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Italian Pages 236 Year 2017
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https://archive.org/details/ilfalsospecchiod0000gior
QUESTO DELLE
GIORNATE
DI STUDIO
ORGANIZZATE NELL’AULA
IN RICORDO
DI PIER UGO
VOLUME
DALLA MAGNA
DELLA
FONDAZIONE DI SANTA
CALZOLARI,
PRESIDENTE
RACCOGLIE
«LO SPECCHIO
DELLA
GLI INTERVENTI
REALTÀ. FEDERICO
CRISTINA,
MAGNIFICO
FONDAZIONE
I FALSI E LA STORIA
23724 OTTOBRE
RETTORE FEDERICO
DELL’ARTE»
ZERI À BOLOGNA 2013
DELL’UNIVERSITÀ
DI BOLOGNA
ZERI 2000-20I0
Con il contributo degli Amici di Federico Zeri,
in particolare Fiorenzo e Alessandro Cesari, Mario e Ruggero Longari, Carlo Orsi, Gian Enzo Sperone, Marco Voena
I curatori ringraziano Andrea Bacchi, direttore della Fondazione Federico Zeri Luca Massimo Barbero, per l’aiuto nel recupero di alcune immagini Marcella Culatti, che ha curato la redazione del volume
EEE SOSPRECGENO PDERE-SRE SES: a cura di
ANNA OTTANI CAVINA MAURO
|
FONDAZIONE FEDERICO ZERI
ASSI
UNIVER SITÀ DI BOLOGNA
NATALE
ALLEMANDI
Fondazione Federico Zeri Università di Bologna PRESIDENTE Francesco Ubertini Rettore Alma Mater Studiorum
Università di Bologna PRESIDENTE ONORARIO Anna Ottani Cavina DIRETTORE Andrea Bacchi
CONSIGLIO DI CONSULTAZIONE Francesco Ubertini, Presidente
Barbara Abbondanza Maccaferri Giovanna Furlanetto Romano Volta COLLEGIO SCIENTIFICO
Anna Maria Ambrosini Massari Andrea Bacchi Daniele Benati
Francesco Caglioti Andrea De Marchi
Everett Fahy David Freedberg Aldo Galli Elio Garzillo Mina Gregori Michel Laclotte Mauro Natale Antonio Paolucci Simonetta Prosperi Valenti Rodinò
Pierre Rosenberg
Sommario
Premessa ANNA OTTANI CAVINA del
Elogio del falso in una bassa epoca JEAN CLAIR
DI
La lettera come oggetto privilegiato di falsificazione LUCIANO CANFORA
GA
I falsi e la storia dell’arte Mauro NATALE
Tavole a colori «Falsi» veri e «falsi» falsi nella scultura italiana del Rinascimento FRANCESCO
CAGLIOTI
Un’esportazione fraudolenta nel xvni secolo PIERRE ROSENBERG Il Falsario di Gravedona ANDREA G. DE MARCHI
Falso nel disegno: il caso di Egisto Rossi SIMONETTA PRrOSPERI VALENTI RODINÒ Una bella cera? Ritrattini in cera del Cinquecento tra collezionismo e falsificazione ANDREA DANINOS
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Falsi di primo Novecento nell’archivio di Luigi Albrighi MONICA CAVICCHI
Fig. 1. Federico Zeri nel giardino della sua villa a Mentana, 1990.
E” fatale che la Fondazione Federico Zeri incrociasse il tema dei falsi, Leit
motiv della ricerca di Zeri e didascalia a tutte lettere apposta su nove faldoni di fotografie che il professore aveva analizzato e raccolto. Sembrare e non essere era d'altronde il titolo di un volume cui Zeri aveva collaborato (Longanesi, 1993) e che, nella sequenza di 336 casi, documentava la sfida, a volte da brivido, fra chi
inganna e chi smaschera. Il tema ha assunto poi, nel mondo di oggi, dimensione planetaria nella caduta dei labili confini tra imitazioni, copie, falsi, pastiches, variazioni geniali, plagi smaccati, déjà vu, remake, cloni, ricicli. E nella distinzione, sempre più contestata, fra artisti creatori e artisti parassiti, predatori, replicanti, «plain thieves».
Come si sa, la faglia deflagra nell’era della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte quando, all’esercizio mimetico ma soggettivo di virtuosi e falsari d’antan, subentrano serialità e iterazioni meccaniche. Ma qui, con un provocatorio Elogio del falso in una bassa epoca, Jean Clair irrompe nel mare aperto delle verità ampiamente congetturali e delle post-verità, in linea con l’analisi di Luciano Canfora sulle epistole nel mondo antico: «il falso è più abbondante del vero; si naviga nel falso...». Lungo questa deriva, in cui le categorie del vero e del falso tendono a scivolare fino a sovrapporsi, la questione dell’originale (e dunque del vero) finirà forse un giorno per non porsi più. Intanto, fedeli alle nostre discipline, gli scritti di questo volume realizzato insieme a Mauro Natale, uno degli studiosi più vicini a Federico Zeri indagano l’ambito sto rico, letterario e più strettamente storico/artistico. Un campo dove la cernita ancora si pratica con strumenti filologici e di connoisseurship, anche se la critica è da sempre consapevole dell’ambiguità di un'operazione in bilico fra virtuosismo e frode. Al falsario l’onore delle armi è già nelle parole dello storico secentesco Marco Boschini: «Sia sempre benedette quele man / che con virtù confonde l’opinion». Davanti alla destrezza creativa del pittore Pietro Vecchia, Boschini s’inchina e plaude al suo genio proteiforme, le cui «imitazioni non sono copie ma estratti del
suo intelletto».
Nella loro diversità, tematica e cronologica, i saggi fotografano la condizione di
oggi, dinamica e quasi sismica per le scosse che hanno terremotato le nostre certez ze, dall’affaire Rembrandt con le sue «disattribuzioni» inquietanti fino al «doppio digitale» perfetto, firmato Adam Lowe, delle Nozze di Cana di Paolo Veronese,
«uguale» all'originale del Louvre. Procedendo per campionature, altri saggi tendono invece a bonificare il terreno, esplorando il mondo complesso della pratica artistica e della sua ricezione, delle inclinazioni del gusto, delle attese del mercato antiquario, delle vicende del colle. zionismo. È
In questo ambito, le ricognizioni a largo spettro condotte in questa occasione, nel campo della scultura rinascimentale e della pittura fino al Seicento, s’impongono perché coraggiose: portano alla nostra conoscenza casi specifici molto spiazzanti, rivelatori. E sintetizzano in parte le riflessioni delle giornate di studio (2425 ottobre 2013) che sono all’origine di questo volume, nell’eterna contesa fra verità e inganno, fra la verità e il suo simulacro.
Nel frattempo “non lo possiamo dimenticare - il modo di pensare il falso è pro fondamente cambiato, abbattendo i confini fra le discipline e producendo effetti di risonanza nel campo delle arti figurative. Contributi recenti hanno infatti impresso al dibattito una svolta epocale, anche per la pressione del contemporaneo che ha scardinato le gerarchie e sfondato le frontiere dell’originale e dell’autentico. Come in una prospettiva barocca «per angolo», il tema del falso ha spalancato all’improvviso un numero infinito di porte, che documentano la nostra mutevole visione del passato e mettono in discussione lo statuto di originalità dell’opera d’ar te, insieme al suo valore simbolico ed economico.
Ma per tornare all’inizio e sdrammatizzare la complessità del tema, ho scelto un'immagine di Federico Zeri, emblematica e un po’ misteriosa. Immagine vera, anzi verissima, icona consacrata per chi, lungo il viale di lecci, arrivava alla porta
di villa Zeri a Mentana (fig. 1). Icona verissima, ma non certo il prototipo se, alle spalle - vent'anni prima, nel
1970 - ugualmente in posa sul trono di marmo, si affaccia la figura di Peggy Guggenheim stravagante nel pigiama palazzo creato da Galitzine (fig. 2). Nel gioco un po’ fatuo di «chi copia chi», affiora surreale l’eterna domanda. Nel riprodurre, in giardino a Mentana, il set di Palazzo Venier dei Leoni a Venezia,
Federico Zeri era mosso da ammirazione devota o da fascinazione del plagio? Anna Ottani Cavina
Fig. 2. Peggy Guggenheim nel giardino di Palazzo Venier dei Leoni a Venezia, 1970.
Elogio del falso in una bassa epoca JEAN CLAIR
n conservatore dei musei di Francia non è autorizzato a espertizzare opere d’arte appartenenti a privati, salvo quando sono destinate a far parte delle collezioni nazionali. In tal caso si fa ricorso alla sua esperienza per assicurarsi che non si tratti di falsi, ma di opere dotate di un indubitabile valore patrimoniale. Negli Stati Uniti, invece, il conservatore di un museo non è solamente abilitato
a praticare perizie su opere d’arte appartenenti a privati, ma tale compito fa parte del servizio civico che il museo, come istituzione della comunità, ritiene di dover
fornire ai cittadini. Quando ero stagista al Metropolitan Museum di New York, ogni mattino ero incaricato di ricevere i collezionisti e di consigliarli in merito ai loro acquisti. Durante varie settimane ho quindi visto uscire da valigette di cuoio o da pacchi mal confezionati dozzine e dozzine di Manet, Monet, Renoir e Picasso, e tutte erano copie più o meno abili, ossia dei falsi. Davanti alla delusione dei miei visitatori, che per la maggior parte li avevano
acquistati a caro prezzo, e di fronte alla loro incredulità, dovevo ogni volta, per convincerli, metter sotto i loro occhi le illustrazioni dei cataloghi ragionati, a prova del fatto che l’originale si trovava altrove, oppure che certe distinzioni sottili ma ben visibili permettevano di stabilire la mediocrità della copia in confronto alla qualità dell’originale. In pochi mesi mi sono così passati tra le mani centinaia di falsi, un dato di fatto che rende la casistica vertiginosa: quanti milioni di falsi sono messi in circolazione nel mondo, e si ritrovano sulle pareti degli amatori, elementi di un mercato praticamente indecifrabile ma che conta miliardi di dollari? Una volta, tuttavia, durante una seduta del comitato delle acquisizioni per i musei di Francia, mi fu chiesto di rinunciare alla mia capacità di esperto a pro
posito di una serie di opere che giudicavo autentiche, ma che dovetti rifiutare come falsi, o almeno sospetti di falsità. Si trattava di sei ammirevoli disegni di Picasso, proposti come dono alla Francia da parte dell’autista dell’artista. Gli eredi del maestro contestavano la firma e mettevano in dubbio l’origine dei disegni. Un imbroglio che si è riprodotto recentemente, quando fu resa nota l’esistenza di un’importante collezione di opere di Picasso, circa trecento pezzi, che sarebbero state offerte in dono da Picasso al suo elettricista, il quale si rivelò
poi essere un parente dell’autista. Gli eredi, questa volta, parlarono di furto. E l'affare resta tuttora in sospeso.
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Dovetti quindi spiegare ai miei colleghi che, nonostante fossi personalmente con vinto non solo dell’autenticità ma anche della qualità dei disegni, il comitato do veva rifiutare la donazione. L’UNICO E LA SUA PROPRIETÀ
L’asprezza dei dibattiti si basa su un certo numero di presupposti ormai consoli dati da tanto tempo nelle coscienze che non si pensa di porli in discussione. Un'opera d’arte sarebbe necessariamente originale, unica, di mano di un solo autore. Un unicum che deriverebbe il proprio valore dal fatto di essere il frutto inimitabile, irriproducibile, di quell’individuo irripetibile che sarebbe l'artista, considerato in quanto tale come un genio, uno specimen umano superiore ai propri
simili, dotato di un’originalità e di un’origine ineguagliabili. In un mondo dedito alla riproducibilità tecnica illimitata, in cui è ormai praticamente impossibile di stinguere l’originale dalla copia o dalla ripetizione, questa speciale qualità diventa quasi metafisica, e al momento della vendita assicura all’opera d’arte delle valuta. zioni astronomiche, mentre tutti gli altri beni, riproducibili e di una banalità più o meno evidente, sono ormai messi sul mercato a prezzi sempre più bassi, dalle automobili ai computer.
Se i falsi che dovevo identificare nel mio ufficio del Metropolitan Museum erano il più delle volte grossolani, costituivano solo l’aspetto più ingenuo, comune, quo” tidiano di un traffico altamente organizzato, che coinvolge le più alte istanze del mondo dell’arte. Ogni anno porta una messe di sorprese. Nel 2011, per esempio, la venerabile galleria Knoedler di New York ha dovuto chiudere precipitosamente i battenti. Aveva acquistato, negli anni compresi tra il 1994 € il 2009, ben sessantatré false tele di pittori espressionisti astratti americani:
Jackson Pollock (fig. 1), Mark Rothko, Robert Motherwell, Franz Kline, Wil lem de Kooning e Sam Francis, per la somma di 33 milioni di dollari. Erano state
poi rivendute per oltre 80 milioni di dollari. I falsi erano stati fabbricati da un
pittore cinese del Queens, che ne aveva ricavato 65.000 dollari. Un altro esempio clamoroso ci è stato offerto recentemente dal caso detto dei falsi Max Ernst!. Lo scandalo è scoppiato nel marzo zoro. Si tratta di un traffico di
falsi quadri moderni: Max Ernst (tra cui Il terremoto del 1928), ma anche André Derain, Fernand Léger, e due espressionisti tedeschi, Max Pechstein e Heinrich
Campendonk (figg. 2/4). Quattordici quadri sono stati venduti per più di 34 mi lioni di euro. E trentatré altri probabili falsi sono stati messi in vendita. Il falsario
è un artista di grande abilità, i suoi falsi Max Ernst erano stati giudicati autentici dallo specialista internazionale dell’artista, autore tra l’altro di un monumentale catalogo ragionato dell’opera, e che aveva proposto, entusiasta, di includerli nell’e/ dizione definitiva.
12:
Fig. 1. Pei-Shen Qian, falso Jackson Pollock,
già New York, Knoedler Gallery.
Fig. 2. Wolfgang Beltracchi (Fischer), II terremoto, falso Max Ernst.
Fig. 3. Wolfgang Beltracchi (Fischer), L'orda, falso Max Ernst, collezione Wiirth.
Fig. 4. Wolfgang Beltracchi (Fischer),
Quadro rosso con cavalli, falso Heinrich Campendonk.
(o)
Ma questo esperto eminente non è stato il solo a essere indotto in inganno: il di. rettore del Metropolitan Museum di New York, a cui il falso Terremoto di Max Ernst era stato promesso in dono dal collezionista che l'aveva acquisito, e persino la vedova dell’artista, Dorothea Tanning, trovarono il quadro meraviglioso. E il suo pedigree pareva in effetti impressionante: come gli altri tredici, sarebbe stato venduto dalla galleria di Alfred Flechtheim (fig. 5), uno dei più grandi mercan ti d’arte tedeschi degli anni trenta, fuggito dai nazisti nel 1933 lasciando la sua collezione, e in particolare una cinquantina di Max Ernst, che non furono mai
ritrovati.
‘
Ma la sposa era troppo bella: un esame approfondito ha mostrato che i quadri non potevano essere autentici. Le etichette poste sul verso delle tele e menzionanti la provenienza dalla galleria Flechtheim erano false. E l’esame chimico dei pigmenti ha rivelato l’uso di bianco di titano, che non esisteva all’epoca in cui Max Ernst
li avrebbe dipinti. Il caso è esemplare. Un falsario di genio, pittore lui stesso, dotato di un’abilità tale da ingannare il migliore specialista di Max Ernst, la vedova dell’artista, e infine il direttore del MET di New York. Un falsario capace di dipingere un Campendonk più bello di tutti i Campendonk di Campendonk, mescolando abilmente ele menti tratti da varie opere dell’artista, realizzando un collage perfettamente natura. le, non la banale copia di un Campendonk o di un Max Ernst, ma un Campendonk ideale, che riuscirà a vendere a un prezzo tre volte superiore alla quotazione normale dell’artista. E un Max Ernst più bello dei più belli tra i veri Max Ernst. Ma non solo: il falsario è abbastanza erudito da immaginare una storia per ogni opera, in modo da ingannare gli storici dell’arte. Anzi, ancor meglio: in modo da
rispondere alla loro attesa e prevenire i loro desideri. Ecco qui le opere scomparse nel 1933, una data malefica, carica di significato, che paralizza il giudizio; opere
tanto attese che quando miracolosamente riappaiono sul mercato non si può far altro in effetti che credere alla riapparizione. Infine, un intermediario, direttore di una casa d’aste conosciuta, onorevolmente stabilita a Colonia. Lo scenario si per
feziona quando l’opera si ritrova nella collezione di una grande galleria parigina, è rivenduta a un collezionista di New York, e infine è chiesta in prestito dall’au
tore del catalogo ragionato di Max Ernst per la grande retrospettiva che prepara al Metropolitan Museum. Alla fine del percorso, Il terremoto viene venduto con l'assicurazione che sarà incluso nella prossima edizione del catalogo ragionato. Naturalmente, a ogni tappa, il valore dell’opera aumenta, fino a raggiungere, per l’ultima transazione, 1,1 milioni di dollari. La vendita sarà annullata da Sotheby's
e l’inchiesta inizierà, per poi estendersi agli altri quadri dipinti dal falsario. Il meccanismo che si è messo in moto e che gira sempre più velocemente è dell’or. dine del credito, nel senso finanziario come nell’accezione filosofica. Si vede quel
"i
Fig. 5. Otto Dix, I/ mercante Alfred Flechtheim, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie.
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che si vuol vedere, e quel che si vuol vedere è l'anello mancante della serie, il ca
polavoro sconosciuto. L’aspetto affascinante, nell'esempio appena citato, è la straordinaria qualità pla. stica dei falsi. Si tratta di opere complesse, dall’iconografia elaborata, e di fattura
esperta. Federico Zeri, a suo tempo, aveva suggerito che «fare l’arte moderna è molto più difficile che fare l’arte antica. [...] Che l’arte moderna sia difticilissima a esser con cretizzata lo dimostra il fatto che è difficilissimo, se non impossibile, falsificarla.
È molto più facile tentare un falso di una pittura antica che non un falso di una pittura moderna, anzi direi che quella moderna si scopre immediatamente». La prima affermazione è giusta. Fare l’arte moderna è molto più difficile che fare l’arte antica. Ma la seconda è falsa. Tutto quello che abbiamo appena detto, mo strato e dimostrato va contro l’opinione di Zeri. I falsi sono molto più numerosi nell’arte moderna che non nell’arte antica, e sono spesso assai difficilmente reperi.
bili, tanto che il commercio del falso raggiunge cifre che possiamo solo immagina. re, infinitamente superiori al giro d’affari del commercio dei falsi quadri antichi. Quando vediamo apparire dei falsi Mondrian, continua Zeri, «e non sono pochi,
si scoprono immediatamente. [...] Il falso Mondrian si riconosce immediatamente»?. Se cosi fosse, come spiegare il fatto che il Centro Pompidou, qualche anno fa, stava per acquisire appunto un Mondrian, che poi si rivelò essere un falso, e che furono necessarie lunghe ricerche per convincersene, tanto che il grande specialista di Mondrian, Michel Seuphor, fu indotto in inganno? L’unità tra materia pittorica e forma, tra concetto ed esecuzione sarebbe tale, se condo Zeri, da non permettere errori. L’arte moderna, dell’ordine dell’ineftabile,
della rivelazione improvvisa, sarebbe quindi al riparo dalle ripetizioni che alimen tano il mercato delle copie. Io sarei tentato di proporre la tesi, contraria a quella di Zeri, che la nozione del falso nell’arte è nata in realtà dall’estetica stessa della modernità, e che parlare di «falsi»
per delle opere di epoche anteriori è in un certo senso un anacronismo. È perché la modernità si è fondata sull’affermazione della singolarità del soggetto, dal Roman ticismo all’Avanguardia’, che l’idea del falso ha acquisito una tale potenza, e ha fatto nascere tutta un'industria. Comprendere il meccanismo del falso sarebbe allora penetrare nel cuore della natura stessa dell’arte moderna, che non sopporta l’esistenza di un simile, e quindi ha provocato la fantastica proliferazione dei «falsi». Che l’arte moderna sia ineftabile, che sia creazione pura irriducibile a un corpus scritto, è una favola, alla quale volle credere anche un altro erudito, Erwin Pa nofsky, un po” compiacente sotto un’apparente modestia, quando sosteneva che il
suo metodo, l’iconologia, sviluppato per analizzare il contenuto delle opere anti che, si fermava alle porte dell’arte moderna e contemporanea, perché le opere mo
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derne sarebbero senza soggetto, senza motivo, senza leggenda”, o perché vi sarebbe
in esse (come per Zeri un’unità indicibile tra materia e forma) «un passaggio di retto dal motivo al contenuto». La loro assoluta singolarità, sottraendole all’analisi iconologica in assenza della mediazione del contenuto, le metterebbe quindi al riparo anche dalle repliche, le varianti, le interpretazioni...
L'esempio che abbiamo citato dei falsi Max Ernst mostra che Panofsky, come Zeri, si sbagliava. Vi sono dei quadri moderni, abbastanza sapienti, eruditi, nu triti di una ricca iconologia, nonostante l’apparente astrazione come nel caso di
Mondrian, o la pretesa fantasia nel caso di Ernst, da poter fornire un materiale propizio alle copie, alle variazioni sottili e dopotutto ammitrevoli.
ÎL MIRACOLO DELLA MOLTIPLICAZIONE DEI FALSI Il problema si complica nell’arte moderna, quando l’operazione che confonde l’o riginale e il falso, e prende maliziosamente in contropiede la doxa dell’originalità, si applica a delle opere che si presentano come semplici repliche meccaniche, o in
cui il principio stesso di creazione o di fabbricazione si fonda appunto sulla possi. bilità di riproduzione. È il caso delle stampe di Andy Warhol, che non sono altro che volgari serigrafie, ma che, lungi dall’essere vendute come tali, raggiungeranno quotazioni altissime, che una pittura su tela non avrebbe mai raggiunto. In questo caso, dov'è l’originale, dov'è la copia? Naturalmente, è ben noto che la riproduzione è parte integrante della storia dell’ar-
te. Le stampe dette d’arte riproducono in trenta o quaranta esemplari numerati l’immagine incisa sulla lastra. La qualità dell’impressione varia, e detta il prezzo della stampa; le prime stampe sono più fresche, le ultime di qualità inferiore, quan.
do il rame si è smussato sotto il rullo della pressa; ma occorre un occhio esercitato per riconoscere e distinguere la qualità delle prove di stampa. Si può anche ripren dere la lastra originale per assicurare un tiraggio superiore ma di minore qualità. Nel caso di un processo di riproduzione povero come la serigrafia, come decidere del prezzo e del valore di un Andy Warhol (figg. 67)? L’imbroglio è tale che, nell’incapacità di esprimere un giudizio, un comitato Andy Warhol si è autoisti. tuito nel 1995 come l’unico abilitato all’autentificazione, l’unico avente il diritto
di dichiarare vere o false le opere sottoposte al suo giudizio. Ma poi, davanti alla moltiplicazione delle filiere dei falsi Warhol, il comitato si è dissolto, ha sospeso
le proprie attività, e i proprietari di opere di Warhol non sanno più se hanno tra le mani dei multipli stimati tra 4500 e 20.000 dollari o delle opere uniche stimate anche s milioni di dollari. Nel caso di Max Ernst, troviamo dei falsi più belli delle opere vere, dei capolavori
sconosciuti che suscitano le esclamazioni di ammirazione dei migliori specialisti; nel caso di Andy Warhol, delle opere vere che son false come dei falsi, e mettono
o
Figg. 6/7. Andy Warhol, Ritratto di Marilyn.
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in crisi l'autorità del comitato incaricato di giudicarle. Potremmo aggiungere una terza categoria, a proposito della quale non ci si può pronunciare sulla veracità o la falsità. È il caso dei seicento disegni attribuiti a Francis Bacon, apparsi d’un
colpo sul mercato qualche anno fa, e apparentemente provenienti dall’eredità del suo ultimo amante (fig. 8). Si tratta di un esempio opposto a quello dei Picasso offerti in dono ai musei di Francia. In questo caso non sono gli eredi a proclamare false delle opere che gli esperti giudicano vere, ma è l’erede che presenta come vere delle opere che i maggiori specialisti di Bacon giudicano false. Nel gennaio 2012 avrebbe dovuto tenersi un colloquio al Courtauld Institute of Art di Londra per tentare di sbrogliare la matassa. Ma il colloquio è stato annullato. Prudenti, i par tecipanti avevano domandato l’immunità giuridica... L’imbarazzo infatti è tale che ormai nessuno specialista, nessuno storico, rischia
di esprimere la propria opinione, il proprio giudizio su un’opera che si presume conosca meglio di tutti, per timore di essere soggetto a un processo penale, di essere accusato di denigrare l’opera o incolpato di diffamazione, di negligenza, o addi. rittura di frode. Nessuno storico, nessun commissario di esposizione ormai rischierà di basarsi sull’autorità, sinora giudicata indiscutibile, dei cataloghi ragionati, per richiedere
il prestito di un’opera. E ricorrerà a delle sottigliezze linguistiche, a delle distin zioni terminologiche: per evocare un’opera si dirà di un disegno di Bacon che è «attribuito» all’artista, e non di mano dell’artista”. L'ORIGINALE
SCONOSCIUTO
Per secoli e secoli l’opera d’arte è stata un prototipo, di cui la perfezione formale e il rigore iconografico permettevano appunto la riproduzione e la diffusione. L’opera era realizzata il più delle volte a più mani, e non da una sola mano, unica e inimi tabile; era inoltre diffusa, copiata, riprodotta, adattata, attraverso lavori di atelier,
che mettevano in circolo il modello in regioni o paesi interi. Parlare di prototipo significa usare deliberatamente un vocabolario religioso che risale a Bisanzio e alla controversia sulle immagini: il prototipo, che si fonda su un Cristo che è a immagine e somiglianza (eikon) di DioÈ, permette la riproduzione all’infinito dell'immagine che ne è al tempo stesso l’idea e la forma. La somiglian za è identità. L’adorazione dell'immagine è rivolta al prototipo. Non siamo qui nel campo del gusto (delectare) né del sapere (docere), ma nel campo della credenza religiosa. L’arte moderna è una fede. Da qualche anno questa fede vacilla, e la moltiplicazione delle dispute sui falsi e sugli originali è il sintomo di questa crisi, per vari aspetti analoga a quelle che hanno scosso il mondo cristiano, al tempo delle iconoclastie, da Bisanzio alla Ri voluzione francese.
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Fig. 8. Trittico attribuito a Francis Bacon, collezione Cristiano Lovatelli Ravarino.
Fig. 9. Francisco Goya o Asensio Julià (?), Colosso, Madrid, Museo del Prado.
Fig. 10. Diego Velazquez o Juan Bautista Martinez del Mazo (?), Las Meninas, Dorset, Kingston Lacy Estate,
National Trust.
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Nel 1968 è nato ad Amsterdam il Rembrandt Research Project. Composto da un piccolo numero di specialisti, si è dato il compito di studiare il corpus di Rembran dt. Si tratta di una società che saremmo tentati di definire segreta, che si incarica di braccare i falsi Rembrandt, di togliere loro l’attribuzione, di farli tornare nell’om-
bra. Tra le disattribuzioni celebri vi sono L'uomo dal casco d'oro dei musei di Berlino e il Cavaliere polacco della Frick Collection di New York (tavv. 1/2). Il problema è che le due opere sono autentici e ammirevoli capolavori, e non si sa a chi attri. buirli, a una mano che sarebbe uguale a quella di Rembrandt senza tuttavia essere
quella di Rembrandt... * Negli ultimi anni abbiamo assistito alla moltiplicazione delle disattribuzioni e delle riattribuzioni. Così il Colosso di Goya non sarebbe più di Goya, ma di un allievo (fig. 9). Ma il Museo del Prado, all’origine di questa disattribuzione, si trova ora a essere perplesso quando uno storico d’arte spagnolo, che fu conservatore al Museo, Matias Dfaz Padrén, afferma, dopo vent’anni di studi, che la versione
delle Meninas di Velizquez conservata nelle collezioni del National Trust, e sinora attribuita al genero di Velàzquez, sarebbe in effetti della mano del maestro (fig. 10)?. Versione che il Prado contesta, preoccupato di mantenere l’unicità della tela di cui si inorgoglisce... Nel mezzo di queste dispute di esperti ci troviamo in piena fantasmagoria, analoga e parallela alla fantasmagoria dell’arte contemporanea che ci induce ad accettare il fatto che pastiglie multicolori siano vendute a qualche centinaio di migliaia di euro purché siano della mano di Damien Hirst. La fede cieca si muta in magia nera. Magia della mano. Magia della credenza in un genio incomparabile, fascino del fare singolare, lavori interminabili degli specialisti sulla mano, mano unica, quadri dipinti a due mani, a più mani, lavori d’atelier, di scuola, copie... Dall’epoca romantica siamo stati immersi nella follia del singolare, di «quel che non si vedrà mai due volte», della mano incomparabile, del creatore ineguagliato. Mano di gloria, mano incantata, membro fantasma...
Sono fantasmagorie alla Gérard de Nerval, alla Edgar Allan Poe, quelle che ali mentano il culto dell’ego ipertrofico dell’artista d’avanguardia, dell’artista detto contemporaneo, più contemporaneo dei suoi stessi contemporanei, l'incarnazione
del genio senza pari. Fantasmagorie che nutriranno più tardi la sensibilità e il pathos dei moderni, dominati dal terrorismo della novità, dal feticismo della firma, dall’onnipotenza
dell’artista che sfugge alle leggi umane, e finalmente dall’inflazione irrazionale del mercato delle opere dette «originali». Le opere antiche, intanto, subiscono l’assalto del tempo e gli attacchi che la nostra
ignoranza commette contro di loro.
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Monterchi è un villaggio non lontano da Arezzo. Ai suoi piedi, un po’ in disparte, si trova il cimitero, e al suo ingresso una cappella. Su un muro della cappella si trovava
un tempo un affresco di Piero della Francesca, detto la Madonna del Parto. Raffigura la Vergine, in piedi, solida come una paesana e maestosa, che schiude delicatamente
con un dito della mano destra l’apertura della lunga veste blu, rigonfia del corpo del bambino nel ventre materno e aperta come un melograno arrivato a maturità. La leggenda dice che è in ricordo della propria madre, sepolta nel cimitero del villaggio, che Piero della Francesca, il figlio della Francesca, avrebbe dipinto quell’affresco che illustra non solo il dogma dell’incarnazione ma anche la fede nella resurrezione dei corpi. Le eftigi di donne col bambino, dalle dee madri dell’ A natolia a quelle della Roma antica e fino ai giorni nostri, sono spesso legate ai luoghi dove si rispetta la morte: si trovano all’ingresso delle catacombe o presso le sepolture. Si dice anche che per secoli le giovani donne di Monterchi e dei paesi vicini venivano a contemplare l’affresco quando stavano per partorire, e doman. davano il soccorso della Madonna!" Quando sono tornato a Monterchi, l’affresco era stato staccato dai muri della cappel la, all’ingresso del vecchio cimitero. Ed era stato rimontato sui muri della scuola del villaggio. La scuola è un edificio di stile fascista, e la Madonna di Piero è stata messa sotto vetro, incorniciata e illuminata in modo tale che ormai somiglia alla proiezione di una diapositiva su uno schermo (fig. 11, tavv. 3/4). Non si può più riconoscere la sua natura di affresco, e nemmeno distinguere se si tratta dell'originale o di una ripro duzione. La riproduzione sarà daltronde disponibile alla libreria. Perché nel frattem po gli ampi spazi ormai inutilizzati della scuola sono stati trasformati in shops, come è
scritto, negozi di souvenir e di «prodotti derivati». Le masse di turisti che si riversano dagli autobus hanno rimpiazzato le processioni delle giovani donne che imploravano una gravidanza o un parto felice. Il tasso di natalità nel frattempo è caduto quasi a zero, ed è da molto tempo che la scuola non risuona più degli strilli degli scolari. Spostata, denaturata, che cosa diventa un’opera d’arte quando al termine di un pellegrinaggio non è altro che un'immagine dallo status incerto, come un poster o una riproduzione, priva di identità e di destinazione, spogliata delle virtù magiche che le attribuivano i fedeli, ma anche privata del rispetto della sua natura materiale d’opera d’arte, ridotta a non essere altro che il supporto contingente della nevrosi
del turismo di massa? Quel che è capitato alla Madonna di Monterchi si ritrova in luoghi che avremmo creduto più canonici. «Qualcosa di strano è successo agli Ambasciatori di Holbein, alla National Gallery di Londra», osserva una visitatrice. «Ecco, il quadro ha perso la profondità, la dinamica fluida dei pigmenti non c’è più. A desso è sempli cemente una superficie liscia [...|»(fig. 13). E questa superficie è quasi identica al poster che si era procurata qualche anno prima alla libreria del museo...!!.
6)
g. 11. Monterchi (Arezzo), Musei Civici. g. 12. Paolo Veronese, Le nozze di Cana, Parigi, Musée du Louvre.
. 13. Hans Holbein, Gli ambasciatori, Londra, National Gallery.
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Quante volte noi professionisti dei musei abbiamo dovuto constatare i danni compiuti da certi restauratori accaniti a sverniciare le velature, a scarnificare le carni, a
spogliare le figure dei loro veli, dei loro abiti, per scorticarli vivi, le Danae, le Deia
nire e le Veneri come i grossolani Marsia, la carne a vivo, a distruggere quegli strati trasparenti di vernice misericordiosi per i contrasti di tono a volte troppo bruschi, a gettare su paesaggi un tempo soffusi, dorati, trasparenti, la luce cruda della sala chirurgica che illumina il massacro, per finire con una sorta di ultima «stiratura» abusiva e fare della pittura un carnaio sul quale va steso un sudario, la tela cerata finale che ridurrà l’opera dipinta alla propria riproduzione, di cui si rimpiangerà per sempre l’originale perduto. Che cosa vuol dire un’opera vera diventata un falso? E che cosa vuol dire un falso che diventerebbe più vero del vero? A_ Venezia, la Fondazione Cini ha riaperto il refettorio del convento palladiano di San Giorgio Maggiore. Refettorio che era stato snaturato quando Napoleone aveva fatto stacca. re dal muro Le nozze di Cana del Veronese per arricchire il Louvre (tav. 6). È stato deciso, nell’attesa che la Francia restituisca questo capolavoro a Venezia, di farne una replica. Di dimensioni uguali all’originale, la perfezione della resa è tale che è praticamente impossibile stabilire a occhio nudo se si tratti di una ripro duzione!?. Lo spessore e la profondità sono qui restituiti al punto che si possono ammirare i tratti del pennello del pittore, i grani deposti dai pigmenti, ma anche le incrinature, le fessure, le asperità lasciate dallo stacco delle strisce di tela che com
pongono l’opera. L'illusione è perfetta, e si è deciso di lasciare la copia nella sede d’origine del quadro, in modo da ridare un senso al refettorio (tav. 7). Le nozze di Cana sono quindi tornate al loro posto. Là dove Veronese le aveva destinate, illuminate di nuovo dalla loro vera luce, naturale e ammirevole, la luce
della laguna, attraverso la vetrata di sinistra. Hanno quindi ritrovato il loro fine: non solo prolungare lo spazio fisico del refet torio, ma prolungare la cena dei monaci con una cena tutta spirituale. Il loro senso risplende nuovamente, come splendono i colori più vivi e più giusti, più fedeli di quelli dell’originale deteriorato che si può vedere al Louvre. Perché, anche se si tratta solo di una copia, è così perfetta e cosi felicemente installata che la gioia
che ci procura è superiore a quella che ci procura la tela originale, esposta in una misera luce, tra altri quadri, rovinata, decolorata, alterata, posta troppo in basso in un bricabrac in cui la Gioconda è il pezzo forte... (fig. 12)). Si tratta di un avvenimento considerevole. Ci obbliga a riconsiderare, a capo. volgere, a rifiutare il dogmatismo che pesa sulla nostra sensibilità e sulle nostre coscienze sin dall’epoca del Romanticismo.
dè,
Che cosa è preferibile, l’originale depositato in un museo e che ha perso la sua destinazione, oppure la sua copia, che ritrovando la destinazione dell’originale finisce per ritrovarne il senso? Che cosa vale di più, l’opera snaturata e degradata, o la copia superiore all’originale, a cui il luogo ha ridato la sua ragion d'essere? Al Louvre sono iniziati i lavori del restauro della Nike di Samotracia. Ma la Vitto ria che per secoli ha troneggiato sullo scalone d’onore, e che consideriamo uno dei più grandi capolavori dell’antichità, forse non è altro che un’accozzaglia di pezzi sparsi, con delle aggiunte di gesso per colmare e mascherare le lacune. Sappiamo che la ricostruzione del 1883, a partire dai frammenti ritrovati vent'anni prima,
proponeva un’opera per molti aspetti problematica. Un restauro fondamentale, se fosse possibile, modificherebbe per esempio la forma e la fissazione delle ali, e
l’aspetto generale della statua sarebbe ben diverso da quello che abbiamo ammira/ to per più di un secolo e che ci è ormai familiare!’ (tav. 5). La maggior parte delle opere dell’antichità greca sono conosciute solamente at traverso le loro copie, ellenistiche o romane. Gli originali sono perduti. A. volte
le interpretazioni iconografiche di tale o talaltro frammento sono fantasiose, come quando un discobolo diventa un guerriero ferito. Bisognerebbe ripetere a proposito delle opere d’arte quello che Luciano Canfora dice a proposito dei capolavori della letteratura: «Consideriamo a torto come certa l’esistenza di un originale, che si presenta al senso comune come dotato di un in discutibile carattere di unicità. Questo monismo - 0 monoteismo testuale - è stato da lungo tempo sottoposto alla critica nel campo delle letterature dette classiche [...] Ma vi sono anche numerose opere moderne» ci dice Canfora, «per le quali la storia del testo riposa, a ben vedere, su un originale instabile, certamente non
unico, € persino, in un certo senso, provvisorio [...]»!. L'originale dello Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, di Robert Louis Stevenson, è infatti la copia di un manoscritto perduto. Il caso è uguale a quelle grandi opere dell’antichità, dai discorsi di Demostene ai trattati di Aristotele, di cui noi conosciamo il corpus soltanto attraverso le elabora zioni, le interpretazioni realizzate prima dagli allievi, poi dai copisti. Canfora ar
riva a dire che il vero autore di un’opera è il suo copista, in assenza di un archetipo ormai scomparso da lungo tempo. Si potrebbe anche dire, in altri termini, che un’opera esiste soltanto attraverso la lettura che ne è fatta. È il lettore che ricrea, a ogni lettura, un’opera che senza di lui
non esisterebbe. Un testo non è che la somma delle sue interpretazioni. IL CULTO DELLE RELIQUIE
Si capisce l’esitazione, il movimento di arretramento, e infine la ragione per la
quale rifiutiamo questi progetti di ricostruzioni in facsimile... Che vuol dire fac
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simile, copia identica? Per quanto perfetta sia la riproduzione, per quanto alterato sia l'originale, quest’ultimo possiede una qualità, se non una virtù, una magia: la magia della reliquia. Per vedere, bisogna toccar con mano. Toccare le ossa, vedere il sangue liquefarsi, come a Napoli quello di san Gennaro. L'originale, conservato preziosamente in un museo o in una collezione privata, pos
siederebbe, quale che siano la povertà delle sue forme o la volgarità del contenuto, un’«aura» che la copia dissipa, distrugge, spegne; un’aura che lo rende unico.
Si preferiranno quindi Le nozze di Cana del Louvre alla versione realizzata a Ve nezia, nonostante il quadro sia danneggiato, male illuminato e posto in un con testo che lo denatura, perché si sa, o si crede di sapere, che è stato realizzato dalla
mano dell’artista. Il visitatore di un museo è superstizioso, credulone e ingenuo quanto il fedele di un tempo, che cercava, nel simulacro, nella pittura o nella statua, la presenza della
reliquia che le rendeva degne di venerazione: un pezzetto del legno della vera cro ce, una goccia del latte della Vergine, o del sangue del Signore, una scheggia del femore di un martire... Quel che era la reliquia all’opera antica, sarà per l’opera moderna l’ombra della mano dell’artista. Ma la reliquia può prendere una tale importanza da finir per rendere superflua la presenza dell’opera che la conserva, e può darsi che si presenti sola, come un oggetto insolito che abbiamo difficoltà a identificare. L’ultimo, l’estremo stadio sarà raggiunto quando la presenza dell’artista moderno non sarà più richiesta solamente nella forma della presenza nascosta della mano, ma nella forma più diretta: simile al Dio che oftre il proprio corpo agli umani, l’artista offrirà in dono gli scarti, le scorie del proprio corpo sotto il nome di «opere d’arte», scorie che saranno venerate come reliquie. Cosi gli umori, le secrezioni purulente, i sudori, lo sperma, il sangue, i peli, i capelli, le unghie, l’urina e infine gli escre.
menti saranno proposti all’adorazione di quei nuovi fedeli che sono gli amatori dell’arte contemporanea. Per citare qualche nome: Marcel Duchamp, Salvador Dalî, Piero Manzoni (fig. 14), Kurt Schwitters, Louise Bourgeois (fig. 15), Gina Pane, Giinter Brus, Hermann Nitsch, Andres Serrano (fig. 16), Wim Delvoye...
la lista è senza fine”. Ma se le reliquie della Croce e il sangue dei santi sono sacri, nella teologia del Me dioevo le fanere, i peli, i capelli, le unghie, le corna sono gli attributi del diavolo. Il termine «fanere» contiene l’idea di apparire, farsi vedere, essere visibile, ilfenomeno, e quindi rientra nell’ambito della visibilità, e se vogliamo, dell’arte. Nell'arte con
temporanea, le fanere sono diventate non le reliquie di una religione dell'estetica, ma i feticci di un’autoadorazione dell’uomo; il supporto di una magia, non di vina, bensì diabolica, un culto che l’uomo rende all’uomo manipolando quegli
stessi prodotti singolari del corpo che servivano un tempo alle magie animiste.
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Fig. 14. Piero Manzoni, Merda d'artista, Milano, Museo del Novecento. Fig. 15. Louise Bourgeois, Precious liquids (1992), Parigi, Centre Pompidou. Fig. 16. Andres Serrano, Piss Christ, fotografia.
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Ma supponiamo che si rompano le ampolle o che si fendano le scatole di latta che contengono queste sante reliquie dell'avanguardia: che cosa dovrà fare il restau ratore per restaurarle?è Che altro prodotto potrà utilizzare, che non provenga dalle sacre viscere dell’artista? Immaginiamo un futuro in cui, per verificare l’autenticità di una lattina di merda di Manzoni o di un bicchiere di piscia di Serrano, bisognerà procedere a un’ana lisi del DNA, come un tempo per una tela di Van Gogh di dubbia autenticità si
ricorreva all’analisi chimica per i pigmenti e alla grafologia per la firma? «Un testo non è altro che la somma delle sue interpretazioni». Possiamo parago nare questa formula provocatrice di Canfora a quella altrettanto provocante di Duchamp: «È lo spettatore che fa il quadro»? È diventata la formula stessa della modernità: in assenza di un canone, di regole accademiche, come dell’esigenza di obbedire a un’iconografia religiosa o politica, l’opera moderna non si inscrive in una storia. Solo la soggettività dello spettatore le conferisce un'esistenza, uno specchio. Soggettività contro soggettività: il pelo, 1 ritagli di unghie, la macchia di sperma dell’artista X o Y attestano della sua realtà come l’impronta digitale su un documento di identità biometrico. Spetterebbe a me, allo spettatore, conferirle il valore di «opera d’arte». Qui culmina l’ego arrogante dell’uomo moderno, uomo senza eredità, ma che crede di attribuire il valore supremo di opera d’arte a oggetti da nulla provenienti da uno sconosciuto... È precisamente perché l’Avanguardia si è costituita come l’espressione di un in dividuo totalmente immerso nel presente, senza radici, separato dalla storia, che la
sola possibilità che rimane agli artisti che pretendono di incarnarla è appunto di esibire il loro passaporto biometrico. La dimensione ereditaria - genetica - senza la quale l’individuo non può venire al mondo non sarà più espressa dal sapere ac quisito nel proprio mestiere, un tempo trasmesso da un atelier all’altro, dal maestro all’apprendista - la cultura, l’epigenetica - ma dalla formula biologica, singolare, del suo corpo e delle sue secrezioni. Qui sta il punto di rottura fondamentale della modernità. Il copista nel campo testuale secondo Canfora, come il restauratore o il falsario nel campo delle opere d’arte, si inscrivevano scrupolosamente, duramente, lungamente, in una storia, in una tradizione, in una cultura.
Non si può comprendere che i più grandi esperti, i migliori storici dell’arte e 1 migliori specialisti, gli occhi più esercitati si siano tutti lasciati ingannare nelle recenti vicende di falsi, Knoedler o Beltracchi, se non si considera questa evidenza
apparentemente scandalosa: il falsario possiede una competenza comparabile a quella del restauratore, nelle conoscenze e nel «mestiere». A_ un tale livello di artifi.
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cio diventa impossibile negare che i falsi sono realizzazioni notevoli quanto quelle prodotte dall’artista, che ha fornito, qui come altrove, solamente un prototipo, suscettibile di infinite variazioni. IL MONDO
DELL'ARTE
E IL SUO
LUTTO
IMPOSSIBILE:
L'INGRESSO
DEI FETICCI
Tutto considerato, oserei propotte l’ipotesi che il procedimento che da una venti.
na d’anni conduce a fabbricare quindi a vendere i prodotti di un'arte detta «arte contemporanea», a prezzi illimitati ma secondo criteri di valutazione inesplicabili,
somiglia stranamente al meccanismo che porta a immettere sul mercato falsi capo. lavori dell’arte moderna facendoli riconoscere come autentici. Già la serigrafia di Andy Warhol cadeva in un vacuum semantico tale che solo l’abilità del critico d’arte poteva darle una forma, un nome, attribuirle delle qualità o delle essenze, far parlare l’opera, insomma, come la veggente fa parlare le carte. La scienza dello storico associata al rigore del funzionario statale, la dissertazione
prolissa del critico ventriloquo, sono cosi diventate la parola d’ordine per fare accettare oggetti di varia natura, dal mucchio di vestiti buttati a terra nella navata del Grand Palais di-Parigi da Christian Boltanski (tav. 8) fino al dito medio eretto da Maurizio Cattelan davanti alla Borsa di Milano (tav. 9). Sarà sempre possibile dimostrare che questi oggetti, che questi gesti hanno un'origine, uno sviluppo, una loro logica, che sono inscritti nella storia, al seguito di Marcel Duchamp e di Picasso per esempio, e quindi attestarne la legittimità. Sono arrivato a pensare che l’arte contemporanea è interamente composta di falsi. Se questi conflitti sulla veridicità, l'originalità, la falsità, la provenienza delle opere
sono in questi tempi di un’attualità fracassante, è evidentemente a causa dei prezzi astronomici delle opere sul mercato. I prezzi delle opere di Damien Hirst o Jeff Koons hanno raggiunto in pochi anni cifre tali che nessuna spiegazione razionale può renderne conto. Non siamo più nel registro del gusto (si tratta di opere francamente brutte o addirittura repellenti), e neppure trattasi di rarità: sono opere infinitamente riproducibili. Non hanno in realtà alcuna esistenza, e non hanno un «valore» se non attraverso il mercato che
le propone. Come il mercato dell’arte, fondato da sempre sul lungo termine, abbia potuto incrociare il mercato della finanza, fondato sul brevissimo termine, al punto da
fondersi con esso, costituisce l’enigma dell’arte contemporanea. Acquisire un’opera d’arte, fino a qualche anno fa, voleva dire scoprirla, nelle sale
discrete e silenziose di una galleria; vederla e rivederla prima di prendere una de cisione. L’opera restava per anni di proprietà del collezionista. Se doveva essere venduta, capitava che la plusvalenza fosse considerevole, ma, calcolata sul periodo
di tempo in cui era stata nelle mani del proprietario, non era per nulla eccezionale.
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Le opere d’arte contemporanee, proposte nelle sale affollate delle case d’asta, sono apprezzate in funzione di una redditività elevata e quasi istantanea, e sono rivendute spesso dopo qualche mese o qualche settimana, giusto il tempo di cambiar di mano. Ubbidiscono dunque a una logica che è quella dei mercati finanziari, che oggi fun zionano sull’estrema rapidità delle transazioni, con l’aiuto di programmi informa tici che permettono di eftettuare gli scambi a grandissima velocità. Come ha potuto l’opera d’arte, un tempo «fatta per l’eternità», diventare un oggetto prodotto a gran velocità, moltiplicato a piacere, null’altro che il supporto indifferente di operazioni speculative fondate su algoritmi completamente sconnessi dal mondo ieale? Il Balloon Dog di Jeff Koons (fig. 17), in acciaio inossidabile di quattro metri di altezza, prodotto con un procedimento che esclude ogni intervento della mano dell’artista, che si è limitato a fornire il modello, il palloncino per bambini, è stato tirato a cinque esemplari, identici, e ciascuno è stato venduto fra i 35 e i 55 milioni
di dollari. È evidente che in questo caso, come per le serigrafie di Warhol, le nozioni di originale e di copia sono prive di senso. Ma direi di più: è proprio l’assenza di senso che permette di proporre questi prodotti a dei prezzi che non hanno limite. La perfetta riproducibilità tecnica dell’opera permette una miracolosa ubiquità, ormai presente, identica a se stessa, in vari punti del globo. Il procedimento di Koons è già stato utilizzato tuttavia, in modo più artigianale, da scultori più classici, e con materiali più tradizionali. Ancora oggi le fonderie di Pie trasanta sopravvivono al loro declino grazie agli ordini di Botero, animali anche in questo caso, ma gatti, ingranditi meccanicamente per raggiungere dimensioni monumentali a partire da piccoli bozzetti di cartone o di gesso (fig. 18). Il carattere derisorio di tali produzioni è sottolineato dalla scelta della figura rap presentata. L'immagine acheiropoietica della Veronica ci tendeva il volto di un Dio che si era fatto uomo per noi. Koons ci propone l’immagine infantile e deri soria di animali da compagnia, di giocattoli da carnevale ingigantiti e smisurati, che propongono alle élite finanziarie che li acquistano il riflesso della loro vanità di nouveaux riches. Non si tratta più dei prodotti di un’idolatria nata da un culto deviato delle imma/ gini. Si tratta qui di feticci. Il feticcio è l'oggetto artificiale (dal latino facticinm) che si sostituisce al possesso dell’essere amato. Il feticcio, oggetto di desiderio parziale e inanimato, suppone l’assenza del corpo intero e reale del desiderio, o meglio
ancora, la sua sparizione. L’innamorato desidera il corpo dell'amante e gli rende omaggio; se lei è assente, amerà guardare i sui medaglioni, i suoi ritratti dipinti o scolpiti. Ma di questo tipo di rituale, il feticista non conserverà che il ciufto di
capelli, la scarpa, il liquido giallo delle sue emissioni, o il giocattolo infantile, il peluche che metterà nel letto, al suo posto...
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Fig. 17. Jeff Koons, Balloon Dog, esposto nella Reggia di Versailles, Chateau, nel 2008. Fig. 18. Botero, El gat del Raval, Barcellona, Rambla de Raval.
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Fig. 19. Damien Hirst,
The Golden Calf, serigrafia. Fig. 20. Nicolas Poussin, Adorazione del Vitello d'oro,
Londra, National Gallery.
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Alla televisione, alla radio, ci ripetono che un tale non ha potuto «elaborare il lut to» di un essere amato scomparso perché il suo corpo, il suo cadavere, non è stato
ritrovato. Il lutto sarebbe impossibile in assenza della-prova materiale del decesso. Questo sentimento popolare ha almeno il merito di ricordarci il potere dell'oggetto amato, non la sua immagine, non il ricordo, ma il suo corpo, la sua presenza reale,
la sua realtà materiale, in quella che Freud chiamava «elaborazione del lutto». Ora, non resta nulla del corpo della pittura, di quel corpo un tempo adorato, ve, nerato, ammirato, riprodotto, ricopiato, restaurato con amore. L’arte è morta, ma non ci resta nessuna prova materiale della sua scomparsa che ci potrebbe permet.
tere l’«elaborazione del lutto». Nei prodotti che ci propone l’arte contemporanea non rimangono nemmeno dei residui, dei frammenti, delle reliquie. Nient'altro
che quei feticci ridicoli, quei palloni gonfiati che ci propongono le fiere dell’arte e 1 palazzi veneziani. AI feticismo sessuale come descritto da Freud, delle produzioni corporee, dei ca pelli, peli, e altre immondizie, si aggiunge qui il feticismo della merce, come l’in
tendeva Marx: l’opera d’arte situata al livello degli scambi di prodotti indifterenti, pagati con una-moneta irrisoria, dalla conchiglia primitiva all'ordine di acquisto elettronico, che non garantisce il possesso di un’opera preziosa ma di una merce svuotata di ogni valore proprio, una sorta di cartolarizzazione del nulla. Gli Ebrei adoravano il vitello d’oro. Noi adoriamo 1 cani, i gatti, i vitelli di Ko
ons, Botero e Hirst (fig. 19). Chi sarà il Mosè che spezzerà davanti a loro le Tavole della legge, scendendo da un monte Sinai (fig. 20)? Ma esistono ancora una legge, dei comandamenti, un ordine da spezzare? Mosè non era forse sceso dal monte Sinai per proibire al suo popolo di fabbricare immagini?
! Il caso è stato descritto con precisione da S. KoLDEHOFF e T. Timm, Falsche Bilder Echtes Geld. Der
° E ZERI, Falso e iconografia, in Cos'è un falso e altre. conversazioni sull'arte, a cura di M. Bona Castellotti, Longanesi, Milano 2011, p. 183. 3 Ibid., pp. 183-184. * Fino al 1978 il Museo possedeva un solo Mondrian, acquistato per 400.000 franchi al momento dell’inaugurazione. Gli furono allora proposte tre tele: Compo sition abstraîte, firmata e non datata, degli anni 1913-
tre opere erano state viste da Michel Seuphor nel 1975, e da lui autentificate. Furono acquistate per sei milioni di franchi. Sembravano di grande qualità, ma l’origi ne rimaneva incerta, e furono espressi dei dubbi sulla loro autenticità. Il Centro Pompidou infine si rifiutò di pagare, e fece ricorso alla giustizia. A1 processo, nel 1984, Seuphor, indagato per «complicità in ma teria di frode artistica», mantenne il proprio giudizio, mentre Harry Holtzmann, l’esecutore testamentario di Mondrian, dichiarò che si trattava di falsi, con il sostegno delle perizie tecniche. Il giudice confermò trattarsi di falsi, condannò la venditrice, rilasciò Se phor per buona fede, e affidò le tele a Holtzmann... per un museo del falso. ° Per riprendere il titolo e il tema del saggio magi-
1914, Composition plus et minus, firmata e non datata,
strale di O. PAZ, Point de convergence, du Romantisme à
del 1916, e Composition, firmata e datata, del 1921. Le
l’Avant-garde, Gallimard, Paris 1976.
Falschercoup des Jahrhunderts - und wer alles daran verdiente, Galiani, Berlin 2012 (trad. fr. consultata L’Affaire Beltracchi. Enquéte sur l'un des plus grands scandales de faux tableaux du siècle et sur ceux qui en ont profité, Jacqueline Chambon, Paris 2013).
dd
!! B. LATOUR e A. Lowe, La migration de l'aura cu comment explorer un original par le biais de ses facsimilés,
° E. PanoFSKY, Studies in Iconology. Humanistic The mes in the Art of the Renaissance, Oxford University Press, New York 1939, p. 8. 7 In Francia la terminologia è stata introdotta dal decreto Marcus del 3 marzo 1981 sulla repressione delle frodi in materia di transazioni riguardanti le opere d’arte e gli oggetti da collezione. è Giov. 10,30: «Io e il Padre non siamo che Uno». ° Velasquez «copy» may be the real thing, in «The He rald Tribune», 9 ottobre 2013. !© La scienza avrebbe nel frattempo dimostrato che la madre di Piero non si chiamava Francesca, e che il «della Francesca» evocherebbe un’altra donna. Apprendiamo anche che il luogo di destinazione dell’affresco non era il cimitero. Cfr. I. WALTER, La Madonna del Parto. Ein Kunstwerk zwischen Politik und Devotion, Fischer Taschenbuch Verlag, Fran kfurt a.M. 1992.
in Intermédialités», 2011, n. 17, p. 173.
l Cf. A. Lowe, Il facsimile delle nozze di Cana di Paolo Veronese, in Il miracolo di Cana. L'originalità della riproduzione, a cura di G. Pavanello, Cierre edizioni,
Venezia 2007, pp. 106 sgg. ! Cfr. La Victoire de Samothrace. l’Odyssée d'une @uvre, in «Grande Galerie. Le Journal du Louvre», 2013, n. 26, pp. 24 Sgg.
4 L. CANFORA, Il copista come autore, Sellerio, Paler.
mo 2002 (trad. fr. consultata Le copiste comme auteur, Éditions Anacharsis, Paris 2012, pp. 19 sgg). ! Per un’analisi più approfondita si consulti P. ARDENNE, Extrémes. Esthétique de la limitée dépassee,
Flammarion, Paris 2006, pp. 241 sgg., oppure |. CLAIR, De immundo. Apophatisme et apocatastase dans l'art d'aujourd'hui, Éditions Galilée, Paris 2004.
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La lettera come oggetto privilegiato difalsificazione LUCIANO CANFORA
Mi richiamo in apertura a quel segmento della relazione di Jean Clair che è stato già prepubblicato sul quotidiano «la Repubblica». Vorrei dire una parola su un fenomeno che spesso sfugge: il falso è più abbondante del vero; si na viga nel falso e si individua dove possibile il vero. Sovvertirei una prospettiva che è più che giustificata, perché è chiaro che non solo tutti vorremmo occuparci soltan to del vero, ma anche scolasticamente siamo abituati a partire dal presupposto che ciò di cui ci occupiamo è vero. Prospettiva ingannevole, giacché storicamente è vero il contrario, e lo è in moltissime epoche, direi senza soluzione di continuità nel mondo al quale mi riferirò essenzialmente, cioè quello antico, greco e romano; è un flusso costante, è la norma.
Potrei ricordare un episodio curioso: Vitruvio, nel proemio del settimo libro De Architectura, rievoca un po’ maliziosamente, a proposito del meccanismo grosso lano della falsificazione, quanto accaduto, secondo le sue fonti, ad Alessandria
d’Egitto, dentro la biblioteca celeberrima. C'era una gara poetica: un tale che aspirava al premio recita versi cavati da Omero, il bibliotecario in carica corre nel la biblioteca, prende il libro di Omero, recita i versi di Omero plagiati e quest'uomo viene sbugiardato e disperso. Vitruvio naturalmente commenta con ironia. È un episodio interessante perché viene da chiedersi: da quali spinte viene l’im pulso a creare falsi? Come preambolo vorrei delineare una tipologia partendo dai casi più interessanti: 11 falso può essere, vuole essere una forma di lotta; intervenire in un conflitto con
un falso, creandolo, più o meno attendibile naturalmente. E si potrebbero addurre esempi molteplici. Mi viene in mente quello tucidideo: una breve lettera in cui il reggente di Sparta, di nome Pausania, scrive al re di Persia e gli dice: «ti propon go, se piace anche a te, di sposare tua figlia e di sottomettere al tuo potere Sparta e tutta la Grecia; ritengo di essere in grado di realizzare questo piano, se mi metto d’accordo con te. Se qualcosa di questa proposta ti piace, manda qualcuno fidato con cui si possa proseguire la trattativa». Questo breve messaggio si legge nel capi. tolo 128 del libro primo, ed è un documento che Tucidide, storico accorto - che
dichiara di essere stato il solo a perseguire sempre e soltanto la verità - prende sul serio. Il cattivissimo Karl Julius Beloch, che era un po’ malizioso, disprezzando questo documento e negandone l’autenticità, disse: «è come se Teodoro Roosevelt
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Fig. 1. Frontespizio del III volume delle opere
di Cicerone, Basilea 1528.
Fig. 2. False epistole ad Brutum, dal INI volume delle opere di Cicerone, Basilea 1528.
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4. Figg. 3-4. False epistole ad Brutum, dal III volume delle opere di Cicerone, Basilea 1528.
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chiedesse in moglie la figlia del re d'Inghilterra». Ciò non esiste, perché il re d’In ghilterra dà sua figlia in sposa a dei principi sperabilmente britannici, e così il re di Persia sistemava la propria discendenza presso grandi. dignitari persiani. Quindi questo sciagurato soldataccio spartano, che tra l’altro era stato uno dei vincitori della durissima seconda guerra persiana, o era totalmente sprovveduto o è incon cepibile che abbia divisato un'alleanza dinastica di questo genere. La vicenda ebbe uno sviluppo drammatico: Pausania avrebbe avuto il compito di proseguire sul suolo persiano la guerra dopo che Serse era stato respinto con la sua enorme armata, e invece non prosegue questo conflitto, segna il passo, imbarazza alquanto il potere degli Efori, viene richiamato in patria, processato,
rinchiuso in un tempio, lapidato e ucciso. Perché c’è la risposta del gran re, una risposta molto prudente che essenzialmente allude al fatto che si può collaborare con Sparta. Pausania è ingombrante, è uno di quegli spartani che hanno fatto molto per il potere militare di questa città guerresca ma cadono in disgrazia per ché sospettati di voler assumere un potere superiore a quello che può essere loro concesso, infrangendo così il kosmos di Licurgo. Pausania è il primo, poi ci sarà Brasida che viene mandato a morire, poi ci sarà Lisandro: è una lunga teoria di personaggi eccessivi, implacabilmente destinati a essere liquidati. Lisandro voleva addirittura riscrivere l'ordinamento spartano. Quando lui morì scoprirono questo suo progetto e lo seppellirono insieme a lui perché nessuno lo potesse leggere. È molto probabile, anche se ci muoviamo su un terreno scivoloso, che effettivamente autentico fosse il messaggio del gran re in mano agli Efori: è un documento dal quale si ricavava che Pausania probabilmente instaurava una trattativa con il gran re. La lettera di Pausania è invece un falso: viene costruita per incastrarlo, ed egli non ha nessuna possibilità di smentire questo perché viene soltanto processato e ucciso. Ecco come può nascere un falso come forma di lotta: l’eforato si difende da un pericolo enorme, cioè che si deformi l’ordinamento che dura da secoli dell’imbattibile Sparta. Ma si potrebbero citare esempi anche recenti del falso come lotta politica. Mi ven gono in mente due casi celeberrimi: il dispaccio di Ems, con cui Bismarck provoca la guerra franco-prussiana, e il cosiddetto «testamento» di Lenin. Ci muoviamo sempre su lettere; una lettera era il dispaccio di Ems, e il cosiddetto «testamento»
era una lettera al partito dettata in più momenti da un uomo ormai distrutto fisi. camente. Quella lettera ha avuto un'efficacia politica grandissima: è stata oggetto di conflitto all’interno del partito sovietico di congresso in congresso, poi è scom parsa. Per chi è nato un po’ di anni fa, questo testo è una novità apparsa nel 1956:
niente di più falso, perché era noto da sempre e rimasto occultato negli anni dello stalinismo e nel ventesimo congresso del partito comunista sovietico viene ritirato fuori macchiato dalla falsificazione di singole frasi abilmente immesse nel testo
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autentico. Ciò era stato possibile perché la lettera al partito veniva dettata a un poo/ di segretari; la segretaria di Lenin che scriveva a macchina era la moglie di Stalin, il che creava un cortocircuito particolarmente adatto a eventuali interventi testuali. E l’intervento testuale più perfido consiste in due frasi che mettono in una luce molto negativa il rivale di Stalin, cioè Trotskij, e la frase più ambigua è quella in
cui Lenin sembra dire: «noi non addebitiamo sufficientemente a Trotskij il suo non-bolscevismo». Trotskij è diventato bolscevico alla vigilia della rivoluzione,
il non-bolscevismo non è una sua caratteristica. La frase in russo può significa re tanto che «non è il caso di rimproverarlo perché è storia remota», quanto che
«noi non siamo sufficientemente fermi nel rimproverarlo come dovremmo». Uno storico russo, Buranov, ha rintracciato quanto resta della trascrizione fatta dalla Allilueva, moglie di Stalin, lo ha raffrontato col testo a stampa e ha consentito di
svelare la manipolazione. Un'altra tipologia è il falso come canone letterario, come Stilgesetz. Mi riferisco a Eduard Norden, Die antike Kunstprosa, libro stupendo che egli scrisse in gioventù. Secondo Norden, lo storico di età classica, sia in greco che in latino, non riprodu/
ce verbatim (parola per parola) i documenti che mette a frutto anche quando dà la parola ai protagonisti o ne riferisce dei testi in forma epistolare, come fa Tucidide nel settimo libro con la lunghissima lettera di Nicia, che dalla Sicilia deve chiedere aiuti ad Atene perché la guerra va malissimo. Dice Norden che è norma stilistica (Stilgesetz) che quei testi siano rielaborati, perché non debbono essere dissonanti rispetto al tono stilistico del contesto in cui vanno a finire. Ecco perché vanno ri scritti: sono al tempo stesso veri e falsi. Norden porta degli esempi famosissimi, ca vati soprattutto dalla letteratura romana, come il racconto della Congiura di Catilina dove Sallustio fa parlare Cesare, fa parlare Catone, non fa parlare Cicerone e se ne libera con una frase piuttosto ironica: tanto li ha pubblicati quei discorsi, è inutile che io ne dia conto. E con ciò ridimensiona radicalmente il ruolo che Cicerone ha avuto nello sventare la congiura. Infine, la creazione di un falso tendenzialmente sotto forma di lettera è il sigillo
nella costruzione di un corpus: di un corpus di personaggi significanti, eminenti. Vorrei citarne tre, tre grandi corpora che ci sono arrivati sostanzialmente integri: Platone, Demostene e Cesare. In tutti e tre entra in scena l’epistolografia falsa.
