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Italian Pages 120 [124] Year 2001
Un grazie a Giorgio Tinazzi, relatore della Tesi di laurea da cui nasce questo libro; a Stefano Fascetti, Moreno Fabbrica e Fausto Pavesi, per il loro indispensabile aiuto nel reperimento del materiale iconografico e audiovisivo.
La presente pubblicazione è stata realizzata grazie alla partecipazione dell’Unione Italiana Circoli del Cinema.
In copertina: Catherine Deneuve in Repulsion (1965) di Roman Polanski. Edito in occasione della rassegna “Cinema e Claustrofobia” presentata al Centro Mazziano nel mese di aprile 2001
© Copyright Cierre Edizioni 2001 Via Ciro Ferrari, 5 - Sommacampagna (VR) Tel. 045 8581575 - Fax 045 8581572 Centro Mazziano di Studi e Ricerche Via San Carlo, l/a - Verona Tel. e Fax 045 918485
Centro Mazziano di Studi e Ricerche
Il fantasma e la fanciulla Tre film di Roman
Polanski
Alberto Scandola
CIERRE edizioni
Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation
https://archive.org/details/ilfantasmaelafan0000scan
Indice
Introduzione
Repulsion Un occhio tagliato L'occhio come simbolo sessuale Raffigurazioni del corpo Un volto senza trucco Due mani
Un volto mutante Ricomposizione
Esterni chiusi: la proiezione del desiderio Uno spazio antropomorfico
L'immagine del doppio L'appartamento e i suoi misteri Forme di circolarità Il convento: verticalità della visione
L'ossessione dell’acqua Il quadro La foto di famiglia Variazioni sullo sguardo: Polanski e Beckett Fantasmi di voce Un corpo senza voce Un altro occhio da tagliare Rosemarys baby Il cielo sopra New York La caduta del diavolo Realtà o immaginazione? Bufiuel e Polanski Dal romanzo al film
Sottrazioni Un’aggiunta: lo sguardo del mostro Overlook ‘ante litteram’ Remake di un cineromanzo Attraverso gli occhi di Rosemary Costruzione e distruzione dell’ambiguità La semisoggettiva La casa del diavolo, probabilmente Due colori
L'appartamento allo specchio
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Il pericolo è dentro Naufragi in città Triangolo e surcadrage
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L'inquilino del terzo piano
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Il tempo riavvolto Una censura invisibile Simone, la prima inquilina La questione dell'adattamento
L'aggiunta ‘egizia’ La sottrazione: Repulsion, atto secondo Il ventre vuoto di Parigi Abitare l'appartamento Articolazioni del fuoricampo
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Sguardi off: l'apparizione del fantasma
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Il vetro infranto
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Lo spazio del fantasma L'appartamento e le sue mutazioni
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Nella prigione della frontalità
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Bibliografia essenziale
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Filmografia
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introduzione
Quando faccio un film o scrivo una sceneggiatura, tutto quello che vi metto non viene dalla mia vita, ma dal cinema. Diffido da quella stampa che cerca di amalgamare l’opera di un regista alla sua vita.' (Roman Polanski)
La vita di Polanski oggi non fa più notizia nelle pagine di cronaca scandalistica o mondana. Niente più accuse di pederastia o sospetti di affiliazione a sette demoniache. Ma neppure le sue ultime opere fanno più parlare. Quasi sotto silenzio sono passati, in Italia, La nona porta (The ninth gate, 1999) e La morte e la fanciulla (The death and
the maiden, 1993) liquidati su molti quotidiani come piccoli esercizi di maniera, flash nostalgici di un Polanski che non c'è più. Eppure, di storie di morte e fanciulla è ricchissimo il cinema polanskiano. Pensiamo a Repulsion (id., 1965) e a Rosemarys baby (id., 1968) dove la morte minaccia due fanciulle dietro le porte di casa, ma anche e soprattutto a Linquilino del terzo piano (Le locataire,
1976), dove un uomo vestito da donna replica il suicidio dell’inquilina precedente. Questo film, scritto e realizzato in soli otto mesi, chiude quella che Dominique Avron ha definito la “Trilogia degli appartamenti”: Repulsion, Rosemarys baby e L'inquilino del terzo piano. Tutte e tre le vicende si svolgono prevalentemente nel décor chiuso di tre appartamenti, reinventati in studio. Sono tre ritratti femminili, così vicini, ma anche così lontani tra loro. Nel tempo, poiché passano dieci anni dal primo all’ultimo capitolo, e nello spazio: dalla Londra di Repulsion arriviamo alla Parigi de L'inquilino del ter-
20 piano, passando per New York. Ma soprattutto lontani nelle modalità produttive e organizzative: se sul set inglese del primo film, distribuito da una piccola Casa di Distribuzione di film pornografici, Polanski dovette inventarsi anche truccatore e addetto agli effetti speciali, per l’hollywoodiano Rosemary Baby ebbe invece a disposizione un'efficiente équipe di professionisti, oltre ad un budget nettamente superiore.
! In: Laurent Vachaud, Entretien avec Roman Polanski, “Positif”, n° 410, Aprile 1995, p. 13. ? Dominique Avron, Roman Polanski, Rivages, Paris 1987.
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Affini tra loro, queste tre opere sono parse anche vicinissime a episodi della vita del loro autore, almeno a giudizio di quella ‘certa stampa di cui egli, come abbiamo letto, tende a non fidarsi.
