Il diritto dell'Occidente. Geopolitica delle regole globali 8806185772, 9788806185770

È purtroppo comune, nei media, ma anche fra politici e intellettuali, considerare il diritto come una raccolta di codici

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Italian Pages 368 [360] Year 2010

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Table of contents :
MAURO BUSSAMI
IL DIRITTO DELL’OCCIDENTE
Mauro Bussani
Il diritto dell’occidente
Indice generale
Il diritto dell’occidente
L’assalto ai luoghi comuni
1. Diritti e giuristi
il. Giuristi e giustizia
in. Noi e gli altri
Le regole globali fra tempo e geografia
iv. Le premesse
v. Rule of law. di chi e per chi ?
Vi. La globalità tradita. Dentro e oltre la crisi
vii. Intermezzo. L’ambiguo declino dello Stato
vili. Rule-makers e rule-takers. Il caso del commercio globale
I diritti umani:quando e dove?
x. Carte, linguaggi e sconfitte
xi. Diritti senza diritto
xii. Le pratiche
xiii. Un tempo per le soluzioni
Diritto e democrazia
xiv. La nostra democrazia e le tracce lunghe del (suo) diritto
xv. Derive ed espansioni
Note
I. DIRITTI E GIURISTI (pp. 5-15)
IL GIURISTI E GIUSTIZIA (pp. 16-22)
III. NOI E GLI ALTRI (pp. 23-39)
IV. LE PREMESSE (pp. 43-47)
V. RULE OF LAW: DI CHI E PER CHI? (pp. 48-71)
VI. LA GLOBALITÀ TRADITA (pp. 72-86)
VII. L’AMBIGUO DECLINO DELLO STATO (pp. 87-93)
Vili. RULE MAKERS E RULE-TAKERS (pp. 94-112)
IX. IL DIRITTO DEI GIUSTI (pp. 113-31)
X. CARTE, LINGUAGGI E SCONFITTE (pp. 135-40)
XI. DIRITTI SENZA DIRITTO (pp. 141-51)
XH. LE PRATICHE (pp. 152-69)
Xin. UN TEMPO PER LE SOLUZIONI (pp. 170-81)
XIV. LA NOSTRA DEMOCRAZIA (pp. 185-93)
Indice delle riviste citate in modo abbreviato
Indice degli autori citati
Indice analitico
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Il diritto dell'Occidente. Geopolitica delle regole globali
 8806185772, 9788806185770

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MAURO BUSSAMI IL DIRITTO DELL’OCCIDENTE GEOPOLITICA DELLE REGOLE GLOBALI

IINAUOI

© 2oio Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

www.einaudi.it

ISBN 978-88-06-18577-0

Mauro Bussani Il diritto dell’occidente Geopolitica delle regole globali

Einaudi

Indice generale

p. IX

Prefazione

Il diritto dell’occidente PARTE PRIMA

L’assalto ai luoghi comuni

1.

Diritti e giuristi

9

1. 2. 3. 4.

i4

5.

Eliche, stringhe e usure Legge e diritto: una goffa equiparazione Diritti senza giuristi Chi dice le regole IPuqaha , i professori italiani e F. D. Roose­ velt) Le catene di montaggio del diritto

5 6 8

il. Giuristi e giustizia 16 17 18 20

1. 2. 3. 4.

Le bugie dei giuristi Teorie e pratiche La giustizia occidentale allo specchio del discorso pubblico Il quando e il dove della giustizia

in. Noi e gli altri 23 23 25 25 28 31 38

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Tabelle ministeriali Pensieri buffi La struttura intima dei sistemi giuridici Strati Capi, terre e famiglie in Africa Siyàsa, Dharma, Li, Giri: la forza odierna della tradizione Lo sviluppo giuridico fra regole nostre e altrui

Indice generale

vi

PARTE SECONDA

Le regole globali fra tempo e geografia iv. Le premesse P- 43 46

48 5i 52 54 58 59 63 66

72 73 74 75 78 80 85

1. 2.

Uniformità v. Concorrenza La congiura degli innocenti

v.

Rule of law. di chi e per chi ?

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

'Le rules of law Sovrapposizioni Il diritto: una fabbrica del potere americano Avvocati, studenti e Costituzioni: le fibre dell’espansione La promessa di futuro Rule Doctors Cure senza storia La fragilità progettuale del vecchio continente

Vi.

La globalità tradita. Dentro e oltre la crisi

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Pressioni selettive Domande tardive I preparativi della tempesta La crisi delle regole La triste storia delle agenzie di rating Le regole della crisi Sotto il diritto, poco o niente

vii. Intermezzo. L’ambiguo declino dello Stato 87 89 9i

1. 2. 3.

Lo spacchettamento dell’interesse nazionale Lo Stato come abitudine Localismi

vili. Rule-makers e rule-takers. Il caso del commercio globale 94 97 99 108 109

1. 2. 3. 4. 5.

Poteri dispari, poteri irresponsabili Grozio e la WTO Diritto del commercio iniquo e poco solidale Paradossi e cinismi Commercio globale e scelte dell’occidente

Indice generale IX.

Il diritto dei giusti

p. 113 114

I. 2.

115 119 121 125 I2Ó 128 130

3456. 78. 9-

Il rumore dei nemici Corti e crimini Noi non abbiamo confini: abbiamo dispute I guai dei vinti Grida nel buio Visioni in transito Il mondo in tasca Atrocità e simbolismi Gentilezze Usa v. asprezze europee?

VII

PARTE TERZA

I diritti umani:quando e dove?

x. 135 136 138

1. 2.

3.

Carte, linguaggi e sconfitte Moltiplicazioni Radici Diritti sulla carta

xi. Diritti senza diritto 141 144 147 148 149 151

1.

2. 3. 4. 5.

6.

Diritti e politica La frammentazione delle identità Il dinamismo delle identità Universale e relativo Macro-particolarismi? Al di qua del discorso

xii. Le pratiche 152

1.

158 165

2. 3.

La tortura come routine e la religione come libertà dalla satira Donne I popoli indigeni e i profeti del passato

xiii. Un tempo per le soluzioni 170 171 174 175 180

1. 2. 3. 4. 5.

Esercizi di indifferenza Confetti al funerale ? Esercizi di differenza La scelta per il candore - Il candore delle scelte Contro il vento

Indice generale

Vili

PARTE QUARTA

Diritto e democrazia

xiv. La nostra democrazia e le tracce lunghe del (suo) diritto

189

1. 2. 3.' 4.

191

5.

p. 185 185 187

Letizie e disincanti Il primato della democrazia: questione di tempo Democrazia e diritti Specialismo e secolarismo (Gregorio VII, re Andrea II e Podiebrad, mugnai e follatori) Il diritto fra‘purezze’e totalitarismi

xv. Derive ed espansioni 194 197 198 202 203 205 206 211

1.

213

Note

2. 3. 4. 5. 6. 7.

8.

Arretramenti possibili Accelerazioni ed etnocentrismi Trapianti e rigetti I limiti del nostro discorso Una Global Court for International Aid Oltre il democratic short-termism Scelte risapute Al posto delle conclusioni

Indici 321

325 339

Indice delle riviste citate in modo abbreviato Indice degli autori citati Indice analitico

Prefazione

Questo non è un libro di diritto, è un libro sul diritto. É una riflessione centrata su: il ruolo che il diritto svolge a li­ vello globale nel farsi dei fenomeni economico-sociali; e l’im­ piego del diritto stesso come lente d’ingrandimento per l’e­ same di alcune questioni che il discorso pubblico neglige, o non sa valorizzare, e che invece incidono in profondità sul modo di guardare al mondo in cui viviamo. Non sono parole nostre quelle che segnalano come «Ogni mutamento di sistema, di regime - da quello che ha condot­ to alle signorie del Trecento a quello sfociato nell’Assemblea costituente francese del 1789, dalla genesi dei Comuni alla formazione degli stati territoriali moderni, dalle riforme del­ l’assolutismo illuminato, alle moderne costituzioni - ha avu­ to il suo momento giuridico, coessenziale ad esso; e ha spes­ so avuto la sua preparazione nella prassi giuridica, o nel pen­ siero giuridico»1. Né vengono da chi scrive i moniti, puntuti, per cui «Nessuna istituzione dello Stato è più importante delle nostre corti, né cosi pienamente fraintesa dai governa­ ti. ... Tuttavia l’opinione popolare sui giudici e sull’arte del giudicare è fatta principalmente di slogan vuoti, fra i quali includo le opinioni di numerosi giuristi e giudici quando scri­ vono o parlano del proprio lavoro. Tutto ciò è riprovevole, e rappresenta solo una parte del danno. Infatti il diritto ci interessa non solo perché lo usiamo per ottenere i nostri sco­ 1 A. Padoa Schioppa, Italia ed Europa nella storia del diritto, il Mulino, Bologna 2003, p.295.

Prefazione

X

pi, egoistici o nobili che siano, ma perché il diritto è la no­ stra istituzione sociale più strutturata e rivelatrice. Se riusci­ remo a capire meglio la natura dell’argomento giuridico, co­ nosceremo meglio che tipo di persone siamo»2. Si tratta di ammonizioni celebri, autorevoli e ficcanti. Ep­ pure, la fragilità del diritto nei circuiti di produzione delle idee resta paradossale. Nessuno dubita seriamente che i sistemi giu­ ridici stiano in corrispondenza biunivoca con la cultura e la ci­ viltà, di cui sono frutto e seme. Nondimeno, i circoli scienti­ fici, intellettuali, mediatici e politici trattano quotidianamen­ te il diritto quale fonte di ‘codicilli’, ‘cavilli’, oppure come esercizio letterario, al più appendice di qualche corrente filo­ sofica. Cosi, quegli stessi circuiti, di fronte alle spinose que­ stioni poste dalle realtà locali e globali, finiscono per riserva­ re - con le eccezioni che incontreremo - le attenzioni maggio­ ri ai verba degli economisti, dei sociologi, degli scienziati della politica, spesso a loro volta ignari di come il diritto abbia in­ vece potentemente orientato, e sempre orienti, gli orizzonti su cui essi esercitano le loro scienze, e tutti noi pratichiamo le nostre scelte.

'Fila. Il diritto forgia in effetti prassi e destini, ed è attraverso il suo angolo visuale che tracceremo qui una storia e una crona­ ca di alcune vicende del pianeta, che ricevono d’abitudine al­ tre attenzioni e altre letture3. Sottraendo la nostra né triste né gaia scienza al gioco dell’incudine fra cavilli e filosofia, incon­ treremo allora regole che trovano differenti origini, giudici di 2 R. Dworkin, L'impero del diritto, il Saggiatore, Milano 1989, p. 17 (trad. it. da Law's Empire, Belknap Harvard University Press, Cambridge Mass. 1986). 3 Paradossale in apparenza, riduttiva nella sostanza, ma istruttiva di una realtà sottaciuta, è l’osservazione di C. Gearty, Can Human Rights Survive?, The Hamlyn Lectures 2005, Cambridge University Press, Cambridge 2006, p. 81: «Cabinet mi­ nisters ask not, “is the policy good for the country?” but rather “can we get it pa­ st the lawyers ?” »

Prefazione

XI

varia toga, produttori di diritto di diversa legittimazione, stu­ diosi e avvocati, insieme ad attivisti, donne e bambine, indige­ ni e banchieri, torturatori e depredati, all’interno di una conti­ nua dialettica fra i ‘noi’ e gli ‘altri’, nonché tra i differenti gra­ di di ‘globalità’ - quella dei traffici, delle comunicazioni, delle idee - e di ‘località’ - quella delle comunità, delle tradizioni, delle identità - che la comprensione dei fenomeni impone. Alcuni fili conduttori tesseranno però la riflessione. Il primo è dato dall’attenzione per il diritto che incorpora, trascende, o attraversa la dimensione degli Stati, e delle regio­ ni del mondo in cui essi si collocano. E questo il livello del di­ scorso su cui è possibile cogliere i fattori di elaborazione e gli usi geopolitici di quel diritto che si vuole globale, insieme al­ le sue interrelazioni con la diversità delle culture e delle tradi­ zioni giuridiche, formali e informali, che abitano il pianeta. Analisi che a sua volta permetterà non solo di individuare gli strumenti con cui quel diritto determini o punti a guidare la produzione delle stesse regole domestiche e regionali, ma an­ che di esaminare i vettori che spingono l’espansione del dirit­ to globale e quelli che, muovendo da una eterogenea varietà di dimensioni ‘locali’, ne decretano gli insuccessi. Da sottolineare è solo (al di là che il termine regionale an­ drà qui riferito non a entità sub-statuali, ma all’insieme di giurisdizioni che appartengono a un’area geografica determi­ nata) che la nozione di diritto globale risulta ben diversa da quella di diritto internazionale. Quest’ultima descrive lo spa­ zio giuridico segnato dagli accordi fra Stati; il primo termi­ ne, invece, oltre a includere il secondo, incorpora sia il dirit­ to c.d. transnazionale, che dai confini delle giurisdizioni sta­ tali in principio prescinde, sia il diritto che esprime una vocazione planetaria in senso proprio4. Un altro filo conduttore si ritrova nella costante cura per 4 Sui livelli di discorso possibili in punto di dimensione giuridica: globale, in­ ternazionale, regionale, transnazionale, statuale territoriale, sub-statuale, non-statuale, si veda per tutti W. Twining, Globalisation and Legal Theory, Northwestern University Press - Butterworths, Evanston 2000, p. 139.

XII

Prefazione

le modalità e gli argomenti con cui l’Occidente, artefice mas­ simo di quel diritto globale, si confronta con le altre espe­ rienze e tradizioni giuridiche. Sono modalità e argomenti che partono spesso dal presupposto che il diritto ce l’abbiamo so­ lo noi, mentre gli altri si arrabattano cercando di imitarci o, scioccamente, di resisterci. Sono atteggiamenti che scopri­ remo spesso inconsapevoli delle ragioni altrui e, quindi, non di rado arroganti, privi del candore necessario a veicolare con forza persuasiva le proprie ragioni, e persino ciechi nei ri­ guardi degli interessi che lo stesso Occidente dovrebbe sa­ per coltivare, nell’inevitabile competizione che il presente e il lungo periodo impongono con i modelli altrui. ‘Occidente’, è bene intendersi, è termine il cui impiego sarà duplice - o, meglio, l’uno è dato in partenza, l’altro af­ fiorerà nel corso della riflessione. Nella maggior parte dei ca­ si il riferimento correrà all’abituale perimetro geopolitico del­ la nozione, quello euro-atlantico, centro propulsore di quegli argomenti e atteggiamenti di cui abbiamo appena anticipato la trattazione. Su un altro versante della riflessione, ci accor­ geremo però che quella nozione esiste, e nella storia ha po­ tuto consolidarsi (proiettandosi al di là della propria geogra­ fia), anche grazie al suo diritto e al modo in cui esso ha sa­ puto radicarsi nelle percezioni capillari dei suoi utenti, negli orizzonti delle aspettative diffuse su come le società debba­ no essere organizzate, e debbano appianare i propri conflit­ ti. E quindi un Occidente giuridico che emergerà, al contem­ po come dimensione cognitiva preziosa, termine di raffron­ to, mobile frontiera e quindi, come ogni frontiera, quale postazione utile a guardare i fatti del mondo, utile a meglio valutare le proprie e le altrui identità. Ulteriore filo conduttore è dato dall’incessante riconosci­ mento del fattore ‘tempo’ quale strumento ordinatore del­ l’analisi. Tempo come selettore di mutamenti, come secretore di identità, ma anche come produttore di consapevolez­ ze nei confronti del passato di chiunque, e di visioni mature, nei confronti del futuro di chiunque. La considerazione per

Prefazione

xm

il ruolo che il tempo occupa nel farsi dei fenomeni (pure) giu­ ridici ci obbligherà a riflettere sul tortuoso passato di cui i nostri diritti e le nostre società sono figlie; ci spingerà a sot­ tolineare le peculiarità della nostra storia e a farne uno stru­ mento interpretativo del presente; ci esorterà a non svende­ re quelle peculiarità a un prezzo molto inferiore a quanto ci siano costate, imponendone l’acquisto a chi quel passato non ha né ha avuto. Ecco allora il tempo quale ulteriore e potente dimensio­ ne cognitiva della nostra analisi, avversaria di ogni opportu­ nismo di corto termine e del suo ingenuo o cinico elettora­ to, dimensione ricca di ossigeno prezioso per quei governan­ ti, e chierici di fila, sovente in debito di fiato sulle salite della storia, e delle tradizioni giuridiche, proprie come altrui.

Strutture.

Ovviamente, il libro non promuove alcuna pan-giuridicità. Non si tratta di assumere il diritto come l’esclusivo, né, in molti casi, il più importante metro di riferimento, ma di coglierne l’utilità, e trarne i dovuti insegnamenti nell’anali­ si dei fenomeni che ci circondano. Prima però occorre spiegare cosa sia il diritto, quale nozio­ ne figlia di storie differenti. Ecco perché la Parte prima avvia il lettore verso la risposta ai quesiti su: cosa si debba intende­ re per diritto, nostro e altrui {Capitolo primo)-, come sia d’abi­ tudine forgiata la riflessione sull’idea di giustizia, e come sia invece possibile pensarla, da noi e altrove, nel tempo dato e in quello a venire5 {Capitolo secondo)-, con quali lenti esamina­ re l’esistenza della rigogliosa varietà di strati giuridici, forma­ li e informali, che in Occidente e fuori di esso governano la vita delle persone e delle istituzioni {Capitolo terzo). ’ Quesiti questi ultimi non lontani da quelli, rimasti inevasi, che si poneva già, fra gli altri, il Foscolo dell’orazione Sull’origine e i limiti della giustizia (1809), ora in Id., Sulla giustizia, Ibis, Como-Pavia 1992, pp. 17, 23 sgg.

XIV

Prefazione

Su queste basi il discorso potrà inoltrarsi verso la com­ prensione del ruolo che il diritto occupa nello scolpire i fe­ nomeni, e delle ragioni per cui ostinato è il tentativo dell’Occidente di forgiare quel diritto a sua immagine e somi­ glianza. La Parte seconda si apre così con alcune premesse meto­ dologiche circa i pregi e i difetti di quell’uniformazione del­ le regole che è al cuore del modo di pensare, prima ancora che di produrre, il diritto globale (Capitolo quarto). Il passo successivo è dato dall’esame dei fattori di produzione di quel diritto, e del peso su di essi esercitato dalla macchina giuri­ dica Usa, di cui si mettono in evidenza gli elementi propul­ sivi e la loro influenza sull’agire delle istituzioni internazio­ nali - qui con particolare riferimento al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale - (Capitolo quinto). Il Capitolo sesto svela le radici (giuridiche) della recente crisi finanziaria, enfatizza la necessità di individuare un nuovo assetto generale della regolazione e si sforza di indicare qua­ li soluzioni siano in grado di promettere un futuro meno burrascoso. La riflessione sulla crisi chiama però inelutta­ bilmente all’attenzione il tema (amplissimo, e di cui merite­ rà, nel Capitolo settimo, menzionare solo alcune dinamiche, utili al prosieguo del discorso) dell’ambito di manovra che in questo, come in molti altri settori, può tuttora dirsi sal­ damente nelle mani dello Stato. Nel Capitolo ottavo l’anali­ si dei fattori di elaborazione e delle modalità di funziona­ mento degli ordini giuridici globali punta a due ulteriori pro­ fili: l’apparente paritaria orizzontalità, e la sostanziale ver­ ticale diseguaglianza da essi espressa, a favore dei soggetti più forti sullo scacchiere geopolitico; e la irresponsabilità che caratterizza i produttori delle regole e i decisori delle dispute. Le illustrazioni pratiche scelte come paradigmati­ che in questa prospettiva, e tratte dal regime giuridico WTO (standard lavorativi, contratti pubblici d’appalto, soluzione delle dispute), aggiungono al quadro l’evidenza che le rego­ le odierne si pongono al servizio di un Occidente talora mio­

Prefazione

xv

pe (anche) nei confronti dei propri interessi di lungo perio­ do. Il Capitolo nono si sofferma su un altro spicchio della vi­ sione globalizzante che nutriamo del nostro diritto, presen­ tando le ragioni della retorica (abbondante) e dei successi (scarsi) che hanno accompagnato la nascita delle regole tut­ te occidentali in materia di giustizia penale internazionale - mettendole poi a confronto con quelle forme di giurisdi­ zione (istituite in Sierra Leone, a Timor Est, in Kosovo, Cambogia, Ruanda) che nella persecuzione dei crimini più efferati si sono per contro rivelate assai efficaci, proprio per­ ché meglio armonizzate al contesto locale. In virtù di una ormai risalente specificità disciplinare, ai diritti umani è de­ dicata una Parte a sé stante, la terza. Qui, dopo aver presen­ tato e discusso i terminali maggiori intorno a cui ruota il di­ battito transnazionale {Capitoli decimo e undicesimo), si porrà quest’ultimo allo specchio delle modalità pratiche con cui taluni diritti umani ‘camminano’ nella (e talvolta sulla) vita delle persone e dei gruppi - il riferimento andrà, in par­ ticolare, a questioni sorte in punto di tortura, libertà reli­ giosa e di satira, mutilazioni genitali, prostituzione e sosten­ tamento familiare, ambiente e sviluppo dei popoli indigeni {Capitolo dodicesimo). Il Capitolo tredicesimo è riservato al­ le valutazioni d’insieme e, perciò, alla critica dei dogmati­ smi percorrenti il dibattito, alla sua altezzosa retorica, ma anche all’individuazione di un percorso diverso da quelli abi­ tuali, che alla nobiltà dell’idea eviti le trappole dell’ideolo­ gia e garantisca un destino operativo agganciato alla realtà dei tempi, dei luoghi, e della dinamica delle culture. La Par­ te quarta, e ultima, porta a termine il nostro viaggio attra­ verso il diritto, e il suo spesso misconosciuto ruolo, mostran­ do quanto profonde siano le radici che le nostre stesse de­ mocrazie affondano nella storia della propria cultura giuridica {Capitolo quattordicesimo), e come senza la consa­ pevolezza di questo dato le pratiche dell’esportazione della democrazia possono rivelarsi funeste, e i relativi dibattiti null’altro che esercizi di retorica, di opportunismo e, o in

XVI

Prefazione

alternativa, di ‘fuoco amico’ nei confronti dei nostri stessi interessi e delle nostre ragioni (Capitolo quindicesimo).

Alice al posto degli indovini. Insomma, forse può « sorprendere qualcuno - e spiacere ad altri - ma il diritto conta»6. Conta nella costruzione e nel­ lo sviluppo dei fatti e delle culture, locali e globali. Conta, al livello cui è posto il nostro discorso, perché permette di misurare virtu e difetti dell’occidente e delle resistenze al­ le nostre ambizioni. Conta perché rende possibile compren­ dere le ragioni nostre e quelle altrui nelle loro dimensioni operative, ossia sul terreno in cui nascono e vengono com­ battuti diritti e responsabilità. Altrettanto sicuro è che l’indicazione nel corso della ri­ flessione di alcuni punti fermi, e la traccia di alcune prospet­ tive, non sfiderà la vastità dei fenomeni. Al contrario, li ri­ conoscerà - saggiandone l’articolazione e il dinamismo in­ cessante. Cosi come li riconosce la necessaria selezione operata intorno alle questioni potenzialmente rilevanti. Ta­ le è la pervasività del diritto, come qui inteso, negli orizzon­ ti quotidiani di ciascuno (e talmente numerose sono le mo­ dalità con cui l’Occidente e il suo diritto tentano di incorpo­ rare nelle proprie ragioni la complessità del mondo), che l’estensione della trattazione a problemi notevoli, e ulterio­ ri, come quelli connessi, ad esempio, al diritto ambientale, del mare, dell’energia, delle contrattazioni commerciali, del­ la proprietà intellettuale - che qui riceveranno bensì dei cen­ ni, ma occasionali -, avrebbe vestito l’opera dei panni del trattato. Intento estraneo all’editore e all’autore (nonché al­ le capacità di quest’ultimo). Fra gli intenti sicuri di chi scrive vi è invece quello di ali­ mentare la consapevolezza circa il ruolo del diritto fra gli ‘ G. Rossi, Il gioco delle regole, Adelphi, Milano 2006, p. 76.

Prefazione

xvn

strumenti di comprensione del mondo, sottraendolo sia al­ l’impotenza delle sue visioni burocratiche, temprate da due secoli di filibustering positivista, sia all’aridità delle sue visio­ ni metafisiche - che come lo sguardo interiore degli antichi indovini si credono sovente vicine alla verità, solo perché di­ scoste dalla realtà’. Si tratta allora di porre semplicemente il diritto allo spec­ chio della variegata congerie di fenomeni che esso stesso con­ tribuisce a produrre. Ma, come accadde ad Alice, il passag­ gio dall’una all’altra parte dello specchio rischia di far sì che il modo di guardare a talune vicende del mondo non sia più lo stesso. Trieste, 15 febbraio 2010.

’ Cfr. R. Jacob, Images de la justice. Essai sur l’iconographie judiciaire du Aio-yen Age à l’àge classique, Le Léopard d’or, Paris 1994, pp. 229 sgg.

a larissa, figlia di un vento tiepido di dicembre

Il diritto dell’occidente

Parte prima

L’assalto ai luoghi comuni

Capitolo primo Diritti e giuristi

i. Eliche, stringhe e usure.

Una sterminata serie di cose, nozioni, attività possono es­ sere pensate o toccate, apprese e divulgate, programmate e svolte, senza troppa cura del luogo in cui ci si trova. Ciò è possibile, ad esempio, quando illustriamo o ascoltiamo la spiegazione del principio dei vasi comunicanti, della struttu­ ra a elica del Dna; oppure quando cerchiamo di applicare la teoria delle superstringhe alle forze elettromagnetiche che abitano il pianeta. Tutto ciò non è possibile quando si ha a che fare con le regole giuridiche. Fra i non iniziati al diritto, molti sanno che la presenza della giuria è assai piu diffusa nel processo penale statunitense che nel nostro, e alcuni sanno che la pre­ senza della stessa giuria in quel paese, a differenza che da noi, può rinvenirsi anche nei processi civili. Molti sanno che le regole cardinali in materia di coniugio allineano regimi po­ ligamici, in gran parte dei paesi islamici, e dell’Africa sub­ sahariana, e regimi monogamici come il nostro, come quello tunisino o cinese (con una parziale eccezione che riguarda il Tibet). Meno noto è che negli Usa il cittadino d’abitudine non deve rivolgersi a un tribunale amministrativo per far va­ lere l’illegittimità degli atti della pubblica amministrazione, visto che le Corti ordinarie servono di regola anche a questo scopo; oppure che la regola «gli interessi usurati sono vieta­ ti» non è un precetto che troviamo ovunque, e dove è in vi­ gore riceve un’applicazione molto variegata, rispetto a quel­ la in uso da noi. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi senza interruzione,

6

Capitolo primo

a testimonianza della varietà di regole giuridiche da cui gli abitanti del pianeta sono governati, negli aspetti centrali e periferici della loro esistenza. Ma di cosa parliamo quando facciamo riferimento a re­ gole giuridiche ?

2. Legge e diritto : una goffa equiparazione.

La vulgata corrente dà per presupposto che non ci sia di­ ritto se non esiste uno Stato a produrlo1. In realtà se assu­ miamo, come nelle riflessioni più mature è pacifico, che di­ ritto è l’insieme di regole attraverso le quali una data comu­ nità (non importa quanto socialmente o economicamente sofisticata) organizza se stessa, e le proprie relazioni, inter­ ne ed esterne, dovremo pianamente riconoscere che è indi­ spensabile parlare di diritto con riferimento a tutte le società umane, indipendentemente dall’architettura istituzionale di cui esse siano dotate2. La forma occidentale di Stato, a noi nota - e che siamo stati abituati a conoscere nelle ultime dieci-quindici genera­ zioni -, non rappresenta che una tappa, che si annuncia co­ me intermedia’, nella storia di lunga durata delle organizza­ zioni sovraindividuali. Una storia segnata dall’assemblaggio di comunità sempre più estese, dal loro collasso, dall’auto­ nomia crescente di gruppi e individui, dal loro ricompattar­ si a titolo vario e con estensione differenziata4. Il diffuso er­ rore prospettico di considerare il diritto come figlio dello Sta­ to si deve allora a una serie di ragioni, fra loro interrelate, e tutte debitrici della storia - o delle sue narrazioni meno can­ dide. Prima del xix secolo, il diritto vive, anche in Occidente, senza che le comunità da esso regolate conoscessero la stes­ sa figura di legislatore a noi nota. Un diritto che vive senza legislatore sa essere (oggi come allora) un diritto rivelato, un diritto dei dotti, o un diritto consuetudinario. Il diritto dei

Diritti e giuristi

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dotti o quello consuetudinario possono anch’essi, a loro vol­ ta, coltivare rapporti piu o meno intensi con l’ultramondano, oppure dar luogo a un diritto tecnocratizzato, gestito da figure professionalizzate quali giudici, avvocati o professo­ ri. Le varietà di soluzioni sono notevoli5. Ad ogni modo, il potere legislativo moderno certo non esisteva nell’antica Roma, né al tempo di Giustiniano, né in quello a egli successivo. Giustiniano ebbe anzi cura di sot­ tolineare che con il suo Corpus iuris non aveva voluto crea­ re nulla, ma solo raccogliere le precedenti e autorevoli in­ terpretazioni dottorali, se del caso emendandole e raziona­ lizzandole6. Quanto poi alle regole inglobate in quel Corpus, una delle ragioni fondamentali per cui seppero garantirsi nel tempo autorità e legittimazione, e fungere per secoli da piat­ taforma di sviluppo del diritto quotidiano, fu (non tanto perché erano state poste da un imperatore romano antico, ma) perché esse erano percepite come le vesti di un corpo­ so sapere dottorale che, formatosi in modo spontaneo, era stato capace di elaborare nozioni e criteri di giudizio trans­ temporali7. Il potere legislativo moderno è stato per secoli estraneo agli sviluppi pure del common law inglese: qui si tramanda­ va l’idea che il diritto giace nella società allo stato amorfo, frutto delle consuetudini maturate nel regno lungo il filo de­ gli anni, diritto che spetta al giudice rinvenire e ‘dire’ nelle sue decisioni8. Di alcun ruolo gode il legislatore terreno in shari‘a e nel diritto ebraico’, dove la norma vincola per il suo collegamento con il sacrale, elemento il quale è in principio immutabile. Declamato come immutabile (proiezione di un ordine cosmico superiore, o maturato negli usi della comu­ nità locale) è anche il diritto consuetudinario della tradizio­ ne indiana, cinese e giapponese. Immutabilità che - al di là dei suoi possibili usi10, peraltro smentiti dalle continue ela­ borazioni delle prassi - lascia ovviamente poco spazio all’i­ dea di un legislatore onnipotente e lo relega comunque lon­ tano dalle chiavi di volta delle strutture sociali11.

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Lo scenario muta - in Occidente - solo allorché un ag­ glomerato di fattori arma una rivoluzione impegnata nel sot­ terrare regole e consuetudini feudali, oramai percepite come ingiustamente oppressive. Fu sostanzialmente allora che l’i­ dea legalistica, nata in numerosi circoli e dibattiti12, potè pre­ valere e imporre la sua visione, che confonde legge e diritto, diritto e legislatore, diritto e Stato. E in effetti la Rivoluzio­ ne francese a consegnare a una forza politica il potere legi­ slativo illimitato, del tipo moderno, ossia quello che noi co­ nosciamo15. Vero è che si tratta di una figura di legislatore fin da subito piuttosto ambigua (ambiguità poi ricorrente nel­ la storia, anche delle idee, che giunge sino a noi)14: si batte per liberare il paese dalle norme del passato, sostituendole con quelle dettate dalla ragione, e tuttavia la sua legge recla­ ma obbedienza non perché razionale, ma perché provenien­ te da un organo competente a legiferare. Altrettanto vero è che tutte le premesse sono poste, perché il diritto venga iden­ tificato non più con il diritto naturale o razionale, ma con il diritto «positivo», cioè posto dallo Stato.

3. Diritti senza giuristi.

Un rilievo cui si è fatto cenno nel precedente paragrafo vale qui la sottolineatura. Se il diritto può fare a meno di un legislatore, nessuna trascendenza impone che esso debba af­ fidarsi a giuristi, legati a esoterismi di casta e di professione, dotati di un vocabolario specialistico, veicolato da gazzette dedicate. Nonostante l’assenza di un ‘legislatore’, il giurista nasce a Roma, contemporaneamente alla laicizzazione dell’interes­ se al diritto15. Certo, già prima di quella svolta romana esi­ steva la funzione del giudice, e altrettanto sicuro è che per­ sone sagge avessero una speciale conoscenza delle consuetu­ dini. Ma questa attitudine non veniva necessariamente percepita come una qualità professionale, come la intendia­

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mo oggi, da noi. Furono uomini di religione, funzionari am­ ministrativi, personaggi apprezzati per il loro equilibrio e la loro correttezza, a provvedere, senza essere giuristi, ai com­ piti giuridici. La figura del giurista come cultore scientifico non esiste nella Grecia classica, né nella storia africana anteriore ai con­ tatti con Roma, con l’IsIam e con l’Europa. Eppure, la Gre­ cia, l’Africa tradizionale, le civiltà del bronzo sono tutte so­ cietà che fondavano la propria esistenza su di una rigogliosa produzione giuridica16. Anche in quelle civiltà, come ovun­ que come sempre, il diritto si è costantemente collocato in relazione biunivoca con la cultura della comunità che lo espri­ me, e che lo può esprimere - questa è la notazione di rilievo con o senza giuristi di professione. In altre parole, il diritto è vissuto, può vivere e svilupparsi, senza l’attività del giuri­ sta a noi nota, ossia senza essere contrappuntato da un ap­ parato di conoscenze elaborato criticamente.

4. Chi dice le regole (Fuqahà’, i professori italiani e F. D. Roosevelt). Di un altro dato occorre però impadronirsi. Non c’è di­ scussione seria sul punto che una tradizione giuridica non è un insieme di regole sulla tassazione, sulle società di capita­ li, o sui compiti della polizia - regole che sono mutevoli, e possono essere ispirate da contingenze, o pure da ammira­ zione per modelli altrui17. Piuttosto, una tradizione giuridi­ ca va compresa quale «un insieme di atteggiamenti profon­ damente radicati e condizionati dalla storia, circa la natura del diritto, e circa il ruolo che il diritto deve svolgere nella società politicamente organizzata, circa il miglior modo di organizzare il funzionamento del sistema giuridico e circa il modo in cui il diritto deve essere fatto, applicato, studiato, perfezionato e pensato. La nozione di tradizione giuridica pone un sistema giuridico in relazione alla cultura di cui es­

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so è parziale espressione. Pone un sistema giuridico in una prospettiva culturale»18. Ricorderemo più avanti come definizioni del genere do­ vrebbero trovarsi ben distese, e pronte all’uso, nella borsa degli attrezzi dei nostri politici e scienziati sociali, inclusi gli economisti, al fine minimo di dotarsi della consapevolezza di una prospettiva capace di impatto decisivo sulla compren­ sione (prima ancora che sulla soluzione) dei problemi ‘altrui’. Qui invece preme sottolineare che se il diritto e il suo farsi sono il prodotto dell’attività di una varietà di fattori, le re­ gole non possono dirsi date a priori, ossia quali semplici ri­ sultanti di un accertamento limitato alle Costituzioni, o agli ‘atti normativi’. In tutti i contesti, rivelati o consuetudinari che siano, c’è bisogno di chi ‘dice’ il diritto, ossia di chi manifesta nel lin­ guaggio atteso il contenuto delle regole che vanno applicate. Sappiamo che la storia del diritto inglese ha affidato questo compito al giudice, l’Europa continentale ci mostra il dirit­ to elaborato dal teorico e applicato dal giudice. Il diritto isla­ mico ci offre a dirittura uno dei modelli più estremi di crea­ zione dottorale del diritto15. Il diritto rivelato è in gran par­ te opera dei fuqahà’, cioè degli interpreti dotti, che distillano distinzioni e conclusioni sapienti20. Ma in quei contesti la produzione dottrinale è resa massimamente autorevole da due circostanze. Il giudice islamico - il qàdì - non motiva, e quindi non incoraggia l’estrazione della ratio decidendi, la memorizzazione dei giudicati, l’imitazione del precedente. Oltre a ciò, l’area dove si pratica la shari‘a non è dotata di un organo giudiziario di vertice, una Corte Suprema, perché le piramidi giudiziarie appartengono ai singoli stati, e non al­ la comunità islamica21. Insomma nei paesi in cui è diffuso l’IsIam, come da noi, come altrove, non è possibile sapere quale sia il contenuto di una ‘legge’ senza conoscere gli apparati categoriali e le mo­ dalità operative con cui viene data applicazione alle regole, senza conoscere il ruolo giocato e il potere goduto dai corpi

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applicativi. Detto altrimenti, non è in alcun luogo possibile comprendere il linguaggio con cui camminano i diritti e gli obblighi, la maniera in cui vengono giudicati i conflitti, ma neppure il modo con cui vengono gestite le riforme sociali ed economiche più rilevanti, senza conoscere il c.d. legal pro­ cess, ossia senza conoscere quell’insieme di elementi che van­ no dal modo in cui si formano i giuristi (o chi è chiamato a dire le regole), al loro linguaggio, alle ragioni per cui costo­ ro si sentono obbligati a prendere quella determinata deci­ sione, o a scrivere in un certo modo le sentenze, o le circo­ lari, parlando a chi, volendo essere ascoltato da chi, volen­ do persuadere chi. Un’applicazione domestica aiuterà a meglio comprende­ re. Dal 1942 l’Italia dispone di un codice civile nuovo, su­ bentrato a quello del 1865 - entrambi sostanzialmente ispi­ rati al codice napoleonico del 1804, tuttora in vigore in Fran­ cia. Ebbene, la letteratura giuridica del secondo dopoguerra usava dialogare soprattutto con la dottrina tedesca, specialmente quella anteriore al 1900, e ciò non per fare storia, ma per interpretare il diritto vigente, nella convinzione che i concetti giuridici fossero stati studiati in modo insuperato dall’ultima generazione dei cc.dd. pandettisti tedeschi. Que­ sta impostazione ovviamente rifluiva nell’insegnamento e an­ dava a comporre il bagaglio tecnico del dottore in giurispru­ denza, che finiva poi a sedere sullo scranno dei tribunali. Co­ si - per stilizzare uno dei molti esempi proponibili - sino agli anni ’70 del ’900 vi era sempre la possibilità che chi chiedes­ se il risarcimento di un danno di natura economica si sentis­ se rispondere dal giudice che il ristoro poteva essere conces­ so solo in presenza di una lesione di diritti come quello di proprietà, all’integrità fisica o alla vita. Questa risposta non trovava alcun appiglio nel nostro codice. Essa era invece il frutto di un insegnamento scolare che aveva fatto propri gli stessi limiti risarcitori dettati dal codificatore civile tedesco del 1896 e cui davano voce gli autori germanici. Per lungo tempo, in somma, chi da noi cercava il dato legale s’imbat­

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teva in un modello di derivazione francese, chi cercava le so­ luzioni operative incrociava un modello interpretativo di de­ rivazione tedesca: e cosi l’attore in giudizio non poteva nem­ meno sognarsi di vedere risarciti, come accade oggi, i propri danni puramente economici, biologici, o ‘esistenziali’. Si ba­ di, quanto è cambiato sono i riferimenti culturali degli inter­ preti. Il codice è rimasto immutato. Può allora esistere una profonda disarmonia fra dato le­ gislativo e dato giurisprudenziale. Non si tratta però di una deformazione italiana. La forza dei corpi applicativi è do­ vunque possente e, con maggiore o minore trasparenza - a seconda dei tempi, dei luoghi e dei settori del diritto -, sem­ pre in grado di veicolare la parola lungo i canali che quei cor­ pi ritengono adeguati alla bisogna. Un esempio fuori dai nostri confini? Restando in Occi­ dente, basterà richiamare quello che viene d’abitudine ricor­ dato come una delle svolte politiche maggiori nel xx secolo e che, al di là di questa indubbia caratteristica, si rivela un epico scontro condotto sul terreno giuridico. Non è difatti possibile cogliere cosa abbia rappresentato il New Deal rooseveltiano senza comprendere il sofisticato e dinamico equi­ librio che, attraverso una serie di prove di forza, si deter­ minò nel corso del tempo fra i maggiori attori del sistema giuridico statunitense - vicenda, peraltro, non priva di spun­ ti di rilievo per il travagliato presente nostro, e americano in particolare. L’idea base del progetto di F. D. Roosevelt era quella che, per far uscire il paese dalla depressione economica in cui era piombato dopo la crisi del 1929, toccasse al governo federa­ le la manovra del ciclo economico. I corollari di questo as­ sunto contrastavano però cosi fortemente con il tradiziona­ le sistema di common law da rendere necessario derogarvi tramite apposita legislazione, soprattutto al fine di sottrarre alcuni poteri alle corti, vestali del common law, e affidarli al­ le diverse agenzie governative che si venivano istituendo. Lo scontro ideologico, come spesso accade in Occidente,

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si trasferì sul terreno giuridico, dove il valore della certezza del diritto, racchiuso nella fedeltà al sistema tradizionale, fi­ niva coll’opporsi ai valori della nuova giustizia sociale, mi­ ranti a un allargamento della sfera dei diritti dei cittadini. In effetti, la legislazione e le burocrazie che il New Deal intro­ dusse non erano affatto volte ad assimilare i risultati e i lin­ guaggi della secolare elaborazione del common law, ma a su­ perarli. Quella legislazione e quelle burocrazie presuppone­ vano il common law come un sistema che rifletteva tutti gli anacronismi e le ingiustizie del laissez-faire: le regole in ma­ teria di proprietà e contratto apparivano, cioè, come stru­ menti atti non a connettere, ma a isolare le posizioni priva­ te nei confronti del controllo sociale22. Al loro posto, i segua­ ci del New Deal rivendicavano la centralità del diritto al lavoro, all’abitazione, all’educazione, e pensavano che tali diritti potessero divenire effettivi solo grazie all’azione ‘sov­ vertitrice’ del governo federale. Assumendo il ruolo di guardiana del common law quale parte integrante dell’ordine costituzionale fondato sull’indi­ vidualismo proprietario23, la Corte Suprema federale finì coll’invalidare come costituzionalmente illegittime molte delle leggi votate dal Congresso nel primo mandato rooseveltiano (1933-36). Il conflitto fra la Corte e l’amministrazione de­ mocratica si trasformò, presentandosi come il problema di chi meglio incarna i valori costituzionali e, in definitiva, di chi deve tradurli in prassi: il presidente e il Congresso elet­ ti dal popolo, oppure i nove giudici della Corte Suprema co­ stituzionalmente collocati al di fuori del circuito democra­ tico. Ecco perché, quando le elezioni del 1936 confermarono l’enorme popolarità del programma del New Deal, Roosevelt andò subito all’attacco della Corte. Ciò che avvenne princi­ palmente con il c.d. Court Packing Pian, attraverso cui il pre­ sidente avrebbe potuto nominare alcuni membri nuovi del­ la Corte, sì da sovvertirne la maggioranza. La giustificazio­ ne ostensa fu quella di aiutare gli anziani giudici a sostenere

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il crescente carico di lavoro24. La mossa fu accolta assai cri­ ticamente, e non solo dai suoi oppositori politici, perché il gesto fu accusato di minacciare l’indipendenza del potere giu­ diziario, e in particolare di quella Corte Suprema che era con­ siderata uno dei simboli dell’unità nazionale25. Fu una serie di eventi ulteriori, tuttavia, a indurre Roosevelt ad accanto­ nare per sempre quella riforma. Nel maggio del 1937, un giudice noto per le sue idee con­ servatrici annunciò le sue dimissioni e ciò consenti a Roose­ velt di nominare al suo posto un progressista. Ma soprattut­ to la Corte modificò sensibilmente il suo metro di giudizio, avviando un rapido revirement con cui iniziò a vagliare po­ sitivamente leggi che fino a poco prima avrebbe considerato costituzionalmente illegittime (dal Social Security Act al Na­ tional Labor Relations Act, a una legge sul minimo salariale dello Stato di Washington, del tutto simile a quella dello Sta­ to di New York dichiarata illegittima pochi mesi prima). Lo scontro era finito. La sfera di competenza del gover­ no federale venne allargandosi imponentemente con la crea­ zione di una vasta serie di agenzie, le quali, oltre a trasfor­ mare radicalmente il diritto degli affari26, presentavano la ca­ ratteristica rilevante di riunire in capo a se stesse poteri tradizionalmente separati. Agendo infatti in base a leggi che fissavano obiettivi generali e che delegavano ad esse la nor­ mazione di dettaglio, nonché il compito di regolare i ricorsi e le controversie con i soggetti amministrati, queste agenzie finirono - si noti - con il condensare su di sé poteri legisla­ tivi, giudiziali e amministrativi.

