomia – l’aura di sapere/verità – ed è divenuta essa stessa valore, cioè orientamento pratico e inter-esse, e, per questa via, innovazione, dispositivo o fattore innovativo. Sono questi dispositivi tecnoscientifici, integrati nel processo produttivo, che realizzano l’energia creativa per la trasformazione. La funzionalità disincantata e strumentale della scienza fa tutt’uno con il suo valore orientativo di comportamenti pratici storicamente definiti, valore economico, effettuale che, perciò, non si pone domande inutili. 98 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Schumpeter disegna una effervescente personalità di imprenditore-innovatore, che assume in sé il coraggio del primo capitalista, l’ascesi del protestante, la carica polemica contro i vincoli della burocrazia; ne sottolinea l’aura avventurosa, la decisionalità che indirizza la disorientata e stagnante routine, annodando la ricerca scientifica e la prassi dell’interesse produttivo. Siamo lontani dal ruolo applicativo del manager marshalliano: qui c’è Beruf innovativo e responsabile, azione che è etica e sfida arrischiata insieme. È chiaro che Schumpeter sottolinea l’affinità dell’impresa innovativa con la libertà: questa aura libertaria, fatta di rischio, eccedenza, coraggio è il fascino, il carisma dell’imprenditore. Ma è libertà? C’è posto per la libertà in quel potere che ha presa diretta sul bios, che lo indirizza e lo governa? È un libero eroe quell’individuo che sarà chiamato capitale umano, con una sorprendente riduzione a valore economico di quella sorgiva libertà di inizio – azione che inizia, come diceva Kant, una nuova catena di causalità? Oppure l’azione innovativa dell’imprenditore è sì libera nel senso della contingenza humeana, perché mescola il rischio del credere e l’eccedenza dell’inventare, ma si sottopone ancora una volta al controllo della volontà, che non conosce la libertà dell’inizio ma la potenza, e individua le tracce di necessità cui sottomettersi per essere più efficace? Infine, più semplicemente, si ripropone un quesito su cui ci siamo già imbattuti e che evidentemente ha un notevole peso nella considerazione della bioeconomia: è possibile, nel mondo dell’economia, la libertà germinativa del bios – come spontaneità e come inizio – o c’è spazio solo per la volontà di potenza, l’innovazione-incremento, subordinata alle necessità dell’efficacia? Il tema è, ripeto, di un certo rilievo da un punto di vista bioeconomico, perché oggi molteplici sono le interpretazioni del paradigma biopolitico in termini di potenza vitale, germinativa e affermativa – certo non del singolo come in Schumpeter, ma della moltitudine di singoli. È grande la tentazione di risolvere la complessità dei poteri sociali, rimanendo sul piano dell’immanenza e esaltando euforicamente la potenza liberatoria del bios. Non è questa la via, a mio avviso, per districare l’intreccio di poteri, logiche e linguaggi che determinano l’apparente monoliticità della vita in direzione di forme che consentano la libertà contingente di agire74. Si ripresenta il trittico di figure, di cui abbiamo parlato nella introduzione: imprenditore, scienziato e politico. Politica – e lo sanno 99 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tanto Schumpeter che Weber – è l’azione innovativa dell’imprenditore che, rischiando, decide di investire nella tecnica; politica, economica, tecnica convergono nel potere. Potere è l’atto di rilancio del processo di accumulazione con cui l’imprenditore mostra la sua personale irriducibilità all’edonismo consumista, ripetitivo. Potere è ciò che gli consente di differire la sua soddisfazione, di non calcolare il risultato attraverso la disutilità immediata dello sforzo. Rompendo la routine, trasforma l’assetto tradizionale del mercato e questo comportamento è in fondo economicamente irrazionale: pone la speranza massima della soddisfazione oltre ogni godimento immediatomondano, in una proiezione incerta che somiglia all’attesa del miracolo. La volontà di potenza – che, in risposta alla crisi della ciclicità «spontanea», governa l’economia con un’azione non libera, ma intenzionale, funzionale, tecnica e volontaria – c’è tutta. L’imprenditore realizza, nell’ambito economico-produttivo, una delle prerogative essenziali della funzione di potere: introduce un’asimmetria, che destabilizza gli equilibri interni al flusso circolare neoclassico consumoproduzione-distribuzione. Il potere è energia vitale che induce instabilità: nella rivendicazione di questo assunto sta anche il contributo teorico di Keynes. La sua concezione della figura imprenditoriale – dell’imprenditore che non è un semplice soggetto di scambio, un mero contraente allineato agli altri operatori economici, ma un soggetto di potere, che decide degli investimenti ed è fattore autonomo di determinazione del volume della produzione – entra in stridente contrasto con il monetarismo corrente, acefalo e econometrico. E urta soprattutto con l’idea di una pluralità di operatori razionali tesi a massimizzare il proprio interesse individuale, e quindi meccanicamente soggetti alla regola dell’utilità marginale applicata indistintamente a tutti i soggetti economici: che è quanto serve ai monetaristi. L’unico modo per contrastare il paradigma della ratio ottimizzante, del conformismo degli operatori e della pretesa di armonia delle relazioni di mercato, non può essere che una messa a nudo, teorica e analitica, dei dispositivi di potere, di conflitto e instabilità75. Il tipo schumpeteriano, centrato sulla esaltazione della discontinuità e del rischio, non sembra vedere i condizionamenti che la complessità della relazione scienza/produttività mette in gioco, come non vuole vedere le interferenze, non necessariamente statali ma sociali e polivalenti, che di volta in volta si determinano. Non c’è analisi dei rapporti sociali e politici che supportano la decisione, consi100 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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derata tendenziosamente come autonoma e libera e che, nella realtà, si logora nel lavoro di mediazione con la gestione amministrativa della ricerca e si snatura nel processo di trasformazione attuativa. È ignorata proprio quella complessità, densa di poteri, che oggi è evidente, quella socializzazione della vita economica che Weber invece energicamente sottolineava. La potenza innovatrice grandeggia solitaria, a riprova di quella tentazione – ancora attuale nelle interpretazioni neoromantiche della biopolitica – di recuperare il vitalismo come sottofondo metafisico dell’azione di rottura, del novum, della decisione imprenditoriale e/o politica e della libertà. Ma la strutturazione di potere, gestionale ma anche politico, del processo di innovazione eccede la semplificazione vitalistica delle soggettività agenti, le quali non potrebbero governare gli effetti dell’innovazione, se questa non fosse inserita in una rete di altri poteri, di cui peraltro non condivide linguaggio e regole comuni. L’esaltazione del soggetto innovatore ripropone, dunque, una figura sintetica di bios e nomos: sintesi che non si compie nel sistema, ma nella soggettività carismatica di quel singolo vivente (ma la vita è sempre singolare) che sussume in sé la complessità disarmonica e centrifuga delle tre figure della nostra introduzione. Il politico weberiano, invece, è, anche nella propria singolarità, dopo la sintesi: governa le differenze, sapendo di essere altro da esse e di dovere accogliere l’estraneo linguaggio dell’economico76. Deve riconoscerlo per modificarli. D’altra parte l’imprenditore, nel modello weberiano, sa di mettere in atto forme di controllo e di programmazione, il cui linguaggio specifico non è economico. L’autonomia del politico in Weber non indeboliva la intensa politicità/governamentalità presente all’interno della stessa sfera produttiva (peraltro le nozioni di calcolo economico e di razionalità economica esorbitano da una visione riduttivamente utilitaristica dell’agire economico e si riferiscono a relazioni strategiche di potere in un’accezione lata del termine economico, che abbiamo sottolineato, a partire dalle osservazioni di Foucault). Autonomia del politico significava in Weber autonomia della logica del potere a tutti i livelli, a partire dall’economico. Ma, nonostante tanta consapevolezza, i tempi di Weber sono quelli in cui l’economia e lo Stato sono ancora le due facce del processo di razionalizzazione, che si dispiega attraverso gerarchie, divisioni di ruoli, intreccio di organizzazione istituzionale del sapere e 101 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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delle competenze. Weber prevede un parallelismo perfetto. Invece il trend della deformalizzazione dello Stato accresce la mobilità e la labilità di confine tra dimensione formale e materiale della razionalità. Oggi quelle due figure tra le quali, per Weber, non c’è fusione, confondono molti dei loro tratti. Proliferano i centri informali di potere, gli istituti di rappresentanza funzionale degli interessi che scavalcano i partiti configurando assetti neocorporativi. La soggettività dell’eroe innovatore che, in modo magico-vitale, sussume tutti i ruoli, si spezza in molteplici soggetti concreti collegati tra loro da rapporti e valori relativi e funzionali. Non c’è un linguaggio del sistema e neanche un linguaggio unico del bios, ma esistono idiomi differenti. Il linguaggio della politica non ha le stesse regole di quello economico, ma assume alcune sue forme logiche. Il soggetto che decide l’innovazione, per quanto sia diverso da quello dell’amministrazione economica o della burocrazia statuale, avanza argomentazioni e giustificazioni che fondono le due prassi. I centri decisionali del sistema sono qualitativamente diversi e centrifughi, ma la scelta è ondivaga e trasmigra dall’uno all’altro idioma, rendendo difficile la individuazione – ai tempi di Weber ancora così trasparente – delle responsabilità dei diversi soggetti (delle volontà e dei poteri). Non è solo la grande utopia della sintesi di economia e politica, political Economy, a essere spezzata. È perduta la breve stagione di governo politico, lucido e disincantato, delle differenze economiche e non, coesistenti e non traducibili, tenute insieme dal volontarismo responsabile del politico weberiano. Ma anche la pretesa del mercato di essere intrinsecamente politico e orientato allo sviluppo attraverso l’organizzazione del sapere/potere economico, che aveva messo a disposizione strumenti concettuali quali la preferenza, la volontà, la logica ottimizzante, per dominare il bios dei desideri, sottoponendolo all’efficienza, cede ora alla disincantata molteplicità, contraddittorietà e confusione delle funzioni di politica e economia. 8. Infine: il trionfo della logica economica È necessario un cenno a quel terzo, che col politico e con l’imprenditore, ha a che fare col soggetto del novum, dell’innovazione: il tecnoscienziato, che fornisce la norma del bios. La scientia, gettato alle spalle il racconto della sua autonomia, è il soggetto che rovescia il 102 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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concetto classico di sostanza: descrivendo, oggettivando l’essere, il bios, lo trasforma in valore e perciò in fenomeno usabile-manipolabile. Il regime di sapere che parla della vita è tecnico. Autocoscienza della volontà di vita e di potenza, la techne è l’utopia positiva della metafisica moderna. Significa potere, riduzione effettuale del mondo a valore, uti, uso del bios. Le funzioni di controllo e di governo possono esplicarsi solo nella misura in cui il bios non è sintesi, ma una folla di fenomeni in contraddizione irrisolta, che lascia spazio al ruolo effettuale della tecnica come politica e soprattutto, come decisione economica. Effettuale, a patto che se ne segua la logica immanente, l’unica logica razionale condivisa dalla fisica, dalla biologia, dalla psicologia e dalla psicanalisi: la logica economica che struttura e rende comprensibili, prevedibili e manipolabili le relazioni di azione e reazione, di mezzi e fini, di motivo e comportamento, di scelta tra mezzi alternativi in situazioni di scarsità, la logica paretiana del più e meno, più risultato e meno costo, che è tanto più importante dei fini stessi. I discorsi tecno-scientifici nascondono il bios, non lo lasciano essere: sono forza produttiva, pro-ducono, nel senso politico-economico del termine. La tecnica e l’economia, d’altra parte, non esistono come insieme neutrale di funzioni che tengono unicamente al risultato, all’effetto pratico. Esse riposano sul discorso di veridicità che trasforma l’essere (la vita) in valore, e trasforma il valore in valutato dalla volontà di potenza. «Vivere è per l’uomo il risultato di una scelta, un giudizio di valore»77. L’orientamento del volere in direzione della vita segna un limite insuperabile: ogni azione ripeterà questa struttura, ogni prassi avrà come sua condizione il rapporto necessario tra volontà e vita e tra volontà alla vita e potere. Questa necessità è priva di sintesi, di punti di equilibrio. Ma non c’è disperazione per questo: non si opera che nel conflitto, non ci si muove che nella necessità. Se si desse la sintesi, le strutture del potere non sarebbero necessarie, le azioni non si darebbero, sarebbero intrinsecamente in-operose, l’uomo semplicemente «non agirebbe»78. Ma la sintesi, la Gemeinschaft è crollata da un pezzo. Si parla di ordine spontaneo, ma non c’è che l’intreccio fragile, precario degli interessi, delle anarchiche opzioni dei poteri; non c’è intersoggettività comunicativa, ma Macht; non dover essere, non simpatia: solo poter essere. Questa è la bioeconomia. È la totale incarnazione o immanentizzazione del potere sui fenomeni del mondo, potere degli uni sugli al103 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tri, nella forma dell’economia. Alla fine della metafisica sta l’animalità del vivente, la radicalità dei corpi. La volontà di vita, il bios, si manifesta nel potere. Oggi, il sommo valore non è l’ascesi, ma la corporeità, l’effettuazione mondana della ratio, che non «deve»: può; ma, per potere, deve esserci, radicarsi nel mondo, capirne fino in fondo la necessità, senza sublimazioni e mediazioni. Non più una relazione tra i due termini bios e nomos, ma un unico termine. Incarnazione dei poteri, potere compiuto. E non sembra che ci siano spazi vuoti alle spalle dove dis-alienarsi: questa fattualità è il destino dell’Occidente e, oggi, dell’intero pianeta.

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Capitolo terzo

Bioeconomia

1. Forme che si confondono: troppa chiarezza e troppo mistero È ancora valida oggi la silhouette del mercante disegnata da Smith, dal carattere incompatibile con quello del sovrano? È ancora persuasiva la grande rappresentazione weberiana di capitalismo e modernità politica uniti dalla logica strategica, dalla razionalità tecnica? È ancora pensabile in modo autonomo e scientificamente coerente, l’ampia costellazione dei fenomeni economici, che pervadono le vite umane a livelli multipli e sovrapposti, sotto forma di lavoro, bisogni, desideri, necessità, consumi, produttività, innovazione; e possiamo immaginare «chiara e distinta» – come pretenderebbe la scienza economica sempre più formalizzata – la logica che muove quel magma destrutturato di relazioni con le cose e con gli altri, sotto il segno di una materialità carica di simbolico, che è l’economia? Gli interrogativi affiorano, perché viene, oggi, messa in discussione quella costellazione di strumenti concettuali, con cui le teorie economiche hanno organizzato il governo della vita, produttiva e consumativa. Dopo aver decostruito il «superamento» del bios da parte delle teorie classiche e dopo aver restituito la vita all’anarchia dei desideri, hanno lavorato esse stesse in direzione di un recupero del nomos, di una norma interna, che rendesse di nuovo governabile l’anarchia della vita. Gli indisciplinati desideri sono diventati preferenze, interessi, utilità e sono stati sottoposti al dominio della volontà e, perché fosse effettuale, quest’ultima si è subordinata alla presunta necessità dell’essere, alla legge della strumentalità e della potenza. Anche il novum, che irrompe con la sua carica disordinante e germinativa, è stato ricondotto alla volontà e alla tecnica produttiva. Ma – attenzione – ogni «recupero», ogni governo è avvenuto al di fuori della sintesi, all’insegna dell’immanenza delle forze, che 105 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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strategicamente si scontrano, cercando una soluzione di fatto, non di diritto. Era questa, in chiave ottimista, la posizione dei marginalisti, ma anche quella fragile e disincantata del Politiker weberiano, conscio della precarietà e della contingenza di ogni aggiustamento, consapevole che il linguaggio dell’economia e degli interessi non può essere tradotto in quello politico: è altro dalle istanze identitarie, dai valori morali, dalle legittimazioni. Ma lo scenario è ancora cambiato, cambiato due volte da allora: come abbiamo accennato, parlando di biopolitica umanista e progressista e di Welfare, dopo la seconda guerra mondiale, si è affermata una rivalorizzazione della governamentalità politica dell’economico, soprattutto in Europa, che ha dato vita ad un ampio sistema di sicurezza sociale, istruzione e assistenza sanitaria. Politiche programmatiche dell’economia hanno trasformato contemporaneamente economia e società; forme di interventismo keynesiano hanno affrontato la disoccupazione crescente dei paesi industrializzati. La centralità, nell’agone politico, del valore/lavoro, in questa fase, ha sostenuto le scelte di un governo biopolitico dell’economia, non estraneo alle logiche dello stesso mercato, ma mirante a conciliarle con le esigenze sociali ed etiche, enfatizzate quest’ultime dal discorso dei diritti umani, il cui orizzonte biopolitico, di protezione delle vite è marcato. La biopolitica, come codice della sicurezza e della cura, era cosa possibile e opportuna. Già alla fine degli anni Settanta, il keynesismo perde il suo prestigio: la globalizzazione dei rapporti economici, il sistema di tassi di cambio fluttuanti hanno scoraggiato qualsiasi tentativo di sostenere le economie nazionali con strumenti di intervento politico. Le politiche keynesiane, poi, quando diventano prevedibile routine di governo, perdono di efficacia e diventano occasione per fornire sussidi, senza mutare la situazione sociale: inevitabile la crescita dell’inflazione, del debito pubblico e la rarefazione di capitale finanziario per gli investimenti. Queste le «ragioni» congiunturali e storiche; più profonda, dal nostro punto di vista, la impossibilità di una sintesi di linguaggio economico e politico, stante il tipo di categorie messe in gioco dalla teoria neoclassica. Ed è questo il punto. I concetti che l’apertura marginalista all’immanenza della vita ha messo in campo perdono, oggi, la loro credibilità. Anzi tendono, per la loro natura bioeconomica, a ribaltarsi nel proprio opposto, dando luogo ad ossimori che rendono nebuloso il quadro complessivo, 106 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dove, precedentemente, le dicotomie domanda e offerta, produzione e consumo, novum e routine, bisogno e desiderio, utilità e sacrificio si fronteggiavano, delimitando il campo nel quale si muovevano le diverse forze strategiche. La presenza forte del potere politico – antagonista e deuteragonista del potere economico – si indebolisce. Proprio quando il processo economico si fa più condizionante – e, dunque, la sua portata «pubblica» cresce – il linguaggio (e l’autorità) della politica si disarticola e si indebolisce, come ammaliato dalla potenza di quella logica, mutuata dall’economia, e ne insegue la linearità e l’efficienza. La politica arriva a considerare il mercato come il vero criterio di democraticità, di legittimazione di uno Stato. Gli strumenti di governo politico dell’economia sono sempre meno efficaci; le basi territoriali dello Stato sono sempre meno rilevanti per la formazione, la distribuzione e la distruzione della ricchezza. I gruppi che si avvantaggiano della globalizzazione sono restii a che essa venga perfezionata da un ordinamento complessivo dei processi economici e finanziari: sicuri del proprio nomos interno – coordinamento economico, ottimizzante, di mezzi e fini – non ammettono interferenze1. È troppo banale contentarsi della spiegazione, pur vera, che l’economia tende a dimenticarsi della politica nelle fasi di espansione, per poi richiederne la protezione in fasi difficili, secondo la formula della «privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite». L’uso pudico del termine governance, che si afferma negli anni Novanta, è un tentativo di contrastare il potere dell’economico assolutizzato, senza ricorrere al criticato termine di governo o peggio di Stato. C’è discredito sull’intervento dei politici, c’è discredito sui politici stessi, che sprecano, sbagliano, magari rubano. Si compie dunque il destino di depoliticizzazione che l’economia induce nella società? Certo, prevale pesantemente il linguaggio e la logica economica, sia nelle strategie di contesa elettorale sia nella assoluta centralità della tematica economica nell’agenda politica, legata anche alla propensione a sottrarre le decisioni chiave al dibattito pubblico per affidarle a specialisti, il cui lessico tecnico e efficentista svilisce la tensione politica e mette a tacere la discussione. La conseguenza è la paralisi dell’iniziativa politica, la quale o insegue le emergenze dell’economia – assoggettandosi all’indiscussa prevalenza delle sue esigenze – oppure vira decisamente verso la dimensione simbolica e identitaria, che sembra mantenere un’ambigua indipendenza dal re107 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gno della strategia economica e appare meno impegnativa e incisiva sulla realtà. Con grandi e gravi sorprese, dal momento che i linguaggi, economico e identitario, vengono irrigiditi nella loro differenza, senza che si colgano le reciproche implicazioni. Più radicalmente: la democrazia è la completa immanentizzazione del vincolo sociale e significa la non trascendenza del valore; questa realtà implica che l’intreccio della legittimazione democratica con il fine immanente dell’economia – il benessere, il maggiore benessere – è molto più che contingente. Trionfa l’autogestione, pragmatica, dell’economico lasciato a se stesso, malamente «coperto» dalla fede nell’efficienza globale del mercato: una prassi guidata dalla fattualità, che ne subisce, senza governarle, le contraddizioni. All’indebolimento della territorialità della politica risponde il trascinamento inarrestabile della tecnica, la sua deterritorializzazione ininterrotta. Anche se non fosse totalmente autoreferenziale, come la immagina Heidegger, la tecnoscienza è sempre già economia: dispone della natura, ante-pone le cose utili, post-pone quelle meno vantaggiose, si op-pone a quelle che ostacolano la sua corsa, es-pone quelle che vuole proporre al consumo; la sua modalità è la ragione calcolante che pone e dispone della vita, senza mai lasciarla essere. Prende ad oggetto il corpo vivente – il grande, unico oggetto del potere moderno – per fornirgli le cose utili, la protezione, il potenziamento, dosando i rischi attraverso il calcolo economico e la ricerca di mercato. Questa miscela di economia e tecnica, che trova in sé la logica del proprio funzionamento e nei corpi viventi il luogo di applicazione del potere, è la bioeconomia. C’è, nella teoria economica neoclassica liberista, ancora oggi dominante, il fascino di una chiara formalizzazione razionale del comportamento economico empirico, fattuale. I dati, i fatti sono quelli, una volta dissolto il ciarpame delle ipostasi metafisiche, delle idealità moraleggianti e delle ideologie politiche oblative e socialiste: la vita reale è così, le potenze si intrecciano in questo modo. Con la sua enfasi sulle scelte ottimizzanti, la teoria offre uno schema analitico compatto, chiaro e appunto efficace per analizzare i mercati e formulare previsioni certe e falsificabili: nessun economista che si rispetti, da almeno due decenni, può prescinderne. Chiara, coerente e lineare è, d’altra parte, anche la linea critica, per lo più di impronta neomarxista, che condivide, con segno rovesciato, l’idea di priorità del mercato e del capitalismo come potere 108 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dominante e determinante, oggi in modo totale, delle vite e delle soggettività. Anche in questa lettura, relativamente semplificata e coerente del sistema, la logica strumentale e colonizzatrice del desiderio trionfa e metabolizza tutte le apparenti forme di potere dei singoli e le illusioni circa la ambivalenza della bioeconomia. L’attrattiva della scienza economica nasce dalla semplificazione – così funziona la vita – e sta nello spostamento dell’oggetto dell’economia dalle cose e persone (le prime, simboliche; le seconde, complesse) a quella logica calcolante che regola anche la tecnica e che è estensibile a tutta la prasseologia. In ogni forma di comportamento, per quanto complessa, si manifesta un homo oeconomicus, la cui scelta si individua appena sono precisate le opportunità, i vincoli, il contesto di scelta. Comportamenti in apparenza diseconomici celano, sotto bizantinismi concettuali, una struttura semplice. Questa struttura strumentale, ottimizzante rispetto allo scopo, permette di leggere i comportamenti di tutti gli agenti – ripeto, di tutti – in termini di potere (poteri diseguali, ma poteri), sulla propria vita e spesso su quella degli altri. Di rado viene messa in luce la complessità, tutt’altro che chiara e distinta, della stessa logica strumentale, la sua connessione con il necessario costo – ma potremmo dire, con parola dall’aura assai nebulosa, sacrificio – che ogni soddisfazione richiede. Non si usa parlare del dilazionamento, dello storno che è implicito nel risparmio: nel semplice fare economia. Il provocatorio Slavoj Zizek cita l’invocazione ironica dell’Amleto shakespeariano («Economia, economia, Horatio!») per svelare un’etica dell’avarizia in una società che sembra dissipativa, un’etica dell’interdetto in una società a prima vista trasgressiva. Anche oggi, quando l’universo economico sembra assolutamente indirizzato alla depense del consumo, è sempre sottesa la convenienza, la economicità della scelta. Prendi tre e paghi due! È a portata di mano un vantaggio, ma c’è sempre un sacrificio da fare, un costo che aprirà lo spazio per quel godimento maggiore. Ciò che la teoria economica con le sue scelte razionali trascura è, dice Zizek – riprendendo Lacan – il valore rituale: essa rifiuta di elaborare il rituale del lutto, cioè di pensare il mistero del desiderio. Il mistero del desiderio lascia trasparire che nella figura dell’avaro, l’eccesso coincide con la mancanza, il potere con l’impotenza, l’accaparramento cupido con l’elevazione dell’oggetto a Co109 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sa interdetta e intoccabile, che non si può che osservare, ma di cui non si può mai pienamente godere2.

