Roman Polanski 8880332589, 9788880332589


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Roman Polanski
 8880332589, 9788880332589

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ROMAN POLANSKI

Alberto Scandola (1973) è docente a contratto di Storia e critica del cinema presso l’Università di Verona (Scienze della Comunicazione). Ha insegnato per due anni Analyse de l’image all’Università di Nizza Sophia-Antipolis. Sotto la direzione di Michel Chion sta ultimando una tesi di dottorato sul cinema di Marco Ferreri (Università di Parigi III). Tra le sue pubblicazioni, oltre a saggi su Ophuls, Olmi e Piavoli, si ricordano alcuni contributi nei volumi, da lui curati, Il cinema e la metafora del doppio (1997), Il cinema di Lars von Trier (1997), Il cinema di Atom Egoyan (1999). Di Roman Polanski ha analizzato alcuni stilemi nel recente Il fantasma e la fanciulla (2001). Collabora con il Centro Mazziano di Verona e con l’Espace Magnan di Nizza.

luglio - agosto - settembre 2002

Alberto Scandola

Roman Polanski

Il Castoro Cinema Direttore responsabile: Renata Gorgani Redazione: viale Abruzzi 72, 20131 Milano [email protected] www.castoro-on-line.it Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 373 del 30/6/97 Abbonamento annuale (4 numeri) e 36,50 da versare sul c/c postale n. 36028207 intestato a Editrice Il Castoro srl, Milano

Progetto grafico: Studio Tapiro, Venezia In copertina: Il pianista Impaginazione: Maria Panuccio

© 2003 Editrice Il Castoro srl ISBN 88-8033-258-9

il castoro cinema

Assurdo

Dopo la morte di Sharon, a dispetto delle apparenze, la mia gioia di vivere è incompleta. Di fronte a insopportabili tragedie personali, ci sono persone che cercano e trovano consolazione nella religione. Nel mio caso è accaduto il contrario. Tutto quello che avevo di fede religiosa si è ridotto in briciole con l’assassinio di Sharon. Ha rafforzato la mia fede nell’assurdo. Ho l’impressione di faticare senza un fine chiaro e il sentimento di aver perso il diritto all’innocenza, al puro godimento dei piaceri della vita (1984). Attori

Lessico polanskiano

Recitavo sempre i personaggi preparando un film, prima che gli attori li interpretassero. Gli mostravo quello che volevo, come un direttore d’orchestra indica una nota a un musicista. Non sa cantare, ma riesce a comunicare. Quando mostro quello che voglio, non lo mostro bene. In primo luogo non lo saprei fare, in secondo luogo non lo voglio fare. Perché indicando bene, voi scoraggiate l’attore, è penoso. Ma indicando male, l’attore capisce le vostre intenzioni e questo gli dà la voglia di perfezionarle (1988). Che?

La sceneggiatura è migliore del film, più folle, più buffa, piena di scherzi e allusioni molto sottili. Volevamo prendere in giro tutto, ma non c’è abbastanza derisione nel film: non è abbastanza spinto, è un po’ troppo contenuto, un po’ troppo organizzato. Mi sono reso conto di questo solo due anni dopo, quando ho riletto la sceneggiatura, molto più buffa e caricaturale nella descrizione dei personaggi. Credo che abbia i difetti dei film di Hitchcock. Non bisognava fare un film alla Hitchcock, non per il formato ma a causa degli obiettivi. Lo scope non permetteva di avvicinarsi abbastanza ai personaggi, per via delle focali che offre. Insomma, in questo senso è un film sbagliato (1979). Chinatown

Volevo evocare il mondo e l’epoca di Dashiell Hammett e di Raymond Chandler, ma per mezzo di una ricostruzione scrupolosamente esatta dell’ambientazione, dei costumi, della lingua; non con un’imitazione deliberata, nel 5

1973, delle tecniche cinematografiche degli anni Trenta. Se avessimo imitato Il mistero del falco, la principale caratteristica del film sarebbe stata la somiglianza con un buon thriller hollywoodiano. Volevo il Panavision e il colore [...] ma anche un operatore che sapesse identificarsi con l’epoca (1984). Cinemascope

Perché il cinemascope? Perché si vorrebbe avere l’immagine attorno alla testa, si vorrebbe lo spettacolo totale, il suono stereofonico e anche gli odori. In ogni caso, il formato abituale quadrato è arbitrario e limitativo. Col cinemascope si può avere l’attore in primo piano ma allo stesso tempo abbastanza spazio per sentire cosa accade dietro. È difficile da utilizzare perché anche se si avvicina alla visione umana, il nostro occhio è abituato ad altre cose. I quadri non sono mai inquadrati così... (1979). Circolarità

È una forma di eleganza che mi ha sempre sedotto nel cinema. Mi piacciono molto le opere dove c’è un inizio, uno sviluppo e un finale in cui si ritorna al punto di partenza. Vedete che anche nelle opere musicali c’è questo tipo di struttura. La costruzione dell’opera è importante per me, mi sembra che si debba sempre finire su di una nota tenuta (1993). Coltello nell’acqua, Il

Il mio film di diploma era stato barocco e teatrale. Desideravo dunque che il mio primo lungometraggio fosse cerebrale, montato come una macchina di precisione quasi formalista. Il punto di partenza fu quello di un thriller classico: una coppia riceve a bordo del proprio yacht un ragazzo che poi scompare in circostanze misteriose (1984). Cul de sac

È il mio film preferito, il film più cinematografico che abbia mai fatto. Voglio dire che è una storia che può essere raccontata solo con un film. Non potrebbe essere un romanzo, né una trasmissione televisiva, né una pièce di teatro, un quadro; è veramente cinema (1979). Per essere onesto, se mi avessero chiesto 6

qual era il soggetto del film non avrei saputo rispondere. Non c’era un soggetto, ma solo l’espressione del nostro stato d’animo di quel momento. Gérard Brach e io eravamo appena stati lasciati da una donna e il personaggio di Teresa nacque da un leggero bisogno di rivincita (1984). Dettagli

Nessuno soffre come il regista quando si batte per ottenere ciò che vuole. Spesso, sapete che qualcosa non è come dovrebbe essere ma non avete chiaro che cosa non va. Per esempio, supponiamo che abbiate bisogno del primo piano delle dita di un uomo che tiene una sigaretta. Alcuni registi impiegherebbero pochi minuti. Ma forse l’inquadratura sarà più interessante se la sigaretta ha una cenere lunga che cade nel momento giusto, forse lavorando con la luce si vedrà meglio il fumo, forse c’è bisogno di un tavolo sullo sfondo e di qualcosa che accade (per esempio la mano di una donna su un bicchiere). Tutti questi elementi devono accordarsi con il resto dell’azione. Sono cosciente di quanto costa questo, ma non lo considero perfezionismo: è il minimo indispensabile (1971). Frantic

Il punto di partenza era un thriller, un uomo la cui moglie scompare. Era una preoccupazione che mi tormentava da molto tempo. Qualcuno che si assenta per una ragione banale e la cui assenza si prolunga. Capita a tutti. Si comincia a farsi delle domande. A partire da quale momento ho il diritto di inquietarmi? [...] Se si tratta di qualcuno con cui avete legami intimi, cosa fate? Cosa dite agli altri? «Questa persona è uscita, dovrebbe essere di ritorno». Per voi è inquietante, per gli altri no. Nel film, ciò che può apparire indifferenza degli altri non è che il loro modo ordinario di affrontare la vita. Il punto di vista del personaggio è per forza diverso (1988). Grandangolo

Credo che il modo in cui un essere umano vede sia simile all’immagine che dà un obiettivo grandangolare. Il mondo che ci circonda è tridimensionale, lo schermo lo riduce sfortunatamente a due dimensioni, che io provo a oltrepassare organizzando una messa in scena in profondità di campo. In questa mia 7

ricerca il problema è mostrare la prospettiva come la vedo io, non deformarla, non schiacciarla, per esempio, con delle focali lunghe. L’ideale sarebbe utilizzare un solo obiettivo, filmare i primi piani da vicino e poi allontanarmi, con questo obiettivo, per fare i campi medi e lunghi. La cosa più importante per me è piazzare la cinepresa alla stessa distanza dove io mi metterei per vedere ciò che filmo, e trovare l’obiettivo giusto, che dovrebbe rendere conto esattamente della dimensione degli oggetti o dei personaggi principali...È cosi che sono giunto alla scelta del grandangolo (1974). Humour

Scrivendo la sceneggiatura di Il pianista, ci si ricorda, si ritorna su certe cose. Si studiano i film d’archivio, le foto (ce ne sono migliaia). E questo è molto duro. È meglio essere con qualcuno per confrontarsi a questo esercizio psicologico, mentale o morale. Ron Howard era perfetto per questo. Prima di tutto ha un grande sense of humour. Tutto quello che mi ricordo è che ridevamo tutto il tempo. È stato un bel divertimento (2002). Immagine e parola

La gente ha detto che le inquadrature di Il coltello nell’acqua sono ben fatte. Questo perché non mi piace parlare, ma mostrare. L’immagine è la parte più importante del film. Se non mostri nulla, il film non ha senso. Se vuoi mostrare un uomo devi mostrarlo nel suo ambiente naturale, e il linguaggio è una parte di ciò che lo circonda. Ma non mi piacciono le situazioni troppo dialogate. Ci sono momenti in cui i personaggi parlano molto e non capisci nulla. Ma non è importante ciò che dicono, quanto il tipo d’atmosfera che essi creano (1963). Inquilino del terzo piano, L’

Se il film non è riuscito, sono l’unico responsabile. È un film della maturità, che curiosamente mi riporta agli inizi della carriera, dove l’emozione si mescolava allo humour, con un po’ di simbolismo. Non è una farsa. Spero che il pubblico ne colga lo humour e trovi il mio personaggio buffo, ma anche patetico. Spero che sia toccante, che la gente possa identificarsi con lui. Ho voluto fare un film sull’angoscia, non sulla paura. Trelkowski non sono io, completa8

mente. Io non provo vertigine davanti all’angoscia degli altri: mi ribello in modo aggressivo, mentre lui lo fa in modo autodistruttivo. È un tipo che abita in un quartiere qualunque di Parigi; ho voluto che sia comune e un po’ retrò. Ma ho tolto tutti gli elementi spettacolari e bohémien che avrebbero potuto riferirsi alla mia biografia (s.d.). Interno

Ciò che amo al cinema è la sensazione di essere dentro, all’interno di tutto, testimone invisibile di ciò che accade. Per questo amo il grande schermo e il suono stereo. Da bambino amavo film come Il fuggiasco e Amleto, dove lo spazio mi avvolgeva e allo stesso tempo ero trasportato in un altro mondo (1979). Lodz

Era un luogo privilegiato, con una certa libertà e una grande sete d’imparare. La libertà era una sorta di alibi per il regime. Ricordatevi che Lenin aveva dichiarato il cinema l’arte più importante: questo dava prestigio ai cineasti e nessuno osava toccarli troppo. La scuola di Lodz era un luogo dove si poteva discutere, dire ad alta voce, con una nonchalance d’artista ironica e distaccata, ciò che la gente pensava in segreto. Un po’ come nei seminari dove i preti scherzano sulla Madonna e su Dio. Inoltre, restavamo in contatto con la cultura occidentale, poiché vedevamo molti film americani. Ma la cosa più importante era la qualità tecnica dell’insegnamento: uscire da lì significava saper fare un film (1992). Londra

In Inghilterra mi sono sentito veramente libero, ovvero in un altro mondo. Una sorta di vertigine, dal punto di vista mentale. L’Inghilterra degli anni Sessanta era un Paese molto eccitante e io avevo bisogno di questa eccitazione, di incontrare persone diverse. Avevo l’impressione che tutto si muovesse attorno a me, che mi portasse via, che mi ispirasse, anzi, che mi aspirasse. Era questo sentimento: essere aspirato dagli oggetti, dai corpi, dal ritmo, da tutte queste mescolanze. Sono stati gli anni più belli della mia vita, gli anni più belli per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di farli coincidere con il loro momento d’ispirazione (1992). 9

Luna di fiele

Sulla nave il protagonista racconta una storia che si svolge a Parigi, ed è proprio l’incontro di questi due universi, l’utopia della nave filmata con realismo e il reale raccontato che fa la singolarità del film. Inoltre questo personaggio, Peter Coyote, è un americano che vive a Parigi. È una cosa che ho introdotto rispetto al romanzo di Bruckner, per rendere il racconto più complesso, seguendo lo sguardo di uno straniero a Parigi, e più realista, nel senso che tutto quello che dirà sarà americano. Tutto quello che descriverà l’avrà visto o sentito prima, senza avere avuto bisogno di inventarlo (1992). Macbeth

Non mi sentivo legato alle convenzioni del teatro elisabettiano. Shakespeare si era limitato a tre streghe. Ma sullo schermo sembrava più appropriato mostrare tutto un sabba [...]. Ecco la cosa importante: costruire un quadro spettacolare e coerente che avrebbe potuto sostenere il testo e amplificarlo, offrendogli una risonanza ancora accresciuta. Ai tempi di Shakespeare non era concepibile mostrare l’assassinio di un re. Ecco perché questo avviene dietro le quinte. Di comune accordo, Tynan e io decidemmo di mostrare questo evento così importante. Macbeth contiene solo alcune delle gocce che innaffiano un film di Peckinpah, ma la violenza era realista. Macbeth era una pièce violenta. E io non ho mai amato tirarmi indietro. (1984). Morte e la fanciulla, La

Mi piace avere un personaggio femminile come protagonista. Ma in generale li amo nella veste di vittime. Paulina invece non è vittima: lo è stata, ma ora è il momento della vendetta. È come la protagonista di L’angelo della vendetta di Abel Ferrara. Molti aspetti di questa storia mi hanno attirato, in particolare il problema della relatività della verità. Mi hanno sempre affascinato film come Rashomon o Citizen Kane, che presentavano molti punti di vista. Mi piacerebbe ancora fare un film in questo modo, dove il tema fosse una storia raccontata da più persone aventi ciascuna la propria versione dei fatti. La morte e la fanciulla rappresentava per me anche una sfida: tre soli personaggi, un solo luogo, un’azione molto concentrata. Questo mi eccita molto, mi annoio di meno a fare film così (1995). 10

Musica

Girando, non penso alla musica. Salvo per certe scene concrete, dove è evidente che avrò bisogno di un certo tipo di musica. In quei casi, spiego anche agli attori che genere di musica avremo e questo suggerisce loro dei comportamenti. Ma la maggior parte del tempo non mi preoccupo della musica, con il compositore, che una volta montato il film. Decidiamo quale sarà il genere e dove metterla (1988). Nona porta, La

Il racconto è fatto in prima persona, e il film è quasi completamente in soggettiva. A parte il breve prologo, Corso è sempre inquadrato e le informazioni passano attraverso di lui. Corso è una sorta di detective privato. Ed è spesso picchiato e malmenato, aggredito. È un principio dei romanzi di Chandler che apprezzo molto. Mi piace che il detective sia vulnerabile, che sia sorpassato dagli eventi. Quando ho letto il romanzo, alla fine mi sono sentito un po’ frustrato. Penso bisognasse concludere su di una nota drammatica spettacolare, su di una illuminazione erotica, una discesa in un inferno che non è più di dolore, ma di piacere (s.d.). Nouvelle Vague

Non feci mai parte della Nouvelle Vague e non desideravo esservi compreso. Mi volevo troppo professionale, ed ero troppo perfezionista. Se consideravo affascinante I quattrocento colpi di Truffaut e seducente Fino all’ultimo respiro di Godard, gli altri film, al di là dei primi Chabrol, mi terrorizzavano per il loro stile amatoriale e la loro povertà tecnica. Assistere alle proiezioni era per me una tortura impossibile (1984). Parigi

Dall’America ho portato in Europa un certo modo di guardare le cose, sempre un po’ deformato. In L’inquilino del terzo piano, ad esempio, Parigi assomiglia a una città esotica, è la Parigi di un meticcio. In Frantic, è lo sguardo di un americano che guida tutta la forma del film. Come un americano che sbarca a 11

Roissy alle sei del mattino vede Parigi, dalla periferia al suo Hotel? Non è la Parigi «immaginata» dall’America, come in Irma la Dolce o Un americano a Parigi, ma la città «vista» attraverso lo sguardo americano, con tutti i dettagli, in modo molto realistico. Ma gli oggetti sono interpretati da una cultura diversa (1992). Per favore... non mordermi sul collo

L’intenzione non era di fare una parodia, ma una fiaba. Qualcosa che potesse far paura ma che fosse anche divertente, con una parte di avventura, per soddisfare questa voglia infantile di aver paura senza pericolo, di poter ridere della propria paura. Come in un viaggio a Dysneyland o nel treno fantasma (1984). È un po’ come Ionesco. Si è spostato verso la cultura francese, ha scritto in francese ma ha portato con lui la sua casa «originale». Diciamo che questa casa che si porta sulle spalle è più o meno pesante, più o meno ordinata. È un po’ questa la storia di Per favore... non mordermi sul collo, una casa venuta dall’Europa centrale, filmata in un’ottica americana, ma con molto disordine, molto humour, qualcosa di tipicamente inglese. Per me l’esilio è quest’obbligo di viaggio, ed è stimolante (1992). Pianista, Il

Era importante che questo film fosse sincero. Il più piccolo dettaglio doveva essere esatto. Avevamo i brividi talvolta, quando trovavamo un piccola cosa dell’epoca e riuscivamo a correggerla perché fosse esatta. Non volevo che nulla mi sfuggisse. Abbiamo ingaggiato due esperti del periodo, gente che ha molte conoscenze, che fa questo mestiere per vivere. Il film richiedeva molta umiltà da parte di tutti, e in primo luogo da parte mia. Tutti volevano mostrare la propria arte, ma qui hanno capito che bisognava frenare questo desiderio. Per servire il film, dovevamo solo raccontare la storia. E raccontarla onestamente, in conformità con i nostri ricordi. Perché quelli che si ricordano di questo periodo, lo raccontano come era. Niente di più, niente di meno (2002). Piano sequenza

Non sono un maniaco del piano sequenza. Ho passato da un bel po’ l’età in cui si vuole far prova di virtuosismo. Detesto i movimenti di macchina gratui12

ti, maniacali. In Tess, per esempio, la cinepresa si muove sempre ma in modo quasi impercettibile. Il vantaggio del piano sequenza è di permettere all’attore di recitare in continuità, ma una tale tecnica non conviene a tutti gli attori. In sede di montaggio decidiamo di sacrificare la recitazione a vantaggio della scena o il contrario: è là che prendo le decisioni definitive (s.d.). Pirati

Volevamo far ridere del film e non del genere, contrariamente a Per favore... non mordermi sul collo, e allo stesso tempo fare un vero film di pirati, eventualmente più bello di tutti, con i colori, il grande schermo, il suono stereo. Pirati non ha nulla a che vedere con la mia biografia, ma molto con le mie ossessioni, tra cui la più importante, quella della forma, quella di certi oggetti, quella di un certo abito rosso che ho visto non appena ho iniziato a scrivere la sceneggiatura. L’ho sognato durante tutto il periodo delle riprese (1986). Polonia

Non ho mai immaginato la mia carriera in Polonia. In primo luogo la Polonia per me è stata sempre una terra di incertezza, a metà strada tra il lager e la zona devastata, un luogo dove non potevo crescere. D’altronde, non ci sono «cresciuto», ci ho vissuto, diciamo sopravvissuto, fino a ritrovarmi, a vent’anni, adulto. Ero una sorta di adulto dal corpo di bambino, un bambino-adulto con un trattino e null’altro in mezzo. Nulla di ciò che si chiama normalmente un’infanzia, un’educazione, un’iniziazione. Alla mia epoca pochi giovani ‘ambiziosi’ volevano fare carriera in patria, al contrario della generazione precedente, quella di Wajda, [...] che, pur temuta dal regime, poteva ottenere alcune facilitazioni. Per noi invece lo spazio polacco era meschino, stretto, e il cinema, qui, senza avvenire (1992). Realismo

La cosa importante è la logica propria dell’azione, della storia che raccontate. E l’azione deve sempre situarsi da qualche parte. È questo incontro tra l’azione e il luogo, il realismo, che è importante, ma può aver luogo dovunque. Ciò che conta è l’ancoraggio nel concreto. Anche nel caso del film fantastico, del film d’utopia, bisogna creare una cultura concreta nel Paese che inventate, dei costumi, delle usanze, degli oggetti...(1992). 13

Repulsion

Le allucinazioni più semplici erano le più difficili da realizzare. L’apparizione improvvisa di crepe nel muro fu il peggior rompicapo. A ogni ciak, bisognava richiudere e ridipingere in modo che si potessero aprire di nuovo. La grande difficoltà con la produzione fu quella di farle accettare il ritmo dei primi quindici minuti del film. Tutto l’inizio era costruito per condurre lentamente alla frazione di secondo coinvolgente in cui Carol ha la sua prima vera allucinazione, quando intravede bruscamente, nella porta dell’armadio a specchio che sta per chiudere, la figura di un uomo minaccioso nell’angolo della camera (s.d.). Rosemary’s baby

Il romanzo di Ira Levin era già strutturato come un film. Non comportava nessuna di quelle zone grigie o deboli che gli autori tendono a camuffare con l’eleganza della prosa o i trucchi di stile quando l’intrigo è debole. Il libro era un thriller ben costruito, e l’ammiravo in quanto tale, ma in quanto agnostico non credevo né a Satana come incarnazione del male né all’esistenza di un Dio personificato. Questo entrava in conflitto con la mia visione del mondo. Per la credibilità, decisi di preservare un equivoco: la possibilità che le esperienze soprannaturali di Rosemary fossero un puro prodotto della sua immaginazione (1984). Volevo dare più intensità, più senso del mistero ad alcune scene di interni. Così ho deciso di utilizzare una pellicola che si chiama flashed film. Si tratta di un supporto già sottoposto a una brevissima e uniforme esposizione, ideale per eliminare il nero e dare all’immagine una consistenza brumosa e indistinta (1986). Sceneggiatura

Brach e io non abbiamo un metodo. Abbiamo sviluppato insieme una specie di routine. Io racconto il tema e discutiamo. Ricamiamo, inventiamo chiacchierando. Poco a poco si crea una linea, una sequenza, che ci sembrano degne di essere trascritte su carta. È allora che Gérard comincia a scrivere. Mi legge quello che ha scritto. Si ridiscute. Spesso interpreto i personaggi. Mimo le situazioni. Mi muovo molto (1988). 14

Scenografia

Per quello che riguarda la scelta dei miei esterni in certi film, a volte sono stato ispirato unicamente da un paesaggio concreto. Per esempio nel mio primo lungometraggio tutta l’idea mi è venuta dal paesaggio della regione polacca Mazury, regione dei laghi. Ma era l’inizio e successivamente molto è cambiato nella ricerca dei miei temi. Oggi, invece, capisco che la cosa essenziale è la storia, e poi la ricerca della scenografia, dell’ambientazione. È molto difficile trovare una storia che mi convinca a girare. Anche se a volte sono sedotto da un ambiente, non è automatico poi trovare il soggetto da collocare all’interno di questo ambiente (1993). Sentimenti

Oggi, la gente ha vergogna di questo. Si è sviluppata un’inibizione delle emozioni negli ultimi quarant’anni, dopo la guerra. Ci sono registi che vogliono rifare Un chien andalou. Far questo oggi sarebbe completamente retrogrado. Guardate un po’ quello che accade nel cortometraggio, questa specie di falso intellettualismo, di pretenziosità, di pseudo-poesia. Niente di più insopportabile... Oggi bisogna fare dei film molto semplici, dei film che si basano su dei sentimenti primari, sull’emozione. Bisogna vedere le cose al primo grado. Credo che il mondo sia diventato talmente surreale che abbiamo bisogno di ritornare alle radici (1979). Sharon Tate

La morte di Sharon è la sola linea di confine che abbia veramente contato nella mia vita. Prima, navigavo su di un oceano di speranza e di ottimismo senza limiti. Dopo, ogni volta che ho avuto coscienza di divertirmi, mi sono sempre sentito in colpa. [...] Restano delle piccole cose, come fare una valigia, farmi tagliare i capelli, comporre il 213, prefisso di Los Angeles o il 396, per Roma: tutto ciò riconduce immancabilmente i miei pensieri a Sharon. Dopo tanti anni, quando vedo un bel tramonto, una bella casa antica, quando vivo un qualsiasi piacere visivo, qualcosa in me mi dice quanto Sharon avrebbe adorato tali cose. In questo, le rimarrò fedele fino al giorno della mia morte (1984). 15

Sogno

Spesso quando si mostra un sogno al cinema si usa il ralenti. È vero, c’è una sorta di ralenti nel sogno. Ma è una cosa molto difficile da rendere, molto difficile: nel sogno, come per il colore, anche lo sfondo esiste solo quando gli si dà importanza, quando lo si guarda...È difficile eliminare lo sfondo perché esiste sullo schermo. Se lo si fa flou non è la stessa cosa. Si esce da questa convenzione quando si ha un incubo, che non è né sogno, né realtà (1969). Spostamento (Décalage)

I film di Forman che amo sono quelli americani, di Skolimowski mi toccano quelli inglesi. Il mio modo di sentirmi europeo è effettivamente quello di essere “spostato” («décalé»). In primo luogo rispetto all’ambiente del cinema americano, ma anche in rapporto al cinema europeo. Il mio romanzo preferito assomiglia a questo paradosso. È L’uccello variopinto di Jerzy Kosinski, la storia di un bambino ebreo in Ucraina durante la guerra. Ma è scritto direttamente in inglese, è un romanzo americano. Il mio libro europeo preferito è americano...È molto buffo, ma ecco cosa sarebbe per me il vero “spostamento” del mondo: ciò che fa sì che l’America non è mai veramente l’America, che si rimette sempre un po’ in questione; ciò che fa sì che l’Europa sogna sempre di essere un po’ l’America. Ma senza crederci veramente (1992). Studio

Quelli che non amano lavorare negli studi sono quelli che non sanno utilizzarli. Non ho nulla contro la strada o la scenografia naturale, ma bisogna ammettere che raramente il risultato è migliore di quello ottenuto in studio. In una scenografia reale la vostra regia è deformata dai luoghi, gli angoli vi sono imposti, potete vedere la scena solo da un punto di vista. Come volete che la scena non abbia l’aria artificiale? (1995). Surrealismo

Certamente sono stato influenzato dal surrealismo nella mia giovinezza. Sono cresciuto in un universo che era già surreale. Era proprio il clima dello stalinismo in Polonia, dove tutte le forme di cultura, a parte quella ufficiale comuni16

sta, erano vietate. Nel momento in cui ho cominciato a scoprire tutti i movimenti dell’arte, soprattutto della pittura, sono rimasto molto impressionato da questa atmosfera che aveva, in rapporto con la nostra vita, un aspetto surreale. Certo nei miei primi film si trova meglio questa influenza, e in maggior modo nei cortometraggi. Ma allo stesso tempo l’urto con questa realtà comunista mi portava ancor più a dover dare una realtà ai miei sogni. Tutto quello che facevo non era però soltanto surrealista, anche perché i surrealisti continuavano a non voler dare un significato ai loro fantasmi (1993). Tess

Qualcuno aveva fatto leggere il romanzo di Hardy a Sharon proponendole il ruolo di Tess. Lei lo aveva adorato e me l’ha passato. Con Gérard Brach abbiamo eliminato il quaranta per cento delle peripezie romanzesche ma mi sono sforzato di conservare tutta l’atmosfera. Un massimo d’emozioni per un minimo d’immagini. Abbiamo un po’ sfrondato il romanticismo sfrenato del libro ed evitato le scene troppo naïf. Ciò che era accettabile nella letteratura del diciannovesimo secolo non lo è più oggi. Non credo di aver dedrammatizzato, ma piuttosto “desentimentalizzato” (1979). Vedere

All’epoca di Rosemary’s baby ero molto influenzato da un’opera che ha segnato il mio concetto di regia cinematografica. Questo libro brillante, L’occhio e il cervello. La psicologia della vista di Richard L. Gregory, dava una conferma scientifica a varie idee cui avevo aderito istintivamente all’inizio dei miei studi di cinema. Nel campo, ad esempio, della visione in prospettiva, dell’invariabilità dell’altezza e dell’illusione ottica. Gregory sostiene che le nostre percezioni sono condizionate dalla somma delle esperienze visive. Abbiamo l’impressione di vedere molte più cose di quante ne vediamo effettivamente, perché molte impressioni visive passate sono immagazzinate nel nostro cervello. Ciò spiega la reazione del pubblico all’uscita di Rosemary’s baby. Molti uscirono dalla sala convinti di aver visto il bambino, con le sue manine e tutto il resto. In realtà, tutto quello che avevano visto, durante una frazione di secondo, era un’immagine subliminale sovraimpressa degli occhi di gatto che fulminano Rosemary durante il suo incubo all’inizio del film (1984). 17

Violenza

Se la violenza sullo schermo spinge la gente ad atti violenti, significa che si tratta dell’idea della violenza sterilizzata da Hollywood. Come nei western dove il cattivo vi mette in un tale stato d’indignazione per novanta minuti che, alla fine, quando il buono se ne sbarazza, voi vi sentite sollevati e soddisfatti. La censura non troverà nulla da dire a riguardo. Ma se voi mostrate un assassinio in maniera atroce e realista, con le vittime che muoiono lentamente e orribilmente, ciò che mostrate è vero, perché è molto raro che un uomo muoia in un istante. Lo spettatore non può che provare un senso di disgusto davanti al gesto omicida, sullo schermo come nella vita (s.d.).

Le dichiarazioni sono tratte da: «Sight and Sound», n. 1, inverno 1963-64; «Positif», n. 102, febbraio 1969; «Cahiers du cinéma», n. 208, gennaio 1969; «Cinéma 72», n. 254, febbraio 1980 (Conferenza stampa, 1979); Roman Polanski, Roman, Editions Laffont, Paris, 1984; Pierre André Boutang, Polanski par Polanski, Chêne, 1986 (Dichiarazioni relative agli anni 1971, 1974, 1979, 1986 e s.d.); «Positif», n. 327, maggio 1988; «Cahiers du cinéma», n. 455-456, maggio 1992; «Filmcritica», n. 441442, gennaio-febbraio 1994 (Tavola rotonda, 1993); «Positif», n. 410, aprile 1995; Sito ufficiale di La nona Porta: www.bacfilms.com/porte (s.d.); A Story of Survival. Behind the scenes of The Pianist, Universal Studios, Dvd Wilde Side Video 2002 (Francia).

Welles

I miei compagni di scuola e io accogliemmo Quarto potere come una rivelazione. Non assomigliava a nulla di ciò che avevamo visto in precedenza. La cinepresa di Toland, l’utilizzo intenso del grandangolo, portavano lo spettatore all’interno della scenografia. Era la prima volta che vedevo dei soffitti in un film. Oltre a questi dettagli tecnici, si sarebbe potuto credere che Welles avesse girato il film in vista di un pubblico come il nostro. Il carattere epico della narrazione, l’originalità con cui era raccontata la vita di un uomo, tutto questo era nuovo. Era la creazione di un nuovo linguaggio cinematografico, pieno di ellissi, di allusioni e di sottintesi (1984). Wilder

Nei suoi film ci sono momenti di cinema d’esilio, come spero anche nei miei. Questi momenti non sono lontani dall’eresia, si iscrivono in un codice, in un genere, ma lo deviano attraverso l’ironia. Prendete l’incidente che decide il destino dei personaggi di Sabrina. Il protagonista si siede sul vetro e si ferisce il sedere. Wilder porta questo piccolo détour fino alla fine, ci ritorna in continuazione, visto che il suo eroe non smette di cadere e farsi male in quel punto. È questa ironia un po’ triviale che determina il seguito del film. In Chinatown, è un po’ la stessa cosa: il cerotto sul naso, nessun americano puro e duro se lo sarebbe permesso. Solo un europeo un po’ “spostato” potrebbe farlo: questo è il tocco europeo (1992). 18

19

I miei film si somigliano tutti? Sì, come i quadri di Picasso (Roman Polanski)

Il cinema è il cinema: identificazione di un autore

«To speak of Polanski is to speak of the modernism». Cosí nel 1985 Virginia Wright Wexman (Roman Polanski, Twayne, Boston, 1985) fotografava, con inquietante sicurezza, il volto di uno dei cineasti contemporanei più ambigui e allo stesso tempo più trasparenti, tanto parlato e visto quanto (ancora) poco indagato, analizzato, guardato. Oggi, dopo un decennio di insuccessi commerciali e indifferenza da parte della critica, Roman Polanski sembra aver finalmente messo d’accordo tutti, giuria di Cannes compresa. Si legge che Il pianista (The Pianist, 2002) è “il” capolavoro, che è un doloroso omaggio alla Shoah, che è un viaggio nella memoria... ma pur sempre un viaggio polanskiano. Come ha ben notato Hélène Frappat, il film «non è solo un affresco umanitario e accademico sull’olocausto, ma qualcosa di ben più ritorto e bizzarro di questo» («Cahiers du cinéma», n. 571, 2002). E se la Palma d’oro arriva da chi, come David Lynch, è oggi l’incarnazione manierata del «ritorto» e del «bizzarro», allora possiamo stare tranquilli: la superficie pulita e lucida dell’ultima opera, giocata su una bicromia pastello verde e marrone, nasconde forse, nelle sue maglie, qualche macchia perturbante dell’Autore. Appena visibile, come gli occhi gialli del Rosemary’s baby. Tra le infinite etichette e definizioni incollate a Polanski nel corso di quarant’anni di carriera, che lo vedono prima «nichilista misogino» (Belmans), poi «spacciatore di incubi» (Magrelli), «efficace» (Avron), infine «folletto dalle sette vite» (Cappabianca), quella di “moderno” ci sembra la più scontata e la meno originale ma forse, oggi, anche la più adatta a identificarne la poetica. Moderno è un aggettivo labile e pericoloso, vago e fluttuante, soprattutto se applicato al cinema: che cosa significa essere moderni? Polanski dirà che per lui la modernità consiste nel «raccontare qualcosa di interessante dal punto di vista drammaturgico». A noi piace ricordare gli aggettivi con cui il giovane Godard, oggi icona della modernità, vezzeggiava l’esordio del suo amico Truffaut, moderno in quanto «ostinato, testardo, orgoglioso, moralmente ed esteticamente libero» (Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, Garzanti, 1981). Testardo, orgoglioso e ostinato Polanski lo è stato (e lo è ancora, crediamo) nel cinema e soprattutto nella vita. Cicatrici interiori quali l’infanzia in solitudine nel ghetto, la perdita della madre nel lager, il barbaro assassinio 21

della moglie in attesa del figlio, l’arresto per violenza sessuale, giustificano la semplicità crudele con cui la vita si riflette nel suo cinema, ridotta ai minimi termini e alle pulsioni più elementari: violenza, inganno, mistero. Come il soldato Joker di Kubrick (Full Metal Jacket [Id., 1987]), Polanski si accontenta di essere vivo: «I’m in a world of shit, yeah, but I’m alive. And I’m not afraid». Anche ai suoi eroi, la vita non concede tregua. Non c’è tempo per meditare sulle radici del male o per riflettere sulle contaminazioni tra arte e vita, come in molto cinema “moderno” (Godard, Antonioni, Pasolini, Wenders): da qualche parte c’è sempre un vicino da temere, una porta da chiudere, un fantasma da cui fuggire. Ci sembra però che il concetto di «modernism» sia, nella sua ambiguità e nella sua vis retorica, perfetto per un cinema così “ottuso” (Barthes) e indecifrabile come quello di Polanski, da sempre mascherato di un classicismo leggero e rigoroso ma, come la sottoveste bianca di Carol (Repulsion [Id., 1965]), mai tale da offuscare il corpo dell’Autore. Costui è visibile proprio nella sua capacità di mimetizzarsi all’interno delle regole di un determinato genere (e Polanski di generi ne frequenta più d’uno, dall’horror al melodramma, dalla commedia al giallo, dalla parodia al film d’avventura) senza quasi mai soffocare, come invece capita a qualcuno dei suoi personaggi, nello spazio claustrofobico delle convenzioni narrative e figurative (cfr. Alberto Scandola, Il fantasma e la fanciulla. Tre film di Roman Polanski, Cierre, Verona, 2001). Su Polanski e sui suoi dolori si è scritto molto. In particolar modo negli anni Ottanta, quando, durante un silenzio artistico di sette anni (tale è l’arco di tempo che divide Tess [Id., 1979] da Pirati [Roman Polanski’s Pirates, 1986]), esce anche Roman: come indica il titolo, più che un’autobiografia un romanzo, dove il passato è inevitabilmente rivisto e falsificato sotto la lente del presente e messo in scena secondo una struttura circolare che sappiamo tipica del suo cinema. Ma il titolo nasconde anche la volontà di mettere in scena più l’uomo che il cineasta, mettendo a tacere ogni sorta di chiacchiera, leggenda, diceria o mito costruito dalla stampa. E rare sono le confessioni di poetica a vantaggio di dettagli sugli aspetti tecnici e pratici del mestiere come la mancanza di finanziamenti, le incombenze contrattuali, i dissidi con la troupe, i conflitti con gli attori, le condizioni di lavoro negli studios. Su tutto, però, emerge il ritratto di un’anima vagula et blandula, da un lato spinta in avanti da un fortissimo istinto di sopravvivenza, educato negli anni del ghetto, e dall’altro irrimediabilmente attratta dai fantasmi dei mille affetti perduti o strappati dal destino. Non a caso il concetto di divisione, di separa22

zione incerta, è evocato nelle prime righe di quest’autobiografia: «Per quanto risalga all’indietro nei miei ricordi, la frontiera tra reale e immaginario è sempre stata disperatamente confusa. Mi è servita quasi una vita per capire che è qui la chiave della mia esistenza» Torniamo a noi per un excursus bibliografico, limitandoci ai contributi principali. Se Barbara Leaming (Roman Polanski: his Life and his Films, Hamish Hamilton, Londra 1982) ha dipinto un Polanski misogino ed esibizionista, leggendone l’opera in una chiave voyeuristica (per cui, ad esempio, «la Deneuve che vediamo in Repulsion non sta recitando, la violenza è reale, diretta contro Polanski»!), Virginia Wexman, con intenti decisamente meno divulgativi, ha analizzato le influenze della formazione pittorica sul cinema della maturità, identificando tale opus come «uno dei documenti più disturbanti del disorientamento culturale ed estetico del dopoguerra, in grado di occupare un posto di rilievo non solo nella storia del cinema, ma anche in quella dell’arte in generale» (Roman Polanski, cit.). Non trascurabile ci sembra anche l’analisi delle innovazioni a riguardo dei codici degli “horror tales” classici: mentre i personaggi femminili, nel romanzo gotico, non partecipano mai direttamente all’azione, le eroine di Polanski «diventano soggetti e non più oggetti: di conseguenza la loro sessualità è molto più in discussione». In precedenza Pascal Kané (Polanski, Editions du Cerf, Paris, 1970), prigioniero dello schema dialettico che identifica l’autorialità esclusivamente nella lotta contro il Sistema, aveva cercato di verificare la forza corrosiva dell’ideologia polanskiana, dimostrando come essa si avvalga di una «fascinazione» diversa da quella hollywoodiana. Se Hollywood offre un falso rapporto di analogia tra realtà e finzione evitando ogni distanza critica nei confronti del reale per poterlo meglio mistificare, Polanski non si serve dello spettacolo come di una semplice attrazione, ma ricerca la trasformazione del mondo reale in spettacolo dello stesso mondo. Kané è stato dunque il primo a inaugurare il topos critico dell’ambiguità che, come vedremo, risiede proprio nell’intervallo tra una scena “reale” e la sua rappresentazione. Su questa strada prosegue anche Jacques Belmans (Roman Polanski, Seghers, Paris, 1971), il quale, dopo aver analizzato la tecnica affabulativa di Polanski, ne biasima il nomadismo, timoroso che la carriera internazionale possa spersonalizzare il talento di questo giovane «auteur». In realtà, l’immaginario polanskiano si nutrirà proprio delle suggestioni che le continue fughe gli imporranno: dal ghetto, dalla Polonia, dagli Stati Uniti, dal cinema, dai propri fantasmi. Non a caso Dominique Avron (Roman Polanski, Rivages, Paris, 23

1987) disegnerà una mappa geografica degli spostamenti, dando un rilievo particolare alle qualità personali dell’uomo (combattività, orgoglio, megalomania, curiosità) prima di decodificare le principali ossessioni del cineasta, quali l’unità di tempo e di luogo, la frontiera permeabile tra interni ed esterni, l’importanza del décor, l’incertezza dell’istanza narrante. Interessante è qui la definizione di «stile acquatico», secondo cui, in contrapposizione a registi «di terra» come John Ford, la cinepresa polacca sembrerebbe più adatta di altre a sposare il movimento degli attori, le loro esitazioni, come se fosse a loro legata da un filo invisibile. Avron cita a questo proposito i due maestri del giovane Roman, Munk e Wajda. Ma se pensiamo alle carrellate barocche di Andrzej Zulawski, un altro esule polacco adottato dalla Francia, non possiamo che concordare con la suddetta tesi. Non pochi sono i vicinati inattesi tra la messa in scena polanskiana della schizofrenia e lo sguardo isterico di Zulawski, anch’egli turbato dai mostri del diavolo (Possession [Id., 1981]), della follia (La Sciamana [Szamanka, 1996]) e dell’occupazione tedesca (La terza parte della notte [Trzecja Czesc Nocy, 1971]). Gianni Rondolino è tra i primi in Italia a soffermarsi sulla poetica di un «autore con cui bisogna fare i conti» (Ritratto di Roman Polanski, «Bianco e nero», n. 3-4, 1968), analizzandone il gusto per il barocco e le influenze surrealiste. Se le suggestioni dei modelli letterari (Ionesco, Beckett, Gombrowicz e Schulz) affascinano Stefano Rulli (Roman Polanski, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze, 1975), psicoanalitica è la chiave di lettura di Enrico Magrelli, secondo il quale «l’indecidibilità tra verosimile e inverosimile supporta una ambiguità significante che investe le unità minimali del racconto [...] e che accresce il fascino crudele di una favola capace di catturare e sorprendere, nell’attesa, lo spettatore» (Roman Polanski, Il Formichiere, Milano, 1979). Proprio nella “doppiezza” del registro stilistico Magrelli vede «la configurazione di una regione buia al di là delle rifrazioni naturalistiche dello schermo-specchio». Ma tale formulazione fa nascere tutta una serie di domande, a cui cercheremo di rispondere. Gli specchi diegetici polanskiani si configurano anche come schermi? Ovvero: l’immagine riflessa (sui vetri, sull’acqua, sulle porte degli armadi) è una emanazione del corpo rispecchiato, oppure vive di vita autonoma e fantasmatica? E ancora, se la tecnica della fascinazione mira a portare lo spettatore dentro lo schermo, possiamo ancora parlare di spettatori o siamo di fronte a una serie di spettri guardanti guardati? “Spectrum”: immagine, oggetto dell’atto di “specere”: osservare. D’altronde, esse est percipi... 24

«Filmcritica» è forse l’unica rivista, assieme a «Positif», ad aver seguito con costanza l’itinerario apolide di Polanski. Il ritratto che ne esce è quello di un cineasta libero da schemi codificati, «alla ricerca, come faceva Matisse, di quel che c’è e non si vede tra due rami di un albero, le forme che questi rami sanno suggerire al di là della loro forma apparente, codificata, fissa» (Giuseppe Turroni, n. 390, 1988). Un Polanski dunque non “sporco” come i cineasti delle nouvelles vagues ma nemmeno asettico e metafisico come Hitchcock. Semplicemente aperto alla luce della realtà che insiste sul senso. Pensiamo ai mille incidenti che capitano ai personaggi: camminando per Parigi si corre il rischio di calpestare imprecisati escrementi e trasportando la spazzatura capita spesso di perderne qualche frammento. È quello che accade all’inquilino del terzo piano, dove però il quotidiano entra come un intruso, incoraggiato anche da un découpage che lascia abbastanza libero lo sguardo dello spettatore. Le inquadrature sono relativamente lunghe, ampie, fluide. A questo proposito, ecco che cosa ha confessato Robert Towne a riguardo di Chinatown (Id., 1974), e in particolare della sequenza in cui Gittes si reca nell’archivio del catasto: «La cosa che preferisco è il tempo che Roman impiega nel girare la scena. Il fatto che si dilunghi sulla canzone che Jack canticchia. Questi momenti non solo fanno andare avanti il racconto, ma creano anche un senso di realtà» (dall’intervista pubblicata nell’edizione Dvd Paramount del film). Si deve infine a Alessandro Cappabianca (Roman Polanski, Le Mani, Genova, 1997) il primo tentativo di approfondire le questioni di poetica polanskiana, organizzando una lettura centrata su griffe d’autore quali la struttura circolare e il finale aperto. Il finale riflette sempre una luce misteriosa nello specchio della diegesi, ma classificare le strutture di questo cinema significa spesso scontrarsi con le zone oscure del falso, del doppio, del «quasi». Ad esempio, Rosemary’s baby non si conclude con il ritorno della panoramica iniziale sui grattacieli di Manhattan. In realtà, come vedremo, l’inquadratura finale assomiglia molto a quella iniziale (così come l’inquilino del terzo piano, indossata la parrucca, assomiglia alla Carol di Repulsion): ma non è la stessa, né dal punto di vista filmico né da quello profilmico. Come dice un personaggio di Che? (What?, 1973), «Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, perché non è mai lo stesso fiume, né lo stesso bagnante». Interessanti in questo saggio sono le escursioni in territori non ancora esplorati, come la simbologia degli animali (dai polli di Cul de sac [Id., 1966] alle zanzare di Che?) o il tema del travestimento, collegato alla questione della 25

maschera e dello scambio. Leitmotiv attualissimo, se pensiamo al coup de théâtre finale di Il pianista, quando Szpilman rischia di farsi ammazzare dai russi a causa di una maschera, il cappotto tedesco, che fino ad allora gli aveva salvato la vita, nel gelo di Varsavia. La tragedia sotto forma di gag. Dalla vita si scivola verso la morte, per poi, come sempre succede a tali personaggi, ritornare indietro. Questo è il Polanski a nostro giudizio più autentico, più mozartiano, e non è un caso che egli abbia interpretato, a teatro, proprio il ruolo di Amadeus: dal cinema al teatro, sempre al di là e al di qua dello specchio. Ricordiamoci, ad esempio, che nel Don Giovanni (Atto I, scena prima) la morte del Commendatore è raccontata secondo il cliché dello scambio di persona (Leporello: «Chi è morto? Voi o il vecchio?»; Don Giovanni: « Che domanda da bestia! Il vecchio») È venuto il momento di chiudere il cerchio. «To speak of Roman Polanski», dicevamo all’inizio. Parlare di Polanski significa forse liberarsi dagli schemi che identificano le opere degli autori di genere in due tipologie inconciliabili: o anonimi prodotti mercantili, o emanazioni della Weltanshauung di un artista. Polanski sembra operare in una sorta di limbo, dove confluiscono le suggestioni di una vita che sembra una fiction, ricca di tutti gli ingredienti per un film d’horror e d’avventura (di genere, dunque), le influenze di una formazione artistica divisa tra il surrealismo e il realismo, e la passione infantile per il cinema come spettacolo, come microcosmo da scoprire, toccare, annusare, fino a sentirsi “dentro” il rettangolo bianco. A costo anche di farsi scoprire dai soldati tedeschi, quando, nel ghetto di Cracovia, il piccolo Roman frugava nella spazzatura per raccogliere frammenti di celluloide. L’autore oggi si nasconde dietro lo spettacolo come allora il piccolo spettatore si nascondeva dietro una falsa identità, tedesca e cattolica. Ci sono due generi di cineasti, diceva Godard: quelli che camminano con la testa bassa e quelli che camminano con la testa alta. Se questi ultimi, alla ricerca dell’inquadratura esatta (e Godard cita Welles, Lang, Bergman) guardano, i primi, abbandonati alla fluidità del reale, vedono. Non ci sentiamo di racchiudere Polanski in nessuno dei due gruppi. Esigente e preciso nella sua idea di cinema, egli sembra tenere la testa alta, ma alla stregua di un flâneur. Pronto a confondersi con le cose che lo circondano, con i diversi climi culturali, con i temi d’attualità, con le regole dei generi. E ad ascoltare sempre in silenzio, come fanno gli inquilini dei suoi appartamenti, tutti i rumori, le voci e le note che provengono dall’altra parte del muro. 26

Raymond, Romek, Roman

Quasi a ribadire il topos della circolarità che ossessiona l’opera e la critica, Polanski nasce il 18 agosto del 1933 a Parigi, la città dove sceglierà di installarsi definitivamente verso la metà degli anni Ottanta. Forse per nostalgia (non ci sono altre spiegazioni razionali), i genitori decidono di rientrare nella madre patria Polonia, proprio alla vigilia dell’invasione nazista, nel 1937. A Cracovia, il piccolo Raymond perde ben presto sia la “r” francese sia il suo nome chic, a favore del più pronunciabile Romek, diminutivo del comunissimo Roman. L’asilo è subito un’esperienza d’esilio: dimostra già curiosità verso l’universo femminile, tanto da essere espulso a causa di una proposta oscena indirizzata a un’amichetta. Dopo una breve iniziazione al cinema compiuta in compagnia della sorellastra, il fantasma dell’esclusione si fa di nuovo vivo. È il 1939, la famiglia Polanski affronta l’ultima tappa del proprio itinerario suicida trasferendosi a Varsavia, l’epicentro della guerra: il ritorno immediato a Cracovia segnerà l’inizio delle leggi razziali naziste, con l’obbligo di risiedere nel quartiere ebraico e portare al braccio la stella di David. Roman fa appena in tempo ad ambientarsi nella scuola elementare che questa, dopo tre settimane, viene subito vietata ai figli di ebrei. Ma intanto qualcosa lo aveva attratto: una specie di lanterna magica con cui il maestro proiettava alcune immagini nella hall della scuola. «Non mi interessavo un secondo a ciò che diceva il maestro - confessa Polanski nel suo Roman - né alle immagini, ma solo al metodo di proiezione. Volevo sapere come funzionava [...] e non smettevo di interrompere le proiezioni, facendomi detestare da tutti, perché coprivo il fascio luminoso con le dita». È di quest’epoca anche la scoperta di una vocazione pittorica, per ora esercitata con ritratti di famiglia ma in futuro strumento fondamentale per il Polanski sceneggiatore, come attestano gli schizzi per alcune sequenze di Che? pubblicati nell’album curato da Pierre André Boutang (Polanski par Polanski, Chêne, Paris 1986). Del resto sul set londinese di Repulsion, ogni qual volta il suo inglese si incepperà, il regista ricorrerà a carta e matita per farsi capire dalla troupe. Le immagini, che siano fisse o in movimento, diventano ben presto l’unico rifugio per evadere dalla realtà, che nel 1941 appare per la prima volta sotto forma di separazione: di fronte alla costruzione del muro nel ghetto, Polanski prova sulla sua pelle quella sensazione di claustrofobia che poi trasferirà a molti dei suoi personaggi, quando la prigionia non sarà più una questione di segregazione razziale, ma di paranoia o schizofrenia. Il muro tedesco è il primo 27

cul de sac. Ma i muri inventati dal futuro cineasta non saranno più imposti dall’altro, bensì costruiti con le proprie mani dalle singole vittime: basteranno una serratura (Rosemary’s baby [Id., 1968]), un armadio (L’inquilino del terzo piano [Le locataire, 1976]) o un supporto di legno (Repulsion) per sentirsi al riparo dai fantasmi. Perché la vita si riflette nell’arte, ma rovesciata, come in uno specchio. La vita nel ghetto, così come Roman la racconta, assomiglia molto a quella testimoniata da Szpilman subito dopo la fine della guerra. Nel bambino che il pianista cerca invano di aiutare a rientrare nel ghetto (la breccia troppo stretta non dà scampo e costui viene ucciso dalla guardie) non si può non intravedere il piccolo Polanski di ritorno da una delle sue «traversate dello specchio»: «Era una vera traversata dello specchio. Si penetrava di nuovo in un mondo diverso, completo, dove c’erano ancora i tram e le persone conducevano un’esistenza normale» (Roman, cit.). Il tema del muro bucato ritornerà, non senza complicanze psicoanalitiche e sessuali, negli spazi chiusi di L’inquilino del terzo piano (la lastra di vetro sfondata dal corpo di Trelkowski), di Repulsion (il dito che Carol inserisce nel muro della camera da letto) e di Che? (Nancy compie lo stesso gesto di Carol). Senza dimenticare che non sono certo ermetiche le pareti dell’appartamento di Rosemary, penetrato dalle voci e dai corpi dell’Altro. Ma il trauma più forte di questi anni è senz’altro la deportazione della madre, la prima delle tante perdite. Tale figura tornerà, indirettamente, nel volto e nel portamento di Evelyn (Chinatown), il cui trucco, sempre perfetto, ricorda da vicino «la precisione con cui lei tracciava due semicerchi sui suoi sopraccigli depilati e la cura con cui modificava col rossetto il contorno del labbro superiore» (Roman, cit.). Prima di essere a sua volta deportato, il padre permette a Roman di fuggire dal ghetto, affidandolo prima ad alcune famiglie della città e poi a una coppia di amici in campagna: sono gli anni delle prime letture (La chanson de Roland) e dei primi travestimenti (si fa chiamare Wilk), mentre il cinema comincia a diventare un’ossessione, se è vero che egli fruga nella spazzatura per cercare di costruirsi un proiettore. Modelli

Dopo la liberazione, alle lezioni scolastiche preferisce Errol Flynn e Walt Disney, ma due sono i film che segnano la sua adolescenza: Amleto (Hamlet, 1948) di Laurence Olivier e Il fuggiasco (The Odd Man Out, 1947) di Carol Reed. 28

Da Olivier nasce probabilmente il gusto per la costruzione di uno spazio saturo attorno agli attori, dove la profondità di campo assicura un volto agli oggetti e il piano sequenza protegge l’integrità dei gesti. I corridoi semicurvi del castello di Elsinore, comunicanti come in un labirinto, hanno forse ispirato l’organizzazione di molti interni, in primis i castelli di Per favore... non mordermi sul collo (The Fearless Vampire Killers, 1967) e di Macbeth (Id., 1971), sulle cui pareti scivola una cinepresa altrettanto fluida. Si pensi alla carrellata che segue invano Ofelia nel suo ultimo viaggio, varcando il corridoio frontale lungo una direzione che in Polanski ospiterà perturbanti apparizioni; tale carrellata verrà inoltre imitata in uno dei momenti più cupi di Macbeth, quando Lady Macduff cerca di sfuggire alla furia omicida dei sicari. Ricordiamo poi la costruzione circolare di questo Amleto, che comincia con la fine (il pedinamento del corpo dell’eroe nel rito funebre), una sequenza anch’essa ripresa nel finale di Macbeth: simili la combinazione dei movimenti di macchina e il campo lungo del castello. Quanto a Il fuggiasco, la vicenda non poteva non risvegliare i ricordi d’infanzia, come la notte passata nascosto in un buco per non farsi scoprire dai tedeschi. Al di là della suggestione dell’apparato visionario (la bambina che sembra zoppa anticipa l’angelo di La nona porta [The Ninth Gate, 1999], la palla che rimbalza ritornerà sotto forma di volto in L’inquilino del terzo piano), sono interessanti alcune soluzioni stilistiche di Reed, come le soggettive sghembe del protagonista durante la corsa in auto verso la banca, all’inizio del film. I palazzi di Londra angolati e pendenti simboleggiano proprio ciò che due giovani studenti polacchi cercheranno di restituire nei loro primi drammi: un paesaggio mentale. Se Polanski dichiara, nel 1969, che Repulsion è «il paesaggio di un cervello», il compagno di viaggio Skolimowski rivela come in Rysopsis abbia voluto rendere conto del «paesaggio della mente del protagonista» (in Adriano Aprà, a cura di, Poetiche delle nouvelles vagues 1, Marsilio, 1989). Si osservi la semi-soggettiva con cui è visualizzato il malore che colpisce il protagonista all’uscita dalla banca, dopo una rapina filmata in modo minimalista, senza alcun climax musicale, in un silenzio assolutamente realistico. L’istanza narrante ci mostra Mason in figura intera, improvvisamente irrigidito, come stordito da un malore. L’inquadratura seguente (fot. 1) ci permette di vedere assieme a lui gli effetti ottici del suo FOT. 1 29

stordimento: l’auto nera che lo aspetta è sfocata, così come i contorni della strada, ma non altrettanto si può dire delle voci dei suoi complici. I codici sonori dunque non intervengono nella messa in scena del malessere, quasi a simboleggiare la difficoltà di riprodurre un punto d’ascolto soggettivo: il suono sfugge a ogni tentativo di focalizzazione. Reed entra ed esce dal suo personaggio. Tale regime di sguardo sospeso, già evidenziato nel nostro precedente studio limitatamente a Rosemary’s baby (cfr. A. Scandola, Il fantasma e la fanciulla, cit.), sarà caratteristico di tutto il cinema di Polanski, che filmerà gli incubi diurni di Rosemary o le investigazioni di Corso (come il cacciatore di libri di La nona porta, anche Rosemary scruta, decodifica, osserva) senza quasi mai prestare il proprio occhio a questi corpi, condannati a essere visti nel momento in cui vedono. Per tradurre lo squilibrio mentale di Carol (Repulsion) nulla è più realistico del grandangolo. Curioso è però il fatto che tale obiettivo sia impiegato per filmare non solo ciò che la ragazza vede, ma anche il suo stesso volto. Come se il soggetto di una visione deformata fosse non più il personaggio, ma un suo doppio, un suo riflesso, uno spettatore chiamato a identificarsi con lo spettro. Così, quando la bionda manicure si avvicina lentamente all’ampolla di vetro, assistiamo a uno sdoppiamento dell’Io in un altro da sé mostruoso, che occupa il bordo destro di un quadro che al centro resta vuoto (fot. 2). Mentre la bella diventa bestia, l’occhio bifronte di Polanski si nasconde nel buio, assente e presente FOT. 2 al suo spettacolo. Quando la futura mamma di Rosemary’s baby maschera le sue ansie con l’immagine di una natività immortale (ricordiamo la donna scimmia di Ferreri, che guardava foto di bimbi sani per influenzare il proprio feto), lo specchio crea una scissione che la focalizzazione si guarda bene da ricomporre, felice di documentare il rovesciamento beffardo del modello: nel presepio si specchia l’Anticristo (fot. 3). Tornando a Odd Man Out, non si può dimenticare che il tempo della finzione è condensato come lo spazio: tutto accade in una notte. Proprio come in La morte e la FOT. 3 fanciulla (Death and The Maiden, 1995), 30

dove l’unità aristotelica di tempo e di luogo è inseguita fino alla maniera. Ma altrettanto “tragiche” sono le strutture narrative di Cul de sac (due giorni) e Il coltello nell’acqua (Noz W Lodzie, 1962: un giorno), mentre Repulsion e Che? giocano sulla perdita di ogni nozione temporale. Se durante il week-end trascorso da Carol in solitudine non riusciamo a distinguere il giorno dalla notte (e poi siamo sicuri che la sorella torni proprio di domenica?), è praticamente impossibile quantificare le ore trascorse da Nancy nella villa di Capri (Che?). Le Belle Arti: la lezione surrealista

