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Italian Pages [57] Year 2007
Natalino Irti
Il diritto nell’età della tecnica
Editoriale Scientifica
1. p. g ro s si, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, 2 0 0 6 R o d o tà , Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, 2 0 0 7
2 . s.
UMiVERSiTrt DEGLI STUD! DI MACE ÌÀ'TA DIPARTIMENTO DI DIRITTO PUBBLICO E TEORIA DEL GOVERNO
(Tramite G.A.S.B.) INV. N.
.............DEL
PRO PR IETÀ LETTERARIA RISERVATA ISBN 978-88-95152-66-O © Editoriale Scientifica srl 2007 80138 Napoli via San Biagio dei Librai, 39
Indice
9
PRIMA LEZIONE
Tecno-diritto 21
SECONDA LEZIONE
Geo-diritto 35
TERZA LEZIONE
Bio-diritto 47 Per un’autobiografìa giuridica (dal concettualismo al nichilismo) 67 Indice dei nomi
Nasce, questo libriccino, per l’intimante amicizia di Francesco De Sanctis. Vi si raccolgono tre lezioni, tenute, lo scorcio dell’a prile 2007, nella Facoltà giuridica di San Paolo (e perciò denominabili ‘lezioni brasiliane’); ed un profilo autobio grafico, che narra il cammino di un cinquantennio o poco meno. Roma, 6 luglio 2007
Per un’autobiografia giuridica è già in II salvagente della forma, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 3-16. La seconda lezione, Geo-diritto, può anche leggersi in Norme e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Roma-Bari, nuova ed. 2006, pp. 131 ss.
Tecno-diritto
unusquisque tantum juris habet, quantum potentia valet Le parole famose di Baruch Spinoza (Tractatus politicus, II, 8; III, 2) colgono la natura propria del diritto. In tutti i fenomeni giuridici - dai più semplici ed ele mentari ai più solenni e complessi, dall’accordo fra privati alle norme legislative e costituzionali -, in tutti, noi in contriamo un rapporto di volontà. Una volontà esige che altri abbia una data condotta, e dunque che altri voglia in un certo modo. Il diritto è dominio sulla volontà altrui: dei governanti sulla volontà dei governati, del creditore sulla volontà del debitore, del proprietario sulla volontà di tutti i consociati (erga omnes, appunto), del giudice sulla volontà delle parti in causa, e così seguitando. Altrui vo lontà sono chiamate all’obbedienza, cioè ad accogliere in sé un volere dominante, ed a tradurne il contenuto in attuosa realtà. Ma perché una volontà sovrasta l’altra? e perché quest’ultima prende la direzione segnata dalla prima? Una volontà v a l e più dell’altra. Il valore non le giunge dal l’alto, da una delega metafisica o trascendente, ma da se stessa, dalla sua determinata storicità. La volontà domi nante ‘potentia valef, vale per potenza, per capacità diret tiva e coercitiva. La potenza istituisce il valore; il valore è
misura della potenza (... tantum ... quantum ...). Il valore è mera fatticità della potenza. Tre parole, ricavate dalla frase spinoziana, e decisive nella filosofia di Nietzsche, ci permettono di afferrare il diritto: volontà, potenza, valore. La volontà si esprime e svolge in potenza, e così fonda il proprio valore. Il sog getto "tantum juris habet’, ha una misura di diritto pari alla misura di valore, ossia al grado della volontà di potenza: ‘quantum potentia valet’. Non c’è diritto senza questa vo lontà, senza questa capacità di dominare le scelte altrui. Appunto l’a l t r o , il governato o il debitore dei nostri esempi, si trova dinanzi a molteplici strade e possibilità di azione; ma l’una di esse è sorretta da un volere, che lo so vrasta e domina, ed egli la sceglie ed esegue. L’obbedienza nasce sempre da un calcolo di forze, soggiace a un dominio imperativo. Diritto è una potenza del dirigere, del segnare il cammino all’altrui volontà. Non un teorico o filosofo del diritto (i quali, come pure i giuristi positivi, hanno passo grave e lento), ma un intellettuale irregolare, un errabondo del pensiero, Walter Benjamin, ha affermato la natura crudele della legge. Le pagine Per la critica della violenza, raccolte in Angelus novus, ci dicono che la violenza istituisce, mantiene, depone diritto: non c’è fenomeno giuridico nel quale non si esprima e svolga la violenza. Anche sul contratto, con cluso dalle parti in pacifica quotidianità, si allarga l’ombra della violenza, il “diritto - scrive Benjamin —di ricorrere, in qualche forma, alla violenza contro l’altra, nel caso che questa dovesse violare il contratto”. La violenza è energia creatrice e distruttrice, ma, quando pure demolisca un vecchio ordine o abbatta un sistema di norme, essa su scita nuovo diritto, e lo difende dinanzi ad altri interessi e volontà, ossia contro una diversa violenza, che ha in sé
la medesima capacità distruttiva e creativa. La storia del diritto coincide appieno con la storia ciclica della vio lenza. 2. Il volere, da cui nasce e si svolge il diritto, mira a raggiungere uno scopo.Volontà di scopo —potrebbe dirsi —, che sceglie mezzi e strumenti adatti. Già questo è un primo incontro con la tecnica, se per tecnica intendiamo Yadeguazione dei mezzi alfine, il non restare al di qua né an dare al di là del risultato atteso. L’energia normativa non va sciupata e neppure risparmiata, ma messa a razionale servi zio dello scopo. La tecnica del diritto è appunto in questa commisura zione, nel chiedere alla volontà altrui non meno e non più del sacrificio necessario. L’analisi economica del di ritto, venuta in moda ai nostri giorni, solleva un vecchio e secolare problema. E appena da soggiungere che la ra zionale scelta dei mezzi nulla ha da vedere con la razionale scelta dei fini, il fine offre il criterio per calcolare la razio nalità dei mezzi, ma non c’è alcun criterio per calcolare la razionalità dei fini. Qui, nel preferire l’uno all’altro fine, o nell’ordinarli secondo un prima e un dopo, si agita la storia dell’uomo: fedi religiose, visioni del mondo, ideologie politiche, interessi economici. Conflitti si ac cendono e si spengono, alleanze si concludono e si sciol gono: e alleanze e conflitti lasciano traccia nella storia delle legislazioni. 3. Ma tecno-diritto non indica (o non vuole soltanto indicare) la tecnica del diritto, il razionale impiego di mezzi in vista di un fine. E piuttosto la parola, con cui descriviamo la situazione del diritto nel nostro tempo, il rapporto della potenza giuridica con altre potenze. C ’è fra esse
un tratto comune: la consapevole volontà di dominare cose e uomini, natura e storia. Volontà, non mai sazia e placata, che trascorre di scopo in scopo, e non riconosce alcun vincolo prima di sé e sopra di sé. Questa volontà è l’essenza propria della tecnica. Non nel vecchio e incolore significato di scelta di mezzi coe renti al fine, ma di volontà dominatrice del mondo, di quel mondo che è intorno a noi e di cui noi stessi facciamo parte. La tecnica è potenza che usa il mondo, e perciò lo calcola, lo governa, lo manipola. Tutte le diagnosi e defini zioni della tecnica —quali, da filosofi e storici e sociologi, sono state proposte nel secolo XX —, tutte gravitano su questa insaziata volontà di dominio, che si crea il proprio mondo, sovrapponendolo e im-ponendolo alla realtà ‘data’. Di qui l’antitesi o dualismo fia naturale e artificiale, fra le cose come sarebbero prima e le cose come sono dopo l’intervento della tecnica, fra l’originaria ingenuità e la cal colante riflessione. E propriamente artificiale è il mondo della tecnica, cioè ‘fatto con arte’, con metodi e abilità suggeriti dalla scienza, e con l’ausilio di mezzi meccanici. La ‘in-naturalità’, così dolorosamente avvertita nelle descrizioni del nostro tempo, non è altro dal dominio tecnico, è la stessa tecnica che si svela nella sua misura planetaria. Ed anche codesto è tratto comune al diritto, il quale, mercè co mandi e divieti, crea il proprio mondo, un mondo di vo lontà ed azioni, che nulla ha di originario e naturale. Su prema e pura è l’artificialità del diritto, di questo suo giu dicare le azioni (lecite o illecite, obbligatorie o libere), di questo segnare inattesi cammini alla volontà altrui. 4. Il problema è ora di capire se la tecnica sia una po tenza unitaria, che tutto accoglie e risolve in sé, o se essa
si distingua in diversi campi e prenda molteplici vesti. La volontà di dominio - chi appena rifletta —si svolge in molteplici forme, e queste si trovano ora strette in ac cordi, ora levate Luna contro l’altra in aspri conflitti. Me ditiamo, a modo d’esempio, sull’ipotesi che la scienza ab bia scoperto una sostanza medica, la quale sia reputata profittevole dalle imprese farmaceutiche, ma avversata e tenuta per illecita dal diritto vigente. Qui la tecnica as sume diverse forme, e schiera in battaglia tre autonome potenze: medicina, economia, diritto. Esse, pur ricono scendosi nella volontà di dominio che tutte le anima e sospinge, si trovano opposte e discordi. L’esito della lotta non è prevedibile; non sappiamo se il diritto, cioè la po tenza politico-giuridica, sarà capace di attuare il proprio divieto e di recarlo in esecuzione contro riluttanti vo lontà, o se invece verrà battuto dalle altre potenze e pie gato all’alleanza con medicina ed economia. Si è detto ‘potenza politico-giuridica’, poiché il di ritto, almeno nella secolare storia d’Occidente, esprime la volontà politica, le scelte di coloro che assumono il go verno della cosa pubblica. Dalla politica il diritto non può uscire, da questa o quella politica (liberale o autoritaria, conservatrice o progressista); e, quando sembra che se ne sciolga e se la scrolli di dosso, è soltanto per abbracciare un’altra politica e consegnarsi ad essa. Si sono avvicen dati, nel secolo appena concluso, i profeti del destino (da Weber a Rathenau, a Schmitt), gli spiriti capaci di so spingere lo sguardo oltre il confine, e ci parlarono di eco nomia, o politica, o tecnica come destino del mondo. Non guardarono né parlarono invano, poiché coglievano le potenze in campo, e le descrivevano nell’alterno vin cere o soccombere, primeggiare o asservirsi alle altre. Il destino non si lascia racchiudere in una parola, ed è piut-