Il mistero del desiderio è il fatto che il desiderio desidera ciò che non ha mai avuto, contemplandolo – e questo è il momento del luccicante bazar delle merci – in ciò che assume il valore simbolico di una cosa perduta. E intanto accumula cose. La spinta moderna alla naturalizzazione delle motivazioni, ad attingere i moventi originari, gli impulsi che sottendono le istituzionalizzazioni e le legittimazioni, arretra di fronte al misterioso anello, che trasforma i bisogni – il dato, il fatto dei bisogni – nella evanescenza del desiderio, nella sua tendenza a coprire, con oggetti sostitutivi, un vuoto che forse non è una perdita, ma una mancanza strutturale. Coperto da oggetti sostitutivi, questo vuoto ci permetterà la malinconia illusoria dell’aver posseduto, dell’aver goduto pienamente; ci cullerà nell’eterna infanzia narcisista della perdita, non elaborata, piuttosto che lasciarci vivere, fino in fondo, la limitatezza dei nostri corpi e le nostre dipendenze. Se questo è vero, il sacrificio (il costo) non è solo – come affermano – un pedaggio razionalmente conveniente per accedere al paradiso, ma rivela una logica ritualistica depressiva che subordina il godimento al sacrificio, al costo stesso, perché solo esso fa sentire il vuoto e il desiderio, dunque fa sentire vivi. Da qui la bulimia del comprare, in cui il vuoto, la mancanza si avvertono solo se oggetti insensati mantengono «aperto il desiderio»3. Qualcosa, nel meccanismo liscio, trasparente, ragionevole della logica economica – che si presume norma interna del bios e fondamento del potere di governarlo – in questa nostra società postindustriale, fa attrito. Vacillano i contesti di produzione e di scambio di beni, per i quali il substrato motivazionale dei bisogni e dei desideri potrebbe essere stabile e traducibile in precise graduatorie di preferenze. L’estrema individualizzazione spinge, almeno nel primo mondo, verso logiche espressive e autenticitarie4 che la tassonomia dei bisogni/desideri – nutrirsi, vestirsi, abitare, curarsi, poi divertirsi, viaggiare – non sa indovinare, proprio a causa di una identificazione povera e strumentale del desiderio, e in ragione di una immagine volontaristica e potente (ma carente da un punto di vista della interdipendenza sociale e obliquità) dei desideri stessi, una volta che essi siano considerati il motore trainante del gioco. Il marketing riconosce 110 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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l’importanza secondaria delle caratteristiche oggettive dei prodotti a fronte del loro potere simbolico di definire la posizione identitaria di chi sceglie, ma si trova impotente davanti all’imprevista caduta del desiderio, che la piega narcisistica dell’identità stessa genera e che coglie di sorpresa mercato e teoria economica: le pagine di Tocqueville sull’invidia democratica sarebbero utilissime a spiegarla. Questa inadeguatezza di governo lascia crescere forme di autogestione delle vite, disordinate, meno coerenti – soprattutto nell’ambito della trasformazione antropologica e culturale che la new economy digitale ha indotto – con esiti imprevisti che rovesciano i topoi del discorso. La logica strategica che sostiene il fare e lo scegliere – logica di potenza e di efficienza – sempre più spesso s’inceppa. Le traiettorie di potere si fanno discontinue e si riappropriano di nuovo, in più punti della rete, del disordine e dell’anarchia del bios lasciato a se stesso, alle sue molte imprevedibili, libere direzionalità. È forse questa la ragione per cui, nel 2001, il premio Nobel dell’economia viene attribuito a George Akerlof, che spinge il paradigma verso inedite e ardite contaminazioni con concetti mutuati dalle scienze sociali, dalla psicologia, dalla political science, invertendo un percorso contrario che vedeva esattamente tutti i saperi dipendere da quello economico5. E l’anno dopo, il Nobel è attribuito a due eterodossi come lo psicologo sociale Daniel Kahneman e lo sperimentalista Vernon Smith6. In questo contesto, la dizione behavioral economics non deve far pensare alla riproposizione meccanica del governo delle condotte, in chiave di condizionamento psicologico, perché, esattamente al contrario, essa rileva sperimentalmente la imprevedibilità e la polivocità dei comportamenti economici. La spinta biopolitica e bioeconomica, in realtà, si raffina corrispondendo alla generale svolta che impronta attualmente la relazione tra oikos e bios: si combinano processi di selezione sociale e di potere con elementi di razionalità ottimizzante. 2. Bioeconomia Un topos fin troppo scontato è il carattere economico dell’integrazione globale. Eppure si stenta a percepire quanto questa integrazione sia di natura, per così dire, bioeconomica, dal momento che, in essa, il progetto biopolitico di presa diretta del potere sulla vita tro111 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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va compimento, non nella forma drammatica e violenta del potere che uccide, seleziona, asservisce vite riluttanti e corpi piegati, ma in quanto biopolitica ormai compiuta e democratizzata, perché pervade e plasma corpi e vite che cooperano alle influenze da cui sono attraversate, che collaborano a produrre la trasformazione delle proprie vite, del proprio tempo e dei propri corpi: fino al paradosso di pagare per esserne pervasi. Resta da scoprire poi se questa bioeconomia condivisa, nondrammatica, agìta attivamente, non «contenga», nel senso duplice dell’aver dentro e del trattenere, la violenza, il conflitto, la guerra e le sue vittime, vittime pulite in quanto chi le provoca non si sporca le mani e vittime di dispositivi anonimi e astratti, non più di caricaturali sfruttatori: vittime per le quali, come sappiamo, si angosciano le teorie liberali della giustizia, dovendo però convenire che si tratta di perdenti nel gioco che hanno accettato. Resta ancora da scoprire, poi, se il processo di autogoverno che il mercato esibisce non lasci il posto a una disfunzione e controfinalità crescente che da quel rumore di fondo lascia emergere i limiti del progetto di controllo e esiti inattesi7. L’estrema socializzazione della biopolitica – la sua democratizzazione – ne disarma la violenza appariscente e mette in atto, quando giunge a compimento, la bioeconomia, la economia che fa presa sui corpi, sulle vite, sulle condotte nella forma della loro gestione mercantile, commerciale, inducendo e raccogliendo una domanda di potenziamento, di trasformazione, di cura, per soddisfare la quale basta pagare. Bioeconomia significa innanzitutto che non ci sono mediazioni diverse dal nomos economico, immanente alla vita. È l’ultimo displacement che fa perno sul corpo e sulla sua energia desiderante – la macchina desiderante – e la subordina al progetto di sempre ulteriore incremento o la libera come agente attivo del proprio godimento. Con la contraddizione insolubile dell’economico: tra la radice che è il corpo e la sua piena soddisfazione, tra la sua spinta centrifuga e il ritorno presso di sé, a casa; tra il viaggio del desiderio e l’oikos; tra lo sradicamento dell’agire, la deterritorializzazione del produrre, dell’inquieto differire, del sacrificare e sacrificarsi, del risparmiare, non godere ora e qui, ma cercare, inventare e la saturazione del desiderio affamato di concretezza con oggetti istabili dalla virtualità sfuggente8. È la biopolitica dell’economia o la bioeconomia: è il corpo stes112 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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so, il corpo vivente che è soggetto e oggetto nel mercato. Perdendo la sua silenziosa irriflessività, il suo essere organo inconscio del nostro rapporto col mondo, la sua muta, pulsante funzionalità che rivela la propria innocente potenza nel gioco solitario di un bambino o nell’abbandono del sonno, il corpo si apre alla trasformazione, si offre alla manipolazione, al potenziamento, al miglioramento di sé e dei propri piaceri, tendendo un filo tra estrema omologazione, genericità dei consumi e estrema personalizzazione dei desideri, inseguiti, indovinati, interpretati fin nei reconditi spazi delle nostre fantasie e dei nostri sensi. Il corpo, inteso come luogo aperto di sentire e di potere, è la vera frontiera materiale del nostro tempo. Si è aperto a un divenire, a una trasformabilità che – anche senza spingersi al cyborg, al mutante e alle tecnologie di trasformazione – investe le sue percezioni (si può, per esempio, pensare di incrementare all’infinito la propria possibilità di sentire e vedere in luoghi diversi da quello in cui ci si trova; si può godere di cibi o di odori inediti che ci ricordano qualcosa o ci stordiscono con la loro novità), le sue emozioni (si può essere artificialmente euforici o estremamente lucidi, o non sentire la paura, l’ansia, il dolore, la tristezza che la vita, così com’è, ci impone), le sue passioni (si può amare di più di quanto si ama, ci si può stupire, distrarsi, spaventarsi, essere coinvolti in luoghi, spettacoli, storie che moltiplicano la nostra storia), le sue capacità fisiche (si può correre velocissimi o si può somigliare, per gli abiti o per i capelli, a qualcuno che ci piace) e naturalmente – e qui medicina e economia si intrecciano più che mai – si può cercare di vivere molto più a lungo, di avere un corpo giovanile anche in età avanzata, si può fingere di non essere malati. L’aprirsi del corpo e della naturalità destinale, che a lungo sembrava appartenergli, ha inaugurato un immenso campo di consumi, di influenze e di esigenze da soddisfare. Durata, resistenza del corpo, benessere dell’anima, bellezza, giovinezza, fascino: tutto si compra. Già Anders, nel suo L’uomo è antiquato, constatava l’assalto seduttivo-imperativo dell’epoca, che sottoponeva gli uomini ad una tensione, ad una pretesa eccessiva, ad un cronico sovraeccitamento rispetto al quale i ritmi della semplice naturalità dei corpi erano inadeguati. Diveniva necessario «migliorare» le prestazioni, potenziare i corpi e le menti per essere al passo con «qualcosa di eccessivo, qualcosa di impossibile»: 113 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Siamo sul punto di edificare un mondo con cui non siamo capaci di mantenerci al passo e per afferrare il quale, si pongono esigenze assolutamente esorbitanti dalle capacità della nostra fantasia, delle nostre emozioni, della nostra responsabilità9.

Il mercato offre sussidi alla nostra inadeguatezza e la crea, sussidi farmacologici, ma anche compensazioni narcisistiche delle frustrazioni, oggetti che fanno da protesi e da maschera alla nostra insufficienza. La vita stessa è pensata, non solo a livello biogenetico, come la proprietà emergente da intersezioni complesse, che si ha il «potere» di plasmare, dal momento che la nostra biografia non è già scritta, ma è contingente. Tempo della contingenza significa tempo del possibile mutamento, della nuova inattesa ibridazione e della nuova strumentazione tecnica che lo potenzierà10. I saperi infatti ci fanno conoscere il nostro corpo-mente e le cose che gli servono, soltanto nel loro aspetto di trasformabilità: niente di nuovo, poiché questa è la conoscenza moderna, indissolubile dalla tecnica. Nuovo è che i saperi ci fanno conoscere solo quell’aspetto delle cose che possiamo comprare per poterci trasformare. Ciò significa che le rappresentazioni della vita e del corpo dipendono in modo intrinseco dagli strumenti, dai beni strumentali con cui interveniamo su di essi, e che desideriamo, ma non sempre possiamo acquistare: dunque dipendono dai dispositivi economici. Se l’economia ha forgiato i nostri corpi e i nostri sogni quando, nel dopoguerra, si è diffuso l’american way of life, con i suoi status symbol, oggi, questo biopotere economico, che ci attraversa e ci struttura, non preme, come allora, sulla famiglia e sulla invidia-emulazione delle classi – sul conformismo dunque – ma modella individui che tendono alla distinzione narcisistica11. Sarebbe interessante vedere quanto, secondo una logica ancora una volta biopolitica, conformismo, genericità e livellamento si tengano con la assoluta specificità del corpo proprio, con la radicalità della soggettivazione. Il vivente oscilla tra collettivismo della specie e autismo del sé corporeo. E sarebbe interessante indagare quanto di mimetico e di dipendente ci fosse nel vecchio conformismo e permanga nella nuovissima distinzione, poiché mimetica è la logica dell’economia, tanto nella produzione che nel consumo12. Ma dal momento che la bioeconomia è il compimento della biopolitica, bisogna procedere con i piedi di piombo, nel caso il nostro 114 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scopo sia di prendere posizione per ricominciare a fare politica, schierarsi da una parte, o almeno allargare lo spazio della politica. Bisogna essere cauti, perché socializzazione della biopolitica – bioeconomia – significa socialità appunto, complessità e molteplicità delle fonti di un potere, che non risulta mai univoco, mai in grado di controllare i propri esiti. Significa condivisione e partecipazione attiva di quei corpi viventi al progetto, non nel senso di essere sempre e comunque «oggetti di potere», semplici burattini che fanno proprie le parole di altri. La cosa è più complicata: è anche questo, ma non solo questo. L’esercizio economico del potere è un esercizio sociale, dissimmetrico certo, ma diffuso, policentrico. In esso la condivisione è strutturale. I regimi di verità che ci investono non sono univoci, ma, oggi più che mai, plurali: differenti forze sociali tentano di indirizzare tecnologie intrinsecamente comunicative e relazionali verso l’ottimizzazione della produzione e della distribuzione mercantile o verso la formazione di un arcipelago frammentato di linguaggi, culture, aggregazione di gusti, di passioni, di curiosità difficilmente governabili13. I beni e i servizi che usiamo lasciano tracce che certo ci determinano, ma, nel determinarci, subiscono essi stessi uno scarto; non si replicano identici come cloni, perchè – come è proprio degli organismi viventi complessi – usandoli, lasciamo su di essi segni, contaminazioni, cosicchè essi si ripetono in modo innovativo, sfocato, «differente». Cooperiamo al potere in modo non sempre passivo, ma piuttosto contingente, cioè attivo sì, ma meno gestionale della «volontà di potenza». Questa è la ragione per cui lo schema Bisogno-Desiderio-Volontà di potenza – tutto governato dalla logica strumentale e effettuale, di uno Schopenhauer, ma anche del marginalismo austriaco e dell’economia moderna antipolitica – risulta riduttivo, solo in parte veridico. Il fondo di necessità, cui riduce il bios e su cui fa leva l’azione strumentale, tradisce la complessità e la contingenza dei motivi, dei desideri, la possibilità del potere come libertà e la possibilità della libertà come dipendenza. La scienza/tecnica medica, per esempio, è, come tutti sappiamo, impensabile senza una base economica che la finanzi. Ma la medicina è quell’area di socializzazione della bioeconomia che significa crescente domanda di vita da parte delle persone, mosse da paure e da speranze, dall’ansia verso il proprio destino biologico e quello dei loro figli, interessati a un prolungamento e miglioramento della vita. Spontanea, antichissima domanda di potere esterno che incida nei 115 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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propri meccanismi biologici: il culmine della biopolitica, ma anche empowerment del vivente. Il potere di diagnosi prima impensabili, di nuovi farmaci, di cure costose e complesse dipende da quanti hanno le risorse, investono e controllano le agenzie di ricerca, di clinica. Questo è certo. Come è certo che la stessa medicalizzazione della salute è stimolata dal potere economico. Eppure, la riprogrammazione, la trasformazione dei processi di vita non è «decisa» solo dagli investitori, dalle istituzioni che finanziano la ricerca, ma anche da agenzie pubbliche che la regolano, da comitati etici, dalle decisioni strategiche di quanti sono dentro la ricerca stessa – scienziati e tecnici – e da quanti, divulgandola, la rendono commerciabile, fino a chi, pieno di paura o di speranza, decide di rischiare: un complesso processo di coproduzione, fatto di conoscenze e tecniche di laboratorio, invenzioni, fabbricazioni che richiedono capitali disponibili al rischio di esiti incerti, e poi ancora capitali per il marketing e la vendita, rispetto al quale il soggetto è dipendente, ma anche attivamente chiede, domanda, sceglie. In verità la scienza è finanziata da coloro che sperano di trarvi profitto, dal momento che le pratiche mediche di cura hanno un costo economico e – giusta l’osservazione di Foucault, in linea con l’antimedicina di Illich14 – si tratta di un’area di consumi continuamente crescente. Essa è destinata alla selezione biopolitica degli individui, ricchi e/o numerosi, per i quali è conveniente investire e i malati di malattie che sarebbe troppo dispendioso curare e si può «lasciar morire»: dunque, dinamiche di inclusione e esclusione, dispositivi di selezione dei bisogni essenziali o meno. Chi decide, chi definisce le norme della vita e della salute? Chi ha il potere di calcolare la convenienza? A quanta controproduttività va incontro l’eccesso terapeutico? Politica è porsi queste domande, evidenziare le traiettorie di potere e desiderio, poi prendere posizione. Saremmo, e lo stesso Foucault lo è, piuttosto scettici sul potere dei consumatori di cure: ma, nonostante questa ammissione, il campo della decisione economicizzata sulla vita e sulla salute è complesso e attraversato da tensioni, dunque adatto a generare dubbi sulla classica separazione tra coloro che calcolano e esercitano il potere e coloro che al potere sono sottoposti. Non perché quei poteri non siano gestiti in modo tanto più dolorosamente arbitrario in quanto ha per oggetto sofferenze e speranze di vita, ma perchè sono sottoposti a un meccanismo complesso e poliedrico, a spirale, in cui la domanda è incalzante. Chie116 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dono di essere riconosciute voci diverse (coppie che aspirano ad un figlio, associazioni che denunciano la selezione negativa di malattie endemiche trascurate dalle industrie farmaceutiche, le quali magari scelgono poi di sostenere una terapia svantaggiosa per il ritorno di immagine che questo comporta, ricercatori alla caccia di scoperte da Nobel, gruppi ambientalisti che premono per uno sviluppo ecocompatibile), posizioni di potere, che rivendicano nelle scelte e nelle applicazioni operative delle tecniche di vita la propria parola. L’area delle cose sentite come indispensabili alla vita è, ovviamente, molto più ampia della sola farmacologia e biotecnologia. Rispetto ad esse, la governamentalità biopolitica – la cui ratio induceva comportamenti disciplinati di salute, di crescita, di igiene, di riposo e di stimolo – si scioglie, nella fase bioeconomica, nel «desiderio» diffuso di ciascuno di poter esercitare attivamente tutte queste condotte sane, determinanti per la autorealizzazione del sé. Si assume in proprio la responsabilità olistica del corpo, scegliendo terapie «morbide» in luogo del dirigismo ospedaliero, praticando sport liberi dalla competizione, in ascolto euforico del proprio corpo. La biopolitica sanitaria, anche quando gestita e incrementata dall’apparato politico, ha raggiunto livelli tanto pervasivi (e negli stati totalitari, perversi), proprio perché andava incontro alla esigenza sociale – certo sollecitata e strumentalizzata, ma comunque diffusa e popolare – di salute, di miglioramento delle condizioni di vita. Oggi, questo processo, iniziato all’interno di un codice eteronomo, passivo di cura, ha una espansione attiva e autonoma e, perciò, il potere che lo sottende è economico e sociale più che governativo. La bioeconomia risponde e sollecita, ad un tempo, una domanda di migliore esistenza corporea che assomma al proprio interno, ben oltre la medicina, tutta una serie di consumi attinenti la promozione e il perfezionamento del proprio corpo. Oggi la politica e la religione stessa inseguono questa assoluta centralità sociale del valore del corpo, disputando ai poteri economici (esercitati dai singoli soggetti che scelgono) il controllo di questa ideologia di autorealizzazione. Consumi bioeconomici, dunque, non più gestiti dall’apparato di governo, ma indotti dalla diffusione sociale della domanda e «liberamente» scelti al mercato.