Siamo passati attraverso la fase del surrealismo e nessuno può vanificare l’influenza di questo movimento che ci costringe continuamente a rivelare nuovi significati nelle cose che ci circondano. (A. Wajda) Con l’obiettivo di ottenere un diploma in grado di permettergli l’iscrizione a una scuola d’Arte Drammatica, nel 1950 Polanski entra alle Belle Arti di Cracovia, dove si scopre un disegnatore «nettamente migliore» dei suoi compagni. È qui che, grazie ad alcuni insegnanti coraggiosi, si accosta per la prima volta alla letteratura dell’assurdo (da Gombrowicz a Kafka) ma soprattutto alle deformazioni cubiste e surrealiste. Ciò non è casuale, se consideriamo che proprio la Polonia era il paese in cui, nel 1963, Ado Kyrou riponeva le sue più grandi speranze per una nuova rivoluzione surrealista: «Il cinema polacco ci aiuta a progredire nella realtà poetica per raggiungere la surrealtà» (Le surréalisme au cinéma, Le Terrain vague, Paris, 1963). Concentrandosi quasi esclusivamente su Wajda e Has, Kyrou accenna però solo brevemente alla «sensibilità inasprita» dei cortometraggi di Polanski. Questo colpisce il giovane Roman: il piacere di sconvolgere le proporzioni, i tratti del reale e le forme della percezione, rispondendo alla necessità di una revisione assoluta dei valori reali. Per assolvere tale missione l’opera plastica doveva, secondo Breton, «riferirsi a un modello puramente interiore» (Le surréalisme et la peinture, Gallimard, Paris, 1965). Per «modello interiore» Breton intendeva una sorta di isolante spirituale che permetteva di attingere alle regioni dove le nozioni del permesso e del proibito hanno una consistenza elastica. Che cosa è restato della lezione surrealista? Come vedremo tra breve, Polanski resterà lontano dalle suggestioni plastiche dei modelli pittorici, con l’eccezio31

ne, in parte, di Due uomini e un armadio (Dwaj Ludzie Z Szafa, 1958), ricco di accostamenti incongrui tra oggetti e di inquadrature a comprensione ritardata: pensiamo a quel pesce che sembra galleggiare nel cielo, ed è invece semplicemente adagiato sullo specchio dell’armadio. Il gusto per le forme molli e vischiose e per le linee curve che caratterizza tutta la pittura surrealista sembra essere rimasto oggi solo nel giardino di David Lynch, dove gli orecchi “trovati” si confondono con i vapori informi del fumo e del fuoco. Le linee di forza delle inquadrature polanskiane sono rigide, più vicine a quelle della pittura metafisica, nette e pulite come la lama dei molti coltelli protagonisti. Nessun corpo fluttua negli spazi ortogonali degli appartamenti: tutto ha un peso. All’informe sono preferite forme geometriche chiuse come il triangolo e il cerchio. E questo sia a livello profilmico sia filmico, in modo da costruire spazi penetrabili non più con l’inconscio, ma con il corpo. Il grandangolo traballante che, incollato alla schiena di Rosemary, ci introduce nell’appartamento da affittare sostituisce l’occhio di un visitatore virtuale che altri non è che lo spettatore. Più che dall’automatismo del pensiero tutto sembra nascere dal logos di una cinepresa in stato di veglia assoluta. Nessuna incongruenza e rari choc percettivi in questo cinema, a favore però di una narrazione solo apparentemente forte. Il gusto per l’incertezza dello spettatore di fronte ai molteplici punti di vista con cui è possibile raccontare una storia (di qui la passione per Rashomon [Id., 1950] di Akira Kurosawa) avvicina, fatte le debite distinzioni storiche ed estetiche, la tecnica narrativa polanskiana alla trouvaille cubista. Non a caso Breton considera Picasso come uno dei precursori della rivoluzione surrealista, il primo ad essersi avventurato su quella «via misteriosa dove ciò che non è si riflette nei nostri occhi con la stessa intensità di ciò che è» (Le surréalisme et la peinture, cit.). Nella stanza di Rosemary, che cosa è e che cosa non è? Come una donna di Picasso, Rosemary’s baby e L’inquilino del terzo piano hanno più facce, più volti, più profili: incubi femminili metropolitani ma anche, in successione temporale, storie di sopraffazione ed emarginazione. Dietro questi si nascondono anche i profili di altro cinema, da Hitchcock (l’alternanza di sorpresa e di suspense) a Dreyer (la gravidanza come martirio della femminilità). Vede bene Flavio De Bernardinis quando parla, a proposito di Frantic (Id., 1988), di «scomposizione cubista» (Roman Polanski, L’Unità - Editrice Il Castoro, 1995). Se Picasso squartava il quotidiano fino a renderlo irriconoscibile, astratto, mostruoso, Polanski effettua l’operazione inversa: ricompone il mostruoso, l’inconoscibile, il non-familiare in una serie di volti e spazi realistici, familia32

ri, quotidiani. Il risultato è lo stesso. Privare il pubblico della sicurezza nell’interpretazione, della soddisfazione della lettura, del riposo. In questione è il contenuto latente del reale, a dispetto del contenuto manifesto. L’esordio sopracitato di Roman, con quell’accenno alla frontiera bucata tra reale e immaginario, sembra una citazione diretta dell’idea di cinema esposta da Breton nel Secondo Manifesto del Surrealismo: «Il cinema raggiunge il punto dello spirito a partire dal quale la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile cessano di essere percepiti in contraddizione tra loro». Molti eventi, volti e oggetti sembrano, in questo cinema, altro da loro. Rosemary ci appare, per buoni tre quarti del film, una femmina folle, in preda a un delirio di interpretazione della realtà: surrealismo e follia non sono lontani. Non bisogna dimenticare che l’idea stessa di surrealtà nacque nel giovane Breton all’epoca del suo servizio in un ospedale psichiatrico parigino negli anni Dieci. Dall’osservazione degli stati di allucinazione dei pazienti psicotici e paranoici deriva l’attrazione per i meccanismi della mente e il progetto, rivoluzionario, di una risoluzione assoluta della contraddizione tra lo stato del sonno e quello della veglia. Certi finali immobili, dove tutto ricomincia come se nulla fosse successo, vivono proprio sul principio d’incertezza tra questi due stati della vita psichica. Quanto al sogno, dimensione prediletta della sur-realtà, non si può dire che l’atto onirico sia messo in scena in modo ambiguo; tutt’altro. Pensiamo allo stacco brusco che introduce il celebre incubo di Rosemary, prima racchiusa in un primissimo piano verticale e poi inquadrata di spalle, nella stessa posizione supina ma distesa su un materassino, galleggiante su un mare azzurrissimo. La descrizione di Ira Levin nel romanzo è ripresa nei più piccoli dettagli, compresi i volti di John Kennedy e di sua moglie Jackie. L’intera sequenza è sospesa, come vedremo, tra il sonno e la veglia, ma Rosemary è pur sempre addormentata quando, dopo il rito satanico, il marito la sveglia, alla luce inconfondibile di un mattino “reale”: Polanski è un vero maestro nel ricreare in studio certe luci quotidiane, come i crepuscoli nell’appartamento dell’inquilino o il mattino grigio nell’hotel di Frantic. Per una volta, la frontiera tra reale e immaginario è netta, grazie alle ellissi, alle deformazioni cromatiche e al bagno sonoro in cui annegano le voci ascoltate dalla dormiente. Nessuna incertezza. Come ha rilevato anche Cappabianca, il sogno è raccontato come un sogno, secondo un découpage che in questo caso non lascia dietro di sé nessuna zona morta. 33

Se a Buñuel basta una leggera panoramica per seguire l’entrata di uno struzzo in una camera da letto, senza che vi sia mutazione alcuna nello spazio diegetico (Il fantasma della libertà [Le fantôme de la liberté, 1974]), Polanski non esita a calcare la mano sui codici visivi e anche sonori, come dimostra anche Repulsion. Le visioni a occhi aperti di Carol soffrono di piccole marche stilistiche che distruggono l’ambiguità sul nascere: in preda all’allucinazione dello stupro la ragazza lancia urla che solo il vuoto-audio annulla, creando un silenzio per nulla realistico, se pensiamo che gli unici compagni delle notti di Carol sono fino a quel momento i gemiti della sorella, il tic tac del pendolo, o il gocciolare del lavandino. In occasione del primo incubo, il montaggio diventa frenetico e, mentre la cinepresa sembra presa da un raptus, la voce dell’orologio si fa sempre più grave e assordante. Il fatto che non sentiamo le urla di Carol non significa che ella non gridi: anzi, di fronte all’immagine del grido non possiamo più dubitare della frattura schizofrenica che divora la personalità della ragazza, la cui voce è scissa dal corpo, perduta nella regione lontana della follia. Ma forse l’eredità più affascinante della lezione surrealista risiede nello humour che affiora in tutta l’opera, inteso non tanto come «spostamento brusco dell’accento psichico» (Breton), quanto come arma di difesa contro i fantasmi che popolano le storie o contro gli stessi cliché della tradizione hollywoodiana: una lente deformante con cui raccontare la realtà e il cinema senza restarne prigioniero. Inevitabile, anche qui, pensare a Buñuel e alle riletture di miti cristiani quali l’Ultima cena (Viridiana [Id., 1962]), la Comunione (Il fantasma della libertà) o la Via crucis (L’âge d’or [Id., 1929]), che vengono attualizzati in contesti “altri” da quelli originali. La parodia di Polanski ha però ben altri avversari, quali i cliché del cinema horror (Per favore... non mordermi sul collo), quelli del mélo erotico (Luna di fiele [Bitter Moon, 1992]) o quelli del proprio cinema (La nona porta). Si pensi al finale di Rosemary’s baby: nel momento a più alta concentrazione di pathos, quando la ragazza si accinge ad attraversare lo specchio attratta dai vagiti del figlio, un paio di asciugamani gialli cascano sul suo viso. Non si può temere un’assassina così goffa, e nemmeno un gangster costretto a usare il braccio sinistro (Cul de sac). Il tema comico prediletto è infatti la messa in scena dell’incapacità, assieme a quella dello spaesamento. Pensiamo a Frantic, dove un detective per caso insegue una Statua della Libertà in miniatura, all’ombra di una copia posticcia del modello originale americano, su un ponte di una Parigi straniera. Ma umoristica è anche, in Chinatown, la «ripetizione del 34

passato come frustrazione ontologica dell’eterno “born loser”» (Giorgio Cremonini, Playtime. Viaggio non organizzato nel cinema comico, Lindau, Torino, 2000). Il procedimento, analizzato da Flavio De Bernardinis nell’edizione precedente di questo volume, è il seguente: prendere i cliché alla lettera. Il naso fasciato di Gittes è l’immagine comica di un atto simbolico ben preciso, ideato da Robert Towne e accolto con favore da Polanski. Infine, parte integrante del surrealismo bunueliano sono i topoi della ripetizione, della circolarità e del doppio, dove la sur-realtà assume le forme incongruenti dello specchio: si pensi alla simmetria spezzata dall’amputazione della gamba di Tristana, alla donna dai due corpi di Quell’oscuro oggetto del desiderio (Cet obscur objet du désir, 1977), all’incantesimo della ripetizione (e ripetizione dell’incantesimo) nel cerchio chiuso di L’angelo sterminatore (El angel exterminador, 1965). Nessuna meraviglia se due genitori non riconoscono la propria figlia o se un morto fa sentire la propria voce al telefono (Il fantasma della libertà): per gli eroi di Buñuel, je est un autre. E che cosa offre Polanski ai suoi personaggi se non una serie di mondi paralleli, pieni di “déjà vu” inquietanti e ambigui? Ma su questo torneremo in dettaglio più avanti, nell’analisi delle opere. Volti d’attore

«È difficile essere un attore che mette in scena, non un regista che recita». (Roman Polanski) Accanto al cinema, la passione più grande dell’adolescente Roman è il teatro, scoperto per caso recitando un monologo comico durante una di quelle serate tra gli scout che egli considera l’esperienza più preziosa per la sua crescita. Dai tredici ai diciannove anni divide il suo tempo tra lo sport, gli studi classici e il palcoscenico, dove nel 1947 ottiene un grande successo in un dramma russo dal titolo Il figlio del reggimento. Ma recitare non gli basta, sente il bisogno di decifrare il meccanismo dello spettacolo: esplora le quinte, si nasconde per assistere alle prove, prova trucchi e costumi. Il teatro rimarrà isola di quiete in tutti i momenti bui della carriera: si ricordano, tra le altre, due regie liriche (Lulù e Rigoletto) negli anni Settanta e due interpretazioni negli anni Ottanta: l’Amadeus di Pierre Schaffer e Le metamorfosi di Kafka. Questa curiosità adolescenziale è rimasta nel Polanski attore di cinema, una carriera cominciata nel 1953 con un saggio collettivo di tre studenti di Lodz (Trzy Opowieszi [t.l. Tre 35

storie]), ma più seriamente un anno dopo, quando Andrzej Wajda gli affida un ruolo importante nel suo primo lungometraggio, Pokolenie (t.l. Generazione, 1954). «Ciò che faceva la differenza tra Pokolenie e altre storie simili sulla resistenza – ricorda Polanski – era la regia. La quale si imponeva subito, con un lungo e spettacolare piano-sequenza che culminava, dopo un’esplorazione dettagliata, in un primo piano finale» (Roman, cit.). Se pensiamo agli esordi di Cul de sac (l’auto che arriva lentamente dal fondo del quadro), di L’inquilino del terzo piano (la panoramica lunghissima che sorvola le finestre dello stabile) o di La morte e la fanciulla (il dolly che penetra sinuoso nella casa di Paulina), la lezione di Wajda, che era inoltre maniacale nel realismo delle ambientazioni, sembra essere stata ben assorbita. La carriera d’attore conta oggi una trentina di titoli, di cui una buona metà sono soltanto gentili comparsate, come il ruolo di un contadino nel trash-horror Dracula cerca sangue di vergine... e morí di sete (Paul Morrisey e Anthony Dawson, 1974) e quello, altrettanto curioso, di un mafioso russo in un recente thriller commerciale di Deran Sarafian (Kgb-Ultimo atto [Back in the Ussr, 1992]). I ruoli da protagonista si possono contare sulle dita di una mano: il debole di Il grasso e il magro (Le gros et le maigre, 1961), l’ammazza-vampiri innamorato di Per favore... non mordermi sul collo, l’inquilino paranoico di L’inquilino del terzo piano e l’ispettore di polizia nel kammerspiel kafkiano di Giuseppe Tornatore, Una pura formalità (1992). Il fisico minuto ma robusto, tenuto in costante allenamento, gli consente di evitare stuntmen nelle scene “impegnative” (le discese con gli sci in Per favore... non mordermi sul collo). Una foto pubblicata nell’album di Boutang ce lo mostra quale controfigura di Carol in una scena di Repulsion, poi tagliata. Per dirigere gli attori il metodo scelto è quello di rubare la parte per qualche secondo ed entrare prima di loro nella pelle dei personaggi. Sul set di Chinatown, ad esempio, non perderà di vista il suo alter-ego Nicholson nemmeno per un attimo, aggrappandosi alla parte posteriore dell’auto in corsa per scegliere i camera-car. Curiosamente, Polanski alterna il ruolo della vittima a quello del giustiziere, quasi a duplicare all’infinito la bipolarità dei rapporti di forza nella cosiddetta “trilogia della coppia”: Due uomini e un armadio, Il grasso e il magro, I mammiferi (Ssaki, 1962). Dopo la sottomissione alle voglie di un padrone (Il grasso e il magro) e alla passione amorosa (Per favore... non mordermi sul collo), è il momento della rivolta. Ferire il naso di un detective (Chinatown) è in fondo un po’ come spezzare lo 36

specchio di due giovani viandanti (Due uomini e un armadio). L’autore entra nella finzione per tagliare ogni sorta di occhio in grado di duplicare il suo stesso sguardo. Il contrappasso di questa attività teppistica non tarderà ad arrivare. Nell’appartamento al terzo piano di rue de Pyrénées (L’inquilino del terzo piano) il carnefice diventa una vittima mansueta, che non osa disturbare gli anziani vicini per paura di una ritorsione. La punizione per aver impedito di vedere consiste nel vedere troppo, al di là del visibile. L’inquilino Polanski affoga la sua ragione in una sorta di iper-visione, che lo conduce, dopo una lunga spirale di sogni a occhi aperti, all’allucinazione dell’ultima sequenza: vedere se stesso fuori-di-sé. In precedenza però egli aveva contemplato, seppur allo specchio, la sua trasformazione sessuale, penultima fase del delirio. L’esuberanza dell’ammazza-vampiri, fatta di scatti e mimiche facciali che sostituiscono spesso la parola, cede ora il passo a una recitazione più trattenuta: lo sguardo è basso, le spalle curve, le braccia strette attorno al corpo in frantumi. Eccezionale, anche nella versione italiana, è il lavoro sul timbro vocale. La voce, monocorde e grigia come il décor, sembra quasi non volere uscire dal corpo, ma risuonare all’interno, come un lungo monologo interiore. Macchiettistico è invece il saltellare del marinaio Zanzara (Che?), caricatura di Popeye, con tanto di voce gracchiante e occhio pesto; quasi un ritorno alle maschere giovanili. Oggi Polanski rimpiange la scelta, convinto che ci sarebbe voluto un attore più caricaturale, più anziano, più buffo. La passione per il travestimento però non si smentisce, in quanto anche Zanzara ama rubare indumenti femminili Infine, il ruolo del commissario senza nome che, per pura formalità, interroga il fantasma di uno scrittore suicida, appare come una summa dei topoi analizzati. Per la prima volta Polanski recita solo col volto, riducendo al minimo i gesti e allontanando per sempre la maschera di paura indossata per Alfred e Trelkowski. Gli occhi non sono più sbarrati. Nella sala buia e umida di un castello kafkiano l’ispettore P. vede e sa più di quanto l’imputato stesso non ricordi, perché, come recita uno dei romanzi di quest’ultimo, «per non morire di angoscia o di vergogna gli uomini sono eternamente condannati a dimenticare le cose sgradevoli della loro vita; e più esse sono sgradevoli, prima loro si apprestano a dimenticarle». Questa massima sembra fatta apposta per la biografia di Polanski. Peccato che il suddetto romanzo non sia altro che un falso, un’imitazione, un libro mascherato: abbiamo già visto quanto questo cinema sia agitato dai fantasmi del doppio. Il tema della memoria “riaffiorata” sarà di lì a poco leitmotiv di La morte 37

e la fanciulla, un altro duetto-interrogatorio ambientato, in uno spazio altrettanto isolato e misterioso, sul precipizio del Passato. Anche sulla collina di Tornatore, come già nelle lande della Scozia (Macbeth), alla fine tutto ricomincia: mentre Depardieu viene portato via, un altro assassino è assistito con del latte caldo, in attesa di essere interrogato. Sui titoli di coda corrono le parole di una canzone: «Ricordare, è come morire...Tutto ritorna...». Alla scuola di Lodz: i primi cortometraggi

La scuola di Lodz, creata nel 1947, testimoniava l’impegno notevole, in termini di mezzi economici e produttivi, con cui il governo polacco cercava di investire in uno dei mezzi di propaganda più utili per il partito comunista. L’offerta era ricchissima: nell’arco di cinque anni, corsi di pittura, di fotografia, di musica, di ottica, esercitazioni con attori, ma soprattutto moltissimi metri di pellicola in 35 mm. disponibili per ogni studente, oltre a due sale cinematografiche attive dalla mattina alla sera. È qui che il giovane Roman perfeziona il suo gusto, marcato in particolar modo da Welles, accolto come una rivelazione per l’uso della profondità di campo e per il carattere epico della narrazione, e da Buñuel, che colpisce per il suo realismo al contempo violento e surreale. I principi estetici della scuola erano chiari: predilezione per il cortometraggio, possibilmente muto, attenzione al realismo del décor, elaborazione plastica dell’immagine in chiave simbolica e avversione per qualsiasi narcisismo stilistico «non socialmente utile», anche se, come ricorda Dominique Avron, la scuola aveva saputo proteggersi dalle pressioni dello stalinismo, conservando una libertà di pensiero unica nella Polonia degli anni Cinquanta. La fase del montaggio era sacrificata rispetto a quella dell’inventio dell’inquadratura: i carrelli fluidi di Wajda e il virtuosismo plastico e luministico dell’ultimo Kieslowski, anch’egli ex-alunno di Lodz, illustrano bene questa lezione. Entrato nel 1954, Polanski ha fretta di dirigere. Cinque anni gli sembrano troppi, e così, dopo un intenso apprendistato di tutti i mestieri (dal fonico al direttore della fotografia: l’eccellente competenza tecnica in questi campi è attestata oggi dalle dichiarazioni di molti dei suoi collaboratori), convince un amico a collaborare a un piccolo film di finzione, che avrebbe dovuto chiamarsi Rower (t.l. La bicicletta, 1955). Il condizionale è d’obbligo perché, a causa di una banale svista nei laboratori della Film Polski a Varsavia, solo una bobina ritornò indietro: il resto del negativo fu perduto in Unione Sovietica. 38

La storia è autobiografica, ispirata a una brutta avventura occorsa al Roman sedicenne, derubato e picchiato da un malvivente che, con la scusa di vendergli una bicicletta, lo aveva attirato in un bunker notturno alla periferia di Cracovia. Resteranno cinque cicatrici sul capo e una certa fobia per la doccia, perché il gocciolare dell’acqua sulla fronte gli ricorderà immancabilmente quello del sangue. Come accadrà poi all’ispettore Gittes di Chinatown, Polanski svenne e si risvegliò parecchio tempo dopo davanti a un volto di donna, sul cui impermeabile lasciò una macchia di sangue. Osservando con attenzione alcuni schizzi dello storyboard pubblicati nell’album di Pierre André Boutang, è possibile apprezzare la semplicità della sintassi che articola la sequenza della discesa nel bunker e allo stesso tempo la precisione maniacale del giovane studente: gli scavalcamenti di campo sono regolari e continui, a favore di un’organizzazione simmetrica dello spazio, dove i singoli movimenti dei personaggi, tracciati con una freccia, sembrano accordarsi con le linee curve del décor. Il punto di vista, almeno in questo story-board cartaceo, è già semi-soggettivo, come ben indica il disegno dell’inquadratura “Bunkier 2”, che mostra l’interno del luogo visto da un occhio collocato accanto alle spalle di uno dei due personaggi. Più fortunato sarà Morderstwo (t.l. Il crimine, 1956), primo di una serie di piccoli saggi obbligatori ai fini del diploma. Il tema imposto, l’assassinio, sembra anticipare alcuni futuri crimini compiuti a colpi di coltello o di rasoio: il regicidio di Macbeth, l’uccisione del padrone di casa in Repulsion e quella di Alec in Tess, senza contare il tentato omicidio di Rosemary, il cui coltello però graffia appena il parquet della vicina. Quasi tutti i personaggi amano giocare con i coltelli, dal ragazzo di Il coltello nell’acqua al gangster di Chinatown fino alla femme fatale di Luna di fiele, che ferisce il suo uomo all’interno di un ambiguo gioco erotico. Morderstwo è presto riassunto: un uomo senza volto entra in una stanza occupata da un dormiente, estrae dalla tasca del cappotto un coltello a serramanico e, alla maniera dei futuri ammazzavampiri, perfora il cuore della povera vittima, facendo attenzione a che quest’ultima non gridi. Il silenzio dunque cessa di essere una legge imposta dalla scuola per diventare un espediente narrativo fondamentale, condizione diegetica per la riuscita dell’atto criminale, che dura in tutto novanta secondi. Le inquadrature sono tre, disposte secondo una struttura a chiasmo A-B-A: dopo aver documentato il crimine, la cinepresa ritorna sul dettaglio iniziale della maniglia scura (fot. 4) su cui tutto era cominciato, ben visibile sul “muro bianco” della porta, posto a mo’ di sipario per introdurre la storia. Si tratta di uno dei rari esordi in interno di 39

tutto il cinema di Polanski, che in genere prediligerà panoramiche aeree (Rosemary’s baby, L’inquilino del terzo piano, La morte e la fanciulla) o campi lunghi immobili (Cul de sac, Macbeth) atti ad ambientare lo spettatore nel paesaggio diegetico. L’istanza narrante segue con una panoramica l’entrata del killer, per poi, come già in Rower, scavalcare il campo e passare dall’altra parte del letto, in modo da FOT. 4 mostrarci il dettaglio delle mani che impugnano la lama, ben illuminata. Il raccordo più anomalo (e acerbo) è però quello che unisce suddetta inquadratura all’ultima: dal volto della vittima contratto nello spasmo passiamo al dettaglio del suo braccio cadente e sanguinante che, dividendo il quadro in due parti uguali, ricostruisce la simmetria dell’inquadratura iniziale (fot. 5). A questo punto è il movimento di macchina più “libero”: una panoramica verso l’alto segue la direzione verticale del braccio del morto, la cui mano è abbandonata come quella delle future clienti nel salone di bellezza di Repulsion. Morderstwo attesta una ricerca di equilibrio, di logos, di ordine: l’affondamento del pugnale è annullato da un movimento uguale e contrario, altrettanFOT. 5 to preciso e pulito. L’importante, per il giovane Roman, è non lasciare buchi nel ritmo della narrazione. Il sorriso è invece il soggetto obbligato per il film successivo, Usmiech Zebiczny (t.l.: Sorriso dentale, 1956), esercizio di montaggio ma soprattutto primo banco di prova per la messa in scena di un futuro leitmotiv: l’atto del guardare. Dodici inquadrature ci raccontano la storia di un desiderio castrato, impedito, frustrato. Scendendo le scale di un immobile, un uomo intravede, dietro una griglia, il corpo seminudo di una donna (senza volto come il killer di Morderstwo), nel momento della toilette. Il découpage ci avvicina lentamente al volto del voyeur, le cui labbra semiaperte, unite a quegli occhi socchiusi, ricordano vagamente l’espressione estatica che trasfigura il ragazzo di Un chien andalou nel momento in cui egli tocca i seni della (sua?) donna: anche qui il seno sembra essere la fonte della pulsione (fot. 6). Nella pittura surrealista, del resto, il nudo femminile è spesso amputato del volto, in quan40

to emanazione mostruosa della pulsione: pensiamo alla Philosophie dans le boudoir di Magritte (1948), con quei seni a forma di spirale vertiginosa, a certe visioni di Ernst, ma soprattutto alla donna-bersaglio di Roland Penrose (Good Shooting, 1939: fot. 7), con quel tronco nudo e indifeso, pronto per essere colpito dallo sguardo (al posto del volto, questa donna “possiede” un paesaggio acquatico nebbioso e onirico, molto simile a quello del quadro nel salotto di FOT. 6 Repulsion). Quando finalmente pensiamo di poter vedere anche noi il volto della donna, l’intimità è rotta dal sopraggiungere di un vicino, sicuramente più innocuo di altri che verranno, ma ugualmente capace di frustrare tali impulsi. A differenza dell’oggetto del desiderio, costui è mostrato in semi-soggettiva, scoperto da brusca panoramica verso destra che, dovendo sostituire un effetto sonoro (è il rumore della porta che si apre a distrarre il giovane voyeur), non fa che modificare il regime dello sguardo, nell’impossibilità di costruire una soggettiva dell’ascolto. I bordi del quadro che racchiude la ragazza, inoltre, non riproducono affatto la struttura rombica della grata, evitando quelle distorsioni ottiche evidenti invece in due famose soggettive stilistiche, appartenenti, guarda caso, a due donne oggetto di voyeurismo, Carol e Rosemary: FOT. 7 costoro scruteranno nello spioncino della porta gli occhi indiscreti di due visitatori. Nessun incrocio di sguardi prima della sorpresa finale: la donna è vista ma non vede, mentre il voyeur vede il vicino senza probabilmente essere visto. Egli è ricambiato solo dal misterioso uomo-con-lo-spazzolino che nel frattempo ha sostituito la donna nella toilette. Anche per l’inquilino del terzo piano, il bagno in comune sarà luogo di inquietanti trasformazioni sessuali. In Per favore... non mordermi sul collo questo tipo di voyeurismo assumerà connotati piuttosto tragici, se è vero che, mentre il giovane Alfred si guarda bene da spiare la nudità di Sarah nel bagno, il conte Dracula non esita a pulire il vetro della finestra per osservare lo spettacolo, prima di dare il morso fatale. Curiosa è l’analogia tra vampirismo e voyeurismo: questo sorriso dentale assomiglia a quello di un vampiro, in quanto è ampio, lungo e forzato. Il tema imposto è così rispetta41

to ma allo stesso tempo aggirato dall’interno, mediante la messa in scena di una messa in scena. Dopo due esercizi di fiction, tocca al documentario, genere non troppo amato. Al 1957 risale probabilmente Kirk Douglas, documento di una visita dell’attore alla scuola di Lodz (la fonte indiretta è Dominique Avron). Rozbijemy Zabawe (t.l.: Guastiamo la festa, 1957) nasce invece come sperimentazione sui codici sonori applicati ad una non-storia: niente dialoghi, né personaggi, solo il documento di una festa finita in rissa, riassunta in otto minuti, dai preparativi al “dopo”. Chiamati di nascosto dallo stesso Roman, alcuni casseurs, rifiutati all’ingresso, si intrufolano in mezzo agli studenti di Lodz e portano lo scompiglio, distruggendo tavoli e alimentando divertenti scazzottate. Pare che solo gli operatori alla macchina sapessero della sorpresa. All’interno di questo happening, una microstoria prende comunque forma: è quella dell’intimità negata alla passione di una coppia sfortunata, formata da una bella ragazza in abito bianco e da un presunto responsabile della scuola, letteralmente preso a spintoni e calci dai giovani ribelli. Il romanticismo fa parte della tradizione polacca, ciò contro cui la nuova gioventù combatte. Avron ha parlato di «senso bressoniano del suono». In realtà solo la parte finale della rissa è costruita sul potere evocatore e allusivo di alcuni rumori, come i tonfi delle cadute, i contatti tra i corpi, il rovesciarsi di oggetti di cui non vediamo che alcuni frammenti. Se ellissi c’è, essa gioca tanto sulla messa in quadro che sul ritmo frenetico assunto dal montaggio nel momento in cui la banda è costretta a interrompere la musica e lascia la festa. Certi décadrages, come i piedi che fuggono o alcune gambe nude (fot. 8), non hanno, a nostro avviso, nulla a che vedere con la ricerca di Bresson: più che sineddochi essi sembrano il risultato della percezione di una cinepresa eccitata e divertita, intenta a non perdersi nulla dello spettacolo offerto da quelle magliette strappate in mezzo a sberleffi vari. Interessante è invece la variazione dell’angolazione del punto di vista, che resta aereo per la maggior parte del tempo per poi scendere a inquadrare dal basso verso l’alto la banda dei guastafeste, quasi a voler assegnare loro una dimensione ironicamente eroica. L’arpeggio di chitarra iniziale ritorna poi a musicare le due bellissime inquadrature di chiusura, costruite ancora su un’idea di simmetria nel movimento. La festa è finita FOT. 8 e la circolarità assicurata: un lento carrello retrocede, 42

da destra verso sinistra, tra i tavoli distrutti e gli addobbi sfasciati, a documentare un vuoto dopo il troppo-pieno. Il pupazzo che all’inizio era appeso in alto ha ancora lo stesso sorriso stampato. Niente sembra aver sconvolto la sua quiete. Ora scivola, con una lentezza che sa di nostalgia, da sinistra verso destra, nell’acqua di uno stagno. E proprio nell’acqua comincia la prossima storia. Reditus ad originem

«Volevo fare un film poetico, allegorico e comunque facilmente comprensibile. Un film che sfuggisse al realismo ma che allo stesso tempo dicesse qualche cosa» (Roman, cit.). La sfida che il venticinquenne Polanski si prefigge non è delle più semplici: coniugare la passione per lo humour surrealista da poco scoperto con la volontà di dare un senso morale alle proprie fiction, secondo i precetti dell’educazione socialista. Per Due uomini e un armadio, secondo corto non previsto dal programma scolastico, si ispira a un gioco d’infanzia inventato con un amico, che prevedeva il trasporto in strada del pianoforte della padrona di casa. All’ultimo momento opta però per un armadio, timoroso che la parabola dell’esclusione potesse venire interpretata in chiave solamente artistica, anziché invitare a una riflessione sul rifiuto della diversità in generale. Forse egli non sapeva ancora quanto questo “oggetto trovato” avrebbe ossessionato le notti di personaggi futuri: da un ripostiglio murato usciranno i diabolici vicini di Rosemary, mentre in un armadio molto simile a questo Carol scoprirà un aggressore in Repulsion e l’inquilino del terzo piano il proprio doppio. I ruoli principali sono affidati a due compagni di scuola scelti per il loro fisico, in modo da creare un contrasto evidente tra il grande (Henryk Kluba, calvo) e il piccolo (Jakub Goldberg, col viso un po’ raggrinzito). Usciti dal mare, due uomini emergono su una spiaggia deserta trasportando un ingombrante armadio a specchio. Presto si inoltrano nelle vie della città, ma dappertutto vengono rifiutati, nell’autobus come al ristorante o all’hotel. Anche una ragazza che corteggiano, quando vede il loro carico, fugge via. Lo specchio che forse infastidisce i passanti salva però dai guai un’altra ragazza, che vi vede riflesso il volto di un hooligan pronto a importunarla. Un gruppetto di malviventi, di cui fa parte anche Polanski, aggredisce i due uomini distruggendo lo specchio. Ai due, cacciati anche dal proprietario di un deposito di barili, non resta che ritornare nel mare, dopo aver evitato con cura di calpestare i castelli di sabbia sulla spiaggia. 43

«Il primo grado del pensiero cinematografico – ha scritto Artaud – mi sembra essere nell’uso di oggetti e di forme esistenti a cui si può far dire di tutto, perché le disposizioni della natura sono profonde e realmente infinite» (in Paolo Bertetto, a cura di, Il cinema d’avanguardia 1910-1930, Marsilio, Venezia, 1983). È un po’ quello che succede all’armadio in questione, che vaga come un mostro a quattro zampe in un paesaggio urbano realistico e quotidiano, creando un effetto di surrealtà. Lo choc figurativo è semplice: un oggetto destinato a restare immobile in luoghi chiusi viene trasportato da due misteriosi uomini senza una meta precisa, senza che sia dato di sapere nemmeno che cosa esso contenga al suo interno. Se l’apologo è abbastanza trasparente (espulsi dalla vita a causa di una malformazione, due creature innocenti si rifugiano nel grembo materno del mare), anche il modello narrativo lo è. Al burlesque, previsto nei programmi di Lodz, si ispirano la recitazione e il portamento clownesco degli attori (pensiamo agli abiti infantili del più piccolo), alcune gag (come quella dell’uomo che continua a specchiarsi anche quando l’armadio viene spostato) e soprattutto il tema dell’incongruità, ben riassunto da Cremonini: «Non si tratta di sostituire la logica reale con una logica irreale, bensì di sostituire una logica con un’altra logica, entrambe ugualmente reali» (Playtime, cit.). Non sappiamo infatti se sia più folle il vagabondaggio dei due amici o la barbara tortura compiuta dalla banda di hooligan nei confronti di un povero gattino, mezzo ucciso a sassate. Come accade anche in Chaplin, la colpa dell’esclusione, oltre all’incapacità della vittima (quando accenna a reagire ai colpi della banda, l’uomo calvo dà i pugni al vento), sembra appartenere al mondo esterno, nelle cui convenzioni sociali i due si sentono letteralmente, è il caso di dirlo, come dei pesci fuor d’acqua, completamente spaesati. Interessante è il cambiamento di stile rispetto ai corti precedenti: dissolvenze incrociate e raccordi sull’asse ritmano la sintassi di un racconto costruito per lo più sul pedinamento dei protagonisti. Imitando la staticità del burlesque classico, la macchina da presa si muove pochissimo, inaugurando quei campi lunghi fissi che abbandonano i personaggi in fondo al quadro, in attesa che lo spazio attorno si carichi di qualche valenza narrativa o simbolica (pensiamo all’inizio di Cul de FOT. 9 sac). È il caso della prima inquadratura, con quell’oriz44

zonte di mare tracciato come una riga perfetta, o della scena che illustra il corteggiamento della ragazza, troppo lontana in fondo a una via deserta come in un décor artificiale (fot. 9). In genere il découpage funziona secondo un logica di allontanamento dalla materia drammatica: nella sequenza sopracitata del pesce sullo specchio, ad esempio, al dettaglio del pesce (fot. 10) segue un piano d’insieme dei due, quindi un campo lungo che li decentra sul lato destro del quadro, facendo emergere al centro il vuoto della solitudi- FOT. 10 ne (fot. 11). Ma il pesce volante, ripreso poi da Kusturica in Il valzer del pesce freccia (Arizona Dream, 1992), non è un’invenzione di Polanski. Circa quarant’anni prima Max Ernst aveva già rovesciato gli schemi della percezione con Here Everything Is Still Floating (1920: fot. 12), un fotocollage in cui un pesce nuota “sopra” un cielo attraversato, in senso contrario, da un insetto capovolto. L’insetto sembra una barca che galleggia in mezzo a nuvole dense come il fumo di un vapore: niente è ciò che sembra, niente sembra ciò che è. Quando l’organico assume le sembianze dell’inorganico, la sinestesia degli oggetti-trovati è completa. Polanski è però prontissimo a demistificare questo repertorio di icone surrealiste: i due amici hanno fame, il pesce è lì, forse, FOT. 11 solo per saziarli. Tra le rare panoramiche, spicca quella verso destra che, lasciando fuori campo i due protagonisti, documenta il furto di un portafoglio ai danni di un personaggio che poi non vedremo più: come a dire che la gente vede solo l’armadio, e non si accorge del marcio che si nasconde dietro le maschere. Curioso è anche un altro movimento di macchina che, nel momento in cui i due attraversano un ponte, si ferma a inquadrare la triste scena di un uomo probabilmente ubriaco, barcollante su di una scala di legno, incapace di salire i gradini senza cadere: questo è il “senso morale” tanto caro al realista Polanski, che non esita un momento a uscire dal surrealismo per denun- FOT. 12 45

FOT. 13

ciare i buchi neri della sua società, piena di relitti abbandonati alla loro miseria. Non a caso i passi di quest’uomo sono gli unici rumori che possiamo avvertire, assieme ai lamenti di un giovane che, poco dopo, viene colpito a morte in un bosco. Nella parte alta del quadro si intravvedono i due protagonisti, che continuano per la loro strada (fot 13.). L’accostamento surrealista è quindi perfettamente audiovisivo: nello stesso spazio diegetico troviamo, fianco a fianco, il cinema (muto) e la realtà (sonora), incapaci di incrociare i rispettivi sguardi. Se possiamo udire i suddetti rumori, è perché si è interrotto per qualche istante il flusso degli accordi jazz di Krzysztof Komeda, da questo momento collaboratore fisso di Polanski fino a Rosemary’s baby. La medaglia di bronzo ottenuta al Festival di Bruxelles e il Golden Gates al Festival di San Francisco non fanno che confermare una certezza già acquisita: quella del regista è la sua vocazione.

Le voci degli oggetti

L’opera successiva, forse tra le più dimenticate, gioca ancora una volta sul confine incerto tra fiction e documentario. Protagoniste di Lampa (t.l. Lampada, 1959) sono delle bambole di porcellana che, assieme a buffi pupazzi di legno, animano le giornate di un muto artigiano chiuso nella sua bottega. Tra una boccata di fumo e l’altra, un vecchio ripara delle bambole in un deposito pieno di occhi, di teste e di braccia. Gli fanno compagnia un orologio e il tic tac di un picchio di legno. Ad un certo punto, egli installa la luce elettrica nella stanza. Poco dopo la chiusura, un incendio si sviluppa nel negozio, devastando tutti i pupazzi. Nessuno, tra i passanti, sentirà i loro lamenti.

Illuminate da una fioca luce di candela, le bambole sono l’oggetto privilegiato dell’attenzione della cinepresa, che poi si inoltra nell’oscurità fermandosi stupita di fronte a meraviglie infantili come il cucù del pendolo o il picchio che ondeggia nella penombra. Ciò che di giorno non ha vita qui assume le sembianze di creatura vivente, dotata innanzitutto di occhi. È forse un caso che, 46

tra le mille operazioni dell’artigiano, Polanski ci mostri quella forse più perturbante, più ricca di suggestioni fantastiche e fiabesche? Dotare di sguardo una bambola significa, forse, prepararsi a essere osservati da due occhi al contempo aperti e chiusi, che nemmeno avvolti dal fuoco accennano a un movimento alcuno. Chinatown ritornerà su questo tema, ma alla rovescia, mostrandoci tutta una serie di occhi tolti, bucati, come la lente di Gittes, il fanale dell’auto di Evelyn e l’orbita del suo occhio. Cosí come Polanski farà in futuro con le sue creature (pensiamo al finale di Rosemary’s baby), il vecchio giocattolaio a un certo punto distrugge ogni possibilità di rêverie, installando una luce elettrica così potente da appiattire ogni contrasto e far tacere d’un colpo ogni fantasma. Nemmeno la cinepresa si muove più. Solo al buio, una volta chiuso il negozio, questi oggetti torneranno a rianimarsi, al ritmo del tic tac dell’orologio. La bottega si riempie allora del brusio di voci appena sussurrate (si direbbe il timbro roco di qualche vecchia strega alla Macbeth), incomprensibili e confuse, subito però divorate da fiamme che, come già capitava ai crimini della favola precedente, sono visibili solo alla macchina da presa. In conclusione, Lampa permette a Polanski di sperimentare le infinite possibilità di un’utilizzazione in chiave simbolica di suoni e rumori, che più avanti assumeranno sembianze ben più umane di queste; anzi, troppo umane. Estasi di una solitudine

Nel film di diploma l’ironia surrealista è temporaneamente abbandonata. Interessa approfondire lo studio della solitudine inaugurato in Lampa. Gdy Spadaja Z Nieba Aniolj (t.l.: La caduta degli Angeli) è pervaso da una dolcezza elegiaca mista a un romanticismo inedito nel talentuoso ribelle: il 1959 è la stagione dell’amore per Barbara Kwiatkowska (in arte Lass) e questo corto è un omaggio alla di lei bellezza, triste e inquieta. Una vecchia cammina per le strade di una città spettrale; solo i piccioni le vanno incontro. Attraverso la grata della toilette che custodisce, la donna corre indietro ai giorni d’amore della giovinezza, quando il suo amato ritornava dalla guerra per abbracciarla sulle rive di uno stagno pieno di fiori. Mentre nel pisciatoio il va e vieni dei clienti è regolare come il tic-tac della goccia del lavabo, affiorano le immagini del figlio in guerra. La madre è costretta a umili lavori per sopravvivere. Vediamo il figlio minacciare un soldato all’interno di quattro mura diroccate, salvo poi accorgersi che costui non aveva alcuna intenzione omicida: invece della pistola, nella mano nascondeva delle sigarette. Nella sequenza successiva, il ragazzo sembra addormentato sulla 47

neve, se non fosse per quella macchia di sangue sul petto. Intanto la toilette si è svuotata, resta solo il rumore dell’acqua. Come d’incanto, la grata di vetro è bucata da un corpo pesante, caduto dal cielo. È il figlio, con le mani giunte e le ali candide. La cinepresa discreta abbandona l’idillio e risale nel cielo di Cracovia.

La caduta degli angeli è un film sul tempo, sulle tracce che esso lascia nella mente di una donna dall’età incerta, che affascina l’autore proprio per il suo vivere in un’altra dimensione, completamente avulsa dal ritmo del presente. Ispirandosi a una notizia di giornale, Polanski insegue la monotonia della vecchiaia in inquadrature lunghe, lente e immobili, animate solo dal rumore dei passi fuoricampo o dallo scrosciare dell’acqua negli orinatoi. Pensiamo al piano americano di quel giovane dall’aria strana e malata, impietrito nella toilette da chissà quale dolore, o a quel campo vuoto dello stagno che osserva le effusioni tra i due amanti: due gambe nude si incrociano, escono fuoricampo e poi rientrano dal lato opposto del quadro. Intanto, il tempo dell’amore scorre via, come l’elmetto dell’uomo che scivola, lentamente, sulla flebile corrente del ruscello, in un’immagine che tanto ricorda, per décor e taglio di inquadratura, la deriva del corpo di Ofelia nel succitato Amleto di Olivier. (fot. 14) Evidente il ricorso ai modelli iconografici del tardo romanticismo polacco, come ha notatoVirginia Wright Wexman, nel gesto del soldato che abbraccia le gambe della sua bella, imitando FOT. 14 un’analoga postura di Polonia, allegoria del destino di una nazione dipinta da Jacek Malchiewski nel 1914. Precisi sono anche i rimandi alla tradizione del mélo hollywoodiano, tra i cui stilemi compare quello della “donna alla finestra”, motivo di origine pittorica (Caspar Friedrich: ma i guardanti sono dipinti di spalle) analizzato da JeanLoup Bourget (Le mélodrame hollywoodien, Stock, Paris, 1985) e atto ad indicare una pausa patetica nel ritmo dell’azione: pensiamo a Joan Crawford in Il romanzo di Mildred (Mildred Pierce, 1945, di Michael Curtiz) o a Linda Darnell in Ambra (Forever Amber, 1947, di Otto Preminger). La sottile barriera di vetro che separa l’aperto dal chiuso è anche in Polanski cesura d’amore, luogo dell’attesa di chi non tornerà: ora, come in gioventù, guardare fuori è la sola ragione di esistere, l’unico modo per riempire il vuoto (fot. 15). Cifra stilistica di questo Polanski è la dissolvenza incrociata, non a caso una delle punteggiature più frequenti nel mélo americano (John Cromwell, George 48

Stevens), indispensabile per far sentire la fisicità eterea della durata. Tutto si incrocia: l’altrove e il quotidiano, il passato e il presente, il reale e l’immaginario, gli sguardi dei clienti, i destini di due soldati. Se il presente appare un cul de sac umido e grigio, il passato è una serie di praterie assolate, pervase dal coro di soldati che intonano una melodia calda: analoghi campi totali, di un verde pastello molto simile, avvolgeranno i percorsi di Tess, un’altra donna sola affetta da malinconia. Le dominanti cromatiche sono il rosso (la gonna della gio- FOT. 15 vane, il sangue della guerra) e il giallo, con i girasoli bruciati a simboleggiare la fine dell’idillio. Il gioco di variazioni sul tema della prigione conferisce al racconto una struttura musicale: dalla grata sotterranea (oggi) passiamo alla finestra (allora) attraverso il dettaglio della gabbia con tanto di uccellino appoggiata a terra da un ragazzo nella toilette. Ciò che qui funge da metafora delicata della sofferenza ritornerà sotto una luce diversa in La collana di diamanti (La rivière de diamants, 1962), nella veste di merce di scambio, quando Nicole baratterà un oggetto prezioso con un semplice uccellino: come se Polanski non volesse mai prendere troppo sul serio i propri slanci patetici. Qualcuno ha visto nel contrasto plastico tra presente e passato un atto d’accusa alla società polacca contemporanea, dove l’indifferenza (l’alcolizzato abbandonato a se stesso, già visto in Due uomini e un armadio) e l’emarginazione (gli omosessuali costretti a nascondersi) hanno preso il posto dei valori della patria, della religione e dell’onore, esaltati nella pittura e nella poesia, per secoli unici luoghi dell’identità nazionale. Con questi ideali il cineasta si scontra per poi abbandonarli, tuffandosi a capofitto nelle nevrosi della cultura occidentale. La caduta degli angeli inaugura inoltre il tema dell’acqua, una delle ossessioni più scandagliate dagli esegeti, intesa come sintomo di deriva, di smarrimento spazio-temporale (pensiamo al sogno di Rosemary), ma anche come «strada che porta e conduce all’interno della narrazione» (Francesco Suriano, Il sogno e l’acqua, in E. Bruno, a cura di, Roman Polanski, Gremese, Roma 1993). Associata alla morte o alla minaccia di un pericolo, l’acqua resta un enigma. Qualcuno, come i gitanti di Il coltello nell’acqua, teme le sue onde maligne ma anche la sua immobilità; qualcun altro, e pensiamo a Carol, la cerca ossessivamente per pulirsi da baci sfiorati, fino ad allagare il bagno. Al dottor Walker, in Frantic, basterà il massaggio di una doccia per non sentire più nulla e naufragare nel sogno. 49

Interessante è la sequenza del duello mancato tra il figlio della protagonista e un altro soldato, ambientato in una casa diroccata che assomiglia a un teatro mentale: lo spazio, i costumi, i gesti, la scenografia, tutto è ridotto ai minimi termini, tipizzato in modo da rinviare all’idea di guerra, senza nessuna contestualizzazione storica. Quando il futuro angelo penetra suddetto spazio, la disposizione dei corpi assume una figura triangolare. Ai lati i due personaggi, al centro il vuoto, una FOT. 16 porta bucata aperta sul nulla (fot. 16) che tanto ricorda quelle di certi paesaggi surrealisti di Conroy Maddox (The Visible Man, 1941) o di Raoul Ubac (La chambre, 1938). L’uomo di Maddox (fot. 17), nascosto dietro al muro del Reale, fugge l’infinito visibile sul fondo della porta che non c’è. Rappresentare un corpo nello spazio non significa affermarne la visibilità. Impossibile stabilire la relazione che esiste tra ciò che vediamo (i corpi al di qua del muro) e ciò che intravvediamo al di là di quel muro, che copre l’orrore della guerra proprio come farà quarant’anni dopo la finestra del rifugio del pianista. Le pareti proteggono solo apparentemente i due soldati da un fuoricampo misterioso, da dove arrivano proiettili invisibili: la frontiera tra visibile e invisibile è spezzata. Si inaugura così il tema del “muro bucato”, ossessione di tutti FOT. 17 gli inquilini. Al vertice del triangolo si succederanno più avanti giovani huligani (Il coltello dell’acqua), inquietanti vicini (Repulsion) e ambigui stregoni (Rosemary’s baby). Altro futuro leitmotiv è quell’occhio aereo che sembra guardare tutto dall’alto, galleggiando nello spazio dell’io narrante. Cosí come era iniziato, il racconto si conclude con una panoramica sui tetti di Cracovia, che preannuncia l’incipit di Rosemary’s baby: niente è accaduto e quell’angelo di marmo della prima inquadratura, probabilmente, è ancora al suo posto. Due parole infine su un breve ma geniale “tocco” ignorato dalla critica. La donna che, avvolta in un fazzoletto nero, esce da un portone e attraversa il cordone di soldati, altri non è che Roman Polanski. Ha in mano un pacco per il figlio, ma viene respinta/o in malo modo da quest’ultimo. Nessun accenno a questo doppio travestimento in Roman, nessun commento in altre sedi. La funzione narrativa della sequenza è trasparente: informarci che il figlio è parti50

to in guerra. Chiara ci sembra però la volontà di graffiare il pathos, aprendo il senso a quella zona del visibile dove l’identificazione dello spettatore diventa quanto meno difficile. Questo è lo humour innato nella scuola polacca: inserire un elemento di contrappunto per raffreddare i toni di una sequenza troppo ovvia (pensiamo all’escremento calpestato dal detective di Possession, riflessione sul male aperta a incursioni grottesche). Non si spiegherebbe altrimenti, nella sequenza più celebre di Il pianista, quello splendido contrasto di toni tra le note di Chopin, illuminate da una luce bianca, e il barattolo di melanzane appoggiato sul pianoforte: la vita è innanzitutto sopravvivenza. La caduta degli angeli non entusiasmò la commissione d’esame, ma fu accettato, a patto che il giovane studente presentasse anche un elaborato scritto sull’estetica del cinema. Cosa che Polanski si guardò bene dal realizzare, ritornando invece sulla via dell’amato burlesque philosophique. Rapporti di classe

A Parigi, dove si trova per seguire la carriera di Barbara Kwiatkowska, attrice emergente da poco diventata sua moglie, Polanski cerca invano di trovare finanziamenti per il suo primo lungometraggio. Un corto era più sicuro, economico e alla moda. Ecco allora Il grasso e il magro, secondo capitolo della trilogia della coppia inaugurata con Due uomini e un armadio, questa volta decisamente influenzato dal Beckett di Aspettando Godot: fin troppo evidente è parsa ai più (Rulli, Cappabianca, Avron) la somiglianza fisica e psicologica di questa coppia con quella dei viandanti Pozzo e Lucky, che rompono la monotonia assurda dell’attesa di Vladimiro e Estragone. Ma, come spesso accade in Polanski, l’apparenza inganna, e il piacere del racconto nasce dalla contaminazione di un modello con le proprie ossessioni. In un giardino soleggiato alle porte di Parigi un uomo grasso, di mezza età, gode dei servigi di un giovane giullare, piccolo e magro, pronto a tutto pur di soddisfare il proprio padrone: ballare, suonare il tamburo, il flauto o il violino, cucinare, agitare un ventaglio, lavargli i piedi, dondolarlo, rasarlo, mungere una capra. Egli sogna la città, visibile come un miraggio dalla finestra della casa. La catena che lo lega al padrone, però, non si può spezzare: con qualche tulipano finto, la sua prigione sarà più amena.

Beckett sembra aver ispirato solo la tipologia dei rapporti di forza tra i due individui: per il resto, Polanski lavora su un gioco di opposizioni e di sim51

metrie tanto cerebrale quanto autoironico. Tanto per cominciare i due eroi non hanno nome, ma sono connotati solo per la loro apparenza fisica e distinti secondo la dialettica movimento-staticità: se il grasso giace sprofondato nella sua poltrona, il magro non smette di saltellare fuori e dentro la casa, da una parte all’altra del giardino, in netto contrasto con l’attitudine catatonica del suo modello Lucky. A differenza di Pozzo, inoltre, il grasso non va da nessuna parte, per nulla attratto dalle lusinghe della metropoli cartolinata sullo sfondo. Il tempo è bloccato in un eterno meriggio: né sera, né notte, né alba. La città non è più, come in Due uomini e un armadio, un terreno di scontro con la vita e il male, ma un miraggio immobile dietro l’orizzonte, una veduta che funge da trasparente per lo spazio diegetico (fot. 18). Non la si attraversa più, la si guarda soltanto. Città natale riscoperta in questi mesi di pre-esilio occidentale, Parigi è il simulacro dell’immaginario, l’unica via per sfuggire alle catene dello stalinismo. Come ricorda Dominique Avron, la polisemia del testo permette numerose chiavi di lettura, da quella politica a quella economico-sociale (metafora dell’imperialismo) e, perché no, anche sessuale (pensiamo alla futura relazione sadomaso di Luna di fiele, all’omosessualità fuggita in Per favore... non mordermi sul collo, alla complicità vittima-carnefice di La morte e la fanciulla). Le prestazioni richieste dal padrone sono qui essenFOT. 18 zialmente musicali, secondo una logica opposta e analoga a quella di Il pianista: ciò che per Szpilman sarà sinonimo di libertà qui è invece segno di schiavitù. Il grasso, però, non può ascoltare gli accordi jazz di Komeda, sintomo di quella libertà di improvvisazione su cui invece il magro cerca di accordare il proprio tamburo durante i titoli di testa. Il violino vorrebbe essere solo uno strumento per ammaliare l’orecchio del padrone, addormentarlo e sfuggire al suo controllo. Quanto al personaggio della capra, si tratta forse di un piccolo omaggio alla liberazione delle frontiere del corpo esaltata dal burlesque classico, con quei corpi che si “cosificano” nascondendosi dietro gli oggetti e gli elementi della natura. Incatenato all’animale, l’Io sembra paradossalmente riscoprire quella libertà di movimento negata dalle convenzioni della società. Zoppicare e saltellare, in modo insensato, significa distruggere dall’interno la linearità e la pesantezza della postura borghese: ecco perché Groucho Marx, osservando le evoluzioni di un cavallo in Un giorno alle corse (A Day at 52

the Races, 1937), rimpiange di non essere nato cavallo, privilegio ottenuto solo da Hardy in I diavoli volanti (The Flying Deuces, 1939). Non è un caso allora che al mondo animale rimandi il titolo del corto successivo, I mammiferi, produzione francese girata illegalmente nei pressi della stazione sciistica di Zakopane. Due esseri e una slitta

Scritto a quattro mani con l’amico Kondratiuk durante un soggiorno romano, I mammiferi chiude la trilogia delle coppie sotto il segno dell’astrazione. Dopo due uomini colti nel loro tragicomico essere-nel-mondo, siamo passati a due tipi: ora tocca a due esseri definiti secondo caratteristiche non specifiche della specie umana. All’orizzonte di una distesa di neve, due uomini avanzano verso di noi, annunciati da una campanella. Poche le differenze fisiche tra i due: quello più alto è impegnato nella fabbricazione di una sciarpa di lana, l’altro nasconde sotto il cappotto una gallina da spennare. I rapporti di forza mutano senza sosta: basta simulare un incidente o un’improvvisa cecità per indurre l’altro a trainare la slitta. Quando il mammifero più elegante, coprendosi con le bende, diventa invisibile, nel paesaggio bianco, l’armonia finisce. Durante la zuffa i due perdono di vista la slitta, che viene recuperata da un misterioso venditore di salsicce. Ma il viaggio senza meta riprende, l’uno sulle spalle dell’altro, ancora alle prese con improvvisi incidenti e dubbi infortuni.

