Il fanciullo selvaggio dell'Aveyron ...cresciuto nei boschi come un animale selvatico 8860812380, 9788860812384

Nel 1800 la stampa francese diffuse la notizia clamorosa del ritrovamento di un adolescente che sembrava essere cresicut

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Italian Pages 128 [117] [117] Year 2009

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Il fanciullo selvaggio dell'Aveyron ...cresciuto nei boschi come un animale selvatico
 8860812380, 9788860812384

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Jean Itard

IL FANCIULLO SELVAGGIO DELL’AVEYRON …cresciuto nei boschi come un animale selvatico

ARMANDO EDITORE

ITARD, Jean Il fanciullo selvaggio dell’Averyron …cresciuto nei boschi come un animale selvatico ; Roma : Armando, © 2009 (Rist.) 128 p. ; 24 cm. (Antropologia medica) ISBN: 978-88-6081-238-4 1. Fanciulli selvaggi/Aveyron 2. Anormalità/Mutismo/Linguaggio gestuale 3. Educazione degli oligofrenici/Pedagogia/Antropologia CDD 150

Titoli originali: Mémoire sue les premieres développements de Victor de l’Aveyron, 1801 Rapport sur le nouveaux développements de Victor de l’Aveyron, 1806 Traduzione, note e introduzione di Paolo Massimi © 1970 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-05-012 2007 Nuova edizione 2009 Prima ristampa I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

Sommario

Introduzione di P. MASSIMI

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Bibliografia minima

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PARTE PRIMA: MEMORIA SUI PRIMI PROGRESSI DI VICTOR DE L’AVEYRON (1801)

17

1. Prefazione

19

2. Prime osservazioni sul selvaggio dell’Aveyron

23

1. Dalla vita nei boschi a Parigi. 2. Diagnosi del Pinel: idiozia congenita. 3. Diagnosi dell’autore: ritardo recuperabile. 4. Criteri di rieducazione.

3. L’educazione dei sensi e attraverso i sensi

31

1. Educazione alla vita di relazione. 2. Educazione sensoriale. 3. Educazione degli interessi. 4. Educazione all’uso del linguaggio.

4. L’educazione intellettuale 1. Prima astrazione: dalla cosa all’immagine. 2. Distinzione di forme e di colori. 3. Riluttanza dell’allievo. 4. Passaggio ai segni grafici della lingua. 5. Primo bilancio e conclusioni di ordine generale.

55

PARTE SECONDA: RAPPORTO SUI NUOVI PROGRESSI DI VICTOR DE L’AVEYRON

75

1. Premessa

77

2. Sviluppo delle funzioni sensoriali

81

1. Educazione dell’udito. 2. Educazione della vista. 3. Educazione del tatto. 4. Educazione dell’odorato e del gusto.

3. Sviluppo delle funzioni intellettuali

93

1. Precisazione del valore dei segni. 2. Conquista della nozione di categoria. 3. Sviluppo delle facoltà inventive. 4. Dai nomi di cosa agli aggettivi e ai verbi. 5. Avviamento alla scrittura. 6. Tentativi di educazione al linguaggio parlato.

4. Sviluppo delle facoltà affettive

111 1. Dall’isolamento alla vita di relazione. 2. Sentimenti di dolore e di gioia. 3. Il sentimento della giustizia. 4. La crisi della pubertà. 5. Conclusioni.

Introduzione

Jean Marc Gaspard Itard, nato il 24 aprile 1774 nella cittadina provenzale di Oraison, compie i suoi studi dapprima a Riez, dove ha uno zio canonico, e successivamente nel collegio degli Oratoriani di Marsiglia. Dopo avere iniziato, per volontà del padre, un infelice tentativo nell’attività bancaria, scopre casualmente la sua vocazione per la medicina nell’ospedale militare di Soliers, dove lo hanno condotto le tempestose vicende della guerra rivoluzionaria. Divenuto medico, vince brillantemente nel 1796 il concorso per un posto di chirurgo all’ospedale Val-de-Grâce di Parigi. Quattro anni più tardi, accetta un incarico presso l’Istituto per sordomuti della rue Saint-Jacques e ben presto vi assurge alla carica di primario, nel dicembre del 1800. Proprio all’inizio di quest’anno la stampa diffonde nel paese un clamoroso fatto di cronaca, destinato a interferire profondamente nella vita di Itard e a dare un preciso indirizzo ai suoi interessi scientifici. Nell’Aveyron, dipartimento della Francia meridionale, è stato scoperto uno straordinario fanciullo, dell’età presumibile di 12 anni, che sembra essere cresciuto come una bestia selvatica nella solitudine dei boschi. Avvistato già nel 1797 e più volte catturato e fuggito, viene ripreso definitivamente nel gennaio del 1800 e condotto a Rodez, capitale del dipartimento, dove il naturalista Pierre Joseph Bonnaterre lo sottopone a un primo esame e ne dà relazione scritta nella Notice historique sur le sauvage de l’Aveyron (Parigi, 1800). Il fanciullo vi figura come uno strano essere subumano: incapace di parlare e comprendere il linguaggio degli uomini, abituato a nutrirsi di ghiande e radici, ignaro di ogni usanza civile. 7

Considerata l’eccezionalità del caso e nell’interesse della scienza il ministro degli Interni, Champagny, ordina che il fanciullo sia condotto a Parigi, dove subisce un secondo esame da parte del maggiore alienista dell’epoca, Pinel, che lo giudica affetto da idiozia congenita, come i pazienti da lui curati nel manicomio di Bicétre, e quindi non educabile. Di diverso avviso è Itard, che ha modo di osservare il piccolo selvaggio nell’Istituto della rue Saint-Jacques, dov’è stato provvisoriamente ricoverato. Imbevuto di filosofia sensistica, fervente ammiratore di Locke e di Condillac, Itard ha la sua prima grande intuizione: occorre distinguere tra l’idiozia congenita, dovuta a lesioni organiche, e quella derivante da prolungato isolamento o, come oggi diremmo, dalla deprivazione socio-culturale. Chiede perciò di poter tentare la rieducazione dello sventurato fanciullo. La sua domanda è accolta ed ha inizio allora un’eccezionale e affascinante esperienza medico-pedagogica, di cui Itard dà conto in due successivi scritti. La Memoria sui primi progressi di Victor dell’Aveyron, pubblicata a Parigi nel 1801, procura di colpo all’autore una rinomanza europea. L’imperatore di Russia, tramite il proprio ambasciatore, gli offre un vistoso regalo e un posto di prestigio a Pietroburgo. Il giovane medico rifiuta di trasferirsi e continua nella sua opera di rieducazione. Nel 1806, su invito dello stesso ministro Champagny, redige un secondo scritto, Rapporto sui nuovi progressi di Victor dell’Aveyron, edito a Parigi nel 1807 “per ordine del governo”. I due scritti danno una chiara idea dell’ampiezza e del significato del lavoro svolto da Itard. Quando viene affidato alle sue cure, il piccolo selvaggio è una sorta di animale che ha il corpo di un fanciullo dodicenne: non sa articolare che un solo suono, simile a un grugnito. Ha reazioni uditive stranissime: percepisce lo scricchiolio di una noce schiacciata alle sue spalle, non reagisce al rumore di una porta che sbatte o addirittura a un colpo di pistola esploso a pochi centimetri dal suo orecchio. Ha uno sguardo mobilissimo, irrequieto, incapace di attenzione. Sembra indifferente a tutto, incapace di qualsiasi sentimento, di tristezza come di gioia. Si mostra però affascinato dalla fiamma del fuoco e dallo spettacolo della pioggia. Va soggetto a crisi di furore e morde a sangue ogni mano estranea che si protenda verso di lui. Rifiuta di mangiare cibi cucinati, rifiu8

ta di indossare vestiti, cerca continuamente di darsi alla fuga, di recuperare la sua selvatica libertà. È questo l’essere che Itard si propone di trasformare in un ragazzo normale. Notando che sembra reagire al suono della vocale o, gli dà il nome di Victor e stabilisce per la sua rieducazione i seguenti cinque criteri: 1) fargli amare la vita in società… 2) risvegliare la sua sensibilità nervosa… 3) estendere la sfera delle sue idee creando in lui nuovi bisogni… 4) condurlo all’uso della parola con l’esercizio dell’imitazione e con l’imperiosa legge della necessità… 5) sfruttare i suoi bisogni fisici per avviare le più semplici operazioni della mente, che saranno la base dell’istruzione successiva. Dopo cinque anni di terapia pedagogica, Victor non è più un selvaggio e neppure un idiota: ha imparato a leggere e a scrivere un certo numero di parole, sa servirsene per comunicare con i suoi simili; ha stabilito vincoli affettivi con le persone che si prendono cura di lui. Però non acquista l’uso della favella: i suoi interessi mentali sono sempre limitati ed egli resterà in sostanza un ritardato per tutta la vita, conclusa nel 1828, a quarant’anni, in una dependance dell’Istituto dei sordomuti. Concludendo il Rapporto del 1806, Itard si mostra soddisfatto dei risultati raggiunti e insieme amareggiato per la loro incompiutezza. E tuttavia i suoi scritti sul selvaggio dell’Aveyron fanno di lui il pioniere della pedagogia scientifica e, segnatamente, dell’ortopedagogia, aprendo la strada alle scoperte di Séguin e, più tardi, a quelle della Montessori. Medico e scienziato di grande rinomanza, Itard consacra ormai tutto il resto della sua vita allo studio e al lavoro. Nel 1821 viene nominato membro dell’Accademia di medicina e pubblica il famoso Trattato sulle malattie dell’orecchio e dell’udito. Le nuove prospettive dischiuse da quest’opera, in particolare la tesi che la sordità non deriva soltanto da lesioni organiche e che raramente è totale, gli valgono nella storia della medicina il titolo di fondatore della moderna otorinolaringologia. Approfondendo ulteriormente la sua intuizione fondamentale sugli stretti rapporti intercorrenti tra fattori psichici e somatici e grazie alla sua esperienza giornalmente arricchita nel contatto con i sordomuti della rue Saint-Jacques, Itard affronta in modo sistematico il problema del mutismo in vari scritti, in particolare nella Me9

moria sul mutismo prodotto dalla lesione delle funzioni intellettuali, apparso nel 1831. Ancora una volta, l’aspetto essenziale e precorritore delle sue teorie e dei suoi metodi risiede nella convinzione che questa infermità sia spesso provocata da fattori psichici e che perciò non si debba rinunciare a guarire radicalmente i pazienti, educandoli o rieducandoli all’uso della favella, anziché limitarsi, secondo il costume del tempo, a insegnare loro un linguaggio gestuale. Dopo un’esistenza spesa al servizio dei malati e della scienza, privo di una propria famiglia, definitivamente domiciliato da molti anni nell’Istituto della rue Saint-Jacques, Itard si spegne nel 1838, lasciando la maggior parte dei suoi beni a istituzioni che avessero assicurato il proseguimento della sua missione: la ricerca scientifica e l’assistenza ai sordomuti. Opera di un medico, psicologo ed educatore, gli scritti sul fanciullo dell’Aveyron hanno tutto il diritto di figurare in una collana di classici della pedagogia. Tradotti per la prima volta in italiano, a pochi mesi dalla pubblicazione, in questa stessa collana, de L’idiota di Edouard Séguin1, acquistano particolare significato per la coincidenza con il centenario della nascita di Maria Montessori, la quale riconobbe appunto in Itard, oltre che in Séguin, uno dei suoi principali ispiratori e maestri. Significative in proposito le parole che la grande educatrice italiana scrisse nel 19262: «I lavori pedagogici di Itard sono interessantissime descrizioni minuziose di tentativi e di esperienze pedagogici: e chi oggi la legge deve convenire che quelle furono le prime prove della pedagogia sperimentale… Itard può dunque esser chiamato il fondatore della pedagogia scientifica, e non Wundt e Binet, che sono invece i fondatori di una psicologia fisiologica…». Rievocati gli studi e le ricerche condotti a Parigi e a Londra, la Montessori così prosegue: «Dopo ciò, continuai le mie esperienze sui deficienti a Roma e li educai durante due anni. Seguivo il libro di Séguin, e anche facevo tesoro delle mirabi1

E. Séguin, L’idiota, con introduzione di Giovanni Bollea, Roma 1970. M. Montessori, Il metodo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle case dei bambini, Roma 1926 (ripubblicato da Garzanti con il titolo La scoperta del bambino, 19699). 2

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li esperienze di Itard: feci inoltre fabbricare, sulla guida di tali testi, un ricchissimo materiale didattico… Conquistata con l’esperienza la fiducia nel metodo Séguin, io, dopo che mi fui ritirata dall’azione attiva verso i deficienti, mi rimisi a studiare le opere di Itard e Séguin. Sentivo il bisogno di meditarvi. Così feci ciò che non avevo mai fatto e che pochi forse potrebbero ripetere: ricopiai in italiano, da cima a fondo, gli scritti di questi autori, in calligrafia, quasi preparando dei libri, come i benedettini prima della diffusione della stampa»3. Per quanto concerne le opere di Itard, la Montessori si riferiva certamente alla seconda edizione della Memoria e del Rapporto, apparsa a Parigi nel 1894 con prefazione di Bourneville e testi introduttivi di Bousquet e di Delasiauve. Ma dopo tale data i due scritti di Itard divennero introvabili e solo recentemente, nel 1964, Lucien Malson li ha ristampati in appendice a un brillante saggio sui fanciulli selvaggi4. E tuttavia l’interesse di questa prima edizione italiana non si esaurisce nella riesumazione erudita di un testo raro e neppure nella funzione celebrativa, nonostante le prospettive che apre ad un approfondito studio delle fonti montessoriane. Altri motivi concorrono a rendere di palpitante attualità la triste storia di Victor dell’Aveyron. Se da un lato, infatti, il tentativo compiuto da Itard, con i suoi risultati positivi, ha aperto la strada alle moderne teorie sull’educazione degli oligofrenici5, dall’altro il suo stesso parziale fallimento 3

Per ulteriori informazioni sull’influenza esercitata da Itard sull’opera della Montessori si vedano: G.M. Bertin, Il fanciullo montessoriano e l’educazione infantile, Roma 1963; R. Mazzetti, M. Montessori nel rapporto tra anormali e normalizzazione, Roma 19692. 4 L. Malson, Les enfants sauvages, Parigi 19692. 5 Scrive Malson nell’opera citata (p. 120): «Quando Bourrieville, medico del reparto dei fanciulli nervosi e arretrati di Bicêtre, deciderà, nel 1891, di creare una “Biblioteca di educazione speciale”, pubblicherà come secondo volume i lavori itardiani sul selvaggio dell’Aveyron e dirà, dopo Esquirol, contemporaneo ed amico dell’autore, dopo Husson e Bousquet, dopo Delasiauve, che “dobbiamo giustamente considerare Itard come il promotore dell’educazione dei ritardati”». E più oltre il Malson, ricordati i debiti della Montessori verso Itard, ag-

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è ricco di illuminanti indicazioni. In parte, ovviamente, tale fallimento è attribuibile ad errori di metodo che si spiegano con la formazione sensistica di Itard, ma, soprattutto, esso avvia alla comprensione di una verità sulla quale solo oggi si sta facendo pienamente luce: la deprivazione socio-culturale, perdurando oltre certi limiti, provoca processi irreversibili di atrofia delle funzioni intellettuali. Jerome S. Bruner, in uno dei suoi Saggi per la mano sinistra, parla di esperimenti di deprivazione sensoriale condotti su animali e dai quali risulta che la crescita in un ambiente povero di stimoli determina nell’animale adulto una stupidità irreversibile. Estendendo il discorso ai processi cognitivi del fanciullo, il Bruner conclude: «Potrebbe dunque accadere che la deprivazione sensoriale e intellettuale nei primi anni di vita impedisca quel tipo di sviluppo intellettuale ed emotivo che alimenta le prime fasi dell’apprendimento e renda possibile l’apprendimento ulteriore»6. Osserva però, alludendo alle ricerche sugli animali deprivati, che “non è possibile fare esperimenti equivalenti sugli esseri umani”. Ma la vicenda di Victor dell’Aveyron, attraverso la lucida relazione di Itard, si propone come un ideale referto di laboratorio, nel senso indicato dal Bruner. Potremmo anzi aggiungere che tutta la copiosa letteratura sui “fanciulli selvaggi” è fertile di valide indicazioni per la psicopedagogia e per la psicosociologia, come dimostra persuasivamente Malson nello studio citato, elencando 53 casi storicamente attestati, dal fanciullo-lupo dello Hessen (1344) al fanciullo-scimmia di Teheran (1961). Ma non sempre tale casistica è corredata da una giunge: «Più tardi ancora un’altra missionaria dell’educazione dei fanciulli deficienti, Alice Descoeudres, adattatrice dei principi di Decroly, vedrà a sua volta nel duplice rapporto di Itard “un capolavoro” e, fortemente influenzata da lui, adotterà nella sua pedagogia personale il metodo della tombola, gli esercizi ad occhi bendati, e concepirà, sulle orme del vecchio maestro, una “ortopedia mentale” destinata all’educazione dei sensi. Nonostante l’aspetto desueto di alcuni di questi procedimenti e nonostante la concezione atomistica a cui si ispirano, un movimento pedagogico considerevole, immenso, avrà la sua origine in Itard, una delle più alte menti della prima metà del XIX secolo». 6 J. S. Bruner, Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Roma 1970, p. 189 (prima ediz. italiana 1968).

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completa e probante documentazione, come è quella relativa a Victor dell’Aveyron, che resta perciò il caso più illustre di “fanciullo selvaggio”, sia perché cresciuto nel più completo isolamento, sia perché di lui ebbe la ventura di occuparsi un grande studioso, che fin dall’inizio fu perfettamente consapevole del valore scientifico della sua singolare esperienza. Scrive infatti Itard, nella Premessa alla Memoria del 1801, che è suo proponimento «registrare con cura la storia di un essere così straordinario, determinare la sua esatta fisionomia e dedurre da ciò che gli manca la somma fino ad oggi non calcolata delle conoscenze e delle idee che l’uomo deve alla sua educazione». In un’epoca in cui sociologi, psicologi e pedagogisti vanno accertando forme e gradi di insufficienza mentale dovuti a difetto di assistenza e di educazione, il lavoro di Itard può quindi offrire un prezioso punto di riferimento. Un’ulteriore conferma dell’attualità degli scritti itardiani ci perviene, proprio in fase di correzione delle bozze del presente volume, da un recentissimo studio di Sergio Moravia su La scienza dell’uomo nel Settecento. Concepito inizialmente come premessa ad una raccolta di scritti inediti o poco accessibili di un gruppo di studiosi francesi che, intorno al 1800, promossero la Societé des Observateurs de l’homme, lo studio del Moravia si dilata in un’ampia ed organica ricostruzione del pensiero antropologico dell’Illuminismo tardo-settecentesco, il quale sconfina, con gli “ideologi”, nel primo Ottocento e precorre, nel suo culto dell’osservazione dei fatti, una componente del positivismo comtiano. Nel quadro di questa ricostruzione l’autore, che pubblica in appendice soltanto la Memoria del 1801 e non il successivo Rapporto, pone in gran risalto il valore dell’opera itardiana, sia come “uno dei testi-chiave del sensismo francese”, sia in quanto «costituisce un’esemplificazione, unica del suo genere, di intervento operativo di una determinata filosofia (quella delineata da ultimo nei testi di Condillac e di Helvétius) su una refrattaria natura…»7. Ci sia infine consentita un’ultima osservazione. Il valore scientifico delle due relazioni di Itard non deve indurre a trascurare il lo7

S. Moravia, La scienza dell’uomo nel Settecento, Bari 1970, p. 6.

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ro significato letterario ed umano. Sebbene redatte in uno stile volutamente ispirato all’asciutta sobrietà del linguaggio tecnico, esse contengono pagine vibranti di commossa partecipazione: Victor che urla di gioia alla vista della prima neve caduta nel giardino della rue Saint-Jacques; che trascorre ore di meditazione fissando l’acqua della fontana nello stesso giardino; che sprofonda in una sorta di estasi contemplativa ammirando, in piena notte, dalla finestra della sua stanza, il paesaggio campestre illuminato dai raggi della luna; che grida gioia rivedendo la sua amata sorvegliante, madame Guérin, dopo un’ennesima fuga nei boschi alla periferia di Parigi; che piange di dolore quando non riesce ad eseguire i compiti, via via più difficili, che il suo precettore gl’impone; che piange di rabbia quando, elevandosi per la prima volta alla nozione del bene e del male, si sente vittima di una punizione immeritata. Non senza ragione, perciò, un apprezzato regista francese, Francois Truftaut, ha ritenuto opportuno portare sullo schermo, in Francia, la vicenda di Victor, traendone un film ricco di suggestioni educative e poetiche8, del quale si attende a breve scadenza la versione italiana e da 8

In un interessante articolo apparso in «Education et développement» (n. 60 del settembre 1970), A. Medici scrive: «Il bel film consacrato da Truffaut alla storia del Selvaggio dell’Aveyron ci ha ricordato, in maniera perfetta, la prima avventura conosciuta dal movimento chiamato, nel nostro secolo, e in molti Paesi, Education Nouvelle». E dopo aver ricostruito i momenti più significativi del lavoro educativo svolto da Itard, la scrittrice torna a richiamarsi all’opera cinematografica che ad esso si è ispirata, traendone la seguente conclusione: «La scena finale del film ci mostra, in modo commovente e insieme sobrio, quello che si dovrebbe considerare come l’apporto più prezioso nell’esperienza del primo educatore di un fanciullo anormale, e che sempre resterà lo stimolo più efficace in ogni opera educativa. Si pensi al ritorno inaspettato di Victor dopo una lunga fuga: esso offre senza dubbio la migliore lezione che si possa trarre da questa avventura pedagogica. Il fanciullo non può fare a meno di una cosa, la più importante senza dubbio per lui: sentire sul volto la mano dell’educatore, sentire sulla gota la carezza di quelle mani che avevano tentato, con tanto affetto e con tanta fiduciosa pazienza, di integrarlo in un mondo nuovo… Merito non ultimo del film di Truffaut è appunto di avere insistito su particolari che mettono in risalto il ruolo della vita effettiva e accentuano il valore drammatico dell’avventura vissuta dal fanciullo selvaggio e dal suo maestro».

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cui sono state tratte le immagini che corredano la presente edizione del capolavoro itardiano. PAOLO MASSIMI

Bibliografia minima P. J. Bonnaterre, Notice historique sur le sauvage de l’Aveyron, Parigi 1800. A. Bousquet, Eloge historique d’Itard, in «Mémoires de l’Académie de Médecine», Parigi 1840, tomo VIII, p. 1 e segg. E. Séguin, Traitement moral, hygiène et éducation des idiots, Parigi 1846 (trad. it., L’idiota, Roma 1970). Delasiauve, Appréciation des rapports d’Itard (testo riportato, insieme con l’Eloge del Bousquet, nella riedizione dell’opera di Itard curata da Bourneville, Rapports et Mémoires sur le sauvage de l’Aveyron, Parigi 1894). A. Bellanger, Le docteur Itard, in «Revue générale de l’enseignement des sourds-muets», maggio 1904. G. Herv, Le sauvage de l’Aveyron devant les Observateurs de l’bomme (avec le Rapport retrouvé de Philippe Pinel), in «Revue Anthropologique», XXI, 1911. M. Montessori, Il metodo della pedagogia scientifica applicata all’educazione infantile nelle case del bambino, Roma 1926 (ripubblicato da Garzanti con il titolo La scoperta del bambino, 19699). R. Fareng, Le sauvage de l’Aveyron, in «Revue du Rouergue», ottobre-dicembre 1959. R. Mazzetti, M. Montessori nel rapporto tra anormali e normalizzazione, Roma 1963. G.M. Bertin, Il fanciullo montessoriano e l’educazione infantile, Roma 1963. L. Malson, Les enfants sauvages, Parigi 19692. O. Mannoni, Itard et son sauvage, in «Les temps modernes», ottobre 1965. 15

S. Moravia, La scienza dell’uomo nel Settecento, Bari, 1970. A. Medici, L’Enfant sauvage, in «Education et développement», settembre 1970.

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1. Prefazione

Gettato su questo globo senza forze fisiche e senza idee innate, incapace di obbedire da se stesso alle leggi costitutive del suo organismo1 che lo destinano alla prima schiera della gerarchia degli esseri, l’uomo può trovare soltanto in seno alla società quel posto eminente che gli fu assegnato nella natura e sarebbe, senza la civiltà, uno degli animali più deboli e meno intelligenti: verità, indubbiamente, risaputa, ma che non è stata ancora rigorosamente dimostrata… I filosofi che per primi l’hanno formulata, quelli che successivamente l’hanno sostenuta e propagata, ne hanno addotto come prova lo stato fisico e morale di alcune tribù nomadi, ritenute da essi non civilizzate per il solo fatto che non appartenevano alla nostra civiltà, e presso le quali sono andati ad attingere i tratti caratteristici dell’uomo al puro stato di natura. No, si dica quel che si vuole: non è ancora questo l’ambiente in cui bisogna cercare e studiare tale uomo. Nella più vagabonda delle orde selvagge come nella più civile nazione europea, l’uomo è soltanto quale la sua società lo fa essere; necessariamente allevato dai suoi simili, ne ha assimi1

Traduco col termine tradizionale, ma a mio avviso sufficientemente perspicuo, di “organismo” l’originale “organisation”, che il Moravia rende con una felice amplificazione, “struttura organica”. Sulla conquista concettuale rappresentata dal termine organisation, che implica il superamento della dicotomia cartesiana tra res cogitas e res extensa, si veda il Moravia stesso nell’opera citata, e segnatamente al cap. 30 della Parte prima, “Scienza dell’uomo e medicina philosophique alla fine del ’700”, p. 47 e segg. (N.d.T.).

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lato le abitudini e i bisogni; le sue idee non sono più qualche cosa di suo; egli ha profittato della più bella prerogativa della sua specie: la capacità di sviluppare il proprio intelletto grazie alla forza dell’imitazione e all’influenza della società. Bisognava dunque ricercare altrove il tipo dell’uomo veramente selvaggio, dell’uomo che non deve nulla ai suoi simili; bisognava ricostruirlo dalle storie particolari del piccolissimo numero di individui che, nel corso del XVII secolo, sono stati trovati, a diversi intervalli di tempo, viventi nella solitudine dei boschi dove erano stati abbandonati fin dalla più tenera età2. Ma in quei tempi lontani il modo di procedere dello studio scientifico era così difettoso, così soggetto alla mania delle spiegazioni, all’incertezza delle ipotesi e all’astrattezza del lavoro libresco, che l’osservazione non era tenuta in alcun conto e quei fatti preziosi sono stati perduti per la storia naturale dell’uomo. Tutto ciò che ne rimane negli scritti degli autori contemporanei si riduce a pochi particolari insignificanti, tra i quali il fatto più rilevante e più generale è che quegli individui non furono capaci di alcun apprezzabile perfezionamento: senza dubbio perché si volle applicare alla loro educazione, ignorando completamente la differenza della loro origine, il sistema ordinario dell’insegnamento sociale. Se tale applicazione ebbe un successo completo nel caso della bambina selvatica trovata in Francia verso l’inizio del secolo scorso, ciò è perché, avendo vissuto nei boschi con una compagna, ella doveva già a questa semplice relazione un certo sviluppo delle sue facoltà intellettuali, una vera educazione, come riconosce il Condillac3, quando avanza l’ipotesi che, abbandonando due bambini in condizioni di totale solitudine, anche il semplice effetto della convivenza deve sviluppare in essi la memoria e l’immaginazione, e portarli persino a creare un piccolo numero di segni: supposizione ingegnosa, giustificata pienamente dalla storia di questa bambina, la cui memoria si trovava sviluppata al punto da permetterle di rievocare alcune circostanze del suo soggiorno nei boschi, 2 Linneo ne fa ascendere il numero a 10 e li rappresenta come formanti una varietà della specie umana (Systema naturae). 3 Essai sur l’origine des connaissances humaines, II parte, sezione I.