tosto in questo gioco di potenze, sicché nessuna può det tar legge alle altre e tutte debbono rimettersi all’esito della storia, all’hegeliano tribunale del mondo. 5. L’asserita autonomia della politica, che è poi autono mia del diritto rispetto alle altre potenze terrene, rifiuta ogni illusione o minaccia tecnocratica. Non c’è ‘esperto’ o ‘competente’ che sia in grado di surrogarsi alla lotta poli tica e di determinare il contenuto delle norme giuridiche. Il tecnocrate o burocrate, il quale compia o suggerisca una certa scelta giuridica, fa, e non può non fare, la propria po litica. L’anti-politica, così consueta negli ambienti econo mici e finanziari, è soltanto una forma della politica, un suo dissimularsi dietro tavole statistiche o calcoli di costi e benefici. La scelta degli scopi appartiene alla politica; burocrati e tecnici possono soltanto soccorrere nella scelta dei mezzi, ossia per stabilire la razionale coerenza di questi con quelli. I problemi della convivenza, del nostro trovarci in sieme con gli altri, sono suscettibili di molteplici risposte: ciascuna dettata da visioni del mondo o fedi religiose o ideologie. Non c’è alcun criterio sovrastante, che, nella sua obiettiva e pacifica neutralità, consenta di scegliere fra Luna e l’altra risposta, e dunque sia accessibile e fruibile dagli ‘esperti’ della politica. Rimane la lotta fra opposte e discordi soluzioni, il contrasto fra partiti, il gusto settario dell’intransigenza, la capacità di sacrificio: insomma, quel groviglio di idee e di passioni che siamo soliti raccogliere sotto il nome di politica. Soltanto il ‘profano’ può deci dere sulle controversie fra tecnici; soltanto alla politica spetta la determinazione dei fini: l’ideale di tecnicità —ri petiamo con Hans Kelsen —“è stato in ogni tempo una delle più potenti ideologie dell’autocrazia”. Se la politica
abdica, non subentra la tecnica, ma un’altra politica dissi mulata dietro lo speciabsmo dei ‘competenti’ e degli ‘esperti’. Dire che il diritto è tecnica, cioè forma di volontà di potenza, è dire che esso è politica, ed esprime il rapporto tra governanti e governati. E perciò rifiutare le ingenuità o scaltrezze tecnocratiche, le quali, confondendo la funzio nale scelta dei mezzi con la storica scelta dei fini, surro gherebbero le aspre e crudeli lotte della politica con ‘di battiti’ ‘convegni’ ‘tavole rotonde’ di ‘esperti’ e ‘compe tenti’. 6. Si è detto di sopra che la volontà di potenza, que sto slancio vitale al dominare e usare, assume forme mol teplici e diverse. Il diritto (e qui si torna al principio del nostro discorso) è una tra le forme di volontà di potenza: non si esercita e svolge sulle cose o sulla natura animale o vegetale, ma sulla volontà stessa dell’uomo. Il diritto vuole che altri voglia in un certo modo, è volontà dominatrice di un’altra volontà, alla quale impone uno specifico con tenuto. Dove un grande filosofo del Novecento, Giovanni Gentile, scrive che “il diritto può ben dirsi la natura nel mondo della volontà”, intendiamo che il diritto tratta l’altrui volontà nella guisa stessa con cui la tecnica tratta la natura. Il diritto ‘naturizza’ la volontà, e la calcola e manipola come un ente del mondo esterno. Codesto è propriamente tecno-diritto, la tecnica nella forma del diritto, volontà di dominio sulle volontà altrui. C ’è qualcosa di terribile e di empio: mentre le al tre forme di tecnica si rivolgono alla natura - ed anche a quella parte della natura che è il corpo umano —qui, nel diritto, la volontà mira a determinare il contenuto del volere stesso. La regola è dettata da una volontà; il regolato
è un’altra volontà. La tecnica s’installa fra le volontà umane. 7. In ciò, che diciamo il regolato, la materia su cui si svolge la tecnica del diritto, ricadono anche le altre forme della tecnica, ossia, per venire a linguaggio più semplice e schietto, volontà di scienziati e di imprendito ri, campi del sapere e dell’economia. Le quali forme non si lasciano docilmente signoreggiare, ma esprimono la loro forza e la oppongono al diritto. Può aprirsi così una lotta aspra e grandiosa, che spesso si allarga ad altre po tenze: fedi religiose, circoli di cultura, sette mistiche, agi tazioni popolari. Il diritto trova dinanzi a sé tecnica ed economia in sieme alleate: la tecno-economia, dove la scienza offre alle imprese nuovi metodi e scoperte, e le imprese sollecitano e sorreggono le ricerche della scienza. La tecno-econo mia vuole farsi, essa stessa, normativa, e determinare il contenuto del diritto. Le norme giuridiche, emanate dal potere politico (quale che si sia, autoritario o democra tico), sono accettate o ricusate secondo che favoriscano o alterino il funzionamento del mercato. L’economia di mercato prende il luogo del vecchio diritto naturale, e, al pari di questo, si eleva a giudice del diritto positivo, e ne tutela la conservazione o ne promuove la riforma. Il re golato rovescia, o si prova a rovesciare, il rapporto con il regolante, e a darsi da sé la propria regola. Le leggi natu rali dell’economia, resuscitando 1 pallidi fantasmi del di ritto naturale, tendono a collocarsi al di là e al di sopra del potere giuridico-politico. Perché lotte fra partiti, urto di visioni della società e della vita, e dividersi e scontrarsi, se dalle leggi naturali dell’economia sono deducibili le giuste e opportune nor-
me del diritto? se codesto ufficio può affidarsi al neutrale e pacificante lavoro di ‘esperti’ e ‘competenti’? Torna così l’ingenuo o scaltro ‘ideale di tecnicità’, e le tecnocrazie si apprestano a sostituire parlamenti e governi rappresenta tivi. Ecco la potenza, che oggi il diritto trova di fronte o di contro a sé, e con cui si apre la partita decisiva. 8. La tecno-economia presenta un carattere, che è inatteso e nuovissimo nella storia dell’uomo. Potrebbe chiamarsi la s p a z i a l i t à , il suo espandersi e dilagare senza alcun termine, la sua s-confinatezza. La rete telema tica, priva di luoghi e di ancoraggi geografici, ne è il sim bolo più sicuro e compiuto. Mentre la potenza politicogiuridica si tiene ancora entro la confinatezza, e parla e agisce nel linguaggio della t e r r i t o r i a l i t à , la tecnoeconomia distende sul globo il suo proprio spazio. Sono i temi del geo-diritto, e verranno presi ad esame in altra di queste lezioni brasiliane. Qui deve soltanto dirsi che il diritto, vissuto per lun ghi secoli entro i confini degli Stati, si trova stupito e smarrito. Come inseguire e catturare i fenomeni della tecno-economia? come rendersi pari o simili nella vo lontà di dominio planetario? È in possesso del diritto (ed anzi ne è sua natura profonda) il carattere di artificialità, che ora si rivela come arma sollecita e audace. L’artificia lità, sciogliendosi a mano a mano da vincoli terrestri e tra dizioni storiche, è anche in grado di oltrepassare i confini e d’istituire una spazialità giuridica. Gli accordi fra Stati e la creazione di enti e organismi e autorità sovra-nazionali volgono a questo scopo. L’antico nomos, a dirla con Cari Schmitt, stringeva il diritto ai luoghi, alla storica determi natezza di una od altra comunità; il nuovo nomos, se vuole
co-estendersi insieme alla tecno-economia, e prendere la sua stessa misura, deve sciogliersi da quei vincoli e sfruttare appieno l’intriseco carattere di artificialità. 9. Il tecno-diritto è una tra le forme di volontà di po tenza, uno dei ‘centri di forza’, che lottano per il dominio del mondo. ‘Tecno’, poiché esso è agitato da quel dè mone, vibrante di quella insaziata energia, da cui proven gono anche le altre potenze. Se scienze e tecniche natu rali usano e manipolano le cose d’intorno —l’aria, l’acqua, la terra, e lo stesso corpo dell’uomo -, il diritto ha la su prema ambizione di impiegare per propri scopi le volontà altrui. Questa è l’indole eterna del potere politico-giuridico, cioè di un potere ordinativo del nostro vivere insieme. Il tecno-diritto si precisa come tecno-politica, e l’impe gno storico del diritto come responsabilità della politica. Chi ha salutato con gioia il tramonto delle ideologie non sapeva (o sapeva fin troppo bene) che quei luoghi non sa rebbero rimasti per sempre vuoti, e che altre potenze, l’e conomia e la tecnica, li avrebbero sùbito riempiti. Ora che la coscienza dell’illusione o dell’inganno sembra matura, può levarsi Yappello alla politica: che riprenda nelle proprie mani il destino dell’uomo, e restauri, con ciò stesso, il do minio del diritto. L’appello sarà mai ascoltato? Tutti siamo in attesa.