Per quanto riguarda Repulsion, Polanski ammetterà di essersi ispirato ad una ragazza conosciuta in un periodo della sua vita. Rosemarys baby, per una tragica ironia del de-
stino, è sembrato ai più profetizzare uno degli episodi più neri della vita del regista, l'assassinio della moglie Sharon Tate ad opera di una sedicente setta satanica. L7n-
quilino, poi, parla da solo: il suo protagonista, Trelkovski, è un polacco naturalizzato francese e residente a Parigi. Lo interpreta Roman Polanski, anch'egli polacco, che proprio nel periodo della lavorazione del film ottiene la cittadinanza francese e si stabilisce definitivamente a Parigi. Così vicini al loro creatore, però, i personaggi polanskiani spesso lo sono meno di quanto potrebbe apparire ad una prima visione. i Roman Polanski è un cineasta itinerante, nomade, sempre in movimento: la sua dimen-
sione è l’apolidismo. È sufficiente osservare la mappa delle locations disegnata da Avron nella sua monografia? per notare come l’“efficace” si sia sempre spostato là dove il sog-
'Avron, Roman Polanski, cit., p. 18.
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getto lo richiedeva, dove l’ambiance gli avrebbe permesso di ricostruire l'atmosfera desiderata. Dalla regia alla recitazione (compare infatti in quattro dei suoi quindici lungo-
metraggi), da un paese all’altro, dall’est all’ovest, dall’ Furopa agli USA, ma anche da un genere all’altro (dal thriller al film in costume, dalla commedia picaresca al giallo).
I suoi eroi, le sue eroine, invece, non si spostano dal luogo che occupano, non viaggiano mai, fatta eccezione per gli antieroi di Pirati (Pirates, 1986) e per il detective de La nona porta. Il tempo loro concesso è poco: una giornata ne // coltello nell'acqua (Noz w Wodzie, 1962), due giorni in Cu/ de sac (id., 1966), una notte ne La morte e la fanciulla.
“Mi piace — ha detto Luis Bufiuel — ritornare più volte sullo stesso soggetto; mi piace la ripetizione, lo stesso scherzo, l'ossessione”. Potremmo applicare questo autoritratto di Bufiuel al nostro autore, che Bufiuel ha sempre detto di amare. Alcune conferme le possiamo trovare proprio in questa trilogia dell’appartamento. Vediamo. La stessa ossesstore, un appartamento claustrofobico, misterioso e soffocante. Lo stesso scherzo nei confronti dello spettatore, una tecnica narrativa che sospende il giudizio e lascia aperte almeno due possibilità di interpretazione: ciò che accade alla protagonista può essere frutto di un complotto ai suoi danni o semplicemente un prodotto della sua immaginazione. Infine, lo stesso soggetto, una fanciulla sessuofoba a contatto con la morte e la follia. Tre variazioni su un unico tema. Ma anche su una precisa ricerca stilistica. Da Repulsion fino a La nona porta, il filo conduttore è lo stesso: un identico desiderio di essere originale, moderno, senza mai però dimenticare di raccontare una sto-
ria, in modo credibile e verosimile. Roman Polanski è un regista m206z/e (cambia, con la location, anche troupe e produzione) ma allo stesso tempo fermo. Fermo nei suoi gusti per determinati personaggi (le vittime femminili). Naif, autore da subito ma allo stesso tempo prodotto di una scuola (la scuola di Lodz). Ma l'ambiguità più affascinante è nascosta nel suo modo
di essere conteur. Da una parte, il piacere confessato di portare lo spettatore all’interno della finzione; dall'altra, il gusto per le ellissi, per le pause nel ritmo, le perversioni del quadro‘, e soprattutto per talune ossessioni, non sempre giustificabili all’interno del contesto narrativo, nella composizione delle inquadrature e nell’angolazione del punto di vista. Polanski, allora, è o non è un autore classico? “Si può dire — scrive Alessandro Cappabianca nella sua pur ottima monografia — che il suo modo di girare è abbastanza classico. [...] Polanski non ama esagerare con quelle che chiameremmo oggi ‘marche d’autore’”?. Solamente qualche riga più sopra, però, Cappabianca afferma di “non essere sicuro che esista uno stile di Polanski, de-
finibile attraverso parametri specificamente filmici”. ‘ Incontreremo, nelle case degli inquilini polanskiani, finti campi vuoti, décadrages, angolazioni innaturali della m.d.p., attrazioni del fuori campo.
° Alessandro Cappabianca, Roman Polanski, Le Mani, Genova 1997, p. 87.
Non esiste uno stile, dunque il suo è un cinema classico: ma è una conclusione che ci la-
scia perplessi, un'equazione che abbiamo già sentito. Il classicismo di Polanski, ed è questo che cercheremo di dimostrare, è autoriale proprio nell’adattare lo stile di racconto, il proprio stile, alle caratteristiche della vicen-
da, agli stati d'animo dei personaggi. Oppure, come nel caso sopracitato di Repw/sion, nel non adattarlo ai cliché più classici del genere, in quel caso del genere horror. L'operazione è la stessa effettuata dall'attore Polanski alle prese con alcuni personaggi da interpretare: il travestimento. Polanski regista nasconde il suo tocco come Polanski attore nasconde le sue spoglie in un ruolo soggetto ad un travestimento. In Che? Polanski è Zanzara, un marinaio che ama indossare gli abiti femminili di
Nancy, la protagonista. L’inquilino del terzo piano, di nome Trelkovski, è, nel finale, un Polanski travestito da donna, mentre l’Alfred di Per favore non mordermi sul collo (Zhe fearless vampire killers, 1967), per sfuggire al morso dei vampiri, si traveste egli
stesso da vampiro, indossando gli abiti di uno di loro. Ma uno specchio svelerà il suo trucco, rendendolo visibile in mezzo a creature ‘invisibili’.