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e con molti particolari, soprattutto intorno alla morte violenta della sua compagna4. Sprovvisti di questi vantaggi, gli altri fanciulli trovati in uno stato di isolamento individuale si presentarono alla società con delle facoltà profondamente intorpidite, contro le quali dovettero fallire, supponendo che fossero tentati e diretti alla loro educazione, tutti gli sforzi riuniti di una metafisica5 appena nascente, ancora impacciata dal pregiudizio delle idee innate, e di una medicina le cui prospettive, necessariamente limitate da una dottrina puramente meccanica, non potevano sollevarsi alla considerazione filosofica delle malattie dell’intelletto. Rischiarate dalla luce dell’analisi e sorreggendosi a vicenda, queste due scienze si sono oggi liberate dei loro vecchi errori e hanno compiuto immensi progressi. Vi era così motivo di sperare che, se mai si ripresentasse un individuo simile a quelli di cui abbiamo poc’anzi parlato, tali scienze avrebbero adoperato ai fini del suo sviluppo fisico e morale tutte le risorse delle conoscenze attuali; o che almeno, se questa applicazione si fosse rivelata impossibile o infruttuosa, si sarebbe trovato in questo secolo dell’osservazione metodica qualcuno che, registrando con cura la storia di un essere così straordinario, avrebbe determinato la sua esatta fisionomia e avrebbe dedotto da ciò che gli manca la somma 4

Questa bambina fu presa nel 1731 nei dintorni di Châlons-sur Marne e allevata in un convento di suore sotto il nome di Mademoiselle Leblanc. Quando seppe parlare, ella raccontò di aver vissuto nei boschi con una compagna e di averla malauguratamente uccisa con un violento colpo sulla testa un giorno che, trovata per caso una corona di rosario, se ne erano disputate il possesso (Racine, Poème de la Religion). Sebbene sia una delle più circostanziate, questa storia è così mal congegnata che, toltene le parti insignificanti o incredibili, offre pochissimi particolari degni di nota, tra i quali il più importante è la facoltà della giovanetta selvatica di ricordarsi del proprio passato. 5 Ad intendere l’esatto significato del termine “metafisica” in questo contesto, tenendo conto della formazione illuministica di Itard, valgano le indicazioni fornite sotto questa voce dalla celebre Encyclopedie des sciences, des arts et des metiers (1751-1772): «Metafisica è la scienza delle ragioni delle cose. Tutto ha la sua metafisica e la sua pratica: la pratica senza la ragione della pratica, e la ragione senza l’applicazione concreta, costituiscono una scienza imperfetta...» (N.d.T.).

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fino ad oggi non calcolata delle conoscenze e delle idee che l’uomo deve alla sua educazione. Queste due grandi imprese debbo confessare che me le sono proposte entrambe. E non mi si chieda se ho raggiunto lo scopo. Sarebbe una domanda prematura, alla quale potrei rispondere solo tra molto tempo. E avrei certamente maturato in silenzio tale risposta, senza esibire al pubblico i miei lavori, se non fosse stato per me un bisogno, oltre che un obbligo, dimostrare con i miei primi successi che il fanciullo sul quale li ho realizzati non è, come generalmente si crede, un deficiente irrecuperabile, ma un essere interessante, che merita sotto ogni aspetto l’attenzione degli osservatori e quelle cure sollecite che gli fa prestare un’amministrazione illuminata e filantropica.

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2. Prime osservazioni sul selvaggio dell’Aveyron*

1. Dalla vita nei boschi a Parigi Un fanciullo di undici o dodici anni, che era stato intravisto alcuni anni prima nei boschi di La Caune, interamente nudo, intento a cercare ghiande e radici di cui si nutriva, fu incontrato in quegli stessi luoghi, verso la fine dell’anno VII1, da tre cacciatori che si impadronirono di lui mentre si arrampicava su un albero per sottrarsi al loro inseguimento. Condotto in un villaggio dei dintorni e affidato alla custodia di una vedova, dopo una settimana fuggì sulle montagne, dove vagabondò durante i più rigidi freddi dell’inverno, rivestito più che protetto da una camicia a brandelli, ritirandosi di notte in luoghi solitari, accostandosi di giorno ai villaggi vicini e conducendo così una vita da nomade, fino al giorno in cui entrò spontaneamente in una casa abitata del cantone di Saint-Sernin. Lì fu di nuovo preso, sorvegliato e curato per due o tre giorni; poi trasferito all’ospizio di Saint-Affrique e successivamente a Rodez, dove fu trattenuto parecchi mesi. Durante il suo soggiorno in * Se con l’espressione selvaggio si è finora indicato l’uomo scarsamente civilizzato, si ammetterà che colui che non lo è affatto meriti ancora più rigorosamente tale denominazione. Conserverò dunque a questo fanciullo l’epiteto con cui è stato sempre designato, finché non avrò reso conto dei motivi che mi hanno indotto ad assegnargliene un altro. 1 Qui e altrove Itard adopera la datazione del calendario della Rivoluzione Francese. L’anno I comincia il 22 settembre 1792 col mese di vendemmiaio (22 sett.-21 ott.); gli altri mesi, nell’ordine, sono: brumaio, frimaio, nevoso, piovoso, ventoso, germinale, floreale, pratile, messidoro, termidoro, fruttidoro (N.d.T.).

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questi diversi luoghi, è apparso sempre recalcitrante, impaziente e incapace di star fermo, sempre pronto a cercare di fuggire, e ha fornito materia alle più interessanti osservazioni, raccolte da testimoni degni di fede e che io non dimenticherò di riferire nei paragrafi di questo saggio, in cui potranno avere più proficuo rilievo2. Un ministro protettore delle scienze ritenne che quella dell’uomo morale avrebbe potuto trarre qualche lume da questo avvenimento. Furono dati ordini perché questo fanciullo venisse condotto a Parigi. Vi giunse verso la fine dell’anno VIII, sotto la custodia di un povero e rispettabile vecchio che, costretto a separarsene poco tempo dopo, promise che sarebbe tornato a prenderlo e gli avrebbe fatto da padre, se mai la società avesse deciso di abbandonarlo. Le speranze più brillanti e meno ragionevoli avevano preceduto a Parigi il piccolo selvaggio dell’Aveyron. Molti curiosi si ripromettevano la gioia di osservare quale sarebbe stato il suo stupore alla vista di tutte le belle cose della capitale. Inoltre non poche persone, peraltro dotate di pregevole cultura, dimenticando che i nostri organi sono tanto meno educabili e che l’imitazione è tanto più difficile quanto più l’uomo è lontano dalla società e dall’epoca della sua prima infanzia, credettero che l’educazione di questo individuo avrebbe richiesto appena qualche mese e che ben presto egli sarebbe stato in grado di fornire sulla sua vita passata le più interessanti informazioni. In totale contrasto con tali aspettative, si vide un fanciullo disgustosamente sporco, affetto da movimenti spasmodici e spesso convulsivi, che faceva incessantemente avanti e indietro nella stanza come certi animali in gabbia, mordendo e graffiando coloro che lo servivano; infine, indifferente a tutto, incapace di prestare attenzione a qualche cosa. È facile capire come un essere di siffatta natura dovesse eccita2 Tutto ciò che ho detto e che dirò nelle pagine successive sulla storia di questo fanciullo prima del suo soggiorno a Parigi è garantito dai rapporti ufficiali dei cittadini Guiraud e Constant de SaintEstève, commissari del governo, il primo nel cantone di Saint-Aifrique, il secondo in quello di Saint-Sernin, e dalle osservazioni del cittadino Bonnaterre, professore di Storia naturale nella scuola centrale del dipartimento dell’Aveyron, esposte con ricchezza di particolari nella sua Notice historique sur le Sauvage de l’Aveyron, Parigi, anno VIII.

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re null’altro che una curiosità momentanea. Accorse una folla di persone, che lo videro senza osservarlo, lo giudicarono senza conoscerlo, e non se ne parlò più. In mezzo a questa generale indifferenza, gli amministratori dell’Istituto nazionale dei sordomuti e il suo celebre direttore non dimenticarono affatto che la società, attirando a sé questo sfortunato giovane, aveva contratto verso di lui degli obblighi inderogabili, che era tenuta a soddisfare. Condividendo allora le speranze che io fondavo su un trattamento medico, decisero che questo fanciullo sarebbe stato affidato alle mie cure.

2. Diagnosi del Pinel: idiozia congenita Ma prima di esporre gli aspetti particolari e i risultati di tali cure, è opportuno dire qualche cosa sulle condizioni iniziali del giovanetto, ricordare e descrivere questa prima epoca, per meglio valutare quella a cui siamo pervenuti e, confrontando il passato con il presente, determinare che cosa ci si debba attendere dall’avvenire. Costretto dunque a tornare su fatti già noti, li esporrò rapidamente; e per eliminare il sospetto che io li abbia esagerati allo scopo di dare risalto agli effetti del mio intervento, mi permetterò di riportare qui, in maniera assai analitica, la descrizione che ne fece, dinanzi a un colto pubblico e in una seduta alla quale ebbi l’onore di partecipare, un medico molto conosciuto per la sua genialità di osservatore nonché per la sua profonda conoscenza delle malattie mentali. Cominciando con il descrivere le funzioni sensoriali del piccolo selvaggio, il cittadino Pinel constatava che i suoi sensi erano ridotti a un tale stato d’inerzia che, sotto questo aspetto, quel povero ragazzo era assai inferiore ad alcuni dei nostri animali domestici: gli occhi, privi di fissità, senza espressione, erravano vagamente da un oggetto all’altro incapaci di fermarsi su alcuno e, per di più, erano così poco esercitati dal tatto che non distinguevano un oggetto in rilievo da un oggetto dipinto; l’organo dell’udito era insensibile sia ai più forti rumori che alla musica più dolce; quello della voce era ridotto a un completo mutismo ed emetteva soltanto un suono gutturale e uniforme; l’odorato, privo di ogni educazione, accoglieva con la stessa indifferenza i profumi gradevoli e la fetida esalazione del25

le immondizie di cui era pieno il suo giaciglio; infine, l’organo del tatto si trovava limitato alle funzioni meccaniche della prensione dei corpi. Passando poi a descrivere lo stato delle funzioni intellettuali del fanciullo, l’autore del rapporto rilevava la sua incapacità di attenzione tranne che per gli oggetti dei suoi bisogni, e conseguentemente l’incapacità di tutte quelle operazioni della mente che dall’attenzione derivano: sprovvisto di memoria, di giudizio, di attitudine all’imitazione, il piccolo selvaggio era così limitato persino nelle idee relative ai suoi bisogni che non era ancora riuscito ad aprire una porta né a salire su una sedia per impadronirsi degli alimenti collocati fuori della portata delle sue mani. Mancava infine di ogni mezzo di comunicazione, poiché non conferiva alcuna intenzione espressiva ai gesti e ai movimenti del corpo, passando con rapidità e senza alcun presumibile motivo da una tristezza apatica ai più smoderati scoppi di riso. Ed era insensibile a qualsivoglia sentimento morale: tutto il suo discernimento consisteva in un calcolo di ghiottoneria; il suo piacere si esauriva in una gradevole sensazione degli organi del gusto; la sua intelligenza non era che attitudine a produrre poche idee incoerenti relative ai suoi bisogni. Insomma, l’esistenza di questo fanciullo si collocava ad un livello puramente animale. Richiamandosi quindi alla storia di parecchi casi, registrati a Bicêtre, di fanciulli affetti da idiozia irrecuperabile, il cittadino Pinel effettuava tra la condizione di quegli infelici e quella del nostro soggetto una serie di puntuali accostamenti, da cui scaturiva una completa e perfetta identità tra quei giovani idioti e il selvaggio dell’Aveyron. Tale identità portava necessariamente a concludere che, colpito da una malattia considerata fino allora come incurabile, il povero trovatello era nell’impossibilità di elevarsi a un qualche grado di socievolezza e di istruzione. E questa fu infatti la conclusione del cittadino Pinel, sebbene egli l’accompagnasse a quel dubbio filosofico che circola in tutti i suoi scritti, e che suole introdurre nelle sue previsioni chiunque sappia ben valutare la scienza della prognosi e vedervi null’altro che un calcolo più o meno incerto di probabilità e di congetture.

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3. Diagnosi dell’autore: ritardo recuperabile Io non condivisi affatto questa opinione sfavorevole e, nonostante la verità del quadro descritto e la fondatezza degli accostamenti fatti dal relatore, osai concepire qualche speranza, basandola sulla duplice considerazione della causa e della curabilità di quella idiozia così vistosa. Non posso andare oltre senza soffermarmi un momento su queste due considerazioni. Esse riguardano anche la situazione attuale e riposano su una serie di fatti che debbo raccontare e ai quali sarò costretto a mescolare più di una volta le mie personali riflessioni. Se venisse proposto questo problema di metafisica: determinare quali sarebbero il grado di intelligenza e la natura delle idee di un adolescente privato fin dall’infanzia di ogni educazione e vissuto nel più completo isolamento dagli individui della propria specie, o io mi inganno grossolanamente, o tutta la soluzione consisterebbe nell’attribuire a questo individuo soltanto un’intelligenza relativa al piccolo numero dei suoi bisogni e spogliata, per astrazione, di tutte le idee semplici e complesse che noi riceviamo con l’educazione e che si combinano nella nostra mente nelle più diverse maniere grazie unicamente alla conoscenza dei segni. Ebbene, il quadro morale di siffatto individuo sarebbe quello del selvaggio dell’Aveyron e la soluzione del problema darebbe la misura e la causa del suo stato intellettuale. Ma per ammettere con fondatezza ancora maggiore l’esistenza di questa causa, bisogna provare che essa ha agito per molti anni e rispondere all’obiezione, che si potrebbe muovermi e che in effetti mi è stata già mossa, secondo la quale il presunto selvaggio non sarebbe che un povero imbecille abbandonato di recente alle soglie di un bosco da genitori disgustati di lui. Coloro che hanno avanzato una simile supposizione non hanno osservato questo fanciullo subito dopo il suo arrivo a Parigi. Avrebbero visto che tutte le sue abitudini portavano l’impronta di una vita errante e solitaria: invincibile avversione per la società e le sue usanze, per il nostro abbigliamento, per i nostri mobili, per la permanenza nel chiuso ambiente dei nostri appartamenti, per il nostro modo di preparare i cibi; indifferenza profonda per gli oggetti dei nostri piaceri e dei no27

stri bisogni artificiali; gusto appassionato per la libertà dei campi, ancora così vivo nel suo stato attuale che, nonostante i nuovi bisogni e i nuovi affetti nascenti in lui, durante una breve dimora a Montmorency sarebbe sicuramente fuggito nella foresta, se non fossero state prese le più severe precauzioni; e due volte è effettivamente fuggito dalla casa dei sordomuti, benché sorvegliato dalla sua governante. Altra prova è la sua eccezionale mobilità, un po’ impacciata, invero, da quando porta un paio di scarpe, ma sempre notevole, per la sua difficoltà di regolarsi sul nostro passo tranquillo e misurato e per la tendenza continua a prendere il trotto o il galoppo. Si aggiunga la sua ostinata abitudine di fiutare tutto ciò che gli viene offerto, anche quegli oggetti che noi consideriamo inodori, e la sua non meno stupefacente maniera di masticare, eseguita esclusivamente con una rapidissima azione dei denti incisivi, la quale dimostra, per analogia con la masticazione di alcuni roditori, che a somiglianza di questi animali il nostro selvaggio si nutriva quasi sempre di prodotti vegetali. Dico quasi sempre perché, da un esperimento che qui riferirò, sembra che in talune circostanze sia giunto a divorare piccoli animali uccisi. Una volta infatti gli fu offerto un canarino morto e in un baleno l’uccello venne spogliato di tutte le penne, squarciato con l’unghia, fiutato e poi gettato via. Altri indizi di una vita isolata, precaria e vagabonda si deducono dalla natura e dal numero delle cicatrici di cui è coperto il corpo di questo fanciullo. Senza parlare di quella che si scorge sulla parte anteriore del collo e su cui mi soffermerò in seguito, in quanto attribuibile a una causa diversa e meritevole di particolare attenzione, se ne contano quattro sul volto, sei lungo il braccio sinistro, tre in prossimità della spalla destra, quattro alla circonferenza del pube, una sulla natica sinistra, tre a una gamba e due all’altra: in tutto, ventitré cicatrici, delle quali alcune sembrano risalire a morsi di animali e le altre sono frutto di lacerazioni e scorticature più o meno larghe, più o meno profonde, testimonianze numerose e incancellabili del lungo e totale abbandono subìto da questo infelice e che, considerate da un altro punto di vista, più generale e filosofico, smentiscono la teoria della debolezza e insufficienza dell’uomo abbandonato a se stesso e comprovano le molteplici risorse della natura la quale, secondo leggi in apparenza contraddittorie, lavora 28

apertamente a riparare e a conservare ciò che meno manifestamente tende a deteriorare e a distruggere. Si aggiungano a tutti questi fatti dedotti dall’osservazione quelli non meno autentici attestati dagli abitanti delle campagne circostanti al bosco in cui questo fanciullo fu trovato, e si vedrà come nei primi giorni successivi al suo ingresso nella società si nutrisse esclusivamente di ghiande, di patate e di castagne crude, e non emettesse alcuna sorta di suono; si vedrà come, malgrado l’attiva sorveglianza di cui era oggetto, sia giunto più volte a fuggire, come manifestasse una grande repugnanza a dormire in un letto, ecc. Inoltre da quelle testimonianze risulta che era stato visto più di cinque anni prima interamente nudo e sempre pronto a fuggire all’avvicinarsi di esseri umani3, il che fa presupporre che al tempo di questa sua prima apparizione fosse già abituato a questo genere di vita; e tale abitudine dimostra che doveva già vivere da almeno due anni in luoghi disabitati. Per conseguenza questo fanciullo ha trascorso in assoluta solitudine circa sette anni dei dodici che costituivano la sua presumibile età quando fu preso nei boschi di La Caune. È dunque probabile e pressoché dimostrato che egli è stato abbandonato a un’età di quattro o cinque anni e che, se a quell’epoca possedeva già qualche idea e qualche parola in virtù di un inizio di educazione, tutto questo deve essere stato cancellato dalla sua memoria per effetto dell’isolamento.

4. Criteri di rieducazione Questa per l’appunto mi è parsa la causa del suo stato attuale e ciò spiega perché nutrivo buone speranze circa il successo delle mie cure. In effetti, considerando il poco tempo che aveva trascorso tra gli uomini, il selvaggio dell’Aveyron, più che un adolescente idiota, era un bambino di dieci o dodici mesi, e un bambino su cui pesavano negativamente le acquisite abitudini antisociali, una testarda disattenzione, la scarsa duttilità degli organi e una sensibilità forte3

Lettera del cittadino N... inserita nel «Journal des Débats» del 5 piovoso, anno VIII.

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mente attenuata da cause accidentali. Per quest’ultimo aspetto, la sua situazione veniva a configurarsi come un caso meramente terapeutico, per il quale il trattamento spettava alla medicina morale4, a quest’arte sublime creata in Inghilterra dai Willis e dai Crichton e diffusa di recente in Francia dai successi e dagli scritti del Pinel. Guidato dallo spirito della loro dottrina, più che dai loro precetti che non potevano adattarsi a questo caso imprevisto, io ridussi a cinque obiettivi principali la terapia morale ovvero l’educazione del selvaggio dell’Aveyron. Primo obiettivo: fargli amare la vita in società, rendendogliela più piacevole di quella che allora vi conduceva e, soprattutto, più simile a quella che da poco aveva abbandonato. Secondo obiettivo: risvegliare la sensibilità nervosa con i più energici stimolanti e talora sfruttando i più vivaci affetti dell’animo. Terzo obiettivo: estendere la sfera delle sue idee, sviluppando in lui nuovi bisogni e moltiplicando i suoi rapporti con gli esseri circostanti. Quarto obiettivo: condurlo all’uso della parola, provocando l’esercizio dell’imitazione mediante l’imperiosa legge della necessità. Quinto obiettivo: esercitare per qualche tempo sugli oggetti dei suoi bisogni fisici le più semplici operazioni della mente, per poi trasferire l’applicazione di queste ultime sugli oggetti della sua istruzione.

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Ai tempi di Itard l’aggettivo morale è adoperato anche nell’accezione tecnica oggi assunta dal termine psichico. D’altro canto, ancora oggi, il dizionario francese Larousse registra sotto il termine moral la seguente definizione: «l’insieme dei fenomeni della vita mentale» (N.d.T.).

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3. L’educazione dei sensi e attraverso i sensi

1. Educazione alla vita di relazione Primo obiettivo: fargli amare la vita in società, rendendogliela più piacevole di quella che allora vi conduceva e, soprattutto, più simile a quella che da poco aveva abbandonato. Il brusco mutamento della sua maniera di vivere, il frequente fastidio delle visite dei curiosi, qualche maltrattamento, effetto inevitabile della sua coabitazione con fanciulli coetanei, sembravano avere spento ogni speranza di civilizzare il giovane selvaggio. La sua petulante attività si era pian piano trasformata in una sorda apatia che aveva prodotto abitudini ancor più solitarie. Così, ad eccezione dei momenti in cui la fame lo spingeva in cucina, se ne stava sempre accovacciato in un angolo del giardino o nascosto al secondo piano dietro i resti di certo materiale da costruzione. È in questo deplorevole stato che l’hanno visto alcuni curiosi di Parigi, i quali, dopo un esame di pochi minuti, hanno ritenuto che fosse da inviare alle Petites-Maisons, come se la società avesse il diritto di strappare un fanciullo a una vita libera e innocente per mandarlo a morire di noia in un ospizio e ad espiarvi la disgrazia di avere deluso la pubblica curiosità. Io ritenni che esistesse una soluzione più semplice e soprattutto più umana: trattarlo bene e mostrare molta condiscendenza per i suoi gusti e le sue inclinazioni. Madame Guérin, a cui l’Amministrazione ha affidato la custodia speciale di questo fanciullo, ha assolto e assolve tutt’ora questo arduo compito con tutta la pazienza di una madre e con l’intelligenza di una maestra illuminata. Lungi dal contrariare le sue abitudini, ella ha saputo in 31

qualche modo avvalersi proprio di esse per attuare questo primo obiettivo dell’educazione alla socialità. Giudicando la vita passata di questo fanciullo dalle sue disposizioni attuali, ci voleva poco a capire che, a somiglianza di certi selvaggi dei Paesi caldi, il nostro conosceva soltanto queste quattro cose: dormire, mangiare, non far niente e correre per i campi. Era dunque necessario renderlo felice alla sua maniera, mandandolo a dormire al tramonto, fornendogli in abbondanza alimenti di suo gusto, rispettando la sua indolenza e accompagnandolo nelle sue passeggiate, o meglio nelle sue corse all’aria aperta, fosse buono o cattivo tempo. Queste escursioni campestri sembravano anzi riuscirgli più gradite quando sopraggiungeva un brusco e violento cambiamento atmosferico: quasi a ribadire che, in qualsivoglia condizione, l’uomo è avido di sensazioni nuove. Così, per esempio, osservando il nostro assistito all’interno della sua stanza, lo si vedeva andare avanti e dietro con faticosa monotonia, dirigere costantemente gli occhi verso la finestra e percorrere tristemente con lo sguardo lo spazio atmosferico visibile all’esterno. Se per caso in quel momento si levava un vento temporalesco, oppure se il sole, precedentemente nascosto dietro le nuvole, si mostrava diffondendo improvvisamente nell’aria una luce più viva, allora erano scoppi fragorosi di risa, una gioia quasi convulsa, durante la quale tutti i suoi movimenti, proiettati in avanti, assomigliavano fortemente a una sorta di slancio che volesse prendere per oltrepassare la finestra e precipitarsi nel giardino. Altre volte, invece di questi movimenti gioiosi, si manifestava in lui una specie di rabbia frenetica: si torceva le braccia, si premeva i pugni sugli occhi, digrignava i denti e diventava pericoloso per coloro che gli stavano accanto. Una mattina che nevicava abbondantemente ed egli era immerso nel sonno, svegliatosi, caccia un urlo di gioia, scende dal letto e corre alla finestra, poi alla porta, va e viene con impazienza dall’una all’altra, esce fuori vestito a metà e raggiunge il giardino. Là fa esplodere tutta la sua gioia con grida acutissime, si rotola nella neve, la raccoglie a manciate e la trangugia con incredibile avidità. Ma non era sempre in modo così vivace e rumoroso che si manifestavano le sue sensazioni alla vista di questi grandi fenomeni naturali. Merita di essere ricordato che in certi casi le sue manife32

stazioni emotive parevano assumere l’espressione calma della nostalgia e della malinconia: congettura davvero azzardata e senza dubbio del tutto contrastante con le opinioni dei metafisici, ma dalla quale era impossibile astenersi quando si osservava con cura e in determinate circostanze l’infelice giovanetto. Così, quando il rigore del tempo scacciava tutti gli altri dal giardino, era il momento che egli sceglieva per discendervi. Ne faceva più volte il giro e finiva per sedersi sul bordo della fontana. Mi sono spesso soffermato per ore intere, e con un piacere indicibile, a esaminarlo in questa situazione, a vedere come tutti quei movimenti spasmodici e quel continuo oscillare di tutto il corpo scemavano, si calmavano gradualmente, per cedere il posto a un atteggiamento più tranquillo; e come insensibilmente la sua fisionomia, inespressiva o contratta da smorfie, assumeva un carattere ben pronunciato di tristezza o di melanconica fantasticheria, man mano che i suoi occhi si fissavano stabilmente sulla superficie dell’acqua ed egli andava gettandovi di tanto in tanto qualche frammento di foglia secca. Quando di notte e con il chiaro di luna i raggi di questo astro riuscivano a penetrare nella sua stanza, era ben raro che non si svegliasse e non si andasse a collocare dinanzi alla finestra. E lì restava, secondo la relazione della sua governante, per una parte della notte, in piedi, immobile, con il collo teso, gli occhi fissi verso le campagne rischiarate dalla luna, immerso in una sorta di estasi contemplativa, il cui silenzio e la cui immobilità erano interrotti soltanto da un atto inspiratorio molto prolungato, che si ripeteva a lunghi intervalli ed era quasi sempre accompagnato da un lieve suono lamentoso. Sarebbe stato inutile e insieme disumano voler contrariare queste ultime abitudini, ed anzi rientrava nei miei progetti associarle alla sua nuova esistenza per rendergliela più piacevole. Ben diverso atteggiamento richiedevano invece quelle sue altre abitudini che presentavano lo svantaggio di affaticare continuamente il suo stomaco e i suoi muscoli lasciando così inattiva la sensibilità dei nervi e le facoltà del cervello. Perciò mi applicai con impegno, e alla fine gradualmente ci riuscii, a rendere più rare le sue corse, meno abbondanti e meno frequenti i suoi pasti, meno lunga la sua permanenza a letto, e le giornate più profittevoli alla sua istruzione. 33

2. Educazione sensoriale Secondo obiettivo: risvegliare la sensibilità nervosa con i più energici stimolanti e talora sfruttando i più vivaci affetti dell’animo. Alcuni fisiologi moderni hanno avanzato l’ipotesi che la sensibilità sia direttamente proporzionale al grado di incivilimento. Non credo che se ne possa offrire prova più convincente di quella costituita dalla scarsa sensibilità degli organi sensoriali del selvaggio dell’Aveyron. Basta riesaminare la descrizione che ne ho fatto poc’anzi e per la quale ho tratto gli elementi dalla fonte meno sospetta. Aggiungerò qui, relativamente allo stesso argomento, alcune delle mie osservazioni più significative. Più volte nel corso dell’inverno, attraversando il giardino dei sordomuti, ho visto il giovanetto, accovacciato seminudo sul suolo umido, starsene esposto così per ore intere a un vento fresco e piovoso. E non soltanto per il freddo, ma anche per un forte calore l’organo della pelle e del tatto non dimostrava alcuna sensibilità; gli capitava giornalmente, quando stava vicino al fuoco e i carboni ardenti rotolavano fuori del focolare, di prenderli con le dita e di ricollocarli senza troppa fretta sui tizzoni accesi. E più di una volta è stato sorpreso in cucina mentre toglieva alla stessa maniera delle patate dall’acqua bollente di una marmitta; e posso assicurare che anche in questo periodo aveva una pelle fine e vellutata1. Spesso sono giunto a riempirgli di tabacco le cavità esterne del naso senza provocare lo starnuto. Ciò indica che non esisteva tra l’organo dell’odorato, peraltro assai esercitato, e quelli della respirazione e della vista nessuno di quei rapporti simpatici che sono parte costitutiva della sensibilità dei nostri sensi e che in tali casi avrebbero determinato lo starnuto o la secrezione delle lacrime. Quest’ultimo fenomeno era ancora meno subordinato ai moti di tristezza dell’animo: nonostante le innumerevoli contrarietà e i mal1

Gli offrii, dice un osservatore che lo ha visto a Saint-Sernin, una grande quantità di patate; si rallegrò vedendole, ne prese alcune in mano e le gettò sul fuoco. Poco dopo le ritirò e le mangiò immediatamente, ancora bollenti.