Essa ha una finalità precisa, quella di sigillare il corpus. Nel caso cesariano ciò è di immediata evidenza. Abbiamo otto commentari sulla guerra gallica, due (succes sivamente divisi in tre) della guerra civile e c'è una sutura, data da un testo episto. lare tardivo, che si può smascherare dall’interno cronologicamente, che connette l’ultimo commentario della guerra gallica con il primo della guerra civile. Il de stinatario di questa fittizia epistola è Balbo, un personaggio importantissimo della cerchia di Cesare, e tutto è scritto per suggerire che l’autore sia un fedelissimo di
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Cesare, il famoso Irzio, poi morto in malo modo nella guerra di Modena, forse per
mano di Ottaviano, il quale lo liquidò per fare spazio a se stesso. In questa lettera è incastonata una frase che da Svetonio sappiamo appartenere a uno scritto di Irzio: c’era una vera lettera di Irzio in cui si dava un giudizio sulla grandezza inimitabile dei commentari cesariani; questa frase viene immessa in un’altra lettera che non è di Irzio, ma che si serve di quel tassello per suggerire al lettore che l’autore sia Irzio: ecco un sugello perfetto. Ho citato il corpus demostenico e il corpus platonico (e si potrebbe mettere dentro anche Isocrate), tutti personaggi chiave del rv secolo a.C. Il corpus delle loro opere fu costituito in modo piuttosto diverso; per Platone, è opera della sua scuola; per Demostene, sono i suoi seguaci politici, che non sono andati per il sottile, e han no messo dentro anche cose che non erano di Demostene, pur sapendolo, hanno
creato lo strumento del «partito di Demostene» dopo la tragica morte di lui. Men tre Isocrate, alla stregua di coloro che si preparano il funerale da vivi, ha curato lui stesso la raccolta di tutto ciò che doveva passare per essere veramente suo. Tutte e tre queste raccolte si chiudono con una silloge epistolare: grande problema. Allo scopo di illustrare meglio per quale motivo queste lettere costituiscano un problema, ritengo opportuno leggervi due righe di un dotto filologo, Julius Lippert, al quale va il merito di aver pubblicato nel 1891 una lunghissima lettera di Aristotele ad Alessandro Magno, nota in arabo, non in greco.
Lippert tendeva a considerarla falsa per due ragioni. La prima è debolissima: il fatto che in questa lettera Aristotele suggerisca ad Alessandro come governare ilgran dissimo impero che ha costituito con le sue conquiste, essenzialmente con la sconfitta dell’impero persiano, che sembrava dovesse essere eterno. Per Lippert, «è strano
che gli dia questi consigli a conquista già avvenuta». Argomento debolissimo: potremmo effonderci a lungo sulla prudenza e saggezza del grande Aristotele che, sebbene nella Politica non faccia mai cenno all’impero di Alessandro né a come debba essere governato, affida invece questo argomento a un testo epistolare, peral,
tro lunghissimo. La Politica di Aristotele ha un altro fine, è uno strumento della scuola, sono le lezioni che lui teneva e rielaborava, che gli allievi mettevano per iscritto e su cui lui interveniva, insomma, tutta un’altra realtà. L’altro argomento
invece è così formulato: quasi lex apud philologos extitit (costituisce quasi una legge presso gli studiosi di filologia), omnes epistulas, quae ex antiquitate nobis prodantur (qua lunque lettera ci arrivi dall’antichità), ducendas esse spurias (va considerata falsa), donec certis rationibus comprobatum sit (finché non arrivano argomenti sicuri per sal. varla). Su che base Lippert si riferisce a una pratica che è effettivamente dominan te proprio nel campo dei nostri studi sul mondo greco-romano? Alla base c'è la vicenda nota dello smascheramento delle lettere di Falaride: il grande Bentley alla fine del Seicento pubblica, con un tono estremamente drastico
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e polemico, una Epistola ad Millium indirizzata a Mill, in cui dimostra che le cosiddette lettere di Falaride, del cattivissimo tiranno Falaride, sono una falsificazione;
porta degli argomenti oggettivi e irresistibili, il più forte dei quali è l’anacronismo: in alcune di quelle lettere si parla di una città fondata da Falaride che invece risulta per certo essere stata fondata centocinquant’anni dopo, quindi è impossibile che Falaride ne parlasse, dunque siamo davanti a un falso. A_ quel punto, nonostante
le resistenze che ci sono sempre (quando qualcuno denuncia un falso c’è sempre qualcuno che dice «no, è vero»), Bentley vince, storicamente ha vinto, nessuno
va a leggere i suoi detrattori; noi tutti veneriamo in Bentley uno dei grandissimi della filologia, che ha però impresso una sorta di direttiva implicita, da lui non affermata come tale, codificata in questa lex o quasi lex secondo cui, per dirla con
Lippert, bisogna sospettare preventivamente. Questo sospetto ha investito collezioni importantissime, ha lambito anche la collezione ciceroniana. Noi abbiamo di Ci cerone un migliaio di lettere complessivamente, mettendo insieme tutte le raccolte di Cicerone superstiti, che egli in gran parte non destinava a noi: è un colpo di mano di Augusto l’averle fatte pubblicare. Anche lì, pezzi si sono infilati nel tem po, in alcuni casi si possono portare argomenti molto forti, ma il sospetto ha finito col lambire anche quelle che sicuramente non sono sospettabili. Per tenerci ancora su Cicerone, mi piace sempre ricordare un episodio molto sin tomatico di come si costruisce una tradizione. Alla metà del Cinquecento, un bravo protestante tedesco, che era essenzialmente un tipografo e si chiamava, alla latina, Cratander, pubblica un «tutto» Cicerone con dentro cinque nuove lettere ad Brutum (intendo il cesaricida, Marco Bruto). Nonio, un grammatico al quale dobbiamo tanto, conosceva una serie vastissima di raccolte ciceroniane che a suo
dire esistevano al tempo suo e che noi non abbiamo più; per Bruto conosceva nove libri mentre noi abbiamo un libro solo; in quella edizione cinquecentesca vengono fuori queste altre cinque lettere che vengono proclamate strumentalmente «secon, do libro»: la quinta di esse è una discussione su una lettera falsa. Le altre quattro,
piene di anacronismi, sono scaturite da questa. Essa descrive una seduta in Senato in un momento drammatico, alla fine del
44 a.C. Ormai è praticamente cominciata la guerra di Modena, Antonio è già nell’illegalità perché ha varcato la provincia che non gli spetta e potrebbe essere dichiarato hostis publicus, però molti vicini anche a Cicerone non vogliono rompere con lui. Insomma, arrivano in Senato due lettere mentre la seduta è in corso:
una di Bruto e una di Antonio. Grande imbarazzo perché la lettera di Bruto è estremamente conciliante verso Antonio, dobbiamo dire che è autentica? E allora ci crolla l’impalcatura politica intorno alla quale stiamo lavorando, o dobbiamo dire che è falsa, ma con quale argomento? Rinviamo la seduta, come si fa in tutti i
consigli degni di questo nome.
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Nuova riunione, Labeone, repubblicano feroce, decide che «è falsa» e porta una
serie di argomenti, dice «per esempio noi sappiamo che Bruto quando scrive se gnala sempre di avere scritto le stesse cose anche ai suoi congiunti, alla madre (severissima oltre che amante di Cesare), e alla sorella, e invece in questa lettera qui non c'è nulla di questo genere, quindi questo è un elemento dubbio, e poi non c'è il sigillo, dunque questa lettera è falsa». Il Senato decide che quella lettera è
falsa e quindi la linea morbida che Bruto sembrava segnalare in questa sua missiva viene accantonata. Le altre quattro lettere sono sicuramente false perché conten gono anacronismi palesi, ma sono tutte fornite della segnaletica «questo che ti sto scrivendo l’ho scritto pure a mia madre e a mia sorella». Dalla lettera vera in cui si discuteva di un falso possibile e si adduceva questo argomento, ne nascono altre
in cui si elude quell’argomento inserendo un elemento di sicura autenticità. È un caso, direi, da manuale. Ma il sospetto ha investito lettere che non andavano so-
spettate, le lettere 1617/18 del cosiddetto primo libro: con argomenti debolissimi, che cioè lì emerge chiaramente il contrasto tra Cicerone e Bruto sul tema scottante «tu Cicerone ti sei asservito a Ottaviano perché vai cercando un altro padrone» e l’altro che risponde «tu ti sei schierato sostanzialmente con Antonio». Middleton, che era tutto sommato un seguace di Bentley, scrisse pagine e pagine per dimostrare che queste lettere non potevano essere vere per il fatto stesso che ne viene fuori un attrito fra quei due e una figura abbastanza ridimensionata di entrambi. Ma è proprio questa la ragione per cui sono autentiche, anzi, sono le più importanti del cosiddetto primo libro, perché il de quo era proprio il contrasto su come porsi rispetto alla guerra civile imminente con colui che era stato sino a qualche mese prima il console in carica. Quelle lettere vanno rivendicare. Questo l’ho ricordato a proposito di un corpus, quello ciceroniano, larghissima. mente al riparo dal sospetto di falsità. Invece torniamo agli effetti di Bentley e dei suoi seguaci ortodossi su quegli altri corpora e naturalmente mi concederete di dare rilievo a un testo sul quale ci si accapiglia: la lettera settima di Platone. So che è tematica immensa e forse troppo familiare, tuttavia qualche piccola novità secon do me c'è e va apprezzata. Perché, dicevo, ci si accapiglia? La lettera settima è un trattato che si presenta sotto forma di lettera indirizzata a Dione di Siracusa e agli altri seguaci di Platone e contiene il rifiuto da parte di Platone di tornare ancora una volta in Sicilia a instaurare il governo dei «filosofi reggitori». Tre volte è an dato in Sicilia, ha avuto una serie di scacchi terribili, la prima volta addirittura
è stato venduto schiavo. Si sporca le mani il grande Platone, non si tira indietro, ma questa volta dice «no» e per dire «no» scrive una lettera memorabile in tutta la prima parte contenente una sua autobiografia politica. Il sospetto verso di essa è antichissimo ed è in linea col bentleismo. La difesa di essa è stata propugnata da grandissimi: Eduard Meyer, Ulrich von Wilamowitz-MoellendorfF, Giorgio
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Pasquali, Giovanni Pugliese Caratelli. C'è davvero una grande tradizione posi tiva a sostegno di questa lettera, con gli argomenti più diversi. Il punto delicato è la contraddizione tra alcuni svolgimenti filosofici che sono contenuti lì dentro e il pensiero platonico come ci è noto dai Dialoghi, argomento che naturalmente può affascinare. Nel caso di Platone è un argomento pericoloso, perché Platone rimette in discussione continuamente il suo pensiero, di dialogo in dialogo. Non è dun.
que credibile l'argomento dell’incoerenza rispetto agli altri dialoghi per liquidare questo testo. Ma a me interessa ricordarlo soprattutto per l'autobiografia politica. «Essendo giovanotto (neos eti on) mi capitò quello che capita a tanti: ritenni di dovermi, appena possibile, impegnare nella politica». Centro del socratismo è la critica della politica e quindi è una dichiarazione di estremo rilievo quella in cui Platone si dichiara totus politicus. Salto naturalmente una serie di dettagli. «Ma al tempo mio, quando io ebbi questa pulsione la città era pessimamente governata. Subito dopo, cinquantuno uomini presero il potere, molti di loro erano mici pa renti strettissimi». (Crizia, Carmide, noi ben lo sappiamo). «E mi dissero “ora ti devi impegnare”». Mi dissero in sostanza, se hai passato anni con quel vecchio
straordinario a riflettere sul fenomeno della politica, ora è il tuo momento: siamo noi allevati intorno a quell’uomo che abbiamo il potere e quindi dobbiamo impegnarci. Lui si impegnò e lo dichiara apertamente. Platone scrive in queste righe di aver collaborato col governo di Crizia, cioè coi Trenta tiranni cattivissimi, dannati
per sempre. Quale falsario avrebbe fatto dire a Platone una cosa così terribile? Nessuno.
Naturalmente ci possono essere sfumature, tra la scrittura vergata direttamente con le proprie mani, la dettatura, la circolazione di pensieri in un entourage strettissi.
mo: in fondo il successore di Platone fu suo nipote, al vertice della scuola, cosa che dette molto sui nervi ad Aristotele, che aveva tutti i titoli per essere lui ma non lo
fu. Anche nelle cattedre universitarie ogni tanto succede questo: quello fu un modello importante di un meccanismo eterno. Orbene, se questa prosa è sorta intorno a Platone negli anni in cui egli cavava il bilancio della sua lunghissima vita e di questa lunghissima politeia, ciò sostanzialmente coincide con l'autenticità.
Sono giunto quindi al punto che mi sta più a cuore di tutti, cioè il fenomeno specifico, scusatemi l’espressione volgare un po’ banale, del «falso-vero», di qualche cosa che è al tempo stesso dubitabile se vogliamo i verba ipsissima ma che è sostan zialmente vero. La settima lettera in questo senso sarebbe un esempio perfetto; e metterei nella stessa categoria altri testi, uno dei quali è proprio la lettera di Ari stotele ad Alessandro, e un terzo caso è la dedicatoria della Biblioteca di Fozio, che
apre la raccolta di quegli schedari, di quei riassunti ed epitomi di trecentosessanta opere che i moderni hanno chiamato la Biblioteca. Di recente è successo qualcosa che conferma la sostanziale autenticità della settima lettera. Il grande Wilamowitz,
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che io ritengo insuperato in molti aspetti della sua opera, nel Platone, criticatissi. mo dai filosofi professionali, dedica una delle appendici nel secondo volume alle lettere e dice, tranchant come sempre: «Aristofane di Bisanzio, nella biblioteca di
Alessandria (e quindi siamo nel i secolo a.C.) aveva una raccolta platonica in cui figuravano delle lettere». Perché dice questo? Perché Diogene Laerzio, nel terzo libro, tutto dedicato a Platone, delle vite dei filosofi, al paragrafo 61 elenca il corpus
come era noto ad Aristofane di Bisanzio (pregevolissima opera quella di Diogene) e al termine dell’elenco pone le epistolai. Non sono forse quattordici, non c’è un
numero, però epistolai erano presenti in quella raccolta. Molto dopo di lui è venuto fuori un papiro, un papiro di Ossirinco, che contiene un pezzetto della lettera ottava, e tutti hanno gioito perché prima che entrassero in scena i papiri (quelli buoni naturalmente), si formulavano ipotesi spericolate. I papiri hanno retroda. tato testi che si sospettavano, ad esempio le cosiddette interpolazioni cronologiche nelle Elleniche di Senofonte. Cobet addirittura le tolse dal testo, poi è venuto fuori
un papiro di Vienna della collezione Rainer che ha riportato all’indietro, al I se colo d.C. quei brani (alcuni di essi). Crollano così tutte le ipotesi di falsificazione medievale. Non si era notato che Cicerone nel quinto libro delle Tusculanae, al paragrafo 35, cita un pezzo della lettera settima. Quindi, almeno al tempo di Cicerone, e già al tempo di Aristofane di Bisanzio, queste epistolai c'erano. Il caso di Cicerone è più interessante perché cita proprio un brano della settima lettera per lui molto interes sante, quello sul filosofo che si impegna nella politica. Ma torniamo al nuovo papiro. Nel 2008 è stato pubblicato un frammentino mi nuscolo, un francobollo praticamente, della lettera ottava, che è l’altra connessa
alla settima che i grandi salvavano, Pasquali e i suoi ascendenti. Questo papiro è conservato a Milano nella collezione Vogliano, è stato reso noto, ripeto, nel 2008 e databile intorno al 280 a.C., ed è sicuramente tolemaico, risalente cioè a qua
rant'anni, cinquant'anni dopo la morte di Platone. Il che vuol dire che in Egitto c'era una raccolta di scritti platonici contenente l’ottava e quindi anche la settima lettera, addirittura al momento in cui nasceva la biblioteca di Alessandria. La
facciamo nascere sotto Tolomeo II, che sale al trono nel 284 a.C. La biblioteca
è appena nata e c’è già lì un Platone che circola con le lettere dentro, e che certo venivano da Atene. Euclide era stato un ascoltatore attento di Platone, e poi pro. fessore ad Alessandria; è stato uno dei tramiti intellettuali tra Atene e Alessandria.
A questo punto l’assedio attorno alla lettera si stringe: o è nata dalla penna di Platone o è nata da coloro che avevano da lui appreso cose che non avrebbe forse mai desiderato di affidare al ricordo dei posteri, cioè quella compromissione nel terribile governo dei Trenta. Ecco perché dico «siamo sul crinale». Poi del crinale si possono anche fare le caricature, nel senso che Bompiani pubblica i Diari di
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Mussolini, veri o presunti (sic!), e quello non è il falsovero, è il falso gabellato da vero a colpi di politica editoriale. Invece dobbiamo volare un po’ più alto, tenerci a questi esempi. Perché, dicevo, collocherei in questa zona «grigia» anche la lettera ad Alessandro di Aristotele? È una storia curiosa. Il testo è di notevole interesse, tra l’altro contie
ne tutta una parte in cui si descrivono i doveri del principe: sembra una sorta di peri basileias, e, nelle liste delle opere di Aristotele, Diogene elenca un peri basileias. Inoltre suggerisce molto insistentemente ad Alessandro la deportazione dei Per siani. Dice: «finalmente abbiamo vinto», i Greci hanno conquistato l’imbattibile impero persiano, ora cominciamo a deportarli fuori delle sedi in cui abusivamente si sono collocati, con la conquista, a partire dalla Perside, di tutta l'Asia Minore.
È una tematica non ovvia, non generica. Perché, dicevo, il testo va considerato con diversa attenzione che non si sia fatto di
solito? Perché anche in questo caso è vero, noi abbiamo il testo in arabo, pubbli cato nel 1891, ma noi sappiamo che una parte del lascito aristotelico era sopravvis suta soltanto in arabo, e in alcuni casi sia in arabo che in greco. Faccio l’esempio del testamento di Aristotele: sappiamo che Diogene ha avuto accesso ai testamenti dei vari scolarchi del Peripato: testamento di Aristotele, testamento di Teofrasto, di Stratone di Lampsaco, che sono testi importantissimi. Nel Fihrist, il Catalogo di al Nadim, autore vissuto intorno all’anno Mille, libro
interessantissimo (ne esiste una traduzione inglese molto criticata ma per chi non conosce l’arabo utilissima), c'è un lunghissimo brano del testamento di A ristotele in arabo, e coincide col testo greco che abbiamo di Diogene Laerzio. Quindi questo dimostra che la traduzione araba del lascito di Aristotele poteva benissimo avere un fondamento, e non perché il corrispondente greco non c’è più diventa falsa. D'altra parte, qual è il fine in quel caso? Perché nella tradizione colta del califfato si sente di dovere dare spazio e rilievo alla lettera con cui Aristotele spiega ad Alessandro come si governa il mondo (l’hai conquistato tutto e adesso lo devi governare così)? Ma perché al califtato quello di Alessandro sembra un antefatto alla propria realtà. Non a caso, nel medesimo Fihrist c'è una scena memorabile:
il sogno di al Mutawakkil, un califfo che sogna Aristotele! Aveva evidentemente delle turbe notevoli quest'uomo, e Aristotele gli spiega che deve fondare la «Casa della sapienza», cioè gli suggerisce di fare nella capitale del califfato ciò che a Costantinopoli era avvenuto ai tempi di Costanzo II. Una caratteristica fondamentale: la biblioteca del palazzo. La biblioteca dell’imperatore viene, così, collocata
sotto il segno di Aristotele.
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Ifalsi e la storia dell'arte Mauro NATALE
St pagine del «London Magazine», prestigioso periodico di letteratura e di varia cultura, apparve nel 1826 un articolo di Ugo Foscolo dedicato a una pittura raffigurante Cleopatra a mezzo busto (fig. 1)'; il poeta italiano, che aveva trovato rifugio in Inghilterra una decina d’anni prima, presentava ai lettori un’o pera per molti aspetti singolare. Dipinta su una lastra di ardesia, l’opera sembrava essere stata eseguita secondo l’antica e misteriosa tecnica dell’encausto e consentiva dunque all’autore di richiamare i temi essenziali del dibattito sulla pittura romana che tanto aveva appassionato gli amatori europei dalla metà del Settecento in poi. Lo scritto di Foscolo è stato poco ricordato negli studi di storia dell’arte’, sebbene sia un esempio davvero notevole di intelligenza e di probità intellettuale; le incon gruenze formali e di costume non sono taciute, e lo scrittore esprime pianamente la propria perplessità sull’autenticità di un dipinto che era emerso qualche anno prima nella bottega di un antiquario di Sorrento con l'attribuzione alla «scuola greca di A pelle». Il giudizio finale è delegato all’imparzialità delle indagini del conoscitore, sobrie e basate su «fatti positivi»: la questione dell’antichità dell’o pera e quella della sua tecnica di esecuzione rimangono aperte, e poco conta se lo scrittore, affascinato dall’eleganza della figura ritratta, sembra propendere per l’an tichità del quadro (la riproduzione incisa e la mediocre fotografia pubblicata nel 1914 fanno pensare che l’opera sia cinquecentesca, nel gusto di Leonardo Grazia da Pistoia)?. L’argomentazione di Foscolo fa emergere con grande chiarezza uno dei temi fondamentali che, da Giorgio Vasari in poi, aveva inquietato gli scrittori e i teorizzatori dell’arte: quello cioè dell’aftidabilità dell’occhio e dell’analisi visi. va, e il suo corollario della capacità di distinguere tra originali, copie e derivazioni ingannevoli e intenzionali; mette inoltre in evidenza come negli anni a cavallo tra Sette e Ottocento, allorché «c'est d’un bout à l’autre de l'Europe [...] comme une vaste symphonie de fraudes»*, i quesiti relativi all’autenticità delle opere d’arte
fossero focalizzati soprattutto sugli oggetti dell’antichità classica piuttosto che sui dipinti medievali e moderni. L'affresco staccato e riportato su tela con Giove e Ganimede che ingannò Winckelmann e sedusse Goethe in Italia (1786), la Musa
Polimnia dell’ Accademia Etrusca di Cortona (fig. 2)° e la stessa Cleopatra sono gli esempi più noti attorno ai quali si è sviluppato un dibattito verboso ma ricco di spunti interessanti” perché consente di mettere a fuoco, in un momento in cui le
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ETKAYETON Lordi Published by Hiont d&Clarke Rariahvk Street Mad) 4930.
Fig. 1. Cleopatra, dal «London Magazine», 1826.
Fig. 2. Pittore del xvi secolo, Musa Polimnia, Cortona,
Museo dell’ Accademia Etrusca.
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testimonianze materiali cominciano a contare quanto le fonti letterarie nell’indagi ne storicaÈ, l'inadeguatezza degli strumenti interpretativi e di indagine rispetto alle ambizioni della ricerca. Winckelmann richiamava nella Premessa alla sua Storia dell'arte nell'antichità (1764, ma la Premessa è congedata a Roma nel mese di luglio 1763) la necessità di «distinguere [nelle sculture] le aggiunte, fatte per sostituire parti mutilate e perdute, da quello che è invece veramente antico», e assicurava di essersi personalmente «ingegnato di far luce sulla verità, avendo avuto tutte le occasioni favorevoli per esaminare con calma le opere d’arte antica»’: una rigorosa affermazione di principio che, come è noto, non lo mise del tutto al riparo dalle insidie dei contraftattori, ma che rimane un’importante dichiarazione programmatica del suo metodo di lavoro. Distinguere gli originali dalle copie e dai falsi, in
questo tornante della storia dell’arte antica, è una necessità per chi vuole tracciare un nuovo panorama storico, basato non su nozioni acquisite o sulla conoscenza indiretta dei monumenti, ma sull’esame diretto delle opere. Questa esigenza è resa ancora più pressante dalle richieste del collezionismo e del mercato dell’arte, atti vissimo e poco controllato. Non è un caso infatti se, dal conte di Caylus in poi, le analisi scientifiche dei materiali occupano uno spazio tanto rilevante nella storia delle indagini sulla pittura antica; le conoscenze da poco acquisite sui materiali artistici utilizzati nell’antichità sembravano garantire uno scudo protettivo asso luto. Anche la Cleopatra, allora a Firenze presso Luigi Micheli, fu sottoposta a questo tipo di esame, i cui risultati furono divulgati nel 1822 su un periodico a larga tiratura: Cosimo Ridolfi assicurava che le analisi condotte «per rintracciare la natura delle tinte e della mestica» avevano provato senza ombra di dubbio che il dipinto, nonostante il colorito brillante e il generoso impasto dei colori, era antico,
«greco o romano». In questo delicato momento di transizione tra due epoche con caratteri e motivazioni distinte, anche la critica testuale e la filologia affinano i propri strumenti di analisi di fronte al dilagare di nuove scoperte letterarie, in buona parte relative a testi vernacolari o a mitizzate parlate regionali!!; anche in questo caso l’intreccio tra dati storici e invenzioni fraudolente è quasi inestricabile, ma gli studiosi han no potuto riconoscere che questa interazione paradossale tra verità e menzogne ha contribuito al progresso degli studi, scaltrendo i filologi e obbligando 1 falsari (ben noti gli esempi di James Macpherson, di Thomas Chatterton e di William Henry Ireland)! a ricorrere a invenzioni letterarie e a processi di invecchiamento dei materiali di supporto particolarmente sofisticati. Alcune di queste insidiose falsificazioni avranno un successo duraturo!*. Gli studi dedicati alla storia della contraffazione nel campo delle arti figurative, dal libro di Otto Kurz (1948) in poi, abbondano di esempi che in questo contesto
Si
non è possibile evocare. I casi più noti sono stati a lungo se non sotto gli occhi di tutti, quanto meno nella memoria letteraria degli amatori e degli eruditi: le «con traffazioni» dall’antico di Michelangelo o quelle di Andrea del Sarto da Raffaello (rese note da Vasari), svelato l'inganno, sono state percepite più come la testimo. nianza del virtuosismo mimetico degli artisti che come opere autonome, dotate di
una propria identità!. La storia dell’arte è ricca di queste provocazioni lanciate dai pittori agli amatori e ai collezionisti che esigono strumenti critici adeguati per essere correttamente interpretate. È quasi paradossale che individuare oggi une delle pitture raffaellesche che resero celebre Terenzio da Urbino all’inizio del Sei
cento! sia assai più arduo (se non impossibile) che distinguere nelle opere della maturità di Raffaello la sua mano da quelle dei suoi allievi più fedeli. È probabile che alcune di quelle che consideriamo copie tarde e corsive dal maestro siano nate con l’ambizione di contraffarne lo stile e abbiano fatto allora anche qualche vitti. ma. Altri esempi di questo tipo prodotti in seguito, fmo alla fine del Settecento, ribadiscono l’idea della superiore competenza dei pittori rispetto ai «professori» e ai «dilettanti» nel giudicare le opere d’arte, e confermano che gli artisti, nelle loro saturnine metamorfosi, rivendicavano la capacità di immedesimarsi nella maniera dei maestri del passato!°. Questo stato di cose ha avuto un'importanza rilevante per collezionisti e amatori, e le osservazioni di Giulio Mancini sui criteri di iden tificazione della paternità di un’opera d’arte ne costituiscono una testimonianza precoce! Il fenomeno tuttavia è rimasto ai margini degli scritti sull’arte: la Storia pittorica della Italia di Luigi Lanzi non è neppure sfiorata dal problema dell’affi. dabilità del materiale figurativo sul quale è costruito l’imponente disegno storico; questo è stato vagliato, come nell’opera di Winckelmann (anzi sulle sue tracce e su quelle di Tiraboschi), emendando gli scrittori che lo hanno preceduto ed esaminando direttamente il materiale figurativo!*, secondo un criterio che dovet te sembrare connaturato alla pratica dello storico e che non meritò dunque una menzione particolare nelle pagine della Prefazione. Neppure il problema dei falsi vi è menzionato; occupa Lanzi piuttosto la preoccupazione di saper distinguere gli originali dalle copie e soprattutto di «agevolare la cognizione delle maniere pittoriche»: gli strumenti filologici di cui egli fa uso sono modellati su quelli degli studiosi della scrittura e delle lettere: «siccome fan gli antiquari qualor assegnano una scrittura ad un dato secolo, riguardante la carta e il carattere; o come i critici,
qualora considerato il fraseggiare di un anonimo congetturano del tempo e del luogo in cui visse. Con tal lume si procede poi alla ricerca de’ pittori che in quella scuola e in quell’epoca son vivuti»!?. Il tema dei falsi rimane quindi sostanzialmente estraneo alle preoccupazioni di Luigi Lanzi e agli esordi della nuova disciplina che già porta il nome di «storia
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dell’arte»?%; tale rimarrà fino allo scadere del secolo x1X come prova a contrario il
testo di una lezione tenuta da Jacob Burckhardt sul problema dell’autenticità dei quadri antichi, in cui il grande storico del Rinascimento italiano riflette sul pro blema della credibilità delle attribuzioni mettendo in guardia il conoscitore dai condizionamenti che «desideri e aspirazioni» possono esercitare sul giudizio criti/ co. Burckhardt sostiene di avere visitato una fabbrica di antichi quadri veneziani installata a Bologna ma, per il tono distaccato e generico dell’affermazione, sembra
piuttosto una risorsa retorica del discorso che la registrazione di un’esperienza personale. Il tema del riconoscimento delle contraffazioni si fonde nel breve scritto in quello più generale e sostanziale della disciplina dell’attribuzione, che coinvolge la responsabilità e la competenza di chi la propone: «nelle cose d’arte la decisione per maggioranza non è il mezzo più adatto per constatare la verità»?!. Sono in effetti 1 «conoscitori» che esaminano con maggiore attenzione, negli anni cruciali intorno alla metà del secolo, la natura materiale delle opere, il loro stato
di conservazione, gli eventuali anacronismi figurativi; che mettono a punto quella particolare filologia attributiva che diverrà lo strumento essenziale della disciplina storicovartistica nell’ultimo quarto dell'Ottocento (con l’opera di Giovanni Mo relli e Bernard Berenson). L’acutezza dei giudizi di Otto Miindler (esploratore artistico per conto della National Gallery di Londra, in viaggio in Italia dal 1855
al 1858), e di Charles Lock Eastlake (primo direttore della pinacoteca londine se, 1855/1865) sorprende ancora il lettore di oggi, perché le sobrie annotazioni registrate nei loro quaderni rivelano non solo una conoscenza scaltrita dei pittori italiani del Medioevo e del Rinascimento, ma anche una particolare competen za nell’esaminare gli aspetti materiali delle opere e il loro stato di conservazione. Nell’agosto 1861 Eastlake scopre nella bottega dei Fidanza a Milano («father & son - the son is now nearly 80»)? una vera e propria officina di abili manipolatori di dipinti antichi: un’Ultima cena, creduta da Cavalcaselle di Giotto, non ha alcun
rapporto con la sua maniera e l’iscrizione, peraltro scorretta («opus magister Iocti»), benché «admirably imitated as it is, is false»°. Falsa è anche la scritta (anch’es
sa «admirably imitated») con il nome di Andrea Mantegna apposta sulla figura di San Michele arcangelo, un vero capolavoro «delicately executed but belonging to a school of central Italy», che Eastlake riconosce come dello stesso autore che
ha eseguito la pala di Montefeltro di Brera (Piero della Francesca: il San Michele acquistato da Eastlake è oggi a Londra, National Gallery). Queste annotazio ni si moltiplicano sulle pagine dei taccuini e rivelano, oltre all’esistenza di opere contraffatte presenti sul mercato, la pratica diffusa di aggiungere false firme su dipinti antichi. Il fenomeno riguarda soprattutto la pittura dell’Italia settentrionale e sembra implicare la condizione, in certo senso paradossale, che il recupero o la riscoperta della varietà dei linguaggi figurativi che contraddistinguono il territorio
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italiano sia stata possibile all’inizio solo riferendo prodotti diversi a pochi nomi venerati (il mitico Gelasio a Bologna, Giovanni Bellini in Veneto, Bergognone in Lombardia e soprattutto Andrea Mantegna, il cui nome è stato apposto su dipinti
appartenenti a famiglie stilistiche disparate)”. Massimo Ferretti” ha messo in evidenza come l’aggiunta delle firme su dipinti «primitivi» sia un fenomeno parallelo a quello della manipolazione o della fal. sificazione dei documenti medievali al fine di costruire genealogie impossibili o prestigiose provenienze’. Questo tipo di forzature documentarie e attributive ha incrementato, in alcuni casi con qualche successo, anche la nascita di storie arti.
stiche locali soprattutto in quei centri che, per collocazione geografica periferica e vicende storiche, si confrontavano, ancora alla fine dell’Ottocento, con problemi
di identità culturale. Nel 1880 Enrico Schaeffer (1837 c. - 1884) pubblicava a Nizza un opuscolo, oggi quasi introvabile, dedicato a Giovanni Mirallieti e Ludovico Brea pittori celebri nizzardi del xvmo secolo; Schaefter, nato a Treviri ma nizzardo d’adozione, nel breve testo sosteneva l’autonomia della «scuola nizzarda» e si sfor-
zava di dimostrare il discepolato di Ludovico Brea da Giovanni Mirallieti. Dopo una sgangherata evocazione dei punti forti del Rinascimento italiano (Masaccio aveva avuto «a maestro un certo Masolino, bravo scultore, buon pittore, distinto
colorista e buon disegnatore»), lo scrittore elencava le prove sulle quali era fondata la genealogia artistica locale: non documenti scovati negli archivi, nei quali in quegli stessi anni scavavano con profitto Federigo Alizeri, Giuseppe Bres, Ludovico Reghezza e Tommaso Bensa, ma nelle opere stesse che lui, «infaticato a ricercare e spertissimo a ringiovanire anticaglie preziose»”, aveva reperito in varie località della riviera. Le firme e le date lette da Schaeffer sui dipinti dimostravano senza ombra di dubbio l’antichità e la vivacità della produzione artistica locale e la fraterna collaborazione dei pittori nizzardi. Un trittico a tempera riemerso «in questi ultimi giorni» recava il nome di Giovanni «Miraglieti» e la data «1466»: «A” due lati del trittico è caro veder due ritratti, e ambidue di pittore [...]: quello a man dritta, ch'è forma d'uomo già oltre negli anni, con una paletta e pennelli tra
le mani [...] ha seco per monogramma la lettera I dalla cima in basso intromessa all’M; iniziali del Miralleti. Coll’altro è due volte un B; sicché pare indicarci un pittore, o scolaro o compagno od amico di lui, ma fermamente contemporaneo,
che nominavasi Bartolomeo Bensa»*. Anche Ludovico Brea e il suo supposto maestro Mirallieti (scritto anche Miralleti, Miraglieti, francesizzato in Jean Mi
ralliet) avrebbero collaborato a più riprese: una prima volta nel 1473 nel polit tico con l’Annunciazione e santi in Nostra Signora della Misericordia a Taggia”, una seconda nel 1488 in un grande altare con una Madonna attorniata da santi «in ben otto quadri» venduto a un principe prussiano, in cui Mirallieti ancora
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vivo, ma certo esausto per l’età avanzata, si era limitato a fornire l’idea delegando a Ludovico l’esecuzione pittorica («Ab Io. Mirallieti |nicensis . dum . viveret . inven. | Ludovicus Brea pinx. | 1488»)?°. Lo scritto di Schaeffer e le informazioni che questi dovette trasmettere ad Alizeri indussero il grande ricercatore genovese a pubblicare nel 1881 un aggiornamento alle sue Notizie dei professori del disegno in Liguria (1873) sotto forma di Appendice (Di Ludovico Brea e d'altri pittori nicesi): un aggiornamento di cui Giuseppe Bres, indignato dalle «invenzioni» del nizzardo, aveva vanamente tentato di bloccare l’uscita. «Avevo cercato», confessa all'amico Eugenio Cais di Pierlas il 4/8 maggio 1893,” «scrivendo all’ Alizeri, di far sì ch'egli non accettasse
ad occhi chiusi tutte le frottole di Schaeffer ma non avendo delle prove non potevo spiegarmi in modo troppo chiaro. O che i miei consigli non arrivassero in tempo o ch'egli credesse di non farne conto, il fatto stà, che in apposita appendice egli hà
riprodotto tutte le menzogne contenute nel suddetto opuscolo e quel che più mi cuoce si è che, nominando lo Schaeffer e narrando le sue trovate miracolose, ha
fatto pure menzione di me in quello stile ampolloso ed iperbolico da rendere geloso il più puro secentista». Coinvolto suo malgrado in questo castello di invenzioni, Bres diede alle stampe nel 1903 un libretto in cui contestava punto per punto le
false affermazioni dello Schaeffer. «Par di sognare» esclamava, dopo avere effet. tuato a Lucéram, a Taggia e a Savona 1 sopralluoghi per verificare personalmente sulle opere l’esistenza delle firme e delle date millantate dal collega nizzardo”. Per quanto circoscritto in un ambito regionale, l’imbroglio era di vasta portata per ché Schaeffer aveva infarcito il proprio canovaccio narrativo con opere «nuove» miracolosamente riscoperte, tutte segnate con i nomi degli autori e destinate allo smercio. Una Madonna in adorazione del Bambino con il piccolo san Giovanni Battista fu addirittura proposta a Giuseppe Bres: «benché io trovassi il S. Giov. Battista ed il bambino orribili l’avrei comperato se fossi stato certo che il quadro era autentico. Chiesi allo Schaeffer dove l’avesse preso, non volle dirmelo ed allora più non mi
curai né di quello né di altri quadri del Brea e del Mirallieti ch'egli rinveniva ad ogni piè sospinto». A. Mentone sarebbe stata rintracciata una grande figura su tela di San Sebastiano firmata da Ludovico Brea e datata 1515 che il municipio di
Nizza avrebbe dovuto acquistare per garantirsi la proprietà de «l’unica opera [del pittore] che si trova in mano particolare» e che rischiava di «essere venduta all’e stero»*!. Segnata con il nome di Brea e anch'essa con la data 1515 era inoltre una
Madonna con il Bambino e ilpiccolo san Giovanni: la grossolanità degli interventi lascia intendere, come ha osservato Paola Baghino*, che le opere falsificate o pesantemente ridipinte fossero destinate essenzialmente al collezionismo cittadino. Schaefter speculava sul valore persuasivo delle scritte «antiche» e sull’attrazione esercitata dai nomi di artisti localmente illustri. Più che per le incongruenze storiche che indi gnavano Bres, oggi lo sconcerto è determinato dalla sostanziale estraneità stilistica
DO
di questi prodotti alla cultura locale. La Madonna in adorazione del Bambino è nota tramite una vecchia fotografia che consente di riconoscere in quella composizione la traduzione sommaria di un modello toscano elaborato allo scadere del Quattro. cento. La tela con San Sebastiano è conservata al Musée des Beaux-Arts di Rouen dove è stata a lungo registrata con il nome di Vincenzo Foppa; la recente pulitura non ha consentito, almeno fino a oggi, di sciogliere l’enigma attributivo dell’opera, rimasta troppo a lungo al margine degli studi sulla pittura in Italia settentrionale; ma ha riportato alla luce, sul tronco dell’albero al quale è legato il santo, il nome di «LUDOVICO BREA» e l’anno 1515 entrambi dipinti su di,una traccia a spolvero! probabilmente nella seconda metà dell’Ottocento (figg. 3-4). La Madonna con il Bambino e il piccolo san Giovanni, infine, ricomparsa sul mercato
parigino nel 1946, è stata acquistata dallo Stato francese e affidata al Musée des Beaux-Arts di Nizza a causa della vistosa iscrizione (moderna) che in basso a sinistra, simulando un «cartellino» quattrocentesco, ne rivendica la paternità di Brea ancora nel 1515 (figg. 5-6)”. Il successo commerciale di queste operazioni
non dovette essere del tutto soddisfacente se alla morte di Schaefter buona parte della mercanzia rimase proprietà della vedova che «fece pubblicare su giornali e per molto tempo che aveva quadri antichi e moderni da vendere». L'episodio nizzardo, sviluppatosi in un clima di irredentismo tardivo”, si consuma in un
momento che coincide con l’apice della voga in Francia per i primitivi italiani** e che corrisponde alle prime manifestazioni di interesse degli storici francesi per la cultura figurativa delle regioni meridionali dell’esagono”. In questo percorso laborioso verso una concezione della storia artistica non più municipalistica, frammentaria, ma estesa all’insieme del territorio, di cui Giovan
ni Battista Cavalcaselle fu in Italia l’indiscusso protagonista, alcune realtà locali rimasero per vari motivi e a lungo fedeli alle proprie tradizioni: «Segno evidente, nel complesso, che ad onta degli sforzi dei cosiddetti “maggiori” per estrarre ed estrapolare un'essenza dell’arte italiana separata dagli accidenti concreti che ne costituiscono il corpo vivo, “in loco” continuava ad essere vivissima la coscienza
delle realtà particolari, e non meno della possibilità di indagarle e ricostruirle au tonomamente»”. Uno dei rischi che comportava questa sorta di autarchia erudita era il dilettantismo e il ricorso a strumenti filologici inadeguati. La rozza dispa rità di stile e di tecnica dei quadri creati da Schaeffer per sostenere la sua idea di una scuola nizzarda filozitaliana (Mirallieti e Brea avrebbero perfezionato la loro formazione in Toscana) è la prova lampante del divario profondo che in quegli anni allontana la cultura visiva dalla minuta ricerca documentaria: un divario che investe buona parte del territorio italiano e di cui le contraffazioni costituiscono un interessante epifenomeno. Ne sono lo specchio due avvincenti dipinti che, posti
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Fig. 3. Pittore dell’Italia settentrionale, c. 1490, San Sebastiano, Rouen, Musée des Beaux-Arts.
Fig. 4. Particolare della fig. 3 con la firma apocrifa di Ludovico Brea e la data 1515.
DA
Se
Fig. 5. Enrico Schaeffer (2), Madonna con il Bambino e san Giovanni Battista, Nizza, Musée des Beaux-Arts.
Fig. 6. Particolare della fig. 5 con la scritta e la firma apocrife di Ludovico Brea. Fig. 7. «Faussaire pathétique», Giovane donna «svizzera», già Vienna, Deutsch Kunstaukt, 2016.
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l’uno accanto all’altro, sembrano riattualizzare, in modo certamente involontario,
il dibattito sulle relazioni tra le corti di Mantova e di Milano alla fine del Quat trocento, che tanto appassionò gli storici ei letterati tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento". I due quadri da cavalletto, entrambi eseguiti su tela con una materia scabra che ricorda la tempera, escono sicuramente dalla stessa bottega,
e la stessa mano ha utilizzato a fondo, in entrambe le prove, le risorse espressive del disegno e del chiaroscuro. Ne sortisce una sorta di pauperismo epidermico che richiama le livide superfici del cosiddetto «Falsario patetico» identificato da Charles Sterling nel 1973 (fig. 7) °°. Ma nel nostro caso i modelli sono interamente italiani: una mistura di Boltraffio e di Maestro della Pala Sforzesca per la Madonna con il Bambino sullo sfondo di una parete nella quale si aprono due finestre (fig. 8); Mantegna incisore e pittore per la Madonna che stringe a sé il Bambino come un pupazzo cadaverico, seduta contro una balaustra (il motivo deriva dalla Camera degli Sposi nel castello di San Giorgio a Mantova) che'la separa da un paesaggio inaridito (fig. 9). La matrice stilistica di queste immagini consente di supporre che esse siano state concepite in prossimità degli studi, generosamente illustrati, di Woldemar von Seidlitz su Leonardo e i suoi seguaci (dal 1906 al 1910 circa), e
della grande monografia di Paul Kristeller su Andrea Mantegna (1901, 1902)”. Di qualche anno più antichi ma debitori di una cultura affine, ispirata a una situazione figurativa intermedia tra Padova, Mantova e Milano, sono altre due
prove singolari: un Ecce Homo conservato presso la Collection of Religious Art della Bob Jones University di Greenville (SC), un tempo attribuito al lombardo Giovanni Donato da Montorfano (fig. 10)°; e una stipata Sacra Conversazione di cui Federico Zeri ha inserito la fotografia nelle sue ricche cartelle dedicate alle contraffazioni artistiche (fig. 11). All’inizio del Novecento, il regionalismo fal sario costituisce uno degli aspetti più interessanti di questo particolare fenomeno; un primo gruppo di fantasiose e ispirate derivazioni da Carlo Crivelli, non si sa
se destinato al pubblico anglosassone o a una più modesta clientela locale, è stato identificato da Andrea G. De Marchi”. Tra le opere più note di questo tipo di produzione va annoverato il «celebre» ritratto di Famiglia alla finestra della National Gallery di Londra (inv. 3831) che riecheggia con una notevole maestria tecnica lo stile marchigiano di Melozzo da Forlì e di Pedro Berruguete. Nella storia della riscoperta delle periferie artistiche, prima del dilagare delle imitazioni dei primitivi fiorentini e senesi’*, alcuni esempi segnalano l’apertura di nuovi centri di interes se: è il caso di una luminosa, quasi metafisica, Adorazione dei Magi (fig. 12), che riproduce in piccolo formato parti essenziali del dipinto di Marcello Fogolino nel Museo Civico di Vicenza”, la cui confezione non deve essere molto distante nel tempo dalla pubblicazione a Londra nel 1909 del volume di Tancred Borenius
dedicato ai Painters of Vicenza®.
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Fig. 8. Pittore italiano, primi anni del xx secolo, Madonna con il Bambino,
ubicazione sconosciuta. Fig. 9. Pittore italiano, primi anni del xx secolo, Madonna con il Bambino, ubicazione sconosciuta.
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Fig. 10. Pittore italiano, ultimi anni del x1x secolo, Ecco Homo, Greenville (SC),
Bob Jones University, Collection of Religious Art.
Fig. 11. Pittore italiano, ultimi anni del xIx secolo, Madonna in trono con il Bambino e
santi, ubicazione sconosciuta.
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Nonostante la vastità del fenomeno, nella storia dell’arte il problema dei falsi ri
mane ancora, almeno fino ai primi anni del Novecento, estraneo alle preoccupa zioni dei professionisti. Abbondano invece, già prima della metà dell’Ottocen to, avvertimenti a stampa sul dilagare delle contraffazioni e delle manipolazioni truffaldine, destinati a un pubblico sempre più numeroso di collezionisti e di
mercanti. Giuseppe Defendi, poligrafo e predicatore rinomato, pubblicava sulla «Gazzetta Privilegiata di Milano» (1835) un articolo sul Commercio e ristauro di quadri”, in cui, oltre alla consueta lamentela sull’emorragia delle vendite e sul
depauperamento artistico del paese (motivo ricorrente durante tutto l’Ottocento, adottato soprattutto dagli agenti più attivi nel commercio antiquario), denuncia/ va il ruolo dei «negozianti di quadri» nello spacciare con nomi altisonanti «nuove antiche opere» che taluni definiscono «quadri di Fabbrica». Questo tipo di letteratura verbosa, sufficiente e retorica (che pure trasmette informazioni e rivela indici di tendenza interessanti) segna nel corso del secolo l’irreversibile frattura tra gli scritti degli storici dell’arte e quelli di esperti e indagatori di vario livello e di formazioni disparate. È su questa sponda che la denuncia del falso e la promo zione di spiccioli antidoti diventano i soggetti di un'attività editoriale immensa e di lunga durata: ne ho tentato un riepilogo bibliografico funzionale qualche anno addietro®° con l'ambizione di aggiornare l’immensa rassegna pubblicata nel 1950 da Robert George Reisner®, ma mi rendo conto ora che quell’elenco, che allora mi sembrava smisurato, è in realtà parziale, incompleto e di utilità di scutibile. Basterà ricordare che questa «littérature d’épouvante» rimane ancora oggi un materiale documentario sostanzialmente inesplorato perché difficile da interpretare dal punto di vista storico. Le sue ricadute hanno inciso soprattutto sui comportamenti e sulle scelte sociali di gusto; la pubblicazione nel 1878 delle Causeries sur l'Art et la Curiosité di Edmond Bonnaffé suscitò un’ondata di panico tra gli amatori (les curieux) parigini, tanto sembrava diffuso e incontrollabile il fenomeno delle contraffazioni”. Il problema delle falsificazioni artistiche entra nei dibattiti della storia dell’arte più accreditata assai più tardi, in occasione dell’esposizione antologica dedicata all’ar te belga e fiamminga a Londra nel 1927 (Exhibition ofFlemish and Belgian Art, 1300 1900, organizzata dalla Anglo-Belgian Union nelle sale della Royal Academy). La manifestazione includeva vari capitoli tematici e alcune sezioni dedicate alle collezioni private più significative dei Paesi Bassi: Émile Renders (1872/1956), banchiere e agente di cambio a Bruges, presentava con l’autorevole introduzione di Georges Hulin de Loo un’ampia selezione della propria raccolta, nella quale spiccavano esemplari dei più noti artisti fiamminghi, da Rogier van der Weyden (tra cui la «Maddalena Renders») a Hans Memling, al Maestro dei ritratti
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Fig. 12. Pittore italiano, primi anni del xx secolo,
Adorazione dei Magi, ubicazione sconosciuta.
Fig. 13. Joseph-Marie Van der Veken, Ritratto maschile, già Londra, Christie's, 1990.
Fig. 14. Joseph-Marie Van der Veken, Madonna con il Bambino, già Londra, Christie's, 1989.
Baroncelli®. Friedrich Winkler riconobbe in quella spettacolare rassegna di ca polavori un numero elevato di falsificazioni e di restauri abusivi; sulle pagine del periodico a diffusione riservata «Der Kunstwanderer» («Zeitschrift fir alte und neue Kunst, fir Kunstmarkt und Sammelwesen»), in cui rese conto della mani
festazione, Winkler non esitò ad attribuire l’addolcita perfezione di alcune opere alla mano di un noto «restauratore». Il critico tedesco non ne faceva il nome, ma
i lettori più smaliziati riconobbero immediatamente un’allusione a Joseph-Marie Van der Veken (1872/1964), di cui erano ben note la straordinaria abilità e lassi. dua frequentazione del collezionista fiammingo (figg. 1314)”. Lo stesso Van der Veken, messo allo scoperto, rivelò con lo sconcerto di tutti di essere l’autore di una delle rivelazioni dell’esposizione londinese, il Matrimonio mistico di santa Caterina,
anch'esso proprietà di Renders. Il fatto è stato riesumato in modo esemplare in un'esposizione (2004-2005) e in un volume miscellaneo®, in cui sono confluiti i risultati di un’approfondita ricerca pluridisciplinare. Non è necessario evocare qui 1 particolari di questa vicenda che coinvolse le figure più note della storia dell’arte dei Paesi Bassi; in questo contesto è invece utile ricordare che l’episodio, immedia
tamente ripreso sulle pagine del «Burlington Magazine», diede origine a un vivace dibattito sull’autenticità delle opere d’arte e sugli strumenti con cui giudicarle. Roger Fry” sostenne in un primo intervento la sostanziale autografia delle opere messe in discussione ricorrendo, oltre ai criteri dello stile e al richiamo all’autorità
degli studiosi coinvolti («I see no reason to doubt the attribution to Roger van der Weyden [di una Madonna con il Bambino] which M. Hulin de Loo and Dr. Frie dlinder have sponsored. In any case, here, too, forgery seems out of question»),
ad argomentazioni relative alla tecnica di esecuzione e al profilo del cretto («the inimitable craquelure»)”. Non erano osservazioni suftfragate da un’adeguata co noscenza tecnica e l'argomento fu immediatamente ripreso, tra gli altri, da Arthur Pillans Laurie”, un chimico che si era appassionato ai materiali utilizzati dagli artisti e che aveva già pubblicato, proprio sulle pagine del «Burlington Magazine» (1913), un articolo sui leganti identificati nelle opere di Jan van Eyck'!. La pole mica non travalicò mai i limiti della correttezza sebbene assumesse toni assai duri e coinvolgesse anche altre personalità che misero in discussione l’autorità dei cono scitori, € ribadirono l’importanza degli esami scientifici nelle indagini sull’auto grafia dei dipinti antichi. Il confronto tra i ricercatori e i falsari fu prospettato come uno scontro all’ultimo respiro («the race between the forger and the detective has been stiff and strenuous»)?; in un editoriale della rivista anglosassone, non firmato ma redatto probabilmente dallo stesso Fry, si poteva leggere l’invito a fare fronte comune contro il fenomeno della contraffazione, odioso e antisociale”, praticando
un onorevole compromesso tra gli strumenti utilizzati dai conoscitori e le indagini degli uomini di scienza.
Il dibattito aperto sulle pagine del «Burlington Magazine», che in questo conte sto divenne la piattaforma privilegiata della discussione sul metodo, traduceva la
necessità di disporre nel campo della storia dell’arte di criteri di analisi affidabili e razionalmente strutturati. Il terzo e il quarto decennio del Novecento coincidono in effetti con un incremento della riflessione sul ruolo della filologia negli studi del nostro campo di indagine. Le contraffazioni si erano insidiosamente infiltrate non solo nelle botteghe degli antiquari o nelle raccolte private, ma anche tra le pagine degli scritti del settore. Conoscitori e storici, che fino ad allora avevano percorso cammini distinti, affrontavano ora un problema comupge, e quello che, appena
qualche anno prima, era considerato un trascurabile fenomeno di costume” di venne parte integrante delle comuni preoccupazioni. Tra gli scritti più interessanti sui problemi dell’attribuzione e delle falsificazioni che videro la luce in questo arco di tempo, quelli ispirati a un pacato pragmatismo di Max ]J. Friedlinder (1941)? proponevano una via d’uscita basata sul concetto di «qualità» delle opere
e sulla capacità di quest'ultime di trasmettere emozioni estetiche di cui le copie e le contraffazioni erano prive. Il metro di giudizio di Friedlinder, che riprese in segui. to le medesime riflessioni nel volume On Art and Connoisseurship?, era modellato
sull’esperienza del conoscitore, capace di registrare «the strength of the sensually spiritualised impression»® . Per il leggendario esperto della pittura fiamminga, che grazie ai suoi studi e al suo «ceil aiguisé» dal 1924 aveva riordinato il catalogo dei
maestri fiamminghi (i quattordici volumi di Die altniederlandische Malerei furono stampati a Berlino tra il 1924 e il 1937), lo smascheramento dei falsi faceva parte
da tempo dell’esercizio quotidiano del mestiere®'; le sue argomentazioni non nascondevano il pericolo, anche per i conoscitori più preparati, di essere vittime di errori di giudizio, ma apparivano sostanzialmente rassicuranti e rivendicavano i meriti dell'analisi formale («tout regroupement stylistique correct est fertile», aveva scritto nel 1931)®. Il pacato richiamo all’uso ragionato degli strumenti critici tra dizionali aveva, in quegli anni, anche l’obiettivo di frenare la progressiva perdita di credibilità degli addetti ai lavori. Tra i casi più noti, quello di Pietro Toesca, che nel 1930 aveva avvallato con il proprio parere la vendita a Lord Arthur Lee di una Madonna con il Bambino (la cosiddetta Madonna del Velo) attribuita a Botti. celli, che esami radiografici eseguiti a Parigi rivelarono essere un falso (il dipinto, ora conservato alla Courtauld Gallery di Londra, è opera di Umberto Giunti)}}. Nel 1932 Icilio Federico Joni aveva pubblicato, nonostante i tentativi di insab-
biarne l’uscita, le sue Memorie di un pittore di quadri antichi, in cui i lettori avevano potuto agevolmente riconoscere tra le sue vittime alcuni degli storici dell’arte più noti dell’epoca, tra cui Frederick Mason Perkins (1874/1955) e Bernard Berenson
(1865-1959)"*. Sono gli stessi anni in cui Hans Tietze (1880/1954), emigrato da Vienna negli Stati Uniti, presentava nel bollettino annuale del Metropolitan Mu
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Fig. 15. Plasticatore italiano, xx secolo, Busto maschile, Boston, Museum of Fine Arts. Fig. 16. Pittore italiano, xIx secolo, Portatrice difrutta, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.
seum una feconda riflessione sul problema dei falsi (The Psychology and Aesthetics of Forgery in Art), interpretati non solo come l’indice di una carenza di cultura visiva in un clima di generale infatuazione per l’arte, ma anche come un vero e proprio oltraggio al carattere originale degli artisti («forgery is a kind of calumny»)®. La riflessione più compiuta in quegli anni sugli strumenti attributivi e sull’uso del la filologia nello smascheramento delle contraffazioni spetta tuttavia a Julius S. Held, anch'egli emigrato dalla Germania negli Stati Uniti nel 1934 con il proprio capitale di conoscenze relative soprattutto ai grandi maestri barocchi dei Paesi Bassi (Rubens e Rembrandt). Nel suo breve ma denso intervento sul «Magazine of Art (1948), Held spronava gli studiosi a non abdicare di fronte all’apparente
superiorità degli esami scientifici; i raggi X non possono garantire l’autenticità di un’opera d’arte come sembrava credere la maggioranza, e i falsari, al corrente
delle scoperte scientifiche e dei nuovi tipi di analisi, sanno aggiornare le loro tec niche di produzione e selezionare adeguatamente i materiali utilizzati. Lo studio dello stile diventa, in questo sdrucciolevole contesto, decisivo perché ogni opera, se intelligentemente esaminata, rivela coordinate storiche e temporali precise che
consentono di collocarla in una sequenza comune. I falsari hanno i mezzi per imi tare la tecnica ma trasgrediscono le leggi della storia, e il riconoscimento della loro specifica scrittura, del loro «stile», è il vero grimaldello che consente di smascherare
gli inganni. L'occhio umano, se adeguatamente esercitato («the trained eye») e in perfetto unisono con la mente, sa decriptare i progressi della storia dell’arte ai qua/ li contribuiscono, solo se correttamente interpretati, anche i risultati delle analisi scientifiche. Agli occhi dei più, l’esercizio della «connoisseurship» era diventato «a somewhat oldfashioned pastime», anche se il problema ricorrente delle falsifi.
cazioni avrebbe dovuto far capire quanto fosse importante una solida formazione nel campo dell’analisi dello stile”. Dal punto di vista teorico, il problema dei falsi
appariva per la prima volta non più come un fenomeno a parte, una scoria da evacuare, ma come un elemento per quanto minore nell’ampio bacino della storia dell’arte. Non è dovuto al caso se nello stesso 1948 Otto Kurz, che era stato allievo
di Julius von Schlosser a Vienna, pubblicava a Londra il suo fortunato volume sui Fakes (tradotto in italiano nel 1961), in cui i differenti settori tecnici della con traftazione sono illustrati non solo nella varietà delle loro manifestazioni ma anche seguendo il filo del gusto e in taluni casi affiancandoli alla storia della critica**. Il tempo intercorso tra l’edizione inglese e quella italiana del libro di Kurz è rivela. tore del mitigato interesse espresso in Italia, almeno fino a quella data, dagli storici
dell’arte nei confronti del problema delle contraffazioni artistiche”. Ancora una volta saranno gli archeologi ad aprire la strada: nel 1937 Carlo Albizzati (1888 1950), che dal 1929 insegnava archeologia e storia dell’arte greca e romana”, pub blicava in «La Critica d’Arte» un articolo su La «Musa» di Cortona. Il tema era
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storicizzato da tempo”!, ma è rilevante che il saggio di Albizzati dedicato a una celebre contraffazione fosse accolto in una giovane rivista (il primo fascicolo era uscito nel 1935) di cui erano redattori Ranuccio Bianchi Bandinelli (19001975) e Carlo Ludovico Ragghianti (1910/1987), un archeologo e uno storico dell’arte ai quali sarà associato, proprio in quell’anno 1937, Roberto Longhi. Lo scritto
di Albizzati (che menzionava anche la «famigerata Cleopatra [...] agghindata se condo il gusto delle sartorie teatrali») lasciava presagire da parte dello studioso, che già aveva redatto per l’Enciclopedia Italiana la voce «Falsificazione»””, propositi assai critici nei confronti della pratica archeologica contemporanea. Dovette esser ne cosciente Bianchi Bandinelli, che aggiunse una nota personale di assenso per smorzare il tono del collega”; ma l’azione moderatrice ebbe breve durata perché tre anni più tardi lo stesso Bianchi Bandinelli si trovò al centro di una violenta pole mica relativa alla riscoperta di presunte pitture antiche. Nel 1940 (il portfolio reca in margine l’anno xvm dell’era fascista) Giulio Emanuele Rizzo (1869/1950)”, anch'egli archeologo, pubblicava con grande enfasi e in una suntuosa veste edi toriale una serie di sette ritratti dipinti entro clipei in terracotta che sarebbero stati ritrovati a Centuripe, nel distretto di Enna (figg. 17/18). Con afflato patriotti. co («per verace sentimento di patria»), Rizzo rendeva pubbliche le straordinarie «pitture non solo inedite, ma veramente nuove», che lo avevano ammaliato per la «fresca bellezza» dei tratti femminili, privi di artificio e di ricercatezza. Nel breve
commento che accompagnava le tavole stampate in quadricromia dalla Libreria dello Stato, le linee eleganti delle figure erano messe a confronto con particolari della Nascita di Venere di Botticelli (Uffizi), della Madonna con il Bambino di Alesso Baldovinetti (Louvre) e del Tondo Doni di Michelangelo (Uffizi): confronti che dovevano confermare la straordinaria attualità delle pitture riscoperte, ma che palono oggi come l’inconscia ammissione dello loro materiale modernità. Marcello Barbanera” ha riesumato in modo esemplare questo episodio che ebbe ricadute importanti sui protagonisti, anche perché nel frattempo una parte delle opere era stata acquistata presso un raccoglitore siciliano dall’industriale milanese Giovan ni Rasini (1892/1952), nobilitato da Benito Mussolini con il titolo di conte di
Castelcampo, e da lui offerte al capo del governo che le aveva destinate al Mu seo Nazionale di Napoli. Benché le prime contraffazioni centuripine fossero state segnalate da Paolo Orsi (1859/1935) già nel 1924”, fu Albizzati che denunciò pubblicamente lo scandalo (1942). Bianchi Bandinelli, che in un primo tempo aveva avallato la scoperta’, divenne il comune destinatario di una rovente corri
spondenza dei due avversari e per rendersi conto personalmente della realtà della cosa si recò a Napoli in compagnia di Bernard Berenson”. Ne trasse un’opinione mitigata: «Vedendoli, i pezzi mi sono sembrati autentici, per quanto troppo re staurati: € per ora rimango di questa opinione»! Rizzo, da parte sua, denunciò
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Fig. 17. Falsario del Novecento, Glaukopis, da Rizzo, 1930. Fig. 18. Falsario del Novecento, Imago clipeata, da Rizzo, 1930.