Con le marche d'autore, è vero, Polanski non ama troppo giocare, anche se, ad esem-
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pio, frequenti panoramiche elaborate in apertura di film (noi ne analizzeremo due) fanno spesso pensare il contrario. Ma un Polanski* touch, forse, è sempre visibile: dietro la maschera, riflesso su uno specchio. Ce lo suggeriscono quelle piccole ossessioni, a cui accennavamo sopra, tutte riconducibili a parametri strettamente filmici. Cercheremo così di illustrare, per anticiparne solo alcune, la ricerca della diagonale all’interno del quadro, ottenuta sia mediante angolazioni della md.p. (Repulsion) sia per mezzo del movimento dei personaggi (L’inquilino). A proposito del movimento dei personaggi, ci accorgeremo di come sia tipicamente polanskiano l’osservarli attraversare il quadro dal fondo in direzione della m.d.p., mentre quest'ultima non si muove. Tutto ciò grazie ad un altro inconfondibile tocco polanskiano, la ricerca della profondità di campo. Siamo d'accordo con Avron: il cinema di Polanski è tutto sommato un cinema narrativo. Eppure, vedremo come spesso egli si diverta a minare la fluidità del racconto, ad aprire gli spazi chiusi dei suoi appartamenti invitando lo spettatore fuori dal quadro, con un ossessivo gioco di sguardi 0/f e fuori dal film, chiamandolo magari all’interno di un altro suo film. Senza dimenticare di distrarre questo povero spettatore, cosa che nonfa sempre il grande cinema narrativo, con autocitazioni, citazioni e richiami ad altre esperienze figurative, come il surrealismo per la visualizzazione di alcuni incubi o
l’espressionismo per l’architettura di certi interni. Come abbiamo fatto in queste righe, anche nella nostra analisi chiameremo causa Roman Polanski, rileggendo alcune delle sue dichiarazioni, cercando care se e dove il suo cinema viene effettivamente dal cinema piuttosto che (se così è, da quale cinema). Preparandoci però a venire confusi, spiazzati senza sicurezze, come capita a molti dei suoi personaggi. Così come terremo sempre aperte le pagine della sua autobiografia, che è
spesso in di verifidalla vita o lasciati
una sorta
di messa in scena della sua vita, organizzata con la stessa struttura circolare presente
in tutti i suoi lavori: dall'infanzia agli anni ‘80 tutto è raccontato in flashback, con
una narrazione all’interno della narrazione, incorniciata dalla prima di Amadeus a Varsavia, occasione per il tuffo nei ricordi. Un'opera 4 parte questa, accanto ai lavori teatrali c cinematografici, ai quali la vita
non può essere certo “amalgamata”, ma nei quali essa è sempre presente, talvolta deformata, come riflessa su di un vetro.°
6 Il riflesso del proprio corpo 0 di parti di esso, in particolare su vetri e specchi, sarà vissuto come un incubo da due delle inquiline della Trilogia.
Repulsion
Londra, anni sessanta. Carol divide con la sorella Helen un appartamento, in affitto, in un quartiere centrale della città.
Lavora come manicure presso un salone di bellezza, ed è proprio sul lavoro che denota uno strano comportamento, non risponde alle richieste delle clienti, sembra come assente alla realtà che la circonda. Rientrata a casa, scopre che la sorella è in partenza, assieme al fidanzato Michael, per una vacanza in Italia. Nelle due notti che precedono questa partenza, Carol è visibilmente infastidita dai gemiti d'amore della coppia, così come, il gior-
no dopo, guarda con repulsione le lenzuola del loro letto e il rasoio che Michael ha dimenticato in bagno. Sola in casa, Carol comincia ad avere delle allucinazioni: alcuni uomini escono dall'armadio della sua camera e la violentano. Larghe crepe si aprono nelle pareti, mani maschili nel corridoio cercano di afferrarla, le stanze sembrano allargarsi a dismisu-
ra. Intanto lo spettatore perde la nozione del tempo, le giornate non hanno più un ritmo preciso.
Il fidanzato di Carol ed il padrone di casa, che da giorni non hanno più notizie, riescono ad entrare nell'appartamento in cui la ragazza si è barricata, ma vi trovano la mor-
te. Carol, dopo averli uccisi, ne nasconde i cadaveri nella vasca da bagno e sotto il divano. Toccherà alla sorella scoprirli, al ritorno dal suo viaggio; mentre Michael porterà fiuori Carol, ormai in stato catatonico, tenendola in braccio.