La neve di Zakopane serve da pagina bianca su cui schizzare una serie di gag a ripetizione, condite dai soliti accordi jazz di Komeda, precisissimi nello scandire i movimenti ora bruschi ora lenti dei due personaggi. Il modello iconografico sembra essere quello dei fumetti, con quei gesti secchi e spezzati tra un quadro e l’altro, uniti da raccordi che spesso si fanno sentire. Si pensi alla scena in cui il “guidatore” è investito dalla sua slitta: il montaggio è ellittico e scomposto, quasi a voler evidenziare il dispositivo. Grazie a una leggera ma costante inquadratura dall’alto, non vediamo mai il cielo, né l’orizzonte: tutto è bianco, un bianco che apre i bordi dell’inquadratura all’Assurdo (fot. 19). Non ci stupiamo se una gallina (il primo dei numerosi polli che abitano il cinema di Polanski) viene spennata in vista di chissà quale pasto, se un panino sbuca improvvi- FOT. 19 53

samente dalle tasche; inutile poi domandarsi cosa ci faccia un venditore di salsicce in quella waste land incantata. Pur non approfonditi nella psicologia, i due mammiferi appaiono studi per personaggi che verranno, quali ad esempio l’effemminato George di Cul de sac, a cui rimandano passatempi muliebri come la pulizia del pollo e la lavorazione del gomitolo. Nel caos informe della tela bianca le uniche coordinate spaziali sono quelle, frontali, del vicino e del lontano: avvicinarsi alla cinepresa è l’unico modo che questi personaggi hanno per cercare il loro autore. Il congedo si risolverà in un movimento uguale e contrario a quello iniziale, verso il fondo del quadro. Per il resto, le carrellate laterali che accompagnano i due erranti disegnano linee sempre uguali, vuote, confuse, annullando il movimento che dovrebbero riprodurre. Quanto alla gag delle bende, ammiccamento a James Whale (The Invisible Man, 1933), ci sembra di poterla iscrivere in quel processo di «esplosione liberatoria dell’Io» che Petr Kral vede come il tema principale delle avanguardie poetiche di inizio secolo, surrealismo compreso: «[l’uomo del burlesque] si disperde con gioia in tutti i sensi, per riscoprire il piacere di circolare nella linfa degli alberi» (Le Burlesque ou la morale de la tarte à la crème, Stock, Paris 1985). Non sono lontane le “metamorfosi” di Harold Lloyd, a cui basta un telo per confondersi con un muro tappezzato (Sailor Made Man, 1921) o quelle di Chaplin, mascherato in albero per sfuggire al pericolo della guerra (Charlot Soldier, 1918). Interessante, infine, è il lavoro sul sonoro, perfettamente omogeneo alla costruzione dello spazio. Al vuoto iconico della neve corrisponde il vuoto audio in cui affondano tutti i rumori, a parte uno: quello della campanella che rintocca al collo di uno dei viandanti, trasportandolo direttamente nel regno dei mammiferi a quattro zampe. Come un sipario, essa incornicia il racconto precedendo e seguendo l’accompagnamento di Komeda, le cui linee melodiche imitano sia il ritmo sia il tono della vicenda: il sax e il contrabbasso per le liti, il clarinetto e la chitarra per i brevi momenti di quiete. Girato con una Arriflex di fortuna, prima produzione privata polacca dopo la guerra, I mammiferi è l’ultimo cortometraggio di un Polanski ormai pronto per il grande salto, impaziente come il giovane autostoppista che ha in mente. Geometrie del desiderio

La sfida di Il coltello nell’acqua, intrigo imperniato sul meccanismo giallo della scomparsa, era nel coniugare la teatralità dell’impianto narrativo (tre soli personaggi, un’azione ridotta al minimo) con il respiro dei Laghi Masuri, un pae54

saggio così silenzioso da far risaltare ogni minimo sussurro, ogni piccola tensione nel trio. Il coltello nell’acqua è l’opera di un ex-studente in cerca di identità, attento e concentrato a ripulire il meccanismo del racconto da ogni piccola imperfezione, narrativa e plastica. Solo Jerzy Bossak, direttore artistico di Kamera, unità di produzione autonoma fondata dopo il disgelo del ’56, ha fiducia nel progetto. La sceneggiatura è frutto di un paziente lavoro a quattro mani con Jerzy Skolimowski, allora giovane boxeur e poeta di talento, il cui apporto alla redazione dei dialoghi è stato, a giudizio dello stesso Polanski, fondamentale (cfr. «Cahiers du cinéma», n. 175, 1966). Alla pulizia visiva, evidente nell’architettura degli esterni, si accompagna dunque una certosina rarefazione del tessuto sonoro, svuotato di tutte quelle interiezioni o esclamazioni che spesso pretendono, teatralmente, di imitare il linguaggio parlato. Ciononostante, il ministero della Cultura dà il suo veto, adducendo, come pretesto, la mancanza di “impegno sociale” nel soggetto. Ci vorranno due anni, e qualche aggiustamento nei dialoghi, per poter finalmente cominciare le riprese. La scelta degli attori ricade sull’esperto Leon Niemczyk e sul talentuoso Zygmunt Malanowicz (in un ruolo pensato da Polanski per se stesso), entrambi di formazione teatrale, mentre il personaggio della moglie, oggetto della contesa, è affidato a una non professionista, Jolanta Umecka, che prima seduce con la sua naïveté e poi delude, dal punto di vista sia umano sia professionale, tutta la troupe. Solo il marito ha la voce del suo interprete; costretto a buttare il pessimo audio in presa diretta, Polanski si divertì a doppiare egli stesso la voce del biondo autostoppista. Domenica mattina: un’auto avanza in una via solitaria di campagna. Al volante, Cristina, al suo fianco il marito Andrzej, quarant’anni, giornalista sportivo imborghesito. Per non investire un giovane autostoppista l’uomo è costretto a una brusca frenata. Quasi ad assecondare un implicito desiderio della moglie, egli dà un passaggio al giovane, girovago per «rendere la vita meno noiosa». Arrivati al lago, ecco l’invito a salire sulla loro barca a vela per un viaggio di ventiquattr’ore. Cominciano i primi duelli verbali tra il ragazzo e l’adulto: Andrzej detta ordini al giovane, trattandolo come un mozzo. Intanto, la moglie resta indifferente ai rapporti di forza che si instaurano tra i due: trascinare la barca arenata, prendere la pentola con le mani o salire sull’albero maestro sono simboliche prove di iniziazione. Una tempesta trascina la barca in una secca. Mentre la radio trasmette un match di pugilato, i tre passano il tempo giocando in coperta, in attesa della notte. La mattina dopo, il microevento che fa saltare tutti gli equilibri: un coltello, lanciato da Andrzej contro un albero della nave, cade in acqua, subito seguito dal suo proprietario. A nulla serve il tuffo di Cristina: del ragazzo nessuna traccia. Aveva detto di non saper nuotare. La cop55

pia non sa fare altro che scambiarsi reciproche accuse, mentre la cinepresa sembra galleggiare alle spalle del giovane. Il marito si allontana a nuoto. Quando il giovane raggiunge la barca, lo scherno della donna è forte quanto l’istinto materno e il desiderio di concedersi, presto soddisfatto. Dopo aver fatto scendere il ragazzo, Cristina raggiunge il marito al molo. Questi è deciso a recarsi alla polizia, convinto che il giovane sia annegato. Ella gli chiede di terminare il racconto dell’aneddoto sul marinaio che saltava sui cocci delle bottiglie. L’ultima inquadratura ci mostra l’auto in campo lungo, ferma ad un bivio, un orizzonte bianco davanti.

Ancora una coppia maschile. E ancora uno squilibrio nei rapporti di forza, che ubbidiscono non più agli stereotipi astratti del burlesque ma al conflitto sociale tra due generazioni lontanissime nella Polonia di allora: quella dei professionisti arricchiti col favore del Partito e quella, già mostrata in Guastiamo la festa, dei giovani huligani, con tanta voglia di distruggere e nessun ideale a cui credere. L’apertura al sociale fece parlare all’epoca di influenze “nouvelle vague”, mentre per la struttura narrativa aperta si evocò Antonioni. Se Gianni Rondolino rimpianse l’assenza del grottesco (Ritratto di Roman Polanski, «Bianco e Nero», cit.), Stefano Rulli vide nel giovane «l’huligano prescelto dal destino per dissacrare il rito di un matrimonio incancrenito tra i confort borghesi» (Roman Polanski, La Nuova Italia, Firenze, 1975). Polanski dilata la struttura dualistica e duellistica dei corti precedenti in un’ora e mezza piena di silenzi e di sguardi, sintesi di un viaggio antieroico, senza nessuna meta catartica: ventiquattr’ore sul lago a osservare le nuvole. In attesa che qualcosa capiti. Un’attesa che però non ha volto, né nome, perché quello che interessa è restituire la fisicità della durata, di un discorso che passa senza che la fabula avanzi. Christine, la barca, è là, e la cinepresa non se ne dimentica mai. Tutte le manovre nautiche, dall’imbarco all’attracco sul molo, ci sono mostrate nei loro tempi reali, con i loro rumori caratteristici, senza che l’approfondimento della psicologia dei personaggi prenda il sopravvento. Gli interni claustrofobici sono invece “falsi”, ricostruiti in studio a Varsavia, in modo da poter disegnare al meglio la curva del soffitto che schiaccia i volti l’uno addosso all’altro. I personaggi parlano molto ma, come ha notato Avron, «l’essenziale dell’informazione sembra venire dall’azione e non dai dialoghi» (Roman Polanski, cit). Questi del resto obbediscono alla struttura del duello: la parola funziona come un coltello per Andrzej, che cerca di ferire l’entusiasmo giovanile del rivale assegnandogli un ordine dopo l’altro, così come, nella sequenza iniziale, fa con la moglie. Ma solo nella versione italiana, che presenta battute assolutamente 56

assenti, o meglio “visibili” ma non udibili nella copia originale polacca, come il rimprovero: «Non c’era bisogno di cambiare... Attenta!». La donna risponde, senza però che siano ben distinguibili i movimenti delle sue labbra. Forse la distribuzione italiana temeva quel lungo silenzio che precede il cambio alla guida, e per questo ci fa ascoltare frasi che Polanski oscura dietro il parabrezza. Nella versione originale, le prime battute del suo Andrzej, osservato in primo piano all’interno dell’auto, non suonano affatto come un insulto al ragazzo in fondo alla curva («Che ci fa quel cretino in mezzo alla strada?»), ma alludono alle abitudini della nuova generazione: «Si mettono lì già di buon’ora». Siamo di fronte a uno dei maggiori tradimenti del doppiaggio nel cinema di Polanski, secondo solo a quello inferto all’ambiguità di Frantic. La struttura dei rapporti di forza è presto delineata. Da un lato la parola (il marito). Dall’altro l’azione (il ragazzo), un corpo giramondo incapace di stare fermo: in mezzo, al vertice del triangolo, lo sguardo muto di Cristina (fot. 20). Protetta da un paio d’occhiali, ella osserva gli scambi tra i due (non è un caso se in coperta la radio trasmette un match di pugilato) senza quasi mai intervenire, preoccupata solo di proteggere la pelle dal sole. Molti studiosi, da Belmans a Avron, hanno rilevato una carica erotica latente in questo personaggio. Quando si cambia in coperta, lo sguardo voyeur della cinepresa insiste con un inquadratura lunga sui suoi gesti, permettendo solo di immaginare a uno spettatore forse più frustrato dei personaggi maschili (la lezione FOT. 20 del Sorriso dentale è messa in pratica). Cadendo in acqua, il coltello fa increspare le onde, fino ad allora piatte, della narrazione, denunciando con questo anche la propria natura di Mac Guffin, espediente narratologico fine a se stesso. Si legga l’analisi di Frantic proposta da Flavio De Bernardinis nella precedente edizione di questo volume: il coltello fa la stessa fine del krytron che Harrison Ford lancia nella Senna. È il momento topico della storia, quello suggerito da un titolo fino ad allora misterioso per lo spettatore. Eppure, nessuna marca stilistica lo rileva: nessuno scarto nel ritmo regolare del découpage, nessuna sottolineatura patetica di Komeda, che abbozza un indifferente assolo di sax, sussurrato, come un vago sottofondo. Che cosa aveva di “unico” questo coltello? Nessuno dei personaggi lo nomina più dopo il tuffo, nemmeno il ragazzo sembra più preoccupato della sua sorte. 57

Ma torniamo all’inizio. A bordo della loro Peugeot 403, Andrzej e Cristina ricordano da vicino una celebre coppia del cinema degli anni Cinquanta, quella di Viaggio in Italia (Roberto Rossellini, 1954). Le due sequenze sono speculari: strada deserta, silenzio, il marito che passa alla guida (in Rossellini per la semplice «paura di addormentarsi»). In entrambi i casi l’uomo è il primo a parlare. Se di omaggio si tratta, evidente FOT. 21 è la volontà di demistificazione. L’aplomb aristocratico del modello cede il passo alla postura nervosa della coppia polanskiana, oscurata, durante i titoli di testa, dalle ombre dei platani riflesse sul parabrezza. L’oscuramento sarà d’altronde il leitmotif del racconto, in senso letterale quanto figurato. La verità, le pulsioni, ma anche il cielo, soleggiato per tutta la prima parte: tutto, col passare del tempo, si fa più oscuro. Diverso è lo sguardo dell’istanza narrante. Se Rossellini ci trasporta nel viaggio dei suoi personaggi, offrendoci il loro punto di vista con carrellate laterali aperte sul paesaggio (fot. 21), Polanski si sofferma sui primi piani opachi, ripresi frontalmente, quasi a contraddire l’idea stessa del viaggio come avanzamento (fot. 22). Nessuna ballade, nesFOT. 22 sun abbandono all’ignoto, nessuna purificazione interiore. Il giorno seguente, più o meno alla stessa ora, i due saranno ancora lì, come se nulla fosse successo. Ancora prima di salire a bordo della barca, gli elementi della scenografia suggeriscono, in sostituzione alla parola, le relazioni tra i personaggi. Quelle funi verticali che sorreggono la vela (fot. 23) separano i due mondi inconciliabili del ragazzo, nerovestito, e dell’adulto, la cui bianca tenuta è in sintonia con il colore del cielo e con quello della barca. Fortissima, la profondità di campo contribuisce a creare uno spazio tanto simmetrico quanto astratto, iperrealista, virtuale. L’orizzonte è letteralmente tagliato in due da una FOT. 23 fila di alberi dalla forma singolare (fot. 24), le cui 58

sagome, svariate e vagamente antropomorfe, oltre a scongiurare qualsiasi tocco pittoresco nel paesaggio, contrastano con la perfezione plastica della messa in scena dei corpi. Questi si staccano, come in rilievo, da uno sfondo sempre vuoto e uniforme come un telo, che si tratti del cielo (bianco) o del mare visto dall’alto (nero). L’unica concessione al caos, in questo senso, è giustificata con un pretesto narrativo. Quando i due sono costretti a trascinare a piedi la barca in una selva di piante, la cinepresa li segue, sulle spalle dell’operatore, FOT. 24 in quello che resta uno dei rarissimi movimenti di macchina di tutto il film. Tutto ruota attorno alla figura del triangolo, disegnato dalla posizione dei personaggi nello spazio (fot. 25) ma anche dalla loro postura, spesso piramidale: basta un braccio leggermente allargato rispetto al corpo (il ragazzo), o un ginocchio piegato (l’adulto) per imitare la forma, ossessiva, della vela, a sua volta riprodotta dall’inquadratura a piombo del giovane intento a fare ginnastica. La “cerebralità” rivendicata da Polanski è tutta in questo gioco musicale di assonanze, rime e consonanze, variazioni plastiche sulla figura dell’unico vero oggetto del desiderio (il coltello). A questo proposito curiosa ma prevedibile, conoscendo la fortuna che il film ha avuto nei paesi anglosassoni, (la copertina di «Time» lo dimostra) è l’interpretazione psicoanalitica di Virginia Wright Wexman, FOT. 25 che vede gli sviluppi di un rapporto edipico tra i personaggi: «Quando la sessualità trionfa, il ragazzo incontra i tabù edipici: è castrato dal padre (il coltello gettato in acqua) e fa l’amore con la madre» (Roman Polanski, cit.). Per quanto riguarda il tessuto sonoro, abbiamo già accennato all’attenzione per la restituzione del dato realistico. Oggetti quotidiani come il cavatappi, il remo o la pentola che cade dalle mani del giovane hanno un peso sonoro equivalente a quello dei corpi, rafforzato anche dalla calma piatta del lago a mezzogiorno. Sapiente è l’utilizzo dei rumori diegetici in funzione di contrappunto. Più forte del ronzio della zanzara, la voce dello speaker alla radio si sovrappone a quella dei personaggi intenti al Mikado, trasferendo sul piano acustico quella sensazione di troppo-pieno su cui è costruita l’immagine. Prima la canzone abbozzata dalla donna, poi la poesia recitata dal giovane: tutte dilatazioni utili a scolpire il tempo. Il rifiuto della selezione “vococentristica” tipica del cinema classico non 59

avviene, come per alcuni dei cugini delle nouvelle vague, attraverso la registrazione del brusio reale in nome del cinema-verità, ma con l’inganno. Ricreando in studio tutti i suoni, Polanski non imita la realtà, ma le forme della sua percezione. Il realismo dell’atmosfera, tanto decantato dalla critica (Avron e Kané su tutti), è figlio del falso, di un falso così verosimile da sembrare vero. Chissà se invece è vero l’aneddoto tragicomico che nella bocca del marito punteggia a più riprese il racconto. La storia di un uomo che un giorno saltò sui cocci di bottiglia viene rievocata e ogni volta interrotta, fino a che, nel finale, la moglie non invita il marito a ritornare sul soggetto. Nel destino del fuochista superbo orribilmente ferito dai vetri (più leggero è il taglio che il giovane si procura alla mano, prima di una lunga serie di ferite polanskiane) si riflette forse la parabola dello stesso Andrzej, tradito dalla sua sicurezza e ingannato da coloro che intendeva sottomettere. Come se non bastasse, al ritorno, la scoperta del furto della ruota di scorta contraddice la spavalderia del giorno prima, quando si rifiutò di chiudere l’auto convinto che nessuno lo avrebbe mai derubato. Il cinema di Polanski si offre fin dall’inizio come una fenomenologia della perdita, leitmotiv che in futuro assumerà diverse maschere: comiche (gli attrezzi ammazza-vampiri di Per favore... non mordermi sul collo), tragicomiche (la statuetta di Frantic) e tragiche; in Il pianista la musica sarà l’unico affetto non perso dal protagonista. Senza dimenticare le difficoltà atmosferiche e tecniche raccontate in Roman, le riprese furono funestate da due eventi, quali la morte improvvisa di Munk, una sorta di padre artistico, e un pericoloso incidente d’auto, che costrinse Roman a qualche giorno di coma. Deludente fu la fortuna francese del film. Solo la nomination all’Oscar per il miglior film straniero consolò Polanski, che si tuffò immediatamente nello studio dell’inglese. Visti i consensi ricevuti in Gran Bretagna, decise che quella sarebbe stata la sua prossima destinazione. Non prima però di aver accolto la richiesta di un mediometraggio su commissione, forse l’episodio più interessante di un mediocre film collettivo a quattro mani: Le più belle truffe del mondo (Les plus grandes escroqueries du monde, 1963). Détour ad Amsterdam

Girato in un mese tra i canali di Amsterdam, La collana di diamanti segna l’inizio della collaborazione con Gérard Brach, dotato di uno sguardo surreale verso i drammi della vita, forse ispirato da cinque anni di sanatorio per tubercolosi. 60

Otar Ioseliani (I favoriti della luna, [Les favoris de la lune, 1984), Marco Ferreri (Chiedo asilo, 1979), Michelangelo Antonioni (Identificazione di una donna, 1982) e tanti altri attingeranno negli anni Ottanta al suo humour mordace e grottesco. Col giovane esule polacco scatta subito un’affinità elettiva: tra un film alla Cinémathèque e una ballade a Saint-Germain-des-Près, i due buttano sulla carta una serie di progetti, idee per sceneggiature oggi perdute e ispirate a persone, fatti, eventi incontrati nel quotidiano. Di Polanski Brach ammira tanto il talento artistico quanto la passione per la scienza: «Roman è preciso in tutto, conosce l’ottica e le sue leggi, non solo quelle dell’obiettivo, ma anche quelle dell’occhio» (in P. A. Boutang, Polanski par Polanski, cit.). Vertice assoluto di questo connubio sarà Cul de sac, più volte indicato da Polanski come il film che più assomiglia alla sua idea di cinema. Se la bohème parigina ispira, gli esperimenti della Nouvelle Vague lo lasciano piuttosto freddo. Eppure, alla freschezza dei plein air alla moda fanno pensare le carrellate leggere che seguono l’eroina della Collana di diamanti, scherzo dall’innegabile sottofondo anarchico ma soprattutto esercizio per i futuri ritratti urbani di Londra, New York e Parigi. Una ragazza francese, forse una turista, si aggira in bicicletta per le vie di Amsterdam. I rumori del traffico, le voci dei gabbiani, il suono delle campane, i volti dei passanti: tutto attrae la sua attenzione e nemmeno una serie di auto misteriosamente finite in un canale può toglierle un leggero sorriso dal volto. Nella borsa della bicicletta trasporta oggetti rubati; viene avvistata da una delle vittime ma riesce a fuggire. Invaghitasi di una collana di diamanti a tal punto da riflettersi per qualche secondo nella vetrina della gioielleria immaginando di indossarla, si lascia abbordare da un uomo d’affari a cui concede però, oltre alla vista delle proprie gambe, solo un gioco a nascondino, nel labirinto della di lui abitazione. Presto scatta la truffa: facendosi passare per la moglie dell’uomo, la ragazza inganna il gioielliere e scappa con i diamanti al collo. Per poi scambiarli, senza tante esitazioni, con un pappagallo.

Fotografata ancora da Jerzy Lipman, con uno sguardo attento al bianco pastoso del cielo (se quello dei Laghi Masuri era asciutto, questo cielo sembra sciogliersi nei vapori della città) e ai riflessi della luce sull’acqua, Amsterdam è un «attante» (Greimas) della narrazione, adiuvante la cleptomania della bella turista: una sequenza ce la mostra approfittare della terraferma per sfuggire a un uomo che, pur riconoscendola, non può inseguirla, in quanto si trova sul vaporetto. L’attenzione di Nicole (è il nome della giovane interprete, all’epoca sentimentalmente legata al regista) per tutto ciò che la circonda riproduce quello sguardo incantato tipico dello straniero che Polanski bene conosceva. 61

La cinepresa segue tutti gli spostamenti del suo personaggio, senza per questo adottare sempre il suo punto di vista. Frequente è l’utilizzo di una finta soggettiva, come nella sequenza dell’esposizione dei diamanti: una breve panoramica dei gioielli termina proprio sul volto della ragazza, dietro il quale lo spettatore credeva di nascondersi. Interessa mostrare l’atto del guardare. Anche lo spazio ha i suoi occhi. Quando la piccola ladra si accinge a indossare una stola rubata a chissà quale prete, il suono off delle campane di una chiesa la ferma, invadendo minaccioso lo spazio che le voci dei gabbiani, pochi istanti prima, avevano connotato come un’oasi d’intimità. «Immersa nel visibile», direbbe Merleau-Ponty, Nicole è inseguita da questo sguardo sonoro anche nell’inquadratura successiva (una via del centro), che nessun raccordo di contiguità spaziale collega alla precedente (l’imbarcadero). Lo spazio ci appare come una serie di quadri slegati, discontinui, involucri del personaggio che li abita e ne è abitato. Sono le prove generali di quel paesaggio del cervello che Polanski esplorerà nel successivo Repulsion. Dei suoni non sono sempre mostrate le fonti: Amsterdam è un teatro dell’assurdo dove il rombo di un aereo si intreccia col verso di un gabbiano davanti a una gioielleria, mentre le auto, chissà perché, continuano a scivolare nei canali. Al piano sequenza sono affidati i due momenti narrativamente più importanti: l’incontro con l’uomo d’affari e la scelta della collana nella gioielleria. Quando Nicole FOT. 26 entra nel negozio, la cinepresa resta fuori, spostandosi leggermente a sinistra, in ottima posizione da voyeuse. Vediamo tutto senza sentire nulla, grazie anche al contributo jazz del solito Komeda. La scelta della continuità temporale non è fine a se stessa, ma gioca ancora una volta sulla frustrazione dello spettatore. La durata non fa che aumentare il desiderio di penetrare quello spazio. Guardare, in Polanski, non significa mai possedere. Il tema dello sguardo ci riconduce a quello dello specchio, abbozzato già in Il coltello nell’acqua, quando il biondo ribelle sputa sul proprio riflesso nel lago (fot. 26). Tale motivo non è qui solo profilmico (la ragazza che FOT. 27 indossa virtualmente la collana al di là del 62

vetro) (fot. 27) ma anche filmico. La terza e la quarta inquadratura (fot. 28) dell’episodio, due esterni in movimento, ci posizionano rispettivamente dietro e davanti la ragazza, il cui corpo è attraversato senza nessun rispetto della regola dei 180°. I due punti di vista dunque si guardano, come in uno specchio. Polanski si dimostra fantasioso come la sua protagonista: alla satira sociale (si veda la reazione dell’operaio immigrato quando si loda la tecnica olandese nella rifinitura dei diamanti) fanno eco feticci surrealisti, come le calze di seta indossate dalla ragazza all’interno dell’auto. Ma, in fatto di accostamenti incongrui di toni e registri, nulla eguaglia il racconto della tragicomica morte del compagno di lei, colpito da un embolo in mare proprio mentre sopraggiungeva uno squalo, il cui lauto pasto FOT. 28 è stato poi filmato da una cinepresa. Per finire, non trascurabile, in un appartamento angoloso e geometrico come la barca dei laghi Masuri (al Coltello nell’acqua rinvia anche l’oggetto scelto da Nicole per chiamare il cameriere: un coltello), è l’organizzazione dello spazio come labirinto. La serpentina di scale e di vetri lungo la quale Nicole sfugge al suo spasimante dà origine a una sorta di balletto verticale, che anticipa altre danze più famose, dal ballo solenne dei vampiri di Per favore... non mordermi sul collo ai passi leggeri delle fanciulle in fiore all’inizio di Tess. Ma più inquietante è il labirinto in cui stiamo per inoltrarci: molle, umido, carnivoro. Fratture

Non occorre esser camera né casa / per sentirsi invasati dallo Spettro. (Emily Dickinson) Invitato a Londra da Gene Gutowski, raffinato produttore di origine polacca, Polanski cerca di strappare un contratto per Si Katelbach arrive, titolo provvisorio del futuro Cul de sac. Ma nessuna compagnia, nemmeno quelle indipen63

denti, si dimostra interessata. Solo la Compton Group si fa viva: specializzata fino ad allora in film erotici, vorrebbe cambiare la propria immagine. Gli serve però un horror, non un divertimento surrealista. Polanski accetta e, in diciassette giorni di lavoro assieme a Brach, nasce la sceneggiatura di Repulsion. Carol, una giovane belga, divide con la sorella un appartamento di tre stanze nel West End, un quartiere centrale di Londra. Al salone di bellezza, dove lavora come manicure, mostra uno strano comportamento: chiusa in un universo tutto suo, non risponde alle richieste delle clienti, sembra addormentata. Durante la pausa pranzo, dopo aver schivato l’abbordaggio di un operaio, si dimostra indifferente sia al cibo sia agli slanci del fidanzato, di cui rifiuta un invito a cena. Rientrata a casa, scopre con disappunto il rasoio del compagno della sorella nel bagno. La cena a tre, a base di coniglio, è annullata, visto che la sorella esce col fidanzato per progettare una vacanza di quindici giorni in Italia. Nelle due notti che precedono questa partenza, Carol è visibilmente infastidita dai gemiti d’amore della coppia: la mattina dopo guarda con repulsione le lenzuola del loro letto. Il secondo giorno, mentre in casa riecheggiano i rintocchi delle campane del convento vicino e gli squilli di un telefono, la ragazza reagisce con terrore a un bacio del fidanzato. Rimasta sola e presto cacciata dal lavoro, dopo aver ferito il dito di una cliente, comincia ad avere delle allucinazioni. Un uomo, forse l’operaio visto il giorno prima, esce dall’armadio e la violenta. Larghe crepe si aprono nelle pareti, misteriose mani maschili cercano di afferrarne il bianco corpo, mentre le stanze sembrano allargarsi a dismisura. Intanto il coniglio marcisce e il tempo passa senza che noi abbiamo alcuna indicazione. A Carol sfugge il controllo degli oggetti: stira senza accendere il ferro, allaga il bagno nel tentativo di riempire la vasca, guarda la televisione senza audio. L’appartamento è diventato ormai una pianta carnivora: addentrarvisi è molto pericoloso. Sia il fidanzato, preoccupato per l’assenza, sia il padrone di casa, venuto a reclamare l’affitto, vi trovano una morte cruenta. Toccherà alla sorella scoprirne i cadaveri; mentre Michael porterà fuori Carol, ormai in stato catatonico, tenendola in braccio.

Ispirato al caso di una ragazza conosciuta a Saint-Germain-des-Près e ricco di elementi autobiografici (Polanski stesso fu infastidito da alcune campane in un quartiere parigino), Repulsion è scritto e diretto nel rispetto delle regole del genere, con i necessari tocchi splatter, per convincere fino in fondo la produzione. Ma senza perdere di vista il verosimile. L’apprezzamento di alcuni psichiatri, ammirati di fronte al ritratto della schizofrenia, sarà motivo di soddisfazione. Per il ruolo della protagonista, dopo vari casting, Polanski scarta Francesca Annis, futura Lady Macbeth, e impone al produttore Catherine Deneuve, successivamente consacrata da Demy, Buñuel e Ferreri come un’icona del cinema d’autore. 64

Si diceva dello «stile realista». L’assenza di trucco va nella stessa direzione anti-spettacolare, al fine di cogliere le più piccole sfumature del rimosso nel volto. Il primo piano su cui si apre Repulsion, con quegli occhi separati dall’ombra dei capelli (fot. 29), indica una femminilità “lontana”, implosa, forse mai sbocciata: i muscoli sono tesi a impedire che qualcosa scoppi dentro, che le crepe di chissà quale trauma si affaccino. Un volto difficile da leggere. Se altre parti del corpo, più vitali, interesseranno la furia omicida di Carol, il volto FOT. 29 sarà oggetto di tagli e aggressioni da parte della cinepresa, come indicano i dettagli della bocca e degli occhi delle clienti nel salone di bellezza, sfigurate sotto un’abbondante maschera di cera. Ma il volto di Carol è soltanto l’ultimo stadio di un viaggio a ritroso cominciato all’interno del cervello. Pulsazioni cupe musicano lo schermo nero prima dei titoli di testa, il tempo necessario perché uno zoom ci consegni una delle visioni più perturbanti in cui può incorrere l’occhio umano: se stesso. Unicum in tutto il cinema di Polanski, il dettaglio dell’occhio ha una lunga carriera cinematografica, che va dagli esperimenti metalinguistici di Vertov (L’uomo con la macchina da presa [Celovek S Kinoapparatom, 1929]) alle vertigini della pulsione in Hitchcock (si pensi alla scenografia costruita da Dalì per la scena onirica di Io ti salverò [Spellbound, 1945], con la forbice che buca l’occhio), senza dimenticare Kubrick (Arancia Meccanica [A Clockwork Orange, 1973]) e De Palma (Le due sorelle [Sisters, 1974]). Rinnovando i cliché del fantastico, Mario Bava ne ha fatto addirittura il punto vitale dell’Altro, come illustrano le gocce di sangue che fanno rivivere la non-morta all’inizio di La maschera del demonio (1960). Senza scomodare Bataille, Repulsion potrebbe essere letto come la “storia di un occhio” che uccide senza guardare, evitando in ogni modo di essere guardato, ovvero penetrato: il parallelismo con il sesso femminile ci sembra fin troppo scontato. Così come didascalica è la metafora della torre di Pisa “visitata” dalla sorella (i cui gemiti tradiscono pulsioni non represse), simbolo fallico poi spedito a Carol in una cartolina che può fare soltanto la stessa fine dei volti di cui sopra: strappata. Tagliata in due come l’occhio su cui galleggiano, obliqui e senza peso, i titoli di testa. Tra questi, la griffe dell’autore, «Directed by Roman Polanski» (fot. 30), è quello che fa più male, sezionando l’occhio da destra a sinistra, in un movimento identico a quello compiuto dal rasoio di Luis Buñuel sull’occhio femminile di Un chien 65

andalou (fot. 31). Tale direzione è naturalmente contraria a quella della percezione occidentale, che predilige muoversi verso destra. Pensiamo alla scrittura, ma anche alle panoramiche descrittive del cinema classico. Se Buñuel voleva distruggere l’ordine della visione borghese, Polanski ci anticipa soltanto l’ingresso in un regime di sguardo quanto meno anomalo. I punti di contatto inattesi tra i due cineasti sono moltissimi, dal disprezzo per la messa in scena del dispositiFOT. 30 vo (i movimenti di macchina non si devono sentire) alla predilezione per i personaggi femminili misteriosi e repressi, vittime delle proprie fantasie: non è un caso se Belle de jour, qualche anno dopo, sarà impersonata da Catherine Deneuve. Tra queste ossessioni, non trascurabile è quella del doppio. Due volte i titoli tagliano l’occhio di Repulsion, mentre nel Chien andalou la nuvola sulla luna anticipa il gesto dell’uomo; due saranno le irruzioni nell’appartamento, due le vittime, due volte ci verrà mostrata la foto di famiglia. Ma Polanski ha paura di non dire abbastanza. La targa dell’auto illuminata nel finale non aggiunge nulla. I V ME. Ovvero “Io contro i miei occhi”, come testimonia quello sguardo sempre rivolto verso il basso, spento da un’inquietante apatia; per la strada, dove la ragazza rischia di farsi investire da un’auto, e nell’appartamento. Ad attrarFOT. 31 la è tutto ciò che accade sotto la finestra, dalla quale raramente però si sporge, come ad esempio la sagoma di un’auto nera in sosta vicino al palazzo o, in controcanto, l’eco dell’orchestrina di tre buffi viandanti. Verticale è la direzione lungo cui si dirigono gli sguardi dei personaggi e si collocano gli ambienti. Dal salone si scende nello spogliatoio, dall’appartamento, ma solo con gli occhi, si cade nel convento di suore, un luogo dove la bellezza non è costruita bensì negata (cfr. A. Scandola, Il fantasma e la fanciulla, cit.). Insopportabile per il compagno della sorella è il rintocco della campana, agitata da suore che suscitano l’ironia blasfema dell’uomo: «Non hanno di meglio da fare? Devono organizzare dei party-sorpresa lì dentro». Se la visione, come sostiene George Bataille (Critica dell’occhio, Guaraldi, Firenze 1972), segue anche l’impulso della regione pineale, territorio dei sogni, delle pulsioni e delle nevrosi, quello di Carol è uno sguardo aperto sull’abisso di un mondo «eterogeneo», dove si affaccia tutto ciò che la ragione rifiuta. 66

Quando l’identità è spezzata, nulla è più repellente della propria immagine. Esemplare la scena del dialogo con la sorella che si pettina allo specchio, allorché le due donne guardano in direzione opposta. Già in precedenza Carol aveva evitato di specchiarsi nell’ascensore, ma non sfuggirà ai riflessi sulle vetrine della città. «Esse est percipi» direbbe OG., protagonista senza volto di Film (Id., 1965), incubo diurno firmato nello stesso anno da Samuel Beckett e Alan Schneider. Tutto ciò che assomiglia a un occhio fa paura. Se un Keaton curvo e rugoso (interessanti i dettagli delle mani, presenti anche in Repulsion: sono l’unico luogo dell’apertura all’esterno) si ripara contro un muro per poi oscurare l’ambiente in cui si rifugia, Carol non trova di meglio che inserire un dito nella pupilla del muro accanto al letto. Ma non potrà tagliare gli infiniti occhi che si posano su di lei. Tra questi, lo spioncino della porta di casa, indossato prima dal ragazzo e poi dal proprietario, ignari del pericolo. A nulla servirà rinforzare la soglia con un’asta di legno. Quando Colin vi penetra, gli occhi, grazie alla profondità di campo, diventano addirittura sei. La vicina, barboncino al guinzaglio, approfitta della porta aperta per raddoppiare lo sguardo del ragazzo, il quale, da spia, si ritrova così spiato (fot. 32). In questa inquadratura la direzione degli sguardi riprende la figura del triangolo, inaugurata ne Il coltello dell’acqua. In un appartamento che appare sempre di più un’estensione del corpo (a Michael basta lasciare il rasoio FOT. 32 nel bagno per penetrare l’intimità di Carol), gli occhi non sono finiti. In più occasioni, e in particolare durante la visita del proprietario, dietro la ragazza è ben visibile nella sala un quadro, un paesaggio tipico di certa pittura cinese, dove la prospettiva continua offre una molteplicità di punti di vista. La nebbia che avvolge i rilievi, oscurandone le linee di fuga, raddoppia la percezione confusa della mente: realtà e immaginazione si confondono come l’acqua e la terra. Ciò che ha le apparenze di albero o collina è anche il riflesso di uno squarcio interiore, umido e viscido. Come la nebbia di questo quadro, anche la luce opaca di Gil Taylor non è contrastata, ma avvolge la ragazza nel grigio della stanza, senza che alcuna gerarchia la separi dagli elementi d’ambiente. L’occhio più beckettiano è però quello riprodotto nella foto di famiglia sulla mensola del salotto (fot. 33). Non per nulla all’inizio della fotografia si aveva 67

paura di fissare a lungo un volto, nel timore che esso ci guardasse. Due volte la macchina da presa accarezza la foto, secondo una complessa combinazione di zoom e carrello. Mentre tutti sorridono guardando felici l’obiettivo, una bambina (Carol?) disperde fuori campo uno sguardo inquieto, le braccia unite ad un corpo già rigido. Rispetto al finale di Beckett, la focalizzazione cambia: non è Carol a guardare il proprio doppio, ma l’istanza narrante. Imprigionandola in una cornice di FOT. 33 ombre, l’occhio della cinepresa riesce a fare ciò che nessun uomo in futuro farà con il suo corpo: violarla. Il passato però, buio come la prima e l’ultima inquadratura, ci offre solo un velo di carta. Ha scritto Roland Barthes: «per quanto scruti [in una fotografia] io non scopro niente. Se ingrandisco non faccio altro che ingrandire la grana della carta, disfo l’immagine a favore della sua materialità» (La camera chiara, Einaudi, Torino 1981). Esattamente ciò che farà Antonioni nelle sue Montagne incantate. Il tema della frantumazione della personalità traspare anche nel montaggio, che taglia le sequenze con una violenza pari a quella dei colpi inferti da Carol alle sue vittime. Talora il personaggio fa appena in tempo a finire la battuta che la scena cambia. Si osservino gli attacchi di alcuni esterni, quando Carol esce dal salone: le auto che sfrecciano simulano in un certo senso la fisicità di questi tagli, i quali a loro volta rinviano al gesto bunueliano dell’incipit. Più spesso, invece, si sceglie un effetto di analogia iconica, come nel caso del lenzuolo intriso delle pulsioni della coppia, che la ragazza osserva con disgusto senza sapere che Polanski è pronto a farglielo “indossare”: le pieghe del tessuto ritornano identiche sul camice bianco nella sequenza successiva (fot. 34). Al contrario, un effetto di contrasto è offerto dalla successione delle due inquadrature successive al primo piano iniziale di Carol, nella prima sequenza. Da due mani sconosciute, unite a disegnare una sorta di verticale, passiamo a un volto coperto, reso enigmatico da una crema che non sappiamo ancora essere un prodotto di bellezza. Se tra i due spazi non c’è nessuna contiguità materiale, è perchè la percezione dello schizofrenico è frantumata. Le clienti del salone sono gli unici corpi con cui Carol entrerà in contatto, tramite le mani. Ma sono corpi mostruosi, maschere parlanti che non fanno che aumentare il terrore per il sesso maschile. «Vogliono solo quello, gli uomini», esclama una delle clienti sulla stessa lunghezza di Bridget, la collega delusa in amore. Pensiamo a quella fessura nel marciapiede che si insinua tra le gambe di Carol: 68

se la scenografia visualizza i fantasmi più repressi, la parola non è da meno. Quando Michael arriva a casa,`la prima sera, la notizia del giorno è il ritrovamento di alcune anguille nel lavabo del Ministro della Salute: l’argomento di discussione è sempre il mondo “eterogeneo”. Non si parla d’altro, anche al pub le battute a doppio senso si sprecano. Una di queste, pronunciata il primo giorno dal fidanzato, gioca sulla similitudine tra il povero coniglio poi dimenticato nel frigo e il compagno della sorella. «We have rabbit», dice Carol: ma non sa ancora che di quel feticcio sanguinante, simile ad un feto marcio, si innamorerà a tal punto da portarselo nella borsetta in giro per la città. Nulla a che vedere con gli asini putrefatti di Un chien andalou, in quanto il registro iconico prevale qui su quello simbolico, pur presente. Il coniglio appare il correlativo oggettivo della morte del desiderio. Anche gli esterni, con i marciapiedi crepati, i lavori in corso e un incidente d’auto inosservato (vedi La collana di diamanti), agiscono quali vettori della schizofrenia. La cinepresa segue ed anticipa i passi di Carol senza mai lasciarla. Quando lo fa, come nel caso del primo piano dell’operaio, suggerisce forse la scissione tra il corpo, che va avanti, e il desiderio, che si volta indietro. Come abbiamo dimostrato nel nostro precedente studio (Il fantasma e la fanciulla, cit.), la traiettoria dei percorsi di Carol è spesso circolare: un anda- FOT. 34 re avanti senza muoversi, per ritornare al punto di partenza. Estremamente curata, nei minimi particolari, è l’architettura sonora. E questo risalta anche alla prima visione del film, soprattutto nella seconda parte, dove i dialoghi sono ridotti al minimo. La ricetta è semplice: far salire la tensione piano piano, tenendo lo spettatore incollato a un’immagine, per poi colpirlo all’improvviso. Ciò che sul piano visivo è svolto dal piano sequenza, su quello sonoro è affidato al silenzio. Un silenzio pesante come il muro della cucina, la cui prima crepa (una crepa “detta” da Carol la prima sera ma mai mostrata fino a ora) è sottolineata da un effetto assordante tanto più forte quanto lungo è stato il vuoto che l’ha preceduto. Il découpage, sull’effetto di 69

quest’onda sonora, spezza la scena in una rapida successione di dettagli, tra cui spicca il particolare dell’occhio di Carol, perfettamente al centro dell’inquadratura (a differenza della ferita nel muro, estesa sul bordo destro e biforcuta come la fessura nel marciapiede di cui sopra). Lo stesso avviene in occasione della prima apparizione maschile nella camera della sorella. È un momento di intimità, Carol accenna a provarsi alcuni vestiti, curiosando nell’armadio proprio come farà, nel suo appartamento parigino, l’inquilino del terzo piano. Un giro di note al piano mette lo spettatore in un clima disteso e sereno, subito strappato da una seconda forte dissonanza di Chico Hamilton. Si ascolti, infine, la sinfonia di rumori che riempie uno dei tanti pomeriggi nella living room. Il solito ronzio di una mosca crea uno spazio sonoro fluttuante quanto i pensieri di Carol, prima seduta davanti alla televisione, poi in cucina ad ascoltare le gocce dell’acqua sulle patate. Accanto alla sorgente mobile dell’insetto, imitata da una panoramica aerea, il tic-tac di un pendolo invisibile si offre come perno sonoro fisso, figura di un ordine, il tempo, ormai distrutto. Singolare è il fatto che questi due rumori siano “impressi”, all’inizio della sequenza, sull’immagine del telefono: con i fili recisi, esso ha tutto l’aspetto di una natura morta. Quando la parete della cucina si frantuma nuovamente, il rumore è più caldo, come quello di un suolo che si apre per partorire qualcosa: un suono non molto diverso da quello provocato dalla galletta che Carol, dirigendosi in sala, spezza. Se nessuna gerarchia suddivide gli elementi sonori significa che impossibile è stabilire il punto d’ascolto. Polanski ci ha finalmente portato dove voleva: nel cervello del suo personaggio. In occasione della seconda aggressione maschile, mimata da una cinepresa affannosa quanto il respiro dell’uomo (diversa sarà la rappresentazione della violenza in Tess), il rumore d’ambiente garantisce uno straordinario accostamento “surrealista”: le campane delle suore coprono le urla e i sospiri musicando, senza saperlo, pulsioni più che proibite. Orso d’argento al Festival di Berlino, Repulsion fece sbizzarrire critici e cinefili nella corsa alle influenze hitchcockiane. Al di là di alcune lezioni bene apprese (il rasoio che risplende nel bagno grazie ad una lastra d’argento), sembra del tutto personale lo humour che graffia la tensione. Si pensi alla zuccata tra Carol e il fidanzato nel primo giorno o alla goffa andatura dei suonatori ambulanti che incrociano la ragazza (elemento di dilatazione). È questa in vena grottesca che, esaltato dal clima degli swinging sixties londinesi, Polanski si avvia a dirigere il film «più cinematografico che abbia mai fatto». 70

La fanciulla e la marea

Scritto a partire da appunti di vita privata, Cul de Sac nasce come terapia per lenire le ferite sentimentali dei due autori. Il personaggio di Dicky è ispirato da Andrzej Katelbach, il padrone di Il grasso e il magro, amico del regista. Quanto alla scena in cui Teresa trucca George, Polanski si ricordò di un identico gesto compiuto dalla moglie Barbara nei confronti di un amico. Solo grazie al successo di Repulsion la Compton Group assicurò la produzione, senza troppe imposizioni. Se la scelta di Donald Pleasance, il marito effemminato, non fu difficile, più complicata si rivelò la ricerca di Teresa. Data l’indisponibilità di Charlotte Rampling, Polanski ripiegò su Françoise Dorléac, morta l’anno seguente in un incidente stradale. In Inghilterra fu trovato quel luogo isolato dalle acque che costituiva l’idea di partenza del film. Il castello di Holy Island, dove Walter Scott scrisse i suoi capolavori, si offre come ambiente ideale per riprendere il filo dell’assurdo abbandonato con I mammiferi: uno spazio aperto ma al contempo chiuso come un vetrino, dove l’entomologo Polanski osserva divertito gli scontri e le tensioni tra i suoi insetti. Anche la critica, da Pascal Kané in poi, si è divertita nei parallelismi con il modello beckettiano, del resto confessato dallo stesso Polanski in una nota intervista a Positif: «Se fossi alla ricerca del cinema come Beckett lo è del teatro, farei soltanto film come Cul de sac» (in «Positif», n. 102, 1969). Pare che Beckett, qualche anno prima, si fosse rifiutato di concedere i diritti per portare Godot sullo schermo. Forse, come ha notato Avron, le parentele col teatro dell’assurdo nascono anche dalla comune «vulnerabilità dei personaggi, insicuri, abbandonati da Dio: un agonizzante, un monco, un impotente, una ninfomane» (Roman Polanski, cit.). Sembra però più interessante – e questa via seguiremo – un approccio estetico al significante, tale quello proposto da Virginia Wexman nell’analisi delle ascendenze surrealiste: «Come i dipinti surrealisti, i film di Polanski restituiscono i loro soggetti misteriosi con una luminosità studiata e meticolosa, ottenuta filmando all’alba o prima del tramonto, quando la luce diffusa dona a tutti gli oggetti una precisione soprannaturale» (Roman Polanski, cit.). Bagnato da questa luce, firmata ancora da Gilbert Taylor, un punto nero avanza verso di noi; lentamente. Un’auto nera si avvicina. Sembra vuota. Al posto di guida Albie, piccolo e magro, è agonizzante; Dicky, grasso e burbero, è ferito a un braccio, ma riesce comunque a spingere avanti l’auto. La 71

rapina che hanno tentato è fallita, ora sono soli. Un castello isolato dal mare serve loro da rifugio. Dicky deve chiamare il suo capo, Katelbach. Ma prima di cercare un telefono occorre aspettare che la coppia proprietaria di quel castello, George e Teresa, si sia ritirata, dopo aver salutato una famiglia di amici e giocato a invertire i ruoli sessuali: Teresa trucca George da donna e gli offre la sua sottoveste. Intanto Dicky divora due uova. Quando Dicky fa irruzione, la coppia non accenna la minima reazione. Insieme riportano in casa Albie, semitravolto dalla marea che nel frattempo si è alzata. Costui muore la notte stessa, disteso sul tavolo imbandito della terrazza, osservando le stelle nel cielo. Tocca a George seppellirlo, mentre la moglie e Dicky lo osservano scolando una bottiglia di wodka fatta in casa, troppo forte per il fragile marito. George sfoga all’uomo le sue pene d’amore, ma costui sembra pensare solo all’arrivo del suo capo. La mattina dopo, invece di Katelbach spuntano altri amici di George, due coppie più un bambino terribile, Orazio. Presto la tensione sale tra i convitati. Dopo un pranzo interrotto dagli atti teppistici del bambino, che infrange un vetro d’epoca con la fionda, George cede a una crisi di nervi e caccia i suoi ospiti. Avuta la certezza che Katelbach non arriverà più, Dicky si avvia a partire, ma George, quasi senza accorgersene, gli spara tre colpi di pistola, uccidendolo. Morendo, Dicky provoca l’incendio dell’auto della coppia. Mentre Teresa, dopo aver invitato il marito a scappare, fugge col suo nuovo amante, George, sconvolto, sfascia i suoi quadri e fugge su uno scoglio, raccolto in una posizione fetale.

L’attesa. Cul de sac è innanzitutto un saggio sul tempo, sulla sua percezione, sull’impossibilità di manipolarlo e di dominarlo. «Non avrebbe potuto essere né un romanzo né una pièce di teatro», ha detto Polanski, ben conoscendo la capacità che solo il cinema ha di scolpire la durata e di restituirne i frammenti più pesanti. Dopo i laghi Masuri, un altro spazio acquatico, questa volta vivo e mutevole come l’appartamento di Carol in Repulsion, ospita una non-azione lunga ventiquattr’ore. Nel castello di Holy Island l’attesa ha diversi volti, simili tra loro come i ritratti di Teresa dipinti da George. Aspettando Katelbach, Dicky deve prima attendere la partenza dei visitatori, utili per assicurare anche a questa storia una chiusura circolare, poi il tempo necessario per essere solo in casa. Ci vorrà un’ora prima che riesca a entrare in comunicazione con il suo capo, senza contare i minuti persi per colpa della centralinista. E così il secondo giorno, quando un’attesa vana è riempita da un’altra attesa: quella della partenza degli amici di George. Ma protagonista è anche la noia, incarnata come un’allegoria dal corpo androgino e iperattivo di Teresa, pronta a riempire i tempi morti del sonno con qualunque mezzo: un granchio sul viso dell’amante, una bottiglia di wodka, del 72

fuoco sulle dita di Dicky. Esemplare, dopo la cacciata degli ospiti, è il pedinamento della cinepresa nell’intimità della ragazza; con il trucco e un abito da sera che ci fanno attendere chissà quale sviluppo della storia, ella compie una serie di gesti straordinariamente ordinari. Accende una sigaretta, mette un disco, sfoglia una rivista. Poiché tutto, in questo cinema, ricomincia, è naturale che il disco a un certo punto si blocchi e ripeta sempre la stessa frase. Polanski svuota la struttura del film di gangster di tutti i momenti forti come inseguimenti, duelli o sparatorie, riempiendo il ritmo del racconto di buchi più estesi di quello scavato per Albert, la cui sepoltura è restituita in tempo reale, con gli intervalli a base di alcool e la pausa per chiamare George al lavoro. Non a caso la storia comincia dopo la rapina e si conclude prima della tradizionale resa dei conti. Di “nero” restano le ombre di una notte stellata, presto vinta dalle luci terse dell’alba che illuminano il bagno di Teresa. Tra gli espedienti narrativi utili alla dilatazione, oltre al ciclo della marea, singolare è la fasciatura al braccio destro di Dicky, il grasso di una coppia spezzata, costretto a lottare con gli oggetti per agire: l’«immagine-azione» deleuziana è rallentata, impedita, ostacolata dall’interno. «Non bisogna – ha detto Brach – che la storia proceda come ci si aspetta, che funzioni bene. Quando un personaggio deve aprire una porta, è meglio che ci sia qualcosa che glielo impedisca, anche se il fine della scena è quello di farlo uscire» (citato in P. A. Boutang, Polanski par Polanski, cit.). Non mancano accostamenti inattesi grotteschi: la tavola imbandita diventa un letto di morte, mentre la fossa, arredata con una sedia bianca, potrebbe essere un ottimo posto da cui osservare le stelle. L’immaginario surrealista è evidente nella confusione tra animali e uomini (Teresa non fa nessuna distinzione di trattamento tra i polli e George); ma se i polli, come sostiene Cappabianca, possiedono uno «spessore surreale», esso è lontano dal modello buñueliano, dove la presenza dell’animale nascondeva risonanze edipiche e pulsioni primarie come la fame: si pensi al rapporto amore e odio con questi animali dimostrato da Pedro in I figli della violenza (Los Olvidados, 1950). Nello scheletro noir si inseriscono gag degne del burlesque giovanile, come l’uovo che cade dalle mani di George, lo scontro tra le due auto (il terzo in tre lungometraggi) o il gradino della scala su cui scivola il gangster: l’unica differenza con la coppia di I mammiferi è la verosimiglianza delle menomazioni fisiche e il mezzo di trasporto. Al posto di una distesa di neve, una strada vuota. Sopra la pianura silenziosa, le nuvole nel cielo terso sembrano finte come in un quadro di Magritte. Ma Dicky non guarda in 73

alto, attento solo ai rumori che potrebbero guidarlo verso un’abitazione. L’atto voyeuristico con cui sorprende gli amanti sulla spiaggia è, in un certo senso, involontario. Ai vuoti temporali fa eco lo svuotamento del centro, evidente in molte inquadrature, come il campo medio dell’auto nera che, mentre il grasso è rinchiuso nel pollaio, comincia a essere bagnata dalla marea (fot. 35). Negli interni invece, in parte ricostruiti in studio, i personaggi FOT. 35 occupano sempre la parte centrale del quadro, ancora una volta schiacciati, grazie al grandangolo, da soffitti opprimenti e curvi (questa volta il maestro è Welles), che duplicano la struttura circolare dell’uovo (fot. 36). Feticci ossessivi di un’infanzia perduta, le uova riempiono il frigorifero come le mele la cucina di Break-up (1965, di Marco Ferreri), altra storia di regressione dove il rapporto di coppia è ridotto a gioco innocente: se l’ingegnere di Ferreri abbraccia i suoi palloncini, George entra in scena con un enorme aquilone sulle spalle, prima di accovacciarsi in posizione fetale nell’ultima inquadratura. Accanto al cerchio, il triangolo è ancora la soluzione preferita per la composizione dei piani, ma questa volta senza variazione di ruoli come in Il coltello FOT. 36 nell’acqua: al vertice è sempre Teresa, eletta nella posizione di osservatrice silenziosa dal fondo del quadro. Talora, come nella scena della pulizia della pistola da parte del gangster, ella è quasi invisibile, distesa accanto al camino e amalgamata tra gli oggetti neri e grigi (fot. 37). Tocca alla voce cavernosa di Stander effettuare uno “stacco” di montaggio interno, rivolgendosi verso una parte del quadro che noi credevamo vuoto. L’immagine come inganno, trompe-l’oeil, illusione, mentre la profondità di campo si conferma luogo dell’«incertezza dell’intepretazione» (Bazin). Polanski ritornerà su questo leitmotiv più volte. Su tutte il finto campo vuoto che nasconde nel buio della follia l’inquilino del terzo piano, poco prima FOT. 37 del suo travestimento suicida (fot. 38). 74

La prima variazione sul triangolo, con i tre in cucina a discutere delle loro origini, visualizza meglio di qualsiasi dialogo la piramide dei rapporti di forza: una diagonale parte dal volto del gangster, in alto a sinistra, per terminare sul cranio rasato del marito, in posizione subalterna, occupante solo la metà inferiore del quadro (fot. 39). Nel finale, l’addio tra i due coniugi nel buio, alla luce di un fuoco che divampa in modo inversamente proporzionale alla loro passione, è uno dei vertici FOT. 38 della ricerca plastica di Polanski. Quanto a virtuosismo, nulla però eguaglia il piano sequenza di otto minuti che segue la sepoltura di Albert, una scena lasciata per ultima nel calendario delle riprese, girata, come ammette Polanski, «nell’ora magica che precede il crepuscolo» ma ambientata alle luci dell’alba. Motivando la scelta della durata con la necessità che «gli attori restassero nel ruolo», Polanski sembra rievocare il Welles letto da André Bazin: «La recitazione dell’attore [...] si svuota del suo sangue drammatico come un arto tagliato, se cessa di essere mantenuta in una relazione viva e sensibile con i personaggi e il décor» (Orson Welles, [1950], Editions du Cerf, 1972). La «relazione viva» avviene qui con lo spazio del fuoricampo, aperto dal gesto di Teresa. Abbandonando la sua posizione di FOT. 39 osservatrice, ella rompe la geometria e si allontana nell’acqua del mare. Il tempo scorre sui due, mentre le nuvole si fanno minacciose nel cielo plumbeo. Imprigionato da un occhio che non lo molla un istante, il marito si toglie la maschera confidando sottovoce al gangster tutto l’odio per quel castello che, come altre future dimore polanskiane, nasconde «qualcosa di ripugnante, di inesprimibile, di molto strano». Ma non sapremo mai cosa, così come non abbiamo visto la morte di Albert, mentre resterà un enigma quel nome urlato da George nel finale, «Agnese!»: sono solo alcuni dei buchi neri della fabula. Stratificato dai ricordi, il tempo è anche colto nella fugacità dell’istante: l’aereo che passa nel cielo distrae Dicky dalle pene d’amore di George invitando anche la cinepresa a guardare in alto e riportando l’attenzione al presente. Un presente di attese svanite. Non era l’elicottero di Katelbach, ma un normale volo di linea. Per restituire l’irruzione di quest’aereo nella durata, Polanski 75

dovette litigare con il suo operatore, che in virtù di un’esperienza nella R.A.F. riteneva impossibile far apparire un velivolo in un momento preciso. Bastò far costruire una cabina insonorizzata per poter coordinare i movimenti del pilota con il ritmo del dialogo. Un aereo simile incrocerà il pianto di George nell’ultima inquadratura, allontanandosi poi verso il fondo: come dirà Tess nel film omonimo dieci anni dopo, «tutto è vanità». Colto quale puro fluire, il tempo rivela tutta la sua crudele labilità. È Teresa, uscendo dall’acqua, a porre fine al piano sequenza: tutto ritorna come prima, nulla è cambiato, se non che ora siamo più vicini al dramma del marito. Quanto alla leggenda di Rob Roy, capolavoro di Walter Scott scritto nel castello, George comincia a raccontarla ai primi visitatori ma poi viene sempre interrotto, come il marito di Il coltello nell’acqua con l’aneddoto del fuochista: l’atto del racconto è mostrato nel suo farsi, nelle sue crepe, nel suo sfilacciarsi. Meno cerebrale rispetto al film d’esordio e finalmente libero di non obbedire alle regole di un genere, Polanski gioca a nascondere il suo tocco, accontentandosi di osservare frontalmente i gesti dei personaggi, senza inutili scavalcamenti di campo o anomali raccordi di sguardo. In questo stile al contempo controllato e fluido, pronto a sposare il movimento dell’attore senza mai aderirvi completamente, sta la maturità espressiva del cineasta. A parte le soggettive stilistiche iniziali, con Dicky a spiare George dall’interno del pollaio, l’autore finge di consegnarci gli occhi dei suoi personaggi per offrirci, invece, l’atto del loro guardare. Le panoramiche che accarezzano prima la coppia addormentata e poi, il mattino seguente, l’orizzonte del mare svelano, alla fine, il corpo del gangster nella veste di osservatore osservato. Tra i divertimenti, indimenticabile la sostituzione dello specchio, nella camera da letto, con l’obiettivo della cinepresa. Quando George vi riflette il proprio volto per ammirarne la trasformazione sessuale, non fa altro che guardare verso di noi (fot. 40). O meglio, verso quello che noi crediamo essere il nostro occhio. L’illusione della finzione resta, il suo crollo non è che una seconda illusione. Questa è l’autorialità di Polanski: aprire il telo della narrazione senza strapparlo. Peggio succede ai ritratti di Teresa, spezzati nella crisi di nervi finale. Nel primo di essi è visibile una sorta di grande occhio attorno alla figura della ragazza, probabile omaggio alla filiazione surFOT. 40 realista dell’autore, il quale esce esausto dalle dieci 76

settimane di riprese. Alle difficoltà con gli attori (svenimenti della Dorléac, crisi cardiache di Stander) si aggiunsero incomprensioni sempre più gravi con la Compton Group, fino alla rottura. Il successo commerciale del film attirò l’attenzione di altre compagnie indipendenti, tra cui, associata alla Mgm, la Filmways di Ben Kadish e Marty Ransohoff. Costui, acquistati i diritti di distribuzione negli Usa, si mostrò interessato al nuovo progetto di Polanski, una commedia vampiresca. Il piacere degli occhi

È il piacere degli occhi a ispirare il primo lungometraggio a colori, Per favore... non mordermi sul collo, uno di quei film che l’autore ama più vedere che dirigere. Affascinati dal potere catartico dei B-horror, Brach e Polanski inventarono una variazione sul filone del vampiro dove la comicità fosse volontaria, costruita, come già notò Stefano Rulli, a partire dalle situazioni piuttosto che dei caratteri, tra cui solo il personaggio di Abronsius presenta tratti caricaturali. Con quello sguardo stralunato, il volto clownesco di Jack Mac Gowran, gangster seppellito in Cul de sac, sembra contraddire il realismo, pur magico, dell’ambientazione. Reinventata sulle montagne di Ortisei e negli studi londinesi, questa Transilvania tradisce il gusto per la ricostruzione dettagliata della cultura popolare yiddish respirata da Roman durante l’infanzia, nella campagna di Cracovia. Alle letture sui vampiri si aggiungono quelle di Wyspianski e di Isaac Babel, da cui nascono i personaggi della locanda, Shagal in primis. Il nome dell’oste è un chiaro omaggio all’arte di Marc Chagall, esule come Polanski, abile a trasfigurare in fantasmagoria naïf lontane visioni d’infanzia. La nostalgia, che tinge di fiaba i blocchi di colore delle campagne russe, riecheggia nei campi lunghi innevati degli esterni che chiudono il cerchio di The Fearless Vampire Killers (indecente il titolo italiano, modellato su quello della versione americana), fotografati in formato 1:85 e poi gonfiati in Cinemascope. Di fronte alla fuga di Alfred e Sarah sulla slitta di Abronsius sospesa nell’aria tra pini coperti di neve (fot. 41), è FOT. 4 1 77

facile ripensare al viandante volante di Sopra Vitebsk (1915-1920) o agli amanti di Sopra la città (1915, fot. 42), che veleggiano sulle casette di legno come a sfuggire a chissà quale pericolo. Curiosa è la “carrellata aerea” con cui Chagall rappresenta la scena, se conosciamo la predilezione di Polanski per tali forme di sguardo onnisciente. L’humus folcloristico di stampo ebraico allontana il progetto dal modello delle produzioni Hammer di FOT. 42 quegli anni, come Le spose di Dracula (The Brides of Dracula, 1960) o Dracula principe delle tenebre (Dracula Prince of Darkness, 1965), dirette da un Terence Fisher più attento alla visibilità dei canini che alla verosimiglianza del décor. Il personaggio dell’ammazza-vampiri non è nuovo, se ricordiamo il Jonathan Harper del primo Fisher (Dracula il vampiro [Dracula, 1958]), morso al collo da un’avvenente vampira poche ore dopo il suo arrivo al castello. Detto della maschera Abronsius, a metà tra Einstein e una marionetta, gli altri personaggi sono dotati ciascuno di quel tic che lubrifica il meccanismo comico e li rende interessanti allo spettatore. Dall’albergatore fedifrago al figlio del Conte, omosessuale raffinato, fino alla bellissima Sarah, ossessionata dal bagno caldo quotidiano: una sorta di contaminatio di Lucy e Mina. Imposta dalla produzione in quanto già sotto contratto, Sharon Tate riscalda gli interni della locanda con una presenza plastica lontana dall’icona preraffaellita del Nosferatu di Murnau (Nosferatu, Eine Symphonie des Grauens, 1922) o dall’eterea Isabelle Adjani del remake di Herzog (Nosferatu, principe della notte [Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979]). Prima del ballo, Sarah è messa in scena dal Conte, presentata di profilo come un’opera d’arte, un reperto prezioso della specie dei viventi (fot. 43). Se il suo sorriso ambiguo può ricordare, come ha notato Avron, il mistero di certi personaggi di Leonardo (pensiamo alla Dama con l’Ermellino [1485-90], per il taglio delle labbra e la purezza dello sguardo fuori campo), i capelli riecheggiano quella dominante rossa che fu uno dei punti di partenza dell’inventio: «Il film FOT. 43 era innanzitutto un décor, 78

un’atmosfera. Io vedevo la bellezza grafica, visiva del progetto: la neve, i vampiri, il sangue» (Roman, cit.). Transilvania, 1897. In un paesaggio innevato, una slitta trasporta il professor Abronsius, celebre luminare non riconosciuto della vampirologia, e il suo giovane assistente, diretti verso un luogo famoso per alcuni eventi soprannaturali. Scampati all’attacco dei lupi, i due trovano rifugio in una locanda, dove, mentre il professore si “scongela”, Alfred rimane conquistato dalla bellezza di Sarah, avvenente figlia del padrone. La notevole presenza di aglio lascia pochi dubbi sul fatto che quella zona possa essere infestata da vampiri. Prova ne è il rapimento di Sarah, morsa al collo dall’elegante conte von Krolock durante uno dei suoi bagni caldi. Anche Shagal, padre di Sarah, uscito alla ricerca di vendetta, è consegnato alle forze della notte. Sci ai piedi, i due ammazzavampiri decidono di recarsi al castello del conte. Penetrarvi non è difficile. Il conte von Krolock li accoglie con gli onori del caso, affermando di conoscere gli scritti del professore e mostrandogli la sua ricchissima biblioteca. Un servo gobbo prepara per loro due stanze comunicanti: Alfred ha paura, ma è attirato dalla voce melodiosa di Sarah che echeggia nelle mura del castello. Il mattino seguente i due cercano di penetrare nella cripta, al fine di uccidere i vampiri con il metodo tradizionale: punteruolo nel cuore. Ma Alfred trema di paura, mentre il professore rimane incastrato in una feritoia e rischia il congelamento per la seconda volta: in questo frangente i due perdono la borsa con gli strumenti del mestiere, che scivola giù dal burrone. Intanto Herbert, figlio del conte, si lancia in avances decise nei confronti di Alfred, che per difendersi utilizza il manuale di seduzione preso per conquistare Sarah: al posto del collo, il vampiro morde il libro. Il pericolo è scampato, ma ormai è tardi: è giunta l’ora del ballo, che segnerà la dannazione definitiva della ragazza. Indossati gli abiti di due decrepiti vampiri, Alfred e il professore ritmano i passi di una danza macabra, progettando la fuga assieme a Sarah. Ma l’enorme specchio sulla parete della sala li tradirà. Grazie all’aiuto di un servo, i tre bloccano i vampiri con una croce improvvisata e fuggono su di una slitta senza sapere, come dice la voce narrante, di «portare con loro il flagello che avrebbero voluto annientare».