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3. Consumare Non è facile pensare questo vortice di connessioni al cui centro c’è il corpo, perché l’economia stessa, che presume di rappresentarne la logica «egoista», deve fare i conti, come è successo nell’area del politico, con l’indebolirsi delle sue distinzioni formali: la produzione e la sua razionalità, il consumo e la sua prevedibilità, investimenti e responsabilità, innovazione e apatia del desiderio. Oggi, un flusso di fenomeni che non conoscono barriere (tra l’economico, il politico, il sociale, lo psicologico, il culturale) investe letteralmente i viventi. Proprio la indiscussa veridizione dell’economico ne rende assai difficile una destrutturazione che apra dei varchi tra le cose, che mostri le traiettorie di potere e lasci inserire spiragli di possibilità altre, di politiche altre. La metafora del mercato non è più la piazza o il forum, ma la corrente, il flusso, la massa d’acqua fluida in cui la liquidità del capitale, o ancor più quella fulminea del danaro digitale, scorre rapida senza acquisire forma definita: metafora naturalistica e come tale avvolta di una necessità destinale che sarà assai faticoso mettere in mora, decostruire per lasciare entrare un po’ più di politica. Il consumo – come annunciato dalla rivoluzione marginalista – sembra la chiave della grande trasformazione e anche della confusione delle categorie economiche: il consumo che da momento marginale e residuale del comportamento, diventa, con la modernità, l’aspetto trainante dell’economia. Nonostante le crisi energetiche, il degrado dell’ambiente, il vortice recessivo di sovrapproduzione e sottoconsumo, sembra non esserci altro destino per i viventi che il consumo, esteso, esaltato dal suo riferimento ai corpi, alla vita personale e privata. Anzi si determina uno slittamento dalla società dei produttori a una società che «forma i propri membri al fine primario che essi svolgano il ruolo di consumatori»15: produzione di produzione, produzione di consumatori. L’economia non forgia i nostri corpi, non disciplina le nostre anime per formare massa di manodopera industriale, bensì consumatori, o utenti, se invece che di beni si tratta di servizi. La regola è «consumare e saper consumare», governata da saperi che potenziano qualche nostro aspetto differenziale, sollecitando quindi il tratto narcisistico dei soggetti. La centralità postmoderna del consumo inverte i termini della relazione tra biso118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gni e soddisfazione: le nostre preferenze non riguardano che ciò che sappiamo essere trasformabile, perfezionabile. La grande strategia panottica benthamiana-foucaultiana si dissolve in una miriade di agenzie che sorvegliano la nostra condotta di consumatori affidabili: attraverso le reti di informazione alimentate dall’uso di danaro digitale e dal commercio elettronico, si formano le banche dati delle nostre propensioni al consumo, il controllo incrociato delle nostre preferenze destinate ad orientare il marketing. La governamentalità biopolitica-economica delle nostre vite è testimoniata proprio dallo slittamento dei controlli, che erano di tipo giuridico e politico, a quelli sociali e economici delle utenze e dei consumi. E d’altra parte il sé digitale di un individuo è segno della sua rispettabilità redditizia, della sua accettabilità: quest’individuo esiste davvero perché frequenta il mercato, ha una sua «capacitazione» commerciale. I non luoghi dell’economico, dove i nostri corpi sono sollecitati a migliorarsi, a intensificare la propria vitalità, sono i centri commerciali, così ben descritti da Augé16, dove alla relazione personalizzata del piccolo negozio e quindi all’economia funzionale al sociale, si sostituisce una serie di codici neutrali standardizzati, che governano le transazioni orientate al consumo, indirizzati ad un paradossale mix di personalizzazione generica: ciascuno è raggiunto da un messaggio che sa tutto della sua singolarità e della sua trasformabilità, ma questa singolarità si distingue da quella di tutti gli altri, per minimi tratti, poiché tutti indirizzano i propri desideri nello stesso cono di influenza e di perfettibilità. Intendiamoci, la deriva bioeconomica non ci deve far adottare il tono apocalittico di un Ritzer17, che prevede la omologazione delle biografie attraverso la omologazione dei consumi: in realtà la possibilità di una influenza omologata e dunque di un biopotere economico unico è sempre minore, come è sempre meno pensabile un grande fratello economico che guida e controlla ogni cosa. Al contrario il flusso, la corrente è in realtà una infinità di rivoli frammentari, eterogenei, dagli esiti contraddittori e dalle conseguenze spesso paradossali: la logica bioeconomica è ricorsiva. Già Smith sosteneva che «il consumo è il solo fine di ogni produzione»18 e anche più seccamente per Ricardo «nessuno produce se non allo scopo di consumare o di vendere e non vende mai se non con l’intenzione di comprare»19. Eppure l’indagine sul consumo è 119 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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stata a lungo poverissima, inchiodata ai comportamenti prevedibili delle popolazioni, e perciò considerati omogeneamente gestibili. Anche la distinzione tra consumo produttivo (necessario alla sopravvivenza dei lavoratori che assicurano la riproducibilità del sistema economico) e quello improduttivo (che non concorre alla formazione del surplus: la improduttività della festa, dello spreco) è pensata in funzione della produzione, cosicchè è questa evidentemente la categoria fondamentale della scienza economica classica, rispetto alla quale sono assai più agevoli ragionamenti razionali e utilitari, dunque scientificamente calcolabili. Alla produttività, peraltro, si riferiva lo stesso Foucault a proposito di tecniche di disciplinamento dei corpi e di sorveglianza delle popolazioni, finalizzate a migliorarne il rendimento. Non è un caso che il criterio di giudizio dell’attività economica non è, nelle teorie economiche, la massimizzazione dei consumi e quindi la soddisfazione vitale, biopolitica, dei bisogni, ma la massimizzazione di quel surplus, di quel sovrappiù del prodotto sociale, dell’opera, che traina il nuovo ciclo di investimenti, che è l’obiettivo ossessivamente prioritario della economia moderna. Anche Marx si concentra sulla produzione piuttosto che sulla domanda, e questa impostazione lo porta a far dipendere l’intera organizzazione sociale dal sistema di produzione/lavoro. Cosa che non sarebbe possibile, se si partisse dai bisogni e dai desideri antropologicamente e culturalmente primari. Certo, il sistema capitalistico è quello che, storicamente, integra nel sistema produttivo le soggettività sociali, forgiandole a propria misura: ma questa gerarchia produttivistica dovrebbe, per lo stesso Marx, venir meno in una società rivoluzionata, dove l’attività produttiva non è alienata e l’uso delle cose non mercificato, ma naturalmente rispondente al desiderio. Ora, prescindendo dall’esito utopico della filosofia della storia marxiana, va considerata – come fa Polanyi – la contestualizzazione storica di quella fase capitalista che plasma direttamente i corpi per sottometterli alla catena di montaggio e riduce totalmente l’uomo che lavora a merce. In realtà la complessità del sistema economico, oggi focalizzato su utenti e consumatori più che sui producers, è tale che le determinazioni siano potenti, ma non coerenti: in esso vige una logica ricorsiva, piuttosto che una causalità deterministica. Detto questo, restano di bruciante attualità le osservazioni di Marx sul feticismo delle merci, sulla capacità degli oggetti di permutarsi in danaro – l’oro del vitello di Aronne – e di 120 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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acquisire valore di scambio. Marx sa indicare la direzione deviata del desiderio, il cui esito non è la sacralizzazione degli oggetti stessi, ma la sistematica neutralizzazione della natura delle cose, la loro perdita di concretezza per diventare puro segno del valore economico. Sono pagine che ci aiutano, ancora oggi, a capire come l’estrema rilevanza impressa oggi ai corpi concreti, viventi, sia svuotata da un processo di virtualizzazione, risucchiata dall’unica potenza che veramente determina e caratterizza il valore di quelle vite: il danaro, la relazione di scambio. Una consapevolezza, questa di Marx, della complessità del desiderio e della domanda in una società produttiva, che è ben più ricca del puntiglioso riduzionismo dello schema marginalista che si presume empirico e naturale. Più il sistema di interdipendenze si fa globale, più il fascino del feticismo si rafforza: non per l’ossessione del desiderio, che anzi si indebolisce, mentre l’esperienza si fa astratta, ma per l’impossibilità di afferrare l’oggetto concreto se non passando per il suo valore artificiale, fattizio, di feticcio, e accettando il codice che lo trascrive. Il denaro infatti non è materialità, ma segno del sistema di circolazione delle merci; la sua virtualità può sostituire tutti gli oggetti e tutti i valori e diviene l’oggetto oscuro del desiderio proprio per la sua astrazione, per l’artificialità che ha potere sul bios. La merce delle merci è il denaro, che rivela la loro natura innaturale, il tradimento del bios che fagocita la vita del vivente Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso non è quindi affatto determinato dalla mia individualità [...] il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini20.

La citazione testimonia la piena consapevolezza della potenza della bioeconomia, della presa diretta del potere economico fatto sistema, sulla vita e sui viventi, determinati, segnati, valorati, resi potenti o impotenti attraverso la merce delle merci, il feticcio del denaro. La domanda di merci non ha senso in sé: quello che Marx chia121 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ma «il corpo» delle merci – e che oggi è esattamente il corpo, la salute, la vita – si subordina all’astrazione del denaro. La sua astrazione è la migliore incarnazione, insieme affermata e negata, della impossibilità del desiderio, della mancanza-a-essere, della assoluta pretestuosità di ciò che Lacan chiama l’oggetto a minuscolo, o oggetto sostitutivo: quindi della merce21. D’altra parte, ripeto, la mercificazione e valorizzazione riguarda, in Marx, anche e soprattutto il lavoro e oggi, nei suoi interpreti neomarxisti, sulla scia di Gramsci, il lavoro immateriale che assorbe attività schiettamente comunicative, relazionali e sociali. Se la mercificazione in modo totalizzante viene estesa all’operare – a quello che Paolo Virno chiama «lavoro vivo» – la subordinazione al biopotere capitalistico avviene senza residui e in modo unidirezionale. Il mondo della risorse viene ad essere totalmente destinato alla trasformazione in merci e quindi, necessariamente, alla conversione in valore di scambio, danaro appunto. Si annulla completamente il valore d’uso di queste risorse, la loro dimensione di cose concrete o socialità viva e comunicativa, e con esse la risorsa lavoro è completamente reificata. Ma, ripetiamo, questo determinismo lascia perplessi, poiché implica ancora una volta la totalizzazione della realtà socioeconomica, la sua omogenea riduzione ad un’unica direzione di potere. Si dimentica che il potere – capitalistico, mercantile che sia – è sempre una relazione, asimmetrica certo, ma complessa, destinata a germinare poteri multipli, anarchici e disordinanti: in ogni caso non previsti dalle soggettivazioni e dai ruoli che il sapere economico liberista e, con segno cambiato, anche neomarxista, assegna. Nell’un caso come nell’altro i margini di comportamenti imprevisti, capaci di far valere un potere di resistenza o, meno romanticamente, di deviazione in direzione dis-utile, senza-valore, non sono possibili. Lo scambio economico stesso viene pensato poveramente, in modo manicheo. Si pensi all’ampia sfera di consumo/utenza che riguarda beni immateriali o servizi quali relazioni sociali, conoscenze culturali, curiosità libere o godimento, gioco, potenzialità nuove che lo stesso mercato genera e che non riesce a colonizzare totalmente. Il duro giudizio neomarxista vede l’operazione di mercificazione che, indubbiamente, tende a catturare le aree di uso, non mercantile, delle risorse e gli spazi «gratuiti» di comunicatività, creatività, tecnologia, conoscenza, socialità, ma procede per eccessivi automatismi. Alcuni consumi aprono spazi inediti di uso e trasformazione della socialità 122 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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e della stessa antropologia, mutazioni culturali rispetto alle quali il cliché della colonizzazione capitalista del mondo della vita tiene fino ad un certo punto22. Lo sviluppo degli studi di marketing sono prova del fatto che anche la teoria della scelta razionale è costretta a ripensarsi a fronte della complessità, e subisce una virata psicologica e sociologica che ne snatura il tratto saliente: l’autonomia, l’indipendenza solitaria della scelta sempre più implicata nei flussi di potere non-solo-economico che la investono. In effetti sistemazioni teoriche globali del fenomeno sono difficili perché il consumo, più di altre pratiche sfugge alle definizioni univoche delle scienze sociali. È il punto di incrocio di influenze economiche e culturali – i bisogni e i desideri, il sociale e l’individuale. Asseconda e esaspera il processo di individualizzazione ossessiva, la voglia estetica di differenziazione, il marcato narcisismo. Nel consumo di beni, ma ancor di più nell’utenza di servizi, si modellano diversi regimi di verità: aspetti strettamente contabili e commerciali e l’analisi psicologica dei comportamenti di gruppo, fattori simbolici e identitari e pratiche attive di vita quotidiana. Bisogna, inoltre, tenere presente che tradizionalmente il consumo aveva esibito una logica diversa e regolata con propri criteri rispetto alla logica della produzione: la sfera delle pratiche di consumo è privata, legata alla vita, alla juissance, dotata di caratteri distinti dalla socialità della sfera di produzione, addirittura opposti. In contrapposizione alla logica del produttore, tecnica, attiva, dominante, capace di differimento e ascesi – logica che potrebbe essere pensata sotto il segno del codice paterno, pubblico, responsabile, mirato alla autonomia – emergeva, nella sfera del consumo (forse anche per questo, tralasciata dalla scienza economica), uno stile autoreferenziale, chiuso su di sé, misterioso come la vita stessa del singolo, da iscrivere nel codice materno del godimento e della cura. Oggi i due codici e i due comportamenti si confondono. Non a caso si parla di prosumer, produttoreconsumatore. Molte delle cose e dei servizi che si comprano sono strumenti, in vista di una espressività personale e di un uso non canonico, pubblico e sociale; mentre all’universo produttivo si ascrivono figure di agenti, di lavoratori che danno massima priorità alla gratificazione personale di un attività che piace. Tanto più l’autorappresentazione economica, nel paradigma neoclassico – pur avendo al suo centro il consumatore – ci delude. Descrive infatti un per123 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sonaggio, l’homo oeconomicus, assolutamente razionale, capace di consequenziale calcolo strategico quando sceglie i beni da comprare23. Costui non vede le cose che sono, ma la loro funzione. L’obiezione tecnica che gli viene mossa – il fatto cioè che, per potersi comportare come postulato dall’economia neoclassica, ogni individuo dovrebbe disporre di informazioni e di capacità di calcolo molto articolate: ad esempio deve conoscere le caratteristiche dei beni che vuole comprare ed essere in grado di classificare tutte le alternative che ha di fronte e deve inoltre essere perfettamente consapevole di cosa vuole, di cosa gli conviene volere – non è sufficiente24. Nel teatrino della teoria della scelta razionale, l’irrealismo è ben più spinto e ignora completamente la complessità psicologica, simbolica e culturale: e poiché la teoria è irrealista, è anche, sempre più spesso, ineffettuale. La logica funzionale, escludendo ogni discorso che non si svolga nei suoi termini, esibendo come segno della propria sincerità i propri stessi limiti (non si fanno domande oziose sul perché), si immunizza da ogni opposizione, che, estranea al sistema funzionale, sarebbe potenzialmente distruttiva. Ma la sua effettualità, abbiamo detto, vacilla e si diffondono, proprio a partire dalle smentite empiriche sempre più numerose, discorsi critici e sperimentali sul riduzionismo della teoria economica, che mettono allo scoperto, all’interno stesso del mercato, la psicologia, il contesto culturale e la complessità di esigenze vitali, sociali, mimetiche e identitarie, che determinano le condotte economiche. Gli individui non solo hanno limitate capacità di processare le informazioni, non solo, come consumatori e utenti, muovono in direzioni autonome e autarchiche, ma soprattutto mettono in gioco, nel consumo, una carica di socializzazione mimetica e competitiva, una reciprocità e interdipendenza poco razionali e poco simmetriche, per descrivere le quali potrebbero ancora servire vecchi libri di critica della cultura – come quello di Thorstein Veblen, per esempio –, che mostrava come il mercato sia un luogo di eccedenza di senso, dove le pulsioni di vita si giocano con molta ampiezza e variabilità25. Eccedenza di senso del mercato versus riduzione del mercato stesso al sistema di potere capitalistico o alle scelte razionali dell’economia liberista. Questa eccedenza di senso, poco indagata da entrambe le parti, mette in mora l’immanentismo presunto di queste versioni della bioeconomia, le quali, pur diversissime, tendono a nascondere di essere regimi di sapere e di organizzazione delle soggettività e dei ruoli, riduttori della com124 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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plessità della realtà e riduttori delle differenze. Entrambe, in questo senso, chiudono gli spazi della politica che sulle differenze e sulle mediazioni lavora. In realtà – nonostante gli sforzi dell’econometria, che cuce addosso ai soggetti ruoli di consumatori che perseguono lucidamente il proprio interesse e nonostante la riduzione da parte della critica neomarxista dell’intero operare a merce – l’asse economico, sin dalla metà del secolo scorso, si sposta completamente in senso anarchico-bioeconomico. Non si tratta della società dei consumi (nonostante la citazione di Veblen, ma si potrebbero citare Pierre Bourdieu o Jean Baudrillard), sintagma passato di moda che afferisce ancora alla sfera del moderno e alle sue mediazioni, né della manipolazione della cultura lamentata dai francofortesi. La priorità logica e ideologica del consumo sulla produzione – che peraltro mantiene il potere di manipolarlo –, e il fatto che il consumo abbia una logica orientata al privato e al Sé autoreferenziale, innesca un circuito che spinge sempre di più l’individuo ad occuparsi di se stesso. Lo costringe a scegliere dopo essersi interrogato, ad informarsi, ad auscultarsi per mantenersi giovane, a accordare alla propria identità estetica la scelta delle vacanze, il libro da leggere, la dieta o la terapia da seguire secondo le idiopatie del proprio corpo privato: dunque lo spinge a esercitare la propria piccola sovranità (molto spesso narcisistica), la propria libertà/potere, fai-da-te, selfservice, anche se molto spesso socialmente irrilevante26. Le informazioni, i messaggi, i consigli soft, i riferimenti culturali, le ricette culinarie e psicologiche lo investono sì in dosi massicce, ma in rapidi flash, contraddicendosi, scalzandosi, lasciando tracce labili o inconsapevoli. Un potere, multiplo e diffuso, disarmato ma fortissimo che, attraverso il consumo e il lavoro (e le dinamiche di esclusione e di povertà che consumo e lavoro generano), investe direttamente le vite e, investendo le vite, assume forme impreviste contaminandosi con le energie, e le influenze che differenziano ciascuno di noi. 4. Lavorare Lo spostamento dell’asse dalla produttività al consumo implica che le strutture produttive inseguano a loro volta la vita e le sue presunte leggi interne, incidendo sull’idea stessa di lavoro e della sua orga125 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nizzazione27. È possibile affermare che la potenza del cambiamento bioeconomico si misura nella decostruzione che subisce quella cerniera tra mercato e politica, che è la nozione di lavoro: agire subordinato alla sopravvivenza e alla produzione e riproduzione della vita, ma, secondo Hegel e secondo lo stesso Marx (quando disegna i contorni della società socialista), capace di contenere in sé, muovendo dalla propria naturalità, lo sviluppo normativo che rende liberi e autonomi. Evidentemente il prodotto e il modo di produzione sono profondamente cambiati: prevale il settore terziario, l’offerta di servizi o beni immateriali, su quello industriale; l’attività produttiva si decentra, alleggerendo le strutture fisiche tradizionali in direzione di una virtualizzazione tecnologicamente avanzata; l’organizzazione «flessibile», just in time, inseguendo desideri volubili e di nicchia, valorizza le attività comunicative e creative; cresce il ruolo del lavoro autonomo che spezza il binomio tempo libero/tempo di lavoro e la contrapposizione tra dipendente e collaboratore. Si ridimensiona la rappresentazione relazionale, sociale del lavoro, che immetteva l’individuo in una trama di rapporti significativi e identificativi, lo status, a lungo protetto dalla visione politica dell’economia e dalle esperienze di Stato sociale. L’identità del lavoratore si flessibilizza con i mutamenti del mercato. I saperi e le tecniche correlative fanno perno sulla modularità degli schemi, sui flussi informativi, sulle funzioni comunicative. Il dispositivo di potere si ricolloca al livello delle reti di controllo: ondulazioni in uno spazio liscio28. Il regime salariale (tempo/lavoro) taylorista è sostituito dal compenso flessibile e individualizzato: modula differenze piuttosto che omogeneizzarle. È in questo quadro che, oggi, si dà un nome nuovo al lavoro, che nella sua radice etimologica portava dentro la fatica, il dolore, il travaglio: oggi si dice capitale umano. Non occorre scandalizzarsi che l’Uomo, questa meraviglia dell’universo, sia capitale umano. Significa semplicemente che siamo il posto che occupiamo nel sistema economico, che le nostre vite sono vite economiche e abbiamo il potere, capability, di essere molto attivi e redditivi, assicurando al mercato quella dose di innovazione – cioè creazione, spontaneità, duttilità – che ogni volta permette di evitare la crisi definitiva, ogni volta dà un colpo di coda alla produt126 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tività e si inventa qualcosa. Nel capitale umano, nel suo patrimonio di capacità, sedimentate e accresciute attraverso l’educazione, sta la sintesi di scienza, tecnologia e produzione. Certo l’eudaimonia, l’oikos sono perduti, poiché quella sintesi è senza trascendimento, è inquieta deterritorializzazione, parla il solo linguaggio economico e non lascia mai essere la vita com’è. Le teorie liberiste (o social-liberiste come quella di Sen) sottolineano il tratto di possibile empowerment, di potenziamento delle capacità lavorative del singolo. È una considerazione, come vedremo, energicamente negata dalla critica neomarxista del postfordismo, ma da valutare con prudenza, nella sua ambiguità. Amartya Sen tenta di valorizzare la teoria del capitale umano (questa formula così antiumanistica che mostra quanto l’uomo valga in funzione al capitale), ai fini di una politica di sviluppo in cui le traiettorie di crescita ottimale non siano pensate, come si fa tradizionalmente, nella logica sacrificale del contenimento dei livelli salariali (e dunque del benessere) per accumulare capitale da investire per ottenere, domani, maggiori benefici futuri. L’economista indiano tenta una nuova formulazione rispetto a quella dicotomia, consumo (benessere) e investimento (crescita) che genera conflitto tra i due termini: c’è una correlazione – ben espressa da quella poco esaltante espressione: capitale umano – tra produttività economica e beni quali istruzione, assistenza sanitaria, alimentazione, diritti delle donne; questi ultimi fattori hanno effetto immediato e diretto sul benessere, sulla libertà e la vita delle persone, ma incidono anche positivamente, sullo sviluppo economico. Non a caso Sen riprende, arruolandolo negli aristotelici, il vecchio Smith e la sua fiducia nello sviluppo del potenziale umano e nella divisione del lavoro. L’obiettivo è potenziare le abilità e capacità produttive dell’intera popolazione: la posizione strumentale che le persone/capitale umano comunque vengono ad occupare in quest’ottica viene compensata – al di là del riconoscimento del ruolo delle capabilities umane come motori della crescita e dunque mezzi – dalla considerazione dei fini della crescita stessa, individuati, attraverso il ruolo cruciale dei diritti umani, esattamente nella sfera delle libertà umane, del benessere sociale, dell’istruzione e della qualità dignitosa della vita. L’umanesimo di Sen dunque interpreta il capitale umano concentrato sulla capacità di produrre reddito, come uno scopo indiretto, rispetto al beneficio primario, diretto, intrinseco dell’empowerment, del potenziamento delle capacità umane come poteri di 127 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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libertà. Sappiamo che questa sintesi (stavolta è possibile parlare di sintesi) di economia e giustizia permette a Sen di rifiutare il modello di sviluppo quando viene promosso da regimi autoritari e gli consente di legare sviluppo economico e diritti umani29. Giuste considerazioni, in una prospettiva – come si vede – neoclassica, dove è possibile la sintesi di etica ed economia e di etica e politica. La nuova organizzazione del lavoro è, però, sempre più degiuridicizzata e bioeconomica. Cessata la identificazione nel ruolo e nello status di lavoratore che tanto a lungo è servita a descrivere la vita di ferrovieri, agricoltori, impiegati, operai metalmeccanici e fordisti in genere – status che preparava l’appartenenza alla classe e il posizionamento politico –, non è d’altra parte pensabile che tra vita e lavoro ci sia quello stacco, quel rapporto strettamente utilitario e strategico che la teoria marginalista immaginava. Nella realtà, in un lavoro professionalizzato e ciò nonostante dipendente, si ha un rapporto di identificazione con il proprio corpo-vivo-che-lavora, non certo perché il lavoro sia missione, etica professionale o ruolo sociale identificante, ma perché l’organizzazione della produzione, orientata al consumatore e alla mobilità delle sue esigenze e dei suoi desideri, chiede un impegno creativo, personale, un coinvolgimento attivo, responsabile. Ciò che è decisivo, al fine di trasformare la modalità di produzione e il genere di prodotto, è esattamente quella categoria del novum su cui ci siamo soffermati, individuata da Schumpeter come chiave di volta della dinamica dei cicli. Solo l’innovazione, la creatività, l’opera originale dell’ingegno, non deducibili dall’esistente possono salvare il sistema dalla stagnazione, dalla sovrapproduzione: una iniezione di volontà creativa che Schumpeter attribuiva all’imprenditore/innovatore, ma che, di fatto, si riverbera sull’intero sistema produttivo stimolato a cercare organizzazioni del lavoro che aumentino la produttività riducendo i costi e sollecitato a inventare nuovi prodotti che accendano la domanda. È richiesto un tipo di cooperazione da parte di chi lavora, che non sta nell’ordine della repressione e della passività, ma mobilita il sé desiderante e quei caratteri personali che, nello schema tradizionale, non erano presunti. La catena di montaggio, il gesto ripetitivo, la prestazione d’opera tutta calibrata sul tempo – ore e minuti di disagio, di disutilità, compensati con tempo libero consumista, totalmente diverso – lasciava forse ancora spazio ad una riserva mentale, una crasi dunque, una libertà d’essere, di immaginare, di sognare, che agevolava l’antagonismo e la lotta politica o che sosteneva il lucido cal128 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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colo di convenienza. Il sistema economico, con le sue relazioni di potere diseguale, pur coartando e piegando i corpi dei lavoratori alla sua disciplina, non ne adempiva la vita e si poneva in modo antagonistico e indipendente dalla politica. Tanto il liberalismo che il socialismo, anche se entrambi hanno sostenuto la priorità strutturale dell’economico, hanno pensato la natura dell’uomo come irriducibile al suo ruolo economico. Non è così oggi: la razionalizzazione dei costi e la rapidità delle risposte alla domanda di mercato chiedono forme inedite di integrazione tra uomini e tecniche. Si parla di sistemi biotecnici, intendendo che il processo di produzione integra la ripetitività della macchina con l’azione creativa del lavoratore cognitivo. Si usa l’espressione lavoro vivo per significare che ciò che viene chiesto è lo spirito di iniziativa, la creatività, la cooperazione con il team, addirittura la fantasia desiderante e l’immedesimazione nelle fantasie e nei desideri di chi comprerà. Il computo delle ore di lavoro, sul quale si sono consumate lunghe battaglie sindacali, viene considerato un meccanico appiattimento dell’azione qualitativa a una unità puramente quantitativa. Come se l’uomo fosse solo una macchina! Come se la sua capacità non potesse produrre tanto di più e tanto meglio, se liberamente autogestita! Oggi è l’intera produttività dell’uomo, la sua fantasia, la sua immaginazione, il suo ruolo innovativo e adattivo alle circostanze, flessibile nelle esigenze relazionali a essere necessari30. Tramontano i contratti collettivi, che pure hanno fatto la forza dei sindacati; la relazione con l’azienda si personalizza attraverso incentivi speciali, benefit, vacanze premio. La diseguaglianza personalizzata del trattamento – che era, come ricorderemo, una delle caratteristiche più significative della norma pastorale orientata alla selezione delle capacità, alla individualizzazione dei percorsi in nome dell’efficienza e della adeguata valorizzazione di ciascuno – sostituisce senza troppe obiezioni, la generica uguaglianza dei grandi contratti collettivi. I curricula e i percorsi di carriera professionale disegnano biografie differenziate, flessibili, inconfrontabili, che, se da un lato diventano la sfida autogestita ad una formazione personale competitiva, sono, dall’altro, più facilmente soggette ai poteri decisionali dei dirigenti. Insieme all’organizzazione fordista, vengono aboliti i quadri intermedi e dunque tutte quelle figure di sorveglianza del lavoro che erano tipiche della fabbrica taylorista, simile ad una caserma. La biopolitica dell’economia fordista addomesticava corpi disciplinati, non irrequieti, capa129 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ci di stare tante ore alla macchina, senza distrarsi a pensare, a sognare: non a caso le donne, essendo più docili, sembravano più «adatte». Il bioeconomico è un governo agli antipodi del disciplinamento e esalta le doti relazionali, creative, cooperative, la psiche, lo stile, l’atteggiamento, la vita nel suo complesso. Alcuni tratti distintivi della governamentalità, assenti nel disciplinamento fordista, evidenziano ora una modalità di governo più soft e più incline, come quella pastorale, a dare un indirizzo alle spontanee inclinazioni dei soggetti. Se è richiesta la introiezione degli obiettivi di mercato (cioè ancora una volta la soddisfazione del cliente o la capacità di forgiare discorsi tanto persuadenti da far nascere la propensione a quel consumo), il coinvolgimento passa attraverso la valorizzazione della macchina desiderante del collaboratore, per il quale tutto il tempo di vita si amalgama al tempo di lavoro (si può portare il lavoro a casa nell’angolo office, oppure l’ufficio viene reso accogliente, arioso, distensivo come una casa). Passando dalla produzione di cose – il fabbricare oggetti – alla crescente offerta di beni immateriali, spettacolo, divertimento, erogazione di servizi, il lavoro non si impernia tanto, come prima, su una relazione uomo-natura, ma, sempre di più, su un rapporto uomo-uomo e su relazioni pubbliche e sociali. Per gestirle, vengono messe in gioco qualità della sfera emotiva e affettiva: socievolezza, affabilità, ascolto, controllo della propria aggressività, cortesia, adattamento dei toni e degli stili ai diversi codici degli interlocutori, capacità di cooperazione nel gruppo e di padroneggiamento delle dinamiche psicologiche. Queste doti, da sempre afferenti alla sfera privata, personale e esistenziale del carattere, vengono, per così dire, commercializzate: acquisiscono un valore produttivo e contrattuale. Questo non è di poco conto nel mutamento della importanza e nel tipo di considerazione che l’espressività e la specificità della identità personale viene ad assumere, nel momento in cui passa sotto i codici e i regimi di potere dell’economico. La vita, le emozioni, le paure, gli affetti, la calma e l’eccitazione: tutto il privato salta dentro il gioco di potere del mercato. Paolo Virno, d’altra parte, parlando di lavoro divenuto attività senza opera, sottolinea, all’inverso, che sono le doti pubbliche, relazionali, d’iniziativa, di persuasione, adattive alla contingenza e al rischio, ad essere fagocitate dal mercato. Giustamente fa notare che quel sintagma – che designava la politica arendtiana, l’agire in-operoso, la praxis, non poietica, nello spazio pubblico – diventa oggi di130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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stintivo del lavoro postfordista, lavoro linguistico, comunicazionale, in cui vengono messe in gioco «qualità politiche senza la politica»31. Doti private e doti pubbliche sono riassorbite dall’ambigua condizione del nuovo modo di lavorare. Questa ambivalenza è un punto nodale, così come un punto nodale è stato il concetto teorico/pratico del novum, oscillante tra libertà/desiderio e volontà/potere. Finchè il lavoro è stato semplicemente un agire naturale – la cui «sussunzione reale» nel sistema capitalista era indiscussa e implicava i dispositivi ad esso funzionali di addestramento, disciplina, gestione dei corpi –, era ovvio immaginare una microfisica dei poteri chiamata a plasmare quei corpi, attraverso norme di salute, igiene, produttività, sicurezza. Abbiamo visto come questa relazione di normalizzazione sia oggi cambiata: essa non procede più alla produzione di identità fisse, ma predilige la valorizzazione differenziale e la flessibilità, pur continuando a essere strumentale alla produzione. Questo è il punto teorico di passaggio alla nozione di lavoro bioeconomica: la strumentalità, la subordinazione/cooperazione, senza idealismo e redenzione etica, al processo produttivo, utilitaristico. Questo abbiamo visto emergere dai saperi economici antidealistici: il lavoro è una scelta, una merce che, a quell’imprenditore del proprio godimento che ciascun soggetto è, appare conveniente scambiare per avere un bene – il salario – con cui soddisfare i bisogni e le preferenze. Non c’è statuto privilegiato e sublimante nell’operari umano: la potenza dei bisogni/desideri determina il calcolo in cui si inserisce la prestazione d’opera. Il lavoro nella teoria economica liberista è nudo, privo di idealizzazioni possibili, lavoro vivo, come la «bestia selvaggia» di cui parlava Hegel, ma la strumentalità viene letta in chiave di potere, potere di scelta e di esercizio della propria capacità. Quando Marx inserisce il lavoro nella organizzazione capitalistica riducendolo a merce, che il lavoratore è costretto a vendere per la propria sopravvivenza, evidentemente smaschera la presunta libertà della scelta, ma rimane – ripeto nella fase economica del capitalismo – la sua strumentalità. L’alienazione e la strumentalità sono il punto di forza delle critiche neomarxiste al postfordismo: nei lavoratori flessibili, «autonomi», intellettuali, esse si fanno addirittura più radicali, poiché ciò che viene mercificato è la sfera stessa dell’agire comunicativo. Indubbiamente, la critica ha fondamento. Eppure, nella presunta libertà, che la teoria del lavoratore/imprenditore-di-se-stesso ravvisa, 131 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ci sono dei frammenti di nuove idee di lavoro. Quell’operare vivo, selvaggio, frutto di scelta soggettiva, che, gettando nello scambio il proprio potere creativo, ha la pretesa di sottrarre il lavoro alla ripetitività subordinata del salariato, ha una qualche affinità con un atto di libertà, di desiderio. Certo, è una pretesa ideologica individuare nel lavoro – pur sempre inchiodato al bisogno, perché strumentale alla sussistenza – un atto del desiderio sottratto al determinismo capitalistico, ma una nuova ambiguità deve pur esserci se è giustificata l’accusa deleuziana: «L’identità tra lavoro e desiderio rappresenta [...] l’utopia attiva per eccellenza che designa il limite del capitalismo da superare nella produzione desiderante»32. La transizione dal lavoro taylorista, attività eteronoma, puramente occupazionale, a quella che viene chiamata la professionalizzazione del lavoro, cioè la svolta in senso autonomo della prestazione d’opera, suggerisce questa utopia di produttività libera, libera senza sublimazione. La nuova terminologia – mistificante quanto vogliamo – illumina un margine di possibile creatività, un’autorealizzazione disalienata, dovuta alla nuova centralità del momento conoscitivo rispetto a un operare solo meccanico. Con la conoscenza e la comunicazione, che divengono i fattori chiave che determinano la differenza produttiva, si afferma il valore – disconosciuto nella ripetitività meccanica – della competenza autorevole e socialmente riconosciuta, la quale, a sua volta, coinvolge una valenza etica del ben-fare. Nella nuova organizzazione bioeconomica, il lavoro – almeno nelle sue punte esemplari che segnano la distanza dall’organizzazione fordista – esibisce forme di gestione più autonome del tempo, la spontaneità della contingenza, la messa a frutto dell’immaginazione, dunque del desiderio, l’esaltazione della capacità personale e diseguale: si autorappresenta quasi come un’agency libertaria33. La realtà empirica del capitalismo scopre l’essenza soggettiva del desiderio e del lavoro – essenza comune in quanto attività di produzione in generale – [e] non cessa di alienarla di nuovo e ben presto in una macchina repressiva che separa in due l’essenza, e la mantiene separata, lavoro astratto da una parte, desiderio astratto dall’altra: economia politica e psicoanalisi, economia politica ed economia libidinale34.