Un occhio tagliato
Schermo nero. La prima inquadratura ci lascia, per dieci secondi, al buio. Siamo in attesa di una didascalia, di un #o/0 che dia il via alla finzione. Il commento sonoro non ci aiuta, non ci ambienta, non ci suggerisce un punto di riferimento. Battiti sordi, come di tamburo, riempiono misteriosamente questo schermo nero, regolari e ritmati come il tic-tac del gocciolare nelle toilettes de La Caduta degli an-
geli, cortometraggio di diploma di Polanski e sorta di anticamera alla claustrofobia di Re15
pulsion'. Continueranno anche dal primo all'ultimo dei titoli di testa con una regolarità che suggerisce qualcosa di preordinato, da cui non si può uscire. Tutto è infatti già segnato per la protagonista: la ritroveremo alla fine ancora più chiusa nel suo universo parallelo. Il timbro grave di questo suono 0/7 spazializza quel nero come un luogo chiuso, capace di smorzare e ovattare quei battiti: fèr726 non è dunque solo il ritmo, ma anche, questa è la sensazione, lo spazio in cui le frequenze si propagano. Sono passati pochi secondi e la prima immagine si affaccia sullo schermo: si tratta di un occhio, in primissimo piano, occupante tutta la superficie del quadro. Quel nero iniziale era un particolare ancora più ingrandito di questo occhio, il nero della pupilla, da cui uno zoom all'indietro ci ha portato fuori. Noi attendevamo che il nero introducesse la prima immagine della finzione, invece quel nero er4 già questa prima immagine. Lo zoom, come sappiamo, non è altro che un falso movimento. Si tratta dell'unico primo piano di un occhio nel cinema di Polanski: prima e dopo di lui, però, il cinema ha spesso utilizzato un occhio vivo sullo schermo, quasi sempre come apparizione perturbante. Ricordiamo il cineocchio di Dziga Vertov (L'uomo con la macchina da presa), la metafora della vertigine in Hitchcock (Psycho, La donna che visse due volte) e in De Palma (Le due sorelle, Carrie), la violenza della pulsione scopica in Kubrick (Arancia
meccanica). Non sarà, quello di Carol, un occhio che uccide come quello di Michael Powell (Peeping Tom): la ragazza ucciderà in preda a raptus, senza guardare, dopo aver fatto di tutto per non guardare le sue future vittime. E non ha, Carol, neppure l’approccio fortemente percettivo con il mondo che contraddistingue invece l’Alex di Arancia meccanica, che tutto tocca, ascolta e guarda. Quello che vediamo in questi ti-
toli di testa sarà lo sguardo che Carol manterrà per tutto il film: sbarrato, fisso nel vuoto. Nient'altro che una superficie su cui si riflettono le cose attorno. C'è un occhio però che ricorda tantissimo questo, soprattutto per la ferita che entrambi subiscono. La didascalia ‘Repu/si07), il primo dei titoli di testa, seziona infatti in due parti l'occhio in senso orizzontale, allo stesso modo in cui il rasoio di Luis Bufiuel, con identico movimento da destra a sinistra, tagliava l'occhio di un’altra donna nel prologo di Un chien andalou (1929). Un'indubbia suggestione il surrealismo bunueliano l’ha esercitata nell'immaginario cinematografico del nostro autore, che non ha mai fatto mistero degli studi di pittura surrealista all'Accademia delle Belle Arti di Cracovia. Non ci sembra opportuno parlare di un'influenza: sotto alcuni aspetti, Polanski e Bunuel procedono senz'altro paralleli’. Nella scelta, ad esempio, di una tecnica di ripre-
' La caduta degli angeli (Gdy Spadaja Z Nieba Anioly, 1959) racconta la solitudine silenziosa di
un'anziana guardiana di toilettes pubbliche, prigioniera dei suoi ricordi come delle mura anguste del suo sotterraneo. 16
Due icone del surrealismo:
Un chien andalou di Luis Bufiuel.
sa semplice e per nulla esibizionistica, tesa anzi a nascondere l’artificio del mezzoÈ, come nella predilezione per un filtro particolare attraverso cui leggere la realtà: lo humour nero. Presente con funzione di anticlimax nel finale del film, con un anziano vi-
cino che si preoccupa per due volte di procurare del Brandy alla povera ragazza, lo humour nero è cifra stilistica di altre opere polanskiane, come Cul de sac e Per favore non mordermi sul collo, parodie del genere gangster e vampiresco. Ma torniamo al nostro occhio. Due volte i titoli di testa lo sezionano, come seconda lama agisce proprio la ‘firma’ dell’autore, sempre da destra verso sinistra: “Directed by Roman Polanski”. E due volte si ripeteranno molti gesti e situazioni nel corso del film: due irruzioni nell’appartamento, due omicidi, due notti disturbate dai gemiti della porta accanto, due volte ci verrà mostrata in p.p. una fotografia, e così via. Molte cose, tra cui i destini stessi di alcuni personaggi, accadono due o più volte nel
cinema di Polanski, ma “non esattamente nello stesso modo”, come dice un personaggio di Che?: “Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, perché non è mai la stessa acqua, né lo stesso bagnante...” Ci viene in mente la didascalia firmata
“Luis Bufiuel” e inserita, almeno nella copia italiana, prima dei titoli di testa de Langelo sterminatore (El angel exterminador, 1962):
? Polanski ha in progetto da tempo un remake di Belle de jour. Ma già Repulsion anticipava, seppur va-
gamente, il film di Bufiuel del 1967: una Deneuve alla presa con gli incubi di una sessualità repressa. ?“L80% delle mie inquadrature — ha detto Bufiuel — si muove, ma molto lentamente, per cui non
si avverte.” (in Alberto Cattini, Luis Buriuel, Il Castoro Cinema, p. 9). Quanto a Polanski, così ha dichiarato: “In Rosemary la m.d.p. si muove sempre, con movimenti molto complessi, ma che non si vedono, perchè servono a raccontare” (in “Positif”, n° 102, febbraio 1969).
‘Cappabianca, Roman Polanski, cit., p. 9.
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Carol e una collega nello spogliatoio.
“Se il film che state per vedere vi sembra enigmatico o incongruente, anche la vita lo è. È ripetitivo come la vita, e come la vita è soggetto a molte interpretazioni”. L'angelo sterminatore, di poco anteriore a Repulsion, si concludeva con la ripetizione di una situazione, l'incapacità di uscire da uno spazio chiuso, che, in precedenza, aveva dovuto essere ricostruita per poter essere risolta. Per poter uscire dalla villa i protagonisti avevano ripetuto gesti e situazioni della sera in cui vi erano entrati; nel finale si ritrovano di nuovo in un luogo chiuso, in una chiesa da cui nessuno riesce ad uscire?. Non si sa se si tratti di un déjà-vu, non si sa perché, non si sa nulla. Polanski e Bufiuel amano proprio questo, l'incertezza. Tra reale e immaginario, tra visto e sognato, tra ciò che appare e ciò che non si vede. »
° Anticipiamo alcuni esempi di circolarità nelle vicende polanskiane: la coppia de // coltello nell'acqua e quella di Frantic si trovano alla fine in una situzione identica a quella iniziale: in auto, sullo
stesso percorso affrontato all’inizio (un viale alberato ne // colte/lo e una statale per Parigi in Frantic). Tutto, per loro, porebbe ripetersi.