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Albizzati che rese conto all’amico senese delle pressioni e dei ricatti che aveva subito per tacitare l’affare: «e pensare che il bravo Maiuri [Amedeo Maiuri, allora direttore del Museo Nazionale di Napoli], commensale di Goering nel banchetto pompeiano di cui mi mostrarono i letti improvvisati, se ben ricordo, nella Casa dei Vettii, il buon M[aiuri] pronunciò contro di me oscure minacce di tribunali, in una stupida e malvagia lettera pubblicata nella famigerata rivista del Galassi Paruzzi!®!; che schifo fascista!»!®. A un esame retrospettivo, la delicata posizione in cui si trovò allora il periodico
edito da Federico Gentile appare il riflesso della situazione fluttuante in cui si svi. luppava la linea della rivista. Ragghianti, cui era affidata la redazione degli scritti storico-artistici, aveva accolto nel secondo volume (1937) contributi diversi, dallo
studio importante di Cesare Gnudi su Jacobello e Pietro Paolo da Venezia'* alla liqui. da prosa delle schede promozionali di Adolfo Venturi”, dalla Una nuova opera giovanile di Antonello da Messina e dalla Un'altra pittura giovanile di Michelangelo di Giuseppe Fiocco! a Il primo Antonello di Stefano Bottari!®, al Vitale da Bologna di Ce sare Brandi 1. La qualità assai ineguale degli scritti fu rapidamente sanzionata da Roberto Longhi che dissentì dalle nuove attribuzioni proposte da Fiocco!" e ri. chiese che gli scritti proposti alla rivista fossero sottoposti da lì innanzi alla «discus sione dei dissenzienti»'®. Alcuni scritti dello stesso Ragghianti, che nonostante l'ammirazione dimostrata nei confronti di Longhi rimaneva fedele all’insegnamento di Matteo Marangoni e all’idealismo di Benedetto Croce, furono rifiutati: un articolo sullo studio dei disegni in polemica con Bernhard Degenhart fu cestinato a causa delle affermazioni «di carattere politico»!!° ; anche «l’inaudita necrologia schlosseriana»!!, in cui Ragghianti esaltava la funzione di Croce, non fu pubbli cata e lo studioso la diede alle stampe solo anni più tardi in un proprio volume 112 miscellaneo!!. Le origini del dissidio tra i due storici dell’arte, che si tradusse in rottura definitiva nel 1941, erano determinate non solo da differenze di metodo o di
scelte politiche !*, ma probabilmente anche da concezioni distinte sul ruolo della rivista. Sebbene si proponesse di perfezionare la propria «preparazione di conosci tore»!!, Ragghianti rivelava già in quegli anni un’inquietudine intellettuale e un’incontrollabile larghezza di interessi. In quello che rimane probabilmente il ri tratto più penetrante e partecipe dello studioso appena scomparso (1987), Federico Zeri sottolineava, accanto a «una singolare mescolanza di acume e di sgarbatezza,
di profonda conoscenza e di luoghi comuni», «la vastità d’interessi con cui il Rag ghianti affrontava la problematica figurativa»!!. In questa vastità di interessi, anche il fenomeno delle contraffazioni artistiche appariva degno di essere osservato: se nel 1936 i tempi non erano maturi per accogliere tra i collaboratori di «La Critica
d’Arte» «l'ottimo Otto Kurz»!!, anni più tardi (1961) Ragghianti ne introdurrà l'edizione italiana (tradotta dalla moglie Licia Ragghianti Collobi) del noto volu
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me sui Fakes (1948), riconoscendo nella trattazione dell’autore la stessa «rigorosa
preparazione storico filologica»! che fino ad allora era stata riservata agli argomenti nobili della storia dell’arte. L'interesse dello studioso per le falsificazioni dell’arte si è manifestato lungo tutto l’arco della sua vita 18, ma va rilevata, in questo contesto,
l’acuta analisi della celebre Madonna del Gatto (tav. 10), patetico epilogo della carie. ra di Adolfo Venturi e perfida beffa ordita ai danni delle celebrazioni leonardesche volute dal regime nel 1939. La vicenda è stata recentemente rievocata con minuta
precisione da Ferdinando Zanzottera!, che si è avvalso dei documenti dell’allora soprintendente milanese Guglielmo Pacchioni conservati nel fondo archivistico dell’Istituto per la Storia dell’ Arte lombarda. La rassegna documentaria conferma l’entusiasmo che suscitò l’apparizione del seducente dipinto, costruito ad arte com-
ponendo motivi tratti da disegni leonardeschi sul tema della Madonna con il Bam bino che gioca con un piccolo animale (tra i fogli più noti e variamente ripresi in pittura ricordiamo
quelli British
Museum
a Londra,
invv.
1860,0616.98
€
1857,0110.1, che risalgono agli anni 1475/1481 circa). Il dipinto fu presentato da Carlo Noya, un industriale di Savona, a Giorgio Nicodemi, segretario generale della Mostra di Leonardo da Vinci (Milano, Palazzo dell’ Arte, 9 maggio - 1° ottobre 1939), e sottoposto al parere degli esperti. Adolfo Venturi dedicò al quadro sulla rivista «L’ Arte», allora in totale deliquescenza!” , alcune delle sue pagine più vacue gq e melodiose: «Così Leonardo dipinse questa Madonna giovinetta, in veste morella, e pieghe verrocchiesche, con le carni rosate, come quelle del bimbo, dallo sguardo
intenso, gentilissimo, che stringe a sé il gatto per gioco, in un ambiente che s’apre sulla campagna chiusa da montagne rocciose, colorita d’aria azzurra, trasportata dai veli del crepuscolo nel domino sconfinato del segno»!!. Con l’avvallo dell’an ziano maestro e di altri colleghi altrettanto prestigiosi (secondo Ferdinando Sacchi, avrebbero apprezzato l’opera anche Bernard Berenson e Pietro Toesca)!”, il dipin to fu integrato nel circuito espositivo e inserito in una speciale sezione del catalogo ufticiale!’. Le analisi tecniche e radiografiche, eseguite su richiesta del comitato organizzatore della mostra e poi anche della Soprintendenza milanese!”, avevano confermato l’antichità del dipinto, anche se è certo che le varie verifiche sono state
realizzate in seguito ai dubbi espressi da coloro che non esitavano «a sospettare la tavola di falsità»!’. Ripubblicata e riprodotta accanto all'immagine radiografica nell’ingombrante volume monografico dedicato a Leonardo da Vinci (1940)'”, riproposta da Venturi nel suo tardo volume su Leonardo e la sua scuola (1942)!7,
l’opera scomparve in seguito dalla circolazione e dalla bibliografia leonardesca. Ragghianti deve avere immaginato di poter pubblicare sulla pagine di «La Critica d’Arte» la nota che redasse in quella occasione ma che uscì a stampa solo qualche anno più tardi. «Leonardo da Vinci divide con gli antichi romani l’onere di raffi. gurare periodicamente la vanità della rettorica nazionalistica, la quale, some si sa,
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vive di consolazioni»'*; dopo questo esordio disincantato, lo studioso denunciava la confusione e la scelta indiscriminata delle opere presentate nell'esposizione mila. nese, alcune delle quali gli sembravano di «più che discutibile autenticità»!?. Era il caso della cosiddetta Madonna del Gatto allora «sottoposta a prove di autenticità delle quali non si conosce ancora il risultato [...]. Perciò mi limito qui ad un esame in terno, intrinsecamente artistico, pur essendo convinto per esperienza che la parola finale sull’autenticità di un dipinto non può dirla l’analisi tecnica (in quanto la tecnica, come tutte le cose materiali, è riproducibile [...]), ma l’analisi stilistica». Questa affermazione di principio si ricollegava a una tradizione largamente condi visa da altri storici dell’arte! , ma Ragghianti metteva in pratica, forse per la prima volta nella storia della critica italiana (1940), i criteri dell’analisi formale per smascherare un’«opera non autentica e moderna»: «Chi abbia familiarità con i dipinti del ’400 italiano e sensibilità storica per le condizioni estetiche ed esecutive di essi, noterà particolari affatto privi di giustificazione formale quanto figurale in questa Madonna». L'elenco delle incongruenze rilevate dallo studioso è troppo lungo per essere riprodotto in questa sede, ma meritano di essere ricordate almeno le osserva. zioni relative al gruppo centrale, in cui «quel gatto che non essendo sostenuto in aria (le mani delle figure gli si appoggiano senza presa), si afferra con le unghie al braccio del bambino, il quale a sua volta, forse perché fatto di carne soprannaturale, non ha l’aria di accorgersi del morso crudele dell’unghie; strano ancora quel bambino il quale, anziché guardare al gatto che vuole e che tiene, che gli dà una tal prova do lorosa della sua presenza, fissi gli occhi in un punto indeterminato, oltre la spalla della madre, nel vuoto»'. Dopo decenni di assenza dalle scene, il quadro è tornato alla ribalta nel 1990 allorché fu ritrovato nella camera da letto del pittore Cesare Tubino (1899/1990) a Torino, deceduto il 3 ottobre di quell’anno. Nel proprio testamento Tubino confessava di essere stato l’autore del dipinto, «presentato alla mostra del 1939 come protesta contro la pesante censura di quel periodo»!*’. Le
giustificazioni ideologiche o politiche sono bagaglio comune degli artigiani attivi nel settore delle falsificazioni'*; nel caso di Tubino, il suo lungo silenzio si spiega probabilmente con il timore di subire delle ritorsioni in seguito all’ampiezza forse imprevista dello scandalo che aveva provocato. In un’esposizione antologica che gli è stata dedicata nel 2004'*, sono stati presentanti, accanto alla corrente produzione
paesaggistica e di ritratti, alcuni esempi del suo «piacere privato»: la Madonna del Gatto è certo il suo capolavoro in questo genere, tanto dal punto di vista dell’intelli gente e smaliziato assemblaggio compositivo che da quello della tecnica di esecuzione: un’epidermide abilmente abrasa, che lascia emergere a tratti lo strato della preparazione, talmente simile a quella di dipinti quattrocenteschi da far sorgere il
sospetto che il pittore in questo caso abbia utilizzato un dipinto antico come sup. porto alla sua invenzione moderna.
e)
In un intervento dedicato al Restauro pubblicato in «La Critica d'Arte» (1940) anche Roberto Longhi aveva sfiorato il tema delle falsificazioni. Denunciando la disparità degli interventi ed elogiando «l'unificazione dei procedimenti di re stauro, propugnata dal Ministro Bottai e prossima a trovare energica applicazione nel nuovo Istituto di Roma»!*, lo storico aveva sottolineato «la sorte fragilissima dell’arte figurativa»: esposte alla distruzione o alla diminuzione perenne, le opere d’arte, contrariamente alla letteratura, sono debitrici del loro stato materiale, spesso
compromesso da malintesi interventi conservativi. «Purtroppo la storia dei restauri è storia di pochi profitti e di enormi danni»; per questa ragione sembrava auspica bile che «stia sempre, accanto al tecnico, un conoscitore, ma uno vero, a dirigere, a
controllare, ad avvertire in tempo l’avvicinarsi di quel terribile istante climaterico che al restauratore, fidente nell’infallibilità del proprio specifico, sfugge troppo spesso; l’istante, intendo, in cui il dipinto muta faccia e impallidisce come tra
mortito da un dolore troppo acuto»!°. Il conoscitore competente e onesto avrebbe dovuto inoltre denunciare «il cosiddetto “restauro di integrazione” [che] si identi. fica alla fin fine col “restauro di simulazione” e cioè coi metodi di contraffazione e di falsificazione ancora correnti nel restauro a scopi mercantili»! Anche que sti brani confermano che per Longhi, allora in allerta per il destino dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma (fondato nel 1939), l’esistenza delle contraffazioni
costituiva essenzialmente un fenomeno degenerativo del mercato antiquario e del collezionismo, che lo storico dell’arte avrebbe avuto il dovere di denunciare. Nella
recensione a uno scritto di Marziano Bernardi su una selezione di opere del Museo d'Arte antica di Torino, Longhi" esprimeva il proprio «dissenso esplicito» a proposito di un cassone intagliato, dorato e dipinto, che secondo l’autore era stato
«accuratamente studiato» da Luigi Mallè e restituito con «argomenti irrefutabili» alla cerchia del Pinturicchio”. L'oggetto aveva fatto parte degli arredi raccolti da Riccardo Gualino ed era stato pubblicato da Lionello Venturi che ne aveva attribuito le parti dipinte allo «stile mosso e nervoso nella scultura, e quello tran
quillo e raffinato nella pittura» del senese Francesco di Giorgio Martini! «Ma quel cassone» scriveva Longhi, «non sembra offrire alcun tratto genuino né per la forma strutturale del mobile, né come rapporto tra pittura e rilievo, né per quanto
è dell’aspetto iconografico». Sconosciute le allegorie rappresentate, «conosciuta in vece la Pace ma non in questa formula che ce la dà in atto di annaffiare due albe relli da “parco della rimembranza”, più adatta al primo dopoguerra»!#!. È agevole oggi riconoscere in quelle figurine allegoriche e nei medaglioni con putti e stemmi che decorano i fianchi del mobile (tavv. 12/13) la scrittura precisa e luminosa di Umberto Giunti (1866/1970), il poliedrico falsario senese a cui Gianni Mazzoni
ha restituito l’identità!”. Alla stessa fase a cui Longhi riferiva la decorazione del cassone torinese appartengono altri dipinti, tra cui una bella Madonna con il Bambino
E;
riapparsa recentemente in Svizzera con una perizia di A madore Porcella datata 1941, a favore di Bernardino di Betto, detto il Pinturicchio! (tav. 11). A dire il vero, anche per Longhi, nella storia secolare delle falsificazioni vi sarebbe
«pur sempre qualche buon tratto di storia del gusto che varrebbe la pena di rievo care»!*: una formula sbrigativa e apparentemente pacata che mascherava tuttavia la determinazione con cui lo studioso contestava l’autenticità di un laterizio dipinto su entrambi i lati conservato nel Museo dell'Opera del Duomo di Orvieto, incluso
come opera autografa di Luca Signorelli nell’esposizione monografica organizzata nel 1953 da Mario Salmi a Cortona e a Firenze 1. L’opera rappresenta su un lato
il ritratto del pittore toscano derivato dall’autoritratto a figura intera che compare al margine delle Storie dell’ Anticristo (1499/1504) affrescate su una delle pareti della Cappella Nova (o cappella di San Brizio) nella cattedrale di Orvieto. Accanto al busto del pittore, colto di tre quarti e con gli occhi abbassati, compare una seconda figura ritratta di profilo che la lunga scritta in latino vergata sull’intonaco, al verso del supporto, consente di indentificare nel camerlengo dell'Opera del Duomo Nic colò di Angelo Franchi (figg. 19/20). Longhi si domandava quali fossero l'origine e la funzione di questo oggetto singolare, di cui sottolineava la mediocre tenuta
formale e le incongruenze compositive: «Così, all’analisi stilistica, la resistenza della “tegola” (o del “mattone”) si prova assai più debole di quanto ci si sarebbe attesi, di fronte all’accettazione unanime della critica moderna dal Cavalcaselle (1866) in poi». Lo studioso rilevava inoltre che la scritta sul retro, capovolta rispetto alle figure, conteneva «certe particolarità ortografiche fuori del tempo»! che la rendevano sospetta. Certo che si trattasse di una falsificazione di età romantica, Longhi suppose che la «tegola», la cui traccia non sembrava risalire oltre il 1866 (era stata menzionata allora da Cavalcaselle), fosse stata dipinta intorno al 1845 da due «primitivisti tedeschi», Georg Friedrich Bolte e Karl Gottfried Pfannsch midt, che proprio in quell’anno avevano soggiornato a Orvieto e che «spinsero il loro entusiasmo per il Signorelli al punto di offrirsi di eseguire a proprie spese il restauro dei celebri affreschi»!*. Il saggio dello studioso, pubblicato sulla rivista da lui diretta e accompagnato nello stesso fascicolo da una sgradevole nota di Arturo Martini! fortemente critica nei confronti della mostra e del pittore (l’ipertrofismo muscolare delle sue figure creava «giganti in cemento armato», privi di «una solida statura morale»), ebbe un effetto devastante anche perché lo stesso Longhi ne aveva amplificato l'impatto anticipando la sua opinione su di un quotidiano locale («Il Nuovo Corriere» di Firenze, 27 ottobre 1953). La replica di Mario Salmi fu rapida
e basata «soltanto [su] elementi assolutamente oggettivi»!’; in un opuscolo pubblicato a nome del comitato organizzatore e distribuito l’ultimo giorno di apertura della mostra, e poi in un articolo stampato nella rivista «Commentari»!!, Salmi contestò puntualmente le obiezioni di Longhi ed ebbe facile gioco nel dimostrare
43)
Fig. 19. Imitatore di Luca Signorelli, Ritratto di Luca Signorelli
e del camerlengo Niccolò di Angelo Franchi, Orvieto, Museo dell'Opera del Duomo. Fig. zo. Iscrizione sul retro dell’opera riprodotta alla fig. 19.
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che la traccia del mattone dipinto risaliva ben aldilà degli anni quaranta dell’Ot tocento. L’opera era menzionata in un inventario del 1825 e probabilmente anche nel 1648, allorché registrato tra i beni della cattedrale di Orvieto vi era «un ritratto di due pittori messi in pietra»! Per queste e altre ragioni «la falsità dell’affresco e quella della iscrizione costituiscono dunque due assurdi»!’. Le Conclusioni su una tegola di Longhi chiudevano laconicamente la disputa l’anno seguente («lo stile ha una sua forza di documento»)!”; come bene osserva Francesco Federico Mancini,
che ne ha proposto un attento riepilogo!”, in essa si erano riversati «anni e anni di personali rancori, di differenti impostazioni ideologiche, di contrapposizioni fra gruppi, di rivalità fra scuole di pensiero, di diversi modi di intendere e interpretare l’arte». Che la denuncia fosse almeno in parte strumentale è provato d’altronde dai dubbi sull’oggetto del contendere che animarono Roberto Longhi fino all’ultimo. Nella corrispondenza scambiata con Federico Zeri nel mese di ottobre 1953 egli anticipava al più giovane collega le proprie argomentazioni chiedendogli un pare re. Zeri ammetteva di essersi posto le medesime questioni sull’autenticità del pezzo, ma di non avere approfondito la questione «prima perché mi andai convincendo che Signorelli è sempre scadente e di intonazione trombettiera e falsa, poi perché mi pare assai improbabile che un falsario del secolo x1X (perché se è falso è di tale epoca) potesse fare il ritratto di destra così simile a quelli - orrendi della Collezione Berenson, che hanno lo stesso impianto e lo stesso pseudo-carattere. Ameno che il falsario non conoscesse quelle due tavole, che forse erano più note di quanto si possa credere. È anche molto strano che proprio Signorelli se ne venisse fuori con una composizione così nuova per i toscani». Il problema dell’autografia del doppio ritratto signorelliano di Orvieto rimane an cora aperto; lo studio di Mancini e le analisi tecniche!” eseguite in occasione della recente esposizione dedicata al pittore toscano (2012) consentono di escludere che il dipinto sia stato eseguito in epoca moderna. Le lievi ma significative varianti che distinguono l’immagine di Signorelli riprodotta sul laterizio da quella del proto. tipo nel duomo di Orvieto lasciano intendere che il modello è stato interpretato secondo un registro naturalistico ed emotivo estraneo all’originale. La berretta, l’ondulazione dei capelli, la veste i cui risvolti convergono verso la cintura, l’e-
secuzione sommaria dei tessuti e gli sguardi introspettivi: una serie di indizi che possono far supporre che il dipinto sia stato realizzato con la tecnica del riporto e con funzione commemorativa nel corso del Cinquecento o nei primissimi anni del secolo successivo. Quale che sia la soluzione al quesito posto dall’affresco si. gnorelliano, le brevi osservazioni di Zeri tradiscono, già nel 1953, un interesse per
il fenomeno delle contraffazioni che lo studioso coltiverà per tutta la vita. Ne sono testimonianza i ricchi faldoni di fotografie di falsi «sedimentati in almeno cin quant’anni di lavoro»!*, e soprattutto gli scritti che lo storico ha dedicato a questo
(1
particolare aspetto della cultura figurativa. In Il falsario in calcinaccio (1971), Zeri ricostruiva con i rigorosi strumenti della filologia visiva la personalità di un pittore fantasioso e adescatore, in seguito riconosciuto nel senese Umberto Giunti!?, «Che l’immedesimarsi in una situazione morta, e morta da secoli, sia un assunto impos/
sibile porta dunque come conseguenza che ogni falsificazione, anziché costituire una ripresa, tarda e artificiosa, di determinati valori figurativi, si limita in realtà ad
essere uno schietto ed inequivocabile documento del gusto contemporaneo; e dico del gusto, non dell’arte, perché la forzata mascheratura cui si sottopone il falsario,
nel tentativo di apparire sotto aspetti non propri ed estraneJ, porta come prima conseguenza ad un'estrema limitazione, se non ad una totale soppressione, di quelle
possibilità espressive, vive e genuine, che sono il primo requisito di una vera opera d’arte»! La riflessione rivela una concezione della storia affine a quella che, una
trentina d’anni prima, aveva preoccupato Marc Bloch! Era questa la chiave per leggere i vari aspetti di un fenomeno che aveva inquinato la storia dell’arte per de cenni esponendo gli autori a rischiose prese di posizione personali, e forse proprio per questo disdegnato dagli studi. Da lì a pochissimo, 1 falsi artistici saranno ogget to di rassegne e studi collettivi (nel 1973 la «Revue de l’Art» dedicherà al problema delle contraffazioni un importante numero monografico), ma non è probabilmente un caso se alcuni degli studi più importanti e innovativi su questo tema hanno visto la luce in Italia poco dopo le aperture e le restituzioni di Federico Zeri. ! Uco FoscoLo, Ancient Encaustic Painting of Cle opatra, in «London Magazine», IV, 1826, pp. 652, fig. a p. 64; il testo è stato riesumato da Eugenia Levi, L'articolo sull'«Incausto» di Ugo Foscolo, in «La Bibliofilia. Rivista dell’arte antica in libri, mano scritti, autografi e legature», XV, 1913/1914, pp.
68-90, che lo ha anche tradotto in italiano. Il dipinto su ardesia, 79 x 57 cm circa, era allora a Sorrento, presso l’antiquario Ferdinando Massa, e in prece
storien (1941), a cura di Étienne Bloch, Armand Colin, Paris 1993, p. 129.
° Il celebre dipinto (Roma, Galleria Corsini) ese guito da Anton Raphael Mengs, che ne confessò
la fattura solo prima di morire (José NicoLAs DE AZARA [marqués de Nibbiano], Memorie concernenti la vita di Antonio Raffaello Mengs, primo pittor di camera di Carlo III re di Spagna, in Opere di Antonio Raffaello
Mengs, primo pittore della Maestà del re cattolico Carlo
denza (1822) era stato proprietà a Firenze di un altro
III. Pubblicate dal cav. D. Giuseppe Niccola d’Azara, e
negoziante, Luigi Micheli. ? Lo menzionano brevemente OTTO Kurz, Fakes: A Handbook for Collectors and Students, Faber and Fa ber Limited, London 1948; trad. it. Falsi e falsari, a cura di Licia Ragghianti Collobi, Neri Pozza edi
dallo stesso rivedute ed aumentate in questa edizione, I, Bas
tore, Venezia 1961 (Prefazione di Carlo Ludovico Ragghianti), p. 112, e Massimo FERRETTI, Falsi e tradizione artistica, in Storia dell’arte italiana, III, 3, a cura di Federico Zeri, Giulio Einaudi editore, To
sano 1783, p. LXXXIX), fu considerato un modello insuperabile nel campo delle contraffazioni antiche per l’attenzione con cui il pittore «imitò il muro anti co, gli screpoli che vi finse come se si fosse rotta l’intonicatura nello staccarla dal muro, le scrostature, i ristauri finti per dare ad intendere d’essere stato riaccomodato, e la differenza fra la mano che ha eseguiti
i ristauri, e quella che fece l’originale» (p. LAXxVI).
rino 1981, p. 159.
La bibliografia su questo caso è considerevole; cft.
* Lo riproduce Eugenia Levi e da quell’immagine è tratta l’illustrazione prodotta da FERRETTI, Falsi cit., fig. 199. ' MARC BLOCH, Apologie pour l'histoire ou métier d'hi
almeno ANNA MARIA MORGHEN TRONTI, Un fal so antico opera di Raffaello Mengs, in «Commentati», I, 1950, 2, pp. 109-1II; GIAN Bracio FURIOZZI, Una
relazione inedita di Giovanni Winckelmannn, in «Para
? JOHANN JOACHIM WINCKELMANN, Storia dell’arte nell'antichità (1764), trad. di Maria Ludovica Pam,
gone», XXI, 1970, 243, pp. 67.78; STEFFI ROETTGEN, Storia di un falso: il Ganimede di Mengs, in «Arte
illustrata», VI, 1973, 54, pp. 256/270. © La ricostruzione della storia avvincente
paloni, se, Milano 1990, pp. 22, 23. Sottolinea que
sta esigenza anche ÉLIsABETH DécuLTOT, Johann Joachim Winckelmann. Enquéte sur la genèse de l'histoire
della
«Musa di Cortona» deve molto agli studi di UGO
de l'art, Presses Universitaires de France,, Paris 2000,
Procacci, Giudizi sfavorevoli già espressi nel xvmi secolo, circa l'autenticità della «Polimnia», in Studi di an tichità in onore di Guglielmo Maetzke, INI, G. Bretschneider, Roma 1984, pp. 647/655; DANIELA Gallo, Marcello Venuti tra Napoli e Cortona, in L'Accademia
pp. 227, 236/233.
!® Cosimo RIDOLFI, Lettera al Prof. Petrini conte nente l'esame chimico di un antico dipinto all'encausto, in «Antologia», VII, 20 agosto 1822, 20, pp. 297.
etrusca, catalogo della mostra (Cortona, Palazzo
302, in particolare p. 298; il dipinto su ardesia
Casali, 19 maggio - 20 ottobre), a cura di Paola Barocchi e Daniela Gallo, Electa, Milano 1985, pp. 53-57; MarieTTE DE Vos, La Musa Polimnia di Cortona: una pittura pseudo-antica commissionata da Mar cello Venuti, in L'Accademia etrusca cit., pp. 69772; EAD., Camillo Paderni, la tradizione antiquaria romana
si presentava rotto in sedici frammenti; le analisi erano state effettuate a Firenze dal «prof. Petrini». La discussione sull’autenticità della Cleopatra si prolungherà fino all’ultimo quarto dell’Ottocen to, come attesta il volume On the Antique Painting in Encaustic of Cleopatra discovered in 1818, Phila
e i collezionisti inglesi, in Ercolano 1738/1988. 250 anni
delphia 1885, traduzione del testo pubblicato da Reihnold Schoener nell’«Allgemeines Zeitung»
di ricerca archeologica, atti del convegno internazionale (Ravello-Ercolano/Napoli Pompei, 30 ottobre / 5
(Augsburg), 1882, Ni 227, 228, 229, 230; l’inci sore John Sartain pubblicava nello stesso anno una versione dello scritto arricchita dalle riproduzioni
novembre 1988), a cura di L. Franchi Dell'Orto, L’Erma di Bretschneider, Roma 1993, pp. 99/116; ANNA OTTANI CAVINA, in Sembrare e non essere.
in eliogravura della Cleopatra e della Musa Polimnia di Cortona, traducendo in inglese anche il rappor to di Cosimo Ridolfi (1822), e introducendo una
I falsi nell'arte e nella civiltà, a cura di Mark Jones e Mario Spagnol, con la collaborazione di Paul Craddock, Nicolas Barker, Andrea Bacchi, Lon
de Camillo Paderni (1715-1781) artiste, restaurateur et
serie di osservazioni personali con utili dati sulla storia collezionistica e materiale del dipinto: il ba rone di Bonneval lo aveva acquistato nel 1860 e, prima di offrirlo in vendita a Luigi Napoleone, lo
antiquaire napolitain, in L'’Histoire è l'atelier. Restaurer
avrebbe esposto a Londra, Monaco, Parigi, Roma
ganesi, Milano 1993, pp. 159/161, cat. 136; DELPHINE BURLOT, Lefaux: une tentation d'expert? Le cas
les ceuvres d'art (xvue-xxIe siècles), a cura di Noémie
(JOHN SARTAIN, On the antique painting in encaustic
Étienne et Léonie Hénaut, Presses universitaires de
of Cleopatra, discovered in 1818, G. Gebbie & co., Philadelphia 1885, p. 12). Fu a lungo conservato
Lyon, Lyon 2012, pp. 41/62; PAOLO BRUSCHETTI, «La Sapientissima musa di Callimaco». La questione
nella Villa Bonneval ai Piani di Sorrento; la collo cazione attuale è sconosciuta.
della «Polimnia» di Cortona, in Contraffazione dell’arte, arte della contraffazione. Mostra e incontri di studio, atti
!! Su questi temi il bel saggio di ANTHONY GRAF
degli incontri di studio (Anghiari, Museo Statale
pp. 65778. Sui problemi di conservazione dei dipin-
TON, Falsari e critici. Creatività efinzione nella tradizione letteraria occidentale (1990), Giulio Einaudi editore, Torino 1996; ma gli studi sulla letteratura contraf fatta o arbitrariamente interpolata sono numerosi; su
ti murali estratti a Ercolano e a Pompei, cfr. PAOLA
alcuni aspetti del problema anche dal punto di vista
D’A LCONZO,
del metodo cfr. LUCIANO CANFORA, La storia falsa, Rizzoli, Milano 2008.
di Palazzo Taglieschi, 13 giugno 2012 - 9 giugno
2013), a cura di Paola Refice, Edifir, Firenze 2014,
Picturae excisae. Conservazione e restau-
ro dei dipinti ercolanesi e pompeiani tra xvm e xIx secolo, L’Erma di Bretschneider, Roma 2002.
!° GRAFTON, Falsari e critici cit., pp. 34, 54/57. Anche su questo tema la bibliografia è ricca; mi
? In generale sulle falsificazioni delle pitture anti
che si leggano i recenti contributi di DELPHINE
piace ricordare per il loro carattere di incisiva attuali.
BurLOT, Le faux, source intentionnelle d'erreurs: le cas des contrefacons de peintures antiques, in «Anabases»,
tà i due volumi di LUCIANO CANFORA pubblicati
I, 2010, pp. 181/192; EAD., Le faux: une tentation
eversiva delle discipline, l'indipendenza del pensiero e il di-
d'expert? cit., pp. 41/62.
ritto alla verità, Arnoldo Mondadori editore, Milano. 14 La constatazione è anche in FERRETTI, Il contributo deifalsari cit., p. 209.
nel 2008: La storia falsa cit., e Filologia e libertà. La più
$ Massimo FERRETTI, Il contributo dei falsari alla storia dell’arte, in «Annali della Scuola Normale Superio re di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», serie 5, 1, 2009, I, p. 204.
© Ne loda le virtù imitative GIOVANNI BAGLIONE,
Le vite de’ pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato
79
di Gregorio XIII fino a tutto quello d'Urbano Ottavo, Roma 1649, pp. 157/158.
tazione moderna da Simone dei Crocefissi con il
!6 Cfr. le belle evocazioni del revival seicentesco di
cit., p. 178, fig. 238; ID., Il contributo deifalsari cit., p.
Giorgione in BERNARD AIKEMA (Pietro della Vec-
210 nota 49; altri casi in ANDREA G. DE MARCHI,
chia and the heritage of the Renaissance in Venice, Istituto Universitario olandese di storia dell’arte, Firenze
Falsi primitivi. Prospettive, critiche e metodi di esecuzione, Allemandi, Torino 2001, pp. 105106, figg. 33/38. 7 FERRETTI, Il contributo deifalsari cit., pp. 210/211.
nome di Gelasio è riprodotta da FERRETTI, Falsi
1990) e in EnrICO MarIA Dat Pozzoto (Ilfan
28 Ferretti ricorda il falso atto notarile relativo alla Madonna che sarebbe stata ritratta da san Luca, ap
tasma di Giorgione, Zel Edizioni, Treviso 2011). Y GiuLio MAncINI, Considerazioni sulla pittura, a cura di Adriana Marucchi e Luigi Salerno, I, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1956, in particolare pp. 139/145; su Mancini «conoscitore»,
«Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 52, 2008, pp. 53/72. !# La conoscenza approfondita del territorio italia.
prodata a Bologna alla fine del Seicento; sul tema anche RoserTto BIZzoccHI, Genealogie incredibili. Scritti di storia nell'Europa moderna, Il Mulino, Bolo gna 1995; MARIO FANTI, La leggenda della Madonna di San Luca di Bologna. Origine, fortuna, sviluppo e valore storico, in MARIO FANTI E GIANCARLO ROVERSI (a cura di), La Madonna di San Luca in Bologna. Otto secoli di storia, di arte e di fede, Cassa di risparmio di
cfr. ora DONATELLA
LIVIA SPARTI, Novità su Giu
lio Mancini: medicina, arte e presunta «connoisseurship», in
no da parte di Luigi LANZI è testimoniata dai suoi
Bologna, Bologna 1993, pp. 82/91.
taccuini di viaggio, in parte pubblicati: Taccuino di
© La data di pubblicazione si deduce da una nota
Roma e di Toscana (1778/1789 circa), a cura di Donata
di FEDERIGO ALIZERI che nella sua Appendice (Ap pendice al secondo volume |Notizie dei professori del disegno
Levi, Scuola Normale Superiore, Pisa 2002; Il tac
cuino lombardo. Viaggio del 1793 specialmente pel milanese e pel parmigiano, mantovano e veronese, musci quivi veduti: pittori che vi son vissuti, a cura di Paolo Pastres, Fo
in Liguria dalle origini al secolo xvi, II, Genova 1873]. Di Ludovico Brea e d'altri pittori nicesi, Genova 1881, p. xVI) fa riferimento al «suo libercolo or or pub
rum, Udine 2000; Viaggio del 1793 pel Genovesato e il
blicato»; ALESSANDRO BAUDI DI VESME (Schede
Piemonte, a cura di Gianni Carlo Sciolla, Canova, Treviso 1984; Viaggio nel Veneto, a cura di Donata Levi, spes, Firenze, s.d. [1988].
di archeologia e belle arti, Torino 1982, p. 1206) lo dice invece edito nel 1874. Devo la lettura dell’opu-
Vesme. L'arte in Piemonte,
°° Luigi LANZI, Storia pittorica della Italia: dal risor. gimento delle belle arti finpresso al fine del xvmi secolo (1808), a cura di Martino Capucci, Sansoni, Firen
IV, Società piemontese
scolo alla cortesia di Christophe Prédal che ringra. zio vivamente. 5 ENRICO SCHAEFFER, Giovanni Mirallieti eLudovico Brea pittori celebri nizzardi del xvmo secolo, Impr. de A. Viterbo, Nice 1880, p. 6. 3! Ibid., p. 16: gli eruditi cercano tracce degli artisti
ze, I, 1968, p. 13.
2 Ibid., p. 17: «Per questo scambievole soccorso, che il pittore ha dato all’uomo di lettere e l’uomo di let tere al pittore, la storia dell’arte si è avanzata molto».
solo negli archivi «mentre i pittori hanno scritto la loro storia e sovente la loro vita chiaramente sulle tavole e tele».
“! JACOB BURCKHARDT, L ‘autenticità dei quadri antichi
(1882), in ID., Arte estoria. Lezioni 1844/87 (1918), a cura di Maurizio Ghelardi, Bollati Boringhieri, To rino 1990, pp. 298/308, in particolare p. 305.
°° ALIZERI, Appendice cit., p. IV.
© Orto MuNDLER, The Travel Diaries of Otto Miindler, 1855-1858, a cura di Carol Togneri Dowd, printed for the Walpole Society by W. S. Maney &
data 1466 sono incisi in una cornice in pietra murata
3° Ibid., pp. vevi. Il nome di Bartolomeo Bensa e la in rue de la Condamine a Nizza; è questa l’unica
testimonianza del nome del pittore. “ SCHAEFFER, Giovanni Mirallieti cit., p. 19: secondo
Son, Leeds 1985.
© CHARLES EASTLAKE, The Travel Notebooks of Sir
Schaeffer la tavola sarebbe stata gravemente danneg, giata da «un certo P. [...] circa dieci anni fa» che l’a-
Charles Eastlake, a cura di Susanna A veryQuash, 2 voll., produced for the Walpole Society by the
vrebbe ottenuta per restaurarla, e l'avrebbe in seguito trasportata a Parigi per venderla: lì sarebbe stata sequestrata e restituita grazie all’intervento dell’am-
Charlesworth Group, Huddersfield 2011. 24 Ibid., p. 561.
© Ibid. °° Una breve lista di opere con la firma falsa di Man
basciatore a Parigi. Danneggiato ulteriormente da una colata d’acqua penetrata da uno squarcio del la volta, il polittico sarebbe stato firmato in basso,
tegna, da Giambono a Lorenzo Costa, da Butinone a Carpaccio, in GIOVANNI PREVITALI, La fortuna dei primitivi. Dal Vasari ai neoclassici, Giulio Einaudi
al centro del pannello centrale: «Johannes Mirallieti et Ludovicus Brea [...] pictores nicienses fecerint Anf...] Dom. MCCCCLXXM die xxI julti» (scritta frammen-
editore, Torino 1964, pp. 156157 nota 4; un’imi/
80
taria): Brea avrebbe dipinto il San Sebastiano, Miral.
glion, Cannes 1908, p. 131; Giuseppe BRES, Que stioni d'arte regionale. Studio critico. Altre notizie inedite sui pittori nicesi, Lersch & Emanuel, Nice 1911, p. 12; Les Bréa. Peintres nicois des xv"° et xvi"° siècles, catalogo della mostra (Nizza, Musée Masséna, feb-
lieti l'Annunciazione e il San Fabiano. Come è noto,
la pala è interamente opera di Ludovico Brea e la sua realizzazione risale agli anni di poco posteriori al 1490: ANNA DE FLORIANI, Verso il Rinascimento, in Giuliana Algeri e Anna De Floriani, La pittura in Liguria. Il Quattrocento, Tormena,
Genova
braio-maggio), Editions des A mis du Musée Masse, na, Nice 1937, pp. 17, 25; LÉON-H. LABANDE, Les Bréa. Peintres nicois des xv®° et xv1"° siècles en Provence et en Ligurie, Editions des Amis du Musee Massena, Nice 1937, p. 87; BAGHINO, Itinerario cit., p. 250 nota 40; MARrcELLE BABY-PABION, Ludovic Brea &7
1991,
p. 412; CLAIRE/LISE SCHWOK, Louis Bréa, ca. 1450 - ca. 1523, Arthéna, Paris 2005, p. 158, cat. P. 28;
AnNA De FLORIANI, Francia-Italia-Francia: il per corso di Ludovico Brea alla ricerca di una sintesi possibile, in L’Ascensione di Ludovico Brea, a cura di Gianluca Zanelli, Sagep, Genova 2012, pp. 2729. La veri.
la peinture primitive nigoise, Serre, Nice 1991, p. 210;
Giovanni Mirallieti cit., pp. 13-14:
SCHWOK, Louis Bréa cit., pp. 201/202, cat. P.R.46. * Tempera su tela, 190 x 90 cm: ELISABETH MAR TIN, Contribution a la connaîssance des procédés techniques de Louis Brea, in L'arte dei Brea tra Francia e Italia, con servazione e valorizzazione, atti del convegno (Genova, convento di Santa Maria di Castello, 31 ottobre
il dipinto sarebbe stato venduto a Milano nel 1859
2005), a cura di Maria Teresa Orengo, A ll’insegna
«dal padre del sig. Sajago»; probabilmente Giusep pe Sajago, pittore con «quadri per commercio»: cfr. Nuovissima guida dei viaggiatori in Italia..., Milano 1840,
del giglio, Borgo San Lorenzo 2006, pp. 111/125, in particolare pp. 113/114; anche SCHWOK, Louis
p.75-
* Olio su tavola, 76 x 68 cm; il supporto sembra
7 NICOLÒ E ANDREA JAGHER (a cura di), Car teggio epistolare (1892-1899) Eugenio Cais di Pierlas -
antico ma la superficie è stata interamente ridipinta in epoca moderna. L’iscrizione in parte amputata
dicità delle informazioni di Schaeffer sulle vicende
conservative del dipinto, che mi sembrano ignorate dalla bibliografia recente, andrebbe verificata. ALIZERI, Appendice cit., p. vi. 5% SCHAEFFER,
Bréa cit., pp. 203-204, cat. P.R.50.
Giuseppe Bres, Phasar Edizioni, Firenze 2014, p. 34.
recita: «Hoc opus fecit fieri quondam nob. | Antonius La
#* GruseppE BREs, Notizie intorno ai pittori nicesi Gio
scaris episcopus |[...Jegiensis cuius executor fuit nob. |[T]
vanni Mirallieti, Lodovico Brea e Bartolomeo Bensa in re
homas Lascaris frater. |Ludovicus Brea pictor niciae |natus [ 2] pinxit [?]rrustis 1515»: BRES, Notizie cit., pp. 20
lazione all'opera di Federigo Alizeri «Notizie dei professori del disegno in Liguria», Sambolino, Genova 1903, p.
16; ringrazio mio fratello Vittorio per avermi aiutato
21; BAGHINO, Itinerario cit., p. 252; SCHWOK, Louis Bréa cit., p. 201, cat. P.R.45. La composizione ri
a reperire questo testo.
prende temi fiorentini della prima metà del secolo
3 La vicenda è stata riesumata con finezza da
xVI. Sono molto grato a Anne Devroye/Stilz, con servateur en chef delMusée des Beaux-Arts di Nizza,
PAOLA BACHINO, Itinerario di un «conoscitore» tra copie
antiche e falsi ottocenteschi, in Federigo Alizeri (Genova 1817/1882) un «conoscitore» in Liguria tra ricerca erudita,
per la cortesia con la quale mi ha fornito il materiale fotografico. ‘° JAGHER, Carteggio cit., p. 33. Una falsificazione
promozione artistica © istituzioni civiche, atti del convegno (Genova, Istituto di Storia dell’ Arte dell’Uni versità di Genova, 677 dicembre), Istituto di Storia dell’ Arte dell’Università di Genova, Genova 1988,
tratta dallo scomparto con le Marie al sepolcro incluso nella predella del trittico della Misericordia di Gio
vanni Mirallieti (Jean Miralliet) a Nizza (conserva.
pp. 235/255.
to nella sacrestia della Cappella della Misericordia) è apparsa sul mercato antiquario a Zurigo nel 1987; la pessima qualità del dipinto e della fotografia di cui dispongo mi impediscono di riprodurlo. # Nizza e il territorio sono francesi dal 1860, ma
* JAGHER, Carteggio cit., p. 3: lettera di Bres a Eu
genio Cais di Pierla [Nizza], 4/8 maggio [1893]. ! SCHAEFFER, Giovanni Mirallieti cit., p. 27. * BAGHINO, Itinerario cit., p. 253. # Olio su tavola, 60 x 34 cm; Nizza (dintorni), proprietà barone de Bellet; proverrebbe da Sospel
Giuseppe
Bres nella corrispondenza
con
Euge
nio Cais di Pierlas ancora rimpiange nel 1893 (24
lo e reca l’iscrizione apocrifa «Ad laudem nob. Mariae
agosto) che accanto alla cappella Notre Dame des
Leotardis uxoris sue Hieronimus Alberti sospitellensis fecit
Fontaines a Briga Marittima, dove dipinse il Ca
fieri. Ludovicus Brea pinxit 1514 die XI Februariv: ALI ZERI, Appendice cit., p. xvi; BRES, Notizie cit., pp.
navesio, l’albergo abbia modificato la sua primitiva appellazione: «Mi fà molto piacere che il Beghelli abbia pensato a mettere anche in italiano il titolo dell’ Albergo, però nelle corrispondenze al Pensiero di Nizza che mi sembrano corrispondenze reclame
19/20; THOMAS
BENSA, La peinture en Basse -Pro-
vence, à Nice et en Ligurie. Depuis le commencement du
Quatorzième siècle jusqu'au milieu du Seizième, V. Gui
81
si parla sempre dell'Hotel de la Source, quasi fosse
«Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des
vergognoso il chiamarlo Albergo della Sorgente»
Allerhéchsten
(JAGHER, Carteggio cit., p. 55).
1/48.
#. Enrico CastTELNUOVvO, «Primitifs» siècle», in Storia dell’arte e politica culturale 1900. La fondazione dell'Istituto Germanico dell'Arte di Firenze, a cura di Max Seidel,
di Storia Marsilio,
1902.
Green
1901; Cosmos,
Berlin
Pepper, Bob Jones University Collection of Religious Art. Italian Paintings, Bob Jones University, Green ville 1984, p. 33, cat. 26; l’ho riprodotto nella sche. da dedicata al Martirio di san Sebastiano del Musée des Arts Décoratifs di Parigi (inv. Pe 918), in Primitifs italiens, catalogo della mostra (Ajaccio, Musée des
beaux-arts au Palais Fesch, 29 giugno - 1° ottobre),
2004, pp. 47/57, in particolare pp. 50/56. coscienza
and Co., London
% Olio su tela, 95,9 x 70,5 cm; poi riferito a un ar tista anonimo dell’Italia settentrionale da STEPHEN
conflictuelles, in Primitifs frangais. Découvertes et redécouvertes, catalogo della mostra (Parigi, Musée du Louvre, 27 febbraio - 17 maggio), a cura di Dominique Thiébaut, Philippe Lorentz, Frangois-René Martin, Réunion des Musées Nationaux, Paris La
1906, pp.
5 PauL KRISTELLER, Andrea Mantegna, Longmans,
? FRANGOIS-RENÉ MARTIN, Les primitifs frangais au XIX siècle. De l'érudition dispersce aux synthèses
BoLocnNA,
XXVI,
e «fin de intorno al
Venezia 1999, pp. 47/54, in particolare p. 50.
5° FERDINANDO
Kaiserhauses»,
a cura di Esther Moench, Silvana Editoriale, Cini sello Balsamo 2012, pp. 304/307, cat. 48.
storica
7 De MARCHI, Falsi primitivi cit., pp. 161/163, figg.
dell’arte d’Italia, UTET, Torino 1982, p. 178. © Per tutti, ricordo ALESSANDRO Luzio E RoODOLFO RENIER, La coltura e le relazioni letterarie di Isa bella d'Este Gonzaga (18991903), a cura di Simone Albonico, Sylvestre Bonnard, Milano 2005. °? CHARLES STERLING, Les émules des Primitifs, in
IIGZIIO.
# A questo fecondo capitolo delle falsificazioni GIANNI
Mazzoni
ha dedicato importanti inter
venti (tra cui Quadri antichi del Novecento, Neri Pozza editore, Vicenza 2001; The Berensons and the Sienese Forger Icilio Federico Joni, in Carl Brandon Strehlke
«Revue de l’Ar», 21, 1973, pp. 80/93, in parti
e Machtelt Briggen Israéls, The Bernard and Mary Berenson Collection ofEuropean Painting at I Tatti, Of
colare pp. 91/93; il catalogo di questo espressivo e funereo pittore è stato incrementato da FRÉDÉRIC ELSIG, A propos de lafalsification, in Il più dolce lavorare
ficina Libraria, Milano-Firenze 2015, pp. 639/642)
e una bella mostra senese: Falsi d'autore. Icilio Federico
che sia. Mélanges en l’'honneur de Mauro Natale, a cura di Frédéric Elsig, Noémie Étienne, Grégoire Exter mann, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2009,
Joni e la cultura del falso tra Otto e Novecento, catalogo della mostra (Siena, Palazzo Squarcialupi, 18 giu gno - 3 ottobre), a cura di Gianni Mazzoni, Protagon, Siena 2004. In questo contesto meriterebbe di
PP. 477/479; ho aggiunto anch'io qualche numero in La contrefagon: artisanat et industrie, in L'art d'imiter.
Images de la Renaissance italienne au Musée d'art et d'hi stoire. Falsifications, manipulations, pastiches, catalogo
essere indagata a fondo la figura di Federick Mason Perkins, di cui una parte della collezione, ricca di
belle contraffazioni nel gusto dei pittori senesi del
della mostra (Ginevra, Musée d’art et d’histoire, 14 marzo < 28 settembre), a cura di Mauro Natale e Claude Ritschard, Musée d’art et d’histoire, Genève 1997, pp. 12:17. Un esemplare della produzione del pittore già riprodotto da STERLING, Les émules cit.,
Tre e del Quattrocento, è esposta nel Museo Dioce
sano e Cripta di San Rufino ad Assisi (l’antichità
delle opere non è messa in discussione). °° Il dipinto di Fogolino proviene dalla chiesa cit. tadina di San Bartolomeo. Ringrazio Bodo Brink mann di avermi fatto conoscere la tavola qui ripro
p. 92 fig. 38 (come «imitation d’une peinture suisse du xvi° siècle») è riapparso recentemente sul mercato antiquario austriaco: Ritratto di donna, olio su tavola,
dotta. ® TancRrED
45,5 x 28,5 cm; Vienna, Deutsch Kunstaukt, 27
BoreNIUS,
The Painters of Vicenza,
14801550, Chatto & Windus, London 1909.
settembre 2016, lotto 19 (fig. 9). È Dipier Boparp, The Zanchi Collection, De Luca, Roma 1958, pp. 315/316, cat. 432 (dove il
9 GiusepPE DEFENDI, Commercio e ristauro di quadri,
in «Gazzetta Privilegiata di Milano», 1835, pp. 847
dipinto è attribuito ad Andrea Mantegna: tempera
849; è interessante leggere dello stesso DEFENDI, Ar
su tela, 41,5 x 35 cm). Non conosco le dimensioni né la collocazione della tela leonardesca di cui esisto no fotografie nell’archivio di Federico Zeri e in quel,
meria del signore C. Ambrogio Uboldo banchiere milanese (estratto dalla «Gazzetta Privilegiata di Milano»), Milano 1835: Uboldo, collezionista di Hayez,
lo Steffanoni; sono molto grato a Maria Cristina
Pompeo Marchesi, Giuseppe Canella e proprietario
Rodeschini di avermene facilitato la consultazione. "* In modo particolare l'intervento su Ambrogio
di «una splendida armeria», visitata da tutti, aveva fatto eseguire un album in cui erano riprodotti gli
de Predis: Ambrogio Preda und Leonardo da Vinci, in
oggetti della propria collezione e il loro allestimen-
82
to. Sul predicatore cfr. CARLO LEONI, Della sacra eloquenza d'oggidì e di Giuseppe Defendi, in «Rivista eu ropea. Giornale di scienze morali, letteratura, arti e varietà», nuova serie, I, 1, Milano 1843, pp. 14/20:
elogio della retorica e dei sermoni pubblici di Giu seppe Defendi, romano, «predicatore rinomatissimo
dell’Italia» (morto nel 1846). © Mauro NATALE, «The Spanish Forger»: un fal sario ancora senza identità, in Emil Bosshard, Paintings
Conservator (1945-2006). Essays by Friends and Col leagues, a cura di Maria de Peverelli, Marco Grassi, Hans Christoph von Imhoft, Centro Di, Firenze
2009, pp. 167/193.
“ RoBERT GEORGE REISNER, Fakes and Forgeries in the Fine Arts: A Bibliography, Special Libraries As sociation, New York 1950. “ THierry LENAIN, Du faux en art, et des manières policières adoptées naguère dans la critique, in A propos de «La critique», a cura di Dominique Chateau, L’Harmattan, p. 182.
Paris
1995,
pp.
179/199,
in particolare
© La letteratura settoriale in Francia è ricca di esempi anche anteriori; cfr. per esempio EUGÈNE PIOT (Le
bito fiammingo. Il Ritratto maschile (tavola, 29,5 x 21,8 cm) è stato venduto a Londra, Christie's, 13 ottobre 1990, lotto 327, come seguace di Hans Memling; l’ho riprodotto con il nome di Van der Veken in Des experts et des @uvres, in Primitifs italiens, catalogo della mostra cit., p. 22, fig. 6. La Madonna con il Bambino (tavola, 28 x 22 cm) è stata venduta a Londra, Christie’s, 7 luglio 1989, lotto 91, con l’attribuzione a Fiorenzo di Lorenzo. 5 Restaurateyrs ou faussaires des primitifs flamands, ca talogo della mostra (Bruges, Groenigemuseum, 26
novembre 2004 - 28 febbraio 2005), a cura di Hélène Verougstraete, Roger van Schoute, Till-Holger Borchert, Ludion, Gand-A msterdam 2004. 9 Autour de la «Madeleine Renders», cit.
? Rocer Ery, The Authenticity of the Renders Col lection, in «The Burlington Magazine»,
50, 1927,
pp. 261/263, 267; sulla figura di Fry cfr. in parti colare CAROLINE ELAM, «A more and more important
work»: Roger Fry and The Burlington Magazine, in «The Burlington Magazine», 145, 2003, pp. 142 152; e FLAMINIA GENNARI SANTORI, Holmes, Fry,
cabinet de l'amateur. Années 1861 et 1862, Paris 1863)
Jaccaci and the «Art in America» section of The Burlington Magazine, 190510, in «The Burlington Magazine»,
che denunciava il gran numero di falsificazioni tra gli oggetti messi in vendita della collezione di Louis
7 Fry, The Aythenticity cit., p. 262.
145; 2003, pp. 628/638.
Fould; e le proposte di JOSEPH COTTINI (Examen du
? Ibid.
Musée du Louvre, suivi d'observations sur les expertises en matière de tableaux, Paris 1851) e di THéoDORE LE
3 A.P. Laurie, A.L. NicHoLson, H. BLAKER,
JEUNE (Guide théorique et pratique de l'amateur de table
gton Magazine», 50, 1927, pp. 342/344.
aux. Etudes sur les imitateurs et les copistes des maîtres de
7 A.P. LAURIE, The van Eyck medium, in «The Bur
The Identification of Forged Pictures, in «The Burlin
toutes les écoles dont les aeuvres forment la base ordinaire
lington Magazine», 23, 1913, pp. 72/76.
des galeries, 3 voll., Paris 18641865). Verso la fine del secolo, in seguito ad alcuni scandali celebri a cui
” Editorial: The Forger and the Detective, in «The Bur
la stampa periodica diede grande risonanza (le false
7° Ibid, p. 3: «There is something sufficiently di
sculture rinascimentali di Giovanni Bastianini, la
sturbing and obnoxious to induce us to regard it as
«Tiara di Saitaferne» ecc.), l’interesse pubblico per
antisocial». 7 È particolarmente significativa da questo punto di vista la scarsa attenzione portata da ABy WARBURG al problema dell’autografia, così come affiora
le falsificazioni si generalizzò e si moltiplicarono gli inviti a creare a Parigi un «vrai Musée du Faux» (per tutti Un Musée du faux, in «Les Arts», 17, 1903, pp. 13/33, con vari interventi).
% Jacques Lust, Grandeurs et décadence d’Emile Ren ders; chronique mouvementée d'une collection d'art belge, in
Autour de la «Madeleine Renders». Un aspect de l'histoire des collections, de la restauration et de la contrefacon en
Belgique dans la première moitié du xx° siècle, a cura di Dominique Vanwijnsberghe, Brepols Publishers, Bruxelles 2008, pp. 77/146. Émile Renders era il figlio adottivo dell’antiquario di Bruges August A dolph Renders. “ I due dipinti qui riprodotti non facevano parte della collezione Renders, ma illustrano in modo soddisfacente l’abilità mimetica del restauratore e i suoi meno riusciti tentativi di sconfinare oltre l’am-
lington Magazine», 51, 1927, pp. 3/4.
nelle tavole dell” Atlante della Memoria, approntate tra il 1924 circa e l’anno della sua morte, il 1929 (Der Bilderatlas Mnemosyne, Gesammelte Schriften Il.1, a cura di Martin Warnke e Claudia Brink, Aka, demie, Berlin 2008). Nella topografia visiva della tavole di Mnemosyne, montate seguendo il principio narrativo della forza evocativa e coinvolgente delle
immagini
(«pathosformel»),
compaiono
almeno
due opere contraffatte: nella tavola 38 («Stile misto
in rapporto con l’antico. Vita di corte...»), il cosid detto Busto di Lorenzo de Medici in terracotta del Mu seum of Fine Arts di Boston (inv. 17.1477; fig. 15), a lungo considerato opera della cerchia di Andrea del Verrocchio (WILHELM BoDe, Italienische Bil-
vano a Parigi: «Ora a Parigi si dice che altro è essere un savant, altro saper distinguere il vero dal falso»
dhauer der Renaissance, WW. Spemann, Berlin 1887, p. 109; riconosciuto come imitazione da Verrocchio da Leo PLaNIscIG, Andrea del Verrocchio, A. Scroll & C., Wien 1941, p. 50, cat. 30/40; GUNTER PAS
è puntualmente ricostruita da Monica Cavicchi in
SAVANT, Verrocchio. Sculture, pitture e disegni, Alfie ri, Venezia 1969, p. 213, A pp. 3, con bibliografia
questo volume. $ La vicenda è ben restituita da MAZZONI, Quadri
precedente). Nella tavola 46 («Ninfa. Rapida por tatrice di vittoria [Eilbringitte] negli ambienti Tor nabuoni...») è riprodotto l’affresco staccato con una
antichi cit., pp. 45-60 € passim.
Giovane donna con piatto difrutta (Pisa, Museo Nazio nale di San Matteo, inv. 5742; fig. 16) tratta da una
figura della celebre Nascita di Giovanni Battista nella
(1° ottobre 1930). La vicenda della Madonna del Velo
$ Hans Tierze, The Psychology and Aesthetics of Forgery in Art, in «Metropolitan Museum Studies»,
V, 1934, I, pp. 1-19, in particolare pp. 4, 17.
$ JuLius S. HeLb, The Stylistic Detection of Fraud,
cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella. Il
in «Magazine of Art», 1948, pp. 179/182. Lo ricor da anche DE MAR&HI, Falsi primitivi cit., p. 43, nel
dipinto è stato presentato recentemente come opera
bel capitolo del suo volume dedicato a Falsi e critica
dell’«ambito di Domenico Ghirlandaio», e com mentato con molto equilibrio da CATERINA Bay, in L'incanto dell'affresco. Capolavori strappati, catalogo
Y Ibid., p. 182: «Yet, just the recurrence of the pro
della mostra (Ravenna, Loggetta Lombardesca, 16
febbraio - 15 giugno), a cura di Luca Ciancabilla e Claudio Spadoni, Silvana Editoriale, Cinisello
(pp. 17/59).
blem offorgeries should help to drive home the im
portance of sound training in the comprehension of stylistic qualities». 8 Kurz, Fakes cit. L'importanza del volume di
Balsamo 2014, pp. 204205: la fedeltà al modello e
Kurz è ben sottolineata da De MARCHI, Falsi pri
la resa sommaria e «moderna» del piatto metallico e della frutta testimoniano a favore di una fattura tardo
mitivi cit., pp. 42/43.
ottocentesca del dipinto. # MAXx J. FRIEDLANDER,
Original and Copy, in
«The Burlington Magazine»,
78, 1941, pp. 143-
145, 147/148, 151; Ip., On Forgeries, in «The Bur lington Magazine», 78, 1941, pp. 192/193, 195/197.
? MAx J. FRIEDLANDER, On Art and Connoisseur ship, Bruno Cassirer, London 1943; trad. it. Il conoscitore d'arte, Giulio Einaudi editore, Torino 1955.
$° Nella Prefazione alla seconda edizione (1942) del suo Piero della Francesca (1927) Roberto Longhi aveva rilevato il buon numero di derivazioni pierfrance
scane apparse dopo la prima edizione del volume, ma aveva liquidato il problema avvertendo che avrebbe omesso di riprodurle: «ciò vuol significare che esse non mi sembrano autentiche» (ROBERTO LoncHI, Piero della Francesca [1927]. Con aggiunte fino al 1962, Sansoni, Firenze 1963, pp. vivi).
* FRIEDLANDER, Original and Copy cit., p. 143. È! Friedlinder tenne una prima conferenza sui falsi in pittura il 28 settembre 1911 a Bruxelles; il tema
% Su Albizzati cfr. la voce redatta da ARTURO
fu affrontato in interventi a stampa nel 1923, 1924, 1927, 1929; cfr. l'ottimo saggio di SUZANNE LAEMERS, «A matter of character»: Max]. Friedlander et ses relations avec Émile Renders et Jef Van der Veken, in Autour de la «Madeleine Renders» cit., pp. 147176. Friedlinder era stato coinvolto in quanto esperto
°! Cfr. nota 6; ma ancora nel 1951 Ezio A LETTI (La tecnica della pittura greca e romana e l’encausto, L’Erma di Bretschneider, Roma 1951) replicava all’artico.
nella discussa esposizione di Londra nel 1927.
*° Lettera del 1° maggio citata da LAEMERS, « A mat
ter ofcharacter» cit., p. 172.
STENICO per il Dizionario Biografico degli Italiani (vol. 2, 1960, accessibile online).
lo di Albizzati sostenendo l’antichità della Musa; cfr. MICHELANGELO
CAGIANO
DE AZEVEDO, La
«Polimnia» di Cortona di Marcello Venuti, in «Storia dell’arte», 38-40, 1980 (Studi in onore di Cesare Bran di), pp. 389392, in particolare p. 389. © CARLO ALBIZZATI, ad vocem «Falsificazione», in
8 CAROLINE VILLERS, La madonna botticelliana del vi
Enciclopedia Italiana, XIV, Milano
sconte Lee di Farcham, in Falsi d'autore cit., pp. 47/58;
759.
LorepANA Lorizzo, Pietro Toesca all’Università di Roma e il sodalizio con Bernard Berenson, in Pietro To esca e la fotografia. Saper vedere, a cura di Paola Cal legari e Edith Gabrielli, Skira, Milano 2009, pp. 103/125, in particolare pp. 113/117, dove sono citate due lettere inviate da Toesca a Berenson nelle quali
#3 Ranuccio BIANCHI BANDINELLI, Nota a Car
1932, pp. 756
ai «risultati scientifici incontrollabili» (17 settembre
lo Albizzati, La «Musa» di Cortona, in «La Critica d’arte», 2, 1937, p. 25. "* Giulio EMANUELE Rizzo, Monumenti della pittura antica scoperti in Italia, sezione III, La pittura elleni stico-romana. Centuripe, fascicolo I, Ritratti di età elle nistica, Istituto poligrafico dello Stato, Libreria dello Stato, Roma 1936. Sulla posizione ambivalente di
1930) e malgrado i commenti maligni che circola.
Rizzo nei confronti del regime fascista cfr. RACHELE
è ribadita l’autenticità della tavola contrariamente
DuBBINI, Giulio Emanuele Rizzo. Lo studio della greci
pittorico di Michelangelo [1941/1942], in ID., Critica
tà contro la romanescheria fascista, in «Fragmenta. Jour nal of the Royal Netherlands Institute in Rome», II,
d’arte e buongoverno 19381969, Sansoni, Firenze 1985,
2008, pp. 215/232.
1 PELLEGRINI, Tra Longhi e Berenson cit., p. 50 nota
% MARCELLO
BARBANERA,
False impressioni. La
polemica sui «tondi di Centuripe» tra Giulio Emanuele Rizzo e Carlo Albizzati, in «Bollettino d'Arte», LXXXVIII,
2003,
125/126,
pp.
79/98;
anche
Kurz, Fakes cit., p. 114; FERRETTI, Falsi cit., pp.
190/192, figg. 270/271. % PaoLo Preto, Una lunga storia di falsi e falsari, in «Mediterranea. Ricerche storiche», III, 2006, 6, pp. 1/38, in particolare p. 34.
7 CARLO
ALBIZZATI, Tautì toiauti, in «Athena eum. Studi periodici di letteratura e di storia dell’an tichità», XX, 1942, pp. 62/65: la rivista era edita a Pavia presso la cui università insegnava Albizzati. ®% RanuccIO BIANCHI BANDINELLI, Due noterelle
pp. 173/174). 24. Anche un articolo di MARIA Luisa GENGARO (Segnalazioni: due quadri senesi, in «La Critica d’Ar
te», II, 1937, pp. 166/167) suscitò le giuste riserve di Longhi secondo il quale «dei tre quadri senesi non mi pare che funzioni che il Matteo di Giovanni
(se è antico!)», (lettera di Roberto Longhi a Carlo Ludovico Ragghianti, non datata ma riferibile all’a gosto-settembre 1937, pubblicata da EMANUELE PELLEGRINI, Ragghianti e Longhi in una lettera a Paola Barocchi, in «Predella. Journal of visual arts», 36,
2014, pp. 105121, tav. XXI). Il dipinto pubbli. cato come Matteo di Giovanni da Gengaro è infatti
un falso di Igino Gottardi, e come tale riprodotto da MAzzoNI, Quadri antichi cit., p. 24 € fig. 28.
in margine ai problemi della pittura antica, in «La Cri
40 Lettera di Federico Gentile a Ragghianti,
tica d'Arte», V, 1940, pp. 7791; Bianchi Bandi
luglio 1940: EMANUELE PELLEGRINI, La fine della
nelli aveva precedentemente elogiato in «La Critica
prima serie de «La Critica d'Arte»: Bianchi Bandinelli, Longhi, Ragghianti, in «Annali di Critica d'Arte», VI, 2010, pp. 430/431.
d’Arte» (II, 1937, pp. XXV-xxx:
Notizie e letture)
la serie editoriale diretta da Rizzo (Monumenti della pittura antica scoperti in Italia cit.), definendola «opera importantissima».