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trattamenti ai quali l’aveva esposto, nei primi mesi, il suo nuovo genere di vita, non l’avevo mai sorpreso in atto di piangere. Tra tutti i sensi, era quello dell’orecchio che pareva il più insensibile. Si è tuttavia potuto accertare che il rumore di una noce o di qualsiasi altro corpo commestibile di suo gusto non mancava mai di farlo voltare. Si tratta di un’osservazione quanto mai documentata, eppure questo stesso organo si mostrava insensibile ai rumori più forti e persino alle esplosioni delle armi da fuoco. Un giorno sparai vicino a lui due colpi di pistola; il primo sembrò scuoterlo un poco, il secondo non gli fece neppure girare la testa. Così, prescindendo da casi come questo, in cui il difetto di attenzione da parte dell’animo poteva simulare una mancanza di sensibilità dell’organo, risultava tuttavia che questa proprietà nervosa era singolarmente debole nella maggior parte dei sensi. Per conseguenza, rientrava nel mio piano svilupparla con tutti i mezzi possibili e preparare la mente all’attenzione disponendo i sensi a ricevere le impressioni più vivaci. Tra i diversi mezzi che posi in opera, l’effetto del calore mi parve rispondere meglio di ogni altro al mio intendimento. È un fatto ammesso dai fisiologi2 e dai politici3 che gli abitanti del Sud debbono più che altro all’azione del calore sulla pelle la loro squisita sensibilità, tanto superiore a quella degli uomini del Nord. Io adoperai questo stimolo in tutti i modi. Non bastava che i suoi vestiti, le sue coperte e il suo alloggio fossero molto caldi; tutti i giorni gli feci fare con acqua ad alta temperatura un bagno di due o tre ore, durante il quale veniva sottoposto a frequenti docce sulla testa con la stessa acqua. Il calore e la frequenza dei bagni non ebbero affatto su di lui quegli effetti debilitanti che si sogliono loro attribuire. Io avrei anzi desiderato che ciò accadesse, ben convinto che in tal caso la perdita delle forze muscolari sarebbe tornata a vantaggio della sensibilità nervosa. Ma anche se questo secondo risultato indiretto non si verificò, il primo non deluse la mia attesa. Dopo qual2 Lacose, Idée de l’homme, physique et moral; Laroche, Analyse des fonctions du système nerveux; Fouquet, voce Sensibilité sull’Encyclopédie (in ordine alfabetico). 3 Montesquieu, Esprit des lois, libro XIV.

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che tempo il nostro giovane selvaggio cominciò a mostrarsi sensibile all’azione del freddo: si serviva della mano per controllare la temperatura dell’acqua del bagno e rifiutava di entrarvi se era soltanto tiepida. Per la stessa ragione cominciò ben presto ad apprezzare l’utilità dei vestiti, che fino ad allora aveva sopportato con molta impazienza. Una volta riconosciuta tale utilità, non restava che fare un passo per indurlo a vestirsi da sé. E pochi giorni dopo il passo fu fatto: ogni mattina venne lasciato esposto al freddo, con gli abiti disposti accanto a lui, finché imparò ad indossarli. Un espediente analogo bastò per dargli contemporaneamente una certa abitudine alla pulizia: la certezza di dover passare la notte in un letto freddo e umido lo indusse ad alzarsi regolarmente per soddisfare i suoi bisogni. Feci associare alla somministrazione dei bagni l’uso delle frizioni secche lungo la spina dorsale e anche la solleticazione della regione lombare. Quest’ultimo trattamento non era dei meno eccitanti; e anzi mi vidi costretto a prescriverne la soppressione, quando i suoi effetti non si limitarono più a manifestazioni di gioia, ma parvero estendersi anche agli organi genitali, minacciando di fare assumere una direzione incresciosa ai primi impulsi di una pubertà già troppo precoce. A queste diverse stimolazioni dovetti ancora aggiungere quelle, non meno efficaci, degli affetti dell’animo. In questo periodo si riducevano a due quelli che era capace di provare: la gioia e la collera. Quest’ultima la provocai soltanto a lunghi intervalli, perché l’accesso fosse più violento, e sempre preoccupandomi che avesse una ben visibile giustificazione. Rilevai alcune volte che nella tensione dell’impeto collerico la sua intelligenza sembrava in certo modo dilatarsi suggerendogli qualche ingegnoso espediente per trarsi d’impaccio. Una volta che volevamo costringerlo a fare il bagno con acqua appena tiepida e che le nostre reiterate insistenze avevano acceso in lui una violenta collera, vedendo che la governante era poco convinta della bassa temperatura dell’acqua dalle frequenti prove che egli andava facendo con la punta delle dita, si volse con vivacità verso di lei, si impadronì della sua mano e gliela immerse nella vasca. Ed ecco un altro episodio dello stesso genere. Un giorno se ne stava nel mio studio, seduto su un divano, ed io mi sedetti accanto 36

a lui collocando in mezzo a noi una bottiglia di Leida leggermente caricata. Il giorno prima egli ne aveva ricevuto una leggera scarica elettrica che gliene aveva fatto capire l’effetto. Osservando l’inquietudine che provocava in lui la vicinanza di questo strumento, credetti che l’avrebbe allontanato da sé afferrandolo per il gancio. Egli prese una decisione più saggia: infilò le mani nell’apertura del farsetto e si ritrasse di qualche pollice, in modo che la sua coscia non fosse più a contatto col rivestimento esterno della bottiglia. Io mi avvicinai nuovamente, sempre mantenendo la bottiglia tra noi: altro movimento di ritirata da parte sua e altro avvicinamento da parte mia. Questa piccola manovra continuò finché il giovanetto si trovò all’estremità del divano, bloccato lateralmente dalla parete e dinanzi da un tavolino, cosicché non poteva eseguire più alcun movimento. Fu allora che, cogliendo il momento in cui avanzavo il mio braccio per spostare il suo, sospinse con abile mossa la mia mano sul gancio della bottiglia: e fui io che ricevetti la scarica. Ma se talvolta, nonostante il vivo interesse che suscitava in me questo povero orfanello, mi assumevo l’ingrato compito di provocarne la collera, non trascuravo alcuna occasione di procurargli un po’ di gioia: e per riuscirvi non occorrevano davvero mezzi difficili o costosi. Un raggio di sole catturato con uno specchio e proiettato qua e là sul soffitto della sua stanza; un bicchiere di acqua versato a goccia a goccia e da una certa altezza sull’estremità delle sue dita mentre egli si trovava nella vasca da bagno; oppure una scodella di legno, con un po’ di latte dentro, messa a galleggiare nella vasca e che, per le oscillazioni dell’acqua si spostava pian piano fino a giungere, tra alte grida di gioia, a portata delle sue mani: ecco all’incirca tutto quel che occorreva per ricreare e rallegrare, spesso fino all’ebbrezza, questo figlio della natura. Questi furono, tra tanti altri, gli stimolanti sia fisici che morali con cui cercai di sviluppare la sensibilità dei suoi organi. Dopo un periodo di tre mesi, ottenni un eccitamento generale di tutte le facoltà sensitive. Allora il tatto cominciò a mostrarsi sensibile all’impressione dei corpi caldi o freddi, lisci o ruvidi, teneri o rigidi. A quel tempo portavo un paio di pantaloni di velluto sui quali pareva 37

che provasse piacere a strofinare la mano. E ancora con la mano si assicurava quasi sempre del grado di cottura delle sue patate quando, toltele dalla marmitta con un cucchiaio, le premeva con le dita decidendo, a seconda del loro grado di durezza, se mangiarle o gettarle di nuovo nell’acqua bollente. Quando gli si dava una candela da accendere con un pezzo di carta, non sempre aspettava che lo stoppino avesse preso fuoco per gettar via con precipitazione il pezzo di carta sebbene la fiamma fosse ancora lontana dalle sue dita. Se veniva invitato a spingere o a portare un oggetto che fosse appena un po’ resistente o pesante, certe volte interrompeva di colpo l’operazione e si metteva ad esaminare la punta delle proprie dita, che certamente non erano né intorpidite né ferite, e poi riponeva lentamente la mano nell’apertura del farsetto. Anche l’odorato aveva fatto progressi nel corso di questo cambiamento. La minima eccitazione prodotta su questo organo provocava uno starnuto. E dalla paura che lo prese la prima volta che gli successe di starnutire, mi resi conto che per lui si trattava di una cosa nuova. Subito dopo fu costretto a gettarsi sul letto. Il raffinamento del senso del gusto era ancora più notevole. Gli alimenti di cui questo fanciullo si nutriva ai primi tempi del suo arrivo a Parigi erano orribilmente disgustosi. Li trascinava in tutti gli angoli della stanza e li manipolava continuamente con le sue mani piene di sporcizia. Ma all’epoca di cui sto parlando succedeva spesso che respingesse con dispetto tutto il contenuto del piatto, se ci cadeva dentro qualche cosa di estraneo; e quando aveva schiacciato delle noci con i piedi, le ripuliva con tutta la meticolosità di uno scrupoloso senso di pulizia. Infine le malattie, proprio le malattie, questi segni irrefutabili e incresciosi della delicata sensibilità predominante nell’uomo civilizzato, sopraggiunsero ad attestare lo svilupparsi di questa nuova condizione di vita. Nei primi giorni di primavera, il nostro giovane selvaggio fu colpito da un violento raffreddore e, qualche settimana dopo, da due affezioni catarrali quasi consecutive. Tuttavia questi risultati non si estesero a tutti gli organi. Quelli della vista e dell’udito non parteciparono affatto ai progressi in corso: indubbiamente perché questi due sensi, molto meno semplici 38

degli altri, avevano bisogno di un’educazione particolare e più lunga, come si vedrà in seguito. Il miglioramento simultaneo dei primi tre sensi per effetto degli stimoli esercitati sulla pelle, mentre gli altri due sensi erano restati stazionari, è un’indicazione preziosa, degna di essere proposta all’attenzione dei fisiologi. Il fenomeno sembra infatti dimostrare, come del resto appare assai verosimile, che i sensi del tatto, dell’odorato e del gusto non sono che una modificazione dell’organo della pelle; mentre quelli dell’udito e della vista, meno esterni, risiedenti in un apparato fisico tra i più complicati, si trovano assoggettati ad altre regole di perfezionamento e debbono in qualche modo costituire un sistema separato.

3. Educazione degli interessi Terzo obiettivo: estendere la sfera delle sue idee sviluppando in lui nuovi bisogni e moltiplicando i suoi rapporti con gli esseri circostanti. Se i progressi di questo fanciullo verso la civiltà, se i miei successi nello sviluppo della sua intelligenza sono stati finora così lenti e difficili, devo attribuirne la causa soprattutto agli innumerevoli ostacoli che ho incontrato nel tradurre in atto questo terzo obiettivo. Gli ho presentato successivamente giocattoli di ogni specie; più di una volta mi sono sforzato per ore intere di fargli capire a che cosa servivano; e ho visto con rincrescimento che, lungi dal cattivare la sua attenzione, questi diversi oggetti finivano sempre con lo spazientirlo, al punto che giungeva a nasconderli, o a distruggerli, quando ne aveva l’occasione. Così, dopo aver tenuto per lungo tempo rinchiuso in una seggetta un giuoco di birilli che gli aveva procurato da parte nostra qualche fastidio, un giorno che era solo nella sua stanza prese la decisione di ammucchiarli nel caminetto, dinanzi al quale fu trovato in atto di scaldarsi allegramente alla fiamma di quel fuoco di gioia. Tuttavia riuscii qualche volta ad interessarlo a dei giuochi che avevano a che fare con i suoi bisogni nutritivi. Uno, per esempio, che 39

spesso gli facevo fare alla fine del pasto, quando lo conducevo a pranzo in città, era il seguente. Disponevo dinanzi a lui, senza alcun ordine simmetrico, dei bicchierini d’argento capovolti, sotto uno dei quali nascondevo una castagna. Sicuro di avere attirato la sua attenzione, li sollevavo uno dopo l’altro, eccetto quello che nascondeva la castagna. Dopo avergli così mostrato che non contenevano niente, li ricollocavo nello stesso ordine e, con i gesti, lo invitavo a cercare a sua volta. Il primo bicchierino sul quale effettuava la sua ricerca era precisamente quello sotto il quale avevo posto la modesta ricompensa dovuta alla sua attenzione. Fin qui si trattava soltanto di un piccolo sforzo della memoria. Ma, a poco a poco, rendevo il giuoco più complicato. Così, dopo aver nascosto un’altra castagna con lo stesso procedimento, mutavo l’ordine di tutti i bicchierini, ma con molta lentezza, affinché in questa modificazione generale gli fosse difficile seguire con gli occhi e con l’attenzione quello che racchiudeva il prezioso premio. Facevo ancora di più: nascondevo castagne sotto due o tre bicchierini, e la sua attenzione, benché divisa tra questi tre oggetti, non mancava di seguirne i rispettivi spostamenti, dirigendo quindi su di essi le sue prime ricerche. Ma non è tutto: lo scopo che mi proponevo andava oltre questo stadio, perché il tipo d’intelligenza che egli manifestava in questo giuoco non era in fondo che un calcolo della sua golosità. Per rendere la sua attenzione in qualche modo meno animalesca, sopprimevo nel giuoco tutto ciò che aveva un rapporto con la sua avidità, nascondendo sotto i bicchierini unicamente oggetti non commestibili. Il risultato era pressappoco identico; e l’esercizio veniva perciò a presentarsi come un semplice giuoco di bussolotti, non privo di vantaggi per provocare l’attenzione, il giudizio e una capacità di concentrazione dello sguardo. Tranne questa sorta di piccoli divertimenti che, come quello descritto, erano legati ai suoi bisogni, non mi è stato possibile ispirargli il gusto per i giuochi tipici della sua età. Sono quasi certo che, se ci fossi riuscito, ne avrei ottenuto grandi risultati, come si può intuire pensando alla potente efficacia che esplicano sui primi sviluppi del pensiero i giuochi dell’infanzia, oltre che i piccoli piaceri dell’organo del gusto. Feci di tutto per ridestare questi ultimi mediante le leccornie più bramate dai fanciulli e di cui speravo di potermi servire come di 40

nuovi strumenti di ricompensa, di punizione, di incoraggiamento e di istruzione. Ma l’avversione che egli manifestava per tutte le sostanze dolcificate e per i nostri cibi più delicati fu insormontabile. Ritenni allora di dover ricorrere alle pietanze piccanti, che giudicavo adatte a stuzzicare un gusto reso scarsamente sensibile da alimenti grossolani. Ma fu ancora una volta inutile: non servì a nulla offrirgli, persino in momenti in cui era sollecitato dalla fame e dalla sete, liquori forti e piatti conditi con saporite spezie. Disperando infine di poter far nascere in lui dei nuovi gusti, sfruttai l’esiguo numero di quelli che possedeva accompagnandoli con tutte le circostanze accessorie che potevano accrescere il suo piacere di soddisfarli. Proprio con questa intenzione l’ho spesso condotto con me a pranzare in città. In questi giorni a tavola vi era la collezione completa di tutti i cibi che egli amava di più. La prima volta che si trovò dinanzi a siffatto festino, ebbe degli slanci di gioia che sconfinavano quasi nella frenesia. Senza dubbio dovette pensare che la sera non avrebbe cenato altrettanto bene, perché non resistette alla tentazione di portarsi via un piatto di lenticchie rubato in cucina. Mi rallegrai con me stesso di questo primo esperimento: ero riuscito a procurargli un piacere; bastava ripetere più volte la prova per far nascere un bisogno: e così appunto mi regolai. Feci ancora di più; ebbi cura di far precedere le nostre uscite da determinati preparativi che gli fosse possibile notare: mi presentavo a lui verso le quattro, con il cappello in testa e portando in mano la sua camicia spiegata. Ben presto questi elementi divennero per lui il segnale della partenza. Appena gli comparivo dinanzi, capiva: si vestiva in fretta e mi seguiva con grandi manifestazioni di contentezza. Non intendo affatto citare questo comportamento come prova di un’intelligenza superiore; sarebbe facile obiettarmi che il più comune dei cani saprebbe fare almeno altrettanto. Ma pur accettando questo confronto, bisogna riconoscere che ha avuto luogo un gran cambiamento. Quelli che hanno visto il piccolo selvaggio dell’Aveyron al tempo del suo arrivo a Parigi sanno che egli era molto inferiore, sotto il profilo della capacità di discernimento, al più intelligente dei nostri animali domestici. Quando lo conducevo con me, era impossibile camminare per la strada. Avrei dovuto procedere con lui ad una specie di trotto, op41

pure sarebbe stata necessaria una faticosa violenza per indurlo a camminare al passo con me. Eravamo perciò costretti a servirci di una carrozza: altro piacere nuovo che egli associava sempre più alle sue frequenti uscite. Ben presto per lui quei giorni non furono più soltanto giorni di festa nei quali si abbandonava alla gioia più viva: divennero dei veri bisogni, e l’esserne privato, quando li distanziavo con un intervallo un po’ più lungo, lo rendeva triste, inquieto e capriccioso. E quanto maggiore era la sua gioia allorché queste uscite avevano per meta la campagna! L’ho condotto di recente nella vallata di Montmorency, nella casa di campagna del cittadino Lachabeaussière. Era uno spettacolo dei più curiosi, e oserei dire dei più commoventi, vedere la gioia che sprizzava dai suoi occhi alla vista dei pendii e dei boschi di quella ridente vallata: sembrava che i finestrini della carrozza non potessero bastare all’avidità dei suoi sguardi. Si sporgeva ora verso l’uno, ora verso l’altro, e manifestava la più viva inquietudine quando i cavalli procedevano più lentamente o si fermavano. Egli trascorse due giorni in questa casa di campagna e l’influenza esercitata dagli agenti esterni, da quei boschi, da quelle colline della cui vista non ruisciva a saziarsi, fu tale che egli apparve più che mai irrequieto e selvatico e, pur circondato dalle più assidue e gentili attenzioni, sembrava dominato unicamente dal desiderio di prendere la fuga. Interamente occupato da questa idea, che assorbiva tutte le facoltà del suo spirito e lo stesso sentimento dei suoi bisogni, non trovava quasi il tempo di mangiare: si alzava da tavola ogni minuto e correva alla finestra, per sgattaiolare nel parco se era aperta oppure, in caso contrario, per contemplare almeno attraverso i vetri tutti quegli oggetti verso i quali lo attiravano irresistibilmente abitudini ancora recenti e forse addirittura il ricordo di una vita indipendente, felice e rimpianta. Presi così la decisione di non sottometterlo più a siffatte prove. Ma per non privarlo completamente della soddisfazione che gli dava la campagna, si continuò a condurlo a passeggio in qualche giardino dei dintorni, la cui configurazione limitata e regolare non ha nulla in comune con i grandi paesaggi della natura agreste che legano così fortemente il piccolo selvaggio ai luoghi della sua infanzia. Così madame Guérin lo conduce talora al Luxembourg e quasi tutti i giorni al giardino dell’Osservatorio, 42

dove la cortesia del cittadino Lemeri lo ha abituato a consumare regolarmente una merenda a base di latte. Grazie a queste nuove consuetudini, a qualche svago di suo gusto e a tutte le affettuose attenzioni di cui è stato circondato, ha cominciato a trovar piacevole la sua nuova esistenza. Di qui deriva la vivissima affezione che ha concepito per la sua governante e che talora le manifesta in modo assai commovente. È sempre addolorato nel separarsi da lei e ogni volta che la rivede mostra per chiari segni la sua contentezza. Un giorno, che si era sottratto alla sua sorveglianza fuggendo per le strade, versò nel rivederla una grande quantità di lacrime. Dopo alcune ore, aveva ancora il respiro affannoso e il polso in una sorta di stato febbrile; e poiché madame Guérin gli rivolse allora qualche rimprovero, ne comprese così bene il significato dal tono della voce che ricominciò a piangere. L’amicizia che ha per me è molto più debole, ed è logico che sia così. I servigi che gli presta madame Guérin sono di tal natura da essere apprezzati immediatamente, mentre i miei non hanno per lui alcuna utilità rilevabile. E che sia questa la vera causa della diversità del legame affettivo è dimostrato dal fatto che in determinate circostanze anch’io sono accolto molto bene da lui: esattamente nelle ore in cui non mi occupo della sua istruzione. Per esempio, se mi reco nella sua stanza a tarda sera, poco dopo che si è messo a letto, la sua prima reazione è di sollevarsi a sedere per farsi dare un bacio, poi mi afferra il braccio, mi attira verso di lui e mi fa sedere sul letto. Allora di solito mi prende la mano, se la porta sugli occhi, sulla fronte, sulla nuca e trattenendola con la sua la mantiene a lungo su queste parti. Altre volte si alza con grandi scrosci di riso e si mette di fronte a me per accarezzarmi le ginocchia alla sua maniera, che consiste nel palparli, nel massaggiarli con forza in tutti i sensi per parecchi minuti e talora nell’applicarvi le labbra due o tre volte. Si dica pure quel che si vuole, ma confesserò che mi presto di buona grazia a queste puerili manifestazioni. Forse mi si capirà meglio, se si terrà presente la grande influenza che hanno sullo spirito di ogni bambino quelle inesauribili tenerezze, quelle piccole dolci attenzioni che la natura suggerisce al cuore di una madre, che fanno fiorire i primi sorrisi e nascere le prime gioie della vita. 43

4. Educazione all’uso del linguaggio Quarto obiettivo: condurlo all’uso della parola provocando l’esercizio dell’imitazione mediante l’imperiosa legge della necessità. Se avessi voluto esporre soltanto dei risultati positivi, avrei omesso nella presente opera ciò che riguarda questo quarto obiettivo, il resoconto degli espedienti usati per attuarlo e dello scarso successo ottenuto. Ma il mio scopo non è tanto rifare la storia delle cure da me prestate quanto riferire sui primi sviluppi morali del selvaggio dell’Aveyron, e perciò non debbo omettere nulla di ciò che può avere anche il minimo rapporto con tale argomento. Sarò anzi costretto a presentare qui alcuni principi teorici e spero che di ciò mi si voglia scusare, riconoscendo lo scrupolo che ho sempre avuto di basarli su fatti concreti, nonché la necessità in cui mi trovo di rispondere a questi eterni quesiti: il selvaggio parla? Se non è sordo, perché non parla? È facile immaginare come, in mezzo alle foreste e lungi dalla società di ogni essere pensante, il senso dell’udito del nostro selvaggio non provasse altre impressioni se non quelle prodotte da un esiguo numero di rumori, e particolarmente da quelli connessi con le sue necessità fisiche. Non si trattava affatto di un organo capace di apprezzare i suoni vocali, la loro articolazione e le loro combinazioni, ma di un semplice strumento dell’istinto di conservazione, che segnalava l’avvicinarsi di un animale pericoloso o la caduta di qualche frutto selvatico. Erano certamente queste le funzioni a cui si limitava l’udito, se si tien conto della scarsa o nulla azione esercitata un anno fa su quest’organo da tutti i suoni e rumori che non concernessero i bisogni fisici e, per contro, della squisita sensibilità che questo senso dimostrava per quelli che a tali bisogni erano connessi. Se si sbucciava, a sua insaputa e con la maggiore cautela possibile, una castagna o una noce, se appena si toccava la chiave della porta che lo teneva prigioniero, non mancava mai di voltarsi bruscamente e di accorrere verso il punto da cui partiva il rumore. Se l’organo dell’udito non manifestava la medesima sensibilità per i suoni della voce o addirittura per l’esplosione delle armi da fuoco, ciò dipendeva dal fatto che esso era necessariamente poco ricettivo 44

e poco attento a qualsiasi impressione che fosse diversa da quelle per le quali aveva contratto una lunga ed esclusiva abitudine4. Si capisce dunque perché il suo orecchio, abilissimo nel percepire certi rumori, anche i più leggeri, lo era assai poco nel rilevare l’articolazione dei suoni. D’altro canto, per parlare non basta percepire il suono della voce; bisogna anche distinguere l’articolazione di questo suono: due operazioni ben distinte e che esigono da parte dell’organo condizioni diverse. Per la prima è sufficiente un certo grado di sensibilità del nervo acustico; per la seconda occorre una speciale modificazione di questa stessa sensibilità. È pertanto possibile, con un orecchio organicamente efficiente e vivamente attivo, non riuscire a cogliere l’articolazione delle parole. Tra gli idioti se 4

Osserverò, per dare maggior forza a quest’affermazione, che nell’uomo, man mano che si allontana dall’infanzia, l’esercizio dei sensi diviene meno generico. Nella prima età della vita, l’essere umano vuole tutto vedere, tutto toccare, porta alla bocca tutti gli oggetti che gli vengono presentati; il minimo rumore lo fa trasalire; i suoi sensi si soffermano su tutti gli oggetti, anche su quelli che non hanno alcun rapporto con i suoi bisogni. Via via che si allontana da questo stadio, che in certo modo è quello del tirocinio dei sensi, gli oggetti cominciano a colpirlo solo nella misura in cui sono in relazione con i suoi appetiti, con le sue abitudini, con le sue inclinazioni. Allora può addirittura accadere che sia solo uno o due sensi a richiamare la sua attenzione. Per esempio, un musicista fortemente legato alla sua arte potrà essere molto attento a tutto quello che sente e indifferente a tutto quello che vede. Oppure, se si vuole, un esperto di mineralogia o un botanico tutto dedito alla sua scienza, trovandosi in un campo ricco degli oggetti della sua ricerca, potrà non vedere altro che minerali, il primo, o che prodotti vegetali, il secondo. Analogamente possiamo senza sforzo immaginare un matematico che, uscendo dal teatro dove ha visto rappresentare un’opera del Racine, dica: «Che cosa dimostra tutto ciò?». Se dunque, dopo la prima infanzia, l’attenzione tende a dirigersi naturalmente solo sugli oggetti di cui l’individuo sa o intuisce che hanno attinenza con i suoi gusti, si capisce perché il nostro giovane selvaggio, non possedendo che un esiguo numero di bisogni, dovesse necessariamente esercitare i suoi sensi solo su un piccolo numero di oggetti. È stata ben questa dunque, se non m’inganno, la causa di quell’assoluta disattenzione che impressionò tutti i visitatori che osservarono il giovanetto al momento del suo arrivo a Parigi; disattenzione che attualmente è quasi del tutto scomparsa, perché gli è stato fatto sentire il legame che hanno con lui tutti i nuovi oggetti dai quali è circondato.