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L'occhio come simbolo sessuale
“La caratteristica dell'occhio — ha scritto Michele Canosa — di essere oggetto seducente e repellente [...] è dovuta senza dubbio all’analogia di forma, alla simbolizza-
zione inconscia che lo apparenta e lo assimila ai genitali”. Allo stesso modo degli organi sessuali, l’occhio è “fonte di attrazione e repulsione, e ciò in conseguenza del gioco del divieto e sospensione del divieto””. Non siamo molto lontani dal dramma di Carol, che vedremo provare repulsione per tutto ciò che è legato alla sfera sessuale: i gemiti di piacere della sorella, un bacio del fidanzato, che
respingerà lavandosi la bocca, o le lenzuola del letto della sorella, su cui ella scorge tracce inequivocabili di un atto sessuale. “Lo stridio del rasoio affilato, — continua
Canosa — che incontra la superficie viva dell’occhio [...], denuncia il carattere repressivo della visione alla quale l’occhio è condannato...”.
Nessuna “denuncia” in questo divertimento cinefilo di Polanski, che con i rasoi e i coltelli ha sempre amato giocare. Come il ragazzo de // coltello dell'acqua, personaggio che lo stesso autore avrebbe voluto interpretare*, o il gangster di Chinatown, interpretato
proprio da Polanski, responsabile di quel taglio sul naso del cinico detective (Jack Nicholson). Quella compiuta dalle lame dei due titoli di testa è solo una delle tante ferite subite dagli eroi polanskiani. Ci piace ricordare, oltre al taglio compiuto da Carol sulle dita di una sua cliente, il
gioco erotico che la Mimì di Luna difiele arbitra nei confronti del suo amato, dopo averlo ferito al volto con un rasoio?. “Sembra quasi — scrive Cappabianca — che il naso in Chinatown sia un sostituto dell’occhio, se è vero che Chinatown è un film di occhi accecati |...}: la lente rotta degli occhiali trovata da Gittes, l'occhio nero della moglie del camionista tradito, la macchia scura nell’occhio di Evelyn, il lampeggiante dell’auto rotto, l'orbita vuota dell'occhio di Evelyn uccisa”.!° Bene: due occhi accecati, coperti da alcune garze, lo sco-
priremo tra poco, si trovano proprio sozzo gli occhi di Carol, nello stesso spazio in cui ci ambientano i titoli di testa. Ma Carol, forse, non li guarda neppure. Per il resto Repulsion sarà un film pieno di occhi aperti: buchi di serrature, fori nel muro, spionci-
ni di porte. Occhi che Carol sentirà aperti su di lei.
6 Michele Canosa, L'occhio e il suo doppio: la prima sequenza di Un chien andalou, in: “Cinema e Cinema” n° 18\19, gennaio-giugno 1979, p. 138. ? George Bataille, L'erotismo, tr. it., Mondadori, Milano 1972, p. 79. (Il corsivo è nostro).
* Decise di limitarsi alla regia per non sovraccaricarsi di impegni proibitivi, essendo al suo esordio nel lungometraggio.
® Questa sequenza sembra quasi una citazione di Cu/ de Sac. Là il gangster viene ferito ai volto dal rasoio con cui l’effemminato George gli sta facendo la barba.
'* Cappabianca, op. cit., p. 73.
Non tutti i titoli, come abbiamo visto, sezionano l'occhio di Carol, ma lo attraversano in senso verticale, emergendo dal basso per poi scomparire sotto la palpebra, quasi assorbiti, 4rtratti da quello sguardo vivo. Scorrono obliqui, non ordinati, quasi senza peso, come se il campo di attrazione magnetica creato dall'occhio facesse perdere loro stabilità. Forse è solo una wmeise en abîme della futura perdita di stabilità mentale della protagonista, leggibile più avanti anche nella metafora, non troppo sottile, della Torre di Pisa raffigurata sulla cartolina inviatale dalla sorella. Ma, soprattutto, questi titoli scorrono verso l’alto, nella direzione in cui, di norma, sfilano quelli di coda. Lo stesso accadrà in Per favore e in Tess, dove “lo scorrere dei credits verso l’alto in sovrapposizione all'immagine [...] sembra chiudere il film nella malinconia di un con-
gedo proprio alla sua apertura”."! Si conferma la sensazione che già in precedenza avevamo avuto: il film si apre come se si chiudesse, tutto è già deciso per Carol. Non scorrono verso l’alto, invece, i titoli di testa forse più vicini a questi: quelli di Luna difiele, storia di un amour fou diviso tra attrazione e repulsione. Da un mare scuro e minaccioso, zero come la pupilla di Carol, uno zoom out ci porta all’interno della cabina di una nave, quel tanto che basta perché l’oblò, finestra a forma oculare, riempia la superficie dello schermo. Un altro occhio dunque, questa volta un vero e proprio punto di vista su di un zero, forse il punto di vista stesso del protagonista, che scopriremo poi abitare quella cabina. Sarà lui, bloccato sulla sedia a rotelle, il narratario della (propria) storia, incapace di partecipare alla realtà se non con lo sguardo. Noi ascolteremo quella storia secondo il suo punto di vista, così come, ce lo confermerà l’uso frequente di soggettive, vivremo la storia di Carol secondo il punto di vista di quest'ultima. Attraverso il suo occhio.
Raffigurazioni del corpo per frammenti
Dopo quest'occhio, tre inquadrature. Nell’ordine: un volto, due mani e poi ancora un volto. Tre parti del corpo. E con dei corpi, con le loro ombre e i loro fantasmi, i loro odori e le loro voci, avrà a che fare la protagonista. Repulsion è l’unico film di Polanski che inizia con dei primissimi piani: per il resto troveremo soprattutto campi lunghi (Cw/ de sac, Tess) 0 piani d’insieme dei paesaggi dell’azione (Per favore non mordermi sul collo, Rosemarys baby, Che?, Macbeth).