SECONDA LEZIONE
Geo-diritto
1. Ci chiediamo perché il problema dello spazio ab bia assunto così grave e inattesa importanza negb studi e nella pratica del diritto. Occorre incominciare da lontano. Siamo educati o abituati a ragionare in base a un criterio: lo Stato eser cita la propria sovranità su una porzione della superficie terrestre. La sovranità si esprime massimamente in forma di legge. Il territorio misura la signoria giuridica dello Stato. Si profila così una dimensione spaziale del diritto, cor relativa alla dimensione spaziale dello Stato. Il territorio determina l’àmbito dell’uno e dell’altro. Le norme giuri diche —è da ricordare —vigono nel tempo e nello spa zio: hanno sempre bisogno di un ‘quando’ e di un ‘dove’. Esse sono emanate modificate abrogate, e perciò presen tano una durata, più o meno breve, più o meno lunga. Ma insieme hanno bisogno di una determinazione spaziale, cioè di un campo di vigenza, comunale regionale nazionale e via seguitando. La norma giuridica è sempre norma in un certo luogo e per un dato tempo. 2. Abbiamo detto che il territorio calcola la dimensione spaziale di Stato e diritto. Ma che cosa è propriamente il
territorio? e come si isola e individua sulla piatta superfi cie del globo? I dizionari della nostra lingua ne indicano l’ètimo nel latino ‘terra’. Non so se sia esatto, ma preferisco seguire la pagina di un grande giurista: “ Territorium deriva da terreo o territo. Jus terrendi si trova usato come sinonimo di jus imperii. Il significato letterale di territorium, come la desi nenza stessa rivela, è àmbito di signoria” (Tomaso Perassi, in Scritti giuridici, I, Milano, 1958, p. 103 nota 8). Il territo rio ci appare come il luogo in cui il potere atterrisce e suscita spavento; in cui il signore detta norme e minaccia sanzioni. Ciò, che costituisce un territorio e lo fa luogo di una data signoria, è il confine. Non c’è territorio senza confini. La superficie terrestre, in un’alba originaria e primor diale, si presenterebbe piatta liscia indistinta. Uni-forme, di una sola ed unica forma, poiché non ci sono ancora le plurime e diverse forme, introdotte dalla storia umana. Il confine (ancorché coincida con limiti naturali: corsi di fiumi, giogaie di monti, rive di laghi ecc.) è sempre inna turale: creatura della storia, che spezza l’originaria uni-formità e determina l’individualità dei luoghi. 3. Il confine svolge duplice funzione: escludente e inclu dente. Esso esclude, poiché divide e separa il mio e l’altro. Altro è ciò che è di là dal confine: l’arcano, il misterioso, il pericolo. Ci sono caratteri profondi e affini tra proprietà e sovranità. L’esclusività è comune ad ambedue. L’art. 832 del codice civile italiano, raccogliendo secolare tradizione, definisce la proprietà come “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”. In difesa della pro prietà, l’art. 950 prevede l’azione di regolamento di con fini; e l’art. 951 l’azione per apposizione di termini, cioè
dei segni materiali e visibili onde il mio si distingue dal l’altro. Parimenti esclusiva è la sovranità statale. Non è con cepibile un concorso di sovranità, una pluralità di signo rie sul medesimo territorio. Qui vige Yaut-aut, o la sovra nità di uno Stato o la sovranità di un altro Stato. Se guar diamo gli Stati dall’alto, quasi spettatori di un paesaggio, essi ci appaiono l’uno accanto all’altro; se invece - come sempre accade nella nostra esperienza di cives —ci collo chiamo all’interno di uno Stato, questo è unico ed esclu sivo. Nel valutare le nostre azioni, nel giudicarne legalità o illegalità, non possiamo adottare punti di vista diversi e discordanti, ma un solo ed unico punto di vista: quello, appunto, dello Stato, a cui vogliamo e sentiamo di appar tenere. 4. Il confine, esercitando la funzione includente, sta bilisce unità e identità di ciò che è dentro. Lingua costumi tradizioni concorrono nell’individuare questo luogo, e nel separarlo dagli altri. Così si determina Vappartenenza, il sentirsi parte di un tutto, di quel mondo in cui i con fini ci chiudono e rinserrano. Il simbolo dell’inclusione — simbolo, come ha mo strato Tullio Gregory, denso di sacralità e di mistero —è la ‘porta’: porta della città o della casa, limite oltre il quale vive l’altro. Questi viene dafuori, forestiero, e chiede di pas sare la porta o l’aggira o l’abbatte con violenza di guerra. Escludere o includere - le due funzioni del confine —si richiamano con profonda reciprocità: qui nascono le idee di dentro e fuori, di appartenenza ed estraneità. 5. Il territorio statale anche segna l’estensione di politica e diritto. Nel ‘dentro i confini’ si agitano le lotte fra partiti
e si determinano gli orientamenti della politica. Qui si esprime la cittadinanza come partecipazione al destino di un popolo, o, più semplicemente, ai problemi di una col lettività organizzata. In questo luogo pure nascono le norme giuridiche. La lotta politica conosce, al pari di ogni altra, vincitori e vinti; e i primi stabiliscono la disciplina giuridica degli interessi. Dietro qualsiasi ordinamento giuridico c’è sem pre una presa di potere. Nello Stato territoriale, come si è venuto formando nella storia moderna d’Europa, il po tere politico-giuridico è, anch’esso, stretto nei confini, spazialmente definito.
6. Questa rappresentazione —tutta costruita intorno a uno spatium terminatimi, cioè ad un luogo di politica e di ritto, isolato e identificato dai confini —; questa rappresen tazione viene lacerata e sconvolta da due immani potenze. Le quali non conoscono termini, non hanno patria, si espandono ovunque. Potenze della s-confinatezza, che si chiamano tecnica ed economia, e che, insieme congiunte e alleate, generano la tecno-economia del nostro tempo. L’essenza della tecnica, come volontà di sfruttare e ma nipolare il mondo; e l’essenza dell’economia (parliamo - è ovvio —dell’economia di mercato), come insoddisfatta e indefinita volontà di profitto; queste essenze, o forme della volontà, rifiutano la chiusura dei confini e la determina tezza dei luoghi. Esse sono radicalmente a - t o p i c h e , senza luogo, e perciò possono diffondersi e impiantarsi ovunque. “La civilizzazione - leggiamo in una pagina pre corritrice di Giacomo Leopardi - tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, né contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione ...”.
I traffici economici ignorano i confini. Mentre le tribù sono in guerra, tra l’una e l’altra, nel buio della notte, si aggirano i mercanti, che offrono beni e nego ziano, e si sentono fuori da qualsiasi patria. Bene ha scritto Piero Zanini, in un libro ricco e suggestivo sui ‘Si gnificati del confine’: “La terra di nessuno è ciò che sta tra le due sponde, tra i margini di due paesi, di due spazi dif ferenti. È il luogo dove la norma, la regola che il confine stabilisce non vale più, la terra selvaggia dove ognuno deve badare a se stesso e tutto diventa possibile”. Il ‘do vunque’ dell’economia è (o aspira ad essere) un’indefinita terra di nessuno. Nel ‘dovunque’ della tecno-economia (dove imperano, insaziate e sempre insoddisfatte, volontà di profitto e volontà manipolatrice del mondo) gli indi vidui perdono ogni identità di cittadini, ogni vincolo di appartenenza terrestre. Essi si distinguono soltanto per di versità di funzioni, per la parte —potremmo dire - svolta da ciascuno nei meccanismi tecnici o nelle attività di mercato. La funzione non richiede individualità, ed anzi teme e rifiuta attriti soggettivi e psicologici. Il ‘funzio nare’ è garantito da prestazioni anonime e fungibili: nei grandi magazzini, nei rapporti di massa, ed ora anche in campi professionali in cui vigevano prestigio dei singoli e onore di ceto, da per tutto intorno a noi si aggira la sper sonalizzata ‘efficienza’, priva di volto e di nome. La rete telematica è il simbolo estremo dell’alleanza tec no-economica: spazio artificiale senza confini, non luogo, dove la volontà di profitto, sradicata e de-territorializzata, si esprime oltre gli Stati e oltre il diritto degli Stati. Si de termina così un divario, una ‘sfasatura’, di estensione: tec nica ed economia non sono co-estensive a politica e diritto: quel le, indefinitamente spaziali; questi, definitamente territo riali.
7. Il problema della co-estensività, oggi venuto in piena luce, fu già colto da ingegni penetranti e presaghi. Come non ricordare il libro di Fichte, risalente al 1800, Lo Stato secondo ragione 0 lo Stato commerciale chiuso? Il grande filo sofo sospinge alle estreme conseguenze il principio di terri torialità: nulla può uscire dai confini dello Stato: lo Stato - egli scrive - si chiuda completamente ad ogni commercio con l’estero, e formi d’ora in poi un corpo commerciale così separato, come finora ha formato un se parato corpo giuridico e politico”. Vietata la moneta co mune, non ammesso il commercio del cittadino con lo straniero, lo Stato si chiude in se stesso; economia politica di ritto tornano a co-estendersi, e tutti assumono l’identica misura spaziale:’’... uno stato secondo ragione —chiarisce Fichte — è appunto uno stato commerciale chiuso, come è, del re sto, uno stato chiuso rispetto alle leggi e agli individui che 10 compongono”. Abbiamo ricordato il pensiero di Fichte, non già per specifiche soluzioni o proposte di soluzione, ma per la lu cida consapevolezza del problema: come rendere co estensive forze che hanno una diversa misura spaziale? come ricondurre ad unità la confinatezza di politica e di ritto e la s-confinatezza della tecno-economia? 8. Una soluzione del problema è in ciò: che la tecno economia scelga, essa, il suo proprio diritto; e che gli Stati offrano, quasi in una ‘corsa al ribasso’, i rispettivi or dinamenti. Le imprese, poste dinanzi al mercato degli ordini giuridici, scelgono l’ordine più vantaggioso e conveniente. 11 ‘dove giuridico’ è determinato dalle imprese, che pos sono ben moltiplicarli o combinarli: l’uno, per acquisire risorse finanziarie; l’altro, per il costo della manodopera; e poi, ancora, uno diverso, per benefici fiscali o emissioni di
Geo-diritto
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bonds; e l’ultimo, infine, per la disciplina del fallimento. Il ‘dovunque’ del mercato globale permette alle imprese di scegliere - in ragione di diverse fasi dell’attività econo mica —una pluralità di sedi giuridiche. Il mercato degli ordini giuridici non sorge spontaneo e naturale. Esso trova fondamento in una decisione politica, quella, appunto, di favorire la volontà di profitto e di la sciare alle imprese la scelta della sede giuridica. Si tratta, come è ovvio, di una decisione abdicativa, con cui la classe politica rinuncia a governare l’economia, e si fa governare da essa. 9. Altra soluzione (soluzione — si ripete — del pro blema della co-estensività) è nel dominio imperiale di uno Stato, il quale, non soltanto occupi mercati sempre più vasti, ma pure istituisca un nuovo ordine. Il principio, a cui tutti gli altri si riconducono, è nella sicurezza, nella garan zia di funzionamento dei mercati. La difesa della sicurezza degrada ogni nemico a criminale, e converte la guerra in operazione di polizia. La potenza im periale non dichiara guerra ad altri Stati (com’era in uso nelle cancellerie diplomatiche degli ultimi secoli), ma provvede senz’altro - in linea preventiva o repressiva - a difendere la propria sicurezza. La co-estensione è raggiunta attraverso il dominio po litico-militare di un grande spazio, il quale, a ben vedere, non minaccia la territorialità dello Stato egemone, ma piutto sto la dilata e allarga. Il nuovo ordine accompagna l’aper tura dei mercati, e li protegge contro minacce ideologi che e religiose, economiche e finanziarie. io. Viene, da ultima, la soluzione degli accordi intersta tuali, cioè delle intese con cui una pluralità di Stati —eia-