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ne trovano molti che sono muti pur senza essere sordi. Tra gli allievi del cittadino Sicard vi sono due o tre fanciulli che odono perfettamente il suono dell’orologio, un batter di mani, i toni più bassi del flauto e del violino, e che tuttavia non hanno mai saputo imitare la pronuncia di una parola, sebbene articolata ad alta voce e molto lentamente. Si potrebbe dire perciò che la parola è una specie di musica a cui certi orecchi, sebbene costituzionalmente integri, possono essere insensibili. È lecito affermare la stessa cosa per il fanciullo di cui ci stiamo occupando? Non lo credo; infatti sebbene le mie speranze riposino su un esiguo numero di fatti, anche i miei tentativi in proposito sono stati poco numerosi e, lungamente incerto sulla via da seguire, mi sono contentato del ruolo di osservatore. Ecco dunque ciò che ho notato. Nei primi quattro o cinque mesi del suo soggiorno a Parigi, il selvaggio dell’Aveyron mostrava dunque di percepire soltanto i rumori che producevano in lui quelle associazioni di cui sopra si è detto. Durante il mese di frimaio ha dato segno di cominciare a udire la voce umana; quando infatti nel corridoio che passa accanto alla sua stanza due persone si fermavano a parlare a bassa voce, egli a volte si avvicinava alla porta per accertarsi che fosse ben chiusa e chiudeva su quella una seconda porta interna, spingendo la precauzione fino a mettere il dito sul catenaccio per assicurarne ancora meglio la chiusura. Poco tempo dopo rilevai che distingueva la voce dei sordomuti, o meglio quel grido gutturale che emettono continuamente durante i loro giuochi. Sembrava che egli riconoscesse anche il punto da cui proveniva il suono. Se infatti lo udiva mentre scendeva per le scale, non mancava mai di risalire, o di scendere con maggior fretta, a seconda che quel grido partisse dal basso o dall’alto. All’inizio del mese di nevoso feci un’osservazione più interessante. Un giorno si trovava in cucina intento a far cuocere delle patate, e due persone discutevano animatamente alle sue spalle senza che egli desse segno di prestarvi la minima attenzione. Sopraggiunse una terza persona che, intervenendo nella discussione, cominciava tutte le sue repliche con queste parole: «Oh! Non è così». Osservai che ogniqualvolta quella persona pronunciava la sua esclamazione favorita: «oh!», il selvaggio dell’Aveyron volgeva viva46

mente il capo. La sera stessa, quando venne per lui l’ora di andare a letto, feci qualche esperimento basato sul tono di quell’esclamazione e vidi che otteneva gli stessi effetti. Passai in rassegna tutti gli altri suoni semplici conosciuti con il nome di vocali, ma senza alcun successo. Questa preferenza per la o mi indusse a dargli un nome che terminasse con questa vocale e fu così che lo chiamai Victor. Questo nome gli è rimasto, e quando viene pronunciato ad alta voce è difficile che egli non volti la testa o non si avvicini. Ed è forse per la medesima ragione che successivamente ha compreso il significato della negazione no, di cui mi servo spesso per fargli capire che si sbaglia quando commette errori nei suoi piccoli esercizi. Nel corso di questi sviluppi lenti ma sensibili dell’organo dell’udito, la voce restava sempre muta e si rifiutava di riprodurre i suoni articolati che l’orecchio sembrava distinguere. Tuttavia gli organi vocali non presentavano nella loro conformazione esterna alcuna traccia di imperfezione, né vi era motivo per supporne l’esistenza nella loro struttura interna. È vero che si nota sulla parte anteriore del collo, in alto, una cicatrice assai estesa, che potrebbe gettare qualche dubbio sull’integrità degli organi sottostanti, se il suo aspetto non fosse tale da escludere questo dubbio. Essa attesta invero una ferita provocata da uno strumento tagliente, ma tenendo conto del suo aspetto lineare si è indotti a ritenere che la ferita fosse superficiale e quindi la cicatrizzazione immediata o, come si dice, con medicazione sommaria. Vi è da presumere che una mano più incline che abile al delitto abbia voluto attentare alla vita di questo fanciullo il quale, lasciato per morto nei boschi, avrà dovuto alla natura la pronta guarigione della sua ferita; e ciò non si sarebbe potuto effettuare così felicemente se le parti muscolari e cartilaginose dell’organo della voce fossero state incise. Queste considerazioni mi indussero a pensare, quando il suo orecchio cominciò a percepire alcuni suoni, che se la voce non li ripeteva, non bisognava farne carico a una lesione organica, ma all’effetto di circostanze sfavorevoli. Il difetto totale di esercizio rende i nostri organi inetti alle loro funzioni; e se quelli già avvezzi ad essere usati sono così gravemente menomati da questa inattività, che cosa avverrà di quelli che crescono e si sviluppano senza che nessuno stimolo tenda a 47

metterli in funzione? Ci vogliono almeno diciotto mesi di accurata educazione perché il fanciullo balbetti qualche parola; e si pretende che un rozzo abitante delle foreste, il quale vive in società solo da quattordici o quindici mesi, di cui cinque trascorsi tra sordomuti, fosse già in grado di parlare! Non solo ciò è impossibile, ma per giungere a questa importante tappa della sua educazione ci vorranno molto più tempo, molte più fatiche che non per il meno precoce dei fanciulli. Quest’ultimo infatti non sa nulla, ma possiede in grado eminente la capacità di tutto apprendere: tendenza innata all’imitazione; grandissima flessibilità e sensibilità di tutti gli organi; perpetua mobilità della lingua; consistenza quasi gelatinosa della laringe. Tutto insomma concorre in lui a produrre quel continuo ciangottìo che è un involontario tirocinio della voce, favorito altresì dalla tosse, dallo starnuto, dalle grida proprie di questa età e persino dal pianto, quel pianto che non si deve considerare soltanto come indizio di una estrema eccitabilità, ma anche come un potente stimolo, operante senza tregua e nei momenti più opportuni, allo sviluppo simultaneo degli organi della respirazione, della voce e della parola. Mi si concedano tutte queste vantaggiose disposizioni ed io rispondo del risultato. Ma se si è d’accordo con me nel riconoscere che non è più possibile contare su di esse nell’adolescenza del giovane Victor, si riconoscano anche le feconde risorse della Natura, che sa crearsi nuovi mezzi di educazione quando cause accidentali intervengono a privarla di quelli che aveva inizialmente predisposti. Ed ora citerò alcuni fatti che possono indurre a sperare nel successo di tale educazione. Nell’enunciare questo quarto obiettivo ho detto che mi proponevo di condurre il giovanetto all’uso della parola, provocando l’esercizio dell’imitazione mediante l’imperiosa legge della necessità. Convinto, in effetti, dalle considerazioni formulate in questi due ultimi paragrafi, e da un’altra non meno convincente che esporrò tra poco, che la laringe sarebbe stata molto lenta a mettersi in azione, dovevo fare in modo di attivarla con la sollecitazione degli oggetti necessari ai bisogni di Victor. Avevo motivo di ritenere che avrebbe pronunciato per prima la vocale o, dal momento che era stata la prima ad essere intesa da lui, e consideravo come una felice coincidenza ai fini del mio piano il fatto che la semplice pronuncia di quel 48

suono fosse il segno di uno dei bisogni più ordinari del giovanetto5. Tuttavia non potei trarre alcun vantaggio da questa favorevole circostanza. Anche nei momenti in cui era fortemente assetato, invano tenevo dinanzi a lui una caraffa d’acqua gridando eau, eau, offrendo la caraffa ad un’altra persona che accanto a lui pronunciava la stessa parola o reclamandola a mia volta allo stesso modo: l’infelice si tormentava in tutti i sensi, agitava le braccia intorno alla caraffa in maniera quasi convulsa ed emetteva una specie di soffio senza articolare suono alcuno. Sarebbe stato disumano insistere. Cambiai quindi argomento pur senza cambiare metodo e fu sulla parola lait6 che si orientarono i miei tentativi. Al quarto giorno dopo l’inizio di tali tentativi riuscii nel mio intento e udii Victor pronunciare distintamente, seppure in modo un po’ rozzo, la parola lait e ripeterla poco dopo. Era la prima volta che usciva dalla sua bocca un suono articolato e ciò fu per me motivo di profonda soddisfazione. Tuttavia feci una riflessione che diminuì di molto ai miei occhi il significato di questo primo successo. Fu solo nel momento in cui, disperando di riuscire, avevo appena finito di versare il latte nella tazza che egli mi porgeva, che la parola in questione fu da lui pronunciata con grandi dimostrazioni di compiacimento; e solo quando gliene ebbi versato di nuovo a titolo di ricompensa, egli pronunciò la parola per la seconda volta. È chiaro il motivo per cui questo modo di giungere al risultato era lontano dal corrispondere alle mie intenzioni; la parola pronunciata, anziché essere il segno del bisogno, non era che una vana esclamazione di gioia. Se fosse stata pronunciata prima dell’ottenimento della cosa desiderata, lo scopo era raggiunto: Victor avrebbe afferrato il vero uso della parola e si sarebbe stabilito tra di noi un primo mezzo di comunicazione da cui sarebbero poi derivati i più rapidi progressi. Invece non avevo ottenuto che un’espressione del piacere che provava, insignificante per 5

È appena il caso di rammentare che in francese il suono o, corrispondente alla grafia eau, significa acqua (N.d.T.). 6 In italiano latte. Ovviamente il francese lait, che si legge le con la e chiusa, è un monosillabo di pronuncia assai più facile che non la parola italiana latte (N.d.T.).

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lui e inutile per i nostri rapporti. A rigore, era pur sempre un segno vocale, il segno del possesso della cosa. Ma, lo ripeto, esso non stabiliva alcun rapporto tra noi; ben presto sarebbe stato trascurato, per il fatto stesso della sua inutilità rispetto ai bisogni fisici, e il suo uso sarebbe stato soggetto alle più svariate anomalie, come il sentimento effimero e mutevole di cui era divenuto indizio. I risultati successivi di questa erronea direzione sono stati quelli che temevo. Era soltanto nell’atto di godere di qualche cosa che la parola lait si faceva sentire. A volte gli capitava di pronunciarla prima, a volte poco tempo dopo, ma sempre senza intenzione. Neppure attribuisco importanza al fatto che la ripetesse spontaneamente, come fa ancora, nel corso della notte, quando gli capita di svegliarsi. Dopo questo primo risultato, ho totalmente rinunciato al metodo con cui l’avevo ottenuto. Aspettando il momento opportuno per sostituirlo con un altro, che ritengo molto più efficace, abbandonai l’organo della voce all’influenza dell’imitazione la quale, sebbene debole, non è del tutto priva di efficacia, come si può arguire da alcuni piccoli progressi spontanei che si verificarono in seguito. La parola lait è stata per Victor la radice di altri due monosillabi, la e li, ai quali indubbiamente è ancor più lontano dall’associare un significato. Da poco tempo ha modificato il secondo (li), aggiungendovi una seconda l e pronunciandole tutte e due come l’italiano gli7. Lo si sente spesso ripetere lii, lli con un’inflessione di voce non priva di dolcezza. È stupefacente che il suono della l liquida8 che per i bambini è tra i più difficili a pronunciarsi, sia stato uno dei primi ad essere da lui articolato. Ma ho una certa propensione a credere che in questo faticoso lavoro della lingua si esprima una sorta d’intenzione di formulare il nome di Julie, che è una fanciulla di undici o dodici anni, figlia di madame Guérin, e viene a trascorrere le domeniche presso la madre. Non vi è dubbio che in tali giorni le esclamazioni lii, lli, divengono più frequenti e si fanno addirittura sentire, secondo il rapporto della governante, durante la notte, nei momenti in cui si ha motivo di credere che dorma profondamente. Non è possibile determinare con precisione la causa e il 7 8

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Esempio testuale (N.d.T.). Il cosiddetto l mouillé (N.d.T.).

valore di quest’ultimo fatto. Bisogna attendere che un più avanzato stadio di pubertà ci abbia fornito un maggior numero di elementi di osservazione per poterlo classificare e spiegare. L’ultima acquisizione dell’organo della voce è di importanza alquanto maggiore e consiste di due sillabe che in pratica equivalgono a tre per il modo in cui il giovanetto pronuncia la seconda. Si tratta dell’esclamazione «Oh Dieu!»9, che egli ha ripreso da madame Guérin e che sovente si lascia sfuggire nei momenti di intensa gioia. La pronuncia sopprimendo Pu di Dieu e insistendo sulla i come se fosse doppia, in modo tale che lo si sente gridare distintamente: «Oh Due! Oh Due!». La o che si trova in questa combinazione di suoni non era nuova per lui e già da qualche tempo ero riuscito a fargliela pronunciare. Questo, per quanto concerne l’organo della voce, è il punto a cui siamo giunti. Come si può vedere, tutte le vocali, ad eccezione della i, figurano già nel piccolo numero di suoni che egli riesce ad articolare, e vi figurano altresì le tre consonanti l, d e l liquida. Questi progressi sono certamente poca cosa, se si confrontano a quelli che richiede lo sviluppo completo della voce umana, ma mi sono parsi sufficienti a garantire la possibilità di tale sviluppo. Ho detto sopra quali sono le difficoltà che debbono necessariamente renderlo lungo e difficile. Ma ve ne è ancora un’altra che ha il suo notevole peso e che non posso passare sotto silenzio. È la facilità con cui il nostro piccolo selvaggio può esprimere con mezzi diversi dalla parola l’esiguo numero dei suoi bisogni10. Ogni sua volontà viene manifestata mediante i segni più espressivi che hanno in qualche modo, come i nostri, le loro gradazioni e i loro sinonimi. Ad esempio, quando arriva l’ora della passeggiata, egli si presenta a più riprese dinanzi alla finestra e dinanzi alla porta della sua stanza. Se si accorge che la governante non è ancora pronta, dispone dinanzi a lei tutti gli oggetti necessari alla sua toilette e, spinto dall’impa9

«Oh Dio!». Si noti che in francese Dieu equivale a una sillaba (N.d.T.). Le mie osservazioni confermano anche qui l’importante opinione del Condillac sull’origine del linguaggio dei sensi: «Il linguaggio d’azione, allora così naturale, era un grande ostacolo da sormontare; si poteva abbandonarlo per un altro di cui non si prevedevano i vantaggi, e di cui si faceva sentire la difficoltà?». 10

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zienza, giunge persino al punto di aiutarla a vestirsi. Fatto ciò, scende per primo e tira con le proprie mani il cordone della porta. Giunto all’Osservatorio, la sua prima preoccupazione è chiedere del latte; e lo fa presentando una scodella di legno, che non dimentica mai, uscendo, di mettersi in tasca e di cui si è munito per la prima volta il giorno successivo a quello in cui aveva mandato in frantumi, nella medesima casa e per il medesimo uso, una tazza di porcellana. Sempre all’Osservatorio, per accrescere il piacere delle sue serate, gli si usa da qualche tempo la cortesia di trasportarlo su una carriola. Una volta sperimentato questo tipo di svago, appena gliene viene la voglia, se nessuno si presenta per soddisfarla, rientra in casa, afferra qualcuno per il braccio, lo conduce in giardino e gli mette tra le mani i manici della carriola, nella quale immediatamente prende posto. Se si resiste a questo primo invito, si alza, torna ai manici della carriola, la sospinge per un po’ intorno intorno, poi torna a sedervisi, immaginando senza dubbio che, se i suoi desideri non vengono accontentati, non è perché non li abbia chiaramente manifestati. Viene il momento di pranzare? Le sue intenzioni appaiono ancora più evidenti. Apparecchia lui stesso la tavola e presenta a madame Guérin i piatti con i quali ella deve discendere in cucina a prendere il cibo. Se poi mangia con me in città, tutte le sue richieste sono rivolte alla persona che ci serve a tavola: è sempre ad essa che si presenta per essere servito. Se questa finge di non aver capito, egli colloca il piatto accanto alle portate che intanto divora con gli occhi. Se anche questa manovra non produce alcun risultato, prende una forchetta e batte due o tre colpi sull’orlo del piatto. Ancora niente? Allora perde ogni ritegno; immerge il cucchiaio o addirittura la mano nel vassoio e in un batter d’occhio ne trasferisce il contenuto nel proprio piatto. Altrettanto espressiva è la sua maniera di manifestare i sentimenti dell’animo e soprattutto l’impazienza e la noia. Molti curiosi sanno come, con una franchezza naturale che ha ben poco da spartire con la cortesia, si affretti a congedarli quando, stanco della lunghezza delle loro visite, presenta a ciascuno, senza commettere errori, il suo bastone, i suoi guanti, il suo cappello, e li spinge pian 52

piano verso la porta, che poi chiude rumorosamente alle loro spalle11. Per completare la storia di questo linguaggio pantomimico, debbo aggiungere che Victor lo capisce con la stessa facilità con cui lo parla. Per mandarlo a prendere dell’acqua, basta a madame Guérin mostrargli la caraffa e fargli vedere che è vuota capovolgendola. Analogo procedimento mi serve per farmi servire da bere quando ceniamo insieme. Ma ciò che vi è di più stupefacente nel suo modo di prestarsi a queste forme di comunicazione è che non occorre alcuna lezione preliminare, alcuna convenzione reciproca, per farsi capire. Me ne resi conto un giorno mediante un’esperienza delle più convincenti. Scelsi tra molti un oggetto per il quale mi ero precedentemente assicurato che non esistesse alcun segno convenzionale tra lui e la governante. Tale era per esempio il pettine con il quale veniva pettinato e che io volli farmi portare. Scompigliandomi i capelli e presentandomi a lui con la testa in disordine, le mie previsioni si avverarono: mi capì immediatamente e mi porse l’oggetto che chiedevo. Molti pensano che questi modi di comunicazione appartengano a un tipo di comportamento puramente animale; io invece non esito a ravvisarvi in tutta la sua semplicità il linguaggio fondato sull’azione, che è il linguaggio primitivo dell’umanità, adoperato originalmente nell’infanzia delle società primordiali, prima che il lavoro di parecchi secoli avesse coordinato il sistema della parola e fornito all’uomo civilizzato un fecondo e sublime mezzo di perfezionamento, che fa schiudere il suo pensiero fin dai primi mesi di vita e del quale si serve per tutta l’esistenza, senza troppo rendersi conto di quanto gli deve e di ciò che sarebbe senza di esso, se per 11 È

degno di nota che questo linguaggio fondato sull’azione è interamente naturale e che fin dai primi giorni del suo ingresso in società lo adoperava nella maniera più espressiva. Il cittadino Constant S. Estève, che lo ha visto agli inizi di quest’epoca interessante, narra: «Quando ebbe sete, diresse i suoi sguardi a destra e a sinistra; avendo scorto una caraffa, prese la mia mano con la sua e mi condusse verso questa caraffa, su cui vibrò qualche colpetto con la mano sinistra per chiedermi da bere. Fu portato del vino, ma non lo volle, manifestando impazienza per il mio indugio a offrirgli l’acqua».

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ipotesi si trovasse ad esserne privato, come nel caso di cui ci stiamo occupando. Indubbiamente verrà un giorno in cui bisogni più numerosi faranno sentire al giovane Victor la necessità di usare nuovi segni. Il fatto che abbia impiegato difettosamente i suoi primi suoni potrà ritardare questo momento, ma non impedirne l’avvento. Forse accadrà pressappoco quello che accade al bambino piccolo, che dapprima balbetta la parola papà senza associarvi alcuna idea, la ripete in ogni luogo e in ogni occasione, poi la rivolge a tutti gli uomini che vede e solo dopo una grande quantità di ragionamenti e persino di astrazioni riesce ad impiegarla nell’unica accezione giusta.

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4. L’educazione intellettuale

1. Prima astrazione: dalla cosa all’immagine Quinto obiettivo: esercitare per qualche tempo sugli oggetti dei suoi bisogni fisici le più semplici operazioni della mente, per poi trasferire l’applicazione di queste ultime sugli oggetti della sua istruzione. Considerato nella più tenera infanzia sotto il profilo dell’intelletto, l’uomo non sembra ancora sollevarsi al di sopra degli altri animali. Tutte le sue facoltà intellettuali sono rigorosamente limitate alla ristretta cerchia dei suoi bisogni fisici. Solo in funzione di questi ultimi si effettuano le operazioni della sua mente. Occorre allora che l’educazione s’impadronisca di queste attività mentali e le utilizzi ai fini dell’istruzione, vale a dire per un nuovo ordine di cose che non hanno alcun rapporto con i bisogni primordiali dell’individuo. Da questa conversione derivano tutte le sue conoscenze, tutti i progressi della sua mente, fino alle manifestazioni più alte del genio. Qualunque sia il grado di probabilità di questa idea, la formulo qui soltanto come il punto di partenza del procedimento che ho seguito nell’attuare quest’ultimo obiettivo. Non starò a riferire tutti i particolari circa gli espedienti adottati per esercitare le facoltà intellettuali del selvaggio dell’Aveyron sfruttando gli oggetti delle sue materiali necessità. Tali espedienti consistevano semplicemente nel frapporre ostacoli sempre maggiori e sempre nuovi tra lui e i suoi bisogni, tali insomma che non potesse superarli senza esercitare di continuo l’attenzione, la memo55

ria, il giudizio e tutte le facoltà dei suoi sensi1. Si vennero così sviluppando tutte quelle disposizioni che dovevano poi servire alla sua istruzione, e ormai occorreva soltanto trovare i mezzi più facili per utilizzarle. Dovevo contare ancora molto poco sulle risorse dell’udito e sotto questo aspetto il selvaggio dell’Aveyron non era che un sordomuto. Questa considerazione mi indusse a tentare il metodo del cittadino Sicard. Cominciai dunque con i primi procedimenti abitualmente impiegati in questa celebre scuola e disegnai su una lavagna la sagoma di alcuni oggetti atti ad essere riprodotti con un disegno semplicissimo, come una chiave, delle forbici, un martello. Poi applicai a più riprese, e nei momenti in cui vedevo che egli mi osservava, i singoli oggetti reali sulle rispettive figure. E quando fui certo di avergliene fatto capire il rapporto, cominciai a chiedergli di 1 Non è inutile rilevare che per raggiungere questo primo scopo non ho incontrato alcuna difficoltà. Tutte le volte che sono in giuoco i suoi bisogni, sembra che la sua attenzione, la sua memoria e la sua intelligenza superino se stesse. Questa è una constatazione che è stata possibile fare fin dall’inizio e che, se fosse stata seriamente approfondita, avrebbe portato a prevedere per lui un felice avvenire. Non mi faccio scrupolo di affermare che considero come una grande prova d’intelligenza il fatto che egli abbia potuto imparare, dopo sei sole settimane di permanenza nella società, a prepararsi i suoi cibi con tutte le cure e i particolari procedimenti di cui ci informa il rapporto del cittadino Bonnaterre. «La sua occupazione durante il soggiorno a Rodez, riferisce il valoroso naturalista, consisteva nello sbucciare fagioli, ed egli adempiva questo compito con quel grado di discernimento di cui sarebbe capace l’uomo più esperto. Siccome sapeva per esperienza che questi legumi erano destinati al suo pasto, appena gli veniva porto un canestro di baccelli secchi, andava subito a prendere una pentola e si collocava nel bel mezzo della stanza. Lì aveva tutto lo spazio per distribuire comodamente il materiale dell’operazione. Poneva la pentola a destra e i fagioli a sinistra; quindi cominciava a sgusciarli uno dopo l’altro con una inimitabile agilità di dita; metteva nella pentola i fagioli buoni e gettava via quelli ammuffiti o macchiati; se per caso qualche fagiolo gli sfuggiva, lo seguiva con l’occhio, lo raccoglieva e lo metteva con gli altri. Man mano che vuotava i gusci, li ammucchiava accanto a sé con simmetria, e quando il suo lavoro era finito, sollevava la pentola, vi versava dell’acqua e la portava accanto al fuoco, di cui alimentava la fiamma coi gusci che aveva separatamente accumulato. Se il fuoco era spento, prendeva la pala, la metteva tra le mani del suo sorvegliante e gli faceva segno di andarne a cercare da qualche vicino...».

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portarmeli uno alla volta, indicando via via con il dito quello che volevo. Non ne cavai nulla; provai e riprovai più volte, ma sempre senza successo: o rifiutava ostinatamente di portarmi l’oggetto indicato, oppure me lo portava insieme con gli altri due e me li porgeva simultaneamente. Mi persuasi che questo comportamento nasceva da un calcolo di pigrizia, che non gli consentiva di fare in tempi separati quello che poteva eseguire in una sola volta. Escogitai allora un espediente che lo costrinse a concentrare la sua attenzione su ciascuno di questi oggetti. Avevo notato fin da qualche mese prima che egli aveva una fortissima inclinazione per l’ordine: era capace di alzarsi dal letto per rimettere al posto giusto un mobile o un altro oggetto qualsiasi che fosse stato spostato. Tale inclinazione raggiungeva punte estreme per quanto concerneva gli oggetti appesi alla parete: ciascuno aveva il suo chiodo e il suo gancio particolare, e se avveniva qualche spostamento, non era tranquillo finché non avesse personalmente provveduto a ristabilire l’ordine consueto. Bastava dunque disporre in modo regolare e costante le cose su cui volevo esercitare la sua attenzione. Per mezzo di un chiodo sospesi ciascuno dei tre oggetti summenzionati al di sotto dei rispettivi disegni e li lasciai lì per qualche tempo. Un giorno poi li presi e li diedi a Victor: egli li ricollocò subito nell’ordine giusto. Ripetei la prova più volte e sempre con lo stesso risultato, che però mi guardai bene dall’attribuire ad un progresso della sua capacità di discernimento: questa classificazione poteva anche essere una semplice operazione mnemonica. Per accertarmene, mutai la disposizione dei disegni e vidi che il giovanetto, senza tener conto della variazione, seguitava ad appendere gli oggetti nello stesso ordine di prima. In effetti, sarebbe stato facilissimo fargli imparare la nuova disposizione, ma era estremamente arduo fargli capire la ragione del cambiamento: solo la sua memoria entrava in funzione. Mi sforzai allora di neutralizzare in qualche modo l’ausilio che trovava in questa facoltà, e ci riuscii stancandola senza tregua con l’accresciuto numero dei disegni e con la maggior frequenza delle variazioni. Allora la memoria divenne incapace di guidarlo all’ordinata disposizione di così numerosi oggetti ed egli fu costretto a ricorrere al confronto tra il disegno e la cosa. Avevo superato un passo davvero difficile, e ne ebbi ampia conferma sperimentale vedendo Victor 57

fissare successivamente lo sguardo su ciascuno degli oggetti, sceglierne uno e cercare quindi la figura a cui si riferiva. Controprova: ogni volta che invertivo l’ordine di successione dei disegni, egli modificava in conseguenza la disposizione degli oggetti.

2. Distinzione di forme e di colori Questo risultato generò in me le più splendide speranze: credevo che non ci fossero più grandi difficoltà da superare, quando se ne presentò una delle più invincibili, che mi sbarrò ostinatamente la strada e mi costrinse a rinunciare al mio metodo. È noto che, nell’istruzione di un sordomuto, a questo primo procedimento comparativo se ne fa seguire un secondo molto più difficile. Dopo che egli ha afferrato, attraverso ripetuti confronti, il rapporto tra l’oggetto e il disegno corrispondente, si collocano intorno a questo tutte le lettere costituenti la parola che indica l’oggetto disegnato. Fatto ciò, si cancella il disegno e restano soltanto i segni alfabetici. Il sordomuto, in questo secondo procedimento, vede solo un mutamento del disegno, che continua ad essere per lui il segno dell’oggetto. Non fu così con Victor, il quale, nonostante le frequentissime ripetizioni e la prolungata esposizione della cosa al di sotto della parola, non fu mai in grado di orientarsi. Dalla figura di un oggetto alla sua rappresentazione alfabetica la distanza è enorme, ed è tanto maggiore per l’allievo in quanto il passaggio gli viene presentato mentre sta compiendo i primi passi dell’istruzione. Se i sordomuti riescono a superare questo scoglio, è per il fatto che tra tutti i bambini sono i più attenti e i più dotati di spirito di osservazione. Avvezzi fin dalla più tenera età a udire e a parlare con gli occhi, sono più di chiunque altro addestrati a valutare tutti i rapporti esistenti tra gli oggetti visibili. Bisognava dunque ricercare un metodo più adeguato alle facoltà ancora intorpidite del nostro selvaggio, un metodo in cui ogni difficoltà vinta lo sollevasse all’altezza di quella da vincere successivamente. Fu con questo intendimento che tracciai il mio nuovo piano. E non mi soffermerò ad analizzarlo in teoria: basterà, per giudicarlo, seguire il racconto della sua esecuzione pratica. 58

Incollai su una tavola di due piedi quadri tre pezzi di carta di forma ben individuata e distinti da colori molto diversi. Il primo era circolare e rosso; il secondo triangolare e azzurro; il terzo quadrato e nero. Tre pezzi di cartone, di eguale forma e colore, furono applicati per mezzo di chiodi sui rispettivi modelli e lasciati lì per qualche giorno. Quando infine li tolsi e li posi nelle mani di Victor, egli li rimise a posto senza difficoltà. Capovolgendo la tavola e invertendo così l’ordine delle figure, mi assicurai che questi primi risultati non fossero effetto di meccanica registrazione mnemonica, ma di un effettivo confronto. Dopo qualche giorno, sostituii alla prima tavola una seconda su cui si trovavano le stesse figure geometriche, ma questa volta esse erano di colore identico. Così, mentre nel primo esperimento l’allievo disponeva di due elementi di distinzione, il colore e la forma, questa volta doveva eseguire l’operazione basandosi su un solo elemento: il confronto delle forme. Quasi contemporaneamente gli presentai una terza tavola, nella quale tutte le figure erano eguali nella forma, ma distinte per il colore: i risultati furono egualmente positivi, se si trascura qualche piccolo errore di disattenzione. La facilità con cui il giovanetto eseguiva questi sia pur modesti confronti, mi indusse a proporgli prove più difficili. Feci delle aggiunte e delle modificazioni alle due tavole: a quella delle figure aggiunsi forme meno nettamente diversificate e a quella dei colori, nuovi colori che si distinguevano solo per piccole sfumature. Ad esempio, sulla prima c’era un parallelogramma un po’ allungato accanto a un quadrato, e sulla seconda un campione azzurro chiaro accanto ad un altro grigio-azzurro. Victor commise all’inizio qualche errore, ebbe qualche incertezza, ma dopo pochi giorni era in grado di eseguire correttamente l’esercizio.