% BARBANERA, False impressioni cit., p. 85. 1 Lettera di Ranuccio Bianchi Bandinelli a Carlo Albizzati, 12 aprile 1942, pubblicata in appendice da BARBANERA, False impressioni cit., p. 90. 10! AMEDEO MAIURI, A proposito di «consensi e dissen
16
!! Roberto Longhi in una corrispondenza con Fe derico Gentile, menzionata da PELLEGRINI, Tra Longhi e Berenson cit., p. 429; faccio riferimento agli
eccellenti studi di Emanuele Pellegrini nell’evocare la vicenda della prima fase di «La Critica d'Arte»; oltre a quelli già citati si legga I/ carteggio Schlos
ser-Ragghianti: qualche anticipazione, in Ragghianti criti-
si», in «Roma», 1942, pp. 341/342.
co e politico, a cura di Raffaele Bruno, Franco Angeli,
122 Lettera di Carlo Albizzati
Milano 2004, pp. 259-290. 1? CarLo Lupovico RAGGHIANTI, In morte diJu
a Ranuccio Bianchi
Bandinelli, Pavia, 9 gennaio 1945: BARBANERA,
False impressioni cit., pp. 84, 94/95, doc. 20. 1° «La Critica d'Arte», II, 1937, pp. 26/38. 104 Ibid., pp. 39-40. 105 Ibid., pp. 172/175 € IIOAIII. 10° Ibid., pp. 97/109.
107 Ibid., pp. 145152. 198 Sulla Pietà attribuita da Fiocco ad Antonello da
Messina Longhi in una lettera a Ragghianti affer mava di non poter credere (EMANUELE PELLEGRI
lius van Schlosser (1939), in Ip., Miscellanea minore di critica d'arte, Laterza, Bari 1946, pp. 29/37. 3 Come è noto, «l’antifascista Carlo Ludovico Ragghianti» fu arrestato a Bologna con un nutrito
gruppo di compagni di studi e con Giorgio Morandi il 23 maggio 1943: LUCIANO BERGONZINI, Morandi in carcere: Maggio 1943, Amici del Museo Morandi, Bologna 1998; ID., Politica ed economia a
NI, Tra Longhi e Berenson: Ragghianti «conoscitore», in «Critica d'Arte», LXXII, 4142, 2010 [2011], pp.
Bologna nei venti mesi dell'occupazione nazista, Galeati, Imola 1969, pp. 15/16, 90/91. Riprendo le in formazioni da Massimo FERRETTI, Origine, forma
36/52, in particolare p. 50 nota 24); per prendere
e contenuto di un libro breve «da ricordarsene un pezzo»,
le distanze da Fiocco, secondo cui anche Longhi
postfazione a Francesco Arcangeli, Tarsie (1942),
avrebbe aderito all’idea di riconoscere nel gruppo della «Madonna di Manchester» il giovane Miche langelo, lo studioso inviò una lettera datata Firenze,
Edizioni della Normale, Pisa 2014, pp. 85/152, in
chiarendo che i dipinti appartenevano a un insieme «schiettamente omogeneo» ma di «un pittore di ta
particolare p. 92. !!4 Lettera di Ragghianti a Longhi, datata Londra 15 aprile 1939: PELLEGRINI, Tra Longhi e Berenson CIPISE !!° Federico Zeri, Ragghianti: le battaglie di un leader. Ge
glia modesta» che forse aveva accesso ai disegni del
nio emarginato, in «La Stampa», 4 agosto 1987, p. 3.
maestro (RoserTo LONGHI, A proposito dell'inizio
1! Lettera di Schlosser a Ragghianti, citata da PEL-
10 dicembre 1941 al direttore della rivista «Le Arti»
1947, p. vi: Venturi datava il dipinto intorno al
LEGRINI, Il carteggio Schlosser-Ragghianti cit., pp. 267, 285/286. Nella stessa epistola Schlosser racco
1478.
mandava anche l’allievo Hans Sedlmayer (1896
8 CARLO Lupovico RAGGHIANTI, Troppo Leo
1984), allora membro del partito nazista in Austria.
nardo (1940), in ID., Miscellanea minore di critica d'arte cit., pp. 157/162, fig. 31, in particolare p. 157.
1” CARLO Lupovico RAGGHIANTI, Prefazione, in Kurz, Fakes cit., p. IT.
18 CarLo
Lupovico
RAGGHIANTI,
1° Ibid., p. 160.
L'affaire»
130 È nota la diffidenza di Roberto Longhi nei con fronti delle analisi tecniche; per la sua stroncatura dei metodi di indagine del Gabinetto di Pinacolo gia e Restauro attivo presso il Museo Nazionale di Napoli, oggetto di un Relazione nel 1937, cfr. MAR
Van Meegeren, in «La Critica d'Arte», VIII, 1950, pp. 411/416, con una penetrante caratterizzazione della cultura del pittore; ID., Ricerche e attribuzioni [recensione a Federico Zeri, Il falsario in calcinaccio, in Quaderni di Emblema, Bergamo 1971], in «La Cri tica d'Arte», 154156, 1977, pp. 231/234; ID., re censione a Mauro Natale, Peintures italiennes du x1v° au XVII siècle, Musée d’art et d’histoire, Genève,
co CARDINALI, MARIA BEATRICE DE RUGGIERI,
CLaupio FaLucci, Diagnostica artistica. Tracce materiali per la storia dell'arte e per la conservazione, Pa lombi, Roma 2002, pp. 3032, 53/54, e in ultimo l’eccellente intervento di GABRIELLA PRISCO, Due mostre e il progetto di un museo sul falso. Una storia tra
1979, in «La Critica d'Arte», 172/174, 1980, pp.
225/227 Gatto» e ifalsi Leonardo da Vinci nella carte del Fondo
Francia e Italia (1930/1955), in «Studiolo. Revue d’histoire de l’art de 1’ A cadémie de France à Rome
Guglielmo Pacchioni, in «Rivista dell’Istituto per la
- Villa Médicis», 2014, II, pp. 64/83, in particolare
19 FERDINANDO
ZANZOTTERA,
La «Madonna del
Storia dell’Arte lombarda», $, 2012, pp. 103112;
p. 67. Scampoli di questa polemica sopravvivono
sono molto grato a Alessandro Rovetta di avermi procurato un esemplare del saggio. ‘20 Sugli ultimi anni del periodico venturiano, GIA-
ancora oggi; a una fase più datata appartengono, tra
gli altri, il saggio di STUART J. FELING (Authenticity in Art: The Scientific Detection ofForgery, The Institu-
COMO AGOSTI, La nascita della storia dell'arte in Italia.
te of Physics, London-Bristol 1976) e l’equilibrato rendiconto di RICHARD APPIGNANESI, in «The Burlington Magazine», 118, 1976, pp. 714/715.
Adolfo Venturi: dal museo all'università 1880/1940, Mar silio, Venezia 1996, p. 249 e passim; e in particolare MARIA IDA CATALANO E SILVIA CECCHINI, L aura
3! RAGGHIANTI, Troppo Leonardo cit., p. 162.
dei materiali: «Le Arti» tra mostre e restauri (1938/1943),
8° Tra i vari echi di stampa, cfr. il testo pubblicato il
in La consistenza dell’effimero. Riviste d'arte tra Ottocento e Novecento, a cura di Nadia Barella e Rosanna Ciof
la «supponibile agonia» de «L'Arte», in «Concorso. Arti e lettere», VI, 2012/2014 [2015], pp. 7/29.
22 ottobre 1990 su «Newsweek». 1 Considerazioni analoghe in MAZZONI, Quadri antichi cit., passim. 154 Cesare Tubino. Ritratto di un artista ritrovato, cata logo della mostra (Chivasso, Palazzo del Lavoro e dell'Economia Luigi Einaudi, 30 gennaio - 7 marzo), a cura di Diega Bionda, L’Artistica, Sa
RI ADOLFO
vigliano 2004; devo a Arabella Cifani e a Vittorio
fi («Monumenta Documenta» 5), Luciano Edito re, Napoli 2013, pp. 331/357; MIRIAM
GIOVANNA
LEONARDI, Adolfo Venturi - Anna Maria Brizio 1938:
VENTURI, La Madonna del Gatto, in
«L'Arte», XLII, 1939, pp. 217/221. Meno ispirato
Natale, che ringrazio, un aiuto importante nel repe
ma sostanzialmente positivo il commento di GIoRGIO NICODEMI, La Madonna del Gatto di Leonardo ri
rimento della documentazione. 1 ROBERTO LONGHI, Restauri («La Critica d’Ar te», XXIV, 1940, pp. 121128), in ID., Critica d'arte
trovata?, in «Raccolta Vinciana», XV-XVI,
1935
1939, pp. 280/284.
e buongoverno cit., pp. 119/127, in particolare P=0027:
22 FERDINANDO SACCHI, Ancora sulla Madonna del Gatto, in «L’ Arte», XLIV, 1941, p. VI. ° Mostra di Leonardo da Vinci. Catalogo, Milano 1939,
SS biden 157 Ibid., p. 123. 4* RogerTo LoNGHI, recensione a M. Bernardi, Ventiquattro opere del Museo Civico d'Arte Antica di Pa
p. 174.
4 ZANZOTTERA, La «Madonna del Gatto» cit., pp.
lazzo Madama a Torino, Istituto bancario San Paolo di Torino, Torino 1954, in «Paragone», sI, 1954,
106/107. 25 Ibid. !:° Leonardo da Vinci, Istituto geografico De Agostini,
pp. 63/64.
!% MARZIANO
Novara 1940, p. 97: il breve commento è siglato da
Sandro Piantanida. 7 ApoLFO VENTURI,
BERNARDI,
Ventiquattro opere del
Museo Civico d'Arte Antica di Palazzo Madama a To rino, Istituto bancario San Paolo di Torino, Tori no 1954, p. 64, tav. 15; Luci MALLÈ, Un cassone pinturicchiesco al Museo Civico di Torino, in «Bollettino
Leonardo e la sua scuola
(1942), Istituto geografico De Agostini, Novara
86
della Società piemontese di Archeologia e di Belle
buongoverno cit., pp. 333/335, in particolare p. 335.
Arti», nuova serie, II, 1948, pp. 20/30.
!° Francesco
4 LIONELLO VENTURI, Alcune opere della collezione
per la critica, in Luca Signorelli, catalogo della mostra
Gualino esposte nella R. Pinacoteca di Torino, Bestetti & Tumminelli, Milano Roma 1928, commento alla
FepERICO MANCINI,
Una tegola
(Perugia, Galleria Nazionale dell'Umbria; Orvie
scheda più recente dedicata al mobile da CRISTINA
to, Museo dell'Opera del Duomo; Città di Castel lo, Pinacoteca Comunale, 21 aprile / 26 agosto), a cura di Fabio De Chirico, Vittoria Garibaldi, Tom Henry, Francesco Federico Mancini, Silvana Edito riale, Cinisello Balsamo 2012, pp. 39/45, 344/345,
DANTI
cat. 106, in particolare p. 40.
tav. 4I. 4! LONGHI, recensione a M. Bernardi cit., p. 64.
1? MAZZONI, Quadri antichi cit., pp. 162167. Nella (Aiuto del Pinturicchio, c.
1505, in Dagli ori
antichi agli anni Venti. Le collezioni di Riccardo Gualino, catalogo della mostra [Torino, Palazzo Madama e
15° Federico Zeri a Roberto Longhi, Roma, 26 ottobre 1953; la lettera di Longhi è datata Firenze, 23 ottobre
Galleria Sabauda, dicembre 1982 - marzo 1983], a cura di Giovanna Castagnoli, Electa, Milano 1982,
1953; le due epistole sono conservate rispettivamente nell’ Archivio della Fondazione Longhi a Firenze e
p.151, cat. 85), la parte lignea è considerata autentica mentre l’autrice riconosce giustamente i tondi dipinti prossimi ai modi del Falsario in Calcinaccio (alias
i miei più vivi ringraziamenti; il carteggio tra i due studiosi è in corso di studio da parte di chi scrive.
Umberto Giunti); cfr. anche MAURO NATALE, Des experts et des ceuvres, in Primitifs italiens, catalogo della
FepEeRICO ZERI ha ricordato l’episodio in Confesso che ho sbagliato. Ricordi autobiografici, Longanesi, Milano
nell’archivio di Eugenio Malgeri a Roma, cui vanno
mostra cit., pp. 17/23, in particolare pp. 19/20.
1995, p. s1.I ritratti sono quelli di Vitellozzo e di Ca
!# Olio su tavola, 57 x 40 cm; Zurigo, H. Koller,
millo Vitelli, entrambi esposti nel 1953 nelle due sedi della Mostra di Luca Signorelli, a Cortona e a Firenze; sui due dipinti è esemplare la scheda di CARL BRANDON STREHLKE E MACHTELT BRUGGEN ISRAÉLS,
18 marzo 2016, lotto 6445 (come Umberto Giunti); già pubblicato da WALTER ANGELELLI E AN DREA G. DE MARCHI, Pittura dal Duecento al primo
Cinquecento nelle fotografie di Girolamo Bombelli, a cura
«Luca Signorelli», Portraits of Vitellozzo and Camillo Vi
di Serena Romano, Electa, Milano 1991, p. 62, cat.
telli, in I., The Bernard and Mary Berenson Collection
102 (come «Anonimo umbro dell’inizio del xv se
cit., pp. 573-581.
colo», ma nella scheda si esprimono dubbi sulla sua
47. FaBIO
autenticità). 44 ROBERTO LONGHI, Dubbi su di una «tegola» (0 su un «mattone») alla mostra del Signorelli («Paragone», 45,
CONTI, PAOLA SANTOPADRE, Le indagini scientifiche
ARAMINI,
Mauro
TORRE,
LUCIA
sulla «tegola» orvietana svolte dall'Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma, in Luca Signorelli,
1953, pp. 56/64), in ID., Critica d'arte e buongoverno CIt., pp. 3257331.
catalogo della mostra cit., pp. 46/47.
15 Mostra di Luca Signorelli, catalogo della mostra
in Federico Zeri, Cosè un falso e altre conversazioni sull'arte, a cura di Marco Bona Castellotti, Longa
(Cortona, maggioragosto;
Firenze, settembre/otto
bre), a cura di Margherita Lenzini Moriondo, E.
8
Marco
Bona
CASTELLOTTI,
Introduzione,
nesi, Milano 2011, p. 7.
Ariani, Firenze 1953.
!° FEDERICO ZERI, Il falsario in calcinaccio (in Qua
4 147 14 19
derni di Emblema I, Emblema, Bergamo 1971, pp. 81-91), in ID., Giorno per giorno nella pittura. Scritti sull'arte dell’Italia del Sei e Settecento, recensioni e altri
LONGHI, Dubbi cit., p. 326. Ibid., p. 328. Ibid., p. 330. ARTURO MARTINI, Mostra di Luca Signorelli, in
«Paragone», 45, 1953, pp. 53/56.
10 L'autoritratto del Signorelli del Museo di Orvieto è un falso?, a cura del Comitato esecutivo della mostra di Luca Signorelli, E. Ariani, Firenze 1953, p. 6.
5! MARIO SALMI, Fuochi d'artificio 0 della pseudo critica, in «Commentari», 5, 1954, pp. 6578; la rivista era stata fondata dallo stesso Salmi nel 1950.
1° Ibid., p. 74. 13 Ibid., p. 76.
‘4 RoBERTO LONGHI, Conclusioni su una tegola («Paragone», $5, 1954, pp. 55757), in ID., Critica d’arte e
saggi, Allemandi, Torino 1998, pp. 211/219. L’i dentificazione del falsario in Umberto deve a Gianni Mazzoni.
Giunti si
190 Ibid., p. 212. 10! Le riflessioni di metodo elaborate da Bloch negli anni 1942/1943 relative ai testi documentari sono state rievocate da CARLO GINZBURG, Ilfilo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, p. 6: per Bloch i testi erano interessanti «non tanto per i loro
riferimenti a dati di fatto, spesso inventati, quanto per la luce che gettano sulla mentalità di chi ha scrit. to quei testi».
IERI
COEOINI
Tav. 1. Rembrandt van Rijn, Uomo dal casco d’oro, Berlino, Staatliche Museen
(espunto dal catalogo dell’artista dal Rembrandt
Research Project).
Tav. 2. Rembrandt van Rijn, Cavaliere polacco, New York, Frick Collection
(espunto dal catalogo dell’artista dal Rembrandt
Research Project).
Tav. 3. Piero della Francesca, Madonna del Parto,
Monterchi (Arezzo), Musei Civici. Tav. 4. La Madonna del Parto di Piero della Francesca nell’allestimento dei Musei Civici di Monterchi (Arezzo).
Tav. s. Nike di Samotracia, Parigi, Musée du Louvre.
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Tav. 6. Paolo Veronese, Le nozze di Cana, Parigi, Musée du Louvre. Tav. 7. Copia da Paolo Veronese, Le nozze di Cana, Venezia, Fondazione Cini, Refettorio San Giorgio Maggiore.
Tav. 8. Christian Boltanski, Personnes,
installazione per Monumenta 2010, Parigi, Grand Palais. Tav. 9. Maurizio Cattelan, L.0.v.E. (Il Dito), Milano, Piazza Affari.
Tav. 10. Cesare Tubino, Madonna del Gatto,
Torino, collezione privata.
£
EEDEELCECLOO
TERELIETRRTESETO
Tav. 11. Umberto Giunti, Madonna con il Bambino, già Zurigo, Koller, 2016.
Tav. 12. Umberto Giunti, decorazione dipinta di un cassone in stile rinascimentale, Torino, Museo Civico d’ Arte Antica. Tav. 13. Pax, particolare del cassone in stile rinascimentale, Torino, Museo Civico d'Arte Antica.
Tav. 14. Cerchia di Desiderio da Settignano, Santa Costanza (la Belle Florentine), c. 1460/1465, Parigi, Musée du Louvre, Département des Sculptures.
Tav. 15. Giovanni Bastianini, Giovanna degli Albizzi, c. 1860, Washington, Mellon Collection.
National Gallery of Art,
Tav. 16. Desiderio da Settignano, Sant'Elena, c. 14601464, Toledo
(OH), Toledo
Museum of Art.
MILZA i
Tav. 17. Da Desiderio da Settignano, Sant'Elena,
secoli xTx-Xx, mercato antiquario.
Tav. 18. Da Desiderio da Settignano, Sant'Elena, secoli x1tx-xx, Stati Uniti, mercato antiquario (2015).
Tav. 19. Gregorio di Lorenzo, Olimpia, regina dei Macedoni, c. 14651470, Parigi, mercato antiquario (2014).
Tav. 20. Nicolas Poussin, L’Estrema Unzione,
Cambridge, The Fitzwilliam Museum. Tav. 21. André de Muynck, L’Estrema Unzione, 1785, Roma, Museo di Roma, inv. MR/45722.
Tav. 22. Falsario di Gravedona presunto Autoritratto di Cola dell A matrice intonaco. >
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Tav. 23. Ritrattini in cera, Parigi, Hòtel Drouot, asta 16 giugno 1999.
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Tav. 24. Umberto Giunti, Madonna del Velo, Londra, The Courtauld Institute of Art.
«Falsi» veri e «falsi» falsi nella scultura italiana del Rinascimento FRANCESCO
CAGLIOTI
ll’interno delle arti figurative maggiori, la scultura italiana del Rinasci mento, in particolare quella prima di Michelangelo, occupa una posizione quanto mai interessante e delicata rispetto al problema dei falsi. La grande e inin terrotta fortuna collezionistica e museale che le sculture del Quattrocento hanno conosciuto sin dagli anni cinquanta-sessanta dell’Ottocento ha sollecitato assai presto l'iniziativa degli imitatori: e nel loro affaticarsi è sempre stato arduo - forse più che per la pittura - sceverare la mera disposizione di gusto da quel dolo mer cantile che giustifica, meglio di ogni altra attitudine, la taccia di «falsità»!. Ma, prim’ancora di tentare un processo alle intenzioni, è molto più difficile (general mente e mediamente parlando) distinguere una scultura ottocentesca «in stile» da una scultura rinascimentale, a paragone con i casi paralleli della pittura: e sono convinto che, se tutti noi partecipanti a queste giornate dovessimo cimentarci nel separare nettamente tra il Quattro e l’Ottocento alcune decine di dipinti erratici, e poi altrettante sculture, ci scopriremmo sempre d'accordo sui dipinti, mentre sulle sculture - sia davanti alle foto che davanti agli originali - rimarremmo con non pochi dispareri. Anche e soprattutto nel campo dei falsi, insomma, si misurano quelle superiori insidie di connoisseurship che la scultura rivela sempre e comunque in rapporto alla pittura. In mezzo a tali difticoltà di scale diverse c’è, pure, il fatto che ormai siamo in grado di ricostruire i profili di parecchi pittori falsari italiani degli ultimi centosettant’anni all’incirca?, mentre per i falsi scultorei continuiamo da decenni e decenni ad ag grapparci quasi soltanto a due nomi sicuri, quelli arcinoti di Giovanni Bastianini e Alceo Dossena). Il primo, fiesolano, morto nel 1868 a trentott’anni, s’inserì perfet.
tamente nel vivace mercato artistico internazionale di Firenze capitale d’Italia (fig. 1)°. Il secondo, cremonese sceso a Roma, dove morì cinquantanovenne nel 1937,
consumò tutta la sua esperienza di falsario nella prima metà del ventennio fascista (fig. 3). A_ questi due personaggi ben distanti nel tempo, e assurti quasi a simboli ciascuno del proprio secolo, sono state finora assegnate, prevedibilmente, assai più
opere di quante possano mai averne eseguite (giusto come si fa ancora spesso - per la scultura - con i maestri celebri dei secoli precedenti): e il fatto che soprattutto l’ormai lontano Bastianini sia stato oggetto, specialmente da parte non italiana, di continue attribuzioni di opere nelle tecniche e nelle maniere più varie, e cronologicamente di
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sparate”, sembra quasi voler smentire la serena fiducia dei buoni conoscitori, secondo
i quali il falsario finisce prima o poi per esser tradito dallo stile intimo del suo tempo”. Per quanto sta a me, ritengo che esista in tutto Bastianini, così come poi in Dossena, uno stile peculiare non solo dell’epoca, ma anche dell’individuo, che consente di mettere a fuoco, per ciascun autore, non solo le potenzialità tanto spesso esaltate, ma anche i limiti (figg. 1/2, 3/4): qui, però, non possiamo indugiare sui loro casi*. E nel
seguito della mia presentazione vedremo perlopiù opere di mani ignote. Da questo punto sino alla fine distinguerò il discorso in due parti. Nella prima selezionerò una serie di sculture sicuramente neorinascimentali, diciamo pure «fal se», allo scopo di familiarizzarci con una casistica rappresentativa dei vari tipi di
contraffazione. Nella seconda presenterò delle sculture che gli studi, soprattutto anglosassoni, ritengono sub iudice, o addirittura già chiarite nel senso della falsità,
mentre secondo me sono pacificamente riscattabili a favore di un’autenticità piena. Mi auguro che questa seconda parte, non meno della prima, possa fornire utili spunti di metodo. Il problema principale del vero falsario è, in scultura più ancora che in pittura, la povertà d’invenzione, che nega a ogni sua opera un disegno d’insieme coerente e persuasivo. Ciò spiega perché la stragrande maggioranza dei falsi scultorei non sia altro che una massa infinita di copie a loro modo letterali di prototipi famosi, op pure - e ancora meglio - appena riscoperti, così da poter più facilmente ingannare il pubblico nello sceverare l'originale dalle sue derivazioni. Il conoscitore assiduo s'imbatte quasi ogni giorno in prodotti del genere, per cui i due esempi che illu stro, e che si riferiscono a Desiderio da Settignano, sono presi davvero a casaccio:
il primo coinvolge la Madonna della Galleria Sabauda di Torino (figg. 5-6), il secondo uno dei busti infantili alla National Gallery of Art di Washington (figg. 7/8); entrambe le loro repliche sono sul mercato antiquario, e hanno ciascuna non
pochi altri sosia disseminati qua e là. Naturalmente possono esserci anche copie più antiche dell’Ottocento, alcune delle quali così capaci, da far sorgere il dubbio che si tratti di versioni uscite dalla bot tega del primo maestro: in tali circostanze è facile immaginare con quanto zelo il proprietario odierno, se è un privato, pretenda di possedere lui l’originale, magari rispetto a un museo famoso. Un esempio già ben noto alla bibliografia è quello del meraviglioso San Girolamo in penitenza di Desiderio alla National Gallery of Art di Washington (fig. 9), acquisito a Firenze prima del 1887 da un buon conoscitore dell’epoca, il barone Karl Eduard von Liphart, e apparso più volte nelle mostre
internazionali degli ultimi anni. Una sua seconda versione convincente, pur senza essere al livello del marmo Liphart, è da quasi mezzo secolo presso Michael Hall a New York (fig. 10), e Rudolf Wittkower, che ebbe la possibilità di confrontare
106
Fig. 2. Giovanni Bastianini, Franz Olivier von Jenisone Walworth, c. 1866, Londra,
Victoria and Albert Museum. Fig. 3. Alceo Dossena, Angelo reggicero, c. 1920/1922, Boston, Museum ofFine Arts. Fig. 1. Giovanni Bastianini, Girolamo Benivieni, 1863, Parigi, Musée du Louvre, Département des Sculptures.
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Fig. 4. Alceo Dossena, Madonna col Bambino, 1934, Firenze, mercato antiquario (1985).
Fig. 5. Desiderio da Settignano,
Madonna col Bambino, c. 1450/1455, Torino, Galleria Sabauda. Fig. 6. Da Desiderio da Settignano, Madonna col Bambino, secoli x1x-xx, Parigi, mercato antiquario (2010).
8.
Fig. 7. Desiderio da Settignano, Bambino, c. 1455/1460, Washington, National Gallery of Art, Mellon Collection.
Fig. 8. Da Desiderio da Settignano, Bambino, secoli xIX-Xx, mercato antiquario (2013).
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Fig. 9. Desiderio da Settignano, San Girolamo nel deserto, c. 1460, Washington, National Gallery of Art, Widener Collection.
Fig. 10. Da Desiderio da Settignano, San Girolamo nel deserto, secolo xv (?), New York, collezione Michael Hall.
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direttamente i due pezzi, li apprezzava entrambi, sia pure in gradi diversi’. Nell’au tunno 2013, trovandosi l'esemplare Liphart al Louvre per la mostra sul primo Ri nascimento fiorentino, Hall ne ha approfittato per organizzare una contro-mostra
del suo marmo, in un’altra sede di Parigi!°: purtroppo ho perso l’occasione di tale verifica, anche se la somiglianza tra i due rilievi è tale da farmi temere che solo osser vandoli fianco a fianco, sulla stessa parete, potrei sperare in un chiarimento (ferma
restando fin d’ora l’indiscutibilità del marmo di Washington)!!. Non appena il copista moderno, pur non sapendo rinunciare al modello antico, decide che quest’ultimo non lo soddisfa appieno, e si mette a variarlo anche di poco, sorgono per il conoscitore le speranze di svelare l'inganno. Prendo a esempio questa Madonna della National Gallery of Art di Washington (Kress Collection, fig. 11),
opera condotta nello stile di quel bizzarro allievo di Desiderio che identifichiamo ormai concordemente, da una dozzina d’anni, con il fiorentino Gregorio di Loren zo, e che fu enucleato per la prima volta alla fine dell'Ottocento da Wilhelm Bode
come un anonimo «Meister der Marmormadonnen»". Prima di Bode i numerosi rilievi mariani dell’artista erano confusi soprattutto nel catalogo di Mino da Fiesole, che, lo ricordo, è stato insieme a Donatello il nome di gran lunga più commerciale lungo tutto il secolo x1x per il Rinascimento scultoreo toscano. Benché assai ripe titivo nella sua vasta produzione, Gregorio, per quanto ne sappiamo, non ha mai
realizzato vere e proprie repliche autografe: sorprende dunque scoprire che la Madon na di Washington ha una sua piena controfigura in una del Metropolitan Museum of Art a New York (fig. 12). Il raffronto mostra altrettanto velocemente dove sta il problema, perché chi ha familiarità con Gregorio riconosce, alle spalle della Madon na newyorkese, le sue tipiche candelabre e gli spiritelli smorfiosi in volo su un fondo neutro, mentre il falsario di Washington ha preferito sostituire in blocco questa parte prendendo da Desiderio il cielo ingombro di cirri e di serafini più aggraziati, in pro. fondo contrasto di stile con il resto. Il falsario, inoltre, è rimasto colpito dal nimbo crociato dietro la testa del Bambino di New York, tanto caro a Gregorio. Poiché, però, costui usa sempre una croce patente, che sembra trasformare l’aureola in una
corolla di petali, il suo imitatore ha frainteso in pieno tale attributo, e dunque l’ha imposto anche alla Vergine, del tutto indebitamente!. Forse non sapremo mai se chi ha combinato insieme una Madonna di Gregorio e uno stiacciato di Desiderio l’ha fatto per puro estro disinteressato, oppure in base a un calcolo furbesco, creden do di riunire nella stessa opera lo stile di un unico maestro (verosimilmente Mino). A_ noi importa soprattutto lo svelamento del pastiche. I due tipi più diffusi di varianti introdotte dai copisti rispetto ai loro modelli,
nell’augurio di ottenere opere del tutto nuove senza troppo sforzo inventivo, con templano da una parte il cambio di formato e dall’altra il cambio di materiale. Ovviamente le due soluzioni possono convivere nello stesso manufatto.
Fig. 11. Da Gregorio di Lorenzo, Madonna col Bambino, secolo XIX, Washington, National Gallery of Art, Kress Collection.
Fig. 12. Gregorio di Lorenzo,
Madonna col Bambino, c. 1465, New York, Metropolitan Museum ofArt,
Havemeyer Collection.
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Per il cambio di formato, che avviene sia diminuendo le proporzioni (più di rado accrescendole), sia soprattutto estraendo dall’insieme una parte sola, mostro a
esempio questo ovale marmoreo con il mezzo busto di una Carità, adagiata in un fondo concavo quasi come la testa mozzata del Battista in una Johannesschiissel (fig. 13). Il proprietario, ancora una volta Michael Hall, crede l’opera di Mino, e a suo modo giustamente, perché lo stile vuol essere quello del maestro casentinese. Ma la derivazione revivalistica dalla parte superiore della Carità nel sepolcro del marchese Ugo di Toscana alla Badia Fiorentina è così sfacciata da non doversi dimostrare più precisamente (fig. 14). Al confronto tra i due pezzi, sembra quasi che la figura originale voglia ammirarsi in uno specchio!*. Un diverso adattamento di formato è stato tentato da un copista della cosiddetta Madonna del Perdono, ope ra tarda di Donatello, e dall’invenzione prospettica arditissima, poiché il gruppo madre/figlio non solo è inserito entro un oculo fortemente scorciato di sottinsù, ma quest’oculo s'immaginava sospeso in aria, in mode precario e basculante, da due angeli in volo sopra l’arco di una cappella nel Duomo di Siena (fig. 15)!°. Nel ridurre l’oculo a una semplice lunetta verticale, il copista moderno (non un «falsario» in senso stretto), autore di questo secondo marmo già nell’oratorio di Santa Maria della Neve alle Murate di Firenze e oggi nella Direzione del carcere di Sollicciano (fig. 16), non se l’è sentita di manomettere la parte superiore: qui, dunque, una porzione dell’oculo sopravvive senza senso, e l’aureola della Vergine si piega in modo non meno ingiustificato, se la si considera dal punto di vista non alto per cui è stata fatta la lunetta!°. Altrettanto se non più frequenti sono i cambi di materiale dall’originale alla copia: scelta, questa, che dà effettivamente alle derivazioni una loro vita nuova e autonoma.
Guardiamo, per esempio, il busto marmoreo del vescovo Leonardo Salutati, opera di Mino nel Duomo di Fiesole, trasformato in tale ingombrante cimelio di proprietà privata (figg. 1718)”. Nessun metallurgo di buon mestiere e buon senso avrebbe mai provato, in tutto il Rinascimento, a caricare il bronzo di tanta pretensione
di dettagli nella resa dell’abito, ottenendo questo gran chiasso di segnali luminosi. D'altronde, l’opera ha subìto qui anche un cambio di formato, poiché, per tagliare
il busto in maniera più ampia, cinquesseicentesca, e inserirlo su un plinto, il copista ha dovuto allungare di testa sua il piviale, inventandosi a sinistra e a destra dei motivi di broccato completamente inverosimili. Una simile passione per la caotica resa metallica di quegli effetti di stoffa pensati all'origine solo e unicamente per il marmo si ritrova in una contraffazione moderna del Piero Mellini di Benedetto da Maiano al Bargello (fig. 19). Il bronzo (a me noto attraverso delle brutte foto negli archivi del Louvre: figg. 2021) sviluppa la sagoma inferiore del busto originale con una larghezza goffamente emula di un Alessandro Vittoria, e pone sulla testa del malca. pitato personaggio, trasformandolo in una sorta d’improbabile dignitario orientale,
Fig. 13. Da Mino da Fiesole, Carità, secoli x1x-xx, New York, collezione Michael Hall. Fig. 14. Mino da Fiesole, Carità, nella tomba
del marchese Ugo di Toscana, 1469/1481, Firenze, chiesa di Badia.
Fig. 15. Donatello, Madonna col Bambino (detta Madonna del Perdono), c. 1458, Siena,
Museo dell'Opera della Metropolitana (dal Duomo). Fig. 16. Da Donatello, Madonna col Bambino, 1942 0 poco prima, già Firenze, oratorio
di Santa Maria della Neve alle Murate (ora Firenze, carcere di Sollicciano, Direzione).
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Fig. 17. Mino da Fiesole, Leonardo Salutati,
tra il 1464 e il 1466, Fiesole, Duomo, Cappella Salutati. Fig. 18. Da Mino da Fiesole, Leonardo Salutati, secoli x1x-xx, Wiesbaden, collezione Leyendecker (1958).
114
Fig. 19. Benedetto da Maiano, Piero Mellini, 1474, Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
Figg. 20/21. Da Benedetto da Maiano, Piero Mellini, mercato antiquario.
115
una berretta cilindrica fiorata al pari della veste, con due infule pendenti sulla nuca!8. Pur non cimentandosi nelle ambizioni del damasco, è non meno velleitario lo sforzo
di far rivivere nel bronzo il busto della cosiddetta Eleonora d'Aragona di Francesco Laurana, noto nella versione di Palazzo Abatellis a Palermo (fig. 22), ma anche in quelle del Louvre e del Musée Jacquemart/André a Parigi (un triplice caso, questo, più problematico dei due Santi Girolami LiphartHall). Sulla schiena della princi. pessa in una versione metallica del mercato antiquario tedesco (fig. 23) c'è la scritta «Mino da Fiesole», sconclusionatissima ai nostri occhi (fig. 24), non solo per la sua
assurda pretesa autoriale, ma anche per il modo in cui è, lavorata, e per la forma antistorica del nome dell’artista (il quale ha scritto sulle sue opere sempre e soltanto «OPVS MINI» 0 «NIN», fig. 17, ed è menzionato scorrettamente come «da Fiesole» non prima delle pagine cinquecentesche di Vasari). Eppure non si può escludere che nelle intenzioni del falsario l’epigrafe dovesse essere proprio una firma: ricordo infatti che l’individuazione di Laurana come autore di tale genere assai particolare di ritratti femminili spetta solo al più tardo Ottocento, per scorporo faticoso e graduale soprattutto dai cataloghi di Desiderio e di Mino. Sempre restando sul tema delle traduzioni metalliche fedeli, caricate di firme o di sigle autoriali apocrife, segnalo qui una copia del San Giovannino di Desiderio al Bargello (figg. 25/26), presentata con grande enfasi monografica in Spagna nel 2003 come capolavoro di Donatello firmato «D.°»!. Che questa abbreviazione stia per «Donatello» può ben essere, ma solo perché l'originale in pietra serena, che ha figliato decine di repliche, è stato tanto fortunato anche e soprattutto in virtù dell’impropria attribuzione toccatagli in sor te dal tardo Settecento in poi (fino a essere riprodotto nel 1845/1848 da Girolamo
Torrini, maestro di Bastianini, ai piedi del principe degli scultori nella statua a lui dedicata tra iToscani illustri lungo il Loggiato degli Uffizi)”. Nel replicare in un’altra materia un originale, naturalmente si può tentare anche il cammino inverso, dal bronzo alla pietra e al marmo. E accenno, come esempio,
alla fortuna della struggente Pietà di Donatello nell’altare maggiore del Santo a Padova (fig. 27), tradotta in questo esemplare in pietra sul mercato antiquario (fig. 29)”, oppure in questo altarolo marmoreo del Museo Lia alla Spezia (di dimensioni ridotte rispetto all’originale), ospitato da Gianni Mazzoni entro la mo stra senese dei falsi nel 2004 con un cambio di attribuzione da Dossena a Fulvio
Corsini (fig. 28)?°. Per mancanza di spazio, lascio agli occhi del lettore di valutare gli effetti di queste due falsificazioni, non senza ricordare un dato che vale ovvia
mente anche per diversi pezzi già visti (e da vedere oltre), cioè che simili esercizi di stile erano facilitati dai numerosi calchi in gesso disponibili con abbondanza nelle accademie, nei musei e nel commercio sin dal terzo quarto dell'Ottocento”). Sempre sostituendo il bronzo al marmo sono stati prodotti, e in gran tiratura,
questi oculi con protomi di personaggi del Vecchio Testamento, che vengono
116
Fig. 22. Francesco Laurana, Ritratto di gentildonna (presunta Eleonora d'Aragona Peralta), c. 1468/1470, Palermo, Galleria Regionale
della Sicilia (Palazzo A batellis). Figg. 23/24. Da Francesco Laurana, Ritratto di gentildonna, secolo xx, Germania, mercato
antiquario (2012).
1Ele7
26.
Fig. 25. Desiderio da Settignano, San Giovannino,
c. 1450/1455, Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Fig. 26. Da Desiderio da Settignano, San Giovannino,
secoli x1x-xx, Spagna, mercato antiquario (2003).
118
Fig. 27. Donatello, Pietà, 1449, Padova, Basilica del Santo, altare maggiore. Fig. 28. Fulvio Corsini (?), da Donatello, Pietà, c. 1920, La Spezia, Museo Civico A medeo Lia.
Fig. 29. Da Donatello, Pietà, secoli xIX-XX, mercato antiquario (2013).
119
Fig. 30. Lorenzo Ghiberti, Testa di profeta,
nella Porta del Paradiso, 1425/1452, Firenze,
Museo dell’Opera del Duomo (dal Battistero). Fig. 31. Da Lorenzo Ghiberti, Testa diprofeta, secoli x1X-xx, Roma, Fondazione Dino ed Ernesta Santarelli.
Fig. 32. Da Lorenzo Ghiberti, Teste di profeti,
Parigi, mercato antiquario (2009).
120
Fig. 33. Da Andrea della Robbia, Madonna col Bambino, secoli xtx-xx,
Italia, mercato antiquario (2012). Fig. 34. Andrea della Robbia, Madonna col Bambino, c. 1485, Praga, N4rodnî Galerie.
121
direttamente dalla Porta del Paradiso di Ghiberti, per copia fedele - ma ingrandita quasi al doppio - di alcuni dei ventiquattro tondi lungo le cornici dei due battenti (figg. 30, 32): la foto d’insieme che riproduco l’ho scattata una mezza dozzina d’anni fa a Parigi, in una bottega antiquaria della quale non mi sono appuntato il nome. Nel zoro due esemplari di questa vasta progenie - prelevati da una raccolta privata italiana - sono stati esposti come autografi di Andrea Bregno (senza com prenderne minimamente la fonte) alla mostra vergognosa sulla scultura romana del primo Rinascimento, organizzata a Palazzo Venezia da Claudio Strinati, e piena di attribuzioni del tutto indipendenti dalle opere (fig. 31). Il gioco dei cambi di materiali potrebbe durare all’infinito, ma lo chiudo su un marmo generatosi da una terracotta invetriata. Nel 2012 la Soprintendenza di Fi renze mi ha chiesto un parere su questo tondo mariano che passava alle Espor tazioni come cosa anonima del Rinascimento (fig. 33), mentre si tratta di una copia letterale da un’invenzione originale di Andrea della Robbia, nota attraverso
molti esemplari invetriati, che sono andati soggetti a una discreta variantistica di soluzioni nel rapporto tra il gruppo divino, il circolo di teste angeliche tutt'intorno
e la ghirlanda esterna di foglie e frutta (fig. 34)?°. Ciò che crea qui un’opera completamente nuova è la rarità, per non dire l’unicità, di un simile clipeo di serafini, foglie e frutti nel marmo”. Ma cosa succede quando 1 falsari della scultura rinascimentale pretendono di vara. re un'invenzione del tutto inedita, da spacciare come originale? Le esperienze del passato, e quelle che anche a me capita di fare, ci dicono che essi ricorrono molto
spesso alla pittura antica, come serbatoio inesauribile d’ispirazione”. La celebre Annunciazione di Alceo Dossena, venduta nel 1924 alla non meno celebre Miss
Frick e da lei donata poi all’Università di Pittsburgh in Pennsylvania (figg. 35 36), ci rammenta che questo vale ovviamente anche per le contraffazioni di altre epoche «alte». In tale caso, infatti, abbiamo davanti a noi la pala di Simone Mar tini oggi agli Uffizi, tradotta in due statue in marmo - con tanto di saluto angelico nelle epigrafe alle basi che sono eccezionali da ogni punto di vista: non solo, infatti, nella Toscana trecentesca simili coppie di figure si facevano preferibilmente di legno dipinto, ma è anche spiazzante ritrovarsele una genuflessa e una seduta,
anziché entrambe in piedi. Vari anni fa un collega dalla Germania e un antiquario di Firenze mi hanno sottoposto, a non piccolo intervallo l’uno dall’altro, due rilievi marmorei di Ma
donna col Bambino, il primo provvisto di fondo neutro solidale, l’altro con il gruppo scontornato (figg. 37/38). Forse la memoria a distanza non mi avrebbe aiutato facilmente a individuare la stessa mano in queste due opere, se prim’ancora, scon-
certato ogni volta dall’invenzione delle figure, non avessi riconosciuto alle loro spalle la Grande Madonna Cowper di Raffaello a Washington (fig. 39). Ecco, dun
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que, un modesto falsario che pretende di scolpire il marmo come nella Firenze del
1460/1470 circa, ma slanciandosi con troppa fretta verso un modello del 1508. Una volta fatta la tara di questa intrusione, i due rilievi finiscono per dichiararsi
del medesimo anonimo tardovottocentesco individuato da John Pope-Hennessy nel 1974 sulla base di altre tre Madonne, nelle quali, sebbene non sussista troppo dislivello tra invenzione ed esecuzione, o forse proprio perciò, gli esiti risultano
ancora più bassi”. Due ulteriori Madonne di questo corpus, una senza casa e l’altra oggi all’Ermitage di San Pietroburgo, dovrebbero recare incise rispettivamente le date 1443 e 1454, rivelandoci a quale precocità cronologica ambisse il loro meschi/
no creatore”. Qui riproduco un’altra Madonna della serie, circolante sul mercato antiquario nel 2012 (fig. 40)°!; mentre per un’altra Madonna ancora, ispirata a un frammento lapideo dello stretto giro di Desiderio oggi nel Musée des Beaux-Arts di Lione che ha fomentato non pochi esercizi d’integrazione e contraffazione già con Bastianini, rimando a una fotografia nel catalogo della collezione di Paolo Paolini venduta a New York nel 1924”.
Va da sé che gli spunti pittorici si possono desumere da più fonti, e magari combinare con fonti scultoree. Consideriamo questa Madonna ottocentesca in rilievo, doppiamente falsa (figg. 41/42), perché falsa è la confezione di un suo primo esemplare, e fuorviante è la diffusione di varie repliche nei formati e materiali più diversi, come se si trattasse di un prototipo di Donatello o di Antonio Rossellino
che abbia goduto ai suoi giorni di una larga fortuna devozionale*. L’esemplare più impegnativo a me noto è un marmo approdato in Sant'Agata a Cremona (fig. 44), circostanza che potrebbe far pensare a una primizia di Dossena per la sua città natale se il dono del rilievo a quel santuario non fosse del 1885, quando Alceo aveva solo sette anni”. Una versione in terracotta di mano assai diversa al Victoria and Albert Museum di Londra vi entrò fin dal
1893 come di Bastianini, col quale
in effetti ha delle tangenze assai forti, al pari del gesso di collocazione ignota che riproduco alla fig. 42 (l’empito della Vergine, ben assecondato dal panneggio, ricorda quello dell’ Anima della defunta nella tomba di Costanza Hall in San Mar tino a Maiano, del 1859; fig. 43)”. E lo scultore di Camerata è dichiarato come
primus inventor del tipo anche in altre circostanze degli stessi anni. Dovremmo dunque concludere che l'esemplare di Cremona, per nulla bastianiniano, non è il primo della serie, avviata invece dallo scultore fiesolano””: un punto, questo, su cui
tuttavia sembra prematuro dare oggi una risposta definitiva, perché la Kopienkritik di tali Madonne potrebbe subire uno scossone all’apparire di un nuovo esemplare del tutto diverso. Qui, comunque, mi preme mostrare che il testimone cremonese è quello che fra tutti, grazie alla traduzione nel marmo, e grazie addirittura alla distanza dal possibile prototipo e dalla sua maggior coerenza tra invenzione ed esecuzione, scopre al meglio le fonti del falsario. I due serafini nel fondo e l’insolita
123
Figg. 35/36. Alceo Dossena, Annunciazione,
c. 1920/1922, Pittsburgh (PA), University of Pittsburgh. Fig. 37. Falsario di fine Ottocento,
Madonna col Bambino, mercato antiquario (2004). Fig. 38. Falsario di fine Ottocento, Madonna col Bambino, Italia, mercato antiquario
(2007). Fig. 39. Raffaello, Madonna col Bambino (Grande Madonna Cowper), 1508, Washington,
National Gallery of Art. Fig. 40. Falsario di fine Ottocento, Madonna col Bambino, mercato antiquario (2012).
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Fig. 41. Da Giovanni Bastianini, Madonna col Bambino e san Giovannino, c. 1858 0 poco dopo, Milano, collezione privata (1932/1933).
Fig. 42. Da Giovanni Bastianini, Madonna col Bambino e san Giovannino, c. 1858 0 poco dopo, ubicazione sconosciuta.
Fig. 43. Giovanni Bastianini, modello per la tomba di Costanza Hall in San Martino a Maiano Fiesole, 1859, Firenze, Galleria d’ Arte Moderna.
Fi 3.
126
È)
Fig. 44. Da Giovanni Bastianini, Madonna col Bambino e san Giovannino, c. 1860/1870, Cremona, Sant'Agata.
Fig. 45. Benedetto da Maiano, Madonna col Bambino e san Giovannino, c. 1480, New York, Sotheby's, asta 29 gennaio 2015.
Fig. 46. Benedetto da Maiano, Madonna col Bambino e san Giovannino, c. 1480, già Firenze, Elia Volpi
(stato prima del 1917).
127
Fig. 47. Falsario del secolo x1x, Andrea del Verrocchio, già Firenze, collezione conte Paolo Galletti.
Fig. 48. Raffaello, Ritratto virile, c. 1504, Firenze, Galleria
degli Uffizi. Fig. 49. Da Mino da Fiesole, Rinaldo della Luna, secoli x1x-xx, Berlino, Staatliche Museen, Bode Museum.
128
mensola con una testa di cherubino fanno correre la memoria a una fortunatissima Madonna di Benedetto da Maiano, di cui sono note al momento solo versioni in
terracotta (anche invetriata) o in stucco (fig. 45). Il modello originario era sicura mente rettangolare, ma è utile sapere che se ne cavarono anche derivazioni centina/
te (fig. 46)”. Il gruppo divino maianesco è già accompagnato, come a Cremona, dal san Giovannino che guarda in alto. L'atteggiamento pensoso del fanciullo appoggiato al davanzale rivela però che il falsario ha trasformato completamente quest’invenzione esemplandola sulla Madonna Sistina di Raffaello”. Non meno pittorica, e non meno tarda rispetto al Quattrocento, mi pare la soluzione della
Vergine che adora a mani giunte, e soprattutto elevate, il Bambino adagiato su un cuscino. E qui, senza la pretesa di indicare la fonte precisa, invoco 1’Adorazione
dei pastori di Bronzino a Budapest, per alludere all’ambito in cui l’idea figurativa può aver avuto, letteralmente, la sua incubazione; 0, comunque, alla cronologia
culturale prima della quale non è lecito risalire. D'altro canto, trovandoci noi in pieno Ottocento, come rinunciare alla tentazione di chiamare in causa anche la
Vierge à l'hostie di Ingres? Passando dalle immagini sacre al genere dei ritratti, verso cui - come ci ricorda l'avventura di Bastianini - il falsario di sculture del Rinascimento poteva essere particolarmente tentato, ecco quest’eftigie in busto del Verrocchio, già nella colle zione del conte Paolo Galletti a Firenze (fig. 47)'". L’impudente derivazione dal famoso dipinto degli Uffizi (un Raffaello giovanile anche secondo me, fig. 48)? potrebbe farci annettere quest'opera, senz'altro, al filone delle sculture ricavate dal. le pitture. Se la pongo invece tra i falsi di origine mista, è per quell’epigrafe che si srotola alla base con il nome del presunto eftigiato. Essa, infatti, pur essendo diffusa nella scultura ottocentesca «in stile», sia genuina che spuria*, ha avuto,
per quanto ne so, un’unica fonte, cioè il busto di Rinaldo della Luna al Bargello, opera autografa di Mino, che era ben visibile agli Uftizi fin dal 1836, e che non
a caso ha mietuto in quel tempo una pletora di copie fedeli e di derivazioni libere (fig. 49)'*. Ciò che gli scultori di allora non potevano sospettare era che lo zoccolo epigrafico di Mino è rientrante per poter essere incassato in una base di legno poi perduta, nascondendo dunque la scritta allo spettatore'’, così come sono nascoste quasi tutte le altre scritte dei ritratti mineschi, vergate negli scavi interni e inferiori dei vari pezzi. Poiché le pagine a mia disposizione hanno pur dei limiti, passo ora all’ultima parte di questo intervento, dedicata a quelli che nel titolo ho definito «“falsi” falsi». Nella moderna vicenda collezionistica delle sculture italiane del Rinascimento ci sono stati in Europa due scandali particolarmente grossi intorno all’acquisto di opere prese dapprincipio per vere e denunciate molto presto per il contrario. Il pri.
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mo coinvolse a partire dal 1867/1868 il Louvre del Secondo Impero e il suo diret. tore conte di Nieuwerkerke, per il Girolamo Benivieni di Bastianini (1863; fiosm) Il secondo, quarant'anni dopo, intaccò ancora più clamorosamente l’enorme e
meritata notorietà di Wilhelm Bode, direttore generale dei Musei Imperiali di Ber lino, per una mezza figura in cera di una Flora, comprata come autografa di Leo nardo (fig. 58). Poco dopo l’acquisto, compiuto in Inghilterra nel 1909, si fecero
avanti il vecchio figlio di uno scultore vittoriano dimenticato, Richard Cockle Lucas, e un suo compagno di gioventù, per dichiarare che l’opera era stata confe. zionata da quell’artista nel 1846 circa, copiando un dipinto di scuola leonardesca finito nel frattempo a Basildon Park (Berkshire), e oggi esposto invece a Sudeley Castle (Gloucestershire; fig. 59). La polemica divampò furiosa, soprattutto fra la
Germania e l'Inghilterra, e, a ripercorrerla oggi attraverso i giornali dell’epoca, ci appare quasi come una preparazione, sul fronte dei musei e degli storici dell’arte, allo scoppio della prima guerra mondiale. Moltissimo si scrisse allora sulla Flora anche da parte accademica, e non poco è stato scritto pure di recente, senza però di
rimere mai la questione, su cui spero di tornare velocemente alla fine”. Nel frattem po, però, la Flora ha inoculato tra gli addetti ai lavori, e soprattutto tra i funzionari
dei maggiori musei stranieri, una paura del falso che perdura quasi intatta dopo più di un secolo. A_ completare il contagio, estendendolo dall’Europa agli Stati Uniti, ci si mise, fra le due grandi guerre, il caso Dossena (figg. 3, 35/36).
Come conseguenza diretta di tali incidenti si è assistito e tuttora si assiste nella bi bliografia di settore a una generale, lenta retromarcia, che ha messo e mette in di scussione non pochi pezzi a lungo suftragati nei decenni precedenti. Sintomatico, ma anche estremo, è il caso di Adolfo Venturi, il quale fin dal 1908 sfrattò dalla sua Storia dell'arte Hoepli tutti i busti più celebrati di Mino da Fiesole, perfino quelli
di Piero e Giovanni de’ Medici al Bargello, benché già allora i due ultimi potes sero vantare una lunga e robusta documentazione testuale e figurativa, in seguito raftorzatasi ulteriormente”. Ma, a parte episodi così eccessivi, in genere la scure del dubbio si è abbattuta su oggetti di trasmissione strettamente domestica, e dunque privi perlopiù di qualsiasi documentazione, e inoltre mobili, cioè esportabili, quasi
da dare l'impressione di esser nati appositamente per il mercato internazionale. In un saggio sulle contraffazioni scultoree nello stile del Rinascimento pubblicato da John Pope-Hennessy nel 1974, che negli ultimi quarant'anni è stato il breviario dei cacciatori anglosassoni di falsi, sono riprodotte come non autentiche trentotto opere, di cui poche individuate per tali già prima di allora, e le restanti proposte dall'autore”. Di esse, alcune sono state parzialmente o pienamente riabilitate nel frattempo”, e altre, a mio avviso, attendono ancora di esserlo, per un totale di una
dozzina, cioè quasi un terzo”. Questo numero salirebbe ulteriormente se tenessimo conto dei pezzi che l’autore menziona ma non riproduce.
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Un meccanismo mentale che fa scattare di frequente il sospetto del falso, e al quale tuttavia non si bada a sufficienza, si ha quando l’attribuzione moderna con cui
un’opera sconosciuta torna alla luce è troppo generosa. La reazione subito diffusa è di contrastare la paternità importante con un’accusa diametralmente opposta. È accaduto per esempio a due busti maschili in marmo, della National Gallery of Art di Washington e del Musée Jacquemart André, dapprima attribuiti in modo spropositato a Benedetto da Maiano, e poi trasferiti pari pari su Bastianini. Vi ho
scritto sopra di recente, quando mi son reso conto che si tratta di opere assoluta, mente genuine, ma semplicemente ordinarie, da restituire al solito Gregorio di Lorenzo. Tale maestro, che Bode credeva un mero specialista di rilievi mariani, si è rivelato nel frattempo un versatile autore di marmi nei generi più diversi, destinati
in maggioranza (e questa rimane una delle sue caratteristiche limitanti) all’arredo privato. Messomi a ricostruire le biografie dei due eftigiati a partire dalle iscrizioni sui marmi, che li nominano rispettivamente come Piero Talani e Lorenzo di mes ser Tommaso Soderini, ho potuto combinarle ad unguem con la carriera di Grego rio, rintracciando infine ilbusto del Talani, prete, in un inventario cinquecentesco della prioria di San Paolino a Firenze, di cui Talani era affittuario”.
Vittima relativamente giovane non solo di una vecchia e illustre attribuzione a Desiderio, ma anche di più antiche e pretenziose identificazioni del soggetto in qualche vagheggiata principessa del Rinascimento (Isotta degli Atti, Cecilia Gonzaga), è stato un ben noto busto ligneo femminile al Louvre, così apprezzato sin dal tardo Ottocento da acquistarsi pure il soprannome di Belle Florentine (tav. 14). Tale fortuna ha finito col punire l’opera per più strade, poiché l’ha circonda ta a poco a poco di una serie nutrita di copie e imitazioni, capaci di soffocare nel mucchio l’autenticità del pezzo d’origine’*: un fenomeno, questo, comune a molte altre sculture genuine, alle quali non potrò neppure accennare”. E siccome tra le repliche moderne della Belle Florentine ve ne sono alcune ritenute di Bastianini, a
costui, al solito, è andata l’attribuzione del pezzo principale (anche, anzi soprat tutto, nel saggio di Pope-Hennessy)?°. La maniera del busto è quella di Desiderio, ma non la qualità: ciò, tuttavia, non avrebbe dovuto portare dritti dritti all’accusa
di falso, nella curiosa pretesa che i contraftattori siano artisti sempre fiacchi nell’esecuzione (semmai, come ho accennato, lo sono spesso nell’invenzione). Dopo tutto, la bottega di Desiderio era ben popolata di aiuti, anche suoi consanguinei. Qualche anno fa il busto del Louvre, sottoposto ad attento restauro, ha rivelato sotto le ridipinture un'iscrizione originaria che identifica il soggetto in santa Co stanza di Costantinopoli, compagna di Orsola”. I suoi caratteri fisionomici un po’ generici e assenti si spiegano dunque benissimo entro il genere del ritratto di restituzione: non, però, di una gentildonna del Rinascimento vista con gli occhi dell'Ottocento, ma di una martire paleocristiana immaginata con la fantasia del
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Fig. so. Giovanni Bastianini, Piccarda Donati, 1855 0 poco prima, Firenze, Galleria d’Arte Moderna.
Fig. s1. Giovanni Bastianini, Santa Cecilia, c. 1855, Londra, collezione Henry Harris (fino al 1950). Fig. 52. Mino da Fiesole, Sant'Elena, c. 146511470, Avignone, Musée Calvet. Fig. 53. Collaboratore di Giovanni Antonio Amadeo, Santa, c. 1495, Certosa di Pavia, facciata della chiesa, cornice della bifora a sinistra del portale.
55)
Quattrocento. Inoltre, l’uso del legno, che poteva dar pensiero se riferito al ritratto di una dama contemporanea dell’artista, è perfetto per un busto di devozione sa-
cra. E a completare il quadro storico c'è il fatto che; sebbene non ci sia pervenuta nessun’opera autografa di Desiderio nel legno, i documenti riemersi nel frattempo ci dicono che lui e la sua bottega lo lavoravano senza particolari restrizioni*. Ora che l’origine quattrocentesca della Belle Florentine viene ristabilita appieno, è ovvio che le sue replicanti moderne rimangono invece tali: ma diventa meno ovvio che esse debbano continuare a spettare tutte a Bastianini. Vi sono altri abbagli simili intorno a Desiderio, dovuti al fatto che il gusto e la sensibilità dei critici moderni hanno infine prevalso su un’umile messa a fuoco degli antichi generi iconografici, così come su un’adeguata conoscenza tecnica. Moltissimi, forse, hanno presente la cosiddetta Santa Cecilia in pietra serena del
museo di Toledo nell’Ohio (tav. 16), apparsa a metà Ottocento con un’inevitabi. le attribuzione a Donatello, quando, lo ricordo, tutte le opere mobili di Desiderio pubblicamente visibili fino a quel momento - poche, peraltro - non erano ancora
state rese al suo vero autore e si nascondevano nel catalogo donatelliano. Pure la Santa di Toledo, come e più della Santa Costanza, ha conosciuto un'infinità di derivazioni moderne in diversi materiali, che vanno dalle copie fedeli ma prive
di vita (tav. 18), o iperquattrocentesche in modo caricaturale (per esempio con l’abito e il fondo tutti operati, tav. 17), alle variazioni nei modi di Bastianini”. A costui, forse, l’originale di Toledo sarebbe stato riferito da Pope-Hennessy, se la
data un po’ precoce della sua prima attestazione (1854) non gli avesse consigliato di optare invece per Odoardo Fantacchiotti e per la sua pretesa attività di impostore. Ma è scontato che la Santa di Toledo sia stata comunque collegata a Ba stianini da altri (ben prima di Pope-Hennessy), quando a me pare che proprio Bastianini fornisca le principali prove esterne contro la falsità dell’opera, o almeno contro l'eventualità che a metà Ottocento il rilievo fosse percepito come recente nel milieu degli artisti e antiquari più spregiudicati. Bastianini, infatti, è autore di quel busto di Piccarda Donati (1855 o poco prima, Firenze, Galleria d’ Arte Moderna, fig. 50) che mostra nella misura più spontanea come uno scultore re vivalistico dell’epoca potesse effettivamente guardare a un oggetto autentico quale quello finito poi a Toledo: in pratica, la Piccarda sta alla Santa di Toledo così come
la Giovanna degli Albizzi del medesimo Bastianini (ora a Washington, National Gallery of Art, tav. 15) sta alla Santa Costanza del Louvre (tav. 14). Come se non bastasse, a Bastianini, questa volta in veste di falsario, si può far risalire per ragioni
di conduzione stilistica un rilievo marmoreo già nella collezione di Henry Harris a Londra (venduta nel 1950) che scimmiotta la Santa di Toledo, e che non è meno importante per mettere a fuoco con quali occhi, e quali mani, un falsario di metà Ottocento sapesse reagire di fronte al modello quattrocentesco (fig. 51).
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Ho sempre pensato che il timore del falso nascesse davanti alla Santa Cecilia da un inconscio spiazzamento iconografico, perché di solito l'osservatore di un’opera di «alta epoca» non è preparato a trovarsi di fronte la figura singola di un santo che non solo non lo guarda, ma si pone anche di profilo. Memore però della forte tra. dizione fiorentina del Quattrocento che esaltava attraverso il profilo, all’interno di
bassorilievi quasi sempre rettangolari e proporzionati come questo di Toledo, le effigi degli imperatori e delle imperatrici dell’antichità, mi son chiesto se la Santa Cecilia non fosse invece una santa «augusta», cioè Elena madre di Costantino”. La
moda di questi rilievi era nata del resto in un intreccio inestricabile con il collezio. nismo delle monete antiche e con la nuova medaglistica: e dunque non stupisce che a un certo punto la celebre medaglia di Matteo de’ Pasti con il busto di Cristo in profilo (1450 circa), dall’aureola scorciatissima, stimolasse risposte emulative an che in marmo e in pietra. La denominazione come Cecilia per la Santa di Toledo fu escogitata nell’Ottocento semplicemente perché la fanciulla schiude le labbra e sembra cantare, secondo una scelta tuttavia frequente in Desiderio, ma non ancora riscoperta nella sua peculiarità quattrocento anni dopo. Sempre di profilo e con la bocca dischiusa, sant'Elena è raffigurata esplicitamente (il suo nome è dichiarato dall’epigrafe) in un rilievo marmoreo entrato al Musée Calvet di Avignone nel 1849, e opera di Mino da Fiesole, uno dei principali interlocutori di Desiderio (fig. 52). Ovviamente anch'esso è stato alle volte tacciato di modernità”; e, in modo
analogo, sono stati bocciati prima o poi altri rilievi che, pur non essendo di mano di Desiderio o di Mino, partecipano intimamente della stessa, esclusiva cultura fio rentina tra il 1455 e il 1470 circa, come lo Scipione marmoreo in profilo al Louvre
(noto dal 1847, e per me del giovane Verrocchio sulle orme di Desiderio)”, o la Gentildonna di profilo in pietra serena al Detroit Institute of Arts (della cerchia de sideriana più stretta; fig. 56)°°. Il punto è che nessun singolo studioso ha mai preso a quattro mani il coraggio di sfrattare in blocco dalla civiltà del Rinascimento tutti questi manufatti (Pope-Hennessy, che è stato tra i più audaci, si è limitato ai rilievi in pietra serena di Toledo e Detroit): l’unica eccezione che conosco sono i volumi sulla scultura entro la Storia dell’arte di Adolfo Venturi, dove l’autore, ben pago della necessità di dar spazio innanzitutto ai grandi monumenti ancora in situ in Italia, poté permettersi di fulminare costantemente, nelle brevi note a piè di pagina, gli oggetti dei musei, soprattutto all’estero”. Ma i secchi no venturiani, dispersi qua e là, non hanno mai formato un sistema dimostrativo: mentre è di un’argomentazio, ne compiuta che ci sarebbe bisogno per provare che a Firenze, prima del 1847, sia esistita una portentosa, ben nascosta officina di falsari capaci di inventare e scolpire capolavori così multiformi ma così sottilmente correlati, e soprattutto capolavori
oggi sempre più innervati nel Quattrocento fiorentino e italiano man mano che le conoscenze su di esso, dopo più di un secolo e mezzo, continuano a progredire.
Db
Fig. 54. Desiderio da Settignano, Olimpia,
regina dei Macedoni, c. 1460/1464, La Granja de San Ildefonso (Segovia), Palacio Real. Fig. 55. Allievo di Desiderio da Settignano
(Gregorio di Lorenzo?), Profilo di giovane gentildonna, c. 1465, Berlino, Staatliche Museen,
Bode Museum. Fig. 56. Bottega di Desiderio da Settignano,
Profilo di giovane gentildonna, c. 1460/1465, Detroit, Detroit Institute of rts. A
Fig. 57. Gregorio di Lorenzo, Profilo di gentildonna, c. 1465/1470, Parigi, mercato
antiquario (2016/2017).