5. Le catene di montaggio del diritto. Qui il punto non è solo levare il memento (utile anche agli ‘esportatori di democrazia’) che la politica passa attra­ verso il diritto, il quale è a sua volta dinamicamente inseri­ to nello sviluppo della società di cui è espressione. Né si trat­

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ta di sottolineare come la stessa tripartizione dei poteri pos­ sa senza danno piegarsi alle esigenze del tempo se (e solo se) il quadro istituzionale è dotato di contrappesi e controlli ef­ ficaci27. Quanto vale maggiormente è ribadire che, in siste­ mi istituzionali complessi, il compito di fare il diritto spetta ad attori numerosi: le autorità amministrative, le corti, i ce­ ti forensi, le burocrazie - oltre ovviamente al legislatore, con la varietà morfologica dei suoi prodotti, ciascuno dei quali da intendersi come esito di un processo decisionale segnato da esigenze mutevoli28. L’avvertenza ulteriore è una sola, ma come vedremo ro­ tola fino a valle delle questioni piu rilevanti poste dalle cc.dd. globalizzazioni: è la necessità di comprendere come ogni si­ stema giuridico viva all’interno di coordinate culturali che, pure in Occidente, non sempre sono prone a mutazioni dal­ l’alto, che non si cambiano in una notte, sia pure boreale, che esprimono interrelazioni complesse tanto quanto sono complesse le società in cui operano. Che poi le idee nate in Occidente riescano o no a riflet­ tere sullo specchio voltairiano della propria ragione le altrui ideologie, tradizioni, trascendenze e l’intera, diversificata realtà del mondo, è una questione che ritroveremo più vol­ te cruciale nella nostra riflessione.

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i. Le bugie dei giuristi.

Un altro dei prismi attraverso cui avanzare la compren­ sione dei fenomeni, locali e globali, è quello che connette di­ ritto e giustizia. Un dato incorporato nell’antropologia culturale dell’Occidente indica come in questa tradizione il diritto pretenda di essere giusto. A questo scopo, il giurista occidentale ha sempre affermato che il proprio compito è quello di descri­ vere, i.e.: ‘trovare’, ‘glossare’, applicare il diritto, lasciando le decisioni politiche alle sedi politiche. I giuristi hanno sem­ pre finto di descrivere il diritto mentre in realtà lo elabora­ vano, e lo elaborano. Insomma i giuristi mentono. Che men­ tano perché essi si rapportano a una verità dettata da una ra­ gione artificiale, in quanto tecnica e specialistica, è un dato che le società occidentali dovrebbero considerare un presup­ posto essenziale della propria cultura. Come abbiamo visto e meglio vedremo, proprio perché tecniche e specialistiche, quelle elaborazioni, a differenza di altre, hanno saputo len­ tamente evolversi al servizio di una concezione operativa di giustizia sostanzialmente indipendente dalla religione e dal­ le altre trascendenze2’. Riguardato tuttavia dal punto di vista interno agli stessi dibattiti occidentali, quell’anelito al ‘giusto’ risulta assai fria­ bile. Cangianti sono le circostanze storiche in cui i giuristi operano, mutevole è la ‘volontà politica’ di contorno: altro è il feudatario, altro è l’imperatore, altro ancora è lo Stato sovrano, o le istituzioni globali. Assai varie, di conseguenza, sono le modalità con cui si può apprezzare la ‘giustizia’. Qua­

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le giustizia ? resa come ? resa dove, resa quando ? e soprattut­ to per chi ? Modalità tutte potenzialmente in grado d’incide­ re profondamente sugli esiti che la data regola può produrre.

2. Teorie e pratiche.

Si tratta di articolazioni che è utile porre allo specchio di due distinte percezioni della giustizia, entrambe assai diffu­ se: quelle di matrice teorica e quelle interne ai corpi applica­ tivi del diritto. Con riguardo a queste ultime, la prospettiva tradiziona­ le - in particolare quella da noi prona al positivismo (di cui abbiamo fatto cenno al capitolo precedente, e) che vuole il giurista bocca della legge - si avvale di una visione secondo la quale ciascuna regola è apprezzata attraverso la sua valen­ za sistematica, trovando il sistema legittimazione e limite nella sua razionalità’0. Su tale direttrice, il giurista mirereb­ be in sostanza alla legittimazione «materiale» di una, rectius: della decisione giusta, mentre a fornire fondamento al­ la decisione è l’apparato concettuale, variamente irrorato da prospettive lato sensu politiche e culturali (la trasparenza con cui queste prospettive sono esplicitate distingue poi l’atteg­ giamento dell’interprete europeo rispetto a quello angloame­ ricano)’1. Di conseguenza, il problema della conformità a giu­ stizia si pone semplicemente in termini di ricerca di quale so­ luzione, fra quelle possibili all’interno del sistema dato, soddisfa al meglio quelle esigenze di conformità. Con riguardo invece agli apparati (puramente) teorici, è ben noto che nella storia della nostra cultura il rimando biu­ nivoco fra diritto e giustizia è stato a lungo centrato sul pa­ rametro del raggiungimento di un ‘bene comune’. Gli esem­ pi abitualmente tratti a riferimento sono numerosissimi: dal Platone per cui il diritto dovrebbe orientarsi verso «il comu­ ne interesse di tutto lo Stato»’2, all’Aristotele secondo il qua­ le «un vero governo» dovrebbe avere un diritto giusto, e un

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diritto giusto è quello orientato verso «gli interessi comu­ ni»”; dal Tommaso che definiva il diritto come un ordine di ragione volto a realizzare il bene comune”; al Locke che sot­ tolinea come, secondo il diritto naturale, il potere legislati­ vo «nella massima estensione, è comunque limitato dal cri­ terio del pubblico bene della società»”. Nella letteratura più recente, si moltiplicano poi - ma, come vedremo subito, le tracce profonde della riflessione non sono cambiate - i so­ stenitori di chi individua le nuove fonti dei procedimenti che conducono dalla legittimità alla giustizia, per esempio, nelle idee della «giustizia come equità», come ‘correttezza’ (Rawls, Alexy), oppure nelle idee dell’«auditoire universel» (Perel­ man), dell’«integrity» (à la Dworkin), o del «kommunikatives Handeln» (Habermas)36, della giustizia come «formula di contingenza» o come «formula di trascendenza»3’. Si trat­ ta di prospettive tutte, quelle più antiche come quelle più re­ centi, che all’evidenza finiscono per rimandare la palla del­ la ‘giustizia’ nel campo delle opzioni politiche, al cui riparo il giurista può continuare a vestire i panni visibili del tecni­ co supino al diritto ‘ufficiale’, e quelli occulti dell’autentico facitore di regole.

3. La giustizia occidentale allo specchio del discorso pub­ blico . Di fronte a orientamenti del genere - qui ridotti a cenni brutalmente semplificatori, ma la cui ricchezza è foriera di dibattiti veicolati da una pubblicistica imponente -, alcune considerazioni meritano la paziente sottolineatura. Si tratta di dati necessari a comprendere i modi in cui la giustizia è percepita all’interno della nostra cultura, e che ci permette­ ranno nel prosieguo del discorso di meglio misurare la distan­ za che separa le nostre prospettive da quelle altrui. La prima considerazione vale a sgomberare il campo da alcuni possibili equivoci. La comunicazione fra diritto e

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scienze altre - siano esse naturali, sociali, o filosofiche, e in­ cluse quindi quelle che si occupano delle teorie della giusti­ zia - rappresenta un bene assai prezioso. Si tratta di un fe­ condo arricchimento del terreno su cui nella nostra civiltà germina la comprensione dei problemi e l’offerta di soluzio­ ni. Tuttavia, detto che tale arricchimento potrebbe e (per demerito dei giuristi) non sa essere biunivoco, il punto è che i corpi applicativi muovono da una posizione che in Occi­ dente, come si è detto, è quella del tecnico posto di fronte a un reticolato di regole. Ruolo che la tradizione in cui siamo immersi declama indifferente, almeno in principio, al dato a-specialistico, come quello rappresentato dalle teorie sulla giustizia. Ciò che aiuta a spiegare perché ai luoghi in cui si costruisce il discorso pubblico (media, circoli politico­ intellettuali) i corpi professionali rimandano l’ineluttabilità di una nozione di giustizia ‘burocratica’, ‘cavillosa’, figlia unica di un precedente giudiziario, o di un comma”. Allorché le questioni giuridiche arrivano sul tavolo di que­ gli stessi produttori del discorso pubblico, cosa accade? Co­ storo, quando non si abbeverano alla burocratica fonte del­ la cronaca processuale, o parlamentare del giorno, non pos­ sono che filtrare l’esperienza giuridica attraverso la sola alternativa a loro disposizione, ossia il dibattito teorico sul­ la giustizia. Si tratta però, spesso, di teorie mal rifornite dei dati che attengono ai problemi concreti su cui esse vorrebbero eser­ citare la propria capacità d’indirizzo. Si tratta conseguente­ mente di teorie che, sovente, diffondono l’idea di una giu­ stizia metafisica, congegnata in termini pretenziosamente universali e astratti, rinserrata attorno ad affermazioni il cui tasso di condivisione è pari solo a quello di generalità, e con­ dannata alla distanza dai conflitti che quotidianamente chie­ dono di essere amministrati e risolti”. Nel dibattito teorico poi, e dalle sue origini, si trovano volta a volta veicolate nozioni assai distanti fra loro, come quelle di giustizia ‘commutativa’, ‘distributiva’, di giustizia

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come rispondente, equivalente a tradizione, a ragione, a na­ tura40. Il punto è però che - pur tenendo aperti gli occhi sul solo nostro mondo occidentale - quelle nozioni sono soven­ te costruite prescindendo dalla considerazione per il settore del diritto su cui si esercita la riflessione. Il dato è ovviamen­ te cruciale, perché il diritto dei disabili esprime problemi e vive di principi e regole che non sono replicabili per le so­ cietà commerciali, o per i contratti internazionali, e lo stes­ so vale per le distanze che separano il diritto di famiglia da quello amministrativo, o quello del processo penale dal dirit­ to agrario. Così il discorso appare sclerotizzato in un retico­ lo di astrazioni (ex ante, ex ignorantia), che non hanno nul­ la a che fare con le scelte concrete, di persone concrete po­ ste in situazioni concrete41 (le eccezioni ovviamente ci sono, e ce ne occuperemo nel prosieguo del discorso, ma restano eccezioni)42. Non c’è qui bisogno di insistere sul pericolo sem­ pre incombente di generare falsi negativi - ossia di mancare di scorgere interessi concreti - oppure falsi positivi, cioè co­ gliere come pubblici e valevoli di protezione primaria, inte­ ressi che possono non esserlo4’. Il problema di ultima istan­ za è che quelle maniere di catturare la comprensione finisco­ no sovente col risultare solo dogmatiche, e auto-referenziali (benché utili a svolgere il role-game di accademici, oppure, e talora simultaneamente, di consiglieri del principe).

4. Il quando e il dove della giustizia.

Stretta fra ‘cavilli’ e astrazioni, ecco allora come veleg­ gia, senza albero maestro, la percezione pubblica del nostro diritto. Ma quanto precede non è tutto e, ai nostri fini, nem­ meno il più. Nei circuiti in cui si fabbricano le teorie e si produce il dibattito sulla ‘giustizia’, oltre al deficit di concretezza poc’anzi richiamato, scarso risulta l’approfondimento su te­ mi che per converso appaiono centrali. Tali dovrebbero ap-

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patire, quanto meno, a chi volesse guadagnare a quéi circui­ ti comunicativi, e a quei dibattiti teorici, capacità d’indiriz­ zo delle ‘percezioni condivise’ circa i problemi che al diritto sono assegnati dallo sviluppo delle nostre società. Ma cen­ trali dovrebbero apparire pure a chi ambisce a propagare no­ zioni universali e a-temporali di diritti e di giustizia, cosi co­ me a chi punta a comprendere, o a incidere su, il modo in cui si dipana la concreta amministrazione del ‘giusto’ nelle are­ ne del diritto globale44. Qualunque sia la nozione di giustizia adottata, manca una massa critica di analisi, sgombra da odierni pre-giudizi, sul­ la possibilità che quanto è giusto in un tempo determinato lo sia, pure all’interno della stessa società, in un periodo sto­ rico diverso (e gran parte del dibattito sulle evoluzioni del diritto fuori dall’occidente, o sullo sviluppo dei diritti uma­ ni, ne sono vividi esempi - si veda infra, Capp. 3, 10-13). Piu in particolare, poi, manca una massa critica di analisi sulla possibilità che sia giusto quanto guarda (solo) all’allocazione delle risorse presenti o sia giusto quanto guarda anche alle allocazioni future delle risorse. E chiaro, del resto, che con­ tinuare a intendere la giustizia come avente a oggetto i beni contesi già esistenti rende inevitabile - e non solo nella pro­ spettiva della salvaguardia dell’ambiente45 - che le idee e i sistemi giuridici in uso funzionino (al meglio) quali preser­ vatoti e non dilatatori di giustizia nel tempo46. Quanto poi risalta in quelle ‘teorie’ è come i dibattiti e le nozioni da esse veicolati siano raramente riforniti di dati, elementi e riflessioni che valichino la dimensione regionale dell’occidente47. Manca in altri termini l’attenzione neces­ saria a comprendere l’impatto di quelle visioni - nel tempo dato e nella data area del diritto - su esperienze altre dalla nostra, ove le coordinate di riferimento per il farsi della ra­ gione pubblica, per il soggetto che è chiamato a risolvere le dispute, cosi come per chi aspira a veder soddisfatte le pro­ prie pretese, sono assai mutevoli e spesso distanti da quelle proprie all’Occidente48.

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Capitolo secondo

' Intendiamoci, i teorici della giustizia fanno il loro mestie­ ri, costruiscono prospettive, delineano orizzonti di senso, e non ci sarebbe nulla da ridire se intitolassero i frutti delle loro riflessioni ‘teorie della giustizia occidentale’ (o ameri­ cana, europea, italiana) del decennio ‘Y’ del secolo ‘Z’. Ma questo non accade: implicita è d’abitudine la vocazione uni­ versale e/o atemporale di quei discorsi. Eppure, s’immagina con facilità quale potrebbe essere la reazione ordinaria di un pensatore del nostro emisfero «to a Chinese intellectual who puts forward a universal theory of justice that draws on the Chinese political tradition for in­ spiration and completely ignores the history of Western so­ cieties, except for brief criticism of slavery and imperial­ ism»4’. Eppure sono i giuristi occidentali - come ricordere­ mo - a scrivere lo spartito, e suonare le note, di quel diritto su cui vorremmo il resto del mondo fosse chiamato a danzare.

Capitolo terzo

Noi e gli altri

i. Tabelle ministeriali.

Come dovrebbe esser noto - e non lo è, ad esempio, alle nostrane tabelle ministeriali per i corsi di laurea in giurispru­ denza -, il diritto non nasce e vive fra Brennero e Lampedu­ sa, o fra Trieste e Ventimiglia, né fra Lisbona e Vilnius30. Allorquando si discorre di diritto tout court, oppure di business law, di diritti di cittadinanza, ma anche di diritti della personalità, oppure di diritto all’autodeterminazione delle scelte in materia familiare, o dello stesso diritto di pro­ prietà, si è di fronte all’esistenza di una pluralità di modelli giuridici, fra loro più o meno distanti e diversamente in gra­ do di assorbire concezioni e ragioni pubbliche altrui, e altro­ ve condivise. In una prospettiva che mira a comprendere la realtà at­ traverso le regole che le comunità si danno, ricevono ed ela­ borano, questo è però un aspetto che merita considerazione speciale. Ecco perché vale la pena di tratteggiare - seppure in punta di penna - alcuni dei possibili punti di partenza per una riflessione che si voglia consapevole circa le articolazio­ ni e le diversità di cui tener conto.

2. Pensieri buffi.

Un chiarimento s’impone subito, come volto a sgombe­ rare il campo da luoghi comuni perniciosi. A dire il meno, risulta buffo pensare che, poiché negli ul­ timi secoli la forza e il prestigio dell’occidente ha diffuso in

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Capitolo terzo

gran parte del mondo la propria ‘rule of law’51 (insieme ai suoi apparati: giuristi e giudici professionisti, codici, costi­ tuzioni, gazzette specialistiche), questo impianto funzioni o possa funzionare dappertutto come nelle sue terre d’origi­ ne52. Condivide il destino di tutte le natveté pensare che là do­ ve troviamo un codice, una costituzione, una legge scritta che formula una regola identica a quella di un altro paese, questa regola finisca necessariamente coll’essere interpreta­ ta e applicata allo stesso modo nelle due realtà. Si è già det­ to come sulla formazione della regola operativa incidano una pluralità di fattori, che variano da contesto a contesto, e fra i quali vale la pena dì richiamare l’esistenza e l’influenza di ceti giuridici professionali, di controlli istituzionali efficaci, oppure il ruolo sociale, ma anche i modi di reclutamento, del giudice. A tacer d’altro, un giudice scelto tra le fila degli ac­ cademici sarà portato a dare maggior peso alle posizioni dot­ trinali rispetto a un giudice proveniente dal mondo forense; un giudice di nomina politica potrebbe seguire nella propria navigazione giuridica stelle polari diverse da quelle di chi ac­ cede alla carica per concorso; differenze di rilievo potrebbe­ ro determinarsi fra le concrete ispirazioni di un giudice no­ minato a tempo e quelle di un giudice inamovibile; e si trat­ ta di specificazioni tutte direttamente influenti sul modo di realizzare qualsivoglia modello di giustizia, a livello dome­ stico come sul piano internazionale, o globale55. Tutto questo, intendiamoci, vale dappertutto, ma si trat­ ta di un dato che attira una particolare attenzione anche, e (nella nostra prospettiva) soprattutto, allorché si crede di po­ ter esaminare, o risolvere i problemi di un paese non occi­ dentale semplicemente con l’occhio, o la penna, poggiati su un codice, una costituzione, una legge scritta. Qualche precisazione, e qualche illustrazione meritano al­ lora l’evidenza, cominciando dalle prime.

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3. La struttura intima dei sistemi giuridici.

Il dibattito sembra essere assai poco consapevole di un fe­ nomeno di vasto impatto sul funzionamento dei sistemi, og­ gi evidente soprattutto al di fuori della tradizione giuridica occidentale34, ma tuttora vivo pure nelle nostre esperienze55. Il riferimento è alla sopravvivenza (o talora alla ri-nascita) di differenti ‘strati’ giuridici, nei quali le regole e le soluzioni fioriscono indifferenti a, o in contrasto con, il diritto ufficia­ le dello Stato (o dell’autorità sub- o sovra-nazionale da esso riconosciuta)56, ossia il diritto espresso dalle decisioni giudi­ ziali, dalle norme scritte nei codici, nelle altre leggi e regola­ mentazioni di ogni tipo. Questi diversi strati coesistono, sto­ ricamente asserviti ciascuno a un obiettivo differente, e alcu­ ni di essi evitano pure i meccanismi usuali di soluzione delle controversie, nel senso che la maggior parte delle liti, che sor­ gono fra gli utenti dello strato giuridico dato, non sono rimes­ se all’operare dei circuiti ordinari di decisione57. Ovviamente, non entra qui in linea di conto il dibattito tutto occidentale e tutto di marca positivista che si esercita sul ruolo svolto dalle cc.dd. social norms, regole sociali o cul­ turali, come ‘altro’ dal diritto. Alla base della nostra analisi vi è, come sa il lettore, l’assunto che il diritto sia l’insieme di regole che una data comunità (non importa quanto gran­ de, e socialmente o economicamente sofisticata) adotta per organizzarsi. Data questa definizione del fenomeno giuridi­ co, ogni distinzione fra regole giuridiche e regole sociali vie­ ne meno, nella misura in cui queste ultime rispondano ai so­ praddetti requisiti58.

4. Strati. L’articolato fenomeno della stratificazione può essere qui brevemente illustrato nel modo che segue.



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Solo uno dei nostri orizzonti giuridici è racchiuso in quel­ lo che potremmo chiamare ‘lo strato formale ordinario’, e cui di solito è riferito il discorso giuridico occidentale. E il livel­ lo in cui incontriamo la produzione, e l’applicazione, di nor­ mative nazionali e locali, del diritto UE, di quello interna­ zionale. Qui comportamenti, attribuzioni e dispute sono con­ trollati dal diritto ufficiale, e dai circuiti formali di aggiu­ dicazione. Ad altri livelli dell’esperienza giuridica regna invece l’informalità - la quale può naturalmente esprimere regole più o me­ no coerenti con i principi che forgiano il diritto ufficiale. Sotto i cieli dell’informalità, uno strato in cui ci si imbat­ te facilmente, perché governa comportamenti diffusi, è quel­ lo controllato da regole, e strumenti di soluzione delle dispu­ te, di stampo tradizionale (z.e. consuetudinario), che poggiano su valori condivisi nella comunità data, e che sono ispirati dal principio di ‘autorità personale’. In quest’area si collocano so­ vente, anche da noi, le relazioni familiari e di parentela”. Un altro strato è retto da regole e strumenti di aggiudi­ cazione informali, ma queste regole e questi strumenti han­ no, almeno in parte, natura e origini differenti. Esse sono ra­ dicate nel diritto consuetudinario locale e la loro azionabilità, extra-giudiziale, è assicurata da fattori extra-parentali. Si pensi ai comportamenti opportunisticamente tesi a man­ tenere buoni rapporti di vicinato, oppure si pensi a quelli ba­ sati sulla fiducia nel rispetto delle regole locali da parte de­ gli altri consociati. Questo è quanto da noi risulta visibile in larga misura nell’esercizio dei diritti proprietari (soprattut­ to al di fuori dei contesti urbani)60, nella gestione di affari di poco valore61 e nella risoluzione delle dispute che prendono origine dai piccoli incidenti della vita quotidiana62. L’informalità - sempre intesa come osservanza di regole non provenienti da un’autorità ‘ufficiale’ - è poi presente, oltre che nel tempio stesso della statualità, ossia nel dome­ stico diritto pubblico e costituzionale (si parla allora di con­ suetudini, prassi, convenzioni)6’, anche nelle maglie del di­

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ritto pubblico ‘globale’, dove la soluzione delle controversie finisce talora per conformarsi a valori, e perseguire scopi, la­ terali rispetto a quelli scolpiti negli strumenti normativi for­ mali (ne vedremo qualche esemplificazione nei Capitoli se­ sto e ottavo). L’ultimo strato che qui vale il richiamo è quello del dirit­ to privato degli affari transnazionali, dove le regole che si applicano sono sovente il risultato delle tradizioni e delle am­ bizioni proprie ai protagonisti del business law transnazio­ nale, e dove gli attori tendono ad adottare regimi e strumen­ ti di aggiudicazione auto-creati, elaborando da sé le moda­ lità di composizione delle liti o nominando essi stessi i loro giudici e dando vita alle proprie corti (sul punto torneremo nel Capitolo quinto). Due osservazioni, al limite dell’ovvio. La prima è che an­ che gli strati informali sono da noi governati dal diritto uffi­ ciale, e amministrati dai circuiti formali di aggiudicazione. Il punto è però che non solo i dati statistici ma anche la perce­ zione sociale, e la giornaliera amministrazione del diritto, mo­ strano che questi sono strati nei quali la fonte rilevante e di­ retta dell’ordine sociale non si ritrova nel diritto ufficiale e nei circuiti formali di decisione, bensì nella congerie di rego­ le a formazione consuetudinaria che, orientando comporta­ menti, erogando premi e sanzioni, controlla con elevati tassi di effettività le dinamiche delle relazioni interpersonali64. La seconda osservazione ricorda come la disposizione dell’espe­ rienza giuridica su di una varietà di piani, le loro interrelazio­ ni, l’attingere dei membri della micro- o macro-comunità a un insieme di regole differenziate, siano fenomeni che esisto­ no da sempre, da noi come altrove. In Occidente è stata la temperie statalista degli ultimi due secoli a occultare il dato, reclinando l’attenzione del discorso pubblico, così delle per­ cezioni politiche come della letteratura giuridica, sul mero di­ ritto ufficiale, posto dalle fonti riconosciute dallo Stato65. La presa in conto della stratificazione del diritto risulta invece utile al fine minimo di acquisire la necessaria consa­

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pevolezza circa le relazioni giuridiche che si intendono com­ prendere e governare, qualunque sia la prospettiva, domesti­ ca o internazionale, su cui si pone lo sguardo. Più in partico­ lare, questa analisi appare cruciale, non solo al fine di vaglia­ re la linea di displuvio fra quanto - da noi come altrove - è o no alla portata del discorso ‘ufficiale’, ma anche per com­ prendere quanto i dibattiti sul diritto, sulla giustizia, sulle tradizioni che li forgiano, sulla loro ‘riforma’, sugli interven­ ti istituzionali, sulla stessa ‘democrazia’66, siano tutte discus­ sioni a rischio di accomodarsi al riparo dalla realtà, se non esposte alle tensioni che la producono. Fra queste tensioni non si possono certo trascurare le di­ verse evoluzioni che nel tempo hanno conformato, e confor­ mano, dall’interno lo sviluppo di ciascun corpo di regole67. Ma è proprio la consapevolezza circa le modalità di sviluppo di tali fenomeni a rendere chiaro come per tutti gli strati, e in particolare per quelli incardinati su costumi e differenti valori e tradizioni, ogni tentativo di imposizione dall’ester­ no, o dall’alto, di nuove regole e istituzioni può aspirare al successo di lungo periodo solo laddove esso sappia ingloba­ re, adattarsi - in una relazione dinamicamente biunivoca all’ordine espresso dagli strati pre-esistenti, alle applicazio­ ni che essi offrono ai loro valori68. E una questione che ritroveremo drammaticamente aper­ ta, sia sul piano del funzionamento degli ordini globali, sia sul più generale piano dei rapporti fra modelli occidentali e modelli altrui. Rapporti di cui le illustrazioni che avevamo annunciato cominceranno a chiarire alcuni contorni.

5. Capi, terre e famiglie in Africa. Lo stesso nucleo della categoria generale e portante «di­ ritto oggettivo», come lo intendiamo noi (ossia quale insie­ me di regole, poste dallo Stato, che ordinano la vita della so­

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cietà), non regna ufficialmente incontrastato nelle tradizio­ ni extra-occidentali, dove è sfidato dal rilievo quotidiano as­ segnato a strati diversi del diritto, che mantengono una straordinaria vitalità. Prendiamo come primo esempio il Sub-Sahara. Occorre ricordare subito che colà le regole tradizionali sono permea­ bili al sacrale al punto non solo di trovare in esso la propria legittimazione, ma di farvi sovente ricorso anche per la scel­ ta del capo della comunità. Quanto viene in gioco è il favo­ re che le forze invisibili possono assicurare al gruppo allor­ ché le scelte di quest’ultimo assecondino i disegni delle pri­ me. Ecco allora che, in molte culture africane, il diritto tradizionale dispone che al capo succeda chi risulti vittorio­ so nel conflitto aperto a quel fine, anche se ciò può implica­ re la sconfitta del capo stesso ad opera dei propri figli. Il pun­ to è che chi prevale gode del favore delle forze vitali e, una volta al potere, potrà convogliarle a beneficio della comu­ nità6’. E su queste premesse, si sottolinea da più parti, che risulta meglio comprensibile come la debolezza dell’autorità statuale, la scarsità di altri poteri contendibili (e talora la ric­ chezza di risorse economicamente appetibili)70, nonché le ar­ tificiose frontiere interetniche direttamente prodotte dal po­ tere coloniale71, siano tutti fattori che hanno finito per in­ centivare, pure al tempo dell’indipendenza, la sopravvivenza delle regole tradizionali, rendendo manifesta la frequenza con cui il potere politico viene perseguito e acquisito median­ te (ciò che in Occidente è spesso semplicemente archiviato come) una guerra civile o un colpo di stato72. Ma la tradizione non esercita il proprio peso unicamente sugli aspetti che noi chiameremmo costituzionali. Poco dopo l’indipendenza, l’Etiopia si cimentò in un’am­ biziosa intrapresa di codificazione di tutto il diritto privato, con il dichiarato scopo di cementificare l’unità nazionale e favorire la modernizzazione delle sue istituzioni. Quegli sfor­ zi non ebbero alcun successo pratico: i giudici che avrebbe­ ro dovuto applicare il nuovo codice civile evitavano di farvi

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ricorso e gli stessi costumi della popolazione non subirono alcun mutamento a seguito della sua promulgazione. Fra le ragioni del fallimento dell’iniziativa si è soliti ricordare gli alti tassi di analfabetizzazione, le difficoltà di comprensione della lingua amarica impiegata dal codice, ma soprattutto il fatto che le regole portate da quest’ultimo, di ispirazione eu­ ropea, non trovassero la benché minima corrispondenza nel sostrato giuridico tradizionale alle cui direttive la popolazio­ ne, e con essa i giudici, seguitavano ad attenersi”. Il diritto fondiario della regione non offre prospettive di analisi diverse. Chi ha a cuore le sorti (anche micro-)economiche del continente invoca da tempo la valorizzazione del suolo e il suo impiego quale garanzia fondiaria ai fini dello sviluppo di un sistema decentrato di finanziamenti. In que­ sta direzione, con l’obiettivo quindi di assicurare certezza al diritto di proprietà, e la pubblicità dei suoi trasferimenti, si sono mossi molti legislatori (ad esempio in Costa d’Avorio, Eritrea, Camerun, Togo, Madagascar, Senegai, Kenia, Zam­ bia, Gabon), introducendo sistemi di stampo occidentale per la registrazione dei diritti sui beni immobili. Chi cercasse traccia dell’operatività di queste leggi scritte resterebbe però deluso. La loro effettività è stata ostacolata bensì dalla mac­ chinosità delle procedure d’impianto e dal loro costo, ma so­ prattutto dalla scarsa compatibilità di quelle norme con le re­ gole giuridiche tradizionali che nell’Africa sub-sahariana go­ vernano la proprietà del suolo. Regole al cui nucleo essenziale troviamo quella per cui il fondo è legato indissolubilmente a una comunità, all’interno della quale avviene una distribu­ zione di aree fra gruppi minori o famiglie”. E questo un as­ setto che si rivela estremamente protettivo nei confronti del­ le esigenze trans-generazionali”, ma che al contempo, impac­ ciando il funzionamento di ogni sistema di garanzie ipotecarie del tipo che conosciamo, rende utopico pensare che, senza incentivi di altra natura, e parametrati sulle dif­ ferenti realtà locali76, siano di per sé quelle riforme fondia­ rie a poter supportare la trasformazione della proprietà in

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ricchezza (economica) e lo sviluppo di un mercato del credi­ to diverso da quello esistente77. Un’altra coppia di esempi, fra i molti possibili, attiene al diritto di famiglia. Il primo: in molti Stati il legislatore si è in­ caricato di ‘modernizzare’ questo spicchio del diritto introdu­ cendo regimi matrimoniali di tipo europeo. Tali gesti norma­ tivi sono ben di rado valsi a scalfire le tradizioni locali esisten­ ti, e il dato si spiega facilmente. Decisivo è considerare come qualunque soluzione di stampo europeo presupponga l’esisten­ za di apparati amministrativi capaci di tenere traccia degli eventi che si vogliono regolare. Apparati che in molti paesi africani sono ancora ben lontani dal poter assolvere questo compito78. Il secondo esempio ricorda invece come molti co­ dici africani, adottati sulla falsariga di quelli occidentali, vie­ tino la poligamia, mentre le regole tradizionali Faccettano, e la pratica vi ricorre. Nulla di sorprendente allora che l’adozio­ ne, ad esempio nella Repubblica Centrafricana o in Gabon7’, di norme che favoriscono il regime patrimoniale di comunio­ ne fra i coniugi finisse per restare lettera morta, tanto più ove si rammenti che quelle norme si volevano immediatamente operative, non solo in presenza di una struttura tradizional­ mente (e quindi praticamente) poligamica del coniugio, ma in contrasto con un’altra regola tradizionale, e diffusa: quella che attribuisce al marito il frutto del lavoro della donna80.

6. Siyàsa, Dharma, Li, Giri: la forza odierna della tradi­ zione.

Se si custodiscono questi ammaestramenti, si è già fatto un bel percorso in direzione opposta a quella solcata dalla fa­ ciloneria, o dalla naiveté, di chi pensa al diritto come una va­ riabile sempre indipendente dalla propria tradizione e dalla storia. Il vero è però che di altri dati minimi occorre essere padroni, prima di avviare qualunque discorso sul diritto espresso da società diverse dalla nostra.

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La concorrenza del diritto tradizionale con il diritto ‘og­ gettivo’ à la occidentale è, in effetti, visibile e incisiva anche fuori dall’Africa sub-sahariana. Sappiamo che il sistema germogliato nella cultura islami­ ca pone al centro della scena la sharia, regola giuridica rive­ lata, e la tiene separata così dalla consuetudine laica come dalla regola imposta dallo Stato, ossia la siyàsa (semmai è da stigmatizzare che il giurista e il discorso pubblico occidenta­ le trovino conveniente sottrarsi alla complessità e presenta­ re d’abitudine il diritto di quei paesi come espressione della sola sharì'a81 - si veda anche poco oltre). La visione indiana del diritto non unisce nello stesso contenitore tre fonti di re­ gole vigenti, come la consuetudine laica82, il precetto statale e il dharma - corpo, quest’ultimo, di norme etico-religiose volte anche alla prevenzione e alla composizione dei conflit­ ti83, sulla base del quale la tradizione sapienziale è giunta a regolare in modo particolareggiato, ad esempio, la famiglia, i tipi di matrimonio, la casta, la terra, le successioni. Del pa­ ri, la prospettiva giapponese tramandata tiene ben discoste le regole statuali da quelle stratificate nella consuetudine po­ polare, la cui natura incrocia principi morali di estrazione sia religiosa che secolare84. Lo stesso è a dirsi della concezione cinese tradizionale, la quale non confonde il fa, norma im­ posta d’autorità85, con il su, la consuetudine popolare e lai­ ca, o con il li (traduzione convenzionale: «rito»), insieme di regole suggerito dalla tradizione sapienziale imbevuta di con­ fucianesimo - che occupava un posto eminente nell’educa­ zione, nonché nei programmi d’esame per adire la carriera amministrativa86.