Nel loro stile barocco, gli schizoanalisti Deleuze e Guattari colgono perfettamente, al di là della metafisica dell’economia politica, 132 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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l’analogia di lavoro e desiderio nell’essere entrambi agire produttivo (macchina). Questo non cambia il giudizio: oggi il lavoro è produttivo di innovazioni, di inedite creatività che soddisfano la potenza di chi produce, ma questa stessa libertà creativa torna a essere riassorbita dai dispositivi di mercato. Perciò è valida la denuncia deleuziana e, sulla sua scia, dei critici del postfordismo, della subdola seduttività presente in questa ambigua attribuzione del desiderio creativo al lavoro. La repressione del desiderio rimane e si aggrava, in questo nuovo stile d’opera che insegue l’autorealizzazione, la creatività nonalienata. Il lavoro sempre piega il desiderio alla funzionalità, sempre si separa dalla macchina desiderante. La critica del postfordismo riprende la prospettiva lavorista/produttiva del marxismo e, dunque, assume il «modo di produzione» come unico elemento di determinazione delle posizioni sociali e delle soggettività stesse, che così vengono ad essere sussunte completamente nella struttura produttiva. La struttura stessa viene pensata in modo coerente e omogeneo, vocata a plasmare le vite, oggi, attraverso una forma di biopotere economico cui nessuna singolarità – per quanto lavori autonomamente, per quanto si senta creativa o realizzata, per quanto produca conoscenza, comunicazione e socialità – può sottrarsi. Anzi è ben nota la tesi di Hardt e Negri in merito a una totalizzazione del biopotere economico sul pianeta35. L’impero si definisce per la sua illimitatezza e deterritorializzazione e rende vani gli sforzi di trovare luoghi politici di resistenza: coincide con il dominio totalitario del sistema capitalistico e la completa obsolescenza del politico. Si tratta di una tesi che, pur avendo lucide intuizioni circa la configurazione economica, immateriale e indeterminata, del biopotere, mescola tratti romantici sostanzialistici con un immanentismo ipereconomicista (come ipereconomicista è il suo grande nemico, il liberismo), contrapponendogli, non senza aporie, una soggettività ugualmente totalizzante, la moltitudine. Questa soggettività rivoluzionaria dovrebbe – al di là di qualunque specifica battaglia politica e conquista parziale di spazi di libertà – sottrarsi al giogo economico/produttivo, poiché incarna la naturale potenza desiderante capace di produrre, finalmente, socialità autentica e disalienata. L’apporto significativo della tesi sta, ripeto, nell’attenzione con cui segue la trasformazione dell’economia cogliendo, nell’indebolimento della governamentalità politica territoriale, il carattere biopolitico della sua esplosione globale. L’economia non riscontra più 133 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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limiti e contenimenti e diventa la forma di organizzazione della vita. Ma – al di là della prospettiva neorivoluzionaria che, più che utopica, sembra inopinatamente euforica – il punto debole sta essenzialmente nella conservazione della prospettiva lavorista/produttivista, prius ontologico e determinazione della realtà sociale. Se la concezione negriana dell’economia fosse stata più attenta alle dinamiche storiche, se ci fosse stato un più radicale ripensamento del desiderio e del godimento, se si fosse cercato di capire il senso epocale del rovesciamento tra consumo e produzione, senza ridurre il consumo soltanto alla sua manipolazione, ma cercando di leggere tra le sue righe, non si sarebbe giunti alla pretesa totalizzante che il bios, le forme antropologiche del vivente, la natura umana tout court siano plasmati immediatamente e univocamente dalla modalità di produzione, la quale ultima viene considerata coerente, totalitaria, unidirezionale, nonché originaria rispetto alle forme di vita sociale, secondo la tesi marxiana, appunto36. Molte sono le ragioni di queste critiche e molte le ragioni per giustificare la diffidenza deleuziana sulla libertà desiderante del lavoro, come sono giusti i sospetti di un Virno sull’enfasi dei supporters della new economy, sulla libertà e creatività di hacker o di corsari della Rete37, ma è fondamentale non cedere al riduzionismo immanentista che non lascia spazio all’evenienza e al disordine dei soggetti. L’immanentismo determinista considera realtà le relazioni che il regime di sapere/potere economico organizza: nega qualsiasi differenza e distanza dai ruoli, qualsiasi eterogenesi dei fini. Forse è vero che i singoli soggetti sono privi di potere e di influenza, che non sia mercantile, ma la logica del mercato è cosa assai più complessa da come l’ipereconomicismo liberista e marxista la descrive. Essa viene probabilmente a sua volta determinata dal modo con cui ciascun soggetto combina in maniera diversa istanze psicologiche, culturali, desideri e speranze, nella forma del mercato, ma spesso disobbedendo alla sua logica efficientista e strumentale. L’evidente declino dell’idea che il lavoro sia una variabile preminente sulle altre – nel crollo relativistico della trascendenza dei principi e nel massimo rilievo che, in questo relativismo, assume il valore vita – ha come effetto che la relazione lavoro-vita diventi più consapevole, attenta e problematica. Il lavoro umano diventa un nodo critico dal punto di vista della qualità della vita stessa e del diritto di ciascuno di godere l’esistenza, riconosciuto quest’ultimo, enfatica134 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mente, dal mercato medesimo. Consideriamo, anche in questo caso, l’ambiguità della socializzazione economica dei poteri: nel linguaggio e nelle forme del mercato trovano traduzione, spesso povera, ma originale, poteri plurali e sociali che impongono al mercato stesso disordine e destabilizzazione; lo bloccano o lo orientano in modo diverso muovendo non dalla ipotetica libertà di scelta, ma da frammenti di libertà/potere che seguono contaminazioni non prevedibili, ideologie e culture non coerenti al sistema. Si va affermando, per esempio, una inedita domanda di rottura del disciplinamento sociale del lavoro, una sorta di diritto a sottrarsi all’obbligo del lavoro coatto, alienato, in nome di una autonomia decisionale sul proprio destino38. Si tratta di una mentalità che indebolisce ulteriormente alcuni dei cardini fondamentali del dibattito politico: il diritto costituzionale al lavoro, minacciato peraltro da una disoccupazione endemica e di fatto ineliminabile e i diritti sociali in dipendenza dal lavoro stesso. D’altra parte, le nostre società – pur consapevoli che la disoccupazione è strutturale e pur essendo problematica la preminenza esistenziale e culturale del lavoro – poggiano su un sistema di valori orientato su di esso. I poteri istituzionali riservano le cose che valgono a quanti sono economicamente vincenti, o almeno inseriti nel gioco produttivo. Coloro che non riescono a soddisfare questa condizione, i disoccupati o quanti decidono di agire altrimenti, saranno costretti a cercare motivazioni molto valide per non apparire perdenti, impotenti. Chiunque non lavori almeno in modo intermittente o part-time – nell’attuale assetto sociale produttivista – subisce emarginazione e insicurezza sociale, non solo perché escluso dalle pratiche del Welfare, ma anche perché considerato insignificante nel sistema competitivo sociale: anche il non-lavoro implica la vita intera. Ma non ha più senso, in un mondo dove i poteri sociali sono diffusi e non si riconoscono nelle rappresentanze tradizionali, fondare sul lavoro i diritti. La dinamica sociale e dunque la richiesta di rappresentazione, si orienta piuttosto sulla nuda concretezza degli uomini, delle donne, dei bambini che nascono-vivono-muoiono: i diritti umani inerenti al vivente snaturano le generazioni di tutele giuridiche, organizzate intorno alle classi produttive. In quest’ottica si inserisce, per esempio, la proposta del reddito di cittadinanza, portata avanti dal radicalismo libertario di Philippe Van Parijs39. La proposta di dare a tutti, senza eccezione, un reddito minimale, che fa dipendere la possibilità di mantenersi dal solo fatto di esistere, è molto 135 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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diversa da quelle solo apparentemente affini di reddito sociale minimo o di salario sociale, tipiche della politica sociale. La sua base teorica è profondamente diversa e connessa all’orizzonte biopolitico dei diritti umani che, incondizionatamente e permanentemente, dovrebbero dare accesso ad una vita dignitosa e alla possibilità di consumo, senza la mediazione del lavoro. Il radicale riformismo della proposta ne evidenzia il carattere politico, risalente al patto sociale di solidarietà, piuttosto che all’economicismo delle lotte sindacali e delle proposte imprenditoriali di flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro40. Nel contesto di questo saggio, l’importanza del basic income sta proprio nella carica dirompente rispetto alla tradizionale visione del lavoro delle prospettive produttiviste: quella ambivalenza libertaria, implicita nella nuova modalità di produzione, viene radicalizzata – anche tenendo presente la natura strutturale della disoccupazione – in direzione di un diritto alla scelta di non-lavoro, o all’esercizio della libertà di attesa di una attiva, originale prestazione d’opera. Si può anche sorridere di fronte al carattere utopico di queste affermazioni che sembrano tout court fuori mercato, ma si tratta dello sviluppo in senso radicale di quel portato libertario che le teorie liberiste evidenziavano nella trasformazione della modalità di produzione. Questa – esse sostenevano – promuoverebbe la potenza attiva dei lavoratori non più sfruttati, ma contrattualmente forti, essendo, ciascuno di essi, generatore di idee e relazioni determinanti, che vengono consapevolmente offerte alle imprese. Nella idea provocatoria, «semplice e decisiva», del basic income universale e incondizionato – a prescindere dalla difficoltà di realizzarlo –, la libertà/potenza che si manifesta nel lavoro creativo può dirsi tale perché viene, politicamente, sottratta al ricatto della sussistenza. Come si vede, torniamo a quel punto nevralgico nel quale le critiche postfordiste vogliono vedere totalmente subordinato al capitale il lavoro e il desiderio, dal momento che non solo le braccia, ma anche la mente, la fantasia e la comunicatività sono rese produttive. Il ridimensionamento soprattutto teorico che, anche attraverso la questione del basic income, il lavoro subisce nel suo ruolo di unico necessario accesso alla sopravvivenza, ne libera l’ambivalenza e lascia emergere il ruolo (di potere) che assume nella relazione sociale e produttiva, dichiaratamente strumentale al godimento. È un punto nevralgico perché – è evidente – si danno spazi di libertà senza abolire il mercato, percorrendo un fragile sentiero, tutto politico e non rivo136 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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luzionario, tra ugualitarismo e libertarismo. Ovvia l’accusa di riformismo da parte della critica neomarxista radicale, per la quale il lavoro non può essere che incubo41. Non c’è, comunque, nel lavoro, nulla di particolarmente nobile in se stesso. Nella relazione di scambio, il lavoro è un debito, una disutilità, un costo, e questo resta vero anche se, talvolta, dà esaltanti gratificazioni e lascia spazi di libertà a desiderio, fruizione, consumo e godimento. Anche se fosse vero che non è più servo di altre attività e che tutta l’azione umana è impresa e il lavoratore è un imprenditore, tuttavia, quando sceglie di lavorare o è costretto a farlo, «le sue facoltà innate sono un mezzo di produzione... ha fatto un investimento nella speranza di essere compensato con un reddito adeguato»42. Perciò la competizione per riuscire a vendere con successo la propria forza-lavoro sul mercato, e dunque partecipare alla ricchezza e ai valori della vita, si fa frenetica e lascia molte vittime sul terreno. In una globalizzazione bioeconomica, le dinamiche non sono quelle antagoniste di classe del vecchio Marx, ma quelle biopolitiche dell’esclusione. 5. Il saldo del debito e la povertà La destrutturazione dei tradizionali comparti economico-politici lascia dunque il posto a flussi di poteri: la bulimia delle cose li orienta senza direzione, attirando le vite in un vortice di bisogni-desideri di cui non si vede il centro o la fine; la labilità del lavoro slega forze dinamiche, attive, ma anche fragili, precarie. Ma se il sociale, concetto euristico e fondante della rappresentazione moderna, così strettamente legato alla produzione e riproduzione di un gruppo, si disgrega, quali caratteri ha questo spazio liscio indefinito, mutabile e plasmabile, dove domina la bioeconomia? Il sociale è sempre stato un modello astratto, che rappresenta la complessità sistemica della produzione moderna, un modello di saperepotere, attraverso il quale gestire e sincronizzare l’azione collettiva degli individui singoli concreti che lavorano e consumano. È dunque un concetto biopolitico, una simulazione del sensibile, del corporeo, della vita. In una fase bioeconomica dove si indebolisce la gestione politica, il carattere di simulacro della società nel suo complesso viene svelato 137 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ed esplicitamente assunto operativamente, senza sublimazioni. I poteri, diversi e immanenti, si applicano non alla società e neanche a viventi concreti, ma a quei simulacri cui sono ridotte le nostre vite. Oggetto dei biopoteri economici sono quei flussi emotivi e comportamentali che vengono monitorati attraverso sondaggi e, dunque, attraverso le autodefinizioni mobili e non definitive dei soggetti concreti. Dai sondaggi emergono identità che non sono altro che soggetti dell’indagine di mercato, anonimi, qualunque: aggregazioni di opinioni (funzionali ai dispositivi economici) che vengono collegate a standard rappresentativi, simulando una coerenza – internamente differenziata – di gusti, di condotte, di bisogni e di desideri. Le passioni che nel singolo sono incoerenti e contaminate vengono aggregate funzionalmente nel mercato sociale. Il soggetto concreto, l’individuo singolare, si scinde: nonostante gli si chieda continuamente di autointerrogarsi e ripiegarsi su se stesso, non interessa a nessuno chi sia veramente, né quanto sia coerente al suo modello di riferimento o alla sua posizione sociale di lavoratore (o a una qualunque altra identificazione). Interessa ai poteri che sollecitamente lo interrogano perché è un sensore, un recettore di variazioni sociali di senso: variabili che i dispositivi di mercato mirano a monitorare, perché significativi ai fini della produzione e dell’innovazione sia della merce sia delle modalità di cooperazione. Alle identità «moderne», centrate sulla coerenza di comportamenti e opinioni, si sostituiscono identità simulacro che prescindono dall’individuo concreto: lo attraversano per produrre a posteriori degli aggregati astratti e statistici. E gli uomini, le donne, i bambini, i vecchi che nascono-vivonomuoiono? Spazio sociale (non vorrei dire pubblico) e privato hanno confini sempre più sfuggenti: ciascuno è immediatamente «sociale», esteriore, riconducibile ai brandelli dei diversi simulacri che transitano nella sua vita, senza canali di mediazione e di recupero. Pezzi di vite funzionali e nessuna vita. In questi termini il sociale giunge al suo compimento, in una diffusa apatia e indifferenza che rovescia clamorosamente l’aspetto patico e passionale, che dovrebbe caratterizzare una così insistita centralità della vita e del corpo. Un’apatia che non è mancanza di socializzazione, ma una socializzazione soft, economica: complementare alla sperimentazione continua, all’accelerazione incessante, alla cessazione di conflittualità che è necessaria al mercato. Non dimentichiamo le intuizioni di Tocqueville sulla ca138 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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duta del desiderio, sul narcisismo della democrazia intesa come condizione sociale: l’apatia del desiderio non emerge da una vera aconflittualità, ma da un eccesso di antagonismo che si risolve in una rinuncia. Quando la vita assurge a valore supremo, l’incontro dell’uomo con l’altro uomo avviene prevalentemente sotto il segno del proprio interesse, della prudenza, della diffidenza, della neutralizzazione degli incontri e dei contatti troppo aggressivi, troppo compulsivi e coinvolgenti per aver luogo43. Obliquità degli sguardi indifferenti e invidiosi, dissoluzione di ogni senso unitario del sé in frammenti di conformismo, conflittualità continua e rimossa nello scambio mercantile. La bioeconomia è quella socializzazione estrema dei poteri che governano la vita, tale che si accede al reciproco universale condizionamento, alle relazioni asimmetriche di potere, attraverso un tipo di scambio, quello economico, che «salda il debito», cioè esaurisce il legame della gratitudine, lo sbilanciamento del debito, lo squilibrio della dipendenza, non attraverso la mediazione giuridica dei diritti, che comunque necessitano di un sovrano che li renda effettivi e di un patto di solidarietà, ma attraverso il do ut des senza coinvolgimenti. Almeno negli intenti. Il fatto che sia divenuto un modello di relazione intersoggettiva totale, da estendere all’intera prassi umana, significa che il mercato ha una densità politica. Sembra che la sua fortuna sia dovuta proprio alla capacità di disegnare un sociale che è l’opposto della irrazionalità della folla, dei meccanismi di alienazione e di amore che danno luogo all’identificazione collettiva, alla regressione libidinale dominata da imitazione e dipendenza, da quei sentimenti o emozioni contagiose per cui i singoli sacrificano il loro personale interesse nell’insieme collettivo44. Il mercato si presenta come il rovescio di tutto questo. Il mercato si propone come quel meccanismo puramente automatico, che non è istituito né regolato da alcun centro, che nessuna volontà cosciente ha costruito, capace di tenere insieme le passioni dei sé individualisti, narcisisti, calcolatori, razionali, interessati. L’utopia di una società in cui gli uomini saldano i loro debiti, dove non ci sono strascichi emotivi, dove non c’è bisogno di parlarsi, perché gli indicatori dei prezzi, delle monete, sono sufficienti. Né c’è bisogno di amarsi per vivere insieme, che anzi l’indifferenza e il ripiegamento su se stessi, nell’ignoranza degli altri, è in fondo la migliore garanzia del bene comune non alterato da coinvolgimenti. È l’inquietante utopia di Leon Walras45, 139 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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che egli designa col termine «equilibrio», dove essere libero significa essere incommensurabile e non dipendente dal giudizio e dall’apprezzamento dell’altro, perché qualunque coinvolgimento e specularità implicherebbe sospetti, sfiducia, conflitto, laddove lo scambio mercantile esaurisce la relazione. Questa insistenza sull’automaticità e sul pareggiamento nello scambio mira a evitare esattamente ogni confronto, ogni sguardo sospettoso e malevolo, ogni contatto che generi potenziali conflitti e identificazioni pericolose. Questa insistenza su quello che chiamerei il saldo del debito tradisce, proprio nella radicalità della negazione, il disordine che c’è dentro il mercato, la linea di continuità che c’è tra disordine e ordine presunto. Il ricorso al modello di ordine esteriorizzato, l’ordine spontaneo del mercato in cui tutto trova il suo aggiustamento – ordine le cui componenti sono endogene e che si genera dai comportamenti dei singoli, non consapevoli, dunque il quid di sacro, di indisponibile e destinale che l’utopica autoregolazione del mercato rivela – è testimonianza rovesciata dei meccanismi di imitazione, di invidia, di dipendenza, che presiedono al desiderio e di cui il sapere economico non parla. È testimonianza del sacrificio del desiderio stesso – per paura del proprio odio/amore e per paura del conflitto – replica dell’irrazionale sacrificio del singolo nelle società religiose46. E infine le vittime, le vittime sacrificali del mercato. Esse sono il debito, che si presenta come un male necessario del generale folgorante sviluppo economico, un prezzo inevitabile, ma che lascia un senso di insicurezza, di ansia: non c’è teodicea, c’è solo un male che non viene redento, delle vittime che non sono riscattate. Il saldo del debito, l’economizzazione di tutte le sfere della vita, che è divenuta la modalità principale delle relazioni sociali, riguarda oggi esattamente quei corpi, quelle condotte, quelle vite private – private della piena vitalità – che a lungo sono state implicate nel dono, nella cura, nella relazione oblativa e coinvolgente. Abbiamo cercato di evidenziare quanti fattori rendono quello scambio ben più complesso e attraversato da regimi di discorso e di governo contraddittori, ma, comunque, per quanto complessa possa essere la costellazione dell’economico, pagare per avere più vita o non poter pagare e quindi non avere più vita, dunque essere lasciato morire, mostra crudamente tutto l’aspetto biopolitico della economia. E infatti la biopolitica del mercato, che succede alla governamentalità economica del Welfare, si squaderna nella nuova modalità 140 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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con cui si pensa e si dice l’esclusione dall’immenso sabbah dello scambio, l’incapacità alla liberatoria dal debito: la povertà. C’è uno slittamento lessicale molto significativo con cui coloro che pensano questo fenomeno debbono fare i conti e che testimonia la densità appunto biopolitica del lessico bioeconomico: parole come ricchezza, povertà, marginalità, esclusione, carità sostituiscono sempre di più, con la loro aura leggermente arcaica, nebulosa e banale – banale è la vita – i più tranquillizzanti, asettici e settoriali reddito, scarsità, agency, diritti, sviluppo integrativo. Così il corpus vile del povero – di quello che nel processo incrementativo, nello sviluppo, viene a trovarsi svantaggiato, o marginale, o escluso – riacquista una visibilità sociale, che le pratiche inclusive anche se gerarchiche del Welfare, sostenute da una impalcatura di diritti, occultavano o rivestivano. O meglio, relegavano al famoso Terzo Mondo, soprattutto africano, lasciando apparire corpicini smunti di bambini e madri lacere, come segno che in quella parte del mondo non ancora c’era il mercato, o – se la proposta veniva dalle denunce di chi contestava il mercato – che quella parte del mondo, tanto lontana da noi, soffriva la fame a causa della nostra ricchezza, essendo la sacca di sottosviluppo che manteneva, assorbendo l’eccedenza dell’invenduto e fornendo materia prima, la colpevole ricchezza del Primo Mondo. In ogni caso la povertà sembrava essere diventata, nei trenta gloriosi anni dopo il secondo dopoguerra, un problema residuale47, episodico, circoscritto a determinate zone e che l’inclusione economica e sociale fosse non solo compatibile con lo sviluppo, ma perfino in grado di promuoverlo. Era il tempo dell’atteggiamento non più difensivo verso i poveri, quando ci si riteneva doverosamente impegnati a promuovere dispositivi di assorbimento in nome dei diritti sociali e più universalmente dei diritti dell’uomo. Ma i fatti sono andati diversamente da come progettava l’universalismo giuridico. Al contrario, con la crisi progressiva del Welfare si mettono in evidenza «circoli viziosi» di povertà e dequalificazione sociale, e riaffiora prepotentemente il pauperismo, che esce dai cardini di controllo biopolitico cui eravamo abituati, mostrando spudoratamente le sue piaghe, non più viste come temporanee. La grande esplosione globale del capitalismo è includente/escludente secondo la più classica logica biopolitica di connessione di vita e morte e esibisce, nell’esclusione, la vulnerabilità economica direttamente sui corpi degli emarginati. 141 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Una densità percepibile della povertà, come da tempo non si vedeva. Significa che ci sono nuove parole biopolitiche che gettano un fascio di luce su corpi viventi e non su soggetti di diritti o consumatori mancati. Appunto quel qualcosa di denso – la fame, il freddo, il disagio, la malattia – che certamente è implicato da sempre nel discorso dell’economia mondiale, la quale però, essendo gestione del superfluo, del di più di vita, lascia fuori dal proprio elegante ragionamento la sussistenza, la sopravvivenza, i crampi di fame e di freddo. Li lasciava come compito biopolitico al governo: al governo delle popolazioni era attribuita la gestione dell’alimentazione, dei mezzi di sopravvivenza, del lavoro, dell’acqua, delle case, dell’ambiente, delle forze fisiche e della loro usura. Ma questa densità oscura, oggi, scivola fuori dal governo politico ed è ignorata da quello economico, assumendo, nella prospettiva globale, una deriva di ingovernabilità. Alla frammentazione dei flussi di poteri risponde quindi una frammentazione delle vite, delle soggettivazioni, delle posizioni dei perdenti, anche quelle tradizionalmente individuabili, assolutamente inaudita: vite che sono lo scarto, il residuo, il rifiuto di un processo produttivo48. Se, nello scambio che salda il debito, si valuta, si apprezza la vita, se le si dà un prezzo, è ovvio che rimangono, non richieste da nessuno, vite che non valgono, che non interessano. Ovviamente a questo sfaldamento ha contribuito l’indebolimento, quando non la dissoluzione del Welfare che, secondo il modello biopolitico più tradizionale, strutturava e catalogava ruoli, esigenze, aspettative, organizzando burocraticamente (e lessicalmente) bisogni, dipendenze, eventualmente diritti. All’indiscusso credo neoliberista e al tramonto sempre più rassegnato del Welfare corrisponde, al di là dell’incertezza degli status, e al di là della moltiplicazione dei ruoli flessibili, anche una biologizzazione fortissima e inquietante delle sofferenze, dei disagi, delle povertà. 