scuno nell’esercizio della propria sovranità - s’ingegna di catturare la tecno-economia e di collegarne le vicende a singoli e specifici luoghi. Mentre le imprese mirano a scegliere, esse, la sede dei rapporti giuridici, qui è il diritto che determina la sede giuridica degli affari. Non il mercato degli ordini giuridici, ma l’ordine giuridico del mercato: ordine, rag giunto dagli Stati nell’esercizio della sovranità e garantito dalla loro forza coercitiva. Alla soluzione fichtiana dello ‘Stato commerciale chiu so’; al dominio politico-militare dell’impero; gli accordi inter-statuali contrappongono pluralità di territori e uniformità di disciplina giuridica. I territori restano diversi e molteplici, come molteplici e diversi sono gli Stati; ma la disciplina giuridica si fa uni-forme, ossia prende il medesimo conte nuto. Pluralità, a ben vedere, di diritti identici. li. La soluzione degli accordi interstatuali (le altre due, dello ‘Stato commerciale chiuso’ e del dominio im periale, potrebbero dirsi intra-statuali), quella soluzione esige che il diritto assuma un alto grado di artificialità. Il punto è di straordinaria importanza. Il rapporto profondo, che Cari Schmitt ha denominato ‘nomos della terra’, congiunge il diritto a luoghi storicamente determi nati. La genesi del diritto è in un ordine concreto, nella primeva occupazione e distribuzione di terra. Le norme vengono dopo. Il diritto ha un’esistenza terrestre; è un modo di ordinare lo spazio. “Il nomos - scrive Schmitt nel grande libro del 1950 —è pertanto la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo ...’’.Terra popolo diritto si costituiscono in concreta unità spaziale. Ma come può il diritto, legato alla storicità di un po polo e alla determinatezza di un luogo, inseguire e cattu-
rare gli affari della tecno-economia, i quali non hanno né patria né confini? come può la regola rendersi conforme al re golato? Non c’è altro modo che il dolore dello s-radicamento, l’assunzione dell’artificialità come essenza costitutiva del diritto. L’artificialità, l’arte-fatto, è il carattere fondamentale della tecno-economia, della volontà, cioè, di manipolare il mondo e di conseguire indefiniti profitti. Se la norma giuridica si scioglie dal vincolo terrestre, dalla connes sione genetica con singoli luoghi; se essa si riconduce per intero alla volontà dell’uomo; allora si pone in grado di fronteggiare la tecno-economia. Di affrontarla, non già da un piano diverso, ma sul suo stesso piano, che è quello di vo lontà, s-radicamento, s-confinatezza. 12. Lo spazio giuridico acquista così un nuovo e inaudito significato. Ancora si parte e si ritorna al territo rio degli Stati (di quegli Stati, appunto, che hanno con cluso accordi di ‘uni-formizzazione’), ma Vuniformità di disciplina esige il sacrificio dell’identità storica del diritto. Lo spazio non è più il luogo originario e costitutivo, ma il semplice campo di vigenza di una norma. Lambito (di rebbe Hans Kelsen) di validità geografica del diritto. Am bito, arbitrario e artificiale, deciso e stabilito dalla volontà umana. L’alto grado di artificialità, rendendo il diritto fra terno all’essenza della tecno-economia, restaura la co-esten sione fra politica diritto economia. La politica, che non voglia piegarsi alla volontà di profitto ed offrire gli ordini giuri dici al calcolo di vantaggio o svantaggio delle imprese; che si tenga lontana e dalla chiusura fichtiana e dal do minio imperiale; non ha altra strada da quella degli ac cordi inter-statuali. E, dunque, ha bisogno di profonda e lucida coscienza dell’artificialità giuridica, di volontà capace
di stabilire lo spazio applicativo del diritto. Soltanto s-radicandosi, sciogliendosi dai confini territoriali, la volontà normativa può raggiungere quel grado di artificialità, che, per l’identica essenza di regola e regolato, le per metta di dominare o orientare la tecno-economia. Quanto più il diritto rimane legato, in suoi modi e contenuti, alla genesi terrestre, al nomos storico, tanto meno esso è in grado di pareggiare l’orizzonte globale della tecno-economia. Quanto più, invece, si distacca dai luoghi originari, e prende caratteri di artificialità, tanto più entra, per così dire, nella medesima natura della tecno economia e acquista il potere di orientarla o governarla. La s-confinatezza del regolato (degli interessi, cioè, che sono materia di disciplina giuridica) esige e invoca la sconfinatezza della regola; e quest’ultima, per raggiungere tale grado di corrispondenza e adeguazione, deve affrancarsi dall’abbraccio terrestre, dal fondo originario del nomos. Il diritto — in forza di accordi inter-statuali —scende, per così dire, sui territori dei singoli Stati, e detta regole uni formi, le quali sono dimentiche di ogni ordine e connes sione storica. Bene ha notato Massimo Cacciari: “La li bertà commerciale, finanziaria, economica che fa di ogni luogo e di ogni tempo una ‘globale Zeit’, sta in irrime diabile conflitto col positivismo del diritto collegato allo Stato”. La soluzione di questo conflitto non esige l’oltrepassamento o l’abbandono del positivismo giuridico (e che altro mai sarebbe pronto a sostituirlo ed a prenderne il luogo?), ma piuttosto il suo estremo e radicale impiego. Soltanto l’artificiahtà del diritto, come prodotto dell’u mano volere, arbitrario e incondizionato, può sciogliere il rapporto fra norma e fondo terrestre. Soltanto essa può determinare, di volta in volta, la dimensione spaziale del diritto.
G e o -d ir itto
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C ’è un’alternativa ineludibile: o il diritto, fedele alle antiche radici, si ritira nell’ombra, spaurito e inerme di nanzi all’immane potenza della tecno-economia, la quale sceglierà, essa, la sede giuridica dei singoli affari; o il di ritto, nelle forme del dominio imperiale o degli accordi inter-statuali, sarà capace di raggiungere quella potenza e di piegarla alla propria disciplina. Altro il giurista non può dirvi; altro il giurista non sa prevedere.
TERZA LEZIONE
Bio-diritto
I . Che cosa era propriamente ‘vita’ nel diritto di ieri? Una semplice durata, un tratto di tempo fra il nascere e il morire. Il diritto non andava più indietro della nascita, non andava più oltre della morte. I ‘momenti’ dell’una e dell’altra tracciavano confini sacri e inviolabili. Quando il diritto era nella necessità di superarli, ricorreva a metafore e finzioni:1conceptus pro jam nato habetur’, il concepito si ha già per nato: si ha, cioè si tiene, si considera, si vuole che sia nel mondo giuridico. Nascere e morire appartenevano alla natura, dati in una realtà esterna, che al diritto s’im poneva nella sua incontrovertibile oggettività. Un sentimento di mistero avvolgeva principio e fine della vita: il numinoso incombeva, che fosse gioia della nascita o angoscia del morire. Il diritto se ne stava in ter mini segnati dalla natura, da potenze creatrici e distruttrici che si svolgevano fuori da ogni umana volontà. La ‘inte grità della vita , difesa da norme del diritto penale e innal zata a principio di moderna civiltà, ancora indica questo tutto, questa originaria interezza, che nessuno osi violare e colpire. La ‘integrità della vita’, in cui si rispecchia e ri frange la stessa dignità della persona, è integrità di ogni e qualsiasi corpo: non del mio o del tuo corpo, ma del corpo come indissociabile e congiunto a ciascuno di noi.
Il diritto di ieri, nel disegno di proteggere la vita umana, tutela e difende il corpo, perché l’uomo è (o è an che) il suo corpo, questa cosa fisica e tangibile, che le po tenze distruttrici ricacciano nel nulla. Il diritto ha come la posizione d’uno spettatore, di fronte a cui si svolga il tea tro del nascere e del morire. Esso può poco o nulla: sten dere reti di protezione intorno al mistero di ciascun indi viduo. 2. La tecnica non si ferma dinanzi alla vita, né al na scere e morire, né al corpo dell’uomo. Essa domina il mondo, e piega tutto ciò che ci è d’intorno ai propri in definiti scopi. Questo dominio riduce ogni cosa a sem plice oggetto, a materia di calcolo, di controllo razionale, di capacità manipolativa. Non c’è nulla che non sia fattibile e producibile, non c’è nulla che non possa esser sottratto alle ombre del mistero. La tecnica rifiuta il caso e il destino, cioè le oscure forze a cui l’uomo soggiaceva nel nascere e morire. Il corpo assume un diverso significato, prende una nuova posizione nel mondo. Paul Valéry, che fu saggista acutissimo e osservatore implacabile del nostro tempo, ci viene in soccorso con una pagina di Variété. Dove egli di stingue tre corpi: il primo è il-mio-corpo, la cosa presente, che ci appartiene ed a cui noi apparteniamo; il secondo scrive Valéry —“è quello che è visto dagli altri, ed è anche quello che noi vediamo, più o meno, in uno specchio o in un ritratto”. E poi si dà il terzo corpo, che sta lì come in sieme di parti, fatto a pezzi, e ricomposto ad unità soltanto nel pensiero. Ecco, il terzo corpo di Valéry è propriamente il corpo della tecnica, la quale non conosce il-mio-corpo, né la visione che altri abbia di esso, ma considera il corpo, il corpo di qualsiasi uomo, come semplice oggetto. Il corpo
della tecnica è la struttura fisica di una specie biologica, che il mondo ci presenta accanto alle altre strutture animali e vegetali. 3. L’oggettivazione del corpo raggiunge il grado più alto. Il corpo della tecnica è il corpo di nessuno: non il corpo mio o tuo, di uno o di altro, ma il corpo in sé, nella sua ogget tiva e indifferente neutralità. Ricerche, risultati scientifici, applicazioni mediche, riguardano un corpo senza titolare, così come senza titolari sono le cose uscite dalle industrie e le merci non ancora immesse nel congegno degli scambi. Tutte appartengono al regno del fattibile, di ciò che l’uomo è in grado, da sé solo, di manu-facere, di trarre dal nulla o di ricacciare nel nulla. Pensiamo a quale straordinario e terribile muta mento! La vita, dinanzi a cui l’uomo si fermava tra mera viglia e angoscia, tra senso del mistero e occulte paure, è ormai un ‘manufatto’, una cosa del mondo che egli è in grado di produrre. La parola decisiva ed essenziale, ‘pro durre’, oltrepassa i vecchi confini, e si spinge fino a in cludere la vita umana, la vita di quell’uomo che così è in sieme produttore e prodotto. L’empietà della tecnica si svela nella sua audace grandezza: strappa la vita al caso e al de stino, e la consegna al sapere calcolante dell’uomo. Na scere e morire non sono più soltanto dell’uomo, ma ap partengono all’uomo; non sono più un semplice accadere, ma un risultato del v o l e r e . Accadere e volere si profilano in un’antitesi radicale. La vita è strappata al regno del puro accadere, di eventi che l’uomo trova fuori di sé e dinanzi a sé, e che perciò rinviano ad altro (sia un Dio creatore o una legge intrin seca alla specie o un enigmatico destino). Non c’è biso gno di ‘altro’, poiché l’uomo ha preso la vita nelle pro-
prie mani di artefice, e la pone accanto a tutte le cose, da lui calcolabili e producibili. La sua volontà di dominio prende il luogo che in altre epoche tenevano il caso, l’i natteso, l’incomprensibile. Come nella vita sociale il caso, che decretava l’appartenenza ad una od altra classe e per ciò segnava l’intero cammino del singolo, è circoscritto o eliminato con misure economiche o con intensa mobilità di uffici e funzioni; così esso è discacciato dalla vita indi viduale; e l’una e l’altra vengono governate da una calco lante volontà. 4.