La goccia di sangue che cade leggera sui bianchi titoli di testa, prima di diventare pipistrello, riassume fin da subito il registro sensuale dell’operazione. Questo Dracula è un intellettuale, appassionato di scacchi, ma soprattutto seduttore mosso da pulsioni molto moderne. Ben prima del morso finale, anche Alfred, ovvero l’Autore in carne e ossa, è vampirizzato dal fascino di Sarah. La pulsione degli occhi (Alfred) unita al piacere del logos (Abronsius): i due volti dell’uomo Polanski. Non è un caso infatti se l’attrazione sessuale si limita al piacere della visione, evidente fin dalla prima apparizione di Sarah, svelata dalla porta aperta del bagno. Sia la sculacciata del padre che il morso 79

del Conte ci sono mostrati attraverso lo sguardo di un voyeur. Parodia di quest’amore è l’infatuazione omosessuale del dandy Herbert, politicamente corretta in ossequio ai codici puritani della Mgm. Ecco, tratte da Roman, alcune tra le correzioni imposte alla sceneggiatura, a difesa del pudore quanto della morale eterosessuale: «Eviterete di dilungarvi sulla nudità durante la sequenza del bagno»; «Quanto al personaggio di Herbert, vi domandiamo di evitare qualsiasi avance fisica nei confronti di Alfred. Ci riferiamo in particolare ad abbracci e carezze, mentre un attacco vampiresco non solleva nessuna obiezione da parte nostra». Lo schema dell’inversione, qui applicata alla sfera sessuale, regola la struttura di molte gag. Se il giovane vampiro è morso all’orecchio dalla sua vittima, il laido gobbo, che sembra uscire dal campanile di Notre-Dame, morde i lupi da cui avrebbe dovuto essere sbranato. Parallelamente, al posto del sangue, il vino inonda la cantina, Alfred posiziona il paletto sul cuore dalla parte sbagliata mentre il professore indossa gli sci a rovescio, prima di rischiare un irrigidimento mortale, simile a quello dei vampiri, nella feritoia della cripta. Lontani dalle angolosità espressioniste, gli interni unti e caldi della locanda confermano il gusto del regista per lo spazio come avvolgimento, nato da quel famoso piacere di «essere dentro lo schermo» più volte rivendicato. Bastoni, salami e spicchi d’aglio scendono dall’alto a limitare le stanze anguste, con il grandangolo che schiaccia i corpi gli uni addosso agli altri. Come sempre visibili sono i soffitti, e non è un caso che proprio dall’alto arrivi il primo morso. Il castello maligno perde quell’aspetto “smisurato” coniato da Tod Browning (Dracula [Id., 1931]), che presentava l’ingresso di Renfield come un’esperienza del sublime, nell’accezione romantica del termine: un campo totale fatto di rovine gotiche e macchie di buio, «sterminati spazi» in cui il personaggio è appena visibile. Agli impavidi eroi di Polanski si presenta invece uno spazio tangibile, claustrofobico, fitto di cunicoli e pertugi (fot. 44) contro cui i corpi urtano prima di osservare, nel corridoio, volti orrendi dipinti in quadri appena illuminati: anche la giovane Rosemary, tra poco, dovrà attraversare un simile specchio prima di raggiungere il Paese FOT. 44 dell’Orrore. Con quei comi80

gnoli innevati, la dimora vista dall’alto rientra più nella categoria del pittoresco che in quella del sublime (fot. 45). E anche Abronsius lo nota, invitando il suo giovane studente ad ammirare lo «splendido paesaggio del tramonto». Alcune sequenze, come il ballo dei vampiri (analizzata in det- FOT. 45 taglio da Dominique Avron), illustrano da sole la cifra stilistica dell’opera: la predominanza del gesto sulla parola. Niente di nuovo qui rispetto al modello classico della Universal, dove l’apparizione di Dracula è annunciata da un lento carrello in avanti, mentre le mani aprono le bare e nel silenzio risuonano i lamenti dei pipistrelli. Più che di parodia, possiamo parlare ancora di rovesciamento. Al momento del risveglio Polanski preferisce quello del ritiro, che rende questi vampiri umanissimi nelle loro debolezze; non tutte le bare sono altrettanto confortevoli per Shagal. Fin dall’incipit, con l’attacco dei lupi respinti senza un solo urlo da Alfred, il découpage racconta da solo l’azione, non commentata da una voce narrante interessata solo ad aprire e chiudere il racconto. Il tempo spazializzato come durata non interessa più. Esso si fa discorso, economizzato in un montaggio calibrato quanto invisibile. È forse l’opera meno parlata e più ricca di inquadrature. Tra le più lunghe, spicca quella che mostra il vano tentativo di fuga di Alfred dalle grinfie morbose di Herbert, inquadrato nella veste di osservatore dentro il quadro. Alfred non si accorge di percorrere uno spazio perfettamente circolare tra le mura del castello, che lo riconduce esattamente al punto di partenza. Per accentuare il volto grottesco della scena, in vista della quale è stata costruita la scenografia, Polanski sospende il commento di Komeda lasciandoci ascoltare il ritmo dei passi del ragazzo, il cui ritardo nell’agnizione garantisce la suspense necessaria alla gag. A proposito della naïveté del personaggio, Virginia Wexman vi legge il ritratto di una sessualità informe e repressa: invitato dal professore a guardare la luna dal cannocchiale, Alfred contempla invece Saturno, simbolo di «impotenza e indolenza» (Roman Polanski, cit.). Quanto alla parola, essa non serve a far avanzare la narrazione, ma a caricare il ritratto dei personaggi: invece di discutere di ciò che succede, Alfred confessa 81

al professore le sue paure infantili e il suo innamoramento. La parola si scioglie spesso in suono come la neve nella tinozza di Sarah. Komeda lavora proprio sulla ricerca di timbri che possano imitare la suggestione di un altrove, quel suono che Stoker descrive come «riso musicale». Al fine di preservarne l’ambiguità, il canto della ragazza è mostrato ma non subito “detto”, come invece accade in Browning («Listen to them, children of the night: what music they make!»). La sequenza della seduzione omosessuale è forse uno dei vertici dello humour. “Indossata” la voce della sirena, Herbert attira Alfred nella trappola, prima di essere tradito dallo specchio davanti al letto: un vampiro vanitoso è una contraddizione in termini, se ricordiamo la repulsione con cui Bela Lugosi manda in frantumi lo specchio in casa di Mina nel film di Browning. Con una leggera panoramica l’istanza narrante scivola dietro il volto di Alfred, perturbato dall’anomala visione (assente è il riflesso del seduttore), per mostrare, ancora una volta, l’atto del guardarsi (fot. 46). Come ha notato Jacques Aumont, lo specchio e lo schermo hanno in comune l’ambiguità plastica di ciò che vediamo: «Ciò che appare nello specchio filmato non è mai completamente deducibile dal resto dell’immagine. [...] FOT. 46 Filmare lo specchio significa produrre, all’interno dell’immagine, la sua messa in dubbio semiotica» (Spéculations, in «Cinéma/02», Editions Léo Scheer, Paris 2002). Non dimentichiamo che sulla costruzione del dubbio nello spettatore posa spesso l’architettura della focalizzazione. Non siamo lontani dalla riflessione di Van Eyck nel suo Giovanni Arnolfini e sua moglie (1434), quadro spesso citato da Polanski come simbolo del desiderio di entrare all’interno delle proprie creature. Il procedimento del pittore è simmetrico e complementare. Lo specchio sul fondo della stanza, dalla vaga forma oculare, riflette la schiena dei corpi, i quali ci sono mostrati di fronte, all’opposto di quelli del film (fot. 47). Qui, assieme al non-morto, è invisibile anche la cinepresa; nello specchio degli Arnolfini, al contrario, è riflesso il gesto di Van Eyck. La differenza è sottile, in quanto il corpo duplicato nel film è quello, pur mascherato, dell’autore. Il dialogo tra Abronsius e il suo studente appare allora come una dichiarazione di 82

poetica. Al professore che rimpiange di non aver potuto assistere alla scena, Alfred-Polanski risponde che «non c’era nulla da vedere»: il cinema come vanità del tutto. Mentre Repulsion ci mostra il lento abbandono del mondo “normale” e l’immersione in quello altro (dove gli specchi riflettono l’invisibile), la commedia vampiresca esclude il mondo della realtà, riassunto tutto nella locanda, che però non è lontana: basta un cannocchiale per raggiungerla FOT. 4 7 (l’aggressione di Shagal alla cameriera appare una citazione ironica di La finestra sul cortile: comune ai rispettivi voyeur è l’impotenza). Dunque, niente mondi paralleli come nella tradizione. Nessun ponte da oltrepassare. L’attraversamento della foresta non è mostrato (solo un cancello innocuo che si prende un guanto di Alfred), mentre quello del mare, che assicura la diffusione del male, è solo suggerito dalla voce over nel finale e ridimensionato in una ben meno allegorica slitta. «Senza frontiera, – ha scritto Jean-Louis Leutrat – nessuna fascinazione dell’Altro, nessuna trasgressione» (Vie des fantômes, Editions Cahiers du cinéma, Paris, 1991). La trasgressione non faceva parte del progetto. E se il pubblico europeo in parte ripagò lo sforzo (ancora oggi Per favore... non mordermi sul collo è uno dei film più amati e diffusi), quello americano non mostrò molto interesse per la versione amputata e rimontata distribuita dalla Mgm. Seppur tinto di inevitabile ironia, drammatico è invece il mondo parallelo in cui si tuffa una giovane mamma di Manhattan, protagonista del romanzo che tiene sveglio fino all’alba Polanski in una camera di Beverly Hills. S come Satana

Il progetto di Downhill Racers, un film sullo sci, può aspettare. Robert Evans, giovane vicepresidente della Paramount, sente che Rosemary’s baby, best-seller di Ira Levin, non potrà non affascinare l’autore di Repulsion. E così avviene. Anche se l’inizio sconcertò non poco Polanski, convinto si trattasse di una soap-opera. «L’idea della telenovela – ammette Richard Sylbert, scenografo – fu la migliore che gli venne. E la usammo. Rosemary’s baby comincia come un film alla Doris Day». (Dall’intervista contenuta nell’edizione Dvd Paramount del film). Fu Sylbert a suggerire la scelta del Dakota come location per gli 83

esterni, dodici anni più tardi teatro dell’assassinio di John Lennon. Sempre nel 1980, a un paio di isolati di distanza, Andrzej Zulawski scriverà Possession, variazione parossistica sul Diavolo come fenomenologia dell’Altro. Il primo contratto hollywoodiano è firmato a condizione che la produzione non intervenga in nessuna maniera sul testo, adattato senza la collaborazione di Brach e già strutturato come un film. Quanto alla scelta di alcuni interpreti, il criterio non fu tanto il talento quanto la somiglianza fisica con i disegni abbozzati: così nascono le caricature di Ruth Gordon, poi Oscar come miglior attrice non protagonista, Sydney Blackmer, Ralph Bellamy e Patsy Kelly, veterani di Hollywood perfetti nel ruolo di streghe e stregoni. Non si può dire lo stesso per Mia Farrow, emergente perfetta nella sua naïveté piccolo-borghese, imposta da Evans in quanto già nota al pubblico televisivo. John Cassavetes, il marito, fu invece un’idea di Polanski (che in un primo tempo pensò anche all’amico Jack Nicholson), alla ricerca di un volto non conforme al tradizionale american boy. Una giovane coppia di sposi, Rosemary e Guy Woodhouse, si appresta a visitare un appartamento di quattro locali non lontano da Central Park, a New York. Nonostante il palazzo in cui vanno ad abitare, il Bramford, abbia una brutta fama per via di misteriosi riti satanici, i due si installano, modificando completamente l’arredamento. Il corridoio che divide le quattro stanze è dipinto interamente di bianco, mentre il giallo ritorna nella tappezzeria. Le voci al di là del muro appartengono ai signori Castevet, che si insinuano a poco a poco nell’intimità della coppia. Al ritorno da una cena dai vicini, condita da una mousse al cioccolato, Rosemary si sente male, ma Guy la possiede ugualmente. Pur programmato, il concepimento assume per Rosemary le sembianze di un incubo. Ella sogna (?) di trovarsi su una nave, attorniata dai vicini e dai loro amici, nudi e ansiosi di assistere alla possessione satanica. Le mani del marito si trasformano in zampe mostruose. Quando, al mattino, la ragazza domanda spiegazioni sui graffi che scopre dietro la schiena, Guy si scusa, dicendo che aveva bevuto. Da questo momento, il successo professionale arride al giovane attore, mentre Hutch, confidente della ragazza, si mostra preoccupato. Invece di ingrassare, Rosemary dimagrisce e sente un urgente bisogno di mangiare carne cruda. Continui dolori la tormentano. Leggendo un libro sulla stregoneria, scopre che Roman Castevet è figlio del celebre stregone Adrian Marcato, che si diceva fosse riuscito a evocare Satana nel corso di uno dei suoi sacrifici. Un’angoscia crescente si impadronisce della sua mente. Improvvisamente Hutch, che aveva perso un guanto a casa di Rosemary, entra in coma e muore, come l’ex inquilina del Bramford. Rosemary corre a chiedere aiuto al dottor Hill, non fidandosi del ginecologo della vicina. Ma anche questo medico non crede alle sue ossessioni, e la riconsegna nelle grinfie del marito. Il parto viene provocato e il bambino nascosto. Rosemary 84

lo crede morto, fino al giorno in cui, seguendo alcuni vagiti, attraversa la porta nascosta dall’armadio a muro e penetra nell’appartamento adiacente, dove una folla di curiosi inneggia al nuovo Satana. In una culla nera, un bambino attende la sua mamma.

Il fantasma della palingenesi perturba l’America del 1968, scossa dalla coscienza del peccato (Vietnam) e in attesa dell’avvento dell’uomo nuovo. Se Kubrick termina la sua Odissea nello spazio con le pulsazioni di un feto ex adulto in orbita attorno alla terra, enigma di un desiderio di fine millennio («Let’s fuck», diranno nel 1999 due coniugi newyorkesi), Polanski nasconde nel corpo magrissimo di una martire il feto di un non-morto, tanto detto, descritto, protetto, atteso quanto alluso. Nello stesso anno l’horror inaugura il filone dei morti viventi, con l’ironia sanguinolenta di George Romero inquinata da stilemi della fantascienza (La notte dei morti viventi [The Night of The Living Dead]. Rispettando fedelmente tempi, ritmi e toni dell’opera letteraria, Polanski realizza così un aggiornamento di Repulsion, basato sul medesimo principio narrativo, ovvero l’ambiguità dell’interpretazione. L’adattamento comporta numerose sottrazioni, relative non solo ai personaggi di contorno, ma anche agli esterni. La Rosemary di carta esce spesso: un weekend fuori città e un incontro importante con la figlia di Hutch, che le insinua più di un dubbio sull’ambiguità del dottor Sapirstein. Nel film i raccordi urbani tra un luogo e l’altro ci sono spesso esclusi, come a suggerire l’architettura di uno spazio mentale, organizzato attraverso un montaggio fin troppo rispettoso dell’economia hollywoodiana. I rari esterni sono anticamere di nodi importanti del racconto (il suicidio di Terry), oppure si offrono come analogon dello stato d’animo della protagonista, minacciata dal traffico e risucchiata dalle vetrine. A differenza dello spettatore, il lettore “ascolta” una telefonata della sorella, proprio la sera della possessione, preoccupata da uno strano presentimento. Dubbi che Polanski vuole evitarci. L’importante è che restiamo indecisi sull’esistenza del complotto, generato forse da una crisi di follia post-partum. E non c’è ambiguità senza immersione nel punto di vista del personaggio, con focali corte. Se Levin non cede mai la penna all’eroina, Polanski sceglie un regime di semi-soggettività, senza rivelare subito, ad esempio, la fonte delle voci fuoricampo. Le informazioni sono stratificate nel tempo del discorso. La volontà di essere dentro lo schermo si coniuga con il gusto per l’incertezza, come se gli oggetti e i volti, una volta toccati con gli occhi, perdessero il loro aspetto familiare. Come già notò Enrico Magrelli, «la familiarità delle presenze e delle rifrazioni di un luogo chiuso e conosciuto, la consuetudine di uno spa85

zio scenico verosimile, consente, nel racconto, di rovesciare la familiarità nell’inquietudine» (Roman Polanski, Il Formichiere, Milano, 1979). Il perturbante si insinua spesso proprio in corpi “familiari”; tra gli altri, La notte dei morti viventi, L’esorcista (The Exorcist, 1973, di William Friedkin) e La covata malefica (The Brood, 1979, di David Cronenberg) FOT. 48 confermeranno la regola. Ma se il genere prevede, come deadline, l’esibizione del mostruoso affidata a tutti i codici della narrazione, Polanski ce lo nega. Il bambino descritto da Levin nei minimi dettagli è affidato a una labile sovrimpressione che oscura per qualche secondo il volto di Rosemary: (fot. 48) «What have you do to his eyes?». Occhi su occhi. Levin si fa invece portavoce dello stato d’animo del personaggio: «A modo loro, quegli occhi erano anche graziosi» (Rosemary’s baby, Interno Giallo Editore, Milano, 1991). Se alcuni spettatori uscirono dalla sala convinti di aver visto il mostro, ciò si spiega, secondo l’autore, con il fatto che certe impressioni visive restano a lungo immagazzinate nel nostro cervello, fino a contaminare altre visioni. In quel momento, connotato d’angoscia dagli accordi striduli di Komeda, la neomamma ha gli occhi chiusi. Per vedere, è dunque necessario “sporgersi dentro”, come volevano Dalí e Buñuel (Défense de se pencher au dedans era uno dei titoli pensati per Un chien andalou). Non a caso la visione è contemporanea alla caduta del coltello sul parquet. La preoccupazione della vicina per eventuali danni garantisce lo humour in funzione di anticlimax. Del resto, la paura al cinema si fonda sulla fugacità della visione, cui solo una piccola dilatazione temporale potrebbe restituire tratti familiari: si pensi solo all’apparizione intermittente delle gemelline nell’Overlook Hotel di Shining (Id., 1980). All’insegna della luccicanza è l’incipit. Overlook significa anche “guardare dall’alto”, ciò che fa l’istanza narrante durante i titoli di testa (ma siamo sicuri che si tratti di un narratore impersonale?). Dal settimo piano del Bramford è possibile to overlook tutta Manhattan, ma Rosemary non lo fa. Shining e Rosemary’s baby si aprono con il pedinamento dell’ingresso in un luogo che cambierà per sempre il destino dei protagonisti. Una lenta carrellata aerea sorvola il cielo di New York con un movimento da destra verso sinistra, anomalo rispetto a quello delle tradizionali panoramiche descrittive. Sfumando l’uno sull’altro in corsivo rosa, i 86

titoli di testa si intonano al quel clima da soap-opera di cui sopra, accentuato dalla ninna nanna della Farrow. A un certo punto il movimento, da orizzontale si fa verticale, scendendo verso sinistra lungo i tetti per poi curvare leggermente a destra, fermandosi su un’inquadratura dall’alto del Dakota solo apparentemente identica all’inquadratura finale, come già abbiamo avuto modo di dimostrare (cfr. Il fantasma e la fanciulla, cit.). Evidenti sono le differenze filmiche e profilmiche tra i due quadri. Nel finale, l’edificio occupa quasi tutto il campo visivo, quasi a simulare un raccordo sull’asse. Forse un’altra coppia di sposi è pronta a rivivere il dramma in un palazzo che blocca il tempo «a ripetizione», come ha notato Flavio De Bernardinis nell’edizione precedente di questo volume. L’orrore nasce dall’impossibilità di spezzare il cerchio del destino. Il cortile del Dakota è solo uno dei tanti occhi in cui scivola la ragione. Dopo Hitchcock, non si vive due volte senza provare vertigine. Facciamo un passo indietro. La traiettoria dello sguardo introduttivo disegna un’ambigua S nel cielo di New York, la stessa lettera scritta da un celebre carrello di Mario Bava all’inizio della Maschera del demonio (1960), rivisitazione gotica di Gogol dove il tema del doppio si coniuga con quello del tempo sospeso. Dopo averci mostrato il marchio di Satana (S) scolpito sulla carne della strega, l’occhio di Bava collega tra loro i discendenti nel salone mediante un movimento a spirale, che inizia su Katia (sosia della non-morta) e termina sul padre, illustrando così anche la curva del destino: espiare la colpa degli avi. Il parallelo si ferma qui. Curioso è il fatto che in Rosemary’s baby il tema della S ritorni anche nella sequenza della visita all’appartamento, diviso in due parti simmetriche da un corridoio che i protagonisti percorrono in fretta, senza darci il tempo di ambientarci, come invece aveva fatto Carol all’inizio di Repulsion. E soprattutto senza notare subito, sul fondo, il non-morto della situazione, vale a dire l’armadio a muro il cui spostamento occuperà tutta la seconda parte della scena. Come ha evidenziato Martine Joly, il pedinamento dettagliato nel cortile cede il passo a una raffigurazione dispersa, dove i raccordi sul movimento creano buchi narrativi ben più grandi di quelli che Rosemary nota sul pavimento del pianerottolo (cfr. Architecture et cinéma: une rencontre parfois magique in «Cinémaction», n.75, Paris, 1995). La focale corta non basta per “essere dentro”. Ellissi improvvise ci impediscono di vedere assieme ai personaggi. Quando la coppia attraversa il campo verso destra per passare dalla cucina alla sala delle erbe, un taglio di montaggio ci esclude l’insieme della stanza avvicinandoci al volto di Rosemary, impegnata in una soggettiva grammaticale 87

importante ai fini della costruzione dell’ambiguità. Solo lei ha letto il messaggio d’angoscia della vicina, «I can’t no longer associate myself», amputato da Polanski, dove si allude a qualcosa di «altro rispetto al semplice ed eccitante passatempo che credevo» (Levin): abbastanza chiaro è il riferimento alle sedute sabbatiche. Alzata la testa, la ragazza guarda fuori FOT. 49 campo, ma non verso il marito, come potrebbe sembrare (fot. 49). Un ennesimo salto ci mostra, con un falso raccordo, i due uomini vicini alla donna (fot. 50): impossibile stabilire chi si è mosso, quando, perché. Tutti i punti di riferimento saltano, come se fossimo di nuovo nel paesaggio di un cervello malato. La narrazione però, osserva Martine Joly, incontra il caos solo alla destra del corridoio, che non a caso ospiterà la parte notte, cripta del Diavolo. Anziché rendere presente questo appartamento, Polanski ce lo allontana, addolcendone l’oscurità del troppo-pieno con le note rassicuranti di un piano acusmatico, secondo un procedimento già notato in FOT. 50 Repulsion: anche il primo ingresso di Carol era musicato da un giro di note. Se le voci sono capaci di disturbare più di un sonno, la musica scivola leggera nei condomini, udibile solo a pochi eletti (Il pianista), come la goccia dell’omonimo racconto di Buzzati. Emanazione invisibile dell’Altrove. Se tracciamo il tragitto dei visitatori, ci accorgiamo non solo della sua struttura circolare, che va dall’armadio non visto all’armadio osservato, ma anche della ripresa del tema della S: armadio

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salotto

camera

cucina

sala delle erbe

Tale figura è riprodotta in seguito anche dal movimento di macchina che conduce al primo sogno di Rosemary. Uno sguardo aereo accarezza il braccio disteso di Guy da sinistra verso destra fermandosi sul volto di Rosemary, per poi salire in verticale e quindi scivolare nuovamente verso sinistra, sul corpo sfracellato della sfortunata vicina: la pozza di sangue insozza il prato giallino della tappezzeria. È interessante notare come Polanski abbia capovolto l’arredamento di Levin, spostando a sinistra ciò che nel testo era a destra, ovvero la cucina e il salotto, gli ambienti meno sinistri, intoccati dall’Altro: l’adattamento ha a che fare con lo specchio. Nessun accenno inoltre al cortile e alla Settima Avenue visibili dalle finestre, perché solo una luce opaca filtra dai vetri, aperti sull’interno. Circolare sarà invece il percorso compiuto da Rosemary durante la fuga in ascensore. Contrariamente alle convenzioni, la suspense è costruita senza il montaggio alternato, che dovrebbe mostrarci la corsa degli inseguitori in modo tale da garantirci l’ubiquità. Le forze del male precipitano in un vuoto solo temporaneo. Quando riappaiono, avviene lo svelamento dell’ambiguità, del resto mai sostenuta in modo convincente nella parte finale (la festa non presenta nessun tocco onirico, a parte la sovrimpressione ferina di cui sopra). Ciononostante gran parte della critica ancora oggi parla di Rosemary’s baby FOT. 51 come dell’esempio più efficace di ambiguità: peccato, però, che questa non duri per tutto il film. Pur scarsa, la profondità di campo ci permette di vedere, dietro la ragazza, il passaggio in punta di piedi degli “stregoni” attraverso la soglia mascherata (fot. 51). La focalizzazione si fa dunque esterna, con lo spettatore finalmente depositario di un sapere più grande rispetto a quello della protagonista. Nessuna sorpresa sarà più possibile. Se l’andatura saltellante degli aguzzini conferma il filtro humour, la penetrazione nella camera-ventre è messa in scena con un occhio attento ai codici luministici del thriller classico. Il raccordo sullo sguardo terrorizzato di Rosemary è anomalo. Preceduti da Guy, i vicini guardano frontalmente verso l’angolo dove noi crediamo sia nascosta la ragazza, al di qua della macchina da presa. Ma l’ombra nera che si staglia di profilo sulla parete destra rivela che la posizione della vittima non corrisponde a quella immaginata; abbiamo perso 89

per sempre gli occhi di Rosemary (fot. 52), rapita in un fuori campo misterioso. Quando il marito attraversa il quadro, l’istanza narrante attende il dr. Sapirstein per scavalcare il campo e documentare la violenza dal punto di vista dell’aggressore, imitandone gli spasmi (fot. 53). Sul fuoricampo come spazio del perturbante è articolata anche la prima apparizione dei FOT. 52 Castevet, raccordati sullo sguardo della coppia e attesi dal fondo, proprio come i gangster all’inizio di Cul de sac. L’angolazione dal basso verso l’alto ne ingigantisce la statura, in contrasto con il loro aspetto clownesco. Fin dall’inizio Rosemary è ingabbiata dal profilmico in una serie di quadri nel quadro. Quando non è la finestra dell’ascensore, tocca agli stipiti delle porte (fot. 54) o ad altri corpi assicurare il cul de sac, come fanno Guy e Sapirstein all’interno del taxi. La soluzione preferita per la composizione degli interni prevede la figura intera della ragazza isolata nella cornice di una stanza: in questo modo comincia la sequenza del malessere fatale e inizia quelFOT. 53 la successiva, nella solitudine della cucina. Se la ricostruzione dei rumori, dal tic-tac della sveglia che musica i sogni al brusio di una città invisibile, è maniacale, il lavoro sul colore non è da meno. I toni pastello avvolgono l’inquilina confondendola nell’arredamento, ispirato ai colori ufficiali della Chiesa Cattolica: il bianco e il giallo ritornano sulle lenzuola, sulla borsetta, sul vestito estivo della ragazza, che nello studio del ginecologo è attratta da una copertina nera di «Time»: Is God dead?. Anche la camicetta è gialla, mentre Levin, ce la descrive come azzurra: «la religione non ha più l’importanza di un tempo», dice la FOT. 54 sua Rosemary. Al rosso è invece affidata 90

la rappresentazione del maligno: l’abito da sera indossato in tre occasioni rimanda al sangue animale della tanto amata carne cruda o a quello cosparso sul ventre in occasione del concepimento. Come se il corpo della ragazza fosse già aperto prima ancora di essere violato. Al di là delle rilevanze horror, non bisogna dimenticare che il rosso è il colore più barbarico e ancestrale: fino all’arrivo del blu, alla fine del medioevo, ruber era sinonimo di coloratus. Se Polanski lo dosa è per garantirgli quella forza perturbante, istintuale e preistorica, in opposizione al vuoto virginale dell’immacolato corridoio. «La fuga nel nero e nel bianco – osserva nello stesso anno Jean Baudrillard – esprime la condanna del colore puro come espressione diretta della pulsione (Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 1968). Accompagnato dallo slogan «Pregate per il bambino di Rosemary!», il film risanò le casse della Paramount. Il successo, per l’esule polacco, era arrivato, seguito da una pioggia di offerte horror pronte a cavalcarne l’onda. Ma il tempo di Roman, in questi mesi, è tutto per gli amici e per Sharon Tate, diviso tra le feste a Santa Monica e i viaggi di piacere in Europa. Il matrimonio e l’annuncio della gravidanza sono gli ultimi frammenti dell’idillio. Prima dell’arrivo di una telefonata, alle sette di una sera londinese, sabato 9 agosto 1969: Sharon è morta. Assassinata. La vista chiusa

Dopo un anno passato tra Parigi e le montagne svizzere a cercare di chiudere una ferita sempre aperta, Polanski pensa a un film d’avventura, l’unico genere che non avrebbe indotto a dietrologie critica e pubblico. Ma Papillon, per incomprensioni con la produzione, non va in porto. Non resta allora che adattare Shakespeare, soddisfacendo un lontano desiderio giovanile e rimediare, senza modestia, all’unico «fallimento» nella storia degli adattamenti shakespeariani: Macbeth. Come si legge in Roman, le versioni di Welles e di Kurosawa apparivano poco cinematografiche, appesantite da un impianto scenografico lontano anche dai gusti di Kenneth Tynan, direttore del National Theatre chiamato a collaborare alla sceneggiatura. Il plot offre la possibilità di scene d’azione. La principale novità rispetto ai modelli, oltre alla messa in scena del brutale regicidio, è la giovane età della coppia assassina (ventotto anni John Finch, ventiquattro Francesca Annis), motivata per ragioni di verosimiglianza: difficile credere alla follia improvvisa delle tante Lady Macbeth mature viste sulla scena, compresa 91

la Jeannette Nolan di Welles. Il dramma nasceva allora dalla scoperta di un lato oscuro fino ad allora ignoto nei giovani principi, che, ha notato Tynan, «non sanno di partecipare a una grande tragedia. Pensano di vivere un’avventura trionfante. [...] Lo scontro con la realtà costituisce la tragedia» (in P. A. Boutang, Polanski par Polanski, cit.). Proprio la scelta di Francesca Annis, secondo Philippe Pilard, è la maggiore debolezza del film: «bellezza diafana, più Lady Godiva che Lady Macbeth, non è né sensuale né perversa. È inesistente» (Shakespeare au cinéma, Editions Nathan, Paris, 2000). Quanto alle ambientazioni, alla Scozia furono preferite le coste occidentali del Galles (Portmerion), le cui grandi spiagge deserte sarebbero state esaltate dal Cinemascope. Inverness fu invece ricostruita a Holy Island, già location di Cul de sac. Senza dar peso alle congetture ipotizzate da una critica più o meno accorta, pronta a leggere gli schizzi di sangue finto come una forma di catarsi autobiografica, la scelta della verosimiglianza non poté non riflettere le ferite dell’animo. Stupito dalla quantità di sangue fatta uscire dal corpo del bambino (il figlio di Lady Macduff ), Tynan provocò lo humour nerissimo dell’autore: «Non hai visto la mia casa in California: in fatto di sangue, me ne intendo» (in P. A. Boutang, Polanski par Polanski, cit). Macbeth ci sembra un territorio naturale per il genius di Roman Polanski, da sempre attratto dai «neri agenti della notte»; come Lady Macbeth impavido di fronte alle immagini della morte: «è l’occhio dei bambini che ha paura del diavolo dipinto» (Macbeth, traduzione di Gabriele Baldini, Rizzoli, 1980). Rivisto a posteriori, Morderstwo, con quel pugnale che perfora il petto di un uomo rapito nel sonno, era solo una premonizione. Prologo: in una spiaggia desolata, tre streghe nascondono sotto la sabbia un braccio maschile armato di pugnale, prima di versargli sopra del sangue. Aspettano Macbeth, reduce da un’aspra battaglia, cui devono comunicare una profezia: sarà signore di Cowdor, ma anche re di questa terra. A Banquo, compagno di battaglia, è annunciato un futuro regale per la propria stirpe. Informata della notizia, una giovane Lady Macbeth fantastica sul futuro di gloria, pregando gli spiriti di rendere più denso il sangue contro ogni accesso di pietà. Il piano di morte necessita la coltre di tenebra. A fatica, ella riesce a convincere lo sposo a uccidere nel sonno il re Duncan, simulando un’aggressione delle sentinelle. È l’inizio di una spirale di morte senza fine. Temendo congiure, Macbeth fa assassinare Banquo dopo averlo invitato a cena, per poi cadere vittima di una terribile visione: lo spettro dell’amico, insanguinato, si siede a tavola non visto dai convitati. Interrogate all’alba, le streghe offrono al re una serie di inquietanti apparizioni, che si concludono con la progenie di Banquo seduta sul trono. Seguono l’atroce 92

assassinio della moglie di Macduff con il figlioletto, mentre Lady Macbeth, sonnambula impazzita, non riesce a lavarsi un sangue invisibile sulle mani. Il suicidio della regina precede la morte in duello del giovane re, ingannato da una profezia ambigua: la foresta di Birnam avrebbe dovuto marciare su Dunsinane per poter mettere fine al suo regno. Le truppe inglesi mettono a ferro e fuoco il castello dopo essersi dissimulate dietro i rami degli alberi. Toccherà a Macduff, secondo la profezia, portare Macbeth alla polverosa morte. Intanto un altro giovane, figlio di Duncan, si appresta a far visita alle streghe...

Pur sfrondato di alcuni monologhi e personaggi di contorno, il testo di Shakespeare è ripreso con assoluta fedeltà. Le uniche aggiunte sono giustificate dall’accennato rifiuto dell’astrazione nell’ambientazione, per cui lo spettacolo dei cani e degli orsi rientra a diritto nelle scene di vita quotidiana delle corti medievali. Non la poesia interessa, ma la plasticità degli spazi e gli odori degli ambienti. All’universo polanskiano appartiene invece il cerchio disegnato sulla sabbia nella prima inquadratura del prologo, ad opera di tre streghe dai tratti somatici ben marcati, a differenza dei corpi vaporosi di Welles. Circolare sarà anche la struttura narrativa del film, con Donalbain pronto a ripetere il destino del re dopo aver abbandonato il cavallo in uno spazio altro rispetto a questa brughiera: non più vuoto, ma fatto di linee confuse e disperse. Quel braccio mutilato sottoterra, chissà, potrebbe appartenere proprio a Macbeth, e allora tutta la tragedia si svolgerebbe nel tempo sospeso del ricordo. Figura di questa incertezza è la nebbia bianca su cui non scorrono i titoli di testa, immobili in un paesaggio che si muove pur restando sempre identico. Assente in Shakespeare, ma importantissima nell’adattamento di Kurosawa Il trono di sangue (Kumonosu-Jo, 1957), a simboleggiare forse l’oscurità impenetrabile del Tempo, la nebbia inghiotte le gesta di Macbeth offrendocene solo gli echi sonori, pronta a diradarsi per mostrarci un atto tutt’altro che eroico: un colpo d’ascia sferrato dal generale alle spalle di un nemico agonizzante. Alle ombre nere di Welles Polanski risponde con il bianco, accecante ma non ossessivo quanto quello che perseguita Washizu e Miki nella selva sotto il Castello del ragno di Kurosawa. Pur seducenti, le invenzioni plastiche qui si ispiravano al teatro Nô, altro volto dell’astrazione. Inevitabile, ascoltando lo stupore di Macbeth dinanzi alla sparizione improvvisa delle streghe, ripensare alle visioni di Carol in Repulsion, terrorizzata da corpi evanescenti: «ciò che sembrava avere un corpo si è dissolto 93

come fiato al vento». Per nulla evanescente è invece il castello di Inverness (fot. 55), introdotto da un campo lungo pittoresco che lo accomuna a quello del conte von Krolock (Per favore... non mordermi sul collo). Le note off dei trobadour e il canto degli uccelli FOT. 55 sembrano riprodurre quell’atmosfera di «aria scherzosa» impressa nelle parole del Duncan shakespeariano, ma assente tra le umide mura di Welles, il cui cielo di carta non effonde nessuna «brezza odorosa». Interessante è la scelta di ambientare l’invocazione alla notte di Lady Macbeth (atto I, scena V), uno dei vertici del pathos tragico, alle luci rossastre del tramonto, con il castello perfettamente a fuoco sul fondo del quadro. Attorniata dalle carezze dei suoi cani, i lunghi capelli sciolti, la giovane principessa non ha certo la gravitas adeguata per invitare gli spiriti del male a «bere il proprio latte in cambio del fiele». Come Giulietta in attesa di Romeo, Francesca Annis si fa pettinare prima di saltare nelle braccia del suo amato, senza che nessuna «oscurità notturna» possa già suggerire al lettore il crudele destino. Ecco la modernità del tragico: l’hybris è una forza del giorno, nascosta nei recessi dell’inconscio, senza nessuno spirito come compagno. L’ambiente non è più uno spazio mentale, ma qualcosa con cui i due assassini devono fare i conti, obbligati ad organizzare il crimine sottovoce, vista la presenza dei servi. Il contesto della situazione, ad esempio, impedisce a questo Macbeth di rivolgere alla moglie l’invito a «generare solo maschi», essendo ella impegnata in un ballo con il re; il dialogo diventa monologo. In coerenza col progetto, ci è mostrato solo ciò che può essere visto o sentito da un osservatore interno. L’attenzione per i dettagli traspare nel simbolismo dell’architettura luministica, affidata FOT. 56 ancora a Gilbert Taylor. Nel 94

momento in cui Duncan invita al ballo Lady Macbeth, interrompendo il duetto, l’ombra della sua corona oscura completamente il volto della ragazza: non c’è nessun altrove, le tenebre sono qui (fot. 56). Un’identica organizzazione dello spazio consegnava alle forze del male il marito di Rosemary, poco prima del rapimento nello studio del dottor Hill (fot. 57). Desideroso di sfuggire alle convenzioni FOT. 57 del teatro, Polanski sembra ricadervi in occasione della prima allucinazione del suo generale, a tu per tu con un’arma impazzita. Se Welles ricostruisce la sensazione della vertigine mediante repentine variazioni del fuoco, guardando la spada attraverso gli occhi del personaggio, Polanski ci offre ancora una volta la messa in scena di uno sguardo. John Finch è di fronte a noi, come se fossimo seduti in platea, quando l’effetto speciale entra in azione. Attraversare il campo, nell’inquadratura successiva, non servirà a penetrare la mente del personaggio, la cui voce finalmente si fonde nel corpo. Al pari di Welles, Polanski alterna nei monologhi la voce in a quella off, senza però mai “lottare” con il verso, cercando invece di offrigli un volume dentro il quale esso possa risuonare più intenso. Quanto a Macbeth, possiamo solo guardarlo guardare, simulacro al cospetto di un’ombra: «Ma no! È tutto falso», quando il pugnale scompare. Sicuramente falsa è la soggettiva che contempla, da destra verso sinistra, la «morta natura del mondo», per terminare sulla sua nuca. Lo stesso vale, qualche istante dopo, per la panoramica che accarezza i servi addormentati. Tra i fantasmi della notte ci sono anche i corpi di celluloide. La fuga dalle convenzioni teatrali è evidente nella brutalità del regicidio. La sineddoche della corona che rotola ai piedi del corpo (una reminiscenza della morte dell’usurpatore nel finale dell’Amleto di Olivier?), come farà più tardi la testa dell’assassino, evidentemente non bastava. Macbeth non poteva uscire dal quadro e ritornare sporco di sangue. Ma più che sangue questo sembra “rosso”, talmente brilla sulle mani, e allora lo schizzo che macchia la corazza dell’eroe forse è solo una linea impazzita nella tela, simmetrica a quella tracciata dal movimento del pugnale. Simile al modello wellesiano è invece la messa in scena del ritorno di Lady Macbeth dal luogo del delitto, posto frontalmente sul fondo del quadro (fot. 95

58 e 59). La profondità di campo unisce per sempre il destino dei due coniugi, al pari del colore. Bianca è la veste macchiata della principessa, bianchi sono gli abiti e la luce nella scena dell’incoronazione, con il corpo di Macbeth confuso nel cielo terso del mattino, al FOT. 58 centro dell’ennesimo cerchio. Che Polanski pensi per associazioni visive, lo dimostra anche una sottile variazione apportata al testo, nella scena seconda del terzo atto. I «pensieri più attediati» che assillano i passi dell’irrequieto re diventano, nella bocca di Francesca Annis, «tristi immagini», sole compagne di un incubo a occhi chiusi. La focalizzazione si fa finalmente interna in occasione dell’apparizione di Banquo, osservato prima di spalle e poi in volto con un’angolazione dall’alto verso il basso. Quando lo spettro si alza, la macchina a mano ne riproduce tanto l’andatura quanto il punto di vista, offrendoci l’immagine di un re indifeso, risucchiato nell’ombra terribile del rimorso. Al colore è poi affidata la rappresentazione del delirio. Schiacciati nel letto da uno sguardo aereo già visto FOT. 59 (Rosemary’s baby), i due eroi soffocano in una luce rossa fin troppo didascalica, ridondante rispetto alla parola: «ho camminato troppo nel sangue per tornare indietro». Un blu intenso, altrettanto irreale, accompagna invece il re nel tragitto verso le streghe, i cui flaccidi corpi nudi non possono non richiamare i vicini di Rosemary. Non c’è apparizione senza confronto con il proprio doppio. Nel calderone bollente, il re non vede la testa armata descritta da Shakespeare, ma se stesso. La soglia che separa dalla follia si è fatta dunque più labile, mentre le bolle sembrano finalmente poter sciogliere quella «volumetria vertiginosa» di corpi e spazi in cui Sergio Arecco ha letto la volontà di «definire i chiari limiti di un teorema» («Filmcritica», n. 233, 1973). Se Welles ci offre il punto di vista delle streghe, schiacciando il suo eroe in una inquadratura dall’alto che simboleggia da sola l’ineluttabilità del fato, Polanski ci consegna quello di Macbeth (fot. 60). Il reale non è dalla parte 96

dell’Io, ma di quella del fantasma. Più che realistica è infatti la visione delle mani che aprono un ventre per estrarne un feto. Lo spettro di Banquo seguito dalla progenie è forse la più terribile delle visioni. Le singole apparizioni non restano misteriose nei segni di inter- FOT. 60 punzione, ma obbediscono a leggi dell’ottica. Se nessun Dio osserva questi affanni, la tragedia è, se così si può dire, ancora più “tragica”. La tracotanza di Macbeth si sfoga nel pur fugace atto narcisistico che dà il la alla vertigine. A differenza di altri specchi letterari (Poe, Dostoievski, Maupassant), questi non solo amplificano la percezione dello spazio, ma fanno anche viaggiare nel tempo, ai confini del visibile. La pulsione (auto)scopica è continuamente castrata dall’eterno ritorno di campi vuoti (fot. 61) giocati su fantasie geometriche che rimandano alle decorazioni di certi FOT. 61 interni (ma non eravamo nella foresta?). Il tutto condito da un delizioso tocco di ironia: alla vista di Macbeth, il falso Banquo si guarda attorno per cercare lo specchio, quasi non si ricordasse più dove l’aveva messo. Macbeth sembra finalmente poter attraversare la finestra rettangolare che lo conduce agli inferi, dove il corpo insanguinato della sua vittima lo attende; un leggero carrello in avanti ci dà la sensazione di questo movimento, con il profilo destro dell’eroe ben visibile al di là del muro. Ma la lama infrange la superficie dell’ennesimo specchio, riempita delle solite ombre: «La vita non è che un’ombra in cammino». Lo sforzo di rinnovare il testo con soluzioni visive continua nella sequenza del sonnambulismo, giocata sull’ambiguità del punto di vista. A chi appartiene l’occhio al di là della grata? (fot. 62). Lady Macduff, fino a qui depositaria della focalizzazione, è “sostituita” da Lady Macbeth, la quale ha gli occhi aper97

ti. Ma, come affermano i testimoni, «la loro vista è chiusa». Siamo precipitati in un regime di sguardo precario, affidati alla soggettiva di una dormiente senza che nessuna marca stilistica connoti tali immagini come “visioni”. Possiamo leggervi una dichiaraFOT. 62 zione di poetica: il cinema come purificazione della pulsione, smarrimento catartico di uno sguardo teso in una situazione limite, ambigua come la luce degli esterni. Ciò che affascina, in Polanski, è il fatto che le tenebre del sogno non si sfaldano alle luci del mattino spesso azzurre come quelle di Kubrick. Al pari di Eyes Wide Shut [Id., 1999], dove l’opposizione sogno-realtà è giocata su due toni luminosi ricorrenti nella camera da letto (il blu e l’arancione), Macbeth appare un dialogo continuo tra i colori caldi e quelli freddi. Dopo la notte blu, l’alba della sonnambula è riscaldata dal fuoco che illumina il corpo nudo e, nella mente, la cruenta scena del delitto, negando ogni volta la possibilità del «dolce antidoto di oblio». Il cerchio si chiude. Lady Macbeth rilegge, prima del tragico gesto, la lettera che aveva generato il suo folle desiderio di potere. Solo il commento musicale è identico al primo giorno. I capelli ora sono scompigliati, la luce dell’alba è verde, spenta come la «breve candela» della vita. Nessuna enfasi musicale sottolinea il duello finale, esattamente come accadeva nel castello di Elsinore per una scena analoga (Olivier). Solo i dettagli sonori delle spade e alcuni tocchi di ironia, improbabili nell’epos cappa e spada hollywoodiano: stanco, Macbeth si siede sui gradini della scala e indossa la corona prima di ricominciare il duello, per poi cercare la testa con le mani nel momento fatale e ricadere per le scale. Nel silenzio, il rumore secco del cranio fa più orrore degli occhi spalancati. Nemmeno qui interviene la musica, pronta invece a commentare le ultime visioni del re, attraverso il cui sguardo osserviamo i volti soddisfatti dei soldati nel tragitto che conduce alla sommità del castello. Con la morte la geometria non si spezza, ma i volumi si assottigliano in due linee verticali perfettamente diritte. Alla striscia di sangue disegnata sul muro e “riscritta” dal movimento di macchina, segue il campo lungo dell’a98

sta nera che sorregge il macabro trofeo. Come quelli della sonnambula, anche questi occhi sono aperti chiusi. Non vedranno l’avanzare silenzioso del giovane Donalbain, attratto da voci senza volto dietro un muretto, sulle colline umide di un mattino di pioggia: impossibile resistere alle sirene dell’Altro. A causa di condizioni meteorologiche a dir poco proibitive, Polanski oltrepassò il budget iniziale rischiando di essere licenziato dalla Playboy Productions. Ma alla fine, come si legge nell’autobiografia, la maledizione di Macbeth fu vinta. Non però l’ipocrisia moralista della critica americana, pronta a rinfacciare con stroncature l’onta della collaborazione con Playboy. Nel complesso il progetto si rivelò un piccolo fallimento. Nessun trauma, ma ora basta con la cartapesta e le parrucche. Polanski ha voglia di divertirsi con un film piccolo, esile e oscuro come un punto di domanda. Alice nel paese dei maiali

Chi guarda stando fuori da una finestra aperta non vede mai tante cose quanto chi guarda da una finestra chiusa (Charles Baudelaire) Liquidato in sole quattro pagine da Roman, Che? è senza dubbio l’opera più inafferrabile, scivolata dalle mani della critica come un oggetto spigoloso. Protagonista di un dibattito redazionale in un «Filmcritica» dell’epoca (n. 233, aprile 1973), il film è rientrato nella rubrica “Sogni infranti” di «Segnocinema», destinata a «quelle opere minori, realizzate su commissione o respinte dagli stessi autori, dalla critica e dal pubblico come opere “sbagliate”» (n. 84, 1997). Vittima di caricatura, cifra stilistica del progetto, vorrebbe essere il clima godereccio della dolce vita mediterranea, dove il giocattolo del tempo si è rotto, fermandosi ai già tramontati anni Sessanta. In realtà, a uscire deformato dal ritratto è soprattutto il cinema, con le sue icone e i suoi miti. Anziché decostruirne i codici, Polanski ne esaspera la portata simbolica, lasciandoli apparentemente intatti, ma pronti a scoppiare da un momento all’altro. La citazione colta si fa corpo, pesante e ingombrante come un quadro impolverato; il latin-lover Mastroianni, con addosso ancora i baffi di Germi, diventa un pervertito dai gusti bizzarri, in cerca di trasgressioni più forti di quelle della città delle donne, mentre la nudità femminile, di solito diluita con parsimonia 99

dalla commedia erotica, è data all’inizio e poi allusa per tutto il film, in modo tale da spegnere la pulsione nello spettatore ma non nei personaggi. Oggetto del desiderio sono le forme della debuttante Sydney Rome, scelta proprio per la sua aria da ragazza americana tutta salute e pudore, ispirandosi a una ragazza conosciuta dagli autori durante un soggiorno a Gstaad. Direttamente dall’eros pasoliniano (I racconti di Canterbury, 1972) arriva invece Hugh Griffith: sir January lascia il posto a un vecchio patriarca attorniato di quadri come l’anziano professore di Visconti (Gruppo di famiglia in un interno, 1974). Senza contare che in origine il soggetto, intitolato Il dito magico, riguardava proprio il mondo del jet-set, impersonato da un produttore senza scrupoli, inventore di un sistema singolare per selezionare le sue attrici (si legga quanto descritto in Roman). I cliché sono presi alla lettera e scagliati l’uno contro l’altro nell’ennesimo spazio chiuso. Il quale è anch’esso, ormai, un’icona, uno stereotipo, il marchio di un autore disposto a prendersi in giro. Chiaro è l’intento autoriflessivo, finalizzato a liberare il linguaggio in modo, come dice Brach, da «andare verso il racconto, imporre il racconto» (in P. A. Boutang, Polanski par Polanski, cit). E allora leggiamolo questo racconto, sfogliando il diario su cui sono scritti i titoli di testa. Un’avvenente ragazza americana, appena sbarcata sulla costiera amalfitana, sfugge a un maldestro tentativo di stupro per rifugiarsi in una raffinata villa sul mare, penetrandovi attraverso un ascensore. Il proprietario, Joseph Noblart, è un vecchio paralitico con un debole per il gentil sesso. Scambiata per un’ospite dal cameriere, Nancy registra subito ogni evento sul suo diario, che presto le servirà per coprire le sue nudità, visto che qualcuno le sottrae, uno dopo l’altro, i suoi abiti. Tra i primi incontri c’è Alex, ex protettore di prostitute che non esita a complimentarsi con la ragazza per il seno. Infastidito dal rumore ossessivo di una pallina da ping pong, egli la schiaccia, ma il problema si ripresenterà il giorno seguente. Alcuni ragazzi giocano sopra il terrazzo: uno dei due, Jimmy, si dichiara a Nancy, ma senza fortuna. Indossata una pelle di tigre, Alex si fa frustare dall’ingenua ragazza prima di abusare del suo corpo. Intanto il primo giorno nella villa finisce, ma non si annuncia una notte tranquilla. Spodestata della camera da ignoti turisti americani, Nancy si adagia in riva al mare sulle note del “Chiaro di Luna”, risvegliandosi senza pantaloni. Tanto vale addormentarsi su una poltrona a forma di mano. Ci pensano gli istinti di un pianista con l’artrite a risvegliare la giovane, pronta ad accompagnare il misterioso personaggio nella “Sonata a quattro mani” di Mozart. Nancy ha un appuntamento alla torre, ma invece di Alex vi trova due pittori, e ne esce con una gamba blu. Il mattino del secondo giorno è identico al primo: la partita a ping pong, il caffè ad Alex, le modelle francesi. Nuovo è il pranzo 100

con tutti gli ospiti, cui partecipa anche Noblart, subito attratto dalle forme di Nancy. Identiche sono invece le parole del povero pianista, che ripete gli stessi lamenti sull’artrite del giorno prima: la sonata di Mozart si ricompone, interrotta da un petalo di rosa déjà-vu. Intanto alla villa arriva La zattera della Medusa, esaltato dal venditore per il suo realismo. Contemplato il sesso della ragazza, Noblart muore. Inseguita da tutti gli ospiti, Nancy si rifugia su un camion di porci. Non può tornare indietro, perché altrimenti il film non potrebbe finire.