Per chi pratica il monoteismo giuridico, il piano che cor­ re da queste osservazioni generali a quelle di dettaglio si fa ancora più scivoloso. La siyàsa dei paesi islamici, ad esempio, non si lascia rap­ presentare dappertutto come un semplice spartitraffico pe­ riferico rispetto ai percorsi di vita dei cittadini. Detto che le

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varietà geopolitiche dell’IsIam sono assai piu articolate di quanto si usi pensare”, è chiaro che porre mano - come è sta­ to fatto nel corso del tempo, e.g., in Turchia, Egitto, Tuni­ sia, Marocco, Algeria, Siria, Giordania - a grandi opere di codificazione di impronta occidentale, specie del diritto ci­ vile (implementandole nella prassi, a differenza di quanto ab­ biamo visto accadere in Etiopia), significa far sedere il dirit­ to rivelato al tavolo delle concessioni con il diritto secolare88. Del resto, in molti paesi islamici, le corti laiche hanno sot­ tratto a tal punto competenze alle corti religiose che queste ultime si limitano a decidere di controversie connesse al di­ ritto delle persone e della famiglia, alle successioni e ai waqf (sorta di patrimonio di scopo): illustrazioni di questa evolu­ zione vengono dai sistemi giuridici di Egitto, Tunisia, Alge­ ria, Marocco, Turchia, Guinea, Mali8’. Ma anche prassi informali possono incaricarsi di redistribuire i pesi delle in­ fluenze fra diritto religioso e secolare. Ad esempio, la poli­ gamia può essere contrastata con la stipula di clausole pena­ li al momento delle nozze, e a favore della prima sposa, e tec­ niche simili possono rendere difficile il ripudio maschile della donna”. Alla stessa stregua, la proibizione di concludere al­ cuni tipi di contratti, quali il mutuo a interesse, o l’assicura­ zione, ha dato vita a una nutrita serie di pratiche le quali, ri­ spettando la lettera del divieto, realizzano l’identico conte­ nuto economico del contratto interdetto’1. Insomma, è un panorama, quello che si apre all’osserva­ zione dei paesi islamici, in cui articolazioni, rifiniture, det­ tagli, si candidano a prendere urgentemente il posto di gros­ solane semplificazioni. In India, per altro verso, se molte delle regole indù han­ no finito per essere assorbite all’interno delle consuetudini laiche, e viceversa’2, neppure oggi il processo di creazione del diritto è in to to controllato dal moderno diritto statuale”. Il diritto formale è di derivazione inglese, ma la Costituzio­ ne (del 1950) ha inteso garantire la sopravvivenza delle re­ gole che governano lo statuto personale dei membri della co-

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munita musulmana, cristiana, parsi, ebrea e, naturalmente, indù94. Con specifico riguardo a quest’ultima, occorre ricor­ dare che le regole del diritto indù continuano a esercitare un rilievo assai più incisivo di quanto si potrebbe disinvolta­ mente essere indotti a credere. La sezione 7 dell’Hindu Mar­ riage Act 1955 dispone, ad esempio, che «un matrimonio in­ dù viene celebrato secondo i riti e le cerimonie tradizionali di entrambi gli sposi». La conclusione del matrimonio indù è quindi regolata non dal ricorso a procedure statali, ma dal rispetto delle (molteplici e mutevoli) regole tradizionali. Ta­ li regole governano però non solo i rapporti extra-patrimo­ niali (come ad esempio quelli incidenti, oltre che sul matri­ monio e sul divorzio, sullo stato delle persone, sulla filiazio­ ne e sull’adozione), ma pure una parte delle relazioni patri­ moniali, quali la comunione familiare, le successioni, i rap­ porti fiduciari («benami», accostabili al trust del common law)”, i contratti di prestito96. Insomma, lo Stato ha inglobato in leggi i riti indù, non modificandone la sostanza, né sfidandone l’autonoma vali­ dità, oppure ha accettato che il governo di una serie di rap­ porti fra le persone e con le cose fossero frutto, non dei pro­ pri precetti, ma delle regole tradizionali. Considerazioni analoghe possono proporsi per il Giappo­ ne97. Qui la permanenza delle gerarchie sociali e la concezio­ ne paternalistica del potere si nutrono della diffusa sopravvi­ venza del «giri», ossia di quell’insieme variegato di regole di convivenza deputato a governare la condotta di un soggetto nei confronti delle altre persone: si tratta di comportamenti sociali ritualizzati ispirati dalla posizione occupata dal primo nei riguardi delle seconde. Il «giri» riassume in sostanza i do­ veri sociali del soggetto, in quanto parte di un gruppo. Ecco allora che una relazione retta dal «giri» s’instaura tra creditore e debitore: il creditore, nell’esercizio delle pro­ prie pretese, deve prendere in conto le condizioni finanzia­ rie del debitore, il quale a propria volta è tenuto d’abitudi­ ne a restituire una somma più elevata rispetto a quella rice­

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vuta. Alla stessa stregua un «giri» regge i rapporti fra il da­ tore di lavoro e il dipendente: il primo deve interessarsi alla vita privata del secondo; costui deve però essergli leale e ri­ fiutare eventuali offerte di lavoro che pur siano maggiormen­ te remunerative - e non diversamente accade nelle relazioni fra grandi imprese e subfornitori, ove la parte forte assolve anche a doveri di tipo paternalistico nei confronti della par­ te debole, ad esempio fornendole assistenza finanziaria e con­ sulenza tecnica’8. Ma i doveri che al «giri» si connettono non hanno necessariamente carattere patrimoniale, applicandosi pure nelle relazioni amicali, nei rapporti di colleganza o di vicinato ed entro la famiglia. L’inadempimento di questi do­ veri, va da sé, incontra la propria temuta ed efficace sanzio­ ne nel disonore che cade sul suo autore, mentre non dà adi­ to a un rimedio azionabile presso gli organi giudiziari ordi­ nari, quelli che aggiudicano le dispute nascenti sullo strato ufficiale del diritto”. Il diritto giapponese autoctono non si esaurisce però nel «giri». Le regole tradizionali attingono a una base consuetu­ dinaria più ampia, i cui precetti si manifestano vivi e rilevan­ ti anche all’interno delle odierne pratiche giuridiche. Anzi, alla consuetudine può farsi ricorso, quale fonte di regolamen­ to giuridico, pur quando essa esprima una regola contraria a norme qualificate come imperative. Per esempio, ai sensi del codice civile giapponese il matrimonio produce effetti al mo­ mento della sua iscrizione nei registri dello stato civile. La coscienza sociale giapponese considera legati da vincolo ma­ trimoniale persone di sesso diverso che apertamente convi­ vano e la giurisprudenza non ha atteso alcuna legge sulle ‘unioni civili’ per fornire il proprio suggello a questo matri­ monio tradizionale, attribuendo ai ‘coniugi di fatto’ parte dei diritti spettanti alle coppie ufficiali100. Alla luce dei tratti fin qui evidenziati, nessuno può stu­ pirsi del fatto che in Giappone una parte importante nella trattazione dei conflitti continui a essere rimesso a istanze diverse da quelle giurisdizionali101.

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L’influsso della tradizione giuridica sulle regole operati­ ve proprie di un dato paese può però esercitarsi in modi mag­ giormente clandestini rispetto a quelli che abbiamo appena descritto; essa può cioè ispirare e guidare scelte che con la tradizione medesima - apparentemente - nulla hanno a che fare. Prendiamo la Cina Popolare ad esempio. Nel 1949 fu av­ viato un percorso politico che avrebbe dovuto condurre il paese al comuniSmo. La realizzazione del progetto obbligò nondimeno i governanti, e ovviamente, a ricorrere al dirit­ to. Costoro potevano attuare questo ricorso adottando l’u­ no o l’altro fra gli itinerari che i legami fra la storia e il tem­ po, allora presente, ponevano a disposizione: essi potevano identificare la norma giuridica con la pura volontà politica degli organi di partito, garantita da un apparato di dissuasio­ ne e deterrenza, fondato sulla propaganda e sulla sanzione politica; oppure potevano rivolgersi alla norma giuridica for­ malizzata, ossia adottata dagli organi statali mediante pro­ cedure e atti predefiniti, e assegnata per la sua attuazione, a seconda dei versanti, a funzionari amministrativi o a giudi­ ci102. La decisione in ordine al tipo di sistema da adottare, po­ liticizzato o tecnocratico, si intrecciava alla scelta delle per­ sone cui affidare la formulazione delle norme e la loro ese­ cuzione, potendosi in sostanza attribuire tale competenza al funzionario di partito oppure al giurista. La tradizione cine­ se, usa a gestire il fenomeno giuridico tramite criteri infor­ mali e disavvezza alla figura del giurista professionale, avreb­ be largamente consentito - in astratto - di concentrare tut­ ta la potestà normativa in capo al politico. In concreto, tuttavia, il problema si complicava perché a) il diritto infor­ male aveva avuto in Cina saldissimi legami con il pensiero confuciano - pensiero percepito come tenacemente rivolto alla difesa dell’immobilismo sociale105 - e, per converso, b) l’e­ ventuale scelta di affidarsi ai giuristi doveva passare al va­ glio della sfiducia allora diffusa nei confronti dell’intera clas­

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se degli intellettuali, per lungo tempo identificata con i let­ terati confuciani onnipotenti, corrotti e irresponsabili. E tenendo presente queste condizioni che si spiega come la prima opzione rivoluzionaria s’indirizzò all’imitazione dei modelli legali sovietici, istituendosi cosi una Corte Suprema e una procuratura, legiferando formalmente sul matrimonio, sulla riforma agraria, sull’organizzazione giudiziaria, e cosi via104. Anche in quel contesto, peraltro, la tradizione non mancò di far sentire il proprio peso sulla temperie politica, nella misura in cui, all’interno di quelle scelte, si potè senza clamore depotenziare il ruolo del giurista professionale, per­ mettendo agli organi politici o di polizia di condizionare di­ rettamente, o sostanzialmente sostituire, i tribunali105. Valutazioni dello stesso segno concludono l’osservazione di un altro rilevante fenomeno. Le vicende politico-istituzio­ nali che si sono susseguite fino ad oggi hanno difatti finito per consolidare un impianto di norme regolanti la soluzione dei conflitti per vie che non sono strettamente giurisdizio­ nali106. La conciliazione è invero l’obiettivo cui mirano appo­ siti comitati, resi inoperanti ai tempi della rivoluzione cul­ turale e ritornati in seguito in funzione. Essi sono diffusi ca­ pillarmente nel paese, costituendo il più complesso ed esteso sistema di risoluzione extra-giudiziale delle controversie esi­ stente a livello mondiale107. Lo stesso diritto «ufficiale» fini­ sce per essere condizionato dalla presenza e dalla forza so­ ciale di questo circuito alternativo. A testimonianza del ri­ lievo della conciliazione, basti difatti osservare che essa viene proposta, nella stessa legge sulla procedura civile108, in ogni grado del giudizio e, all’interno di ciascun grado, dopo ogni attività significativa, i.e.: dopo la fase preparatoria, dopo l’i­ struzione, dopo il dibattimento10’. Ma l’attività di concilia­ zione e soluzione amichevole delle controversie non si esau­ risce all’interno di questi organismi. Il tessuto delle con­ troversie locali - anche entro modernissimi ambienti urba­ ni - vede all’opera un notevole numero di figure di concilia­ tori e mediatori, che agiscono in veste più o meno ufficiale

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e che traggono le loro autorità dall’interno di strutture nor­ mative di tipo comunitario (villaggio, quartiere, unità di la­ voro), in parte riagganciate ai moduli organizzativi tradizio­ nali, in parte frutto di traduzioni di formule derivate dal mo­ dello sovietico110.

7. Lo sviluppo giuridico fra regole nostre e altrui.

Dettagli, e precisazioni ulteriori, seguirebbero ovviamen­ te copiosi. Certo, molti dei paesi dove la tradizione giuridica occi­ dentale non domina l’ordinamento hanno recentemente fi­ nito coll’adottare, o per essere indotti a utilizzare (al livello dello strato giuridico ufficiale), il modello euro-americano - e in un passato recente anche quello socialista -, per governa­ re questo o quello spicchio del diritto. Tuttavia, è proprio la consapevolezza che non sempre è stato il diritto occidentale a fornire il paradigma di riferimento, e che questo di sicuro non copre neppure ora l’intero spettro di regole su cui i mem­ bri di quelle società fondano la propria convivenza, che ci permette di capire molti degli intrecci e delle persistenti di­ versità, di atteggiamenti nel rapportarsi alla regola giuridi­ ca, e di mentalità, nell’elaborazione delle soluzioni pratiche. Altrettanto sicuro è che nessuna tradizione è statica, immutevole. Ogni tradizione, seppure con modalità differenti a seconda dei singoli suoi strati, s’irrora degli stimoli del tem­ po, filtrati o espansi dai fattori che sono in grado d’incidere sugli orientamenti delle diverse comunità. Il punto però è che non esiste, in e per nessun paese, un modello «ideale» di sviluppo giuridico. Più precisamente, non esiste alcun mo­ dello di sviluppo giuridico che possa fare a meno di nutrire robusti legami di compatibilità con la realtà socio-economi­ ca, culturale e giuridica preesistente111. E lo stesso progetto di sovrapporre a contesti dati modelli giuridici altrui che si rivelerebbe inefficiente, e si è rivelato tale, perché sordo al­

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la realtà che le analisi richiamate riflettono. La presa in con­ to della realtà giuridica propria dei paesi che non apparten­ gono alla tradizione occidentale - e a qualsiasi fine essa sia diretta - dovrebbe allora considerare tanto le regole che «noi» riconosciamo come giuridiche, quanto quelle che sono avver­ tite come tali dalle popolazioni autoctone (e non solo dalle élite locali, che possono essere state educate in Occidente)112, assieme al contesto sociale e culturale in cui le stesse regole nascono e operano.

Parte seconda Le regole globali fra tempo e geografìa

Capitolo quarto

Le premesse

Le differenze che abbiamo ricordato esistere fra le varie tradizioni giuridiche non hanno impedito che sforzi notevo­ li di marca occidentale si volgessero, e da tempo, a unifor­ mare questo o quel settore del diritto, dando corpo a una plu­ ralità di ordini giuridici, di natura fra loro assai varia, ma ac­ comunati dalla vocazione planetaria del loro potenziale raggio d’azione113. Ordini che da ultimo vettori retorici po­ tenti, e accelerate dinamiche operative, hanno forgiato co­ me avamposti della c.d. globalizzazione giuridica114. In questa e nelle successive Parti del libro esamineremo na­ tura e implicazioni di tale ‘globalizzazione’ del diritto, non senza però aver introdotto qui alcune avvertenze preliminari.

i. Uniformità v. Concorrenza.

La storia moderna ci mostra come spesso, allorché si è di­ retto al di fuori dei confini occidentali, al nostro ardore uni­ versalistico sia mancato il sostegno di un appropriato stru­ mentario comparatistico in grado di soddisfare le primarie esigenze di contestualizzazione, di queste o quelle soluzioni, all’interno delle realtà da uniformare. Su questi ardori, sul­ le differenze fra loro notevoli, sulle loro radici, promesse e carenze, i livelli possibili del discorso vanno però distinti. Uno è il giudizio di tipo culturale, altra è la valutazione di stampo operativo. Sul piano culturale, a quello zelo normalizzatore sono sta­

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Capitolo quarto

te levate molteplici obiezioni. Chi non nega il proprio orec­ chio agli ammaestramenti del passato sa che la colonizzazio­ ne, ossia uno dei più evidenti fenomeni di compressione del­ la diversità giuridica, ha generato dapprima un processo di propagazione del modello europeo nelle colonie, una sua clau­ dicante effettività e infine una reazione critica a quella dif­ fusione forzata, cui l’europeo aveva provveduto (anche) cre­ dendo di offrire alle società tradizionali un livello di giusti­ zia e di sviluppo sociale ‘più avanzato’. A prescindere dai desiderata delle élite locali, spesso educate in Occidente, uniformità è diventato, nel linguaggio di chi porta seriamen­ te la propria attenzione ai modelli tradizionali, sinonimo di deculturazione, di prevaricazione sull’identità debole, di di­ struzione di significati possibili - analisi questa che solo gof­ famente taluno ha potuto datare in contemporanea alla na­ scita dei movimenti anti-globalizzazione115. Ma non è tutto. Al netto delle preferenze di natura socio­ economica di chi qui scrive o legge, l’ulteriore e più genera­ le critica contro l’uniformazione imposta viene - sempre sul piano culturale - in punto di semplice calcolo delle opportu­ nità circa l’evoluzione delle soluzioni giuridiche. Quanto più vari sono questi modelli di soluzione, tanto più numerose sa­ ranno le possibilità che sulla loro base, in relazione al muta­ re dei bisogni, nuovi modelli vengano sperimentati, diffusi o imitati, così come è accaduto svariate volte all’interno del­ la nostra stessa storia occidentale. La riduzione del numero dei modelli attualmente in vigore restringe invece i possibi­ li punti di partenza per future elaborazioni, o futuri adatta­ menti, e impedisce di trarre i frutti della naturale concorren­ za che si istituisce fra essi116. Esiti del genere sono raramen­ te discussi e ancor meno contrastati nel discorso pubblico transnazionale. Il che può sorprendere, di fronte al contem­ poraneo dominio in quello stesso pubblico discorso del cre­ do concorrenziale, circa gli assetti economici del mercato. Indiscussi qui i meriti di quest’ultima prospettiva, la sorpre­ sa si tiene facilmente alla larga allorché si rammenti, per un

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verso, che le differenze giuridiche da superare sono sempre quelle degli ‘altri’, e, per altro verso, che quel credo circola grazie al verbo di sacerdoti, soprattutto economisti, per (la gran parte de)i quali, non tanto il diritto, quanto la sua di­ versità, è percepita essenzialmente come un incentivo nega­ tivo, oppure come un mero costo, da abbattere sempre e quanto più possibile117. Sul piano operativo altre valutazioni si aprono il terre­ no118. Qui occorre riconoscere a) che non tutte le differenze sono da celebrare, che molte di esse possono risultare secre­ zioni di una tradizione giuridica di cui gli stessi utenti sa­ prebbero fare a meno, e i cui costi di gestione possono esse­ re molto elevati; b) che anche la norma spontanea e quella ammantata dal contingente ‘prestigio’ circolano, per imita­ zione o altrimenti (le speciali regole che sovrintendono al traffico internazionale di diamanti11’, così come l’antica «lex mercatoria», si sono diffuse grazie alla propria matrice con­ suetudinaria e origine spontanea)120, potendo produrre inci­ sive ed estese uniformazioni. Duplice è però il monito. Da un lato, i modelli in circo­ lazione, le esigenze da soddisfare, l’efficacia delle possibili iniziative, sono tutti fattori che variano di molto, a seconda del settore del diritto di cui ci occupiamo e dell’area del mon­ do cui guardiamo (la finanza non è il welfare, la sanità non è il commercio, quanto occorre fare per consegnare effettività a riforme di tipo processuale cambia assai se ci occupiamo della Francia o del Burundi). Dall’altro lato, quel che sclerotizza può rendere, e spesso ha reso, la circolazione giuridica dei nostri modelli ineffettiva e inefficiente, fuori dalla koinè occidentale, è l’imposizione dall’esterno e dall’alto delle re­ gole, assieme alla pre-definizione dell’ambito spazio-tempo­ rale in cui dovrebbe affermarsi, come per incanto, la loro operatività. Come ricorderemo anche più avanti, senza un coinvolgi­ mento degli utenti e dei facitori locali del diritto, l’unifor­ mazione imposta rischia sempre di rimanere lettera morta, o

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(aipitolo quarto

ili veder la propria implementazione sul terreno costare prez­ zi enormi in termini di tempo ed energie.

2. La congiura degli innocenti.

Puntualizzazioni del genere paiono però destinate a re­ stare grida nel buio, se poste di fronte all’evidenza del dato che richiamavamo all’inizio del capitolo, ossia l’impetuosa spinta verso l’uniformazione delle regole. E uno sforzo sup­ portato da parti rilevanti del discorso pubblico, così come delle élite, politiche intellettuali professionali, e non solo eco­ nomiche, del mondo occidentalizzato121. I modelli uniformatori a livello planetario sono poi for­ giati dallo stesso diritto occidentale e dai suoi giuristi, con le loro tecnicalità, piu o meno trasparenti, con le loro prefe­ renze più o meno innocenti. Queste uniformazioni non si li­ mitano però a seminare regole. Sospinte da un apparato ar­ gomentativo che di quelle maggiori o minori trasparenze, e innocenze, si avvale, esse mirano a penetrare le mentalità, gli atteggiamenti, gli strumenti stessi con cui si catalogano i problemi - ben prima di ogni soluzione. É insomma il ten­ tativo di globalizzare uno degli assi portanti della nostra ci­ viltà, ossia di rendere universali le nozioni, i principi e le re­ toriche che sono alla base del diritto occidentale. Prima di analizzare i dibattiti e le prassi notevoli che fian­ cheggiano questi sforzi, è però necessario esaminare i fatto­ ri di spinta alla proiezione esterna del ‘nostro’ diritto. Ecco perché le domande cui cercheremo di dare risposta subito, nel capitolo successivo, vertono su quali siano i promotori principali (e secondari) di una dimensione globale per il west­ ern law, su quali presupposti e interessi essi fondano le pro­ prie azioni, quali siano le modalità di gestione delle iniziati­ ve assunte. E questo il miglior punto di osservazione, e di partenza, per comprendere molti dei fenomeni del nostro tempo, dei

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problemi che essi pongono e annunciano per l’avvenire, ma anche per chiarire i termini in cui il diritto nostro ha forgia­ to e forgia quei fenomeni e tenta di rispondere a quei pro­ blemi - siano essi di natura finanziaria (si veda il Capitolo sesto), attinenti al ruolo dello Stato (Capitolo settimo), di matrice commerciale (Capitolo ottavo), riguardanti la san­ zione dei soprusi più efferati (Capitolo nono), la violazione dei diritti umani (Capitoli da decimo a tredicesimo) o la fi­ bra e i destini della stessa nostra democrazia (Capitoli quat­ tordicesimo e quindicesimo). Beninteso - ed è bene anticiparlo come una delle cifre ri­ costruttive dell’intero discorso -, è possibile che l’Occidente abbia argomenti ‘migliori’ degli altri su tutto, o quasi tut­ to, lo spettro di questioni giuridiche che affronteremo. I tem­ pi lo chiamano però, e nel suo stesso interesse, a una svolta epocale: a spiegarsi e non a imporre, a persuadere e non a mi­ nacciare, a riconoscere i meriti e le ragioni altrui, e non so­ lo le proprie innocenze.

Capitolo quinto

Rule of law. di chi e per chi?

i. Le rules of law.

Una nozione chiave per ogni possibile discorso sul dirit­ to dell’Ovest, su chi ne è signore, e sulla sua proiezione pla­ netaria, è quella di ‘rule of law’. Locuzione fra le piu diffu­ se e prestigiose del lessico giuridico e politico occidentale, essa è tradotta il più delle volte come ‘principio di legalità’ o come ‘stato di diritto’ (traduzioni, come vedremo subito, così insoddisfacenti da suggerire qui il mantenimento dell’o­ riginale)122. È opinione ingenuamente comune che la rule of law di cui parliamo oggi abbia preso inizialmente forma in Inghil­ terra. Ci sono studiosi che ne indicano la Magna Charta (1215) come primo esempio; altri invece che ne scorgono gli albori qualche secolo dopo, quando il celebre giudice Edward Cook «proibisce» a re Giacomo I (1603-25) di sedere nella «propria» Corte, ritenendolo carente di quel patrimonio tec­ nico-culturale su cui si fonda così il diritto come la legittima­ zione di un giudice12’. In realtà, la rule of law è al contempo seme e (nella sua versione odierna: travagliato) frutto dell’intera storia occi­ dentale. Alla sua più intima radice, essa altro non è che un modello organizzativo in cui il potere decisionale sui conflit­ ti che sorgono in una società, incluse le dispute con i gover­ nanti, viene assegnato principalmente a un giurista laico, il quale è chiamato a operare imparzialmente. Legittimato a ri­ solvere le controversie è allora il tecnocrate, sulla scorta di un bagaglio di nozioni specialistiche, e non il soggetto dota-

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to di un sapere religioso, filosofico-morale o tradizionale, co­ me il qàdì islamico o il capo-comunità africano, né il sogget­ to delegato dal partito (come nel principio di legalità socia­ lista). Altro poi, e assai più complicato, è stato il tragitto verso la costruzione di apparati di nozioni e principi, nonché di tecnostrutture atte a supportare quella rule of law intesa qua­ le edificio al cui riparo siamo soliti collocare ora le nostre isti­ tuzioni (su questo percorso torneremo più volte, in partico­ lare nel Capitolo quattordicesimo). Certo è però che, in Oc­ cidente, il fascio di significati più o meno consapevolmente veicolati dall’espressione rule of law ha finito per collocare quest’ultima su uno scranno sacrale. Marchio possibile di una monarchia, come quella inglese, quanto di una rivoluzione, come quella statunitense; nozione ‘bipartisan’, adottata dal­ la cultura conservatrice, come da quella riformista124; nozio­ ne rimasta al riparo persino della tempesta finanziaria, e se­ mantica, che ha attraversato le nostre società. Tutto bene, quindi? Se ne può dubitare, soprattutto quando si pretenda di utilizzare la rule of law in proiezione esterna (fuori dall’occidente), non quale fattore di costru­ zione di orizzonti da condividere, ma a fini di mera espor­ tazione dei nostri odierni apparati, come se si trattasse di una merce, o di un impianto chiavi-in-mano. Un atteggia­ mento, questo - a tacere di quanto si dirà -, immemore e in­ grato nei confronti della stessa nostra storia, la quale solo molto faticosamente, e dopo lunghi percorsi, è giunta a met­ terci nelle mani tutto il complesso strumentario di cui dispo­ niamo oggi e che oggi vorremmo adottato ovunque. La rule of law, proprio perché spogliata del suo valore storico-comparatistico, è in effetti divenuta, nella sua versione ‘export’, una di quelle nozioni spugnose che si offrono a sin­ tesi disparate, figlie delle opportunità di chi le usa. Due so­ no almeno, e assai diverse fra loro, le direzioni che il corren­ te discorso pubblico imbocca, quando affronta o utilizza l’e­ spressione in oggetto. Allorché le istituzioni dell’economia



Capitolo quinto

globale, vettori potenti di quel discorso in chiave geopoliti­ ca, impongono la rule of law come elemento fondamentale dei loro programmi di assistenza tecnica, di finanziamenti, di lotta alla povertà, di aiuti allo sviluppo, esse vi leggono la necessità di riforme legislative, di rafforzamento dell’appa­ rato giudiziario, di garanzie per gli investimenti esteri, con speciale riguardo per il rispetto - a-contestuale - della pro­ prietà privata e della ‘sacralità’ dei contratti. Quando inve­ ce il discorso vira, quanto meno in apparenza, lontano dai valori economici, rule of law si fa leggere quale baluardo del­ la difesa dei diritti umani, delle minoranze oppresse, della partecipazione alle deliberazioni collettive, della democrazia - va senza dirlo: all’occidentale125. Ora, il primo punto da rilevare è che - presi al loro valo­ re nominale, ossia per come essi stessi si presentano: indif­ ferenti alle complessità della storia - questi due orientamen­ ti possono risultare fra loro in contraddizione. La Colombia di Uribe o la stessa Cina, d’abitudine esecrati per il manca­ to rispetto dei diritti umani, sono o si avviano a essere go­ vernati dalla rule of law, nella sua accezione di garanzia per gli investimenti economici e di sicurezza per i diritti proprie­ tari126. Per converso, è ben possibile che limitazioni alla sal­ vaguardia del contratto e della proprietà, anche utilizzando acuminate leve fiscali, portino - bensì a una compressione dell’accezione prima, ma - a una redistribuzione di titolarità che meglio garantisce i risultati perseguiti dall’accezione se­ conda del termine, ossia livelli più alti di partecipazione al­ le procedure democratiche, barriere meno elevate per l’ac­ cesso alle risorse e più intensa protezione dei diritti umani cc.dd. sociali (come i diritti al lavoro, alla sua equa remune­ razione, alla sicurezza sociale, alla salute o alla libertà dalla fame)127. L’osservazione ulteriore, come verificheremo nel corso di tutta la nostra riflessione, è che l’idea stessa di rule of law trova le proprie radici nelle interiora della cultura occiden­ tale, e non in quelle delle esperienze altrui. Il nostro discor-

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so pubblico, tuttavia, nutre la considerazione delF'altro’, sprovvisto di rule of law, non quale dato di partenza di qual­ siasi analisi che si voglia inclusiva della diversità e di prospet­ tive condivise, ma come difetto da sanare o condannare - qua­ si che, essendo solo l’Occidente padrone della rule of law, esso fosse anche il solo padrone della legalità128. Ben più di un rischio è allora che questo concetto vago, universalizzato in varie direzioni, tutte legittimate coi e dai giuristi, venga posto non al servizio di una dialettica atta a costruire un rap­ porto pacificato, e opportuno, fra ‘noi’ e gli ‘altri’, ma con­ tinui a essere ‘naturalizzato’ e ‘decontestualizzato ’, finendo cosi per alimentare posizioni ideologiche, o per nutrire una visione del mondo autarchica, perché mal rifornita di pro­ blemi.

2. Sovrapposizioni.

Queste ultime posizioni e visioni sono state a lungo ca­ ratteristiche salienti del modo d’intendere la rule of law so­ prattutto125 da parte della politica Usa, dei suoi governi, dei suoi circuiti mediatici e giuridici1’0. Tali atteggiamenti han­ no generato dibattiti aspri, cosi sulle ragioni e i modi d’esse­ re di quella che è stata definita l’egemonia giuridica statuni­ tense1’1, come sui rischi impliciti, e in divenire, di una so­ vrapposizione fra regole e tecniche di matrice americana e diritto globale. I dati che animano quelle discussioni vanno meglio com­ presi: da un lato, essi figurano come esito e fattore di produ­ zione di fenomeni ulteriori e, ai fini del prosieguo del discor­ so, assai rilevanti; dall’altro lato, si tratta di fenomeni anco­ ra in corso e di cui è prematuro fissare qualsiasi data di scadenza, anche perché i loro capisaldi non sono stati sfiora­ ti dai dissesti economici recenti, né dai rovesci della prece­ dente amministrazione americana. Cominceremo allora dalle radici proprie all’‘egemonia’

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del pensiero giuridico Usa, per passare all’analisi di come quel dominio si sia tradotto in fonte d’ispirazione di politiche glo­ bali, e poi concludere con l’esame del ruolo strategico che non è stato e potrebbe essere giocato dall’Europa.

3. Il diritto : una fabbrica del potere americano.

E risaputo come nell’ultimo trentennio la leadership eser­ citata in Occidente dall’economia, dalla politica e dalla cul­ tura americana si sia trasformata in supremazia globale, gra­ zie a una lunga serie di fattori, fra i quali: la comparativamen­ te fragile politica degli altri paesi occidentali, (auto-)confinati sovente al ruolo di «enthusiastic junior partners»1’2, il decli­ no dell’avversario sovietico, la parallela revisione dell’arma­ mentario marxista proprio alle élite di sinistra occidentali, e il conseguente depotenziamento di quello che è stato per gran parte del ’900 l’interlocutore più popolare e agguerrito sul piano del discorso pubblico internazionale1”. Meno noto è quale impiego notevole e concreto si sia fat­ to del diritto, nel sostenere e consolidare quella nuova supre­ mazia. Nel corso della sua storia, il diritto nordamericano ha adottato e poi saputo enfatizzare ruolo e funzioni di due im­ portanti fabbriche di produzione del dibattito politico e del­ lo stesso più generale discorso pubblico: il sistema delle cor­ ti, da un lato e, dall’altro, una altrettanto rilevante comunità accademica di giuristi, libera da pressioni economiche (per­ ché composta da professori ben pagati e a tempo pieno), che ha ereditato dal modello continentale ottocentesco uno sta­ tus ragguardevole e ha saputo conservarlo con un’autonomia critica grandemente valorizzata nei circoli universitari, non­ ché apprezzata e insistentemente propagata nei circuiti co­ municativi1’4. Tutto ciò ha contribuito a far sì che quanto ri­ cevuto dal gius-naturalismo, e dalle sue protesi illuministi­ che, ossia la concezione universalistica dei diritti1”, forgiasse

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una percezione civilizzatrice del (proprio) diritto, trasfor­ mandosi in programma d’azione, come vedremo, anche po­ litica. Si tratta, e si badi, di un programma non solo condi­ viso dalle élite governative, ma radicato in profondità - pro­ prio in virtù del ruolo dell’accademia e del sostegno del poderoso sistema giudiziario - nella cultura giuridica e poli­ tica delle classi dirigenti del paese, le quali hanno poi sapu­ to rilanciarlo nelle arene globali, grazie alle risorse comuni­ cative che lo stesso sistema politico e giuridico metteva loro a disposizione1’6. Il circolo ‘virtuoso’ appena descritto permette di coglie­ re la rilevanza di un altro fenomeno notevole. Imprese e pri­ vati non statunitensi trovano sovente negli Usa, e molto più facilmente di quanto accadrebbe in qualsiasi altro paese, cor­ ti ben disposte ad accettare la giurisdizione sui casi che gli attori stranieri portano in giudizio - ciò che avviene per una serie di ragioni, varianti a seconda delle materie, e che van­ no dalla prensile retorica dei diritti umani, ai tecnicismi del­ lo ius cogens1”, dalla relativamente meno formalizzata cul­ tura dei corpi applicativi, alla comparativamente alta remuneratività delle class action, e delle azioni di danni in generale. Un esempio utile (su cui torneremo nel Capitolo nono) viene dalle numerose cause intentate davanti alle cor­ ti Usa da parte di soggetti stranieri che, grazie in parte alle prestazioni professionali gratuite offerte da molti gruppi di ‘social activists’, contestano gli standard adottati dal proprio paese in punto di protezione dell’ambiente, o dei lavorato­ ri, come inadeguati e lesivi di diritti internazionalmente ri­ conosciuti. Il successo di quest’ultimo fenomeno, sotto il pro­ filo (assai più che quantitativo) comunicativo, ha contribui­ to a rendere possibile che nel discorso pubblico globale si propagasse l’idea che il diritto americano sia l’efficace e na­ turale arbitro dei dolori del mondo, e che il ricorso ad esso possa rappresentare un’efficiente alternativa alle contese po­ litiche domestiche, finendo per conferire alle corti Usa un ruolo equivalente a quello di un’agenzia di controllo sui go-

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verni stranieri e sul loro rispetto dei ‘civilized standards’158. Accanto al veicolo della forza economica e dei suoi mo­ delli di business, sono queste le vie attraverso cui concetti e nozioni che sono inerenti alla morfologia legale statunitense hanno progressivamente finito per diventar parte integran­ te - oltre che della vulgata mediatica - del vocabolario e del patrimonio tecnico della pratica internazionale del diritto155.

4. Avvocati, studenti e Costituzioni: le fibre dell’espan­ sione.

Non è tutto, però. Che l’infrastruttura ‘diritto’ sia uno dei più potenti strumenti con cui gli Usa giocano la loro par­ tita sul tappeto globale è conclusione che riceve conforto da una serie ulteriore di osservazioni. La prima riguarda l’esportazione del modello di common law (promosso con l’ausilio dei cugini inglesi) quale paradig­ ma della pratica internazionale degli affari. Secondo la gui­ da Chambers Global'™, la quale effettua annualmente, sulla base dei dati provenienti da 170 paesi, il ranking delle mi­ gliori law firms mondiali - ossia degli snodi cruciali per la progettazione e gestione del business planetario141 -, risulta­ no in mano a common lawyers: 12 delle 19 migliori law firms africane, 32 delle 38 sudamericane, 29 delle 30 mediorien­ tali, 18 delle 25 giapponesi. La tendenza non risparmia però neppure il nostro continente: in Germania 38 dei 146 mi­ gliori studi sono controllati da law firms angloamericane, in Europa centrale e orientale 21 su 26, in Italia 22 su 102, in Francia ne troviamo 40 su 119, in Spagna 18 su 90. É poi sul fronte dell’educazione della futura ‘legal ruling class’ che si gioca una delle contese più importanti. Il serba­ toio di nozioni, reazioni, visioni assunte durante l’educazio­ ne e la formazione costituisce, come è noto, un insieme straordinariamente influente sulla vita di ognuno. Se in lin­ gua inglese e con vocabolario tecnico inevitabilmente allinea-

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to a quello di common law, si svolgono all’ora attuale 81 cor­ si di LLM (master in diritto) in Africa, 102 in Asia, 218 in Europa continentale142, nella ricorrente prospettiva che po­ ne al centro della scena la vocazione universale del proprio diritto, non stupirà certo l’attenzione riposta dalle istituzio­ ni americane sull’educazione giuridica, e sulla formazione professionale degli attuali e futuri giuristi stranieri. Basti qui richiamare il rapporto «A National Security Strategy for a New Century (The White House, October 1998)», il quale con forza sottolinea che uno degli interessi prioritari degli Stati Uniti sia proprio quello di «expanding U.S. training and assistance programs in law enforcement and administra­ tion of justice»14’. Nella medesima prospettiva (‘education is power’), che mira a incidere sulla formazione stessa delle culture giuridi­ che, un altro dato non pubblicizzato sovente è quello che ri­ guarda l’assistenza Usa ai processi di costruzione (o ricostru­ zione) dei sistemi giuridici altrui. Gli esempi sono numerosi. Con particolare riguardo alla Cina, la Ford Foundation e lo US-Asia Law Institute si sono a lungo distinti per gli sfor­ zi notevoli sostenuti in punto di organizzazione e gestione degli studi legali e, allo stesso modo - in particolare a segui­ to dell’accordo del 1998 fra i presidenti Clinton e Jiang -, si è mossa l’American Bar Association (ABA) impegnandosi, di concerto con PAH China Lawyers Association, a promuove­ re la rule of law in Cina, anche e soprattutto attraverso il le­ gai training e il rafforzamento dell’attività degli ordini pro­ fessionali144. Sulla medesima traccia, rilevante è l’impegno dell’agen­ zia governativa USAID145 nel supportare programmi di im­ pianto e/o consolidazione della rule of law, attraverso una varietà di iniziative, e in particolare con quella che va sotto il nome di ‘Democracy & Governance’146. A conferma delle osservazioni svolte poc’anzi sui possi­ bili usi strategici della rule of law, vale la pena di ricordare in che cosa essa si concretizzi, per USAID: «The term ‘rule

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of law’ embodies the basic principles of equal treatment of all people before the law, fairness, and both constitutional and actual guarantees of basic human rights. A predictable legal system with fair, transparent, and effective judicial in­ stitutions is essential». Di più: «Beyond the democracy and governance sector, the accomplishment of other USAID goals also relies on effective rule of law. For example, civil and commercial codes that respect private property and contracts are key ingredients for the development of market-based economies. USAID’s efforts to strengthen legal systems fall under three inter-connected priority areas: supporting legal reform, improving the administration of justice, and increas­ ing citizens’ access to justice»147. Che, a questi fini, promo­ zione della democrazia, sviluppo dell’economia di mercato e riforme giuridiche corrano su di un binario parallelo, risulta ancora una volta evidente: «Democracies require a stable structure of law, an impartial judicial system, and clear ways for ordinary citizens to get legal protection. In the rule of law area, USAID often works on several fronts. Encouraging legal reform may involve everything from drafting new con­ stitutions to training judges. Training needs of prosecutors, inhumane prison conditions, outdated commercial codes, and the absence of published legal opinions are problems USAID has tackled as well»148. Ecco allora i progetti di riforma giudiziaria, di rafforza­ mento dell’attività legislativa, di riforma delle normative (in ispecie, quelle più sensibili all’economia di mercato, ossia la legislazione civile e commerciale), perseguiti in tutti i paesi ritenuti meritevoli di supporto: i.e. gran parte del pianeta, con l’eccezione dell’occidente e del Giappone. Fedele a una cultura istituzionale che nella propria Co­ stituzione vede uno dei più solidi pilastri della democrazia, la macchina giuridica americana non ha poi esitato a impie­ gare come uno strumento incisivo di politica estera anche il diritto costituzionale. Molto vi è da discutere sull’idea stes­ sa di utilizzo della Costituzione quale arma strategica, sulle

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sue vaghezze (quale costituzione, per chi, costituzione che si riflette sulla diapositiva del presente, del passato recente, o guarda al futuro ?)149, sulla sua stessa esportabilità, e su alcu­ ni di questi punti ci soffermeremo più avanti150. Qui vale so­ lo ribadire quanto operativamente fragile sia presumere che l’adozione in un paese non occidentale di (qualsiasi strumen­ to normativo, massime) una Costituzione, che ai nostri va­ lori s’ispiri, possa auto-applicarsi con gli stessi esiti conosciu­ ti da noi151. Tutto ciò non ostante, la sinonimia retorica e forzata fra i termini costituzione - democrazia - rule of law - diritti uma­ ni - libero mercato rappresenta una costante nella politica estera americana. Se impegnata in questa direzione troviamo ancora una volta, e significativamente, l’ABA, soprattutto sul fronte ira­ cheno152, ad agire come uno dei perni della versione ameri­ cana del costituzionalismo globale è senz’altro il Dipartimen­ to di Stato. Il Bureau of Democracy, Human Rights and La­ bor (alle dirette dipendenze del Sottosegretariato per la Democrazia e gli Affari Globali) si auto-rappresenta - qua­ le «nation’s primary democracy advocate»155, consapevole che «[P]romoting freedom and democracy and protecting hu­ man rights around the world are central to U.S. foreign pol­ icy». Il Bureau non tentenna nel ricordare come gli Usa uti­ lizzino «a wide range of tools to advance a freedom agenda, including bilateral diplomacy, multilateral engagement, for­ eign assistance^ reporting and public outreach, and econom­ ic sanctions». E poi lo stesso ramo del Dipartimento che spe­ cificamente si occupa di ‘Democracy’ a richiamare quanto sappiamo, ossia che: «Democracy and respect for human rights have long been central components of U.S. foreign policy. Supporting democracy ... helps create a more secure, stable, and prosperous global arena in which the United States can advance its national interests»154. Non si fa scrupoli nemmeno il già citato rapporto «A National Security Strategy for a New Century (The White

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House, October 1998)» nel sottolineare come uno degli in­ teressi prioritari degli Usa sia quello di promuovere «[the] international cooperation and the rule of law by ... expan­ ding U.S. training and assistance programs in law enforce­ ment and administration of justice, and strengthening the rule of law as the foundation for democratic government and free markets»155. Né si occulta dietro parafrasi lo stesso Di­ partimento di Stato, allorché segnala come la crescita della democrazia in più di 80 Stati nell’ultimo quarto del xx seco­ lo sarà riguardato come «one of the United States’ greatest legacies»156. Ma gli sforzi in questa direzione non si sono cer­ to esauriti. Basta scorrere l’ultima disponibile delle sue pub­ blicazioni annuali - « Supporting Human Rights and Democ­ racy: The U.S. Record 2006»157 - per leggervi le decine di interventi su altrettanti Stati africani, asiatici, dell’Europa orientale, dell’America centrale e meridionale, volti a redi­ gere, riscrivere costituzioni e al contempo supportare « a free and fair elections process, with a level playing field to ensure genuine competition ... good governance, with representa­ tive, transparent and accountable institutions operating un­ der the rule of law, including independent legislatures and judiciaries»158.