3. Riluttanza dell’allievo Questi risultati mi imbaldanzirono a tentare nuove combinazioni, sempre più difficili. Ogni giorno aggiungevo, toglievo, modificavo, provocando nuovi confronti e nuovi giudizi. Ma a lungo andare la molteplicità e le complicazioni di questi piccoli esercizi finirono per stancare l’attenzione e la docilità dell’allievo. Allora 59

riapparvero con tutta la loro intensità quei moti di impazienza e di furore che scoppiavano con violenza all’inizio del suo soggiorno a Parigi, soprattutto quando si trovava chiuso a chiave nella sua stanza. E tuttavia mi sembrava venuto il momento in cui questi scatti non erano più da placare con la condiscendenza, ma da vincere con l’energia. Credetti perciò di dover insistere. Così, quando Victor, disgustato da un lavoro di cui, in verità, non poteva capire lo scopo e che naturalmente non poteva non annoiarlo mortalmente, cominciava ad afferrare i pezzi di cartone e a gettarli in terra dispettosamente per poi buttarsi con furia sul suo letto, io lasciavo passare due o tre minuti, poi tornavo alla carica con tutta la calma possibile, gli facevo raccogliere i cartoni gettati in terra e non gli davo tregua finché non li aveva ricollocati al posto giusto. La mia ostinazione riuscì per qualche giorno, ma alla fine fu sconfitta dal carattere indipendente del ragazzo. I suoi impeti di collera divennero più frequenti, più violenti, e assunsero l’aspetto di quegli accessi di rabbia di cui ho parlato, ma con questa notevolissima differenza, che essi ora erano rivolti più contro le cose che contro le persone. Infatti, animato da una sorta di spirito di distruzione, si metteva a mordere le lenzuola e le coperte del suo letto, la mensola del camino, sparpagliando per la stanza gli alari, la cenere, i tizzoni, e finendo per cadere in convulsioni che, come quelle dell’epilessia, provocavano una sospensione completa delle funzioni sensoriali. Fui costretto a cedere, quando le cose giunsero a questo punto di spaventosa gravità. E tuttavia il mio cedimento non fece che accrescere il male. Gli accessi divennero più frequenti e si rinnovavano alla minima contrarietà: talora scoppiavano addirittura senza una causa determinante. Ero al colmo della preoccupazione. Tutte le mie cure sembravano destinate a ridurre quel povero ragazzo nelle condizioni di un epilettico. Ancora qualche attacco, e la forza dell’abitudine avrebbe radicato in lui una delle malattie più spaventose e meno curabili. Bisognava dunque trovare un immediato rimedio, e non nei medicinali, così spesso infruttuosi, né tornando alla dolcezza, da cui non c’era più nulla da sperare, bensì con un procedimento di choc, più o meno simile a quello che il Boerhaave aveva adoperato nell’ospe60

dale di Harlem. Ero perfettamente convinto che bisognava a tutti i costi ottenere un risultato con il primo tipo di trattamento che avrei adoperato: se questo avesse fallito, il male si sarebbe aggravato e ogni altro trattamento della stessa natura sarebbe divenuto inutile. Per questa ragione scelsi quello che giudicai più atto ad incutere spavento ad un essere che non conosceva ancora, nella sua nuova esistenza, alcuna specie di pericolo. Qualche tempo prima, trovandosi con lui all’Osservatorio, madame Guérin l’aveva condotto sulla terrazza dell’edificio, la quale, come ognuno sa, è molto elevata. Appena egli giunse a breve distanza dal parapetto, fu colto da terrore, cominciò a tremare in tutte le membra e tornò verso la governante con il viso coperto di sudore, trascinandola per il braccio verso la porta e recuperando un po’ di calma solo quando fu di nuovo ai piedi delle scale. Quale poteva essere la causa di un simile terrore? Ma a me importava poco saperlo: mi bastava conoscere l’esistenza del fenomeno per sfruttarlo ai miei scopi. L’occasione si presentò molto presto durante un violentissimo accesso di furia, che avevo creduto necessario provocare a bella posta mediante la ripresa dei nostri esercizi. Allora, cogliendo il momento in cui i suoi sensi erano ancora in funzione, aprii con violenza la finestra della sua stanza, situata al quarto piano e che si affaccia su grossi lastroni di pietra, mi accostai a lui simulando a mia volta il massimo furore, lo afferrai con forza alla vita e lo tenni sospeso sulla finestra, con la testa all’ingiù verso il fondo del precipizio. Dopo qualche secondo lo ritrassi da questa posizione: era pallido, coperto di sudore freddo, gli occhi bagnati da qualche lacrima, e agitato ancora da leggeri sussulti che ritenni essere effetto della paura. Lo condussi verso le tavole, gli feci raccogliere tutti i cartoni e gli imposi di rimetterli in ordine. Eseguì ogni cosa, sia pure con lentezza e più male che bene, ma in ogni caso senza segni di impazienza. Poi si gettò sul letto e si mise a piangere. Era la prima volta, almeno per quanto ne sapevo io, che versava delle lacrime. La circostanza che ho già riferito, quella del suo pianto dovuto al dispiacere di separarsi dalla governante o alla gioia di rivederla, è posteriore all’episodio narrato ora. Se ne ho parlato prima è perché in questo scritto ho preferito esporre metodicamente i fatti anziché seguire l’ordine cronologico. 61

Questa singolare terapia fu coronata da un successo, se non completo, almeno sufficiente. La sua riluttanza al lavoro non fu interamente superata, ma decrebbe notevolmente e non dette più luogo a reazioni simili a quelle sopra descritte. Soltanto se lo stancavamo oltre il giusto limite o se lo costringevamo a lavorare nelle ore abitualmente destinate alla passeggiata o ai pasti, manifestava noia o impazienza emettendo un borbottio lamentoso che sfociava di solito nel pianto. Questo favorevole mutamento ci permise di riprendere con regolarità il corso dei nostri esercizi, nei quali introdussi nuove modificazioni adatte a stabilizzare ancor più la sua capacità di giudizio. Alle figure incollate sulle tavole, e che erano, come ho già detto, dei piani interi rappresentanti forme geometriche, sostituii dei disegni che riproducevano il contorno lineare di tali forme. Analogamente, mi limitai a indicare i diversi colori con campioni di forma irregolare e assolutamente diversa da quella dei precedenti cartoncini colorati. Posso dire che superare queste nuove difficoltà fu un giuoco per il fanciullo e ciò bastava ai fini che mi ero proposti adottando questo sistema di confronti elementari. Ma era giunto ormai il momento di passare a un nuovo tipo di esercizio molto più istruttivo, e che avrebbe presentato difficoltà insormontabili, se non fosse stato facilitato in anticipo grazie al successo dei mezzi adottati per superare le difficoltà dell’esercizio precedente.

4. Passaggio ai segni grafici della lingua Feci stampare a grandi caratteri, su talloncini di cartone di due pollici, le ventiquattro lettere dell’alfabeto2. Feci incidere, su una tavoletta quadrata di un piede e mezzo di lato, un eguale numero di caselle, nelle quali feci inserire i talloncini di cartone, senza però incollarli, perché all’occorrenza fosse possibile mutarli di posto. Feci infine costruire altre ventiquattro lettere in metallo delle stesse dimensioni. L’allievo avrebbe dovuto confrontarle con quelle 2

L’alfabeto francese ha tre segni che non figurano in quello italiano: j, x, y (N.d.T.).

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stampate e collocarle nelle caselle corrispondenti. Il primo tentativo di esecuzione di questo esercizio fu fatto in mia assenza da madame Guérin e, al mio ritorno, fui sorpreso di apprendere da lei che Victor distingueva tutti i caratteri e li disponeva nel giusto ordine. La prova venne eseguita seduta stante e senza il minimo errore. Entusiasmato da un successo così rapido, non riuscivo per il momento a spiegarmene la causa, e solo alcuni giorni dopo capii, osservando in che modo il nostro allievo procedeva alla classificazione delle lettere. Per facilitarsi il lavoro, aveva escogitato un piccolo espediente che gli risparmiava ogni fatica di memoria, di confronto e di giudizio. Appena aveva il tabellone tra le mani, non aspettava che venissero tolte dalle caselle le lettere metalliche; le toglieva da sé e ne faceva un mucchietto sulla sua mano, secondo l’ordine in cui stavano disposte; così l’ultima lettera dell’alfabeto, terminata questa operazione, era la prima del mucchio. Ed era con questa che cominciava a riordinarle, e con l’ultima della fila che finiva, ripercorrendo il tabellone dal fondo e procedendo sempre da destra verso sinistra. E non è tutto: egli pensava di poter perfezionare il procedimento. Spesso, infatti, il mucchio delle lettere si scomponeva nelle sue mani, i caratteri gli sfuggivano, e bisognava riordinali facendo grandi sforzi di attenzione. Le ventiquattro lettere erano disposte sul tabellone in quattro file di sei ciascuna; era dunque più semplice asportare e riordinare le lettere fila per fila, passando alla seconda solo dopo che la prima era stata riordinata, e così via. Ignoro se facesse davvero il ragionamento che gli attribuisco; è certo però che eseguiva l’esercizio nel modo che ho detto. Si trattava dunque di un procedimento meccanico, ma pur sempre di sua invenzione e che faceva forse onore alla sua intelligenza quanto una metodica classificazione delle lettere, alla quale del resto giunse poco tempo dopo. Non fu difficile condurlo a tale risultato dandogli i caratteri alla rinfusa ogni volta che gli veniva presentato il tabellone. Alla fine, nonostante i frequenti spostamenti che facevo subire ai caratteri stampati mutandoli di casella, nonostante certi accostamenti insidiosi delle lettere, come collocare la G accanto alla C, la E accanto alla F, ecc., la sua capacità di distinguere rimaneva invariata. Esercitandolo in questo modo, mi proponevo di preparare Victor a servirsene per quello che indubbiamente era il loro uso 63

primitivo, cioè per l’espressione dei bisogni che non si possono manifestare con la parola parlata. Lontano dal credere che fosse prossimo questo grande momento della sua educazione, fu piuttosto uno spirito di curiosità, che non la speranza del successo, a suggerirmi la seguente esperienza. Un mattino, mentre egli attendeva con impazienza il latte che costituisce quotidianamente la sua prima colazione, presi dal suo tabellone e disposi su un’assicella preventivamente predisposta queste quattro lettere: L A I T. Madame Guérin, che avevo preavvertito, si avvicina, guarda le lettere e subito mi porge una tazza di latte, di cui fingo di aver bisogno per me. Subito dopo mi avvicino a Victor, gli porgo le quattro lettere che avevo tolto dall’assicella, gli indico l’assicella stessa con una mano, mentre con l’altra gli porgo la tazza colma di latte. Le lettere vennero subito messe a posto, ma in ordine inverso, cosicché ne risultò T I A L anziché L A I T. Indicai allora le correzioni che occorreva fare, designando con il dito le lettere da spostare e il posto in cui dovevano essere collocate: quando il segno della cosa fu correttamente riprodotto, non lo feci più attendere e gli offrii il latte. Si stenterà a credere che cinque o sei prove di questo genere siano bastate, non dico a fargli disporre ordinatamente le quattro lettere della parola lait, ma anche, oserò dire, per dargli l’idea del rapporto che esiste tra la parola e la cosa. Questo è, in ogni caso, quanto si è autorizzati a supporre in base a ciò che egli fece otto giorni dopo questa prima esperienza. Sul punto di uscire per la consueta passeggiata all’Osservatorio, si preoccupò di prendere, di sua spontanea iniziativa, le quattro lettere in questione, le mise in tasca e, appena fu giunto in casa del cittadino Lemeri dove, come ho detto sopra, si recava tutti i giorni a far merenda con del latte, dispose questi caratteri sul tavolo in modo da formarvi la parola lait.

5. Primo bilancio e conclusioni di ordine generale Mi ero inizialmente proposto di ricapitolare qui tutti i fatti separatamente esposti in questa relazione, ma ho pensato che, qualunque possa essere l’effetto prodotto dalla loro simultanea visione, es64

so non sarà mai eguale a quello dell’ultima conquista descritta. Lo riferisco, per così dire, nella sua nudità, senza aggiunta di riflessioni, perché possa contrassegnare in maniera più netta lo stadio a cui siamo giunti ed essere garanzia di quello a cui dobbiamo giungere. In attesa di questi successivi progressi, si può comunque concludere dalla maggior parte delle mie osservazioni, soprattutto da quelle relative all’illustrazione dei due ultimi criteri di educazione, che il fanciullo conosciuto sotto il nome di selvaggio dell’Aveyron è dotato del libero esercizio di tutti i sensi; che dà prove continue d’attenzione, di reminiscenza, di memoria; che può confrontare, distinguere e giudicare; che può infine applicare tutte le facoltà del suo intelletto ad oggetti concernenti la sua istruzione. È da notare come fatto essenziale che tutti questi felici cambiamenti si sono prodotti nel breve spazio di nove mesi, in un soggetto che era ritenuto incapace di attenzione. Ed è lecito trarne la conclusione che la sua educazione è possibile o addirittura che il suo esito è già garantito da questi primi successi, indipendentemente da quelli che è giusto attendersi immancabilmente dal tempo, il quale nel suo immutabile cammino palesemente dona alla fanciullezza quelle forze e quelle capacità di progresso che toglie all’uomo giunto al declino della vita3. 3 Tocca agli osservatori illuminati venire ad assicurarsi con i propri occhi della verità di questi risultati. Soltanto essi possono giudicare il valore dei fatti, esaminandoli con una mente equilibrata e versata nella scienza dell’intelletto. Valutare lo stato morale del nostro selvaggio è più difficile di quanto si creda. L’esperienza quotidiana e l’insieme delle idee acquisite cospirano ad oscurare il nostro giudizio. Affermava il Condillac descrivendo un caso analogo: «Se la nostra abitudine di ricorrere all’aiuto dei segni ci consentisse di renderci conto di tutto ciò che dobbiamo al loro uso, ci basterebbe metterci nei panni di questo giovanetto per comprendere come egli non potesse acquisire che pochissime conoscenze. Ma noi giudichiamo sempre in base alla nostra situazione». Inoltre, per esprimere un giudizio valido in un caso come il nostro, non bisogna credere di aver capito il ragazzo dopo un solo esame, ma bisogna osservarlo e studiarlo a più riprese in tutti i momenti della giornata, nei suoi svaghi, nell’esecuzione dei suoi esercizi, ecc.; è una condizione indispensabile. E ancora non basta, se è vero che, per stabilire un confronto esatto tra presente e passato, bisogna aver visto con i propri occhi il selvaggio dell’Aveyron nei primi mesi del suo soggiorno a Parigi. Coloro che non lo hanno osservato

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Ma anche a prescindere dalle future sorti di Victor, quali importanti conseguenze in materia di storia filosofica e naturale discendono già da queste prime osservazioni! Se le raccogliamo tutte insieme, se le classifichiamo con metodo e le riduciamo al loro giusto valore, vedremo in esse la prova materiale delle più importanti verità, di quelle verità che Locke e Condillac giunsero a scoprire grazie al loro genio e alla profondità della loro meditazione. Se ne può infatti dedurre almeno questo: 1. Che l’uomo è inferiore a un gran numero di animali quando si trova nel puro stato di natura4, il quale è in sostanza uno stato di nullità e di barbarie da taluni rivestito, senza alcun fondamento, dei più seducenti colori; uno stato in cui l’individuo, privato delle facoltà caratteristiche della sua specie, trascina miserevolmente, senza intelligenza e senza sentimenti, una vita precaria, ridotta alle sole funzioni animali. 2. Che quella superiorità morale, che si suole attribuire all’uomo come una dote naturale, è in realtà il risultato della civiltà, la quale lo innalza al di sopra degli altri animali in virtù di una grande e potente sollecitazione. Questa sollecitazione è la sensibilità: caratteristica preminente della specie umana, proprietà essenziale dalla quale derivano le facoltà imitative e quella tendenza continua che sospinge l’uomo a ricercare in nuovi bisogni nuove sensazioni. 3. Che questa capacità di imitazione destinata all’educazione dei suoi organi, e soprattutto all’apprendimento della parola, estremamente energica ed attiva nei primi anni di vita, si indebolisce rapiin quel periodo e che gli facessero visita adesso, vedrebbero in lui un fanciullo pressoché normale che non parla; ma non potrebbero seriamente valutare la distanza che passa tra questo soggetto pressoché normale e il selvaggio dell’Aveyron al momento del suo primo ingresso in società; distanza che può sembrare molto lieve, ma che in realtà è immensa, se si va ad approfondirne il significato e se si riflette attraverso quale serie di nuovi ragionamenti e di nuove idee acquisite sia dovuto giungere a questi ultimi risultati. 4 Sono assolutamente certo che se si isolassero fin dalla prima infanzia due bambini, un maschio e una femmina, e se si facesse altrettanto con due quadrupedi scelti nella specie meno intelligente, questi ultimi si mostrerebbero molto superiori ai primi quanto a capacità di provvedere ai propri bisogni e alla conservazione di se stessi e dei loro piccoli.

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damente con il procedere dell’età, con l’isolamento e per tutte quelle cause che tendono a smorzare la sensibilità nervosa; donde consegue che l’articolazione dei suoni, che è indubbiamente il più mirabile e il più utile effetto tra quelli prodotti dall’imitazione, deve incontrare enormi ostacoli in un’età diversa dalla prima infanzia. 4. Che esiste sia nel selvaggio più isolato dal resto del mondo come nel cittadino pervenuto al più alto grado di civiltà un rapporto costante tra idee e bisogni; che la molteplicità sempre crescente di questi ultimi presso i popoli civilizzati dev’essere considerata come un grande strumento di sviluppo della mente umana; e per conseguenza si può formulare la seguente proposizione generale: tutte le cause accidentali, di natura geografica o politica, che tendono ad accrescere o a diminuire il numero dei nostri bisogni, contribuiscono necessariamente ad estendere o a restringere la sfera delle nostre conoscenze e il campo della scienza, delle belle arti e delle attività sociali. 5. Che allo stato attuale delle nostre conoscenze fisiologiche, i metodi dell’insegnamento possono e debbono trarre lumi dalla medicina moderna, che tra tutte le scienze naturali è quella che può dare il più potente contributo al perfezionamento della specie umana, rilevando le anomalie organiche e intellettuali di ciascun individuo e determinando così ciò che l’educazione deve fare per lui e ciò che la società può da lui aspettarsi. Vi sarebbero ancora alcune considerazioni non meno importanti, che mi proponevo di associare a quelle qui enunciate. Ma esse richiedono un’ampiezza di trattazione che oltrepasserebbe i limiti e la natura di questa esposizione. D’altro canto, confrontando le mie osservazioni con la dottrina di alcuni dei nostri metafisici, mi sono accorto che su alcuni punti di notevole importanza mi trovavo in disaccordo con loro. Debbo dunque attendere di poter disporre dell’appoggio di dati più numerosi e perciò stesso più convincenti. Un motivo pressoché analogo non mi ha consentito, parlando di tutti gli aspetti dello sviluppo di Victor, di soffermarmi sull’epoca della sua pubertà, che si è manifestata da alcune decine di giorni in maniera quasi esplosiva e i cui primi fenomeni gettano molta ombra di dubbio sull’origine 67

di certi affetti del cuore, che noi siamo soliti considerare come assai naturali. Anche a questo riguardo ho ritenuto opportuno non affrettarmi a giudicare e a concludere, convinto che occorra lasciar ben maturare e consolidare con ulteriori osservazioni ogni nuova prospettiva che tenda a distruggere dei pregiudizi, sia pure rispettabili, e quelle che sono insieme le più dolci e consolanti illusioni della vita sociale.

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(Le illustrazioni di questo libro sono foto tratte dal film Le sauvage de l’Aveyron, per gentile concessione del regista François Truffaut)

Il fanciullo selvaggio nei boschi dell’Aveyron

Fisionomia del fanciullo selvaggio al momento della cattura

Il fanciullo selvaggio subito dopo la cattura

Controllo neurologico da parte del dottor Itard

Il fascino della fiamma

Eccitazione di Victor nella libertà dei campi

1. Premessa

A Sua Eccellenza il Ministro degli Interni Egregio Signore, parlarvi del selvaggio dell’Ayeron significa rammentare un povero essere dimenticato da coloro che lo hanno visto di sfuggita, e spregiato da quanti hanno creduto di poter formulare un giudizio su di lui. Quanto a me, che mi sono limitato fino ad oggi ad osservarlo e a prodigargli le mie cure, del tutto indifferente all’oblio degli uni e al disprezzo degli altri, che posso fondare il mio giudizio su cinque anni di osservazioni quotidiane, sento il dovere di fare a vostra Eccellenza il rapporto che Ella attende, di raccontarle ciò che ho visto e ciò che ho fatto, di esporle lo stato attuale di questo giovane e le lunghe e difficili vie per le quali vi è stato condotto, gli ostacoli che ha sormontato e quelli che non ha potuto superare. Se tutti questi particolari apparissero a vostra Eccellenza poco degni della sua attenzione e inferiori all’idea lusinghiera che se ne era fatta, Ella vorrà essere profondamente convinta, a mia scusante, che senza l’ordine formalmente impartitomi, avrei avvolto nel più profondo silenzio e condannato a eterna dimenticanza un’opera educativa il cui risultato esprime, più che la storia dei progressi dell’allievo, quella degli insuccessi dell’educatore. Ma d’altro canto, giudicando me stesso con imparzialità, io credo che, a prescindere dallo scopo a cui miravo nell’assumermi volontariamente questo compito e considerando la mia opera da un punto di vista più generale, voi scorgerete non senza qualche soddisfazione, egregio Signore, nelle diverse esperienze da me tentate e nelle numerose osservazioni raccolte una collezione di dati atti ad illuminare la storia della filosofia medica, lo studio dell’uomo non 77

civilizzato e la strada da seguire in talune forme di educazione speciali. Per poter valutare lo stato attuale del giovane selvaggio dell’Aveyron sarebbe necessario richiamare alla mente la sua condizione iniziale. Perché si possa esprimere un valido giudizio su di lui, questo giovane non può essere confrontato che con se stesso. Se lo si mette a confronto con un adolescente della stessa età, non è più che un povero disgraziato, un relitto della natura come fu, in passato, un relitto della società. Ma se ci si limita ai due termini di paragone costituiti dallo stato iniziale e da quello attuale del giovane Victor, desta stupore l’enorme distanza che li separa e può nascere il quesito se Victor non differisca dal selvaggio dell’Aveyron appena giunto a Parigi più di quanto differisca oggi dagli altri individui della sua specie e della sua età. Non starò a riproporle, egregio Signore, il deplorevole quadro di questo uomo-animale qual era al momento in cui uscì dalle foreste. In un opuscolo che ho stampato pochi anni fa, e di cui ho l’onore di offrirle un esemplare, ho costruito il ritratto di questo essere straordinario in base ai dati desunti dal rapporto di un celebre medico a un gruppo di esperti. Qui mi limiterò a ricordare che la commissione di cui questo medico fu relatore, dopo lungo esame e numerosi tentativi, non poté riuscire a fissare, neppure per un momento, l’attenzione del trovatello e si sforzò inutilmente di individuare, nelle sue decisioni e nelle sue azioni, un qualche lume di intelligenza o qualche traccia di sensibilità. Estraneo a questa operazione riflessa che è la prima sorgente delle nostre idee, egli non prestava attenzione ad alcun oggetto, perché nessun oggetto produceva impressioni durevoli sui suoi sensi. I suoi occhi vedevano, ma non guardavano; le sue orecchie udivano, ma non ascoltavano; e l’organo del tatto, sempre limitato alla meccanica operazione della pressione dei corpi, non era stato mai adoperato per esplorarne la presenza e le forme. Insomma, lo stato delle facoltà fisiche e morali di questo fanciullo era tale che egli veniva a trovarsi al grado più basso, non soltanto della sua specie, ma della stessa specie animale, e che in sostanza non differiva da una pianta se non per la facoltà di muoversi e di gridare. Tra questa esistenza a livello men che animale e l’attuale condizione del giovane Victor vi è una differenza prodi78

giosa e che apparirebbe ancora più netta se mi limitassi ad accostare direttamente i due termini del confronto, sopprimendo le fasi intermedie. Ma persuaso che importi, non tanto forzare i contrasti del quadro, quanto presentarlo fedele e completo, farò del mio meglio per esporre succintamente tutti i cambiamenti sopraggiunti successivamente nello stato del giovane selvaggio. E per rendere più ordinata e interessante l’enumerazione dei fatti, li riferirò in tre serie distinte, relative al triplice sviluppo delle funzioni sensoriali, delle funzioni intellettuali e delle facoltà affettive.

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2. Sviluppo delle funzioni sensoriali

1. Educazione dell’udito I. Sono i lavori di Locke e di Condillac che ci hanno permesso di capire la potente influenza esercitata sulla formazione e sullo sviluppo delle nostre idee dall’azione isolata e simultanea dei sensi. L’abuso che si è fatto di questa scoperta non ne distrugge la verità e non inficia le applicazioni pratiche che se ne possono trarre ai fini di un sistema educativo fondato sui principi della medicina. È sulla base di tali convinzioni che, dopo avere assolto i compiti principali che mi ero inizialmente proposto e di cui ho riferito nella mia prima opera, ho messo tutto il mio impegno nell’esercitare e nello sviluppare separatamente gli organi dei sensi nel giovane Victor. II. Poiché di tutti i nostri sensi l’udito è quello che più particolarmente concorre allo sviluppo delle nostre facoltà intellettuali, ricorsi a tutti gli espedienti immaginabili per ridestare dal loro lungo torpore gli orecchi del nostro selvaggio. Mi persuasi che per educare questo senso bisognava in qualche modo isolarlo e che, esistendo in tutto l’insieme del suo organismo una dose modesta di sensibilità, dovevo concentrarla sul senso che volevo mettere in funzione, paralizzando artificialmente quello della vista che da solo impegna la maggior parte di questa sensibilità. Per conseguenza, coprii con una spessa fascia gli occhi di Victor e feci echeggiare ai suoi orecchi i suoni più forti e più diversi. Il mio scopo non era soltanto di farglieli udire, ma soprattutto di farglieli ascoltare. Per ottenere questo risultato, appena avevo prodotto un suono, chiedevo a Victor di produrne uno simile facendo vibrare lo stesso corpo so81

noro, e lo invitavo a percuotere un corpo diverso non appena il suo orecchio lo avvertiva che avevo cambiato strumento. I miei primi esperimenti consistettero nel fargli distinguere il suono di una campana da quello di un tamburo, e come un anno prima avevo condotto Victor dall’elementare confronto di due sagome di cartone diverse per colore e per forma alla distinzione delle lettere e delle parole, così avevo motivo di credere che il suo orecchio, seguendo lo stesso processo di crescente attenzione sperimentato dalla vista, sarebbe giunto a distinguere i suoni più simili e insieme i più diversi toni dell’organo vocale, ovvero la parola parlata. Feci perciò in modo di rendere progressivamente i suoni meno eterogenei, più complicati e più vicini. Ben presto non mi contentai di esigere che distinguesse il suono di un tamburo da quello di una campana, ma volli che cogliesse i differenti effetti acustici prodotti da una bacchetta che percuoteva la pelle, il cerchio o la cassa del tamburo, o il campanello di una sveglia, o il metallo di una paletta da focolare molto risonante. III. Successivamente adattai questo metodo comparativo alla percezione dei suoni di uno strumento a fiato, più simili a quelli della voce e costituenti l’ultimo gradino della scala lungo la quale speravo di condurre il mio allievo a cogliere le differenti intonazioni della laringe. La mia aspettativa fu coronata dal successo e appena il suono della mia voce giunse a colpire l’orecchio del nostro selvaggio, trovai il suo udito sensibile alle più deboli intonazioni. IV. In queste ultime esperienze non dovevo in alcun modo esigere che, come nelle precedenti, l’allievo ripetesse i suoni che udiva. Questo duplice lavoro, spezzando l’unità della sua attenzione, avrebbe alterato il programma che mi ero proposto, quello cioè di educare separatamente ciascuno dei suoi organi. Mi limitai dunque ad esigere la semplice percezione dei suoni. Per essere sicuro di questo risultato, collocai il mio allievo di fronte a me, con gli occhi bendati, con i pugni chiusi, e gli facevo protendere un dito tutte le volte che emettevo un suono. Questo metodo di prova fu subito compreso: appena il suono aveva colpito l’orecchio, il dito veniva proteso con una sorta di impetuosità e spesso addirittura con dimo82

strazioni di gioia che non lasciavano dubbi sul piacere che quelle bizzarre lezioni procuravano all’allievo. In effetti, sia che provasse un vero piacere a udire il suono della voce umana, sia che avesse infine superato il fastidio di restare privo di luce per ore intere, nelle interruzioni tra un esercizio e l’altro accadeva spesso che mi venisse dinanzi con la benda in mano e se l’applicasse spontaneamente sugli occhi, saltando poi dalla gioia quando sentiva che gliel’annodavo fortemente sulla nuca. Solo verso la fine di questo ciclo di esperienze si verificarono queste manifestazioni di contentezza. Ed io sulle prime me ne compiacqui, e lungi dal reprimerle le eccitavo addirittura, ignaro di preparare in tal modo un ostacolo che avrebbe ben presto interrotto la serie delle esperienze utili, annullando dei risultati ottenuti con tanta fatica. V. Dopo essermi bene assicurato, con il procedimento sopra descritto, che tutti i suoni della voce, qualunque fosse il loro grado d’intensità, erano percepiti da Victor, mi preoccupai di farglieli confrontare. Ora non si trattava più di contare semplicemente i suoni della voce, ma di coglierne le differenze e di valutare tutte quelle modificazioni e varietà di toni di cui si compone la musica del linguaggio parlato. Tra questo lavoro e quello precedente vi era una distanza prodigiosa per un essere il cui sviluppo era legato a sforzi ben graduati e che procedeva verso il proprio incivilimento per una strada sulla quale lo andavo conducendo con estrema lentezza. Nell’affrontare la nuova difficoltà che ora si presentava, mi armai ancor più di pazienza e dolcezza, incoraggiato del resto dalla speranza che, una volta superato questo ostacolo, l’educazione dell’udito sarebbe stata un fatto compiuto. Cominciammo dunque con il confronto delle vocali e ancora una volta ricorremmo alla mano per assicurarci del risultato delle nostre esperienze. Ciascuna delle cinque dita fungeva da segno di una delle cinque vocali e serviva ad attestarne la distinta percezione. Così il pollice rappresentava la vocale A e doveva essere essere disteso quando veniva pronunciato questo suono; l’indice era il segno della E, il medio della I, e così via. VI. Ci volle molto tempo e molta fatica per fargli acquisire la nozione ben distinta delle cinque vocali. La prima che giunse a di83

stinguere nettamente fu la O, poi venne la vocale A. Le tre restanti presentarono maggiori difficoltà: per lungo tempo il ragazzo continuò a confonderle l’una con l’altra. Ma alla fine l’orecchio cominciò a percepirle distintamente e allora ricomparvero con tutta la loro vivacità quelle dimostrazioni di gioia di cui parlavo poc’anzi e che erano state momentaneamente interrotte dalle nostre nuove esperienze. Ma poiché queste esigevano da parte dell’allievo un’attenzione assai più rigorosa, confronti sottili, giudizi ripetuti, accadde che questi accessi di gioia, i quail fino allora avevano rallegrato le nostre lezioni, finirono per turbarle. In quei momenti Victor confondeva tutti i suoni, distendeva a caso questo o quel dito, o addirittura li distendeva tutti contemporaneamente, con uno slancio disordinato e con scoppi di riso che davano davvero fastidio. Per reprimere questa inopportuna gaiezza, cercai di restituire l’uso della vista al troppo allegro allievo e di proseguire così le nostre esperienze, intimidendolo con un volto severo e persino un po’ minaccioso. Allora la gioia spariva, ma al tempo stesso il senso dell’udito veniva distratto da quello della vista, continuamente attirato dagli oggetti circostanti. Il minimo spostamento nella disposizione dei mobili, il più leggero movimento delle persone che gli stavano intorno, un cambiamento un po’ brusco della luce solare, tutto attraeva i suoi sguardi, tutto gli era pretesto per muoversi e distrarsi. Gli rimisi la benda sugli occhi e gli scoppi di riso ricominciarono. Cercai allora di intimidirlo con mezzi più energici, visto che gli sguardi non bastavano più. Presi una delle bacchette del tamburo che serviva alle nostre esperienze e gli detti dei piccoli colpi sulle dita quando si sbagliava. Ma egli giudicò questa punizione una sorta di scherzo e le sue manifestazioni di gioia divennero ancora più rumorose. Per disingannarlo, credetti di dover rendere un po’ più energica la punizione. Mi capì, e non fu senza un misto di dolore e di piacere che vidi nel volto aggrottato del giovanetto fino a che punto il sentimento dell’offesa prevalesse sul dolore fisico provocato dal colpo. Da sotto la benda scorrevano delle lacrime ed io mi affrettai a toglierla, ma, fosse imbarazzo o timore, benché privo di benda, egli continuò a tenere gli occhi chiusi. È impossibile descrivere la espressione dolorosa che conferivano al suo volto le due palpebre abbassate, da cui sfuggivano di tanto in tanto alcune lacrime. 84

In quel momento, come del resto in molti altri, pronto a rinunciare al compito che mi ero imposto e considerando perduto il tempo che vi dedicavo, quanto mi dispiacevo di aver conosciuto quel ragazzo e quanto aspramente condannavo la sterile e disumana curiosità degli uomini che per primi lo avevano strappato a una vita innocente e felice! VII. Questo episodio mise fine alla rumorosa gaiezza del mio allievo. Ma il successo non fu per me motivo di compiacimento, perché avevo eliminato quell’inconveniente solo per cadere in un altro. A quella folle allegria subentrò un sentimento di paura e ciò disturbò ancora di più i nostri esercizi. Quando emettevo un suono, mi toccava aspettare più di un quarto d’ora il segnale convenuto; e anche se il segnale era giusto, giungeva con estrema lentezza e con tanta esitazione che se, per caso, mi accadeva di produrre il minimo rumore o di compiere il più leggero movimento, Victor terrorizzato ritraeva subito il dito per timore di essersi sbagliato e ne protendeva un altro con la stessa lentezza e con la stessa circospezione. Nonostante ciò, ancora non disperavo, e mi lusingavo che con il tempo, con molta dolcezza e con maniere incoraggianti, sarei giunto a dissipare quell’incresciosa timidezza. Le mie speranze furono vane e tutto si rivelò inutile. Così svanirono le brillanti prospettive fondate, non senza qualche ragione, su una serie interrotta di esperienze insieme utili e interessanti. Più volte in seguito, e a lunghi intervalli di tempo, ritentai le stesse prove, ma fui sempre costretto a rinunciare di nuovo, arrestato dallo stesso ostacolo. VIII. Tuttavia questa serie di esperienze condotte sul senso dell’udito non è stata completamente inutile. Victor ha imparato a udire distintamente alcune parole monosillabiche e soprattutto a distinguere con molta precisione, tra le diverse intonazioni del linguaggio, quelle che sono espressione di rimprovero, di collera, di tristezza, di disprezzo, di amicizia, anche quando questi diversi sentimenti non siano accompagnati da quei mutamenti di fisionomia e da quelle naturali pantomime che ne costituiscono l’aspetto esteriore.