Che? è un piccolo sogno di due notti d’estate, pieno di sorrisi e corpi che spuntano dal nulla senza mai disturbare il canto delle cicale, nella quiete immobile di mezzogiorno come alla luce della luna piena. «Un film che vi guarda dritto negli occhi – recitava il trailer dell’epoca – un’opera piccante e profumata, bella come il grido della farfalla, chiaro come un dialogo tra sordi». Se Cul de sac sfiorava il surreale inseguendo la durata in uno spazio privo di ombre, questo è un tentativo di coniugare il gusto del racconto con l’attrazione per certi topoi del surrealismo, come l’ossessione del doppio, l’incertezza tra sogno e realtà, il tempo come categoria della psiche, il volto enigmatico di Eros. Ne esce un film narrativamente “liquido”, informe, molle e addormentato come i paesaggi di Mirò. Polanski libera le proprie ossessioni da ogni preoccupazione morale ma soprattutto, come voleva Breton, estetica. Senza troppe ambizioni d’autore. Come il corpo di Nancy anche il meccanismo del dispositivo è seminudo: ne intravediamo gli ingranaggi, i buchi, il farsi e disfarsi della trama, cucita solo dal gesto finale della protagonista. Il regista recupera la forza ipnagogica dello sguardo surrealista associando i suoi occhi a quelli di un corpo seminascosto non solo dai tagli di angolazione, ma anche da elementi profilmici incongrui quali il pigiama da uomo, il diario e il tovagliolo, che negano una pulsione diegetica la cui soddisfazione suggellerà la fine del film. L’immagine scelta per il manifesto del film ci mostra il volto dell’uomo intrappolato tra due barriere di carne, amputate da un desiderio mortifero (fot. 63). Impossibile allora non pensare a quelle gambe che, pur incollate su di un manifesto pubblicitario, incrociano il cammino di Modot nel quarto episodio de L’âge d’or, suggerendogli la proiezione fantasmatica di una FOT. 63 101

pulsione repressa (fot. 64). Là il resto del corpo è mutilato, qui è sostituito da un “busto” maschile, la lunga camicia a righe, che annulla le forme rotonde, permettendo alle gambe di vivere una vita propria (femminile). Gli indumenti attillati della ragazza spariscono. Forse sul letto di Zanzara formano una «figura assente» analoga a quella del ciclista di Un chien andalou, «esplicitazione della figurabilità delle rappresentazioni psichiche sempre delineate in assenza dell’oggetto stesso» (Paolo Bertetto, FOT. 64 L’enigma del desiderio. Buñuel, Un chien andalou e L’âge d’or, Biblioteca di Bianco e Nero, Roma, 2001). La maglietta indossata dal marinaio non è esattamente quella di Nancy, nettamente strappata la sera prima: Polanski ama i quasi, gli impercettibili slittamenti della percezione. Tutto, nella villa incantata, assume il volto metafisico dell’enigma. Come l’occhio di De Chirico nelle piazze assolate, l’istanza narrante si scopre guardata da ogni angolo, da ogni muro, da ogni oggetto. La vista non è però l’unico senso coinvolto in questa sinestesia. Sono i rumori ad attrarre Nancy nei cunicoli bianchi della villa, un labirinto tappezzato di quadri dove anche il guardiano ammette di perdersi (fot. 65). Polanski filma questi corridoi semicurvi come i meandri di un cervello, dove si depositano i feticci di un eros (le modelle nude) e di una storia (i quadri celebri) immersi nel moderno. Sullo sfondo del canto delle cicale, paesaggio acusmatico per eccellenza (ritornerà anche negli esterni di Chinatown), echeggiano rumori di oggetti inanimati, dalla pallina da ping pong alla sedia a dondolo, ma anche animati, come la risata di Zanzara, i lamenti di Noblart, l’applauso sulla spiaggia, alcuni starnuti e il cuculo nascosto nella torre. Anche di questi la fonte non è immediatamente visibile, grazie al regime di semisoggettiva che ci è assegnato: ascoltiamo o vediamo solo ciò che percepisce la protagonista. La quale ci suggerisce un saggio sul tema, “Suoni e sensazioni”, convinta che potrebbe spiegare l’irrefrenabile piacere provato da Alex nello schiacciare la pallina da ping pong. FOT. 65 Non stupisce che questo piace102

re sia accompagnato da «angoscia», perché «l’esperienza interiore dell’erotismo domanda una sensibilità verso l’angoscia che fonda il divieto non meno grande di quella rivolta al desiderio che porta a infrangere tale divieto» (George Bataille, in André Breton, Le surréalisme et la peinture, cit.). La pallina, possibile feticcio dell’infanzia, attrae come un seno materno: stringerla porta alla vertigine. Quanto all’atto di schiacciare, esso è la manifestazione più evidente dell’aggressività indotta dal desiderio frustrato, come testimoniano l’androgina investita in Un chien andalou e lo scarafaggio calpestato in L’âge d’or. Nella foresta di suoni, il rumore di questo gesto è il più vuoto, simile solo allo schioccare delle nocche del pianista. Se gli altri disegnano curve e linee nello spazio (si pensi all’eco della voce di Jimmy nella baia), tale suono appare come un punto: nessuna risonanza. Al pari dei rumori, anche la musica indossa più maschere. Dopo aver ispirato l’elaborazione della sceneggiatura, La morte e la fanciulla commenta a più riprese il racconto, connotando soprattutto i momenti di stasi dei corpi, con l’eccezione del tragitto della gamba blu dalla torre alla casa. Inizialmente si offre come motivo di Alex, scomparendo assieme all’uomo dietro la finestra, la prima notte. La brusca interruzione della melodia fa emergere la materia extradiegetica del significante. Il mattino seguente il medesimo quartetto di Schubert musica la vestizione (mancata) della ragazza, dissolvendosi solo nel momento dell’uscita dalla stanza, ma confermandosi incarnazione sonora del voyeur. La terza apparizione, nella torre al termine dell’amplesso, è più romantica, ma in fatto di romanticismo nulla eguaglia il Chiaro di luna che dolcifica il quadretto della bella addormentata sulla spiaggia (fot. 66). La luna è chiarissima al centro della cartolina, e Nancy sembra quasi avvertire le carezze di Beethoven, salvo poi guastare l’idillio manipolando maldestramente la sveglia. Come i baffi di Duchamp sulla Gioconda, questi graffi sonori demistificano un’icona già collocata in un contesto, la commedia erotica, altro rispetto all’alto modello. Se poi la sveglia si rompe e i turisti non sanno indicare l’ora, significa che l’orologio FOT. 66 del tempo si è sciolto. 103

Più fortuna avrà Mozart il mattino dopo, quando le mani del misterioso amministratore “toccano” il corpo della ragazza attraverso le note della Sonata a quattro mani K497: lo scambio simbolico avviene senza alcun contatto fisico. Unico caso di musica diegetica, la sonata interrompe il racconto come un intervallo fine a se stesso. Il vento che solleva leggermente i capelli della ragazza staccando i petali delle rose ci conferma la connotazione surrealista del luogo, interno aperto all’esterno come la stanza di Un chien andalou, dove la brezza marina del desiderio agitava il foulard della donna sulla porta, o come la camera di Lya Lys, attratta da una tempesta nello specchio così forte da scompigliarle i capelli ma non abbastanza per disfare le margherite nel vaso (L’âge d’or). A differenza di questi personaggi, Nancy non sembra però travolta da nessuna pulsione erotica, anzi: il vento la distrae e le ricorda l’appuntamento con Alex. L’archetipo è ripreso per essere subito svuotato. Come dice il pianista filosofo, non ci si bagna mai nello stesso fiume: il déjàvu assume ancora il volto dello specchio. Quando si appresta a calpestare la pallina per la seconda volta (non è la stessa pallina?), Alex è seduto di fronte all’angolo occupato il giorno prima, in posizione perfettamente speculare. Per il resto, lo specchio della camera da letto è FOT. 67 il luogo dell’involontario divenire altro di Nancy, anche se il pigiama del malato (trovato nel corridoio, dunque ready made) non riuscirà a scalfirne la sensualità. La poltrona gialla del salotto su cui ella si distende appare mutata dal desiderio in una mano morbida e avvolgente (fot. 67): parodia degli oggetti surrealisti. Per la prima volta Polanski si accontenta di un’ambientazione reale, la villa gentilmente concessa dal produttore Carlo Ponti. I tragitti di Nancy lungo le scale e i corridoi sono spezzati dal montaggio, così come l’itinerario che la conduce alla torre, pieno di ellissi, quasi questa non fosse null’altro che una proiezione fantasmatica del desiderio, raggiungibile con la mente. Prevale come sempre la linea di forza verticale, che articola la discesa agli (allegri) inferi in tre tappe: la strada, dove la realtà è violenta, la villa, dove il sogno dura, e infine il mare, attraversato dalla ragazza per soddisfare le fantasie di Alex. Ma l’acqua, dove si bagnano il prete e Zanzara, non ha quella portata simbolica 104

evidente in opere come Il coltello nell’acqua o Cul de sac: azzurra e assolata come da copione, si limita ad assicurare l’isolamento. Più interessante è lo sfruttamento della terrazza, finestra aperta su un paesaggio mai osservato dai personaggi: solo Nancy, imbarazzata di fronte a Jimmy, esalta tale vista, ma tenendo le spalle voltate. La costiera amalfitana ci è dunque restituita come “veduta”, slegata dalla dinamica narrativa, immagine di un’immagine ricorrente tra gli status symbol di quella dolce vita. Sulla terrazza tutto ricomincia, sulla terrazza risuona l’eco del luogo più “subliminale” del film, a essa collegato mediante il vaso comunicante della citata pallina: il campo da ping-pong. Non lo vediamo mai, ma le pause e le accelerazioni della pallina ne disegnano i contorni nella nostra mente, come le parole dei vicini e i vagiti davano l’impressione di vedere il piccolo Satana nella culla nera. Invisibile, ma a causa dell’oscurità, è anche il paesaggio costiero che ospita la cornice del racconto, con quella strada appena illuminata che oppone al tempo bloccato del sogno la realtà come movimento (le auto in corsa). Non trascurabile infine è il trattamento del colore, affidato al tocco di Marcello Gatti e di Giuseppe Ruzzolini, autore dei pastello brumosi di Teorema (Pasolini, 1968). In Che? nessun vapore, ma una luce che sembra fondersi con gli oggetti, conferendogli un non so che di artificiale. Il blu che accoglie Nancy nella camera e poi alla spiaggia appare fatato ed elettrico come quello di Yves Klein, a sua volta ispirato dalla lettura di Bachelard: «Nel territorio dell’aria blu [...] sentiamo che il mondo è permeabile alla fantasticheria più indeterminata. Il cielo blu si scava sotto il sogno» (Gaston Bachelard, L’air et les songes, Gallimard, Paris, 1970). Niente di meglio dunque, per introdurci nella rêverie della ragazza, di questo colore immateriale e profondo, privo di dimensioni ma non per questo, secondo Klein, astratto. Figura di una libertà spirituale che supera la problematica stessa dell’arte, il blu permette a Klein di raggiungere quell’«indefinibile» che Delacroix, scelto quale modello della superiorità del colore sulla linea, considera nel suo Journal come il «merito del quadro» (Yves Klein, Le dépassement de la problematique de l’art et autres écrits, Ensba, Paris, 2003). È solo un caso che proprio Delacroix sia il protagonista del divertimento finale, con La zattera della Medusa prontamente rispedita indietro dal patriarca? E non è strano che uno dei due colori a disposizione dei pittori della casa sia l’azzurro celeste? Interrogandosi sul ruolo della pittura e sul senso stesso del collezionismo, Polanski non esita a farsi beffe di Bacon, il cui Studio da Innocenzo III risulta perfettamente invisibile alla cameriera, e di Vermeer, con Nancy novella 105

Merlettaia intenta a cucire una pelle di tigre (fot. 68 e 69). Curioso è il fatto che proprio su questo quadro di Verneer si arresti la lettura della protagonista di Un chien andalou. Altri capolavori, quali il Nudo Rosso di Modigliani nella stanza di Noblart, il Campo di FOT. 68 grano di Van Gogh dietro al pianoforte mozartiano e qualche Picasso sono solo intravisti, icone della bellezza contrapposta al vizio. Nessun commento da parte dei personaggi, per nulla attratti dal realismo minuzioso di Delacroix, con l’eccezione di Nancy. A nulla serve l’apprezzamento del mercante: «Guardate i piedi, sembra una fotografia!», perché Noblart, come afferma il segretario, «dopo aver preferito tutta la vita l’immagine all’oggetto, oggi ha scoperto di preferire l’oggetto all’immagine: vuole toccarlo un piede, non guardarlo sulla tela». L’enigma della irrisione si nasconde nel nome stesso del vecchio padrone: Noblart, ovvero Art Noble, arte nobile. Ma la noblesse non basta più quando la vita se ne va. Lo sguardo non può sostituire il tatto, ed è per FOT. 69 questo che Polanski cerca sempre gli obiettivi e il formato più adatto per trasportarci sotto le curve dei soffitti. Nell’ultima sequenza la gamba di Nancy attira il patriarca, aggravando in lui l’impressione di navigare in uno spazio ambiguo della visione. Il ticchettio della sveglia sullo sfondo suggerisce una dimensione onirica, in quanto identico a quello udibile durante l’incubo di Rosemary. Noblart non è più sicuro che ciò che vede, come la poltrona accanto al letto, esista: se esse est percipi, ciò che non è visto non è. Ora che la Bellezza si è fatta carne, il colore, ormai secco, fa scattare la nostalgia. Da sempre il blu è figura dell’assenza, come insegnano Jarman (Blue, 1993) e Kieslowski (Trois couleurs: Bleu, 1993). Nancy, Origine del mondo abbronzata e disinvolta, è l’ultimo quadro da contemplare, prima di lasciar cadere la palla di vetro dalle mani. Come un Citizen Kane qualsiasi. Nessuna Rosabella, nessun enigma. Solo l’ultimo anelito prima del ritorno nel grembo. 106

L’immagine allo specchio

Al pari di Macbeth, Che? non incontra grandi consensi di pubblico, con l’eccezione dell’Italia (in Inghilterra nemmeno il titolo pruriginoso, Diary of Forbidden Dreams, funziona). Dopo due opere scelte e realizzate secondo i propri gusti, Polanski ha bisogno di soldi. Ci pensa l’amico Jack Nicholson a svegliarlo dal torpore romano, proponendogli una sceneggiatura scritta da un giovane talento, Robert Towne. Ma Roman esita a tornare in California. Solo Robert Evans lo convince, presentandogli il progetto come una produzione indipendente all’interno della major. Delle cento pagine dello script, Polanski apprezza la costruzione dei dialoghi ma deplora la dispersione dell’intrigo. Dopo due mesi di lavoro a quattro mani, a dividere sceneggiatore e regista sono Eros e Thanatos, ovvero la scena d’amore tra il detective e Mrs. Mulwray e la morte di quest’ultima. La spunta Polanski, obbligato a scrivere da solo le due sequenze, attendendo l’ultimo momento per inventare il finale, l’unica immagine del quartiere che rimandi al titolo. Non si poteva certo ingannare lo spettatore con un falso pretesto, promettendo qualcosa che poi non si mostra. Chinatown è un enigma all’interno di un enigma. Suggestionato dal racconto di un poliziotto, che gli confidò l’impenetrabilità dei misteri di un quartiere dove devi fare «il meno possibile» (sono le ultime parole di Gittes), Robert Towne punteggia lo script di questo nome fantasma, evocato come un’ombra del passato, una macchia nera più grande di quella che oscura l’iride di Evelyn. La circolarità è assicurata ben prima dei cinque minuti finali: Gittes forse è “sempre” rimasto a Chinatown, Evelyn non è che il riflesso perlaceo di quella donna perduta anni prima nel tentativo di proteggerla. Novello Orfeo, Gittes perde due volte la sua Euridice, perché, come ha scritto Oscar Wilde, «ciascuno uccide l’oggetto del proprio amore». Nel manifesto del film, Evelyn “è” Chinatown, volto immateriale senza contorni, originato e confuso dal fumo di Gittes, stilizzato come il gorgo d’acqua che deborda minaccioso dal quadro (fot. 70). Chinatown racconta la lotta di un corpo contro qualcosa di incorporeo come il ricordo e inafferrabile come l’acqua, un’acqua “detta” più volte ma mostrata solo nella sua potenza distruttiva: furia notturna che sbuca dal nulla, preceduta da silenzi più lunghi di quelli che anticipavano le crepe di FOT. 70 107

Repulsion. L’indagine investe il corpo procurandogli ferite. Non c’è sguardo senza perdita. In origine il tema dell’acqua era solo un’occasione per sensibilizzare l’opinione pubblica sul degrado ambientale della società americana, ma il conflitto whitmaniano natura-cultura era assente nel Dna dell’esule polacco. Quello del detective privato era già un mito in frantumi, dopo La vita privata di Sherlock Holmes (The Private Life Of Sherlock Holmes, 1970, di Billy Wilder): il logos si disintegra di fronte all’insorgere della passione amorosa, mentre l’integrità morale è sporcata dal vizio. Ambizioso ma coerente ci sembra il registro dell’operazione polanskiana. Il suo Jake Gittes è un dandy elegante e sicuro, ma incapace di decifrare la maschera tragica della cliente: le luci rossastre del tramonto californiano non gli consentono di “sporgersi dentro”. Invece di imitare, Polanski sceglie di evocare profili e suoni lontani facendocene sentire tutte le incrinature, i riverberi, le pieghe. La cinepresa degli anni Settanta, come questi personaggi, è un voyeur impotente. Chinatown è un film di fantasmi, e non a caso comincia su due corpi immobili, mummificati in una foto in bianco e nero. Los Angeles, 1937. Il detective privato Jake J. Gittes riceve la visita di una certa signora Mulwray, intenzionata a spiare le mosse del marito fedifrago, Hollis Mulwray, ingegnere capo del Dipartimento delle Acque della città. Sulle tracce dell’uomo, Gittes scopre i contorni oscuri di una truffa ai danni della comunità: di notte l’acqua viene deviata in una direzione misteriosa, mentre la città muore di sete. Dopo un lungo pedinamento, il detective riesce a catturare il suo uomo in compagnia di una giovane donna. Ben presto però la missione si rivela una truffa: la vera signora Mulwray minaccia una denuncia, qualcuno ha inventato la commedia del tradimento. Intanto Hollis Mulwray è trovato cadavere in un canale del bacino idrico. La curiosità costerà a Gittes un taglio al naso, coperto con un’antiestetica benda bianca. Dopo aver interrogato Noah Cross, padre di Evelyn e socio in affari del defunto, Gittes scopre nell’archivio del catasto che le terre aride del Nord Ovest sono state recentemente vendute a tranquilli pensionati ospiti in una casa di riposo affiliata all’impero di Cross: presto la diga dell’Alto Vallejo, non voluta da Mulwray, renderà queste terre, ora avvelenate, preziosissime. Sfuggito a una seconda aggressione degli uomini di Yelburton, successore di Mulwray, Gittes si rifugia nelle braccia inquiete della sua cliente, per poi abbandonarla infastidito dai suoi misteri: sospetta che tenga prigioniera la presunta amante del marito, non crede alla confessione della donna che indica la ragazza come sua sorella. Ma nemmeno il tenente Lou Escobar, ex-collega di Gittes a Chinatown, crede all’innocenza della donna. Intanto, un paio di occhiali infranti ritrovati nella piscina gettano oscuri sospetti su Evelyn, fugati solo da una disperata ultima confessione: Katherine, la ragazza nelle foto, è sua 108

sorella, ma anche sua figlia. Noah Cross, padre incestuoso, ammette di aver perso gli occhiali proprio nel laghetto della villa. È lui l’assassino di Mulwray. Non c’è tempo da perdere, la polizia cerca Evelyn, Cross la figlia. I destini si incrociano a Chinatown: a nulla serve fuggire. Le pallottole della polizia raggiungono la madre, mentre la figlia viene portata via dal nonno-padre. Quanto a Jake, non può che fare «il meno possibile» per evitare la tragedia.

«Il più profondamente disturbante e purgativo lavoro di Polanski», come lo definì Virginia Wexman, canta la morte del genere senza nessuna tenerezza. Sfuggito al conflitto del bianco e nero, il male si stempera nei colori autunnali di una Los Angeles arida e assolata, confondendosi dietro i volti, il trucco, le fotografie. Polanski non vuole i colori accesi di Il Padrino (The Godfather, 1971), recente successo di Evans, ma toni freddi sulla pelle dei suoi eroi e una dominante beige sugli ambienti, simile al pastello in cui già si bagnava Rosemary’s baby, ma meno brumosa: se Rosemary è un film senza nero, Chinatown scivola, lentamente, verso le tenebre della notte. Il quartiere cinese è filmato come un’architettura di luci impalpabile, uno spettro nel buio. La tracotanza di Cross è una sfida alle leggi della natura, incarnazione di una barbarie inedita nel microcosmo polanskiano. Come ha notato Avron, il gioco di parole sul nome di questo personaggio, Noah-Noé, contribuisce a immergere la storia nella dimensione del mito, inquinando la struttura noir con quella del western, in quanto la fondazione della civiltà comincia con la ricerca dell’acqua. Se il futuro sognato da Cross («I wants the future», grida a Gittes gettando la maschera) non è altro che il presente corrotto del Watergate, la catarsi dello spettatore è possibile. Da quest’ultimo Polanski ricerca l’indignazione; era dunque indispensabile non punire il cattivo e adottare i codici visivi e sonori del dramma, dilungandosi qualche secondo sulle grida spasmodiche dell’innocente Katherine, in una delle inquadrature più disperate: il sangue brilla nell’auto, risaltando sull’abito bianco della ragazza. Il registro stilistico è volutamente classico, nel tentativo di non duellare troppo con Towne: «Tutto quello che provavo per rendere più interessante l’aspetto visivo – ha confessato Polanski – andava contro la natura stessa della sceneggiatura, che funziona sul dialogo. Ho smesso questa ricerca senza oggetto e ho filmato la storia semplicemente e classicamente» (in P. A. Boutang, Polanski par Polanski, cit.). Dichiarazioni come questa ingannano più di quanto possano orientare. La preoccupazione principale fu quella di trasformare il racconto dalla terza alla prima persona, nella convinzione che tale forma di scrittura fosse responsabile dell’atmosfera in Hammet e in Chandler, favorendo l’immedesimazione 109

del lettore. Ma Gittes non dice esattamente «io», bensì «noi»: la camera di Alonzo, a spalla o sul carrello, lo segue ovunque senza mai sostituirsi al suo sguardo, come evidenziano le numerose false soggettive, analizzate recentemente anche da Silvio Alovisio (Chinatown, Lindau, Torino, 2002), con cui debuttano le sequenze relative alla detection iniziale, lungo una pista non a caso falsa. Secondo una soluzione più volte adottata in Cul de sac e in Macbeth, la panoramica verso destra, che segue l’auto nera di Mulwray nel bacino idrico, termina sul volto del voyeur, che ci consegna i suoi occhi solo all’interno di supporti quali il cannocchiale o lo specchietto retrovisore dell’auto: le soggettive sono unicamente stilistiche, quasi lo sguardo avesse bisogno di essere mediato per appartenerci. Nulla di nuovo. Polanski gioca a depistare lo spettatore facendo cominciare il film con una “fine” e deviando continuamente la focalizzazione, ma proprio ciò che ci sembra subito da scartare (un banale tradimento coniugale) contiene in nuce la tipologia dell’enigma: l’eros, un eros di cui i dettagli dell’immagine esaltano l’aspetto pulsionale, con quei corpi semivestiti, come mossi da un istinto impellente, e la natura per sfondo (fot. 71). Ciò che agli occhi di Gittes sfuggirà, anche di fronte all’evidenza, è FOT. 71 una scena primaria “come” questa, ovvero la violenza sessuale del padre di Evelyn. Nello studio dei collaboratori, durante la stesura del primo contratto, i raggi filtrati dalle veneziane creano una sorta di gabbia (fot. 72), secondo un’architettura luministica classica nel genere. Rispetto al modello di John Huston (Il Mistero del falco [The Maltese Falcon, 1941]), oltre allo scambio completo dei ruoli (è il detective che entra nell’ufficio e non la cliente), è interessante notare l’utilizzo del découpage in funFOT. 72 zione simbolica. La frontiera 110

tra lui e lei, attraversata in Huston, è qui solida, in quanto Polanski mantiene i personaggi separati in due inquadrature perfettamente simmetriche. Huston suggerisce la nascita di una passione che invece a Los Angeles nascerà solo nel secondo incontro, quello con la vera Mulwray, fin da subito unita nello stesso quadro. Questa inquadratura non fa che rafforzare il leitmotiv dello sguardo doppiato già analizzato in occasione di Repulsion (si pensi alla scena che vede il fidanzato sulla porta osservato dalla vicina); una situazione che infastidiva in precedenza la falsa Mulwray, desiderosa di parlare a quattr’occhi con Gittes, senza gli sguardi dei collaboratori. La prima giornata sulle tracce di Mulwray ricorda molto il pedinamento iniziale de La donna che visse due volte, anch’esso affidato al silenzio e terminato nell’acqua: Hitchcock per primo ha insegnato che osservare non significa vedere, ma perdersi. Il guardante e l’oggetto del suo desiderio si inseguono fino a unirsi una sola volta nella stessa inquadratura, proprio in uno dei momenti più intimi per la coppia e più umoristici per l’atmosfera. La ragazza getta le mani attorno al collo di Mulwray, per poi lasciarlo, forse sorpresa da un rumore sospetto sul tetto: Gittes rischia di cadere come più avanti capiterà al detective per caso di Frantic. L’indagine può terminare, ma il voyeur non sa che FOT. 73 quella sarà l’ultima immagine dell’uomo da vivo (fot. 73). L’importanza narrativa dell’evento è sottolineata dal fatto che vediamo la scena a tre livelli diversi: riflessa nella lente della macchina fotografica, osservata dall’istanza narrante assieme al detective e infine duplicata, in bianco e nero, sulla prima pagina di un giornale, aperto naturalmente da Gittes. Polanski non ha paura di contraddire le leggi dell’ottica. Sappiamo infatti che la realtà catturata dalla camera oscura si rovescia nella lente dell’obiettivo, mentre per nulla capovolti sono i corpi dei falsi (?) amanti. A questo proposito, nell’intervista allegata all’edizione Dvd del film, Polanski ha dichiarato che fu molto indeciso su quale soluzione adottare. Se optò per ciò che vediamo, lo fece per non mettere in difficoltà lo spettatore. «Oggi – ha affermato – farei il contrario, senza alcun dubbio». In realtà, una tale infrazione della verosimiglianza è perfetta all’interno di un’opera costruita sul tema e sulle forme del falso, offrendosi 111

come svelamento del dispositivo filmico mascherato dalla messa in scena di un altro dispositivo, quello della fotografia. Forse Gittes vede più nelle foto altrui, come quelle esposte nell’ufficio di Yelburton, che nelle proprie. Oltre a deformare le proporzioni, le lenti tradiscono, come nel caso di Cross, incastrato dai frammenti degli occhiali ritrovati sul fondo del laghetto. Quelli del marito avevano una focale diversa, Evelyn li riconosce subito. Attorno al tema dell’occhio “infranto” ruotano varie strutture oggettuali quali il fanale dell’auto e il cronometro sotto la ruota, ma basta un livido blu per cambiare completamente il registro del dramma. L’occhio pesto della moglie di Curly, che fissa minaccioso il suo voyeur aprendogli la porta, connota di humour uno dei momenti più tesi del finale, con il povero detective braccato dalla polizia. In fondo la vista, su cui ironizza anche il nome della casa di riposo affiliata a Cross (Vista Mar, ma ai vecchietti è oscurato tutto il resto), serve a ben poco, se la soluzione del giallo risiede nella composizione dell’acqua ritrovata nei polmoni del morto. Il mistero dell’acqua salata nel laghetto è sicuramente qualcosa di non-visibile. La morte stessa ha gli occhi sbarrati, aperti ma chiusi: si noti tale particolare sul pesce servito da Cross, sul cadavere di Hollis e su quello della falsa Mulwray. La fine di Evelyn invece è tutta racchiusa, per sineddoche, in uno struggente campo lungo sonoro. L’urlo del clacson oscura in parte le grida di Katherine, interrotto solo dal gesto del poliziotto che solleva il volto ormai ridotto a una maschera di sangue. Già in precedenza però, in compagnia di Gittes, il clacson aveva suonato, colpito dalla fronte della donna in un gesto di stizza. Non c’è tragedia senza presagio. Per sfuggire alle forze del male, gli eroi di Polanski seguono sempre una linea retta verso il fondo del quadro. Ma come il corridoio di Rosemary’s baby e i cunicoli di Per favore... non mordermi sul collo, la strada di Chinatown offre solo l’illusione della fuga. L’unica via d’uscita, quando esiste, è verticale (Che?, La caduta degli angeli). In Chinatown Polanski ci mostra raramente i soffitti preferendo piuttosto un’angolazione dall’alto verso il basso, come a voler schiacciare i FOT. 74 corpi contro la loro vertigine: 112

si pensi agli strapiombi sull’oceano o allo stesso finale, con il dolly che rende ancora più claustrofobico il paesaggio di Chinatown (fot. 74). Tra questi stilemi, la panoramica sugli amanti nella quiete del dopo riprende quelle già osservate nella camera di Rosemary e nel talamo di Macbeth, differenziandosi però per la direzione anomala del movimento, da destra (Gittes) verso sinistra, posizione occupata da Evelyn, personaggio in quel momento ancora oscuro e sinistro. Il piano sequenza restituisce la durata in una delle rare pause dell’azione, musicata dalle note nostalgiche di Goldsmith e costruita attorno ai vuoti delle risposte di Gittes circa il suo passato: i ruoli si invertono, ma non i rapporti di forza. Basta lo squillo di un telefono per rompere l’idillio e riattivare il ritmo del montaggio. Sospesa più di tutti è la piccola Katherine, che si presenta all’istanza narrante, in piedi sulla scala di casa, luogo instabile per eccellenza, simbolo della sua mostruosa doppiezza. Al di là di questo intervallo romantico, in altre occasioni Polanski sembra volutamente rallentare l’azione, inquinando il ritmo del genere con i tempi morti del reale. Si vedano i minuti “persi” dal detective nell’attesa di Yelburton, spesa osservando le fotografie. Determinante ai fini dell’organizzazione dello spazio è inoltre la combinazione del grandangolo con il formato Panavision, che sembra contraddire la stessa insistenza sui volti. Quando Gittes apprende la verità dell’incesto, non può fare altro che scagliare Evelyn contro il divano, relegandola fuori dal centro del quadro, in compagnia della sua ombra sul muro (fot. 75). Per la prima volta, i due non sono più uniti nella stessa inquadratura. Lo svelamento della verità è messo in scena come la perdita del centro, con lo spazio che affoga nel vuoto del non senso. Vuoto è anche il discorso della donna, pieno di buchi e di sottintesi che Gittes avrebbe dovuto capire molto prima. Il tic-tac iperrealistico di chissà quale orologio, udibile anche nella camera da letto, contrasta con il pathos del momento ma lascia emergere i silenzi, i sospiri e i singhiozzi, che cedono spazio al languore malinconico della musica di Goldsmith solo alla fine. Quando tutto è stato detto. Ma il vuoto più perturbante è forse quello che emerge nella variazione sulla figura del triangolo. Questa volta, in mezzo ai FOT. 75 113

profili dei personaggi, il nulla. Il triangolo mélo lui (Gittes) – lei (Evelyn) – l’altro (Cross) è spezzato in due spazi e tempi diversi. Quando il detective e la donna escono dal ristorante, in una delle scene preferite da Polanski (forse per l’ironia di Nicholson: «Al mio naso ci FOT. 76 tengo, mi piace respirare»), l’usciere è l’unico personaggio al centro del quadro, ma solo per qualche secondo (fot. 76). Evelyn rifiuta il passaggio di Gittes e manda il ragazzo a prendere la sua auto, lasciando che la luce soffusa di Los Angeles rischiari i loro volti. Una composizione identica organizza più avanti il dialogo notturno nel giardino. Il sistema dei personaggi non è chiuso nemmeno in occasione della confessione di Cross, nel giardino della villa. Gittes occupa ancora il lato sinistro del quadro, ma nessun testimone guarda la scena. Chinatown è fatto di anelli che non tengono, di geometrie spezzate come gli occhi. Nonostante il successo di pubblico e di critica, l’America dura solo il tempo di un film. Polanski fa presto le valigie per ritornare a Roma e buttarsi, assieme a Gérard Brach, in una commedia di cappa e spada con Jack Nicholson ancora protagonista (il futuro Pirati). Ma innumerevoli difficoltà produttive bloccano il progetto allo stadio iniziale e inducono a riprendere in mano un romanzo letto all’epoca di Repulsion e poi accantonato per evidenti analogie con il film del 1965: Le locataire chimérique di Roland Topor. Un nuovo capitolo della trilogia degli appartamenti sta per nascere. L’io e il suo doppio

Il fantasma dello specchio trascina fuori la mia carne e tutto l’invisibile del mio corpo può investire gli altri corpi che vedo. (Maurice Merleau-Ponty) Tra tutte, forse la lavorazione più rapida e meno faticosa: L’inquilino del terzo piano è scritto, diretto, montato in meno di otto mesi, in una Parigi triste e grigia vista con gli occhi di un immigrato polacco ai margini anche di se stesso. Sono gli anni in cui Roman riscopre la propria città natale e 114

decide di chiedere la cittadinanza francese, installandosi nei pressi degli Champs-Elysées. Gran parte del budget, assicurato da una coproduzione Paramount-Alain Sarde, è investito per la costruzione del vero protagonista del dramma, l’appartamento al terzo piano di rue des Pyrénées, teatro della vertigine. Penetrarvi significherà incontrare il fantasma dell’inquilina precedente, in coma all’ospedale come la misteriosa inquilina sostituita da Rosemary. Pierre Guffroy, già collaboratore di Buñuel, costruisce un edificio «abbastanza realista per essere abitato» (Roman, cit.), dove in realtà il terzo piano è una semplice illusione, in quanto l’altezza della facciata fu raddoppiata da uno specchio disteso per terra. Una scatola magica insomma, perfetta per una tragedia chimérique. Lo humour, che mina a più riprese la trama fantastica, gioca essenzialmente sul meccanismo comico dell’impotenza, presentandoci l’antieroe Trelkowski in una serie di situazioni goffe e ridicole: calpesta un escremento nei dintorni delle Halles in costruzione e rischia di farsi mordere dal cagnolino della portinaia. Nerissime invece sono certe battute nel finale, con la portinaia che rimpiange il vetro appena rifatto e il poliziotto infastidito dal déjà-vu, curioso di sapere se in quello stabile abbiano fatto l’abbonamento ai suicidi. Sullo sfondo resta la relazione amorosa con Stella, che avrebbe potuto apportare quel coté melodrammatico invece solo abbozzato. Singolare la simmetria con la coppia di Repulsion, identico il vettore normalità-follia (con l’amore che esce sconfitto da questo duello), simile la gag della testata: il tono cupo della stanza d’ospedale è felicemente perturbato dallo scontro buffo tra Stella e l’inquilino, chinati per raccogliere la frutta caduta sotto il letto (lo stesso avveniva tra Colin e Carol sul marciapiede del West End). Trelkowski è solo nel suo viaggio ai confini del proprio Io. Non riceve ragazze a casa, non si fida di nessuno, tanto meno di vicini come Melvyn Douglas (il padrone di casa) e Shelley Winters (hitchockiana portinaia). Hollywood resta sempre il giardino delle streghe. Monsieur Trelkowski, timido impiegato di origine polacca, visita un appartamento di tre stanze in un quartiere popolare di Parigi. Immutato è l’arredamento dell’inquilina precedente, Simone Choule, misteriosamente gettatasi dalla finestra qualche tempo prima. Trelkowski può ancora osservare la traccia del buco nel vetro sottostante. Recatosi all’ospedale per trovare Simone, vi incontra Stella, legata alla sfortunata ragazza da un’amicizia ambigua. Davanti a un film di Bruce Lee, tra i due nasce un’attrazione. La festa di inaugurazione dell’appartamento sancisce l’inizio di un difficile rapporto con i vicini, che si lamentano per il troppo rumore. Piano piano, l’os115

sessione di non disturbare si fa sempre più forte. Silenziose sono invece le visioni che lo attraggono alla finestra del cortile, con i corpi dei vicini immobili nel bagno, paralizzati come mummie. In intimità a casa di Stella, il povero inquilino si lascia travolgere da pensieri di morte. Tutti, compreso il barista dell’angolo, si comportano con lui come se fosse Simone. Trelkowski comincia ad avere strane allucinazioni, intravedendo la propria testa rimbalzare nel vuoto del cortile. Una volta convinto che anche Stella faccia parte del complotto, resta solo una cosa da fare: diventare Simone. Indossata una parrucca rossiccia, il nostro eroe si getta nel vuoto. Ma deve ripetere il gesto per poter occupare, completamente bendato, lo stesso letto in cui era morta Simone.

Nato per riempire il vuoto di Pirati, L’inquilino del terzo piano è forse l’opera più stratificata e “piena”, una sorta di raccolta di temi e stilemi già visti dove le ossessioni dell’autore si intrecciano con i gusti del Polanski spettatore. La ricetta vincente, che ha indotto la critica a infiniti accostamenti con Repulsion e Rosemary’s baby, è presto detta: un inquilino/a straniero/a con un rapporto bizzarro con il sesso, un appartamento, una crisi di schizofrenia. Si aggiunga la difficoltà, da parte dello spettatore, di stabilire con sicurezza se ciò che accade sia reale o frutto dell’immaginazione di una mente malata. Questi ingredienti di fiction sono mescolati con due attanti reali, quali Parigi e il corpo stesso del narratore, che porta al di là della cinepresa la sua voce e la sua “vera” condizione sociale: polacco da poco naturalizzato francese. Rispetto a Repulsion, dove pressoché nulle erano le relazioni di Carol con il mondo esterno, l’intrigo è dilatato nei caffè e in altri appartamenti, sfondo di un paesaggio in cui riecheggia il malessere del protagonista. Al di là di Stella, che incarna esattamente quella via d’uscita offerta dal ragazzo di Carol, tanti piccoli personaggi ingombrano la solitudine dell’eroe, che non si rinchiude mai definitivamente nelle sue mura. Accanto al guascone maschilista, il ragazzo che, maltrattando il proprio vicino, fa emergere la debolezza di Trelkowski, ecco l’amico omosessuale della defunta Simone, che offre all’inquilino il testo di Gautier dimenticato dalla ragazza, Il romanzo della mummia: questi personaggi simboleggiano due volti precisi della sessualità, che contrastano con quella informe dell’eroe. Ed è qui la prima innovazione rispetto al romanzo, parodia del fantastico firmata nel 1964 da Roland Topor, un altro polacco imbevuto di cultura surrealista e dotato di un discreto talento figurativo, celebre come vignettista umoristico, ma autore anche di alcuni cortometraggi di animazione, tra i quali spicca Les escargots (1965). Topor non ha apprezzato l’indebolimento della pista del complotto a favore della rappresentazione realistica della follia, che neppure Levin del resto 116

aveva privilegiato. Se al settimo piano del Bramford di Rosemary’s Baby aleggia il fantasma dell’incertezza, qui, come poi lo stesso Polanski ha ammesso, i fantasmi vengono incontro un po’ troppo bruscamente, presentandosi ben presto come tali: la lingua biforcuta della vicina e la testa che galleggia nell’aria (fot. 77) non lasciano dubbi sulla frattura della mente, soprattutto perché mostrati in soggettiva del protagonista. FOT. 77 È sufficiente allargare il campo con un nobody’s shot perché i mostri si dissolvano in vecchietti tanto innocui quanto invadenti (fot. 78), mostrati ancora una volta nell’atto di avanzare verso la macchina da presa (si pensi alla scena della “cattura” di Rosemary nella camera da letto). Artifici come la deformazione delle dimensioni dell’appartamento o l’emergere di mani dall’armadio non fanno più tremare il cinefilo, in quanto rimandi fin troppo espliciti all’universo allucinato di Repulsion. Perfino il giro di note sul piano ritorna nella visita all’appartamento. Qui come a Londra l’effetto di reale è affidato alla semisoggettiva, per cui noi osserviamo non solo il dilatarsi mostruoso delle pareti, dalla tortuosità vagamente espressionista, ma FOT. 78 anche l’espressione attonita di colui che dovrebbe essere l’unico soggetto di tale visione. Siamo sprofondati nella mente dell’eroe senza assumerne il punto di vista, il quale resta in ogni caso “esterno”: la soggettiva è solo una maschera dell’istanza narrante, che gioca a sdoppiare il proprio corpo davanti e dietro la cinepresa. Tutto il film è allora un’autoriflessione nel senso più letterale del termine, effettuata allo specchio dello schermo. Identica è la soluzione adottata per mostrarci il confronto di Trelkowski con il proprio doppio (fot. 79), spiato però da un luogo, la toilette, già in precedenza connotato come spazio dell’immaginario, la stanza proibita di tanti classici del fantastico, la porta da non aprire se non si vogliono incontrare i fantasmi (fot. 80). In questo caso si tratta del luogo destinato all’espulsione, alla liberazione delle pulsioni represse, all’«escrezione» (Bataille). Ma la vicina accusata di disturbare la quiete, quasi un secondo doppio del personaggio, sceglie i piane117

rottoli per defecare mentre l’amico di Trelkowski non trova di meglio che orinare nel lavandino: il confine tra il mondo omogeneo e quello eterogeneo è infranto. Nessun atto organico ci è mostrato nella toilette. Al contrario, i corpi dei vicini sembrano perdere la loro fisicità irrigidendosi in pose fantasmatiche identiche a quelle suggerite dalle due apparizioni FOT. 79 durante i titoli di testa. Questi si iscrivono nel paesaggio aereo, al contempo aperto e chiuso, del cortile dell’edificio, descritto da una louma onnisciente e infinitamente più mobile del voyeur de La finestra sul cortile: se Hitchock, all’inizio del film, parte dall’interno della finestra per ritornare subito dentro, dopo una breve panoramica, a mostrarci gli occhi chiusi del suo eroe, Polanski gira su se stesso, senza penetrare alcuno spazio. Dalla sagoma di un uomo, apparsa all’improvviso dietro la finestra chiusa, si passa ad un volto di donna dal sorriso ambiguo, mentre cupi accordi di oboe non lasciano presagire nulla di edificante. Il commento musicale di Philippe Sarde è preoccupato solo di accordare il proprio registro alle FOT. 80 apparizioni fantasmatiche; nel momento di passaggio tra le due figure femminili (la seconda indossa un abito nero simile a quello poi scelto da Trelkowski), anche le linee melodiche si interrompono, abbracciando il non-figurativo dell’immagine (il muro). Quando i fantasmi spariscono, tocca a una melodia orecchiabile, sempre in minore, musicare l’aleggiare della cinepresa sopra i comignoli: due minuti in piano sequenza, dall’inquilino fantasmatico a quello in carne e ossa, per non andare da nessuna parte e dirci che sarà un film a due voci, a due sessi. Un movimento di macchina molto simile a quello dell’incipit hitchockiano ci introdurrà invece nel cortile-teatro durante l’incubo finale, una volta che il braccio snodabile della macchina da presa avrà varcato le tende svolazzanti della finestra, stilema ben noto a Hollywood come metafora della labilità del personaggio, da Hitchcock (L’ombra del dubbio) a Billy Wilder (Giorni perduti [The Lost Week-end, 1945). 118

In accordo con i codici del fantastico, il fantasma è colui che è lì da sempre, che non ha bisogno di attraversare lo spazio per possederlo: si pensi alla presentazione di Mrs. Danvers in Rebecca, comparsa dal nulla davanti a Joan Fontaine e raggelata da un’angolazione frontale che la rende eterea, consegnandola fin da quel momento al regno dell’Altro. Il titolo del film rinvia a Il pensionante (The Lodger, 1927), dove l’eventuale omaggio tradisce il piacere di graffiare i codici. Se la doppia vita dell’inquilino di Hitchcock si risolve in un happy-end politicamente corretto (il matrimonio), l’io di Trelkowski è frantumato per sempre assieme ai valori della diversità: l’omosessuale e lo straniero appaiono vittime di una società intollerante (cfr. Katarzyna Marciniak, Cinematic Exile, «Camera Obscura», n. 43, 2000, Duke University Press). Simone Choule ha stregato le mura con la sua anima, e i vicini, assieme ai servitori (il bistrot di rue de Pyrénées è una sorta di aggiornamento della servitù di Manderley), non possono che forzare il processo di confusione delle due identità. Oltre all’aspetto fisico, anche i sensi sono coinvolti. Ecco allora che la cioccolata calda comincia a sostituire il caffè nella colazione di Trelkowski, cosi come le Marlboro rimpiazzano presto le Gauloises. Perché «Mademoiselle Choule fumava solo Marlboro». Chi vive due volte tende a farsi cogliere dalla vertigine. Non sorprendono quindi i suicidi riusciti di Rebecca e Simone e quelli tentati dai rispettivi sosia, portati a termine forse dal trino inquilino, maschera sopra la maschera. Più che a Carol, la parrucca posticcia di Trelkowski rinvia in modo irriverente alla Madeleine di Vertigo, a cui del resto solo un accurato travestimento garantisce il potere fantasmatico della duplicazione. La doppia caduta dal terzo piano sembra parodiare il destino della creatura hitchockiana, anch’ella obbligata a gettarsi due volte per morire definitivamente. Il racconto è puntellato di buchi scavati da un sapiente utilizzo dei raccordi di sguardo, spesso negati mediante ellissi inquietanti tra una sequenza e l’altra. Si pensi alla scena della ricerca della spazzatura persa sulle scale (mai ritrovata), conclusa con un primo piano del personaggio, aperto su di un fuori campo che resterà misterioso; il quadro successivo ci mostra i colleghi nell’ufficio. Paradossalmente, per diventare Simone sarebbe bastato molto meno al già femminile inquilino, che invece, carico di rossetto e di smalto rosso, sembra voler raggiungere quel femminino ideale mai posseduto nemmeno da Simone. In questo senso, non trascurabile è la lettura di Vittorio Giacci («Cineforum», n. 163, 1977), che vede nella via crucis dell’eroe la ricerca dell’espiazione dal 119

senso di colpa per la morte di Simone, come se la sua entrata nell’appartamento fosse stato il colpo di grazia per la ragazza. Ritornando alla sequenza della toilette, è interessante rilevare una curiosa variazione sul tema del doppio. A differenza di predecessori più illustri, come lo studente di Praga (Der Student von Prag, di Stellan Rye, 1917) o William Wilson (il cortometraggio omonimo di Louis Malle tratto da Poe nel 1967), Trelkowski non fa nulla per uccidere il sosia, quasi non lo avvertisse nemmeno come un antagonista. Anzi, l’io fuori da sé è l’unica garanzia di un’identità sessuale che nemmeno le carezze di Stella riescono a rafforzare, in una serata dove un monologo disperato, firmato Topor, sostituisce il dialogo dei corpi. «Se mi taglio un braccio, posso dire io e il mio braccio?»: il corpo non è più il luogo dell’identità, ma del molteplice. Come confermano il dente ritrovato nel buco del muro e le mani che, alla vista di un’innocua vicina, si stringono contro il proprio collo. Quanto al tema dell’egittologia, assente nel romanzo, sembra un espediente fin troppo didascalico, utile a rafforzare l’atmosfera di ambiguità che già emana dal plot. La cartolina raffigurante un sarcofago femminile indirizzata a Simone ma consegnata all’uomo, il Romanzo della Mummia di Gautier inquadrato per un istante, i geroglifici stampati nella toilette, i busti egiziani in casa e le stesse bendature all’ospedale rinviano al mito della mummia come stadio intermedio tra la vita e la morte, ma anche, come ha osservato Evelyne Caron-Lowins («Positif», n. 185, 1976) all’ambiguità androgina di Osiride. Il dente perso da Simone e offerto alla penetrazione dello zoom iniziale sarebbe allora il sostituto del fallo amputato al dio egizio dal fratello Seth. Una volta privato dell’incisivo superiore (durante la notte, quando Nancy perde i jeans), Trelkowski precipita rapidamente in un altro da sé che lo condurrà a infrangere un’altra dentatura; quella, appena ricostruita, della vetrata del cortile. Lo spazio, in questo senso, è un prolungamento ideale del corpo. Abbandonati al loro destino, gli oggetti di Simone parlano con quelli dell’inquilino, intrappolato dalle linee diagonali create dai due specchi agli angoli della camera: armadio

toilette

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Trelkowski non ha scampo, immerso nel visibile in una camera che Topor descrive come un «elastico teso»: «come un sarcofago lo avvolgeva, gli schiacciava la nuca, gli stringeva la testa, gli stritolava il petto» (L’inquilino stregato, Interno Giallo, Milano, 1976). Per non vedere il proprio doppio sullo specchio non basta voltare lo sguardo a sinistra. Perché presto anche la toilette è invasa dall’Altro, incarnato da una misteriosa donna che si toglie le bende senza smettere di fissare il suo voyeur (Simone?). Come il vedente di MerleauPonty, il nostro eroe non possiede ciò che vede, ma gli sta “accanto”; le cose allora sono «un suo annesso, sono incrostate nella sua carne, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo (L’occhio e lo spirito, [1964], SE, 1989). Ciò è evidente nel finto campo vuoto che assimila il corpo dell’inquilino alle tonalità spente dell’arredamento (vedi analisi nel capitolo su Cul de sac). La disposizione degli oggetti è precisa come nell’appartamento di Il delitto perfetto (M for Murder, 1953, di Alfred Hitchcock); spostare qualcosa vorrebbe dire modificare lo sviluppo del dramma. L’armadio è situato di fronte alla porta d’ingresso, come accadeva in Rosemary’s Baby. Per imprimere la propria ombra nello spazio altrui, l’inquilino colloca il mobile (ma tale atto non ci è mostrato, come se gli oggetti vivessero di vita propria) in posizione perfettamente speculare alla finestra, quasi a voler lasciare a quest’ultimo il compito di assorbire gli sguardi delle mummie. La deriva ormai è vicina. Dietro l’armadio è visibile un foro nel muro, l’ennesimo occhio. Tragico presagio è l’incidente d’auto di cui egli è vittima (anche Rosemary e Carol avevano rischiato di farsi investire) nella stessa via percorsa all’inizio assieme a Stella: troppo impegnato a guardare dentro. Pregevole come sempre, infine, la costruzione del tessuto sonoro. Al pari del corpo, anche l’ambiente ha le sue pulsazioni vitali. Oltre all’ossessivo pianoforte che riecheggia nella tromba delle scale, trasformata in una spirale dall’angolazione della cinepresa (fot. 81), si ascoltino l’interminabile tic-tac della goccia acusmatica nella cucina, presente fin dal primo giorno, e i battiti regolari delle scavatrici nel cantiere delle Halles, attraversato con Stella. Un’altra voragine a cielo aperto, raddoppiamento del buco lasciato dalla caduta di Simone. Questa sinfonia di rumori urbani, scricchiolii condominiali e suoni immaginari, uditi FOT. 81 121

solo dai vicini, è incorniciata dalle urla lanciate dai due (?) corpi mummificati in un letto d’ospedale. L’urlo è uno spazio sconnesso, ai confini del linguaggio, né rumore né voce. Una linea retta, equivalente sonora del tragitto della caduta. Osservata in soggettiva dal moribondo, non-morto al pari della mummia o del vampiro, la gag delle arance si ripete. Ma non allo stesso modo, come suggeriva il filosofo di Che?. Il taglio di angolazione è diverso, meno ravvicinato. Idem per l’illuminazione (ora glaciale) e il punto di vista, allora affidato all’istanza narrante, mentre il découpage non segmenta più l’azione, lasciando fuori campo il dettaglio della frutta caduta. Anche il colore delle voci non è più lo stesso. Le parole di Stella risuonano quasi metalliche nello spazio angusto della sala, di cui ben visibile è ora il soffitto incombente. Le marche stilistiche dell’incubo aiutano anche lo spettatore meno attento. Nel film forse più ricco di soggettive, l’ultima focalizzazione interna appare dunque al contempo visiva e sonora. Movimento immobile, simmetrico a quello che conclude Repulsion, lo zoom in avanti non fa che riprodurre sul piano spaziale quella deformazione disegnata dal grido sul tessuto sonoro. Se il primo urlo si frammentava, come un’onda, in una serie di grida ripetute che allarmavano anche gli infermieri, questo divora lo schermo senza perdere ritmo e intensità: un continuum di terrore oltre la finzione. Condizionata da una recensione negativa pubblicata in anteprima su «L’Express», la risposta del pubblico di Cannes fu piuttosto fredda e l’accoglienza della stampa francese non certo tenera. Non piacquero né la Adjani imbruttita né le strizzatine d’occhio alle opere precedenti. Rivisto oggi, Le locataire appare un esercizio di stile ben fatto ma non immune da certi tocchi di maniera, che anticipano parte della produzione degli anni Novanta. Passeranno tre anni, divisi tra la seconda regia lirica (Rigoletto al Festival di Monaco), l’infatuazione per Nastassia Kinski e i quaranta giorni in cella americana (sospetta violenza su di una minorenne), prima di poter rivedere Polanski sul set. E non saranno più le pareti anguste di un appartamento ad accoglierlo, ma gli orizzonti sconfinati della campagna inglese. Maiden no more

A Sharon, a dieci anni dalla scomparsa, è dedicato un sontuoso affresco d’epoca, che segna il ritorno di Polanski alle atmosfere mélo di La caduta degli angeli, alleggerite del gusto barocco per gli artifici di montaggio. Come allora, l’amore 122

si offre come attesa e perdita: fugge non appena raggiunto, in balìa della fortuna. Il caso, che aveva permesso al proiettile di varcare il muro dove si trovavano due soldati, ora incrocia il cammino di un prete con quello di un alcolizzato sotto gli ultimi raggi del sole; la scoperta di un’origine nobile trascina la giovane Tess in una spirale di solitudine e di morte. L’ironia del destino, assieme all’esito tragico, sono gli ingredienti del testo che più affascinano il cineasta. Da Claude Berri Polanski ottiene i cinquanta milioni di franchi necessari per ricostruire, ancora con Pierre Guffroy, l’atmosfera d’epoca ed estendere la lavorazione in nove mesi, assecondando così il ritmo delle stagioni importantissimo nel romanzo di Thomas Hardy. Perfetta, per il ruolo di Tess, la scelta della quasi diciottenne Nastassia Kinsky: sei mesi a Los Angeles con Lee Strasberg ne avevano colmato le ultime lacune. Nessuno meglio di lei poteva incarnare quella «bocca espressiva, di una tinta peonia, e quei grandi occhi innocenti» descritti da Hardy (Tess dei d’Urberville [1891], Mondadori, 1979). I tramonti del Dorset, ricostruito in Francia (Normandia per l’inverno e Bretagna per l’estate), sono affidati alla lente di Geoffrey Unsworth, già operatore di Kubrick per 2001: Odissea nello spazio, scomparso tragicamente durante la lavorazione. Circa ottanta le diverse location, massimo il rigore filologico. Per ottenere il paesaggio inglese non è sufficiente togliere i segni del moderno: con l’aiuto di specchi si allargano le dimensioni degli ambienti (è il caso della latteria) al fine di tradurre le percezioni visive della protagonista. Minime sono le infedeltà nei confronti del romanzo, corrispondenti perlopiù a esigenze di messa in scena, finalizzate alla verosimiglianza. Il desiderio di confessare ad Angel il passato peccaminoso è espresso nel film anche sul calesse che porta Tess in chiesa, superato di corsa dal cavallo del ragazzo. Lo spazio e il tempo intervengono nel tessuto narrativo a ostacolare il progetto della promessa sposa, che invece Hardy colloca sulla soglia della casa, senza nessun impedimento “esterno”. Il silenzio sulla colpa è dunque ora, in un certo senso, più verosimile. Dorset, 1891. Una sera di maggio, il signor Durbeyfield, umile rigattiere del villaggio di Marlott, incontra il parroco del villaggio che lo informa di una recente scoperta: i Durbeyfield sono discendenti del nobile casato d’Urberville, ormai estinto, con l’eccezione di una ricca signora che vive nella contea di Trantridge. Affascinati da sogni di ricchezza e spinti da forti necessità economiche, i Durbeyfield convincono la loro figlia maggiore, Tess, a presentarsi da quella signora per chiedere un lavoro: le viene offerto di badare al pollaio. Ma Tess scopre ben presto di essere oggetto delle attenzioni di Alec, l’unico erede di una famiglia, gli Stoke, che ha usurpato il nome 123

d’Urberville. L’uomo seduce la ragazza, che dopo aver ceduto alle sue voglie decide di partire, portando dentro di sé il frutto della colpa. Ma al bambino il destino concede solo pochi mesi di vita. Prima di morire, il piccolo viene battezzato Dolore dalla madre, costretta a seppellirlo al buio, al riparo dall’infamia della comunità. Tess sente il bisogno di cambiare aria. La Valle delle Grandi Cascine sembra essere l’occasione ideale. Nella fattoria nasce l’amore con Angel, figlio ribelle di un vicario, educato secondo principi inconciliabili con il passato peccaminoso della giovane. Tess cerca più volte di rivelare la verità, senza riuscirci. Il matrimonio naufraga subito, Tess è ripudiata non appena confessata la sua colpa. Angel emigra in Brasile senza dare notizie di sé. L’ombra di Alec si rifà viva e terrorizza Tess, che nel frattempo ha trovato un altro umile lavoro in un campo di rape. Al suo ritorno, Angel cerca Tess, ma la trova imborghesita in una villa sul mare, soggiogata dal maligno Alec con il ricatto: il suo corpo in cambio dell’aiuto alla famiglia, caduta in disgrazia. Tess uccide Alec con un coltello e scappa nell’ultima fuga d’amore. Cinque giorni d’idillio la separano da un destino stoicamente accettato. Nessuna reazione quando le guardie la sorprendono, addormentata, nella penombra di Stonehenge. «Tess d’Urberville fu impiccata nella città di Witoncester, un tempo capitale del Wessex».