Oltre che all’interno del dramma di Carol, questi tre piani ci introdurranno fel primo degli spazi chiusi del film, il salone di bellezza dove Carol lavora come manicure. Analizziamoli.
!! Daniela Turco, La cicatrice bianca, in AA. VV. (a cura di Edoardo Bruno), Roman Polanski, Gremese, Roma 1993.
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Occhi aperti sul vuoto.
Un volto senza trucco
Ora i titoli sono finiti e con loro anche quel battere cupo di un ipotetico tamburo. Sulle note di una musica malinconica la m.d.p. allarga il campo e si ferma sul primissimo piano di una ragazza: non conosciamo ancora il suo nome, ma almeno sappiamo che quell’occhio apparteneva ad un personaggio femminile, come quello del prologo di Un chien andalou. “Il primo piano — sostiene Deleuze — non è un ingrandimento e, se implica un cambiamento di dimensione, è un cambiamento assoluto”.'* Nel nostro caso si tratta sì
di un cambiamento di dimensione, ma dal grande al piccolo, dal particolare in primissimo piano (l'occhio) all'insieme (il volto), e non viceversa.
Non esiste la possibilità di collocare questo volto in uno spazio: non solo è isolato, ma ciò che lo isola, ovvero tutto ciò che si trova attorno alla ragazza, è qualcosa di mi-
sterioso, qualcosa che non abbiamo ancora visto.
Gilles Deleuze, L'immagine movimento, tr. it., 1985, Ubulibri, p. 118. 21
L’angolazione non aiuta; l'illuminazione, proveniente dall’alto, non fa altro che rile-
vare l’ombra provocata dalle ciocche di capelli sulla fronte. Come gli altri volti di donna del primo Polanski anche questo è un volto senza trucco, apatico, indice di una femminilità fredda, trattenuta sotto la pelle. Non mascherato, questo volto diventa perciò esso stesso maschera e il suo spazio non è più narrativo, ma diventa uno spazio virtuale, sconnesso, vuoto.
In questione è la leggibilità, qualità peculiare del volto nel cinema narrativo classico, che cercava la trasparenza di contenuti attraverso 1'invzsibilità delle forme. Polanski lascia che questo volto si dia a vedere: il volto del cinema moderno è proprio quello che, come dice Aumont, “rifiuta di farsi leggere per meglio farsi vedere”. Frequenti saranno, nel corso del film, i primi piani difficilmente leggibili della protagonista: vedi, ad esempio, quello che la isola nella cucina durante un dialogo con la sorella, con lo sguardo volto chissà dove, al di là dei bordi dell’inquadratura. Si tratterà spesso di “dé-visages” (Aumont), ovvero di volti sfigurati dal grandangolo, nel caso di Carol, o spezzettati nei dettagli della bocca o degli occhi, nel caso delle clienti del salone di bellezza. Tutta la corporeità del personaggio è enigmatica e misteriosa, comprensibile solo una volta accertata la patologia che affligge la ragazza. Il fidanzato, la sorella, l'amica noteranno presto qualcosa di anomalo nei suoi scatti nervosi, nel suo assumere posizioni rigide, lo sguardo fisso verso il basso. Ma non riusciranno a decifrare il tutto.
Due mani
Passiamo ora alla seconda inquadratura del film: un’altra parte di corpo, due mani
strette tra loro. Due mani legate, ma completamente slegate dal quadro precedente. Una di esse potrebbe appartenere al corpo cui rinviava quel volto, ma nulla ce lo garantisce: questo stacco ci ha portato in uno spazio altrettanto ambiguo e misterioso. Nessuna continuità, infatti, di “contenuto materiale” tra le due inquadrature. Non solo non c'è alcun elemento identico, ma ora gli elementi sono due, non più uno. Le mani, che si dividono in parti uguali la superficie del quadro, evocano la presenza di due corpi fuori campo, mentre quel volto apparteneva ad un corpo solo. Esse risaltano, nella loro fisicità, sull’immaterialità del fondo bianco, grazie anche ad al-
cune opposizioni plastiche all’interno del quadro. Quella in alto, in posizione perfettamente verticale, è resa quasi mostruosa dalle vene gonfie di sangue a causa della posizione verticale. La mano in basso, invece, occupa una posizione orizzontale ed appare, nel
‘L'unità del volto — scrive Aumont — è distrutta, il volto non è più unità di montaggio” (Jacques Aumont, Du visage au cinéma, Cahiers du tinéma, 1992 p. 78).
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L’attrazione è una figura verticale.
suo biancore innaturale (l’altra era quasi rossa, tanto era gonfia), quasi immateriale, senza vita. Opposta dunque a quell’altra, così come in totale disarmonia e contrasto con le cose e le persone che la circondano si troverà la proprietaria di quella mano, Carol. Al centro di questa inquadratura, le mani sono anche uno dei centri narrativi del racconto. Carol lavora con le mani sulle mani delle clienti del salone. L'oggetto delle attenzioni di Carol è allo stesso tempo lo strumento per un rapporto col mondo esterno. Ferire la cliente equivarrà proprio a negare la propria identità sociale, capovol-
gendola, passando dalla parte opposta: da colei che cura a colei che ferisce. Infine, lo vedremo a proposito delle sequenze oniriche, saranno proprio alcune mani a minacciare il suo isolamento all’interno della sua abitazione.
Un volto mutante
Polanski gioca ancora sui contrasti: al volto-maschera senza trucco di Carol, si contrappone ora un volto coperto da una maschera di bellezza che lo rende irriconoscibile.