6. Carità e mercato: gli esclusi Si indebolisce la mediazione dei diritti e sui poveri gli sguardi, le cure, le opere di assistenza – in una parola poteri, poteri solleciti, ma poteri – hanno ora presa diretta. Il saldo del debito, dunque non riesce pienamente: il debito rimane. Sta sotto gli occhi, impudicamente, e al suo scandalo rispon142 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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de lo scandalo di un’azione gratuita, fuori mercato. Volontariamente (ma ci sono azioni involontarie?) qualcuno si sacrifica senza guadagno, senza un utile futuro. La volontà, la volontarietà, che aveva pilotato il desiderio nel mercato degli interessi, cessa di essere la risposta alla necessità del proprio desiderio e assume il sacrificio gratuito, la dèpense, il disagio del lavoro disutile, non per sé, ma per i poveri. La volontà ripristina il contatto che Walras temeva: tocca, riscalda, nutre, si coinvolge. Se la bioeconomia è caduta delle mediazioni nell’esercizio del potere economico, l’appassionata risposta dei gesti volontari oblativi di assistenza, di cura, cerca quegli stessi tratti di immediatezza. Questi gesti sono lavoro con eccedenza: eccedenza di senso, eccedenza di affetti, di tempo, di misura, di soggettività coinvolta. Non saldo, ma eccedenza. Si danno appunto continue, enfatiche esperienze di accesso all’attività di cura – dirette, caritative, coinvolgenti e sconvolgenti – che ripropongono così nuove e più dirette dipendenze, nuove dinamiche di potere assai complesse. Viene annullato cioè quello sdoppiamento (formalizzante, burocratico, ma anche spesso salvifico, nella sua impersonalità) tipico del soggetto moderno, che mostra la maschera, la persona, e mantiene il segreto sul suo privato: riceve il sussidio, la cura, l’assistenza, ma non entra in contatto con l’anonima burocrazia che gliela eroga, ricevendola come diritto49. Ai molti difetti di questo assistenzialismo anonimo, che genera stigma, dipendenze e passività – che è economicamente disfunzionale, che assume tratti paternalistici a dispetto dei diritti sociali e che seleziona, cataloga, e inchioda in quelle catalogazioni – fa fronte la biopolitica diffusione del volontariato e delle miriadi di ambivalenti organizzazioni del non profit, tutte centrate sulla personalizzazione degli aiuti, sulla prossimità, sul rapporto faccia a faccia, sul calore affettivo delle parole, ma anche sulle raccomandazioni di vita buona, le famose «verità» che, come sappiamo dalla geniale analisi foucaultiana, accompagnano l’auctoritas di chi governa i più deboli e li serve, servando, cioè conservando, salvando, la buona condotta. Comunità del cuore sacro, che rinascono colmando il vuoto della fredda estraneità dello sportello burocratico e che chiedono di impegnare la vita intera dei partecipanti: caduta delle mediazioni, caduta delle riserve, cuori in mano. Anche questo agire, d’altra parte, satura un desiderio, un vuoto: sembra di intravvedere il sardonico sorriso di un Mises, che assicu143 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ra che taluni conseguono il proprio utile, soddisfano il proprio desiderio alleviando le miserie degli altri. Ma la complessità contraddittoria del dono è ben nota50. Resta il fatto che quei gesti appartengono a soggetti attivi, che, in modo inedito, scegliendo direzionalità diseconomiche del proprio flusso di potere, si aprono concretamente agli altri: accolgono, dentro il proprio tempo, il tempo di coloro di cui si prendono cura. Sono disponibili, flessibili, aperti a una relazione che talvolta riesce ad essere solidale, in solidum, saldando il destino dell’altro al proprio destino, vivendo il debito, il munus della reciproca dipendenza: eccedenza di senso. Ma le riflessioni antropofilosofiche che, facendo perno sul dono, hanno tentato di ripristinare una forma di filosofia sociale o di filosofia della comunità – la quale, conservando la singolarità, si aprisse all’Altro, donando –, hanno dovuto muoversi con cautela e leggerezza, attraverso formule paradossali e ossimori, affinchè quel dare escludesse ogni appropriazione, quasi ritraendosi per lasciar essere l’ospite, svuotandosi per lasciar vibrare la voce dell’Altro, la sua domanda. Se Jacques Derrida coglie in questo ritrarsi, abdicare, la natura esposta, recettiva, sensibile e vulnerabile del soggetto, è necessario che il suo agire ospitale verso lo straniero, il dissimile, sia un non-agire, un non-volere, non dunque un atto di potenza, ma di eteronomia51. Che è quanto potrebbe essere, ma non è. Non è almeno allo sguardo della biopolitica dell’economia, che non può che attraversare la relazione tra soggetti, veicolata da regimi di veridizione, illuminandovi le traiettorie dell’agire-potere – magari buono – ma pur sempre potere. La bioeconomia non vede la in-azione, l’in-operosità; si ferma al livello dei gesti, delle influenze, delle opere. Quello che vede è un soggetto vivente, desiderante che non regge la mancanzaa-essere, il desiderio dell’Altro e lo satura con il gesto, con l’atto caritativo e con l’esazione della gratitudine: un soggetto che vuole (è il volontario) e fa, opera52. Il mercato infatti indovina il desiderio e riconsegna il bios all’economico, riacciuffa lo spontaneismo delle relazioni affettive naturalizzate, per riconsegnarlo ai dispositivi del mercato che tiene sotto controllo l’eccesso, l’eccedenza, il disordine. Si sommano così i poteri della bioeconomia con i poteri della biopolitica sociale, della cura. La modalità di questa rinata assistenza caritativa, ovviamente preziosa per sopperire alle nuove sofferenze e alle nuove solitudini 144 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dei poveri – ma anche dei ricchi –, ripropone ai margini del mercato (ma con un piede dentro), fuori dal profitto, ma con un risvolto economico forte quanto ambiguo, relazioni di potere assolutamente biopolitiche, perché assolutamente spoliticizzate (se pensiamo la politica nei termini del lungo faticoso cammino delle forme e delle mediazioni moderne)53. L’economia delle organizzazioni del non profit esprime appieno il paradosso dell’economico con assenza di lucro e del modello pastorale insieme, contaminando il gesto prossemico, oblativo, con il calcolo più adeguato delle possibilità di finanziamento, delle ricadute etico-economiche di immagine dell’azione solidale (si pensi a banche e fondazioni), del lavoro dei volontari tra disoccupazione e sottoccupazione o sottosalario, ma produttivo, competitivo. E infine copre, con l’emozione vitale, la corrente di potere che passa da un polo all’altro: e nel dire questo, non intendo che il potere sia solo da parte di chi dona, di chi dà, ma anche, e talvolta crudamente, da parte di chi prende, da chi dipende e, nell’assoluta povertà, ritorce in ricatto la vita che riceve. Nessun cinismo verso questo oceano di buone azioni volontarie e solidali, che evidentemente rispondono ad un grande, muto appello alla comunità perduta, che non vogliono tagliare il nodo della solidarietà, del debito, ma al contrario vogliono restarvi implicate. Ciò che importa qui è vederne l’aspetto sempre meno «politico e economico» in senso moderno e invece l’ambivalenza postmodernapremoderna, biopolitica e bioeconomica, del dare pane, vita, del salvare esercitando potere, dell’organizzare le vite economicamente deboli, in modo politicamente e economicamente poco trasparente, lasciando inevitabilmente fuori della sopravvivenza alcuni, quelli che sono lasciati morire, gli esclusi. Ancora una volta il bando si rivela la modalità di potere del governo della vita, bando che passa, questa volta, non attraverso le taglienti decisioni della politica, ma attraverso la imprevedibile casualità del bioeconomico. Ad ogni gesto di cura diretto, casuale, imprevisto, corrisponde il divenir visibile dei corpi singolari nella loro sofferenza. Appaiono e vengono esibiti – al nobile fine di mobilitare la generosità delle donazioni – le carni singolari, i cuori sanguinanti e sofferenti: ecco! ci sono i poveri e si può dare loro qualcosa. Ci saranno sempre i poveri e sono altro da noi, che li aiutiamo generosamente, li aiutiamo e li escludiamo. Si tratta, in verità di un doppio livello di esclusione: ci sono le folle tragiche e macilente dei villaggi africani dopo le guerre intestine, 145 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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i grappoli di bambini nelle favelas sconfinate ai margini delle grandi metropoli sudamericane o indiane, le masse di individui permanentemente respinti dal mercato del lavoro, per i quali non è credibile alcuna ipotesi di riassorbimento, le folle anonime degli esclusi definitivamente, che non avranno che briciole ad ogni ondata di carità collettiva e il cui destino è il bando che li lascia morire. Ad essi si affianca una esclusione inclusiva postmoderna e a sua volta diversa da quella che praticava la moderna cittadinanza includente/escludente: qui la povertà è inclusa come marginalità, e gli esclusi delimitano lo spazio di quelli che possono aiutarli, premono su di esso quasi in un corpo a corpo. Premono su quell’operare caritativo per luoghi, per chiazze di spazi, a sprazzi, discontinuo e emotivo come discontinua e emotiva è la carità concreta, affettiva, vera e informe che solidarizza con loro. In quello spazio frammentato entrano e escono soggetti nuovi, madri separate con figli, anziani soli, giovani prima del lavoro, ma anche tossicodipendenti, immigrati clandestini: nuove povertà e nuovi rischi di povertà54. Perse le distinzioni e gli status, abbiamo una povertà multidimensionale e cumulativa. C’è una fitta rete di disagi in cui soggetti diversi per sesso, età, capacità di accesso si trovano impigliati in punti diversi. Si snodano percorsi, biografie, che portano i soggetti alla deriva collocandoli a fianco, al bordo della società commerciale. La povertà diventa un termine che, mostrando come economia e vita siano oggi indisgiungibili, designa un complesso percorso di vita, non uno status economico: sono vite fragili, dipendenti, sole, disaffiliate55. Questi disagi che rendono fragili si formano esattamente nel luogo di intersezione biopolitica tra dinamiche economiche e demografiche, trasformazioni di cicli di vita delle persone e delle famiglie, cambiamenti degli stili di vita e dei consumi personali, cambiamenti che le politiche sociali non sanno regolare e dunque lasciano a se stessi. L’analisi dei modi in cui oggi si genera e si produce la povertà economica, interagendo con altri disagi, evidenzia questo incastro di processi biologici, antropologici, economici e di poteri che non li attraversano, gettandoli fuori dai consumi, dagli investimenti, dall’incrementazione, dal potenziamento, fuori dalla presa bioeconomica. Ovvia la connessione con la disoccupazione, ma con un di più, un aggravio dovuto all’impossibile accesso, non per motivi formali, ad altri diritti. Si espandono i «cattivi lavori» che offrono scarse possibilità di formazione e addestramento per un futuro inseri146 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mento lavorativo, salari inadeguati, mentre il residuo di strategie per fronteggiare la povertà (lavoro nero, status di disoccupazione come accesso alle politiche pubbliche) tiene prigionieri i poveri nella loro posizione: l’economia preme sulla vita. Ma lo stesso allungamento della vita, perseguito accanitamente, e la crescente infertilità aggravano lo status economico: in questo caso è la vita che preme sull’economia. C’è dunque una generale vulnerabilità economica, che permea trasversalmente comportamenti e corpi individuali. La povertà/marginalità è caratterizzata dal fatto paradossale (tipico di uno spazio globale formalmente sottoposto ai diritti umani) per cui si appartiene di diritto ad una categoria giuridicamente protetta e, al tempo stesso, si è esclusi dalle decisioni e dal godimento delle risorse, nonché dalle garanzie assicurate alla maggioranza della società, esclusi dai processi fondamentali di un sistema sociale: produttivo, decisionale, distributivo. È come se l’invisibile discrimine tra dentro e fuori del mercato, e dunque della vita protetta, passasse per altro punto da quello segnato dalle forme giuridiche e divenisse, per il povero, l’invalicabile confine verso l’accesso, l’uso, la fruibilità dei diritti formalmente posseduti. C’è qualcosa di diverso, di più destinale nella attuale povertà, non solo nella sua forma disperata di definitiva esclusione, ma anche in quella, marginale, temporanea, che è permeata da condotte adattivo-funzionali, che passivamente accedono a qualcuna delle fonti distributive assistenziali, ma non hanno più pensieri e parole per dire un ordine diverso coerente. Se la povertà è tipica del moderno e ne contraddice la dinamica evolutiva, mostrandone le disfunzioni, solo oggi viene percepita come parte permanente dell’assetto bioeconomico della vita. Non che non si levino deplorazioni, appelli, enunciati e programmi, ma poiché l’inclusione nel processo produttivo come produttore e consumatore è ormai conditio sine qua non, sembra inevitabile che ci siano vite sprovviste di capacità coerenti al sistema e omogenee al suo funzionamento, vite verso le quali è possibile solo un governo oblativo. Con un sottinteso di razzismo biologico. L’aiuto volontario, in luogo dell’azione politica, ha per scopo minimale e unico la vita: l’indigenza non vi appare nella sua caratteristica economica e formale di reddito insufficiente alla sussistenza o di potenziale forza lavoro a buon mercato. Quelle che un tempo sarebbero state chiamate le opere di misericordia corporale – novello 147 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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governo pastorale sul povero e sul suo corpo anonimo – riscoprono e ripropongono tratti arcaici e dimenticati dal mercato, che, a sua volta, come abbiamo visto, rivela tracce di antichi riti. Biopolitico è il corpo impersonale (avrebbe detto Simone Weil: dunque, sacro) del sofferente, impersonale e generico come il genere umano cui appartiene anonimamente, di cui condivide la fame, la sete, il freddo: niente di singolare e di proprio, anche se tutto avvertito su quel proprio corpo vile. A fronte del flusso inarrestabile di beni superflui che si producono per essere distrutti in un novello, tetro potlac, la povertà ripropone, anche nei nostri spazi occidentali, la soglia rimossa della necessità, della sussistenza, per cui ne va della vita. E sollecita condotte di dono, di cura, gratuite – condotte non subordinate alla necessità, che offrono dunque un surplus del reddito, un surplus del tempo – con tutta l’ambivalenza di questo «servizio», che, in un universo come il nostro, ha comunque un valore di mercato, un risvolto economico, un potere politico. Parlare di povertà, anziché di diritti, significa biologizzare, psicologizzare e personalizzare coloro verso cui si avanza un atteggiamento difensivo/oblativo. Aiutare i poveri significa svolgere una funzione economica di assoluta ineconomicità, escluderli includendoli, includerli, ma ai margini, vivi ma quasi morti, e implica un declassamento dei soggetti che, come Foucault ci insegna, precede la povertà stessa: poveri si diventa quando si viene classificati tali e soccorsi56. Infatti è meglio ricordare che non è la mancanza, la necessità che crea il povero, ma la costruzione biopolitica, il regime di veridizione economica che assume l’ordine esistente come naturale e destinale e ha un obiettivo conservativo, di status quo, per cui l’aiuto, sia esso caritativo sia più organizzato, tende ad avere contenuto generico. Riconosce solo i bisogni essenziali, vitali, le esigenze generiche considerate come universali, esigenze generiche di sopravvivenza comuni a tutta la popolazione57. E queste osservazioni ci spingono a riflettere, per inciso, sulla funzione sempre più importante, ma sempre meno politica in senso moderno, sempre più biopolitica, che hanno i cosiddetti diritti umani. Essi si concentrano sul primato del diritto di vita, che sembra attestarsi sulla soglia di sopravvivenza, di garanzia della vita biologica e sembra trovare, in questa assoluta genericità biologica, un rinnovato legame dell’intera specie umana vivente e senziente, per tanti 148 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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versi divisa e conflittuale. La grande diffusione delle pratiche caritative e oblative, focalizzate su bisogni generici e essenziali, evidenzia oggi, in una crisi profonda della costruzioni cosmopolitiche e cosmogiuridiche, il rovescio morale, oblativo, appunto, della grande sfera bioeconomica del mercato e dei suoi poteri istituzionalizzati e strutturati. Come un’onda, la carità si solleva oltre la cortina dell’esclusione e avvolge i reietti, nutre, cura, reca sollievo agli esclusi, mantenendo in vita la loro umanità vivente, che l’assetto di poteri economici respinge: niente a che vedere con quanto chiamavamo politica. 7. Alla fine... In questo saggio la parola tante volte ripetuta bios, vita, dice i bisogni e i desideri. E l’eudaimonia l’appagamento, il godimento. La mancanza e la pienezza, l’inquietudine e la quiete, la tensione e la soddisfazione, l’inizio e la fine, la deterritorializzazione e il territorio, il peregrinare e la casa, l’oikos. Appartiene tutto a questo orizzonte di senso che chiamiamo vita. Orizzonte sensibile corporeo, contingente, che nasce e che muore. L’economia conosce questo orizzonte, sta al suo interno e percorre lo spazio in esso racchiuso con forme, regole, nomoi che lo strutturano. Così la parola bios non significa più niente, viene accantonata o al più evocata ideologicamente, e lo spazio che essa copriva assume le determinazioni che il regime di veridizione economico le dà: preferenze, interessi, obiettivi, costi e vantaggi, utile e disutile, necessità, ti do e tu mi dai. E i flussi di potere si orientano su queste coordinate. Forse l’ordine economico nasce per la paura che il pungolo dei bisogni e il disordine dei desideri generi un incessante conflitto: nasce forse dallo stesso problema che origina la politica. Così per contenuto della relazione sociale la produzione e distribuzione delle risorse vitali. A questo problema risponde evitando di guardare negli occhi la gorgona dei desideri: indirizzando lo sguardo, invece, alla trama immanente delle transazioni e degli scambi, che dovrebbero generare dal disordine l’ordine. Il presupposto è, dunque, che siano originari e ontologici i desideri, le pulsioni e le aspettative tra uomini e il mercato sia un modo con cui queste istanze di vita si compongono. L’economia e il mercato, modalità in continua trasformazione, sono dopo la vita, ef149 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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fetto delle relazioni di potere che assumono questa modalità di organizzazione. Come sosteneva Karl Polanyi, solo ad un certo punto della storia l’economia giunge a generare rapporti sociali58. Ma probabilmente, e qui ci discostiamo dal riduzionismo neomarxista, la logica del bios è ricorsiva e l’originario si perde in una spirale di condizionamenti che vengono a loro volta condizionati. Le forme dell’economia oggi condizionano e forniscono il loro linguaggio ai desideri e alle aspettative, e questi, a loro volta, modificano la realtà economica e danno uno spessore simbolico eccedente a quel sistema, apparentemente lineare, che è il mercato. Il regime di sapere/potere economico sembra oggi promettere che così, senza politica o con un minimo di politica, tutti i flussi di potere si compenseranno, tutti i desideri troveranno appagamento: un pagamento, cioè, un costo adeguato per un desiderio soddisfatto. In un modo o nell’altro i conti saranno pari; non ci saranno imprevisti, eccedenze di potere e di senso, linguaggi che non si capiscono nella babele delle culture. L’ordine economico è un gioco a somma zero: si chiude sempre in pari, perché ciò che qualcuno perde l’altro guadagna e il complesso è paritario. Ma il regime di veridizione economico è solo uno dei regimi di discorso che strutturano quell’intrattabile orizzonte di senso, o non senso, che è il bios. Altre possibili prospettive di sapere e di potere, magari più deboli, più locali, raccontano la cosa e, rappresentandola in modo diverso, la cambiano. Così, per esempio, l’esclusione di un terzo dei viventi dal gioco – esclusione che fa parte della messa in scena ed è funzionale all’inclusività e al suo mantenimento – può essere vissuta e narrata con altre parole. Gli esclusi possono cercare, e infatti cercano, parole diverse per raccontare di sé in modo tale da non essere sempre gli ultimi. Se, per esempio, il loro muthos, il loro racconto fondativo, si fa identitario, recuperando le storie dell’orgoglio e della vendetta, o quelle segrete dell’invidia e dell’odio, il loro potere economicamente debole può tramutarsi in pressione politica, ideologica, può dar vita a un potere più forte o più rancoroso, più risentito, che non teme di servirsi strumentalmente di danaro, di banche e razionalità strategiche. La violenza del nuovo terrorismo fa leva sulla questione identitaria, ma penetra nelle strutture economiche, le utilizza, le devasta dall’interno; il mercato, l’ordine occidentale esaltato dalla globalizzazione mostra allora, in modo imprevedibile, la sua debolezza, probabilmente perché la sua autorappresen150 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tazione occultava, attraverso il saldo-del-debito, le dinamiche di violenza, di passionalità mimetica, di invidia di chi ha meno potere. E, in un altro registro, nel confuso e fusionale gesto-di-carità, che non si sottrae al debito e lo vede rinascere sempre, che dunque non crede al conto saldato, anche lì, dunque, ci sono tracce di comportamenti contaminati dal linguaggio economico: ma non economici, anche se non politici. Fare posto alla politica significa lasciar essere i linguaggi diversi che stanno dentro la regola economica del gioco, e che usano l’idioma dello scambio economico, perché non riescono a dire altrimenti desideri, bisogni, passioni. Bisogna lasciare che raccontino il bios dei bisogni e le speranze del desiderio, lasciare che trovino spazio perché il non detto, la conflittualità e l’invidia da una parte, l’imitazione e il bisogno di appartenenza dall’altra, possano trovare altri aggiustamenti. Per fare politica in un’epoca bioeconomica, bisogna anche stare attenti a non spostare in domini altri – ideologici, religiosi, identitari – la fame, il risentimento, il desiderio di oikos, che sono corporei ed economici. E ancora, politico è scomporre il presunto immanentismo dei desideri, scorgere al suo interno dinamiche che – come già avevano intuito Smith o Tocqueville – ne fanno una corrente di relazione con gli altri: affettiva, contraddittoria, non amorosa, non fusionista. Corrente di socialità cui forse sarebbe bene dare risposta per quello che è, senza annegarla in un mare di cose e di rifiuti che divorano la terra; corrente di interdipendenza, forse addirittura di solidarietà per un destino, un corpo, un desiderio così comune. E poi fare politica, in questo immenso mercato, significa procedere al riconoscimento della diffusione o socializzazione dei poteri. E questo, nella economicizzazione delle relazioni, significa riconoscere una pluralità di nuovi e potenti attori politici – individui, gruppi, associazioni –, i quali rivendicano la propria influenza sulle molteplici razionalità biopolitiche che governano le scelte riguardanti i propri corpi e le proprie vite. È necessario riconoscere, per prendere posizione. Se la biopolitica economica è imperniata sul governo delle potenzialità – su quella forbice che si apre tra ciò che pensiamo ci sia dato e il di più di vita che un qualche regime di verità, o meglio, numerosi e discordanti regimi di verità, individuano in quel dato stesso –, allora il primo passo è interrogarci su quali sono le razionalità 151 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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bioeconomiche e quali i poteri sottesi alle influenze che governano le opzioni di valore. Il primo passo è riconoscere le dipendenze, ma anche riconoscerne la complessità, la relatività, l’emergere di contingenze inedite. Non si deve cedere al fascino dell’immanenza, perché l’immanenza – l’essere, il bios – ha una logica ritorta, ricorsiva, di cui è impossibile individuare l’inizio, perché ogni potere che ci struttura è esso stesso complesso, contingente e imprevedibile, come ogni nostra replica, mai identica, di ciò che riteniamo vero. In quello scarto di ripetizione differente, in quella forbice di potenzialità, si fa posto, tra gli altri, anche al nostro potere.