La vita, liberata dal caso e dal destino, esce dall’ori ginaria naturalità, e, in certo modo, si fa storia degli uo mini. Non appartiene più alla natura, a un immutabile re gno che l’uomo può soltanto guardare e conoscere, ma al processo del sapere e agli scopi del volere. Se chiamiamo ‘natura’ una data immagine del mondo —l’immagine delle fedi religiose e della tradizione cristiana —, allora il corpo della tecnica è propriamente anti-natura, artificialità del ‘manu-facere’ che si sostituisce al corso spontaneo delle cose. Non senza ragione un filosofo italiano, tra i mag giori del tempo nostro, Emanuele Severino, ha scelto per titolo d’uno dei suoi ultimi libri l’astratta radicalità del verbo Nascere. Che non è ormai un dato di natura, evento esterno, che ‘capita’ all’uomo come gli ‘capiterà’, un giorno o l’altro, di morire, ma è un risultato tecnico, una costruzione voluta ed eseguita da noi stessi. E proprio Severino nota di passata che questo fabbri care e distruggere la vita ha qualcosa d’innocente. L’inno cenza della tecnica - ci sembra di chiarire - , che scioglie il corpo dal destino individuale, e l’osserva e studia nella sua oggettiva nudità, senza macchia di peccato e di cor ruzione. L’innocenza del produttore, che mira a fabbricare e
a distruggere in modo perfetto: e u - g e n e t i c a ed e u t a n a s i a dicono, mercé l’avverbio greco en, la cura ese cutiva della tecnica, lo scrupolo del ‘far bene’ inizio e fine della vita. E l’avverbio risuona ancora nella parola ‘benes sere’, che è altro dalla vecchia e umile ‘salute’: salute è uscire dalla malattia o difendersi contro la minaccia al l’integrità fisica; ‘benessere’ è una condizione dell’essere, ra zionalmente calcolata e tecnicamente perseguita. La sa lute non basta più; occorre il benessere, che in sé racco glie anche il ben-nascere e il ben-morire, il nascere sani e il morire senza sofferenza. Bisogna ‘bene’, cioè con perfe zione tecnica, trarre l’uomo dal nulla e restituirlo al nulla. Codesto è il compito della tecnica, la quale non s’inter roga (né essa saprebbe domandarsi né rispondere) che cosa mai ci sia dietro il nulla originario e dopo il nulla fi nale. La tecnica non può uscire da se stessa. 5.
Che ne è del diritto, mentre la tecnica s’impossessa del nascere e morire umano? Del diritto, che, sciolto or mai da vincoli religiosi e metafisici, tutto si risolve nella volontà impositrice dell’uomo? Basta così domandare per avvedersi che bio-tecnica e diritto appartengono, e Luna e l’altro, al mondo dell’u mana volontà, e sono, ambedue, forme di volontà di po tenza. E inutile che circa questo punto si rinnovi la di mostrazione, già offerta in altro discorso brasiliano: se la bio-tecnica volge a dominare la vita fisica dell’uomo, il diritto, dal suo canto, ne stringe e vincola la stessa vo lontà. Lì, il dominio sul corpo; qui, il dominio sulla volontà, af finché essa si orienti e scelga in un dato modo. Nella po sizione e im-posizione di norme si esprimono le forze storiche della politica, e ideologie e fedi e interessi che nella politica si raccolgono ed agiscono.
Bio-tecnica e bio-diritto sono potenze della nostra epoca. Non c’è alcun criterio sovrastante, che permetta di decidere fra l’una e l’altro, che —fuori da un dato e storico diritto positivo - consenta di giudicare lecite o illecite le singole scoperte e applicazioni della bio-tecnica. Soltanto un diritto non-positivo, cioè non posto né im-posto dalla volontà umana; non creatura della storia, ma rivelato al di là e al di sopra del tempo; soltanto un tale diritto sarebbe in grado, una volta per sempre, di tracciare il confine tra le cito e illecito, e di dire il sì e il no a singoli impieghi della bio-tecnica. Ma il diritto, di cui l’uomo moderno di spone, è tutto consegnato alla volontà, non riconosce vincoli obbliganti, non attribuisce qualifiche perenni e immutabili. Allora il rapporto è propriamente —come già si diceva —rapporto fra due potenze, fra bio-tecnica e forza politico-giuridica. 6. La quale non può starsene più entro gli antichi ter mini e accogliere dal di fuori il nascere e morire. La g i u r i d i f i c a z i o n e de l b ì o s è inevitabile. La vita, nella sua elementare fisicità e corporeità, esige regole, fa appello alla decisione politica, varca impetuosa i confini del diritto. Non un giurista (i giuristi vanno con passo grave e lento), ma un sensibilissimo sismografo dell’età nostra, Ernst Jiinger, già nel i 98 i vedeva nelle nuove forme di procreazione “sintomi di una svolta del mondo”, e annotava: “Le leggi possono soltanto agire da barriera o scavare un letto alla corrente. Ma che cosa sono mai le leggi quando una nuova formazione proietta la sua ombra? Lo si può constatare nei giuristi e nella loro mancanza di ri ferimenti cui appellarsi. Ciò che in questo caso va affron tato e risolto non potevano prevederlo né i codici di di ritto civile né quelli di diritto penale. In gioco, infatti,
non vi è solo un cambiamento nel quadro del diritto, quello per esempio dello stato civile, ma un evento bio logico dalle conseguenze imprevedibili” (An der Zeitmauer, trad. it. Al muro del tempo, Milano, 2000, pag. 233). ‘Agire da barriera’ o ‘scavare un letto alla corrente’: l’alternativa di Jiinger implica, nell’uno e nell’altro modo, che il diritto prenda posizione, e dunque che assuma la vita, il nascere e il morire, come cosa propria, come eventi non ricevuti dall’esterno, ma previsti e disciplinati da norme. Non più appartenenti all’ordine spontaneo della natura, ma all’ordine artificiale del diritto. I codici civili si restringevano ai ‘momenti’ del nascere e del morire, del venir, la ‘persona giuridica’, dal nulla e del tornare al nulla. Essenziale quel breve intervallo, che è il vivere del l’uomo fra altri uomini e con altri uomini. I problemi della bio-tecnica sospingono il diritto sui termini estremi, sui confini già tenuti per invalicabili. I modi del nascere e i modi del morire diventano materia di diritto, e acquistano la necessaria rigidità di forme giuridi che. Questo ha di proprio il diritto: che, nell’atto di toc care esperienze di studio o di vita, le converte in forme, in quei modelli astratti e generah, che solo permettono di dominare l’irripetibile varietà delle cose e di protendersi verso il futuro. Giuridificazione significa riduzione in forme. 7. Questo è il punto, in cui bio-tecnica e bio-diritto si ritrovano nello stesso e identico orizzonte. Se l’una as sume il corpo in fisica oggettività, l’altro ne considera modi e forme, anch’essi oggettivi, distaccati dalle singole e irripetibili individualità. Il processo di oggettivazione è co mune ad ambedue le potenze, alle immani energie che mirano a governare le cose e gli uomini. Il corpo, nel suo
nascere e morire, nel suo durare in vita, non è questo o quel corpo, il mio o il tuo, ma il corpo in sé, nella sua calcolabile e manipolabile oggettività. La riduzione ad oggetto, a cosa tra le cose, è insepara bile da bio-tecnica e da bio-diritto. Non più l’individuo intero, corpo e pensiero, fisicità e spiritualità, ma la res extensa, una materia sperimentabile e regolabile, su cui si esercita, in un modo o nell’altro, la volontà dell’uomo. Il nascere e il morire diventano così eventi calcolabili: dalla razionalità scientifica, che ne segue e determina lo svi luppo; dalla razionalità giuridica, che, superati gli antichi confini, li converte in forme astratte, in modelli di azioni e schemi generali. Il corpo non è più la dimora di qual cos’altro, abitata per breve ora e poi lasciata verso altri re gni: è il tutto della scienza, ed è il tutto del diritto. Per un singolare rovesciamento, non sfuggito alle analisi più acute della modernità, l’estremo soggettivismo — questo sciogliersi da vincoli fisici e religiosi, e consegnarsi alla volontà dell’uomo —si capovolge in estremo oggettivi smo. La volontà riduce uomini e cose a oggetti, a terreno di energie calcolanti e manipolanti. Se la vita mi sta di nanzi come oggetto, allora essa si disgiunge dal suo por tatore, dall’uomo concreto e determinato, e si fa semplice materia di tecnica e di regole giuridiche. 8. La rottura con la tradizione, la discontinuità dei tempi, ha note di tragedia. Il nascere, che era un pro-venire, un giungere dal passato e affacciarsi, passando dal l’oggi, verso il futuro, è ormai un evento tecnologico. Il mistero è risolto, si conosce tutto prima; e prima è tutto interrompibile, correggibile, manipolabile. La bio-tecnica priva di significato il padre e la madre, o, meglio, li rive ste di un significato in-naturale, che nulla ha da vedere con
l’antico rapporto di filiazione. Ciò che sembrava impen sabile è accaduto: non c’è più un diritto di conoscere il proprio padre o la propria madre. Ambedue possono ri manere ignoti, eppure il nato avrà un padre e una madre, che non saranno più naturali, ma determinati dall’artifi cialità del diritto, da un diverso criterio d'imputazione del figlio ai genitori. È che eventi soffusi di mistero —vita, corpo, nascere, morire —sono ormai dissacrati e ridotti a calcolata ogget tività. Essi non ci vengono più dati dal di fuori e dall’alto (da qualcosa che chiamavamo divinità o destino), ma sono da noi prodotti: non li troviamo, ma li facciamo. Questa in saziata volontà di produrre si è estesa dalle cose agli uo mini, riconducendo il corpo tra le cose fattibili. Un pic colo classico della filosofia stoica, il Manuale di Epitteto, si apre con la distinzione fra ‘le cose che dipendono da noi e quelle che non ne dipendono’. Il corpo è elencato in quelle cose, che —come volge, in elegantissimo latino, An gelo Poliziano —“nostra opera non sunt”. Ma la tecnica ha rotto la rigidità di questa antitesi, e fatto del corpo un ‘no strum opus’, una cosa producibile. Anch’esso dipende da noi. Il diritto non può starsene come un curioso spetta tore, né delegare ad altre potenze la guida degli uomini. I tempi esigono una presa di posizione. La scelta fra ‘agire da barriera’ o ‘scavare un letto alla corrente’ è affidata alla responsabilità politico-giuridica: non c’è alcun criterio di ferma e immutabile verità. Si accendono, intorno a queste domande, conflitti di fedi religiose, di ideologie, di visioni del mondo. Nessuno è in grado di scorgere il futuro. Al giurista spetta l’umiltà del silenzio.