2A
La perfetta coerenza di tali opere con ciò che del Quattrocento si va scoprendo adesso (e prima neppure si sospettava) va del resto ben oltre Firenze. Molti sanno ormai che la tradizione tutta moderna dei profili-all’antica, dopo i primi passi mossi in Toscana e Centro-Italia nel terzo quarto di quel secolo, è giunta al cul mine, prim’ancora che lo stesso secolo finisse, nella facciata della chiesa della Cer tosa di Pavia, ricca di teste di imperatori, re e altri eroi e condottieri millenari, in marmo o in pietra verde, distribuite nelle fasce decorative inferiori. Ma ben pochi
tuttora conoscono, 0 possono comunque apprezzare (in mancanza di una campa, gna fotografica ad hoc che non è stata mai effettuata o pubblicata), l'abbondanza di teste di santi e sante di profilo, accompagnate spesso da aureole in forte scorcio, tra
gli ornati dei quattro finestroni (fig. 53). Questi profili sacri spiegano a ritroso, in modo assai utile, un’effigie come quella di Toledo, indipendentemente che vada riferita a Elena o a un’altra santa; mentre tutto l’insieme dei profili di Pavia, di
volta in volta soggetti antiquari o cristiani, documenta un genere completamente
estraneo alla sensibilità dell'Ottocento”. Il problema del rilievo di Toledo mi si è ulteriormente chiarito nel 2001, quando ho ritrovato nella reggia spagnola della Granja de San Ildefonso questo meravi glioso marmo sconosciuto di Desiderio, con il profilo di Olimpia regina dei Macedoni (fig. 54). L’opera appartenne nel Settecento alla regina Elisabetta Farnese, e un suo disegno d'après fu utilizzato per il frontespizio del cosiddetto Cuaderno de Ajello, ovvero l’album dei capolavori classici della raccolta reale, allestito dall’antiquario di corte. In Spagna il rilievo era giunto da Roma nel 1738, come raro reperto greco donato da un cardinale spagnolo di Curia. Prima di tale partenza, ne furono fatte
delle copie che permisero poi a Filippo Collino di trarne delle libere derivazioni per la corte sabauda, e poi per San Pietroburgo”. Quando nel 2003 ho presentato l'Olimpia, insieme alla Sant'Elena di Toledo, a un convegno a Washington, ho sfruttato la brevità della relazione per tacere, con onesta furbizia, tutta la vicenda
esterna del pezzo spagnolo: volevo infatti vedere come avrebbe reagito la platea soltanto di fronte allo stile e alla qualità. Durante la pausa-caffè, alcuni colleghi mi
si avvicinarono imbarazzati per dirmi che avevo preso un abbaglio, non avendo io capito che il confronto dei due profili mostrava non che la Santa di Toledo fosse antica, ma che anche l'Olimpia, per una proprietà transitiva generata dall’autorità di Pope-Hennessy, era di Fantacchiotti o di qualche suo sodale.
A stringere in un medesimo nodo culturale l'Olimpia marmorea della Granja e la Santa lapidea di Toledo è riemerso assai di recente sul mercato antiquario parigi. no questo secondo profilo della madre di Alessandro, realizzato in pietra serena anziché in marmo, e fregiato in basso da un'iscrizione direttamente esemplata su quella di Desiderio («OLIMPIA - R[egina] + M[acedonum] ‘», tav. 19). L’opera, di ben minore qualità rispetto agli altri due rilievi, rientra in una medesima ga
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lassia stilistica con vari profili di imperatori e imperatrici (alcuni identificati dalle epigrafi come Galba o come l’una o l’altra Faustina) intagliati nella stessa materia, e di analoghe dimensioni e proporzioni. La loro appartenenza a Gregorio di Lo renzo, 0 a qualche suo stretto collaboratore, indica quanto ci si trovi a ridosso di Desiderio”. La riscoperta dell’Olimpia della Granja e il riscatto della Santa di Toledo permet tono di redimere altri bassorilievi e stiacciati analoghi censurati da Pope-Hennes sy. Ed è significativo che essi siano tutti o quasi in pietra serena, cioè in una materia nella quale si può comprendere che a noi oggi spiaccia vedere tradotti gli effetti estremamente virtuosistici, quasi atmosferici, creati da Desiderio nel marmo
di
Carrara, e inesportabili in qualunque altro materiale scultoreo: eppure è un fatto che la bottega di Desiderio era affermatissima anche per i lavori in pietra e in maci. gno (cosa evidentemente ignota a metà Ottocento)”, e dunque qualcuno dei suoi aiuti si sarà cimentato in saggi così difticili. Pope-Hennessy dava a Fantacchiotti sia il profilo di gentildonna del Detroit Museum of Arts”, sia questo rilievo a Berlino, decisamente di un’altra mano assai meno valida, ma non perciò falso (fig. 55)7*. Come si può vedere, nella parte del busto esso segue quasi passo passo l’Olimpia della Granja: operazione del tutto impossibile a un falsario dell'Ottocento, perché il prototipo era da tempo in Spagna (come cimelio classico), e soprattutto perché, ammesso e non concesso che qualche sua rarissima copia fosse rimasta in Toscana, si dovrebbe postulare non solo che il falsario la intercettasse ma anche che, oltre che un abile artefice, egli fosse un genio ultraprecoce e misconosciuto
della connoisseurship, in grado di precorrere di molte generazioni i progressi della storiografia sino a oggi”. Ecco, dunque, alcuni casi di sculture per le quali il tempo «galantuomo» ha prima o poi denunciato l'inganno: non, però, nel senso di portare a nudo lo stile d’epoca dell’artista «falsario», ma nel senso di mettere in discussione il gusto e le cono
scenze d’epoca dello studioso diftidente, che aveva bollato l’opera come mendace. Si tocca con ciò il punto nevralgico della questione, perché, per districarsi bene tra sculture autentiche del Rinascimento e falsi dell’Otto e Novecento, bisogna
infine tener presenti non solo l’uno e l’altro periodo, e i singoli artisti e luoghi di produzione nell’uno e nell’altro, ma anche e soprattutto il livello delle nozioni ed
esperienze storico-stilistiche accessibili agli artisti moderni e i gradi successivi di avanzamento della letteratura artistica negli ultimi due secoli. Ci vuole dunque una storicizzazione non solo degli stili, ma anche della storiografia e delle vicende del collezionismo. Per esemplificare ulteriormente quest’approccio avevo prepa rato vari altri casi, ma naturalmente li salto: e si trattava dello smascheramento di alcuni «“falsi” falsi» soprattutto dei musei di Berlino, Londra e New York.
Chiudo sulla sola Flora, così come ho promesso (fig. 58). Posto che ci sarebbero
Lex,
SPESE
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Fig. 58. Ceroplasta leonardesco dei primi decenni del Cinquecento, Flora, Berlino, Staatliche Museen, Bode Museum.
Fig. 59. Giampietrino (?), Flora, c. 1510/1520, Sudeley Castle (Gloucestershire). Fig. 60. Francesco Melzi, Flora (Colombina), c. 1510/1520, San Pietroburgo, Ermitage.
141
Fig. 61. Da Leonardo, Leda, c. 1510/1520, particolare, Roma, Galleria Borghese. Al
n
Fig. 62. Francesco Melzi, Vertumno e Pomona, c. 1510/1515, particolare, Berlino, Staatliche Museen, Gemaldegalerie. Fig. 63. Antonio e Giovanni Giusti,
tomba di Luigi XII di Francia e Anna di Bretagna, c. 1516/1531, particolare ‘ della Giustizia, Saint-Denis, Basilica, navata settentrionale esterna. Fig. 64. Antonio e Giovanni Giusti,
tomba di Luigi XII di Francia e Anna di Bretagna, c. 1516/1531, particolare
della Temperanza, Saint-Denis, Basilica,
navata settentrionale esterna.
142
108)
stati materiali a sufficienza per dedicarle tutto questo intervento, e anche di più, mi restringo a poche battute, sperando che il lettore si fidi di uno che ha fin qui con sultato un po’ tutta la bibliografia reperibile”°. Per quanto ho potuto verificare, gli unici elementi non stilistici che deporrebbero a favore del falso sono le dichiarazioni di Lucas il Giovane e del suo compagno, emesse circa sessantacinque anni dopo i fatti narrati, e alquanto confuse, così da lasciare ampio spazio all’eventualità che Lucas il Vecchio, effettivo proprietario o depositario della Flora negli anni centrali dell’Ottocento, ne sia stato un semplice restauratore. Per il resto, a parlare pro o
contro il falso rimane l’opera stessa, che non ritengo in.nessun modo autografa di Leonardo, ma che non riesco a immaginarmi fattibile da uno scultore del 1846, per
quanto dotato e sveglio, a partire da un unico e debole modello a sua disposizione, per giunta pittorico, come il dipinto di Basildon Park oggi a Sudeley Castle (fig. 59)7. La mezza figura di Berlino è un manufatto di livello medio all’interno della civiltà leonardesca, ma molto interessante per il fatto di essere ormai, dopo l’ecatom-
be delle cere rinascimentali, un unicum nel suo genere. Essa dialoga in modo fitto e incrociato con molte pitture lombarde di primo Cinquecento, che mostrano l’acuta inclinazione di Leonardo e dei suoi per le mezze figure femminili, soprattutto pro fane e discinte, e per il tema di Flora (figg. 60, 62)”; ha un leonardismo di dettaglio che nessuno avrebbe potuto sviluppare, sulla base di un solo prototipo per di più secondario, nei primi anni della regina Vittoria (fig. 61); e si cala perfettamente
in un mondo fabrile perduto del tutto alla memoria dell’Ottocento fuori della più stretta erudizione lombarda, quello di Leonardo impegnato a lavorar di cera - lun go gran parte del primo soggiorno milanese - per la fusione del cavallo di Francesco Sforza. Ancora, la Flora di Berlino è in grado di sollecitare nuovi riscontri visivi
al servizio dell’interpretazione storica, spiegandoci per esempio il leonardismo di quattro formose giovani in marmo come le Virtù cardinali della famiglia Giusti agli angoli della tomba di Luigi XII e Anna di Bretagna nella basilica di Saint-Denis (circa 1516/1531, figg. 63/64)". Per l’ennesima volta si pone quindi il problema non solo della mano, ma anche della cultura dei falsari: è possibile che Lucas il Vecchio sapesse di e su Leonardo quanto poi Kenneth Clark, Arthur Popham,
Ludwig Heydenreich e tutti gli altri migliori studiosi del Novecento messi insieme?
Questo contributo segue fedelmente nel suo svilup
® È emblematico in tal senso il caso del «falsario» più
po, e parzialmente nei toni (qui soltanto meno col
celebre tra tutti, Giovanni Bastianini, del quale dirò
loquiali), quello da me presentato a Bologna il 25.
ovviamente qualcosa più avanti. Di recente Anita
ottobre 2013. Oltre all’aggiunta delle note, l’unica modifica di rilievo rispetto alla lezione originaria pane FEO re riguarda l'inserimento della parte sull’Olimpia di Gregorio di Lorenzo, opera della quale sono venuto a conoscenza nel 2014.
Fiderer MosKowiTZ si è sforzata a più riprese di di mostrarne l’estraneità all’inganno commerciale, 0 coà I: : munque meditato, senza tuttavia arrivare a conclusio ni persuasive: cfr. in particolare la monografia Forging
authenticity: Bastianini and the Neo-Renaissance in Nine
Li
teenth-Century Firenze 2013
Terme, Assessorato alla Cultura - Edizioni Poli
Florence, Leo S. Olschki editore, (preceduta da tre saggi preparato.
ri, 2004, 2006, datane da B. Meisterbildhauer? «Kunstchronik»,
stampa, Firenze 1995, pp. 11/29 (p. 15 e note 19/20
[p. 28]); e adesso MoskowiTz, Forging authenticity
20II), e l’equilibrata recensione LANGHANKE, Meisterfalscher. oder Giovanni Bastianini vor Gericht, in LXVIII, 2015, pp. 240/245.
cit., in particolare p. 33 e note 48/50.
* Gli utili contributi specifici recenti di Anita Fi derer MosKowITZ (sopra, nota 1) non soppiantano
° Ce lo mostra bene soprattutto G. MAZZONI, Qua
tuttavia, neppure nelle informazioni, alcuni dei pre
cedenti, in particolare GENTILINI, Giovanni Bastiani
dri antichi del Novecento, Neri Pozza editore, Vicenza 2001. Ma cfr. anche A.G. DE MARCHI, Falsi primi
ni e ifalsi da museo cit., e Ip., Giovanni Bastianini e ifalsi da museo, [2], in «Gazzetta antiquaria», n.s., 3, 1988, pp. 27/43: articoli, questi, tratti dalla tesi di perfe” zionamento dell’autore, monografica su Bastianini (Università degli Studi di Pisa, 1986), che non ha
tivi: prospettive critiche e metodi di esecuzione, Umberto Allemandi & C., Torino-Londra/Venezia 2001; e Falsi d'autore. Icilio Federico Joni e la cultura del falso tra Otto e Novecento, a cura di G. Mazzoni, catalogo
avuto circolazione (ma è stata usata dalla Moskowitz), e che immagino ancora più ricca di dati.
della mostra (Siena, Complesso museale di Santa Maria della Scala, Palazzo Squarcialupi, 18 giugno - 3 ottobre), Protagon editori, Siena 2004. * La proposta, lanciata quarant'anni fa da John Pope-Hennessy in un saggio che ha fatto scuola
° Per lui conviene ricorrere soprattutto a D. Sox,
Unmasking the forger: the Dossena deception, Unwin Hyman, London/Sydney 1987 (ricco di materiali utili, ma entro una cornice troppo giornalistica); a
(anche troppa), secondo cui Odoardo Fantacchiotti (1811/1877) sarebbe stato un falsario, e pionieristi. co, non sembra avere infine alcun fondamento (J.
Pore Hennessy, The forging of Italian Renaissance sculpture, in «A pollo», XCIX, 1974, pp. 242/267, poi in Ip., The study and criticism of Italian sculpture, The Metropolitan Museum of Art - Princeton Uni versity Press, New York-Princeton
G. CELLINI, Dossena, Alceo, in Dizionario biografi co degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, vol. XLI, 1992, pp. 526/527; a G. MAZZONI, La cultura del
falso, in Falsi d'autore cit., pp. 59/79, in particolare pp. 59/63 e note 3-10 (pp. 77778), saggio riapparso in francese, con varianti, come La culture du faux, in De main de maître. L'artiste et le faux, atti del conve gno (Parigi, Musée du Louvre, 29/30 aprile 2004), Hazan - Musée du Louvre éditions, Paris 2009, pp. 261/301 e figg. 81111; e a Ip., schede 3/5, in
1980, pp. 223-
270). Già revocata in dubbio con molto rispetto da G. GENTILINI, Giovanni Bastianini eifalsida museo, in «Gazzetta antiquaria», n.s., 2, 1988, pp. 35747 (pp.
43/47), essa sembra essere stata ispirata all’autore da un vecchio incidente bibliografico, nel constatare
Falsi d'autore cit., pp. 86-91. Sarebbe assai utile una vera monografia sull’artista, con un buon catalogo ragionato: invece il volume di L. AzzoLINI, Al ceo Dossena, l'arte di un grande «falsario», Provincia di Cremona - Edizioni Delmiglio, Cremona 2004, è
che il volume di Paul Schubring su Donatello, ai
suoi tempi fortunato, accoglie entro il catalogo delle opere di bottega o d’imitazione un tondo in stucco di proprietà privata, una Madonna col Bambino, san
Giovannino e un angelo, che è semplicemente un calco o un modello del marmo autografo di Fantacchiotti nella tomba di Raffaello Morghen in Santa Croce
troppo al di sotto del livello minimo necessario; lo stesso vale per M. HoRAK, Alceo Dossena fra mito e
a Firenze (P. ScHuBRING, Donatello. Des Meisters Werke, Deutsche Verlags/A nstalt, Stuttgart Leip
2016 (uscito dopo la consegna delle mie pagine alla stampa). ° Quelle che sfilano nel volume di MoskowiTz,
zig 1907, p. 164; 2° ed., Deutsche
realtà: vita e opere di un genio, Edizioni LIR, Piacenza
Verlags. Ano
stalt, Stuttgart-Berlin 1922, p. 164). Per ulteriori
Forging authenticity cit., sono una patte esigua, poiché l’autrice si è affidata perlopiù alla bibliografia spe cifica su Bastianini. Ma uno spoglio sistematico dei cataloghi di musei, collezioni e vendite, e uno non meno assiduo delle monografie degli artisti del Rina scimento, nelle sezioni dedicate alle attribuzioni re spinte, moltiplicherebbero i risultati. Sull’inflazione attributiva bastianiniana ai danni di opere genuine
e più esplicite prese di posizione contro l’idea di
Pope-Hennessy: N. PENNY, Catalogue of European sculpture in the Ashmolean Museum: 1540 to the present day, Clarendon Press, Oxford 1992, vol. I, Italian, pp. 30/31; L. BERNINI, Fantacchiotti, Odoardo, in Di
zionario biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclope dia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, vol. XLIV, 1994, pp. 613/616 (pp. 614/615); EaAD., Odoardo Fantacchiotti, in Due secoli di scultura
del Quattrocento si veda più specificamente F. CAGLIOTI, Due false attribuzioni a Giovanni Bastianini fal
attraverso la bottega Fantacchiotti Gabbrielli, catalogo della mostra (Monsummano Terme, Villa Renati
sario, ovvero due busti di Gregorio di Lorenzo, ex «Maestro
delle Madonne di marmo», in «Conosco un ottimo storico dell'arte». Per Enrico Castelnuovo. Scritti di allievi e amici
co Martini, 1430 ottobre), Città di Monsummano
145
bronzo (1871) e un altro gesso (quest’ultimo in A.F.
pisani, a cura di M.M. Donato e M. Ferretti, Edi zioni della Scuola Normale Superiore, Pisa 2012,
MoskowiTz, The case of Giovanni Bastianini: a fair and balanced view, in «Axtibus et historiae», 50, 2004, pp.
pp. 213/223. Il caso forse estremo di tale ipercorret. tismo è presso B. SANI, Le vrai et lefaux dans l'euvre
157/185, in particolare p. 163, fig. 9). ? R. WITTKOWER, Desiderio da SettignanosSt. Jerome
de Bastianini, in «La revue de l’ar®, 21, 1973, pp. 102/107, dove si attribuisce a Bastianini non solo un’opera indubitabile di Mino da Fiesole come il San Giovannino del Musée Jacquemart-André a Pa
in the Desert, in «Studies in the history of ar», [4],
1971/1972, pp. 6/37, poi in ID., Idea and image: studies in the Italian Renaissance, Thames & Hudson, Lon, don 1978, pp. 136/149. !0 Renaissance masterpieces of the Michael Hall collection: exposition du 26 septembre au 19 octobre 2013 à la Galerie Yates, Trebosc, vgn Lelyveld, s.e., Paris 2013, n. [1]. !! Sulla quale cfr. soprattutto N. PENNY, in Desiderio da Settignano, sculptor ofRenaissance Florence, a cura di M. Bormand, B. Paolozzi Strozzi e N. Penny, ca talogo della mostra (Washington, National Gallery of Art, 1° luglio - 8 ottobre), National Gallery of Art - 5 Continents Editions, WashingtonMilano
rigi, ma anche una sua presunta seconda versione in proprietà privata, che è però lo stesso marmo parigi.
no, noto all’autrice da una foto anteriore all’acquisto
André: cfr. FECAGLIOTI, Mino da Fiesole [...], Busto di San Giovanni Battista fanciullo /...J Parigi, Musée Jacquemart Andté [...], in Due collezionisti alla scoperta dell’Italia. Dipinti e sculture dal Museo Jacquemart-André di Parigi, a cura di A. Di Lorenzo, catalogo della mostra (Milano, Museo Poldi Pezzoli, 16 ottobre 2002 - 16 marzo 2003), Silvana Editoriale, Cini
sello Balsamo 2002, pp. 64/67, n. 5, in particolare
2007, pp. 192/195, n. 15. Di questa esposizione in tre sedi esistono anche i cataloghi francese e italiano, che userò più avanti a seconda degli autori citati.
p. 66, nota I7.
? È più che sufficiente il rinvio classico a M.J. FRIEDLANDER, Von Kunst und Kennerschaft, Bruno
‘ Rinvio per brevità soltanto a F. CAGLIOTI, Gre
gorio di Lorenzo (Gregorio di Lorenzo diJacopo di Mino), in Allgemeines Kiinstlerlexikon. Die Bildenden Kiinst-
Cassirer und Emil Oprecht, Oxford Zirich 1946, pp. 237/238 (trad. it., Giulio Einaudi editore, To
rino 1955, p. 155), dove l’esempio par excellence reo cato dall’autore per alludere a una sorta di norma
ler aller Zeiten und Volker, vol. LXI, K.G. Saur,
universale riguarda proprio la scultura italiana del
! Preso per autentico ancora da U. MIDDELDORE,
Miinchen-Leipzig 2009, pp. 358/360.
Rinascimento, ossia Bastianini e Dossena.
Sculptures from the Samuel H. Kress Collection. Euro
* Le particolarità dello stile di Dossena mi hanno permesso per esempio di segnalare alla Sotheby's di Londra la sua mano dopo aver sfogliato il catalogo
pean Schools, xrv-xrx Century, The Phaidon Press for the Samuel H. Kress Foundation, London 1976, pp. 2930, n. K1573, e fig. 56, il rilievo di Wash ington è stato etichettato per la prima volta come falso presso A. BELLANDI, Per un catalogo del Maestro
appena stampato della vendita O/d Master Sculpture CT Works of Art del 3.12.2014, ed essermi imbattu-
to nel lotto 54, un San Francesco in marmo schedato come del «Circle of Annibale Caccavello (circa 15151570)». L'attribuzione è stata poi emendata
delle Madonne di marmo (scultore attivo dal 1470 al 1500
in rete, e tanto più sicuramente perché, alla verifi.
p. 19, n. III.2, e fig. 35. Cfr. anche A. BELLANDI, Gregorio di Lorenzo, il Maestro delle Madonne di marmo, Selective Art Edizioni, Morbio Inferiore 2010, pp.
circa), tesi di specializzazione, relatore M. Ferretti,
Università degli Studi di Bologna, a.a. 1997/1998,
ca su Dossena, i funzionari della casa d’aste hanno ritrovato una notizia e una foto dell’opera nel ca
talogo Sculptures by Alceo Dossena to be sold at public
69, 77, € 334, n. III.1.47, il quale ritiene spuria, e
auction sale, Thursday evening, Match gth, 1933 [...], National Art Galleries, Inc., New York 1933, pp.
forse della stessa origine, una seconda Madonna nello
28/29, n. 11. Come esempio di opera non «falsa»
gesso dipinto del Victoria and Albert Museum di
con un riferimento generico al Quattrocento fiorentino nel catalogo Italian furniture ofthe Renaissance, rare majolica, brocades, velvets, Renaissance bronzes [...]: the collection ofAchille De Clemente, Florence, Italy, sold by
stile di Gregorio (da lui non riprodotta), comparsa
di Bastianini riproduco il busto del conte Franz Olivier von JenistonWalworth nella versione in Londra, che è la più antica fra le tre conosciute (J.
his order [1517.1.1931], American Art Association
Pore-HennEssy e R. LIGHTBOWN, Catalogue of
Anderson Galleries, Inc., New York 1931, p. 155,
Italian Sculpture in the Victoria and Albert Museum, Her Majesty's Stationery Office, London 1964, vol. II, pp. 678-679, n. 723, e vol. III, p. 418, fig. 715). La didascalia di MoskowiTz, Forging authenticity cit.,
n. 477. Mi pare tuttavia che sia meglio sospendere il giudizio, in attesa che la si possa riesaminare dal vero, chiara essendo per ora soltanto l’esclusione dell’autografia più piena di Gregorio.
fig. 44, la dà alla Galleria d’Arte Moderna a Firen
4 La coincidenza tra il taglio della Carità esibi.
ze, dove si trovano invece una versione postuma in
to dalla derivazione e quello di un calco in gesso
146
dall’originale, prodotto in più esemplari dalla cele
LXXIII,
bre manifattura Lelli di Firenze almeno sin dal 1875
(con ulteriore bibliografia dello stesso segno: James
(cfr. A. CAPUTO CALLOUD, in Omaggio a Donatello. Donatello e ilprimo Rinascimento nei calchi della Gip
Hirst). La mia esperienza diretta dell’opera, prima
Beck, Joachim Poeschke, Diane Zervas e Michael del trasferimento definitivo a Sollicciano, rimonta al
soteca, a cura di L. Bernardini, A. Caputo Calloud e M. Mastrorocco, catalogo della mostra [Firenze, Istituto Statale d’Axrte, 19 dicembre 1985 - 30 mag,
1986. Bonsanti si chiedeva se tale Madonna potesse identificarsi con quella menzionata da Vasari nella
biografia di Desiderio (1550 e 1568), con un’at
gio 1986], spes, Firenze 1985, p. 210, n. 208), ci svela facilmente il percorso del revival. Anche tra le riproduzioni fittili della non meno celebre Manifat
tribuzione a questo scultore: «nelle monache delle Murate, sopra una colonna, in un tabernacolo, una Nostra Donna piccola, di leggiadra e graziata ma niera»; ma gli ultimi tre aggettivi contrastano troppo
tura di Signa si ritrova questo taglio: La Manifattura di Signa, a cura di A. Baldinotti, L. Bassignana, L. Bernini e L. Ciulli, spes, Firenze 1986, vol. II, Catalogo illustrato, 1900/1905 c., edizione anastatica, tav.
XLVII,
1991, pp. 315/323: p. 318 e note 39/42
con l’esemplare oggi a Sollicciano. Studi recenti di
storia della pietà femminile e delle immagini miraco-
n. 660. Un taglio appena più ristretto
lose hanno rivalutato la testimonianza antica di suor Giustina Niccolini, monaca e cronista delle Murate
mostra invece, sempre a fine Ottocento, la deriva, zione ceramica dell’altrettanto rinomata Manifattura
(1598), la quale scrive dell’alluvione dell’ Arno del 1557 e di come una Madonna del monastero, pro digiosamente scampata alla piena, diventasse l’im
Cantagalli: cfr. FIGLI DI GIUSEPPE CANTAGALLI, MAIOLICHE ARTISTICHE, Album Della Robbia. Ri produzioni di opere dei Della Robbia: ornamenti architetto nici, mattonelle, Calzolari-Ferrario, Milano [c. 1910], n. 329 (più facilmente accessibile presso G. CONTI, Campionario delle robbiane, in Ip., G. CEFARIELLO Grosso, La maiolica Cantagalli e le manifatture ceramiche fiorentine, De Luca Edizioni d’ Arte, Roma 1988,
figg. A 2.1A2.4; K.J.P. Lowe, Nuns' chronicles and
magine poi venerata nell’oratorio di Santa Maria della Neve: S.L. WEDDLE, Enclosing le Murate: the
ideology of enclosure and the architecture of a Florentine
convent, 13901597, Ph.D. Diss., Cornell Univer sity, Ithaca, N.Y.
1997, pp. 333/338 e nota 484, e
pp. 107/117: p. 110, n. 329).
convent culture in Renaissance and Counter Reformation
! Per tale invenzione, andata distrutta per sempre con lo smontaggio dell’apparato donatelliano nel
Italy, Cambridge
1659: F. CacLIoTI, Donatello [...] e collaborato re, Madonna col Bambino, detta «del Perdono» [...], in Da
Jacopo della Quercia a Donatello: le arti a Siena nel primo
Homes, The miraculous image in Renaissance Florence, Yale University Press, New Haven - London 2013, pp. 9596 e note 162/163, e fig. 72; S. WEDDLE, in
Rinascimento, a cura di M. Seidel et alii, catalogo del la mostra (Siena, Santa Maria della Scala, Opera Metropolitana, Pinacoteca Nazionale, 26 marzo 11 luglio), Federico Motta Editore, Milano 2010,
a cura di S. Weddle, Iter Inc. - Centre for Refor mation and Renaissance Studies, Toronto 2011, p. 232, nota 262. In modo paradossale, tutta questa
Sister G. NiccoLINI,
!© Il rilievo delle Murate fu presentato come origi nale di Donatello alle commemorazioni del suo se centenario nel 1986 (G. BONSANTI, in Donatello e i suoi. Scultura fiorentina del primo Rinascimento, a cura di A.P. Darr e G. Bonsanti, catalogo della mostra [Firenze, Forte di Belvedere, 15 giugno / 7 settem
La
Casa Usher - Arnoldo Mondadori editore, De, troit-Firenze Milano 1986, p. [74], tav. XVIII, e pp. 159-160, n. 46; G. BONSANTI, La Madonna delle Murate, in Donatello Studien, Kunsthistorisches In
stitut in Florenz
The chronicle of Le Murate,
bibliografia collega il manoscritto di suor Giustina proprio alla Madonna oggi a Sollicciano, nonostante
pp. 332/333, n. D.13.
bre], Founders Society/Detroit Institute of Arts
University Press, Cambridge,
U.K. 2003, pp. 337/342 € note 72/89, e fig. 32; M.
che il testo, nel confermare esplicitamente che la fi gura miracolosa del 1557 era quella riferita a Deside rio da Vasari, chiarisca anche che le sue dimensioni erano maneggevoli: «[...] que’ maestri [muratori
del monastero] restorno attoniti et quasi smarriti di veder questa madre [suor Marta] così dirottamente piangere et stare genuflessa in terra con l’inmagine santissima in mano, che senza intermissione baciava affettuosamente, mostrando gustare suave dolcezza
nel cuor suo per le folte lacrime che dalli occhi ver
Bruckmann, Miinchen 1989, pp.
sava. Onde che, accorta la devota madre di questa lor maraviglia, li riprese animosamente della poca devotione et fede che havevono, et così, presa lei stessa un poco di calcina, ricongiunse insieme que’ pezzi che heron rotti il meglio che poté, facendola lor
2357243). I dubbi sull’antichità furono però imme diati e concordi: cfr. per tutti C. Sist, in Capolavori 7 restauri. Firenze, Palazzo Vecchio, 14 dicembre 1986 - 26 aprile 1987, Cantini, Firenze 1986, pp. 90/93, n. r1 (scheda della Madonna del Perdono); e H. WOHL, rec. dei Donatello Studien, in «The Art Bulletin»,
porre nel luogo dove hoggi si vede, dicendo a quelli: “fate quant’io vi dico, perché Lei vuol così”; e tanto
147
feciono, se ben pareva loro cosa rigettata et da non
postura del tutto degna dell’opera che pubblicizza:
ne far conto alcuno» ([G. NiccOLINI], Cronache del
di Fiorenza, dell'ordine cassinense del glorioso padre, abate
il volume coniuga dunque il falso artistico e il falso storiografico in forma quasi emblematica. 2 Sulla fortàana moderna del San Giovannino si veda
et patriarcha san Benedetto, nelle quali si tratta di quanto è successo sino dal principio, sì della fondatione e edifitii,
l’ampia scheda di G. GENTILINI, in Museo Nazionale del Bargello. Omaggio a Donatello. Donatello e la storia
come anco di ciascun altro negotio intorno alli ordini spiri-
del Museo,
tuali et altri promotioni di governi, adì 31 di gennaio 1597
spes, Firenze 1985, pp. 318/327, n. XV, contenen
[s.f.], Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms.
te, tra gli altri rinvii, quelli ai calchi in gesso e alle derivazioni ceramiche dei Cantagalli, quest’ultime in almeno tre formati diversi. Si aggiungano ovvia
v.v. monastero di Santa Maria Annuntiata de le Murate
IIT.IIT.509, cc. 121v/1221). Perduta tra Otto e Nove-
cento, tale Madonna dovette essere rimpiazzata dalla copia donatelliana intorno al 1942, anno epigrafico
che si leggeva nel paliotto dell’altare a essa abbinato in Santa Maria della Neve, così come mostra la foto storica in BONSANTI, La Madonna delle Murate cit., p. 238, fig. 3 (con una curiosa datazione dello scat.
Associazione
«Amici
del Bargello» -
mente quelle fittili di Signa: La Manifattura di Signa cit., vol. II, Catalogo illustrato cit., tav. XXVII, n. 791,
etav. LXKXVIII, n. 1080.
2! Dopo la mia presentazione a Bologna, ho appre
to al 1939). Per la fortuna otto-novecentesca della
so da Aldo Galli che l'oggetto era passato per una vendita pubblica del 2005, con una datazione scon-
Madonna del Perdono attraverso i calchi in gesso: M.
siderata alla fine del Cinquecento (e senza rinvii a
MastRorocco,
Donatello): SEMENZATO, CASA D’ASTE, VENEZIA, Mobili rinascimentali, oggetti d'arte, sculture, marmi, bronzi, avori, mobili italiani ed europei, oggetti da collezione, 25 settembre 2005, p. 97, n. ITO. © G. MAzzoNI, in Falsi d'autore cit., pp. 122/123,
in Omaggio a Donatello. Donatello
e il primo Rinascimento nei calchi della Gipsoteca cit., p. so, n. 32. ” I cartoni fotografici nn. 157450157452 del Kunsthistorisches Institut di Firenze (KHIF), risa. lenti al giugno 1958, documentano che il busto, al, lora nella collezione Leyendecker a Wiesbaden, era
passato per quella dell’antiquario londinese George Durlacher, venduta in parte nel 1938. Nel catalogo dell’asta l’opera viene proposta come
«Florentine,
early 16th century», con tanto di riconoscimento del modello minesco in marmo: Catalogue of Italian majolica, bronzes & objects of art, French and Italian furniture of the Renaissance, tapestry and textiles, sold by
order of George Durlacher, Esq., last surviving partner of Messts. Durlacher Brothers [...], which will be sold at auction by Messrs. Christie, Manson & Woods [...], on Wednesday, April 6, and Thursday, April 7, 1938 [...], London 1938, p. 17, n. 48, e tav. 48.
!* Un'altra fantasiosa derivazione moderna dal Piero Mellini, una terracotta fedele all’originale nel la massa plastica, ma bizzarramente variopinta, si conserva da più di un secolo al Musée de Grenoble (inv. MGrs98, dono del generale Léon de Beylié,
1849-1910): cfr. Le GÉNÉRAL [L.] DE BEvyLIÉ, Le Musée de Grenoble: peintures, dessins, marbres, bronzes, etc., Librairie Renouard, H. Laurens, éditeur, Paris
1909, pp. XXVIII e 168 (con fig.); e Catalogue des tableaux, statues, basereliefs et objets d'art exposés dans les galeries du Musée de Peinture et de Sculpture, [3*] ed., Imprimerie et Lithographie Louis Ginier, Grenoble 19II, p. 266, n. 172. ° JA. FORTE, Donatello modela la infancia: escultura inédita, Ediciones El Viso, [Madrid] 2003. Il pro lisso testo spagnolo e inglese, costruito come se fosse il frutto di una ricerca annosa e capillare, è un’im
n. 21. Per il precedente accostamento a Dossena, espresso con cautela: G. GENTILINI, La Spezia, Mu seo Civico Amedeo Lia. Sculture: terracotta, legno, mar
mo, Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia
Amilcare Pizzi spa, La Spezia - Cinisello Balsamo 1997, pp. 67/72, n. 8.
® Cfr. note 14 (Carità di Mino), 16 (Madonna del
Perdono) e 19 (San Giovannino di Desiderio), e avan ti, note 25 (Madonna in tondo di Andrea della Rob bia), 44 (Rinaldo della Luna di Mino) e 52 (Madonna di Mino a Detroit). Ma il discorso vale palesemen te anche per opere alle quali non ho dedicato note (per risparmiare spazio), come il Leonardo Salutati di Mino, il Piero Mellini di Benedetto da Maiano o l’Eleonora d'Aragona di Francesco Laurana. * L. CIFERRI, in La forma del Rinascimento: Donatel-
lo, Andrea Bregno, Michelangelo e la scultura a Roma nel Quattrocento, a cura di C. Crescentini e C. Strina/ ti, catalogo della mostra (Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, 16 giugno - 5 settembre), Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 284/287. Le due teste di Roma hanno continuato a esser gabellate per Bregno anche più di recente: Mestres do renascimento: obras-primas italianas, a cura di C.
Acidini e A. Delpriori, catalogo della mostra (San Paolo, Centro Cultural Banco do Brasil, 13 luglio 23 settembre 2013; Brasilia, Centro Cultural Banco
do Brasil, 12 ottobre 2013 - 5 gennaio 2014), Base7 Projetos Culturais - Ipsis Grafica e Editora SA, Sào Paulo 2013, pp. 82/83; e C. CRESCENTINI, in 1564-2014, Michelangelo: incontrare un artista universale,
148
268), figg. 32/34, dove l’autore delle tre Madonne, tutte senza fissa dimora collezionistica, è etichet. tato in modo ironico come «Modigliani Mastem». Pope-Hennessy lo credeva attivo negli anni settan ta-ottanta dell’Ottocento, ma io non escluderei una cronologia più tarda di un paio di decenni. Grazie a una segnalazione di Aldo Galli, ho ritrovato il terzo esemplare, con un’attribuzione strambissima a Francesco di Simone Ferrucci, nella stessa asta
a cura di C. Acidini con E. Capretti e S. Risaliti, catalogo della mostra (Roma, Musei Capitolini, 27 maggio - 14 settembre), Giunti, Firenze 2014, pp. 251/252, nn. II.1415. © Il tondo marmoreo corrisponde perfettamente
all’esemplare oggi alla Galleria Nazionale di Pra ga (Sternbersky Paléc), schedato già da A. MAR QUAND, Andrea della Robbia and his atelier, Princeton
University Press - Humphrey Milford - Oxford University Press, Princeton London/Oxford 1922, vol. II, pp. 52/53, n. 149 (allora era nel Rudolfi.
Semenzato del 2005 citata sopra, nota 21 (pp. 102
num). Naturalmente di esso sono disponibili sin dal tardo Ottocento sia i calchi in gesso (cfr. A. CAPU-
5° Il primo dei due esemplari lo trovo commentato e
103, n. II6).
TO CALLOUD, in Omaggio a Donatello. Donatello e il primo Rinascimento nei calchi della Gipsoteca cit., p. 128,
n. 117), sia le traduzioni ceramiche (cfr. FIGLI DI GIUSEPPE CANTAGALLI, MAIOLICHE ARTISTICHE,
Album Della Robbia cit., n. 302: anche presso ConTI, Campionario delle robbiane cit., p. 109, n. 302).
riprodotto da O. Kurz, Falsi e falsari, Neri Pozza editore, Venezia 1961, p. 155 e fig. 139 (2° ed., Neri Pozza editore, Vicenza 1996, p. 178 e fig. 139), come «del sec. x1x», «di origine relativamente an tica», senza precisarne la collocazione. La seconda Madonna, approdata nella sede attuale fin dal 1921,
è stata pubblicata e correttamente individuata come
2 Durante le more di stampa mi accorgo che nell’e state 2014 il tondo è apparso in rete, nel sito personale di un’«esperta d’arte» (http://www.alessandraartale. it/), con un’attribuzione stupefacente a Benedetto da
opera del «Modigliani Master» da S. ANDROSOV,
Maiano.
MARCHI, Falsi primitivi cit., p. 162 e note 100-101 (p. 188), e figg. 120/122 e LII, ma senza accennare
del 1981), e getta un buon ponte fra i tre esemplari di Pope Hennessy e i due nuovi esemplari «raffael, leschi». Potrebbe spettare allo stesso gruppo un ulte riore rilievo di Madonna apparso di recente in vendita
alla diffusione e alle cause del fenomeno. De Marchi
a Genova come di «artista del xx secolo vicino ad
menziona anche l’Annunciazione Frick di Dossena,
Alceo Dossena» (CAMBI CASA D’ASTE, Scultura e
della quale subito qui oltre nel mio testo.
oggetti d'arte, 15 aprile 2014, n. 177). 31 Ne debbo la conoscenza e la foto ad Aldo Gal li, che se n’è ricordato appropriatamente mentre gli
Museo Statale Ermitage: la scultura italiana dal x1v al xvi secolo, Skira, Milano 2008, pp. 178/179, n. 6 (il quale rinvia anche a un proprio contributo in russo
7 Un paio di casi del genere è introdotto da DE
2 La connessione con Simone Martini fu chiara,
comprensibilmente, fin dal primo apparire delle due sculture, ma non nei termini del plagio, tanto da portare alla presunzione di un'attività di Simone come scultore. Cfr. ora P. CAPPELLINI, Il ruolo di
Elia Volpi nella vendita delle sculture di Alceo Dossena. Fotografie e lettere inedite, in Contraffazione dell'arte, arte della contraffazione: mostra e incontri di studio, a cura di P. Refice, atti degli incontri di studio (Anghiari, Museo Statale di Palazzo Taglieschi, 13 giugno
presentavo il caso di questo falsario. 3° The collection ofProfessor Paolo Paolini, Rome - Italy: distinguished paintings and sculptures by celebrated Italian masters XXVI century. [...J. Unrestricted public sale, evenings ofDecember 10 and 11 [...] at the American Art Galleries [...], New York, American Art Associ, ation, Inc., New York 1924, n. 13 (come «Donatel,
lo [Manner of]», con un accostamento alla Madonna Pazzi di Berlino). Il catalogo Paolini è ricco di falsi
2012 - 9 giugno 2013), Edifir, Firenze 2014, pp. 43/63, dove si mettono a frutto alcune lettere di Elia Volpi, venditore delle due sculture, a Wilhelm von
e di false attribuzioni, malgrado che vanti fin dal
frontespizio le consulenze di Wilhelm von Bode,
Bode, dalle quali si ricava che anche il principe dei conoscitori del suo tempo cadde nel tranello, rilasciando una perizia in favore dell’autenticità. Nel frattempo Dossena aveva utilizzato la pala di
Giacomo De Nicola, Georg Gronau, Frederick Mason Perkins, Raymond van Marle e Wilhelm Suida. Per la Madonna di Lione e le sue discendenti bastianiniane: Pope -HENNESSY, The forging cit., ed.
Simone per produrre un’altra coppia analoga di fi gure intagliate - meno inverosimilmente - nel legno:
1974, pp. 249/250, figg. 24/29, € pp. 250/251 e note 46/49 (p. 264); ed. 1980, pp. 238/240, figg. 2429, €
Sculptures by Alceo Dossena to be sold at public auction
pp. 239/240 e note 46/49 (p. 268).
sale cit., pp. 36/39, nn. 15-16.
* Cfr. in particolare PoPe-HENNESSY e LIGHT
® Mi riferisco a Pope-HENNESSY, The forging cit., ed. 1974, p. 251, figg. 32/34, € p. 252 e note 53/56
Bown, Catalogue of Italian Sculpture cit., vol. II, p. 685, n. 734, e vol. III, p. 418, fig. 713 (terracotta centinata, con il gruppo divino sopra una predella
(p. 266), ed. 1980, pp. 242/243 e note 5356 (p.
249
con una Pietà in stiacciato),
e ANDROSOV,
n. 1089; La Manifattura di Signa cit., vol. II, Catalo go illustrato cit., tav. XXVII, n. 42; D. BRUNORI, Giovanni Bastianini e Paolo Ricci, scultori fiesolani: cenni biografici, Tipografia Domenicana, Firenze 1906, p.
Museo
Statale Ermitage cit., pp. 177/178, n. 3 (bronzo centi nato, con una gocciola riempita da una testa angeli. ca), ciascuna voce con la segnalazione di altri esem plari. Si aggiunga poi la fortuna tra le maioliche
25 (dov'è illustrato un esemplare centinato con pe
Campionario
duccio angelico, dello stesso tipo dell’Ermitage); e la
delle robbiane cit., p. 107, n. 255, € p. ITI, nn. 339 €
didascalia della foto Mannelli (fig. 42; cfr. nota 33).
Cantagalli (ben tre versioni: CONTI,
344) e tra le terrecotte di Signa (La Manifattura di Si
Y Come di Bastianini l’ha invece pubblicato SANI,
gna cit., vol. II, Catalogo illustrato cit., tav. XXVII,
Le vrai et lefaux cit., p. 106 e nota 20 (p. 107), fig.
n. 42). L’esemplare in bronzo che riproduco (fig. 41), dello stesso tipo dell’Ermitage, è pubblicato da
9, su segnalazione di Ulrich Middeldorf (la quale è
G. Nicopemi, Bronzi minori del Rinascimento italiano, Luigi Filippo Bolaffio, casa editrice, Milano 1933, fig. a p. 181, come di un «maestro toscano del sec. xvi», a «Milano, coll. C.E. Staehelin» (mentre il
tografia, visto che lo studioso, sui cartoni fotografici
da far valere per l'invenzione e non anche per l’auKHIF 60714, 81867 e 102557, attribuisce allo scultore altri esemplari, mentre per quello di Cremona, n.
169712, scrive solo «zu Bastianini»). Al polo op
cartone fotografico KHIF 81867, del maggio 1932, lo dà a «Milano, conte Soprani»). Il testimone in gesso (fig. 42) è documentato dalla foto 1585 del fiorentino Anchise Mannelli «& C.° (denomina. zione creata nel 1902), che lo colloca genericamente a Vienna e lo riferisce a Bastianini.
3% Per la provenienza
cfr. A.
ALOVvISI
e U.
posto, MoskowiTz, Forging authenticity cit., p. 87 €
nota 160 (pp. 8788), p. IOI, nota 4I, p. 102 e nota 48, e figg. 186/187, prende le distanze da Bastianini non solo per la versione cremonese, ma anche per tutte le altre, lamentando che presso KURZ, Falsi e
falsari cit., p. 173 e nota 14 (2° ed. cit., p. 196 e nota 14), ove si parla di questo tipo di rilievo in rapporto a Bastianini, «no reason is given for the attribution
GUALAZZINI, La chiesa di S. Agata in Cremona: cen ni storicicartistici, Unione Tipografica Cremonese, Cremona 1926, p. 32 (senza ill.); e F. VOLTINI,
to our sculptor» (nota 160), e dando quasi a inten dere che tale riferimento non risalga più indietro di Pope-Hennessy e Lightbown, 1964 (citati qui so
Le chiese di S. Agata e di S. Margherita in Cremona, Camera
di Commercio,
Industria,
Artigianato,
pra, nota 33). Ma alla nota 36 ho dato le attestazioni tardovottocentesche del rimando a Bastianini, e d’al
Agricoltura, Cremona 1985, p. 64 (senza ill.), i quali credono che il rilievo sia antico, e parlano di un dono dello scultore cremonese Silvio Monti (nel
tronde la stessa Moskowitz (p. 102) tratta curiosa. mente il rilievo a proposito di una testimonianza del 1858 (Raffaello Foresi) che, nel citare «a caldo» una
1885 secondo Voltini), per acquisto dalla raccolta di monsignor Michele Bignami, abate di Casalmag-
Sacra Famiglia ingannevole di Bastianini, sembra al. ludere proprio a questa composizione. * Per brevità rinvio solo, tra gli innumerevoli esemplari possibili (mai censiti seriamente), ai due del
giore (1808/1888). Su quest'ultima: A. PARAZZI, Cenni biografici di monsignor Michele Bignami, abate di Casalmaggiore, Tip. Contini, Casalmaggiore 1890,
p- [4] (che accenna in verità a due raccolte succes
V&A Museum e ai due dell’Ermitage: PoPEHENNESSY e LiGHTBOWN, Catalogue of Italian Sculpture
sive del prelato); e G. MERLO, Dalle soppressioni alle collezioni, in I Campi e la cultura artistica cremonese del Cinquecento. Catalogo, a cura di M. Gregori, Electa,
cit., vol. I, pp. 161/162, nn. 136/137, e vol. III, pp. 118/119, figg. 158 e 160; e AnpROSOV, Museo Sta
Milano 1985, pp. 451453 (pp. 452/453). * La tomba Hall compare da ultimo (anche nel gesso preparatorio della Galleria d’ Arte Moderna
tale Ermitage cit., p. 40, nn. 23/24, p. 42, fig. 24, e p. 43, fig. 23.
* Come la prima delle due al V&A Museum (cfr. nota 38), in cui la centina, occupata da una Tri
di Firenze, che riproduco qui) presso MOSKOwITZ, Forging authenticity cit., figg. 73-74. Per la terracotta al V&A Museum cfr. nota 33.
nità dipinta da Bartolomeo di Giovanni, è separata
tramite cornici dal rettangolo sottostante; o come un esemplare già presso Elia Volpi a Firenze (fig. 46),
®© Catalogo dei monumenti, statue, bassirilievi e altre scul ture di varie epoche che si trovano formate in gesso nel la-
dove il rettangolo e la centina superiore formavano
boratorio di Oronzio Lelli in Firenze [...], Pei Tipi di Salvatore Landi, In Firenze 1894, p. 28, n. 1089;
un campo unico (fotografie KHIF 431037431039),
Catalogo dei monumenti, statue, bassirilievi e altre sculture
tagliato via la centina (fotografia KHIF 431036, con
di varie epoche che si trovano formate in gesso nel premiato
un rinvio puntuale all’asta Volpi del 17.19 dicem bre 1917 a New York, n. 427). Non poche versioni prive della testa di cherubino in basso sono antiche, così come quelle appena citate di Londra ed ex Vol
prima di un restauro a suo modo filologico che ha
stabilimento di Giuseppe Lelli (fu Oronzio). Maioliche artistiche (sistema della Robbia) e terre cotte [...], Ti pografia Editrice E. Bianchi, Firenze 1899, p. 28,
150
diffuso, sembra rispecchiare meglio di tutti l’inven
* Due sono state già pubblicate, dapprincipio come buone: P. SCHUBRING, Minos Biiste des Rinaldo della
zione originaria di Benedetto da Maiano.
Luna in Terrakotta, in «Der Cicerone», XIV, 1922,
4° Di tale corto circuito sembra essersi accorta, sche dando uno dei tanti testimoni della composizione
allora presso l’antiquario Julius Bohler a Monaco);
pi: ma il tipo con il cherubino, che è anche il più
pp. 186, 202 e 204/205 (un preteso modello fittile,
(fittile, tipo V&A Museum, ma rettangolare, non centinato), soltanto L. FROHLICH/Bum, Sammlung Dr. Viktor Bloch, Wien: Gemalde alter Meister des 14.
e MIDDELDORE, Sculptures from the Samuel H. Kress
bis 18. Jahrhunderts, italienische Bronzen und Terrakotten
zo. Middeldorf, che rigettava sanamente entrambi gli esemplari, ne segnala un terzo, in marmo, di
Collection cit., p. 28 e fig. 53 (una copia in cemen-
to), con bibliografia a favore dell’antichità del pez
der Renaissance, Holzskulpturen des 13. bis 17. Jahthunderts, Marmor- und Elfenbeinskulpturen,
proprietà privata tedesca (fedele all’originale anche nell’epigrafe: foto KHIF 154478, anno 1958); e G. GENTILINI, in Museo Nazionale del Bargello. Omaggio a Donatello cit., p. 401 e note 25/26 (p. 402), riferisce cautamente il secondo e il terzo al solito Bastiani ni (cosa a mio avviso nient’affatto necessaria). Nel frattempo l’esemplare tedesco è approdato nei depo-
Versteigerung
am 30. November 1934, H. Gilhofer & H. Ransch burg Aktiengesellschaft, Luzern 1934, p. 37, n. 79,
e tav. XXVIII, la quale tuttavia se ne serviva per datare l’opera nel primo quarto del Cinquecento,
poco dopo il modello raftaellesco. 4 Con l’aiuto della medesima foto sul cartone KHIF
261115 («Bastianini (?)», di mano di Anchise Tempestini), ha menzionato rapidamente e pubblicato il busto Moskowrrz, Forging authenticity cit., p. 107,
siti del Bode Museum, dove l’ho ritrovato, privo di numero d'inventario. Un'altra copia moderna in
nota 64, n. 21, €fig. 207, ponendolo tra i «lost works»
di testo epigrafico, ma incompleto e scorretto, l’ho vista nel 1990, grazie a un'indicazione di Clara Baracchini, nel Municipio di Bagni di Lucca (cui
di Bastianini. L'attribuzione non mi pare tuttavia così cogente. Qui, comunque, m’interessano le fonti dell’opera, non toccate dalla studiosa americana. * In particolare R. OFFNER, A portrait of Perugino by Raphael, in «The Burlington Magazine», LXV, 1934, pp. 244257; e L. BeLLOSI, Un omaggio di Raffaello al Verrocchio, in Studi su Raffaello, a cura di M. Sambucco Hamoud e M.L. Strocchi, atti del
congresso internazionale di studi (Urbino-Firenze,
marmo (parzialmente dipinto), provvista anch'essa
fu donata dal violinista Adolfo Betti, 18751950). Una libera derivazione in terracotta, tagliata poco al di sotto dello scollo, si trovava nel 2010 sul mer-
cato antiquario parigino (Galerie Ratton-Ladrière). Un'altra ancora, forse la più suggestiva, è quella in terracotta invetriata, proveniente da una villa del Varesotto, che nel 1974 era di un collezionista
privato milanese, ma stette temporaneamente presso
6:14 aprile 1984), Quattro Venti, Urbino 1987, vol. I, pp. 401-417, e vol. II, figg. 189/199.
la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze: G.
il restauratore fiorentino Guglielmo Galli mentre questi restaurava il marmo originale del Bargello (come risulta dalle foto 216536216540 dell’ex Polo Museale di Firenze). È ovvio che a monte di tutto
GENTILINI, in Museo Nazionale del Bargello. Omaggio
ciò sono stati sempre, o quasi, i calchi in gesso (per
4 Tra le cose sincere basti pensare al Gaetano Bianchi
di Bastianini, una terracotta del 1860 circa, oggi nel
a Donatello cit., pp. 400/402, n. s (con bibliografia);
cui cfr. A. CAPUTO CALLOUD, in Omaggio a Do
e MoskowrTz, Forging authenticity cit., in particolare
natello. Donatello e il primo Rinascimento nei calchi della Gipsoteca cit., pp. 205/206, n. 201).
Pp. 53/54 e nota $, pp. 75776 e note 101/103, € fig. 48. Tra quelle insincere ricordo soltanto un busto fittile all’Ermitage, che ritengo appunto un falso, in sieme a MIDDELDORE, Sculptures from the Samuel H. Kress Collection cit., p. 43 (e sul cartone fotografico KHIF 347369), e a GENTILINI, Giovanni Bastianini e i
falsi da museo [1] cit., p. 40, fig. 7, e p. 42, mentre ha
‘ La bibliografia in proposito è particolarmente nutrita sin da allora, e dunque mi limito a rimandare da ultimo a MoskowiTz, Forging authenticity cit.,
provato a riscattarlo ANDROSOV, Museo Statale Er-
passim e figg. 2/5. Anche per tale vicenda sia sufficiente un unico rin vio bibliografico complessivo: U. WoLFETHOM-
mitage cit., pp. 40 € 42, n. 26, figg. a pp. 44/45 (come
di un «seguace di Benedetto da Maiano»), lasciando così nell’indecisione - ma più a favore del Rinasci/ mento - Moskowrrz,
* MIDDELDORE, Sculptures from the Samuel H. Kress Collection cit., p. 28. La copia di Washington dà una qualche idea di come doveva essere allestito l’originale.
Forging authenticity cit., pp.
100-101 € nota 41, fig. 175. Che l’opera sia proprio di mano di Bastianini, come credeva Middeldorfe ha rilanciato Gentilini, non mi sembra peraltro evi. dente.
151
seN, Die Wachsbiiste ciner Flora in der Berliner Skulpturensammlung und das System Wilhelm Bode: Leonardo da Vinci oder Richard Cockle Lucas?, Verlag Ludwig,
Kiel 2006 (della quale peraltro non condivido le conclusioni specifiche sull’opera).
Publishers - The Detroit Institute of Arts, Lon don/Turnhout-Detroit 2002, vol. I, pp. 105/109,
# Cfr. sopra, testo e nota s. 4 A. VENTURI, Storia dell’arte italiana,
Ulrico Hoepli, Milano, vol. VI, La scultura del Quattrocento, 1908, pp. 636/638 (Niccolò Strozzi e Alesso di Luca Mini a Berlino, i due Medici e Rinaldo della Luna al
n. 55. Cfr. anche F. CagLIOTI, Un nuovo «profilo» di Desiderio da Settignano, in Historia artium magistra:
amicorum discipulorumque munuscula Johanni Hofler sep-
Bargello), 640 e note 1/2 (Dietisalvi Neroni allora nel
tuagenario dicata, a cura di R. Novak Klemendiè e S.
la collezione Dreyfus a Parigi, poi al Louvre). Del resto, a p. 654, nota I, è una «tavola di proscrizione»
Stefanac, Univerza v Ljubljani, Filozofska fakul
teta, Ljubljana 2012, pp. 183192 (pp. 187/189 e nota 8, fig. 5). © Mi riferisco a Pore-HENNEssyY, The forging cit., ed. 1974, figg. 17/18, 20/23, 31, 37/38, 56/57, GI
di ben altre diciassette fra le opere in marmo allora attribuite a Mino, che oggi, dopo un secolo, si pos sono tranquillamente recuperare tutte (in verità son sedici, perché Venturi, come poi Bernardina Sani
e 67. Pongo qui in particolare evidenza (poiché le figg. 5657 di Pope-Hennessy le ho già citate alla nota 50, le figgt 19 e 21 alla nota 51, e altre opere tor neranno più avanti) il rilievo marmoreo di Madonna
[cfr. nota 6], computava il San Giovannino Jacque mart André due volte, nella sua sede definitiva e
nella precedente collocazione italiana). L'unico pezzo non minesco nella «tavola di proscrizione»
col Bambino e angeli nella Hyde Collection a Glenn
Falls, New York (Pope Hennessy, ed. 1974, p. 252
venturiana è il Busto di Cristo a Berlino, Bode Museum, soltanto perché appartiene al «Maestro delle
e nota 59 [p. 266], e p. 253, fig. 37; ed. 1980, p.
244 € nota 59 [p. 268], e p. 245, fig. 37), pubblicato come di Antonio Rossellino da A. MARQUAND, The Barney Madonna with adoring angels by Antonio
Madonne di marmo», ossia Gregorio di Lorenzo. °° Pope -HENNESSY, The forging cit., ed. 1974, figg.
6, 17/23, 26, 28/34, 37/38, 41/43, 46/48, 53-64, 67,
Rossellino, in «Art Studies: Medieval, Renaissance and Modern», II, 1924, pp. 33/37, ma bocciato da Pope-Hennessy al di là di ogni suo dubbio, e, ciononostante, restituito giustamente a un seguace di Rossellino da J.K. KETTLEWELL, The Hyde col-
69. Nella riedizione del 1980 tre di queste opere sono state espunte, la prima perché non aveva un
rapporto preciso col testo pur essendo di Dosse
na (fig. 47), e le altre due (figg. 56/57), riferite da Pope-Hennessy a Bastianini, perché evidentemente (e sensatamente) rivalutate nel frattempo dall’autore
lection catalogue, The Hyde Collection ‘ Whitmann
come antiche, e cancellate anche dal testo (ed. 1974,
Press, Glens Falls, N.Y. - Lebanon, N.H.
p. 259 e note 87/88 [pp. 266/267]). Dalla fig. 47 in avanti l'apparato illustrativo del 1980 ha subìto
pp. 30/31, n. 15. Tale seguace di Antonio, o per dir meglio allievo e collaboratore, è secondo me Matteo
di conseguenza una contrazione e un arretramento nell’ordine numerico. © Ricordo per esempio il rilievo marmoreo di
del Pollaiolo fratello del Cronaca, del cui catalogo ho avviato la ricostruzione in una lunga nota di E. CAGLIOTI, Da una costola di Desiderio: due marmi gio vanili del Verrocchio, in Desiderio da Settignano, a cura di B. Paolozzi Strozzi, J. Connors, A. Nova e G. Wolf, atti del convegno internazionale di studi (Fi renze, Kunsthistorisches Institut - Settignano, Villa
Madonna col Bambino e tre angeli riutilizzato nel se polcro dell’antiquario Francesco Lombardi nella Cappella del Noviziato in Santa Croce a Firenze
(PoPEe-HENNESSY, The forging cit., ed. 1974, p. 247 e note 25728 [p. 264], e fig. 19; ed. 1980, p. 232, fig. 18, € p. 233 e note 25/28 [p. 267]), per cui cfr. inve
1981,
I Tatti, The Harvard University Center for Italian
ce G. GENTILINI, Riflessioni sulla fortuna donatelliana,
Renaissance Studies, 9.12 maggio 2007), Marsi lio, Venezia 2011, pp. 123150 (pp. 146-147). A
in Museo Nazionale del Bargello. Omaggio a Donatello
lui spettano altri due rilievi mariani illustrati da
cit., pp. 365389 (p. 382 e nota 95); e Ip., Giovanni Bastianini e ifalsi da museo [1] cit., in particolare pp. 38, 39; 43744 e nota 14. E ricordo anche - mia fig.
Pope-Hennessy, ovvero il marmo della Courtauld
Gallery di Londra, Gambier-Parry Bequest, da me già indicato nel zor1 (Pope-Hennessy, ed. 1974, p. 244 e nota 10 [p. 264], fig. 8, come «late fifteenth century»; ed. 1980, p. 226 e nota 10 [p. 266], fig.
56 < il Profilo di gentildonna in pietra serena nel Detroit
Institute of Arts (PoPE-HENNESSY, The forging cit., ed. 1974, p. 248 e nota 35 [p. 264], fig. 21; ed. 1980,
8), e un altro pseudo/falso, la terracotta già nella
p. 234, fig. 21, € p. 235 e nota 35 [pp. 267/268]),, di statuto ancora incerto per GENTILINI, Riflessioni cit.,
collezione Hainauer di Berlino e oggi nel Toledo
p. 384, tav.
XL VI, ma recuperato da ID., Giovanni
Pope/Hennessy allo stesso «falsario» di Glenn Falls
Bastianini e ifalsi da museo [1] cit., in particolare pp. 38, 39, 43, 44 € 46; e poi da A.P. DARR, in Ip., P.
ed. 1980, p. 244 e note 60/61 [p. 268], e p. 245, fig.
Museum ofArt (Ohio), data significativamente da (pp. 252/253 e note 60/61 [p. 266], e p. 253, fig. 38;
BARNET, A. BosTROM ET ALI, Catalogue of Italian
38). Un altro pseudo/falso riprodotto nel saggio di
sculpture in the Detroit Institute ofArts, Harvey Miller
Pope-Hennessy richiede una diversa forma di riscat.
132
to, perché lo studioso cita e illustra (ed. 1974, p. 248,
e note 95/98 (p. 267), € p. 263, figg. 61/63; ed. 1980,
fig. 22, € p. 249 e note 39-40 [p. 264]; ed. 1980, p. 235 e note 39-40 [p. 268], e p. 236, fig. 22) un rilie vo marmoreo di Madonna col Bambino alla National Gallery of Art di Washington (Mellon Collection), già attribuito a Mino da Fiesole, che è effettivamente derivativo, ma condanna con esso l’esemplare ana logo del Detroit Institute of Arts (non riprodotto), intendendo che l’invenzione stessa di questi rilievi non sia minesca. Si tratta di una conclusione radi
p. 259, figg. 58/60, e p. 260 e note 93/96 (p. 270); e GENTILINI, Giovanni Bastianini e ifalsi da museo [2] cit., p. 33, fig. 9, € p. 37 e nota 28.
5 M. BorMmanD e P./Y. LE Pocam, Desiderio da Settignano (entourage de), Sainte Constance, dite La Belle
Florentine [...], in Desiderio da Settignano. Sculpteur de la Renaissance florentine, a cura di M. Bormand, B. Paolozzi Strozzi e N. Penny, catalogo della mostra (Parigi, Musée du Louvre, 27 ottobre 2006 22 gennaio 2007), Musée du Louvre Editions - 5
calmente infondata, che già altri hanno fatto cadere nel frattempo, restituendo com'è giusto il ruolo di autografo all’esemplare di Detroit, sia pure con al cune cautele: S. Zuraw e A.P. DARR, in Ip., BARNET, BosTRÒM ET ALI, Catalogue of Italian sculpture in the Detroit Institute of Arts cit., vol. I, p. 119, tav. 12, € pp. 121/123, n. 60 (dove, p. 123, si cita un pa
sta, in «The Burlington Magazine», CXKXXVII,
rere scritto rilasciato nel 1999 al Museo da Giancarlo Gentilini, secondo cui «there remains the possibility
°° Cfr. in particolare G. GENTILINI,
that both works are forgeries by Giovanni Bastianini
Nazionale del Bargello. Omaggio a Donatello cit., pp.
Continents Editions, Paris.Milano 2006, pp. 154 157, n. 8; e A. CASCIO e ]J. Lévy, EÉtude technique et restauration de «la Belle Florentine», ibid., pp. 158/159. °* Cfr. in particolare A.V. COONIN, New documents
concerning Desiderio da Settignano and Annalena Malate
1995, pp. 792/799. in Museo
around 1860, or a sculptor close to him»).