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Note

Introduzione 1 L. von Mises, L’azione umana, selezione antologica a cura di G. Vestuti, in Il realismo politico di L. von Mises e F. von Hayek, Giuffrè, Milano 1989, p. 33 (ed. or., Human Action. A Treatise on Economics, New Haven 1949; trad. it., L’azione umana, Utet, Torino 1959). 2 M. Cacciari, L’arcipelago, Adelphi, Torino 1997, p. 24. 3 «Forza sradicante dell’eros àoikos» (ivi, p. 71). 4 G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002, p. 253. 5 F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), vol. I. Le strutture del quotidiano (1979), Einaudi, Torino 1982, p. 381. 6 Mises, L’azione umana, cit., pp. 36-37.

Capitolo primo Mi si permetta di rinviare a L. Bazzicalupo, Biopolitica, in Enciclopedia del pensiero politico, a cura di R. Esposito e C. Galli, Laterza, Roma-Bari 2005; e Id., Biopolitiche, in «Filosofia e questioni pubbliche», 1, 2005, pp. 147-171; cfr. anche Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, a cura di A. Cutro, Ombre Corte, Verona 2005. 2 Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995; Id., Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Pur riconoscendo il volto tanatologico della biopolitica, non si può ridurre a questo filone l’originale interpretazione in chiave immunitaria che del paradigma propone R. Esposito, prima in Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, poi in Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, dove, attraverso una interrogazione lucida e intensa dell’uso mortifero che il totalitarismo ne ha compiuto, la categoria di biopolitica emerge come chiave di volta di tutti i fenomeni politici oggi più significativi e si dispone a una inedita riconversione affermativa. 3 In questa chiave cfr. A. Negri, M. Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2002; Eid., Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004. 4 Esposito, Bios, cit., pp. 135 sgg.; S. Forti, Biopolitica delle anime, in «Filosofia politica», XVII, 2003, 3, pp. 397-418. 1

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5 Nella sola California tra il 1909 e il 1921 sono state emesse 2558 sentenze di sterilizzazione. 6 L. Paggi, La democrazia nel Novecento. Un campo di tensione, relaz. al Convegno Sissco, Siena, 9-10 nov. 2000. 7 T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1950), Laterza, Roma-Bari 2002. 8 M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di P.G. Jaeger e F. Volpi, Adelphi, Milano 2002. 9 Esposito, Bios, cit., cfr. la parte V, dove le categorie stesse della tanatopolitica nazista si rovesciano in potenzialità affermativa. 10 Paggi, La democrazia nel Novecento, cit. 11 Cfr. H. Arendt, Vita activa (1958), Bompiani, Milano 1984, p. 82. 12 E.O. Wilson, Sociobiologia. La nuova sintesi (1975), Zanichelli, Bologna 1979, p. 4. 13 In chiave critica, P. Rabinow, Artificiality and Enlightenment: from sociobiology to biosociology, in Id., Essays on the Anthropology of reason, Princeton University Press, Princeton 1996; ma sull’alternativa bioculturale ai modelli geneticisti e sui sistemi autopoietici cfr. H. Maturana, F. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente (1980), Marsilio, Venezia 1985, e L. Gallino, L’incerta alleanza. Modelli di relazioni tra scienze umane e scienze naturali, Einaudi, Torino 1992. 14 Sul tema cfr. la rassegna C.E. Taylor, M.T. Mc Guire, Reciprocal Altruism: 15 years later, in «Ethology and Sociobiology», IX, 1988, pp. 67-72. 15 R. Dawkins, Il gene egoista (1976), Zanichelli, Bologna 1980. 16 Tra le numerosissime opere di E. Morin cfr. Introduzione ad una politica dell’uomo (1965), Meltemi, Roma 2001, e Id., Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana (1973), Feltrinelli, Milano 2001. Oggi la ripresa del tema biopolitico avviene spesso in questa chiave di progressismo riformista e di valutazione etica e biocompatibile dello sviluppo economico: questo il senso del termine Bioeconomia nella raccolta omonima di N. Georgescu-Roegen, Bollati Boringhieri, Torino 2004. Alla prospettiva di Morin è possibile, a mio avviso, accostare con i dovuti distinguo la attuale rivalutazione del bios come della communitas da parte dell’associazionismo cristiano-solidaristico, che interpreta nel senso attivo di etica della cura la centralità cristiana del diritto alla vita: cfr. il gruppo di associazioni che fa capo al Comitato editoriale di «Vita», la rivista «Communitas», gli interventi sul tema di S. Zamagni, di A. Bonomi, di R. Bonacina. Ritorneremo sul tema nell’ultimo capitolo. 17 A. Birré, Introduction a «Cahiers de la biopolitique», I, 1968, 2, p. 4. 18 A. Somit (a cura di), Biology and Politics. Recent explorations. Moutons, The Hague-Paris 1976; sempre a cura di A. Somit (con S.A. Peterson) è stato pubblicato Research in Biopolitics, Jai Press, Greenwich (Conn.), voll. 1-8, 1991-2001. 19 P. Rabinow, Essays on the Anthropology of reason, cit.; N. Rose, Medicine, history and the present, in C. Jones, R. Porter (a cura di), Reassessing Foucault: power, medicine and the body, Routledge, London 1994; Id., La politica della vita stessa, in «aut-aut», 298, 2000, pp. 35-61; I. Stengers, Scienze e poteri. Bisogna averne paura? (1998), Bollati Boringhieri, Torino 1998. 20 O. von Verschuer, Leitfaden der Rassenhygiene, Thieme, Leipzig 1941; su questi testi vedi il bel saggio di Forti, Biopolitica delle anime, cit., che individua la tensione tra idealità e fattualità nel presunto immanentismo nazista. 21 Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978; Id., Bisogna difendere la società (1976), Feltrinelli, Milano 1998; Id., Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-78, Gallimard-Seuil, Paris 2004; Id.,

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Naissance de la Biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-79, Gallimard-Seuil, Paris 2004. 22 M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, postfazione a H. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze, 1989, p. 249. 23 Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 99. 24 Cfr. O. Marzocca, La stagione del potere come guerra, in Id. (a cura di), Moltiplicare Foucault, Mimesis, Milano 2004, pp. 61-84. 25 Foucault, Sécurité territoire, population, cit., p. 167. 26 Foucault non riconduce la metafora smithiana della «mano invisibile» all’ottimismo, ma di quella mano sottolinea il carattere di invisibilità che rende gli agenti ciechi di fronte alla totalità e al bene e perciò liberi (cfr. Naissance de la Biopolitique, cit., pp. 282 sgg.). Osservazioni interessanti sull’ordine complesso e autogenerativo in J.P. Dupuy, Il sacrificio e l’invidia. Liberalismo e giustizia sociale (1992), Ecig, Genova 1997: in particolare su Smith, pp. 75 sgg. 27 Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 21. 28 Ivi, p. 39. 29 Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 124-25. 30 Foucault, Bisogna difendere la società, cit. p. 51. 31 Ivi, p. 212. 32 Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 3. 33 Ivi, p. 99. 34 Stupisce che Foucault, mentre coglie il dispositivo razzista del nazionalismo moderno e l’orizzonte biopolitico della democrazia, dedichi scarsa attenzione, in questo come in altri testi, all’evidente natura biopolitica del socialismo, che spinge in direzione della deformalizzazione della politica liberale sottolineando la centralità delle strutture economiche e la irriducibilità dei bisogni. Si direbbe che l’autore ignori addirittura la categoria biopolitica chiave di bisogno, e dunque non metta a fuoco le intuizioni biopolitiche del socialismo: il ruolo fondativo delle relazioni sociali svolto dal lavoro materiale, la sua funzione pedagogica, la costruzione economico-politica delle nuove soggettivazioni. Eppure l’intreccio, nel socialismo reale, di tanatopolitica e gestione economica welfarista era di sicura pertinenza. 35 Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 70. 36 P.P. Portinaro, Crescita, in Id. (a cura di), I concetti del male, Einaudi, Torino 2002, pp. 68-80. 37 Arendt, Vita activa, cit., p. 99. La temporalità processuale e infinita del lavoro ha fagocitato la signoria dell’homo faber sul tempo e sulle cose: «la manifattura che era sempre stata una serie di passi separati è diventata un processo continuo» (p. 106). 38 E. Canetti, Massa e potere (1960), Adelphi, Milano 1981, p. 129 e pp. 22829: «La hybris della produzione risale alla muta di accrescimento». 39 Cfr. le finissime osservazioni di S. Forti, Banalità del male, in Portinaro, I concetti del male, cit., pp. 30-52, in particolare pp. 39-42. 40 Cfr. L. Bazzicalupo, Governo della vita. Il corpo come oggetto e soggetto politico, in «Ragion pratica», 22, 2004, pp. 273-302. 41 G. Deleuze, Poscritto sulle società di controllo, in Id., Pourparler (1990), Quodlibet, Macerata 2000, pp. 234-41. 42 Cfr. L. Walras, Elementi di economia politica pura (1874), Utet, Torino 1974: in questo classico, è cruciale per la coerenza del modello l’ipotesi di esteriorizza-

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zione e non manipolazione dei prezzi. Cfr. anche A. Schotter, Why take a game theoretical approach to economics? Istitutions, economics, and game theory, in «Économie appliquée», 36, 1983. 43 Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 174.