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2. Educazione della vista IX. Afflitto più che scoraggiato dagli scarsi risultati ottenuti con il senso dell’udito, decisi di dedicare tutte le mie cure a quello della vista. Gli esercizi precedentemente eseguiti lo avevano già molto migliorato e avevano a tal punto contribuito a rendere il ragazzo capace di concentrare e fissare l’attenzione, che all’epoca del mio primo rapporto egli riusciva già a distinguere delle lettere di metallo e a collocarle in un determinato ordine per formare con esse alcune parole. Da qui alla percezione distinta dei segni scritti e al meccanismo della loro scrittura la strada era ancora lunga, ma fortunatamente tutte queste difficoltà vennero collocate in qualche modo sullo stesso piano e furono superate abbastanza bene. Dopo alcuni mesi il mio allievo sapeva leggere e scrivere passabilmente una serie di parole, di cui parecchie erano così somiglianti da esigere un occhio molto attento per essere distinte. Ma questa lettura era del tutto intuitiva; Victor leggeva le parole senza pronunciarle, senza conoscerne il significato. Pensando a questo singolare modo di leggere, il solo praticabile con un essere di quella natura, ci si domanderà come facessi ad essere sicuro che parole non pronunciate e alle quali egli non associava alcun significato fossero lette così distintamente da non essere confuse le une con le altre. Nulla di più semplice del metodo che adoperavo per questo controllo. Tutte le parole da leggere erano scritte su due lavagnette: una la tenevo io, l’altra Victor. Egli percorreva con la punta del dito successivamente tutte le parole segnate sulla mia lavagna, ed io esigevo che mi indicasse sulla sua la parola corrispondente. Sulle due lavagnette, avevo avuto cura di dare alle parole una disposizione completamente diversa, in modo che il posto occupato da ciascuna nella serie non potesse servire alla sua identificazione. Perciò Victor doveva studiare in qualche modo la fisionomia particolare di tutti quei segni per poterli riconoscere a vista. X. Quando l’allievo, ingannato dall’apparenza di una parola, me la indicava al posto di un’altra, gli facevo rettificare l’errore senza intervenire direttamente, ma obbligandolo a compitare. Per noi compitare significava confrontare intuitivamente, una dopo l’altra, tutte 86

le lettere che compongono due parole. Questo esame realmente analitico veniva effettuato con la massima rapidità: io toccavo con la punta di una bacchettina la prima lettera della parola giusta, poi la seconda e così via, finché Victor, che frattanto cercava di ritrovare nella parola da lui prescelta la lettera che io gli mostravo, s’imbatteva in quella che determinava la differenza tra le due parole. XI. Ben presto non fu più necessario ricorrere a un esame così minuzioso per fargli rettificare i suoi errori. Mi bastava fargli fissare per un istante lo sguardo sulla parola che scambiava per un’altra perché ne rilevasse la differenza. In tal modo fu esercitato e perfezionato questo senso importante, la cui immotivata irrequietezza aveva fatto fallire i primi tentativi di stabilizzarne la funzione, generando così i primi sospetti di idiozia.

3. Educazione del tatto XII. Avendo così terminato l’educazione del senso della vista, mi occupai di quello del tatto. Sebbene non condividessi affatto l’opinione di Buffon e di Condillac sulla grande importanza che secondo loro avrebbe questo senso, non consideravo però perdute le cure che potevo dedicare al tatto, né senza interesse le osservazioni che lo sviluppo di questo senso poteva consentirmi. Si è visto, nella prima relazione, come questo organo, inizialmente limitato alla prensione meccanica dei corpi, fosse riuscito grazie al potente effetto dei bagni caldi a recuperare alcune delle sue facoltà, tra cui quella di percepire se un corpo fosse freddo o caldo, ruvido o liscio. Ma se si considera la natura di queste due specie di sensazioni si vedrà che esse sono comuni a tutta l’epidermide. Poiché fino ad allora l’organo del tatto si era semplicemente limitato a ricevere la sua parte della sensibilità che avevo ridestato in tutto il sistema cutaneo, esso non percepiva che in quanto porzione di questo sistema, non differendo dall’insieme per alcuna funzione peculiare. XIII. Le mie prime esperienze confermarono l’esattezza di questa diagnosi. In fondo ad un vaso opaco, la cui stretta apertura per87

metteva appena di introdurvi un braccio, collocai delle castagne cotte e ancora calde ed altre castagne pressappoco della stessa grandezza, ma crude e fredde. Una delle mani del mio allievo era nel fondo del vaso, l’altra riposava sul suo ginocchio. Misi su quest’ultima una castagna calda e chiesi a Victor di tirarne un’altra fuori del vaso. Egli eseguì perfettamente l’operazione richiesta. Gliene presentai una fredda, ed egli ne trasse un’altra pure fredda dall’interno del vaso. Ripetei più volte questa esperienza e sempre con successo. Ma non fu così quando, anziché richiedere al ragazzo un confronto di temperature, volli che con lo stesso procedimento giudicasse della forma dei corpi. Ora entravano in giuoco le funzioni che sono proprie esclusivamente del tatto e questo senso era ancora per lui una novità. Collocai nel vaso castagne insieme con ghiande, e allorché porgendo a Victor l’uno o l’altro di questi frutti gli chiesi di prenderne uno eguale nel fondo del vaso, egli mi porse una castagna in luogo di una ghianda e viceversa. Bisognava dunque costringere questo senso, come tutti gli altri, ad esercitare le sue funzioni, e procedendo con lo stesso criterio. A tal fine, cominciai con l’esercitarlo a confrontare corpi molto diversi tra loro, non soltanto per la forma, ma anche per il volume, come una pietra e una castagna, una monetina e una chiave. Ci volle una certa fatica perché riuscisse a distinguere questi oggetti con il tatto. Appena cessò di confonderli, li sostituii con altri meno dissimili, come una mela, una noce, dei ciottoli. Riproposi quindi all’esame manuale le castagne e le ghiande, e questa volta per l’allievo fu un giuoco distinguerle. Riuscii addirittura a fargli distinguere, sempre esclusivamente con il tatto, le lettere alfabetiche in metallo, anche le più vicine per forma, come la B e la R, la T e la J, la C e la G. XIV. Questo tipo di esercizio, da cui non mi attendevo, come ho già detto, grandi risultati, contribuì tuttavia non poco ad accrescere la capacità d’attenzione del nostro allievo. Ho avuto in seguito l’occasione di vedere la sua debole intelligenza alle prese con difficoltà assai più grandi, e mai l’ho visto assumere quell’espressione seria, calma e meditativa che si diffondeva sul suo volto quando si trattava di decidere sulla differenza di forma dei corpi sottoposti all’esame del tatto. 88

4. Educazione dell’odorato e del gusto XV. Mi restava da occuparmi dei sensi del gusto e dell’odorato. Quest’ultimo era in lui di una tale sensibilità che lo metteva al di sopra di ogni possibile perfezionamento. Sappiamo che molto tempo dopo il suo ingresso nella società egli aveva ancora l’abitudine di fiutare qualunque cosa gli venisse porta, anche se si trattava di corpi che a noi appaiono inodori. Nelle passeggiate in campagna che facevo spesso con lui durante i primi mesi della sua permanenza a Parigi, l’ho visto più volte fermarsi, o addirittura voltarsi, per raccogliere dei sassi, dei pezzi di legno disseccati, che gettava via soltanto dopo averli avvicinati al naso e ripetutamente annusati con manifestazioni di grande soddisfazione. Una sera che si era smarrito per la rue d’Enfer e venne ritrovato solo al cader della notte dalla governante, si decise a seguirla, e lasciò esplodere la gioia che provava nel rivederla, soltanto dopo averle fiutato le mani e le braccia due o tre volte. Perciò l’incivilimento non poteva aggiungere nulla alla finezza del suo odorato. D’altro canto questo senso, più legato all’esercizio delle funzioni digestive che allo sviluppo delle facoltà intellettuali, esulava per tale ragione dal mio piano educativo. Potrebbe sembrare che, connesso in generale alle stesse funzioni, il senso del gusto dovesse, al pari di quello dell’odorato, restare al di fuori dei miei progetti. Ma io ero in proposito di diverso parere. Considerando il senso del gusto non in rapporto alle limitatissime funzioni assegnategli dalla natura, ma come strumento delle varie e numerose forme di godimento che la civiltà ha saputo ricavarne, ritenni vantaggioso svilupparlo o, sarebbe forse il caso di dire, corromperne la naturale semplicità. È inutile che stia ad elencare tutti gli espedienti ai quali ricorsi per raggiungere questo scopo; basti sapere che in pochissimo tempo riuscii a suscitare nel nostro selvaggio la capacità di gustare una folla di cibi che fino ad allora aveva sempre disdegnato. Tuttavia, pur tra le nuove acquisizioni di questo senso, debbo dire che Victor non dimostrò nessuna di quelle avide preferenze che costituiscono la ghiottoneria. Ben diverso dai cosiddetti selvaggi che, vivendo in uno stato di semi-civiltà, presentano tutti i vizi delle società evolute senza possederne i vantaggi, Victor, che pure si andava abituando a nuovi cibi, è rimasto indifferen89

te ai liquori forti, e questa indifferenza si è trasformata in avversione a causa di uno sbaglio i cui effetti e le cui circostanze meritano forse di essere riferiti. Un giorno Victor pranzava con me in città e alla fine del pasto afferrò istintivamente una caraffa che conteneva un liquore fortissimo, seppure perfettamente simile all’acqua in quanto privo di colore e di odore. Il nostro selvaggio, scambiatolo per acqua, se ne versò un mezzo bicchiere e, spinto senza dubbio dalla sete, ne ingoiò di colpo quasi la metà, prima che il bruciore prodotto nello stomaco da questo liquido lo avvertisse dell’errore commesso. Respinto di scatto il bicchiere, si alzò con furia, raggiunse d’un balzo la porta della stanza e si mise a correre urlando per i corridoi e per le scale della casa, tornando continuamente indietro per ricominciare daccapo; sembrava un animale gravemente ferito, che cercasse con la rapidità della corsa, non già, come dicono i poeti, di sfuggire al dardo che lo strazia, ma di distrarre con il movimento un dolore a sollievo del quale non può, come l’uomo, invocare una mano benefica. XVI. Nonostante l’avversione per i liquori forti, Victor ha però preso un po’ di gusto per il vino, anche se non sembra sentirne molto la privazione quando non gli viene servito. Credo anzi che abbia sempre conservato una spiccata preferenza per l’acqua. La maniera in cui la beve sembra indicare che essa gli procura un piacere vivissimo, ma che senza dubbio è dovuto a qualche causa diversa dal godimento dell’organo del gusto. Quasi sempre alla fine del pasto, quando non può più essere sollecitato dallo stimolo della sete, con l’aria del buongustaio che si serve un liquore squisito, riempie il proprio bicchiere di acqua pura e la beve pian piano a piccoli sorsi. Ma ancora più significativo è il luogo in cui si svolge questa piccola scena: il ragazzo se ne sta in piedi presso la finestra, con il bicchiere in mano e gli occhi rivolti verso la campagna, come se in quel momento di diletto questo figlio della natura cercasse di riunire i due soli beni sopravvissuti alla perdita della sua libertà: bere dell’acqua limpida e contemplare il sole e il verde dei campi. XVII. In questo modo ebbe compimento l’educazione dei sensi. Tutti, ad eccezione di quello dell’udito, uscendo dal loro lungo tor90

pore, si aprirono a percezioni nuove e portarono nell’animo del giovane selvaggio una folla di idee fino ad allora sconosciute. Ma queste idee lasciavano nel suo cervello solo una traccia fuggevole; per fissarle, sarebbe stato necessario incidervi i segni corrispondenti o, per dir meglio, il valore di questi segni. Victor li conosceva già, perché avevo fatto procedere di pari passo la percezione degli oggetti e delle loro qualità sensibili con la lettura delle parole che li rappresentavano, senza tuttavia cercare di determinarne il senso. Victor, addestrato a distinguere con il tatto un corpo rotondo da uno piatto, con gli occhi una carta rossa da una bianca, con il gusto un liquido acido da uno dolce, aveva contemporaneamente imparato a distinguere gli uni dagli altri i nomi che esprimevano queste diverse percezioni, ma senza conoscere il valore rappresentativo di questi segni. Poiché questa conoscenza esulava ormai dall’ambito dei sensi esterni, bisognava ricorrere alle facoltà della mente e chiedere loro conto, se così posso esprimermi, delle idee fornite loro dai sensi. E questo fu appunto l’oggetto di una nuova serie di esperienze di cui riferirò nei paragrafi successivi.

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3. Sviluppo delle funzioni intellettuali

1. Precisazione del valore dei segni XVIII. Sebbene presentati separatamente, i fatti esposti nel capitolo precedente si collegano, per molti rispetti a quelli che esporremo nel presente capitolo. Così intima infatti è la connessione che unisce l’uomo fisico all’uomo intellettuale, benché le rispettive sfere sembrino ed in effetti siano notevolmente distinte, che tutto si confonde su quella linea lungo la quale i due ordini di funzioni entrano in contatto. Il loro sviluppo è simultaneo e la loro influenza reciproca. Così, nella fase in cui io limitavo i miei sforzi ad esercitare i sensi del nostro selvaggio, la mente traeva profitto dalle cure rivolte esclusivamente a questi organi e seguiva lo stesso ordine di sviluppo. È evidente infatti che, educando i sensi a percepire e a distinguere nuovi oggetti, costringevo l’attenzione a soffermarsi su di essi, il giudizio a confrontarli e la memoria a ritenerli. Così non c’era nulla in quel lavoro che fosse inutile alla mente, tutto le recava giovamento, tutto contribuiva a mettere in moto le facoltà dell’intelligenza e a prepararla al grande compito della comunicazione delle idee. Avevo già acquisito la sicurezza che tale compito era possibile, ottenendo dall’allievo che designasse l’oggetto dei suoi bisogni mediante lettere ordinate in modo da formare il nome di ciò che desiderava. Ho riferito, nel mio primo scritto su questo fanciullo, il primo passo da lui compiuto nella conoscenza dei segni scritti; e non ho esitato a considerarlo come un momento importante della sua educazione, come il successo più lieto e più brillante che sia stato mai ottenuto da un essere caduto, alla pari di Victor, all’ultimo gradino dell’abbrutimento. Ma osservazioni successive, 93

che chiarirono l’esatta portata di questo risultato, attenuarono ben presto le speranze che ne avevo tratto. Notai che Victor, anziché riprodurre certe parole, con le quali l’avevo familiarizzato, per chiedere gli oggetti che esse significavano e manifestare il desiderio o il bisogno che ne sentiva, vi ricorreva solo in determinati momenti e sempre quando aveva sott’occhio l’oggetto desiderato. Così, per esempio, sebbene il latte gli piacesse moltissimo, solo nel momento in cui era abituato a prenderne e proprio nell’istante in cui stava per essergli offerto si decideva a formulare la parola relativa, cioè a formarla nel modo convenuto. Per chiarire il sospetto che nasceva in me da questa specie di riserva, tentai di ritardare l’ora della sua colazione, ma attesi invano che l’allievo manifestasse per iscritto i suoi bisogni, nonostante che fossero divenuti più urgenti. Solo quando apparve la tazza venne formata la parola latte. Ricorsi allora ad un’altra prova: nel bel mezzo della sua colazione, e senza dare al mio intervento alcuna apparenza di punizione, gli tolsi la tazza che conteneva il latte e la chiusi in un armadio. Se la parola latte fosse stata per Victor il segno distintivo della cosa e l’espressione del bisogno che ne provava, senza dubbio, dopo la privazione subita, e continuando il bisogno a farsi sentire, egli avrebbe immediatamente formato la parola latte. Ma non fu così; ed io ne conclusi che la formazione di questo segno, anziché essere per l’allievo l’espressione dei suoi bisogni, non era che una sorta di esercizio preliminare, da cui egli faceva macchinalmente precedere la soddisfazione del suo appetito. Occorreva dunque tornare sui nostri passi e ricominciare daccapo il lavoro. Mi rassegnai di buon animo a tale necessità, convinto che se l’allievo non mi aveva capito la colpa era piuttosto mia che sua. Riflettendo, in effetti, sulle cause che potevano provocare questo difettoso modo di intendere i segni scritti, riconobbi di non essere partito in questi primi esempi dell’enunciazione delle idee da quella elementare semplicità da cui avevo preso le mosse nell’avviare le altre forme di educazione e che ne aveva assicurato il successo. Così, sebbene per noi la parola latte non sia che un segno semplice, poteva darsi che per Victor essa indicasse in modo confuso sia l’alimento, sia la tazza che lo conteneva, sia il desiderio di cui era oggetto.

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XIX. Parecchi altri segni con i quali l’avevo familiarizzato presentavano, quanto al loro impiego, lo stesso difetto di precisione. Una manchevolezza ancora più grave risiedeva nel nostro procedimento di enunciazione. Esso consisteva, come ho già detto, nel disporre su una stessa linea e nell’ordine conveniente alcune lettere metalliche, in modo da formare il nome di ciascun oggetto. Ma il rapporto che esisteva tra la cosa e la parola non era abbastanza immediato per essere completamente afferrato dall’allievo. Per eliminare questa difficoltà, bisognava stabilire tra ciascun oggetto e il suo segno un legame più diretto, una sorta di identità che li fissasse simultaneamente nella memoria. Occorreva inoltre che gli oggetti utilizzati per primi in questo nuovo metodo di enunciazione fossero della massima semplicità, in modo che i segni relativi non potessero in alcun modo ingenerare erronei riferimenti ad elementi accessori. Per attuare questo piano, disposi sui ripiani di una biblioteca parecchi oggetti molto semplici, come una penna, una chiave, un coltello, una scatola ecc., collocati su un foglio di carta che recava scritto il loro nome. Si trattava di nomi non nuovi per l’allievo; egli li conosceva già e aveva imparato a distinguerli l’uno dall’altro mediante il modo di lettura che ho descritto in precedenza. XX. Restava ormai soltanto da familiarizzare i suoi occhi con la costante apposizione di ciascun nome sotto l’oggetto che rappresentava. Questa disposizione fu rapidamente compresa e ne ebbi la prova quando, spostando gli oggetti e ricollocandoli in ordine diverso da quello delle etichette, vidi l’allievo rimettere accuratamente ogni oggetto sul suo nome. Variai in più modi la natura delle prove e ciò mi dette l’occasione di fare parecchie osservazioni circa il grado di impressione prodotta sul sensorio del nostro selvaggio dall’imimagine dei segni scritti. Ad esempio, una volta radunai tutti gli oggetti in un angolo della camera e tutte le etichette in un altro. Poi, mostrando successivamente a Victor ciascuna di queste ultime, l’invitai a portarmi l’oggetto corrispondente alle singole parole. Ebbene, perché egli riuscisse a portarmelo, non doveva perdere di vista per un solo istante i caratteri che servivano a designarlo. Se si allontanava al punto da non poter più leggere l’etichetta, oppure se, dopo avergliela mostrata, la ricoprivo con la ma95

no, subito l’immagine della parola sfuggiva all’allievo che, assumendo un’aria inquieta e ansiosa, afferrava a caso il primo oggetto che gli capitava sotto mano. XXI. Il risultato di questa esperienza era poco incoraggiante e mi avrebbe davvero completamente scoraggiato, se non mi fossi accorto, ripetendola frequentemente, che la durata dell’impressione diventava pian piano meno breve nel cervello del mio allievo. Ben presto gli bastò gettare un rapido sguardo sulla parola designata per recarsi, senza fretta e senza sbagliare, a prendere l’oggetto richiesto. Dopo qualche tempo, riuscii a rendere più impegnativa l’esperienza inviandolo dal mio appartamento nella sua stanza a prendermi un oggetto qualsiasi di cui gli mostravo il nome. In un primo momento la durata dell’impressione era più breve della durata del tragitto, ma Victor, con un atto di intelligenza degno di nota, cercò e trovò nell’agilità delle gambe un mezzo sicuro per rendere la durata dell’impressione più lunga del tempo necessario a coprire il percorso. Appena letta la parola, partiva come una freccia; e lo vedevo tornare un istante dopo tenendo in mano l’oggetto richiesto. Accadde tuttavia più di una volta che, strada facendo, gli sfuggisse di mente il ricordo della parola; lo udivo allora interrompere la corsa e tornare indietro verso il mio appartamento, dove giungeva con un’aria timida e confusa. A volte gli bastava gettare uno sguardo sull’intera collezione delle etichette per riconoscere quella che gli era sfuggita; altre volte l’immagine del nome si era talmente cancellata dalla sua memoria che dovevo mostrarglielo di nuovo. E questo egli esigeva prendendomi la mano e facendo scorrere il mio dito indice su tutta la serie dei nomi finché non gli indicavo quello che aveva dimenticato. XXII. Questo esercizio fu seguito da un altro che, imponendo alla memoria un lavoro ancora maggiore, contribuì più potentemente a svilupparla. Fino allora mi ero limitato a richiedere un solo oggetto alla volta. Cominciai con il richiederne dapprima due, poi tre, poi quattro, indicando altrettanti segni all’allievo il quale, avvertendo la difficoltà di ritenerli tutti, non cessava di contemplarli con attenzione avida, finché io non li sottraevo ai suoi occhi. 96

Allora, senza ulteriori esitazioni e incertezze, prendeva di corsa la strada della sua camera e mi portava tutti gli oggetti richiesti. Giunto innanzi a me, la sua prima preoccupazione era di rivolgere con un gesto vivace lo sguardo alla lista e di confrontarla con gli oggetti che portava, e che finalmente mi consegnava, ma solo dopo essersi assicurato, con questo controllo, che non c’erano errori né omissioni. Quest’ultima esperienza dette nei primi tempi risultati molto difformi, ma alla fine le difficoltà che presentava furono tutte superate. Allora l’allievo, sicuro della propria memoria, disdegnando il vantaggio che gli poteva offrire l’agilità delle gambe, si dedicava tranquillamente a questo esercizio, si fermava spesso lungo il corridoio, si affacciava alla finestra posta all’una delle estremità, salutava con acute grida lo spettacolo della campagna che si dispiegava in un magnifico panorama da quel lato della casa, riprendeva quindi a camminare verso la sua stanza, raccoglieva il suo piccolo carico, rinnovava passando per il corridoio il proprio omaggio alle bellezze sempre rimpiante della natura e infine tornava da me, assolutamente certo dell’esattezza con cui aveva assolto il compito. XXIII. Fu così che, ristabilita in tutta la latitudine delle sue funzioni, la memoria giunse a ritenere i segni del pensiero, mentre, d’altro lato, l’intelligenza ne afferrava tutto il valore. Tale almeno fu la conclusione che credetti di dover trarre dai fatti stessi, quando vidi Victor servirsi di continuo, sia nei nostri esercizi, sia spontaneamente, delle diverse parole di cui gli avevo insegnato il significato, chiederci i diversi oggetti di cui esse erano il segno, mostrando o porgendo la cosa quando gli si faceva leggere la parola, ovvero indicando la parola quando gli si porgeva la cosa. Chi potrebbe credere che questa duplice prova non fosse più che sufficiente per assicurarmi che finalmente ero giunto al punto a causa del quale ero stato costretto a tornare indietro e a fare una così lunga digressione? Ma proprio in questo periodo accadde un episodio che, per un momento, mi fece credere di esserne più lontano che mai.