5. La promessa di futuro. É una caratteristica distintiva, e un merito comparativo, della cultura politica americana quello di avanzare con nito­ re le proprie determinazioni circa il ruolo propulsore del di­ ritto nei confronti degli interessi di politica estera - merito comparativo perché dalle istituzioni europee, come vedre­ mo, quella strumentazione è tuttora percepita come un uten­ sile regionale, e declinata dai suoi stessi signori in maniera burocratica e priva di sostanziale (e autonoma) proiezione esterna. Gli Usa hanno trasformato nozioni porose alla storia e al­

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la geografia, come quelle di democrazia, rule of law, diritti umani, in potenti argomenti simbolici, facendone non solo veicoli domestici di una identità e di una tradizione, ma riu­ scendo a convogliare quegli stessi argomenti, scortati dallo stesso potere retorico, nell’arena globale, fino a utilizzarli quali strumenti di protezione ed espansione dei propri inte­ ressi nazionali. Fra le realizzazioni della civiltà americana, questa è probabilmente una delle piu monumentali, certo la meglio adatta a essere collocata in una prospettiva ‘imperia­ le’. L’americanizzazione del diritto, a differenza dell’egemo­ nia economica militare o tecnologica (che certo supportano la prima), ha avuto bisogno di penetrare i territori globali della retorica, del linguaggio, della formazione universitaria, dei circoli scientifici, degli atteggiamenti culturali, dei circo­ li mediatici. É una storia di successo, è una storia raccontata con la retorica dei vincitori, ma è pure una delle architravi più so­ lide su cui possa contare il modello culturale americano al fine di mantenere la propria centralità nel xxi secolo. Para­ dossalmente - sia detto per inciso, e per i non giuristi -, ciò resta vero anche al cospetto della elezione di Barack Oba­ ma alla presidenza dell’Unione. Evento straordinario, con cui gli Usa hanno saputo mirabilmente cogliere lo Zeitgeist che cercava una trama nuova, per essi e per il resto del mon­ do, ma evento i cui frutti sono di là da venire e (ovviamen­ te) ancora da vagliare al minuzioso setaccio della storia di lungo periodo15’. Mentre il diritto americano e i suoi giuri­ sti quella storia l’hanno già scritta e i suoi frutti li hanno già colti.

6. Rule Doctors.

Certo, è tempo di rifiniture e ripensamenti, per i metodi, gli atteggiamenti, i programmi. E in effetti su un nuovo dia­ gramma che si misurerà la capacità del sistema (anche giuri­

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dico) americano di continuare a occupare la posizione di su­ premazia guadagnata fin qui. Che il fuoco dell’analisi sia sul versante giuridico o su quello politico, anche per gli Usa le sfide future si giocheran­ no, nei confronti del resto del mondo, sul terreno della in­ clusione al tavolo delle decisioni, della capacità di persuasio­ ne delle proprie ragioni, della fattualità e storicità delle scel­ te, della ricerca di criteri in grado di calibrare le opzioni, non a misura di spiriti messianici, ma sui variabili metri che le realtà altrui offrono alla comprensione dei fenomeni. E di tutto questo che, di fronte ai rinnovati scacchieri geopoliti­ ci, gli Usa (e l’Occidente con loro) avranno bisogno nel tem­ po a venire. E proprio tutto questo che negli ultimi decenni è invece mancato agli Usa e a chi li ha fiancheggiati, allorché si sono posti a perseguire, attraverso il potente strumentario mes­ so a disposizione dal diritto, politiche di «furthering Ame­ rica’s foreign policy interests in expanding democracy and free markets»160. Anche attori apparentemente disinteressa­ ti alla costruzione di politiche estere filo-americane hanno difatti finito con il versare acqua nel mulino che produceva la stessa farina giuridica e contribuiva a quegli stessi esiti ‘egemonici’161. Ciò che è avvenuto attraverso operazioni, so­ vente ideate o gestite da personale formatosi negli Usa e al­ lineate nel lessico, e nei contenuti, alle formule messianiche che abbiamo visto supportare le politiche d’intervento americane. Qualche esempio aiuterà a chiarire la misura, e i conte­ nuti, del consenso che si è registrato intorno alle coordinate culturali disegnate dagli Usa162. La più volte menzionata American Bar Association ha dato vita insieme allo United Nations Development Pro­ gramme all’‘ABA-UNDP International Legal Resource Cen­ ter’ (ILRC)163. Scopo dichiarato dell’iniziativa è quello di pro­ muovere «good governance and the rule of law around the world. The mission of the ILRC is to provide a legal resource

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capability to serve UNDP global governance programs and projects supporting legal reform and democratic institution building. The primary task of the ILRC is to assist UNDP Country Offices to identify candidates capable of providing legal advice, normally on a pro bono basis, on the drafting of legislation, judicial reform, building of legal institutions including professional groups and associations, and other le­ gal dimensions of governance»164. La commistione di politiche e obiettivi fra un ordine pro­ fessionale Usa e un’agenzia ufficialmente al servizio di inte­ ressi globali non potrebbe risultare piu evidente, e striden­ te. L’elenco delle aree di lavoro congiunto, fra AB A e UNDP («Reform of legal institutions and systems, including reform of constitutional frameworks; Support to electoral bodies and drafting of electoral laws; Improvement of legislative drafting and parliamentary practices; Reform of public sec­ tor regulations and processes; Strengthening anti-corruption measures; Support for decentralization and strengthening of local institutions; Development of the capacity of indepen­ dent lawyers associations; Legal education and judicial train­ ing; Legal services to the indigent and underrepresented»), apparirà allora niente più che una lista di nozze fra messianesimo giuridico e visionaria indifferenza per la complessa realtà non occidentale165. Con specifico riguardo alle riforme costituzionali, in Iraq opera l’Onu mediante l’Ufficio di Supporto Costituzionale (OCS), il quale è deputato a formulare «recommendations on potential amendments to specific areas of the Constitution, including federalism/fiscal federalism (wealth sharing), the judiciary, the Federation Council or upper house, indepen­ dent institutions and human rights»166. Le stesse corde risuonano nelle attività dell’Organization for Security and Co-operation in Europe (OSCE). Attraver­ so 1’Office for Democratic Institutions and Human Rights, essa si occupa, su scala regionale allargata ai paesi caucasici e dell’Asia centrale, delle riforme processuali e degli ordini

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forensi167, nonché della formazione professionale di avvoca­ ti e giudici, al fine specifico di supportare i programmi di de­ mocratizzazione e di impianto della rule of law168. Ma non diverso è l’impegno profuso dall’International Monetary Fund e dalla World Bank nel diffondere lo stesso verbo, all’interno dei loro programmi di ‘technical assis­ tance’. Nonostante moniti autorevoli, come quello per cui « [T]he rapidly growing field of rule-of-law assistance is oper­ ating from a disturbingly thin base of knowledge at every le­ vel»165, la rule of law - nella sua indifferenziata generalità compare sempre fra gli obiettivi dei cc.dd. Poverty Reduc­ tion Strategy Papers (PRSPs) elaborati dai governi locali in col­ laborazione coll’IMF (e la WB). Sulla base di questi docu­ menti, il Fondo e la Banca programmano le loro attività e tutti i PRSPs prevedono, fra gli scopi strategici da persegui­ re, obiettivi - fra loro retoricamente indistinti - quali «to improve governance, the rule of law and ensure human rights», «strengthen democratic processes and institutions, human rights, the rule of law»; o «strengthening the rule of law and respecting human rights», «strengthening governance and the rule of law»; oppure «developing a strong justice system and rule of law»170. E in particolare la World Bank - soprattutto a partire dal­ la svolta operata alla fine degli anni ’90 con l’adozione del c.d. Comprehensive Development Prameworkm - a insistere tenacemente sull’utilizzo del diritto quale grimaldello accon­ cio a perseguire i propri dichiarati scopi, che risultano esse­ re «to help developing countries and ... to alleviate pov­ erty»172. Sono in questo momento attivi ben 127 progetti aventi a oggetto la rule of law (progetti suddivisi, significa­ tivamente, nelle seguenti aree tematiche: «access to law and justice, judicial and other dispute resolutions mechanisms, law reform, legal institutions for a market economy, legal services, personal and property rights»)173.

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7. Cure senza storia.

In nome dello sviluppo e della stabilità macro-economi­ ca, le istituzioni internazionali sembrano in effetti aver fat­ to della riforma giuridica e dell’impianto della (indifferenzia­ ta, de-contestualizzata, a-storicizzata) rule of law uno degli aspetti centrali delle loro strategie di intervento. La consa­ pevolezza della rilevanza e della potenza dell’infrastruttura ‘diritto’ è uno dei meriti indiscussi di tutte queste iniziative. Il loro ‘lato scuro’ è dato dall’incapacità di comprendere co­ me le riforme giuridiche non si esercitano nel vuoto, né su spugne che l’acqua delle tecnicalità occidentali può gonfiare a piacimento: il patrimonio di valori, di coordinate cultura­ li, di assetti sociali, di rapporti di potere, che forgiano qua­ lunque comunità, non sanno offrirsi a mutamenti repentini. Questo è vero, si badi, persino in Occidente (ove pure il tasso di omogeneità interna è comparativamente assai più elevato che in altre aree del mondo), altrimenti non si riusci­ rebbero a comprendere fenomeni di lunga durata, propri al nostro recente passato o allo stesso presente - dalla resisten­ za nord-irlandese, alla questione basca a quella della mafia italiana. Religione, lingua, cultura sono alcuni tra i più rile­ vanti fattori centripeti nel catalizzare identità e visioni del mondo174, con cui il verbo dello Stato, delle Costituzioni, del­ la rule of law egalitaria e/o promozionale deve fare conti quo­ tidiani, ma il cui bilancio non può essere chiamato a trime­ stre, o semestre, e neppure alla scadenza di una generazio­ ne, bensì essere capace di includere e progettare partite di lungo termine173. Sorprende poco, perciò, che lo scarso rifornimento di pro­ blemi circa la complessità dell’infrastruttura ‘diritto’, e la conseguente ridotta potenza interpretativa, che caratterizza la gran mole di programmi delle istituzioni internazionali, abbiano dati esiti fra loro assai contraddittori rispetto alle (e certamente non all’altezza delle) premesse.

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Non ci soffermeremo qui su moniti risaputi (almeno al di­ battito avvertito), come quello secondo cui alcuni dei siste­ mi che hanno beneficiato al meglio della globalizzazione, co­ me l’india, sono «those that have not played by the rules of the standard liberal market approach», ossia della fin qui consolidata accezione della rule of law in campo economi­ co176; o come quello che segnala quante delle critiche oggi ri­ volte alla democrazia russa avrebbero perduto ragion d’esse­ re se, subito dopo la caduta del comuniSmo, gli advisor occi­ dentali non avessero puntato solo (o soprattutto) alla privatizzazione delle imprese177. Tra i molti altri esempi pos­ sibili, un supplemento di considerazione possono invece me­ ritare le attività della World Bank. Nella nostra prospettiva è difatti notevole che quelle attività siano programmatica­ mente alimentate da una particolare attenzione a connette­ re tra loro indicatori economici e giuridici. Un primo dato rileva i dibattiti aspri e puntuti sollevati dalla distanza fra presupposti ideologici rivendicati dalla WB e risultati conseguiti sul terreno. Nella corposa lista di illu­ strazioni, valgono il richiamo quelle: i) di Costa Rica e Uru­ guay per i quali, proprio alla luce delle misurazioni effettua­ te dalla World Bank178, stridente è il contrasto fra lo scarso sviluppo economico e l’elevata considerazione da essi godu­ ta nei ‘Rule of Law Governance Indicators’ predisposti dal­ la stessa istituzione17’; n) di paesi lontani dal disporre di un apparato istituzionale e giuridico conforme alle aspettative della WB, che hanno sperimentato per decenni tassi di cre­ scita estremamente elevati: è il caso, fra gli altri, della Corea del Sud, di Taiwan, del Vietnam, della Cina Popolare180; ni) di modelli informali o misti, pubblico-privati, di regola­ zione dei diritti contrattuali e proprietari, che hanno prodot­ to in Cina risultati economici comparabili, se non migliori di quei modelli formali di protezione dei contratti181, e di attri­ buzione dei diritti di proprietà privata182, che invece rappre­ sentano gli ingredienti abituali della ricetta propugnata con vigore dalla WB ai «developing countries», nel quadro di un

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trapianto delle tecnicalità occidentali che si vuole sempre di­ retto, indifferente al contesto e quanto più rapido possibile. Il secondo motivo di attenzione nei confronti della World Bank si spiega con le matrici tecnico-culturali del suo opera­ to. La pervicace opera di disseminazione del verbo della ru­ le of law si è in effetti ben guardata dal prospettarsi inclusi­ va (non solo dei valori ‘altri’, ma) degli stessi valori giuridi­ ci occidentali intesi nel loro complesso, ossia comprensivi dei portati propri alla tradizione euro-continentale. La WB pro­ duce annualmente dei rapporti noti con il nome ‘Doing Bu­ siness’, i cui contenuti hanno più volte vivacemente attacca­ to i sistemi giuridici continentali come inefficienti, statali­ sti, inadeguati nel lungo periodo a competere economica­ mente, e quindi non solo incapaci di porsi a modello di svi­ luppo per chicchessia ma meritevoli di radicali riforme, le quali dovrebbero essenzialmente ispirarsi - va da sé - alla re­ golazione decentrata del mercato che si ritiene supportata al meglio da istituti e tecniche del common law (angloameri­ cano185. Ora, detto che nel 2008, stando ai dati della stessa World Bank, il Pii dell’insieme mondiale delle giurisdizioni ‘civili­ stiche’ (nelle quali possono includersi, oltre al continente eu­ ropeo, il Giappone, l’America Latina e la stessa Cina)184 am­ montava a oltre 29 000 miliardi di dollari, contro i 19 000 miliardi di dollari delle giurisdizioni di common law185, sulla povertà di analisi scientifica e comparatistica che sorregge quelle valutazioni non vale la pena di insistere oltre il segno. Assumere un solo possibile modello di sviluppo economico impiantabile ovunque, mediante un solo possibile modello di istituzioni giuridiche, è offa per gli illetterati di ogni disci­ plina, o per gli inconsapevoli di professione. Quanto conta tuttavia segnalare è che, anche grazie a quell’attività di disseminazione di dati, si perpetra negli ar­ gomenti che animano una gran massa dei dibattiti transna­ zionali il senso comune della necessità - oltre che di canto­ nate i sistemi di civil law nel ruolo di rule-takers - di propa­

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gare il diritto à la common law come veicolo di democrazia, di giustizia universale, di prosperità186. Il che avviene - an­ cora una volta - senza un’adeguata considerazione, o con una voluta indifferenza, non solo a) per la diversità dei modelli e delle tradizioni giuridiche, e per la conseguente difficoltà di trasformarle nel giro di pochi anni, ma anche b) per la ne­ cessità di alzare il velo sugli interessi perseguiti con quegli strumenti e, nel caso li si ritenesse indiscutibili e indispen­ sabili, c) per l’opportunità di valutare se al fine di realizzare quegli stessi interessi gli strumenti attuali siano i più effica­ ci - ossia se per raggiungere gli scopi perseguiti dall’Occidente (nella sua intierezza) sia sempre indispensabile utiliz­ zare lo strumentario giuridico-politico nordamericano187. Se anche su questi atteggiamenti spireranno i venti nuo­ vi della storia, con i cantieri delle riforme aperte sulla govern­ ance delle istituzioni finanziarie internazionali188, coll’auspi­ cata presa di consapevolezza circa i difetti dei modelli pro­ pagandati, sono tutte questioni i cui esiti non tarderemo troppo a conoscere.

8. La fragilità progettuale del vecchio continente. Una diversa domanda è invece pressante: e l’Europa? La risposta comincia col segnalare che sul nostro conti­ nente l’utilizzo della infrastruttura giuridica in chiave di pro­ mozione globale degli interessi regionali è resa assai diffici­ le, fra l’altro, dalla accentuata diversità di linguaggi, quelli nazionali e quelli giuridici. E vero che una buona parte delle classi dirigenti, nonché delle élite forensi europee, conosce l’inglese e che fioriscono corsi e master giuridici nel linguaggio dei common lawyers. Altrettanto vero, tuttavia, è che il diritto globale usa una lin­ gua e un vocabolario tecnico che non sono i nostri - e che talora non possono trovare traduzioni accurate nelle nostre lingue giuridiche (e per nostre intendo non solo l’italiano,

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ma anche il polacco, il francese, il tedesco, il greco o lo spa­ gnolo). Il punto merita rispetto, non certo perché si voglia scioccamente contestare la veicolarità di una lingua, ma per­ ché segnala come i giuristi, pur occidentali e tuttavia non an­ glofoni, e/o privi di familiarità con il tecnicismo del common law, possono aspirare a un rilievo delle proprie idee solo a li­ vello domestico, al massimo regionale. Essi non sono in gra­ do di contribuire in alcun modo incisivo, ossia diretto e con­ tinuo, al farsi del diritto nelle arene globali, diventando so­ stanzialmente invisibili, inudibili, se non per rimbalzo più o meno tardivo, tanto nei dibattiti specialistici quanto, e so­ prattutto, nel discorso pubblico. Del resto, vale la pena di aggiungere, nelle facoltà euro­ pee si educano giuristi attraverso curricula pregni al 90% di corsi centrati sul diritto positivo statuale (il che è esattamen­ te l’opposto di quanto avviene negli Usa, dove il 90% dei corsi verte sul diritto dell’Unione e non su quello del singo­ lo Stato in cui ha sede la facoltà). Si tratta di un approccio educativo che potrà essere utile - se lo si ritenesse necessa­ rio - a infoltire le schiere dei pratici o dei burocrati attivi sul fronte domestico, ma non è certo quanto si possa auspicare nella prospettiva della formazione di una classe dirigente al­ l’altezza delle sfide poste all’Europa dalle evoluzioni del tem­ po18’. Eppure, anche quando partono dal continente europeo, gli sforzi di estendere in maniera duratura il proprio presti­ gio e l’attrattività del sistema economico poggiano sovente, oggi come nel passato (con le esperienze coloniali), sulle in­ frastrutture giuridiche. Si pensi al contributo francese alla costruzione del modello legislativo dell’Organisation pour 1’Harmonisation en Afrique du Droit des Affaires (OKA­ DA)190, agli sforzi olandesi in Mongolia191, italiani in Afgha­ nistan e nei rapporti con la Cina192, tedeschi in America La­ tina, nell’Africa sub-sahariana e nei Sud-est asiatico ed eu­ ropeo193. Ma si tratta di investimenti che veicolano il marchio del paese che li opera, con le sue ricadute e i suoi obiettivi

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di rango statale, e non continentale, con gli inevitabili limi­ ti che un modello percepito come nazionale (senza una cor­ nice imperiale, e della stazza di un singolo paese europeo) porta con sé nell’arena globale. Dal punto di vista istituzionale poi, la lunga post-bellica dipendenza economica dagli Usa, e la stessa temperie che ha trasformato la leadership americana in egemonia, ha indebo­ lito le potenzialità delle ancora fragili istituzioni europee: a) di proporsi, nei confronti del resto dell’occidente, quale concorrente agguerrito degli Usa nell’utilizzo del proprio di­ ritto, forgiando paradigmi globali all’altezza della propria economia e demografia1’4, valorizzando a tale scopo, come abbiamo visto accadere sull’altra sponda dell’Atlantico, le proprie istituzioni universitarie e i propri centri di ricerca; e poi b), soprattutto nei confronti delle realtà non occidenta­ li, di proporsi come piattaforma compatta di irradiazione di valori alternativi, centrati su una visione della società, e del suo diritto, attenta alla dimensione sociale dei problemi, in­ clusiva non solo in nome della libertà di mercato, della sa­ cralità della proprietà e del contratto, ma inclusiva anche in nome della capacità normativa di proteggere gli svantaggia­ ti e di contrastare sistemi sanitari, previdenziali, lavorativi, indifferenti alle opzioni disponibili per i più deboli1’3. E considerando tali carenze che si spiega come gli stru­ menti programmatici della UE, e pure quelli operativi, risul­ tino sovente appiattiti su quella che abbiamo visto essere la terminologia mainstream1’6, circa l’esportazione, parallela, sincronica e sinonimica, della democrazia, del libero merca­ to e della rule of law1”. Le criticità e i difetti di questo allineamento rappresen­ tano un tema che sfiora appena le burocrazie, e le istituzio­ ni politiche di Bruxelles, le quali, a differenza delle conso­ relle Usa, non hanno fin qui inteso la straordinaria potenzia­ lità del proprio diritto di farsi battistrada di politiche globali autonome1’8. Il che peraltro testimonia, sia detto qui per in­ ciso, come il modello istituzionale UE continui a proporsi co-

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me protesi di una frattura mai ricomposta: quella fra l’illu­ minismo tedesco (di funzionari) e quello francese (di giuri­ sti)1”, protesi nella cui costruzione hanno prevalso i materia­ li e le culture burocratiche, incapaci di forgiare una visione dell’Europa che andasse al di là della ‘mimesi’ dello Stato na­ zionale - al quale quindi il diritto serve, quando serve, solo a rafforzare l’identità interna e non a comunicare con il re­ sto del mondo. Anche cosi, con questa impreparazione culturale dell’Eu­ ropa nel suo insieme a percepire il diritto quale strumento di potere globale, si comprende la supina accettazione dei pa­ radigmi giuridici, quelli tecnici e quelli retorici, provenienti dal Nord America. Ma su questo punto vi è da considerare un dato ulteriore, che incide su un ampio spettro delle que­ stioni fin qui tratteggiate. L’ultimo ventennio ha conosciuto la fioritura di una va­ rietà di progetti, di fonte prevalentemente accademica e di varia natura (privata, o godenti dell’avallo ufficiale delle isti­ tuzioni UE, oppure semplicemente da queste finanziati), vol­ ti all’armonizzazione del diritto civile europeo200. L’occasio­ ne si presentava propizia per ri-fondare201 su basi condivise, ossia con il contributo ‘dal basso’ delle tradizioni nazionali, una cultura giuridica comune, un comune tessuto connetti­ vo delle relazioni che sono alla base di qualunque società: dalla proprietà al contratto, dalla responsabilità per danni al diritto ereditario e di famiglia. L’occasione si presentava pro­ pizia per abbassare i costi di accesso al diritto da parte di tut­ ti i suoi utilizzatori europei, nonché per proporre - nella pro­ spettiva dell’espansione del raggio d’influenza geopolitica del nostro continente - un modello di governo (forte e alterna­ tivo a quello angloamericano) delle relazioni private e com­ merciali. Se i progetti sono stati finora condotti con metodi che si espongono a più di una critica in chiave scientifica202, le obiezioni che qui meritano il risalto sono altre. La stragran­ de maggioranza di quei lavori mira a individuare a ogni prez­



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zò il punto di equilibrio fra diritto continentale e il common law. Ciò spiega alcune delle difficoltà e dei ritardi accumu­ lati nell’elaborazione dei progetti, postisi di fronte a una no­ menclatura, una tassonomia e ad apparati concettuali che oltremanica (a differenza delle regole operative, spesso as­ similabili alle nostre) risultano assai diversi da quelli roma­ nistica comuni invece a tutto il continente. Ma si tratta an­ che di una scelta che vuole forzare la condivisione del pro­ getto da parte di un sistema paese, qui il riferimento è al Regno Unito203, che dai grandi disegni che hanno forgiato il modo d’essere dell’Europa, dall’Euro a ‘Schengen’204, si è sempre tenuto discosto, e che non esiterà a riproporre lo stesso atteggiamento nei confronti di qualsiasi ‘codice civi­ le’ (categoria estranea alla sua storia giuridica), tanto più se ‘europeo’. A questo proposito, valgono poi la sottolineatura alcuni dati. Il Regno Unito dispone quale lingua madre di quella che è veicolare nel mondo, di una vasta e ben mantenuta re­ te di relazioni post-imperiali, di una ‘City’ come centro fi­ nanziario fra i maggiori del pianeta, di una produzione di pe­ trolio pari all’1,8% di quella mondiale annua205 e i suoi cen­ tri universitari di eccellenza figurano ai primi posti di qualsiasi classifica mondiale. Di contro, il suo Pii - inclusi­ vo del rilevante contributo della City - era nel 2008 del 15% superiore a quello dell’Italia, ma del 7% circa inferiore a quel­ lo francese, del 27,6% inferiore a quello della Germania, e del 46,2 inferiore a quello giapponese206: tutti paesi che non godono, o godono solo di alcune, delle risorse di cui si avva­ le il Regno Unito. Ma non è tutto. Secondo gli ultimi dati disponibili, del 2007, i paesi ‘civilistici’ della UE (i.e. esclu­ si Regno Unito, Irlanda, Cipro e Malta) coprivano un’area di 4 227 000 km2 (il 92,3% dell’intera UE) Con una popola­ zione di 457 milioni di abitanti207 (87%) e il loro Pii era di 14 mila miliardi di dollari, corrispondente all’83 % della UE208 e a circa un quarto di quello mondiale20’. Le conclusioni lasciano spazio a qualche dubbio di una

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cattiva taratura circa i costi e i benefici discendenti dalla este­ nuante ricerca di un compromesso con le visioni del common law europeo. Si tratta tuttavia di conclusioni che non sfiorano Bruxel­ les. La ricerca forzosa del compromesso con i common lawyers, e le difficoltà e i ritardi che ne sono conseguiti, han­ no indotto le istituzioni europee, non a un ripensamento stra­ tegico del progetto di codificazione210, ma a limitarne la por­ tata centrando la propria attenzione sulla sola armonizzazio­ ne di uno spicchio del diritto contrattuale europeo, quello relativo ai contratti con i consumatori211. Un’armonizzazio­ ne parziale, o debole, significa però non decidere, significa non riuscire a vedere il futuro da protagonisti, significa tra­ scurare la straordinaria occasione offerta dalla storia di uti­ lizzare la comunanza che oggi esiste, sul piano dei principi e delle regole, fra il diritto civile e commerciale del nostro con­ tinente e quello latinoamericano, quello russo, quello giap­ ponese e quello che sta diventando il riformato diritto legi­ slativo cinese; significa insomma contribuire a mantenere sul piedistallo (occidentale) della solidità, dell’efficienza, e quin­ di del prestigio e dell’attrattività, il solo diritto privato e com­ merciale americano212. Quando si lanciano o dibattono progetti volti al raffor­ zamento della posizione della UE nelle arene globali, di tut­ to quanto precede occorrerebbe avere buona memoria, e sti­ molante consapevolezza.

Capitolo sesto

La globalità tradita. Dentro e oltre la crisi

i. Pressioni selettive. Avevamo anticipato al Capitolo quarto che una caratte­ ristica saliente, e non da oggi, del modo con cui l’Occidente guarda al mondo si ritrova nella domanda di diritto unifor­ me che esso incessantemente avanza. Si tratta di una richie­ sta che, oltre a essere figlia degli interessi più direttamente connessi alle attività economiche, alimenta istanze come quelle (che vedremo) rivolte alla creazione di Tribunali pe­ nali internazionali, alla protezione universale dei diritti uma­ ni, fino all’esportazione delle regole della democrazia213. Del tutto estranei ai tavoli dove si imprime o si tenta di infondere effettività alle regolazioni globali - ma anche a quelle regionali-europee - permangono invece bisogni che dal basso esprimono aspettative pressanti per vaste moltitu­ dini: dalle unioni di fatto al testamento biologico, all’abor­ to, alle più generali questioni dei confini della vita e della morte. Tutte questioni che le società occidentali, talora as­ sai più che altre esperienze, percepiscono come proprie. Ma tutte questioni su cui - a differenza di altre - il dibattito è lesto a internalizzare le diversità e le sfumature negli atteg­ giamenti culturali esistenti presso le varie tradizioni, rappre­ sentandosi quei problemi come eticamente sensibili (come se molte delle scelte del capitalismo avanzato non lo fossero) e, quindi, come questioni che è possibile lasciare fluttuare al tasso di cambio giuridico prescelto dai singoli sistemi214.

La globalità tradita. Dentro e oltre la crisi

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2. Domande tardive.

In questo capitolo e nei due successivi, esamineremo na­ tura, tempestività ed esiti delle pressioni più strettamente intrecciate agli interessi business-driven. D’abitudine, su questo versante, la domanda di diritto globalizzato si volge all’adozione di trattati, convenzioni, co­ dificazioni; ottiene poi l’istituzione di organismi come la World Trade Organization (WTO); mira, come abbiamo vi­ sto nel capitolo precedente, a modellare in chiave di rulessupplier il ruolo originariamente altro di istituzioni come l’International Monetary Fund (IMF) o la World Bank (WB)215; ambisce a presidiare gli snodi cruciali dei traffici con nuove autorità sovranazionali, incaricate di gestire, e giudicare, i conflitti che sorgono nelle maglie dell’ordinamento globa­ le216. Quelle che attengono alla regolamentazione degli scam­ bi sono insomma domande di diritto con le quali si esprime nettamente un bisogno fermo di autorità. Bisogno e autorità che non sono isomorfi, perché frutto delle articolate e varia­ bili aggregazioni d’interessi, ma che, sul piano globale, sem­ pre mirano a soddisfare finalità che si presentano come ‘ge­ nerali’, sovraordinate a quelli dei singoli player, anche sta­ tuali. Le pressioni a favore di regolazioni globali possono però esercitarsi, non solo in maniera selettiva, ma anche con for­ za e tempistiche assai varie, in anticipo o in ritardo sui feno­ meni, a seconda dei settori e degli interessi coinvolti, dei mo­ di in cui questi sono strutturati, della cultura propria ai loro specifici attori. Un buon esempio di domande tardive è dato dalla recen­ te crisi finanziaria, che pure si sa innescata da eventi niente affatto originali217.

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Capitolo sesto

3. 1 preparativi della tempesta.

Una forte espansione del credito, dovuta anche alle forze dell’innovazione finanziaria (peraltro sempre all’opera), inde­ bolisce la percezione del rischio, mentre gli investitori sono indotti a impieghi con alto grado di leva fra debito e capita­ le, nell’illusione di poter ottenere rendimenti sempre più ele­ vati218. Il che accade, sino a quando interviene una serie di fattori di segno inverso. Il che da ultimo accade non di rado: nei paesi ‘avanzati’ il numero delle crisi nell’ultimo venticin­ quennio del secolo scorso è stato superiore a ogni periodo an­ tecedente, mentre nei paesi ‘in via di sviluppo’ esso è stato negli ultimi trent’anni addirittura il doppio rispetto a tutto il secolo precedente21’. Nel promuovere lo scatenamento della crisi odierna, a fianco di numerose e potenti cause meglio spiegate dall’eco­ nomia comportamentale e dalle scienze cognitive220, è stato però il diritto a giocare, più chiaramente che nel passato221, un ruolo fondamentale. Ma ciò è avvenuto sul piano dell’im­ provvidenza delle regole e non, come si ama ripetere, sul pia­ no della loro mancanza. L’assenza del legislatore, indifferente o intenzionale che sia, certo non equivale all’assenza di diritto. Al lettore di que­ ste pagine è ben noto come le organizzazioni sociali di qual­ siasi tipo, e anche quelle raggruppate intorno alle comunità finanziarie, costruiscano sulle regole la propria convivenza e le proprie attività. Il fatto che queste regole non vengano da un’autorità sovraordinata significa semplicemente che saran­ no i partecipanti a quell’organizzazione, a quelle attività, a quel mercato, a dettarne di proprie. Produzione che può di­ scendere da un consenso maggioritario o generalizzato, con­ senso che a sua volta può essere formalizzato in documenti, i quali raccolgono best practices, formulano raccomandazioni, guidelines, standard rules, oppure sarà consenso tacito, emer­ gente dall’abituale accettazione e propagazione delle medesi­ me regole di comportamento.

La globalità tradita. Dentro e oltre la crisi

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A entrambe le modalità di auto-governo la comunità fi­ nanziaria ha fatto esteso ricorso. Ma questa regolazione informale (l’abbiamo ricordato al Capitolo terzo, §§ 3-4) reg­ ge una gran mole delle attività, economiche e no, che ogni abitante del pianeta svolge ogni giorno, senza che la natura della regolazione sia di per sé fonte di crisi, economiche o so­ ciali. Invero, le crisi restano al di là degli orizzonti tutte le volte che il diritto informale è stabile e prevedibile e, affin­ ché lo sia, occorre che tutti i membri della comunità di rife­ rimento, dai più deboli ai più forti, perseguano interessi fra loro convergenti e operino sotto la pressione degli stessi in­ centivi e disincentivi. Allorché invece questi requisiti ven­ gono a mancare, come è accaduto nella lunga vigilia della cri­ si222, il risultato è quello che abbiamo avuto sotto gli occhi: le regole implodono e la comunità finanziaria, insieme alle economie che da essa dipendono, sono forzate verso l’incer­ tezza, l’imprevedibilità e il collasso.

4. La crisi delle regole. Nel comprendere (anche) l’ultima crisi finanziaria, un punto resta quindi fermo: pensare alla de-regolazione da par­ te dello Stato, o delle sue istituzioni, come fenomeno forie­ ro di un’assenza di regole, è hobby da positivisti incalliti, o intellettualmente disoccupati, perché congedati dalla realtà. Il passo successivo è capire come, di fronte a risalenti pressioni per regolazioni formali di ogni aspetto del traffico giuridico ed economico globale, si sia giunti a permettere che proprio i mercati finanziari, ossia uno dei settori nevralgici di quei traffici, fossero lasciati liberi di auto-governarsi - e con riguardo a profili cruciali delle loro attività. Nella nostra prospettiva alcuni dati meritano allora di essere richiamati. Per lungo tempo gli Usa hanno rappresentato in campo finanziario il modello giuridico internazionalmente ricono­ sciuto come quello di riferimento, anche perché sotto la sua

Capitolo sesto

(fioca) giurisdizione cadevano, e tuttora cadono, gran parte dei contratti che forgiano il mercato delle cartolarizzazioni e della c.d. finanza strutturata223 - e di qui si comprende pu­ re l’assenza, in queste materie, di filoni giurisprudenziali si­ gnificativi nel resto del mondo, Europa compresa. Ma è pro­ prio negli Usa che comportamenti auto-regolati da parte de­ gli attori del mercato finanziario sono stati largamente incentivati, grazie al ritrarsi delle regole federali dagli avam­ posti del controllo effettivo sulle pratiche potenzialmente distorsive. Si tratta di un processo non certo irretito dalla leg­ ge c.d. Sarbanes-Oxley, del 2002224, la quale, sulla scia di al­ cuni scandali finanziari (Enron, Arthur Andersen, World­ Com, Tyco International), ha irrigidito alcune regole (quel­ le sulla correttezza delle informazioni di bilancio, sui dove­ ri dei contabili, sulla trasparenza della corporate govern­ ance)225 che restano periferiche rispetto alle tecniche del mer­ cato finanziario che si sono poste all’epicentro del terremoto recente. Si tratta, piuttosto, di un processo - quello di riti­ ro del regolatore federale dal terreno dei controlli - esempli­ ficato dall’adozione del Private Securities Litigation Reform Act, del 1995, che ha reso più impervia la possibilità di ot­ tenere la condanna, e avviare azioni collettive, a carico de­ gli autori di frodi sul mercato dei capitali226. Si tratta di un processo corroborato da provvedimenti quali il Commodity Future Modernization Act del 2000, che ha sostanzialmen­ te lasciato nelle mani del mercato vasti settori del trading sui derivati227; processo proseguito nel 2004 col rilassamento, da parte della Securities and Exchange Commission (SEC) del­ le regole sul ricorso alle leve finanziarie228. Nell’ultimo decennio si è poi moltiplicato il ricorso ai vo­ latili e opachi credit default swap (CDS), sorta di polizze con­ tro l’inadempimento del debitore: titoli negoziabili senza li­ miti ed estranei a ogni regolazione ‘ufficiale’22’. I CDS han­ no soppiantato, e nessuna regola imponeva di mantenerli, i meccanismi cosiddetti di credit enhancement fondati su orto­ dosse garanzie assicurative relative al rischio insito negli as-

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set sottostanti le cartolarizzazioni250. L’assenza di controlli adeguati su queste ultime ha inoltre fatto si che si cartolarizzassero pool di crediti ipotecari contenenti un numero sem­ pre maggiore di prestiti (i cc.dd. subprime) ad alto pericolo di inadempimento2” - ma sia malinconicamente chiaro: ac­ comunare nella critica gli attori finanziari e i cittadini di­ sinformati, o bisognosi, che hanno colto l’opportunità, of­ ferta loro dai primi, di acquistare la propria abitazione pur essendo disoccupati o (poco 0) nulla tenenti, equivale a nient’altro che celebrare la saggezza del bardo, secondo cui sempre: «Misery acquaints a man with strange bedfel­ lows»252. Rischiosamente benedetto dalle cattive pratiche del rat­ ing (su cui torneremo poco oltre), l’avvitamento delle opera­ zioni finanziarie su spirali sempre più innovative, sempre più rischiose, ha finito col determinare una situazione «so com­ plex that virtually no one really understood them» - per dir­ la con le parole dello stesso Chairman del ‘Committee on Oversight and Government Reform’ dello stesso Congresso Usa2”. Al cospetto di, e nonostante tutto ciò, potrà apparire grot­ tesco - ed è invece un dato rilevante circa la cultura degli at­ tori del mercato - che ancora nel novembre 2007 un rappor­ to dell’autorevole Committee on Capital Markets Regula­ tion (presieduto da Hai Scott, della Harvard Law School; il report è disponibile a: www.capmktsreg.org ) spiegava con l’eccesso di regolazione la perdita di competitività Usa sul mercato globale dei capitali254. Il punto resta, tuttavia, che per analizzare e correggere i comportamenti degli operatori finanziari i contribuenti, an­ che oltreoceano, pagavano e pagano le autorità di vigilanza. A livello aggregato, la crescita sregolata del credito e del rap­ porto fra debito e capitale era un fenomeno evidente e, quin­ di, «un maggiore attivismo di vigilanza a livello microecono­ mico, ossia sulla situazione effettiva (e non solo su quella evi­ denziata dai bilanci) delle istituzioni bancarie, sarebbe stato

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doveroso»255. Che si sia trattato di un fenomeno di ‘cattura’ del regolatore, il quale finisce per recepire e proteggere gli interessi dei soggetti vigilati; di eccessivo affidamento ripo­ sto sulle regole di vigilanza bancaria256 o su quelle di conta­ bilità finanziaria257; oppure - ed è la spiegazione più puntu­ ta e aderente alla cultura del settore - si sia trattato di cie­ ca, perché ideologica, fiducia nell’efficienza dei centri finanziari e nella capacità di auto-regolazione del mercato, la questione resta quella di un evidente ‘sonno’ delle auto­ rità nazionali, e internazionali, preposte alla vigilanza dei mercati. Come è stato autorevolmente sottolineato, le «dé­ faillance delle autorità di controllo sono state clamorose. La tesi secondo la quale impedire le deviazioni della finanza è praticamente impossibile in quanto la sua capacità di inno­ vazione è troppo rapida per essere compresa in tempo dal re­ golatore è semplicemente ridicola. Le degenerazioni della fi­ nanza e i rischi che esse comportavano sono state individua­ te e denunciate da anni anche da eminenti personalità della finanza, oltre che da istituzioni tipo la International Bank of Settlement. Se le Banche centrali e soprattutto la Fed non hanno voluto riconoscere quelle deviazioni e le hanno anche alimentate con la loro politica monetaria è per motivi sostan­ zialmente ideologici; perché intimamente convinte, come Alan Greenspan ha autocriticamente ammesso di recente, della capacità di autoregolazione dei mercati»258.