Capitolo secondo 1 F. Galiani, Della moneta (1751), in Id., Opera, a cura di F. Diaz e L. Guerci, Ricciardi, Milano-Napoli 1975; cfr. l’antologia I Fisiocratici, a cura di B. Miglio, Laterza, Roma-Bari 2001; le prassi economiche nella loro empirica fattualità emergono in modo utilissimo dal racconto di F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII) (1979), Einaudi, Torino 1981-82, nei tre voll., Le strutture del quotidiano, I giochi dello scambio, I tempi del mondo: in essi i riferimenti agli economisti preclassici si confrontano direttamente con le emergenze fenomeniche da cui nascevano le loro osservazioni. Sui preclassici cfr. l’acuta analisi di J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica (1955), 3 voll., Bollati Boringhieri, Torino 1990. 2 Braudel, I giochi dello scambio, cit., p. 580. 3 Ivi, p. 107 (colporteur è il mercante che porta al collo e sulle spalle le sue mercanzie, colmando le lacune della normale rete di distribuzione). 4 Ivi, p. 604. 5 F.A. von Hayek, L’abuso della ragione (1952), Vallecchi, Firenze 1967, pp. 262-63. 6 L. Dumont, Homo aequalis. Genesi e trionfo dell’ideologia economica (1977), Adelphi, Milano 1984, p. 45: la ormai classica interpretazione di Dumont sostiene che la scientificità dell’economia poggi sulla sua emancipazione tanto dalla politica che dalla morale. Esiste, a suo avviso, una specifica morale (e dunque normatività) dell’economia cui si perviene attraverso il postulato del self love dell’individuo e dell’armonia automatica degli interessi: il che implica l’emancipazione della sfera economica e la sua opposizione alla sfera dei sentimenti morali. Forse le cose possono leggersi in modo più complesso. 7 Cfr. le interessanti osservazioni di A. Zanini, Filosofia economica. Fondamenti economici e categorie politiche, Bollati Boringhieri, Torino 2005. 8 G. Deleuze, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume (1973), Cronopio, Napoli 2000, p. 107. 9 D. Hume, Trattato sulla natura umana (1739), in Opere, a cura di E. Lecaldano e E. Mistretta, vol. I, Laterza, Bari 1971, p. 301. Quello di Hume è un soggetto pratico che risulta soggetto proprio nella prassi e «i cui fini sono tutti di ordine passionale, morale, politico, economico»: così Deleuze, Empirismo e soggettività, cit., pp. 159-60. 10 Deleuze, Empirismo e soggettività, cit., pp. 107-8. Una forma di precaria, fragile libertà emancipa il soggetto da quanto lo influenza: «il soggetto inventa, è artificioso. Tale è la duplice potenza della soggettività: creare, inventare» (p. 108). 11 D. Hume, Ricerca sui principi della morale (1751), in Opere, cit., vol. II, p. 306. 12 Da tempo risolta la questione dell’opera smithiana (The Works and correspondence of Adam Smith, Oxford University Press, Oxford 1976-1983, 6 voll.): Teoria dei sentimenti morali (1759) (trad. it., Rizzoli, Milano 1995) e Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) (trad. it., Isedi, Milano 1973)

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sono complementari e la seconda delinea un settore specifico di attività. Il principio della simpatia non va confuso con la benevolenza, ma non le è estraneo, perché ne è una modalità che si articola attraverso l’immedesimazione (come notano i lettori letterari di Smith, che lo inseriscono negli studi sul teatro: cfr. D. Marshall, Adam Smith and the theatricality of moral sentiments, in «Critical Inquiry», 10, 4, 1984, pp. 592-613). L’immedesimazione rivela che il desiderio di distinzione motiva la corsa al prestigio, ma è anche principio di opposizione e di guerra. 13 Come A.O. Hirschman (Le passioni e gli interessi [1977], Feltrinelli, Milano 1979) aveva bene inteso, in Smith c’è un legame di derivazione tra sentimenti morali e interessi, ma mentre per l’economista tedesco questo implica il riduzionismo smithiano della morale ad interesse (il che renderebbe scientificizzabile l’economia), in realtà la passione della simpatia maschera la separazione, la parzialità degli individui: noi ci mettiamo al posto degli altri, ma non all’interno della nobile mentalità allargata kantiana, nella prospettiva di un insuccesso inevitabile. L’ambiguità dei sentimenti economici è acutamente analizzata in E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 14 J. Locke, Some considerations of the consequences of the lowering of interest and raising the value of money. In a letter sent to a member of Parliament (1692), in Works, London 1823, rist. Aalen, Scientia Verlag 1963, t.v., pp. 21-23. Questo e altri scritti sulla moneta sono stati tradotti in italiano da G. Pagnini e A. Tavanti, Ragionamenti sopra la moneta, l’interesse del danaro, le finanze e il commercio, Bonducci, Firenze 1751; nel Secondo dei Due trattati sul governo (a cura di L. Pareyson, Utet, Torino 1960, pp. 262-63) la moneta è condizione indispensabile per l’accrescimento, il «sovrappiù» e si fa riferimento al «mutuo consenso» sul suo valore di pegno/segno. 15 La differenza del cosiddetto valore d’uso, che si riferisce all’uso privato dell’oggetto fabbricato, valore che diverrebbe valore di scambio quando diventa merce, è contestabile perché dimentica che il concetto di valore è di per sé riferibile ad una proporzione tra cose ed è dunque sempre valore di scambio. Cfr. H. Arendt, Vita activa (1958), Bompiani, Milano 1984, pp. 117-18: «Valore è una qualità che una cosa non può mai possedere privatamente ma acquista immediatamente dal momento in cui appare in pubblico», ma cfr. anche A. Marshall, Principi di economia (1890), Utet, Torino 1972. Locke distingueva il valore oggettivo, l’intrinseca qualità di un oggetto, worth, dal valore pubblico di scambio, value; e Marx, perfettamente consapevole del senso solo relazionale e sociale del valore, adopera il termine use value per worth, al fine di indicare un valore assoluto che, nella svalutazione delle cose trasformate in merci, permettesse di designare il valore intrinseco di un prodotto nel processo di rigenerazione della vita: «Il valore d’uso ha valore solo per l’uso e si attua soltanto nel processo di consumo» (K. Marx, Per la critica dell’economia politica [1859], vol. II, Ed. Riuniti, Roma 1969, p. 9), mostrando così la difficoltà a tollerare la perdita di misure assolute nella società mercantile. 16 «Il lavoro è la vera misura del valore scambiabile di tutte le merci» (Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, cit., cap. V, par. I). Cfr. anche Dumont, Homo aequalis. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, cit., pp. 135-72. 17 «Il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all’uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare l’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. È la vita

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che produce la vita» (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 [1932], trad. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1973, p. 77). 18 Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, cit., pp. 34; cfr. A. Zanini, Adam Smith. Economia, morale, diritto, B. Mondadori, Milano 1997. 19 D. Ricardo, Sui principi dell’economia politica e della tassazione (1817) Isedi, Milano 1976. 20 K. Marx, L’Ideologia tedesca (1844), Ed. Riuniti, Roma 1969, p. 8. 21Gli uomini «cominciarono a distinguersi dagli animali allorchè cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza [...]. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi esso è già un modo determinato dell’attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono» (ivi, p. 9; corsivo mio). 22 K. Marx, Salario prezzo e profitto (1865), trad. it. di P. Togliatti, Ed. Riuniti, Roma 1966, p. 58. 23 «L’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che la produce [...] questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraneazione, come alienazione» (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 71). 24 Ibid. 25 Ivi, p. 78; corsivo mio. 26 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio (1821), trad. it. di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1987: «Qui l’interesse dell’idea è il processo di innalzare la singolarità e naturalità dei medesimi, ad opera della necessità naturale altrettanto che ad opera dell’arbitrio dei bisogni, alla libertà formale e alla universalità formale del sapere e volere, di formare la soggettività nella loro particolarità», § 187, p. 157; sul sistema dei bisogni § 189-§ 208. Cfr. anche la Fenomenologia dello spirito (1807), trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. I, pp. 317-18: «Come l’uomo singolo con il suo lavoro singolo compie già inconsapevolmente un lavoro universale, così per converso compie l’universale lavoro come suo oggetto di cui egli è consapevole; l’intero diviene opera sua come intero». La lettura dei testi hegeliani, a proposito della tensione tra contingenza ontologica e necessità razionale, mostra ambivalenze e squarci sorprendenti, che qui è impossibile approfondire: cfr. la notazione sulla vergogna come «separazione dell’uomo dal suo essere naturale e sensuale», in D. Tarizzo, Homo insipiens. La filosofia e la sfida dell’idiozia, Franco Angeli, Milano 2004, p. 96. 27 G.W.F. Hegel, Frammenti sulla filosofia dello spirito, in Filosofia dello spirito jenese (1803-4), trad. it. di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 61. Il corsivo è mio. 28 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 187, p. 157. 29 Sulla problematicità di questo riduzionismo, U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro (1999), Einaudi, Torino 2000 e M. Revelli, La fine del lavoro, la fine dello Stato, in Alla ricerca della politica, a cura di G. Barberis e M. Revelli, Guerini & ass., Milano 2005, pp. 39-78, in particolare pp. 39-50; ritorneremo sul tema nel terzo capitolo.

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30 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), Laterza, Roma-Bari 1982, p. 270. Cfr. anche p. 233: «il gioco del perenne passaggio dal desiderio all’appagamento, e da questo ad un novello desiderio», e p. 424: «Ciascun uomo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un nuovo breve sogno dell’infinito spirito naturale, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva [...] poi cancellata per dar luogo ad altre». 31 «La nostra filosofia affermerà in ciò quella stessa immanenza: non userà, venendo meno alla grande dottrina kantiana, le forme del fenomeno... come un bastone da salto, per oltrepassare il fenomeno» (ivi, p. 363). 32 «Se al mondo reale [...] vogliamo attribuire la massima realtà a noi nota, gli diamo la realtà che per ciascuno di noi ha il suo proprio corpo: perché questo è per ciascuno quanto vi è di più reale. Ma se poi analizziamo la realtà di questo corpo e delle sue azioni […] non altro vi troviamo che la volontà» (ivi, p. 160) «e ciò che la volontà sempre vuole è la vita [...] perciò è tutt’uno e semplice pleonasmo, quando invece di volontà senz’altro diciamo volontà di vivere» (p. 366). 33 Ivi, p. 366. 34 A. Schopenhauer, Il fondamento della morale (1841), Laterza, Roma-Bari 1991, p. 180. 35 Ivi, p. 119. 36 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 424: «Gli uomini somigliano a orologi, che vengono caricati e camminano». Cfr. anche pp. 170-71. 37 «Il suo conseguire la mira chiamiamo appagamento, benessere, felicità» (ivi, p. 409). 38 «Allora tutto diventa chiaro e giusto: ché non s’ha bisogno di alcuna libertà nell’operari: essa risiede nell’esse» (ivi, pp. 529-30); cfr. anche Schopenhauer, Il fondamento della morale, cit., p. 180: «Operari sequitur esse. La libertà non fa parte del carattere empirico [...] L’operari di un dato uomo è necessariamente determinato di fuori dai motivi, di dentro dal suo carattere e pertanto tutto ciò che fa avviene necessariamente». 39 Schopenhauer, Il fondamento della morale, cit., p. 181. 40 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 409: «ogni aspirare proviene da mancanza, da insoddisfazione del proprio stato», e p. 421: «il bisogno, la privazione, il soffrire è la sensazione positiva che si manifesta direttamente». 41 Ivi, p. 511: «Con la parola ascesi […] io intendo il deliberato infrangimento della volontà, mediante l’astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l’espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà». Anche nel controllo economico del bios ci sono sacrifici, ascesi, dilazionamenti che l’autorappresentazione razionale dell’homo oeconomicus usa negare. 42 Cfr. il concetto di astinenza in Marshall, Principi di economia, cit.: l’apparente affinità con il protestantesimo è rovesciata dall’orientamento strumentale della astinenza neoclassica. 43 H.H. Gossen, Sviluppo delle leggi del commercio umano (1854), Cedam, Padova 1950; cfr. J.A. Schumpeter (1914), Epoche di storia delle dottrine e dei metodi. Dieci grandi economisti, Utet, Torino 1971, p. 167. 44 Cfr. L. Mises, L’azione umana, selezione antologica a cura di G. Vestuti, in Il realismo politico di L. von Mises e F. von Hayek, Giuffrè, Milano 1989, pp. 116 sgg.;

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ma sul tema cfr. Hayek, L’abuso della ragione, cit., specie pp. 49-61; sulla scuola austriaca, soprattutto dal punto di vista della metodologia delle scienze sociali, è importante R. Cubeddu, Il liberalismo della scuola austriaca. Menger, Mises, Hayek, Morano, Napoli 1992, del quale cfr. anche, nella chiave del contributo di questa scuola alla rifondazione teorica del liberalismo, Margini del liberalismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. 45 F.A. von Hayek, Legge legislazione e libertà (1973-79) Il Saggiatore, Milano 1986, p. 187: «Il benessere generale a cui dovrebbe tendere il governo non può essere la somma delle soddisfazioni dei diversi individui, semplicemente perché né queste né le circostanze che le determinano possono essere conosciute dal governo o da chiunque altro [...] Il bene pubblico più importante richiesto ad uno Stato non è quindi il soddisfacimento diretto dei bisogni particolari, ma l’assicurare le condizioni in cui individui e piccoli gruppi trovino le occasioni favorevoli per soddisfare reciprocamente i propri bisogni». 46 Ivi, pp. 314 sg., § 10: L’ordine di mercato o catallassi; Mises, L’azione umana, cit., p. 195. 47 I. Kant, Il conflitto tra la facoltà filosofica e quella giuridica, § 6 nota 2, trad. it., Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1965, p. 221. 48 Marshall, Principi di economia, cit. Sraffa sintetizza l’elemento che accomuna i marginalisti nella «presentazione della produzione e del consumo come processo circolare» contro il «senso unico» dalla produzione al consumo della teoria classica, in Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse ad una critica della teoria economica (1960), Einaudi, Torino 1975, p. 121. 49 Cfr., in questo senso, il principio di subordinazione dei bisogni (T.C. Banfield, Four lectures on the organization of industry, London 1844, pp. 11-12) e quello dei bisogni appagabili (l’intensità del bisogno decresce all’aumentare delle dosi di beni per soddisfarlo) formulato da H. Gossen. C. Menger pone a fondamento della sua teoria dell’utilità marginale una teoria dei bisogni soggettivamente percepiti come tali, intuendo la proporzionalità esistente tra bisogni percepiti, variabili, e condizioni soggettive e ambientali, in Principi di economia politica (1923), Utet, Torino 1971, p. 76. 50 V. Pareto, Corso di economia politica (1964), Utet, Torino 1971; una definitiva assiomatizzazione delle preferenze e della teoria dell’utilità ordinale di ispirazione paretiana, in J. Hicks, Valore e capitale (1939), Il Mulino, Bologna 1985. 51 Come dice Schumpeter nella sua felice ricostruzione, «tutti i singoli eventi economici sono dominati dal fatto del bisogno e dalla utilità dei beni che si fonda sul bisogno» (Epoche di storia delle dottrine e dei metodi, cit., p. 167). 52 Mises, L’azione umana, cit., p. 90. 53 Ivi, p. 214. 54 Ivi, p. 179, corsivo mio. 55 Ivi, p. 180, corsivo mio. 56 Ivi, p. 100. 57 Ivi, p. 33. 58 Ivi, p. 36. 59 Ivi, p. 44. 60 Ivi, p. 34. 61 Cfr. F.A. von Hayek, nemico di ogni pretesa costruttivista: «qualsiasi variazione nella conoscenza rilevante dell’agente, cioè ogni variazione che induca il sog-

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getto ad alterare il suo piano, provoca la rottura della relazione di equilibrio tra le azioni precedenti e quelle successive [...] l’equilibrio, con riferimento ad un sistema concorrenziale, esiste se le azioni di tutti i componenti la società, in un certo periodo di tempo, rappresentano l’esecuzione dei rispettivi piani individuali, formulati all’inizio del periodo stesso» (Conoscenza ed economia, da Saggi di filosofia della scienza economica, La Nuova Italia sc., Roma 1982, anche in Vestuti (a cura di), Il realismo politico di Mises e Hayek, cit., pp. 435-36). 62 K. Lancaster, A new approach to consumer theory, in «Journal of political Economy», LXXIV, 1966, pp. 132-57. 63 Mises, L’azione umana, cit., p. 214 sgg. 64 L’anarchismo individualista dissolve i conformismi di classe costruiti dalla teoria classica (i profitti sarebbero destinati all’accumulazione del capitale, le rendite a consumi di lusso, i salari a consumi prevedibili perché nati da bisogni obiettivi e generici). Inoltre, salario e saggio di profitto vengono letti dal lato della domanda come produttività marginale di lavoro e capitale; dal lato dell’offerta, come costo reale concreto del lavoro (penosità del lavoro) e del capitale (sacrificio di astinenza dal consumo del capitalista). Walras e Pareto, entrambi ingegneri, rappresentano il sistema economico attraverso equazioni che sono possibili solo se i dati sono fissi e lo scambio è puro. 65 F.A. von Hayek, L’uso della conoscenza nella società, da Individualism and economic order (1948), trad. it. in Il realismo politico, cit., p. 394. 66 «Talmente grande è l’incertezza del merito sia a causa della sua oscurità naturale, sia della presunzione di ogni individuo, che non ne conseguirà nessuna norma di comportamento» (D. Hume, An Enquiry concerning the principles of Morals, cit. in Hayek, Legge legislazione e libertà, cit., p. 262). 67 Ivi, pp. 314 sgg., § 10: L’ordine di mercato o catallassi; ma anche Id., Theory of Complex Phenomena, in Studies in Philosophy, Politics and Economics, Routledge, London 1967; cfr. sulla relazione dell’ordine economico con le teorie della complessità biologica, J-P. Dupuy, Ordre et Desordre, Gallimard, Paris 1983. 68 K. Polanyi, La grande trasformazione: le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), Einaudi, Torino 1974; Id., Economie primitive, arcaiche e moderne (1968), Einaudi, Torino 1980. 69 Hayek, Legge legislazione e libertà, cit., pp. 58-59. 70 J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico (Munchen 1912, Berlin 1934), Sansoni, Firenze 1971; Id., Business cycles. A theoretical historical and statistical analysis of the capitalistic process, New York-London 1939, trad. it. parziale, Il processo capitalistico. Cicli economici, Boringhieri, Torino 1977; cfr. il recentissimo, molto accurato nella documentazione e «filosofico» nell’acuta lettura di Schumpeter, A. Zanini, Filosofia economica. Fondamenti economici e categorie politiche, Bollati Boringhieri, Torino 2005: in particolare pp. 204 sgg. 71 P. Sylos Labini, Schumpeter, in F. Caffè (a cura di), I maestri dell’economia, F. Angeli, Milano 1970, p. 24. 72 Sull’imprenditore/promotore «forza motrice del mercato», cfr. Mises, L’azione umana, cit., pp. 196 sgg. 73 Schumpeter non prende in considerazione la ricerca individuale, né quella di enti pubblici esterni all’impresa e, in genere, la complessità del flusso delle nuove idee con la possibilità (propria, per esempio, della rivoluzione elettronica) che grandi innovazioni vengano messe in opera in piccolissime imprese. 74 Un interessante tentativo di superare il modello individualista della teoria

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neoclassica in chiave di innovazione come emergenza in una logica di complessità sociale è in E. Benedetti, M. Mistri, S. Solari (a cura di), Teorie evolutive e trasformazioni economiche, Cedam, Padova 1997. 75 Un altro versante della critica è quello relativo ai processi di identificazione che passano attraverso la socialità del mercato. A. Pizzorno, muovendo dalla natura indotta e fruita socialmente dei bisogni, evidenzia la taratura identitaria dello scambio politico, a dispetto delle teorie della scelta razionale (cfr. La partecipazione e la scelta e Identità interesse conflitto in Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano 1993, in particolare pp. 164 sgg.). 76 Sul confronto Weber-Schumpeter, cfr. M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Padova 1977, pp. 147 sgg. 77 Mises, L’azione umana, cit., p. 44. 78 Ivi, p. 36.