Per u n ’autobiografia giuridica (dal concettualismo al nichilismo)
“D ove si vada, chi lo sa? A tnala pena si ricorda d ’onde si è v enuti”
Goethe
i .‘Concettuale’ può dirsi il metodo che dominava gli studi giuridici a metà degli anni Cinquanta. Tutte le di scipline procedevano per teorie particolari e teorie gene rali. Si saliva dalle prime alle seconde; si scendeva da que ste a quelle. I concetti giungevano dalla tradizione, eredi tati di scuola in scuola, sempre meglio definiti e disposti. Chi conosce i concetti possiede perciò il metodo, l’unico ed esclusivo metodo, capace di ‘trattare’ qualsiasi norma e di ricondurla entro le mura del sistema. Il metodo è indipendente dal proprio oggetto, scende dall’alto dei secoli, e monda la norma da ogni impurità storica. Positivismo e concettualismo possono entrare in urto e apparire discordi: altro è riduzione del diritto a norme stabilite dalla vo lontà (divina o umana che sia); altro è vincolo logico-si stematico della tradizione, da cui le norme non debbono discostarsi ed a cui sempre vanno ricongiunte. Dove pro prio non riesca, soccorrono le provvide categorie —an cora altri concetti! —di norme speciali ed eccezionali. La tradizione ha una potenza costrittiva. Consegnati di generazione in generazione, forti di tutto ciò che sta dietro e prima di noi, i concetti sembrano raccogliere ed esprimere 1’‘essenza’ dei singoli istituti. L’esperienza di al tre epoche e di remote civiltà —la quale, poiché è storica,
non sarebbe in grado di sottrarsi alla rovina del tempo — viene come fermata, e acquista l’incorruttibile rigidità della ‘natura’. Così il concettualismo si fa più stringente del positivismo: anche le volontà emanatrici di norme sottostanno a qualcosa che, accaduto in un lontano ieri, vincola e condiziona l’oggi. 2. È, questo, il senso della ‘scuola storica’ del diritto, e dell’antitesi savignyana fra dottrina e legislazione. Storica, sì, poiché isola, e innalza a modello, l’esperienza del di ritto romano; ma a-storica, quando protegge il passato dal divenire, cioè dal principio che pure lo fece e determinò. Ed è il senso, echeggiante a tratti nello stesso Novecento, e, così, nella pagina di Cari Schmitt, che vede il sapere giuridico “schiacciato fra teologia e tecnica” e addita la salvezza nel ritorno a Savigny. Il ceto dei giuristi si configura allora come l’austero custode della tradizione, vigile nel raffrenare e soffocare le eresie legislative. Esso, raccogliendo il lascito del passato, detiene la verità del diritto e la oppone al caos delle vo lontà normative. Ma questo caos è la storia dell’oggi, figlia del tempo non meno e non più del diritto romano. Qui, come dimentiche e spaurite, si arrestano tutte le profes sioni di storicismo e relativismo. Le norme, che si disco stino dalla tradizione e che non si lascino ricondurre ad essa, sono trattate per ‘errori’, per sviamenti storici, da cui la dottrina ci tutela e salvaguarda. 3. I concetti, ai quali pur si demanda così grave com pito difensivo, sono, a lor volta, terreno di disputa. O, forse, di apparente disputa. La controversia novecentesca fra ‘giu risprudenza dei concetti’ e ‘giurisprudenza degli interessi’ non ha mai colpito la necessità metodologica dei concetti,
ma ne ha piuttosto discusso il modo di formazione. Che, per l’una, è deduttivo e strutturale, tutto racchiuso nell’inda gine su come le norme siano fatte, e quali corollari logici se ne possano e debbano ricavare; e, per l’altra, induttivo e funzionale, attento agli interessi in gioco, ed al perché una norma sia emanata, e quali scopi essa si proponga di con seguire e riesca a raggiungere. Se appena si considerano le opere dei giuristi più eminenti a metà degli anni Cinquanta, e rimasti solitari nei decenni successivi, Emilio Betti e Francesco Carnelutti, ci avvediamo che l’analisi degli interessi reca sempre a concetti, e che storia e anti-storia, vincoli di tradizione e audacia di novità, s’intrecciano in ogni loro pagina. La dottrina è sempre rappresentata e vissuta come garante di unità sistematica, quasi messa a difesa di un’eredità con cettuale, che la frenesia legislativa non è in grado di de molire o disperdere. Il metodo teleologico rimane me todo concettuale, ancorché teorie, particolari e generali, siano costruite in base al criterio di scopo, e dunque pro cedendo per astrazione dal basso verso l’alto. 4. L’indirizzo analitico-linguistico, programmatica mente enunciato da Norberto Bobbio nel 1950, e venuto quasi in moda di studio negli anni successivi, sostenne e invigorì il metodo concettuale. Distaccandolo sì dalla tra dizione, ma appoggiandolo alla convenzione, la quale finiva per risolversi nel linguaggio dei giuristi, a cui, purificate e semplificate, erano ricondotte tutte le norme. La teoria analitica conferiva dignità di pensiero al metodo con sueto dei giuristi, sollevandoli così dal ‘complesso d’infe riorità’, sempre o bene spesso sofferto nei riguardi degli studiosi di scienze naturali. Risultato, raggiunto nel segno dell’anti-storia, cioè, da un lato, strappando le norme dal
processo di formazione, e assumendole nella loro estrin seca datità, e, dall’altro, riducendo il soggetto interpre tante a manovratore di regole linguistiche. Il metodo concettuale ne uscì rafforzato, più sicuro nel fondamento teorico, più agile e destro nell’individuare e classificare significati linguistici. L’autore di que ste pagine —stretto fra storia e dogma nel saggio d’esor dio Dal diritto civile al diritto agrario (1962) —non isfuggì al fascino del metodo concettuale, e ne dette qualche prova nei lavori monografici su Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui (1967) e La ripetizione del negozio giuridico (1970). Poi, chiamato da Mario Allara a succe dere nella cattedra torinese, e venuto in consuetudine d’amicizia con Uberto Scarpelli, la teoria analitica del linguaggio gli parve garante di strenuo rigore e di sobria razionalità: donde si svolsero i Due saggi sul dovere giuridico (1972) e la scolastica Introduzione allo studio del diritto pri vato (1973). 5. Se si torna con la memoria a quegli anni lontani, e alla fervide convinzioni che animavano il nostro lavoro, si trova la fede in una razionalità a-storica, capace di sottrarsi alla furia del tempo, e perciò di dominare e arginare ogni sviamento di norme. Fede in un’eredità di concetti, che, giunti a noi dal passato e autorevoli per tradizione di scuole, esigono bensì puliture e affinamenti, ma perman gono nel tempo e rispecchiano ‘essenze’ e ‘nature’ di isti tuti giuridici. Ogni norma, per eretica e arbitraria che sia, può soggiacere al trattamento di questo metodo, e tor nare nell’alveo razionale. Ma già allora si percepiva, con inquieto dubitare, che la fede in una presupposta razionalità determinava lo smar rimento dell’oggetto, e soffocava il divenire nella gabbia di
uno statico concettualismo. Si spiega perciò che, accanto a lavori intonati nel metodo universitario, si percorressero sentieri di storia, e si ricostruisse il cammino: appunto, un cammino, il quale passa d’epoca in epoca, e non s’arresta, e si spinge oltre verso un dove ignoto. Nell’atmosfera su scitata da Paolo Grossi, e dai suoi Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, nacque così la vena di ricerca, mai conclusa ed esaurita, che è raccolta in Scuole e figure del diritto civile (1982; nuova ed., 2002) e La cultura del diritto civile (1990). 6. Che cosa rivela — al di là di dati personali, che hanno scarsa o punta importanza —questa ansia storio grafica, questo guardare indietro nel corso del tempo? se il nostro lavoro è garantito da una vincolante razionalità, onde distinguiamo vero e falso, assoluto e relativo, perché interrogare il passato e affrontare il rischio della storia? Il metodo concettuale determina (si direbbe con echi filosofici) Voblio dell’oggetto, cioè la dimenticanza che il sa pere giuridico è sapere circa il contenuto di norme, e che queste non sono nella disponibilità degli studiosi, ma di volontà capaci di emanarle e di esigerne esecuzione. L’in dagine storiografica, mostrando l’intrinseco rapporto fra dottrina e testi normativi, e dunque la funzione servile adempiuta dai concetti, destituisce questi ultimi dal rango di universalità, li relativizza, li immerge nella caducità. L’antitesi fra storia e anti-storia, tra mutevole fluire di norme e fissità di dogmi, sembrò sciogliersi nella rag giunta coscienza di processi legislativi, che, per loro im peto, andavano sconvolgendo anche le antiche e solenni strutture dei codici. Le leggi speciali ed eccezionali, da sempre note a teoria e pratica del diritto, si rivelano, sullo scorcio degli
anni Settanta, per quel che effettivamente sono. Non brevi parentesi, destinate a chiudersi con il ritorno al co dice; non misure d’emergenza, legate a gravità di fatti; non sviluppi di principi e criteri generali; ma un divenire ossessivo, irrispettoso di qualsiasi coerenza e vincolo siste matico. Il saggio su L’età della decodificazione (1978) mo strava perciò un duplice senso: fenomenologico, poiché de scriveva il movimento legislativo, e ne segnalava circo stanze storiche e profili teorici; metodologico, poiché ne traeva un’indicazione di lavoro, annunciando il ritorno alla mera esegesi e l’eventuale scoperta di micro-sistemi legislativi. L’indagine storica aveva posto in piena luce l’instabi lità dell’oggetto ed esasperato il contrasto con il metodo di una vincolante razionalità. Il rapporto doveva esser ro vesciato: non dal metodo all’oggetto, ma dall’oggetto al metodo. Che poi significa disponibilità a mettere in crisi qualsiasi nozione, che appaia rifiutata o modificata dalla norma; a sacrificare lasciti antichi, ormai inidonei a cogliere il senso dei testi; insomma, un’apertura problematica al nuovo, al diverso, all’inatteso. La tesi dei micro-sistemi offriva solo un’estrema speranza. 7. Il tema della decodificazione costringeva a pensare la norma come un prodotto, qualcosa che gli uomini, e soltanto gli uomini, sono in grado di fare. Il diritto usciva così da ogni splendore di verità, ed entrava nel buio tu multo delle volontà. Il diritto non soggiace ad alcun vin colo religioso o metafisico; non ha, prima di sé e sopra di sé, condizioni obbliganti; nessuna norma è interdetta, tutte le norme sono possibili. E come riuscirebbe mai il metodo, o il ceto dei giuristi, a fronteggiare la produ zione di norme ed a restaurare criteri di razionalità siste-