5. La triste storia delle agenzie di rating. Qualche considerazione supplementare va però rivolta a quelle agenzie di rating che hanno esercitato, e tuttora eser­ citano, un’incisiva forza di orientamento delle scelte finan­ ziarie, pubbliche e private. Non da oggi, il problema dell’indipendenza delle agenzie e dell’adeguata gestione dei conflitti di interesse riveste un’importanza primaria per la credibilità e l’affidabilità del­

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le informazioni. Eppure, la maggior parte dei ricavi delle agenzie che si occupano di valutare i prodotti finanziari pro­ viene tuttora dai compensi degli stessi emittenti cui esse han­ no assegnato un rating, mentre introiti assai minori deriva­ no dalla esecuzione di studi sul rating commissionati dagli investitori2”. Questo scenario si è prodotto nonostante che negli Usa un quadro normativo per le agenzie di rating esistesse fin dal 1975 e fosse stato riformato alla vigilia della crisi attuale nel 2oo624°. Tali interventi - sulla cui direttrice si è accomodata la recente legislazione europea241 - si limitano a rafforzare i requisiti di trasparenza e concorrenzialità del mercato del rating e a incrementare i poteri delle autorità di vigilanza. I limiti di questi interventi, registri e presagi del loro fallimen­ to operativo, si ritrovano nella tipologia centralistica del con­ trollo - sempre difficile da mantenere in un mercato in cui le informazioni sono estremamente disperse e non agilmen­ te reperibili dal di fuori del mercato stesso - e nella natura amministrativa delle sanzioni (peraltro in qualche caso Ero­ gabili con elevato grado di discrezionalità). L’assunzione im­ plicita in tale approccio regolatorio è che il valore di un’a­ genzia di rating stia tutto nella sua reputazione sul mercato e, quindi, che il timore di perdere quella reputazione sia in­ centivo sufficiente a evitare deviazioni dalle ‘buone prati­ che’ dettate dal legislatore. In altri termini: il mercato basta sempre a se stesso. .E le corti ? In Europa non si registrano filoni giurispru­ denziali che abbiano affrontato il tema della responsabilità per danni a carico delle agenzie242. Negli Usa, dove la mate­ ria è da tempo oggetto di dibattito243, le corti hanno disco­ nosciuto il potere regolatorio che de facto le agenzie eserci­ tano e, equiparando i rating a manifestazioni della libertà di espressione tutelata costituzionalmente, hanno concesso la possibilità di condannare le agenzie solo in presenza di ciò che noi chiameremmo colpa grave o dolo. Non sfugge peral­ tro che in questi casi la prova dello stato soggettivo, ossia la

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grossolana negligenza o la vera e propria intenzione di recar danno, rappresenta un ostacolo maggiore per l’accertamen­ to della responsabilità. Problema che è reso complicato dal­ l’assenza (anche oltreoceano) di regole legislative che per le stesse agenzie individuino, ex ante e nel dettaglio, obblighi di condotta su cui parametrare in maniera diversa, e traspa­ rente, il giudizio risarcitorio nei confronti dei soggetti dan­ neggiati.

6. Le regole della crisi.

Quali vie d’uscita si prospettano, nel lungo periodo ? Certo, nessuna risposta a questa crisi può muovere seria­ mente dalla critica alla speculazione o all’avidità di alcuni at­ tori del mercato. Speculazione e avidità sono termini del les­ sico messianico, o psichiatrico, oppure di coloro i quali non sanno di essere a favore del modello capitalista, dove quegli atteggiamenti, avidi o speculativi, sono da sempre ingranag­ gi non secondari nella sala motori del sistema. Se invece la critica si centra sulla misura che di speculazione o avidità è possibile tollerare, ecco che la questione diventa, come sem­ pre, quella delle regole: quali, per chi? pensate, e soprattut­ to applicate, come ? La mancanza di una regolazione formale in natura, e glo­ bale in raggio d’azione, è stata in effetti, come abbiamo det­ to, un vizio della cultura stessa dei mercati finanziari. È un vizio che occorre sanare, ma muniti di una serie di consape­ volezze. i) A Race to the Top. A ogni livello e in ogni settore di operatività dei mercati finanziari, occorre ribadire con fer­ mezza l’impegno a disincentivare non solo per il presente, ma anche nel futuro nuove pericolose ‘race to the bottom’ da parte dei legislatori nazionali, che finiscano col permet­ tere agli operatori più ‘scaltri’ di spostare i capitali, e le ope­ razioni su di essi, nei paesi dotati di regole più lasche244. A

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tacer d’altro, accontentarsi di risposte fornite a livello sta­ tuale implica sempre il rischio che una frammentazione del­ le normative finisca, se non col paralizzare, coll’alzare insop­ portabilmente i costi dei controlli per le autorità nazionali e quelli delle reazioni legali per i soggetti dislocati nelle varie parti del mondo e ingiustamente danneggiati da attività fi­ nanziarie condotte in spregio alle regole. In questa prospettiva è sicuramente da lodare, e sostene­ re assai più e meglio di quanto finora fatto, l’iniziativa del nostro governo, lanciata in occasione della presidenza italia­ na del G8 per il 2009, di redigere dei «Global Standards» mirati alla promozione di livelli appropriati di trasparenza, al rafforzamento dei sistemi di regolazione e di supervisio­ ne, al consolidamento della protezione degli investitori245. n) Dalla forma alla sostanza. Ogni sforzo di regolazione dovrà tuttavia tenersi discosto dal demone della retorica, mi­ naccioso tutte le volte in cui ci si limiti a invocare ‘traspa­ renza’, ‘correttezza’, ‘integrità’ delle condotte. Se questo les­ sico può essere utile nelle normazioni domestiche (d’abitu­ dine monitorate da una fitta giurisprudenza), oppure ai preamboli o alle press-release dei documenti politici, nel vuo­ to normativo di questo settore a livello globale, la sostanza delle regole da proporre dovrebbe invece (quanto meno co­ minciare ad) aggredire i dettagli delle pratiche, agganciando violazioni a sanzioni. Quanto insomma conta è che il nuovo disegno tracci linee rette fra incentivi e soggezione alle re­ gole, cosi come fra poteri e responsabilità. ni) Il mercato non basta. Di fronte alla possibilità di rischi sistemici, come quello che si è materializzato nel corso del­ l’ultimo anno, ai cittadini, risparmiatori e no, occidentali e no, non si può continuare a somministrare la ricetta del mer­ cato che auto-regola gli scostamenti dei propri attori dalle ‘buone pratiche’ e poi si limita a espellere dallo stesso mer­ cato chi mal si comporta (e nel frattempo ha già molto dan­ neggiato), erigendo cosi un gruppo circoscritto di individui a capri espiatori dell’intera comunità finanziaria. Una comu­

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nità, vale ribadire, i cui controllori si sono rivelati ineffetti­ vi, al limite della complicità, se è vero che negli Usa, nei pri­ mi undici mesi del 2008, sono state avviate 133 indagini per frodi sul mercato mobiliare, numero che è però «down from 437 cases in 2000 and from a high of 513 cases in 2002, when Wall Street scandals from Enron to WorldCom led to a crackdown on corporate crime ... At the SEC, agency inves­ tigations that led to Justice Department prosecutions for se­ curities fraud dropped from 69 in 2000 to just 9 in 2007, a decline of 87 percent»246. iv) Long-termism. Occorre poi che il ri-disegno della re­ golazione si curi dell’equilibrio complessivo del sistema. Un passo opportuno dovrebbe perciò rendere tangibili disincen­ tivi normativi, anche di natura fiscale, al short-termism dif­ fuso nelle pratiche (e negli atteggiamenti culturali) dei mer­ cati finanziari. Per questi ultimi, infatti, dati come le per­ formance dei titoli (inclusi i fondi pensione e quelli sanitari), il valore delle materie prime, i documenti di bilancio da ren­ dere pubblici, le remunerazioni dei dirigenti, sono tutti fat­ tori da valutarsi secondo canoni e risultati temporali che cal­ pestano ogni prospettiva di lungo periodo, rendendo cosi, a tacere di ogni altra considerazione, drammaticamente pro­ ciclica la dimensione funzionale dei mercati - accelerando i moltiplicatori benefici in tempi di crescita e quelli malefici, non appena la rotta s’inverte247. Più in generale, le scelte dovrebbero intonarsi, non alla supina reattività alle fruste globali, ma alla necessità di un governo pro-attivo dei problemi, alimentando decisioni pub­ bliche in grado di calibrare la bilancia sul tempo che verrà e non solo su quello che ci viene dato. Non è del resto diffici­ le raggiungere la certezza che tanto più un’economia si ‘globalizza’, tanto più necessario diventa il rafforzamento degli interventi di natura sociale - ossia il più formidabile set di aiuti di stato leciti di cui un sistema può avvalersi -, inter­ venti che alla varietà di squilibri generati sulle economie in­ terne dall’apertura dei mercati sappia rispondere in maniera

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flessibile rispetto ai bisogni ed efficace rispetto alle perso­ ne248 - restando poi sempre da maturare la consapevolezza di come una generale e incisiva compressione delle diseguaglian­ ze interne possa fungere da volano effettivo alla crescita eco­ nomica di lungo periodo24’ (e al piu generale benessere della società in cui la diseguaglianza si attenua)250. v) Cerberi v. Volpi. Le regolazioni, inoltre, dovrebbero mostrarsi tenacemente flessibili nella capacità di incorpora­ re sotto il loro usbergo le mutazioni e le distorsioni che i sog­ getti regolati possono continuamente produrre. Un solo esempio: le parole del governatore della Banca d’Italia, pro­ nunciate al Senato italiano, in un intervento successivo allo scoppio della crisi. Qui saggiamente (anche per un giurista) si rileva che la « trasparenza richiede una drastica semplifi­ cazione e standardizzazione dei contratti; strumenti non standard sono, per natura, difficili da valutare»251. La storia della tipizzazione contrattuale mostra, tuttavia, come que­ sta scelta dia frutti accettabili, i.e. non distorsivi degli scam­ bi e non incentivanti l’elusione, quando il ventaglio dei tipi contrattuali è abbastanza ampio da permettere a utenti e con­ trollori del mercato di trovare punti di bilanciamento fra gli interessi delle parti all’interno di quella stessa offerta di ti­ pi, senza doverne forzare i contorni o la struttura252. L’elen­ co e i contenuti dei contratti dovrebbero allora essere sog­ getti a pre-stabilite revisioni periodiche, in modo da incor­ porare nella (e non spingere fuori dalla) regolazione le sollecitazioni che l’innovazione finanziaria, o le mutazioni del contesto globale in cui si muovono i mercati, possono produrre nel tempo. Detto poi che il linguaggio di questi con­ tratti dovrebbe essere reso accessibile anche a chi non abbia un PhD in finanza a Chicago, l’ulteriore questione rilevan­ te è, non solo ‘chi’ redige e revisiona questi tipi contrattua­ li, ma anche e soprattutto chi ne è giudice (e su questo pun­ to torneremo fra poco). vi) Il rating del rating. Discorso analogo meritano le rego­ le possibili per il governo delle agenzie di rating. Non è chia­

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ro se queste agenzie debbano restare imprese private o ve­ dere le proprie attività assunte, direttamente o indirettamen­ te, da istituzioni internazionali253. Quanto è certo è che re­ golare globalmente le procedure di attribuzione dei voti è ne­ cessario - fissando standard precisi, e revisionabili nel tempo, per inchiodare le agenzie che li violassero a danno di terzi a una responsabilità certa -, tanto quanto è necessaria una nor­ mativa globale di dettaglio sui conflitti di interesse, che con­ sideri tutti i fattori condizionanti (di natura economica, po­ litica, o d’altro genere) in grado di distoreere i risultati del­ le analisi e di far perdere alle agenzie l’equidistanza, tra coloro che sono oggetto delle valutazioni e i soggetti infor­ mati254. Sarà a quel punto che il controllo decentrato permes­ so dalle azioni di responsabilità per danni (tanto meglio se ‘collettive’)255 potrà rappresentare un efficace deterrente e una sanzione temibile nei confronti dei comportamenti de­ viami. vii) Giudici globali. Di piu: per tutte le attività finanzia­ rie che, a differenza di altre, esercitano un così capillare e tecnicamente omogeneo impatto a-territoriale, quanto do­ vrebbe essere ovvio è l’affermazione, a ogni livello, del sem­ plice principio ‘chi sbaglia paga’ - sottraendo così il discor­ so sulle responsabilità al magmatico argomentare in termini di ‘follia’, o di ‘sventura’, in cui lo si vuole immerso. Ecco perché auspicabile sarebbe l’istituzione di un network di cor­ ti256 dedicate allo scrutinio della responsabilità per danni che siano cagionati direttamente a chi, senza propria colpa, si af­ fida a, o utilizza, i risultati degli attori finanziari globali (le cui categorie andrebbero ovviamente pre-selezionate con pre­ cisione). Questa giurisdizione globale, operante sotto un’unica normativa sostanziale e procedurale, dovrebbe avvalersi di giudici indipendenti e tecnicamente adeguati, di provenien­ za volta a volta tanto plurale quanto esteso è il mercato di ri­ ferimento dell’operazione sotto esame, e la cui nomina, ad opera di Stati e istituzioni internazionali, dovrebbe avveni-

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re con procedure trasparenti, anche al fine di rendere possi­ bile che eventuali mancanze e responsabilità degli stessi giu­ dici possano imputarsi direttamente ai soggetti che li hanno prescelti. Tali corti dovrebbero giudicare della violazione di obblighi (va senza dirlo:) pre-definiti, obblighi che potreb­ bero essere individuati dallo stesso strumento di diritto in­ ternazionale che istituisce la giurisdizione. Le corti dovreb­ bero poi essere dotate di poteri di sanzione effettiva, di na­ tura certo amministrativa (blocco definitivo o sospensione delle attività), ma soprattutto pecuniaria, miranti a risarcire i soggetti danneggiati da quelle attività. Buffo o grottesco ri­ sulta infatti pensare che il vulnus al ‘buon nome’ arrecato mediaticamente o con l’inflizione di sanzioni amministrati­ ve (specie se di contenuto economico inferiore al profitto ge­ nerato dalle attività illecite) possa rappresentare un deter­ rente efficace in comunità in cui la reputazione è sempre in grado di risorgere come la fenice araba. Occorrono invece condanne risarcitone adeguate al danno prodotto, e attiva­ bili con azioni collettive aperte a tutte le vittime delle stes­ se violazioni - alle badanti della libertà d’impresa finanzia­ ria non occorrerà ricordare che in questi settori esiste da mol­ to tempo un rigoglioso libero mercato delle assicurazioni della responsabilità civile. Le sanzioni pecuniarie potrebbero poi essere pari a un multiplo (per 1.5-2) del danno cagionato, pe­ nalità che dovrebbe alimentare un fondo, in grado di risar­ cire anche i soggetti che si trovassero di fronte a convenuti insolventi o che, per qualche ragione tecnico-procedurale, non avessero accesso al giudizio risarcitorio.

7. Sotto il diritto, poco o niente. Tutte e ciascuna delle ipotesi appena abbozzate necessi­ tano di emendamenti e correzioni. Sotto tiro non merita però di finire l’approccio che rivendica la soluzione dei problemi generati dalla crisi alla dimensione giuridica formale, e glo-

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Capitolo sesto

baie, anche e soprattutto con riguardo alla capacità di deter­ renza e sanzione in chiave risarcitoria che quella soluzione consente. Le alternative a tale disegno risultano infatti solo due, nessuna delle quali appare dotata di pregi superiori a quella sopra richiamata. La prima alternativa consiste nel lasciare i mercati finan­ ziari al governo di quell’informalità che li ha resi così fre­ quentemente fragili (e dannosi), al più solleticandone l’amor proprio con i richiami a trasparenza, integrità e correttezza dei comportamenti. L’altra opzione è quella che colloca il punto di equilibrio fra utilità e svantaggi delle attività finanziarie nella loro sot­ toposizione a un controllo centralistico di tipo esclusivamen­ te tecnico-politico, affidato a qualche agenzia di vecchio o nuovo conio. Il problema è che questo genere di controlli a) esiste già pressoché ovunque, con i risultati che si sono vi­ sti, e che comunque b) quel genere di controlli, da attivarsi su scala globale, una volta privati di una protesi giudiziaria altrettanto globale, non si capisce con il braccio di quali isti­ tuzioni, quali tecniche, quali regole, possano garantire la de­ terrenza necessaria più efficace di quella odierna) nei confronti delle ‘cattive pratiche’ e, soprattutto, la tutela ope­ rativa dei diritti di chi a causa di quelle pratiche molto ha perduto. A tacer d’altro, la fiducia che investitori, risparmiatori, pensionandi ripongono nel sistema economico-finanziario e nella sua capacità di risarcire le vittime (innocenti) dei suoi misfatti dovrebbe essere uno dei tasselli essenziali nei nuo­ vi equilibri che andiamo cercando.

Capitolo settimo

Intermezzo. L’ambiguo declino dello Stato

i. Lo spacchettamento dell’interesse nazionale.

A seguito della crisi, da piu parti si chiede la messa in ope­ ra (di alcuni) degli interventi regolatori discussi nel capitolo precedente. Fin qui, tuttavia, al di là dei propositi buoni pro futuro, si è assistito all’accumularsi di tentativi di soluzione della crisi soprattutto mediante impiego di denaro pubblico, di provenienza nazionale - valendo ai nostri fini, e con spe­ cifico riguardo alle misure adottate negli Usa, l’attesa di co­ noscere come una Corte Suprema a orientamento maggio­ ritario repubblicano potrà vagliare le regolazioni di marca non-liberista divisate daU’amministrazione americana (un eventuale scontro non sarebbe inedito: dell’esperienza af­ frontata da F. D. Roosevelt, ai tempi del New Deal, abbia­ mo discusso nel Capitolo primo, § 4). Vero è, ad ogni modo, che il supporto dei contribuenti (tutti inclusi) allo scopo di togliere le società e le istituzioni finanziarie dai guai in cui si sono cacciate, e ci hanno trasci­ nato, si offre quale segnale e misura dell’accentuazione di due fenomeni: del grado d’integrazione raggiunto fra l’atti­ vità degli operatori globali e le singole micro-economie degli stessi cittadini; della torsione impressa al ruolo dello Stato da quella stessa integrazione. E bene intendersi, però. Si trat­ ta di ‘accentuazioni’, perché neppure queste sono novità di cui accreditare la crisi finanziaria. Da tempo, il commercio, il valore della moneta, dei mu­ tui, l’ambiente, la navigazione marittima e quella aerea, lo sfruttamento delle risorse marine, la pesca, l’agricoltura, l’a­ limentazione, le telecomunicazioni, la proprietà intellettua­

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Capitolo settimo

le, l’uso dello spazio e delle fonti di energia, oltre che ovvia­ mente la finanza, sono oggetto di una disciplina largamente denazionalizzata: ossia non determinata né esclusivamente dipendente dallo Stato, ma da centri di produzione delle re­ gole dislocati nelle arene regionali e globali. Di questi feno­ meni, come risultanti dell’aspirazione uniformatrice del di­ ritto, abbiamo già fatto cenno. Di alcuni dei problemi ge­ nerati dalle attività dei produttori di diritto globale del­ l’economia torneremo a occuparci nel capitolo successivo. Qui preme soprattutto segnalare che si tratta di organi di re­ golazione le cui determinazioni incidono in profondità sugli ordinamenti domestici, talora attraverso il filtro dell’inter­ vento statale, necessario alla loro esecuzione, talvolta attra­ verso l’interazione sempre più marcata fra organi giudiziari statali e globali2”, altre volte ancora direttamente, senza bi­ sogno di intermediazioni258. E così che i cc.dd. ordini globali finiscono per forgiare, sotto il profilo economico, le scelte degli stessi attori statua­ li, disaggregando le funzioni tradizionalmente proprie a que­ sti ultimi in uno spettro di agende e interessi fra loro diver­ sificati, a seconda delle differenti materie, e sottoponendo alle medesime tensioni la stessa idea di «interesse naziona­ le»259. Una nozione, quest’ultima, ovviamente esposta allo spec­ chio degli altrui interessi nazionali, ma anche di quelli regio­ nali (per noi, in primis la UE), come definiti dalle interrela­ zioni e dalle sfide che si aprono a livello globale. Una nozio­ ne, quella di interesse nazionale, ormai facilmente scom­ ponibile in una varietà di preferenze e istanze settoriali, con­ tinuamente ri-costruite all’interno di ciascuno Stato attra­ verso processi di negoziazione non sempre trasparenti e de­ bitori di politiche spesso (solo) contingenti. Gli esempi sono numerosi. A tacere di come i tessuti socio-economici delle varie comunità statuali siano attraver­ sati dalle attività e dalle istanze di circa 82 mila multinazio­ nali - i cui dipendenti ammontavano nel 2008 a 77 milioni

Intermezzo. L’ambiguo declino dello Stato

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di unità (più del doppio dell’intera forza lavoro della Ger­ mania)260 -, si pensi ai conflitti fra gli interessi che sostengo­ no: i produttori locali di beni e i consumatori di beni impor­ tati; i produttori o distributori di energia261 e gli utenti del­ l’ambiente; gli ambientalisti e i lavoratori dell’industria; le aggregazioni industriali e i loro dipendenti; le aggregazioni bancarie e (di nuovo i loro dipendenti, oltre che) i clienti lo­ cali; i fautori di incisive politiche di concorrenza (possibil­ mente coordinate a livello globale) e i sostenitori di queste o quelle eccezioni, legate a esigenze locali/nazionali262. Oppu­ re si ponga mente, più in generale, agli interessi dei settori economici che vivono ancora al riparo dagli effetti, e dalle crisi, della globalizzazione giuridica ed economica e, per con­ verso, agli interessi degli attori che al vento di queste ultime sono esposti, procedendo o sbandando. La mediazione fra queste istanze non è un gioco a som­ ma zero, ossia senza perdenti né vincitori, e la loro sintesi è ovviamente il compito di qualsiasi governo. Il punto è che il raggio d’azione lasciato all’elaborazione di quella sintesi è drammaticamente limitato proprio dalla maglia di vincoli giu­ ridici ed economici dettati dagli ordini ultrastatuali, regio­ nali, globali.

2. Lo Stato come abitudine.

E da quest’ultima prospettiva che ben si coglie l’ennesi­ ma e progressiva trasformazione dello Stato, quanto meno nella sua forma conosciuta in Occidente263. Il mutamento, già lungamente in atto, è quello che ha per oggetto - non già il superamento, ma - la valorizzazione del ruolo dello Stato in termini di agenzia, pubblica e locale, per un ordine econo­ mico che lo trascende. Si tratta di un modello di organizza­ zione che può chiamare vicino quello dell’indirect rule264, con cui l’impero britannico amministrava le proprie colonie, fa­ cendo affidamento su governanti o intermediari indigeni. Ma

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Capitolo settimo

certo è - con le rifiniture di cui si darà conto nel capitolo suc­ cessivo, circa la capacità di orientare i fenomeni da parte di alcune entità - che oggi il ruolo dello Stato in ambito econo­ mico è assai distante da quello veicolato nei dibattiti interni. All’interno di una logica di integrazione delle economie, che in Occidente è da tempo inevitabile realtà, lo Stato si fa cogliere sempre più spesso come il soggetto che, grazie al do­ mestico monopolio del potere normativo/sanzionatorio (e, talora, grazie alla proiezione esterna della propria forza mi­ litare), è chiamato a monitorare l’implementazione, non im­ porta quanto variegata, di valori e principi degli ordini glo­ bali2". E un fenomeno266 le cui puntuali modalità di sviluppo me­ riterebbero ovviamente una trattazione a sé, ma il cui con­ tenuto essenziale va qui rimarcato. In effetti, detto che per emergenze altrettanto globali e non meno calamitose - di na­ tura ambientale o umanitaria, incluse quelle connesse alla fa­ me e alla povertà - non si registrano investimenti anche lon­ tanamente paragonabili a quelli profusi nazionalmente e in­ ternazionalmente per reagire alla tempesta finanziaria, la funzione delegata dello Stato non si tarda a scorgere pure ai tempi della crisi attuale. La tensione fra coordinamento delle regolazioni globali e interventi domestici trova sintesi nella selezione degli inte­ ressi da proteggere prioritariamente (con denaro pubblico) e quelli da considerare in subordine (infliggendo nel frattem­ po costi privati). I primi sono quelli ritenuti immediatamen­ te funzionali al mantenimento dell’ordine economico-finanziario globale, i secondi tendono a essere - quando non col­ ti nella loro propulsiva funzione di ‘lungo termine’ {supra, Cap. sesto, § 6) - quelli ancorati alla dimensione domestica, dei servizi al cittadino, delle safety net, dell’istruzione e de­ gli altri beni pubblici locali267. In mezzo ritroviamo le misu­ re protezionistiche, paventate o adottate, con la loro vasta articolazione possibile, con la loro efficacia da verificare, con la loro certa selettività - ricette, peraltro, storicamente gra­

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vate dal fardello del loro fallimentare impatto sulle stesse economie nazionali, allorché furono attivate in risposta alla crisi degli anni ’30268. E vero che fra i due livelli estremi può non esservi una cesura secca: come si è detto, il corretto fun­ zionamento dei mercati globali, anche finanziari, impatta di­ rettamente su un gran numero di utilità essenziali alla vita di ogni cittadino (dal cibo alle pensioni, dal costo dei beni e servizi importati, a quello dei mutui, al valore degli immo­ bili). Ma il punto resta che il governo statuale delle dinami­ che interne, circa le priorità e gli stessi contenuti delle scel­ te, è destinato a sempre meno comandare e a sempre piu su­ bire lo stiletto della globalizzazione dell’economia e della finanza, a vestire sempre meno i panni del rule-maker e sem­ pre più spesso quelli del rule-taker. Al cospetto degli ordini economici, insomma, lo Stato ri­ schia ormai di rivelarsi una struttura bensì preziosa, ma so­ prattutto se compresa in chiave di path-dependency: da un lato, quale entità tuttora utile all’implementazione e prote­ zione degli interessi globali; dall’altro lato, quale struttura che è assai meno costoso mantenere cosi come è (se del caso erodendone dall’esterno i confini) che sostituire in tempi brevi.

3. Localismi.

Un’osservazione e una precisazione a questo punto s’im­ pongono, entrambe alle frontiere con la banalità. L’osservazione concerne una ricaduta del discorso appe­ na svolto sul farsi delle politiche domestiche. Se è vero che nei fattori di produzione delle scelte lo Stato viene sempre più spesso sostituito, o affiancato dall’ordine globale (o re­ gionale), altrettanto vero è che quest’ultimo continua a es­ sere percepito dalla gran parte dei cittadini come potente e lontano, promettente o nefasto, ma sostanzialmente amorfo, gelatinoso e opaco. Non può allora sorprendere che la parti­

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Capitolo settimo

ta, per tutti cruciale, del senso della propria attività e dei confini della propria identità, individuale o collettiva, possa radicalizzarsi, fuori e dentro l’Occidente, esprimendo visio­ ni profondamente debitrici del locale, del proprio (credo, po­ polo, territorio), e caricate di forti connotati simbolici che finiscono con l’orientare anche il discorso pubblico e le pre­ ferenze politiche - le quali divengono sempre piu permeabi­ li alla penetrazione di strategie orientate alla diffidenza, al sospetto, alla paura, circa qualsiasi differenza, novità, o al­ terità. La precisazione vale a sottolineare, nuovamente, che quanto abbiamo sopra tratteggiato è il ruolo dello Stato nel governo dell’economia. La sua erosione potrà incidere sulle sue future configurazioni e sull’espletamento delle altre fun­ zioni che allo Stato post-westfaliano si è soliti attribuire, ma nulla di quanto precede può scalfire l’odierna evidenza di co­ me lo Stato sia - fra l’altro - il custode maggiore dell’oriz­ zonte linguistico (talora plurale) entro il quale i cittadini eser­ citano il proprio diritto a informarsi ed esprimersi26’, così co­ me primario resta il ruolo dello Stato, col suo interno monopolio della forza, nella generale selezione del lecito e dell’illecito, nonché quale fornitore primario di sicurezza fi­ sica per gli individui e i loro beni (e, possibilmente, come sponda territoriale per chi cerca asilo e diritti altrove concul­ cati). Allo stesso modo, ovvio è che lo Stato, insieme ai suoi apparati giudiziari, risulta tuttora per i cittadini il termina­ le maggiore delle dispute sui propri diritti civili sociali e po­ litici (nonché su quelli ‘umani’, per i quali si veda infra Capp. 10-13) - dispute che peraltro si rivelano sempre piu spinose, e non indifferenti allo sviluppo della nostra democrazia, di fronte alla già ricordata incidenza dei fenomeni economici globali sui margini di manovra dei bilanci, e sulla loro capa­ cità di allocare diritti ‘costosi’270. Tutto questo non è in discussione. Anzi, in una prospet­ tiva diversa dalla nostra, vasto si aprirebbe lo spazio per svi­ luppare la riflessione su quanto rudemente la nozione neo­

Intermezzo. L’ambiguo declino dello Stato

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liberale di Stato minimo e deregolato sia stata travolta dalla medesima ideologia che ne aveva promosso le virtu e che ha prodotto la crisi recente, con le sue onnivore ricadute nor­ mative a livello domestico, spesso marcate dall’ampliamen­ to del raggio d’azione dei poteri pubblici, a scapito di quel­ li privati271. Sulla direttrice propria al nostro discorso, rileva invece una diversa serie di questioni, che, oggetto del capitolo suc­ cessivo, riguardano tutte fenomeni interni ai meccanismi di produzione e applicazione delle regole globali.

Capitolo ottavo

Rule-makers e rule-takers. Il caso del commercio globale

i. Poteri' dispari, poteri irresponsabili.

Nella visuale del confronto con la classica verticalità del­ l’immagine dello Stato, le regolazioni globali tendono a es­ sere rappresentate come una rete orizzontale, piatta272. Vista da più vicino, quella maglia regolatoria segna invece un am­ pliamento del ricorso agli strumentari del diritto ‘di auto­ rità’, fra ‘diseguali’. E un’osservazione corroborata dall’esa­ me di tre dati rilevanti. In primo luogo, è sotto gli occhi di tutti che le interdi­ pendenze economiche e le copperazioni, militari, commer­ ciai, tecnologiche, giuridiche, che corrono a differenti livel­ li e fra attori volta a volta diversi, sono fenomeni che non impattano su quegli stessi attori con benevola indifferenza. Essi conducono per un verso, come si è detto nel capitolo precedente, a una generale perdita di autonomia per gran parte dei soggetti statuali. Per altro verso, i medesimi feno­ meni finiscono per offrire ad alcuni Stati (Usa, Cina) e agli attori economici più forti - WB, IMF, multinazionali, la stes­ sa UE -, rispettivamente, un’estensione e un’iniezione di so­ vranità275. Ciò che si deve a) alla loro incisiva capacità d’in­ fluire sulla produzione di diritto globale, formale e informa­ le (quello che si produce attraverso regole leggibili negli strumenti normativi ‘ufficiali’ e quello che si produce attra­ verso l’esercizio della diplomazia del potere)274. Ciò che si de­ ve b) al. condizionamento esercitato, proprio per tal via, sul­ le scelte degli attori economicamente più deboli, e nondime­ no risucchiati sul piano di quelle interdipendenze, di quegli scambi e di quelle cooperazioni - legami che certo è possibi­

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le allentare, ma non recidere, se si vogliono evitare ritorsio­ ni ad opera dei soggetti più forti, o rovesci economici inter­ ni, politicamente delegittimanti 2”. In secondo luogo, la frammentazione di regolatori e dici­ tori del diritto (agenzie e tribunali globali) si spalma su una estesa varietà di livelli, geografici e settoriali276, ma il pano­ rama attuale sconta l’assenza di meccanismi gerarchici di con­ trollo e di sanzione, posti ‘al di sopra’ di quegli attori277. Per questi ultimi, nonostante il loro capillare impatto sulle scel­ te di vita degli individui, sulle attività delle imprese, sulle politiche degli Stati, non vi è alcuno strumento in grado di determinarne la accountability, ossia che ne misuri i risulta­ ti e, soprattutto, ne sancisca le eventuali responsabilità, quan­ to meno giuridiche (a quelle politiche veniamo subito)278. In terzo luogo, essendo il diritto globale formato da più regimi diversi, separati e autonomi, ciascuno con le proprie regole di merito e procedurali, esso manca di principi di am­ pia portata, che possano essere applicati a tutti i regimi. Ba­ sterà ricordare che, in assenza di un «regolatore» superiore, nello spazio giuridico globale finisce coll’essere incerta per­ sino l’attribuzione di una controversia a uno o ad altro regi­ me regolatorio: un caso riguardante il trasporto per nave di sostanze pericolose, ad esempio, potrebbe essere assunto co­ me problema attinente al trasporto marittimo, oppure al di­ ritto del mare, o alla tutela dell’ambiente, oppure al commer­ cio, ed essere conseguentemente sottoposto a regolamenta­ zioni differenti a seconda dei criteri di qualificazione27’. E un dato questo che permette di comprendere anche la ragio­ ne per cui all’ora attuale non sia sempre agevole individua­ re in concreto lo stesso pubblico, o i ‘pubblici’280, ai quali i diversi regolatori globali, per il settore di loro competenza, dovrebbero essere chiamati a rispondere politicamente, del proprio operato («What we can say with confidence is that, today, while there are fragmentary global publics, a genuine global public comparable to publics in well-established de­ mocracies does not exist»)281.

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Capitolo ottavo

Proprio alla luce di quanto precede, va sottolineato, paio­ no mal istradate le ricorrenti discussioni circa l’effettiva le­ gittimazione (in ispecie democratica) delle istituzioni globa­ li282. Un dibattito che muove dall’equivoco di ritenere che so­ lo la rappresentatività e non anche il diritto - ossia il corpo di regole condivise della comunità di riferimento - sia forma di legittimazione del potere28’. Un dibattito che andrebbe rifornito di dati ulteriori, di vario ordine, fra i quali sicura­ mente: quello che rileva la natura privata, o solo semi-pubbli­ ca, di alcuni dei regolatori (si veda subito oltre); e quello che evidenzia come anche le Ong, potenti attori globali, che ta­ lora affiancano talora contrastano i regolatori, si espongono alle medesime critiche in punto di rappresentatività democra­ tica284. Ma fra i rifornimenti attesi vi è pure quello, cruciale, che dovrebbe chiarire al dibattito sulle istituzioni globali co­ me il punto non sia tanto il perseguimento di una legittima­ zione che sia mimesi di quella delle democrazie domestiche285, quanto la promozione di un disegno che, settore per settore, vale ribadirlo, porti alla definizione di regole certe di traspa­ renza e di accountability, ossia regole chiare (ed effettive) da porre a carico di qualunque istituzione globale, e in grado di apprezzarne i risultati, nonché di chiamarle (nei confronti di soggetti privati e pubblici pre-definiti) a rispondere, giuridi­ camente o politicamente, delle loro condotte e degli eventua­ li pregiudizi arrecati nei settori di intervento286. Ciò che dovrebbe valere, va da sé, anche nelle numerose aree di regolazione affidate a organismi di natura privata o ibrida (nel senso che possono godere di uno statuto privati­ stico e al contempo vedersi partecipati direttamente o indi­ rettamente da amministrazioni nazionali), ove si registrano le stesse carenze di sistematicità e gli stessi loro frutti dispa­ ri e asimmetrici. Anche qui gli esempi abbondano. Oltre al clamoroso ca­ so delle agenzie di rating su cui ci siamo già intrattenuti, sarà sufficiente il richiamo all’International Organization of Standardization (ISO) che adotta migliaia di standard tee-

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nici, volti ad armonizzare processi o prodotti e utilizzati nel­ la propria attività regolatoria dalla stessa WTO; alla Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunications (SWIFT), che fissa i codici di identificazione bancaria uti­ lizzati nelle transazioni internazionali e a loro volta adotta­ ti dall’ISO; o allTCANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), che svolge numerose attività di ge­ stione relative alla rete Internet mondiale, e in particolare si occupa dei protocolli tecnici e della gestione dei nomi a dominio287. Si tratta di organismi nei cui confronti è generalmente friabile il controllo politico, anche (grazie alla loro frequen­ te scarsa trasparenza) quello indiretto, esercitabile dagli elet­ tori degli Stati membri delle istituzioni internazionali. Si tratta di organismi sottoposti a un regime di responsabilità giuridica (civile e pubblica, domestica e transnazionale), che dovrebbe, proprio in virtù dell’assenza di responsabilità po­ litica, essere estremamente severo, e invece risulta assai fa­ rinoso, e del tutto inadeguato alla misura di potere e di li­ bertà d’azione di cui essi godono288. Ancora una volta: pote­ ri amplissimi, responsabilità ridottissime.