Capitolo terzo 1 Cfr. S. Strange, Chi governa l’economia mondiale? Crisi dello Stato e dispersione del potere (1996), Il Mulino, Bologna 1998; M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella prospettiva transnazionale, Il Mulino, Bologna 2000. 2 S. Zizek, Le mythe et ses vicissitudes, in Id., Vous avez dit totalitarisme? Cinq interventions sur les (més)usages d’une notion, Editions Amsterdam, Paris 2004, pp. 55-56. Il riferimento è a J. Lacan, Séminaire VI: Le désir et son interprétation, parzialmente tradotto in it. in «La Psicoanalisi», 5, 1989. 3 Per Lacan, l’oggetto a (oggetto di pulsione e di juissance) non ha nessuna importanza in sé, «viene a tappare la beance» (Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi [1973], Einaudi, Torino 1979, p. 274) il vuoto costitutivo, la mancanza-a-essere del soggetto, il suo desiderio, ma non lo satura, gli gira attorno e sempre si ripete: perché il desiderio è non nella cosa, ma nell’uomo, anzi è l’uomo. Su questo tema cfr. G. Agamben, Stanze, Einaudi, Torino 1980. Ancora interpretando Lacan, cfr. S. Zizek, Le deuil, la mélancolie et l’acte, in Id., Vous avez dit totalitarisme?, cit., p. 177. 4 A. Ferrara, L’eudaimonia postmoderna, Liguori, Napoli 1992. 5 Cfr. G.A. Akerlof (a cura di), An economic theorist’s book of tales, Cup, Cambridge 1984; Id., R. Kranton, Economics and identity, in «Quarterly journal of economics», 2000, CXV, pp. 715-53: pur rimanendo all’interno del modello neoclassico si afferma che nella scelta, l’identità sociale è preponderante sul valore utilitario e la logica identitaria risulta irriducibile alle transazioni di mercato. Cfr. P. Sacco, P. Vanin, S. Zamagni, The economics of human relationships, in L.A. GérardVaret, S.C. Kolm, J. Mercier-Ythier (a cura di), Handbook of the economics of giving, reciprocity and altruism, North-Holland, Amsterdam 2004. 6 D. Kahneman, A. Tversky, Choices, values and frames, Cup, Cambridge 2000: la prospect theory dell’economia cosiddetta comportamentale, individua in fenomeni psicologici come l’avversione alle perdite, la dipendenza da punti di riferimento e la sensitività decrescente, decisivi fattori motivazionali. Di V.L. Smith, cfr. Experimental economics: induced value theory, in «The American economic Review», LXVI, 1976, pp. 274-79. Va ricordata tra le categorie di questi economisti

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eterodossi – che, comunque, lavorano alla formalizzazione di queste incognite psicosociologiche – la nozione di fairness di M. Rabin, Incorporating fairness into game theory and economics, in «The American economic review», LXXXIII, 1993, pp. 1281-1302 e Id., A perspective on psychology and economics, in «European economic review», XLVI, 2002, pp. 657-85. Si focalizza la tendenza «naturale» degli agenti economici ad essere l’uno il metro di valutazione dell’altro; non si può non sorridere se si pensa al lungo percorso che questi economisti hanno compiuto per tornare alle geniali osservazioni di Adam Smith! 7 Tramontata l’età dell’innocenza dell’economia market-centric, con la globalizzazione e l’economia digitale la fiducia nel meccanismo concorrenziale viene meno, insieme al riconoscimento della bounded rationality (l’espressione è di H. Simon, Model of bounded rationality, Mit Press, Cambridge [Mass.], 1982) dei comportamenti economici; all’interno di un paradossale bouleversement della fiducia nel mercato in mercato della fiducia, l’attenzione si concentra su fenomeni come quello della reciprocità, cioè la disponibilità ad azioni costose e prive di benefici in contrasto con lo stile dell’homo oeconomicus, e la fairness, ossia il premiare o punire atteggiamenti percepiti come giusti o ingiusti, o forme di cooperazione e selfenforcement. Su questa linea ritengono conciliabili i valori del mercato e il rispetto di standard normativi di sviluppo sostenibile e di contabilità non economica S. Maffettone, È il capitalismo moralmente accettabile?, in «Filosofia e questioni pubbliche», 1, 2004, e, come vedremo più avanti, A. Sen, Lo sviluppo è libertà (1999), Mondadori, Milano 2000. 8 In quest’ottica, la Rete non è tanto «un sistema integrato per la distribuzione di conoscenze, informazioni, segni di valore e merci-servizio», dunque strettamente commerciale, ma una «nuova sfera di relazioni sociali», di «mutazioni antropologiche, la più importante delle quali coincide con quel processo di virtualizzazione – come lo definisce Pierre Levy – delle relazioni sociali che sta incrementando e accelerando in modo esponenziale lo scambio planetario di idee e modelli culturali» (C. Formenti, Mercanti del futuro. Utopia e crisi nella Net Economy, Einaudi, Torino 2002, pp. 62-63; di P. Levy cfr. Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie (1997), Feltrinelli, Milano 1999). 9 G. Anders, L’uomo è antiquato (1956), vol. I, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 24. Su questo, cfr. anche la penetrante analisi di P.P. Portinaro, Il principio disperazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 10 Cfr. V. Sorrentino, Dalla privatizzazione alla creazione del vivente, in Epimeteo e il Golem. Riflessioni su uomo natura e tecnica nell’età globale, a cura di D. Bellitti, Ets, Pisa 2004; ma anche, nella stessa raccolta, M. Toraldo di Francia, La sfida delle biotecnologie: identità, conflitti e nuove forme di discriminazione. Trasforma in attivo biopotere la spinta biotecnologica D. Haraway, Manifesto cyborg, trad. it., Feltrinelli, Milano 1995. 11 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), Il Mulino, Bologna 1983. 12 Cfr. A. Orléan, Monnaie et spéculation mimétique, in Dumouchel P. (a cura di), Violence et vérité, Grasset, Paris 1985. 13 Le strategie di marketing della IBM e di Linux – che offrono open source, servizi gratuiti, conoscenze, divertimento, benefici attinenti alle comuni passioni che uniscono la tribù del virtuale – al fine di creare rapporti di fiducia, lasciando gli utenti liberi di aggregarsi, attraverso le tecnologie messe a disposizione, mescolano

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ambiguamente libertà/empowerment e mercato: S. Godin, Permission marketing. Trasformare gli estranei in amici e gli amici in clienti, Parole di cotone, Milano 2002. 14 I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute (1975), Mondadori, Milano 1977; cfr. anche J.P. Dupuy, S. Karsenty, L’invasion phrmaceutique, Seuil, Paris 1977. 15 Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (1998), Laterza, Roma-Bari 1999. 16 M. Augé, Nonluoghi (1992), Elèuthera, Milano 1993. 17 G. Ritzer, Il mondo alla McDonald’s (1993), Il Mulino, Bologna 1997. 18 A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Isedi, Milano 1973, p. 301. 19 D. Ricardo, Sui principi dell’economia politica e della tassazione (1817), Isedi, Milano 1976, p. 290. 20 K. Marx, Il denaro. Genesi e essenza (antologia), Ed. Riuniti, Roma 1990. 21 Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, cit.; sulla teoria dell’oggetto a, cfr. p. 171. 22 Formenti, Mercanti del futuro. Utopia e crisi della Net Economy, cit., in particolare pp. 259 sgg. 23 Cfr. M. Friedman, Liberi di scegliere (1981), Tea, Milano 1994, p. 182: «I prezzi che emergono dalle transazioni volontarie tra compratori e venditori – in breve nel mercato libero – sono capaci di coordinare l’attività di milioni di persone, le quali conoscono solo il proprio interesse, in modo tale che la situazione di tutti si trovi migliorata». 24 La critica di una tradizione scientifica non attenta alle ragioni psicosociologiche delle preferenze in S. Zamagni, La teoria del consumatore nell’ultimo quarto di secolo: risultati, problemi, linee di tendenza, in «Economia politica», 1986, III, 3, pp. 409-66. 25 T. Veblen, Teoria della classe agiata (1899), Einaudi, Torino 1971, p. 29: «Se lo stimolo ad accumulare fosse il bisogno della sussistenza oppure il benessere fisico, allora il complesso delle necessità economiche di una comunità potrebbe presumibilmente venir soddisfatto in certa misura col progredire dell’efficienza industriale; ma poiché la lotta è sostanzialmente una corsa alla onorabilità basata su un confronto antagonistico, non è possibile nessun avvicinamento ad una meta definitiva». 26 Vasta la letteratura sul narcisismo: da C. Lasch, La cultura del narcisismo (1979), Bompiani, Milano 1981, a G. Lipovetski, L’era del vuoto (1993), Luni, Milano 1995: ma anche Richard Sennett, David Riesman, Daniel Bell, Philip Rieff. Una analisi molto acuta del percorso socio-psicologico dell’individualismo moderno, con attenzione alla complessità delle motivazioni «economiche», in E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Mi si permetta di rinviare a L. Bazzicalupo, Identità anestetica, in «Rivista di psicanalisi», LI, 2005, 3. Cfr. inoltre P. Weil, Il nuovo Narciso: comunicazione pubblicitaria e individualismo (1986), Franco Angeli, Milano 1990. 27 Cfr., da un punto di vista sociologico, A. Touraine, La società postindustriale (1969), Il Mulino, Bologna 1970 e il più tecnico G.H. Watson, Il benchmarking: come migliorare i processi e la competività aziendale adattando e adottando le pratiche delle imprese leader (1993), Franco Angeli, Milano 1995. Si tratta di un processo tutt’altro che indolore in cui i lavoratori sono costretti a farsi carico di itinerari di formazione, di apprendimento, di contrattazione, e in cui la disoccupazione e la povertà sono esperienze sempre più reali. Cfr. J. Rifkin, La fine del lavoro. Il decli-

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no della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato (1995), Baldini & Castoldi, Milano 1995, che prevede l’espulsione dal processo produttivo di masse crescenti di lavoratori che solo la soluzione politica e il ridimensionamento della dipendenza dei diritti sociali dal lavoro stesso potrebbero fronteggiare. 28 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (1980), Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1987. 29 Sen, Lo sviluppo è libertà, cit.; dell’economista e filosofo normativo Sen cfr. anche le importanti riflessioni a modifica delle condizioni di razionalità nelle scelte sociali in Razionalità e libertà (2002), Il Mulino, Bologna 2005. 30 Cfr. il know-how ottimistico di C. Hickman, M. Silva, L’organizzazione eccellente. Come creare il successo organizzativo attraverso la gestione di strategia cultura e leadership (1984), Sperling & Kupfer, Milano 1986; ma cfr. in senso critico S. Bologna, A. Fumagalli, Il lavoro autonomo di seconda generazione, Feltrinelli, Milano 1997. 31 P. Virno, Lavoro e linguaggio, in Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, a cura di A. Zanini e U. Fadini, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 181-85 e Id., General intellect, ivi, pp. 146-52. 32 G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002, p. 344. 33 Cfr. G.P. Prandstraller, Che cosa ci ha veramente detto il XX secolo? Knowledge workers, imprese e relativismo pragmatico nel nuovo secolo, Franco Angeli, Milano 2000. 34 Deleuze, Guattari, L’antiedipo, cit., p. 345. 35 A. Negri, M. Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2002 e Eid., Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004. 36 Un’analisi penetrante in M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001, di cui cfr. anche La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino 1997. 37 P. Virno, Parole con cose. Potere e limiti del linguaggio, Donzelli, Roma 1995. 38 A partire da P. Lafargue, genero di Marx che sosteneva le droit à la paresse, l’auspicio a che si abbandonasse la richiesta di un diritto al lavoro ha trovato sostenitori nell’anarchico Petr Kropotkin, in Bertrand Russel, per arrivare ad un ben più sorprendente Claus Offe. Nel suo Capitalismo senza lavoro?, in «Lettera internazionale», 53, 1997, pp. 29-31, dove si auspica il tramonto dell’economicamente insostenibile sistema di valori sociali centrati sul lavoro e si apre a quella tematica del diritto di non lavorare e di ricevere un reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza o basic income, che vede convergere argomentazioni di giustizia postwelfariste e argomentazioni di convenienza economica. 39 Ph. Van Parijs, Basic income: a simple and powerful idea for the twenty-first century, in «Politics and Society», 32, 1, 2004, pp. 7-39. 40 Cooperazione sociale e solidarietà sono interpretate in una chiave anarco-libertaria e postmoderna, ovviamente non esente da possibili obiezioni. Per una ricostruzione del dibattito, cfr. C. Del Bò, Un reddito per tutti, Ibis, Pavia 2004. 41 C. Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1999. 42 L. von Mises, L’azione umana, selezione antologica a cura di G. Vestuti, in Il realismo politico di L. von Mises e F. von Hayek, Giuffrè, Milano 1989, p. 195. 43 A. de Tocqueville, La democrazia in America (1840), in Id., Scritti politici, vol. II, Utet, Torino 1968, in particolare pp. 593 sgg. e pp. 789 sgg.

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44 Gli studi di psicologia delle masse (di Gustave Le Bon, di Gabriel Tarde e dello stesso Freud) andrebbero qui richiamati per il meccanismo di identificazione mimetica che li sottende e che è presente nell’intera dimensione estetica della politica. Mi si permetta di rinviare al mio Mimesis e aisthesis. Ripensando la dimensione estetica della politica, Esi, Napoli 1996. 45 L. Walras, Elementi di economia politica pura (1874), Utet, Torino 1974, p. 112. 46 Cfr. J.P. Dupuy, Il sacrificio e l’invidia. Liberalismo e giustizia sociale (1992), Ecig, Genova 1997, pp. 295 sgg. 47 Così lo definiva J.K. Galbraith, Economia e benessere (1958), Ed. Comunità, Milano 1959, pp. 367-80. 48 Sui meccanismi di esclusione/inclusione identitaria e sulle loro aporie, a partire dalle riflessioni di Bauman, cfr. A. Tucci, Individualità e politica. Le contraddizioni della teoria politica identitaria in epoca tardo-moderna, Esi, Napoli 2002. 49 Vasta la letteratura sociologica sul tema: cfr. R.M. Titmuss, The gift relationship: from human blood to social policy, Random House, New York 1971; J.M. Barbalet, Cittadinanza. Diritti, conflitto e diseguaglianza sociale (1988), Liviana, Padova 1992, soprattutto pp. 105 sgg. Una critica liberale dell’etica della cura rappresentata da C. Gilligan, in I. Salvatore, Agency e identità. Materiale per una critica della normatività identitaria, Esi, Napoli 2004, pp. 95 sgg. 50A partire dal grande saggio di M. Mauss, Saggio sul dono (1923-24), in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, sulla forma di relazione socio-economica che il dono veicola. Cfr. sul tema Caillé, Dono, interesse e disinteresse, in Id., Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1998. 51 J. Derrida, Politiche dell’amicizia (1994), Cortina, Milano 1995, pp. 85 sgg.; Id., Donare il tempo (1991), Cortina, Milano 1996. Cfr. anche R. Esposito, che in Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, cogliendo la centralità del munus come luogo debitorio della fondazione sociale, ne mostra anche la impossibile saturazione, rovesciando il significato delle affermazioni comunitariste che se ne appropriano. Una intensa lettura in sintonia con la problematica ma con impostazione normativa in E. Pulcini, Homo reciprocus: la passione del dono e l’individuo comunitario, in Ead., L’individuo senza passioni, cit., pp. 176 sgg. 52 Volontà buona, caritas, cooperazione, fondate su un paradigma non individualistico, sono i perni dell’azione non egoista nell’impostazione cristiana e solidaristica, che ripropone forme di biopolitica umanitaria. Cfr. a cura di L. Alici, Forme della reciprocità. Comunità, istituzioni, ethos, Il Mulino, Bologna 2004, di cui cfr. in particolare R. Gatti, Il buono, il giusto, i diritti: sul rapporto tra capitalismo e democrazia, pp. 123 sgg. 53 Cfr. Azione volontaria e Welfare State, a cura di U. Ascoli, Il Mulino, Bologna 1987; Senza scopo di lucro. Il settore non profit in Italia, a cura di G.P. Barbetta, Il Mulino, Bologna 1996. Una disamina dell’ambivalenza del fenomeno in J.-L. Laville, L’economia solidale (1994), Bollati Boringhieri, Torino 1998. Cfr. anche sul problema dei diritti O. de Leonardis, In un diverso Welfare. Sogni e incubi, Feltrinelli, Milano 2002. 54 Cfr. C. Saraceno, Nuove povertà e nuovi rischi di povertà?, in Povertà in Europa e trasformazione dello Stato sociale, a cura di N. Negri, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 249-74.

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55 R. Castel, De l’indigence a l’exclusion, la désaffiliation, in Face à l’exclusion, a cura di J. Donzelot, Esprit, Paris 1991, pp. 137-68. 56 Diceva G. Simmel che è l’accettazione del soccorso che «costituisce la prova evidente che si è formalmente declassati», cfr. Sociologia (1908), Ed. Comunità, Milano 1989, p. 413. 57 A. Sen, nel tentativo di individuare indicatori validi e procedure di intervento, decostruisce il concetto di povertà per chiarire quali siano i bisogni oggettivi di ciascun individuo in ambiente differenti: va garantito il paniere minimo accertato come adeguato perché ciascuno acquisisca un accettabile livello di capability, cioè capacità di funzionamento attivo. Cfr. Risorse valori e sviluppo (1984), Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 63-84, 151-63. 58 K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), Einaudi, Torino 1974.

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Indice del volume

Prefazione di Roberto Esposito

V

Introduzione

3

1. Biopolitica ed economia, p. 3 - 2. Ambivalenze dell’economia, p. 7 - 3. Di questo saggio, p. 16

I. Economia e governo

21

1. Biopolitiche?, p. 21 - 2. Ambivalenze e rovesciamenti del «Welfare», p. 24 - 3. Biopolitica umanistica, tecnologica, positivista, p. 29 - 4. Genealogia foucaultiana delle pratiche biopolitiche: logica economica del governo, p. 33 - 5. Ancora Foucault: economia antigovernamentale, p. 39 - 6. Incremento della vita e governamentalità economica, p. 47

II. Il nesso vita-potere nei regimi di sapere economico

57

1. Percorso, p. 57 - 2. Empiria: le ricchezze, le soggettività e l’astrazione della moneta, p. 60 - 3. La mediazione: il valore e il lavoro, p. 69 - 4. La dissoluzione della sintesi e il flagello del «bios», p. 77 - 5. Dai bisogni ai desideri: la teoria marginalista, p. 82 - 6. Dal desiderio alla volontà: il governo del «bios» nella teoria marginalista, p. 88 - 7. Innovazione, p. 95 - 8. Infine: il trionfo della logica economica, p. 102

III. Bioeconomia

105

1. Forme che si confondono: troppa chiarezza e troppo mistero, p. 105 - 2. Bioeconomia, p. 111 - 3. Consumare, p. 118 - 4. Lavorare, p. 125 - 5. Il saldo del debito e la povertà, p. 137 - 6. Carità e mercato: gli esclusi, p. 142 - 7. Alla fine..., p. 149

Note

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Percorsi Laterza

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Finzi, R., Civiltà mezzadrile. La piccola coltura in Emilia Romagna De Felice, F., La questione della nazione repubblicana De Rosa, L., Conflitti e squilibri nel Mezzogiorno tra Cinque e Ottocento Silvestre, M.L. - Valerio, A. (a cura di), Donne in viaggio. Viaggio religioso politico metaforico Preta, L. (a cura di), Nuove geometrie della mente. Psicoanalisi e bioetica Donghi, P. (a cura di), Limiti e frontiere della scienza Allovio, S., La foresta di alleanze. Popoli e riti in Africa equatoriale Destro, A. - Pesce, M., Come nasce una religione. Antropologia ed esegesi del Vangelo di Giovanni Università degli Studi di Bari - Facoltà di Lettere, Cinquant’anni di ricerca e didattica. Atti del convegno 25-27 febbraio 1998 Forni Rosa, G., Il dibattito sul modernismo religioso Macioti, M.I., Pellegrinaggi e giubilei. I luoghi del culto Careri M. - Cattaneo, R. (a cura di), Cambiare la Pubblica Amministrazione. L’esperienza della Regione Lombardia Viazzo, P.P., Introduzione all’antropologia storica Kowohl De Rosa, C.S., Storia della cultura tedesca fra «ancien régime» e Restaurazione. Cronache e personaggi Negrotti, M., Artificiale. La riproduzione della natura e le sue leggi Amendola, G. (a cura di), Scenari della città nel futuro prossimo venturo Losano, M.G., Un giurista tropicale. Tobias Barreto fra Brasile reale e Germania ideale Donghi, P. (a cura di), Aree di contagio Amoruso, V., La letteratura americana moderna. 1861-1915 Simili, R. - Paoloni, G., Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, vol. I Simili, R. - Paoloni, G., Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, vol. II Piromallo Gambardella, A., Le sfide della comunicazione

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23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55.

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Fabris, A., Il tempo dell’uomo e il tempo di Dio. Filosofie del tempo in una prospettiva interdisciplinare Bartolini, F., Roma borghese. La casa e i ceti medi tra le due guerre Losano, M.G., Cinque anni di legge sulla privacy. Un bilancio dei primi cinque anni Artioli, U., Pirandello allegorico. I fantasmi dell’immaginario cristiano Fanizza, L., Senato e società politica tra Augusto e Traiano Villari, R. (a cura di), Controllo degli stretti e insediamenti militari nel Mediterraneo Folin, M., Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico Stato italiano (versione on line) Bravo, A. - Pelaja, M. - Pescarolo, A. - Scaraffia, L., Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea Sportelli, A., Generi letterari. Ibridismo e contaminazione Ferrari, S., Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia Battimelli, G. - De Maria, M. - Paoloni, G., L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Storia di una comunità di ricerca Narducci, E., Lucano. Un’epica contro l’impero (non uscito) Fedele, M., Il management delle politiche pubbliche Piasere, L., L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia Bentivegna, S., Politica e nuove tecnologie della comunicazione Lotti, L. - Villari, R. (a cura di), Universalismo e nazionalità nell'esperienza del giacobinismo italiano Bocchini Camaiani, B., Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità Donghi, P. (a cura di), La nuova Odissea Lotti, L. - Villari, R. (a cura di), Filippo II e il Mediterraneo Biscardi, L. - De Francesco, A. (a cura di), Vincenzo Cuoco nella cultura di due secoli Chiarini, R. (a cura di), Quale Europa dopo l’euro Pazé, V., Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea Maniscalco, M.L., Sociologia del denaro Favole, A., Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte Lo Piparo, F., Aristotele e il linguaggio Cappelli, O. (a cura di), Mezzo mondo in rete Di Giovanni, P., Filosofia e psicologia nel positivismo italiano Pecchinenda, G., Videogiochi e cultura della simulazione Sebesta, L., Alleati competitivi. Origini e sviluppo della cooperazione spaziale fra Europa e Stati Uniti Ruffini, F., Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé Donghi, P. (a cura di), Il governo della scienza Petrilli, R. - Piemontese, M.E. - Vedovelli, M. (a cura di), Tullio De Mauro. Una storia linguistica

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56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86.

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Pussetti, C., Poetica delle emozioni. I Bijagó della Guinea Bissau Izzo, F., Morfologia del moderno. Antropologia, politica e teologia in Thomas Hobbes D’Amico, R., Le relazioni di coppia. Potere, dipendenza, autonomia The World Political Forum, 1985-2005. Twenty Years that Changed the World

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