matica? Quel metodo si rivela per quel che è: il metodo, non del diritto di oggi, ma del diritto di ieri. Le norme sono fattibili dalla volontà umana, che non le trova nella natura o nelle cose, ma le chiama in vita o le respinge dalla vita. Il diritto della modernità è tutto nei processi di produzione, nei congegni alacri e operosi, che non sostano in alcuna ora del giorno, e sempre pongono o depongono norme. Due grandi figure del Novecento giuridico, Hans Kelsen e Cari Schmitt, hanno gettato luce di pensiero su questi fenomeni. La ‘decisione’ di Schmitt dice che la norma, ciascuna norma, è una scelta fra possibi lità, e che, nel preferire l’una all’altra, si riversano relazioni di amico a nemico, sguardi sul mondo, interessi econo mici. Ma il fluire continuo di decisioni, di immediate ri sposte alle circostanze storiche, determinerebbe il caos dell’occasionalismo (così lo denominò l’acutissimo Lo with), e non garantirebbe la normalità della vita. È gloria imperitura di Kelsen e della scuola viennese di aver chiuso la produzione normativa entro l’edificio a gradi (Stufenbau), riconducendo la dispersa pluralità a unità, il caos a ordine. Kelsen ci insegna che le decisioni normative attraversano vie già stabilite, e assumono le ca ratteristiche di procedure, cioè di previste sequenze di atti. Ecco allora emergere, con insopprimibile evidenza, il pro blema della forma. Il positivismo - o, se si preferisce, la ter rena positività delle norme - ha il sopravvento sul con cettualismo: sbarazzandosi di ogni tradizione, e pronta a sacrificare qualsiasi lascito teorico, la vita del diritto finisce a identificarsi con le procedure produttive. Il frammenti smo —una norma qua, una là, che si urtano e contraddi cono; norme di fonti diverse e di contenuto discorde; norme precarie, appena emanate, e sùbito o modificate o abrogate; l’ossessiva ansietà di cambiamento —, tutto un
paesaggio sconvolto e disfatto, va in cerca di un punto sta bile e continuo, e trova ordine nella forma del produrre. Appunto produzione procedurale, che si svolge nelle forme, e dalle forme riceve nuova e profonda razionalità. Questi problemi assumevano l’importanza biografica, di cui si può trovar traccia in Testo e contesto (1996) e negli Studi sul formalismo negoziale (1997). 8. Il ‘salvagente della forma’ (per dirla con un poeta novecentesco) viene in soccorso anche del diritto e dei giuristi. Ormai sono nudi, e gettati in deserta solitudine: decapitati i re, morti gli dèi, piegata la natura al dominio degli uomini. Forme e procedure, sciolte da qualsiasi vin colo e condizione, insensibili al merito dei contenuti, ga rantiscono la razionalità del produrre. Poiché tutti i conte nuti sono versabili nelle procedure (come tutti i beni nella rete degli scambi: donde il saggio del 1998 L’ordine giuridico del mercato), i congegni di produzione nulla di cono, né possono dire, intorno alle scelte normative e agli scopi perseguiti. La nuova razionalità sta nel regolare fun zionamento della macchina produttrice. Mentre il concettualismo si sovrapponeva all’oggetto, e, trascendendo la storica datità delle norme, le innalzava e nobilitava nella luce della tradizione, il moderno forma lismo riguarda l’oggetto e il suo proprio costituirsi. Non questa o quella norma, non l’uno o l’altro contenuto, ma le forme produttrici, indifferenti alla materia regolata ed agli scopi prescelti, e perciò esatte e precise nella loro fun zionalità. Il diritto perde la razionalità dei contenuti, e guadagna la pura razionalità della forma. I contenuti sono abbandonati a passioni e interessi, fedi e ideologie; ma questo caos, questo agitarsi rissoso di volontà, si compone - deve comporsi - nelle forme procedurali.
Alla verità del messaggio divino, dell’eterna natura e della ragione umana, subentra la validità della procedura. E, se pure il diritto si fa s-radicato e s-confinato (come appare in Norma e luoghi del 2001), e perciò si scioglie dalla fe condità terrestre del nomos, ad esso rimane la garanzia della forma. Nulla è più naturale, nulla giunge dalla tradizione, ma tutto è artificiale e costruito dalla volontà. Il valere del diritto è nel volere, che sia capace di attraversare i canali delle procedure (nomodotti) e di calarsi nelle forme della posizione giuridica. Queste forme e procedure sono l’effettiva posta nella lotta fra partiti politici e fra gruppi economici. Chi le conquista e manovra, è signore del diritto, e vi esprime la propria volontà di potenza. L’assenza di vincoli esterni, la caduta di condizioni obbliganti, l’apertura a qualsiasi scel ta, consegnano il diritto alle volontà più forti e risolute. Il dominio della forma è dominio del diritto. 9. Il lungo e vacillante cammino, durato circa un quarantennio, sembrava sul punto di raggiungere una provvisoria conclusione. Spenta la fede nella razionalità a-storica, richiamato il metodo entro la specifica identità dell’oggetto, quest’ultimo si rivelava come un facere pro priamente ed esclusivamente umano. Nulla lo trascende, lo vincola, lo condiziona. ‘Produzione’ è la terribile pa rola, che esprime la possibilità dell’essere e del non essere di qualsiasi norma, il venire dal nulla e il tornare nel nulla. Non c’è salvazione se non nella forma, nei conge gni procedurali, in cui sono immesse brute materie, e da cui escono norme costrittive di umane volontà. La forma appare come l’ultimo ed unico centro, intorno al quale può raccogliersi il mondo del diritto. Ma “manca il fine; manca la risposta al ‘perché?’”: il frammento postumo di
Nietzsche descrive la situazione e segna l’apertura al ni chilismo giuridico. Che non significa assenza, ma indefinita e incondi zionata molteplicità di scopi; non riposo della volontà, ma continuo animarsi e urtarsi, e vincere e soccombere. Il diritto, non più vincolato a una direzione, può volgersi verso ogni dove, sempre arbitrario e inatteso. Né significa anti-concettualismo, ma disponibilità, dinanzi a singoli testi, all’abbandono e alla rinascita, alla rinuncia e alla ri scoperta. Nessuno è in grado di prevedere il contenuto di norme future, e dunque di calcolare l’impiego di uno od altro concetto. Il giurista non è assicurato né dalla tradi zione né dalla continuità del ‘metodo’. io. L’itinerario sembra paradossale. La storia serve a confutare il concettualismo, che avanza pretesa di uni versalità, e chiede di esser applicato — appunto, come metodo —in ogni tempo e in ogni luogo. Lo storicismo, esaltando l’individualità di qualsiasi accaduto, e tutto immergendo nello sviluppo del tempo, mostra l’indefi nito fluire di norme e il mutevole uso dei concetti. In questa corrente affiora soltanto un punto d’appoggio: le forme procedurali, 1 dispositivi di produzione e distru zione. Così lo storicismo ci conduce al formalismo, all’effi cienza meccanica degli apparati. Anche Friedrich Meinecke indica, tra 1 fattori che tessono la tela della storia, “quello che produce il regolare, il tipico e il ricorrente nei popoli, negli Stati e nelle culture”. La storia, dopo aver demolito i piani di salvezza religiosi e terreni, si rac chiude per intero nella forma normativa: essa non reca né parola dell’alto, né vincoli del passato; non prescrive con tenuti, ma tutti accoglie nei congegni di produzione. E
non potrebbe diversamente, poiché ciascun contenuto ha, al pari di qualsiasi altro, determinatezza storica, e in questa trova la propria intrinseca razionalità. La concezione mondana del diritto —che non è chia mato a svolgere leggi superiori, e solo si affida all’urto delle volontà —, non conosce alcun ‘dove’ né senso unita rio e complessivo. Il formalismo, incapace per sua indole di offrire garanzia di senso e di additare risultati dello svi luppo, si rivela così nel carattere nichilistico. La tragedia dello storicismo giunge a compimento: scioltosi da pre supposti metafisici e religiosi, riconosciuta l’irripetibile singolarità dei fatti (onde essi non sono ordinabili in ge rarchie, e tenuti l’uno migliore o peggiore dell’altro), il di ritto si scopre come nuda volontà di potenza [alle inquie tudini di Carlo Antoni, volte a ritrovare dentro lo storici smo i ‘valori’ universali dell’uomo, è dedicato il remoto saggio su La restaurazione del diritto di natura (1959)]. il. La volontà di potenza, espressa nella determina zione normativa dell’altrui condotta, si misura con diversi e molteplici rivali. Se tecnica designa l’organizzata e fun zionale volontà di dominio (di dominio sulle cose e sugli uomini), allora il diritto è specie o forma della tecnica. Anch’esso predispone mezzi in vista di scopi; anch’esso governa e manipola il mondo esterno, cioè il mondo delle altrui volontà. A questo punto l’incontro con la fi losofia di Emanuele Severino appariva inevitabile [e già si preannunciava nel saggio Le ragioni delle leggi e la legge della ragione (1980)].Vi è un’interiore e ineludibile neces sità del pensiero. Il colloquio si apre a Catania il febbraio 2000; è pieno e disteso, l’anno successivo, nel libriccino laterziano (Dialogo su diritto e tecnica); prosegue a Venezia, e a tutt’oggi si rinnova in occasioni diverse.