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2. Conquista della nozione di categoria XXIV. Un giorno lo avevo condotto in casa mia e, mentre mi apprestavo a inviarlo, come al solito, nella sua stanza a prendervi alcuni oggetti che gli designavo sulla lista, mi venne l’idea di chiudere a chiave la porta del mio appartamento e di togliere la chiave dalla serratura senza che egli se ne accorgesse. Fatto ciò, tornai accanto a lui nel mio studio e, svolgendo la lista, gli chiesi alcuni degli oggetti ivi nominati, badando che si trattasse di oggetti reperibili anche all’interno del mio appartamento. Subito il ragazzo si avviò, ma, trovata chiusa la porta, dopo aver cercato inutilmente la chiave da ogni parte, tornò da me, mi prese la mano e mi condusse alla porta d’ingresso, come per farmi vedere che era impossibile aprirla. Io finsi di essere sorpreso e di cercare a mia volta la chiave; poi scossi con violenza la porta, come se volessi forzarla. Infine, rinunciando a questi inutili tentativi, ricondussi Victor nello studio, gli mostrai di nuovo le stesse parole e con i gesti lo invitai a guardarsi intorno per vedere se fosse possibile trovare anche lì gli oggetti richiesti. Le parole che gli avevo indicato erano: bastone, soffietto, spazzola, bicchiere, coltello. Tutti questi oggetti si trovavano nel mio studio, sparpagliati qua e là, ma sempre collocati in posizione tale da poter essere facilmente individuati. Victor li vide, ma non gli venne affatto l’idea di prenderli. Non riuscii a farglieli riconoscere neppure radunandoli sul tavolo, e inutilmente glieli chiesi uno dopo l’altro mostrandogli i rispettivi nomi. Ricorsi allora a un altro espediente. Con le forbici ritagliai dalla lista i nomi degli oggetti, riducendoli a semplici etichette che consegnai al ragazzo; poi, riportandolo così a quelli che erano stati i primi passi di tale procedimento, lo invitai a collocare sui singoli oggetti il nome che serviva a designarli. Fu tutto inutile, ed io ebbi l’indicibile dispiacere di vedere che l’allievo non riconosceva nessuno di quegli oggetti, o meglio non riconosceva il rapporto che li collegava ai rispettivi segni e, con un’espressione di stupore che è impossibile descrivere, gettava sguardi inespressivi su tutti quei caratteri ridivenuti per lui privi di significato. Fui sul punto di avere una crisi di malumore e di scoraggiamento. Andai a sedermi all’estremità della stanza e intanto pensavo con amarezza a questo essere sfortunato, che la bizzarria della sorte 98

avrebbe ridotto alla triste alternativa di essere relegato, come un vero idiota, in qualcuno dei nostri ospizi, oppure di conquistarsi con sacrifici indicibili un po’ d’istruzione pur sempre inutile alla sua felicità. «Sventurato», gli dissi, rivolgendomi a lui come se avesse potuto capirmi e provando davvero una stretta al cuore, «poiché le mie fatiche sono sciupate e i tuoi sforzi inutili, riprendi la strada delle foreste e il gusto della vita primitiva; oppure, se i tuoi nuovi bisogni ti costringono a dipendere dalla società, espia la disgrazia di esserle inutile andando a morire di miseria e di malinconia tra le mura di Bicétre». Se non avessi conosciuto i limiti dell’intelligenza del mio allievo, avrei potuto credere che mi avesse pienamente compreso; perché, appena ebbi finito di pronunciare queste parole, il suo petto fu sollevato da un fremito, come gli suole accadere nei momenti di più accorato dolore, i suoi occhi si chiusero e attraverso le palpebre corse giù un torrente di lacrime. XXV. Avevo spesso notato che queste forti emozioni, quando giungevano fino alle lacrime, generavano una sorta di crisi salutare, che sviluppava rapidamente l’intelligenza e la metteva in grado di superare subito dopo una difficoltà che pochi momenti prima era apparsa insormontabile. Avevo anche osservato che, se nel momento culminante di questa emozione, abbandonavo di colpo il tono dal rimprovero passando alla dolcezza, alle parole di amicizia e di incoraggiamento, ottenevo un accrescimento della tensione emotiva che raddoppiava il benefico effetto previsto. L’occasione era favorevole e mi affrettai a profittarne. Mi avvicinai a Victor, gli dissi parole affettuose, che pronunciai in modi adatti a fargliene intuire il senso e le accompagnai ad altri segni di affetto ancora più intelligibili. Il suo pianto divenne ancora più dirotto, accompagnato da singhiozzi e sospiri, mentre io, raddoppiando a mia volta le carezze, portavo l’emozione al grado più alto e facevo fremere, se così posso dire, fino all’ultima fibra sensibile dell’uomo morale. Quando questa eccitazione fu interamente placata, ricollocai gli stessi oggetti sotto gli occhi di Victor e lo invitai a designarli l’uno dopo l’altro, man mano che gli mostravo i rispettivi nomi. Cominciai con il chiedergli il libro: egli lo guardò dapprima lungamente, fece un movimento come per prenderlo e intanto cercava di cogliere nei miei 99

occhi un segno di consenso o di disapprovazione per uscire dalla sua incertezza. Ma io mi guardai bene dal porgergli aiuto e la mia fisionomia restò impassibile. Costretto a fare uso del proprio giudizio, il ragazzo giunse alla conclusione che non fosse quello l’oggetto richiesto e i suoi occhi cominciarono ad esplorare la stanza da tutte le parti, soffermandosi tuttavia unicamente sui libri che stavano disseminati sul tavolo e sulla mensola del caminetto. Questa specie di rassegna fu per me un raggio di luce. Andai subito ad aprire un armadio pieno di libri e ne trassi fuori una dozzina, badando a che tra gli altri ve ne fosse uno assolutamente simile a quello che Victor aveva lasciato nella sua stanza: vederlo, afferrarlo con un brusco movimento della mano e porgerlo a me con aria radiosa fu per Victor questione di un attimo. XXVI. A questo punto posi termine alla prova: il risultato bastava a restituirmi quelle speranze che avevo con troppa leggerezza abbandonato e a illuminarmi sulla natura delle difficoltà da cui era nata quella esperienza. Era infatti evidente che il mio allievo non si era fatto davvero un’idea sbagliata del valore dei segni, ma soltanto lo applicava in modo troppo rigoroso. Aveva preso alla lettera le mie lezioni ed essendomi io limitato a dargli la nomenclatura degli oggetti esistenti nella sua stanza, si era persuaso che quegli oggetti fossero i soli a cui si applicassero i nomi imparati. Perciò, ogni libro che non fosse proprio quello conservato nella sua stanza non era un libro per Victor; e perché potesse decidersi a dargli lo stesso nome, occorreva che una rassomiglianza perfetta stabilisse tra l’uno e l’altro una visibile identità. E così veniva a trovarsi, per quanto concerne l’impiego delle parole, in una condizione opposta a quella dei fanciulli i quali, quando cominciano a parlare, danno ai nomi propri il valore di nomi comuni. Quale poteva essere la causa di questa strana differenza? Essa era dovuta, se non m’inganno, a una straordinaria sagacia di osservazione visiva, risultato necessario della speciale educazione consacrata al senso della vista. Avevo talmente esercitato questo organo ad afferrare, mediante confronti analitici, le qualità apparenti dei corpi e le loro differenze di dimensione, di colore, di forma, che anche tra due corpi sostanzialmente identici esistevano sempre, per occhi così esercitati, alcuni aspetti dissimili 100

che inducevano il ragazzo a postulare tra essi una differenza essenziale. Una volta determinata l’origine dell’errore, diventava facile porvi rimedio: si trattava di stabilire l’identità degli oggetti mostrando all’allievo l’identità dei loro usi o delle loro proprietà; si trattava di fargli capire quali qualità comuni giustificassero l’attribuzione del medesimo nome a cose in apparenza diverse; in una parola, si trattava di insegnargli a considerare gli oggetti non più sotto il profilo delle loro differenze, bensì in base alle caratteristiche comuni. XXVII. Questo nuovo studio fu una specie di introduzione all’arte degli accostamenti. L’allievo vi si dedicò da principio con così scarsa cautela che rischiò di smarrirsi di nuovo, associando la stessa idea e attribuendo lo stesso nome ad oggetti che non avevano tra loro altro rapporto che l’analogia delle forme o degli usi. Così sotto il nome di libro designò indistintamente un quinterno di fogli, un quaderno, un registro, un opuscolo; ed ogni pezzo di legno stretto e lungo fu chiamato bastone; e a volte la spazzola passava per scopa, a volte la scopa per spazzola. Se non avessi represso la tendenza a questi accostamenti abusivi, Victor avrebbe finito con il limitarsi all’uso di un esiguo numero di segni e con l’applicarli indistintamente a una folla d’oggetti del tutto diversi, non aventi in comune che qualcuna delle qualità o proprietà generali dei corpi.

3. Sviluppo delle facoltà inventive XXVIII. In mezzo a questi equivoci, o piuttosto a queste oscillazioni di un’intelligenza che tendeva ostinatamente al riposo e altrettanto ostinatamente veniva sollecitata con mezzi artificiali, vidi svilupparsi una di quelle facoltà che sono caratteristiche dell’uomo, e dell’uomo pensante: la facoltà di inventare. Considerando le cose sotto il profilo della loro analogia o delle loro qualità comuni, Victor giunse alla conclusione che, come esistevano tra i diversi oggetti somiglianze di forma, così doveva esistere, in determinate circostanze, identità di uso e di funzioni. Senza dubbio le conseguenze che egli ne traeva erano un po’ azzardate, ma davano luogo a giudi101

zi che, anche quando erano palesemente erronei, diventavano per lui altrettante nuove occasioni di istruirsi. Mi ricordo che un giorno gli chiesi per iscritto un coltello e Victor, dopo averne cercato uno per un po’ di tempo, si contentò di porgermi un rasoio che andò a prendere nella stanza accanto. Mi finsi soddisfatto e, finita la lezione, gli offrii come al solito una merenda e volli che tagliasse il pane anziché spezzarlo con le dita, come sempre faceva. A tale scopo gli porsi il rasoio che egli mi aveva consegnato sotto il nome di coltello. Egli si mostrò coerente e cercò di usarlo appunto come tale, ma la scarsa fissità della lama glielo impedì. Allora, per completare la lezione, me lo feci dare e lo adoperai in sua presenza per quello che è il suo autentico uso. Dopo di ciò, questo strumento non era più e non doveva più essere ai suoi occhi un coltello. Ripreso il quaderno, gli mostrai la parola coltello e l’allievo mi mostrò a sua volta il coltello che teneva in mano e che gli avevo dato subito dopo i vani tentativi di servirsi del rasoio. Perché il risultato fosse pienamente acquisito, occorreva fare una controprova: mettendo il quaderno tra le mani dell’allievo e toccando io il rasoio, egli non doveva indicarmi alcuna parola, dal momento che ancora ignorava quella corrispondente a tale strumento. E fu esattamente quello che accadde. XXIX. Altre volte le sostituzioni che gli venivano in mente presupponevano accostamenti analogici molto più bizzarri. Un giorno pranzavamo in città e verso la fine del pasto, quando non c’erano più sul tavolo altri piatti, manifestai il desiderio di assaggiare un po’ delle lenticchie che gli avevano servito. Allora gli venne in mente di prendere sulla mensola del camino un piccolo disegno sotto vetro, di forma circolare e contornato da una cornice a bordo rilevato che lo faceva rassomigliare non poco ad un piatto. XXX. Ma molto spesso i suoi espedienti erano più felici, più appropriati e meritavano a più giusto titolo il nome d’invenzione. Non ho alcun dubbio che tale titolo spetti all’ingegnoso modo che un giorno trovò per munirsi di un porta-gesso. Solo una volta, nel mio studio, gli avevo fatto usare questo strumento per fissare il residuo di un cannello di gesso che non riusciva più a tenere con la punta 102

delle dita. Pochi giorni dopo, si ripresentò la stessa difficoltà, ma Victor si trovava nella sua stanza e non aveva a portata di mano il porta-gesso. Sfido l’uomo più ingegnoso e inventivo a dire, o meglio ancora a fare, ciò che il mio allievo fece per procurarsene uno. Egli prese un utensile da rosticciere, di quelli adoperati nelle cucine di lusso ma del tutto inutile in quella di un povero selvaggio e che, per questa ragione, giaceva dimenticato e corroso dalla ruggine in fondo a un armadietto: si trattava insomma di un lardatoio. Questo fu dunque lo strumento che scovò per sostituire quello che gli mancava e, grazie a un secondo atto di invenzione, frutto di un’immaginazione autenticamente creativa, riuscì a trasformarlo in un vero porta-gesso, utilizzando qualche giro di spago in luogo degli anelli scorrevoli. Mi si perdoni l’importanza che attribuisco a questo fatto. Bisogna aver provato tutte le angosce di un lavoro educativo così penoso, bisogna aver seguito e orientato questo essere umano vivente alla stregua di un vegetale nei suoi faticosi progressi, dal primo atto dell’attenzione fino a questa prima scintilla dell’immaginazione, per farsi un’idea della gioia che provai e perdonarmi se, a distanza di tempo, do tanto rilievo a un fatto in sé e per sé così semplice e ordinario. Ciò che accresceva l’importanza di questo risultato, da considerarsi come testimonianza dei progressi attuali e garanzia di quelli futuri, è che non si trattava di un episodio isolato, e che potesse quindi essere giudicato accidentale, ma si inquadrava in una folla di altre trovate, sia pure più comuni, ma che, intervenute nel medesimo periodo di tempo e senza dubbio promanando dalla stessa fonte, si presentavano agli occhi di un attento osservatore come manifestazioni diverse di un impulso generale. È in effetti degno di nota che, a partire da questo momento, scomparvero spontaneamente tante abitudini meccanicamente ripetitive che l’allievo aveva contratto e costituenti il suo modo usuale di dedicarsi alle piccole occupazioni che gli erano prescritte. Pure astenendosi rigorosamente dall’effettuare accostamenti inammissibili e dal trarre conclusioni ingiustificate, è lecito quanto meno supporre che, grazie alla nuova maniera di guardare alle cose, da cui nasceva l’idea di adoperarle per nuovi impieghi, l’allievo fosse necessariamente portato ad uscire dal cerchio di quelle sue abitudini in certo modo automatiche. 103

XXXI. Ben convinto, finalmente, di aver fissato in modo definitivo nella mente di Victor il rapporto tra gli oggetti e i segni corrispondenti, non mi restava che da accrescerne gradualmente il numero. Chi abbia ben seguito il procedimento con cui ero giunto a stabilire il valore dei primi segni, capirà altresì che tale procedimento poteva applicarsi solo ad oggetti ben definiti e di modesto volume, essendo impossibile designare con lo stesso metodo dell’etichetta un letto, una stanza, un albero, una persona e, nel medesimo tempo, le parti costitutive e inseparabili di un tutto. Eppure non ebbi alcuna difficoltà a fargli comprendere il senso di queste nuove parole, benché non potessi connetterle materialmente agli oggetti che rappresentavano, come nelle precedenti esperienze. Per farmi capire, bastava che mostrassi con un dito la nuova parola e con l’altra mano l’oggetto a cui si riferiva. Mi ci volle un certo sforzo per fargli intendere la nomenclatura delle parti che entrano nella composizione di tutto. Così, per molto tempo le parole dita, mani, avambracci non riuscirono a possedere per l’allievo un senso ben distinto. Tale confusione nell’attribuzione dei segni derivava evidentemente dal fatto che l’allievo non aveva ancora capito che le parti di un corpo, considerate separatamente, vengono a costituire a loro volta degli oggetti distinti, dotati di un loro nome particolare. Per fargli afferrare questa nozione, presi un libro rilegato, ne strappai la copertina e ne distaccai parecchie pagine. Man mano che consegnavo a Victor ciascuna di queste parti separate, ne scrivevo il nome sulla lavagna; poi, riprendendo dalle sue mani tali singole parti, esigevo a mia volta che me ne indicasse i nomi. Quando questi furono ben scolpiti nella sua memoria, ricollocai al loro posto le parti separate e, richiesto di dirmi il nome, egli le designò con lo stesso nome di prima. Poi, senza presentargliene alcuna in particolare, ma mostrandogli l’intero libro, gliene chiesi il nome: egli, con il dito, mi indicò la parola libro. XXXII. Era quanto bastava per rendergli familiare la nomenclatura delle diverse parti dei corpi composti; e affinché, nelle spiegazioni che gli davo in proposito, non confondesse i nomi specifici delle parti con quello generale dell’oggetto, avevo cura, nel mostrargli le prime, di toccarle immediatamente ciascuna con la mano, 104

mentre per l’attribuzione del nome generico mi accontentavo di indicare complessivamente la cosa da una certa distanza, senza toccarla.

4. Dai nomi di cosa agli aggettivi e ai verbi XXXIII. Da questo stadio passai a quello delle qualità dei corpi. Entravo così nel campo delle astrazioni e vi entravo con il timore di non potervi realmente penetrare e di trovarmi ben presto bloccato da difficoltà insuperabili. Invece non ve ne fu alcuna; e la mia prima dimostrazione fu compresa immediatamente, sebbene riguardasse una delle qualità più astratte dei corpi, quella dell’estensione. Presi due libri, rilegati allo stesso modo, ma di formato diverso: l’uno era in 18°, l’altro in 8°. Toccai il primo e Victor, aperto il suo quaderno, designò con il dito la parola libro. Toccai il secondo e l’allievo indicò nuovamente la stessa parola. Ripetei più volte la prova e sempre con lo stesso risultato. Presi allora il libro più piccolo e porgendolo a Victor gli feci poggiare il palmo della mano sulla copertina: questa risultò coperta quasi per intero. Ripetetti l’esperimento col volume in 8° e la sua mano ne copriva a malapena la metà. Perché non potesse ingannarsi sulla mia intenzione, gli mostrai la parte che restava scoperta e lo invitai a portare le dita su di essa; egli poté farlo solo a patto di scoprire una porzione pari a quella che andava ricoprendo. Dopo questa esperienza, che dimostrava al mio allievo in modo letteralmente palpabile la differenza di estensione tra questi due oggetti, ne chiesi nuovamente il nome. Victor esitò: intuiva che lo stesso nome non poteva più applicarsi indistintamente a due cose che aveva constatato essere così ineguali. Ed era questo il punto a cui volevo portarlo. Scrissi allora su due biglietti di carta la parola libro e li deposi rispettivamente sull’uno e sull’altro libro. Scrissi quindi su un terzo biglietto la parola grande, e su di un quarto la parola piccolo; quindi li deposi accanto ai primi due, l’uno sui volume in 8°, l’altro sul volume in 18°. Dopo aver fatto debitamente rilevare a Victor questa disposizione, ripresi le etichette, le rimescolai per un po’ di tempo e quindi gli chiesi di rimetterle al loro posto. Egli eseguì la cosa correttamente. 105

XXXIV. Mi aveva veramente capito? Aveva davvero afferrato il senso delle parole grande e piccolo? Per averne la prova definitiva e la certezza assoluta, mi regolai così. Mi feci portare due chiodi di diversa lunghezza e glieli feci confrontare pressappoco come avevo fatto con i due libri. Poi scrissi su due cartellini la parola chiodo e glieli porsi senza aggiungervi i due aggettivi grande e piccolo, sperando, se la mia lezione precedente era stata ben compresa, che avrebbe applicato ai chiodi gli stessi segni di grandezza relativa utilizzati per stabilire la differenza di dimensone tra i due libri. E questo appunto egli fece con una prontezza che rese ancor più significativa la prova. Con questo metodo riuscii a dargli l’idea delle qualità relative all’estensione. E il medesimo metodo impiegai con pari successo per rendergli intelligibili i segni che rappresentano le altre qualità dei corpi, come quelle concernenti il colore, la pesantezza, la resistenza, ecc. XXXV. Dopo la spiegazione dell’aggettivo venne quella del verbo. Per farlo capire all’allievo, mi bastò far subire a un oggetto di cui conosceva il nome un certo numero di azioni che designavo man mano con l’infinito del verbo corrispondente. Ad esempio, prendevo una chiave, ne scrivevo il nome su una lavagnetta, poi toccandola, gettandola a terra, raccogliendola, portandola alle labbra, rimettendola a posto, ecc., scrivevo simultaneamente, su una colonna accanto al nome chiave, i verbi toccare, gettare, raccogliere, baciare, rimettere, ecc. Successivamente, alla parola chiave sostituivo il nome di altri oggetti che sottoponevo alle stesse operazioni, e nel frattempo indicavo con il dito i verbi già scritti. Accadeva così abbastanza spesso che, sostituendo a caso una cosa con un’altra per farne l’oggetto dei medesimi verbi, tra la natura della cosa stessa e il verbo a cui veniva collegata vi fosse una tale incompatibilità da rendere l’azione enunciata bizzarra o impossibile. L’imbarazzo che ciò provocava nell’allievo tornava quasi sempre a suo vantaggio ed era per me motivo di soddisfazione, in quanto offriva a lui l’occasione di esercitare la propria capacità di discernimento e a me quella di raccogliere ulteriori prove della sua intelligenza. Per esempio un giorno, in seguito a successivi cambiamenti dell’oggetto dei verbi, mi trovai 106

ad effettuare queste strane associazioni di parole: strappare pietra, tagliare tazza, mangiare scopa. Egli si trasse d’impiccio ottimamente, mutando le due azioni indicate dai primi due verbi con altre meno incompatibili con la natura del loro oggetto. Perciò prese un martello per spezzare la pietra e lasciò cadere la tazza per infrangerla. Giunto al terzo verbo e non potendo trovarne un altro adatto all’oggetto, decise di mutare l’oggetto e, preso un pezzetto di pane, lo mangiò.

5. Avviamento alla scrittura XXXVI. Ridotti a trascinarci faticosamente e con interminabili digressioni nello studio di queste difficoltà grammaticali, facevamo procedere parallelamente, come un mezzo sussidiario di istruzione e indispensabile diversivo, l’esercizio della scrittura. L’avvio di questo lavoro presentò difficoltà innumerevoli, che del resto mi aspettavo. La scrittura è un esercizio di imitazione e questa attitudine non era ancora nata nel nostro selvaggio. Così, quando gli consegnai per la prima volta un pezzo di gesso, opportunamente disposto tra le punte delle dita, non potei ottenere dall’allievo nessuna linea, nessun segno che rivelasse in lui l’intenzione di imitare ciò che vedeva fare a me. Anche in questo caso occorreva retrocedere ai primissimi passi e strappare le facoltà imitative alla loro inerzia sottomettendole, come tutte le altre, a un’educazione graduale. Attuai questo piano esercitando Victor in atti di imitazione elementare, come sollevare le braccia, portare in avanti un piede, sedersi, alzarsi insieme con me, poi aprire una mano, chiuderla, e ripetere con le dita una quantità di movimenti, dapprima semplici, poi variamente combinati, che io eseguivo dinanzi a lui. Successivamente gli feci impugnare, e impugnai a mia volta, una lunga bacchetta appuntita, da tenere in mano come una penna da scrivere, con la duplice intenzione di dare più forza e controllo alle sue dita, per la difficoltà di mantenere in equilibrio quel simulacro di penna, e di rendergli visibile e per conseguenza più facilmente imitabile ogni minimo movimento della bacchetta.

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XXXVII. Preparati da questi esercizi preliminari, ci mettemmo alla lavagna, ciascuno impugnando il suo pezzo di gesso. Collocate le nostre mani alla stessa altezza, cominciai a discendere pian piano e verticalmente verso la base della lavagna. L’allievo fece altrettanto, seguendo la medesima direzione e dividendo la propria attenzione tra la sua linea e la mia, come se avesse voluto confrontarne successivamente tutti i punti. Il risultato del nostro lavoro furono due linee esattamente parallele. Le lezioni seguenti non fecero che sviluppare questo procedimento: è perciò superfluo parlarne. Mi limiterò a dire che in capo a qualche mese Victor fu in grado di copiare le parole di cui conosceva già il valore, poco dopo di riprodurle a memoria, e infine di servirsi della sua scrittura, sia pure grossolana, e rimasta poi sempre tale, per esprimere i suoi bisogni, sollecitare i mezzi per soddisfarli, e comprendere altresì l’espressione dei bisogni o della volontà altrui. XXXVIII. Considerando le mie esperienze come un vero corso di lezioni di imitazione, credetti di non doverle limitare ad atti di mera riproduzione manuale. Introdussi perciò nel nostro lavoro procedimenti che non avevano alcun rapporto con il meccanismo della scrittura, ma che erano di gran lunga più atti ad esercitare l’intelligenza. Ecco un esempio: tracciavo sulla lavagna due cerchi pressappoco eguali, l’uno di fronte a me, l’altro di fronte a Victor. Su sei od otto punti della circonferenza tracciavo altrettante lettere alfabetiche, le medesime nei due cerchi, ma diversamente distribuite. Conducevo quindi all’interno di uno dei cerchi più rette che giungevano alle lettere poste sulla circonferenza: Victor doveva ripetere queste operazioni sul suo cerchio. Ma a causa della diversa distribuzione delle lettere, accadeva che anche la più rigorosa imitazione desse luogo a una figura del tutto diversa da quella che gli offrivo come modello. Di qui si generava l’idea di una imitazione di genere assai particolare, in cui si trattava, non già di copiare servilmente una forma data, ma di riprodurne lo spirito e le modalità, senza lasciarsi imbarazzare dalla diversità del risultato. Questa non era più meccanica ripetizione di ciò che l’allievo vedeva fare, quale si sarebbe potuto ottenerla anche da taluni animali imitatori, bensì 108

imitazione intelligente e ragionata, variabile nei procedimenti e nelle applicazioni, quale insomma ci si aspetta a buon diritto dall’uomo dotato del libero uso di tutte le sue facoltà mentali.

6. Tentativi di educazione al linguaggio parlato XXXIX. Tra tutti i fenomeni che si presentano all’osservatore nei primi tempi dello sviluppo del bambino, il più stupefacente è forse la facilità con cui apprende a parlare; e quando si pensa che la parola, che è senza possibilità di smentita l’atto più mirabile dell’imitazione, ne costituisce anche il primo risultato, si raddoppia la nostra ammirazione per quella suprema intelligenza di cui l’uomo è il capolavoro e che, volendo fare della parola il principale strumento e stimolo dell’educazione, dovette non assoggettare l’imitazione allo sviluppo progressivo delle altre facoltà e renderla invece attiva e feconda fin dall’inizio. Ma questa facoltà imitativa, la cui influenza si ripercuote su tutta la vita, varia nelle sue applicazioni a seconda delle diverse età, ed è utilizzabile per l’apprendimento della parola solo nella più tenera infanzia. Più tardi presiede ad altre funzioni e abbandona, per così dire, lo strumento vocale. Tant’è vero che un bambino piccolo, o anche un adolescente, che abbandoni il proprio paese, ne perde rapidamente i modi di fare, il costume, il linguaggio, ma non perde mai quelle intonazioni di voce costituenti ciò che si chiama accento. Da questa verità fisiologica è facile intuire come, nel ridestare la capacità di imitazione nel nostro giovane selvaggio, giunto ormai all’adolescenza, dovessi aspettarmi di non trovare nell’organo della voce nessuna disposizione a trarre profitto da questo progresso delle facoltà imitative, anche nell’ipotesi che non avessi incontrato un secondo ostacolo nell’ostinato torpore del senso dell’udito. Sotto quest’ultimo aspetto, Victor poteva essere considerato alla stregua di un sordomuto, sebbene di gran lunga inferiore anche a questa categoria di minorati, che in compenso posseggono un elevato spirito di osservazione e di imitazione. XL. Ritenni tuttavia di non dovermi accontentare di questi risultati e di non dover rinunciare alla speranza di farlo parlare e a tutti 109

i vantaggi che da ciò mi ripromettevo, se non dopo aver tentato, per riuscirvi, l’estremo espediente che mi restava: condurlo all’uso della parola non più mediante il senso dell’udito, dal momento che risultava ostinatamente indocile, bensì mediante quello della vista. Si trattava dunque, nel compiere quest’ultimo tentativo, di esercitare gli occhi a cogliere il meccanismo dell’articolazione dei suoni, e la voce a ripeterli, stimolando una felice collaborazione di tutte le forze congiunte dell’attenzione e dell’imitazione. Per più di un anno tutti i miei sforzi, tutti i nostri esercizi mirarono a questo scopo. Per seguire anche in questo tirocinio il metodo della minuziosa gradualità, feci precedere lo studio dell’articolazione visibile dei suoni dall’imitazione, relativamente più facile, dei movimenti dei muscoli del volto, cominciando da quelli che erano di maggiore evidenza. Ed ecco maestro ed allievo che, l’uno di fronte all’altro, fanno smorfie a tutto spiano, imprimendo ai muscoli degli occhi, della fronte, della bocca, della mascella, movimenti di ogni genere; e poi concentrano a poco a poco le esperienze sui muscoli delle labbra e, dopo avere lungamente insistito sullo studio dei movimenti di questa parte carnosa dell’organo della parola, sottomettono infine la lingua agli stessi esercizi, ma molto più variati e più a lungo protratti. XLI. Avendolo preparato in questa maniera, mi sembrava che l’organo della parola dovesse prestarsi senza difficoltà all’imitazione dei suoni articolati e consideravo pertanto questo risultato come imminente e sicuro. Ma le mie speranze andarono completamente deluse, e tutto ciò che potetti ricavare da questo lungo lavoro preparatorio fu soltanto l’emissione di alcuni informi monosillabi, ora acuti, ora gravi, e per di più molto meno nettamente pronunciati di quelli che avevo ottenuto nei miei primi tentativi. Tenni duro, tuttavia, e lottai ancora per molto tempo contro l’ostinazione dell’organo, finché, vedendo che la continuità delle cure e il passare del tempo non portavano alcun cambiamento, mi rassegnai a porre termine ai miei ultimi tentativi di farlo giungere alla parola e abbandonai l’allievo a un mutismo incurabile.