In un’epoca in cui la messa in scena dell’orrore ubbidisce alle leggi dello spettacolo, Tess è un rivoluzionario salto all’indietro: il piacere di raccontare, nascosto nelle maglie di una narrazione “classica”, una tragedia lontana e moderna. Sotto il cliché del triangolo amoroso, il perbenismo ottuso della società vittoriana incarna un nemico contro cui Polanski lotta da sempre, ovvero la soppressione della libertà in nome di un dogma, la subordinazione del principio del piacere ai codici della morale. Solo la sconfitta dell’eroe tragico può scatenare la catarsi nello spettatore, il quale, come ha detto Polanski, deve ribellarsi al posto suo, non deve sottomettersi. Ciò che sorprese negativamente la critica, in particolare quella francese (famosa è la querelle tra i «Cahiers du cinéma», a favore, e «Le Nouvel Observateur», contro), fu l’indubbio lavoro di edulcorazione dell’apparato drammatico di Hardy, da cui scompaiono tutti i momenti più “polanskiani”: quando lo spettacolo della morte o della paura accelerano l’iniziazione di Tess. La scena dell’incidente del cavallo presente nel romanzo, ad esempio, oltre a inaugurare le peripezie sotto il segno della colpa, assicurava un fortissimo simbolismo plastico nel dettaglio degli schizzi di sangue che lordano il vestito e persino il volto della fanciulla, all’epoca ancora maiden (cfr. Pascal Bonitzer, «Cahiers du Cinéma», n. 306, 1979). Come non vedere, in quella «mano appoggiata contro lo squarcio» e in quella «linfa vitale che sgorgava a fiotti», il presagio della violenza di Alec (il grado massimo della colpa)? 124

La scrittura di Hardy si organizza attorno a una struttura musicale fatta di echi e rifrazioni rispetto allo sguardo dell’eroina, per cui l’impressione di vastità “sublime” offerta dalla Valle del Froom, difficile da abbracciare con lo sguardo, prefigura l’esperienza di perdita che in quel luogo avverrà, ovvero l’innamoramento. Tutto il destino è scritto nel libro della natura, e Tess ne conosce il linguaggio. Nessun accenno nel film nemmeno all’episodio del sonnambulismo di Angel (altro presagio di morte), né a quello dell’agonia dei fagiani feriti, descritto da Hardy con un singolare effetto “audiovisivo”, un rumore acusmatico svelato solo alle prime luci dell’alba, ricco di spunti per una messa in scena. Oltre alle macchie di sangue (l’unica che vediamo allude per sineddoche alla morte di Alec), Polanski toglie alla protagonista anche il suo nome fantasma per presentarcela semplicemente come Tess. Il peso narrativo dei membri della famiglia Durbeyfield è notevolmente ridotto, a cominciare, come ha notato Avron, dalla figura di Liza-Lou, in origine doppio della protagonista, pronta nel finale a continuare il cammino di Tess accanto ad Angel, mano nella mano. Nel film invece nulla ricomincia. Nessuna possibilità di tempo bloccato, nessuna apertura alla ripetizione: Tess è una linea obliqua che dal passato si riaffaccia davanti ai nostri occhi, ma solo il tempo di una notte. Quasi tutti gli esterni ci collocano nel mezzo di una FOT. 82 strada bianca, aperta sul fondo da una nebbia opaca che rende evanescente l’orizzonte. Dal tramonto, con il gruppo di ragazze che avanzano verso la macchina da presa, all’alba, quando altri corpi, raffreddati da una luce incerta, si allontanano verso il fondo del quadro lungo una diagonale simmetrica a quella della prima inquadratura (fot. 82), tale però da non congiungersi con essa in nessun punto (fot. 83). Per certi versi simile era l’organizzazione dello spazio attorno ai fantasmi di Barry Lyndon, evocati all’interno di paesaggi non modificabili dall’azione: si pensi al momento della separazione tra Barry e la cugina, a passeggio in un quadro indipendente dai movi- FOT. 83 125

menti dei corpi. Sia Kubrick sia Polanski rinunciano a penetrare la superficie dello spazio pittorico lasciando che sia il personaggio a farlo, avvicinandosi o allontanandosi dal punto di vista. Il quale è qui prevalentemente esterno, con l’istanza narrante pronta ad anticipare i passi della ragazza e a guardarla camminare verso un orizzonte chiuso al di qua della macchina da presa, senza mai consegnarci quelle visioni dell’orizzonte così frequenti nel modello (la Tess di Hardy se ne sta delle ore a guardare la valle dalla finestra). Non sorprendono le finte soggettive di Tess, come la panoramica che ci introduce nella stalla di Mr. Crick e termina sulla ragazza, o l’immagine della caccia alla volpe nella nebbia, sporcata dall’entrata in campo del soggetto dello sguardo. L’occhio della cinepresa è meno onnisciente di Hardy. Non riesce ad esempio a captare quell’a parte rivelatore di Alec, una volta che Tess ha lasciato Trantridge: «Che bel bocconcino, quella ragazza!» (frase poi messa in bocca a un marinaio di Pirati). La sceneggiatura conserva l’ambiguità del personaggio. Rare le prospettive aeree. Perché, a differenza di Hardy, Polanski non apre i fili della fabula con la voce over. Per restituire al meglio l’atmosfera, scende e filma tutto ad altezza “uomo”, cercando di cogliere le risonanze segrete dei gesti senza insistere su di essi con la segmentazione del découpage, offrendosi come una sorta di testimone interno. Esemplare è l’incipit, con la cinepresa attratta dal corteo bianco: per seguire le fanciulle si imbatte nel signor Durbeyfield (anch’egli distratto da quel dolce passare); lo incrocia così come l’uomo incrocia il tragitto del parroco. Il racconto nasce dunque per caso, originato dallo sguardo di un flâneur annoiato nel silenzio della campagna, rotto solo dalle voci che crescono di intensità mano a mano che i corpi si avvicinano, conferendo al quadro un volume. In nuce, la pulsione che fa scattare il tutto è il desiderio, quello stesso desiderio a cui Alec non saprà resistere. Fin dall’inizio, i corpi sono immersi nel fluire del tempo, come dimostra la sequenza del ballo, suddivisa in due momenti bagnati da luci diverse. Nelle prime due inquadrature riservate al gruppo, i raggi del sole accarezzano i capelli delle ragazze facendoli quasi brillare; visibili sono le ombre sul terreno (fot. 84). L’arrivo dei tre giovani interrompe le danze quel FOT. 84 tanto che basta per permettere al sole di 126

scendere e addolcire con sfumature rosse i contorni dei volti. Su tutti emerge quello di Tess, isolato nella parte sinistra di un’inquadratura che è al contempo il paesaggio di un volto e il volto di un paesaggio (fot. 85). Al centro, il tramonto confonde i contorni di un orizzonte impalpabile, uno spazio vuoto equilibrato tra terra e cielo. Tess è fin da subito icona della caducità delle cose, emblema della fine. Perso in un fuoricampo inte- FOT. 85 riore, il suo volto sembra esprimere qualcosa di più ottuso rispetto al «lievissimo rimprovero» suggerito da Hardy. La bocca socchiusa, i grandi occhi aperti e quei capelli che, mossi dal vento, scivolano sulle spalle, ci riportano alle atmosfere trasognanti della pittura preraffaellita (come Polanski, un’estetica del dettaglio), e in particolare alle donne estatiche dell’ultimo Dante Gabriel Rossetti. Pensiamo a Venus Verticordia (1864-66, fot. 86), dove i fiori e i frutti si stemperano in una dominante rossa, calda come la luce che avvolge Tess. I fiori con cui Alec agghinderà di lí a poco la sua preda, tale un «raggio rosso-sangue nello spettro solare della sua vita» (Hardy), non fanno altro che confermare il modello, uno tra i tanti riferimenti pittorici a cui Polanski ci ha abituato: mai esibizione fine a se stessa, sempre supporto per il dato realistico e l’atmosfera. Intrisa di un vapore stilnovista, la luce di Rossetti è la luce della reazione contro il modernismo, tipica di quella stessa società vittoriana che non perdona la colpa FOT. 86 di Tess: perfetta corrispondenza tra materia e forma. Ci sono anche affinità elettive. Come Polanski, la Tess di Hardy ama quell’«ora magica in cui la luce e l’oscurità stanno in un tale equilibrio che [...] la disgrazia di essere vivi si attenua». Ripensiamo all’alba di Cul de sac, a certi esterni di Macbeth o ad alcuni quadri del ballo di Tess e confrontiamone il tessuto luministico con le ricerche sulla densità della luce nei paesaggi preraffaelliti (Holman Hunt su tutti): la luce non si scioglie sui corpi, ma si fa colore esaltando ogni singolo oggetto. Solo una tale iconografia poteva dare un volto a un personaggio che è già terribilmente simbolista, capace di assumere più volti, dall’apparenza «spettrale» a quella di «gattina scaldata al 127

sole», il cui «passo silenzioso diventava tutt’uno con lo spazio dentro il quale si muoveva» (Hardy). Uno spazio che Polanski esalta in quadri in cui il corpo di Tess è spesso fuori centro, immerso nelle ombre della sera. Nel momento che precede la decisione di partire a Trantridge, la discussione familiare è interrotta da un esterno crepuscolare, un’inquadratura celibe che fa di Tess l’allegoria della malinconia. In controluce, la fanciulla cammina a testa bassa nel prato, qualche filo d’erba nelle dita, per poi quasi uscire dal campo verso destra e lasciarci contemplare l’armonia del paesaggio, assicurata dalle fronde degli alberi che riprendono l’effetto-cornice dei cespugli in primo piano (fot. 87). L’immagine si offre nella sua messa in quadro, indice del limen doloroso che attende la protagonista. I fiati di Philippe Sarde (che ha collaborato anche all’estenuante fase del montaggio) non fanno che rafforzare il lirismo bucolico, ripreso poi poco prima della morte del bambino, quando Tess attraversa una pianura minacciata da nuvole gonfie e scure che già annunciano il dramma. E lo fa, ovviamente, da destra verso sinistra. Al crescendo emotivo degli archi è invece affidata la rappresentazione del grande viale alberato che accoglie la protagonista a casa d’Urberville, gli occhi sollevati verso l’alto in una soggettiva comunque ambigua, in quanto non raccordata sul suo sguardo. La musica dura esattamente il tempo impiegato per FOT. 87 raggiungere la villa, ovvero la fase in cui Tess non vede, ma immagina. Il destino troppo grande è tutto in quei campi lunghissimi e verdi che confondono la fanciulla tra le strisce di luce distese sulla ghiaia. Nell’adesione al contesto romantico, Sarde si conferma figurativo: il tema di Alec, che commenta anche lo stupro, sarà poi ripreso nel momento dell’assassinio di quest’ultimo, prima di lasciare spazio al tema d’amore di Angel (la notte nella casa abbandonata), affidato al respiro di tutta l’orchestra. I campi vuoti sono rari, a Polanski interessa mostrare il “farsi” vuoto o pieno del quadro. Frequente è però lo svuotamento del centro e il rifiuto del campo-controcampo nei momenti patetici dei duetti. Se l’incontro con Alec, che avanza verso Tess dal fondo del quadro, è organizzato secondo una sintassi classica che separa in due spazi contigui gli interlocutori (il contatto è assicurato dalla fragola che scivola nella bocca di lei), la confessione della colpa 128

ad Angel avviene con i personaggi riuniti nello stesso quadro ma isolati da una variazione della messa a fuoco che separa i due gesti: parlare e ascoltare. Manca l’aria nella casa; non a caso Angel, dopo aver ascoltato le parole della moglie, esce per respirare. L’assenza di montaggio soffoca la comunicazione e unisce per sempre il destino dei due amanti. Quando Angel tornerà da Tess, nella villa di Sandbourne, ella resterà immobile FOT. 88 sulla scala, sospesa tra l’amore e la morte, tra l’odio e il rimpianto, in un quadro speculare al precedente (fot. 88). Diverse sono la posizione dei personaggi (adesso Angel è a sinistra e Tess a destra) e la direzione degli sguardi, ora incrociati. Si tratta di un’invenzione scenica originale, ispirata forse ai cliché del mélo classico. Hardy invece ambienta il tutto sull’uscio, senza nessun simbolismo geometrico. Una sensazione di “freddo” emana dal ritmo del racconto. I fatti sono esposti e assemblati per mezzo di un montaggio asettico, attento a uniformare la durata di ciascuna sequenza, interrotta spesso al culmine del pathos, come a voler impedire che esso debordi. Gli attacchi sono quasi sempre silenziosi, aperti solo alla voce della natura. Si pensi alla scena della preghiera per la salvezza del figlio, con il bambino mostrato solo qualche secondo, in figura intera, prima che uno stacco ci trasporti in un altro spazio; nessuna lacrima, nessun particolare dei volti. Puntuale è il raffreddamento di una possibile scena madre, ovvero il tanto atteso primo bacio tra Angel e Tess intenti alla mungitura: sostituendo un possibile climax musicale, il muggito della vacca rompe l’idillio. Il buio protegge dal patetico, come attestano le numerose scene alla luce della luna, dalla violenza di Alec alla sepoltura del bambino, con quella cinepresa pudica che si avvicina alla tomba per inquadrare il fiore bianco che Tess non riesce a raddrizzare all’interno del vaso. Anche la luce nasconde: in occasione della scoperta della lettera non letta sotto il tappeto, il volto di Tess è divorato per qualche secondo da un’accecante luce bianca che, paradossalmente, “spegne” ogni illusione d’amore. Il classicismo dell’operazione trapela anche dal lavoro sul colore. L’incupirsi dell’itinerario tragico è evidente nel passaggio dai toni bianchi e gialli dell’inizio a quelli verdi e blu scuri che avvolgono l’atmosfera di Stonehenge, 129

quando Tess porta ormai su di sé le tracce di Thanatos. Hardy non aiuta, ma il vestito scelto per la fuga d’amore non poteva essere che rosso, un rosso cupo, vellutato, senza vita. Scuro come quello del sangue che cola dal soffitto della villa dopo l’uccisione di Alec, in una sequenza dove si avverte tutta la padronanza del tessuto sonoro, costruito attorno al ritmo monotono della cesoia del giardiniere. Gli echi dei gabbiani, i passi di Angel sulle scale, i sospiri di Tess, il rintocco delle posate sulla porcellana sono per un attimo coperti dalle note di Sarde, che commentano ciò che nemmeno Hardy descrive: l’ellissi è colmata dall’immagine di Angel alla stazione. Singolare è l’effetto audiovisivo creato dalla sovrapposizione del suono della cesoia (un rumore banale, quotidiano) sull’immagine della macchia di sangue, dotata allora di chissà quale potere fantasmatico. Intanto Tess è già lontana, confusa nel buio dei boschi e poi avvolta nella penombra della casa abbandonata, dove il riposo sa già di morte. Il disegno sulla vetrata che sostituisce, al mattino, i corpi nudi, rimanda ai paesaggi assolati della giovinezza come a un tempo perduto per sempre. Per la prima volta, in un paesaggio naturale Tess occupa il centro dell’inquadratura, prima di addormentarsi sulla pietra, rovina tra le rovine (fot. 89). Polanski e Guffroy trasformano Stonehenge in un altare perfetto per il sacrificio, a cui nemmeno il sole che sorge, nell’ultimo campo vuoto, riesce a togliere l’aura barbarica. Come racconta Roman, l’ostinazione nel non voler levare un solo minuto dei 165 usciti da un mese di montaggio portò Claude Berri quasi al fallimento, visto che nemmeno in Francia il film fece registrare un enorme successo di pubblico, almeno non subito. Quando i consensi arrivarono, Polanski era ormai stanco, sfinito dallo stress, deluso dall’offerta di Coppola: il film sarebbe stato distribuito negli Usa a patto che venissero apportati consistenti tagli e aggiunti primi piani di Nastassia Kinski. Nulla da fare; Coppola avrà Nastassia tutta per sé in Un sogno lungo un giorno (One from the Heart, 1981). Non c’era bisogno di rimettersi al lavoro per dimostrare qualcosa. Era tempo di ritornare alle antiche passioni, come il teatro (Amadeus), per poi spingersi anche più indietro, dove i ricordi si fanno meno nitidi e la FOT. 89 vita si confonde con la finzione (Roman). 130

La materia del significante

Dopo sette anni di silenzio, il nome di “Roman Polanski” brilla rosso sullo sfondo di una bandiera nera. Grazie ai dollari di un magnate tunisino, Tarak Ben Ammar, l’antico progetto cappa e spada, risalente al 1975 ma naufragato in mille vicissitudini, prende finalmente corpo. La trasparenza luciferina di Jack Nicholson è sostituita dal segno caricaturale di Walter Matthau (l’accumulo invece della riduzione mimica), mentre l’altro polo della nuova coppia è incarnato dal non-professionista Cris Campion. Entrambi aderiscono perfettamente ai bozzetti disegnati nel dettagliatissimo story-board, ricco di facce che sembrano uscire direttamente dalla fantasia di Stevenson. Pirati nasce nella mente di Brach come un’associazione di immagini che vanno dal profilo del galeone alla lucentezza dell’oro, contaminate dall’ossessione di Polanski per un abito rosso (da qui Capitan Red) visto chissà dove durante la prima stesura della sceneggiatura, un lavoro che si protrarrà per ben otto mesi. Alla fine, a gran parte della critica risulterà più appassionante la preparazione del film che la storia stessa, dove la leggerezza dell’intrigo contrasta con la pesantezza di una messa in scena in cui tutto è perfettamente controllato e visibile, in ogni angolo dell’immagine; non resta nulla di avventuroso nel gesto di Polanski, che pur ha dovuto lottare contro il vento a forza dieci nel mare di Tunisia. Forte era la voglia di rispolverare un genere, il film d’avventura, agonizzante a metà degli anni Settanta ma rinato al momento dell’uscita del film, dopo che Hollywood aveva rivitalizzato archetipi quali l’arca perduta (I predatori dell’arca perduta [Riders of the Lost Ark, 1981] di Steven Spielberg) e la selva oscura (All’inseguimento della pietra verde [Romancing the Stone, 1984] di Robert Zemeckis). Il meccanismo narrativo è rovesciato: nessuna ricerca, qui si tratta di conservare ciò che si è trovato per caso (il trono d’oro). Il mito dell’ignoto è finito, gli eroi portano i segni del tempo sul corpo. Non c’è più nulla da cercare nei mari del postmoderno. Michael Curtiz (Capitan Blood [Captain Blood, 1935]) era il modello da stravolgere con la caricatura: Errol Flynn appare invecchiato male nella maschera di Red, che tradisce la ridicolizzazione dell’epos allo scheletro del significante (dal sangue, blood, al rosso). L’esibizione di un apparato scenico grandioso, fatto di Dolby Stereo e Panavision, fa pensare, dopo Chinatown, a un altro omaggio al cinema che fu, visto con gli occhi degli anni Ottanta. 131

Come sempre, gli autori divorano ogni tipo di fonte utile per ricostruire l’atmosfera, dai racconti picareschi all’Isola del tesoro, per poi filtrare il tutto nel solito humour grottesco. Il ratto morto nel piatto, sezionato con cura dal pirata, parla da solo. L’episodio dell’ammutinamento funziona come parodia di un altro mito (il Potëmkin), mentre i rimandi pittorici (Velasquez e Rembrandt su tutti, sia nei tagli di inquadratura che nell’architettura della luce) servono alla verosimiglianza iconografica. Ma se Ejzens˘tejn credeva nell’unione ai fini della rivoluzione, l’anarchico Brach inquina il modello costruendo un personaggio cinico e individualista, bestiale e arguto, come i suoi autori fiducioso solo nella metis. La citazione distorta dell’exemplum dal Vangelo fa il resto. Grenouille, ruolo in origine pensato per Polanski, rappresenta il lato gentile e ingenuo del pirata, naufrago su di una zattera che agli occhi di Brach «è un luogo molto più magico di qualsiasi vascello interplanetario («Cahiers du cinéma», n. 383-384, 1987). Quanto al galeone, come noto, venne costruito a grandezza naturale con materiali autentici, nel massimo rispetto filologico dei tessuti e dei colori. Ecco spiegati i trenta milioni di dollari del budget finale, i due anni impiegati dal costumista a cercare i merletti adatti per gli abiti, cuciti con tessuti originali e indossati con una postura fedele a quella dell’epoca: la vera avventura è quella del realismo. Mar dei Caraibi, XVII secolo. Una zattera dalla bandiera nera si avvicina allo schermo. A bordo due naufraghi, un grasso adulto, Capitan Red, e un giovane magro, Ranocchio. L’arrivo di un galeone spagnolo salva il giovane dagli istinti cannibalici del pirata, che, pur fingendosi un gentiluomo derubato dai pirati, viene rinchiuso in coperta assieme alla ciurma. La perdita del suo piccolo tesoro avvenuta durante l’abbandono della zattera non pesa più, poiché ben altro tesoro trasporta il Nettuno: un trono interamente coperto d’oro. Un topo nel rancio è l’occasione per uno spettacolare ammutinamento, che porta Red al comando del galeone e Ranocchio nel cuore di Dolores, la bella principessa protetta dal comandante Don Alfonso. Sbarcato all’isola della Tartaruga, Red chiude un vecchio conto con un ex compagno di avventure, offrendo gli ostaggi spagnoli. Ma il commercio degli ostaggi non è fiorente in questo periodo. Aiutati da un ex avvocato muto, i governatori si rimpossessano del galeone con l’inganno. Camuffato da prete, Red penetra nelle stanze del governatore di Maracaibo, costringendolo a cedere il trono d’oro sotto la minaccia di un morso al piede. Ma qualcosa va storto, il trono rimane impigliato nelle catene e i due sono rinchiusi nelle mura del castello, in attesa di essere giustiziati. Vane sono le lacrime di Dolores, promessa sposa all’inviso Don Alfonso. Grazie all’aiuto dei compagni, i pirati riescono a evadere e si mettono sulle tracce degli spagnoli. Al termine di una battaglia tanto sanguinosa quanto divertente, costoro sono costretti a fuggire. Mentre Ranocchio perde il suo amore, Red si 132

incolla al suo trono. L’avventura termina (?) sul solito mare, con i due non più affamati ma minacciati dagli squali. Fino a quando saranno finite le provviste...

Basta la prima sequenza per capire come Pirati abbia ridato a Roman il piacere infantile di fare cinema, divertendosi e cercando di divertire. Su di un mare piatto come i laghi Masuri, l’intrigo scivola in un crescendo di ritmo, gesti e colori, fotografati da Sobocinski attraverso un filtro speciale atto a uniformare le minime variazioni della luce. Parlano gli scricchiolii della zattera. Un raccordo sullo sguardo del pirata muto (fot. 90) ci mostra, principio generatore della fabula, una pulsione sinora solo accennata nel cinema di Polanski: la fame (la ritroveremo, in tutt’altro registro, ne Il pianista). La lotta per la sopravvivenza prevede come sempre l’aggressione, ridotta qui allo stadio barbarico della “catena alimentare”, senza più coltelli o altre mediazioni culturali. La struttura circolare del film è assicurata dal ritorno di questo leitmotiv nel finale, con gli squali a complicare la simmetria vittima-carnefice e a rovesciare l’apparente soddisfazione della pulsione: quando le provviste finiranno, l’uomo sarà nuovamente homini lupus. Venticinque anni dopo Il coltello nell’acqua, lo spazio chiuso della barca non ospita più un conflitto intellettuale, ma un rapporto di forza animale, senza esclusione di colpi. Vengono allora in mente le coppie del burlesque filosofico, in particolare quella di Il gras- FOT. 90 so e il magro, che obbedisce al medesimo schema compositivo. All’opposizione staticità (grasso) / movimento (magro) segue la mercificazione dell’arte, in quanto l’atto del mangiare è accompagnato da prestazioni strumentali (il magro) e canore (Ranocchio). Le parole della canzonetta però, Il était un petit navire, non fanno che richiudere su se stesso l’epos dell’avventura, che implode affermando la propria inconsistenza: «C’era un volta un piccolo naviglio / che voleva fare il giro del mondo». Come diceva Tess, tutto è vanità. Red vuole mangiare Ranocchio. Il meccanismo comico di Chaplin (La febbre dell’oro [The Gold Rush, 1925]) è decostruito mediante l’eliminazione del passaggio tra la realtà (Charlot) e la sua trasfigurazione (la gallina), vale a dire l’immagine di Charlot trasformato in gallina. Tutto funziona al primo livello di significato. Grenouille è già Ranocchio, senza che sia necessario nessun effetto speciale: Red non ha bisogno di allucinazioni, basta il 133

(sopran)nome. Anche per lui, nomen est omen. Di questo lapsus linguistico resta vittima il prete nel momento della ridicola confessione che precede l’impiccagione, quando Red ammette di aver desiderato di mangiare R/ranocchio. «L’avidità della gola è un peccato», risponde il confessore, che non appare inorridito neppure quando il pirata gli rivela la pulsione cannibalesca. Al pari degli eroi del burlesque, il corpo di Red ospita oggetti che perturbano la logica comune, come l’amo divorato assieme al pesce. Pirati è ricchissimo di significanti vuoti come questi, dall’isola di Maracaibo (“Mar dei Caraibi”, ovvero una sorta di isola-mare, isola che non c’è) al trono d’oro di Kapatac-Anahuac, più che un re atzeco un’onomatopea. Se Macbeth sognava il potere, Red si accontenta della materia del significante. Dietro il trono non c’è nulla, nessuna stirpe, nessuna terra su cui regnare, solo lo spazio informe dell’acqua. Anch’esso appare vuoto, senza alcuna valenza non solo simbolica ma neppure narrativa, come ha notato anche Flavio De Bernardinis nella precedente edizione di questo volume: nessuna tempesta ostacola il viaggio degli eroi, a bordo del Nettuno si avvertono a mala pena le onde, come se Polanski volesse scoprire l’artificio della messa in scena. Solo gli squali, per sineddoche, garantiscono una connotazione perturbante a tale spazio. Ma sono anch’essi stereotipi già visti (le pinne). Tutti gli ingredienti del genere sono sottomessi al processo di desemantizzazione. La stessa gamba di legno, lontana dal simboleggiare l’aura mitica (pensiamo al capitano Achab di Moby Dick), partecipa alla ripresa di una gag già vista in Per favore... non mordermi sul collo, il cui inizio è del resto speculare: si sostituiscano i lupi con gli squali e il gioco è fatto. L’effetto comico nasce ancora dallo scontro tra oggetti e corpi. Al pari di Abronsius, Red rimane incastrato nel tentativo di scalare il luogo dell’oggetto del desiderio (facile l’accostamento nave-castello), perde il proprio scrigno (ex borsa degli attrezzi), ma ignora l’attrazione sensuale della sirena. Il personaggio di Dolores appare un aggiornamento picaresco di Sarah, utile a favorire l’intrusione del mélo nei codici dell’avventura quale espediente di dilatazione: suo è il canto al tramonto, nel momento del riposo dei pirati. Si pensi al blocco narrativo che precede la battaglia finale, costruito sul duetto patetico tra i due innamorati che si danno addio nel buio della prigione; la gag della plateale caduta di Red smorza subito ogni climax melodrammatico. Pirati è soprattutto ritmo. Il meccanismo delle peripezie si regge sulla concatenazione di eventi che scorrono alla stessa velocità dei personaggi (il galeone), resi ancora più incalzanti dagli accordi figurativi di Sarde: paura di buchi nel 134

racconto. Nessun campo vuoto, ma immagini sempre centrate sugli attanti della narrazione. In fondo, la geografia della storia è limitata ad una linea retta, come se non ci fosse altra pista narrativa possibile. All’inizio il Nettuno appare «come un fantasma» in fondo al quadro (fot. 91), sulla medesima rotta percorsa dalla zattera, così come alla fine la nave di Red segue la scia degli Spagnoli senza la miniFOT. 91 ma deviazione. Raccontare, in epoca postmoderna, significa allora avere a che fare con percorsi obbligati, che agiscono sui personaggi più di quanto questi non possano fare sugli spazi. La scacchiera della trama è già disegnata, inutile perdere tempo. A nulla serviranno i tentativi di spezzare la catena che blocca il transito del trono dal galeone alla nave; i due eroi lo sanno e desistono presto. La trasparenza semantica investe anche il colore, impiegato in un sistema di opposizioni elementari che hanno indotto Avron a parlare di stile fumettistico: il rosso per il perturbante (il pirata), il bianco per la purezza (Dolores), il giallo per l’oggetto del desiderio (il trono). Letterario e stereotipato come i frequenti tramonti sul mare ci appare anche il ritratto che della fanciulla fa l’innamorato Ranocchio: «gli occhi come carboni ardenti, la pelle morbida come una pesca». Quando si tratta di demistificare rituali dell’arcadia hollywoodiana, la parodia non disdegna la farsa. Abbondano le battute a sfondo sessuale, mentre la stessa verginità è un valore meno importante del dolore a un piede. Quanto al corpo, esso soddisfa pulsioni fisiologiche che infangano definitivamente il mito dell’eroe, come se non bastasse la caricatura di Ivan il Terribile nei panni del moribondo comandante della nave. Per farcire l’intrigo di suspense e sorprese, Polanski e Brach saccheggiano diversi topoi della letteratura occidentale, da Plauto a Omero, all’insegna di una mise en abîme della messa in scena. Mascherando la propria identità Red riesce a ingannare l’equipaggio del galeone, ma nulla potrà di fronte all’inganno “omerico” architettato dal nemico, che assalta la nave nascosto nei barili di rhum. Sarà poi necessario travestirsi da religiosi per penetrare nel castello di Maracaibo e impadronirsi del trono, con l’immagine del clero che esce distrutta dalla satira: eloquente è l’apparizione del sacerdote di bordo agghindato come un angioletto, a mo’ di fuoco d’artificio. 135

Durante la battaglia finale i codici sono ancora più scoperti. Se il fumo delle polveri appare più azzurro del cielo, dove si staglia una luna finta come quella di Che? (fot. 92), la musica sembra ritmare le gesta degli eroi fino a suggerire, rafforzare e anticiparne i movimenti. Saltano tutti i punti di fuga, in una fantasia di colori, linee e forme. Non è un caso se Red chiede ai suoi uomini meno FOT. 92 impavidi se non abbiano «bisogno della musica per muoversi». Un arpeggio di chitarra suggella la separazione dei due amanti e ci trasporta in uno specchio d’acqua già visto all’inizio (?), dopo la morte teatrale del pirata nero. Il desiderio dell’eroe, incatenato al trono, è soddisfatto (fot. 93). Forse Red voleva solo questo: l’immagine del potere. Pirati non entusiasmò nessuno al Festival di Cannes, e ancora oggi qualcuno lo considera un divertimento inutile, sproporzionato al suo budget. Il sontuoso galeone ha servito almeno la causa del mercato, ospitando il recente spot “Wind per Internet”, diretto da Nick Hamm e interpretato da Ezio Greggio nelle vesti di un ufficiale ribelle contro un capitano autoritario. Tutto finisce in un FOT. 93 ballo hawaiano sul ponte della nave al ritmo dell’hit «Sex Bomb»: una parodia nella parodia. Dimenticare Parigi

Dopo due anni in Tunisia, in mezzo a parrucche e costumi, c’è voglia di casa. Polanski ha definito Frantic «un film di genere ancorato nella realtà che ci circonda». Il genere in questione è naturalmente il giallo, demistificato con gli opportuni tocchi grotteschi e rivitalizzato dall’apertura all’attualità del terrorismo internazionale. Sotto il traliccio dell’intrigo si nasconde un traffico d’armi nucleari che ruota attorno a un significante ambiguo, una copia in miniatura della Statua della Libertà. Un oggetto, secondo Paolo Cherchi Usai («Segnocinema», n. 68, 1988), familiare per lo sperduto protagonista, nel senso che permette di familiarizzare con la patria lontana pur restando vuoto 136

di senso: una volta aperta la valigia, lo rimette subito dentro. Ma Frantic è anche un film su Parigi, ventre materno visto ancora una volta con occhi stranieri, ma più spaesati di quelli dell’inquilino. La fortuna critica è contrastante. Se De Bernardinis vi ha letto il fallimento di una velleità autoriale, quella di colorare il genere con i toni dell’assurdo (Roman Polanski, cit.), Vittorio Giacci ha rilevato l’applicazione di quell’ambiguità hitchockiana che tanto piaceva a Truffaut, ovvero la scissione tra dialoghi mélo e immagini noir («Filmcritica», n. 390, 1988), una perversione comunque tipica del “genere d’autore”. In questa sede non interessa risalire alle intenzioni di Polanski, quanto entrare all’interno del meccanismo. «Frenetico, delirante, convulso, disperato»: Frantic è l’unico titolo, assieme a Che?, privo di sostantivo e dunque fluttuante tra diverse sfumature di senso. Il film sembra subito voler parlare di sé, mettendo l’accento su uno degli ingredienti indispensabili a qualsiasi thriller, ovvero la tensione del ritmo imposto dalla suspense. Fin troppo evidenti appaiono i riferimenti hitchockiani a cui tanta critica ha dato la caccia, come se non si potesse fare altrimenti di fronte ad un intrigo costruito su di una scomparsa (La signora scompare, [The Lady Vanishes, 1938]) e sul classico whodunit. Dalla statuetta della libertà, parodia di I sabotatori (Saboteur, 1942), alla figura di Michelle, ambigua erede di EveMarie Saint (Intrigo Internazionale [North by Northwest, 1954]), traspare la distanziazione ironica nei confronti del modello, inquinato dal gusto per la verosimiglianza del dettaglio (la canzone I love Paris sotto la doccia, l’imbarazzo con la lingua straniera). Realistica è la ricostruzione degli effetti del fuso orario, con quelle pause e quei piccoli tempi morti ben noti al nomade cineasta. Tali “effetti di reale”, assieme a piccole decostruzioni, ci sembrano la novità più interessante apportata al genere, per il resto rispettato con la consueta ‘umiltà’ di un autore che è tale proprio in quanto si nasconde; senza per questo annullarsi, come ha ipotizzato qualcuno, nell’aurea mediocritas della massa. Frantic è un puzzle e al contempo un film sulla stessa possibilità del puzzle. Parigi è filmata come il tappeto verde di un gioco di cui nessuno conosce le regole; tanto meno l’istanza narrante che si nasconde dietro gli occhi del dottor Walker (colui che cammina: nomen est omen). Ma l’etimo greco (da fren, mente) rinvia all’idea stessa di follia, di “mente che agisce”. Se lasciamo da parte per un attimo l’accezione negativa, come se il delirio fosse originato da una eccessiva libertà concessa alla fren, Frantic si offre come il labirinto di una mente errante, aperta a chissà quale ipotesi pur di risolvere un mistero che al suo interno contiene altri punti oscuri. 137

Parigi, 1988. Il Dottor Walker e la moglie Sondra arrivano a Parigi per un weekend che concilia un convegno di lavoro (congresso di chirurgia) con l’anniversario di matrimonio, celebrato proprio a Parigi vent’anni prima. Ma qualcosa non va per il verso giusto. Mentre Walker è sotto la doccia, la moglie riceve una strana telefonata e si assenta. Un’assenza che prende subito l’apparenza di un rapimento: qualcuno ha visto un uomo accompagnare la donna fuori dall’hotel e spingerla in un’auto. Né la polizia francese né l’ambasciata americana sono d’aiuto. Alla ricerca di indizi, il medico scopre il cadavere di uno spacciatore e fa la conoscenza della perturbante Michelle, fanciulla non troppo innocente che trascina il protagonista in una spirale di mistero e di pericolo. A lei appartiene la valigia bianca scambiata con quella della moglie, che contiene quella statuetta desiderata da mercanti d’armi senza scrupoli. Walker si butta nel gioco senza capirci nulla, non sa di possedere un krytron, potente ordigno per testata nucleare, inseguito dai servizi segreti israeliani e arabi. I contatti con i rapitori non cominciano bene: quando lo scambio sembra fatto, gli agenti israeliani intervengono e mandano all’aria tutto il piano. Walker va avanti da solo, alimentando i sospetti della polizia. Finalmente, al “Touch of Class” l’incontro decisivo con uno dei rapitori. Ma anche l’incontro sul Pont de Grenelle, all’ombra di una copia della Statua della Libertà, fallisce a metà. Walker riottiene sua moglie ma perde Michelle, colpita a morte durante la sparatoria. Quanto al Krytron, finisce i suoi giorni nelle acque torbide della Senna.

Come dieci anni prima, Parigi è ancora ostile per lo straniero, non solo impossibilitato a comprendere l’argot parigino, ma anche in difficoltà quando si tratta di farsi capire. La lingua francese funziona come il taglio sul naso di Gittes in Chinatown: impedimento alla detection. Ecco che il fioraio scambia la richiesta di informazioni con un gesto romantico, mentre la “white lady” del pub altro non è che una bustina di coca. Comica è anche la confusione del nome della palestra, Gym Tonic, con quello di un bar. Curioso è il fatto che tale spaesamento si riflette anche in fase di sceneggiatura, visto che Polanski costringe Brach a scrivere in inglese alcune battute, giocando sulla difficoltà che lo sceneggiatore aveva con questo idioma. Parigi non è la ville lumière idealizzata da Hollywood, ma un crocevia di strade sporche ripulite, all’inizio e alla fine, da una nettezza urbana che rallenta il taxi dei protagonisti: la realtà impone la sua durata alla fiction. Sono quartieri e locali che Polanski conosce bene, come il Blue Parrot, copia ricostruita del celebre night Bains-Douches e riempita dei veri clienti del locale. Convenzionale è la veduta dell’Opéra ammirabile dalla finestra dell’albergo, mostrata però nel suo darsi come sguardo del turista, come se Polanski non volesse rivendicarne la paternità; quanto alla Tour Eiffel, appena visibile dietro 138

il camion della spazzatura, la vista panoramica su Parigi che potrebbe offrire è solo immaginata. Per il resto il narratore, in perfetto stile Warner Bros (si pensi a Il grande sonno [The Big Sleep, 1946, di Howard Hawks]), preferisce elidere i piani di ambientamento e presentarci il protagonista già sulla porta degli spazi dell’enigma (il Blue Parrot, il Touch of Class, gli appartamenti di Michelle FOT. 94 e di Dédé). L’unica arteria mostrata, durante i titoli di testa, è il raccordo autostradale che collega l’aeroporto al centro, nella consueta «ora magica» che separa la notte dal giorno. Qualcuno all’interno di un’auto guarda la strada che scorre, mentre i primi titoli (regista e attori principali) sembrano imitare l’avanzare dell’auto sciogliendosi al centro del quadro (fot. 94). Parigi si dà come veduta in movimento, ma già misteriosa, con Walker che si guarda attorno senza ambientarsi. Il soggetto di questo camera-car resta ambiguo fino a quando una cesura sonora e luministica ci offre, in sovrimpressione, i volti assonnati della coppia (fot. 95). Mentre si spengono le luci della notte, il leitmotiv di Morricone, prima frenato dalla chitarra, si distende in linee melodi- FOT. 95 che più ampie, giusto il tempo per illustrare l’ultimo titolo e lasciare spazio alla musica d’ambiente (la radio del tassista). Siamo sicuri che fosse la coppia il soggetto del punto di vista? Se la donna dorme, lui sembra vagare con lo sguardo, mentre lo spettatore è investito di un’ubiquità rara: può vedere al contempo davanti (la strada) e dietro (la coppia). «Essere dentro lo schermo» significa oggi penetrare la fiction con la consistenza impalpabile del fantasma, simboleggiata dalla stessa sovrimpressione, figura dell’assenza, rara in Polanski, ma centrale in Rosemary’s baby. Il racconto svela tutta la superficie piatta delle sue maglie, che il narratore sembra divertirsi a scambiare e invertire come in un rompicapo. Il medesimo tratto autostradale chiude il cerchio percorso in senso contrario, con i titoli di coda che scorrono, come quelli di testa, sempre verso l’alto. Anche la direzione dello sguardo non cambia, rivolto verso un paesaggio della 139

memoria che però ora sfugge, metro dopo metro: ricordiamo una simile scissione tra corpo e desiderio nei passi di Carol che incrociano uno sguardo maschile (Repulsion: vedi sopra). Nulla a che vedere con la cornice, ugualmente circolare, delle Strade perdute di David Lynch (Lost Highway, 1998), più astratte, visionarie e ipnotiche di queste, che invece ospitano incidenti banali come la foratura. La costruzione della suspense è fin troppo limpida, giocata sulla forza polisemica della profondità di campo, all’interno di una stanza d’hotel ricostruita nelle stesse tonalità grigie della hall, in modo da creare un microcosmo uniforme. L’hotel è lo spazio di un logos che nulla sembra poter perturbare (il “vero” Grand Hotel è decorato in beige). Mentre Walker parla al telefono con il figlio, che accenna a una misteriosa telefonata da Parigi per la madre – enigma poi lasciato in sospeso – sulla sinistra dell’inquadratura passano inosservati i tentativi della moglie di aprire la valigia, bianca come la pagina del giallo da scrivere (fot. 96). Il familiare si unisce al nonfamiliare in gioco di specchi riprodotto poco dopo dall’inversione dei personaggi, che si scambiano le parti senza però riuscire a risolvere il doppio dilemma. Lo stesso accade quando l’uomo sostituisce la donna nella doccia mentre, sullo sfondo ella è impegnata in una conversazione telefonica (fot. 97). La suspense, come ha insegnato Hitchcock (La FOT. 96 finestra sul cortile), non ha bisogno di montaggio alternato. Qui è originata da un’impotenza uditiva e visiva, con l’immagine della donna che prima si dà come enigma e poi scompare nel fuoricampo. Impossibile, dato il punto di vista che ci è imposto, attenuare il rumore della doccia per ascoltare le parole della donna, mentre la lenta carrellata che avanza verso il letto non può che lasciarci un sentimento di frustrazione, aumentando la tensione del bordo sinistro del quadro. L’ellissi così non appartiene al tempo ma allo spazio, dando la sensazione che il racconto passi accanto ai fatti senza mostrarli o tanto meno descriverli. Quella dello “stare accanto”, lo FOT. 97 abbiamo visto, è la cifra stilistica del guardare 140

di Polanski. Durante la doccia di Walker, la durata di questo sguardo è caricata di assurdo dal fatto che il campo è vuoto, anche il vestito rosso è stato trascinato via. Non sappiamo ancora che quella valigia bianca, unico oggetto visibile, contiene il tassello mancante del puzzle. Da questo momento in poi, la durata interessa quale fenomenologia dell’angoscia. Le inquadrature ampie dell’hotel, distese da una cinepresa finalmente fluida, restituiscono la percezione ovattata dell’investigatore, a cui la concentrazione impedisce di ascoltare altri rumori che non siano quelli relativi al suo dramma. Nel silenzio della camera i rintocchi del campanello contribuiscono al sorgere di un’inquietudine sottile. Se nella hall è avvertibile il fruscio dei passi sulla moquette, lo spazio urbano gode di un’architettura sonora, come ha spiegato Polanski, «moderata», in modo tale da dosare al meglio la costruzione della suspense (cfr. «Positif», n. 327, 1988). Quanto alla gamma di colori, si è detto della monocromia grigia, riprodotta anche dall’abito di Walker, scelto proprio per la sua neutralità da Anthony Powell, che sempre a «Positif» ha ammesso la lezione di Hitchcock. Come il Cary Grant di Intrigo Internazionale, Ford scivola da un luogo all’altro fondendosi nei décor, senza attirare mai lo sguardo. Eloquente è l’esterno che precede l’ingresso nella palestra (fot. 98), forse la stessa via già vista dieci anni prima, inconfondibile per quell’arco romano sullo sfondo. FOT. 98 Qui l’inquilino del terzo piano era investito da un’auto. Altra analogia: entrambi i personaggi trovano le loro stanze messe a soqquadro da ignoti. Grigia è anche la luce di Parigi, accesa solo da rari lampi di colore come il blu elettrico dei night o il giallo dell’auto di Michelle, che nel finale indossa un abito rosso identico a quello della rapita, rimasto immutato rispetto all’inizio. Anche allora era l’alba. Come la melodia di Grace Jones che punteggia a quattro riprese il racconto, la struttura musicale di Frantic procede per refrain: il sintagma “alba-autostrada-spazzatura-hotel” ritorna esattamente a metà film, quando Michelle accompagna Walker al Grand Hotel dopo aver recuperato la valigia. Non troppo sottile è il gioco con le parole della canzone, «I’ve seen that face before», che appaiono per la prima volta con un effetto ridondante rispetto alla narrazione. Mentre ascolta Grace Jones, Michelle dice di avere già visto «that face before», ovvero l’uomo che in quel momento la insegue. La 141

canzone, il cui rilievo simbolico è assicurato dal fatto che sia Walker sia la ragazza la commentano, appare il correlativo oggettivo dell’ossessione, in quanto irriga il racconto circolando da Parigi a San Francisco (anche i figli del protagonista la ascoltano), caricandosi di risonanze intertestuali: tutto sommato, anche lo spettatore «ha già visto» altrove questi cliché. Come in ogni racconto che si rispetti, la forza emotiva dei pieni si appoggia sulla dilatazione dei vuoti. La deriva “frenetica” dell’indagine si interrompe sulla pedana del Touch of Class, dove il ritmo di Grace Jones suggella una possibile evoluzione sentimentale della nuova coppia. Vestita di rosso come Sondra e ripulita dal trucco aggressivo, Michelle è il fantasma di un desiderio smarrito nella routine del matrimonio, una sorta di prefigurazione naïf della Mimì di Luna di fiele. Le linee curve e continue dei suoi movimenti contrastano con quelle spezzate disegnate dall’investigazione. La musica interviene poi come anticlimax in una delle sequenze che meglio riassumono il filtro humour dell’operazione, vale a dire la passeggiata di Walker su un tetto molto simile a quelli esplorati dalla louma nell’incipit di L’inquilino del terzo piano. Mentre l’antieroe perde l’equilibrio rischiando più volte la fine di Trelkowski, una fisarmonica nostalgica dei vecchi chansonniers bagna l’immagine di un’atmosfera contrastante con il crescendo emozionale, più adatta forse a un documentario su Parigi che a una scena di suspense. Del comico burlesque Ford ha molte caratteristiche, in particolare forti difficoltà di relazione con lo spazio, oltre all’abito incollato come una maschera: perde le scarpe, viene sorpreso dagli oggetti e urta contro i soffitti, in scenografia dove traspare la parodia della claustrofobia (ancora Il mistero del falco). Un altro ingrediente del thriller, come l’inseguimento in auto dopo il primo tentativo di scambio con i rapitori, è decostruito e svuotato di tensione. Il punto di partenza è la citazione del finale di Chinatown, quando Evelyn, colpita a morte, lascia cadere il capo sul clacson. Lo stesso fa lo sventurato agente segreto, prima che Michelle gli sorregga la testa dando origine a una straordinaria gag: un morto al volante nel bel mezzo dell’indifferente traffico parigino. Anche la composizione delle inquadrature segue moduli noti. Si osservi l’organizzazione dello spazio del “duello” finale, ambientato nella Parigi più americana, là dove Walker trova i suoi punti di riferimento. La geometria dello spazio assicura a Polanski un respiro dinamico alla scena, che nasce lungo una linea orizzontale, il lungo Senna, per poi ampliarsi in verticale, con l’intervento degli agenti israeliani dall’alto del ponte. La suspense, costruita con un effetto di sorpresa per il personaggio del terrorista, è ancora una questione di montaggio 142

interno, come indica la messa in scena del gesto eroico di Walker, disposto a tutto pur di salvare Michelle (fot. 99). Il morso della ragazza alla mano del “cattivo” non fa che raffreddare per l’ultima volta la tensione, prima del pathos finale. Nel campo/controcampo che oppone i contendenti, da una parte la coppia e dall’altra gli agenti, la macchina da presa sembra più che altro interessata a far emergere la disposizione simmetrica dei simboli. Statua FOT. 99 della libertà versus Tour Eiffel. Miti leggibili a più livelli di senso (genere versus autore), o forse paesaggi opposti semplicemente per la loro similitudine plastica, ma in realtà vuoti, non più in grado nemmeno di incutere l’angoscia della vertigine. Lontani sono i Monti Rushmore di Intrigo Internazionale. Il krytron infatti è nelle mani di Walker, l’intrigo potrebbe infittirsi ulteriormente. Ma forse è tempo di riannodare i fili. La caduta nell’acqua dell’oggetto del desiderio non innesca più nessuna peripezia, come invece accadeva nei laghi Masuri. Il gesto di Walker è, al pari del tuffo di Sydney Rome nel camion di maiali (Che?), l’unico modo per spegnere il racconto. Solo allora, dall’alto di un dolly turistico, sarà possibile ammirare Parigi, in un’inquadratura che funge da perfetto piano di ambientazione per la prossima storia. Eros e crudeltà

Ogni rapporto tra uomo e donna, anche se armonioso, nasconde dentro di sé il seme della farsa e della tragedia (Luna di fiele) Dopo aver accettato la proposta di uno spot pubblicitario per il mensile «Vanity Fair», occasione per una variazione disimpegnata sui temi del voyeurismo e del doppio (Compratore d’anime: non essendo riuscito a ottenere il corpo, un uomo si deve accontentare dell’immagine di una ragazza), Polanski si immerge nel progetto successivo, l’adattamento di Lunes de fiel, mediocre romanzo erotico-filosofico firmato da Pascal Bruckner. Coproduzione francoinglese della neonata Roman Polanski’s Productions, Luna di fiele può apparire come il tentativo di applicare la lente deformante del grottesco ai codici del mélo, l’unico genere fino a ora risparmiato dalla decostruzione. Più che deco143

struire, l’intento è quello di riflettere sull’estetica del presente offrendo in pasto al mercato un prodotto apparentemente digeribile: una storia d’amore per tutti i gusti, attori alla moda, montaggio invisibile e soprattutto una struttura narrativa metalinguistica (il racconto nel racconto) che può soddisfare anche il pubblico più raffinato, oltre che certa critica (si veda la lettura «conradiana» proposta da Cappabianca). Del melodramma non restano nemmeno le lacrime. Emmanuelle SeignerMimì appare all’inizio, in soggettiva del suo innamorato, come una sorta di Tess moderna, fanciulla in fiore fragile e indifesa, dalle guance «che sembrano una pasta plasmata nel latte e dalle ciglia che carezzano gli occhi verdi ostacolando gli sguardi indiscreti» (Pascal Bruckner, Lunes de fiel, Seuil, 1981). Al pari di Tess sogna il matrimonio e come Tess viene scaricata, ma per il motivo opposto: troppo pura, non è più in grado di incarnare Eros. Come ha notato anche De Bernardinis, il vettore eros-matrimonio è rovesciato, in quanto, solo una volta spenta la passione, l’unione è possibile. La prima parte, che racconta la nascita dell’«eternità», è ambientata in una Parigi primaverile luccicante come una favola, trasformata da Tonino Delli Colli nell’immagine di un’immagine (la piazza di Notre-Dame all’alba). Ma il romanticismo è l’altra faccia della perversione. Non interessa più l’analisi del rapporto tra individuo e società, quanto scendere con il sorriso nei fantasmi del desiderio, ben sapendo che esso è labile, destinato a morire. Un territorio solo sfiorato sulla barca di Il coltello nell’acqua, che di Luna di fiele anticipa temi (il viaggio come lotta contro la noia) e strutture: in uno spazio chiuso e mobile, l’incontro tra un esperto dandy e un giovane naïf si nutre di fascinazione e repulsione, prima che un quarto personaggio femminile infranga, deus ex machina, la rigida geometria del triangolo. Proprio il confronto con il rigore formale e l’esuberanza plastica giovanile può far apparire quello di oggi «un cinema della crudeltà con un’immagine senza rilievo» (Bernard Bénoliel, «La Revue du Cinéma», n. 485, 1992). In realtà, il presunto appiattimento della scenografia al ruolo strettamente funzionale, per cui gli oggetti non sarebbero più rivestiti di valenze simboliche come un tempo (si pensi a Rosemary’s baby), va nella stessa direzione della messa in scena della superficie. In questione è il contenuto latente dell’immagine, ovvero quelle risonanze segrete interne all’inquadratura a cui mirava l’organizzazione dello spazio in opere quali Il coltello nell’acqua o Cul de sac, dove la saturazione era finalizzata alla costruzione dell’ambiguità: alle angolosità delle linee di forza o alle forme convesse di certi interni era affidato il non detto. Quella 144

purezza di sguardo, nascosta nella luce diffusa che assicurava la profondità di campo, oggi è perduta. E Luna di fiele ci parla di questa perdita, di una passione amorosa che si spegne non appena la vista è satura, incapace, come l’occhio del cineasta, di trovare un volume dietro l’immagine. A nulla servono i mille travestimenti di Mimì. Luna di fiele esplora in toni semiseri quella parte oscura della mente dove la passione scivola nell’indifferenza, l’erotismo si trasforma in commedia e l’amore in odio. L’esperienza di «Vanity Fair» non è casuale. Polanski attinge all’immaginario pubblicitario per dare ai suoi quadri la consistenza bidimensionale della pagina di una rivista, lucida, patinata, ma soprattutto leggera. La struttura metanarrativa rafforza la sensazione di “sfogliare” le inquadrature, guidati dalla voce di un narratario accattivante. Su di una nave da crociera diretta a Istambul, due coppie si incontrano. Nigel e Fiona, sposati da sette anni, sognano di ritrovarsi nella pace dell’India, ma Oscar e Mimì li attraggono in una spirale di passione e morte. Oscar, paralitico romanziere fallito, convince Nigel a un patto: se ascolterà tutta la sua storia, potrà portarsi a letto la conturbante moglie. Il racconto nel racconto comincia in una giornata d’autunno di qualche anno prima, a Parigi, sull’autobus 96. Con Mimì, giovane ballerina, è un amore a prima vista, che ben presto attraversa tutte le tappe della passione, senza nessun limite alla fantasia erotica. Dopo un anno di follie, il desiderio di Oscar si spegne. Ma Mimì non vuole troncare la relazione, e accetta le umiliazioni più terribili pur di restare accanto all’amato: viene insultata in pubblico, trattata da serva, costretta ad abortire. L’unico modo per liberarsi di lei è quello di abbandonarla su un aereo in partenza per i Caraibi. Finalmente libero, Oscar si dà alla pazza gioia, infilando una conquista dietro l’altra, salvo poi rimanere vittima di un incidente d’auto dopo una notte di divertimenti. Mimì si rifà viva in ospedale, ma solo per provocargli, con l’inganno, una terribile condanna: la paralisi delle gambe. I rapporti di forza si rovesciano: ora il carnefice è Mimì, che dopo una lunga serie di umiliazioni (fa l’amore con un ballerino davanti a lui) lo sposa. Ma la storia non è ancora finita. Nigel si sente sempre più turbato dal racconto, che termina proprio la sera di capodanno. Egli desidera la donna, ma quest’ultima lo rifiuta; sembra più attratta da Fiona, la quale ricambia i favori. Dopo aver contemplato la notte d’amore lesbico, non esattamente ciò che aveva previsto, Oscar uccide Mimì prima di spararsi in bocca. Il viaggio per Nigel e Fiona continua. Ma forse la loro vita non sarà più quella di prima.