2. Grazio e la WTO. Tutte queste enclave di irresponsabilità, asimmetrie e di­ sparità di trattamento hanno prodotto dibattiti numerosi, centrati però, come si è detto, soprattutto sulla democrati­ cità delle istituzioni globali, sulla critica alla diffusione di ‘self-contained regimes’ o sull’ingovernabilità della loro at­ tuale matassa28’. Oltre a quello dell’accountability delle stes­ se istituzioni, l’altro dato che qui s’intende sottolineare at­ tiene invece ad alcuni dei pregiudizi su cui l’impianto di quei regimi si fonda e ad alcuni ulteriori squilibri cui quegli stes­ si regimi possono dar corso. Solo a quel punto sarà possibile comprendere anche - ma

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Capitolo ottavo

non è un profilo secondario - se pregiudizi e squilibri siano ritenuti funzionali agli interessi di chi se ne avvale e, qualo­ ra fosse così, se allora si tratti di interessi ebbri di valutazio­ ni di breve periodo, oppure sobriamente volti a includere le sfide poste dal tempo a venire. A sgomberare il terreno da perniciose naiveté, occorre in­ tendersi. Che il diritto internazionale sia una fucina di solu­ zioni in rapporto saldo con gli interessi di chi le propone, è un dato acquisito da tempo. Basti qui ricordare come uno dei fondatori del moderno diritto internazionale, l’olandese Hu­ go Grotius (de Groot), al tempo in cui i Paesi Bassi dipen­ devano dal commercio marittimo e dovevano fronteggiare la temibile concorrenza di Spagna e Portogallo, mercé una con­ sulenza prestata al proprio paese scrivesse il celebre Mare li­ berum (1609), in cui concludeva che la libertà dei mari fos­ se un principio di diritto naturale290. Mentre qualche decen­ nio più tardi, allorché l’Inghilterra cominciava ad affermare la sua egemonia marittima, un altro famoso giurista, inglese questa volta, John Selden (chiamato da Giacomo I a patro­ cinare contro l’Olanda le rivendicazioni inglesi sul Mare del Nord e il Nord Atlantico), ritenne scientificamente ineludi­ bile difendere la tesi opposta a quella di Grotius, nell’altret­ tanto celebre Mare clausum (1635). L’opera, peraltro, cono­ sce la sua prima edizione in lingua inglese nel 1652, solo un anno dopo l’Atto di Navigazione di Cromwell, che aveva li­ mitato esclusivamente alla flotta inglese il traffico commer­ ciale con l’Inghilterra291. Non molto è cambiato, nel corso dei secoli. Come abbia­ mo ricordato con riguardo agli usi strategici della rule of law, ancor oggi gli attori più forti e carismatici sullo scenario in­ ternazionale promuovono soluzioni che si vogliono globali, ma sono elaborate dai propri giuristi e propagate con indif­ ferenza rispetto, non solo alla diversità dei sistemi giuridici e degli assetti socio-economici esistenti, ma anche alla va­ rietà possibile del loro divenire. Quel diritto ‘globale’ è poi chiamato a operare nelle diverse arene con lessico e impalca­

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ture tecniche di matrice occidentale, senza che i suoi artefi­ ci siano, il più delle volte, sottoposti a obblighi e controlli, circa le ragioni e le modalità di bilanciamento degli interes­ si volta a volta in gioco (e alle eventuali conseguenti respon­ sabilità), che in Occidente rappresentano invece pilastri fer­ mi nella produzione, esecuzione, e amministrazione del di­ ritto2’2. Siamo allora di fronte a una duplice linea di frattura: tra fenomeni in corso e nostra capacità d’interpretarli, nonché fra i valori fondanti la tradizione giuridica occidentale, al cui interno germinano gran parte degli attori globali, e il diritto che quegli stessi attori producono2”. Gli aspetti operazionali di quanto siamo venuti esponen­ do possono essere illustrati da tre esempi, attinenti al fun­ zionamento del regime giuridico del commercio, ossia uno dei modelli globali per eccellenza.

3. Diritto del commercio iniquo e poco solidale.

II primo esempio riguarda il c.d. dumping sociale. Con l’e­ spressione si designa il noto fenomeno che vede alcuni pae­ si esportare beni prodotti in condizioni e con metodi poco rispettosi degli standard riconosciuti internazionalmente a protezione dei lavoratori. Più in particolare, il riferimento va alle merci provenienti da paesi che li producono a costi sensibilmente inferiori a quelli del mercato euro-americano, ciò che si imputa allo sfruttamento del lavoro minorile o al­ la mancanza, in capo ai datori di lavoro, di significativi ob­ blighi assistenziali e previdenziali nei confronti dei lavora­ tori2”. Questi Stati sono ritenuti operare una concorrenza sleale nei confronti dei produttori degli altri paesi e mettere a repentaglio gli standard di protezione dei lavoratori negli stessi paesi importatori, all’interno dei quali, si dice - con tassi di innocenza assai variabili -, il rischio è di determina­

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re, per via delle dinamiche competitive globali, l’innesco di una corsa verso la riduzione di quegli stessi standard2”. Al fine di contrastare questo ‘social dumping’, si tenta di affermare la cogenza di regole internazionali (e.g. gli artt. VI e XX, lett. b) ed e) del GATT 1947)2’6, che si vorrebbero in­ clusive dei cc.dd. Core Labour Standards; ovvero: a) libertà di associazione e riconoscimento effettivo del diritto di con­ trattazione collettiva; b) eliminazione di ogni forma di lavo­ ro forzato od obbligatorio; c) abolizione effettiva del lavoro infantile; d) eliminazione della discriminazione in materia di impiego e professione2”. La violazione di questi standard fa­ rebbe allora scattare la possibilità di comminare sanzioni commerciali a titolo di ritorsione, sub specie di imposizioni tariffarie, restrizioni quantitative alle importazioni o revo­ che di precedenti concessioni di vantaggi commerciali2’8. Ora, non è difficile comprendere quanto strumenti del genere riescano a servire con precisione gli interessi occiden­ tali, delle sue imprese (soprattutto quelle che non si sono do­ tate di una struttura multi-nazionale)2”, nonché dei suoi la­ voratori, ai quali per il vero le proprie (s)fortune sono soven­ te rappresentate come dipendenti dalle globalizzazioni dei mercati e dai fenomeni migratori, in misura assai maggiore di quanto quelle stesse sorti siano in effetti legate alle con­ crete politiche che potrebbero essere attuate a livello dome­ stico - in ispecie quelle della formazione, della ricerca, del­ l’innovazione, del lavoro e della sicurezza sociale500. Quanto è ad ogni modo sicuro è che il nostro (variabile) conglomerato di regole poste a protezione dei lavoratori rap­ presenta una conquista relativamente recente, di cui l’Occidente e le sue economie hanno fatto a meno per lungo tem­ po. Altrove la situazione è diversa, e - a esclusione del lavo­ ro forzato, e delle vessatorie (nel contesto dato) forme di sfruttamento - la rivendicazione di quegli standard finisce spesso per equivalere alla compressione della stessa aspira­ zione al sostentamento, prodotto dal lavoro: vuoi perché il mercato locale può fornire altri lavoratori che di quella pro-

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tezione sono pronti a fare a meno, vuoi perché l’imprendi­ tore non può alzare i costi di produzione dei suoi beni o ser­ vizi senza il rischio di estromettersi dal mercato”1. É questo quanto si mira a realizzare coll’eliminazione del ‘dumping’ sociale ? E la sincronia forzata dei fenomeni a fungere da paradig­ ma delle nostre (valut)azioni ? Di più - e più cinicamente un atteggiamento del genere è funzionale ai nostri interessi di lungo, e breve periodo ? Al netto delle opzioni politiche soggettive, alcuni dati sembrano sottratti al dubbio. a) Scaricare sui lavoratori occidentali i costi della globa­ lizzazione, senza munirli di salvaguardie adeguate; così come invocare il ‘social dumping’ nei confronti di imprese e lavo­ ratori non occidentali, senza costruire attorno ad essi - e, vi­ sti i valori in gioco, nel più breve tempo possibile - una re­ te di accompagnamento all’uscita dalle pratiche più odiose, composta di incentivi (e non di sanzioni, che finiscono col colpire soprattutto la parte di popolazione più debole), sen­ za costruire una rete fittamente intessuta di maglie giuridi­ che e socio-economiche di supporto all’imposizione di que­ gli standard, ammonta - nella migliore delle ipotesi - a una patente manifestazione di inconsapevolezza dei, e indiffe­ renza per i, problemi che si vorrebbero risolvere”2. Nella peg­ giore delle ipotesi si tratta invece del perseguimento di una logica difensiva, da fortezza assediata, che finisce col non coltivare: ai) né gli interessi immediati dei nostri sistemi economi­ ci, illudendoli che i problemi vengano dalle altrui politiche del lavoro, cosi riducendo nel breve periodo la reattività del sistema (e la responsabilità politica di chi lo guida); ai) né gli interessi nostri di lungo periodo, rendendo cie­ chi i nostri sistemi al fatto ovvio che le geograficamente ir­ regolari logiche dello sviluppo, economico e giuridico, han­ no sempre generato ‘social dumper’ (come la nostra storia in­ segna) e che sempre nuovi ne potranno sorgere; cosicché le

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soluzioni andrebbero trovate non al di là, ma di qua delle frontiere, nostre e altrui, nazionali o regionali. Senza dire b) che è proprio l’Occidente a mascherare die­ tro argomenti come quello del ‘dumping sociale’ ciò che in realtà finisce per ammontare a un vasto e capillare progetto di dumping culturale, con il quale si mira a vendere a un prez­ zo molto inferiore rispetto a quanto ci siano costati: il libe­ ro mercato, gli standard di sicurezza e di protezione dei la­ voratori e i relativi apparati giuridici.

Il secondo esempio si pone paradossalmente503 allo spec­ chio del primo e riguarda le procedure di gara dettate in am­ bito WTO dal Government Procurement Agreement (GPA), stipulato nel 1994. Ideato a sostegno della libera circolazio­ ne delle forniture e dei servizi, l’accordo stabilisce che la scel­ ta dei contraenti debba avvenire attraverso bandi di gara aperti, in condizioni di uguaglianza e di trasparente concor­ renza. Tali principi, una volta sottoscritti, devono essere applicati anche dal paese in cui, per ipotesi, i contratti di ap­ palto pubblici sono utilizzati al fine di perseguire obiettivi speciali, quali lo sviluppo di aree, o di comunità, storicamen­ te penalizzate in termini socio-economici. In Malesia, ad esempio, esistono da tempo normative mi­ ranti a sradicare la povertà e riorganizzare la società, anche al fine di rimuovere la tradizionale identificazione dell’etnia con i mestieri esercitati dai suoi membri. Queste leggi, fra l’altro, riservano quote per le licenze commerciali e per la proprietà delle imprese, oltre che regimi e prezzi preferen­ ziali, a favore delle attività della popolazione indigena, i Bumiputera. Di qui, la difficile compatibilità della normativa locale con quella posta dal GPA, e di qui la questione indi­ rizzarsi sulla (affollata) linea di collisione fra le astratte esi­ genze del commercio mondiale e i concreti bisogni locali, vol­ ti in questo caso ad attuare politiche distributive a favore di gruppi determinati. La Malesia si trovava in effètti di fronte all’alternativa di

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chiedere deroghe ad hoc per i Bumiputera; sottostare alle pressioni provenienti da governi e imprese (specialmente) oc­ cidentali, pressioni peraltro frequenti soprattutto nel setto­ re delle infrastrutture e volte a disapplicare per questo o quel­ l’appalto le clausole di protezione sociale previste dalle nor­ mative locali (alcune delle quali, come abbiamo visto, si vorrebbero di contro implementare allorché la loro assenza minacci gli interessi delle domestiche imprese occidentali)504; oppure, scelta effettivamente abbracciata, non aderire al Government Procurement Agreement505. Esiti del genere rappresentano una lacerazione nell’ordito del libero commercio mondiale, strappi che sono generati pro­ prio dalla difficoltà dei tessitori globali di elaborare punti di equilibrio fra le loro ragioni e quelle delle variegate realtà lo­ cali506. Proviamo difatti a interrogarci se sia accettabile che re­ gole giuridiche etero-imposte restringano l’agenda di poten­ ziamento - nei paesi in via di sviluppo - delle opportunità eco­ nomiche di gruppi, aree o comunità svantaggiate. Qualunque sia la risposta, proviamo a chiederci chi sono gli attori che nel breve periodo beneficerebbero dell’adozione, da parte di quei paesi, delle regole del GPA. Se la risposta sono le imprese oc­ cidentali, proviamo infine a domandarci quale relazione ci sia fra il tentativo d’imporre quelle regole e il declamato obietti­ vo di sostenere lo sviluppo delle economie piu deboli507. Non sfugga peraltro che i negoziati sull’adesione dei pae­ si non occidentali al GPA è stato fin qui marcato dallo sfor­ zo d’imporre a questi ultimi - in nome della trasparenza del­ le procedure - anche una serie pre-definita di rimedi giuri­ sdizionali a favore dei soggetti esclusi dall’aggiudicazione degli appalti. Misure le quali - una volta considerato che la loro apparente neutralità è volta soprattutto a tutelare le im­ prese occidentali dal rischio di esclusione dagli appalti - non dovrebbe sorprendere siano state respinte come ingiustifica­ ti tentativi di colonizzazione giuridica, anche da paesi non appartenenti al girone infernale della derelizione, quali il Pakistan, l’Egitto, l’india, la Cina508.

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Beninteso, alcune delle questioni fin qui richiamate pos­ sono affacciarsi sulla scena domestica di molti dei paesi oc­ cidentali (si pensi al Meridione italiano, alla Corsica, alla Germania orientale50’, ma anche al Canada, agli Stati Uniti, all’Australia)510. Altrettanto sicuro è però che: a) scampa a ogni retorica il dato che segnala come al GPA aderiscano 41 soggetti contro i 153 aderenti alla WTO; b) per i paesi ‘svi­ luppati’ il ricorso all’eccezione non impedisce l’adozione del corpo generale di regole (in questo caso: del GPA) che le no­ stre élite hanno forgiato a misura della nostra civiltà e delle nostre tecnicalità giuridiche, nonché dei nostri interessi eco­ nomici; c) nelle nostre società il tasso di sviluppo complessi­ vo dei sistemi, nonché la profonda integrazione fra le econo­ mie nazionali, inquadra il più delle volte le stesse questioni in un contesto che si profila diverso e, (sia pur solo) compa­ rativamente, meno drammatico di quello che può determi­ narsi fuori dall’occidente511. Ecco perché le conclusioni si ri­ flettono proprio nello specchio di quelle delineate a propo­ sito del ‘dumping sociale’, e che ritroveremo anche più avanti: con un Occidente che rischia di rivelarsi talmente li­ gio ai propri dogmi, e alle proprie lobby, da perdere di vista la diversificata proiezione dei propri interessi, nel medio e nel lungo periodo, interessi che non possono essere volti che a favorire uno sviluppo geograficamente il più esteso ed equi­ librato possibile, interessi che sono certo ulteriori e più com­ plessi di quelli degli appaltatori odierni. Il terzo esempio concerne le modalità attraverso le quali vie­ ne garantito l’enforcement del diritto globale del commercio. In generale, esistono modi tra loro assai diversi per con­ segnare efficacia alle decisioni dei regolatori globali e degli organi deputati a dirimere le controversie, che da quel dirit­ to sorgono. Più in particolare, è da tempo nota al dibattito la distinzione fra modalità formali e modalità informali di rendere effettive le determinazioni dei decisori globali512. Le prime si fondano, per l’essenza, su strumenti giuridici pre-

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disposti ex ante, che attribuiscono a un’istituzione terza il potere di imporre sanzioni all’inadempiente. Di contro, e con riguardo alla ricca articolazione delle modalità informali, un esempio per noi rilevante si ha quando a imporre direttamen­ te costi o sanzioni, su chi ha infranto la data regola, è lo Sta­ to che ne ha subito le conseguenze, il quale si determina a ciò autonomamente, facendo ricorso al proprio potere economico-politico515. Cadendo ovviamente al di là del perimetro della nostra riflessione i dettagli propri a ciascuna istituzione globale, qui preme sottolineare che le modalità informali risultano, no­ nostante talune narrazioni514, sostanzialmente prevalenti pro­ prio nel cruciale e sofisticato regime giuridico disegnato dal­ la WTO515. All’interno di quest’ultima, esiste invero un autonomo e complesso sistema di risoluzione delle controversie, previsto dall’AUegato 2 all’Accordo WTO (Understanding on rules and procedures governing the settlement of disputes), comunemen­ te indicato come Dispute Settlement Understanding, o DSU. Tramite il DSU si è creato un procedimento atto ad ammini­ strare le liti insorte fra gli Stati membri della WTO in sede di applicazione dei vari accordi multilaterali conclusi sotto l’egida di questa organizzazione. Assai in breve: s’inizia con l’apertura di consultazioni e negoziati fra le parti. Se gli stru­ menti consultivi non conducono ad alcun risultato ciascuna delle parti in lite può chiedere la costituzione di un panel di esperti (art. 6 DSU). Il panel opera come un collegio arbitra­ le e termina i propri lavori con la pronuncia di un report, la cui adozione spetta al Dispute Settlement Body (DSB), ossia all’organo competente a vegliare sull’applicazione del DSU (art. 16 DSU). Contro il report è possibile proporre impugna­ zione dinanzi a un organo d’appello, composto da sette mem­ bri permanenti, competente a esercitare una giurisdizione di mera legittimità sulle decisioni adottate dal suddetto panel (art. 17 DSU) - anche la pronuncia di quest’organo è sotto­ posta al DSB per l’adozione definitiva.

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Ciò detto, il DSB non ha il potere di far eseguire la deci­ sione adottata. Esso può solamente autorizzare e controlla­ re la reazione di un paese nei confronti di un altro, svolgen­ do una funzione arbitrale. Le sanzioni sono in effetti appli­ cate a livello bilaterale, tra la parte che ha richiesto e quella che ha subito la condanna, potendo la prima nei confronti della seconda, e sia pure sotto il controllo degli organi giuri­ sdizionali della WTO, applicare financo misure ritorsive (le cc.dd. retaliatory measures)316. In particolare, gli artt. 21-23 del DSU prevedono che la parte giudicata inadempiente317 sia obbligata ad avviare negoziazioni con la parte che ha inizia­ to il procedimento, al fine di fissare una forma di compen­ sazione sufficiente a porre rimedio all’inadempimento. Qua­ lora le parti non si accordino, lo Stato interessato può chie­ dere al DSB l’autorizzazione a sospendere le concessioni o qualsiasi altra obbligazione prevista in favore della parte ina­ dempiente [art. 22(2) DSU]. Le misure in questione devono però avere durata limitata nel tempo [art. 22(1) e (8) DSU] ed essere proporzionate alla violazione subita [art. 22(4) DSU]318. Ovviamente, la parte inadempiente può sempre con­ testare il livello delle sanzioni proposte, o la correttezza del­ la procedura, richiedendo di sottoporre l’intera questione a un arbitro [art. 22(6) DSU]315. Già da quanto precede risulterà evidente che - allorquan­ do la lite involge soggetti il cui grado di sviluppo economico diverge largamente - l’eventuale condanna del soggetto eco­ nomicamente più forte rischia sovente di tradursi in un nul­ la di fatto, posto che gli Stati la cui economia è meno svilup­ pata (quand’anche siano nelle condizioni di affrontare le asperità tecniche, nonché il costo di un giudizio avanti al DSB)320 spesso non hanno mezzi per reagire efficacemente agli inadempimenti dei soggetti economicamente (e politicamente) più forti321. Inoltriamoci però un poco nel discorso. Anzitutto, è ovvio che l’efficacia di una misura, financo ritorsiva, dipende dalla credibilità che, alla luce dei conno-

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tati economici propri ai vari soggetti in gioco, assume la di­ mensione operativa di quella stessa misura. E chiaro a tutti che essere esclusi dal mercato statunitense o da quello euro­ peo è una situazione imparagonabile rispetto all’esclusione di un soggetto occidentale dal mercato, poniamo, dell’Ecua­ dor. Ben può darsi, allora, che l’ineffettività degli eventua­ li rimedi adottabili nei riguardi della parte inadempiente (eu­ ropea o Usa) induca quest’ultima a scegliere di subire quelle misure, piuttosto che porre fine al proprio comportamento illecito’22. Senza dire che la consapevolezza circa l’impossi­ bilità di coercere i soggetti economicamente più forti ad adempiere, potrà funzionare spesso quale deterrente, per gli Stati che hanno subito la violazione, a iniziare qualsivoglia procedimento davanti al DSB’2’. In secondo luogo, è d’immediata evidenza che lo Stato danneggiato, qualora riceva sostanziali aiuti economici di al­ tra natura da parte dell’inadempiente (o da parte dell’istitu­ zione internazionale di cui questi è membro influente), po­ trà finire col trovarsi costretto di fatto ad accettare il persi­ stere della violazione, almeno nella misura in cui il costo di quest’ultima (sommato al costo del complesso procedimento giurisdizionale in seno alla WTO) appaia inferiore a quello ingenerato dalla perdita dei privilegi concessigli’24. Ancora: s’immagini che lo Stato danneggiato venga au­ torizzato dal DSB ad alzare le tariffe per le importazioni, pro­ venienti dalla parte inadempiente, di un ammontare tale da compensare la violazione. Supponiamo però che il paese dan­ neggiato sia un esportatore netto, e cosi non presenti una do­ manda interna che consente importazioni cospicue dal pae­ se danneggiante o, peggio ancora, trattandosi di derrate ali­ mentari di base, che la domanda esista ma sia legata alla sopravvivenza di parte della popolazione. Il rialzo delle ta­ riffe, scoraggiando l’esportatore, potrebbe allora determina­ re una impossibilità di approvvigionamento, anche solo per brevi periodi. Insomma: a) i negoziati possibili, a livello bilaterale, non

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garantiscono al paese economicamente più vulnerabile con­ sistenti aspettative di successo, nel far valere le proprie ra­ gioni; b) le misure di ritorsione sono congegnate in modo ta­ le da poter esser utilmente sfruttate solo da chi colloca la pro­ pria in un circuito integrato di economie, dove il flusso notevole, e continuo, di scambi permette azioni e reazioni la cui articolazione può essere calibrata a seconda delle circo­ stanze. Cosi, i regimi WTO - sia quello palese e formale, sia quello occulto e informale - non forniscono rimedi concreti per sfuggire alla rassegnazione del più debole.

4. Paradossi e cinismi.

Ora, le valutazioni d’insieme su quanto precede possono intonarsi a due registri. Il primo è quello che si fonda sulla resa del diritto a una realtà che lo rende fragile, ai limiti dell’irrilevanza di fronte alla potenza delle forze economiche e politiche. Ma è una via che si basa sul falso presupposto che le regole (solo e sempre) seguano e non (anche) ‘facciano’ l’e­ conomia - postulato che persino le istituzioni finanziarie in­ ternazionali, dopo molte pene inflitte e critiche subite, han­ no abbandonato325. Il secondo registro è quello, imparenta­ to assai più strettamente con la realtà, che recupera al diritto e ai suoi facitori la possibilità di una guida consapevole dei fenomeni, suggerendo allora le considerazioni che seguono. Innanzitutto, anche a un osservatore inavvertito balza agli occhi (quanto appare come) un paradosso. La finanza, che vive di scambi, interessi e matrici tecniche largamente comuni a tutti gli attori del pianeta, è stata fin qui sostan­ zialmente governata da un diritto informale condiviso dagli operatori e da un diritto formale largamente dipendente dal­ le legislazioni nazionali/regionali. Il commercio, il quale si ba­ sa su scambi e interessi strettamente intrecciati a regole ed esigenze locali, è sin qui vissuto sotto l’usbergo di un dirit­ to formale uniforme e di regole informali a disposizione di

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pochi (ma si tratta davvero di un paradosso o di una utilita­ ristica - se si preferisce: beffarda - distribuzione di costi e benefici ?) In secondo luogo, non vi sarà bisogno di ricordare quan­ to alte siano le barriere frapposte a molti paesi dal tecnici­ smo delle regole della WTO, nonché dal ricorso a una gram­ matica e a una nomenclatura del diritto che, evidentemen­ te, sono al meglio sfruttabili e sfruttate da parte degli attori occidentali526. Ma certo le illustrazioni sopra richiamate ren­ dono difficile sfuggire alla conclusione per cui fin qui527 si son volute soddisfare le esigenze di disciplina globale del com­ mercio, anche: 1) tentando di esportare i nostri recenti mo­ delli di organizzazione del lavoro senza predisporre in loco le condizioni utili a che quei modelli siano sostenibili; n) de­ potenziando gli stessi (nostri) principi di pari opportunità nell’accesso alla giustizia, nonché di equilibrio e uguaglian­ za per le prerogative a disposizione di chi del diritto globa­ le reclama l’applicazione528; in) privando l’effettività delle de­ cisioni di un ‘due process’ allineato agli standard occidenta­ li52’, abbandonando gran parte dei rimedi al ‘jungle law’ del bilateralismo, e così enfatizzando le disparità di collocazio­ ne, gli squilibri nel potere economico e politico, le asimme­ trie di opportunità, a disposizione dei vari Stati550 - esito for­ se da ritenersi cinicamente inevitabile, ma che risulta inac­ cettabile (agli ‘altri’, prima ancora che a noi) quando scortato dalla retorica legalista di chi ha fatto la ‘cosa giusta’, predi­ sponendo procedure minuziose e impeccabili.

5. Commercio globale e scelte dell’ Occidente. I problemi che dati del genere sollevano prendono corpo a prescindere che noi li si voglia riconoscere o no, e si tratta di questioni che in realtà abbiamo visto e vedremo ricorren­ ti, nell’analisi delle lacerazioni che attraversano tutto il tes­ suto del diritto globale. In questa sede non sono ovviamen­

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te in discussione gli aspetti latamente redistributivi della glo­ balizzazione economica, quella alle nostre spalle e quella che verrà - con le nuove mappature di tessuti sociali, e le sue nuove sperequazioni, da combattere nel Sud, come nel Nord del mondo”1. Nella nostra prospettiva, vi è piuttosto la ne­ cessità che l’Occidente recuperi consapevolezza dei rischi, e dei costi, connessi al protrarsi dello status quo, chiarisca qua­ li siano gli interessi che intende perseguire nel lungo perio­ do e con quali strumenti tecnici si propone di farlo, siano es­ si allineati o no alla propria civiltà giuridica. Ecco allora che bisognerà meglio chiarire a) se, sui diver­ si scacchieri, gli interessi europei, quanto meno continenta­ li, siano sempre omogenei, fra loro e con riguardo a quelli angloamericani; e comunque b) se la UE nel suo complesso sia pronta a sfruttare il vantaggio competitivo offertole dal proprio conclamato ‘soft power’ per diventare elemento trai­ nante della riforma degli assetti vigenti, guadagnando così nuova centralità, nel farsi delle regole globali e negli ambiti in cui esse operano”2. Sulla scorta, o pure in assenza di chia­ rimenti del genere, occorrerà poi che la regione euro-atlan­ tica nel suo insieme decida c) come accogliere le sfide fron­ tali alle normative attuali portate da chi - in primis Cina, In­ dia, Brasile, Russia - reclama o già ottiene di sedere al banco dei redattori delle regole (magari trainandovi gli interessi di chi dalle regole attuali, abbiamo visto, ha poco da guadagna­ re) e chiede di contare diversamente ai tavoli cui già siede - su strapuntini, come quelli dell’IMF e della WB’”; d) co­ me fronteggiare il pericolo che viene dal protrarsi della mo­ sca cieca dell’informalità dell’enforcement, gioco nel quale le dinamiche del potere economico potrebbero nel medio pe­ riodo vedere il nostro stesso Occidente smarrire, o fortemen­ te erodersi, l’attuale supremazia negoziale; e) come contene­ re le tentazioni di un protezionismo che, oltre alla perdita di gran parte dei benefici del libero commercio, è verosimile fi­ nisca coll’impoverire economie già deboli - così, peraltro, alimentando ulteriormente la spinta all’emigrazione dei di-

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seredati in Occidente”4; f) come parare i rischi già affioran­ ti nelle tensioni attuali di una neo- o ri-regionalizzazione del­ le regolazioni”5, che innalza per gli attori occidentali i costi di negoziazione e di mantenimento dell’odierna leadership al tavolo delle regole giuridico-economiche. E in questa prospettiva che valgono il richiamo, in luogo di molti altri discorsi, due notazioni. La prima sottolinea la ricchezza di alternative, nei confronti dei paradigmi occiden­ tali, già da tempo a disposizione dei paesi ‘emergenti’: «they are stockpilling their own reserves (and hence have little need of the IMF); in some cases they are setting up their own mul­ tilateralized swaps arrangements (the CMI); they have access to multiple sources of development financing (and hence lit­ tle need for World Bank loans); they are planning new mul­ tilateral development initiatives (the Bank of the South); and several now have their own aid programmes. They are not formally disengaging from the IMF or World Bank but in practice the institutions have slipped to the margins of their policy-making since they have little confidence that the agen­ cies will act as multilaterals rather than as agents of the OECD, G7 or Gi economies»”6. Con la seconda notazione si stigmatizza, al di là della sup­ ponenza, la vista corta degli occidentali (tanto più grave nel­ la prospettiva della crisi odierna): «When American and Eu­ ropean diplomats talk about the rising powers becoming re­ sponsible stakeholders in the global system, what they really mean is that China, India and the rest must not be allowed to challenge existing standards and norms... The case for global rules - that open markets need multilateral governance - could not have been made more forcefully than by the pre­ sent crisis. Yet the big lesson is that the west can no longer assume the global order will be remade in its own image»”7. Se sviluppi ed evenienze del genere meritano governo, e se si vuole ‘salvare’ la possibilità di un coordinamento glo­ bale della regolazione del commercio, vi è l’esigenza di av­ viare anche qui una riflessione pro-attiva, che muova in an-

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ticipo sui fenomeni. Sotto il nostro angolo visuale, quanto occorre è ripartire dalla consapevolezza che le regole in vi­ gore sono in gran parte espressione delle tecnicalità occiden­ tali e che, nel merito, sono regole che fin qui (et pour cause) hanno ignorato i modelli giuridici, culturali, sociali ed eco­ nomici altrui. Se le attività finanziarie reclamano una rego­ lazione globale sulla base della protezione di interessi larga­ mente omogenei a tutti gli operatori, per il commercio - che risponde (anche) a esigenze primarie, e talora drammatiche, dei cittadini del pianeta -, il passo ulteriore dovrebbe esse­ re quello di promuovere, ai vari livelli possibili, riforme dei criteri di regolazione che siano rispettose dei nostri e degli altrui interessi, e (proprio per questo) ispirate alla trasparen­ za delle scelte e degli atteggiamenti, tecnici e culturali. E su questa direttrice che appare evidente come il ruolo guida da noi sino ad ora esercitato saprà conservarsi nel medio e lun­ go periodo tanto più saldo, quanto più sarà frutto di politi­ che di regolazione inclusive, e non ostative di chi oggi appa­ re solo un pericolo o un questuante. Non c’è dubbio: nella prospettiva della trasparenza, po­ tremmo continuare ad avanzare la pretesa a essere i para­ digm-setter degli ordini globali perché siamo in grado di di­ mostrare la maggiore correttezza e il più sofisticato e meglio bilanciato equilibrio delle regole che la nostra tradizione è in grado di produrre. Ma allora - e ammesso che nel frattempo gli ‘altri’ stiano a guardare -, l’abbassamento dei costi di ac­ cesso e di gestione delle regolazioni, l’adozione di criteri im­ parziali di enforcement e di allocazione effettiva delle re­ sponsabilità, sugli Stati e sui regolatori, il superamento del­ l’atteggiamento per cui l’altrui debolezza geopolitica vale quale fattore di esclusione dal circuito dei rule-maker, o co­ me elemento di compressione delle possibilità di giocarvi ad armi pari, dovrebbero essere i primi obiettivi di ognuno dei negoziati aperti, e di quelli a venire.

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i. Il rumore dei nemici358.

Un altro utilizzo su scala globale del diritto, e delle sue visioni di marca occidentale, si svolge con modalità ben no­ te al discorso pubblico. Si tratta degli sforzi di un movimen­ to vasto, fatto di donne e uomini occidentali - per nascita, o per formazione - che, sensibilissimo alle ‘differenze’ iden­ titarie interne alle nostre società, mira a rendere uniforme il giudizio contro questa o quella barbarie, contro questa o quella concezione non occidentale di bisogni, di sviluppo, di rapporti familiari. Questo movimento supporta l’impianto di corti a giurisdizione geograficamente illimitata, con alcu­ ne frange talora persino sollecita (qualche volta ottenendo) interventi militari in nome della salvaguardia dei diritti uma­ ni. Interventi che talvolta invocano a proprio fondamento giuridico quelle stesse carte che li proibiscono33’. Azioni che si reclamano o realizzano a prescindere dalla sovranità al­ trui340, nonché dalla responsabilità di chi ha disegnato i con­ fini all’interno dei quali sovente scoppiano i conflitti orribi­ li che gli interventi umanitari aspirano a sedare341. Si tratta però di capire come, con quali linguaggi quale cultura e quali prassi operative, sia costruita la stretta interre­ lazione che corre fra quei movimenti, quegli sforzi e inter­ venti e il loro martellante richiamo al diritto e alla sua infra­ struttura. E a tal fine che vale la pena di soffermarsi, in questo capi­ tolo, sui temi connessi alla c.d. giustizia penale internaziona­ le e dedicare l’intera successiva Parte terza ai diritti umani, i quali sollevano questioni, e agitano dibattiti, solo parzialmen­ te sovrapponibili a quelli di cui andiamo ora a occuparci.

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2. Corti e crimini.

La storia delle corti come agenzie dell’ordine giuridico globale inizia con il secondo dopoguerra342 e accelera il suo sviluppo negli ultimi due decenni, dopo la fine della guerra fredda. Di fronte agli orrori del secondo conflitto mondiale, i processi di Norimberga (1945) e di Tokyo (1946) piantaro­ no in effetti il seme di una legalità internazionale salvaguar­ data da speciali corti di giustizia, chiamate a operare secon­ do diritto non solo nei confronti degli Stati, ma anche nei ri­ guardi dell’individuo, indipendentemente dalla qualità di organo di uno Stato da questi rivestita - il carattere interna­ zionale di tali tribunali, va rilevato poi, si ritrova nell’esse­ re stati essi istituiti da una pluralità di Stati, quelli vincito­ ri del conflitto (Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Unione Sovietica)343. Per decenni, i modelli del Tribunale di Norimberga e di Tokyo sono rimasti privi di capacità espansiva344. E solo di recente che la giurisdizione penale internazionale è stata ri­ lanciata, ciò che è operativamente avvenuto dapprima nella forma di tribunali ad hoc: il Tribunale dell’Aja per la ex Ju­ goslavia (1993), il Tribunale di Arusha per il Ruanda (1994)345, e poi con l’istituzione di una Corte permanente. I tribunali sono stati istituiti dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con Statuti che attingono largamente al precedente di Norimberga e ai suoi principi, fissando la com­ petenza sui crimini cc.dd. di ius in bello, e cioè crimini di guerra, contro l’umanità e di genocidio346. La Corte penale internazionale (International Criminal Court), con sede all’Aja, - epifania maggiore (non della prassi, come sarà chia­ ro fra poco, ma) degli argomenti anelanti a una giustizia pe­ nale globale -, è invece un organo giurisdizionale permanen­ te, istituito con il ricorso a un trattato internazionale. Il suo Statuto, adottato a Roma nel luglio del 1998 ed entrato in vigore il i° luglio 2002, definisce la giurisdizione della Cor­

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te come avente carattere generale e a oggetto i «crimini più gravi nel contesto internazionale» (art. 1), riguardanti, an­ cora una volta, il genocidio, i crimini contro l’umanità, i cri­ mini di guerra e - formalmente - pure il crimine di aggres­ sione (artt. j-S)347.

3. Noi non abbiamo confini : abbiamo dispute348. Una valutazione circa l’opportunità, e le implicazioni uti­ li alla nostra indagine, recate dalla presenza di questi organi di giustizia non può prescindere da una riflessione su alcuni profili del loro funzionamento, ossia su come il diritto ven­ ga impiegato nel brandire questo o quell’interesse, nel per­ seguire questo o quell’obiettivo. Facile è tracciare l’elenco delle questioni, tutte ben note, che hanno agitato il dibattito intorno ai Tribunali per il Ruanda e per l’ex Jugoslavia. Questi sono stati sottoposti a critiche vibranti perché hanno principalmente processato gli appartenenti a uno solo dei gruppi coinvolti nel conflitto: ri­ spettivamente, hutu e serbi34’. Perplessità ulteriori si sono appuntate sull’operato del Tribunale per la ex Jugoslavia350, il cui Procuratore, pur essendo munito di giurisdizione sui presunti crimini di guerra commessi dalle forze della Nato, ha reso pubblica la sua decisione di non avviare alcuna inve­ stigazione in merito, decisione fondata sul rapporto di un co­ mitato di esperti, istituito dall’ufficio dello stesso Procura­ tore351. Va poi ricordato come questi Tribunali, per volontà del Consiglio di sicurezza, abbiano priorità (primacy} sulle giu­ risdizioni nazionali352. Ciò significa che, quando un tribuna­ le nazionale avvia un procedimento contro una persona ac­ cusata di aver commesso crimini di competenza di uno dei due Tribunali internazionali ad hoc, questi ultimi hanno il diritto di avocare il caso e richiedere la consegna della per­ sona contro cui è stato avviato il procedimento nazionale.

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Salta insomma agli occhi che, in tal modo, accanto all’impo­ sizione di forme di limitazione militare della sovranità degli Stati - come è accaduto per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda -, si è dato vita a forme di limitazione anche giudiziaria della stessa sovranità, sovrapponendo coercitivamente la prima­ zia giurisdizionale del Tribunale internazionale alla giurisdi­ zione penale interna degli Stati coinvolti’5’. Si tratta di re­ gole - occorre sottolineare - che sono state lasciate alla por­ ta della Corte penale internazionale (CPI). Quest’ultima infatti, a differenza dei tribunali penali ad hoc, non ha primacy nei riguardi delle giurisdizioni naziona­ li, ma opera in via complementare rispetto ad esse (Pream­ bolo dello Statuto e art. i). La Corte penale internazionale può cioè avviare un procedimento contro una persona accu­ sata di uno dei crimini rientranti nel suo ambito di compe­ tenza solo se lo Stato che ha giurisdizione dimostra di non poter o voler avviare alcun procedimento domestico”4. Altri profili meritano però l’evidenza. Mentre la giurisdi­ zione universale scatta su crimini da chiunque e ovunque commessi soltanto nel caso in cui l’intervento della Corte venga sollecitato dal Consiglio di sicurezza, d’abitudine es­ sa può esercitare la propria giurisdizione solo se i crimini rien­ tranti nel suo ambito di competenza siano stati commessi nel territorio di uno Stato parte (Stato territoriale), o da un cit­ tadino di uno Stato parte (Stato di nazionalità attiva), oppu­ re nel territorio, o da un cittadino, di uno Stato non parte dello Statuto, che accetti nondimeno la competenza della Corte (art. 12)’”. La norma dello Statuto, soprattutto nella parte in cui attribuisce giurisdizione alla Corte in base al cri­ terio di territorialità, è stata fortemente contestata da talu­ ni Stati, in particolare dagli Usa, appoggiandosi a un argo­ mento giuridico di vasto respiro: sostenendo cioè che la nor­ ma viola un principio fondamentale del diritto dei trattati, secondo il quale un accordo internazionale può produrre ef­ fetti giuridici solo per gli Stati contraenti, non potendo i trat­ tati creare né diritti, né obblighi per gli Stati terzi.

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L’argomento in punto di diritto veste, come sempre, una preoccupazione di fatto. Può invero accadere356 che militari di uno Stato non parte allo Statuto (ad esempio, soldati sta­ tunitensi), in missione all’estero, si trovino a operare sul ter­ ritorio di uno Stato parte allo Statuto (ad esempio l’Afghani­ stan) e siano accusati di aver commesso crimini di guerra nel territorio di questo Stato. Secondo lo Statuto, se lo Stato in cui i crimini sono stati commessi (nell’esempio, l’Afghanistan) ha ratificato lo Statuto, la Corte potrà esercitare la propria giurisdizione nei confronti di quei militari, e ciò anche se lo Stato di nazionalità (nel nostro esempio, gli Stati Uniti) non è parte contraente e dunque non ha accettato le norme dello Statuto. Ecco allora una delle ragioni per cui gli Stati Uniti, oltre a non aver ratificato lo Statuto della Corte, agiscono da anni per ostacolarne l’attività, in particolare sfruttando a pro­ prio favore Part. 98 dello stesso Statuto. Questa norma con­ sente a uno Stato di non consegnare alla Corte il cittadino di un altro Stato (che si trovi nel territorio del primo e che la Corte intenda sottoporre a processo), se tra i due Stati esiste un trattato che vieta tale estradizione. Cosi gli Usa si sono operosamente attivati per concludere il maggior numero pos­ sibile di accordi bilaterali specificatamente volti a evitare le conseguenze di cui si è dato conto357. Perseguendo invece una funzione allineata con le miglio­ ri intenzioni di bandire, o quantomeno sanzionare, «l’uso del­ la forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’in­ tegrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Sta­ to»358, la Corte include il crimine di aggressione nell’elenco delle gravi fattispecie criminose su cui ha giurisdizione (art. 5). Nondimeno, il medesimo articolo, al secondo comma, sta­ bilisce che la Corte «eserciterà la giurisdizione sul crimine di aggressione solo dopo che sia stata adottata una norma che, nel rispetto degli articoli 121 e 123, definisca il crimine di ag­ gressione e indichi le condizioni in presenza delle quali la Cor­ te potrà esercitare la propria giurisdizione su tale crimine». Si tratta certamente di una formulazione assai ambigua - ve­

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rosimilmente essa è stata adottata per coprire l’insuperabile dissenso sulla nozione di «crimine di aggressione» che era emerso nel corso dei negoziati3”. Ma è bene precisare che, concretamente, il rinvio della definizione di ‘aggressione’ è operato a una procedura di emendamento (art. 121) avviabi­ le da uno Stato solo dopo sette anni dall’entrata in vigore del­ lo Statuto della Corte; oppure a una conferenza di revisione (art. 123), convocabile dal Segretario generale delle Nazioni Unite e sempre dopo sette anni dall’entrata in vigore del me­ desimo Statuto. Al momento in cui si scrive questa pagina, nessuna delle due procedure ha dato esiti360. Quanto precede, però, non è tutto, neppure ai nostri fi­ ni. Il sistema delineato dallo Statuto non prevede alcuna al­ ternativa efficace all’inerzia investigativa del Procuratore. Vero: lo stesso Statuto contempla la possibilità che il Procu­ ratore venga sollecitato ad avviare le indagini su iniziativa di ogni Stato parte o del Consiglio di sicurezza (cfr. artt. 13 e 53). Nondimeno, se è difficile pensare che Stati contraen­ ti, del tutto estranei alla commissione di crimini internazio­ nali, promuovano un’azione al riguardo, certo inverosimile è attendersi in questa direzione supporti continui e genero­ si da un Consiglio di sicurezza ove siedono tre membri per­ manenti (Usa, Russia e Cina) che lo Statuto della Corte non hanno ratificato361. Infine, va segnalata l’esistenza di alcuni problemi inter­ ni allo stesso ordito processuale362. L’accoglimento del mo­ dello accusatorio - parafrasato su quello proprio al common law, qui esportato in ambito internazionale - prevede che ogni mezzo di prova debba essere acquisito oralmente nel corso del dibattimento. In un contesto giurisdizionale come quello della CPI tutto ciò, unitamente al frequente bisogno di detenere l’accusato in custodia preventiva nel corso di tut­ te le fasi del procedimento, può nondimeno causare, e all’e­ videnza causa, un grave pregiudizio tanto al diritto di avere un processo equo e rapido, quanto all’effettivo rispetto del principio della presunzione di innocenza di ogni accusato363.