Anche qui nessuna continuità con le mani del quadro precedente. A differenza del 23
primo, questo volto è poi disteso in posizione orizzontale, e non più simmetrico a quello di un ipotetico spettatore. Appartiene ad una delle clienti del salone, suoi sono quegli occhi accecati, coperti dalle garze, a cui accennavamo al paragrafo precedente. Questi personaggi, il cui resto del corpo è interamente nascosto da un lenzuolo, sembrano dormire, come mummificati. Eppure, ed ecco l'ironia e la voglia di confondere polanskiane, è proprio questa cliente che ‘sveglia’ Carol dal suo torpore: “Si è addormentata?”. E la prima voce che sentiamo: queste maschere sono, e ciò le rende ancora più terrificante, maschere parlanti: le sentiremo spesso lamentarsi o divertirsi con battute a sfondo sessuale. Non si muovono e non vedono, grazie a quelle garze sugli occhi. Non a caso, quando si tratta cambiare il solito smalto con uno diverso, la padrona suggerisce a Carol: “Gli metta questo, non noterà mai la differenza”. Sono corpi inanimati, pure voci, creature che stanno trasformando il loro corpo. Per essere di nuovo oggetto di attr4zione fuori, sono costrette, lì dentro, a mascherare il loro volto fino a renderlo mostruoso, repellente: sono l’immagine sensibile di una tra-
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sl it), I
La maschera mostruosa della bellezza.
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sformazione. Anche Carol, nel finale, trasformerà il suo aspetto, truccandosi davanti allo specchio e scompigliando i suoi capelli. L'ultima sequenza ce la consegnerà in una posa molto simile a quella di questi corpi: distesa sul dorso, gli occhi sbarrati, una mano abbandonata. Una mano che tanto ci ricorda quella della seconda inquadratura, fuoriuscita dal lenzuolo bianco.
Ricomposizione
La m.d.p. ora indietreggia, allarga il campo e scopre ciò che prima aveva nascosto: possiamo vedere unite, in un piano di insieme, Carol e la sua paziente. Non c'è più motivo di aver paura, siamo in un banale salone di bellezza. Ma non per molto. Infatti ciò che poteva apparire come una sala operatoria sembra poi diventarlo quando, più avanti, Carol ferirà con una lama la sua cliente: anche i luoghi quindi si trasformano, nel corso del racconto, come i personaggi. Riassumendo, queste tre inquadrature ci hanno presentato altrettanti protagonisti
della storia: a) Carol: l'eroina del dramma b) Le mani: oggetto del suo lavoro e, come vedremo, oggetto di repulsione e stru-
mento di morte. c) Le clienti all’interno del salone di bellezza: gli unici esseri umani con cui la ragazza è in contatto fisico (le tocca, ne stringe le mani). Respingerà infatti qualsiasi altro contatto, non sopporterà né di toccare, né di essere toccata.
A questo punto ci potremmo chiedere il perché della scelta di frammentare il corpo di Carol. Prima la pupilla, poi un occhio, poi il volto, quindi la mano. In seguito, la prima immagine all’interno dell’appartamento ci mostrerà solo i piedi della ragazza. Forse tutto ciò è solo l’immagine sensibile della frattura interiore del personaggio,
che abbiamo già presentato come psicotico e che è ispirato, come ricorda Polanski, ad una ragazza conosciuta a Parigi.
Salomon Resnik, analista di formazione kleiniana e studioso del vissuto corporeo nei pazienti psicotici, ci aiuta: “L'immagine del corpo nella crisi psicotica si disintegra, si
frantuma; il corpo rischia di sparpagliarsi nel mondo degli oggetti. L'essere perde allora il suo carattere di individuo e quindi di persona”!'. Ebbene, se osserviamo attentamente Carol, nella sequenza, in esterni, successiva a quella del salone, notiamo come ella indossi una camicetta a fiori dal motivo del tutto identico a quello della carta da parati che rivestiva le pareti di quella stanza del salone. Come se una parte
Salomon Resnik, Persona e psicosi: il linguaggio del corpo (1972), trad. it Einaudi, Torino 1976, p. 21: “L'individuo porta diverse maschere restando sempre una sola persona. La nozione di persona rimanda sempre alla nozione di individuo”.
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di quello spazio fosse rimasta in lei, o quello spazio avesse assorbito un frammento della sua persona, frantumandola".
Esterni chiusi: la proiezione del desiderio
Ma seguiamo Carol nel suo tragitto verso casa. Le vie di questo quartiere del West End ci verranno mostrate in quattro situazioni nel corso del film, sempre come sfondo dei percorsi, a piedi, della ragazza. Nel primo e nel secondo giorno, l’uscita dal salone per la pausa-pranzo; qualche giorno dopo, l’attraversamento di un ponte e il passaggio sul luogo di un incidente tra due auto. Londra appare come l’Amsterdam de La collana di diamantî'*: incidenti d’auto in pieno centro cittadino. Come già nello sketch olandese, la m.d.p. segue solo gli spostamenti del personaggio, raramente si sofferma su un quadro urbano vuoto della ragazza, che pre-esiste sempre all’inquadratura. Non vedremo mai un porzait della città senza che Carol non sia già in campo. Comune a tutti questi quadri è il movimento: interno, come quello delle auto o dei
pedoni, ma soprattutto esterno, dettato dal pedinamento a mano della m.d.p., che segue a piedi i passi della ragazza, le passa accanto, la supera e la aspetta. Evidente sembra l'intenzione del narratore di portarci dentro lo spazio di Carol, facendoci assumere il punto di vista di un passante. Ma l’ambiguità rimane, come ci conferma la seconda inquadratura 4 seguire nel primo esterno. La macchina scarta a sinistra, abbandona Carol e si sofferma sul volto di uno stradino, il quale aveva appena cercato di abbordare la ragazza. Questa rotazione all’indietro potrebbe non corrispondere più al nostro punto di vista. Potrebbe essere una proiezione del desiderio, represso da Carol, di accogliere quella proposta sessuale dell’uomo. La m.d.p. in questo caso, esternerebbe nello spazio le pulsioni latenti nella protagonista, che è divisa: il suo corpo va avanti, il suo desiderio si gira indietro. Noi guardiamo lo stradino dall’interno del “paesaggio del cervello” di Carol. Una funzione molto simile assumerà un altro movimento di m.d.p. all’interno dell'appartamento. Carol è a letto e cerca col cuscino di allontanare dalle sue orecchie i gemiti d'amore provenienti dalla camera della sorella: la m.d.p. si muove all’indietro, allontanandosi da Carol e al contempo allontanandosi anche da quei rumori, pro»
‘ Resnik riporta una confessione di una paziente affetta da sindrome di negazione del corpo: “io non ho corpo, i vestiti mi opprimono, sono all’interno di qualcosa che mi avvolgee che non mi lascia uscire...I muri mi opprimono” (Resnik, Persona e Pricosi cit., p. 56). ‘Episodio polanskiano de Le più belle truffe del mondo (Les plus belles escroqueries du monde, 1962), in cui si narra l'avventura di una ragazza che ottiene con la truffa una collana di diamanti per poi scambiarla con un pappagallo.