Interessante, per cogliere in pieno le sfumature dell’operazione, è analizzare l’adattamento del romanzo. Per la prima volta la fedeltà è messa in discussione, quasi si volessero integrare nella parodia anche gli stilemi della letteratura 145

commerciale. Le ambizioni filosofiche di Pascal Bruckner, oggi intellettuale alla moda nei salotti televisivi, sono esposte nell’introduzione al racconto, presentato come «l’altra faccia del sogno contemporaneo di euforia obbligatoria» e strutturato in un’impalcatura tragica divisa in cinque giorni, con un epilogo che chiude il cerchio del flashback. Polanski trasforma i personaggi. Oscar incarna meglio di Franz, medico francese, lo stereotipo dell’americano a Parigi, romanziere incompreso ma seduttore di successo. E Polanski non perde occasione per graffiare la “sua” America, consegnando a Mimì battute del tipo «Gli americani amano tutto ciò che è elettrico» (quando Oscar sceglie la lametta anziché il rasoio elettrico). Radersi serve allo scrittore per esorcizzare il fantasma di Hemingway. Anche Mimì è un’invenzione, un nome che suona falso fin dall’inizio, perché Oscar non ha nulla dell’artista bohemien. L’eroina di Bruckner, Rebecca, ha un fascino esotico mediorientale assente nei tratti felini della musa Emmanuelle Seigner, comunque perfetta nell’incarnare la donna-angelo curvilinea e già mefistofelica, anticamera per il personaggio di La nona porta. Si conferma il gusto per il décalage, lo sfalsamento tra personaggio e ambiente, artificio ideale per assicurare il realismo, in quanto «tutto ciò che Oscar dirà sarà americano, o tutto ciò che descriverà l’avrà visto o sentito prima, senza aver bisogno di inventare, perché è lui stesso sfalsato» (Roman Polanski in «Cahiers du cinéma», n. 445/6, 1992). Alleggerendo l’intrigo dei dettagli piccanti e delle pesanti dilatazioni simboliche (la sosta a Venezia), Polanski rispetta la suddivisione dei blocchi narrativi ma non il finale. La scena madre di Bruckner prevedeva una pena del contrappasso (tè bollente gettato dal narratore sul volto di Rebecca) e il carcere per l’ascoltatore, che perde la moglie fuggita a Istambul con un italiano. Come abbiamo visto, il film rovescia lo schema, lasciando una possibilità alla giovane coppia. Le lunes del modello diventano una sola. L’attrazione omosessuale tra le due donne diventa un’allegoria di grazia e bellezza e il suicidio di Oscar garantisce la fine simbolica della narrazione: il colpo non poteva che essere diretto in bocca. La rinuncia all’epilogo ironico di Bruckner può stupire fino ad un certo punto. In realtà, oltre ad assicurare la chiusura del cerchio, la morte del narratore corrisponde a una necessità tragica che fa risaltare ancora più forte il graffio dello humour. Nel suo ideale “Inferno”, Polanski colloca questi amanti nel girone degli ingordi d’amore: «Siamo stati troppo avidi, baby», dice Oscar prima di premere il grilletto. E per la prima volta la sua voce tradisce un’emozione, un rimpianto dell’amore perduto tanto più disperato quanto ironico era 146

stato il distacco dell’uomo per tutto il film. Il colpo di pistola salva come sempre dal patetico, ma in questi pochi secondi Polanski fa in tempo a lasciarci dentro, come un’eco che non ci abbandona, il volto crudele della tragedia del vivere, e dell’amare. Non sorprende, infine, il rifiuto della voce over dell’ascoltatore: se nel romanzo tutto è raccontato dalla bocca di Nigel, Polanski si accontenta, come sua abitudine, di stare FOT. 100 accanto al suo voyeur, presente in ogni scena, se si escludono certi esterni del mare in burrasca. I titoli di testa offrono come sempre una chiave di lettura del discorso, inaugurando il tema della pulsione scopica. Il paesaggio di un mare increspato rivela, grazie a un lento retrocedere della cinepresa, la sua natura di sguardo ambiguo, incarnato da un narratore (Oscar?) che abita lo spazio della narrazione prima che essa cominci. La cornice dell’oblò (fot. 100) suggerisce la classica figura dell’occhio, su cui terminava anche Pirati (l’iris in chiusura sulla zattera). Ma quest’occhio non vede nulla, le onde rimandano tuttalpiù alla consistenza rugosa della palpebra chiusa (pensiamo al già citato Film, di Samuel Beckett). È necessaria allora una panoramica verso sinistra, contro la corrente marina, per incontrare le prime figure, colte non a caso nell’atto del guardare (fot. 101). «È fantastico» è il commento della giovane sposa, la cui voce, al pari di quella del marito, precede l’apparizione del corpo, leggermente in ritardo. Questa sequenza è una summa della poetica del décalage, l’applicazione di tale ossessione ai codici della visione. Fin dall’inizio c’è uno sfalsamento tra due sguardi, quello esterno e quello interno, che guarda qualcosa a noi ignoto, perduto nel fuoricampo e riflesso solo nel sorriso della donna. Di «fantastico» non ci è dato di vedere nulla, se non gli stessi personaggi che pronunciano tali parole. Luna di fiele è un saggio, in forma di romanzo, sulla frattura, sulla distanza tra il sogno (l’India vagheggiata) e la realtà («L’India non è altro che puzza e caos», dirà tra poco un passeggero autoctono), tra il corpo e la sua possessione, tra il fantasma del FOT. 101 desiderio e la sua realizzazione. 147

Il fascino per l’oblò è condiviso dal cineasta con il personaggio dell’ascoltatore di Bruckner, che vi trova «il fascino particolare di vedere senza essere visti». Possiamo così attribuire alla fantasia turbata del giovane Nigel le immagini del racconto di Oscar, non sempre sorrette dalla didascalia verbale, che, al pari del montaggio, riassume volti, eventi, situazioni. Ma senza entrare sempre nei particolari. Quando lo fa, come nel caso delle pratiche più perverse (l’urina sul corpo, ovvero «il Rubicone della nostra vita sessuale»), l’immagine non è d’aiuto; tale vuoto sembra tradurre l’incapacità del puritano Nigel, un Hugh Grant perfettamente impacciato, di immaginare un tale livello di depravazione. Perché il giovane può “vedere” solo ciò che la società dei consumi gli ha già fatto vedere. Tutti i momenti più kitsch della passione, come il dettaglio delle labbra alla luce del camino, lo yogurt spalmato sul corpo in perfetto stile Nove settimane e mezzo (9 1/2 Weeks, di Adrian Lyne, 1986), le effusioni nella doccia e il celeberrimo show sadomaso con il rasoio, icona del film, sono invece mostrati e non detti. Immagini di altre immagini, simulacri di un erotismo confezionato da Hollywood nello stesso anno: la femmina castratrice di Basic Istinct (Id., 1992, di Paul Verhoeven) è parodiata dal personaggio di Mimì, che va molto più a fondo nell’operazione. Non uccide il corpo, ma il desiderio. Il gioco di specchi proposto da Bruckner è raddoppiato per mezzo della trasformazione FOT. 102 di Oscar in uno scrittore, attività mostrata più volte nel film in ossequio a tutti i cliché del genere: sigarette spente nel portacenere e pagine bianche in disordine sulla scrivania. Mimì contempla un atto, quello di scrivere, che in fondo non è altro che un guardare. Davanti allo schermo verde del computer Oscar, dopo il colpo di fulmine, vede apparire il volto della ragazza, la cui presenza fantasmatica, figura dell’assenza, impedisce la stessa scrittura e condanna all’impotenza creativa: quella sessuale non tarderà ad arrivare. Intanto Mimì riempie “fisicamente” l’immaginazione di Oscar (fot. 102). Più tardi il sorriso beffardo dell’uomo apparirà sull’oblò dell’aereo diretto FOT. 103 in Martinica (fot. 103), sostituito poi da una 148

luna posticcia in un cielo blu che si confonde, in dissolvenza incrociata, con quello visibile dall’oblò della nave. Questa sequenza è inventata da Polanski, i cui titoli non sono del resto mai astratti, ma entrano sempre nelle maglie del racconto, nelle parole dei personaggi (Che?, Chinatown) e nei loro gesti (Il coltello nell’acqua). Si diceva del rapporto tra eros e scrittura. Il pezzo che l’uomo legge alla sua musa parla di loro, come se Oscar stesse fissando su carta la labilità della passione. Ecco che il racconto offerto a Nigel potrebbe in realtà essere la versione romanzata del proprio passato, un racconto mediato dall’esigenza commerciale di stupire e piacere. Così si spiegherebbero quella serie di luoghi comuni di cui è infarcita anche la sceneggiatura di Polanski e Brach, che riprendono da Bruckner iperboli del tipo «le porte del paradiso mi si aprirono in un solo istante» e ne inventano altre, come «Quella luna [...] a lei doveva sembrare amara come il fiele, per me dolce come il miele». Nigel è il pubblico che Oscar non ha mai avuto. Fatica a credere alla storia, dubita dello statuto delle immagini che noi con lui (?) vediamo. Ma deve ascoltare, perché, come il narratore di Storia Immortale (Une histoire immortelle, 1968, di Orson Welles), Oscar ha bisogno di duplicare in un altro corpo la (sua) favola, forse solo perché essa risulti vera: ma il corpo non sarà quello da lui previsto. Allontanandosi da Bruckner, Polanski, con il suicidio del suo voyeur, si avvicina per certi aspetti a Karen Blixen. Anche qui la finzione supera la realtà e la deforma, confondendosi con essa: «Non sai ancora la fine della mia storia», dice Mimì al ragazzo durante il ballo. Perché tale storia, come quella del vecchio mercante Welles, deve ancora essere “scritta” nella realtà. Anch’essa, del resto, è immortale, se ricordiamo l’incipit della confessione: «L’eternità per me cominciò un pomeriggio d’autunno». Nigel vorrebbe un altro punto di vista per quei fatti, ma Mimì rifiuta: «Le parole le lascio a lui, non gli rimane altro». Il libro mai pubblicato diventa allora epos, un’autobiografia romanzata vicina per certi aspetti allo stesso Roman, cui rimanda una scena assente in Bruckner. Dopo la prima notte d’amore, Oscar contempla la bellezza del corpo nudo di Mimì in piedi davanti alla finestra, in un’immagine che sembra resistere alle parole dell’uomo; ma non a quelle con cui Polanski racconta il risveglio dopo la prima notte con Barbara, poi diventata sua moglie; l’episodio è citato anche nell’ultima intervista concessa a «Positif» (n. 410, aprile 1995). Se Oscar afferma semplicemente di sentirsi «come Adamo che aveva appena gustato la mela» (si veda la parodia della Creazione di Michelangelo sulla giostra, con le dita degli amanti che si 149

sfiorano), Polanski parla di «brusca emozione quando lei scivolò fuori dal letto e si mise a guardare l’alba». Esattamente ciò che fa Mimì. Solo il vissuto dell’autore può colmare l’intervallo tra ciò che è detto e ciò che è mostrato. L’immagine è forse troppo privata per darsi alla parola dell’Altro. Ma Mimì non è altro che Emmanuelle Seigner, ovvero il vissuto presente dell’autore: i confini tra realtà e finzione si fanno sempre più sottili. Mordace come sempre è l’ironia dello sguardo, attiva in una divertente sineciosi visiva. Si pensi a quel manifesto di amore a domicilio, Ulla 3615, cui Oscar fa appello tramite il Minitel per rompere la monotonia della vita di coppia. Esso appare in realtà molto prima, addirittura all’inizio del film, nello stesso momento in cui avviene il colpo di fulmine per Mimì. La purezza dello sguardo della ragazza, primaverile e innocente, è fin dall’inizio contaminata con l’immagine dell’eros impuro incollata su quello stesso autobus 96, appena un metro sotto il suo sguardo perduto all’orizzonte (fot. 104). Come la melodia di Grace Jones in Frantic, tale immagine circola nel film a più riprese, fino a farsi finalmente carne. Ma la prestazione della prostituta è svuotata di ogni tensione erotica grazie alla presenza del barboncino bianco che urla di dolore nel momento del piacere dell’uomo. Già in precedenza, l’orgasmo era stato alluso e non mostrato, con un espediente politicamente corretto quanto esilarante: la metafora del toast che schizza via FOT. 104 dal tostapane. Il vertice dello humour è raggiunto nella sequenza del matrimonio, che Polanski mette in scena attivando la dialettica tra campo e fuoricampo. L’autoscatto degli amanti al Luna Park, con i volti inseriti nei manichini di cartone, era solo un’illusione, svelata da un movimento di macchina che ritroviamo anche qui. In mezza figura frontale, Mimì occupa la parte destra del quadro; a sinistra, il vuoto (fot. 105). Le parole dell’officiante sono dirette a Oscar, ma noi, per qualche secondo, non lo vediamo. La parodia dell’amour fou è completa: Mimì sposa un’ombra, un ricordo, una voce di cui ha distrutto il corpo. Prima del viaggio verso la morte, il matrimoFOT. 105 nio è allora l’ultimo décalage. 150

Variazioni sul tema

Non si può descrivere cosa significa sentire quella musica meravigliosa nel buio, quando il tuo corpo va a pezzi. (A. Dorfman, La morte e la fanciulla) Dopo l’eccellente prova d’attore nel kammerspiel di Giuseppe Tornatore (Una pura formalità, 1994), Polanski riceve la proposta di dirigere a teatro La morte e la fanciulla, pièce con cui Ariel Dorfman, esule cileno dal talento proteiforme, aveva appena vinto il premio Olivier per la miglior opera teatrale. Dopo il debutto londinese nel luglio del 1991 (regia di Linsday Posner), la commedia era sbarcata a Brodway, allestita da Mike Nichols con Gleen Close nel ruolo della protagonista. Ma le luci del palcoscenico questa volta non attraggono; l’occasione è colta per un ritorno al cinema da camera, sullo stile di Cul de sac. Tre personaggi, un ambiente, unità di tempo, azione e luogo: La morte e la fanciulla è un film “in minore” come l’omonimo quartetto di Schubert che, come si è visto, aveva accompagnato in modo ossessivo la fase di scrittura di Che?, fino a penetrare nel tessuto della finzione. Scritto nel 1824 da uno Schubert minato dalla malattia, il quartetto è una sorta di rivisitazione dell’omonimo Lied D531 (1817), tratto dal poema di Matthias Claudius Der Tod und das Mädchen. Ma non ha nulla a che vedere con la danza lugubre della morte esposta nel Lied, il cui tema è trascritto solo nel secondo movimento. Al di là di plausibili verosimiglianze storiche (la passione di certi aguzzini nazisti per la musica romantica tedesca), chiaro è il gioco di specchi tra le allegorie della musica e il dramma della violenza. Come abbiamo ipotizzato in altra sede (Il fantasma e la fanciulla, cit.), questo titolo potrebbe incorniciare altre opere di Polanski: la fascinazione sensuale della morte e il suo dialogo con la bellezza sono due topoi del Romanticismo a cui il regista ha già dimostrato di non essere insensibile (Tess). Quello che interessa è la simmetria delle due operazioni. Se Schubert opera una serie infinita di variazioni sul proprio tema, Polanski assegna al testo di Dorfman una struttura circolare originale (il modello non prevede il prologo nella sala da concerto), trascrivendo nell’intelaiatura della pièce rapporti di forza, simboli e motivi figurativi tipici del suo cinema. Quattro archi, quattro movimenti. Come si è detto, il secondo, Andante con moto, rirprende il tema del Lied tramite la figura della marcia funebre, che però regola anche gli altri tre, Allegro, Allegro molto e Presto. Allo stesso modo, 151

potremmo suddividere anche il film, che ha più la struttura del trio, in quattro blocchi: A (dall’inizio al ritorno di Miranda); B (riconoscimento della voce e attuazione del progetto di Paulina); C (intervento del marito e registrazione della confessione); D (ritorno della luce elettrica e confessione sul precipizio). Ognuno di questi “movimenti” finisce con l’entrata in scena di uno strumento-personaggio che trasforma il duetto in trio: nell’ordine Miranda, Paulina, Escobar, con la luce elettrica che annuncia la risoluzione. Il secondo movimento, che prevede il ritorno di Paulina con la conseguente aggressione ai danni di Miranda, non è altro che una variazione su ben noti temi polanskiani: l’intrusione a sorpresa di un personaggio in uno spazio chiuso e l’instaurazione di un rapporto di forza impari, favorevole all’aggressore (Il crimine, Repulsion, Cul de sac, Rosemary’s baby). Impossibile inoltre non intravedere, all’inizio di questa bipolarità vittima-carnefice, una rivisitazione in chiave drammatica del gioco sadomaso perpetrato da Mimì ai danni di Oscar (Luna di fiele). Come quest’ultimo, Miranda è legato ad una sedia e imbavagliato. L’utilizzo delle mutandine come strumento di sottomissione lascia trasparire, oltre al filtro humour, il sottofondo sessuale del contrappasso. Il medico è costretto a inghiottire quegli odori che, a giudizio della donna, stimolavano la sua furia criminale. In una sala da concerto, una coppia assiste all’esecuzione del celebre quartetto di Schubert “La morte e la fanciulla”. Uno stacco ci porta in un paesaggio dell’America del Sud, scosso da una tempesta che agita le onde del mare. In una casa isolata, la donna dell’inizio sta preparando la cena. La radio informa che il presidente Romero ha nominato, a capo di una commissione d’inchiesta sui soprusi del potere militare, l’avvocato Gerardo Escobar, marito di Paulina. L’interruzione di corrente elettrica aumenta l’angoscia della donna, che attende con ansia il ritorno del marito, tradito da una foratura. Grazie all’aiuto del dottor Roberto Miranda l’uomo rientra a casa, ma la moglie lo accoglie con molta tensione: vorrebbe che egli non accettasse quel ruolo. Sia Gerardo che Paulina hanno rischiato di finire desaparecidos. Tornata la calma, Gerardo si addormenta. Lo sveglia l’arrivo di un’auto: è il dottor Miranda, che ha dimenticato di consegnare all’avvocato la sua ruota di scorta (bucata). Ascoltando il colloquio tra i due, Paulina crede di riconoscere nell’uomo il medico che molti anni prima la violentò a più riprese con la musica di Schubert in sottofondo. Mentre i due discutono, la donna fugge con l’auto dell’uomo e, dopo avervi prelevato un nastro di “La morte e la fanciulla”, getta l’auto nel burrone. Al ritorno, sorprende Miranda nel sonno e lo incatena alla sedia, mettendolo a confronto con il proprio passato. A nulla servono i tentativi del marito di mettere fine al processo, scandito dalle note di Schubert. Una videocamera documenta la testimonianza del presunto carnefice. Ma tutto suona troppo costruito. Miranda replica che nel 152

1977 si trovava in Spagna, e l’alibi è considerato attendibile, ma non da Paulina. All’alba, la confessione avviene sull’orlo di un precipizio, senza nessuna possibilità di scelta, la pistola puntata addosso: il medico ammette i misfatti di cui è imputato, confessando le pulsioni sadiche represse, ed è lasciato libero. Uno stacco ci riporta alla sala da concerto: seduto con la famiglia in galleria, Miranda guarda in basso, verso la coppia Escobar, che ricambia lo sguardo.

Com’è noto, la principale innovazione rispetto alla pièce di Dorfman, che ha firmato la sceneggiatura assieme a Rafael Yglesias, consiste nell’aggiunta del finale come risoluzione dell’intrigo, la cui mancanza era per Polanski fonte di «enorme frustrazione» (in «Positif», n.410, 1995). Di fronte a una struttura poliziesca, fondata sul classico whodunit, non era possibile vanificare l’attesa dello spettatore. Originale è anche la condensazione in una notte del tempo della fabula, che la pièce estende a ventiquattr’ore. Non c’è nessuna allusione al clima che ha visto nascere il dramma, nel 1990, quando il neoeletto presidente cileno Patricio Aylwin Azocar istituisce una commissione d’inchiesta sui soprusi commessi nel Paese dagli esponenti del regime. Il Romero di cui parla la radio nel film potrebbe così essere l’alter-ego di Aylwin: la democrazia è troppo giovane, alla scoperta della verità non può seguire l’attuazione della giustizia. Paulina sa bene che i colpevoli saranno confusi in mezzo alle loro vittime, come suggerisce anche Dorfman, chiudendo il suo spettacolo con la discesa sul palco di uno specchio in cui gli spettatori si riflettono e lasciando senza risposta la domanda della futura assassina: «Che cosa abbiamo da perdere se ammazziamo uno di loro? Che cosa?». Tre posti vuoti in platea sono riservati agli attori del dramma, che fino ad allora erano stati attorniati su tre lati dal pubblico. L’atmosfera drammatica del quartetto (non più cupa di altre composizioni del romanticismo) si riflette nella cornice di tempesta che ci accoglie, con le onde dell’oceano che spazzano letteralmente via la musica di Schubert alla fine dei titoli di testa. Tutto comincia con un dettaglio delle corde del violoncello, mosse dall’archetto che dà il via all’esecuzione. Segue un piano d’insieme dell’orchestra, prima che il découpage ci mostri i volti tesi di due spettatori. Due mani si stringono forte, come se dovessero lanciarsi nel vuoto e avessero paura di perdersi (fot. 106). In effetti, un minuto dopo, l’abisso si affaccia sullo schermo, osservato da un’istanza narrante mai così fluida e mobile in quello che appare l’incipit più “classico” di tutto il cinema di Polanski: campo lungo del paesaggio dell’azione, con tanto di didascalia, e movimento di macchina in avanti, a introdurci nello spazio abitato dal protagonista. Il lavoro sui codi153

ci continua. Se la didascalia allude anziché illustrare, l’istanza narrante denuncia il proprio scacco. Per due volte il braccio snodabile della cinepresa perde di vista la sua vittima, che sfugge dalla cucina alla sala costringendo l’occhio del narratore a deviare il suo percorso. Una volta penetrata la finestra della sala, si deve attendere qualche secondo prima che la “fanciulla” riemerga dal fuoricampo (fot. 107). La FOT. 106 morte e la fanciulla si annuncia come una riflessione sulla difficoltà di inquadrare la Verità e impedirgli di evadere dai bordi della memoria. All’interno dell’abitazione, la cinepresa anticipa i gesti di Paulina mostrandoci gli oggetti che ella manipola: pur fugace, l’inquadratura del coltello sul tavolo precede quella che ne mostra l’utilizzo, per nulla thrilling (si tratta di tagliare il pollo), rafforzando quell’atmosfera di inquietudine costruita grazie all’assenza di dialoghi. L’oscurità provocata dal temporale interviene come espediente drammatico originale, assente nella notte “teatrale”, illuminata da un chiaro di luna che Paulina ha poco tempo di assaporare in solitudine: l’attesa del marito è brevissima, se pensiamo che quelle di Gerardo sono le prime battute del testo. FOT. 107 Tonino Delli Colli imita al meglio i toni caldi delle lampade a olio diegetiche, organizzando l’ambiente in macchie di luce che i corpi attraversano di continuo: quando la macchina da presa non si muove, come nel caso della conversazione con il marito durante la cena, tocca ai personaggi dare respiro alla messa in scena. La recitazione nervosa di Sigourney Weaver è perfetta in quella serie di gesti che traducono la tensione latente, disegnando nello spazio linee confuse. In contrappunto, la gestualità di Kingsley è ovviamente ridotta: scelto per la sua aria “perbene”, al fine di non insinuare nello spettatore nessun dubbio, Kingsley è un volto ottuso di cui interessa ciò che non si vede, come la voce e l’odore. Per la scena del ritorno di Miranda, Polanski sceglie una soluzione compositiva già utilizzata in altre opere, ovvero la compresenza di due sguardi: dietro i due personaggi maschili, brillano i fari dell’auto, occhi aperti e gialli come la luce di cui sopra (fot. 108). Il pieno dell’interno contrasta con la rarefazione 154

dell’esterno, dove emergono due strutture oggettuali simboleggianti la circolarità: il faro sullo sfondo e la ruota di scorta, appoggiata da Miranda lungo la classica longitudinale polanskiana, perfettamente al centro dell’inquadratura. Se la circolazione di tale oggetto è curiosa (da Il coltello nell’acqua a Frantic), relativo è il peso narrativo che esso riveste: la caduta di Miranda appare più che altro un espediente comico utile a smorzare la tensione. Vale la pena di ricordare FOT. 108 che in Dorfman non manca la ruota di scorta integra, ma il cric. Il tempo si dà fin da subito come attesa, spazializzato in quadri il più possibile ampi e distesi. Sono elisi i momenti laddove la narrazione non avanza, come il pasto solitario della donna (solo accennato) e le effusioni annunciate della coppia. Sul tema dell’attesa si innestano una serie di variazioni. All’inizio l’atteso è il marito. Poi, dopo il furto dell’auto, la parte spetta a Paulina, con la macchina da presa che ci fa sentire la durata restando incollata più di due minuti ai due uomini in piedi sull’uscio. Polanski ritrascrive qui uno dei suoi temi più complessi, il piano sequenza di otto minuti che accompagnava il dialogo notturno dei due personaggi di Cul de sac. Identici il momento (la notte) e il soggetto della discussione (le donne), ma speculari sono anche le posizioni e la fisicità dei due corpi. Alla claustrofobia del modello rimandano anche i soffitti bassi di questo pavillon, esaltati da frequenti angolazioni verso l’alto. La focalizzazione segue i consueti itinerari. A Paulina appartiene il punto di vista sonoro, non quello visivo; la cinepresa si sostituisce al suo sguardo tratteggiando la scena dell’aggressione senza alcuna pausa, con i dettagli dei gesti che scorrono in un perfetto montaggio invisibile. Narrativo è anche l’utilizzo del campo/controcampo per documentare l’inizio del viaggio nel passato (l’interrogatorio), impiegato però in funzione assolutamente straniante: dovrebbe accompagnare un dialogo, ma quello a cui assistiamo è un monologo. Le parole della donna si alternano al silenzio dell’uomo, che “parla” solo attraverso il ritmo del découpage. Sia i duetti che i trii (più avanti, quando il marito interviene nel processo) obbediscono al gusto per le linee di forza diagonali, disegnate da una disposizione dei personaggi che, assieme alla profondità di campo, assicura allo spazio un volume (fot. 109). Paulina e il marito, ai lati estremi del triangolo, incarnano il leitmotiv del quadro nel quadro già incontrato in Rosemary’s baby. 155

Leggermente diversa è la soluzione adottata quando il quartetto di Schubert entra, per pochi secondi, a sostituire le parole, sanzionando il rovesciamento simbolico dei rapporti di forza. Siamo circa a metà del film, e già attendiamo con impazienza di sapere che cosa contenga il nastro trovato nell’auto, riconosciuto nel buio dalla protagonista, ma non dallo spettatore. Inserita nel centro “temporale” del film, FOT. 109 la musica (emessa dal registratore portatile) occupa anche il centro dell’inquadratura (fot. 110). Il punto di vista, leggermente angolato verso il basso, allinea ora vittima e carnefice lungo una linea orizzontale, da un bordo all’altro del quadro. Schubert non copre più urla di dolore, ma offre semplicemente all’ascolto, con risonanze che solo la donna sa leggere. Si inaugura il ritratto, poi approfondito in Il pianista, della musica come mistero imperturbabile: a differenza del corpo, non porta addosso nessuna ferita della memoria. L’unico risultato “visibile” provocato da questo ascolto è, in perfetto anticlimax, il risveglio del marito, che costringe la donna ad abbassare il volume del registratore. Polanski si conferma uno dei rari cineasti in grado di restituire lo FOT. 110 straordinario dell’ordinario, riportando qualunque crescendo drammatico alla banalità del quotidiano: gli slanci romantici degli archi possono anche disturbare il sonno. All’attacco del primo movimento, mentre gli occhi di Miranda si agitano, Paulina accenna a parlare, ma poi si blocca, come se solo la musica potesse raccontare il trauma. Forse proprio in virtù del suo distacco, crudele e ambiguo; non per nulla il medico la utilizzava (?) come maschera: «Mettevo la musica perché mi aiutava a recitare la mia parte, la parte del buono; [...] mettevo Schubert perché era un modo per ottenere la fiducia dei prigionieri» (Ariel Dorfman, La morte e la fanciulla, Garzanti, Milano, 1993). Una curiosità: perché Polanski non ci fa mai ascoltare il secondo movimento del quartetto, quello che dà il titolo alla composizione? Nella scena prima del terzo atto, durante la registrazione della confessione, Dorfman prevede il sovrapporsi, nel buio, delle tre voci del dramma: l’Andante di Schubert, 156

Miranda e Paulina. Sia l’incipit sia la conclusione del film, ambientate nella sala da concerto, ci offrono invece l’inizio dell’Allegro, che si dilata ampiamente solo nei titoli di coda, dopo che l’urgenza del narratore (la storia doveva cominciare) e quella dei personaggi (la fretta di registrare la confessione) lo avevano interrotto. Il quartetto La morte e la fanciulla è allora l’ennesimo significante vuoto in un cinema che ha fatto del décalage la sua cifra stilistica, fingendo di concentrarsi su ciò che invece rimane ai bordi della storia. Non ascoltiamo il leitmotiv della Morte, ma in fondo di morte in questo film non c’è traccia, secondo una soluzione inedita in Polanski, così giustificata: «Se Paulina si facesse giustizia da sola [...] gli spettatori non uscirebbero dalla sala con qualcosa che li stuzzica» («Positif», n. 410, 1995). Nella postfazione alla pièce, Dorfman ne rivendica la portata allegorica inserendo tra i motivi ispiratori anche il seguente: «Come raccontare storie che siano popolari e ambigue al tempo stesso, storie che possono essere capite da un vasto pubblico e che tuttavia diano spazio alla sperimentazione stilistica, che siano mitiche ma che parlino anche di esseri umani concreti?». Senza volerlo, Dorfman ha fatto un ritratto della poetica di Polanski: ci sembra che il film raggiunga in pieno suddetto (ambizioso) obiettivo. Il quartetto di Schubert ricomincia tre volte e sempre dallo stesso punto, come a suggellare l’impossibilità stessa del racconto, o meglio, il suo porsi come “avanzamento immobile”. Narrare significa confrontarsi con gli imprevisti della fabula (si pensi alle interruzioni della corrente elettrica) e ritornare ogni volta al punto di partenza, nella certezza della relatività di ogni punto di vista. Nel prologo, il piano d’insieme dell’orchestra potrebbe appartenere allo sguardo di Paulina e/o del marito, seduti in platea. Ma l’epilogo ci svela la presenza in sala di un ascoltatore invisibile, che con un movimento di 180 gradi unisce lo spazio dell’esecuzione a quello dell’ascolto, il passato al presente. Nella sala, le vibrazioni degli strumenti investono il corpo molto più di quanto poteva fare il registratore. Paulina guarda, ma il gesto dei musicisti non le basta. E allora il movimento di macchina di cui sopra non si interrompe sul suo volto, ma sale in galleria, a inquadrare il presunto protagonista del passato. Il quale ha perso tutta l’aura fantasmatica ideata da Dorfman, nella scena seconda del quarto atto: «Roberto entra, illuminato con una luce vagamente lunare e fantasmagorica. Potrebbe essere veramente lui o un’illusione nella mente di Paulina». Questo «potrebbe» è un condizionale che Polanski ha sempre amato, ma che la messa in scena finale esclude: nessuna luce lunare, nessuna intrusione nella 157

mente della vittima, nessun codice che possa incrinare l’effetto di realtà. Tutto sembra ricominciare, dalla stessa nota, con lo stesso violoncello: come nel salotto di L’angelo sterminatore, gli ascoltatori hanno assunto le posizioni iniziali. Che questo sia l’epilogo e che tutto ciò che abbiamo visto possa corrispondere a un flash-back, ce lo fa pensare a posteriori una battuta della protagonista, che rivela di non aver mai più potuto ascoltare quella musica dopo le torture. Come in precedenza, durante la fase iniziale dell’ascolto del nastro, la musica sembra poter modificare il regime di narrazione, suggerendo una soluzione di montaggio in continuità. Lo scambio di sguardi tra i protagonisti non è simulato dal campo-controcampo, ma, in abîme, è esso stesso oggetto di sguardo da parte della cinepresa. Messa in scena di una messa in scena. Proprio come la confessione di Miranda, così falsa da sembrare vera, chiusa nel primo piano frontale più lungo di tutto il film. Il più astratto, quello che più fa sentire il dispositivo. Nessuna caduta; la vertigine è solo un falso movimento. Il diavolo è femmina

Dopo la pubblicità, è la volta del video-clip. Nel 1996 Vasco Rossi convince Polanski a illustrare Gli Angeli, hit dell’album Nessun pericolo... per te, una sorta di contemplazione della miseria del mondo dall’alto dello spazio della solitudine. Il video, realizzato in tre giorni in un capannone fuori Milano, è presentato con successo nella sezione “Finestra sulle Immagini” della Mostra del Cinema di Venezia. La cinepresa ruota sul proprio asse e asseconda il movimento a spirale del rocker, che vola sopra i tetti come un personaggio di Chagall. Nulla a che vedere con la caduta dell’angelo nella toilette di Cracovia: il corpo del cantante si trova là dove gli angeli non arrivano, se non sotto le sembianze sessuate di una splendida ragazza. Attorno al diavolo ruota invece la penultima fatica per il cinema, La nona porta, rivisitazione grottesca del satanismo già ridicolo in Rosemary’s baby, qui ripulito di tutto ciò che restava del perturbante. Dopo il mélo, l’avventura e il thriller, questa volta oggetto della decostruzione sono i topoi dell’(ex) cineasta dell’incubo, cui non interessa più fare paura. Dopo aver più volte confessato (e rimpianto) di non credere nel soprannaturale, Polanski sembra voler convincere lo spettatore a fare altrettanto, lasciando soltanto immaginare, fuori dal film, l’approdo a quel regno delle tenebre tanto agognato dai vecchietti newyorchesi. Il meccanismo è lo stesso di Rosemary’s baby, con il titolo che 158

funge ancora da figura dell’assente. Nel rispetto dei codici della paura, l’Altro si affaccia come soglia, ma sempre impenetrabile. Non vedevamo il contenuto della culla, non vediamo che cosa si nasconde dietro la nona porta. Ma ciò che resta ora, dopo l’esplosione del genere, sono una lingua FOT. 111 penzolante da un volto strozzato (fot. 111), un cadavere nella vasca dei pesci rossi, un gruppo di adepti dell’Occulto impauriti come bambini, un sacerdote di Satana che si accorge troppo tardi delle fiamme che lo circondano: dalla parodia alla farsa. I codici dell’orrore sono anneriti e polverizzati come i volumi inseguiti dal detective. Firmata assieme a John Brownjohn e Enrique Urbizu, la sceneggiatura tesse i fili di un intrigo a metà tra il giallo e il viaggio iniziatico, senza che nessuno dei due registri prevalga nettamente sull’altro. Di fronte ai buchi che la vis comica apre nel racconto è lecito fermarsi e arrestare il processo di fascinazione. Ma anziché rinunciare a credere, lo spettatore è invitato a farsi trasportare nel viaggio verso il non-credibile. Anche l’incrinatura del verosimile, incarnata dal personaggio fantasmatico di Emmanuelle Seigner, è accettata come conditio sine qua non dell’immedesimazione. Le regole del gioco sono chiare, basta seguirle, come recita la didascalia della prima incisione delle Nove Porte: «Nemo pervenit qui non legitime certaverit». La volontà di spiegare tutto, di mettere lo spettatore sulla pista giusta e prepararlo al coup de théâtre finale si mescola con il piacere ben noto di divertire, forse qui più trasparente che in altre occasioni. La delusione di certa critica, convinta di ritrovare in questa coproduzione franco-spagnola il senso di malessere e la ricerca formale degli anni Sessanta, si spiega con il fatto che lo humour, un tempo nascosto sotto la superficie (si pensi al passo da “lupo cattivo” degli stregoni nel corridoio di Rosemary) oggi è scoperto come componente inscindibile dell’ingranaggio. Dietro c’è ancora un romanzo, il recente El club Dumas di Antonio Perez Reverte, uno dei più grandi successi commerciali della letteratura spagnola. L’eruditissimo ex-reporter confeziona un divertissement barocco ricco di piste e di referenze bibliofile, da Shakespeare a Melville, incrociando due inchieste: 159

quella sul manoscritto di un capitolo inedito di I tre Moschettieri, con i cattivi di Dumas reincarnati negli adepti di Satana Liana Telfer (Milady) e assistente (Rochefort), e quella su di un misterioso Delomelanicon scampato alla censura della Chiesa nel diciassettesimo secolo: De regni umbrarum novem portis, stampato da Aristide Torchia. Della prima pista Polanski non conserva quasi nulla, preferendo muoversi su territori già noti, senza imbrogliare troppo le carte dell’indagine. Dopo aver scritto un biglietto d’addio, un uomo si impicca nel proprio studio. Il suo nome è Telfer, collezionista di libri rari: una volta scoperti i passatempi satanici della moglie Liana, ha venduto una copia del rarissimo Le nove porte del regno delle ombre a Boris Balkan, bibliofilo senza scrupoli appassionato di demonologia. Ma non ha resistito ai sensi di colpa. Attribuito a Lucifero in persona, il libro, stampato da Aristide Torchia nella Venezia del 1667, contiene una serie di codici la cui interpretazione permetterebbe di evocare il diavolo. Tocca a Dean Corso, cinico cacciatore di libri, cercare per Balkan le altre due copie rimaste del delomelanicon, prima in Portogallo e poi in Francia. La ricerca si colora subito di giallo: l’amico rilegatore cui Corso aveva affidato la copia di Balkan viene ucciso secondo un rituale illustrato in una delle tavole del volume. Strani personaggi sembrano seguire le tracce del detective. Se un uomo di colore cerca più volte di ucciderlo, una ragazza dagli occhi verdi si offre come angelo custode, salvandolo in diverse occasioni. La copia portoghese costa la vita al suo proprietario, Fargas, affogato nella vasca dei pesci rossi: ma Corso recupera il volume annotando le leggere varianti nelle incisioni. Le tavole che cambiano sono firmate L.C.F., e non più A.T. A Parigi, Corso fa appena in tempo ad analizzare le varianti della terza copia prima di essere sorpreso alle spalle: la biblioteca Kessler è in fiamme, assieme alla sua arzilla proprietaria, ma il libro è in salvo. A questo punto intervengono i concorrenti di Balkan. Liana Telfer e il suo bodyguard rubano la copia francese e fuggono nel castello di St. Martin dove è in programma un’evocazione del diavolo con tanto di orgia. Ma Balkan sopraggiunge, caccia gli adepti e uccide Liana Telfer davanti agli occhi di Corso. Il detective ha finito il suo compito, ma qualcosa lo spinge a continuare. Dopo aver assistito al fallimento dell’evocazione satanica di Balkan, bruciato dalle fiamme, Corso trova una copia della nona incisione sul vetro dell’auto, con un invito a ritornare nella legatoria di Madrid, dove lo attende una variante della tavola: la ragazza sul drago ora allude al castello sullo sfondo. Una stella a sei punte separa il nostro eroe dall’appuntamento con il Diavolo.

Il film cancella la struttura in abîme del racconto, affidato da Reverte a un narratore interno che non esita a scoprire le sue carte informando il lettore delle variazioni nella focalizzazione. Si legga al capitolo XV (A. P. Reverte, Le Club Dumas ou l’ombre de Richelieu, Lattès, Paris 1994. Nostra traduzione): 160

«Fedele al principio che vuole che il lettore di un racconto di suspense abbia le stesse informazioni del protagonista, ho cercato di attenermi ai fatti visti nell’ottica di Corso, salvo in due occasioni». Esattamente ciò che fa l’istanza narrante di Polanski, con l’eccezione della scena del suicidio di Telfer, inserita non a caso nel prologo. Pur privilegiando l’indagine satanica, Polanski sposta l’ambientazione a New York (da lì parte il viaggio per l’Europa) e non disdegna di infarcire la sua trama di frammenti del puzzle di Reverte, inseriti laddove nessuno se lo aspetta: leggendo la cartolina inviata da Balkan alla baronessa parigina (raffigurante un castello già visto in foto nell’ufficio dell’uomo) scopriamo che ella abita al 17, Quai d’Anjou. Anche l’adattamento diventa un gioco combinatorio: Le vin d’Anjou era il titolo del capitolo inedito del capolavoro di Dumas inseguito da Boris Balkan, che nel film cambia completamente volto e funzione narrativa. L’onesto studioso di Dumas, narratore quasi onnisciente delle avventure di Corso, si trasforma in un perverso sacerdote di Satana (ruolo nel romanzo rivestito da Varo Borja), alla ricerca di quel verbum dimissum che, come si legge nella terza incisione del volume, custodisce l’arcano. Al pari di Reverte, Polanski cerca di consegnarci il punto di vista del detective, senza però inquadrare, una dopo l’altra, le ventisette incisioni contenute nelle tre copie. Il tempo del discorso, concentrato per mezzo di un montaggio invisibile che elide molti piani di ambientamento, non permette nemmeno le elaborate traduzioni delle massime latine sfoggiate nel romanzo, dove ai personaggi dei collezionisti è affidato il compito di decifrare le allegorie. Per mostrarne (e irriderne) la veridicità, Polanski adotta soluzioni spettacolari come il fallito attentato spagnolo al povero Corso, che schiva per miracolo il crollo di un’impalcatura dopo essere stato prevenuto dai gemelli Ceniza (parodia del tema del doppio) di un possibile «pericolo dall’alto». Irresistibile è il lavoro sul personaggio della baronessa demonologa, che la morte trasforma in un corpo impazzito sulla sedia a rotelle. Oggetto della parodia è il mito cristiano della visitazione della Madonna, in quanto la donna afferma di avere visto il Diavolo alla tenera età di quindici anni («fu amore a prima vista»), ma si è guardata bene di annunciare la “buona novella”. «Questo libro richiede fede, e oggi la fede scarseggia»: non si parla del Vangelo, ma del libro di Satana. Singolare anche la variazione sul personaggio dell’angelo custode, cui Polanski toglie nome e ambiguità sessuale. Niente capelli corti e risata da ragazzo. «Ma come si fa a credere ad un diavolo in jeans e scarpe da tennis?» si è chiesto 161

Giorgio Cremonini («Cine forum», 391, 2000). Questo diavolo ha il fascino conturbante di un corpo sinuoso sotto i pullover, i capelli prima raccolti e poi sciolti sui seni nella fantasmagoria erotica finale: l’accoppiamento mostruoso di Rose mary’s baby è replicato a parti FOT. 112 invertite. La passività di Corso nella possessione può ricordare il finale di Lost Highway (simili i tagli di inquadratura e i rapporti di “forza”). Anche qui in fondo si tratta di strade perdute, itinerarium mentis in diabolum che risolve la detection nella perdita. Cinico e distaccato all’inizio, Corso si immerge nel rebus fino a diventare altro, risucchiato dalla fascinazione dell’enigma. La nona porta è un film sulla vertigine dello sguardo, sui pericoli insiti nella lettura delle immagini. Alla fine il protagonista riuscirà a coronare il sogno del Polanski spettatore: essere dentro il quadro (fot. 112). Nessuna equivalenza con Dio. Varcare la nona porta significa semplicemente, per effetto di una dissolvenza incrociata, penetrare lo spazio bidimensionale dell’allegoria. Si pensi a Luna di fiele: se Nigel ascoltava, Corso legge. Ma entrambi finiscono per diventare protagonisti di un racconto nel racconto. Nell’incisione trovata a Madrid, la mezzaluna non vela più il sesso della donna sul drago. «Nunc scio tenebris lux»: se Reverte fa tornare i personaggi alla vita normale, mettendo in bocca a Corso uno scetticismo che tranquillizza il lettore («I libri giocano davvero dei brutti scherzi» è la battuta finale), Polanski li fa sprofondare nell’inferno dell’eros (fot. 113), in una luce di cui Vittorio Giacci ha notato la consistenza liquida e torbida, «mescolanza di iridescenza e di pastosità barocca» («Filmcritica», n. 501/502, 2000). Di ascendenza chandleriana è la vulnerabilità del detective, come Gittes (Chinatown) sorpreso dagli eventi e irriso dal suo narratore, che non esita a mostrare la borsa di ghiaccio sul capo dopo il primo dei due FOT. 113 svenimenti. Infiniti sono i toc162

chi di humour in questo senso, dalla bottiglia di gin usata come arma alla divertente zuffa sul lungosenna, con l’investigatore privato dello strumento del suo mestiere (calpesta involontariamente i propri occhiali) e poi così sbadato da dimenticare di pulirsi la macchia di sangue lasciatagli dal suo angelo custode. Senza dimenticare la dolce compagnia delle pecore durante il viaggio di fortuna all’inseguimento di Balkan (nomen est omen: alla baronessa si era presentato come un lupo travestito da pecora), in una digressione narrativa assicurata da una banalissima panne dell’auto, l’ennesima nel cinema di Polanski. Il leitmotiv della “trappola” colora di humour anche la drammatica resa dei conti nel castello, dove Corso, bloccato nelle travi di legno come il dottor Abronsius nei cunicoli di Dracula (Per favore... non mordermi sul collo), assiste a una delle più dissacranti parodie del rito satanico. La cura maniacale per il dettaglio, che traduceva in Rosemary’s baby la luccicanza degli odori e dei sapori emanata dagli oggetti, è qui rivolta al personaggio del libro, inseguito, annusato, accarezzato e persino auscultato dal detective. Il disegno del pentacolo in copertina è opera dello stesso Polanski (esperto nel dipingere stelle di David), che ha poi provveduto a conformare i volti di Reverte a quelli dei suoi attori, demistificando completamente l’appara- FOT. 114 to simbolico dei tarocchi saccheggiato dal romanzo. Si pensi alla sequenza dell’aggressione nella biblioteca Kessler: prima di chiudersi, gli occhi di Corso ci permettono di leggere l’ottava incisione del libro come una premonizione (fot. 114). Al posto della fanciulla pronta al martirio (victa iacet virtus), distinguiamo il povero detective nell’istante che precede la bastonata alla nuca. L’allegoria perde l’astrazione della metafora per incarnarsi nella realtà della finzione. Polanski, a pensarci bene, non ha mai amato “parlare altrimenti”. «Che cosa avete fatto ai suoi occhi?», gridava Rosemary vicino alla culla nera. Gli occhi verdi di Emmanuelle Seigner sono già vitrei e felini. Al narratore non resta che ingabbiarli in rari e proprio per questo incisivi primi piani, i quali servono il racconto senza contrastare con la natura fantasmatica del personaggio. Offerti scopertamente come effetti speciali, i suoi salti dalle scale e le sue apparizioni/sparizioni improvvise non possono godere del medesimo sta163

tuto di ambiguità riservato alle visioni in semi-soggettiva di Rosemary. Pensare che Corso “immagini” soltanto di vedere la ragazza è difficile o addirittura inutile, proprio perché l’effetto di reale scompare nei codici del fantastico: il fantasma si manifesta solo agli occhi dell’istanza narrante, mai in soggettiva dell’eroe, goffamente impegnato in improbi duelli. Pur nella rinuncia a invenzioni formali in nome del divertissement, non mancano interessanti tocchi di regia. Come ha rilevato anche Erwan Higuinen («Cahiers du Cinéma», n. 538, 1999), uno dei rari momenti di vertigine è offerto dai titoli di testa, affidati all’occhio onnisciente di una cinepresa che anticipa il gesto del suicida con un movimento dal basso (il panchetto) verso l’alto (la corda), dopo averci fatto ascoltare per qualche secondo il rumore della scrittura. Senza infierire sul volto del morto, l’istanza narrante imita poi l’esitazione della “ricerca”, leitmotiv della storia, vagando attorno ai libri prima di penetrare, attraverso uno spazio vuoto, un corridoio nero punteggiato di nove porte, da cui emergono bianchi i titoli di testa. Il racconto inizia con un movimento di macchina contrario a quello del prologo, una panoramica sui grattacieli di una metropoli che tanto ricorda l’incipit di Rosemary’s baby (fot. 115). Siamo ancora a New York; sinFOT. 115 golare è però la natura “terrestre” di questa istanza narrante, non più aerea e nemmeno esterna all’ambiente dell’azione, come quella che apriva La morte e la fanciulla. I cliché del noir hollywoodiano sono ancora una volta rivisti: anziché avanzare verso i grattacieli sullo sfondo, la cinepresa retrocede, in quanto già abita lo spazio della finzione. Tutto è pronto. Raccontare l’ennesimo giallo significa allora tornare indietro e scoprire piste narrative già viste, personaggi imbalsamati da rivitalizzare, intrighi noti e prevedibili in compagnia di un personaggio di cui sappiamo già che non potremo sbarazzarci. Allo stesso modo il detective non riesce a liberarsi della voce del suo datore di lavoro, un Frank Langella scelto proprio per l’impassibilità del timbro vocale. Balkan incarna l’acusma di un occhio invisibile, dotato di poteri vicini a quelli che l’enigma delle Nove Porte potrà solo rafforzare: a differenza del Katelbach di Cul de sac, lui arriva. Ma non sa di essere uno dei tanti annoiati miliardari 164

di una congrega satanica ormai in declino; nessun neonato è in attesa di essere sacrificato al principe delle tenebre. A nulla servirà «viaggiare in silenzio su una strada tortuosa, affrontare la sfortuna senza temere né cappio né fiamme, vincere la più grande partita non astenendosi da alcuna spesa e sfidare le vicissitudini del fato». Perché basta una semplice macchia d’inchiostro per falsificare l’enigma e far saltare il ponte che conduce all’aldilà, sotto un cielo che incombe rosso fuoco sul castello medievale di Puivert, nella regione francese dell’Aude (altra innovazione dell’autore, cui la Spagna non era forse altrettanto familiare). Un set che già le guide del luogo chiamano la Torre del Diavolo. Come sempre in Polanski, tutto è ciò che appare, nulla appare ciò che è. Quando i fantasmi gli vengono incontro, Corso è solo una fascia di luce in uno schermo bianco. L’accoglienza della critica è fredda, ma anche gli incassi non sono all’altezza dei giorni migliori. Nel 1999 Polanski ritorna alla pubblicità con «My Economy», campagna promozionale di XelionBanca (trading on line) diretta dal presidente di Tbwa/Italia Marco Ferri e lanciata nel novembre 2000, ben prima che il crack della new economy fosse ufficializzato. Al ritmo di «Dance with me tonight» di Elias Rogness, si alternano tre volti dell’istituzione finanziaria: la banca tradizionale, con un direttore inferocito e una segretaria carica di carte in una sala polverosa, la new economy, incarnata da un giovane indaffarato con portatile e cellulare in un caffè parigino, e la my economy, simboleggiata da un seducente idillio familiare. La frenesia della vita moderna lascia spazio a una gita in barca su un laghetto dai colori autunnali, con una famiglia felice e spensierata: gli investimenti sono al sicuro. Ma quasi nessuno si è accorto di un geniale tocco humour nell’ultima inquadratura: nelle mani del bambino si intravede «Il Capitale» di Marx, in edizione tedesca, del resto già inserito tra i libri prediletti del marito di Tess. Anche di fronte alla commissioni di mercato Polanski riesce a non perdere l’anima. Ballata in sol minore

«Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. Ritornate alla vostra nebbia.» (Primo Levi, Il superstite) Non c’è spazio per la vergogna nel diario di Wladislaw Szpilman, pianista polacco salvato in mezzo a migliaia di sommersi. Uscito nel 1946 con il titolo 165

Morte della città, censurato dal regime comunista e ripubblicato di recente a cura del figlio Andrzej, The Pianist era l’occasione che Polanski cercava da anni. Da quando, nel 1991, aveva dovuto rifiutare l’offerta di Spielberg di girare Schlinder’s List: si trattava di rievocare il ghetto di Cracovia (città natale di Oscar Schindler). Impossibile confrontarsi direttamente con i fantasmi del proprio passato, meglio affrontarli con la mediazione di un testo il più possibile freddo, oggettivo e asettico. Parlare di un altro per parlare di sé. Diversi sono i documenti che testimoniano le atrocità del ghetto, dal diario di Mary Berg (Il ghetto di Varsavia 1939-1944, Einaudi, Torino, 1991) ai quaderni di Adam Czerniakòw (Carnets du ghetto de Varsovie 1939-1942, La Découverte, Paris, 1996), disperata testimonianza di impotenza da parte del presidente del consiglio ebreo di Varsavia, che di fronte all’ordine di riempire di bambini i treni della morte, preferì ingoiare una pasticca di cianuro. Le memorie di Szpilman, morto qualche mese dopo il primo ciak, oltre alla precisione dei fatti offrono quell’imparzialità “rosselliniana” dello sguardo necessaria per evitare i toni dell’accusa, trappola in cui invece era caduto Frédéric Rossif in Le temps du ghetto (1961), montaggio di materiali d’archivio dove il male ha un solo volto. In Il pianista buoni e cattivi sono mescolati da ambo le parti, perché non è il giudizio morale che interessa, quanto la fenomenologia dell’orrore, il suo affacciarsi impassibile sul destino dell’individuo. Più che la ricostruzione degli eventi, preme la rivelazione dei fatti, il loro offrirsi allo sguardo del flâneur come «situazioni ottiche e sonore» (Deleuze). Il depositario della focalizzazione è “inseguito” dal visibile, ossessionato da lamenti che non può calmare (l’infanticida nella Umschlagplatz). Talora l’orrore entra nel campo visivo e resta lì, come la donna colpita a morte sotto la finestra; talora invece sono le grida a dirigere l’erranza, come nell’episodio del bambino incastrato nel muro. Ronald Harwood, drammaturgo di origine ebrea scelto per la distanziazione ironica mostrata in Taking Sides (A torto o a ragione, dramma sul rapporto tra arte e nazismo portato allo schermo da István Szabò), ha cercato di restituire almeno in parte l’assenza di legami di causa ed effetto tra gli eventi rievocati dal superstite. «L’approccio – ha confidato lo sceneggiatore – è molto “behaviourista”: quando Szpilman va all’ospedale, non è il caso di spiegare perché, basta mostrare che ci va» («L’Avant-Scène du Cinéma», n. 520, 2003). Tra le macerie di Varsavia, il leitmotiv neorealistico della ballade (si pensi a Germania anno zero) si carica di uno slancio vitale nuovo, che nelle ferite dei muri non legge l’urlo della Storia ma semplicemente un buco dove nascondersi per continuare a sopravvivere. Polanski si è detto affascinato dall’ottimismo che pervade il 166

libro, ma a sedurlo è probabilmente la struttura avventurosa del racconto, il ruolo che il caso assume nella vita del giovane pianista, suicida fallito (a differenza degli eroi di Rossellini) e salvato da ciò che fino ad allora gli aveva consentito di vivere: la musica. Il desiderio di sedersi nuovamente a quel piano è stata, a giudizio di Polanski, la molla decisiva per resistere, quando la rilettura mentale degli spartiti si offriva come unico naufragio dello spirito. L’incrociarsi fortuito di due strade aveva deciso il destino di Tess; qui la fortuna agisce in senso opposto. Non a caso Emanuela Martini ha parlato di «Tess della persecuzione nazista» («Cineforum», n. 421, 2003). Due ingredienti polanskiani per eccellenza, come la focalizzazione interna e il cul de sac, sono già contenuti nel diario, ma non hanno mancato di sollevare ridicole critiche presso quella stampa che aveva apprezzato lo spettacolo dell’insurrezione messa in scena da Jon Avnet (1943, L’ultima rivolta [Uprising, 2001]) con tanto di sangue, sudore, urla e acrobazie. Pochi i dettagli del gruppo di resistenti che dall’aprile al maggio del ’43 lottarono per una morte più umana di quella della deportazione. Intravediamo dalla finestra solo ciò che Stpilman intravede. I fatti sono là, fuori dal quadro, nessuno li organizza: l’orrore del vero emerge dagli echi delle grida, dalle rifrazioni dei bagliori, dalle nuvole di fumo. Da tutto ciò che si offre ai sensi dell’impotente voyeur. Il pianista è un film su ciò che, dopo l’esperienza della perdita, resta dentro e non si può raccontare a nessuno, nemmeno ai propri figli: si legga la prefazione di Andrzej Szpilman al diario del padre. In questo senso l’amnesia del superstite non è il risultato dell’annientamento della libertà. Se la sorte della famiglia scompare fuoricampo, “dimenticata” persino nei titoli di coda (perché, come ha detto Ronald Harwood, nessuno è mai andato a dirgli: «Ho visto tua madre entrare nella camera a gas»), significa che forse lo sguardo di Polanski è morale. Rovesciando la famosa apostrofe con cui Rivette attaccò il presunto estetismo di Kapò, potremmo dire che la morale è una questione di fuoricampo. Sulle note di un pianoforte invisibile si apre Il pianista. 1 settembre 1939: le bombe di Hitler cadono su Varsavia e costringono i polacchi a una breve resistenza: il 27 settembre è la capitolazione. I colpi di artiglieria obbligano il pianista Wladislaw Szpilman a interrompere l’esecuzione di un “Notturno” di Chopin alla radio di Varsavia. La famiglia Szpilman subisce fin dall’inizio le leggi della persecuzione razziale e nell’ottobre del 1940 entra nel ghetto, ampliato di duecentomila unità; Wladislaw suona per la polizia ebraica, mentre il fratello rifiuta di collaborare. Due anni dopo cominciano le deportazioni, solo in pochi intuiscono il destino che li attende. Grazie all’aiuto di una guardia amica, Wladislaw viene allontanato dal 167

treno e salvato. Al ritorno nel ghetto, il pianista è costretto a lavori forzati e picchiato al minimo errore. Collabora con la resistenza nascondendo armi nei sacchi di patate, finché un giorno non decide di fuggire. Una coppia di amici lo nasconde in un appartamento, dall’altra parte del muro. Qui osserva dalla finestra lo spettacolo dell’insurrezione di Varsavia, un breve sogno smorzato nel sangue. Un giorno, per colpa di un piatto caduto, viene scoperto dalla vicina e costretto nuovamente a fuggire. Lo accoglie Dorota, la violoncellista che tanto ne ammirava il talento. Il secondo rifugio è situato di fronte all’ospedale tedesco, una zona sicura. Chiuso a chiave, Szpilman siede a un vecchio pianoforte, immaginando di suonare la “Grande polonaise brillante” di Chopin. Ma è tradito dall’uomo che doveva occuparsi di portargli il cibo e invece lo fa morire di fame. Sopravvissuto a un’epatite, rischia di morire durante i bombardamenti del ’44, che distruggono l’immobile. Fuggito dall’ospedale in fiamme, il pianista vaga tra le macerie della città nascondendosi nella soffitta di una casa. Trova un barattolo di melanzane ma è scoperto da un ufficiale tedesco, il capitano Hosenfeld, che lo invita a dare prova della sua arte. La “Ballata in sol minore” di Chopin echeggia nel deserto delle rovine. Prima di partire in ritirata, l’ufficiale offre a Szpilman cibo e cappotto. Proprio per colpa di quest’abito, Szpilman rischierà per l’ultima volta di morire, scambiato dai russi per un tedesco. La guerra è finita. Inutili saranno i tentativi di ritrovare il capitano, ucciso in un campo russo. La “Grande polonaise brillante” segna il ritorno alla musica e alla vita.