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4. I guai dei vinti. Se quanto siamo andati allineando è degno di considera­ zione, e se nei suoi primi sette anni di vita la Corte penale internazionale ha finito per portare tre soli casi alla fase del giudizio’64, all’orizzonte si affaccia un’osservazione non ine­ dita. Le prassi operative del diritto internazionale penale’65 si sono fin qui rivelate - efficaci quali ornamenti preziosi di una narrativa universalistica e livellatrice che blandisce le co­ scienze occidentali, ma - sostanzialmente incapaci di contra­ stare gli interessi dei soggetti che quel diritto sfidano e me­ glio sanno o possono utilizzare’66. È proprio alla luce di queste notazioni che sfuggono al­ l’antologia della retorica tanto le risalenti conclusioni secon­ do cui «la sola cosa che il vincitore non può dare al vinto è giustizia»’67, quanto l’odierna, amara osservazione che «dal punto di vista delle grandi potenze, il Consiglio di sicurez­ za, la giurisdizione penale internazionale e l’intero diritto di guerra si rivelano utili se svolgono una funzione di legittima­ zione ex post dei risultati che esse hanno inteso persegui­ re»’68. Ma c’è di più, e attiene ai precipitati potenzialmente per­ niciosi (anche per noi stessi) dei modelli di giurisdizione pe­ nale globale attualmente in uso. Il modo d’intendere questi modelli coniuga difatti la propria inefficacia col rischio di una sconfitta culturale, e politica, infetta agli stessi ideali cui quelle giurisdizioni s’ispirano. Sappiamo che, fuori e dentro l’Occidente, non vi è mo­ dello di giustizia che possa funzionare se i suoi organi non sono espressione di una tradizione percepita diffusamente come legittima o, detto in altri termini, se non vi è consen­ so capillare intorno al suo modo di concretizzarsi. L’imposi­ zione dall’alto di Corti internazionali, che giudicano con tec­ niche e procedure altrui la propria storia e i propri conflitti, rischia invece di far levare la voce (se non la mano) di chi,

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paese o fazione, si sente accusato o condannato non dal suo giudice ‘naturale’, ma da un consesso di estranei. L’attività giudiziaria che venga svolta come una sorta di eco penale al­ lo scontro militare corre così il pericolo di produrre un raffor­ zamento dei sentimenti di ostilità e di introdurre rigidezze nelle posture politiche locali, le quali, all’evidenza, finisco­ no coll’operare in senso opposto rispetto alle aspirazioni di ogni sorta di cosmopolitismo umanitario che punti a ottene­ re ‘global justice through western law’56’. Certo, si dirà, il più delle volte le tensioni possono esse­ re appianate attraverso pressioni politiche (a seconda dei ca­ si: adesione alla UE, vantaggi commerciali, altre ‘compensa­ zioni’). Ma allora non è ben chiaro quale sia il ruolo assegna­ to al diritto penale e alle sue corti, quali ragioni sostengano lo spreco di energie e retoriche intorno a quel diritto e alle sue giurisdizioni internazionali. La loro funzione di monito, di deterrenza, pare insomma essere rivolta soprattutto all’a­ nima dell’occidente: ‘compi questi sforzi, istituisci queste corti, altrimenti non sarai a posto con la tua coscienza, non sarai pacificato coll’immagine ideale che di te intendi colti­ vare e propagare’. Sono dati su cui torneremo - nei capitoli successivi, a proposito delle interrelate sorti dei diritti uma­ ni -, ma se non si vogliono esporre gli impulsi nobili di quel­ la coscienza alla critica particolarista, o relativista, e peggio: a una dannosa inefficacia, quanto è necessario è l’elaborazio­ ne di un tragitto diverso. Una via che alla nostra (faticosamente raggiunta) conqui­ sta per cui ‘il vinto non si passa più per le armi’, ma viene avviato a un processo, associ lo sforzo di rendere questo stes­ so modello, ideale e giuridico, accettabile a tutti, condiviso, e perciò assai meglio gestito sul piano operativo. Un itinera­ rio che guardi da lontano la fallacia della domestic analogy - per la quale se la centralizzazione del potere politico e giu­ ridico ha ridotto la violenza all’interno degli Stati naziona­ li, allora si può ritenere che la concentrazione del potere nel­ le mani di una suprema autorità sovranazionale sia la strada

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maestra per costruire un mondo più giusto, ordinato e paci­ fico370. Un percorso in cui il diritto e l’esercizio della sua giu­ risdizione si facciano carico delle varietà e delle differenze nelle culture politiche e sociali, nonché nelle tradizioni giu­ ridiche, sostanziali e processuali. Così, l’Occidente - se rie­ sce a persuadere gli Usa a farne parte, a questi fini - potrà ben continuare a trattare i crimini propri o quelli commessi nei propri territori secondo le regole che ha immaginato es­ sere ‘universali’, mentre per i crimini di diverso radicamen­ to geografico diventa doveroso pensare a soluzioni alterna­ tive. Soluzioni allineate con quanto abbiamo appena richia­ mato, e quanto stiamo per ricordare.

5. Grida nel buio. Non mancano in effetti esempi di giurisdizioni impianta­ te ad hoc e che, nondimeno, hanno saputo inglobare regole locali, o comunque regole adattate alla tradizione giuridica della comunità in cui le corti sono chiamate a operare. A fianco di esperienze diverse, note come «commissioni per la verità e la riconciliazione» - la cui natura giurisdizio­ nale è discussa, ma non lo è l’impatto benefico sul lungo pe­ riodo -371, può ricordarsi anzitutto la Corte speciale per la Sierra Leone, con sede a Freetown, istituita nel 2002 in virtù di un accordo fra quel paese e le Nazioni Unite. La compe­ tenza ha per oggetto fatti commessi durante la guerra civile, a partire dal 30 novembre 1996, e si centra su due versanti: le violazioni delle leggi interne e le gravi violazioni del ‘di­ ritto internazionale umanitario’372. La composizione della Corte è mista, essendo i giudici nominati in parte dal Segre­ tario generale delle Nazioni Unite e in parte dal governo del­ la Sierra Leone. Misto è pure il personale amministrativo, laddove la legge applicabile, sostanziale e processuale, è quel­ la locale, come integrata da una varietà di regole di diritto internazionale373.

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Altri organi giurisdizionali sono stati creati da parte di amministrazioni transitorie, istituite dalle Nazioni Unite. A Timor Est, la SCU (Serious Crimes Unit) è stata creata nel 1999, in forza della Risoluzione Onu 1272/1999, e ha ter­ minato i lavori nel maggio 2005, secondo il disposto delle Ri­ soluzioni Onu nn. 1543 e 1573, del 2004. La competenza oggettiva si estendeva ai crimini di guerra e contro l’uma­ nità, nonché ai crimini contro l’individuo (quali omicidi e stupri) commessi a Timor Est tra il i° gennaio 1999 e il 25 ottobre 1999, indipendentemente dalla cittadinanza del reo o della vittima. Qui, non solo la legge applicabile era quella in vigore a Timor Est prima del 25 ottobre 1999, nella par­ te in cui non contrastava con gli standard minimi del diritto internazionale umanitario (come individuati dalla United Nations Transitional Administration in East Timor), ma cia­ scun caso portato dinanzi alla SCU era trattato da Special Panels composti da due giudici internazionali e un giudice timorese; e lo stesso personale afferente all’organo giurisdi­ zionale era costituito per la metà da membri provenienti dal personale Onu e per l’altra metà da specialisti timoresi”4. In Kosovo, la UNMIK (UN Interim Administration Mis­ sion in Kosovo) ha istituito - e su questi profili non ha fin qui inciso la dichiarazione di indipendenza del Kosovo del 17 febbraio 2008 - un sistema giudiziario supportato da una normativa di propria produzione (le cc.dd. ‘Regulations’) as­ sai attenta a salvaguardare al massimo grado la interazione dell’amministrazione internazionale con la realtà territoria­ le, ad esempio accentuando nel corso del tempo la provenien­ za locale dei giudici. La competenza oggettiva dei tribunali penali non è limitata a particolari categorie di crimini, go­ dendo essi della medesima competenza che spetterebbe a una giurisdizione nazionale, nonché degli stessi poteri e funzio­ ni, mentre la legge applicabile è ancora una volta quella lo­ cale, cosi come modificata dai Regolamenti UNMIK”5. Dal 2005 (UNMIK Reg. n. 52/2005), lo UNMIK Depart­ ment of Justice ha poi perseguito una politica più pregnante

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di trasferimento delle competenze alle autorità locali, e di rafforzamento della trasparenza del potere giudiziario. So­ no stati difatti istituiti il Kosovo Judicial Council, organi­ smo indipendente formato da membri kosovari, che vigila sull’operato dei magistrati locali e, successivamente - con Reg. n. 7/2008 -, l’Office of the Disciplinary Counsel, sem­ pre composto da membri kosovari, competente a conoscere dei casi che vedono imputati magistrati e giudici e dotato del potere di imporre sanzioni disciplinari376. Dopo lunghe trattative, le Nazioni Unite e la Cambogia hanno concordato nel 2003 di istituire, all’interno delle Cor­ ti locali, sezioni speciali (Extraordinary Chambers) per giu­ dicare i crimini commessi dal 1975 al 1979 dai Khmer rossi. Con una legge ad hoc (Law on the Establishment of the Ex­ traordinary Chambers, del 27 aprile 2004) e poi con un re­ gio decreto cambogiano dell’8 maggio 2006, che ha nomina­ to anche giudici e magistrati inquirenti, sono state istituite due Extraordinary Chambers, delle quali l’una rappresenta un tribunale di primo grado e l’altra, in seno alla Corte Su­ prema cambogiana, l’istanza d’appello. Entrambi gli organi sono integrati nel sistema giudiziario già esistente. Il tribu­ nale di primo grado è composto di tre giudici cambogiani e due stranieri. La sezione speciale di seconda istanza è forma­ ta invece da quattro giudici cambogiani e tre rappresentan­ ti della comunità internazionale. I giudici stranieri, tanto nel primo che nel secondo grado, sono scelti dal Consiglio su­ premo della magistratura cambogiano entro una rosa di giu­ dici indicati dalle Nazioni Unite. Tali Corti hanno compe­ tenza a giudicare ipotesi di crimini contro l’umanità, geno­ cidio, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949, oltre che sui crimini definiti dal suddetto atto legisla­ tivo cambogiano (artt. 3-8 della Law on the Establishment of the Extraordinary Chambers: in particolare, omicidi, tor­ ture, persecuzione religiosa, distruzione del patrimonio cul­ turale in tempo di conflitto armato, detenzione di civili in qualità di ostaggi, violazione della Convenzione di Vienna

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sulla protezione del personale diplomatico). Dal punto di vi­ sta soggettivo, la competenza dei tribunali in questione è li­ mitata ai leader della Democratic Kampuchea e ai (soli) cam­ bogiani che si resero responsabili dei crimini richiamati po­ co sopra. La pena massima prevista è l’ergastolo e non pos­ sono essere concessi in alcun caso amnistie o indulti377. Le indagini e l’accusa sono condotte congiuntamente da un magistrato cambogiano e da uno straniero. Anche la leg­ ge processuale applicabile è quella cambogiana, integrata dal­ la Law on the Establishment of the Extraordinary Cham­ bers, che regola specifici aspetti procedurali e sostanziali ed è corredata dalle Internal Rules adottate il 12 giugno 2007 (e modificate da ultimo l’n settembre 2009). In caso di la­ cune, si fa riferimento ai principi e agli standard definiti dal diritto internazionale (art. 20 Law on the Establishment of the Extraordinary Chambers)378. Si pensi infine, e ancora, al caso Ruanda, dove le cc.dd. corti Gacaca, che operano con meccanismi di risoluzione dei conflitti di matrice tradizionale, sono state ritenute compe­ tenti a conoscere alcuni dei crimini connessi al genocidio del 1994”’ (in Ruanda sono quindi contemporaneamente attive addirittura tre giurisdizioni, variamente correlate fra loro380: quella del Tribunale penale internazionale, quella delle Cor­ ti penali ordinarie e quella del sistema Gacaca). Le corti Gacaca tradizionali sono composte dai saggi elet­ ti dalla comunità i cui poteri sanzionatoti includono, oltre alla detenzione, la prestazione di servizi obbligatori alla co­ munità, la gogna pubblica, l’obbligo di presentare le proprie scuse o di riparare il danno381. Il sistema Gacaca istituito dal governo ruandese, ed entrato in vigore nel giugno 2002, è una versione mutata di quello tradizionale. Esso prevede va­ ri livelli di corti e riserva a ciascuno di essi la competenza di un particolare reato (tanto più grave quanto più elevato è il grado della corte), oltre che quella di decidere sugli appelli promossi nei confronti delle decisioni delle corti inferiori. Questa competenza in materia penale è stata assegnata alle

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nuove corti Gacaca con riferimento ai crimini commessi fra il i° ottobre 1990 e il 31 dicembre 1994, e con esclusivo ri­ guardo agli omicidi (intenzionali e no), lesioni personali e at­ tentati alla proprietà382. Anche nelle neo-istituite corti Gaca­ ca, nondimeno: a) le sanzioni possono essere tratte dall’ar­ mamentario punitivo tradizionale, e perciò formularsi in termini di obblighi alla riparazione del danno o di prestazio­ ne di servizi gratuiti alla comunità383; b) i convenuti non so­ no necessariamente rappresentati da un difensore, e i giudi­ ci, eletti su base locale384, non sono necessariamente sogget­ ti dotati di un’approfondita preparazione tecnico-giuridica, quanto meno se intesa à la occidentale385.

6. Visioni in transito. Detto che tutte quelle appena ricordate sono giurisdizio­ ni localizzate negli stessi territori in cui si sono perpetrati i crimini oggetto di giudizio - il che marca una differenza profonda con le Corti posizionate all’Aja -, è bene sottoli­ neare che si tratta di esperienze cui ha contribuito lo stesso Occidente, tramite l’Onu o le organizzazioni regionali. Il che rende: a} evanescenti pregiudiziali ragioni di riluttanza, da par­ te degli ‘universalisti’ di professione; e, al contempo b} rende possibile la programmazione di un modello giurisdizionale alternativo a quello in essere, pensato a vasto raggio, artico­ lato su base decentrata, arricchito dalla contiguità culturale e geografica rispetto alle vicende i cui protagonisti reclami­ no impianti giudiziari straordinari. Non c’è dubbio che alcune delle indicazioni provenienti dalle giurisdizioni richiamate nel precedente paragrafo ne­ cessitano rifiniture tecniche, e pure riflessioni progettuali che tengano conto delle particolarità transnazionali di talu­ ni conflitti, e crimini386. Ma sicuro è, ancora una volta, che solo incorporando quanto più possibile soggetti e regole lo­ cali, l’intervento giurisdizionale alieno potrà evitare crisi di

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rigetto o auto-condanne all’inutilità. In altre parole, richia­ mando quanto abbiamo tratteggiato alla fine del paragrafo precedente, e ricordando che culture e tradizioni giuridiche non si possono imporre, né sono in grado di transitare verso le nostre visioni nello spazio temporale di una notte, né di una guerra, è solo per quelle vie che immaginare kelsenianamente pacificazioni attraverso il diritto potrà apparire - de­ purata di ogni messianesimo senza tempo, né geografia - una risposta plausibile, un sensato tentativo dell’occidente di non abbandonare a se stesse le vittime dei peggiori soprusi’87.

7. Il mondo in tasca.

Nella riflessione sulla giustizia ‘globale’, quelli appena evi­ denziati sono metodi e obiettivi che fanno ancora fatica a gua­ dagnarsi il centro dei nostri dibattiti, anche grazie al peso su di esso esercitato da una ulteriore, massiccia serie di dati. In numerosi paesi occidentali si è normativamente radi­ cata l’idea per la quale anche un singolo Stato e i suoi giudi­ ci hanno il potere di processare persone accusate di fatti in­ ternazionalmente riconosciuti come illeciti, indipendente­ mente dal luogo in cui i fatti stessi sono avvenuti, dalla nazionalità dell’autore o della vittima. E questa una ‘giuri­ sdizione universale’ a base domestica che, secondo una opi­ nione diffusa, trova fondamento tecnico nell’applicabilità di alcune convenzioni internazionali di c.d. ‘diritto umanita­ rio’, ove si stigmatizzano sostanzialmente i crimini di guer­ ra, di tortura, di genocidio’88. Dal punto di vista operativo l’idea ha prodotto risultati giudiziali - liminari in Italia’8’ e poi - sul nostro continente, in giurisdizioni quali l’Inghilterra (ove si è, per esempio, giunti alla condanna di uno dei leader della milizia afgana, Faryadi Zardad, per torture e cattura di ostaggi)’”, la Spa­ gna (celebri i casi nei confronti di Augusto Pinochet e Alber­ to Fujimori)”1, la Norvegia (dove si è tentato di processare

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un cittadino ruandese per genocidio)”2, l’Olanda (e.g.: con­ danne a carico di un cittadino congolese e due afgani)’”, il Belgio (si sono per esempio emesse condanne a carico di cit­ tadini ruandesi implicati nel genocidio del 1994)”4, la Dani­ marca (condanna di un cittadino ugandese)”5, la Francia (con­ danna di un funzionario mauritano per torture, mandato d’arresto levato contro il presidente dello Zimbabwe, Ro­ bert Mugabe)”6. Al netto dei nobili protagonismi di taluni magistrati, sia­ mo ancora una volta di fronte a epifanie di una coscienza, comune all’area del mondo in cui viviamo, che tenta di er­ gersi a paladina della giustizia planetaria”7. Nulla di male, se si parlasse a noi stessi soltanto. Nulla di male, se la giurisdi­ zione venisse esercitata solo nei riguardi di crimini commes­ si da noi o ad opera di nostri cittadini. Siccome così non è, alcune domande cruciali continuano ad attendere risposta. Tali esercizi di giustizia sono consci dell’autorevole «su­ spicion that the exercise of universal jurisdiction by Third World states over the leaders of rich countries would be met with much less Western enthusiasm» ?”8. Tali esercizi di giu­ stizia sono altrettanto consapevoli di come il consenso pub­ blico possa venir loro solo da posture universaliste o da pae­ si fragili ? Questi ultimi, perché d’abitudine interessati a que­ sto o quel rapporto preferenziale Coll’Occidente - e quindi latori di un consenso volubile, e revocabile. Le prime, inte­ se nel peggiore dei sensi, perché rese impotenti dalla loro in­ differenza alla diversità del contesto, ma soprattutto perché utilizzate in modo tale da esporsi al sospetto che si selezio­ nino gli oppressi da tutelare, che si usi la forza del diritto in maniera asimmetrica, non con pari intensità, nei confronti dei cittadini di paesi ‘deboli’ e di paesi ‘forti’’”. Ai quesiti sopra esposti, non sono in circolazione rispo­ ste precise. Se invece dovessimo accogliere la reazione into­ nata al «si deve pur far qualcosa contro i crimini più atroci, e questo ‘qualcosa’ va bene anche se si pone sul piano sim­ bolico», vi sono dati ulteriori su cui riflettere.

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Capitolo nono

8. Atrocità e simbolismi. Ovunque s’impianti l’esercizio di quella domestica giuri­ sdizione universale (basata, si noti, su normative sostanzia­ li e processuali non sempre omogenee fra i vari sistemi)400, es­ sa è di natura penalistica401, e ciò sul continente europeo im­ plica che l’attività investigativa sia condotta da magistrati e con costi a carico del contribuente; si scontra sovente con le immunità sovrane (di cui godono o sono reputati godere, ad esempio, i membri di governi stranieri402, i quali peraltro rap­ presentano gli obiettivi di maggior peso per i sostenitori del­ l’istituto), esponendo cosi l’apparato giudiziario nell’eserci­ zio di queste funzioni a pressioni politiche notevoli405. Ebbene, le caratteristiche appena richiamate valgono l’at­ tenzione alla particolare luce di un confronto con quanto nel frattempo ha saputo produrre sugli stessi versanti il diritto americano. Come abbiamo anticipato nel Capitolo quinto, a partire dal dopo - guerra fredda alcuni fattori hanno contri­ buito incisivamente a dipanare l’idea che il sistema giudizia­ rio Usa potesse ergersi a fustigatore efficace degli illeciti in­ ternazionalmente riconosciuti404. Uno di questi fattori si ritrova nella spettacolare saga dei processi connessi all’olocausto. A partire dal 1996, nume­ rose azioni civili sono state intentate di fronte alle corti Usa, da migliaia di soggetti, ebrei e no, i quali allegavano sostan­ zialmente: di essere stati sottoposti a (o essere eredi o fami­ liari delle vittime di) lavori forzati da parte di imprese tede­ sche che cooperavano con il governo nazista; oppure di aver subito ad opera di banche e assicurazioni, nel dopoguerra, ingiusti rifiuti all’esercizio dei propri diritti su polizze e con­ ti correnti. Sono i cc.dd. ‘Holocaust Claims’405. Un altro dei fattori che spiegano l’attrazione esercitata dal sistema giudiziario Usa trova la propria radice nella Co­ stituzione americana, la quale, redatta nel 1787, rispecchia molte delle idee che dominarono la scena culturale settecen­

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tesca e, fra queste, la convinzione universalistica, e giusna­ turalistica, della necessità di offrire riconoscimento e tutela giudiziaria ai diritti fondamentali dell’individuo, non impor­ ta se violati negli Usa o altrove. Il principio si riflette nell’ar­ ticolo III della stessa costituzione, il quale nel definire l’am­ bito del potere giudiziario federale già esponeva docilmente il suo verbo («The judicial Power [da intendersi qui riferito alla giurisdizione federale] shall extend to all Cases ... aris­ ing under this Constitution, the Laws of the United States, and Treaties made, or which shall be made, under their Authority»), all’inclusione in esso dei casi nascenti non solo dal diritto dei trattati ma anche dal diritto internazionale consuetudinario406. Questa visione espansiva della competen­ za federale si troverà di li a poco ulteriormente ampliata da una legge approvata dal Congresso nel 1789, l’Alien Tort Statute (ATS)407, secondo la quale, «The district courts shall have original jurisdiction of any civil action by an alien for a tort only, committed in violation of the law of nations or a treaty of the United States». Per circa duecento anni que­ st’ultima norma è rimasta praticamente dormiente, finché nel 1980, in Filartiga v. Pena-lrala*™, una corte federale riten­ ne che le torture subite da un cittadino del Paraguay, in quel paese, da parte di un connazionale poliziotto, violassero il «law of nations» e meritassero condanna. La potenziale ca­ pacità delle corti americane di reagire contro gli illeciti per­ petrati su scala mondiale trovò cosi espressione pratica, aprendo teoricamente la strada a dispute innumerevoli da li­ tigarsi negli Usa40’. Ecco allora le decine di azioni portate nell’ultimo tren­ tennio a cavallo delle previsioni dell’ATS410 e volte a ottene­ re condanne nei confronti di privati, pubblici ufficiali e mul­ tinazionali411 accusati di violazioni degli standard di prote­ zione dei lavoratori o di natura ambientale412 o di complicità in torture e uccisioni, connesse a gravi violazioni di diritti umani e a danno di cittadini stranieri413. Va ricordato come l’Alien Tort Statute copra solo cause

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Capitolo nono

civili, intentate da stranieri, nelle quali chi è giudicato re­ sponsabile è soggetto unicamente all’obbligo di risarcire il danno causato e non a sanzioni penali. Detto poi che il con­ dannato, come è nella natura di questi casi, al momento del­ la decisione si trova solitamente all’estero e può quindi sfug­ gire alle conseguenze pratiche della sentenza, questa finisce per esercitare un ruolo soprattutto simbolico. Ma certo su un terreno sospeso fra retorica universalistica e orribili atro­ cità, altrimenti impunite, il contenuto simbolico di questi ri­ medi finisce per brillare di luce propria.

9. Gentilezze Usa v. asprezze europee? Quali le conclusioni di questo spicchio di raffronto, fra ‘simbolismi’ americani ed europei? Quelli americani sono rimedi: attivabili nella lingua fran­ ca più diffusa a livello transcontinentale e presso gli organi giurisdizionali di un paese che, come abbiamo visto al capi­ tolo precedente, è il migliore propagatore mediatico su sca­ la planetaria (anche) del proprio sistema giuridico414. Non im­ porta qui che gli Holocaust Claims, cosi come le azioni por­ tate sulla base dell’ATS, si siano usualmente incanalati verso accordi transattivi, preme piuttosto segnalare che tali accor­ di siano stati il più delle volte estremamente vantaggiosi per le vittime - oltre che per il timore, da parte dei soggetti con­ venuti in giudizio, di esiti processuali ancor più onerosi proprio grazie al peso che quel simbolismo ha saputo eserci­ tare al di fuori del sistema giudiziario, sui circoli intellettua­ li e sul circuito comunicativo415. Come è poi regola nel sistema giudiziario Usa, tanto gli ‘Holocaust’ quanto gli ‘ATS claims’ offrono la prima linea della battaglia giudiziale agli attori in giudizio (e non ai ma­ gistrati inquirenti), i loro cospicui costi d’instaurazione e ge­ stione sono finanziati, non dalle vittime, né dalla parte soc­ combente in giudizio, né dal contribuente, ma dagli avvoca­

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ti (sulla base dei patti di quota lite), e mirano unicamente al­ le politicamente meno esposte, ma non meno mediaticamente rutilanti, condanne risarcitorie. Vale ancora aggiungere che azioni del genere, litigate in Usa, sottoposte alle costose procedure americane, non pos­ sono essere gestite che da avvocati Usa. Di qui, al di là del­ le minute contingenze, la giuntura fra interessi economicocorporativi del ceto forense e quelli di un sistema paese che si erge a modello in grado di includere, governare e riparare le ingiustizie del mondo, rendendo concretamente rivendi­ cabili pretese altrove silenziate - o consegnate a quei mecca­ nismi farraginosi che abbiamo visto propri alle giurisdizioni penali universali, domestiche o no416. Ma di qui anche il paradosso di un’America che non ra­ tifica lo Statuto della Corte penale internazionale, che è sal­ da nel difendere l’inflessibilità del proprio diritto criminale (dalla pena di morte alla ‘third strike rule’417, all’infamante gestione nel recente passato dei processi ai terroristi)418 e che però persegue gli ‘altri’ esecrandi del pianeta con le azioni risarcitorie civili. L’Europa garantista e ‘gentile’415 tenta di ergersi a baluar­ do dei medesimi valori, utilizzando gli stessi linguaggi e at­ tingendo agli stessi messianici riflessi culturali, indifferenti alla storia e alla geografia, impugnando tuttavia il martello della sanzione penale e volendolo brandire su scala univer­ sale, a partire dalla stazza di un singolo paese europeo. La passione cosmopolita, lo slancio umanitario e la forza dei simboli, come vediamo ancora una volta, non si declina­ no dappertutto allo stesso modo e, soprattutto, non riescono a cogliere gli stessi risultati indipendentemente dal diritto, dai suoi apparati e dalle sue culture.

Parte terza

I diritti umani-.quando e dove?

Capitolo decimo

Carte, linguaggi e sconfitte

Oltre agli usi centrati sull’economia, e ai tentativi di rea­ gire ai crimini più efferati, ulteriori impieghi su scala globa­ le del diritto si sono volti a rendere uniforme la nozione di diritti umani, insieme ai modi di intenderne la protezione. In argomento, le prassi, i dibattiti, e le retoriche, si rincor­ rono incessantemente e meritano un’analisi rispettosa delle loro articolazioni.

i. Moltiplicazioni.

L’affermazione della voce e delle carte sui diritti umani, come li intendiamo oggi, è frutto di un processo multiforme, che ha visto all’opera nei contesti domestici e internaziona­ li attori diversi, provenienti da una grande varietà di tradi­ zioni, culturali, politiche e giuridiche. La trasformazione dei diritti umani, da focolaio latente di pretese a tema fondan­ te di un regime giuridico transnazionale è stata però una ri­ sposta a circostanze storiche particolari. Dopo la seconda guerra mondiale, la convinzione che la protezione di taluni diritti non potesse più essere abbando­ nata ai variabili umori degli affari interni dei singoli paesi in­ dusse a puntare a uno strumento che ‘costituzionalizzasse’ i limiti al potere degli Stati su una serie di diritti spettanti agli individui420, un controllo visto quale strumento essenziale per evitare il ripetersi di orrori come quelli dell’olocausto421. L’i­ dea era quella di offrire proiezione normativa ai principi che

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Capitolo decimo

tutti gli individui hanno diritto al minimale rispetto della lo­ ro dignità, che certi diritti sono universali, fondamentali, inalienabili, e che perciò non possono, e non devono essere compressi, né dagli apparati statali, né dalle sottostanti tra­ dizioni culturali o religiose422. In seguito, furono le critiche al colonialismo, le teorie sul diritto all’autodeterminazione dei popoli, emerse con forza negli anni ’50 e ’60, assieme alle istanze socialiste e social­ democratiche di varia provenienza423, a produrre un’espan­ sione del dibattito e delle sue rivendicazioni. Nel corso del tempo che porta vicino a noi, il ventaglio dei diritti umani si è in effetti articolato in una direzione assai più egualitaria e meno individualistica di quanto lo fosse a metà del xx se­ colo. Ai diritti civili e politici si sono aggiunte, dapprima, le essenziali garanzie al lavoro e a lavorare a ragionevoli condi­ zioni, alla salute, al cibo e alla sicurezza sociale, all’educazio­ ne e alla partecipazione alla vita culturale della comunità; e poi i diritti collettivi, specialmente quelli che hanno tratto ai diritti delle popolazioni indigene424. Cosi, la nozione stes­ sa dei diritti umani si è estesa, dal suo significato originale tutto interno al liberalismo - la protezione dell’individuo dal­ lo Stato -, fino a includere una serie di obblighi almeno teo­ ricamente gravanti sullo Stato e sugli attori globali, a favo­ re dei singoli e dei gruppi. Personaggi questi ultimi che, sul drammatico palcoscenico delle sopraffazioni, hanno final­ mente trovato un autore. Sulla scena, come vedremo, non mancano né le luci, né il pathos, è la regia a risultare spesso di maniera.

2. Radici. Cominciamo col rimarcare alcuni punti fermi. Nella loro inclusiva vaghezza, le radici dei diritti umani possono trovare accoglienza in ognuna delle grandi tradizio­ ni di pensiero che pongono l’individuo al centro della visio­

Carte, linguaggi e sconfitte

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ne del mondo425: dai principi economico-sociali scolpiti nel­ le leggi babilonesi, al forte accento posto dal confucianesi­ mo sul potere emancipatorio dell’educazione e della cono­ scenza; dalle libertà fondamentali (di coscienza, dalla violen­ za, dall’indigenza, dallo sfruttamento, dalla malattia, dalla paura, per la tolleranza, per la conoscenza) al centro del pen­ siero induista e buddista, alle radici greche e romane della riflessione su virtù e diritti (e alla loro preveggente tensione fra relativismo e universalità); dall’ampio ventaglio di spun­ ti, direttive e principi che si è potuto trarre dalle tradizioni monoteiste, dell’ebraismo, dell’islam e della cristianità, alle più recenti, ma non meno pervasive, istanze egalitarie pro­ poste dal pensiero marxista426. Su questi presupposti, si è autorevolmente sostenuto che i diritti umani godono di una universalità cognitiva e norma­ tiva, che tiene discosta da sé ogni forma di imperialismo cul­ turale. Cosi, in sintonia con chi ritiene esistere un ‘overlap­ ping consensus’ sul quale l’umanità può fondare la sua con­ vivenza pacifica427, si è potuto sottolineare come la teoria dei diritti dell’uomo si appoggi su di una universalità trascen­ dentale, che può essere interpretata come un nucleo di intui­ zioni morali, verso il quale convergono le grandi religioni e filosofie metafisiche che si sono affermate nella storia uma­ na, al di là e a prescindere dalle vicende che hanno caratte­ rizzato lo sviluppo dell’occidente428. Al dibattito più avanzato42’ sono noti i limiti di questa ri­ cerca di una diacronica universalità delle radici dei ‘diritti umani’ (sulla loro sincronica, contemporanea transculturalità verremo invece più avanti), soprattutto quando essa in­ tenda spingersi oltre il rilievo di come nessuna civiltà o po­ polo possa rivendicare l’esclusiva di alcune aspirazioni450. Quei limiti si scorgono facilmente ponendo allo specchio linguaggio e storia. In primo luogo, se si parla di diritti - nel senso di pretese reclamabili di fronte a un’autorità indipen­ dente dalle parti, che giudica sulla base di regole specialistiche, secolari e non ideologiche -, si fa riferimento a una no­

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Capitolo decimo

zione che, coibente linguistico di tutta la materia in questio­ ne, è propria all’elaborazione della cultura occidentale, e da qui irradiata nel discorso pubblico internazionale431. In se­ condo luogo, a trasformare la « sostanza normativa delle gran­ di dottrine profetiche e delle interpretazioni metafisiche af­ fermatesi nella storia universale»432 in una dottrina attiva dei diritti umani è stata ancora una volta la cultura occidentale. Ciò che è avvenuto peraltro solo al termine di un lungo pe­ riodo della sua storia, costellato da violenti conflitti, sociali e militari, che neppure il secolare radicamento delle «grandi religioni e filosofie»433 ha saputo impedire (ed è tanto desi­ derabile quanto difficile che le stesse dottrine dei diritti uma­ ni sappiano prevenire). Dato, quest’ultimo, da tenere a mente - e su cui infatti torneremo - perché pone al centro dell’attenzione, sul pia­ no delle prassi operative, la rilevanza cruciale che sempre spetta al fattore tempo, nell’apprezzare ogni possibile con­ vergenza, o specularità, fra grandi e piccole rivoluzioni.

3. Diritti sulla carta.

La trasformazione delle visioni metafisiche del mondo in pratiche quotidiane si compie, come spesso accade, attraver­ so il diritto: dapprima mediante il riconoscimento, quanto meno formale434, di tutti gli individui del pianeta come tito­ lari di prerogative oltre e contro gli Stati435, e poi tramite la diffusione del linguaggio, e l’invocazione della tecnologia giu­ ridica, a sostegno delle attività di denuncia e sanzione dei colpevoli per le violazioni di quei diritti436. L’innesco del cambio di paradigma si ha in effetti con la Dichiarazione Onu del 1948, la quale colloca i diritti umani a livello ultra-statuale, mirando in linea di principio a sot­ trarli alla dipendenza dalle visioni domestiche, ripiegate sul­ le mutevoli opzioni politiche e giuridiche nazionali. Ad es­ sa, come è noto, sono seguiti numerosi documenti, volti a

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specificarne il contenuto in relazione a specifici soggetti o settori (fra le altre: la Convenzione sul genocidio, del 1948; la Convenzione dei diritti politici della donna e la Conven­ zione sulla nazionalità della donna coniugata, entrambe del 1952; la Dichiarazione dei diritti del bambino, del 1959; la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discrimi­ nazione razziale, del 1963; i ‘Patti’ sui diritti civili e politi­ ci e quello sui diritti economici, sociali e culturali, entrambi del 1966; la Dichiarazione sull’eliminazione delle discrimi­ nazioni contro la donna, del 1967; la Convenzione sulla di­ scriminazione contro le donne, del 1979; la Convenzione sul­ la tortura, del 1984; la Dichiarazione sul diritto allo svilup­ po, del 1986; la Convenzione sui diritti dei minori, del 1989; la Convenzione sui diritti delle persone disabili, del 2006, la Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni, del 2007). Op­ pure si tratta di documenti volti a rifinire i dettami della Di­ chiarazione universale o a proporne di propri su scala geo­ grafica, fissa o variabile (come la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamen­ tali, del 1950, o la Convenzione americana sui diritti dell’uo­ mo, del 1969, la Carta africana dell’(O)UA, adottata nel 1981; e il suo Protocollo sui diritti delle donne in Africa, del 2003; la Carta asiatica, del 1998; e poi la Dichiarazione isla­ mica universale dei diritti dell’uomo - del Consiglio islami­ co d’Europa - del 1981; la Dichiarazione del Cairo sui dirit­ ti dell’uomo nell’IsIam - della Organizzazione della Confe­ renza islamica, del 1990; la Carta della Lega degli Stati arabi, del 2004). Inoltre, come abbiamo ricordato al Capitolo pre­ cedente, si è affermata l’opinione secondo cui vanno repu­ tate esistenti una serie di norme consuetudinarie di diritto internazionale ‘umanitario’, le quali vincolerebbero gli Sta­ ti a prescindere che essi abbiano o no ratificato questo o quel­ lo strumento normativo437. Occorre tuttavia compiere subito un passo a lato delle po­ sizioni dominanti, o di mera contemplazione. Ogni vocazione a cambiare la realtà delle relazioni urna-

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Capitolo decimo

ne, tanto più se espressa in termini planetari, ha bisogno di regole non solo programmatiche, ma precettive e, soprattut­ to, capaci di sanzionare effettivamente le condotte eversive di quei precetti - e, conseguentemente, di operare come ef­ ficace deterrente per ogni violazione futura. Ebbene, a dif­ ferenza di quanto avviene a livello regionale, per gli Stati membri del Consiglio d’Europa, per quelli membri dell’Organizzazione degli Stati americani (OAS) e dell’Organizza­ zione per l’Unità africana, che hanno istituito Corti apposi­ te a tutela delle loro Carte4’8, non esistono meccanismi di ti­ po giurisdizionale deputati a garantire l’osservanza universale dell’intera panoplia dei diritti umani. A tal fine sono invece all’opera comitati di vario genere, deputati al controllo del­ l’applicazione dei trattati, delle dichiarazioni e risoluzioni Onu, ma sprovvisti di funzioni giurisdizionali e di ogni ca­ pacità di enforcement, a fianco dei quali si muove poi, con attività di analisi, mobilitazione e denuncia, una vasta con­ gerie di organizzazioni non governative4”. Eppure, quotidianamente, ciascuno dei numerosi diritti umani viene conculcato o calpestato, senza rimedio, in que­ sto o quell’angolo del pianeta. E l’osservazione di questa ce­ sura profonda, tra altisonanti proclamazioni di principio a valenza planetaria, e modeste, incomplete, tutele operazio­ nali, a porre subito una questione cardinale: Come si spiega questo iato ? E l’illusione di governare le ingiustizie con il diritto che svanisce, evaporata al sole delle realtà ? Oppure, come per le giurisdizioni penali universali, è il modo di pen­ sare e forgiare quel diritto che va mutato, perché ebbro di postulati inadeguati a comprendere le stesse realtà che inten­ derebbe governare ?