396/399, n. 4 (con ampia casistica e bibliografia),
% CAGLIOTI, Due false attribuzioni a Giovanni Bastia nini falsario cit. Sempre in questo contributo ho fatto notare che un busto muliebre in terracotta già nella
il quale conclude per la bontà del rilievo di Tole do, dandolo a uno «scultore fiorentino, nei modi di
Donatello e Desiderio da Settignano», ma interro gandosi su una sua possibile datazione nel primo
collezione Foule di Parigi e poi nella Pierpont Mor gan Library di New York, già pubblicato come di Verrocchio (per primo da Wilhelm Bode, o poi anche da Wilhelm Valentiner), ma reimmesso sul
da museo [1] cit., pp. 38, 39, 43, 44 € fig. II, pp. 46/47 e note, il quale ribadisce l’autenticità, indiriz
mercato nel 1979 come falso (evidentemente sulla scia di O. SIREN, Some sculptures from Verrocchio's workshop, in «Art in America», III, 1915, pp. 56/65
zandola addirittura (sulla scia di Alessandro Par ronchi, ma cautamente) verso Leonardo da Vinci (che però non fu mai scultore in pietra o in marmo).
[p. 60], che lo marchiò come del solito Bastianini),
Rispetto all’originale lapideo di Toledo (57,1 cm su 38,1) sono più piccole sia la copia marmorea da me riprodotta (26 cm su 19), sia quella metallica (20,5
Cinquecento; e poi ID., Giovanni Bastianini e ifalsi
dev'essere reso invece a Benedetto da Maiano. Di questo artista non siamo oggi abituati a incontrare ritratti femminili, mentre è ormai ben documentato
cm su 13,7).
® Pope-HENNEssy, The forging cit., ed. 1974, p. 248 e nota 31 (p. 264), fig. 20; ed. 1980, p. 234 e nota 31 (p. 267), fig. 20. Sulla presunzione di un Fantac
che ne facesse, e proprio in terracotta. ° Per la fortuna attraverso i calchi in gesso: M. MastRoROocco, in Omaggio a Donatello. Donatello e il primo Rinascimento nei calchi della Gipsoteca cit., pp. 177/178, n. 174. È stato soprattutto tale filone a veicolare l’identificazione con Cecilia Gonzaga, in
chiotti falsario cfr. nota 3.
9 Si può rammentare
specialmente M. CRUTT-
weLL, Donatello, Methuen
& Co. Ltd., London
sieme a un’attribuzione a Donatello (mentre quella a Desiderio si stava ambientando nella bibliografia degli studiosi): Catalogo dei monumenti, statue [...] for
I9II, pp. 144/145, la quale conosceva così male l’opera da crederla in marmo. © Il rilievo ex Harris, documentato dal cartone
mate in gesso nel laboratorio di Oronzio Lelli in Firenze cit., p. 8, n. 206; Catalogo dei monumenti, statue [...]
fotografico
formate in gesso nel premiato stabilimento di Giuseppe Lelli
Middeldorf), è stato reso noto con l’attribuzione a
KHIF
«Florentinisch?®»,
(fu Oronzio) cit., p. 8, n. 206.
106288
(novembre
«15. Jh.è», di mano
1935,
come
di Ulrich
Bastianini da GENTILINI, Giovanni Bastianini e ifalsi da museo [1] cit., p. 45, fig. 12, € p. 47 e nota 19, il
% Ma alla nota 52 ho detto della Madonna di Mino da Fiesole a Detroit, rigettata da Pope Hennessy
insieme alla sua replica moderna di Washington, e
quale presenta già il mio stesso paragone ad excludendum con la Santa di Toledo. Sette anni dopo la morte
più avanti, testo e nota 59, dirò della Sant'Elena di Desiderio a Toledo (Ohio). i °° PopE-HENNESSY, The forging cit., ed. 1974, p. 260
di Bastianini, H. SeMPER, Donatello, seine Zeit und Schule: eine Reihenfolge von Abhandlungen, Wilhelm Braumiiller, Wien 1875, p. 268, n. IV.4, nel dare
150.
pp- 340/341, n. 2.23). Dei due tratti distintivi della
a Donatello il famoso prototipo in pietra, ricordava che esso era stato «reproducirt durch den vor einigen Jahren verstorbenen Florentiner Bildhauer Bastiani.
figura che non convincono Ferretti uno è la bocca dischiusa, della quale ho detto poc'anzi nel testo (e cui Mino indulge spesso quando forma teste di don
ni»: e tale brano (sul quale è stata richiamata molto
ne e bambini, come nella Carità del sepolcro di Ugo
spesso l’attenzione da studiosi più e meno sospettosi, tra cui lo stesso Gentilini, p. 47 e nota 18), può ben
di Toscana, nello Spiritello reggiscudo sinistro dello stesso monumento, o nel busto del San Giovannino
prestarsi a un’opera come quella qui discussa. Nel catalogo dell’asta Harris (1950) essa compare come
al Louvre). L'altro è dato dalle dimensioni ridotte
una «St. Cecilia, after Desiderio da Settignano»
(l’altezza è 31,7 cm), non in linea con i busti-ritrat
(The Henry Harris collection: catalogue of the celebrated
ti di Mino, che si aggirano mediamente sui 50 cm. Credo tuttavia che il paragone vada fatto non con questa serie di effigi di uomini adulti, contempora
collection ofbronzes, sculpture, paintings and works ofart of the Italian Renaissance [...], which will be sold by auction
by Messers. Sotheby & Co. [...], on Tuesday, the 24th of October, 1950, and following day [...], London 1950, p. 24, n. 136).
nei dello scultore, ma, per maggior connessione di genere, con altri busti femminili e infantili di fan tasia, come quello appena citato del San Giovannino al Louvre (alto 29 cm, cioè quasi 3 cm in meno,
8 F. CAGLIOTI, Fifteenth Century Reliefs of Ancient Emperors and Empresses in Florence: Production and Collecting, in Collecting Sculpture in Early Modern Eu rope, a cura di N. Penny ed E.D. Schmidt, atti del convegno (Washington, National Gallery of Art, Center of Advanced Study in the Visual Arts, 78 febbraio 2003), National Gallery of Art, Washing
perché il taglio del busto è praticato più su), o quello di giovinetta nella mandorla marmorea porta-spec chio del Cabinet des Médailles della Bibliothèque Nationale de France a Parigi (un pezzo ritenuto «più che sospetto» dal solito VENTURI, La scultura
25); Ip., Desiderio da Settignano: i profili di eroi ed eroine del mondo antico, in Desiderio da Settignano. La scoperta
del Quattrocento cit., p. 654, nota 1, ma entrato nella raccolta odierna con le confische della Rivoluzione del 1789: J. DE FOVILLE, Le Mino da Fiesole de la Bi bliothèque Nationale, in «Gazette des Beaux-Arts», s. IV, V, 1911, pp. 149/156). La mandorla è di 49 cm su 33 (E. BABELON, Le Cabinet des Antiques à la
della grazia nella scultura del Rinascimento, a cura di M.
Bibliothèque Nationale: choix des principaux monuments de
Bormand, B. Paolozzi Strozzi e N. Penny, catalogo
l'antiquité, du Moyen-age et de la Renaissance conservés au
della mostra (Firenze, Museo Nazionale del Bargel,
Département des Medailles et Antiques de la Bibliothèque Nationale, A. Lévy, libraire/éditeur, Paris 1887, pp. 3536, n. XI), che significano soltanto 29 cm per la figura, tagliata più su del busto Hall, così come il
ton («Studies in the History of Art, 70) - Yale University Press, New Haven - London 2008, pp. 66/109 (pp. 81, 83 e nota 82 [p. 107], e p. 85, fig.
lo, 22 febbraio - 3 giugno), Museo Nazionale del Bargello - s Continents Editions, Firenze Milano
2007, pp. 86/101, in particolare p. 95, fig. 67, € pp. 98/101 e note 15/20.
San Giovannino del Louvre. A_ garantire specialmen,
% Sulla sua fortuna: FE. CaGLIOTI, Mino da Fieso
te per la terracotta Hall è a mio avviso il fatto che il suo punto di stile non è quello del Mino da Fiesole
le [...], Sant'Elena imperatrice [...], Avignone, Musée Calvet [..., in Matteo Civitali e il suo tempo. Pittori, scultori e orafi a Lucca nel tardo Quattrocento, catalogo della mostra (Lucca, Museo
acclarato lungo tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento, ma quello della primissima e assidua at tività romana, del tutto sconosciuta a chiunque fino a trent'anni fa. ® L'accusa contro di esso fu affidata a un saggio monografico di Emile Bertaux (1913), sottoscritto
Nazionale di Villa
Guinigi, 2 aprile - 11 luglio), Silvana Editoria le, Cinisello Balsamo 2004, pp. 310/311, n. 2.9;
e Ip., Fifteenth-Century Reliefs cit., p. 83 e nota 83 (pp. 107-108), e p. 86, fig. 26. A_ favore di Mino
ventidue anni dopo da Adolfo Venturi (1935): ma
è da ultimo M. FERRETTI, Il contributo deifalsari alla storia dell’arte, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», s. V, I, 2009, pp. 189/226 (p. 221), il quale nel con
prima, durante e dopo, l’opera era ed è stata sem. pre classificata come del Rinascimento, sia pure con attribuzioni contrastanti. Cfr. F. CAGLIOTI, Andrea
tempo propone invece di postdatare all’Ottocento,
Corvino, in Italy and Hungary: Humanism and Art in the Early Renaissance, a cura di P. Farbaky e L. Wald man, The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies - Officina Libraria srL, Setti.
del Verrocchio e i profili di condottieri antichi per Mattia
anche per l'invenzione, un’altra cosa attribuita allo
scultore (pure da me), ossia un busto fittile di una giovinetta, quasi una fanciulla, nella collezione di
Michael Hall a New York (F. CagLIOTI, Mino da
gnano-Milano 2011, pp. 504-551 (in particolare pp. $I6/517 e note 17/18). % Cfr. nota sI.
Fiesole [...], Busto digiovinetta [...], New York, collezio ne Michael Hall, in Matteo Civitali e il suo tempo cit.,
54
due volte in altre forme tra il 2006 e il 2008 (cfr. nota
9 In particolare: VENTURI, La scultura del Quattro cento cit., pp. 424/425, nota $ (Santa Cecilia), e p. 654, nota I (Sant'Elena di Avignone); e ID., Storia
63), non
ha convinto
pienamente
MOsKowITZ,
Forging authenticity cit., in particolare pp. 102/103 e note 50/52, fig. 134, incerta adesso tra il Quattro e
dell’arte italiana, Ulrico Hoepli, Milano, vol. X, La scultura del Cinquecento. Parte I, 1935, pp. 30 € 35-36, e p. 31, fig. 33 (Scipione). Non sembra che lo studio
l’Ottocento (dopo essere stata, se intendo bene, tutta
so abbia invece citato la Gentildonna poi a Detroit
dimesso, la studiosa è turbata in particolar misura dall’abito, che, a differenza di me, non trova affatto
a favore dell’Ottocento). Oltre che dallo sguardo
(allora in collezione privata): ma si può star tran quilli che anch'essa non avrebbe riscosso un verdetto più clemente. Per alcune foto a stampa: M.G. A LBERTINI OTTOLENGHI,
R. BossagLIA
e ER.
PESENTI,
quattrocentesco (ma neanche, ovviamente, ottocen tesco). Eppure a me pare che esso non sia molto di/ verso, nella sostanza, da quello della Gentildonna di Detroit, riprodotta come del giro desideriano dalla
La
stessa Moskowitz, fig. 135. Per non dire che vari busti femminili a tuttotondo di Desiderio e dei suoi
Certosa di Pavia, Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde - Amilcare Pizzi spa, Milano 1968, figg. 77/83, 86/87 (sulle quali ho richiamato l’attenzione
imitatori, visti di fianco, finiscono per mostrare i loro
già in CAGLIOTI, Fifteenth-Century Reliefs cit., p. 83 e nota 84 [p. 108]); e La Certosa di Pavia: il grande
abiti con gli stessi tagli. ?° CAGLIOTI, Fifteenth Century Reliefs cit., p. 81 e nota 8I (pp. 106/107), e p. 84, fig. 24; ID., Desiderio
racconto della facciata, a cura di L. Erba, M.T. Maz,
da Settignano: iprofili cit., pp. 92/93, figg. 6566, pp. 96-98 e note 11/14 (p. 101), e figg. 68/71. ? L’Olimpia in pietra serena, pubblicata nel sito in ternet della Galerie Sismann di Parigi (2014) come opera fiorentina anonima del 1500 circa (data anti cipabile anche di una trentina d’anni), misura 50,5
zilli Savini e C. Pagani, cIsRIC, Centro Interdipar timentale di Studi e Ricerche per la Conservazione dei Beni Culturali / Università degli Studi di Pavia - Tipolitografia Luigi Ponzio e figlio, Pavia 2010, pp. 84/104, figg. passim. Il dispiegamento di profili di santi nimbati insieme con i profili antiquari ha inizio in Lombardia, grazie a Giovanni Antonio
cm su 30. I rilievi analoghi cui mi riferisco sono una coppia con Galba e Faustina Maggiore al Louvre,
A madeo, già nella Cappella Colleoni di Bergamo, negli anni settanta: ma qui i santi sono solo maschi, molto verosimilmente A postoli (R.V. SCHOFIELD e
un’altra coppia maschile femminile anepigrafa in collezione privata a Torino, una Faustina Minore e
A. BURNETT, The decoration of the Colleoni chapel, in «Arte lombarda», n.s., 126, 1999, pp. 61/89, pas
un altro Galba - tuttavia non in coppia, perché di misure e cornici diverse - al Musée Jacquemart An,
sim). La compresenza di santi e sante riprende a fine secolo all’esterno del grande complesso della tribuna bramantesca delle Grazie a Milano, con una serie di
dré, e un Adriano in collezione privata a Firenze. Li si veda da ultimo presso BELLANDI, Gregorio di Lo renzo cit., in particolare p. 350, n. III.2.6, p. 353,
tondi che sfilano lungo il registro basamentale del terzo ordine (a paraste e candelabre): Santa Maria
n. IM.2.11, e pp. 355/357, nn. III.2.14-16, nel cui catalogo avrebbero meritato di stare tutti di segui
delle Grazie in Milano, Banca Popolare di Milano, Milano 1983, p. 14, fig. s.n., p. 69, fig. 58, p. 104,
to (non si può escludere, tra l’altro, che la Faustina
Minore Jacquemart-André e l’Adriano di Firenze siano nati insieme). L’Olimpia e la Faustina Mi
fig. 102, p. 106, fig. 104, pp. 108109, figg. 106 107, p. 209, fig. 231, e p. 211, fig. 233; e Santa Maria delle Grazie, Federico Motta editore, Milano 1998,
nore, con i loro seni del tutto scoperti, gettano una
figg. a pp. 119/120, 130133, 156157. Una santa
luce chiarificatrice su un rilievo marmoreo di stile desideriano, eccezionalmente ovale fin dall’origine,
connessa con tale ciclo, Caterina, passò almeno un
con un profilo femminile anepigrafo, nelle Civiche
secolo fa tra le mani dell’antiquario Stefano Bardini smo delle «teste» all'antica, in Ritratti di imperatori e profili
Raccolte d'Arte di Milano (oggi nei depositi del Castello Sforzesco), alle quali giunse nel 1868 con vari marmi perlopiù antichi della celebre villa delle
all'antica: scultura del Quattrocento nel Museo Stefano
Torri de’ Picenardi (Cremona), allora in possesso
a Firenze (EM. Bacci, Stefano Bardini e il collezioni
Bardini, a cura di A.. Nesi, Centro Di, Firenze 2012,
del marchese Pietro Araldi Erizzo (1821/1881), pa
pp. 98/155: pp. 109-110 e note 37/40 [p. 153], € p.
triota, podestà e sindaco di Cremona, e senatore del
III, figg. 62/63): ma non è ancora chiaro quale sia
Regno d’Italia. Pubblicato talvolta come autografo di Desiderio (per esempio da F. NEGRI ARNOLDI,
il rapporto con la sua gemella oggi in situ, che scor go in seconda posizione a contare da sud nell’abside orientale (Santa Maria delle Grazie in Milano cit., p. 14, fig. s.n.). ® La mia difesa del rilievo di Toledo, già apparsa
I maestri della scultura: Desiderio da Settignano, Fratel li Fabbri editori, Milano 1966, tav. VII), ma mai entrato stabilmente nella sua bibliografia, è a mio avviso del giovane Verrocchio che emula Desiderio:
5
CacLIOTI, Da una costola di Desiderio cit., p. 123,
nota 17 (p. 143). PoPE-HENNESSY e LIGHTBOWN, Catalogue of Italian Sculpture cit., vol. I, pp. 168/169, n. 142, e vol. III, p. 123, fig. 164, schedano un secondo esemplare del medesimo tipo al V&A Museum (noto dal 1862), di forma centinata, dicendolo
nello «style of Verrocchio» e reputando ottocentesco l’ovale milanese, mentre non avrei dubbi sulla pre
cedenza di quest'ultimo. Non è poi obbligatoria mente falsa un’altra derivazione conservata sempre
al V&A Museum (dal 1859), e posta tra i falsi da Pope/Hennessy e Lightbown (vol. II, p. 688, n. 737, e vol. III, p. 421, fig. 728): ma la sua quali tà non merita grande attenzione. Dopo la consegna del mio saggio per la stampa, l’ovale milanese è stato ripubblicato come ottocentesco da M.T. FIORIO, in
Museo d'Arte Antica del Castello Sforzesco: scultura lapidea, Intesa Sanpaolo - Mondadori Electa spA, Milano, vol. IV, 2015, pp. 188/190, n. 1650: una sche da che, tra l’altro, attribuisce questa stessa idea a U. MIDDELDORE, Portraits by Francesco da Sangallo, in «The Art Quarterly», I, 1938, pp. 109/138 (p. 116,
nota 10 [p. 136]), poi in Ip., Raccolta di scritti that is Collected Writings, spes, Firenze, vol. I, 1979, pp. 305/327 (p. 311, nota 10), laddove lo studioso tede sco, incapace di simili scivoloni, si chiedeva invece con molta cautela, insieme a Clarence Kennedy, se l’opera, «extremely beautiful in workmanship»,
non fosse cinquecentesca. La lista dei rilievi in pie tra serena spettanti al giro di Gregorio di Lorenzo
potrebbe essere facilmente allungata ripartendo dalle indicazioni sparse qua e là entro il saggio pionieri.
und Stuck, Druck und Verlag von Georg Reimer, Berlin 1913, p. 58, n. 134, € p. 59, fig. 134), essa
scompare dall’edizione successiva (Staatliche Muscen zu Berlin. Bildwerke des Kaiser-Friedrich Museums. Die italienischen und spanischen Bildwerke der Renaissance und des Barocks, vol. I, Die Bildwerke in Stein, Holz, Ton und Wachs. Zweite Auflage, Verlag von Walter de Gruyter & Co., Berlin 1933), eviden temente perché ritenuta spuria. Ho già accennato altrove alle ragioni della sua sincerità: CAGLIOTI,
Desiderio da Settignano: i profili cit., p. 100, nota 17 (p. 101). 75 La Gentildonna di Berlino ha infine buone chances di essere anch'essa di Gregorio di Lorenzo. Sicuramente
spetta a lui quest'altra Gentildonna (fig. 57), in abito contemporaneo più operato, apparsa sul mercato an tiquario parigino tra il 2016 e il 2017, poco prima che si desse il «si stampi» a questo volume. La ricomparsa e la rivalutazione di tutti questi profili muliebri do vrebbe finalmente permettere d’imbastire uno studio
comparativo, finora mai tentato, sui loro rapporti con i profili femminili coevi in pittura, da Filippo Lippi ad Alesso Baldovinetti e ai Pollaioli. 7° Della quale dà una rassegna alquanto rappresentati va WOLFE/THOMSEN, Die Wachsbiiste einer Flora cit.
7 Il passaggio del dipinto da un maniero ingle se all’altro, avvenuto nel 1934 0 poco dopo per il matrimonio tra una Morrison di Basildon Park e un Dent-Brocklehurst di Sudeley Castle, non ha
lasciato una traccia vistosa nella bibliografia sto rico/artistica, motivo per cui l’opera è data ancora
stico su questo tema: U. MIDDELDORE, Die 2wòlf
oggi da tutti a Basildon Park (luogo talvolta trasferi. to addirittura negli Stati Uniti). Debbo il recupero
Caesaren von Desiderio da Settignano, in «Mitteilun
della collocazione odierna, in modo un po” casuale
gen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XXIII, 1979, pp. 297/312, poi in ID., Raccolta di scritti cit., vol. III, 1981, pp. 257/269. ? A.P. DARR e B. PrevERr, Donatello, Desiderio da Settignano and his brothers and «macigno» sculpture for a Boni palace in Florence, in «The Burlington Magazine», CXLI, 1999, pp. 7207731.
Efmnotaisi
(dopo che neppure i conservatori di Basildon Park erano riusciti a illuminarmi), all’aiuto di Aldo Gal, li e di Marianna Montagnana. * Sono grato per la foto del Vertumno e Pomona di
Berlino alla gentilezza dell'amico Neville Rowley (Bode Museum). ? Per accennare a due soli elementi significativi: il falsario inglese di metà Ottocento, partendo dai seni
The forging cit., ed. 1974, p.
piccoli, cascanti e un po” adombrati del dipinto di
248 e nota 34 (p. 264); ed. 1980, p. 235 e nota 34
(p. 267). Ha alluso all’opera come a cosa sospetta
Basildon Park, avrebbe dovuto sapere a pennello che in altre figure analoghe della scuola leonardesca,
(escludendo però Fantacchiotti) anche G. GEN
mezze o intere, sparse per il mondo e non ancora
TILINI, in Museo Nazionale del Bargello. Omaggio a Donatello cit., p. 398 e note 32 e 34 (p. 399). Sche
miller (Konigliche Museen zu Berlin. Beschreibung der Bildwerke der christlichen Epochen. Zweite Auflage,
riunite dagli studi, comparivano seni pieni, sodi e sostenuti proprio come quelli della cera berlinese; oppure, avvalendosi della sola veduta frontale of ferta dal dipinto di Basildon Park, sarebbe dovuto riuscire a ricostruire tutta l’acconciatura, così come avviene nella cera.
vol. V, Die italienischen und spanischen Bildwerke der Renaissance und des Barocks in Marmor, Ton, Holz
*° Il fotografo della fig. 63 è Paolo Verzone (Parigi), che ringrazio per avermela generosamente concessa.
"* Pope-HeEnnEssy,
data come dell’«Art des Desiderio da Settignano»
nel primo catalogo berlinese di Frieda Schott
156
Un'’esportazione fraudolenta nel x va secolo PIERRE ROSENBERG
e due serie dei Sacramenti eseguite per Cassiano dal Pozzo e Chantelou sono l’impresa più ambiziosa di Poussin, che dipinse in sette quadri gli atti più
importanti della vita di ogni cristiano, dal Battesimo all’ Estrema Unzione. L'artista colloca i sette episodi nel contesto della Chiesa primitiva, di cui egli tenta di rico struire il dettaglio archeologico con grande precisione. Richardson!, Vleughels? e Reynolds’ sembrano preferire la serie Cassiano a quella successiva di Chantelou. Possiamo limitarci a notare l'eleganza della prima serie, l’austera serietà della seconda, con i suoi gruppi compatti di figure dagli ampi drappeggi, e a citare Bellori o piuttosto Poussin, che, a proposito di Cassiano dal Pozzo, riconosceva di essere «l’allievo del suo museo - il famoso Museo Cartaceo - e
della sua casa». È probabilmente a lui che spetta una parte del merito di quella innovazione iconografica che sono 1 Sacramenti. Se si osservano alcuni precedenti, soprattutto nordici, Poussin dipingendo sette composizioni isolate realizzò un’opera innovativa. Ma la sua originalità non si ferma qui. Invece di ambientare ognuno degli episodi dei Sacramenti nella vita di tutti i giorni e di descriverli come altrettante scene quotidiane (si pensa immediatamente ai celebri dipinti di Crespi conservati a Dresda), l'artista li colloca nel mondo della Chiesa primitiva («la primitiva chiesa» di Bellori), compiendo in qualche maniera un’opera di archeo logia, aiutato in questo dal Museo Cartaceo del suo amico. Poussin si ispira alla vita di Cristo: la Penitenza (la Cena presso Simone il Fari. seo), l'Ordine (il Cristo che consegna le chiavi a san Pietro), l’Eucarestia (l'Ultima Cena), il Battesimo (di Cristo da parte di san Giovanni); a quella della Vergine: il Matrimonio (della Vergine, fig. 1); in due casi, per la Cresima e 1Estrema Unzione (tav. 20), egli si attiene agli avvenimenti liturgici della Chiesa delle origini. Que sta attenzione archeologica - un’archeologia paleocristiana - era in sintonia con le indagini di numerosi letterati romani e si inseriva nelle ricerche del tempo. Non possiamo che ammirare la serietà con la quale Poussin studia i testi e idocumenti di cui dispone, e l’acume della sua trascrizione visiva. L'estrema attenzione presta ta da Poussin all’esattezza archeologica e alle usanze che si conoscevano da alcuni testi (a volte non senza qualche inesattezza*) ha talvolta lasciato perplessi. È parso che questa venisse esercitata a detrimento della sincerità religiosa. Le ricerche di Von Léohneysen e più recentemente quelle della Santucci non hanno dissipato i
19.1
Fig. 1. Nicolas Poussin, Il Matrimonio (Sposalizio della Vergine), c. 1650, Belvoir Castle,
Grantham (Lincolnshire), collezione duca di Rutland. Fig. 2. André de Muynck, Il Matrimonio (Sposalizio della Vergine), 1785, Roma,
Museo di Roma, inv. MR/45721.
158
Fig. 3. André de Muynck, L'Ordine, 1785, Roma, Museo di Roma, inv. MR/45723.
Fig. 4. André de Muynck, La Confessione (Cena in casa del Fariseo), 1785, Roma,
Museo di Roma, inv. MR/45724.
0
dubbi’; ma interrogarci sulle convinzioni religiose di Poussin e sulla natura pro fonda della sua fede ci porterebbe troppo lontano. Non è nostra intenzione porci domande sulle fonti visive o scritte che ispiraro no l’artista, sulla sincerità dei sentimenti religiosi di Poussin o sul suo pensiero morale, sulle sue riflessioni sulla Grazia e sulla santificazione delle anime, sulla
«perfezione dell’ordinamento» e sulla «bella disposizione delle figure» per citare Félibien, primo biografo francese dell’artista, 0, ancora, sul perfetto adeguamento
dello stile al soggetto, bensì dedicarci all’esportazione fraudolenta della prima serie ‘ dei Sacramenti alla fine del xvm secolo. Essa era stata dipinta, tra il 1636 (la data non è sicura) e il 1642, per Cassiano dal
Pozzo, grande devoto del mondo antico di cui si sforzava, grazie a una squadra di artisti, di conservare le testimonianze. Cassiano fu il principale mecenate romano di Poussin. Si ignora chi dei due, se Cassiano o Poussin, abbia avuto l’idea per
il soggetto. Non si sa in quale ordine Poussin dipinse i suoi quadri (né quanto furono pagati). Si sa solo che quando, nel 1640, fu richiamato in Francia, costretto
da Luigi XIII a tornare a Parigi («Les rois ont les mains bien longues»), aveva terminato solo sei quadri. Egli diede l’ultimo tocco al Battesimo, a Parigi, nel 1642
e lo spedì a Cassiano poco prima di tornare a Roma nello stesso anno e per sempre. Gli studiosi non concordano sulla data della commissione. Per Mahon i primi sei quadri sono stati dipinti tra il 1638 e il 1640°. Blunt retrocede la data della conce zione dei primi quadri al 1636 per diverse ragioni, fra le quali una, fragile, dipende da un disegno”, e l’altra, più degna di attenzione, si basa su una nota di Bellori,
secondo il quale Poussin dipinse i Sacramenti «in diversi tempi»®. Egli è stato ge neralmente seguito (Thuillier, Cropper, Brigstocke, Rosenberg), tranne che da Wild, la quale ritiene che i primi quadri possano essere stati dipinti fin dal 1632°. Quanto all’ordine di esecuzione, divide ancora di più coloro che si sono pronun-
ciati al riguardo: Grautoft, Thuillier, Wild, Brigstocke (il redattore del catalogo di Edimburgo del 1981), Wright, Rosenberg, Mérot!®. Siamo convinti che la loro sequenza, che abbiamo proposto nel 1982 e che abbiamo adottato nella mostra del 1994, sarà oggetto di vivaci discussioni. Ma siamo altresì certi che la riunione dei
Sacramenti e dei principali quadri di Poussin degli anni 1635/1642 permetterà di giungere a una conclusione. Cassiano era molto fiero dei numerosi Poussin che possedeva, soprattutto dei Sacramenti, che suscitavano invidia. Quando Chantelou, che ne era geloso, ne volle delle copie, egli gliele rifiutò. Alla sua morte, nel 1657, Cassiano conservava un
insieme unico di opere di un artista con il quale intratteneva legami d’amicizia. Ma i suoi discendenti non provarono lo stesso culto per Poussin. Molto presto, subissati dai debiti e poco interessati alle arti, si disfecero di alcune delle tele dell’artista. Ma conservarono i Sacramenti. Un nipote di Cassiano, Cosimo Antonio
160
dal Pozzo, che viveva a Parigi e che si era considerevolmente indebitato al gioco,
li diede in pegno nel 1721 (per 6000 scudi, una grossa somma"). Nel 1729, un lontano cugino, il marchese Ottavio Rinaldo del Bufalo dal Pozzo, li propose a Luigi XV per il tramite del pittore Nicolas Vleughels, che dirigeva 1’Accademia di Francia a Roma, allora insediata in palazzo Mancini al Corso. Del Bufalo
si ricordava probabilmente dell’attiva politica di acquisti di Luigi XV che, tra il 1665 € il 1693, era entrato in possesso della maggior parte dei Poussin oggi al Louvre (trenta su trentotto, a essere precisi). Ma i tempi erano cambiati. Le finan ze del re erano mediocri (vennero richiesti 8000 scudi, poi ridotti a 7000) e, per il
sommo dispiacere di Vleughels (e per il nostro), il negoziato si arenò. Una delle ragioni dello scacco risiedeva nell’esistenza di una seconda serie dei Sacramenti,
diversa dalla prima, che Poussin aveva intrapreso fin dal suo ritorno a Roma, su
richiesta di Chantelou, il principale mecenate francese dell’artista (insieme a Jean Pointel). Questa serie apparteneva all’inizio del xv secolo ai duchi d'Orléans, le cui collezioni al Palais Royal eguagliavano, pressappoco, quelle del re. Per inciso, Vleughels preferiva i dipinti della serie romana, dipinta «con maggiore sicurezza
nel tratto, [...] con colori migliori, [...] meglio conservati [...]», a dispetto della «negligenza con la quale erano tenuti». Non si sente più parlare dei Sacramenti, in deposito a palazzo Pamphilj fino al 1746", se non dai viaggiatori che, quasi senza eccezioni secondo De Brosses
(1739), all’occasione del loro passaggio a Roma speravano di ammitrarli. In quella data, Sir Robert Walpole, il potente ministro, padre del regime parlamentare bri
tannico (morto nel 1745), li acquistò, ma il papa Benedetto XIV ostacolò la loro esportazione per ragioni di cui ignoriamo 1 dettagli’. Se l’acquisto avesse avuto luogo, è probabile che i Sacramenti oggi apparterrebbero all’Ermitage. Sappiamo, infatti, che il figlio di Sir Robert, Horace Walpole, che seppe ispirare passione a M.me du Deffand, vendette la sua collezione di dipinti a Caterina la Grande (che
li fece immediatamente trasportare a San Pietroburgo, temendo un veto di uscita inglese). I dipinti furono trasferiti a palazzo Boccapaduli nel 1746", oggi piazza Costaguti, e, nel 1756, essi erano sempre in vendita per l'enorme somma di 20.000 scudi romani”. Intorno al 1770/1780, Wellbore Ellis A gar aveva rifiutato di acquistarli
per 1 500 sterline!°. I negoziati ripresero nel 1785 (ma forse già nel 1784). Tre personaggi di spicco vi partecipavano: un architetto-«antiquario» scozzese stabilitosi a Roma (guidava i ricchi inglesi di passaggio), James Byres (17341817), il grande ritrattista inglese Sir Joshua Reynolds (1732/1792), poussinofilo oltranzista, infine Charles, quarto
duca di Rutland, di cui Reynolds era consigliere! Fin dal principio, James Byres, con la complicità dei discendenti dal Pozzo, i
161
Boccapaduli, aveva deciso di far copiare in segreto gli originali e di rimpiazzarli uno a uno con delle copie (figg. 24, tav. 21). Si trattava di fuorviare 1 visitatori, sempre così numerosi, e di ingannare le autorità pontificie (Pio VI). Il prezzo di vendita era stato fissato a 2000 sterline. Reynolds, che trovava i dipinti «very
cheap», spinse il duca a concludere senza troppi indugi: «Poussin certainly ranks amongst the first of the first rank of painters». Il pittore come anche il duca erano perfettamente a conoscenza della sostituzione di copie al posto degli originali. «I have not the least scruple about the sending co pies for originals» scrisse Reynolds, senza veramente tentare di discolparsi e di giu stificare la sua frode. I dipinti arrivarono a Londra il 26 settembre 1786 e Reynolds che, per convincere Rutland, aveva asserito che «such a set of pictures of such an
artist will really and truly enrich the nation», poteva fieramente scrivere: «The Poussins are a real national object. Alcuni giorni piu tardi, dichiarò: «Rome is now much poorer, as England is richer than it was, by this acquisition». I dipinti, che iBoccapaduli non sembravano affatto aver curato!°, restaurati da un
pittore napoletano, Biondi, fecero sensazione. Furono esposti nel 1787 alla Royal Academy (di cui Reynolds era presidente), e presentati a Giorgio III il 27 aprile. Dopo questa data essi furono conservati a Belvoir Castle, Grantham (Lincolnshi re), nella collezione del duca di Rutland. Nel 1816 la Penitenza fu distrutta in un incendio. Nella mostra del 1994 è stata esposta la copia ordinata da Byres, di cui oggi si conosce l’autore, un copista e restauratore belga stabilitosi a Roma, André de Muynck (1737/1813), di cui ci si era assicurati la discrezione per 700 sterline?!
L’interessante è che questa copia conserva la cornice che Cassiano dal Pozzo ave va scelto per l'originale, probabilmente in pieno accordo con Poussin. I duchi inglesi hanno conosciuto e conoscono ancora talvolta delle difficoltà economiche: nel 1939, un discendente del duca di Rutland vendette il Battesimo. Esso appartie.
ne oggi alla National Gallery di Washington, grazie a Samuel H. Kress, perfetto successore del quarto duca di Rutland
che ebbe, anche lui, i suoi Byres e i suoi
Reynolds per consiglieri! Infine, Reynolds, in una lettera del 2 dicembre 1786, ci informa che all’annuncio della partenza dei capolavori, vi fu viva emozione a Roma. Il conte Rezzonico della Torre, che egli incontrò a Londra, si propose di scrivere a suo fratello, segre
tario di Stato, affinché «riprendesse gli ispettori per aver lasciato che questi dipinti lasciassero Roma». E Lady Spencer gli assicurò «che in conseguenza di questa esportazione fraudolenta (smuggling), è mortale tentare di spedire fuori da Roma dei dipinti senza che siano innanzi tutto esaminati». Ancora un'indicazione: la seconda serie dei Sacramenti dipinta per Chantelou (che anche Reynolds giudicava, e a torto, a nostro avviso, inferiore a quella di
Rutland) raggiunse a sua volta l’Inghilterra, sotto la Rivoluzione, con l’insieme
162
della collezione Orléans. Acquistati dal duca di Bridgewater, i Sacramenti Chan
telou sono oggi depositati dal duca di Sutherland, in prestito di lunga durata, alla National Gallery of Scotland a Edimburgo.
Pierre Rosenberg ha accettato che venga ripubbli
CXIV,
cato senza modifiche l’articolo redatto nel 1994 per
Poussin considered, in «The Burlington Magazine», CXXIV, 1982, 9SI, pp. 376/380, in particolare
il catalogo dell’esposizione Intorno a Poussin. Dipinti
romani a confronto. Da allora alcuni nuovi elementi sono venuti a integrare la vicenda: le copie di André de Muynck sono state acquisite dal Museo di Roma
1981, 238, pp. 373/377;
P. ROSENBERG,
pp. 379380; D. WiLp, Nicolas Poussin. Leben Werk
Exkurse, Orell Fussli Verlag, Zurich 1980, nn. 4344, 76, 87/89, 105.
e due tele della prima serie dei Sacramenti sono stati
!0 Oltre ai testi citati nella nota precedente cfr. O.
acquistate dal Museo di Fort Worth (Ordinamento) e da quello di Cambridge (Estrema Unzione). ! ]. RicHARDSON, Traîté de la peinture et de la sculp ture, Amsterdam 1728 (ristampa anastatica Genève
GRAUTOFF, Nicolas Poussin. Sein Werk und sein Le ben, Miinchen-Leipzig, WrIcHT,
Poussin
1914, nn. 92/96, 99; C.
Paintings.
A
catalogue
raissoné,
Harlequin Books, London 1985, nn. 105/111; A.
1972; ed. or. An account of Some of the Statues, Basteliefs, Drawings in Italy, London 1722), p. 315.
MéroT, Poussin, Hazan, Paris 1990, nn. 103/108.
? Citato in A. DE MONTAIGLON e J. GUIFFREY,
sin in the Dal Pozzo collection: three new inventories, in «The Burlington Magazine», CXX.X, 1988, 1029,
! Cfr. J. STANDRING, Some pictures by Nicolas Pous
Correspondance des directeurs de l’Académie de France è Rome avec les surintendants des Batiments, 1729/1733, vol. VII, Paris 1898, p. 48.
pp. 608/626, in particolare p. 615, e D. SPARTI, Le collezioni Dal Pozzo. Storia di una famiglia e del suo mu
ì Citato in EW. HILLEs, Letters of Sir Joshua Rey
Poussin's Sacraments, in Poussin Sacraments and Bac
seo nella Roma seicentesca, Franco Cosimo Panini, Modena 1992. 1° SpARTI, Le collezioni Dal Pozzo cit. 4 W.T. WwHiTLEy, Artists and their friends in England,
chanals. Paintings and Drawings on sacred and profane Themes by Nicolas Poussin 15941665, catalogo della mostra (Edimburgo, National Gallery of Scotland,
17001799, London 1928, vol. II, p. 75. 4 Cfr. M BeviLACQUA, Architettura come elemento di distinzione nobiliare nella Roma della prima metà del
16 ottobre - 13 dicembre), Trustees of the National
Galleries of Scotland, Edinburgh 1981, pp. 63/67.
Settecento: la costruzione del palazzo dei Boccapaduli, in «Ricerche di Storia dell’ Arte», XXXIII, 1987, pp.
° H.W. von LÒHNEvsEN, Die ikonographischen und geistesgeschichtlichen Voraussetzungen der Sieben Sa kramente des Nicolas Poussin, in «Zeitschrift fir
9I/I01I. Lettera inedita di Johannes Wiedewelt a Wasser schlebe conservata all’ Archivio Reale di Copena
Religions und Geistesgeschichte», IV, 1952, 2, pp. 133/150; P. SANTUCCI, Tradizione ermetica e classici smo gesuita, Edizioni 10/17, Salerno 1985.
ghen, comunicazione di Sorensen.
° D. MAHON, Poussiniana. Afterthoughts arising from
for the English visitors to Rome, in «A pollo», XCIX,
nolds, Cambridge 1929, p. 162.
4 Cfr. in particolare N. GENDLE, The Iconography of
!‘° HiLLEs, Letters cit., p. 164.
! Cfr. B. ForD, James Bytes, principal Antiquarian
the exhibition, in «Gazette des Beaux-Arts», s. 6, LX,
1974, 148, pp. 446/461.
1962, pp. 1138.
!# Se ne conoscono i dettagli grazie alla corrispon
? Cfr. Nicolas Poussin, a cura di P. Rosenberg e L.
denza di Reynolds, cfr. HiLLEs, Letters cit., pp.
A. Prat, catalogo della mostra (Parigi, Grand Pa
125/127,
lais, 27 novembre 1994
cfr. anche J. ByRes, Letters, in Historical Manuscript
2 gennaio 1995), Réunion
1I4$,
I$6-/I166,
I69,
172/173,
1757177;
des Musées Nationaux, Paris 1994, pp. 232/233.
Commission.
8 A. BLUNT,
Nicolas Poussin, Phaidon-Pantheon
The Manuscripts of his Grace the Duke of Rutland pre
Books, London/New York 1967, vol. II, pp. 154
served at Belvoir Castle, vol. III, 1894, e HiLLEs, Let ters cit., vol. II, pp. 75779. ! HiLLEs, Letters cit., p. 160. ® Archivio Storico Capitolino, archivio Boccapa duli, mazzo suppl. IV, I, n. 14a; comunicazione di Mario Bevilacqua e Olivier Michel.
156.
? Cfr. J. THUILLIER, Poussin, Edizioni per il Club del libro, Novara 1969, pp. 59/61, 119-120; H. BRIGSTOGKE, Nicolas Poussin and Cassiano dal Pozzo: a study of the Seven Holy Sacraments, in «A pollo»,
163
14th Annual Report, Appendix, Part 1.
Il Falsario di Gravedona ANDREA G. DE MARCHI
{[S vicenda che segue sottolinea quanto sia inevitabile il rischio di commettere errori, anche da parte di chi abbia gli strumenti utili al proprio settore di ricerca. La cosa vale anche per la storia dell’arte, dove sono i conoscitori a essere
fisiologicamente più esposti a fare fiasco, giacché il loro esame tende a precedere le altre analisi dell’opera d’arte. Il loro lavoro ricorda la diagnostica del medico clinico, specialità che, guarda caso, aveva il padre di Federico Zeri. Ma, se la scienza procede con ipotesi e verifiche, riuscendo a sfruttare positivamente gli inevitabili fallimenti, nella storia dell’arte si tende a non ammettere smentite.
Ad esempio, non uno dei tanti convegni della disciplina è stato mai dedicato al tema dei propri sbagli, argomento che invece ritorna in molte riunioni scientifiche.
Una prospettiva, se possibile, ancora più apodittica domina il restauro, dove si rilevano danni da lavorazione soltanto quando li si possono imputare a epoche remote oppure a qualche avversario. Offre l'occasione per discutere di questo mondo artificialmente perfetto e di altri temi il caso rivelatore di un falsario finora rimasto ignoto e dei suoi prodotti. Vediamo i fatti. Oltre due anni fa in un palazzo principesco di Roma si svolge va una cena riservata a studiosi e collezionisti. Fra le pitture appese alle pareti e destinate poi a venire vendute all’asta troneggiava un grande mezzobusto (158 x 158 cm), eseguito su intonaco e circondato da brani monocromi, culminanti in teste circondate da medaglioni. Veniva presentato come affresco staccato del Ri nascimento, autografo di Nicola Filotesio, detto Cola dell’ A matrice, e addirittura
quale suo probabile autoritratto (tav. 22)). La «patente» e la natura stessa dell’oggetto mi suonarono subito balordi. Non convinceva l'impianto complessivo della sgangherata composizione, né alcuni dettagli, come un piccolo profilo in un tondo, evidentemente tratto dal Caracalla
tipo Kassel. Sennonché il pesante sospetto non sfiorava il resto degli invitati, in maggioranza più impegnati nella masticazione. Sebbene da costoro ci si potesse aspettare una maggiore curiosità riguardo alla strana pittura, l’episodio non indica la speciale responsabilità di qualche singolo. Semmai sottolinea come esistano sempre meno studiosi in grado di esprimersi su panorami storici vasti, apertura che tende a distinguere il conoscitore dallo specia. lista. Il caso evidenzia come il diftuso deficit formativo sulla connoisseurship sia par
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ticolarmente grave a Roma. La città, che dal xv secolo è stata culla di una glorio. sa tradizione di conoscitori, nel corso del secondo Novecento ha visto l'abbandono
di quel fondamentale approccio negli uffici ministeriali e poi nell'ambiente univer sitario. Se i locali caposcuola, rimasti in sella dopo la caduta del fascismo, furono
quasi privi di quei rudimenti indispensabili allo storico dell’arte, la loro avversione alla connoisseurship dipendeva anche da altro. Oltre che riflettere le solite beghe legate alla spartizione delle cattedre, quell’atteggiamento risentiva di un’ostilità cresciuta a livello internazionale nei confronti dei conoscitori, accusati, seppure quasi mai esplicitamente, di essersi venduti al mercato.
1
Fra le due guerre aveva anticipato quel sentimento un fine intellettuale come Aldous Huxley, che nel 1921 sbeffeggiava Bernard Berenson, ben riconoscibile in un per
sonaggio intento a vendere ad americani opere assegnate a «Taddeo di Poggibonsi, (a) un Amico di Taddeo, insieme a quattro o cinque anonimi senesi». Lo scrittore, attraverso altre figure della sua narrativa, sembra deridere ancora lo studioso, come
qualcuno intento a esibire un amore ideale per l’arte e a nascondere quello crudo per il denaro. Dal dopoguerra la condanna si diffuse, contribuendo al crollo delle posizioni di Contini Bonacossi (e di Roberto Longhi) negli Stati Uniti, o all’eli. minazione nel 1948 del sottotitolo/dedica for connoisseurs dalla maggiore rivista scien tifica del mondo, «The Burlington Magazine». Ma se quello stigma era giustificato in parte da effettive scorrettezze, esso fu comunque inaccettabilmente sommario €,
soprattutto, non apportò alcuna moralizzazione nel mondo su cui pretendeva di in tervenire. In realtà il nuovo orientamento riprendeva un’antica e balorda condanna del rapporto fra denaro e arte. Si pretendeva che la seconda vivesse di puro spirito, restando fuori dal mondo. L’assunto è stato poi ideologicamente aggiornato e viene ancora spacciato per buono. Tornando alla nostra cena, i sospetti circa la genuinità del pezzo furono bisbi gliati con discrezione a chi aveva proposto l’invito. Ma la reazione alla notizia fu seccata e insofferente, come spesso succede in simili casi. Venne rivendicata
la certificazione di corredo al dipinto. Alessandro Marabottini Marabotti l’aveva pubblicato nel primo numero dei «Nuovi Commentati», dei quali avrebbe poi guidato la redazione. Lo studioso aveva proposto di assegnare l’intonaco dipinto al capriccioso pittore di Amatrice, insieme a un altro pezzo tecnicamente simile che allora l’accompagnava: una Centauromachia poi venduta presso la casa d'asta Babuino (fig. 1). Marabottini scriveva di aver visto le opere in questione anni prima presso taluni suoi amici, i quali gli avevano raccontato che esse, insieme a un terzo pseudo murale affine, erano loro pervenute da un palazzo di Città di Ca
stello. Quei proprietari paiono aver partecipato all’inganno, poiché la provenienza sembra deliberatamente inventata. Va aggiunto che il dossier raccolto nel frattempo su questo falsario contiene ancora
166
Fig. 1. Falsario di Gravedona, Centauromachia, intonaco.
Fig. 2. Falsario di Gravedona, Due condottieri, intonaco. Fig. 3. Falsario di Gravedona, Condottiero, intonaco.
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altre due battaglie di centauri, perfettamente accostabili a quella appena evocata. Sono evidentemente di questo stesso contraffattore anche Due guerrieri, apparsi sui mercati di Londra (Phillip’s 2 gennaio 1997, n. 79) e Roma, corredati di perizie
a firme importanti, che rimandavano a Giulio Romano (fig. 2)). Subito dopo il primo incontro serale col falso Autoritratto di Cola ripassai il ci. tato fascicolo raccolto su questo falsario. E lo scrutinio portò a una conferma immediata dei dubbi iniziali, che chiariva definitivamente la natura del pezzo. Ma
l'indomani nessuno degli addetti coinvolti volle ascoltare le sopravvenute certez ze sul finto Cola. Dopo qualche giorno, tuttavia, Patteggiamento cambiò. La pittura venne ritirata dalla vendita, perché nel frattempo un altro esperto l’aveva dichiarata fasulla, sebbene l’attribuisse in modo inesatto al cosiddetto «Falsario in Calcinaccio», entità battezzata da Zeri e talvolta identificata nel senese Umberto
Giunti. Il nostro preteso lacerto staccato, invece, rassomiglia indiscutibilmente ad altri si. mili prodotti riconducibili a un contraffattore attivo a Gravedona (Como), la cui vedova aveva scritto a Zeri nel 1996 una lettera dai contorni poco chiari, che lo
studioso giudicò ricattatori. La donna confessava di avere ingannato mercanti ed esperti, complice del marito, a partire dal 1990, ma di essersi poi trovata comunque in difficoltà economiche. Il testo era corredato da parecchio materiale illustra. tivo, fra cui la figura su intonaco di un cefto pseudo rinascimentale, similissima al personaggio dipinto visto alla cena e compresa in una serie dall’intonazione vagamente viscontea (fig. 3). Lo stile di questo imitatore è riconoscibile e non molto vario. Rappresenta sempre corpi gonfi, fino a risultare massicci, con accenti quasi littori. Ha parafrasato modelli gotici senesi e del Rinascimento, senza tuttavia limitarsi a copiarli, né a creare
combinazioni in forma di patchwork. Se le notizie riferite dalla vedova fossero tutte vere, esse porterebbero datare l’attività fraudolenta del marito fra il 1990 e il 1996.
Ma è imprudente fidarsi troppo delle confessioni dei falsari e dei loro complici. Alessandro Marabottini Marabotti, scomparso da qualche tempo, lo conoscevo
da sempre. Era stato cacciato da tutte le scuole pubbliche del regime fascista insie me a mio padre e a mio zio, lui perché ebreo (sebbene la madre fosse convertita),
loro per attività antifasciste. Si ritrovarono a Firenze al liceo degli Scolopi. Sebbe ne l’antico rapporto con Sandro non abbia prodotto un’amicizia stretta, né io ab bia amato troppo i suoi toni professorali, accompagnati da una facciata «buonista» e liberal, resta il fatto che egli fu un buon conoscitore e un ottimo studioso. Il suo
abbaglio non deve quindi fornire pretesti a giudizi di carattere personale, quanto servire da ammonimento a tutti. Tanto più, ovviamente, nel caso in cui qualcuno si assuma il rischio di fornire un primo parere critico su un’opera «vergine».
168
Merita notare, infine, come il finto autoritratto di Cola echeggi, forse non troppo
casualmente, quello vero di Luca Signorelli a Orvieto. Ossia la «tegola» ingiustamente screditata da Roberto Longhi, con il probabile obbiettivo di vendicarsi
e ridicolizzare Mario Salmi, che gli era stato preferito per l'assegnazione della cat. tedra universitaria romana. Se quella scelta aveva suscitato l'indignazione perfino del maggior rivale di Longhi, ossia Berenson, essa determinò comunque la futura «geografia» accademica italiana. La spartizione del potere fra le varie brigate finì addirittura per orientare la ricerca, lasciando Roma nelle mani di studiosi quasi incapaci di analisi formale, giudicata un'attività pressoché sospetta. Una strana relazione sotterranea sembra ricollegare quell'evento a questo incidente, di cui è stato protagonista proprio un allievo di Salmi, quale fu Marabottini.
Falso nel disegno: il caso di Egisto Rossi SIMONETTA PRroSsPERI VALENTI RODINÒ
nche nel campo del disegno l’esigenza di riprodurre opere d’arte partico larmente ammirate, studiate e ricercate, realizzate da grandi maestri d’ogni
epoca, ha determinato il vasto fenomeno della produzione di copie, imitazioni e falsi, iniziato già dalla metà del Cinquecento e divenuto sempre più rilevante sino ai nostri giorni!. Questo fenomeno offre elementi preziosi per la conoscenza del livello di cultura artistica di un’epoca e dei suoi orientamenti critici, riassumendo
in sé la testimonianza della predilezione del gusto e della moda del tempo in cui fu prodotta. Copie disegnate, falsi e imitazioni di disegni si legano perciò strettamente alla storia del gusto e allo sviluppo del collezionismo, con evidenti riflessi nel mercato dell’arte; infatti collezionismo e mercato hanno sollecitato spesso la riproduzione di originali. La copia disegnata di un’opera d’arte a fini didattici e di documentazione storica è stata una delle prassi più diffuse dal Cinquecento in poi, esercitata sia nelle bot teghe di artisti sia nelle accademie, quando il disegno assunse una valenza critica indiscussa. Ma la copia realizzata in tal senso, quando la riproduzione grafica manteneva comunque un valore autonomo e l’autore copista si differenziava so stanzialmente dall’autore copiato (quali celebri esempi di copie per motivi di stu dio citiamo 1 ben noti disegni di Michelangelo da alcune figure degli affreschi di Giotto nella cappella Peruzzi a Santa Croce e dalla perduta Sagra del Carmine di Masaccio?, oppure i numerosi studi di Rubens da Correggio, Tiziano, Miche
langelo, Raffaello e Polidoro da Caravaggio, realizzati dal pittore nei suoi anni giovanili in Italia)?, esula dalla nostra indagine, e preferiamo lasciarla da parte per dedicarci invece a focalizzare il più intrigante sviluppo del fenomeno del falso. La differenza concettuale tra copia, falso e imitazione nel disegno consiste non tanto nella specificità del modo di riprodurre gli originali, quanto nell’intenzio nalità con cui sono realizzate le repliche. Infatti, se la copia si limita a riprodurre un’opera solo al fine di documentazione storica, di studio o per diletto dell’artista
o del committente, l'imitazione e il falso invece, pur essendo talvolta determinati dalle stesse motivazioni culturali, tendono più o meno intenzionalmente a trarre in inganno conoscitori e collezionisti, con gravi conseguenze nel caso della loro eventuale immissione nel mercato antiquario.
Ag
Nell’esecuzione di falsi o imitazioni nel campo del disegno va peraltro operata un'attenta distinzione. La contraffazione, operata dal vero falsario, si basa sulla ripresa pedissequa dello stile e della tecnica, nonché sull’utilizzo di materiali anti chi con l’intento di trarre in inganno il fruitore o l'acquirente in merito all’autore,
epoca e consistenza materiale dell’opera stessa, operando quindi con dolo (è questo l’argomento che qui affronteremo, fenomeno di vastissima entità). L’imitazione si limita invece alla ripresa dell’aspetto formale/figurativo di un di segno, cioè alla contraffazione stilistica, utilizzando però supporti e materiali della propria epoca. Uno dei casi più interessanti di tale tipologia sono gli studi di nudi e di particolari anatomici realizzati da Bartolomeo Passarotti (1529/1592) nella più stretta imitazione dello stile di Michelangelo, come il celebre studio di mano oggi al Louvre (fig. 1), così michelangiolesco nello stile da ingannare persino PierreJean Mariette, il più grande conoscitore di disegni del Settecento, che lo conservava nella sua raccolta come originale del Buonarroti e come tale lo fece incidere dal suo amico Caylus*. Il risultato che scaturiva dall’imitare era una sorta di reinterpretazione di un dise gno d la manière de, abile divertissement spesso motivato dal desiderio di dimostrare l’abilità dell’autore: tra i casi più noti citiamo quello di Reynolds che imitava fogli di Guercino, o di Francesco Bartolozzi che tradusse in incisione i ritratti disegnati di Holbein, inserendosi a pieno nel fenomeno dell’imitation of drawings che caratterizzò la cultura figurativa europea nel xvm e xIx secolo, in particolare in Inghilterra). Ma colui che imita o reinterpreta un disegno originale, limitandosi spesso a ri prendere solo stile e tecnica, non rientra nella categoria di falsario. Il falsario vero
e proprio è colui che non solo imita ma contraftà disegni con l’intento di dolo. Imitatori e falsari nacquero assai presto, già nella metà del xvi secolo, e operaro. no proprio negli ambienti di maggior cultura, tra eruditi archeologi, umanisti e connaisseurs, che, spinti dalla bramosia di possedere, creavano per proprio diletto
nuovi originali quando non potevano possedere il prototipo. Questi abili conosci tori davano un'importanza notevole alle prove di abilità mimetica, al punto che la storiografia artistica dell’epoca considerava prova di grande talento da parte di un autore un’imitazione che riuscisse a trarre in inganno il giudizio di pubblico e conoscitori. È celebre il caso, narrato da Condivi, di Michelangelo giovane che imitò così bene una testa del suo maestro Ghirlandaio, forse disegnata, da trarre in
inganno committente e maestro”. Il fenomeno della falsificazione dei disegni inizia in Italia già nel xvi secolo, incre
mentato dalle richieste sempre più pressanti del collezionismo nascente di grafica, che puntava ad avere fogli originali dei «grandi maestri», Michelangelo e Raffa, ello in particolare, le cui qualità di grandi disegnatori erano state codificate anche 172
dalla storiografia contemporanea, a cominciare da Vasari. Artisti, collezionisti
e mercato richiedevano sempre più numerosi disegni autografi dei grandi artisti scomparsi e, in mancanza di originali, si provvedeva a sostituirli con falsi, senza troppi scrupoli, e con chiaro intento doloso.
L’episodio più noto, e il primo in ordine di tempo, citato dalle fonti di tale legame tra falso e commercio di disegni è quello narrato da Malvasia nella vita del pittore Denis Calvaert (154021619), ai danni del cardinale Ippolito d'Este, noto e ac corto collezionista di antichità oltre che di grafica”: «Mostrandogli con suo gran ristoro e contento la superbissima raccolta de’ disegni di tutti i più valenti maestri d’ogni scuola, non solo seppe Dionisio conoscerne tutti gli autori, ma giunti ad un nudo di Michelangelo di que’ del Giudizio e a due figure di quelle di Rafa. ello nella Scuola d’Atene, l’avvertì non essere originali, ma da lui fatti e copiati dall’opre medesime, ancorché in qualche luogo mutati, così comandatogli da un tal Pomponio, che gli l'aveva commessi; e che per l'appunto era stato quello, che
affumicata poi quella carta e fattala venir logora a loco a loco, gli avea venduti per originali al Cardinale». È la nascita del falso, senza attenuanti culturali o artistiche, che risponde alle leggi economiche del mercato proprie del mondo moderno, secondo un copione che vede il mercante come l’imbroglione, che inganna sia l’artista-copista che il col lezionista. In un’altra occasione Malvasia cita anche un certo Sebastiano Brunetti, allievo
di Lucio Massari e poi di Reni, che «per il suo bel modo di disegnare, col quale ingannò più volte i più esperti, contrafacendo disegni antichi, che comprati da sensali, n’ammorbarono poscia una quantità di studii anche più insigni»È. Il fenomeno acquista dimensioni sempre più evidenti nel corso dei secoli xVII e xv in Italia, Francia e Inghilterra, quando si assiste al proliferare di falsi o imita zioni di disegni di artisti che avevano goduto di grande successo critico e commer, ciale, ed erano perciò particolarmente ricercati dai collezionisti italiani e stranieri. Un caso emblematico è quello dei disegni del genovese Luca Cambiaso (1527 1585), artista assai meno noto sin dall’antichità per la sua attività pittorica rispetto a quella grafica. Cambiaso conobbe infatti un incredibile successo per i suoi dise gni, caratterizzati da un segno largo e filante e dalle sagome geometrizzanti, quasi pre-cubiste, di molte figure. Le tante repliche da suoi disegni autografi, che invasero il mercato europeo del Sei e Settecento, hanno fatto avanzare motivati dubbi sul fatto che si trattasse solo di esercitazioni di studio nate nell’ambito della sua fre quentatissima bottega: è più probabile che anche in questo caso, per far fronte alle richieste dei collezionisti, nel corso del xvnI secolo, si sia ovviato alla carenza degli originali producendo imitazioni o falsi veri e propri, come provano le numerose
composizioni a lui riferite sparse in musei e collezioni, eseguite da imitatori. Tra i
(0)
molti esempi ancora anonimi, presentiamo questa bella composizione raffigurante Allegoria della Carità, derivata da un originale di Cambiaso di recente apparsa sul 1°’ mercato, realizzata verso la fine del xvi secolo forse da G.B. Prestel (1739/1808)? (fig. 3). Un caso altrettanto clamoroso fu quello del falsario dei disegni di Raffaello, sco. perto da Fischel nel 1913 nel vasto catalogo di copie e imitazioni dal maestro, e da
lui definito Calligraphic Forger. Nell’attività di questo curioso falsario lo studioso tedesco evidenziò due aspetti essenziali. Il primo era la fedeltà con la quale questo disegnatore aveva copiato i disegni originali di Raffaello, quasi falsificandoli (da qui l’appellativo di «forger»), utilizzando per le sue copie lo stesso medium che era stato adottato nel disegno originale. Il secondo e più intrigante aspetto è che l’anonimo copista in più di un’occasione era stato in grado di riprodurre disegni da composizioni di Raffaello perdute o documentate da stampe recanti l’invenit
del maestro urbinate, delle quali rimangono tracce in altri studi autografi: si veda il Baccanale ora al British Museum (fig. 4), attribuito al Forger da Philip Pouncey e John Gere!°, che documenta il disegno perduto di Raftaello preparatorio per la stampa di Agostino Veneziano (c. 1520). I fogli erano tutti caratterizzati dalla stessa tecnica (un uso fluido e corsivo della penna e dell’inchiostro bruno) e da uno stile comune nel tratto lieve della penna. Pouncey e Gere intuirono che la maggior parte delle copie eseguite dall’anoni. mo disegnatore erano tratte da disegni di Raffaello provenienti dalla collezione Viu/Antaldi: tale raccolta, costituita dal pittore Timoteo Viti, collaboratore di
Raffaello, era conservata in gran parte fino ai primi dell'Ottocento presso gli eredi dei Viti, i marchesi Antaldi a Pesaro, e fu dispersa in due principali vendite, la prima al banchiere francese Pierre Crozat nel 1714 e l’altra al mercante inglese
Samuel Woodburn nel 1824". Il copista, quindi, aveva avuto accesso ai disegni raffaelleschi che erano in quella collezione. Nel gruppo di questo falsario si possono individuare varie tipologie: rielabora. zioni interpretative e copie fedeli dai disegni esistenti di Raffaello e Timoteo Viti; copie da disegni perduti dei due artisti, e infine - caso più affascinante per le sue implicazioni riguardo i modelli copiati e la loro comune provenienza - copie di vari gruppi derivati da disegni diversi di Raffaello, assemblate su uno stesso foglio come in un pastiche (si veda il foglio del Louvre con gruppi vari di Madonna col Bambino), forse tutti originariamente conservati nella stessa raccolta, come indivi duato da Furio Rinaldi". Ma chi era questo falsario? Il problema più interessante, infatti, è individuare
l’identità del Forger, a tutt'oggi ancora sconosciuta: inizialmente Fischel pensò allo stesso Viti o a un disegnatore inglese del Settecento, mentre Pouncey e Gere pen sarono, con più probabilità, a un artista marchigiano del Seicento, forse Ippolito
4
Za
Fig. 1. Bartolomeo Passarotti, già attribuito a Michelangelo, Studio di mano, Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 717. Fig. 2. Falsario del Guercino, Paesaggio, Roma, Istituto Nazionale per la Grafica.
Fig. 3. G.B. Prestel, da Luca Cambiaso, Allegoria della Carità, collezione privata. Fig. 4. Calligrafic Forger, da Raffaello, Baccanale, Londra, British Museum, Prints and Drawings Department, inv. 1946/7/13-502.