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prio come vorrebbe fare la ragazza. Mano a mano che il campo si allarga, i gemiti si
fanno più lontani. Anche questo movimento di macchina sembrerebbe visualizzare un desiderio di Carol.
Uno spazio antropomorfico
Come l’occhio di Carol, queste vie sono penetrate, tagliate in senso orizzontale dalle auto o da altri mezzi. Sia il primo che il secondo esterno, collocabili in due giorni successivi, cominciano con l’attraversamento dello schermo, da sinistra a destra, di un'auto. Molti sono gli incroci attraversati dalla ragazza e l'incrocio è figura della pluralità di direzioni che le si offrono: è qualcosa che frammenta e divide in più biforcazioni una
strada. Sezionate dalle auto come da un rasoio, queste strade sono anche fratturate e biforcate come la personalità della ragazza, la quale, non a caso, sofferma lo sguardo
su una crepa che minaccia l'integrità di un marciapiede: è l’unica cosa che guarda, per il resto nulla del paesaggio cittadino sembra attrarla.
Il tema del biforcuto verrà poi ripreso nelle forbicine con le quali Carol ferisce la cliente, negli effetti di controluce che mettono in risalto l’inforcatura del corpo mentre cammina nell’appartamento e soprattutto nelle crepe che fanno spostare fragorosamente le pareti di una stanza, intrecciandosi con le sue fissazioni di stupro.
Quella dello stupro è una ossessione di Carol" e la penetrazione che le auto compiono proprio davanti a lei, tagliandole letteralmente la strada, potrebbe esserne una metafora. Resnik, nell’analisi di un soggetto afflitto da una sindrome di negazione del corpo, individua un rapporto col mondo esterno molto simile a quello riscontrabile in Ca-
rol: “Il mondo esterno è un mondo minaccioso, popolato dalle ombre del mondo interno di chi vi si affaccia”!#. E ancora: “Il mondo che circonda lo schizofrenico è in-
vestito della proiezione dell'io delirante di un'intenzionalità paranoide: il mondo esterno parla di lui, attraverso parole, azioni, metamorfosi di oggetti”.2 10)
L'immagine del doppio
Il tema del riflesso, nel vetro o negli specchi, è un'ossessione di tutta l’opera polanskiana. Eloquente è un primo piano di Carol all’interno dell’appartamento: seduta,
? Ed è anche un'ossessione di Polanski: Rosemary baby, Tess, Che?, La morte e la fanciulla e Chinatown vedono le loro protagoniste oggetto di violenza sessuale. ‘* Resnik, Persona e psicosi cit., p. 53.
'ibid., p. 76 27
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Carol e il suo doppio.
in cucina, volge lo sguardo verso un ampolia di vetro di fronte a lei. La mdp si avvicina, e ci mostra due volti di Carol, che si dividono in parti uguali il campo: la ra-
gazza fissa la sua immagine deformata riflessa sul vetro.
Carol ci appare così dentro quel vetro, come la cleptomane Nicole (sempre di sdoppiamento della personalità si tratta) era dentro la vetrina della gioielleria che contemplava dall'esterno (La collana di diamanti )®. Pensiamo poi a Due uomini e un armadio, con le vie della città riflesse sullo specchio dell’armadio, e a Per favore non
mordermi sul collo, icui protagonisti, vampiri, non possono riflettersi negli specchi in quanto sono riflessi essi stessi. Senza dimenticare l’immagine di Rosemary attratta in una vetrina natalizia nel centro di Manhattan: davanti a lei la natività, un'icona che
ella rovescerà partorendo il diavolo. ; In Luna di Fiele, infine, interessante è il gioco speculare tra vissuto e ri-vissuto: Nigel probabilmente si innamora del riflesso letterario di Mimì, della Mimì raccontata, a
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L'acqua è spesso, in Polanski, associata al riflesso: Macbeth vede la sua immagine riflessa nel paio-
lo delle streghe. In 7ess, la sequenza in cui Angel si dichiara a Tess si apre sul riflesso, capovolto, del-
le lattaie nell’acqua dello stagno. £
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Riflessi nel vetro: l’lo diventa l'Altro
Rosemary’ Baby 29
noi per immagini, a Nigel per bocca, dallo scrittore fallito Oscar: “Polanski racconta la storia [...] come Oscar la racconta a Nigel, o forse come Nigel /a ascolta”?
Ma sul riflesso come meccanismo di duplicazione, collegato alla figura dello specchio, torneremo a proposito de L'inquilino del terzo piano.
L’appartamento e i suoi misteri
bagno
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camera sorella
convento