La filosofia severiniana - collocando il pensiero del divenire al centro della storia occidentale, e mostrando che la tecnica è la suprema potenza di questo distruggere e produrre - risponde anche agli interrogativi più ansiosi del giurista. Il quale vede intorno a sé, ed anzi nel suo proprio oggetto di studio, soltanto nascere e morire di norme, cioè norme che erano niente prima di nascere e tornano niente dopo il morire. Questa “affermazione della nientità del non-niente” - ci dice Severino —è ni chilismo. La pagina del filosofo, e ciò che ne spiega il fa scino singolare, è sempre diagnosi del nostro tempo: non sol tanto impegno speculativo, ma un assiduo guardare, un’a cutezza di quotidiano spettatore. Il dialogo con Severino è certo alle radici di Nichili smo giuridico (2004), dove il problema della produzione normativa è spinto verso conseguenze estreme. Se vuote sono le stanze del cielo, se dèi e natura rimangono silen ziosi, allora il diritto, consegnandosi al volere umano, è un ininterrotto nascere e morire. La norma, ciascuna norma, è posta sotto il segno del nulla. Ma il diritto nota il giurista —non si dissolve nel generale dominio della tecnica, nella severiniana capacità di indefiniti scopi, poiché è, esso stesso, forma di volontà di potenza, e sta accanto o contro altre, e di tempo in tempo vince o soc combe. Il paesaggio storico è occupato da una pluralità di tecniche, specie o forme di quella suprema volontà che domina cose ed uomini. Il diritto è forma di volontà di potenza: unusquisque tantum juris habet, quantum potentia valet (Spinoza, Tractatus politicus, II, 8): sceglie propri scopi, impiega propri mezzi. 12. La lunga strada rivela linee più sicure. Come sem pre, tutto era già all’inizio. L’antitesi fra storia e anti-storia, tra mutevolezza di norme e stabilità di concetti, do-
veva prima giungere al grado più aspro, e poi sciogliersi in nuova unità. Con L’età della decodificazione (1978) si scopre qualcosa di semplice ed elementare: che l’oggetto determina il metodo; che all’oggetto di questo nostro tempo non può applicarsi il metodo di ieri, cioè il me todo di altro tempo e di altro oggetto. Quante volte le norme, presentandosi frammentarie e solitarie, rifiutino la pretesa del sistema, l’esegesi non rimane fase iniziale del metodo giuridico, ma combacia interamente con esso. La storia, considerando le norme come ‘creature del tempo’ (per dirla splendidamente con Dilthey), e così piegando il metodo a servizio del precario e dell’effi mero, tutto relativizza e immerge nella caducità. Non c’è un punto storico, che ci consenta di guardare dall’alto, di opporre un accaduto ad altri accaduti, di distinguere e giudicare. Le norme si dispongono tutte sul medesimo piano, in una sorta di piatta orizzontalità. Le norme sono misura di altrui volontà; nulla è misura delle norme. Il diritto, risolvendosi in apparato produttore di norme, solleva, unico ed esclusivo, il problema della vali dità procedurale: se esse siano emanate secondo le regole di funzionamento della macchina. La storia —o, meglio do vrebbe dirsi, la considerazione storiografica - rompe il dominio del concetto sull’oggetto, del metodo sulla ma teria di studio; relativizza le norme; scopre l’essenza di un formalismo produttivo, capace di ‘lavorare’ qualsiasi con tenuto; e giunge così al pieno e perfetto nichilismo. Il di ritto, ormai separato dall’ordine cosmico e dalla sapienza divina, si getta nelle braccia di volontà terrene, che lo traggono dal nulla e lo risospingono nel nulla. Legandosi alla finitezza del tempo, il diritto esperisce tutte le possi bilità dell’essere e del non essere. Il finissimo Pietro Piovani definì il formalismo come
‘contenutismo deluso’ e ‘giusnaturalismo capovolto’. Espressioni che bene descrivono stati d’animo e fragilità psicologiche - così, nostalgie, smarrimenti, deserto di gui de nell’agire, ed altri ancora —, ma che tralasciano il fon do del problema. Poiché nessun contenuto è interdetto o vincolante, e tutti oscillano fra essere e non essere, le for me procedurali appaiono quasi un punto stabile, un cen tro nella perdita di antichi centri. L’espressionismo inse gna che il caos si placa in geometria di forme. 13. Al ‘contenutismo deluso’, cioè a condizioni d’a nimo deboli ed erranti, si collega il giornaliero appello ai ‘valori’. La parola ha umiliato e discacciato tutte le altre, che pure manifestavano nobili attese e bisogni: ideali, vi sioni del mondo, progetti di società, utopie salvatrici, ane liti religiosi. Soltanto il valore ha valore; soltanto il valore (non si ripeteranno qui le critiche definitive di Heidegger e Schmitt) può surrogare le idee della metafisica, e con trapporre bene a male, assoluto a relativo, giusto a ingiusto. Ma i valori, di cui nessuno ha cura di indicarci né il ‘dove’ né i modi d’intuizione o percezione, sono, per poco che si rifletta, costruiti dalla volontà, la quale innalza un pro prio contenuto e lo riempie della propria energia. Così, un certo contenuto, elevato a criterio di misura, si fa giudice di altri contenuti, e li assolve o condanna secondo il grado di affinità o le alleanze del momento. “I valori e il loro variare stanno in rapporto con la crescita di potenza di chi pone i valori”: l’aforisma di Nietzsche chiarisce che il valore sorge da un atto di posizione, e che esso tanto più vale quanto più cresce in potenza chi ha deciso di stabilirlo. Il weberiano conflitto di valori non è altro dalla lotta, combattuta nella storia, fra ideologie politiche e vi sioni religiose e interessi economici. Ciascuno di questi
‘valori’ ha pretesa di verità ed esclusività, appunto perché interessi e ideologie e fedi, innalzati fuori dalla storia, la guardano poi dal disopra, e giudicano il conforme e il difforme, e separano chi sta da una parte e chi dall’altra. I valori (ad usare parole di Ernst Troeltsch) si rivelano co me formule discriminanti, armi usate per “l’annulla mento morale dell’avversario”. In Nichilismo giuridico, la lotta è sempre tra pari, poiché nessuna volontà può riser varsi superiorità di rango, e nessuna è liquidata in base ad un criterio che dall’alto tutte giudichi e misuri. 14. La normatività giuridica, questa pura possibilità di essere o non essere, questa contingentia juris, trova, accanto a sé e di fronte a sé, altre volontà, tutte tese ad affermarsi e attuarsi nel mondo delle cose e degli uomini. Gli scopi, perseguiti da colui che impone norme, si agitano in con flitto o in alleanza con altri scopi. Sta dinanzi la tecno-economia, il regno, s-radicato e sconfinato, del produrre e scambiare merci. Il suo oriz zonte è planetario, supera ogni frontiera di Stato, si espande nel ‘dovunque’ della rete telematica. Ma la nor ma, al fine di guidare l’azione degli uomini e di coercirne la volontà, ha bisogno di un ‘dove’ fermo e determinato. Donde il problema delle relazioni tra Norma e luoghi (2001), e la stringente ineludibilità del geo-diritto. Qui non c’è nomos, fondamento terrestre, che generi e nutrisca di ritto; ma mera artificialità di norme, sostenute dalla po tenza di uno o più Stati. Poiché questi conservano il mo nopolio della forza (né mostrano di volervi abdicare), non c’è accordo fra singoli, né patto fra imprese, che da ultimo non ricorra ad essi e non faccia appello alla loro protezione. Accade talvolta che gli scopi della tecno-eco nomia —il mai sazio desiderio di profitto —siano assunti
come scopi di una data norma, o insieme di norme; al lora la lotta si placa, le potenze si ricongiungono, e la po litica si ritrae intimidita e silenziosa. Tutto aperto è invece il conflitto con le scienze na turali, che, considerando il corpo dell’uomo come ele mento del mondo esterno, e perciò nulla di diverso da qualsiasi altro ‘fattibile’ e ‘producibile’, hanno ormai affer rato nel loro abbraccio il nascere e il morire. Le norme giuridiche, ferme per tradizione di secoli dinanzi al mi stero del venire dal nulla e del tornare nel nulla, sono in necessità di prender posizione. Il bio-diritto, la ‘giuridificazione del bios’ (2005), è al centro del nostro pensiero. Scendono in campo visioni del mondo, fedi religiose, credule speranze, attese di felicità. Il diritto non custodi sce la risposta; non c’è vincolante misura di lecito e ille cito. La sua forma è a disposizione del vincitore, cioè di quella forza che, soverchiando le altre o piegandole a pro prio servizio, deciderà del nostro nascere e morire. La pa gina precorritrice di Ernst Jiinger ha già sollevato l’inter rogativo: “Le leggi possono soltanto agire da barriera o scavare un letto alla corrente. Ma che cosa sono mai le leggi quando una nuova formazione proietta la sua om bra?”. 15. In commiato da questa ‘autobiografia minima’, leggiamo in Severino: “Perché, una volta che ci si pone nella storia —ossia nel processo di creazione e distruzione dell’essere delle cose —perché non si deve poter rivolgere l’attività produttrice-distruttrice anche al mondo delle persone, ponendole come mezzi e strumenti ordinati alla realizzazione del progetto che ha la forza di prevalere su gli altri ... ?”. La proposizione del filosofo - nella quale ritorna la camusiana loi de l’efficacité - dice l’essenza del
diritto: della volontà normativa, rivolta a dirigere e coercire l’altrui condotta, perseguendo scopi imprevedibili e incondizionati.Volontà libera da presupposti, poiché nulla le sta prima e di sopra (anche le costituzioni, prese nel vortice dell’essere e del non essere, si rivelano ‘creature del tempo’). Non abbiamo paura del nichilismo, della virtù libera trice del divenire: esso esalta la responsabilità della deci sione; popola il mondo di scopi e di volontà militanti; prescrive al giurista di chinarsi sull’oggetto; consuma il peso della tradizione e fa risplendere la purità della forma. Il cammino, che ebbe inizio a metà degli anni Cinquanta (cari e lievi nella memoria), non può non proseguire. Ma all’orizzonte il giurista non scorge uscite di sicurezza. Roma, 5 aprile 2006
Indice dei nomi
Allara M ., 52 A ntoni C., 59 Benjamin W , 12 Betti E., 51 Bobbio N ., 51 Cacciari M ., 32 Carnelutti E, 51 Dilthey W , 61 Epitteto di Ierapoli, 45 Fichte J.G., 28 Gentile G., 17 Goethe J.W. von, 49 Gregory T., 25 Grossi P., 53 Heidegger M ., 62 J linger E., 42, 43, 64 Kelsen H ., 16, 31, 55 Leopardi G., 26 Low ith K., 55 M einecke E, 58 Nietzsche E, 12, 58, 62 Perassi T , 24 Piovani R, 62 Poliziano A., 45 R athenauW ., 15 Savigny F.C. von, 50
Scarpelli U., 52 Schmitt C , 15, 19, 30, 50, 55, 62 Severino E., 40, 59, 60, 64 Spinoza B., l i, 60 Troeltsch E., 63 Valéry P , 38 W eber M ., 15 Zanini R, 27