5
Rombaldoni (1619/1679), il quale poté aver accesso alla raccolta Viti A.ntaldi a Pesaro se copiò e riassemblò disegni presenti in quella raccolta". Non meno di Raffaello, anche Leonardo, la cui riscoperta critica avvenne intorno alla metà del Seicento, conobbe nel Settecento una grande fortuna nell’imitazione
dei suoi disegni. Il caso più clamoroso si riscontra nel catalogo delle sue cosiddette «caricature», di cui proprio all’inizio del xv
secolo si venivano apprezzando i
nessi con la fisiognomica e l’introspezione psicologica: mentre Mariette curava a Parigi la riproduzione incisa di una serie di queste «teste caricate», insieme al
suo amico conte di Caylus, a Roma il gran collezionista cardinale Silvio Valenti Gonzaga acquistava sul mercato olandese ad Amsterdam nel 1756 un altro codice
con studi analoghi, che si sono rivelati alle indagini critiche odierne quali copie di originali perduti o forse solo imitazioni immesse quali autografi sul mercato europeo", che li richiedeva con insistenza. i Analoga fu la sorte di un altro grande disegnatore del Seicento italiano, Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino (1591/1666), i disegni del quale riscossero un successo incredibile quando l’artista era ancora in vita. Alla di lui morte, gli eredi Gennari si arricchirono vendendo i fogli dell’artista in loro possesso, ma una volta esauriti gli originali, la grande richiesta del mercato di ulteriori disegni del pittore determinò un fenomeno veramente unico. Nei primi decenni del Set tecento si assiste al proliferare di una vasta produzione grafica di rielaborazioni o pastiches liberamente ispirati ai disegni del Guercino, che riprendevano i soggetti che avevano riscosso maggior successo di pubblico e mercato (paesaggi e mezze figure), da parte di un falsario solo di recente messo a fuoco dagli studi di Prisco Bagni”. L’equivoco sopravvive ancora, se in molte collezioni pubbliche e private si conservano disegni di paesaggio del falsario ancora attribuiti al Guercino, come ad esempio questo studio conservato all’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma (fig. 4), realizzati a penna per emulazione del maestro, ma che a un più attento esame si rivelano lontani dalla suggestione poetica degli originali. A partire dalla fine del Settecento e per tutto l’Ottocento la produzione di falsi nei disegni diventa un fenomeno incontrollato, che deve rispondere sempre più alle esigenze di un pubblico e di un mercato di raccoglitori, collezionisti e amatori in crescente aumento e sempre più orientati verso i disegni italiani. In questi anni la riscoperta dei «primitivi» da parte di studiosi francesi e tedeschi, di quegli artisti cioè attivi nel Medioevo, seguaci di Giotto, e comunque operosi prima di Raffa.
ello, incrementava la ricerca di disegni italiani antichi, materiale assai raro e già allora disperso, del quale si produssero numerose falsificazioni. In generale il falsa rio dell'Ottocento, proprio per il suo manifesto intento di dolo, conserva perlopiù l'anonimato, ma si specializza nell’uso di materiali e tecniche proprie dell’autore e dell’epoca che vuol contraffare, creando non poche difficoltà tra i critici contem
176
poranei e successivi nella distinzione tra falsi e originali. La critica non ha ancora stabilito se il pittore milanese Giuseppe Bossi (1777/1815), avido raccoglitore di disegni antichi di Leonardo e Raffaello in particolare, abbia inserito nella sua pregevole raccolta copie con intento di dolo o si sia limitato a rielaborare antichi originali!. È ancora problema aperto se sia originale di scuola umbra di primo Cinquecento il celebre Taccuino di disegni di Raffaello, gemma della sua raccolta oggi confluita nelle Gallerie dell’ Accademia di Venezia, da lui avventurosamente rintracciato presso un prete ignaro di possedere un tale tesoro, come rivela lui stesso nella sua autobiografia (un fopos ricorrente per garantire una provenienza accredi. tata, in quanto ecclesiastica, per opere di dubbia origine), oppure se si tratti di una
perfetta imitazione di un artista di primo Ottocento interessato all’arte preraffael lita (sappiamo che Federico Zeri era molto convinto che si trattasse di un «falso storico», ma fu sempre osteggiato dalla critica tedesca, che invece con gli studi di Fischel e poi di Silvia Ferino ne hanno consacrato l’attribuzione alla bottega del giovane Raffaello quale originale dell’inizio del xvi secolo)”. Tra 1 numerosi falsari attivi nell'Ottocento, e non solo in Italia, molti dei quali ancora anonimi, vale la pena di citarne almeno uno, ormai evidenziato dalla criti.
ca, i cui falsi coevi si trovano nelle cartelle delle più prestigiose collezioni italiane, quali il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi a Firenze e l’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma, e straniere: si tratta dello scultore fiorentino Egisto Rossi (1824/251899), interessante protagonista tra i falsari del disegno in Italia, attivo in particolare a Firenze tra la seconda metà e la fine del xrx secolo. Artista lui stesso,
scultore, allievo a Firenze di Bartolini, è noto oggi, dopo l’attenta ricostruzione di Roberta Olson!, non tanto per la sua attività artistica, quanto per quella di falsa. rio di disegni. La sua caratteristica più evidente, e unica in questo genere, è stata quella di falsificatore di disegni di scultori contemporanei, tanto che, grazie a tale specificità, gli è stato riconosciuto almeno il merito di aver avviato per primo la valorizzazione dei disegni degli scultori italiani dell'Ottocento. Seguendo la moda del tempo, Rossi realizzò numerosi falsi di disegni fiorentini del tardo Quattrocento e primo Cinquecento (non dobbiamo dimenticare che quelli sono gli anni della piena rivalutazione del disegno toscano del Rinascimento negli studi anglosassoni, da parte di personalità quali Bernard Berenson, ad esempio), tutti facilmente individuabili in quanto contraffazioni 0 copie vere e proprie: se appartiene a quest’ultima categoria il Profilo d'uomo desunto da Leonardo (fig. 5, peraltro da lui firmato Egisto Rossi), sono invece grossolane imitazioni gli studi di Madonne e di figure che egli riferisce con scritte nientemeno che a Desiderio da Settignano, Raffaello, Bandinelli e Andrea del Sarto!?.
Molto più frequenti invece, e assai più difficili da individuare, sono gli studi da lui eseguiti a imitazione di scultori contemporanei, quali Canova, Thorvaldsen, Bar
su
Fig. s. Egisto Rossi, da Leonardo, Testa virile di profilo,
È
collezione privata.
Fig. 6. Egisto Rossi, da Canova, È S
Schizzo per la Paolina Borghese, collezione privata.
tolini e altri: Rossi doveva avere una conoscenza approfondita della grafica degli scultori italiani di primo Ottocento, perché nei suoi falsi non solo imita la tecnica
di questi artisti (per Canova, ad esempio, la matita nera, per Bartolini la penna a inchiostro blu ecc.), ma ne riprende i soggetti. Per quanto riguarda Canova, è facilmente riconoscibile una contraffazione di uno studio del grande scultore in questo abbozzo per la Paolina Bonaparte (fig. 6), la celebre statua oggi nella Galleria Borghese, in cui il falsario riprende tecnica e soggetto, senza raggiungere l’asciuttezza delle forme e la sintesi classica proprie allo schizzo autografo dello scultore conservato a Possagno”. Egisto Rossi ha eseguito numerosi altri studi, da lui riferiti al Canova con scritte apposte sui fogli, che riprendono tematiche care al grande scultore: bassorilievi, statue, fregi con figure classiche, suonatori antichi danzanti, spesso desunte da statue esistenti, il che ha
tratto in inganno più di uno specialista. È il caso di questo schizzo per il monumento a Ferdinando IV di Borbone (figg. 9/10), che riprende alla lettera la grande statua dello scultore posta all’interno del Museo Archeologico di Napoli, come ambiguamente scrive lo stesso Rossi sul foglio". Anche Bertel Thorvaldsen, il noto scultore danese contemporaneo di Canova, non fu esente dalle falsificazioni
di Rossi, che ripropose nei suoi schizzi i caratteristici fregi scolpiti dall’artista con figure all’antica classicheggianti, popolati da Ninfe, A pollo e le Muse, Mercurio citaredo. Sorte analoga subirono anche i meno noti scultori fiorentini Luigi Pampaloni e Pio Fedi, ma fu soprattutto il suo maestro Lorenzo Bartolini vittima delle falsifica. zioni di Rossi. Di Bartolini, infatti, egli non imitò soltanto stile e tecnica, in fogli
caratterizzati da un segno a penna sintetico, a inchiostro blu, ma eseguì vari studi in relazione a opere realizzate dal maestro, con il chiaro intento di ingannare il conoscitore: è il caso dei numerosi schizzi per il monumento al principe russo Nicola Demidoff, l’opera più nota di Bartolini, commissionata dai due figli del principe defunto nel 1828 e lasciata incompiuta alla morte dell’artista, cui furono apportate
continue modifiche sino al 1871, quando il monumento trovò la sua giusta collo cazione nella piazzetta Demidoft in Lungarno Serristori a Firenze. Egisto Rossi eseguì un’ampia serie di studi, alcuni ancora oggi attribuiti a Bartolini nelle citate raccolte di Firenze e di Roma”, attraverso i quali ripercorre l’evoluzione del mae
stro nella lunga ideazione del monumento. Un’inedita serie di studi in collezione privata aggiunge alcuni tasselli a questa vicenda di falsi d’autore: in un primo schizzo (figg. 7/8) Rossi mette a fuoco l’intero monumento, con alzato e pianta, per passare poi con altri studi alla definizione dei vari gruppi, di Demidoff seduto
in alto e delle varie allegorie scolpite nei quattro angoli nel registro inferiore: Amore materno (fig. 11), forse la Fede o piuttosto un’allegoria civile, più adatta all’icono grafia scelta, e infine un primo studio della Natura che si rivela all'arte (fig. 12), altra
e
Fig. 7. Luigi Bartolini, Monumento al principe russo Nicola Demidoff, Firenze.
Fig. 8. Egisto Rossi, Studio per alzato e pianta del monumento Demidoff, collezione privata. Fig. 9. Egisto Rossi, Schizzo per il monumento a Ferdinando IV di Borbone, collezione privata. Fig. 10. Antonio Canova, Monumento a Ferdinando IV
di Borbone, Napoli, Museo Archeologico. Fig. 11. Egisto Rossi, Amore materno 0 Fede, collezione privata.
Fig. 12. Egisto Rossi, Natura che si rivela all'arte, collezione privata.
180
181
allegoria replicata in molti studi divisi tra Firenze e Roma, considerati autografi di Bartolini. Militando nella bottega dello scultore, Egisto Rossi doveva conoscere bene, aven done seguito la genesi, le opere che il suo maestro veniva realizzando con una proverbiale lentezza. Infatti tra i suoi studi che imitano, o meglio falsificano, il
Bartolini, si trovano numerosi riferimenti all’ultima scultura del maestro raffigu rante Pirro che scaglia dalle mura di Trota ilpiccolo Astianatte (fig. 13), commissionata. gli da Rosina Poldi Pezzoli. Di questa scultura Bartolini realizzò solo il modello. Fu terminata nel 1861 dall’allievo Vincenzo Vela (entrambe distrutte nel bom bardamento di Milano del 1943). Di questo gruppo Rossi eseguì vari «disegni preparatori», uno agli Uffizi e altri in collezione privata (fig. 14)?*, chiaramente ispirati all’antico (in particolare al Gallo Ludovisi) nello slancio del corpo nudo del guerriero. La particolarità che contraddistingue i falsi di Egisto Rossi (e che insospettì l’occhio critico di Ulrich Middeldorf, lo studioso tedesco che per primo individuò il
nostro falsario intorno agli anni cinquanta del Novecento), oltre allo stile definito camaleontico dalla Olsen, è la presenza di vistosi marques de collection apposti sui disegni stessi per certificarne una provenienza illustre, ma proprio per questo an cora più improponibile. Questi marchi, ingombranti e appariscenti, spiccano sui falsi disegni rinascimentali di Egisto Rossi (figg. 1518): dallo stemma mediceo su un’accademia riferita al Bandinelli, sino all’improbabile marchio cardinalizio
finto su un falso studio di Fra Bartolomeo”; infine il giusto marchio intrecciato «EG»? con le iniziali dell’artista falsario ne indica esattamente la provenienza dal la sua collezione. Non sappiamo quali furono le motivazioni che spinsero Egisto Rossi a diventare un falsario, se perché non aveva raggiunto la fama sperata, o per
soldi, o solo per divertissement: a lui va comunque riconosciuta una grande cono scenza del disegno antico e contemporaneo, un’abilità indiscussa nel sapere imita re disegni dei grandi maestri, e infine una conoscenza aggiornata della storiografia artistica sul disegno e sulla storia del collezionismo di grafica, perché proprio in quegli anni il grande studioso olandese Frits Lugt era intento nell’immane cata logazione dei tanti marques de collection che contraddistinguono raccolte antiche e moderne di disegni sparse nel mondo. Per concludere, un accenno va fatto al più grande falsario della nostra epoca, un inglese vissuto tra la Gran Bretagna e Roma nel corso del Novecento, amico e frequentatore di grandi storici dell’arte (citiamo Sir Anthony Blunt, ad esempio),
gran conoscitore del disegno antico e abilissimo contraffattore di fogli antichi, soprattutto di artisti italiani del Tre e Quattrocento. Si tratta di Eric Hebborn (1934/1996). Il caso più eclatante di questo abilissimo falsario, che usava nei suoi
falsi carte antiche, pennelli e inchiostri ricostruiti ad hoc con procedimenti ormai
182
1518.
Fig. 13. Luigi Bartolini, Pirro che scaglia
dalle mura di Troia ilpiccolo Astianatte, Milano, Museo Poldi Pezzoli. Fig. 14. Egisto Rossi, Pirro che scaglia dalle mura di Trota il piccolo Astianatte, collezione privata.
Figg. 1518. Marchi del falsario Egisto Rossi.
183
desueti, è l’imitazione di un foglio di Parri Spinelli con uno studio di figura stante, in cui egli seppe così ben riprendere lo stile dell’artista nel segno a penna graffiante, da trarre in inganno un conoscitore di grande abilità, se questo foglio fu acquistato nientemeno che dal Metropolitan Museum of Art di New York come originale tre-quattrocentesco. L'incredibile vicenda di Hebborn” è stata ricostruita da lui stesso in una sua autobiografia romanzata, e molto divertente, in cui viene eviden.
ziata la sua grande abilità nel contraffare gli originali. Numerosi altri sono gli episodi che nel corso del xrx e xx secolo hanno caratteriz zato la vicenda dei falsi nel disegno, tutti correlati al mondo del mercato dell’arte e in un certo senso promossi da mercanti poco scrupolosi. Si trattava infatti sempre di contraffazioni di disegni di artisti non di primissimo livello, ma assai richiesti da collezionisti e amateurs. Tra i molti casi citiamo uno dei più noti, relativo alla falsificazione di caricature di Pier Leone Ghezzi, il celebre caricaturista del Settecento romano, a opera
di un modestissimo esecutore di tali figure (si veda la Caricatura della principessa Albani all'Istituto Nazionale per la Grafica di Roma), che non si è preoccupato minimamente di riprenderne lo stile, la tecnica e la grafia: si tratta infatti di una grossolana imitazione senza qualità, ma fogli di questo che abbiamo nominato «Pseudo/Ghezzi» sono conservati ancora sotto l’erronea attribuzione all’artista romano nelle più note raccolte italiane e straniere?. Altro falsario di modesta qualità, ma di grande successo di mercato, è il cosiddetto «Maestro del ricciolo», che intorno agli anni sessanta del xx secolo ha immesso
sul mercato una gran quantità di contraffazioni di disegni di ambito veneto Sette centesco (in particolare caricature di Tiepolo e capricci di Guardi, oltre a schizzi di battaglie alla Borgognone) eseguite con un abile segno a penna sciolto e vivace, leggermente arricciolato (da cui il nome), fogli che, ingannando ancora una volta molti esperti, sono entrati a far parte di musei pubblici e soprattutto di collezioni
private.
! La bibliografia su questo soggetto è troppo vasta per essere anche solo riassunta in questa sede: per un recente riesame sulla tematica del falso nella let.
e 171184; M. FERRETTI, Falsi e tradizione artistica, in
teratura citiamo il convegno Contrafactum. Copia, imitazione, falso, a cura di A. Andreose e G. Peron,
Storia dell’arte italiana. X. Situazioni, momenti, indagini. 3. Conservazione, falso, restauro, a cura di F. Zeri, Giulio Einaudi editore, Torino 1981, pp. 115/195. Una prima trattazione specifica generale è stata fat.
atti del XXXII convegno interuniversitario (Bres-
ta da S. ProsPERI VALENTI RODINÒ, Copia, falso,
sanone, 811 luglio 2004), Esedra, Padova 2008. Sul fronte della storia dell’arte i testi fondamentali sull'argomento in generale restano ancora quelli di A. PAOLUCCI, Copie e riproduzioni, e Falsi, in Enciclopedia Feltrinelli Fischer. XXIIIL1. Arte 2.1, a cura di G. Previtali, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 123/135
imitazione, in Il Disegno I. Forme, tecniche, significati, a cura di A.M. Petrioli Tofani, S. Prosperi Valenti Rodinò e G.C. Sciolla, Silvana Editoriale, Cini
sello Balsamo 1991, pp. 176/180. ° Michelangelo copiò due figure sulla sinistra dall’af fresco di Giotto, Ascesa di san Giovanni, Firenze, San
184
Parigi, Louvre, Département des Arts Graphiques,
1740), che la portò in Francia da dove confluì parte a Stoccolma e parte a Parigi, e nel 1824 da parte di
inv. 706 recto. Michelangelo copiò anche figure da
Samuel Woodburn (1786/1853), parte finita per lo
Masaccio, Firenze, Chiesa del Carmine, cappella Brancacci: un disegno è a Monaco, Graphische
più all’ Ashmolean di Oxford e al British Museum;
ta Croce, cappella Peruzzi: il disegno è conservato a
della collezione, peraltro, resta un piccolo fondo presso la biblioteca Oliveriana di Pesaro. E. RINALDI, Timoteo Viti pittore e collezionista, tesi di dottorato in Storia dell’ Arte, Università di Roma
Sammlung, inv. 2191. Cfr. B. AGOSTI, Michelan gelo, amici e maestranze, E-ducation.it, Firenze 2007, pp. 18-23, figg. 912.
3 M. JaFré, Rubens e l’Italia, F.lli Palombi, Roma 1984 (ed. or. Rubens and Italy, Phaidon, Ithaca, N.Y. 1977).
Tor Vergata, a.a. 2013/2014. Il disegno citato è a Parigi, Louvre, Département des Arts Graphiques,
* Parigi, Louvre, Département des Arts Graphi
4 PounCEy e GERE, Raphael and his circle cit., vol.
ques, inv. 717: cfr. E. BOREA, Le stampe che imitano
I, 1962, p. 50.
inv. RF 488.
i disegni, in «Bollettino d’arte», s. 6, LXKXVI, 1991,
4 V. FORCIONE,
67, pp. 87122, in particolare p. 101, fig. 19.
and copies, in Leonardo da Vinci Master Draftsman, a
° BOREA, Le stampe cit. ° A. ConDIVI, Vita di Michelagnolo Buonarroti, a cura di G. Nencioni e M. Hirst, spes, Firenze 1998, p.
cura di C. Bambach, catalogo della mostra (New York, The Metropolitan Museum of Art, 22 gen naio - 30 marzo), Metropolitan Museum of Art,
ro (1° ed. Firenze 1553). Non è chiaro in quel pas saggio se Condivi si riferisca a un disegno o a un
dipinto; la citiamo in questo contesto, perché nella letteratura artistica la citazione è-stata impropria. mente interpretata come riferita a un disegno. 7 C.C. MALVASIA, Felsina pittrice. Vite de pittori bo lognesi, con aggiunte, correzioni e note inedite del medesimo autore di Giampietro Zanotti e di altri scrittori viventi, Bo logna 1841, vol. I, p. 197. Il brano è così noto da meritare una citazione nel saggio di FERRETTI, Falsi e tradizione cit. 8 MALVASIA, Felsina pittrice cit., vol. I, p. 396.
Leonardo’ Grotesques: originals
New York 2003, pp. 203/224, e catt. 136/138, pp. 678/722.
P. BacnI, Guercino e il suo falsario: i disegni di paesag gio, Nuova Alfa, Bologna 1984; ID., Guercino e il suo falsario: i disegni difigura, Nuova Alfa, Bologna 1990. ! Su Bossi cfr. R. CIARDI, Giuseppe Bossi. Scritti sul le arti, Firenze 1982; e sulla sua collezione confluita nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia cfr. G. Nepi ScirÈ, Storia della collezione dei disegni. Gallerie dell’Accademia di Venezia, Electa, Milano 1982.
” Per uno studio approfondito di questo celebre taccuino,
° Sui disegni di Cambiaso, dopo gli studi fonda.
con
ampia
bibliografia
precedente,
si
rinvia a S. FERINO PAGDEN, Disegni umbri. Galle rie dell’Accademia di Venezia, Electa, Milano 1984, in
mentali di Suida Manning, si rinvia al recente con tributo di J. BOBER, I disegni di Luca Cambiaso, e III. Luca Cambiaso e i genovesi del suo tempo. Disegni, en trambi in Luca Cambiaso, un maestro del Cinquecento europeo, a cura di P. Boccardo, F. Boggero, C. Di
particolare pp. 14/31, e l’analisi di ciascun foglio del taccuino, Catt. 1/53, pp. 35/140. # R.J.M. OLson, «Caveat Emptor»: Egisto Rossi* Activity as a Forger of Drawings, in «Master Drawin gs», XX, 1982, pp. 149/156. La studiosa aveva già
Fabio e L. Magnani, catalogo della mostra (Genova, Palazzo Ducale e Palazzo Rosso, 3 marzo - 8
anticipato il problema dei disegni di Rossi e Barto-
luglio), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007, rispettivamente pp. 62/83 e 356-417. Il disegno qui
lini nel suo saggio Two Preparatory Drawings forLo
citato del Cambiaso (penna, inchiostro bruno, 339
renzo Bartolinis Astyanax, in «Master Drawings», XVI, 1978, pp. 302/308, poi ripreso anche nelle
x 236 mm) è stato presentato da Hill/Stone Inc.,
schede da lei redatte in Galleria Carlo Virgilio. Schede
London Art Week, 4-11 luglio 2014; l’imitazione di Prestel, la cui attribuzione mi è stata suggerita da
1982, Galleria Carlo Virgilio, Roma 1982, catt. 15
Mary Newcome, è in collezione privata (penna, in
” Cfr. OLSON, «Caveat Emptor» cit., p. 151, figg.
16, pp. $SI/57.
chiostro bruno, 363 x 250 mm). © Londra, British Museum, Prints and Drawin-
392/C.
® Collezione privata: carboncino su carta bianca, 90 x 122 mm. Per il disegno originale di Canova a Possagno si rinvia al recente Canova. Il segno della
gs Department, inv. 1946/713502: P. POUNCEY e J. GERE, Raphael and his circle. Italian Drawings in the Department of Prints and Drawings in the British
storia: disegni, dipinti e sculture, a cura di G. Ericani e F. Leone, catalogo della mostra (Roma, Palaz
Museum, Trustees of the British Museum, London 1962, vol. I, cat. 62, vol. II, tav. 65.
!! Le due dispersioni della raccolta Viti Antaldi
zo Braschi, s dicembre 2012 - 7 aprile 2013), F.lli Palombi, Roma 2012, cat. III.12, pp. 250/255. Va
avvennero nel 1714 da parte di Pierre Crozat (1661.
detto che molti dei disegni ancora attribuiti a Cano
185
nosce chiaramente il falso nella forzata imitazione di stile e tecnica, matita rossa e rialzi di biacca su carta preparata-in rosa, come usavano i pittori del tardo Quattrocento fiorentino, ma con un risultato di una piattezza ed eccessiva pulizia formale che ne tradisce la contraffazione. 2° E LuGT, Les marques de collections de dessins et d'e stampes. Supplément, Nijhoft, La Haye 1956, n. 900a. 7 E. Hessorn, Troppo bello per essere vero: autobio grafia di un falsario, Neri Pozza editore, Vicenza 1994
va conservati nelle cartelle dello scultore sia al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi a Firenze che all’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma sono invece imitazioni da ascrivere al nostro Egisto Rossi. Come esempio cito due fogli della raccolta romana,
pubblicati come autografi da E. BELTRAME QUATTroccHI e S. Lazzaro, Disegni dell'Ottocento. Dal Canova al Signorini, Gabinetto Nazionale delle Stampe, Roma 1969, catt. 1/2.
2! Collezione privata: matita nera e rossa su carta grigia, 122 x 102 mm; scritte di E. Rossi in alto a
(ed. or. Drawn to trouble. The forging ofan artist, Mainstream, Edinburgh 1991); ID., I/ manuale del falsario,
sinistra: «A. Canova», in basso a destra: «Pensie
ro / della Statua / di Ferdinando IV / Re delle due
Neri Pozza editore, Vicenza 1995.
Sicilie».
2 Per una messa a fuoco di questo falsario si rinvia a
© OLSON, «Caveat Emptor» cit., pp. 152/153, figg.
S. PROSPERI VALENTI RODINÒ, Di Ghezzi ma non
432/b.
del Ghezzi. Caricature di artisti seicenteschi nel Mondo Nuovo di Pier Leone Ghezzi alla Biblioteca Vaticana, in
® Ibid, pp. 161/152, figg. 2, 3, 424; BELTRAME
QuarTROCCHI e LAZZARO, Disegni dell'Ottocento
Disegno e disegni. Per Luigi Grassi, a cura di A. Forla.
cit., catt. 3031, figg. 33/36.
ni Tempesti e S. Prosperi Valenti Rodinò, Galleria
* Per il disegno a Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. 12039S, cfr. BELTRAME QuarTROCCHI e LAZZARO, Disegni dell'Ottocento ? Nel caso di questo studio di figura realizzato da E.
Editrice, Rimini 1998, pp. 360/377, 369370 nota 6; EAD., Ghezzi e glialtri. Caricature di Salvator Rosa, Burrini, Mitelli, Maratti e Mola nei Volumi di Pier Leone Ghezzi alla B.A.V., in «Miscellanea Bibliothecae A postolicae Vaticanae», XX, 2014, pp. 657/677,
Rossi, e da lui segnato come Fra Bartolomeo, si rico
in particolare p. 658 nota 4.
cit., cat. 33, figg. 14-15, p. 4I.
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Una bella cera? Ritrattini in cera del Cinquecento tra collezionismo e falsificazione ANDREA DANINOS
«Antiquités (les) - Sont toujours de fabrication moderne». Gustave Flaubert, Dictionnaire des idées recues
Verso la metà del Cinquecento si diffonde, come ricorda Vasari, la nuova tecnica «di fare nella cera le mestiche di tutte le sorti colori, onde, nel fare ritratti di naturale
di mezzo rilievo, fanno le carnagioni, i capegli, i panni e tutte l’altre cose in modo simili al vero che a cotali figure non manca, in un certo modo, se non lo spirito e le parole»!. I vari brani che Vasari dedica ai ritrattini policromi e agli artefici che vi attendevano compaiono solo nell’edizione giuntina delle Vite, segno di un suo mutato interesse per le arti applicate, in parte dovuto a Vincenzo Borghini, ma anche dell’affermarsi negli anni tra il 1550 € il 1568 di questo nuovo uso della cera,
così diffuso da fargli scrivere: «Troppo sarei lungo se io avessi di questi che fanno ritratti di medaglie di cera a ragionare, perché oggi ogni orefice ne fa, e gentiluo mini assai vi si son dati e vi attendono come Giovanbattista Sozzini a Siena, ed il Rosso de’ Giugni a Fiorenza, ed infiniti altri, che non vo’ ora più ragionare».
I ritrattini e i soggetti mitologici cederanno il passo, con il volgere del Seicento, ai temi devozionali e morali. L’inventario della Tribuna degli Uffizi elenca nel 1589
dodici cere, sei delle quali ritrattiò, mentre nell’inventario del cardinale Leopoldo de’ Medici del 1675, ricco di opere in questa materia, a prevalere saranno decisa.
mente le opere a soggetto religioso*. Se i primi anni dell'Ottocento vedono rifiorire la moda dei piccoli ritrattini in cera a opera di medaglisti e incisori di gemme, il collezionismo pare trascurare le opere più antiche, con qualche eccezione, come
ricorda Leopoldo Cicognara che menziona alcuni esemplari del Cinquecento nelle raccolte del principe Poniatowski e del pittore Andrea Appiani’. La rinascita di un interesse collezionistico per i più antichi medaglioni-ritratto in cera prende l’avvio in Francia nella metà dell’Ottocento, inserendosi nella più gene rale riscoperta delle Arts industriels del Medioevo e del Rinascimento. Celebri colle zionisti quali Alexandre Charles Sauvageot, Jean-Charles Davillier ed Émilien de Nieuwerkerke collezionavano cere®; la collezione Sauvageot in particolare, pervenu-
ta al museo del Louvre nel 1856, contava sedici cere, quindici delle quali ritrattini”.
Non è un caso se proprio in questi anni si hanno i primi studi dedicati alla cero
plastica, sino ad allora pressoché inesistenti. Nel 1864 lo studioso e collezionista
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Charles Jules Labarte inserisce la sculpture en cire tra i materiali analizzati nella sua Histoire des arts industriels$, mentre i primi due saggi specifici di ampio respiro ad opera di Spire Blondel e Gaston Le Breton vedono la luce nel 1882 e nel 1893°.
All’origine di entrambi i testi vi è la frequentazione della ricca collezione di cere formata da quello che fu certamente il più celebre mercante e collezionista nella Parigi della seconda metà dell'Ottocento, Frédéric Spitzer. Nel 1881 Spire Blondel pubblica nella «Gazette des Beaux Arts» un articolo sulle cere Spitzer", al quale farà seguito l’anno successivo sulle pagine della stessa rivista Le modeleurs en cire!!, mentre a Gaston Le Breton si deve nel 1892 il testo introduttivo alla sezione
dedicata alle cere nei lussuosi cataloghi in folio della collezione curati dallo stesso Spitzer!, testo che verrà ripreso e ampliato il seguente anno in due articoli con il titolo Histoire de la sculpture en cire per essere infine pubblicato in volume nel 1894"*. La collezione Spitzer, che comprendeva più di tremila oggetti, fu dispersa in un’a. sta che si tenne a Parigi nel 1893 e che durò ben trentotto giorni!*. Delle ventisette cere presenti nel catalogo, venticinque erano ritrattini, nove dei quali racchiusi in
preziose custodie in metallo sbalzato e dorato, oggi nella maggior parte dei casi attribuiti ad Antonio Abondio (figg. 1/2). Negli stessi anni un altro mercante parigino, Émile Gavet, possedeva dieci ritrattini in cera con simili custodie!’, che
vennero acquistati nel 1889 con più di trecento opere da William e Alva Van derbilt e sono oggi pervenuti al John and Mable Ringling Museum of Art di Sarasota (FL), dove sono stati recentemente esposti in una mostra dedicata alle opere di provenienza Gavet-Vanderbilt conservate nel museo”. Se i contenitori in rame dorato, di manifattura tedesca e databili tra la fine del xvi e gli inizi del xvn
secolo per gli estensori del catalogo di Sarasota, appaiono stilisticamente uniformi, le cere contenute sono assai diverse per epoca, origine e qualità. Due ritrattini raffiguranti Clemente XI e Benedetto XIV (fig. 3) sono evidentemente ascrivibili al xv secolo, mentre per i rimanenti vi è il forte sospetto che con alcune
opere quasi certamente del xvi secolo ve ne siano altre dubbie (fig. 4) o certamente false (figg. 5-6). Un'ulteriore serie di dodici cere (fig. 7, tav. 23), anch’esse inserite in simili custodie di rame dorato (figg. 89), è transitata alcuni anni fa sul mercato antiquario parigino con una generica attribuzione ad Antonio A bondio!. Come per le cere Gavet, anche in questo caso opere di diversa origine si accompagnano a probabili falsi, e l’utilizzo di custodie simili in entrambi i casi, oltre a documentare l'evidente «matrimonio» tra cere e contenitori, pone seri dubbi anche sulla loro
autenticità. In tutte le opere qui analizzate i contenitori in rame sbalzato e dorato sono decorati sia sul coperchio che nella parte anteriore con soggetti prevalente mente mitologici o allegorici, più raramente arabeschi o stemmi. Stilisticamente le raffigurazioni paiono debitrici dell’oreficeria tedesca della seconda metà del xvi secolo, prossime in molti casi a placchette attribuite alla bottega di Paul Hiibner,
188
2 Fig. 1. Antonio Abondio, Elisabetta di Francia, Londra, Victoria & Albert Museum.
Fig. 2. Antonio Abondio, Charles de Berlaymont, Londra, Victoria & Albert Museum.
189
Fig. 3. Benedetto XIV, Sarasota (FL),
John and Mable Ringling Museum ofArt. Fig. 4. Enrico IV, Sarasota (FL), John and Mable Ringling Museum ofArt.
190
Fig. s. Ritratto digentildonna, Sarasota (FL), John and Mable Ringling Museum ofArt. Fig. 6. Ritratto digentildonna, Sarasota (FL), John and Mable Ringling Museum of Art.
191
Fig. 7. Ritrattini in cera, Parigi, Hòtel Drouot,
asta 16 giugno 1999.
192
mentre i paesaggi sembrano ispirati alle incisioni di Paul Flindt!°. I soggetti sono a volte replicati in diversi medaglioni e in alcuni casi se ne conosce una versione sotto forma di placchetta. È il caso dell’Elisabetta di Francia del Victoria & Albert Museum (fig. 1), dove la raffigurazione, Apollo con Cupido e il serpente Pitone, è trat ta da una placchetta in bronzo generalmente ritenuta tedesca della seconda metà del xvi secolo?”. Lo stesso soggetto compare sul coperchio di una delle cere passate in vendita a Parigi (fig. 9), così come il coperchio del Benedetto XIV di Sarasota
(fig. 3) si ripete fedelmente in quello di un’altra cera dell’asta parigina. Un Ratto di Europa, ispirato al dipinto di Tiziano, si ripropone identico in due cere della stessa vendita (fig. 8) e ritorna con alcune varianti sia nel medaglione contenente il ritratto di Maria Anna di Baviera della fondazione Abegg?!, che in una custodia,
priva della sua cera, conservata nel museo di Cleveland”. Infine, anche il meda glione raffigurante Carlo II d'Austria, compagno della cera precedente, condivide una Scena di caccia con la custodia di una delle cere della vendita parigina (fig. 8)?°. Manipolazioni e falsificazioni di opere d’arte erano pratica corrente nella Parigi del secondo Ottocento, luogo di provenienza di tutte le cere qui analizzate. L'età dell’oro del collezionismo diviene pour cause anche quella dei falsari. Nessun cam po è trascurato, nessun oggetto è ritenuto indegno di falsificazione. Bronzi, avori, mobili, ceramiche, smalti, monete, medaglie, l’elenco dei falsi segue fedelmente le
categorizzazioni dei collezionisti e la moda del momento. Un attento conoscitore del mondo antiquario parigino come Paul Eudel nel suo libro dedicato alle falsificazioni scriveva: «Les portraits en cire datant de la Renaissance sont extrémement recherchés. Pour répondre aux désirs de tous les amateurs qui veulent en posséder, il a bien fallu en fabriquer», dichiarando inoltre di aver conosciuto un falsario specializzatosi nei ritrattini in cera?!. La stessa collezione Spitzer contava numerosi falsi’, ed è oggi ben noto il rapporto che legava il colle zionista mercante a un abile orafo di Aachen, Reinhold Vasters, le cui opere sino
a pochi anni fa erano considerate autentiche oreficerie medievali o rinascimentali”. Ma è a un altro orafo e restauratore che si dovrà guardare per risolvere quella che con un facile gioco di parole possiamo definire una case-history. In occasione di una mostra dedicata ai gioielli del Rinascimento tenutasi a Parigi nel 2000”, veniva pubblicata per la prima volta una selezione della vastissima collezione di modelli e di calchi in gesso provenienti dall’atelier di quello che fu il più celebre restauratore della seconda metà del x1x secolo, Alfred André (Parigi, 1839-1919)”. Specia.
lizzatosi nel restauro di oggetti d’arte del Medioevo e del Rinascimento, dalle ce ramiche agli smalti, alle oreficerie e ai cristalli di rocca, André fu in rapporto con
i più grandi collezionisti e mercanti dei suoi tempi. La raccolta di gessi include calchi di opere restaurate, talvolta realizzati durante i diversi stadi del restauro, ma anche creazioni autonome di André, il cui calco fu eseguito come documento al
105
EL
20.
8. Custodie in rame, Parigi,
òtel Drouot, asta 16 giugno 1999.
Fig. 9. Custodie in rame, Parigi, Hotel Drouot, asta 16 giugno 1999.
Fig. 10. Calchi in gesso dall’atelier di Alfred André.
Dl;
completamento dell’opera. I calchi confermano inoltre come André realizzasse per conto di Spitzer oreficerie a partire dai disegni del citato Vasters”.
Devo alla cortesia di Alexis Kugel se posso presentare un'ulteriore serie di calchi non menzionati nel citato catalogo parigino. Come si può vedere, nonostante la
pessima qualità dell’unica immagine esistente sinora inedita (fig. 10), vi compaio” no i modelli di numerosi contenitori qui esaminati. Nella fila superiore ritroviamo lo Zeus e la Diana della collezione Gavet (figg. 4/5), mentre in quella inferiore si possono riconoscere sia il coperchio del Charles de Berlaymont già in collezione Spi tzer (fig. 2) sia due coperchi delle cere passate in asta a Parigi raffiguranti Minerva ed Ercole e il leone Nemeo (fig. 9). La prima conclusione che si può trarre è che tutte le cere qui esaminate passarono per la bottega di Alfred André, mentre non sappiamo se le opere dell’asta pari. gina provenissero da Spitzer, da Gavet o da un altro mercante. In assenza di un
esame comparativo tra i vari contenitori è arduo stabilire quanti e quali siano da considerare falsi, mentre ritengo falsi gli anelli presenti in tutte le opere analizzate, poiché nel Cinquecento i ritrattini in cera, perlopiù racchiusi in scatolini torniti in legno o avorio, più raramente in metallo, venivano abitualmente appoggiati o conservati in stipi”. False cere del Cinquecento, di diversa fattura e provenienza, compaiono in vari musei e collezioni, tuttora in molti casi considerate originali. Nel redigere il ca talogo della collezione di Adolphe Thiers donata al Louvre nel 1880, Charles Blanc scriveva a proposito di una serie di ritrattini femminili in cera ritenuti del xVI secolo: «Sans contester l’authenticité de ces jolis bustes, je crois utile de dire que les amateurs qui recherchent les ouvrages de ce genre doivent se défier des con trefacons que les Italiens de nos jours fabriquent en quantité, et que l’on reconnaît en général, pour peu qu'on ait l’oeil exercé, au caractère moderne des airs de tète et à un modelé rond»*. Il commento apparirà meno insolito se si tiene conto che le cere in questione non sono a mio avviso autentiche, e probabilmente Blanc l’aveva intuito”, mentre per quanto concerne il primato italiano nella falsificazione delle cere, vi si dovrà, almeno in questo caso, rinunciare, portandoci tutti gli elementi
qui raccolti verso Parigi, nella bottega di un restauratore - e non solo - di genio.
Ringrazio Anna Ottani Cavina e Mauro Nata le per avermi invitato a partecipare alle giornate di
studio Lo specchio della realtà. Ifalsi e la storia dell'arte. Grazie a Walter Padovani e a Ferdinando Scianna. Un ringraziamento particolare va ad Alexis Kugel: una sua intuizione è all’origine di questo scritto. 1 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori
R. Bettarini e P. Barocchi, vol. I, Salani, Firenze 1966, p. 88. ? VASARI, Le vite cit., vol. V, 1976, p. 630. Oltre a Giovanni Battista Sozzini e a Giuliano Giugni detto il Rosso, Vasari ricorda tra i ceroplasti con temporanei Pastorino Pastorini, inventore di «uno stucco sodo da fare i ritratti, che venissino coloriti a
e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di
—guisa de” naturali, con le tinte delle barbe, capelli e
1
color di carni, che l’ha fatte parer vive» e l’anconeta/ no Capocaccia che «ha fatti di stucchi di colore, in scatolette, ritratti e teste veramente bellissime» (Jbid., vol. IV, 1976, p. 630, vol. VI, 1987, p. 204). ì G. GAETA BERTELÀ, La Tribuna di Ferdinando I de’ Medici. Inventari 1589-1631, Panini, Modena 1997. 4 L’inventario della collezione elenca cinquantadue cere, tra le quali ben dieci «giesuini». Cfr. M. FILETI
MAzzA, Eredità del cardinale Leopoldo de’ Medici 16751676, Scuola normale superiore, Pisa 1997.
° «Era costume in quest’età lavorare piccoli ritratti in cera colorati e vestiti e fregiati d’ornamenti d’oro e di gemme e di perline riportate su queste medesime cere: e alcuni di questi abbiamo veduti in antiche
!! BLONDEL, Les modeleyrs cit. ‘° G. LE BRETON, La sculpture en cire, in La collection Spitzer. Antiquité,
Moyen Age, Renaissance,
a cura
di F. Spitzer, vol. V, Maison Quantin - Librairie
Centrale des Beaux-arts, Paris 1892, pp. 163/194. I cinque cataloghi della collezione Spitzer furono pubblicati tra il 1890 e il 1892. Spitzer, morto nel 1890, vide solo il primo volume, ma grazie alle di. sposizioni lasciate nel suo testamento, l’opera venne
completata negli anni successivi. !3 LE BRETON, Histoire de la sculpture cit. !4 Catalogue des objets d'art et de haute curiosité antiques, du
Moyen Age &T de la Renaissance, composant l'importante et précieuse collection'Spitzer, E. Ménard et cie, Paris 1893.
guardarobbe reali e gabinetti di curiosità. Singolar
! Catalogue des objets d'art cit., vol. II, pp. 211/214.
mente il principe di Poniatowski possedeva alcune di queste squisite produzioni del xvi secolo, e qual
Le cere dotate di custodia in rame dorato compren,
che altra da noi fu veduta presso il celebre signor A ppiani pittore». L. CICOGNARA, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, vol. V, Per i fratelli Giachetti, Prato 1825, p. 436.
° Alexandre/Charles
Sauvageot
(Parigi
1781
1860), violinista e collezionista, riunisce, a partire
dalla metà degli anni venti dell’Ottocento, un’im portante raccolta di oggetti del Medioevo e del Ri nascimento che donerà al museo del Louvre nel
1856. La sua figura ha costituito la principale fonte d’ispirazione per il Cousin Pons di Balzac. Charles Davillier (Rouen 1823 - Parigi 1883), studioso e collezionista, legò le sue raccolte al Museo del Lou vre nel 1886. Le cere Sauvageot e Davillier sono oggi conservate nel Musée National de la Renais-
sance a Ecouen. Émilien de Nieuwerkerke (Parigi 1811 Gattaiola [LU] 1892), scultore e Surintendant des Beaux Arts sotto Napoleone III, venderà la sua collezione en bloc nel 1871 a Sir Richard Wallace. Le numerose cere della sua collezione sono tuttora conservate nella Wallace Collection di Londra. 7A. SAUZAY, Catalogue dy Musée Sauvageot, Charles
de Mourgues frères, Paris 1861, pp. 258/261. SJ. LABARTE, Sculpture en cire, in ID., Histoire des arts industriels au Moyen Age età l'époque de la Renaissance, vol. I, Librairie de A. Morel et C.ie, Paris 1864,
pp. 330/335. ? S. BLONDEL, Les modeleurs en cire, in «Gazette des Be aux-Arts», XXV,
1882, I, pp. 493-504,
e XXVI,
1882, 2, pp. 260/272, 429/439; G. LE BRETON, Hi stoire de la sculpture en cire, in «L'A mi des monuments et des arts», VII, 1893, 37, pp. 150/163, e VII, 1893, 38, pp. 2157226, ripreso in ID., Essai historique sur la sculpture en cire, Impr. de E. Cagniard, Rouen 1894.
!° S. BLONDEL, Collection de M. Spitzer. Les cires, in «Gazette des Beaux-Arts», 289/296.
XXIV,
devano i seguenti ritratti (tra parentesi le attuali ubi. cazioni e attribuzioni): n. 2955, Rodolfo II, Italia xvi secolo; n. 2956, Eleonora d'Austria, Italia xvI secolo (in realtà Carlo II d'Austria e Maria Anna di Baviera,
A. Abondio, Riggisberg, Fondazione Abegg); n. 2957, Francesco Ricci, Italia xvI secolo (ubicazione ignota); n. 2958, Ritratto di donna, Germania xVI secolo (collezione privata); n. 2959, Ritratto d'uomo anziano, Germania xVI secolo (Stati Uniti, collezio. ne privata, già collezione Salton); n. 2963, Elisabetta di Francia, Italia xvi secolo (A. Abondio, Londra, Victoria & Albert Museum); n. 2968, Filippo II di Spagna, Germania xvi secolo (A. Abondio, Lon dra, Victoria & Albert Museum); n. 2971, Ritratto d'uomo, Italia xvi secolo (Charles de Berlaymont, A. Abondio, Londra, Victoria & Albert Museum); n. 2972, Don Carlos di Spagna (A. Abondio, Londra, Victoria & Albert Museum). Su Frédéric Spitzer si veda recentemente P. CORDERA, Lafabbrica de Rina scimento. Frédéric Spitzer mercante d'arte e collezionista nell'Europa delle nuove Nazioni, Bononia University Press, Bologna 2014, in particolare pp. 343/345 dove vengono indicati gli acquirenti delle cere. ‘6 E. MOLINIER, Le cires, in Ip., Collection Emile Gavet. Catalogue raisonné précédé d'une étude historique et archéologique sur les oeuvres d'art qui composent cette collection, Imprimerie de D. Jouaust, Paris 1889, pp. xxxVIxxxvii. Nel lussuoso catalogo della colle zione le opere in cera sono venti. Le cere acquistate dai Vanderbilt, tutte quelle con custodia in metallo dorato, sono descritte ai nn. 306/312 e 316/318. Le rimanenti cere vennero disperse nella successiva ven
dita all’asta della collezione. Si veda Catalogue des objets d'art et de haute curiosité de la Renaissance, tableau, tapisseries composant la collection de M. Émile Gavet, ca
talogo della vendita (Parigi, Galerie Georges Petit,
1881, 2, pp.
31 maggio - 9 giugno), Imprimerie de l’art E. More au, Paris 1897, pp. 94/96.
196
! Gothic Art in the Gilded Age. Medieval and Renais-
photographes». P. EUDEL, Le Truquage. Les contre
sance Treasures in the Gavet-Vanderbilt Ringling Col
fagons dévoilées, E. Dentu, Paris 1884, pp. 389/390. © Dubbi sull’autenticità di molte opere possedute da Spitzer si hanno già nei primi anni del Novecento. Cfr. S. BersseL, Gefalschte Kunstwerke, Herdersche,
lection, a cura di V. Brilliant, catalogo della mostra (Sarasota, John and Mable Ringling Museum of
Art, 16 dicembre 2009 - 4 aprile 2010), John and Mable Ringling Museum of Art, Sarasota (FL) 2009. Le schede delle cere (pp. 114120) si devono a
Freiburg 1909, pp. 150/154. % Su Reinhold Vasters (Erkelenz 1827 - Aachen
V. Brilliant e R.R. Mc Carty. !® Dessins, tableaux anciens, meubles et objets d'art, ta-
1909) cfr. in particolare: Y. HACKENBROCH, Reinhold Vasters, Goldsmith, in «Metropolitan Museum Jour
pis, tapisseries, catalogo della vendita (Parigi, Hòtel
nal», XIX-XX,
Drouot, 16 giugno) s.e., Paris 1999, pp. 105/113,
Reinhold Vasters, goldsmith, restorer and prolific faker, in Why fakes matter. Essays on problems of authenticity, a cura di M. Jones, Trustees of the British Museum by
nn. 168/179.
! Un collegamento tra le placchette attribuite a Paul Hiibner (Forchheim c. 1550 - Augusta 1614) e le
1984/1985, pp. 163-268; H. TAIT,
British Museum Press, London
custodie delle cere di Abondio del Victoria & Al bert si trova già in F. Rossi, Placchette, sec. xv-x1x
1992, pp. 116/133;
M. KrauTwuRrsT, Reinhold Vasters - cin niederrheini
scher Goldschmied des 19. Jahrhunderts in der Tradition alter Meister. Sein Zeichnungskonvolut im Victoria & Albert
(Musei Civici di Brescia. Cataloghi), Neri Pozza editore, Vicenza 1974, pp. 148149. Per le incisioni di Paul Flindt (Norimberga 1567 - dopo il 1631) cfr. Hollstein's German engravings, etchings and woodcuts,
Museum, London, tesi di dottorato in Storia dell’Ar te, Universitatsbibliothek Trier, 2003, disponibile
a cura di K.G. Boon e R.W. Scheller, vol. VIII, M. Hertzberger, Amsterdam 1968, pp. 50 115, in
all’indirizzo: http:/fubt.opus.hbz/nrw.de/volltex te/2006/358/pdf/Reinhold_Vasters.pdf. 7 Joyaux Renaissance. Une splendeur retrouvée, a cura di
part. pp. 84/86.
A. Kugel con la collaborazione di R. Distelberger
2 Per un esemplare in bronzo (Londra, British Mu-
e M. Bimbenet/Privat, catalogo della mostra (Pari.
seum) cfr. I. WeBER, Deutsche, Niederlandische und
gi, Galerie J. Kugel, settembrevottobre), J. Kugel,
Franzòsische Renaissanceplaketten 1500/1650. Modelle
Paris 2000.
fur Reliefs an Kult Prunk- und Gebrauchsgegenstanden, Bruckmann, Miinchen 1975, p. 250, n. 505. © Cfr. A. JoLuy, Wachsbildnisse eines Fiirstenpaares von Antonio Abondio, Abegg-Stftung, Riggisberg
23 Les moulages en platre et modèles de bijoux de l'atelier du vestaurateur Alfred André (1839-1919), in Joyaux
ZOII, p. 49.
Alfred André, in Western Decorative Arts, Part I. Me
Renaissance cit. Una prima menzione dell’esisten za della raccolta di calchi si ha in R. Distelberger,
Renaissance Bronzes from Ohio
dieval, Renaissance, and Historicizing Styles including
Collections, catalogo della mostra (Cleveland, The
Metalwork, Enamels, and Ceramics, a cura di R. Di stelberger, A. Luchs. P. Verdier e T.H. Wilson,
22 W.D.
Wrxom,
Cleveland Museum of Art), Cleveland Museum of Art, Cleveland (Ohio) 1975, n. 193. Lo stesso sog,
National Gallery of Art - Cambridge University
getto ricompare in una placchetta in argento siglata F.G. e datata 1662 (Amsterdam, Rijksmuseum).
Press, Washington 1993, pp. 282/305. La parigina
Maison André che conserva la collezione di calchi è ancora oggi un celebre laboratorio di restauro. © KRAUTWURST, Reinhold Vasters cit., in partico.
Cfr. WEBER, Deutsche, Niederlandische und Franzos ische cit., p. 392. 3 JoLLy, Wachsbildnisse cit., p. 48.
lare pp. 38 e 43.
24 «Un artiste parisien s'est fait un grand renom dans
10 Alla stessa ipotesi giunge JoLLY, Wachsbildnisse
cet art délicat. C’est du reste, un sculpteur de talent.
cit., p. 61, che però ritiene ascrivibili al x1x secolo
Je lai vu à l’oeuvre, et je sais comment il procède.
i soli anelli.
Son matériel est de plus simples. Il se compose de pains de cire vierge, grands comme des hosties, d’u/ ne spatule è dents de scie, d’une lampe à esprit de
du Louvre, a cura di C. Blanc, Jouaust et Sigaux, Paris 1884, p. 73.
3! Collection d’objets d'art de M. Thiers léguée au Musée
vin et d’une boîte de couleurs d’aquarelle. Le travail
è I sei ritratti femminili di profilo sono racchiusi
se fait avec la spatule chauffée, servant d’ébauchoir. Par la chaleur les couleurs s'assemblent et se fondent
in due cornici in stile rinascimentale (Invv. Th.
dans la cire. Cet artiste, qui se donne bien de gar de de jamais signer ses ocuvres, arrive ainsi à pro
in G. SCHERF e M. JEUNE, Recensement des oeuvres
duire des medaillons des Valois qu’il livre, placés sous verre, au commerce. Ces imitations sont par
tures en cire de l'ancienne Egypte a l'art abstraît, a cura di ]J. Gaborit e J. Ligot, Réunion des Musées Natio
faites. La ressemblance est garantie comme chez les
naux, Paris 1987, pp. 434/435.
201/202). Sono elencati come opere del xvi secolo en cire conservées dans les collections nationales, in Sculp-
9
Falsi di primo Novecento nell'archivio di Luigi Albrighi MONICA CAVICCHI
LA DONAZIONE E IL FONDO LUIGI A LBRIGHI Questa ricerca vuole essere innanzitutto un ringraziamento ad Andrea Daninos, collezionista, antiquario e studioso di ceroplastica, che nel 2013 ha voluto arric-
chire la Fototeca Zeri di un prezioso fondo fotografico: 1870 fotografie di opere di pittura, scultura, disegno, arti decorative e, fatto particolarmente interessante,
di falsi. L’archivio apparteneva all’antiquario Luigi Albrighi, di origine milanese ma at tivo a Firenze. Negli anni ottanta sarà Paola Ventura, compagna di lavoro e di vita di Albrighi, a farne dono ad Andrea Daninos. Le 1870 fotografie sono suddivise in sei contenitori tematici: Falsi (178 foto), Dipinti (410), Dipinti e disegni (238), Sculture (374), Arti decorative (480), Perizie (190). All’interno dei contenitori l’ordine delle foto rivela alcune incongruenze (sculture nelle buste dedicate ai dipinti e viceversa). Da quanto ci è stato riferito al momento della donazione, le fotografie non presentavano alcuna classificazione.
Fu Luciano Bellosi nel 2010 a studiarle e a individuare l’attuale ripartizione per temi. I fototipi presentano rare scritte sul verso, con alcune eccezioni (perizie auto grafe di Evelin Sandberg Vavalà, A madore Porcella ecc.)!. Nella consapevolezza di una ricerca tutt'altro che conclusa e non sistematica si è cercato, attraverso fonti anche inedite, di ricostruire un profilo dell’antiquario
Luigi Albrighi come punto di partenza per lo studio del fondo fotografico da lui raccolto. L'indagine procede tra episodi, aneddoti, vicende giudiziarie, documen. ti fotografici”. LUIGI
A LBRIGHI. TRA CARISMA E INGENUITÀ
«Al giorno d’oggi si fotografa tutto quello che capita, il buono e il mediocre, le opere genuine e le false». Giovanni Morelli, 1897°
Le implicazioni che ebbe la fotografia quale medium privilegiato per la traduzione e diffusione dell’opera d’arte, tanto nella formazione e attività dei conoscitori quanto
nella definizione degli orizzonti d’attesa del mercato d’arte tra Otto e Novecento,
105)
invitano a tenerne conto anche per il tema dei falsi. Le potenzialità del nuovo mez, zo, che impone differenti abitudini percettive, creano una nuova cultura visiva; un
terreno sempre più scivoloso per l’occhio esperto, proficuo per l’inganno*. Strumento d’uso per il lavoro del falsario (dalle riproduzioni di opere celebri utilizzate come modelli, alle lastre di insiemi e particolari da ristampare con varianti ecc.),
la fotografia è l’immagine su cui si confrontano conoscitori, antiquari e collezio. nisti. Stampe all’albumina, al carbone o gelatine al bromuro, con le loro differenti
qualità di restituzione, accompagnano le lettere dei conoscitori che rielaborano lo studio autoptico dell’opera d’arte continuando l’esercizio critico sul documento fotografico. Il retro delle fotografie, dove si confrontano:le opinioni dei conoscitori, diventa spazio naturale della dialettica storicoartistica. L'universo che accompagna le storie note (o che si vanno scoprendo) dei falsi d’arte tra la fine del secolo XIX e i primi decenni del xx emerge in via privilegiata dagli archivi fotografici e in particolare da quelli degli storici dell’arte, da Berenson a Venturi, da Toesca a Longhi, da Briganti a Zeri. La sedimentazione di conoscenze che quegli archivi racchiude invita a una lettura in profondità, a un’indagine archeologica e pluridi. sciplinare che ne valorizzi le molteplici informazioni). L’importanza di questi archivi anche a proposito dei falsi è provata dal fondo dell’antiquario Luigi Albrighi (Milano 1896 - Firenze 1979). Avvocato, investe nel mercato dell’arte dopo la prima guerra mondiale. Entra in stretto contatto con Achillito Chiesa, spedizioniere di origine argentina, figlio di Achille e Ida Pitta luga. Fin da giovane Chiesa, seguendo le orme del padre Achille, divenne un in stancabile acquirente di quadri, realizzando in pochi anni a Milano una notevole raccolta di dipinti antichi, italiani e stranieri, in gran parte forniti da Alessandro
Contini Bonacossi. Sull’esempio di quest'ultimo, Achillito divenne anche un noto collezionista di francobolli’. La collezione di dipinti crebbe sul parametro della quantità più che su quello della qualità, accumulando pezzi di scarso valore, copie e falsi. A chillito cono sceva il restauratore Carlo Moroni (1882/1936) che forniva la consulenza per gli acquisti; a lui venivano affidate le opere da restaurare. L’ossessione del possesso e i rovinosi prestiti condussero la famiglia al dissesto finanziario. Dopo aver ottenuto l’inabilitazione del figlio nel 1923, fu Ida Pittaluga a occuparsi della raccolta fino
alla vendita avvenuta tra il 1925 e il 1927 presso l'American Art Association di
New York". Luigi Albrighi firma l’introduzione Paintings of the Italian School nel catalogo di vendita della collezione Chiesa® e viene coinvolto (accompagnando in A merica le spedizioni di opere della raccolta) in quello che verrà in seguito ricordato come un «pasticcio» finanziario e un’operazione fallimentare, anche a causa della dubbia
autenticità dei pezzi antichi acquisiti dal proprietario. The Elegant Auctioneers di
200
Wesley Towner? (fig. 1), la colorita cronaca dedicata allo spregiudicato mondo del mercato d’arte statunitense, definisce il giovane Albrighi un abile «incantato
re» e, in seguito, un vero e proprio «truffatore», segnalando il suo coinvolgimento in traffici illeciti!°. Il testo descrive a più riprese il pesante esito della vendita Chiesa e asseconda il cliché di un commercio d’arte italiano da guardare con diffidenza. Alla metà degli anni trenta del Novecento si era ormai esaurita in Italia la piena di questo mercato che, soprattutto dopo il 1870, aveva preso le vie dell’estero (in particolare quelle degli Stati Uniti), mentre fra i capolavori del Medioevo e del Rinascimento (sculture, mobili, dipinti, oggetti d’arte) cresceva lo spettro dei falsi. Lo scandalo delle sculture di Alceo Dossena del 1928 non fece che confermare
i timori e alimentare l’ossessione dei magnati americani che tutto ciò che giunge. va dall’Italia fosse falso. Oltre alla grave congiuntura economica del 1929, ave
va contribuito a questo declino la saturazione del mercato di opere d’arte antica che avevano invaso l’ A merica anche attraverso le aste organizzate da antiquari italiani. Il coinvolgimento nella vendita Chiesa, nonostante le conseguenze di cui avrebbe dovuto scontare i disagi negli anni successivi, fu senz'altro per Luigi Albrighi l’occasione di affermarsai come mercante. L’antiquario aveva tenuto per sé molte opere della raccolta!’, alimentando il gusto per i primitivi (senesi e toscani in genere) e per le opere di primo Rinascimento. Il ritratto di Luigi Albrighi che viene a delinearsi, sulla base delle poche infor mazioni disponibili, rivela aspetti contraddittori: da un lato, abile mercante ricco di charme e carisma, dall’altro, ingenuo trafficante, a sua volta truffato. Nell’una e
nell’altra veste, fin dagli anni venti, il suo entourage è comunque di caratura inter nazionale e le cronache lo vedono partecipe del vivace universo del mercato d’arte tra Milano, New York, Parigi e Londra. Nel 1930 vende a Lord Arthur Hamilton Lee, al prezzo di 25.000 sterline, la bot
ticelliana Madonna del Velo oggi al Courtauld Institute of Art di Londra. L’opera viene riconosciuta negli anni cinquanta come falso novecentesco eseguito dal pit tore senese Umberto Giunti (1886/1970). La vicenda fa emergere, come si vedrà in seguito, la stretta relazione di Albrighi con Pietro Toesca e il primo incontro con Bernard Berenson. Il rapporto con Berenson si rinsalderà. Una fotografia del 1950 (fig. 2) ritrae Luigi Albrighi insieme al grande studioso; la familiarità tra i due, ritratti in piacevole conversazione o nello studio di quadri, lascia trasparire una confidenza amichevole!. D’altra parte numerose fotografie di dipinti della fototeca Berenson di Villa I Tatti indicano una provenienza Albrighi: un primo nucleo entra all’inizio degli anni trenta, un secondo nei primi anni cinquanta. Molte delle fotografie degli anni trenta sono scatti di Girolamo Bombelli (18821969), fotografo che documenta quel «mercato antiquario sostanzialmente incol
to, minore, molto concentrato nell’incetta dei cosiddetti primitivi ove era più facile
201
WESLEY TOWNER Seme, Fig. 1. Copertina disegnata nel 1958 da David Low per The Elegant Auctioneers di Wesley Towner, New York 1970.
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Fig. 2. Luigi Albrighi e Bernard Berenson,
31 dicembre 1950.
203
smerciare falsificazioni presenti nelle collezioni come frutto di acquisti malaccorti, attraverso canali di approvigionamento sospetti»!*. Nella Siena del secondo e terzo decennio del Novecento, questo vivace e fruttuoso mercato di falsi emerge a caratteri novellistici dalle pagine delle Memorie di un pittore di quadri antichi di Federico Joni (1932)! e da quelle del Giornale dell'antiquario di Giuseppe Mazzoni (1955)! che lavorò con Joni prestandosi a vendere più volte le sue opere. Sono storie di rocamboleschi ritrovamenti e fantomatiche scoperte da parte di preti conniventi e di una miriade di attori interessati, ciascuno con
un tornaconto proporzionale al ruolo avuto nella truffa. E proprio nel Giornale dell'antiquario incontriamo nuovamente Luigi Albrighi, vittima in questo caso di raggiri e inganni. Gianni Mazzoni (nipote di Giuseppe) identifica l’antiquario nelle vesti dell’inge nuo acquirente (al centro della burla dei colleghi) che compra ora un falso Duccio di Federico Joni, ora un ritratto quattrocentesco rivelatosi da lì a poco un’altra prova del medesimo falsario. Tra i protagonisti degli inganni si segnalano Umberto Pini di Bologna e Carlo Balboni!, mercante veneziano proprietario di palazzo Maravegie in campo San Trovaso, noto spacciatore di falsi che partecipa a sua volta, con Albrighi, alla vendita della Madonna del Velo a Lord Lee. Tra gli anni quaranta e cinquanta Albrighi, in difficoltà economiche crescen-
ti, viene accusato (insieme a Umberto Pini e ad altri mercanti) dal tribunale di Firenze di esportazione illecita negli Stati Uniti di alcuni dipinti. Tra questi un San Sebastiano di Andrea del Castagno, che oggi si vuole riconoscere nella tavola conservata al Metropolitan Museum of Art di New York! (fig. 15). La vicenda giudiziaria si complica protraendosi per quasi un decennio quando l’antiquario acquista nel 1952, per una cifra di venti milioni di lire, gli affreschi trecenteschi bolognesi della chiesa di Sant’A pollonia di Mezzaratta (detta anche Santa Maria di Mezzaratta), da tempo oggetto di contrattazione tra i proprietari Neri Alessan dretti e la Soprintendenza di Bologna! Albrighi riuscì a ottenere la cancellazione della pena cedendo gli affreschi allo Stato attraverso la soluzione della datio in so lutum. A Firenze Albrighi era nel frattempo entrato in contatto con l’antiquario Euge nio Ventura (1887/1949) e con la figlia Paola, con i quali instaurò un duraturo rapporto professionale. Alla Biennale fiorentina del 1961 Paola Ventura e Luigi Albrighi esposero entrambi con indirizzo via dei Fossi 71 Firenze (cortile di pa. lazzo Fossombroni). In seguito Paola Ventura aprì una galleria in Borgognissanti e la mantenne fino alla metà degli anni ottanta.