I trenta milioni di euro del budget, assicurati dalla Roman Polanski’s Production in collaborazione con Alain Sarde e Robert Benmussa, servono a nascondere il dispositivo, a ricostruire volti, colori, atmosfere evocate da Szpilman ma vissute anche da Polanski. Cracovia e Varsavia, dove il piccolo Roman aveva passato l’autunno del ’39 nascosto nei rifugi sotterranei, si fondono in un solo teatro della memoria. Nell’assolata Umschlagplatz, dove la famiglia Szpilman consuma l’ultimo l’abbraccio, i corpi inerti e svuotati in attesa della partenza non possono non richiamare alla mente del regista quelli osservati nella Zgodyplatz di Cracovia, alla ricerca del padre deportato a Mauthausen (tutto è annotato in Roman). La biografia entra nelle maglie del documento senza minare assolutamente il principio di fedeltà, dando invece al dramma uno spessore più universale. Alcune varianti, come la sottrazione dell’immagine degli orfani del dottor Korczac, descritti da Szpilman nei commoventi dettagli dei vestiti della festa in vista della deportazione (una scena che sarebbe tanto piaciuta a Benigni), si giustificano con il rifiuto della lacrima facile. Uno dei più grandi meriti di Il pianista è quello di evitare sia l’edulcorazione che il compiacimento; troppo rischioso forse filmare il riposo dello scheletro femminile osservato dal superstite dopo la liberazione, l’ultima immagine 168

descritta. Forse la più struggente. L’unico bambino che vediamo muore a colpi di bastone protetto dall’oscurità, con la cinepresa a debita distanza, a suggerire l’impotenza dello sguardo. Quanto all’episodio della guardia ebrea che salva il pianista dalla deportazione, la realtà è completamente riscritta, come rivela lo stesso Polanski in A Story of Survival. Behind the Scenes of The Pianist, making-off allegato all’edizione Dvd del film (Universal-Wild Side Video). Se Szpilman corre preso da una «paura animale», il pianista del film cammina, FOT. 116 obbedendo a un ordine che esiste solo in Roman, impartito da un ufficiale al piccolo orfano: «Don’t run». Innegabile l’effetto straniante, con la calma apparente dell’uomo che contrasta con il caos e il pathos del momento. Anche l’episodio della donna che chiede all’ufficiale la destinazione del viaggio e riceve una pallottola in fronte è una personale recollection del regista, ricordata nell’intervista di cui sopra. Impressionante l’adesione ai filmati d’archivio della Wfdif e della Wehrmacht. Molti tagli di inquadratura, così come le angolazioni della macchina da presa e la stessa postura degli attori, sono ricalcati sulle immagini di repertorio: è il caso della scena del suicidio di un insorto (fot. 116 e FOT. 117 117), del campo lungo dei corpi pronti alla fucilazione, del gruppo di soldati in mezzo a una via. Come se Polanski, alla fine, fosse riuscito a chiudere gli occhi e lasciare parlare la Storia, aggiungendo solo colori, voci e rumori. Dietro l’apparente accademismo si nasconde la volontà di neutralizzare lo sguardo limitando al massimo la falsificazione, che emerge invece negli effetti Dolby-Stereo ma soprattutto nella scelta della lingua inglese, nettamente più vendibile del polacco. Il tedesco riecheggia invece come voce del terrore: pensiamo alle ferite “sonore” stampate nella memoria di Primo Levi, ossessionato dal comando straniero dell’alba di Auschwitz, «Wztawac!» (A ora incerta, Einaudi, Torino, 1988). Il raffreddamento del patetico è spesso appena avvertibile tra le righe del racconto, come testimonia un’aggiunta che funge da controcanto ironico alla disperazione. Nel silenzio dell’Umschlagplaz, risuonano versi celebri di Il 169

Mercante di Venezia (Atto III, scena 1), letti da Henryk al fratello errante tra i corpi ammucchiati: Shylok: «Se ci pungete, non dovremmo sanguinare? Se ci stuzzicate, non dovremmo ridere? Se ci avvelenate, non dovremmo morire? E se ci oltraggiate, non dovremmo ribellarci?». Una commedia di fronte alla tragedia. E per giunta una commedia intrisa di vaghi accenti antisemiti: Shylok, incarnazione della diffidenza dell’Inghilterra elisabettiana verso il popolo ebreo, è definito nel testo un demonio (devil), ma gli viene offerta la possibilità di spiegare le ragioni del suo odio contro i cristiani. Shakespeare ritorna in tempo per incarnare lo humour cinico di un popolo che, nella sofferenza, all’azione preferisce la parola. «Very appropriate», è il commento del pianista alla citazione del fratello: la soluzione più raffinata, da parte di Polanski, per sfiorare il tabù della (mancata) ribellione all’invasore. La Storia si offre alla fiction già messa in quadro dai reporter del Reich, convinti di immortalare una nuova era nella storia dell’umanità, ispirati forse da quella volontà di potenza che spingeva ad assumere il proprio passato (cfr. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino, 1998). Polanski non esita a mostrarceli, per dirci che forse questo è l’apogeo dell’orrore: non solo annientare la dignità, ma anche interferire nella trasmissione della verità. Non «così fu», ma «così abbiamo voluto che fosse». FOT. 118 Chissà se gli autori hanno consultato anche le foto “indipendenti” di Joe J. Heydecker, soldato della Wehrmacht introdottosi nel ghetto nel 1941 per «conservare il grido che avrei voluto risuonasse nel mondo» (in Il ghetto di Varsavia. Cento foto scattate da un soldato tedesco nel 1941, Editrice La Giuntina, Firenze, 2000). Anche qui il documento sfiora la messa in scena, in quanto Heydecker era costretto a fare rimettere il cappello agli uomini che, meccanicamente, lo alzavano alla vista dell’uniforme. L’unica foto esistente delle rovine di Varsavia prima dell’arrivo dei russi, scattata nel novembre del 1944 (fot. 118), ha probabilmente ispirato la ricerca di Polanski, che ha girato mezza Europa prima di trovare, vicino a Berlino, una caserma dell’Armata Rossa abbandonata. Le rovine in cui vediamo avanzare il fantasma del superstite, esaltate da un dolly che spalanca piano piano il vuoto dopo la battaglia, sono vere (fot. 119). Allan Starski, già collaboratore di Spielberg in Schlinder’s List, le ha plasmate con l’esplosivo in modo da ottenere i corridoi, i pertugi, le voragini 170

richieste dall’autore: manipolata come uno studio, la realtà recupera l’aspetto spettrale grazie al lavoro della luce, che uniforma tutto in una dominante grigia odorante di morte. Operazione inversa invece per la costruzione del muro del ghetto, ricreato accanto a Praga, il solo quartiere rimasto in piedi della città vecchia. La ricostruzione dei colori è “in minore”, come i frammenti di Chopin. Nei costu- FOT. 119 mi si ricercano i marroni e i verdi dell’epoca, soprattutto per il periodo che precede l’entrata nel ghetto, al cui interno prevale invece una monocromia che Pawel Edelman illumina nel modo più discreto possibile. Memore della difficoltà patita da bambino nel disegnare l’incomprensibile stella di David, Polanski in persona dipinge il marchio blu sui fazzoletti, facendo attenzione alle piccole variazioni, esattamente come era nella realtà. Filmare la parola, i fatti senza dialoghi come li descrive il testimone, non era facile; bisognava dare un ritmo all’esposizione cronologica degli eventi. Polanski e Harwood imbrigliano la materia del racconto in una struttura narrativa non priva di sorprese e colpi di scena. Si pensi all’incipit, con quelle immagini d’archivio che punteggiano le note del Notturno in do diesis minore, dodici quadri di una Varsavia che non esiste più: “1939”. Solo la musica può far risorgere la memoria, in virtù della sua ubiquità spazio-temporale, acusma capace di attraversare le mura della diegesi. Quando essa si incarna nelle mani di Adrien Brody, la Storia lascia il posto all’avventura dell’individuo. Il racconto di Szpilman è manipolato secondo le leggi dello spettacolo. Scelto da Polanski nel generico repertorio di Chopin suonato il 23 settembre (e non a caso, come vedremo in seguito), il Notturno in do diesis minore è interrotto dai bombardamenti, che costringono il pianista ferito a fuggire dalla stazione radiofonica. Come già accadeva nel prologo di La morte e la fanciulla, la musica è violentata, ex abrupto, lasciando dentro una sensazione di vuoto, di nonfinito, che non esiste nel “vero” Szpilman, in grado di terminare tutta la seduta di registrazione prima di rientrare a casa. Ma il dramma del musicista senza musica non bastava, non poteva essere abbastanza avvincente. Si spiega allora l’aggiunta del personaggio di Dorota, leggera digressione mélo che non toglie nulla alla fedeltà della ricostruzione, permettendo di rivelare la psicologia del protagonista, timido, impacciato e spaesato come tutti gli eroi di Polanski. La 171

presenza della donna è l’occasione che permette di rallentare la fuga dal palazzo in fiamme: un perfetto anticlimax tra il comico e il romantico. L’invenzione di una possibile storia d’amore è un espediente utile ad amplificare l’orrore della guerra; così l’entrata nel ghetto si colora di una malinconia più intima (Dorota saluta il pianista dal marciapiede), mentre la fuga, due anni dopo, si risolve in una contemplazione del tempo perduto. Nel volto rigido e spento della donna, che nel ruolo della “salvatrice” sostituisce la Helina Lewicka del diario (la quale nemmeno conosceva Szpilman), si legge la ferita di un idillio spezzato, l’incertezza e il coraggio per un futuro di madre. Nella stanza accanto, le note di una Suite di Bach sostituiscono ciò che la parola non può più dire. Raramente Polanski ha raggiunto tali vertici di elegia. La necessità di non lasciare buchi nel ritmo traspare anche in occasione dello scoppio dell’insurrezione nel ghetto, messa in scena con una soluzione analoga a quella dell’inizio: le granate polacche si sovrappongono, senza soluzione di continuità, alle note del piano che rimbalzano dall’appartamento adiacente al rifugio del superstite. Allo stesso modo, l’ascolto della dichiarazione di guerra degli Alleati segue di qualche minuto il rientro di Wladislaw dall’ultimo concerto; due eventi in realtà separati nel tempo, ma concatenati in ossequio alle leggi dello spettacolo. Le scene di vita solitaria nei due appartamenti hanno offerto alla critica ovvi spunti per un parallelo con il Polanski dei giorni migliori, maestro nel registrare il dialogo tra personaggio e spazio (da Repulsion a L’inquilino del terzo piano). Qui i rapporti di forza sono capovolti: il pericolo è fuori. Nessun occhio è in grado di spiare il voyeur, nessuna mano invisibile potrebbe afferrarlo, anche perché nessuna traccia sembra essere rimasta dell’inquilino precedente. L’isolamento è totale, non a caso nella Varsavia del dopoguerra il soprannome di Szpilman era Robinson Crusoe. Nemmeno le voci dietro le pareti fanno più paura, anche se è pur sempre l’orecchio di una vicina a tradirlo. La gag dei piatti che cadono è inesistente nel diario (nessun incidente giustifica i colpi alla porta), pur intriso di tocchi humour quali le fantasie amorose dei vicini. Come se Polanski avvertisse l’esigenza di vivacizzare l’attenzione dello spettatore inserendo, di tanto in tanto, una relazione di causalità nella scansione degli eventi. Al pari degli altri antieroi, anche Szpilman mostra difficoltà di relazione con gli oggetti e soprattutto paura della vertigine, come indica la sequenza della fuga dal tetto del palazzo e il conseguente infortunio durante la caduta: l’urlo per il dolore al piede risuona però assurdo in mezzo al dolore della Storia, nel silenzio della città fantasma. 172

Ma il vero fantasma, come ha osservato anche Alessandro Cappabianca («Filmcritica», n. 530, 2002), è la musica. L’eredità della trilogia degli appartamenti si avverte in occasione della rêverie di Chopin davanti al pianoforte muto. Dal paesaggio del cervello escono le note della Grande polonaise brillante, poi ripresa nel concerto finale che chiude il film. Allucinazioni acustiche dopo tante allucinazioni visive. Della musica, più che la capacità di seduzione affascina l’invulnerabilità, la capacità di restare immobile nel tempo bloccato, passando dal freddo delle rovine alle luci della sala da concerto senza un solo sussurro. Il pianoforte si conferma la più ossessiva delle voci, con il Chiaro di luna che arriva da Che? e riesce persino a distrarre la ricerca di cibo del superstite: licenza poetica dell’adattamento. Il lavoro sulla musica svela tutta l’ambiguità dell’operazione, a metà tra il kolossal e l’archivio. Antiretorico appare il clarinetto che accompagna due tra i momenti più emotivamente “rischiosi” del racconto, come il ritorno nel ghetto distrutto dopo la deportazione (fot. 120) e l’erranza solitaria nelle macerie. Anziché il Notturno in do diesis minore (op. postuma), che dà il titolo al penultimo capitolo del diario, Polanski opta però per la Ballata in sol minore (op. 23) nella scena madre (l’esecuzione davanti all’ufficiale tedesco), in funzione FOT. 120 della quale è architettata tutta la seconda parte. Non è necessario essere musicologi per giustificare il tradimento. Le linee melodiche del notturno non avrebbero sicuramente apportato alla sequenza il pathos desiderato. Quella della ballata è una scelta al contempo figurativa e simbolica. Ci voleva qualcosa di travolgente, che trascinasse lo spettatore in un vortice di note uguale al groviglio delle macerie e giustificasse la catarsi del momento, quella luce bianca e densa che inonda la stanza di una speranza fin troppo didascalica. Dopo due anni e mezzo di inattività il pianista sembra quasi cercare le note, per poi lanciarsi in un virtuosismo che lascia impietrito il volto del carnefice. La parte centrale del brano è omessa, per le consuete esigenze narrative. È inutile rilevare l’inverosimiglianza (a differenza del Notturno, la ballata richiede forse un gesto che difficilmente un uomo ridotto in quello stato avrebbe potuto compiere), perché il vero interessa meno dell’emozione. 173

Deciso a inquadrarne le mani, Polanski ha costretto Adrien Brody a prendere lezioni di pianoforte tra un ciak e l’altro. Le dita che si agitano sul piano scordato appartengono probabilmente a Janusz Olejniczak, di cui solo Andrzej Zulawski è riuscito a portare sullo schermo il corpo, affidandogli la parte di Chopin nel dimenticato La nota blu (La note bleue, 1991), melodramFOT. 121 ma sul rapporto tra la musica e la carne (si pensi al sangue che bagna i tasti). Dell’occupazione tedesca anche Zulawski subì il trauma, ricomposto con toni onirici in La terza parte della notte. Dove Polanski sottrae, Zulawski aggiunge. Uguale è però il raffreddamento humour. Se lo Chopin di Zulawski porta al naso una molletta, questo Szpilman inglese non si separa mai del suo barattolo di melanzane, dotato di una vis comica più forte rispetto al brodo di avena descritto nel diario. Scivola dalle mani replicando la gag della caduta dei piatti nell’appartamento, ma poi è collocato al centro dell’inquadratura feticcio del film (fot. 121): l’immagine scelta dalla distribuzione italiana e francese per il manifesto. Finalmente l’istinto rivaleggia con il sentimento: «Volevo che fosse come nella vita, non volevo dare più del necessario» (Roman Polanski, in A Story of Survival, cit.). Fin troppo polanskiana è la gag finale del travestimento, quando Szpilman rischia la vita per colpa del cappotto che lo aveva salvato dal freddo. «Non ci sono più eroi, ci sono solo umiliati» recita il protagonista di un dramma di Zulawski (L’amore balordo [L’amour braque, 1984]). Dei cinquecentomila sommersi non restano nemmeno le ceneri. All’umiliato pianista, nemmeno una tomba su cui inginocchiarsi. Solo la tastiera di un piano.

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Filmografia

REGIE

1959 | Gdy Spadaya Anioly | t.l.: La caduta degli angeli

1955 | Rower | t.l.: La bicicletta

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski; fotografia (col.): Kola Todorov; interpreti: Roman Polanski, Adam Fiut; cortometraggio incompiuto.

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski; fotografia (b/n e col.): Henryk Kucharski; scenografia: Roman Polanski e Kazimierz Wisniak; musica: Krzystof Komeda; interpreti: Barbara Kwiatkowska (la madre giovane), Andrzej Kondratiuk (il figlio), Jakub Goldberg (l’impiegato), Andrzej Kostenko (l’omosessuale), Roman Polanski (la madre durante la guerra), Henryk Kluba; produzione: Pwsf; origine: Polonia; durata: 20’.

1956 | Morderstwo | t.l.: Il crimine

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski; fotografia (b/n): Kola Todorov; produzione: Pwsf; origine: Polonia; durata: 1’ 30’’. 1956 | Usmiech Zebiczny | t.l.: Risata dentale

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski; fotografia (b/n): Henrik Kucharski; interpreti: Kola Todorov; produzione: Pwsf; origine: Polonia; durata: 1’ 27’’.

1960 | Le Gros et le maigre | t.l.: Il grasso e il magro

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski e Jean-Pierre Rousseau (J. P. Rousseau è accreditato per motivi sindacali, in quanto Polanski non possedeva ancora la licenza del Cnc); fotografia (b/n): Jean-Michel Boussaguet; montaggio: Jean-Pierre Rousseau; musica: Krzysztof Komeda; interpreti: Roman Polanski (il magro), Andrzej Katelbach (il grasso); produzione: Claude Joudioux per Apec, Paris; origine: Francia; durata: 16’. Premi principali: Menzione al Festival di Tours 1961.

1957 | Rozbijemy Zabawe | t.l.: Rompiamo la festa

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski; fotografia (b/n): Marek Nowicki, Andrzej Galinski; interpreti: studenti della scuola di Lodz; produzione: Pwsf; origine: Polonia; Durata: 8’ 45’’. 1957 | (?) Kirk Douglas

Regia: Roman Polanski con altri studenti di Lodz, sotto la direzione di un professore; interpreti: Kirk Douglas; produzione: Pwsf; origine: Polonia; durata: 14’ 45’’. Documentario girato nelle aule della scuola di Lodz in occasione della visita di Kirk Douglas.

1962 | Ssaki | t.l.: I mammiferi

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Andrzej Kondratiuk e Roman Polanski; fotografia (b/n): Andrzej Kostenko; montaggio: Halina Prugar, Janina Niedzwiedzka; musica: Krzysztof Komeda; aiuto regia: Andrzej Kostenko; interpreti: Henryk Kluba (l’uomo col cappotto), Michal Zolnierkiewicz (l’uomo col berretto di lana), Wojtek Frykowski (l’uomo che ruba la slitta); produzione: Wojtek Frykowski per Film Polski, Studio Semafor, Lodz; origine: Polonia; durata: 10’ 15”. Premi principali: Gran premio alle Giornate Internazionali del Cortometraggio di Tours 1962; Diploma di merito al Festival di Oberhausen 1963

1958 | Dwaj Ludzie Z Szafa | t.l: Due uomini e un armadio

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski; fotografia (b/n): Maciej Kijowski, Kierownik Zdjek e Ryszard Barski; musica: Krzysztof Komeda; assistente operatore: Jakub Dreyer; interpreti: Henrik Kluba (il grande), Jakub Goldberg (il piccolo), Roman Polanski (l’huligano); produzione: Pwsf; origine: Polonia; durata: 15’; Premi principali: Terzo premio exaequo al Festival del film sperimentale di Bruxelles 1958; Golden Gate al Festival Internazionale di San Francisco 1958; Diploma d’onore al Quinto Festival Internazionale del Cortometraggio di Oberhausen 1959. 1959 | Lampa | t.l.: Lampada

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski; fotografia (b/n): K. Romanowski; aiuto regia: Ansrzej Kostenko; produzione: Pwsf; origine: Polonia; durata: 7’ 50”. 176

1962 | Il coltello nell’acqua | Noz W Wodzie

Regia: Roman Polanski; soggetto: Roman Polanski; sceneggiatura: Roman Polanski, Jerzy Skolimowski e Jakub Goldberg; dialoghi: Jerzy Skolimowski; fotografia (b/n): Jerzy Lipman; operatore: Andrzej Gronau; montaggio: Halina Pragar; musica: Krzysztof Komeda (con la collaborazione del sassofonista Bert Rosengred); fonico: Halina Paszkowska; assistente fonico: Jerzy Szawlowski; scenografia: Boleslaw Kamykowski; aiuto registi: Andrzej Kostenko, Jakub Goldberg; interpreti: Leon Niemczyk (Andrzej), Jolanta Umecka (Cristina, doppiata da un’attrice professionista); Zygmunt Malanowicz (il giovane, doppiato da Roman Polanski); produttore esecutivo: Stanislaw Zylewicz; produzione: Film Polski; Unita di Produzione Kamera (Direttore artistico: Jerzy Bossak); durata: 94’. Premi principali: Nomination per l’Oscar al miglior film straniero 1963; Gran Premio del Festival di Prades nel 1963. 177

1963 |La collana di diamanti [Amsterdam] | La rivière de diamants [Amsterdam]

1967 | Per favore... non mordermi sul collo | The Fearless Vampire Killers

Episodio di Le più belle truffe del mondo (Les plus belles escrocqueries du monde). Gli altri episodi sono firmati da Ugo Gregoretti (Il foglio di via, [La feuille de route]), Claude Chabrol (L’uomo che vendette la Tour Eiffel, [L’homme qui vendit la Tour Eiffel]) e Hiromichi Horikawa (La dentiera, [Cinq bienfaiteurs de Fumiko]). Un quinto episodio, firmato da Jean Luc Godard, fu tagliato in sede di montaggio. Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski e Gérard Brach; fotografia (b/n, Cinemascope): Jerzy Lipman; montaggio: Rita Van Royen; musica: Krzysztof Komeda; interpreti: Nicole Karen (la giovane), JeanTeulings (il seduttore), Arnold Gelderman; produzione: Pierre Roustang per Ulysses Primex, Caesar; origine: Francia; durata: 33’.

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski e Gérard Brach (con la collaborazione di Gillian e John Sutro); fotografia (Metrocolor, Panavision): Douglas Slocombe; operatore: Chic Watterson; montaggio: Alastair Mac Intyre; musica: Krzysztof Komeda; scenografia: Wilfred Shingleton; trucco: Tom Smith; fonico: George Stephenson; missaggio: Len Shilton; coreografie: Tuttle Lemkow; costumi: Sophie Devine; interpreti principali: Jack Mac Gowran, (prof. Abronsius), Roman Polanski (Alfred), Alfie Bass (Shagal), Jessie Robbins (la donna di Shagal), Sharon Tate (Sarah), Ferdy Mayne (conte von Krolock), Ian Quarrier (Herbert), Terry Downes (Koukol), Fiona Lewis (la serva), Sydney Bromley (il conducente della slitta); produzione: Gene Gutowski; Mgm, Cadre Films, Filmways; distribuzione: Metro Goldwin Mayer; origine: Gran Bretagna; durata: 107’.

1965 | Repulsione | Repulsion

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski e Gérard Brach; adattamento in inglese: David Stone; fotografia (b/n): Gilbert Taylor; montaggio: Alastair Mac Intyre; scenografia: Seamus Flannery, Frank Wilson; trucco: Tom Smith; musica: Chico Hamilton; orchestrazione: Gabors Szabo; operatore: Alan Hall; fonico: Leslie Hammond; missaggio: Stephen Dalby; interpreti: Catherine Deneuve (Carol), John Fraser (Colin), Patrick Wymark (il proprietario), Yvonne Fourneaux (Helen), Ian Hendry (Michael), Valerie Taylor (madame Denise), Helen Fraser (Bridget), Monica Merlin (Mrs. Renlesham), Renée Houston (Mrs. Balch), James Villiers (John), Hugh Futcher (Reggie), Mike Pratt, Imogen Graham, Roman Polanski; produttore: Gene Gutowski; produzione: Michael Klinger e Tony Tenser per Compton Film; origine: Gran Bretagna; durata: 104’. Premi principali: Orso d’argento al Festival di Berlino 1965. 1966 | Cul de Sac | Id.

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski e Gérard Brach; adattamento in inglese: John Sutro; fotografia (b/n): Gilbert Taylor; montaggio: Alastair Mac Intyre; operatori: Geoffrey Seaholme, Roy Ford; musica: Krzysztof Komeda; scenografo: George Lack; costumi: Bridget Sellers; trucco: Alan Brownie; scenografia: Vojtek Roman; fonico: George Stephenson; missaggio: Stephen Dalby; effetti speciali: Bowie Films Ldt; interpreti: Lionel Stander (il gangster Dick), Jack Mac Gowran (Albert, il secondo gangster), Donald Pleasance (George, il marito), Françoise Dorléac (Teresa), Ian Quarrier (Chistopher), Geoffrey Summer (padre di Christopher), Renée Houston (madre di Christopher), Robert Dorning (Fairweather), William Francklyn (Cecil), Jackie Bisset (l’amica di Cecil), Trevor Delaney (il bambino), Marie Kean; produttore: Gene Gutowski; produzione: Michael Klinger e Tony Tenser per Compton Film - Tekli Film Productions; produttore esecutivo: Sam Waynberg; origine: Gran Bretagna; durata: 111’. Premi principali: Orso d’oro al Festival di Berlino 1966; Premio della critica italiana alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia 1966. 178

1968 | Rosemary’s baby | Rosemary’s Baby

Regia: Roman Polanski; soggetto: dal romanzo omonimo di Ira Levin; sceneggiatura: Roman Polanski; fotografia (Technicolor, Panavision): William Fraker; montaggio: Sam O’Steen e Bob Wyman; musica: Krzysztof Komeda; brani musicali: “Per Elisa” di Ludwig van Beethoven; scenografia: Richard Sylbert; arredamenti: Joel Schiller; costumi: Anthea Sylbert; trucco: Allan Snyder; Hoy Bowers; fonico: Harold Lewis; effetti speciali: Edouard Farciot; interpreti: Mia Farrow (Rosemary Woodhouse), John Cassavetes (Guy Woodhouse), Ruth Gordon (Minnie Castevet), Sydney Blackmer (Roman Castevet), Maurice Evans (Hutch), Ralph Bellamy (Dr. Sapirstein), Angela Dorian (Terry), Patsy Kelly (Laura-Louise), Elisa Cook (Mrs. Nicklas), Emmaline Henry (Elise Dunstan), Marianne Gordon (Joan Jellico), Philip Leeds (Dr. Shand), Charles Grodin (Dr. Hill), Hope Summers (Mrs. Gilmore), Wendy Wagner (Tiger), Hanna Landt (Grace), Walter Baldwin (uno «stregone»); produzione: Paramount, William Castle Enterprises; origine: Usa; durata: 137’. 1971 | Macbeth | Id.

Regia: Roman Polanski; soggetto: dalla tragedia omonima di William Shakespeare; sceneggiatura: Roman Polanski e Kenneth Tynan; fotografia (Todd AO 35): Gilbert Taylor; operatore: Alec Mills; montaggio: Alastair Mac Intyre; musica: The Third Ear Band; fonico: Simon Kaye; scenografia: Wilfred Shingleton; costumi: Anthony Mendleson; arredamenti: Fred Carter; coreografie: Sally Gilpin; trucco: Tom Smith; effetti speciali: Ted Samuels; interpreti principali: John Finch (Macbeth), Francesca Annis (Lady Macbeth), Martin Shaw (Banquo), John Stride (Ross), Nicholas Selby (Duncan), Terence Bayler (Macduff), Stephan Chase (Malcolm), Paul Shelly (Donalbain), Diane Fletcher (Lady Macduff), Noel Davis (Seyton), Richard Pearson (dottore), Andrew Laurence (Lennox), Bernard Archard (Angus), Sydney Bromley (Porter), Ian Hogg (primo Thane), Geoffrey Reed (secondo Thane), Nigel Ashton (terzo Thane), Michel Balfour, Andrew Mc Culloch (sicari); produzione: Andrew Braunsberg; Playboy Productions, Columbia Pictures.; origine: Gran Bretagna; durata: 141’. 179

1973 | Che? | What?

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Roman Polanski e Gérard Brach; fotografia (Technicolor, Todd-AO 35): Marcello Gatti, Giuseppe Ruzzolini; operatore: Otello Spila; montaggio: Alastair Mac Intyre; musica: Quartetto per archi “La morte e la fanciulla” di F. Schubert, Sonata a 4 mani KV 497 di W. A. Mozart, Sonata “Al chiaro di luna” di L. V. Beethoven: elaborazioni di Claudio Gizzi; scenografia: Aurelio Grugnola; arredamenti: Franco Fumagalli; costumi: Adriana Berselli; fonico: Bernard Batss; trucco: Giuseppe Banchelli; interpreti: Marcello Mastroianni (Alex), Sydney Rome (Nancy), Hugh Griffith (Noblart), Guido Alberti (il prete), Romolo Valli (Giovanni), Roman Polanski (Zanzara), Carlo delle Piane, Gianfranco Piacentini, Mario Bussolino, Henning Schluster, Christine Barry, Pietro Tordi, Nerina Montagnani, Dieter Hallervorden, Morgen von Gagow, Livio Galassi, Luigi Bonos, Elisabeth Witte, Alvaro Vitali, Franco Pesce, Carla Mancini; produttore: Carlo Ponti; produzione: Champion Roma, Les Films Concordia, Paris, Dieter Geissler Produktion, München; origine: Italia-Francia-Germania; durata: 115’. 1974 | Chinatown | Id.

Regia: Roman Polanski; soggetto: Robert Towne; sceneggiatura: Roman Polanski e Robert Towne; fotografia (Technicolor, Panavision): John A. Alonzo; operatore: Hugh Gagnier; musica: Jerry Goldsmith; canzoni: “I Can’t Get Started”, “Love Is Just Around The Corner”, “Easy Living”, “The Way You Look Tonight”, “Some Day”, “The Vagabond King Waltz’; scenografia: Richard Sylbert; arredamenti: W. Stewart Campbell; costumi: Anthea Sylbert, Richard Bruno, Jean Merryck; montaggio: Sam O’Steen; fonico: Larry Jost; effetti speciali: Logan Frazee; trucco: Hank Edds, Lee Harmon; interpreti principali: Jack Nicholson (Jake J. Gittes), Faye Dunaway (Evelyn Mulwray), John Huston (Noah Cross), Perry Lopez (Lou Escobar), John Hillerman (Yelburton), Diane Ladd (Ida Sessions), Roy Jenson (Mulvihil), Roman Polanski (uomo con il coltello), Burt Young (Curly), Bruce Glover (Duffy), Dick Bakalyan (Loach), Joe Mantell (Walsh), Nandu Hinds (Sophie), James Hong (Khan), Belinda Palmer (Katherine); produzione: Long Road Productions, Rober Evans per Paramount-Penthouse Presentation; origine: Usa; durata: 110’. Premi principali: Oscar 1975 a Robert Towne per la migliore sceneggiatura originale; Golden Globes 1975 (miglior film, regia, attore protagonista, sceneggiatura). 1976 | L’inquilino del terzo piano | Le locataire

Regia: Roman Polanski; soggetto: dal romanzo Le locataire chimérique di Roland Topor; sceneggiatura: Gérard Brach, Roman Polanski; fotografia (Eastmancolor, Panavision): Sven Nykvist; operatore: Jean Harnois; montaggio: Françoise Bonnot; musica: Philippe Sarde; scenografia: Pierre Guffroy; costumi: Jacques Schmidt; trucco: Didier Lavergne; fonico: Jean-Pierre Ruh; effetti speciali: Jean Fuchet; interpreti: Isabelle Adjani (Stella), Roman Polanski (Trelkowski), Shelley Winters (la portiera), Melvyn Douglas (M. Zy), Jo Van Fleet (Mme Dioz), Bernard Fresson (Scope), Lila Kedrova (Mme Gaderian), Héléna Manson 180

(l’infermiera capo), Jacques Monod (il barista), Claude Dauphin, Rufus, Romain Bouteille, Josiane Balasko, Claude Piéplu; produzione: Andrew Braunsberg per Marianne Productions; durata: 126’. 1979 | Tess | Id.

Regia: Roman Polanski; soggetto: dal romanzo Tess of the d’Urberville di Thomas Hardy; sceneggiatura: Gérard Brach, Roman Polanski, John Brownjohn; fotografia (Eastmancolor, Panavision): Geoffrey Unsworth, Ghislain Cloquet; operatore: Jean Harnois; montaggio: Alastair MacIntyre, Tom Priestley; musica: Philippe Sarde; scenografia: Pierre Guffroy; arredamenti: Jack Stevens; costumi: Anthony Powell; trucco: Didier Lavergne; fonico: Jean-Pierre Ruh; seconda unità: Hercules Belleville; interpreti principali: Nastassia Kinski (Tess), Peter Firth (Angel Clare), Leigh Lawson (Alec d’Urberville), John Collin (Jack Durbeyfield), Tony Church (il pastore Tringham), Arielle Dombasle (Mercy Chant), Rosemary Martin (Mrs. Durbeyfield), David Markham (Reverendo Clare), Pascale de Boysson (Mrs. Clare), Carolyn Pickles (Marian), Sylvia Coleridge (Mrs. d’Urberville), Lesley Dunlop (giovane lattaia), Patsy Rowlands, John Barrett (operaio agricolo); produzione: Claude Berri e Timothy Burrill per Renn-Productions, Burill-Production; origine: Francia/Gran Bretagna; durata: 165’. Premi principali: 3 Oscar (migliori costumi, migliore scenografia, migliore fotografia). 1986 | Pirati | Roman Polanski’s Pirates

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Gérard Brach, Roman Polanski, John Brownjohn; fotografia (Panavision): Witold Sobocinski; montaggio: Hervé de Luze, William Reynolds; musica: Philippe Sarde; scenografia: Pierre Guffroy; costumi: Anthony Powell; effetti speciali: John Evans, Antonio Corridori, Paul Trielli, Mario Cassar, Marcello Martinelli, Enzo Massari, Franco Ragusa; trucco: Tom Smith; fonico: Jean-Pierre Ruh; coreografie: Wanda Szczuka; seconda unità: Andrzej Kostenko; interpreti principali: Walter Matthau (Capitan Red), Cris Campion (Ranocchio), Damien Thomas (Don Alfonso), Richard Pearson (il padre), Charlotte Lewis (Dolores), Olu Jacobs (Boumako), Ferdy Maine (capitano Linares), David Kelly (il chirurgo), Roy Kinnear (l’olandese), Bill Fraser (il governatore di Maracaibo), Jose Santamaria (il maestro d’armi), Anthony Peck (ufficiale spagnolo), Georges Trillat (il butterato), Georges Montillier (la governante), Emilio Fernandez (Angelito), Daniel Emilfork (Hendrick); produzione: Tarak Ben Ammar per Carthago Films Paris, Accent-Cominco Production; origine: Francia/Tunisia; durata: 124’. 1988 | Frantic | Id.

Regia: Roman Polanski; soggetto e sceneggiatura: Gérard Brach, Roman Polanski; fotografia: Witold Sobocinski; operatore: Jean Harnois; montaggio: Sam O’Steen; musica: Ennio Morricone, eseguita dall’Unione Musicisti di Roma; canzoni: “I’m Gonna Lose you”, “I’ve Seen That Face Before”, “The More I See You”, “Jah Rastafari”, “I Love Paris”, “San Francisco”, “Chicago Song”, 181

“The Song from Moulin Rouge”, “Something Tells Me”; scenografia: Pierre Guffroy; costumi: Anthony Powell; missaggio: Jean-Pierre Ruh; trucco: Didier Lavergne; interpreti principali: Harrison Ford (dott. Richard Walker), Betty Bucley (Sondra Walker), Emmanuelle Seigner (Michelle), John Mahoney (Williams), Gérard Klein (Gaillard), Yves Rénier (l’ispettore), Patrice Mellenec (il detective dell’hotel), Raouf Ben Amor (il dottor Metlaoui), Jimmy Ray-Weeks (Shaap), Yorgo Voyagis (il rapitore), David Huddleston (Peter), Alexandra Stewart (Edie); produzione: Thom Mount e Tim Hampton, per Mount Company; origine: Usa; durata: 119’. 1990 | Compratore d’anime

Regia: Roman Polanski; musica: Vangelis; Spot per il mensile «Vanity Fair»; produzione: Bbe cinematografica; durata: 30’’. 1992 | Luna di fiele | Bitter Moon

Regia: Roman Polanski; soggetto: dal romanzo Lunes de fiel di Pascal Bruckner; sceneggiatura: Roman Polanski, Gérard Brach, John Brownjohn, Jeff Gross; fotografia (Kodak): Tonino Delli Colli; operatore: Jean Harnois; operatore steadycam: Nicola Pecorini; montaggio: Hervé de Luze, Glenn Cunningham; musica: Vangelis; canzoni: “Fever”, “Stop”, “La mer”, “I Will Survive”, “Katia Flavia A Godiva Do Iraja”, “Sweet Dreams Are Made of This”, “Faith”, “Hello”, “Denise et Irène”, “Slave To Love”, “My Cherie Amour”, “Never Can Say Goodbye”, “Frangosyriani Kyra”; scenografia: Willy Holt, Gérard Viard; costumi: Jackie Budin; coreografie: Redha; trucco: Didier Lavergne; fonico: Jean François Auger; interpreti principali: Peter Coyote (Oscar), Emmanuelle Seigner (Mimì), Hugh Grant (Nigel), Kristin Scott Thomas (Fiona), Victor Bannerjee (Mr. Singh), Sophie Patel (Amrita), Patrick Albenque (Steward), Luca Vellani (Dado), Boris Bergman (amico di Oscar); produzione: Roman Polanski per R. P. Prod./Timothy Burrill Prods./Les films Alain Sarde/Canal Plus; origine: Francia/Gran Bretagna; durata: 135’. 1994 | La morte e la fanciulla | Death and The Maiden

Regia: Roman Polanski; soggetto: dal dramma omonimo di Ariel Dorfman; sceneggiatura: Rafael Yglesias e Ariel Dorfman; fotografia (Eastmancolor, Panavision): Tonino Delli Colli; operatore: Jean Harnois; operatore steadycam: Nicola Pecorini; fonico: Daniel Brisseau; trucco: Linda De Wetta; montaggio: Hervé de Luze; musica: Wojciech Kilar; Quartetto per archi “La morte e la fanciulla” di F. Schubert eseguito dal Quartetto Amadeus; scenografia: Pierre Guffroy; costumi: Milena Canonero; effetti speciali: Gilbert Pieri; interpreti: Sigourney Weaver (Paulina Escobar), Ben Kingsley (dottor Roberto Miranda), Stuart Wilson (Gerardo Escobar); produzione: Thom Mount e Josh Kramer per Mount-Kramer prod./Channel Four Films/Flach Films/TF1/Canal Plus; origine: Usa/Francia/Gran Bretagna; durata: 103’. 182

1996 | Gli Angeli

Regia: Roman Polanski; fotografia: Gino Sgreva; musica: Vasco Rossi; interpreti: Vasco Rossi; produzione: Diamante Film; origine: Italia; durata: 5’. 1999 | La nona porta | The Ninth Gate

Regia: Roman Polanski; soggetto: dal romanzo El club Dumas di Antonio Perez Reverte; sceneggiatura: Enrique Urbizu, John Brownjohn e Roman Polanski; fotografia (Technovision): Darius Khondi; operatore: Jean Harnois; musica: Wojcik Kilar; canzoni: “Havanaise”, “Sete Saias”, “Java Jules”; montaggio: Herve De Luze; scenografia: Dean Tavoularis; fonico: Jean Marie Blondel; costumista: Anthony Powell; interpreti principali: Johnny Depp (Dean Corso), Frank Langella (Boris Balkan), Emmanuelle Seigner (la ragazza), Lena Olin (Liana Telfer), Barbara Jefford (la baronessa Kessler), James Russo (Bernie), Jack Taylor (Victor Fargas), Joseph e Lopez Rodero (Pablo e Pedro Ceniza), Allen Garfield (Witkin), Tony Amoni (la guardia del corpo), Willy Holt (Andrew Telfer); produzione: R.P. Productions, Orly Films, TF1 Film Production con la collaborazione di BAC films and Canal Plus e Kino Vision, Origen Produciones Cinematograficas con la partecipazione di Via Digital; origine: Francia-Spagna; durata: 132’. 1999 | My Econonomy

Regia: Roman Polanski; scenografia: Paolo Rutigliano; fotografia: Alejandro Feira Chios; musica: “Dance with me tonight” di Elias Rogness; spot per XelionBanca; produzione: Marco Ferri (Tbwa/Italia); riprese: Parigi; durata: 30”. 2002 | Il pianista | The Pianist

Regia: Roman Polanski; soggetto: dal diario omonimo di Wladislaw Szpilman; sceneggiatura: Ronald Harwood e Roman Polanski; fotografia: Pawel Edelman; operatore: Marek Rajca; musica: Wojcek Kilar; brani musicali: “Notturno in do diesis minore” op. post., “Grande Polonaise brillante” op. 22, “Ballata n. 1 in sol min.” op. 23 di F. Chopin; “Sonata n. 14 in do diesis min.” op. 27, Sonata “Al Chiaro di Luna” di L. V. Beethoven; “Suite n. 1 BWV 1007 per violoncello” di J.-S. Bach; “Tanz, Tanz Ydelekh”, “Umowilem Sie Z Nia Na Dziewiata”, “Marsz Strzelcow”; scenografia: Allan Starski; costumi: Anna Sheppard; montaggio: Hervé de Luze; fonico: Jean-Marie Blondel; effetti speciali: Christian Kunstler; interpreti principali: Adrien Brody (Wladislaw Szpilman), Thomas Kretschmann (il capitano Wim Hosenfeld), Emilia Fox (Dorota), Michal Zebrowski (Jurek), Ed Stoppard (Henryk), Maureen Lipman (la madre), Frank Finlay (il padre), Jessica Kate Meyer (Halina), Julia Rayner (Regina), Wanja Mues (SS che picchia il padre), Richard Ridings (Mr. Lipa), Naomi Sharron (donna con la piuma), Daniel Caltagirone (Majorek); produttori: Roman Polanski, Alain Sarde e Robert Benmussa, per R. P. Production, Heritage Films, Studio Babelsberg, Runteam Ltd.; origine: Fra.-Ger.-Pol.-G.B; durata: 148’. 183

Premi principali: 3 Oscar (migliore regia, migliore sceneggiatura non originale e miglior attore protagonista Adrien Brody); Palma d’oro per il miglior film al Festival di Cannes 2002; 7 César 2003 (miglior film, attore, regista, musica, fotografia, scenografia e suono); David di Donatello 2003 per il miglior film straniero (Italia).

1960 | Do Widzenia Do Jutra | t.l.: Arrivederci a domani

Regia: Janusz Morgenstern. 1960 | Zezowate Szczescie | t.l.: Fortuna da vendere

Regia: Andrzej Munk. INTERPRETAZIONI 1961 | Le Gros et le maigre | t.l.: Il grasso e il magro 1953 | Trzy Opowieszi | t.l.: Tre storie

Regia: Roman Polanski

Regia: Konrad Nalecki, Ewa Poleska, Czeslaw Petelski. 1967 | Per favore non mordermi sul collo | The Fearless Vampire Killers 1954 | Pokolonie | t.l.: Generazione

Regia: Roman Polanski

Regia: Andrzej Wajda. 1969 | The Magic Christian | t.l.: Il magico Christian 1955 | Zaczarowanj rower | t.l.: La bicicletta incantata

Regia: Joseph McGrath

Regia: Silik Sternfeld. 1972 | Weekend of a Champion | t.l.: Week-end di un campione 1956 | Koniec Wojny | t.l.: La fine della notte

Regia: Frank Simon

Regia: Julian Dziedzina, Pawel Komorowski, Walentyna Uszycka. 1973 | Che? | What? 1957 | Wraki | t.l.: I relitti

Regia: Roman Polanski

Regia: Ewa e Czeslaw Petelski. 1974 | Chinatown | Id. 1958 | Gdy Spadaya Anioly | t.l: La caduta degli angeli

Regia: Roman Polanski

Regia: Roman Polanski 1974 | Dracula cerca sangue di vergine... e morì di sete 1958 | Ladzwoncie Do Mojej Zony | t.l.: Telefonate alla mia donna

Regia: Paul Morrisey e Anthony M. Dawson

Regia: Jaroslaw Mach. 1976 | L’inquilino del terzo piano | Le locataire 1959 | Lotna | Id.

Regia: Roman Polanski

Regia: Andrzej Wajda. 1981 | Chassé-croisé | t.l.: Id. 1960 | Ingenui e perversi | Niewinni Czarodsieje

Regia: Arielle Dombasle

Regia: Andrzej Wajda. 1992 | Kgb: Ultimo atto | Back in the USSR 1960 | Ostroznie Yeti | t.l.: Attenzione yeti

Regia: Dean Serafian

Regia: Andrzej Csekalski. 1994 | Il sosia | Grosse fatigue

Regia: Michel Blanc 184

185

1994 | Una pura formalità

Regia: Giuseppe Tornatore 2000 | Hommage à Alfred Lepetit | t.l.: Omaggio a Alfred Lepetit

Regia: Jean Rousselot 2002 | Zemsta

Regia: Andrzej Wajda SCENEGGIATURE (in collaborazione con Gérard Brach) 1964 | Aimez vous les femmes | t.l. Amate le donne

Regia: Jean Léon 1968 | La Fille d’en face | t.l. La ragazza di fronte

Regia: Jean Daniel Simon 1969 | Un Jour à la plage | t.l. Un giorno alla spiaggia

Regia: Simon Hessera PRODUZIONI 1969 | Un Jour à la plage | t.l. Un giorno alla spiaggia

Regia: Simon Hessera 1972 | Weekend of a Champion

Regia: Frank Simon 1992 | Luna di fiele| Bitter Moon

Regia: Roman Polanski 1999 | La nona porta | The Night Gate

Regia: Roman Polanski 2002 | Il pianista | The Pianist

Regia: Roman Polanski

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Nota bibliografica

SCRITTI DI ROMAN POLANSKI

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Alion Y., Entretien avec Ronald Harwood, «L’Avant-Scène du Cinéma», n. 520, marzo 2003. Alonzo J. A., Behind the scenes of Chinatown, «American Cinematographer», n. 5, maggio 1975. Béhar H., Gros plan sur Gérard Brach, «Image et Son», n. 345, dicembre 1979.

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(Che?, La collana di diamanti, Pirati) sono pubblicate nell’album di P. A. Boutang, Polanski par Polanski, cit. PRINCIPALI SAGGI E RECENSIONI SUI SINGOLI FILM: Due uomini e un armadio

Berghann W, «Filmkritik», n. 9, settembre 1963; Harker J, «Film Quarterly», n. 3, primavera 1959; Reisz K., «Sight and Sound», n. 5, estate 1958; Seidl P., «Étude», n. 17, 1963. La caduta degli angeli

Cohn B., «Positif», n. 60, aprile-maggio 1964; Haudiquet P., «Image et Son», n. 170171, febbraio-marzo 1964; Kiener F., «Cinéma 65», n. 101, dicembre 1965. Il grasso e il magro

Chevalier J., «Image et Son», n. 147, gennaio 1962; Salachas G., «Téléciné», n. 101, gennaio 1962; Torok J.P., «Positif», n. 44, 1962. I mammiferi

Ayfre A., «Téléciné», n. 109, febbraiomarzo 1963; Rondolino G., «Bianco e Nero», n. 1-2, gennaio-febbraio 1963; Torok J.P., «Positif», n. 53, giugno 1963. Il coltello nell’acqua

Cugny L.,«Cinématographe», n. 40, 1978; D’Arbela S., «Filmcritica», n. 171, ottobre 1966; Douchet J., «Cahiers du cinéma», n. 136, ottobre 1962; Dyer P., «Sight and Sound», n. 1, inverno 1962-63; Gilson R., 191

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marzo 1967; Jacob G., «Cinéma 67», n. 112, gennaio 1967; Mancini M., «Filmcritica», n. 182, ottobre 1967; Milne T., «Sight and Sound», n.3, estate 1966; Perrot M., «MidiMinuit Fantastique», n. 15-16, inverno 19661967; Thirard P-L., «Positif», n. 82, marzo 1967; Zambetti S., «Cineforum», n. 170, dicembre 1967; Zanelli D., «Bianco e Nero», n. 9-10, settembre ottobre 1966. Per favore...non mordermi sul collo

Repulsion

Bruno E., «Filmcritica», n. 168, luglio 1966; Clouzot C., «Cinéma 66», n. 103, febbraio 1966; Cohn B., «Positif», n. 75, maggio 1966; Delahaye M., «Cahiers du cinéma», n. 171, ottobre 1965; Dherbecourt D., «Jeune Cinéma», n. 12, febbraio 1966; Durgnat R. «Film and Filming», agosto 1965; Dyer P., «Sight and Sound», n. 3, estate 1965; Fieschi J-A., «Cahiers du cinéma», n. 168, luglio 1965; Haudiquet P., «Image et Son», n. 192, marzo 1966; Jacob G., «Cinéma 67», n. 112, gennaio 1967; Johnson A., «Film Quarterly», n. 3, primavera 1966; Vitoux F., «MidiMinuit Fantastique», n. 14, giugno 1966; von Bagh P., «Movie», n. 14, autunno 1965. Cul de sac

Arlorio P., «Ombre Rosse», n. 4, marzo 1968; Benayoun R., «Positif», n. 79, ottobre 1966; Ciment M., «Image et Son», n. 199, novembre 1966; Delmas J., «Jeune Cinéma», n. 19, dicembre 1966-gennaio 1967; Durgnat R., «Film and Filming», luglio 1966; Fieschi JA., «Cahiers du cinéma», n. 183, ottobre 1966; Haudiquet P., «Image et Son», n. 203, 192

Delahaye M., «Cahiers du cinéma», n. 200201, aprile-maggio 1968; Haudiquet P., «Image et Son», n. 218, estate 1968; La Rochelle R., «Séquences», n. 56, febbraio 1969; Mollet G., «Positif», n. 94, aprile 1968; Narboni J., «Cahiers du cinéma», n. 199, marzo 1968; Passek J-L., «Jeune Cinéma», n. 30, aprile 1968; Regaldo M., «Ombre Rosse», n. 4, marzo 1968; Salachas G. «Télérama», n. 944, 1968; Turroni G., «Filmcritica», n. 190, agosto 1968; Ungari E., «Cinema e Film», n. 7/8, 1969.

102, febbraio 1969; Raffaelli S., «Cineforum», n. 83, marzo 1969; Rondolino G., «Bianco e Nero», n. 1-2, gennaio-febbraio 1969; Turroni G., «Filmcritica», n. 210, dicembre 1969 e «Ombre Rosse», n. 7, aprile 1969. Macbeth

Alonge R., «Cinema Nuovo», maggio-giugno 1973; Andrews N., «Sight and Sound», n. 2, primavera 1972; Arecco S., Buffa., Bruno E. Cappabianca A., Mancini M. «Filmcritica», n. 233, aprile 1973 (Dibattito redazionale su Macbeth e Che?); Arecco S., «Filmcritica», n. 510, dicembre 2000; Berlin N., «Literature/ Film Quarterly», n. 4, inverno 1973; Comuzio E., «Cineforum», n. 127, ottobre-novembre 1973; Gow G., «Film and Filming», n. 7, aprile 1972; Harper W.R., Shaw W. P., «Literature/ Film Quarterly», n. 4, ottobre 1986; Leroux A., «Séquences», n. 72, aprile 1973; Reilly C. P., «Film in Review», n. 7, agosto-settembre 1974; Robinson R., «Literature/ Film Quarterly», n. 2, aprile 1994; Zimmer J., «Image et Son», n. 262, giugno-luglio 1972.

Rosemary’s baby

Arecco S., «Filmcritica», n. 194, gennaio, 1969; Bradbury R., «Film and filming», vol XV, n. 11, agosto 1969; Comolli J-L., «Cahiers du cinéma», n. 208, gennaio 1969; Davay P., «Beaux Arts», 15 marzo, 1969; Diski J., «Sight and Sound», n. 4, aprile 1995; Ferrini F., «Cinema e Film», n. 7/8, 1969; Gervais G., «Jeune Cinéma», n. 34, novembre 1968; Haudiquet P., «Image et Son», n. 224, gennaio 1969; Joly M., «Cinémaction», n. 75, Aprile 1995; Kané P., «Cahiers du cinéma», n. 207, dicembre 1968; Perez M., «Positif», n.

Che?

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Chinatown

Benoit C., «Jeune Cinéma», n. 84, febbraio 1975; Bertieri C., «Cinemasessanta», n. 100, 1974; Cappabianca A., «Filmcritica», n. 251, gennaio-febbraio 1975; Cluny C.M., «Cinéma», n. 194, gennaio 1975; Ghezzi E., «Il Falcone Maltese», n. 6, 1975; Kané P., «Cahiers du cinéma», n. 256, febbraio-marzo 1975; Mc Ginnis, «Literature/Film Quarterly», n. 3, estate 1975; Milne T., «Sight and Sound», n. 4, autunno 1974; Porro M., «Cineforum», n. 140, gennaio 1975; Segond J., «Positif», n. 164, dicembre 1974; Tessier M., «Ecran», n. 32, gennaio 1975. L’inquilino del terzo piano

Caron Lowins E., «Positif», n. 185, agosto 1976; Delmas J., «Jeune Cinéma», n. 96, luglio-agosto 1976; Elia M., «Séquences», n. 86, ottobre 1976; Frot-Coutaz G., «Cinéma 72», n. 211, luglio 1976; Giacci V., «Cineforum», n. 163, marzo 1977; Giacci V., «Filmcritica», n. 274-275, aprile-maggio 1977; Grossini G., «Cinema Nuovo», n. 245, Gennaio-Febbraio 1977; La Polla F., «Cinema e Cinema», n. 11, aprile-giugno 1977; Marciniak K., «Camera Obscura», 43, Vol. 15, n. 1, 2000; Rosenbaum J., «Sight and Sound», n. 4, autunno 1976; Sotiaux D., «La Revue Belge du Cinéma», n. 2, novembre 1976. Tess

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104, aprile 1981; Bonitzer P., «Cahiers du cinéma», n. 306, dicembre 1979; Carrère E., «Positif», n. 226, gennaio 1980; Costanzo William V., «Literature/Film Quarterly», n. 2, 1981; Fierz Charles L., «Literature/Film Quarterly», n. 2, aprile 1994; Franchi I., «Cinema Nuovo», n. 266, agosto 1980; McCreadle M., «Films in Review», n. 3, marzo 1981; Milne T., «Monthy Film Bulletin», n. 568, settembre 1986; Sercau D., «Image et Son», n. 345, dicembre 1979; Wallace M, «Cineaste», n. 1, inverno 1980/81. Pirati

Alion Y., «La Revue du Cinéma», n. 418, luglio-agosto 1986; Bertoni A., Parra D., Laurenti P., «La Revue du Cinéma», n. 416, maggio 1986; Eyquem O., «Positif», n. 303, maggio 1986; Fainaru D., «Cinema Papers», n. 61, gennaio 1987; Ismail C., «Films and Filming», n. 373, ottobre 1985; Molinari M., «Segnocinema», n. 26 gennaio 1987; Sineux M., «Positif», n. 305-306, luglio-agosto 1986; Toubiana S., «Cahiers du cinéma», n. 385, giugno 1986; Turroni G., «Filmcritica», n. 372, marzo 1987. Frantic

Bruno E., «Filmcritica», n. 385-386, giugno-luglio 1988; Buffa M., «Filmcritica», n. 393, marzo 1989; Carrère E., Masson A., «Positif», n. 327, aprile 1988; Cherchi Usai P., «Segnocinema», n. 35, novembre 1988; Combs R., «Monthy Film Bulletin», n. 656, settembre 1988; Crespi A., «Cineforum», n. 11, novembre 1988; Giacci V., Turroni G., 194

«Filmcritica», n. 390, dicembre 1988; Logette L., «Jeune Cinéma», n. 188, maggio-giugno 1988; Malkiewicz K., «American Cinematographer», n. 6, giugno 1988; Pardi R. J., «Films in Review», n. 6-7, giugno-luglio 1988; Sabouraud F., «Cahiers du cinéma», n. 406, aprile 1988; Sutton M., «Films and Filming», n. 408, settembre 1988; Zagari P., «Cinema Nuovo», n. 317, gennaio-febbraio 1989. Luna di fiele

Balzarro P., «Cinema Nuovo», n. 342, marzo-aprile 1993; Bénoliel B., «La Revue du Cinéma», n. 485, settembre 1992; Cappabianca A., Pedullà G., «Filmcritica», n. 433, marzo 1993; Cremonini G., «Cineforum», n. 321, gennaio-febbraio 1993; Elia M., «Séquences», n. 171, aprile 1994; Fabre J., «Jeune Cinéma», n. 218, novembre 1992; Graffy J., «Sight and Sound», n. 6, ottobre 1992; Pezzotta A., «Segnocinema», n. 60, marzo-aprile 1993; Strauss F,. «Cahiers du cinéma», n. 460, ottobre 1992; Vachaud L. «Positif», n. 380, ottobre 1992. La morte e la fanciulla

Axelrad C., «Positif», n. 410, aprile 1995; Cappabianca A., «Filmcritica», n. 454, aprile1995; Cherchi Usai P., «Segnocinema», n. 73, maggio 1995; Crnkovic Gordana P., «Film Quarterly», n. 3, primavera 1997; Gatti I., «Filmcritica», n. 454, aprile1995; McFarlane B., «Cinema Papers», n. 105, agosto 1995; Pawelczak A., «Films in Review», n. 5-6, luglioagosto 1995; Piccardi A., «Cineforum», n. 344, maggio 1995; Remy V., «Télérama», n. 2359,

29 marzo 1994; Saada, N., «Cahiers du cinéma», n. 490, aprile 1995; Suriano F., «Filmcritica», n. 454, aprile1995; Thompson D., James N., «Sight and Sound», n. 4, aprile 1995. La nona porta

Cremonini G., «Cineforum», n. 391, gennaio-febbraio 2000; Fabre J., «Jeune Cinéma», n. 257, settembre-ottobre 1999; Ferrario D., «Cineforum», n. 391, gennaio-febbraio 2000; Gariazzo G., «Filmcritica», n. 501-502, gennaio-febbraio 2000; Higuinen E., «Cahiers du cinéma», n. 538, settembre 1999; Pizzello C., «American Cinematographer», n. 4, aprile 2000; Roberti B., «Filmcritica», n. 501-502, gennaio-febbraio 2000; Strick P., «Sight and Sound», n. 9, settembre 2000; Vachaud L., «Positif», n. 463, settembre 1999; Valade C., «Séquences», n. 208, maggio-agosto 2000. Il pianista

Cappabianca A., «Filmcritica», n. 530, dicembre 2002; Cattaneo F., «Cineforum», n. 421, gennaio 2003; De Bernardinis F., «Segnocinema», n. 119, gennaio-febbraio 2003; Dusi N., «Segnocinema», n. 119, gennaio-febbraio 2003; Esposito L., «Filmcritica», n. 530, dicembre 2002; Frappat H., «Cahiers du cinéma», n. 571, settembre 2002; Gili J., «Positif», n. 500, ottobre 2002; Martini E., «Cineforum», n. 421, gennaio 2003; Thompson D., «Sight and Sound», n. 2, febbraio 2003; Turco D., «Filmcritica», n. 526/527, giugno-luglio 2002; Valloire D., «Les Inrockuptibles», settembre 2002.

VIDEO

Biography. Roman Polanski, reflections of darkness Regia: Angie Corcetti; Produzione: Peter Jones Productions, A & E Television Networks. Origine: USA, 2000. Durata: 50’. SUL CINEMA POLACCO (indicazioni principali)

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Ringraziamenti

La mia gratitudine va innanzitutto a Giorgio Tinazzi, che ha sostenuto fin dall’inizio questo progetto, e a Rosamaria Salvatore, per la disponibilità dimostrata in ogni occasione. Desidero inoltre ringraziare Aldo Alloni, indispensabile per la realizzazione dell’apparato iconografico; Michel Chion, per i suoi suggerimenti; René Prédal, Luca Giuliani, Fausto Pavesi, Guglielmo Bottari, Serge Milan, Gianluca Scandola, Stefano Leoncini, Alessandro Faccioli,Emanuela Martini per le loro preziose indicazioni; le Università di Verona e di Nizza, dove questo libro è stato scritto. E grazie a Iris, per la pazienza.

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Indice

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Lessico polanskiano Il cinema è il cinema: identificazione di un autore

27 28 31 35 38 43 46 47 51 53 54 60 63 71 77 83 91 99 107 114 122 131 136 143 151 158 165

Raymond, Romek, Roman Modelli Le Belle Arti: la lezione surrealista Volti d’attore Alla scuola di Lodz: i primi cortometraggi Reditus ad originem Le voci degli oggetti Estasi di una solitudine Rapporti di classe Due esseri e una slitta Geometrie del desiderio Détour ad Amsterdam Fratture La fanciulla e la marea Il piacere degli occhi S come Satana La vista chiusa Alice nel paese dei maiali L’immagine allo specchio L’io e il suo doppio Maiden no more La materia del significante Dimenticare Parigi Eros e crudeltà Variazioni sul tema Il diavolo è femmina Ballata in sol minore

175 187

Filmografia Nota bibliografica

Finito di stampare nel mese di ottobre 2003 presso Arti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano, Milano