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4. Sviluppo delle facoltà affettive

1. Dall’isolamento alla vita di relazione XLII. Avete visto, Eccellenza, come il processo di incivilimento, resuscitando dal loro profondo torpore le facoltà intellettuali del nostro selvaggio, ne abbia dapprima determinato l’applicazione agli oggetti dei suoi bisogni ed abbia successivamente esteso la sfera delle sue idee oltre i limiti della sua esistenza animale. Vostra Eccellenza vedrà ora, seguendo lo stesso ordine di sviluppo, come le facoltà affettive, destate all’inizio dal senso dei bisogni connessi all’istinto di conservazione, abbiano in seguito fatto nascere sentimenti meno interessati, slanci dell’animo più espansivi e alcuni di quei sentimenti generosi che sono il vanto e la felicità del cuore umano. XLIII. Al momento del suo ingresso in società, Victor, insensibile a tutte le cure che all’inizio gli venivano prestate, e confondendo le sollecitudini della curiosità con le premure della benevolenza, per lungo tempo non manifestò alcuna attenzione per la persona che lo assisteva. Accostandosi a lei quando era costretto dal bisogno e allontanandosene appena il bisogno fosse soddisfatto, non vedeva in lei nient’altro che la mano che lo nutriva, e in quella mano soltanto ciò che conteneva. Così, per quanto riguardava la sua vita morale, Victor era come un bambino nei primi giorni di vita, che passa dal seno della madre a quello della balia, e da un balia all’altra, senza trovarvi altra differenza che la quantità o la qualità del liquido che gli serve da alimento. E fu appunto con siffatta indifferenza che il nostro selvaggio, quando uscì dalle sue foreste, vide cambia111

re a più riprese le persone assegnate alla sua custodia. Tant’è vero che, dopo essere stato accolto, curato e condotto a Parigi da un povero contadino dell’Aveyron che gli prodigò tutte le manifestazioni di una tenerezza paterna, il ragazzo non provò alcun dolore e alcun rimpianto nel vedersi separare da lui. XLIV. Esposto durante i primi tre mesi di permanenza all’Istituto alla molesta curiosità dei fannulloni della capitale e di coloro che, sotto lo specioso titolo di osservatori, lo importunavano in egual misura; uso a vagare per i corridoi e nel giardino della casa nei giorni più freddi dell’anno, a marcire nella più disgustosa sporcizia, a provare spesso lo stimolo della fame, egli si vide improvvisamente vezzeggiato e accarezzato da una sorvegliante piena di dolcezza, di bontà e di intelligenza, ma non parve che questo mutamento risvegliasse nel suo cuore un sia pur debole sentimento di riconoscenza. Ma a pensarci bene, tale atteggiamento non ha nulla di strano. Che effetto potevano avere le maniere più carezzevoli, le cure più affettuose, su di un essere così impassibile? E che importava a lui di essere ben vestito, ben riscaldato, in un buon alloggio, con un morbido letto, a lui che, avvezzo a sopportare le intemperie delle stagioni, insensibile ai vantaggi della vita sociale, non conosceva altro bene che la libertà e vedeva soltanto una prigione nella più comoda delle case? Per suscitare la riconoscenza, ci volevano cortesie d’altro genere, atte ad essere apprezzate da quello straordinario ragazzo a cui erano rivolte; bisognava cioè venire incontro alle sue inclinazioni, renderlo felice alla sua maniera. Io decisi di attenermi fedelmente a questa idea, ravvisandovi l’indicazione principale del trattamento morale1 da praticare al ragazzo. E ho già riferito sui primi favorevoli risultati che ne conseguirono. Nel mio primo rapporto ho narrato come riuscissi a fargli amare la governante e a rendergli sopportabile la vita sociale. Ma quel legame affettivo, per quanto vivo apparisse, poteva essere ancora considerato come il frutto di un calcolo egoistico. Ebbi motivo di sospettarlo, quando mi accorsi che Victor, dopo parecchie ore o addirittura alcuni giorni di assenza, rivedeva la sua governante con 1

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Si intenda: terapia psicologica (N.d.T.).

dimostrazioni di amicizia proporzionate non tanto alla durata della separazione quanto ai concreti vantaggi che il di lei ritorno gli procurava e alle privazioni che nel frattempo aveva subito. Non meno interessato nelle sue manifestazioni di gentilezza, egli le utilizzò in un primo tempo per esternare i propri desideri più che per attestare la propria riconoscenza, e a chi lo avesse attentamente osservato al termine di un’abbondante refezione, Victor offriva l’affliggente spettacolo di un essere che non ha alcun interesse per tutto ciò che lo circonda non appena i suoi desideri siano stati soddisfatti. Tuttavia, poiché la crescente complessità dei suoi bisogni rendeva sempre più numerosi i suoi rapporti con noi e le nostre cure verso di lui, il suo cuore indurito si dischiuse finalmente a sentimenti non equivoci di riconoscenza e di amicizia. Tra gli episodi numerosi che posso citare come prova di questo positivo cambiamento, mi limiterò a riferire i due seguenti.

2. Sentimenti di dolore e di gioia XLV. L’ultima volta che trascinato da vecchie reminiscenze e dalla sua passione per la libertà dei campi si dette alla fuga evadendo dalla casa di cura, il nostro selvaggio si diresse dalle parti di Senlis e si addentrò nella foresta, donde però non tardò ad uscire, sospinto senza dubbio dalla fame e dall’impossibilità di bastare ormai a se stesso. Avvicinatosi alle campagne circostanti, cadde nelle mani dei gendarmi che l’arrestarono come vagabondo e lo trattennero come tale per quindici giorni. Riconosciuto finalmente e ricondotto a Parigi, fu rinchiuso nel Tempio, dove madame Guérin, la sorvegliante, si presentò per farselo restituire. Una folla di curiosi si era radunata per assistere a questo incontro che fu davvero commovente. Appena Victor ebbe scorto la governante, impallidì e per un momento perse la conoscenza. Ma sentendosi baciare e accarezzare da madame Guérin, si rianimò prontamente e manifestò la sua gioia con acute grida, chiudendo convulsamente a pugno le mani, mostrando un volto rasserenato e radioso, così che agli occhi dei presenti non apparve davvero come un fuggiasco costretto a tornare sotto la sorveglianza del suo custode, ma piuttosto un figlio af113

fettuoso che di sua spontanea volontà venisse a gettarsi nelle braccia della propria madre. XLVI. Non minore sensibilità dimostrò, dopo questa fuga, nel rivedere me. Ciò accadde la mattina successiva all’episodio ora narrato. Victor stava ancora a letto. Appena mi vide comparire, si alzò a sedere protendendo verso di me la testa e le braccia. Ma vedendo che io non mi avvicinavo e che invece me ne restavo in piedi, immobile di fronte a lui, con un contegno freddo e un’espressione di scontentezza, si lasciò ricadere nel letto, si avvoltolò nelle coperte e si mise a piangere. Intensificai la sua emozione con i rimproveri, pronunciati in tono alto e minaccioso; il pianto raddoppiò, accompagnato da lunghi e profondi singhiozzi. Quando ebbi portato al grado estremo l’eccitazione delle facoltà affettive, andai a sedermi sul letto del povero ragazzo pentito. Quello soleva essere il segnale del perdono. Victor mi capì, fece lui il primo gesto per la riconciliazione e tutto fu dimenticato. XLVII. Pressappoco nella stessa epoca il marito di madame Guérin cadde malato e venne ricoverato fuori della casa, senza che Victor ne sapesse niente. Poiché il ragazzo, tra gli altri piccoli incarichi domestici, aveva quello di apparecchiare la tavola all’ora di pranzo, continuò a mettervi il coperto del signor Guérin e sebbene ogni giorno venisse tolto, tornava a mettercelo il giorno dopo. La malattia ebbe un esito sfortunato: il signor Guérin morì. Proprio nel giorno della sua morte, il ragazzo insistette a mettere in tavola il suo coperto. Si può intuire quale effetto dovesse produrre su madame Guérin una premura così straziante per lei. Testimone di questa scena di dolore, Victor comprese di esserne la causa; e allora, o che si limitasse a pensare di avere agito male, o che penetrando a fondo il motivo della disperazione della governante avvertisse l’inutilità e l’inopportunità del proprio zelo, tolse di sua iniziativa il coperto, lo ripose tristemente nell’armadio e non lo riprese mai più. XLVIII. Questa è mestizia, un sentimento che appartiene interamente alla sfera dell’uomo civilizzato. Ma un altro sentimento, che allo stesso titolo vi figura, è il profondo dispiacere che prova il mio 114

giovane allievo ogni volta che, durante le nostre lezioni, dopo avere invano lottato con tutte le forze della sua attenzione contro qualche nuova difficoltà, si vede nell’impossibilità di superarla. In quei momenti, pervaso dal sentimento della propria impotenza e forse anche rammaricandosi dell’inutilità dei miei sforzi, l’ho visto bagnare di lacrime quei caratteri per lui incomprensibili, senza che rimproveri, minacce o castighi da parte mia avessero provocato quel pianto. XLIX. L’incivilimento, moltiplicando in lui i sentimenti tristi, ha dovuto necessariamente accrescere anche le sue gioie. Non parlerò neppure di quelle che nascono dalla soddisfazione dei suoi nuovi bisogni. Per quanto abbiano potentemente contribuito allo sviluppo delle facoltà affettive, esse sono, se così posso dire, a tal punto animali da non potersi accettare come prove dirette della sensibilità del cuore. Citerò invece come tali lo zelo che dimostra e il piacere che prova nell’usar cortesia alle persone cui si sente affezionato, e nel prevenire anzi i loro desideri, mediante i vari piccoli servigi che è in grado di rendere. Questo atteggiamento è ben manifesto, soprattutto nei suoi rapporti con madame Guérin. Indicherò ancora, come sentimento di un’anima ingentilita dalla civiltà, la soddisfazione che si dipinge sul suo volto, e che talora esplode in grandi scoppi di riso, quando, ostacolato nelle nostre lezioni da qualche difficoltà, riesce finalmente a superarla con le proprie forze, o quando, rallegrandomi dei suoi sia pur lievi progressi, gli manifesto la mia soddisfazione con elogi e incoraggiamenti. E non è soltanto nell’esecuzione di questi esercizi che egli si mostra sensibile al piacere di far bene le cose, ma anche nei più modesti lavoretti domestici di cui è incaricato, soprattutto se sono tali da esigere un notevole dispendio di forza muscolare. Quando, ad esempio, gli si affida il compito di segare la legna, man mano che la sega penetra in profondità lo si vede raddoppiare l’ardore e lo sforzo e, nel momento in cui il pezzo di legno si divide in due parti, si abbandona a impeti di gioia straordinaria, che potrebbero sembrare il delirio di un maniaco, se non si spiegassero naturalmente, da un lato, con il bisogno del movimento in un essere così attivo e, dall’altro, con la natura di questa prestazione che gli presenta al tempo stesso un salutare esercizio fi115

sico, uno strumento il cui uso gli riesce divertente e un risultato connesso con i suoi concreti bisogni e gli rende così chiaramente manifesta l’associazione dell’utile e del piacevole. L. Ma pur schiudendosi ad alcune delle gioie dell’uomo civilizzato, l’anima del nostro selvaggio continua a mostrarsi sensibile a quelle della vita primitiva. Sempre si notano in lui la stessa passione per la campagna, la stessa contemplazione estatica di un bel chiaro di luna, di un campo coperto di neve, e gli stessi impeti di commozione al rombare di un vento tempestoso. La sua passione per la libertà dei campi è invero a metà temperata dagli affetti sociali e in parte soddisfatta dalle frequenti passeggiate all’aria aperta. Ma è pur sempre una passione tutt’altro che spenta e a riaccenderla bastano una bella serata d’estate, la vista di un bosco con le sue ombre profonde, o la momentanea sospensione delle sue passeggiate quotidiane. E fu appunto questa la causa dell’ultima evasione. Madame Guérin, costretta a stare a letto per quindici giorni a causa di dolori reumatici, non poté accompagnare l’allievo nella solita passeggiata. Egli sopportò pazientemente questa privazione di cui vedeva ben evidente la causa. Ma quando la governante lasciò il letto, egli manifestò una gioia che divenne ancora più viva dopo qualche giorno, quando vide che in una giornata di bel tempo madame Guérin si apprestava ad uscire: egli si era già preparato per seguirla. Ma madame Guérin uscì senza condurlo con sé. Victor dissimulò il proprio malcontento e, quando all’ora del pranzo venne mandato in cucina a prendervi dei piatti, profittò del momento in cui la porta carraia del cortile era aperta per lasciare entrare una carrozza, scivolò dietro questa, si precipitò nella strada e in men che non si dica aveva raggiunto la cinta daziaria ad Enfer.

3. Il sentimento della giustizia LI. I mutamenti operati dalla civiltà nell’animo del giovanetto non si sono limitati a destare in lui moti di affetto e di gioia prima ignorati, ma vi hanno anche fatto nascere alcuni di quei sentimenti che costituiscono la cosiddetta rettitudine del cuore: tale è il senti116

mento interiore della giustizia. Il nostro selvaggio era così poco sensibile ad esso quando uscì dalle sue foreste che, ancora per molto tempo, fu necessario sorvegliarlo attentamente per impedirgli di abbandonarsi alla sua insaziabile rapacità. È facile peraltro intuire che, non provando allora altro bisogno se non quello della fame, lo scopo di tutti i suoi furti si restringeva all’esiguo numero degli alimenti di suo gusto. All’inizio, più che rubarli, egli non faceva che prenderli, con una naturalezza, una disinvoltura, una semplicità che avevano qualcosa di commovente e richiamavano all’animo il sogno di quei tempi primitivi in cui l’idea della proprietà non era ancora germogliata nel cervello dell’uomo. Per reprimere questa naturale inclinazione al furto, ricorsi a qualche punizione applicata in flagrante delitto. Ne ottenni quello che la società suole ottenere con lo spaventoso apparato delle sue pene repressive: una modificazione del vizio piuttosto che una vera correzione; Victor cominciò a rubare con destrezza quello che fino allora si era limitato a prendersi apertamente. Ritenni di dover tentare un altro espediente correttivo; e per fargli sentire più vivamente quanto fossero disdicevoli i suoi furti, adoperammo nei suoi confronti il diritto di rappresaglia. Così, certe volte, vittima della legge del più forte, si vedeva strappare dalle mani e mangiare dinanzi ai suoi occhi un frutto lungamente bramato e che spesso era stato la giusta ricompensa della sua docilità; altre volte, derubato in maniera astuta anziché violenta, non trovava più nelle tasche le piccole provviste che vi aveva poco prima riposto a titolo di riserva. LII. Questi ultimi mezzi di repressione ebbero il successo che mi ero ripromesso e posero termine alla rapacità del mio allievo. Tale mutamento non mi appariva però come la prova sicura che fossi riuscito ad ispirare in lui l’intimo sentimento della giustizia. Mi rendevo perfettamente conto che, sebbene mi fossi studiato di conferire ai nostri interventi tutto l’aspetto di un furto ingiusto e palese, non era affatto certo che Victor ci vedesse qualcosa di più che la punizione delle sue colpe. In tal caso il suo ravvedimento derivava dal timore di nuove privazioni e non dal sentimento disinteressato dell’ordine morale. Per chiarire questo dubbio e ottenere un risultato meno ambiguo, ritenni di dover sottoporre il mio allievo alla pro117

va di un’altra specie di ingiustizia che, non avendo nessun rapporto con la natura della colpa, non potesse in alcun modo apparirne come il meritato castigo e riuscisse perciò odiosa e rivoltante. Per questa esperienza davvero penosa, scelsi un giorno in cui, dopo avere impegnato Victor per più di due ore negli abituali esercizi istruttivi, e soddisfatto della sua docilità e intelligenza, non avrei dovuto prodigargli che elogi e ricompense. Ed egli senza dubbio se li aspettava, a giudicare dalla contentezza che trapelava dal suo volto e da tutti gli atteggiamenti del corpo. Si immagini dunque il suo stupore quando vide che, in luogo delle consuete ricompense, di quelle benevole attenzioni che aveva il diritto di attendersi e che sempre riceveva con le più vive dimostrazioni di gioia, io andavo assumendo un’espressione severa e minacciosa, e cancellavo, con tutti i segni esteriori del malcontento, quello che poc’anzi avevo lodato e applaudito, e sparpagliavo per tutti gli angoli della stanza i suoi quaderni e i suoi involucri di cartone, e infine lo afferravo per il braccio cercando di trascinarlo con violenza verso un buio stanzino che, nei primi tempi del suo soggiorno a Parigi, era stato qualche volta la sua prigione. Si lasciò condurre con rassegnazione fin presso la porta. Poi, abbandonando di colpo la consueta obbedienza, si puntellò con le mani e con i piedi contro gli stipiti, opponendomi una resistenza estremamente vigorosa, della quale tanto più mi compiacqui in quanto mai in precedenza, dovendo subire meritatamente lo stesso castigo, aveva mostrato il minimo cenno di ribellione. Insistetti tuttavia, per vedere fino a che punto sarebbe giunta la sua resistenza, e facendo uso di tutte le mie forze, tentai di sollevarlo da terra per sospingerlo nello stanzino. Quest’ultimo tentativo portò al culmine il suo furore. Esasperato dallo sdegno, rosso di collera, si dibatteva tra le mie braccia con una violenza che per qualche minuto rese infruttuosi i miei sforzi. Ma alla fine, sentendo che stava per cedere alla legge del più forte, fece appello all’estrema risorsa del debole: si gettò sulla mia mano e vi piantò profondamente i denti. Quanto avrei desiderato in quel momento potermi far capire dal mio allievo e dirgli fino a che punto il dolore stesso del suo morso riempiva di soddisfazione il mio animo e mi risarciva di tutti i sacrifici compiuti! Come potevo non rallegrarmene al più alto grado? Era un atto di vendetta pienamente legitti118

ma e insieme una prova incontrovertibile che il sentimento del giusto e dell’ingiusto, questo eterno fondamento dell’ordine sociale, non era più estraneo al cuore del mio allievo. Inculcandogli quel sentimento, o meglio provocandone lo sviluppo, avevo sollevato l’uomo selvaggio alla stessa altezza dell’uomo morale in virtù del più inconfondibile dei suoi caratteri e del più nobile dei suoi attributi. LIII. Parlando delle facoltà intellettuali del nostro selvaggio, non ho minimamente dissimulato gli ostacoli che avevano arrestato lo sviluppo di alcune di esse e mi sono fatto un dovere di rilevare con esattezza tutte le lacune della sua intelligenza. Fedele allo stesso principio nell’esporre la storia della vita affettiva di questo giovane, svelerò la parte del suo cuore rimasta primitiva con la stessa sincerità con cui ne ho mostrato la parte civilizzata. Victor è rimasto essenzialmente egoista. Pieno di premura e di cordialità quando i servizi che si esigono da lui non si trovano in contrasto con i suoi bisogni, ignora viceversa quella spontanea gentilezza d’animo che non tiene conto di privazioni o sacrifici; e anche il dolce sentimento della pietà deve ancora nascere in lui. Se nei suoi rapporti con la governante l’abbiamo visto qualche volta condividere la tristezza di lei, non si trattava che di un atto di imitazione, analogo al pianto in cui prorompe il bambino che vede piangere la madre o la balia. Per compatire i mali altrui, bisogna averli conosciuti o quanto meno potersene fare un’idea per virtù d’immaginazione, cosa che non ci si può attendere da un fanciullino, o da un essere come Victor, estraneo a tutte le pene e le privazioni che causano le nostre sofferenze morali.

4. La crisi della pubertà LIV. Ma ciò che nel sistema affettivo di questo giovane appare ancora più stupefacente e tale da sottrarsi ad ogni spiegazione, è la sua indifferenza per le donne proprio nel bel mezzo degli impetuosi impulsi di una pubertà fortemente pronunciata. Poiché io stesso auspicavo l’avvento di questa fase del suo sviluppo, in quanto sor119

gente di sensazioni nuove per il mio allievo e di osservazioni di grande interesse per me, e andavo spiando con cura tutti i fenomeni precorritori di questa crisi morale, di giorno in giorno aspettavo che un soffio di quel sentimento universale che muove e moltiplica tutti gli esseri sopraggiungesse ad animare questo giovane e a dilatare la sua esistenza morale. Ed ecco che è giunta o, piuttosto, esplosa questa pubertà tanto desiderata, e ho visto il nostro selvaggio divorato da desideri di estrema violenza e di impressionante continuità senza intuire quale ne fosse l’oggetto e senza provare per alcuna donna il minimo sentimento di predilezione. Invece di quello slancio affettivo che sospinge l’una verso l’altra due creature di sesso diverso, non ho visto in lui che una sorta di istinto cieco e scarsamente pronunciato che, in verità, gli rende la compagnia delle donne preferibile a quella degli uomini, ma senza che il suo cuore sia in qualche modo coinvolto in questa preferenza. Così, partecipando a un’adunanza di donne, l’ho visto più volte ricercare presso una di loro un sollievo alla sua ansietà, sederle accanto, pizzicarle delicatamente la mano, le braccia, le ginocchia, e continuare finché, sentendo che i suoi desideri crescevano più che scemare con queste bizzarre carezze, e non riuscendo a intravedere termine alcuno alle sue penose emozioni, cambiava bruscamente maniere, respingeva sgarbatamente colei a cui aveva rivolto le sue attenzioni e si avvicinava ad un’altra, con cui si comportava allo stesso modo. Un giorno però spinse più oltre le sue iniziative. Dopo aver cominciato con le solite carezze, afferrò per le mani la donna e la trascinò, senza peraltro ricorrere alla violenza, nel fondo di un’alcova. Lì, con un contegno estremamente imbarazzato, manifestando nei modi e nell’inconsueta espressione del volto un misto di allegria e di tristezza, di ardimento e di incertezza, sollecitò a più riprese le carezze della dama presentandole le proprie gote, le girò intorno con aria meditabonda e finì per slanciarsi sulle sue spalle stringendola fortemente al collo. E fu tutto: queste dimostrazioni amorose finirono come le altre con un impeto di dispetto, che lo indusse a respingere l’oggetto delle sue effimere inclinazioni. LV. Sebbene anche in seguito l’infelice giovane non abbia cessato di essere tormentato dall’effervescenza dei sensi, ha smesso tut120

tavia di ricercare in queste impotenti carezze un sollievo ai suoi desideri inquieti. Ma tale rassegnazione, anziché attenuare la sua inquietudine, serve soltanto ad esasperarla e a fargli trovare un motivo di disperazione in un bisogno imperioso che ormai non spera più di poter soddisfare. Quando perciò, nonostante il ricorso ai bagni, a un regime alimentare calmante e ai violenti esercizi fisici, la tempesta dei sensi scoppia di nuovo, avviene di colpo un cambiamento radicale nel carattere del giovane, per natura dolce, e passando bruscamente dalla tristezza all’ansietà, e dall’ansietà al furore, egli concepisce avversione per i suoi piaceri più vivi, sospira, versa lacrime, emette grida acute, si lacera i vestiti e a volte si imbestialisce fino al punto di graffiare e mordere la sua governante. Ma anche quando cede a un furore cieco che non può padroneggiare, se ne mostra poi sinceramente pentito, e chiede di baciare il braccio o la mano che poc’anzi aveva morso. Quando si trova in questo stato, la pulsazione è alta, il viso infiammato; e a volte il sangue scorre dal naso e dalle orecchie: ciò mette fine all’accesso e allontana per più lungo tempo la ricaduta, soprattutto se l’emorragia è stata abbondante. Partendo da questa constatazione, non potendo o non osando fare di meglio per porre rimedio al suo stato, ho dovuto tentare il ricorso al salasso, ma non senza molte riserve, persuaso che la vera terapia consista nell’attenuare, non nello spegnere questa effervescenza vitale. Ma, debbo confessarlo, se ho ottenuto un certo effetto calmante con questo mezzo, e con molti altri che sarebbe inutile enumerare, tale effetto è stato soltanto passeggero, e da questa continuità di desideri tanto violenti quanto indeterminati deriva uno stato abituale di inquietudine e di sofferenza che ha costantemente intralciato il cammino della nostra laboriosa educazione. LVI. Tale è stato il risultato di quest’epoca critica che tanto prometteva e che senza dubbio avrebbe realizzato tutte le speranze che in essa riponevamo se, invece di produrre i suoi effetti unicamente sui sensi, avesse animato di un eguale fuoco il sistema morale e acceso in quel cuore intorpidito la fiamma delle passioni. Ora però, dopo avere lungamente riflettuto, debbo riconoscere che aspettandomi conseguenze di questo genere dallo sviluppo della pubertà avevo commesso l’errore di considerare il mio allievo alla stregua 121

di un adolescente normale, in cui l’amore per le donne precede spesso o per lo meno accompagna sempre l’eccitamento degli organi della fecondazione. Questa armonia tra bisogni ed inclinazioni non poteva riscontrarsi in un essere a cui l’educazione non aveva insegnato a distinguere un uomo da una donna e soltanto per la forza dell’istinto era giunto a intravederne la differenza, senza peraltro scorgerne il rapporto con la sua situazione attuale. Ero quindi convinto che se avessimo osato svelare a questo giovane la segreta ragione delle sue inquietudini, la vera meta dei suoi desideri, ne avremmo ricavato un incalcolabile vantaggio. Ma d’altro canto, supponendo che mi fosse stato lecito tentare una simile esperienza, non avrei dovuto temere di far conoscere al nostro selvaggio le ragioni di un bisogno che avrebbe poi cercato di soddisfare pubblicamente né più né meno degli altri e che l’avrebbe condotto perciò ad atti di disgustosa indecenza? Mi sono dovuto arrestare, spaventato dalla possibilità di simili conseguenze, rassegnandomi, come in tante altre circostanze, a vedere le mie speranze dissolversi dinanzi a un ostacolo imprevisto.

5. Conclusioni È questa, Eccellenza, la storia dei cambiamenti intervenuti nel sistema delle facoltà affettive del selvaggio dell’Aveyron. E con il presente capitolo si conclude l’esposizione dei fatti relativi allo sviluppo del mio allievo durante il periodo di quattro anni. Un gran numero di questi fatti depone a favore della sua perfettibilità, mentre altri sembrano smentirla. Io ho sentito il dovere di presentare senza distinzione sia gli uni che gli altri e di narrare con la stessa sincerità i miei fallimenti e i miei successi. Questa straordinaria difformità dei risultati rende in qualche modo incerta l’opinione che ci si può fare di questo giovane e genera qualche divergenza circa le prospettive aperte dai fatti riferiti nella presente memoria. Così, collegando quelli che si trovano sparsi nei paragrafi VI, VII, XVIII, XX, XLI, LIII e LIV, non si può non trarne le seguenti conclusioni:

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1. che in seguito all’inefficienza quasi assoluta degli organi dell’udito e della favella l’educazione di questo giovane è e non potrà non restare per sempre incompleta; 2. che per effetto di una lunga inattività, le facoltà intellettuali si sviluppano in modo lento e faticoso; e che quello sviluppo il quale, nei fanciulli educati in stato di civiltà, è il frutto naturale del tempo e delle circostanze, è nel nostro giovane il lento e laborioso risultato di uno sforzo educativo ininterrotto, di cui occorre sfruttare fino in fondo i mezzi più efficaci per conseguire soltanto modestissimi effetti; 3. che le facoltà affettive, destandosi con la stessa lentezza dal loro lungo torpore, sono asservite nel loro esplicarsi a un profondo sentimento di egoismo e che la pubertà, anziché imprimere loro un gran moto di espansione, sembra essersi impetuosamente manifestata solo per dimostrare come nell’uomo l’armoniosa relazione tra bisogni dei sensi ed affetti del cuore, analogamente alla maggior parte delle grandi e generose passioni, sia il felice frutto della sua educazione. Ma se si ricapitolano i positivi mutamenti intervenuti nella condizione del giovane e particolarmente i fatti riferiti ai paragrafi IX, X, XI, XII, XIV, XXI, XXV, XXVIII, XXX, XXXI, XXXII, XXXIII, XXXIV, XXXV, XXXVII, XXXVIII, XLIV, XLV, XLVI, XLVII e XLIX, è lecito prospettarsi la sua educazione sotto un punto di vista più favorevole e riconoscere come giuste le seguenti conclusioni: 1. che il perfezionamento della vista e del tatto, nonché i nuovi piaceri del gusto, moltiplicando le sensazioni e le idee del nostro selvaggio, hanno potentemente contribuito allo sviluppo delle sue facoltà intellettuali; 2. che considerando questo sviluppo in tutta la sua ampiezza si riscontrano, tra le altre positive acquisizioni, la conoscenza del valore convenzionale dei segni del pensiero, l’utilizzazione di questa conoscenza per designare oggetti ed enunciarne qualità ed azioni, donde conseguono l’estendersi delle relazioni dell’allievo con le persone che lo circondano, a sua fa123

coltà di esprimere loro i propri bisogni, di riceverne degli ordini e di mantenere con esse un libero e continuo scambio di pensieri; 3. che nonostante il gusto smoderato per la libertà dei campi e la sua indifferenza per la maggior parte delle gioie della vita sociale, Victor si mostra riconoscente delle cure che gli si prestano, è capace di tenera amicizia, sensibile al piacere di far bene, vergognoso dei suoi errori e pronto a pentirsi dei suoi impeti di collera; 4. e che infine, Eccellenza, comunque si voglia valutare questa lunga esperienza, sia che si voglia considerarla come la sistematica educazione di un selvaggio, sia che ci si limiti a giudicarla come la terapia fisica e morale praticata a uno dei non pochi esseri minorati per natura, respinti dalla società e abbandonati dalla medicina, le cure che gli sono state prestate, quelle di cui ancora abbisogna, i miglioramenti verificatisi, quelli che è lecito attendersi, la voce dell’umanità, l’interesse che ispira un abbandono così assoluto e un destino così singolare, tutto insomma raccomanda questo straordinario giovane all’attenzione degli studiosi, alla sollecitudine dei nostri amministratori e alla protezione del governo.

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