204
FALSI: SPIGOLATURE
SU CASI NOTI E MENO
NOTI
Luigi Albrighi e la Madonna del Velo di Umberto Giunti Il caso della Madonna del Velo del Courtauld Institute of Art, opera tra le meglio riuscite del falsario senese Umberto Giunti, venduta nel 1930 per 25.000 sterline come originale di Botticelli a Lord Lee of Fareham, è più che noto alla letteratura storico-critica??. Ne ripercorriamo la vicenda ponendo l’attenzione sul ruolo e sul comportamento di Luigi Albrighi in qualità di mediatore nella fortunata vendita e integrando le informazioni note con qualche elemento inedito. L'episodio, grazie all'’ampia documentazione a nostra disposizione, apre uno squarcio sulla dialettica storicorartistica degli anni trenta e sulle tensioni che la caratterizzano. La connoisseurship è costretta a misurarsi con i nuovi risultati dell’in dagine radiografica (in una fase ancora aurorale) e i conoscitori, coinvolti col mer cato, sono chiamati a difendere la propria credibilità di fronte alla diffusa circola.
zione di falsi. Il teatro dell’azione, ben ricostruito dagli studi di Gianni Mazzoni attraverso le carte d’archivio degli eredi Giunti, è precisato dalle testimonianze epistolari tra Pietro Toesca e Bernard Berenson prima, Luigi Albrighi e Lord Lee poi, e dal confronto tra la documentazione fotografica delle fototeche di Bernard Berenson e Federico Zeri. Nel gennaio del 1930 Luigi Albrighi, già in trattativa con Lord Lee of Fareham, mostra per primo a Pietro Toesca la Madonna del Velo. Toesca crede all’autografia del dipinto e il 17 febbraio invia una fotografia a Berenson. La lettura dell’opera attraverso la stampa?! ricevuta non convince Berenson che, a distanza di due gior
ni, risponde a Toesca sollevando perplessità sull’attribuzione a Botticelli. Sap piamo da altre lettere che Albrighi, seguendo i suggerimenti di Toesca che gli accorda piena fiducia, fa pulire il quadro, poi si reca a Villa I Tatti per sottoporlo nuovamente al giudizio di Berenson. Il 24 maggio, dopo avere studiato dal vero il dipinto, Berenson scrive a Edward Duveen ritenendo plausibile l'autenticità. Invita il suo corrispondente a prendere la tavola in seria considerazione ma, sottolineando l’aspetto «too attractive», ri. chiama Duveen alla dovuta cautela, nella consapevolezza di un mercato fin trop. po generoso di Madonne botticelliane. Nel giugno 1930 Albrighi va a Parigi per mostrare la tavola a Duveen e viene fatta
eseguire la radiografia del dipinto presso il laboratorio Mercier. L'esito dell’esame rivela la fattura moderna. Particolarmente significativa è la reazione di Berenson,
che a luglio scrive a Duveen: «I am both horrified and enchanted. Enchanted by my intuitive first impression, and horrified when I think that all the science of
205
Toesca, ofavery competent cleaner named Vermeree [Otto Vermeheren] and of myself were of no avail». Non meno interessanti risultano le parole di Toesca che, dubitando dell’interpre. tazione data alle radiografie, rivendica il primato della connoisseurship. Dopo aver
ristudiato a lungo la Madonna di Luigi Albrighi, nel settembre scrive nuovamente a Berenson continuando a perorare la causa dell’autografia e difendendo la buona fede dell’antiquario. Egli ritiene che «convenga affrontare i dubbi, e vedere se tutta l’esperienza e l’osservazione critica non sia miglior strumento dell’apparato foto. grafico e ottico - che non val nulla se non è adoprato con intelligenza!»”?. A favore dell’onestà di Albrighi gioca un’inedita fotografia emersa dal nucleo dei Falsi dell’archivio Zeri”. Si tratta di una stampa Brogi datata 12 settembre 1927 ed eseguita su commissione dell’antiquario fiorentino Volterra”! (figg. 3/4, tav.
24); lo scatto testimonia uno stato del dipinto diverso rispetto a quello mostrato dalla fotografia del febbraio 1930 (inviata da Toesca a Berenson), ritenuta fino a questo momento la più antica documentazione della Madonna del Velo. La stampa fotografica Brogi mostra una craquelure e fratture meno accentuate rispetto a quelle evidenziate dalla fotografia di Villa I Tatti; la materia pittorica è ancora presen te anche in quelle zone che nelle fotografie posteriori appaiono lacunose. Committente dello scatto era stato, con larga probabilità, Giuseppe Volterra (Firenze 1822/1932), erede della florida attività antiquariale cui aveva dato inizio il padre Gustavo negli anni settanta dell’Ottocento. Giuseppe, protagonista dei salotti borghesi fiorentini tra secondo e terzo decennio del Novecento, a capo di tre gallerie antiquarie (una delle quali allestita come di mora rinascimentale), gestiva il ricco commercio di opere d’arte antica e di oggetti in stile, particolarmente gradito al pubblico straniero. Per i Volterra lavorò Silvio
Zanchi, restauratore di fiducia di Elia Volpi, e Giuseppe fu il mediatore della vendita della collezione di quest’ultimo”. Alla luce di quanto emerso, è plausibile attribuire a Volterra il legame diretto con Giunti e ritenere Albrighi protagonista inconsapevole della truffa. I contatti di Albrighi con Giunti sono d’altra parte documentati solo molto più avanti (le tre lettere conservate presso gli eredi risalgono rispettivamente al 1939, 1940 e 1959)”,
mentre il ritratto di mercante ingenuo, vittima di inganni, scarsamente attrezzato di fronte alle insidie del mercato, trova ampia conferma.
Per quanto riguarda la vendita della Madonna del Velo la storia farà il suo corso vedendo trionfare le leggi del mercato. Lord Lee, dopo aver esaminato il dipinto nell'ottobre 1930 a Venezia presso palazzo Maravegie, di proprietà dell’antiqua rio Carlo Balboni, insieme alla supervisione del suo restauratore di fiducia Nico Jungman, lo acquista per 25.000 sterline con un assegno datato 27 ottobre 1930;
la Madonna del Velo viene esportata via Domodossola l’rt novembre dello stes
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Fig. 3. Umberto Giunti, Madonna del Velo, Londra,
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Bologna, Fototeca Zeri, nucleo Falsi, inv. 169780, recto.
Fig. 4. Bologna, Fototeca Zeri, nucleo Falsi, inv. 169780, verso. Fotografia Brogi (neg. 2591/3), con iscrizioni manoscritte.
dE1909.
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so anno. Sia Balboni che l’agente immobiliare e mediatore di Lee, l'austriaco
Benno Geiger, sono coinvolti nella vendita ricavandone la percentuale prevista. L’acquisto di Lee viene celebrato come un successo dalla stampa londinese. Lee orgogliosamente invia sia a Berenson sia a Duveen le fotografie del dipinto restaurato. Nonostante i dubbi sull’autenticità dell’opera sollevati da Berenson subito dopo l’acquisto, furono solo gli esami microscopici e radiografici degli anni cin quanta a svelarne in via definitiva la natura di falso. I più recenti ed esaustivi studi di Gianni Mazzoni, che attribuisce il dipinto al falsario senese Umberto Giunti svelandone le modalità di esecuzione, grazie al ritrovameno di disegni, fotografie, modelli e referenti figurativi, suggellano la storia della Madonna del Velo.
Il carteggio tra Luigi Albrighi e Lord Lee conservato al Courtauld Institute copre tutto il primo quinquennio degli anni trenta e lascia trasparire un rapporto af. fettuoso tra i due. Nella sua autobiografia (1939) Lee definisce l’antiquario come piazzista intraprendente e meritevole di fiducia per fiuto e talento. Al lord inglese Albrighi vendette tra il 1930 e il 1934, oltre alla Madonna del Velo, anche la Sacra
Famiglia con l’agnello” attribuita a Raffaello e l’Incoronazione della Vergine assegnata a Guido di Siena. Dei tre quest’ultimo si rivela effettivamente un dipinto antico, opera di un pittore senese del secolo xm. La Sacra Famiglia di Raftaello si scoprì essere una copia d’epoca e la Madonna del Velo un falso. Lee sosteneva Albrighi nei momenti di forte difficoltà, negli anni tra il 1933 e il 1935, lo invitava a inviargli fotografie di dipinti italiani da proporre ai più im
portanti musei inglesi. In più di un’occasione l’antiquario italiano fu ospitato a Londra. Il mercante italiano propose a Lee una vasta gamma di dipinti per la sua collezio. ne; fra questi almeno sei opere di Piero della Francesca (!), un Duccio, un Filippo Lippi, un Cavallini, un Giunta Pisano, un Giovanni di Paolo, un Vel4zquez e
un Bernardo Daddi, ma nessuna di queste vendite andò a buon fine”. Luigi Albrighi e il Ritrattino di Pinturicchio Quanto alle strategie con cui venivano messe a punto le truffe di falsificazione ai danni di sprovveduti compratori ricordiamo l’episodio narrato da Giuseppe Maz zoni nel suo Giornale dell’Antiquario (1955) col titolo Un ritrattino di Pinturicchio®. Luigi Albrighi, partecipe in qualità di vittima dell’immancabile Joni, confer
ma di essere stato un personaggio incauto e malaccorto. Documentano il dipinto due fotografie della fototeca Berenson®!, una lastra di Girolamo Bombelli® e due disegni preparatori. Questi ultimi, insieme al racconto di Mazzoni, mostrano le
tecniche di esecuzione dei dipinti «in stile» del celebre falsario”). Sul retro di una delle due fotografie Berenson (inv. 126364, fig. 6), si legge una
208
Fig. s. Federico Joni, Ritratto di giovane, attribuito
a Matteo di Giovanni (?) o ambito di Pinturicchio, ubicazione sconosciuta. Biblioteca Berenson, Fototeca, Villa I Tatti, inv. 1263641.
Fig. 6. Biblioteca Berenson, Fototeca, Villa I Tatti, inv. 12636422, iscrizione manoscritta
della nobildonna Pozzesi. Fig. 7. Biblioteca Berenson, Fototeca, Villa I Tatti, inv. 12636622,
particolare, nota autografa
di Luigi Albrighi. Malko di Giovanni fo
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nota autografa della nobildonna Pozzesi citata anche da Mazzoni: «Ricevo dall’avvocato Luigi Albrighi la somma di [...] in acconto della somma di [...] di un quadro su tavola ritratto originale dell’epoca 1482. In fede [...] Pozzes». Sul retro della seconda (inv. 126366, fig. 7) Albrighi, che aveva acquistato il di/ pinto nel 1930, firma una sorta di autodichiarazione dell'accaduto: «questo qua, dro di cui esisteva un originale [...] fa venduto dalla nobildonna Pozzesi di Siena a Luigi Albrighi in sostituzione del vero. La nobildonna Pozzesi, Joni e un altro di cui non ricordo il nome dovettero restituire il denaro avuto in acconto. Luigi Albrighi. Dal racconto del Giornale dell’antiquario sappiamo che,«oltre ad Albrighi, furono coinvolti Toesca, Berenson e alcuni acquirenti di Venezia, città in cui il nostro
mercante aveva contatti continuativi. Non si conosce l’attuale ubicazione del di pinto che, stando al racconto, avrebbe convinto il mercato finendo in un museo
americano.
Luigi Albrighi e il Conte di Vestrigona: una Madonna duccesca di Federico Joni
Inscrivibile in una tipologia di falsi particolarmente apprezzati dai collezionisti americani attratti dai primitivi senesi è la Madonna con Bambino di Federico Joni, già
a Renaissance (CA), collezione della Fellowship of Friends (fig. 8)°*. Il Giornale dell'antiquario di Giuseppe Mazzoni nel racconto I/ Conte di Vestrigona e il prete di San Vito ricorda come Albrighi (citato come «l’avvocato»), dopo attenta valuta. zione, aveva acquistato il dipinto; questo «fu assaggiato [...] fù spillato [...] era un capolavoro che non temeva né radiografie, né lenti [...] né dicerie». Era stata ver sata una caparra di 10.000 lire, le altre 30.000 erano previste alla consegna. Messo in guardia da alcuni amici, Albrighi, schernito dai colleghi, perde la caparra e rinuncia all’acquisto. La Madonna in trono di Bruno Marzi del Monte dei Paschi: una perizia inedita
Da questa prima verifica del fondo fotografico di Luigi Albrighi è emersa una fotografia (fig. 10)” molto danneggiata della Madonna con Bambino in trono incoronata da angeli’ di proprietà della Banca Monte dei Paschi di Siena”. Si tratta, come reso noto da Mazzoni, di una tavola trecentesca quasi totalmente
ridipinta dal pittore Bruno Marzi alla fine degli anni cinquanta del Novecento. Il dipinto entra nella collezione del Monte dei Paschi di Siena nel 1961 con l’attri. buzione a Niccolò di Signa. La fotografia emersa dal fondo Albrighi è accompagnata da un'inedita perizia di Giuliano Briganti (fig. 9). Lo studioso assegna con fermezza la tavola a Niccolò,
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Fig. 8. Federico Joni, Madonna con Bambino, stile di Ugolino di Nerio, ubicazione sconosciuta.
Fig. 9. Perizia autografa di Giuliano Briganti relativa alla Madonna del Monte dei Paschi di Siena, Fototeca Zeri, fondo Albrighi, inv. 311278. Fig. 10. Bruno Marzi, Madonna con Bambino in trono
incoronata da angeli, attribuita a Niccolò di Signa, Siena, collezione Banca Monte dei Paschi.
Fototeca Zeri, fondo Albrighi, inv. 311277.
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suggerendo alcuni confronti con noti originali del pittore senese. La perizia non è datata ed è indirizzata a un generico «Gentile signore». La presenza del documen, to nel lascito Albrighi lascia supporre che la tavola sia passata presso l’antiquario e che sia lui il destinatario della perizia di Briganti. Un inedito Giunti dal nucleo Falsi della Fototeca Zeri
Nel nucleo Falsi della Fototeca Zeri (figg. 11/12) abbiamo rintracciato una fo tografia di particolare interesse che documenta un dipinto inedito di Umberto Giunti. Si tratta di una tavola raffigurante una Madonnà con Bambino (73 x s0 cm) negli anni quaranta in collezione William F. Buckley di Camden (SC). La vicinanza stilistica alla Madonna del Velo, nonostante alcune rigidità nell’ana-
tomia del Bambino, fa ritenere plausibile un’attribuzione a Umberto Giunti negli anni trenta. Questa mia proposta trova concorde Gianni Mazzoni, esperto conoscitore dell’attività di Giunti, cui lascio il campo perpiù circostanziate riflessioni.
APPENDICE
Luigi Albrighi e gli affreschi bolognesi di Santa Maria di Mezzaratta La vicenda storicocritica degli affreschi di Mezzaratta, celebrati da Malvasia come momento in superato della pittura bolognese del Trecento, è più che nota! . Scarsa attenzione si è posta invece al coinvolgimento di Luigi Albrighi nella vendita dei dipinti allo Stato'!. Su questo aspetto sono venute alla luce alcune novità, nonostante ci sia ancora margine per ulteriori verifiche. Il nome dell’avvocato milanese compare tra le carte del Faldone Acquisizioni, Mezzaratta conservato presso l’Archivio storico della Soprintendenza‘. Il faldone raccoglie documenti pubblici (atti del la Soprintendenza di Bologna, del Ministero della Pubblica istruzione, dell’ Avvocatura generale e distrettuale dello Stato di Firenze, relazioni di restauro) e privati (lettere dei Soprintendenti Anto nio Sorrentino e Cesare Gnudi a storici dell’arte e membri delle istituzioni culturali cittadine) che vanno dall’inizio degli anni quaranta alla fine del decennio successivo. È questo l’arco temporale entro cui si dipana la difficile trattativa tra pubblico e privato diretta ad assicurare allo Stato uno dei monumenti della storia figurativa della città: dalle proposte prebelliche del soprintendente Sor rentino a Vincenzo Neri*, proprietario, insieme alla moglie Giulia Alessandretti, della chiesa sul colle dell’Osservanza e dei dipinti che la decorano, fino al distacco, nel 1959, degli ultimi affreschi
ancora in sity e al loro definitivo deposito in Pinacoteca. La dialettica tra le parti vede protagonista Cesare Gnudi, soprintendente dal 1951, che gestisce la compravendita degli aftreschi con strategia diplomatica assai diversa rispetto al predecessore An tonio Sorrentino. Lo sostiene l’opinione forte di Roberto Longhi (docente a Bologna dal 1934), che per primo aveva caldeggiato la causa dello strappo ai fini di garantire la conservazione e la fruizione in Pinacoteca degli affreschi. Insieme a Longhi, Gnudi dialoga positivamente con Vito Agresti, direttore capodivisione del Ministero della Pubblica istruzione, e Giulio Carlo Argan,
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Fig. 11. Umberto Giunti (?), Madonna con Bambino,
vendita W. Doyle, 23 maggio 1981, n. 489,
come scuola di Botticelli. Fototeca Zeri, nucleo Falsi, inv. 169768. Fig. 12. Fototeca Zeri, nucleo Falsi, inv. 169768,
verso, nota autografa di Federizo Zeri.
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allora ispettore centrale dello stesso Ministero, contro lo schieramento (capeggiato dal presidente dell’Accademia Clementina Guido Zucchini) favorevole a una conservazione in loco dei dipinti. Gnudi da subito cerca di intercettare, per assecondarle, le volontà (tutt'altro che scevre da con.
dizionamenti) di Neri. Sa bene che la questione è lungi dall'essere risolta: gli affreschi non sono ancora venduti e alcuni di essi sono esposti al rischio di degrado, trovandosi ancora nella chiesetta. La complicata vicenda della vendita degli affreschi di Mezzaratta corre parallela a quella della loro storia conservativa. Dopo lunghe trattative, i primi strappi furono realizzati da Arturo Raffaldini nel 1948: prima la controfacciata, divisa in due tra l’Annunciazione e il
Presepe, poi gli altri affreschi della parete sinistra, fra cui il Battesimo e la Madonna col Bambino di Vitale da Bologna (figg. 13:14). Nei due anni successivi vennero strappate anche le sei Storie di Mosè, giusto in tempo perché due di esse potessero figurare, con i precedenti, alla Mostra del Trecento bolognese del 1950**.
Un’accelerazione degli eventi, nelle trattative di vendita, si ha nel maggio del 1952, quando il Tribunale di Bologna, per conto di Giulia Alessandretti, fa pervenire al Ministero della Pubbli ca istruzione un atto di notifica *, che impone di restituire al proprietario entro trenta giorni tutti gli affreschi strappati ancora in Soprintendenza a seguito della mostra sulla pittura bolognese del Trecento, del 1950. Gnudi coglie l’occasione e scrive al Ministero per indurlo ad acconsentire
alla proposta di acquisto già formulata da Neri prima della guerra‘° , per evitare che l’azione le gale contro la Soprintendenza proceda. Inoltre ritiene che, non essendo gli affreschi in questione commerciabili, lo Stato, possa essere l’unico in grado di assicurarne la tutela.
Significativa è una lettera del 12 settembre 1952 indirizzata ad Argan. All’ispettore centrale che da lì a poco sarebbe giunto a verificare direttamente i dipinti, Gnudi manifesta la necessità di agire e conclude: «L’ofterta del 1941 del Prof. Neri potrà perciò ora tradursi nella cifra di L. 18.000.000 tenendo conto obbiettivamente anche del fatto che negli ultimi anni il ciclo ha acquistato una fama ben maggiore [...] questa Soprintendenza è del parere che astrazion fatta dalle considerazioni che seguiranno, la cifra di L. 18.000.000 corrispondente all’offerta di 600.000 fatta nel 1941 possa
essere oggi in linea di massima accettabile». A_ poco meno di un mese segue la dichiarazione in forma manoscritta (e in copia dattiloscritta) firmata dalla contessa Giulia Neri Alessandretti, che conferma di cedere allo Stato tutti i dipinti
di Mezzaratta per la cifra di 20.000.000 di lire da pagarsi in contanti e acconsente al distacco completo degli affreschi*. Se già questi ultimi documenti sollevano non poche perplessità per la macroscopica lievitazione del prezzo patteggiato, quello immediatamente successivo datato 7 ottobre vede l’inspiegabile com parsa di Luigi Albrighi che si inserisce come mediatore nella vendita acquistando gli affreschi per la cifra pattuita dalla signora Alessandretti. Bologna, 7 ottobre 1952. Atto della Soprintendenza alle Gallerie di Bologna: «Premesso che in data odierna la signora G. Alessandretti ha venduto al Signor Luigi Albrighi per il prezzo di lire 20.000.000 i seguenti affreschi e che tali affreschi dovranno essere a titolo di transazione ceduti dal Signor Albrighi allo Stato; ciò premesso la sig. G.A. si obbliga a sua volta di trasferire allo Stato la ex Chiesa di S. A pollonia con gli affreschi nella medesima esistenti, infissi nelle pareti essendosi anche di tale trasferimento tenuto conto in occasione delle trattative che hanno dato luogo alla vendita predetta ed alla determinazione del prezzo della vendita stessa. Il trasferimento dovrà essere fatto allo Stato in quelle forme che il medesimo a mezzo dei suoi organi riterrà di stabilire anche eventualmente con la forma della donazione. Si conviene espressamente sempre per essersene tenuto conto nelle tratta tive predette che qualora lo Stato distaccasse dalle pareti ove si trovano infissi gli affreschi attualmente
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Figg. 13/14. Vitale da Bologna, Battesimo di Cristo, 1338/1350, Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. 6351. Fototeca Zeri, inv. 28279, fotografia
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esistenti ancora nella ex chiesa di S. A pollonia di Mezzaratta e li trasportasse altrove, la cappella stessa dovrà essere restituita alla signora G. Neri A». La transazione fa riferimento alla pendenza legale che grava su Luigi Albrighi, accusato dal Tri. bunale di Firenze, insieme ad altri antiquari, di esportazione illecita di una tavola raffigurante San Sebastiano attribuita ad Andrea del Castagno (fig. 15)'° e altre opere minori. La valutazione di mercato del San Sebastiano già esportato all’estero è tale da consentire uno «scambio alla pari» (attraverso, come si vedrà, la formula della datio in solutum). Luigi Albrighi, divenuto proprietario degli affreschi di Mezzaratta acquistati al prezzo di 20.000.000 di lire ottiene, donandoli alla Soprintendenza, la rinuncia da parte dello Stato alla richiesta di risarcimento del danno avanzata nel procedimento penale. Se appare chiara la convenienza per tutti di un’operazione amministrativa assai poco limpida, molti aspetti della vicenda continuano a rimanere oscuri lasciando margine per ulteriori verifiche. È in particolare sul fronte giudiziario fiorentino che occorre approfondire i termini della questio. ne, perché non emerge dalla documentazione bolognese a quando risalga esattamente l’accusa di esportazione illecita nei confronti di Albrighi, in quali procedimenti sia stato coinvolto e in che modo l’antiquario entri in contatto con Neri” e venga a conoscenza della compravendita in corso che si rivelerà per lui tanto opportuna. Il 12 ottobre 1952 il Ministero della Pubblica istruzione, dopo aver preso atto ed esaminato i ter mini della transazione in corso, comunica ufficialmente alla Soprintendenza di Bologna lo «scam bio» tra Luigi Albrighi e lo Stato”. I tempi degli accordi, a dispetto evidentemente di un calcolo fin troppo fiducioso sugli esiti da parte di Gnudi, si dilatano a causa dell’opposizione del partito contrario alla separazione degli affreschi dal loro luogo d'origine. Il 10 novembre Gnudi scrive a Longhi e poi a Guglielmo de Angelis che Zucchini, venendo a conoscenza delle trattative, avrebbe sollecitato Neri, poco prima della definizione dell’acquisto, affinché sollecitasse lo Stato a farsi carico anche del dono della cappella’. Il 12 novembre, in una lettera a Vito Agresti che accompagna il verbale di consegna degli affreschi allo Stato”, Gnudi lamenta il procrastinarsi dello stacco (per lui necessario quanto prima) dei dipinti rimasti in sity a causa della nuova propo sta di dono da parte di Neri anche della ex chiesetta, che induce a rimettere al direttore generale la decisione sul da farsi. Dopo quasi due anni la conclusione è ancora lontana. Il 19 giugno 1954 Gnudi comunica con lettera dattiloscritta a Neri che il Consiglio superiore di Antichità e Belle Arti ha espresso il parere che, ferma restando la necessità di conservare alle collezioni della Pinacoteca Nazionale di Bolo
gna il Presepe e 1 Annunciazione di Vitale, venga accettata la donazione dell’ex cappella dove verrà ricomposta tutta la restante parte del ciclo di affreschi”. L’atto verrà rogato davanti alla prefettura per evitare spese notarili. La redazione degli atti relativi a questa donazione implica ulteriori coin volgimenti e nuove complicazioni”. Il documento che meglio riassume tutti i termini della questione in corso e le ragioni che moti veranno le legittime preoccupazioni di Gnudi, chiamato a rendere conto della regolarità delle operazioni, è un atto dell’ Avvocatura
distrettuale dello Stato di Firenze datato 13 ottobre 1955”.
Il 20 dicembre 1955 Gnudi, ragionevolmente preoccupato, scrive all'avvocato di Stato di Firenze
e solleva le sue perplessità sulla legittimità delle operazioni richieste alla Soprintendenza da parte dell'A vvocatura distrettuale. Il Soprintendente scrive: «Può l’amministrazione, si chiede il Mini stero, accettare ed acquisire agli atti un atto di vendita (atto pubblico o scrittura privata) degli af freschi di Mezzaratta da Neri ad Albrighi al prezzo da essi indicato, trattandosi di opere sottoposte a tutela della Legge sulle Antichità e Belle Arti, immobili per destinazione, removibili solo per
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Fig. 15. Francesco Botticini (già Andrea del Castagno), San Sebastiano, New York, The
Metropolitan Museum of Art, inv. 48.78. Fototeca Zeri,
inv. 36683.
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ragioni di conservazione e alienabili solo dietro autorizzazione del Ministero della P.I. il quale può esercitare il diritto di prelazione? Nel particolar caso, si aggiunge, potrebbe mai venire concesso il permesso di alienazione, da privato a privato, di un complesso di così eccezionale interesse storico e artistico? [...]. Ora può essere data validità al predetto atto di vendita da Neri ad Albrighi atto che di per sé non potrebbe venire autorizzato dal Ministero e che, non autorizzato, è nullo agli effetti di legge? Può tale Atto sul quale il Ministero non interverrebbe nemmeno col diritto di prelazione essere acquisito agli atti del Ministero come fondamento e punto di partenza della documentazione del trasferimento degli affreschi in proprietà dello Stato»»®* L’Avvocatura dello Stato di Firenze (20 dicembre 1955) risponde: «Sembra a questa avvocatura che l’atto di vendita Neri-Albrighi debba essere considerata e valutata alla stregua delle particolari circostanze che ne consigliano la stipula. Invero nell'interesse dell’Amministrazione ABA occorre necessariamente convalidare e formalmente regolarizzare una situazione di fatto già accettata dal Ministero P.I. come rispondente agli interessi dell’ Amministrazione. E quindi se a tale regolariz zazione formale l’Amministrazione medesima richiama sia l’Albrighi che il Neri è evidente che non sia il caso di far valere un’eventuale diritto di prelazione. Ciò tanto più che se lo scopo cui mira il Ministero è quello di fare acquisire allo Stato il ciclo degli affreschi di Mezzaratta, tale acquisizione con la cessione che all’udienza del 14 gennaio ne farà 1’Albrighi si effettuerà prima che venga a scadere il termine per esercitare la prelazione, la quale perciò resterà in effetti impossibile»”. Nel febbraio del 1956 Gnudi scrive di nuovo preoccupatissimo all’Avvocatura perché la Soprin tendenza si trova in una posizione di imbarazzante scomodità. Nel corso di regolarizzazione degli Att richiesti dall’ Avvocatura Distrettuale la prima tappa è consistita nella formulazione ufficiale agli atti della cessione degli affreschi da Neri ad Albrighi, formulazione di un atto che pone gli affreschi di Mezzaratta in piena e assoluta proprietà di Albrighi. La seconda tappa di cessione degli affreschi in datio in solutum allo Stato sarebbe avvenuta in udienza qualche giorno dopo. La preoccupazione di Gnudi è che ora, trovandosi Albrighi in possesso di questo atto, se ne valga per alienarli a terza persona o sottrarli comunque al possesso dello Stato. Neri ha venduto gli affreschi ad Albrighi solo in quanto essi erano destinati definitivamente alla Pinacoteca e allo Stato e a tal fine soltanto la vendita fu dal Ministero e dal Consiglio superiore autorizzata. «Lei può immaginare, egregio avvocato, quale sarebbe la reazione dell’opinione pubblica, soprat. tutto a Bologna, ove accadesse che lo Stato e 1’Amministrazione, che da lunghissimi anni hanno
tentato di assicurare alle proprie collezioni i celebri affreschi [...] avesse invece la responsabilità di un loro trasferimento dalle mani dell’ex proprietario, per ogni aspetto rispettabile, in quelle di un Albrighi. Ecco perché il prof. Salmi e io la scongiuriamo a Roma di trovare la via sicura per assicurare definitivamente allo Stato il prezioso ciclo di affreschi». La complicata vicenda legale e di regolarizzazione amministrativa si conclude con l’ufficializ zazione degli atti di vendita degli affreschi tra Albrighi e i Neri Alessandretti in data 10 gennaio 1956 e due mesi dopo tra Albrighi e il Ministero”, Il 27 luglio Gnudi scrive all’Avvocatura distrettuale perché si disponga (avendo regolarizzato tutta la documentazione richiesta) l’atto di donazione della cappella ancora proprietà di Neri. Le trattative andranno di nuovo molto avanti finché nel 1958 Giulia Alessandretti dichiarerà di
voler recedere dalla donazione dell’immobile per sollevarsi dall’onere di dover affrontare la gestione dell’accesso turistico al luogo, e concederà che gli affreschi vengano definitivamente tutti staccati e conservati in Pinacoteca.
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Documenti ASoBSAEBo, Mezzaratta, 1° ottobre 1952, dichiarazione di impegno di cessione degli aftreschi
di Mezzaratta alla Pinacoteca Nazionale di Bologna da parte della proprietaria Giulia Neri Ales sandretti: «In seguito a precedenti accordi fra la C.ssa Giulia Neri Alessandretti e il Prof. Cesare Gnudi autorizzato dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti si conviene quanto appresso: La signora G. Alessndretti Neri si impegna di cedere per i Musei dello Stato (Pinacoteca Nazio nale di Bologna) tutto il complesso di affreschi di scuola bolognese del ’300 decoranti la ex Chiesa di S. A pollonia di Mezzaratta sia quelli già staccati sia quelli ancora in sity. Le spese del distacco precedenti o quelle successive per il distacco completo degli aftreschi stessi saranno a carico del Ministero della Pubblica Istruzione. Il pagamento della somma di L. 20.000.000 verrà effettuato in contanti entro il mese di ottobre 1952 dalla Amministrazione delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione o da persona designata e solo al pagamento integrale del prezzo sopracitato il Ministero o chi per lui potrà procedere al distacco degli affreschi ed essere proprietario di quelli già distaccati e di quelli da distaccarsi. La s.ra Giulia Alessandretti subordina il suo impegno di vendita alla condizione che il relativo contratto non venga registrato o nella eventualità che la registrazione dovesse avere luogo per qualsiasi causa, questa sia a carico del Ministero ed essa cedente venga da lui rimborsata di ogni imposta, tassa ed onere che potesse colpirla in dipendenza del contratto in oggetto. Giulia Neri Alessandretti, Cesare Gnudi». ASoBSAEBo, Mezzaratta, 12 ottobre 1952, atto del Ministero della Pubblica istruzione alla So
printendenza di Bologna: «Si porta a conoscenza di V.S. che di recente il Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti ha esaminato la questione relativa all’acquisizione allo Stato per la Pinacoteca di Bologna degli affreschi trecenteschi di Mezzaratta, che verrebbero acquistati dai responsabili dell’illecita espor tazione del dipinto raffigurante S. Sebastiano di Andrea del Castagno per essere ceduti allo Stato a titolo di indennizzo per il danno softerto con la perdita di detto quadro. Detto consesso [...] ha ritenuto inoltre che trattandosi di un dono allo Stato per la Pinacoteca di Bologna di un complesso di affreschi di così particolare importanza per la conoscenza della pittura bolognese del Trecento, si possa fare un’eccezione al principio, altrimenti inderogabile, che soltanto una improrogabile necessità conservativa possa giustificare il distacco di affreschi di edifici monumentali di proprietà privata, e che ove già staccati, gli affreschi esistenti negli edifici monumentali non possano essere alienati o comunque allontanati dal luogo di origine. In conformità di tale parere, questa Ammi/ nistrazione, con l'adesione del Ministero del Tesoro, autorizza la S.V. a prendere in consegna gli
aftreschi in parola [...] Si prega [...] non appena avvenuta la consegna darne tempestiva comunicazione all’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Firenze, avvertendo che con l’acquisizione del ciclo di affreschi di Mez zaratta lo stato si considera tacitato di ogni suo avere nei riguardi dei responsabili dell’esportazione dell’ Andrea del Castagno e delle altre opere minori». ASoBSAEBo, Mezzaratta, 12 novembre 1952, verbale di consegna degli affreschi di Mezzaratta
alla Soprintendenza di Bologna: «Il giorno 7 novembre alle ore 17.00 in Bologna presso la sede della Soprintendenza alle Galle rie, alla presenza dei sigg. Vito Agresti, Direttore Capo Divisione del Ministero della Pubblica Istruzione, Prof. Giulio Carlo Argan, Ispettore Centrale del M.P.I., Cesare Gnudi, Avv. Luigi Albrighi assistito dall'avv. Carlo Werner si è proceduto alla consegna al Soprintendente alle Gal
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lerie di Bologna dei seguenti affreschi trecenteschi provenienti dalla ex chiesa di S. Apollonia in Mezzaratta ceduti in proprietà allo Stato per la Pinacoteca dall’ Avv. Luigi Albrighi». Segue l’elenco degli affreschi, staccati e non staccati, poi da ultimo:
«L'Avv. Luigi Albrighi mentre dichiara che gli affreschi sunnominati sono di sua esclusiva e libera proprietà come dall’atto sopra richiamato presta formale ed espressa garanzia che le opere stesse non sono soggette a vincoli di sorta e si rende altresì garante verso lo stato obbligandosi in ogni modo a tenerlo indenne per qualsiasi eventuale evasione e rivendica da parte di terzi sulle opere stesse». Seguono i nomi dattiloscritti dei presenti. Nessuna firma. ASoBSAEBo, Mezzaratta, 18 novembre 1954, atto dell’ Avvocatura distrettuale dello Stato (fir-
ma Libero Malfatti, avvocato distrettuale) all’A vvocatura dello Stato di Firenze e alla Soprinten denza di Bologna: «Pregasi inviare copia dell’ Atto formale eventualmente stipulato per la definizione della verten za relativa ad esportazione non autorizzata del S. Sebastiano di Andrea del Castagno per cui il M.P.I. costituivasi parte civile dinnanzi il Tribunale Penale di Firenze. Risulta che gli abusivi esportatori in via sanzionatoria hanno acquistati gli affreschi di Vitale da Bologna che ornavano la ex Cappella di S. A pollonia in Mezzaratta (Bologna) al fine di trasferirli allo Stato. Ora la scri. vente è incaricata di redigere l’atto relativo alla donazione di detta cappella S. A pollonia in favore del Min. P.I. ed ivi dovrebbe farsi riferimento a precedenti trapassi correlativi al ciclo di affreschi di Vitale di Bologna che naturalmente non sono compresi nell’atto di donazione riguardante solo la parte muraria dell’immobile. Pregasi comunicare cortesemente ogni elemento utile al fine indicato per una efficace tutela degli interessi statali con indicazione pure delle generalità dei soggetti respon sabili della menzionata esportazione e di ogni istruzione impartita dall’ Avvocatura Generale dello Stato in merito e dal M.P.I.». ASOoBSAEBo, Mezzaratta, 13 ottobre 1955, atto dell’ Avvocatura distrettuale dello Stato di Fi
renze sull’esportazione clandestina di quadro di Andrea del Castagno. Processo Albrighi e altri. (Atto inviato all’avvocatura generale dello Stato, alla Soprintendenza alle Gallerie di Bologna e al Ministero della Pubblica istruzione): «Con questo atto si dichiara che l’Avvocatura Distrettuale dello Stato con la nota del 6 dicembre 1952 revocava la costituzione di parte civile nel procedimento penale che coinvolgeva l’Albrighi. A seguito di trattative intercorse era stato raggiunto un accordo per il risarcimento del danno subito dall’Amministrazione delle Belle Arti, accordo concretato nella consegna da parte dell’ Albrighi del ciclo di affreschi di Mezzaratta in Bologna, il cui valore non sarebbe stato inferiore a quello del quadro di San Sebastiano. L'A vvocatura Generale aggiunse inoltre che avendo avuto già luogo la consegna degli affreschi, veniva a mancare la ragione dell’intervento del Ministero della P.I. Il processo poteva dunque procedere d’ufficio. Questo fu concluso con la sentenza del Giudice Istruttore del Tribunale di Firenze in data 16 giugno 1954 con la quale venne disposta la confisca di tutti i dipinti descritti (San Sebastiano, Vergine seduta con osservatore, Ritratto di giovane, Ritratto di donna, Ecce Homo e un altro). MA si dice anche che l'Avvocatura Distrettuale non ha mai saputo in quali precisi termini e con quali modalità era avvenuto l'accordo tra Albrighi e il Ministero, finché in data 30 settembre 1955 venne notificato all’ufficio dell’ Avvocatura stessa un decreto del Consi
gliere Istruttore dott. Colonna del Tribunale Penale di Firenze col quale in sede di INCIDENTE DI ESECUZIONE e su istanza di Albrighi Luigi, Giliberti Ferruccio, Pini Umberto e Cesare Luda,
si fissava l'udienza del giorno 8 ottobre per sentire dichiarare nulla la confisca dei quadri, essendo stati in compenso ceduti all’Albrighi al Ministero altri quadri in luogo di quelli confiscati e aven
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do così, con la tacitazione di ogni danno, il Ministero venuto a far cadere gli effetti giuridici della misura disposta. Questa Avvocatura non essendo a conoscenza precisa dei fatti rimanda al 9 di novembre la sentenza. L’A vvocatura Distrettuale chiede sostanzialmente al Ministero di concerto con l'Avvocatura Generale dello Stato di far conoscere quale sia la linea di condotta da adottare sulle richieste dell’ Albrighi e in merito alla revoca della confisca. Inoltre l'Avvocatura Distrettuale informandosi di suo, apprende che le trattative e gli accordi tra l’Albrighi e il Ministero non sarebbero consistiti che in una dichiarazione del 7 novembre della Signora Giulia Alessandretti in cui
si dichiara la volontà di accordo con l’avvocato di trasferire al Ministero la proprietà degli affreschi ed in un verbale della stessa data, sottoscritto da Albrighi, dal Soprintendente alle Gallerie di Bo
logna e dal dott. Agresti Capo Divisione al Ministero della P.I. col quale si dà atto dell'avvenuta consegna degli affreschi all’ Amministrazione dello Stato. Detta dichiarazione e detto verbale non recano autentiche difirme, non sono registrati, né trascritti. Da notizia avuta poi, dall’Avvocatura di Bologna non risulta
stipulato alcun atto formale di donazione, di cessione o di transizione tra Albrighi, la sig.ra Alessandretti Neri ed il Ministero. Stando così le cose, per l’Avvocatura Distrettuale non può dirsi acquisita allo Stato la proprietà degli affreschi né conclusa alcuna formale stipulazione che ponga in essere un accordo tra le parti alfine di ritenere lo Stato tacitato da ogni danno per la esportazione clandestina delle opere indicate. Ciò tantopiù in quanto sia nella dichiarazione Alessandretti Neri sia nel verbale di consegna non ne èfatto alcun cenno, né la consegna degli affreschi è posta in relazione alla confisca dei quadri disposta dal tribunale di Firenze. L’Avvocatura Distrettuale richiede pertanto che l’Avvocatura Generale in accordo col Ministero diano luogo al formale atto di donazione e di cessione degli affreschi e dello Stabile di Mezzaratta allo Stato specificando in quell’atto che con tale cessione vengono tacitate gli effetti prodotti dalla confisca che viene di fatto sostituita da altre opere del valore economico pari alle precedenti. [...] E inoltre dovrebbe venire espressamente consacrato che la tacitazione del ministero della P.I. con la cessione di Mezzaratta va riferito non solo alla confisca dell’ Andrea del Castagno ma anche agli altri dipinti confiscati sia a danno dello stesso Albrighi che di tutti gli altri imputati. Ove non fosse possibile addivenire in tempo utile alla formale stipulazione del rogito si attendono dall’ Av. vocatura generale e dal Ministero opportune comunicazioni sulla linea di condotta da adottare alla udienza del 9 novembre e cioè conoscere con precisione se questa Avvocatura debba insistere e sotto quale riflesso nel mantenimento della confisca ovvero rimettersi a giustizia sulla specifica richiesta di annullamento (o revoca) della confisca stessa». ASoBSAEBo, Mezzaratta, 10 marzo 1956, atto privato da valere al pari di pubblico istrumento
tra Luigi Albrighi e Cesare Gnudi: «Io marzo 1956. Atto privato da valere al pari di pubblico istrumento in cui si dichiara che tra Luigi Albrighi e Cesare Gnudi si è stipulato e convenuto che: Premettendo che con sentenza 16 giugno 1954 del Tribunale di Firenze mentre si dichiarava non doversi procedere contro Albrighi si disponeva la confisca oltre che del predetto San Sebastiano anche di altre opere minori. Avendo poi l’Albrighi in data 21 settembre 1955 proposto incidente di esecuzione chiedendo di dichiararsi priva di effetto la confisca dei quadri San Sebastiano, Ecce Homo, Ritratto di giovane e Redentore, il tribunale di Firenze ordinava la citazione del Ministero della P.I. per l'udienza dell’8 ottobre 1955. In tale procedura Albrighi si è richiamato a precedenti
accordi intervenuti con la Direzione Generale delle Belle Arti e nelle more del procedimento ha of ferto, a condizione che il Ministero non si opponga alla restituzione dei tre ricordati dipinti oggetto dell’incidente di esecuzione, la formale cessione in proprietà a favore del Ministero di 33 affreschi
di Mezzaratta a titolo di datio in solutum a tacitazione di quanto egli sarebbe tenuto a corrispondere
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allo Stato [...] e ciò in quanto l’avv. non ha la possibilità di corrispondere in contanti la somma di cui ai precitati articoli mentre è proprietario dei suindicati affreschi di Mezzaratta da lui acquistati con atto privato 10 gennaio 1956 [...] e avendo il Ministero della P.I. ritenuto che il valore degli affreschi sia congruo e tale da essere accettato in luogo delle somme dovute e avendo altresì accertato che i tre dipinti richiesti dall'avv. Albrighi non presentano alcun interesse per le raccolte dello Stato né per qualità né per valore venale. Ciò premesso e confermato: I. Albrighi irrevocabilmente e formalmente cede al Ministero [...] tutti gli affreschi già di proprietà della sig.ra [...] da lui acquistati [...] e dichiara di fare tale cessione a titolo di datio in solutum ed a condizione che con tale datio in solutum lo Sato si dichiari tacitato e soddisfatto da quanto sarebbe dovuto a norma della legge 1939 n. 1089 per l’esportazione effettuate o tentate oggetto del procedi mento chiusosi con la ricordata sentenza 16 giugno 1954 [...] non siopponga alla restituzione dei tre dipinti suddetti. II. Il Prof. Gnudi accetta la cessione a titolo di datio in solutum e dichiara altresì di non opporsi alla restituzione al proprietario dei tre dipinti (Ecce Homo, Ritratto di Giovane e Redentore) di cui la predetta sentenza dispose la confisca».
fotoincisioni, stampe a tricromia e quadricromia),
° C. CARAFFA, Pensavo fosse una fototeca, invece è un archivio fotografico, in «Ricerche di storia dell’arte», 2012, 106, pp. 37:50; EAD., From «photo libraries» to «photo archives». On the epistemological potential of art-historical photo collection, in Photo archives and the
databili perlopiù entro gli anni cinquanta del Nove
photographic memory of art history, a cura di C. Ca
cento. Oltre a ditte molto note come Alinari, Brogi, Anderson, Vasari, sono documentati fotografi attivi a Milano (Mario Castagneri, Gianni Mari, Mario
raffa, Deutscher Kunstverlag, Miinchen 2011, pp.
Perotti, Emilio Sommariva), a Firenze (Ivo Bazzecchi) e a Roma (Cosimo Boccardi). Dal punto di
dagare il ruolo degli archivi fotografici negli studi
! Si tratta di fotografie positive in bianco e nero: ge latine ai sali d’argento e albumine. Sono presenti an
che alcune foto a colori (diacolor e stampe a svilup po cromogeno) e stampe fotomeccaniche (collotipi,
vista conservativo il fondo mostra diverse problematiche quali presenze di microrganismi, distacchi e lacune nell’emulsione, polveri e concrezioni, pieghe e danni meccanici. ? Desidero ringraziare chi ha voluto condivide re argomentazioni, agevolare la consultazione dei documenti, suggerire percorsi di ricerca: Gianni Mazzoni, Giovanni Pagliarulo e Spyros Koulouris della Fondazione Berenson, Gianpiero Cammarota e Mirella Cavalli della Soprintendenza per il
Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico di Bologna, Giancarlo Sestieri e Luca Ciancabilla,
l'avvocato Giuseppe Cavallari. * G. MORELLI, Della pittura italiana. Studii storico-critici. La Galleria Borghese e Doria Pamphili in Roma, Treves, Milano 1897, p. 16. * M. FERRETTI, Fra traduzione e riduzione. La fotografia
dell'arte come oggetto e come modello, in Gli Alinari fo tografi aFirenze (1852/1920), Alinari, Firenze 1977, pp. 116/142; Ib., Falsi e tradizione artistica, in Storia dell'arte italiana. X. Situazioni, momenti, indagini. 3. Con servazione, falso, restauro, a cura di F. Zeri, Giulio Einaudi editore, Torino 1981, pp. 115195.
11/44. Il volume raccoglie i contributi del convegno tenutosi a Londra e a Firenze nel 2009 diretto a in-
di storia dell’arte. In relazione al tema si confronti anche T. SERENA, La profondità della superficie. Una prospettiva epistemologica per «cose» come fotografie e archi. vi fotografici, in «Ricerche di storia dell’arte», 2012, 106, pp. 51/67; EAD., L'archivio fotografico. Possibilità derive potere, in Gli archivi fotografici delle soprintenden ze. Tutela e storia. Territori veneti e limitrofi, a cura di A.M. Spiazzi, L. Majoli e C. Giudici, Terra Fer
ma, Crocetta del Montello (TV) 2010, pp. 103/125. ° Alessandro Contini Bonacossi, ad vocem, in Dizionario
biografico degli italiani, vol. XXVIII, Treccani, Roma 1983, pp. 523/526. Cfr. W. ANGELELLI e A.G. DE MARCHI, Pittura dal Duecento al primo Cinquecento nel lefotografie di Girolamo Bombelli, Electa, Milano 1991,
pp. 1115. 7 M. CERIANA e C. QUATTRINI, Per Brera. Colle zionisti e doni alla pinacoteca dal 1882 al 2000, Centro Di, Firenze 2004, pp. 125/127.
* New York, American Art Galleries, The collection of Achillito Chiesa Esq. ofMilan, I, Flemish and Dutch Paintings ofthe xv, xVI, xv centuries. Italian primitives and Renaissance Examples, New York, 27 novembre
1925. ? W. TowNER e S. VARBLE, The elegant auctioneers,
Victor Gollanez,
London
1971.
dogli un’ingente somma di denaro per dissuaderlo dal progetto. Dietro si celavano le pressioni di quei «forestieri» che in Italia si erano arricchiti con lo stu dio e il commercio dei «fondi oro», quali Bernard Berenson e Frederick Mason Perkins. MAZZONI,
Il volume, che
affresca con vivace fantasia e sferzante ironia il va/ riegato mondo che ruota intorno alla casa d’asta
newyorkese Parke Bernet, completato dopo la morte dell’autore (1968) da Stephen Varble, fu pubbli cato per la prima volta a New York nel 1970. La copertina fu commissionata già nel 1958 al celebre caricaturista satirico David Low (1891/1963). !® «An ingratiating young Italian named Luigi AL brighi»; «The sometimes charmer Luigi Albrighi,
Quadri antichi del Novecento cit., pp. 14/16. !* New York, The Metropolitan Museum of Art,
Francesco Botticini (già Andrea del Castagno), San Sebastiano (1465 ca.) inv. 48.78, tavola, 144,1 x 66,7
483, 504.
cm. Già conti De Larderel, Firenze fino al 1944; conte Giovanni Rasini, Milano; Giovanni Marchig e Albrighi; Cotton Trading (fino al 1947; venduto a Pinakos e Knoedler); Pinakos, Inc. (Rudolf J. Heinemann) e Knoedler, New York, 1947/1948, come Andrea del Castagno. Federico Zeri, nel
!! Le aste si tenevano perlopiù a New York, come
catalogo The Metropolitan Museum of Art. Florentine
testimoniano i numerosi ed eleganti cataloghi. R.
School da lui firmato e uscito nel 1971, attribuisce la tavola a un anonimo artista fortemente influenzato dall’ultimo periodo dell’attività di Andrea del Ca stagno e segnato dall’opera di Piero e Antonio Pol
now a “crook”»; «In Italy three separate lawsuits
with him [Albrighi] were still pending, a residue of the nine-yearzold Chiesa bungle». TOWNER VARBLE,
e
The elegant auctioneers cit., pp. 383, 413,
FerRRAZZA, Palazzo Davanzati e le collezioni di Elia Volpi, Centro Di, Firenze 1993, pp. 223/250.
'? La Fototeca
Zeri documenta
circa centoventi
opere passate da Albrighi o dalla galleria della com
Chiesa due scomparti di polittico con Santo Stefano
laiolo e del Verrocchio. FE ZERI ed E. GARDNER, The Metropolitan Museum of Art. Florentine School, The Metropolitan Museum of Art, New York 1971, pp. 8/29, tav. 66. Nella fototeca dello studioso
e San Bonaventura, attribuiti a Marco d’Oggiono e oggi a San Simeon (Cal.) (Fototeca Zeri, invv.
particolari) sono classificate all’interno del fascicolo
79112, 79113), e la Madonna dell’Umiltà di Andrea
dedicato al Maestro della predella di Casa Colonna.
pagna Paola Ventura. Tra queste, a titolo di esem-
pio, si segnalano come provenienti dalla collezione
le fotografie relative al dipinto (un insieme e dodici
di Bartolo, oggi in ubicazione sconosciuta (Fototeca
Cfr. Bologna, Fototeca Zeri, coll. PI:0155/5/19/31,
Zeri, inv. 22603). 13 Sul sito Mondadori Portfolio, cui si deve lo scatto,
invv. 36683/36693, 36694, 36695.
è visibile anche una seconda fotografia che mostra
! Per un tentativo di approfondimento della vicen da segnalata da Luca Ciancabilla, nel 2005, si veda
Berenson con Luigi Albrighi mentre studia quadri
l’ultimo paragrafo di questo contributo. Cfr. L.
e fotografie. Disponibili agli indirizzi: http://www.
CIANCABILLA, Appendice. Vicende conservative. Gli
mondadoriportfolio.it/itfasset/fullTextSearch/sear ch/Berenson/page/r e anche http://www.gettyima, ges.itfeditorial/bernard-berenson-pictures.
affreschi nel Novecento, in A. Volpe, Mezzatatta, Bo nonia University Press, Bologna 2005, pp. 139/153.
‘E. Joni, Le memorie di un pittore di quadri antichi, So cietà editrice toscana, San Casciano in Val di Pesa (EI) 1932. !© La vivace cronaca di Giuseppe Mazzoni, lasciata
2° C. ViccLers, La madonna botticelliana del visconte Lee di Farcham, in Falsi d'autore cit., pp. 4758; MAZzONI, La cultura del falso cit., pp. 74/77; ID., Quadri antichi del Novecento cit., pp. 166171; L. LORIZ zo, Pietro Toesca all’Università di Roma e il sodalizio con Bernard Berenson, in Pietro Toesca e la fotografia, a cura di E. Gabrielli e P. Callegari, Skira, Milano
dall’autore in forma di diario manoscritto e databile al 1955, è pubblicata in gran parte da Gianni Maz-
2009, pp. 103-125, in particolare pp. 113/117. Si segnala inoltre che il dipinto è stato esposto nel 2010
zoni in G. Mazzoni, Quadri antichi del Novecento, Neri Pozza editore, Vicenza 2001, pp. 185, 267. Si cfr. anche ID., La cultura del falso, in Falsi d'autore. Ici
alla National Gallery di Londra nella mostra Close
gno - 12 settembre 2010) di cui rimane un sintetico
lio Federico Joni e la cultura del falso tra Otto e Novecen-
e incompleto catalogo, M.E. WIESEMAN,
to, catalogo della mostra (Siena, Santa Maria della Scala, Palazzo Squarcialupi, 18 giugno - 3 ottobre),
look: deceptions &' discoveries, National Gallery Co., London 2010. 2 Lo scatto (Villa I Tatti, Biblioteca Berenson, Fototeca, inv. F268.2), databile al febbraio 1930
4 ANGELELLI e DE MARCHI, Pittura dal Duecento al
primo Cinquecento cit., pp. 278.
examination: Fakes Mistakes & Discoveries (30 giu
Protagon, Siena 2004. Y Umberto Pini e Carlo Balboni tenteranno di boicottare la pubblicazione delle Memorie di un pit
A closer
(stando alle note manoscritte sul verso), presenta sul
tore di quadri antichi di Federico Joni nel 1932 offren
recto alcune indicazioni manoscritte, probabilmente
223
di Berenson, dirette a segnalare i colori sulle diverse
da Siena (c. 1260), Incoronazione di Maria Vergine,
parti del dipinto. Cfr. LoRIZZO, Pietro Toesca cit., p. 116, fig. 15a. La fotografia fa parte di un folder
tempera
di cinque stampe relative alla Madonna del Velo; a queste si accompagna una lettera scritta dai Duveen
Brothers insieme a una relazione sul dipinto redatta dal laboratorio Mercier. Un'altra foto interessante mostra il dipinto prima del suo restauro. Altri scatti dello stesso dipinto sono stati mandati nel dicembre del 1930 da Fareham Lee e fanno parte della sezione
su tavola, 34,3 x 166 cm,
inv. P.1947.
LF.186. Cfr. C. ViLLERS e A. LEHNER, Observa
tions on the «Coronation ofthe Virgin» attributed to Guido da Siena in thè Courtauld Institute Gallery, London, in
«Zeitschriftur Kunsigeschichte», LXV, 2002, pp. 289/302.
? ViLLERs, La madonna botticelliana cit., pp. 56/57; VILLERS e LEHNER, Observations on the «Coronation of the Virgin» cit.
delle foto di grande formato. Colgo l’occasione per
3 MAZZONI, Quadri antichi del Novecento cit., p. 33,
ringraziare Giovanni Pagliarulo e Spyros Koulouris della Fondazione Berenson per la generosa dispo
figg. 5058; pp. 252/258.
nibilità e il felice dialogo di confronto. 2 Per la vicenda e tutte le citazioni riportate cfr. LORIZZO, Pietro Toesca cit., pp. 116/117. 2 Il nucleo di fotografie dedicato ai Falsi all’inter no dell'Archivio Zeri consiste di circa una decina di buste per un totale di oltre duemila positivi. Le
stampe fotografiche sono distribuite tra scultura e pittura secondo una scansione cronologica e, sommariamente, georeferenziata coprendo un arco tem-
porale che va dalle falsificazioni medievali a quelle contemporanee. 2 Bologna, Fototeca Zeri, nucleo Falsi, inv. 169780, retro con iscrizioni manoscritte: «12 Sett 1927 Commissione Volterra 2591/3»; timbro a inchiostro: «7 LUG 1928» e a fianco nota manoscritta: «Ceduta la
3! Villa I Tatti, Biblioteca Berenson, Fototeca, invv. 126364, 126366. “Federico Joni, Ritratto di giovane,
attribuito a Matteo di Giovanni (?) o ambito di Pin turicchio, gelatina al bromuro d’argento, c. 1930.
? ANGELELLI e DE MARCHI, Pittura dal Duecento al primo Cinquecento cit., p. 61, n. 99.
# Si veda in particolare un brano piuttosto signi. ficativo anche.in relazione alla Madonna del Velo di Giunti «restaurato in varie parti in verità [...] assassi. nate per essere poi cicatrizzate dalla stessa mano tor turatrice [...] e rifattrice [...] nella sua serena integrità
[...] da gabbare [...] igrandi papaveri della sapienza parolaia [...] di critici vampiri». MAZZONI, Quadri antichi del Novecento cit., p. 253.
* Ibid., pp. 106/110; pp. 258/263, fig. 232. © Bologna, Fototeca Zeri, fondo Albrighi, inv. 311277, Anonimo, gelatina al bromuro d’argento,
negativa - Vedi B. 2773». All’interno della Fototeca Zeri, nel corso della catalogazione del nucleo Pittura
236 x I65 Mm,
Italiana, sono emerse oltre trecento stampe fotografi che Brogi (non facenti parte dei cataloghi pubbli. cati dalla ditta) con la medesima nota manoscritta
gravi lacune nella parte inferiore e vistosi degradi che compromettono la lettura dell’immagine. 36 Siena, collezione Banca Monte dei Paschi, Bruno
c. 1950-1960.
La stampa presenta
sul verso indicante la committenza per un privato
Marzi, Madonna con Bambino in trono incoronata da ange-
(«Commissione Volpi», «Commissione
Offner»,
«Commissione Volterra»).
li, attribuita a Niccolò di Signa, tavola, 88 x 60 cm. Y G. MAZZonNI, Falsificazioni d'arte a Siena tra Ot
© V. MARANO, Due generazioni di antiquari: i Volter
tocento e Novecento, in Bruno Marzi, a cura di M.
ra, tesi di laurea in Storia dell’ Arte Europea del Set tecento, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e
Caciorgna e M. Pierini, Il Leccio, Siena 1995, pp.
A. Ottani Cavina, 4.2. 2007/2008.
199/236, in particolare pp. 232/233, fig. 75; ID., Quadri antichi del Novecento cit., pp. 38/39, fig. 80; Falsi d'autore cit., pp. 222/223, n. 75.
© MAZZONI, Quadri antichi del Novecento cit., p. 180,
* Bologna, Fototeca Zeri, nucleo Falsi, inv. 169768,
Filosofia, corso di laurea in Storia dell’ Arte, relatore
nota 20.
Sotheby's, gelatina al bromuro d’argento, 250 x
7 Vaduz, collezione privata, Sacra Famiglia con agnello, tavola, 32,2 x 22 cm. Provenienze: Peru, gia, collezione Conestabile della Staffa; A venches (Svizzera), Collezione Gobet; Firenze, Albrighi;
200 mm, c. 1981, Umberto Giunti (?), Madonna con Bambino, tavola, 73 x 50 cm, vendita W. Doyle, 23 maggio 1981, n. 489, come scuola di Botticelli; già William F. Buckley (c. 1940), Camden (S.C.).
Collezione Lord Lee of Fareham (1933); Londra,
‘ Il dipinto successivamente passa in vendita W.
asta Christie's 25 novembre 1966, n. 18; Germania, collezione privata; Svizzera, collezione privata. |. LEHMANN, Raphael. The Holy Family with the Lamb
Doyle come scuola di Botticelli il 23 maggio 1981
of 1504. The Original and its Variants, Arcos, Land shut 1995, p. 38, cat. I. * Londra, The Courtauld Institute of Art, Guido
(lotto n. 489). Cfr. R. BuckLey, An American Family: The Buckleys, Simon and Schuster, New York 2008, p. 254. ‘ VoLpE, Mezzaratta cit.; Catalogo generale, Pinacote ca Nazionale di Bologna. Vol. 1. Dal Duecento a Fran
cesco Francia, a cura di J. Bentini, G.P. Cammarota
rivolta per le ricerche non è stata tale da consentire
e D. Scaglietti Kelescian, Marsilio, Venezia 2004, pp. 104/113. 4! Il coinvolgimento di Luigi Albrighi nella vicen da relativa alla complicata trattativa per l’acquisto degli affreschi da parte della Soprintendenza di Bo
di verificare i documenti in tempi utili per questa pubblicazione. © L’unico contatto bolognese di Albrighi finora noto è quello con Umberto Pini, anch'egli coin volto nell’esportazione illecita per cui è in corso il procedimento a Firenze. Non si ha comunque testi monianza di un’eventuale relazione tra i Neri A les
logna è per la prima volta segnalato da CIANCABILLA, Appendice cit. Cfr. anche L ‘incanto dell'affresco. Tiepolo, a cura di L. Ciancabilla e C. Spadoni,
sandretti e Pini che qui si propone solo in via del tutto ipotetica.
catalogo della mostra (Ravenna, Loggetta Lombar
°° ASoBSAEBo, Mezzaratta, 12 ottobre 1952, atto
desca, 16 febbraio 15 giugno), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2014, vol. 1, p. 244, n. 79. # Archivio storico della Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico e Demoetnoantropo
tendenza di Bologna. Cfr. appendice documentaria. 5% ASoBSAEBo, Mezzaratta, 10 novembre 1952, lettere di Gnudi a Guglielmo de Angelis e Giulio
Capolavori strappati, da Pompei a Giotto da Correggio a
del Ministero della Pubblica istruzione alla Soprin
logico di Bologna (d’ora in poi ASoBSAEBo),
Carlo Argan.
Mezzatatta.
5 ASoBSAEBo, Mezzaratta, 12 novembre 1952, verbale di consegna degli affreschi di Mezzaratta alla Soprintendenza di Bologna. Cfr. appendice docu mentaria.
# ASoBSAEBo,
Mezzaratta, lettera di Antonio
Sorrentino a Vincenzo Neri, 31 gennaio 1941; let.
tera di Vincenzo Neri ad Antonio Sorrentino, 22
febbraio 1941. In quest’ultima il proprietario, dopo aver comunicato precedentemente, la decisione di cedere gli affreschi allo Stato, propone come prezzo
° ASoBSAEBo, Mezzartatta, 19 giugno 1954, lette
di vendita 600.000 lire, a suo dire un terzo del loro valore d’acquisto. Il soprintendente rifiuterà, rite.
atto dell'Avvocatura distrettuale dello Stato (firma Libero Malfatti, avvocato distrettuale) all’ Avvoca
nendo il costo eccessivo.
tura dello Stato di Firenze e alla Soprintendenza di Bologna. Cfr. appendice documentaria. 7 ASoBSAEBo, Mezzaratta, 13 ottobre 1955, Fi renze, atto dell’ Avvocatura distrettuale dello Stato
ra di Cesare Gnudi a Vincenzo Neri. °% ASoBSAEBo, Mezzaratta, 18 novembre 1954,
# Cfr. CIANCABILLA, Appendice cit., p. 244. * ASoBSAEBo, Mezzaratta, 13 maggio 1952, atto di notifica del Tribunale giudiziario di Bologna al Ministero della Pubblica istruzione per conto di Giulia Alessandretti. CI@{rnota30! 7 ASoBSAEBo, Mezzaratta, 12 settembre 1952,
sull’esportazione clandestina di quadro di Andrea del Castagno. Processo Albrighi e altri. Cfr. appen dice documentaria. % ASoBSAEBo, Mezzaratta, 20 dicembre 1955,
lettera di Cesare Gnudi a Giulio Carlo Argan in allegato a una relazione sullo stato degli affreschi
lettera di Cesare Gnudi all’ Avvocatura dello Stato di Firenze. 9 ASoBSAEBo, Mezzaratta, 20 dicembre 1955, lettera dell’ Avvocatura dello Stato di Firenze alla Soprintendenza di Bologna. 9 ASoBSAEBo, Mezzaratta, 28 febbraio 1956, let tera di Cesare Gnudi all’ Avvocatura dello Stato di
dell’ex chiesa di Santa Maria di Mezzaratta. # ASoBSAEBo, Mezzaratta, 1 ottobre 1952, di chiarazione di impegno di cessione degli affreschi di Mezzaratta alla Pinacoteca Nazionale di Bolo, gna da parte della proprietaria contessa Giulia Neri Alessandretti.
Firenze.
?° Cfr. nota 15. °° Gli atti del procedimento penale contro Albri.
9! ASoBSAEBo, Mezzatatta, 10 marzo 1956, atto privato da valere al pari di pubblico istrumento tra Luigi Albrighi e Cesare Gnudi. Cfr. appendice
ghi si conservano oggi presso l'Archivio di Stato di Firenze. La tempistica delle risposte da parte dell’A vvocatura distrettuale fiorentina cui mi sono
documentaria.
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Referenze fotografiche © by SIAE 2017: Christian Boltanski; Otto Dix; The Easton Foundation/Licensed by VAGA, New York and SIAE, Rome; Damien Hirst and Science Led. all rights reserved; David Low; Fondazione Piero Manzoni, Milano; The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc.
Copertina: © Studio Curchod, Vevey
Fig. 2, p. 9: Fondazione Salomon R. Guggenheim. Photo Archivio Cameraphoto Epoche. Donazione, Cassa di Risparmio di Venezia, 2005
Figg. 24, pp. 158-159; tav. 21: © Museo di Roma Figg. 1/2, p. 189: © Londra, Victoria & Albert Museum
Figg. 3/6, pp. 190-191: © Sarasota (FL), The John and Mable Ringling Museum of Art Figg. 3-4, p. 207; figg. 9-10, p. 211; figg. 11/12, p. 213;
figg. 13/14, p. 215; fig. 15, p. 217: © Bologna, Fototeca Zeri Figg. 577, p. 209: © Firenze, Biblioteca Berenson, Fototeca, Villa I Tatti Tav. 7: © Gregoire Dupond, per gentile concessione della Fondazione Giorgio Cini
Tav. 9: Foto Alessandro Ravaioli Gardella
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ISBN:
978-88-422-24U0-2
In copertina
Ì | | | |
A nonimo falsario del Novecento, Ritratto di giovane uomo, Vevey, Musée Jenisch.
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