Capitolo undicesimo Diritti senza diritto

I quesiti con cui si è chiuso il capitolo precedente cerca­ no risposte. Prima di tentare le nostre, è bene ricordare quel­ le avanzate dalle prospettive che hanno guadagnato il centro del dibattito. L’insufficiente salvaguardia operativa offerta ai diritti umani su scala globale viene difatti connessa, da un lato, alla loro reclusione nel recinto giuridico, dall’altro, al­ la loro matrice euro-americo-centrica. I due argomenti presentano fra loro punti di contatto as­ sai piu numerosi di quanto possa sembrare a una frettolosa ricognizione delle loro prassi discorsive, ma qui vale la pena di introdurli separatamente.

i. Diritti e politica.

Le quotidiane sconfitte subite dai diritti umani sul terre­ no della loro effettività, e una percezione generale del dirit­ to assai lontana da quella qui esposta, hanno spinto frange anche autorevoli del dibattito a uno scarto argomentativo, nobile negli intenti ma, come vedremo, velleitario quanto agli esiti. Sotto tiro è l’approccio ai diritti umani che si vol­ ge a enfatizzarne la dimensione giuridica. Secondo alcuni l’accento sulla dimensione giuridica si sa­ rebbe tradotto, da un lato, nel negare l’evidenza che qualun­ que atto normativo sul punto deve fronteggiare tradizioni e sentimenti diffusi, che pre-esistono e trascendono quegli stes­ si gesti normativi440. Dall’altro lato, la critica si centra sulla

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Capitolo undicesimo

stessa giuridicità, da intendersi come matrice occulta della scarsa effettività di quei diritti, giacché finirebbe per forza­ re questi ultimi in una struttura istituzionale che non riesce a essere efficace dappertutto allo stesso modo441. Di qui i ri­ ferimenti a chi, Bentham, Hart o Rawls442, si ritiene consen­ ta di esaltare una natura solo pre-, post- o ideal-giuridica dei diritti umani, i cui valori fondanti dovrebbero essere meglio spesi e supportati, e così meglio difesi, nell’ambito della di­ scussione pubblica443. Le stesse corde risuonano in chi avver­ sa la positivizzazione dei diritti umani perché finirebbe per ridurre di questi il ‘potenziale critico’444; oppure in chi dis­ sente dalla visione che ‘costituzionalizza’ i diritti umani co­ me diritti pre-politici, o supra-politici, cui la politica dovreb­ be essere soggetta, anziché trattarli, più opportunamente, come diritti il cui sostegno e conseguimento può avvenire so­ lo attraverso la politica445. Si tratta di letture appassionate, e talora affascinanti. Il punto è però che tutte postulano a) una realtà in cui tutti, in ogni parte del mondo, abbiano uguale accesso alle ‘discussio­ ni pubbliche’, b) che queste ultime siano ovunque gestite su un piede di parità, quanto a risorse per, e opportunità di, di­ scutere, e c) che le decisioni politiche siano più stabili di quel­ le giuridiche. Risaputo che così non è, né in Occidente né al­ trove, anche supponendo il contrario, la domanda urgente diverrebbe sempre: in concreto, nel quotidiano, con quali istituzioni, quali tecniche, quali regole, si può garantire la tutela operativa, l’applicazione effettiva di quei diritti, a fa­ vore di chi ne subisce la violazione ? Sostenere poi - come si è fatto, tentando di spostare lie­ vemente il piano del discorso - che ogni insistenza sulla cen­ tralità dell’enforcement dei diritti umani rischia di far pas­ sare l’idea che la responsabilità unica della mancata prote­ zione di quei diritti sia dei giudici e non anche del legislativo o dell’esecutivo446, è argomento che si annuncia altrettanto fragile dei precedenti. Se in Occidente, sul punto che ci riguarda, la dialettica

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fra governi, parlamenti e giudici è talmente pronunciata da impedire pregiudiziali distribuzioni inique di responsabilità, nel confronto con le realtà non occidentali quell’argomento si mostra addirittura ingenuo. Innanzitutto, fuori dall’Occidente la catena di controllo che lega il potere legislativo al­ l’esecutivo e alla giurisdizione è assai più corta che da noi: insistere quindi sulla centralità dell’enforcement dei diritti umani, lungi dal de-responsabilizzare legislativi ed esecuti­ vi, significa sfidare direttamente, di quei sistemi, le stesse posture politiche. In secondo luogo, senza un processo di rafforzamento della cultura locale che consolidi centralità, laicità e terzietà del giudice (locale) chiamato a dirimere i conflitti inerenti i diritti umani, il gruppo o l’individuo che reclami una lesione ai propri diritti finirebbe in quelle realtà, come di fatto già finisce, per essere lasciato appeso al filo del­ la sua capacità (di mobilitare risorse, locali o internazionali, in grado) di influire sulla decisione politica. Soluzione diffi­ cile da promuovere non appena si ponga mente alla estrema diseguaglianza, inaffidabilità e variabilità di quelle capacità, nel tempo, nei luoghi, e nei differenti contesti sociali e poli­ tici. Insomma, la distanza delle proprie traiettorie da quelle esplorate dalla tecnocrazia giuridica e, o in alternativa, la per­ cezione del diritto come una sovrastruttura di cui si dovreb­ be tendere al superamento, oppure l’invocazione al suo po­ sto di una ‘etica sociale’447, non bastano a se stesse per giu­ stificare la marginalizzazione del diritto dal campo in cui - certo: accanto alla politica, alle etiche sociali, ai dibattiti appassionati - si gioca la partita che ha in palio la vita quo­ tidiana di miliardi di persone, le loro pretese, i loro conflit­ ti. Quelle percezioni e invocazioni sono invece fondate al­ lorché ribadiscono che reclamare la politicità dei diritti uma­ ni equivale a denunciare la loro insopprimibile appartenenza ai valori condivisi dalla concreta comunità (anche politica)448 in cui vengono discussi, affermati o rivendicati. É del resto proprio in quest’ultima prospettiva che si comincia a intra­

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Capitolo undicesimo

vedere il senso e gli obiettivi propri al secondo filone di ar­ gomenti, volti a spiegare e sfidare la claudicante salvaguar­ dia che i diritti umani ricevono in larga parte del pianeta: il tema è quello della loro pretesa universalità. Prima di saggiarne il fondamento è però bene svolgere una considerazione preliminare sul lessico di questo dibatti­ to e su quelli che dovrebbero rappresentarne i presupposti. Nota che si rivelerà utile, quanto meno, a sgomberare il cam­ po da costrutti in rapporti malfermi con la realtà.

2. La frammentazione delle identità.

Il riferimento alla persona titolare di diritti come sogget­ to astratto (per lungo tempo: maschio, bianco, adulto, sano, libero e possidente) è stata una conquista occidentale, rasso­ data negli due ultimi secoli, e con cui si è inteso archiviare il frammentato regime di status, privilegi, franchigie e immu­ nità che caratterizzava l’età precedente44’. Nonostante l’articolazione e l’accelerazione nel prodursi delle interrelazioni personali ed economiche (e l’inclusione, nel parametro, delle donne, dei minori, dei non-‘sani’, non­ bianchi, non-possidenti), l’unificazione del soggetto di dirit­ to, quale forma di organizzazione del discorso giuridico, è potuta sopravvivere fino a noi perché non sfidata efficace­ mente da forme di organizzazione del discorso che a quel pa­ radigma sfuggissero. Oggi, il caracollio della storia pare stimolare uno sforzo rinnovato di riflessione - su dati che peraltro, scopriremo su­ bito, nuovi non sono. In rude sintesi, si può ricordare come la scena contempo­ ranea sia marcata dal declino dell’idea che gli Stati, e il ‘lo­ ro’ diritto, diano voce e governo a una indifferenziata e omo­ genea comunità450. La dipartita da questo assunto è stata certamente resa più agile dall’accelerata velocità d’intercon­ nessione fra idee e persone abitanti il pianeta, ma gli svilup­

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pi tecno-economici non bastano a spiegare l’occaso di quel modo d’intendere i rapporti fra sovranità, diritto e identità. Ciò cui si assiste con sempre maggior nitore è difatti un fe­ nomeno più vasto, e insieme più profondo o, se si preferisce, quanto è avvenuto è il recupero di un dato fondamentale, anche ai nostri fini. Il dato è che in gran parte delle società conosciute, occidentali e no, le identità individuali sono spal­ mate su differenti strati di affiliazioni, dettate e.g:. dalla re­ ligione, dalla famiglia, dall’idioma locale nazionale transna­ zionale, dalle scelte professionali ed economiche (astratte o ideali, oppure concrete o d’investimento), dalle scelte ali­ mentari, dalle opzioni politiche, locali nazionali transnazio­ nali, dall’appartenenza a una comunità etnica o territoriale - dato, quest’ultimo, ovviamente meno insolito in Stati i cui confini, etero-disegnati, risultano etnicamente ‘fantasiosi’. ‘Affiliazioni’ che, con diversa intensità e raggio d’azione, esprimono bisogni, orientano le scelte degli individui o dei loro raggruppamenti, chiedono o postulano rappresentanza, ma domandano pure regole rispettose della loro identità451. Senza dire delle fedeltà di maggiore evidenza, come quel­ le politiche o religiose, né delle appartenenze che meglio di ogni altro sono esplorate dai genetisti, nella nostra prospet­ tiva uno sforzo anche superficiale di analisi mette in luce al­ meno quanto segue. a) I legami familiari432 e di natura tribale453 determinano soggezione al principio di autorità personale (tramite il qua­ le il più delle volte le dispute sono risolte al di fuori del cir­ cuito giuridico formale); e la fedeltà a questi vincoli può de­ terminare scelte e comportamenti che sono inefficaci per il, o proibiti dal, diritto ufficiale, ossia quello posto dallo Sta­ to e dalle sue propaggini istituzionali454. E questo il profilo sotto il quale vengono sovente riguardate anche le regole pro­ prie delle società claniche endostatuali (di cui un vigoroso esempio sono le comunità cc.dd. mafiose)455. b) I legami comunitari - etnici456, di vicinato, dell’asso­ ciazionismo in genere - determinano scelte orientate al per­

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seguimento della coesione del gruppo (talora favorendo di nuovo l’informalità, come terreno privilegiato di soluzione per un gran numero di dispute) e producono fedeltà a valo­ ri che possono risultare anche qui indifferenti al, o di contro avversati dal, diritto ufficiale437. c) L’osservazione dell’esistenza di legami educazionali, nascenti soprattutto dalla formazione accademica e post-accademica, non solo consente di vedere come essi possano so­ vrapporsi (ad esempio nel linguaggio delle élite) ad altri le­ gami, ma è pure un potente strumento di comprensione del­ le ragioni per cui, ad esempio, un politico, un giurista, un giudice, non occidentale e tuttavia formatosi in Occidente, finisce per essere sensibile a valori e pratiche occidentali nel­ lo svolgere la propria attività all’interno di istituzioni sovranazionali o del paese d’origine458 - e di qui, peraltro, la fri­ zione frequente fra quei valori e quelle pratiche e il contesto locale, dove tradizioni, valori e soluzioni esprimono resisten­ ze che possono portare molti degli sforzi di ‘occidentalizza­ zione’, anche del diritto, a un punto morto45’. d) I legami economici (appartenenze a corporazioni pro­ fessionali, dipendenza da un lavoro460, da scelte d’investi­ mento, personale o imprenditoriale, da scelte di consumo)461 determinano opzioni individuali che possono essere in anti­ tesi con i valori sottostanti gli altri legami e, non di meno, condizionare cospicuamente pratiche, gerarchie di opportu­ nità e le stesse scelte circa le modalità d’istradare la soluzio­ ne dei conflitti462. e) I legami linguistici orientano a loro volta non solo l’o­ rizzonte culturale di riferimento, quello sociale di apparte­ nenza, ma anche l’interlocuzione diretta e le scelte operati­ ve dettate dai significati inclusi nel, e quelli esclusi dal, vo­ cabolario della/e lingua/e maneggiata/e. Dato che delimita altresì la possibilità di rifornirsi tempestivamente dei proble­ mi, prima ancora che delle soluzioni, riguardanti non solo i fenomeni in corso ma anche (e fuori dall’occidente soprat­ tutto) i propri diritti e le vie per proteggerli463.

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3. Il dinamismo delle identità. Se prendiamo minimamente sul serio quanto fin qui solo tratteggiato, la questione diventa quella della misura e delle modalità con cui il discorso e la pratica dei diritti umani so­ no disposti a riconoscere ciascuna di queste differenti appar­ tenenze, spesso stratificate e intrecciate fra loro. Non c’è dubbio, ad esempio, che le fedeltà tribali etni­ che linguistiche siano in grado di condizionare potentemen­ te le rivendicazioni dei relativi diritti. Ciascuno di questi le­ gami può tuttavia sovrapporsi e incrociarsi con uno o più de­ gli altri vincoli. Ancora: l’assenza di alternative allo Stato, quale fonte di ogni privilegio sociale, politico, economico, può esasperare il conflitto etnico per il controllo del pote­ re464. Come è risaputo, la dipendenza economica può enfa­ tizzare il rilievo del diritto al lavoro e stingere sulla capacità della persona di reagire alla compressione dei diritti ambien­ tali465 o alla messa in iscacco della propria stessa dignità per­ sonale466. Le illustrazioni potrebbero moltiplicarsi467, ma quanto conta sottolineare è che il variegato articolarsi dei ‘dosaggi’ fra queste interrelazioni evidenzia pure il dinami­ smo insito nelle dimensioni dell’appartenenza. Si tratta di fedeltà che - seppure non sempre e con tem­ pi fra loro diversi - possono essere acquisite, rimodellate dal­ la forza del diritto e dei suoi attori (locali e no)468 o riforgiate al proprio interno, nel corso del tempo, attraverso la diffe­ rente comparazione concreta che la persona, o il gruppo, fa o è indotto a fare fra le proprie preferenze, gli interessi e i va­ lori in gioco46’. Questo è un dato che dovrebbe proporre alla riflessione modelli più articolati di quelli su cui essa indugia d’abitudine (anche, e per esempio, con riguardo al trattamen­ to giuridico offerto da noi alle minoranze e alle appartenen­ ze degli immigrati)470. Più in particolare, è un dato che appa­ re di grande rilevanza al fine di valutare come e quanto le ri­ vendicazioni dei diritti riescano a veicolare affermazioni di

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identità che guardano solo al passato, intendono protrarre il proprio sé nel futuro, o più realisticamente incamerano il di­ namismo dei fattori di produzione di quelle stesse identità. Certo, qualunque istradamento della riflessione necessi­ ta della preliminare avvertenza che ogni esito in questa pro­ spettiva dipende dall’area del mondo cui guardiamo, dal set­ tore del diritto cui poniamo le domande, dagli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere con le risposte. E però solo te­ nendo a mente la dispersione e, nel tempo, la mobilità delle appartenenze, che è possibile accorciare la distanza che ta­ lora ci separa dalla comprensione dei fenomeni e sollevare, al contempo, la polvere della retorica da uno dei cuscini me­ glio imbottiti di pregiudizi del nostro occidentale divano - quello da cui si è soliti scorgere le vicende del mondo.

4. Universale e relativo. E del resto proprio la percezione e il modo di considera­ re la natura delle diverse identità ad alimentare il dibattito di una tensione stridente: quella fra i sostenitori del relati­ vismo e i sostenitori dell’universalismo, culturale e giuridi­ co. Questa tensione finisce per innervare anche l’asse reto­ rico che oppone il ‘globale’ al ‘locale’. Ciò che è globale ap­ pare senza radici geografiche, quanto è locale presuppone un’area spaziale su cui esercitarsi471. La controversa fissità della relazione fra diritti e cultura si lascia conseguentemen­ te cogliere come un’opposizione fra universalismo, nella for­ ma di una concezione transnazionale e ubiqua dei diritti, e relativismo, nella forma del rispetto per le (o adesione alle) differenze culturali e giuridiche locali472. Meglio noto al lettore l’argomento degli universalisti - giac­ ché motore della diffusione dei modelli giuridici occidenta­ li, delle domande di diritto ‘globale’, delle giurisdizioni pe­ nali ‘universali’ -, è la posizione dei relativisti a meritare qualche precisazione.

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5. Macro-particolarismi?

In effetti, di scarso impatto sulle élite politiche occiden­ tali, dedite all’universalismo di facciata473, a sua volta frutto di una scelta non sempre innocente474 (e fatta spesso fluttua­ re al volatile tasso della contingenza politica), il relativismo è supportato da una variegata schiera di protagonisti del di­ battito globale. Le articolazioni che meritano qui il richiamo sono quelle che enfatizzano il valore intrinseco di ciascuna cultura, qua­ le che essa sia; rifiutano l’idea che alcune siano primitive, o meno sofisticate delle altre; combattono come il peggior ne­ mico sia l’etnocentrismo, cioè ‘il punto di vista che il pro­ prio modo di vivere sia migliore di tutti gli altri’, sia l’impat­ to che questa stessa visione produce in termini di strategie di azione475. Tale prospettiva, e il suo confronto con l’anti­ tesi universalista, ha continuato a costituire il dato di par­ tenza fondamentale per le più animate discussioni - in par­ ticolare, quelle sull’accettabilità o no, in nome della diver­ sità, di (ciò che agli occidentali appaiono) intollerabili soprusi ai danni delle persone476. Di tali diatribe offriremo nel capitolo seguente qualche concretizzazione. Fin d’ora è bene però ricordare come a trarre linfa dai serrati dibattiti condotti proprio in punto di universalità/relatività dei diritti umani siano stati fenomeni maggiori. Al di là del proliferare delle già richiamate carte a geografia fissa o variabile (che mirano appunto ad adeguare i diritti ‘universali’, o a forgiarne di propri, sulla base dei va­ lori culturali e delle tradizioni particolari a quelle macroco­ munità), altre epifanie, che si vogliono ‘autonomiste’ su lar­ ga scala, hanno guadagnato i riflettori. Celebre è la polemica sui cc.dd. Asian values, esplosa nel corso della seconda Conferenza delle Nazioni Unite sui di­ ritti dell’uomo, che si tenne a Vienna nel giugno del 1993. In quella sede, i delegati di buona parte dei paesi asiatici si

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opposero alla tesi sostenuta dai paesi europei e nordamerica­ ni circa l’universalità e l’indivisibilità dei diritti fondamen­ tali, rivendicando la connotazione marcatamente occidenta­ le delle proclamazioni di quei diritti, nonché l’esistenza di una classe di valori specificamente asiatici (disciplina, ordi­ ne, coesione sociale), inconciliabili con l’individualismo uni­ versalistico, e colà prevalenti su altri valori, nonché priori­ tari rispetto alle stesse libertà politiche4”. Non si creda però che il fronte asiatico della polemica sia compatto. Si è infat­ ti autorevolmente sostenuta la fruttuosità della ricerca nel corpus delle tradizioni culturali orientali di dati utili a mo­ strare la compresenza, accanto ai valori enfatizzati dai teo­ rici degli Asian values, di principi compatibili con la tutela dei diritti umani ‘occidentali’. E la strada percorsa, fra gli altri478, da Amartya Sen, il quale sostiene che non solo è pos­ sibile rintracciare nella tradizione buddista consapevoli teo­ rizzazioni del rilievo della tolleranza e della libertà indivi­ duale, ma che nelle culture indiana e cinese sarebbero pre­ senti gli stessi elementi costitutivi dell’idea di libertà individuale che ricorrono nella tradizione europea, elemen­ ti che solo l’autoritarismo di taluni regimi contemporanei cercherebbe di mettere in ombra47’. Neppure il dibattito sulla cultura islamica si è tenuto di­ scosto dallo stesso genere di discussioni, e divisioni480. Cer­ to, in quei contesti, la commistione di autorità religiose e se­ colari rappresenta ancora oggi una frattura non facilmente componibile sul terreno dell’effettività di una cospicua fet­ ta dei diritti umani: ed ecco perché lo stesso linguaggio dei diritti, basato sul riconoscimento di un individuo sovrano e indipendente, è sovente presentato come dato del tutto in­ conferente all’interno di un pensiero politico e una visione della società che si vuole incardinata sulla teocrazia481. Ma ecco pure il medesimo genere di rifiniture che avevamo tro­ vate apposte al dibattito sugli Asian values, e qui volte a ri­ levare che il contenuto preciso del sistema della sharì'a è sta­ to e continuerà a essere il prodotto della interpretazione urna-

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na in uno specifico contesto storico482; a sottolineare come l’IsIam parli oggi con molte voci e come la presa in conto dei contesti nazionali possa essere più importante del semplice focalizzarsi sui principi teologici generali485; a evidenziare co­ me siano motivazioni politiche a ispirare le rappresentazio­ ni più aspre che dell’IsIam filtrano in Occidente, animate a loro volta dalle fazioni più conservatrici, che prevalgono nei paesi islamici del Medio Oriente e non altrove484. Dati tutti questi che non permetterebbero di concludere in termini di un conflitto necessariamente duraturo fra teocrazia islamica e ideologia occidentale dei diritti485.

6. Aldi qua del discorso.

Le sfide e le aporie appena richiamate non esauriscono il loro peso sul terreno dei dibattiti teorici o su quello della con­ fezione di carte geografiche dei diritti. Esse incidono diret­ tamente sugli argomenti con cui nelle prassi comunicative si pensa l’identità, I’‘altro’, e il ‘sé’, scontandone o no l’immu­ tabilità486. Esse, non solo si offrono come ricettacoli di ten­ sione politica e resistenza giuridica locale, in punto di tute­ la effettiva dei diritti, ma condizionano pure le modalità con le quali si progettano interventi, architetture istituzionali, tecniche interpretative, apparati giudiziari, intorno alla sal­ vaguardia dei diritti umani. Vale allora la pena di tentare di comprendere come si pre­ sentino oggi quelle tensioni, quelle resistenze e quei proget­ ti, nella ‘pratica’ dei diritti umani, e nel prisma di alcuni ca­ si concreti.

Capitolo dodicesimo

Le pratiche

Al nucleo di tutti gli esempi che seguono troviamo il con­ flitto fra diritti declinati globalmente e quelli declinati local­ mente. Gli ultimi due casi riguarderanno i diritti dei popoli indigeni, allo specchio della diatriba sul valore e sul conte­ nuto delle identità. I due casi che li precedono avranno trat­ to alla condizione femminile, come giacimento di diritti la cui realizzazione fronteggia situazioni sociali e tradizioni cul­ turali assai differenziate. I primi due casi stirano le pieghe del discorso intorno al possibile utilizzo del diritto e dei suoi apparati.

i. La tortura come routine e la religione come libertà dalla satira.

Il primo esempio serve in effetti da monito circa i rischi recati, pure in Occidente, da un arretramento della dimen­ sione giuridica dei diritti. Rischi che possono condurre a un uso politico aberrante del diritto, in particolare se esso si at­ tua al riparo da ogni controllo giurisdizionale. E un caso che tratta della maniera in cui negli Usa giuri­ sti proni al potere hanno saputo elaborare la nozione di tor­ tura - vicende ben note agli studiosi assai prima delle più re­ centi rivelazioni della stampa487. Proclamato in vari atti internazionali di carattere gene­ rale, il divieto di tortura trova specifica consacrazione nella menzionata Convenzione Onu del 1984. Questa contiene al-

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Part. i,i° co., una definizione dettagliata: «il termine ‘tor­ tura’ indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzio­ nalmente inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fi­ siche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è so­ spettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza per­ sona o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano in­ flitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale o su sua istigazione o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si esten­ de al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da san­ zioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate». La stessa Convenzione proscrive poi, all’art. 16, i° co., i trat­ tamenti «crudeli, inumani o degradanti che non siano atti di tortura quale definita all’articolo i » anche se inflitti quali «metodi e pratiche d’interrogatorio» o durante «la custodia e il trattamento delle persone arrestate, detenute o imprigio­ nate» (art. n). Nonostante gli Usa abbiano ratificato la Convenzione (con una cospicua serie di riserve, che consentono ampia cor­ sa a condotte al limite di quanto ritenuto lecito dalla stessa Convenzione)488, la precedente amministrazione americana ha ritenuto a un certo punto di essere vincolata da una no­ zione di tortura che risultava incerta, o comunque al di qua dell’opinabile. Per rimuovere queste aporie, schermare la propria azione da critiche pubbliche e precostituirsi un’even­ tuale difesa in chiave processuale, il Dipartimento di Giusti­ zia americano interpellò ripetutamente il proprio Office of Legal Counsel al fine di ottenere definizioni autorevoli e, volta a volta, appropriate alla bisogna. Uno dei più celebri fra questi responsi è quello reso in punto di identificazione di una nozione di tortura che si rivelasse utile ai fini della conduzione degli interrogatori di sospetti terroristi48’. Il ri­

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lievo della vicenda è dato anche dalla qualità dei giuristi coin­ volti: il destinatario di questo ‘Torture Memo’ era Alberto Gonzales, un tempo giudice della Suprema Corte del Texas, all’epoca consigliere della Casa Bianca e più tardi promosso U.S. Attorney General, ossia ciò che noi chiameremmo mi­ nistro della Giustizia; mentre il primo firmatario del docu­ mento in questione è Jay Bybee, allora Assistant Attorney General e successivamente nominato al prestigioso scranno di giudice di una Corte d’Appello federale. Leggere selettivamente l’insieme delle regole in vigore, al fine di arrivare a una definizione ‘accettabile’ di cosa fosse tortura è stato, per gli autori di quel documento, un eserci­ zio banale. L’art. i (i) della Convenzione del 1984 che proi­ bisce la tortura, come sappiamo, la descrive come inflizione di ‘dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche’, senza però spiegare cosa debba intendersi per ‘acute’ (‘severe’ nel testo inglese). L’obiettivo finale del Memo era produrre una in­ terpretazione del termine che permettesse di ottenere quan­ to desiderato dalla committenza: innalzare quanto possibile la soglia della nozione di tortura, creando cosi una coltre giu­ ridica quanto più spessa, sotto la quale proteggere chi venis­ se scoperto a esercitare quelle pratiche. I giuristi hanno rag­ giunto l’obiettivo in una sola, trasparente mossa. Essi han­ no sciolto il predicato, nel modo più restrittivo possibile, prendendo spunto da una definizione presente in una serie di atti normativi che disciplinano le caratteristiche delle con­ dizioni mediche d’emergenza il cui riscontro è necessario al­ l’ottenimento di benefici assicurativi490. Ecco allora che, se­ condo il Torture Memo, la soglia della tortura scatta « al li­ vello che sarebbe ordinariamente associato a una lesione fisica sufficientemente seria, come la morte, il collasso di un organo o una seria menomazione delle funzioni corporali»491. Ovviamente, molto dolore e sofferenza possono essere inflit­ ti prima che si raggiunga ciò che in questa definizione è con­ siderato tortura - il che è precisamente ciò che l’amministra­ zione allora in carica voleva.

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Quando il Torture Memo fu reso pubblico, anche sulla scia della scoperta delle torture realizzate presso la prigione di Abu Ghraib, le critiche furono intense4’2, non abbastan­ za pervasive, però, da impedire a giuristi autorevoli come Charles Fried4” di difendere il Memo, affermando che « the­ re’s nothing wrong with exploring any topic to find out what the legal requirements are»; o, ad altrettanto rinomati do­ centi, come Eric Posner e Adrien Vermeule494, di considera­ re l’analisi operata nel Memo quale «standard lawyerly fare, routine staff ... reasonable legal advice and no more»4”. Nonostante la tortura sia tutto tranne che una questione di routine, è il Torture Memo a risultare un esercizio routi­ nario di tecnocrazia, nella misura in cui ogni giurista che lo legga si troverà immediatamente a suo agio con lo stile e i metodi utilizzati per manipolare il diritto, allo scopo di ot­ tenere l’esito desiderato. Charles Fried è quindi astrattamen­ te nel giusto se il suo rilievo vale a segnalare che, purché con­ dotta in termini tecnicamente impeccabili, non vi è nulla di reprensibile in un’interpretazione che estende o riduce il si­ gnificato di una regola, al fine di raggiungere un certo risul­ tato. Ma, non appena tradotti fuori da quelle rarefatte astra­ zioni, i succitati rilievi di Fried si svelano parziali e falsi: par­ ziali, perché scordano di sottolineare che per raggiungere quegli specifici risultati non basta essere un giurista, occor­ re essere un giurista supino alla politica del governante di turno; falsi, perché opportunisticamente negano che i giuri­ sti conoscano la differenza fra un’esplorazione dei possibili significati attribuibili a un testo di legge e un’analisi pura­ mente strumentale di quello stesso testo, elaborata per fini politicamente contingenti.

Quello appena richiamato è un caso che attiene alle tec­ niche di adattamento che possono venire apprestate all’oscu­ ro delle corti, e nello stesso Occidente, allorché gli interessi del potere statuale si trovino in linea di collisione con la sal­ vaguardia dei diritti umani. Il secondo esempio ricorda inve­

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ce come il diritto e la sua tecno-struttura possano utilizzare lo stesso raggio di manovra loro affidato, e di cui abbiamo visto abusare i giuristi del Torture Memo, per proporre so­ luzioni che si prestano a letture fra loro divergenti, a secon­ da dell’interesse che si ha cura di valorizzare. Qui il proble­ ma è indipendente dall’accondiscendenza verso questo o quel potere governativo, e attiene al modo in cui le corti possono filtrare istanze che il discorso pubblico ritiene egualmente ‘legittime’. Lo spunto viene dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in una delle tante occasioni in cui essa ha applicato la dottrina del c.d. ‘margine di apprezzamen­ to’4’6. Riducendo all’osso i fatti rilevanti, il caso riguardava il sequestro e la distruzione in Titolo di un film che rappresen­ tava il Padre, il Figlio e la Madonna in ruoli ‘molto lontani’ da quelli tradizionali e che, per ciò, i giudici austriaci aveva­ no ritenuto offendesse i sentimenti religiosi, in particolare quelli coltivati dalla stragrande maggioranza dei tirolesi. La questione che la Corte si è trovata a decidere riguardava la valutazione delle decisioni adottate dai giudici locali: si trat­ tava in particolare di stabilire se le pronunce tirolesi avesse­ ro violato, o no, il diritto alla libertà di espressione con­ sacrato nell’art. io della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha ritenuto non sussistere alcuna viola­ zione, argomentando che: «Questa Corte non può dimen­ ticare il fatto che la religione cattolica è la religione della stra­ grande maggioranza dei tirolesi. Sequestrando il film, le au­ torità austriache hanno agito al fine di mantenere la pace religiosa nella regione e di impedire che alcune persone po­ tessero sentirsi attaccate nelle loro credenze religiose in un modo offensivo. Spetta principalmente alle autorità nazio­ nali, che si trovano in una posizione migliore rispetto a quella di un giudice internazionale, di stabilire l’opportunità di una simile misura, alla luce della situazione esistente a li­ vello locale in quel preciso momento. Alla luce di tutte le cir­

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costanze del caso, questa Corte non reputa che le autorità austriache abbiano superato i margini di apprezzamento lo­ ro concessi»4”. Questo caso è un’applicazione standard della dottrina con cui la Corte, prima di dichiarare se la misura statale di dero­ ga, di limitazione o di interferenza, con una libertà garanti­ ta dalla Convenzione europea configuri o no una concreta violazione della Convenzione stessa, riconosce ai diritti sta­ tuali libertà di azione e di manovra interpretativa458. Ma non sfugge come questa dottrina, ricollocata sulle coordinate del diritto globale, possa essere valutata anche in un’altra luce, ossia quale modalità con cui la Corte affronta, su scala regio­ nale, il conflitto fra universalismo e relativismo (e, in una prospettiva diversa dalla nostra, pure quale carta di tornaso­ le per valutare l’altrui modo di reagire alla nostra satira su temi religiosi)455. La Corte non rende onore alla diatriba in termini espli­ citi, ma non sfugge che - al netto delle opzioni di chi legge e di chi scrive - l’utilizzo della dottrina sui ‘margini di ap­ prezzamento’ può qui essere letta in direzioni fra loro assai diverse: come locale prevaricazione della maggioranza sulla minoranza, attraverso la compressione della libertà di espres­ sione e la cessione di terreno dei valori laici a favore di quel­ li religiosi; oppure come protezione delle visioni tradizionali della comunità, i ‘sentimenti cattolici’ dei tirolesi, mercé l’enfatizzazione, da parte dei giudici europei, delle condizioni concrete in cui il conflitto si è dipanato, in quello specifico luogo e in quella particolare cultura. Anche quello appena illustrato rappresenta quindi un ri­ chiamo: qui contro ogni semplificazione, tanto piu se coatta da pregiudizi, quando in gioco sono conflitti tra diverse ca­ tegorie di diritti umani (come in questo caso: libertà laiche e valori religiosi), la cui declinazione locale può sfuggire alle accette del relativismo e dell’universalismo, specie se predi­ cati in astratto500.

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2. Donne.

Spostiamoci in Tailandia, per il terzo esempio, il quale non riguarda direttamente le modalità di esercizio della tecnocra­ zia giuridica, ma concerne il diritto dei minori, soprattutto di sesso femminile. I minori trovano protezione in una vasta serie di strumen­ ti normativi e, in particolare, nella già menzionata Conven­ zione Onu del 1989 (ratificata da ogni Stato, salvo la Soma­ lia e gli Usa). All’interno di tale Convenzione, che presta la propria tutela a tutti i soggetti minori di 18 anni (art. 1), l’art. 34 recita: «Gli Stati parti si impegnano a proteggere il fanciullo contro ogni forma di sfruttamento sessuale e di vio­ lenza sessuale. A tal fine, gli Stati adottano in particolare ogni adeguata misura a livello nazionale, bilaterale e multi­ laterale per impedire: a) che dei fanciulli siano incitati o co­ stretti a dedicarsi a una attività sessuale illegale; b) che dei fanciulli siano sfruttati a fini di prostituzione o di altre pra­ tiche sessuali illegali». In Tailandia la prostituzione minorile, come è noto501, ri­ sulta tristemente assai diffusa - a fianco di un basso livello di lavoro minorile502 -, ma ai nostri fini la domanda è se, e come, possa essere implementato il diritto delle minorenni tailandesi a essere ‘liberate’ dalla prostituzione, là dove si scopra che le stesse ragazze direttamente coinvolte nella pro­ stituzione, e le loro famiglie, non intendano esercitare quel diritto. Autorevoli studi e ricerche sul campo503 pongono di­ fatti in evidenza che, nel quadro culturale della società tai­ landese, la devozione per la famiglia può condurre a vere e proprie forme di sacrificio personale; che la prostituzione in­ fantile è percepita anche dalla cultura tailandese come uno scandalo e una vergogna; che i genitori nondimeno tollera­ no la prostituzione delle loro figlie (‘soltanto’) a causa delle condizioni di disperazione socio-economica in cui le proprie famiglie versano504.

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Qui l’interrogativo ulteriore, se il caso della prostituzio­ ne infantile tailandese si presti a essere ricondotto a un con­ flitto tra valori occidentali e quelli propri a culture diverse, è certamente fondato, ma non conosce risposte che esauri­ scano il merito del problema. Quest’ultimo può difatti tro­ vare soluzione solo nella messa a disposizione, a favore di quei nuclei, di strumentazioni giuridiche che sfidino, o pu­ re accompagnino, le scelte locali di politica economica e che siano in grado nel tempo di rifornire quelle famiglie e le lo­ ro figlie di pretese materialmente tutelabili e, per tal via, di scelte di vita alternative. Se poi è vero che situazioni di de­ grado e di abbandono sono purtroppo comuni, in Occiden­ te come fuori da esso, il punto è che in taluni contesti le si­ tuazioni di povertà finiscono per creare gerarchie di valori e diritti più nette e rigide che altrove, assai meno (Ì£. assai più difficilmente) negoziabili che in altri contesti. Nel caso del­ la prostituzione tailandese, cibo, rifugio, unità familiare so­ no precisamente i diritti che le famiglie e le stesse minori fan­ no prevalere sul diritto di quest’ultime di essere libere dal­ l’abuso sessuale505. Riguardiamo del resto la situazione appena descritta da un altro angolo visuale, fornito dalla stessa Convenzione. Quest’ultima impartisce le seguenti direttive: art. 5 «Gli Sta­ ti parti rispettano la responsabilità, il diritto e il dovere dei genitori o, se del caso, dei membri della famiglia allargata o della collettività, come previsto dagli usi locali, dei tutori o al­ tre persone legalmente responsabili del fanciullo, di dare a quest’ultimo, in maniera corrispondente allo sviluppo delle sue capacità, l’orientamento e i consigli adeguati all’eserci­ zio dei diritti che gli sono riconosciuti dalla presente Con­ venzione»; art. 18 «1. ... La responsabilità di allevare il fan­ ciullo e di provvedere al suo sviluppo incombe innanzitutto sui genitori ... i quali devono essere guidati principalmente dall’interesse preminente del fanciullo. 2. Al fine di garan­ tire e di promuovere i diritti enunciati nella presente Con­ venzione, gli Stati parti accordano gli aiuti appropriati ai ge­

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nitori e ai rappresentanti legali del fanciullo nell’esercizio della responsabilità che incombe loro di allevare il fanciullo e provvedono alla creazione di istituzioni, istituti e servizi incaricati di vigilare sul benessere del fanciullo»; art. 19 « i. Gli Stati parti adottano ogni misura legislativa, amministra­ tiva, sociale ed educativa per tutelare il fanciullo contro ogni forma di violenza, di oltraggio o di brutalità fisiche o men­ tali, di abbandono o di negligenza, di maltrattamenti o di sfruttamento, compresa la violenza sessuale ... 2. Le suddet­ te misure di protezione comporteranno, a seconda del caso, procedure efficaci per la creazione di programmi sociali fi­ nalizzati a fornire l’appoggio necessario al fanciullo e a colo­ ro ai quali egli è affidato, nonché per altre forme di preven­ zione, e ai fini dell’individuazione, del rapporto, del rinvio, dell’inchiesta, della trattazione e dei seguiti da dare ai casi di maltrattamento del fanciullo di cui sopra; esse dovranno altresì includere, se necessario, procedure di intervento giu­ diziario»; art. 27 « 1. Gli Stati parti riconoscono il diritto di ogni fanciullo a un livello di vita sufficiente per consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale. 2. Spetta ai genitori o ad altre persone che hanno l’affida­ mento del fanciullo la responsabilità fondamentale di assicu­ rare, entro i limiti delle loro possibilità e dei loro mezzi fi­ nanziari, le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fan­ ciullo. 3. Gli Stati parti adottano adeguati provvedimenti, in considerazione delle condizioni nazionali e compatibil­ mente con i loro mezzi, per aiutare i genitori e altre persone aventi la custodia del fanciullo ad attuare questo diritto e of­ frono, se del caso, un’assistenza materiale e programmi di sostegno, in particolare per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario e l’alloggio»506. Anche a volersi accomodare sul piano più strettamente normativo: quale gerarchia di valori privilegerebbe chi po­ nesse il diritto delle ragazze tailandesi a liberarsi dalla pro­ stituzione sul podio dell’urgenza, rispetto ai diritti al soste­ gno materiale e sociale delle loro famiglie ? E viceversa ? Op­

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pure vogliamo dare il crisma dell’urgenza a entrambe le pia­ ghe ? E siamo allora in grado di mobilitare risorse e strumen­ ti, sul piano politico, culturale e giuridico (e su una dimen­ sione geografica sufficientemente ampia da fungere da trai­ no socialmente esteso), per offrire incisività ed effettività ai nostri sforzi di curare quelle piaghe? Certo, quest’ultima è opzione difficile da praticare sulla scala necessaria, ma è quel­ la indispensabile. Qualsiasi soluzione diversa da essa signifi­ cherebbe semplicemente piegare il capo di fronte a un’evi­ denza: che la retorica dei diritti umani sconta uno iato piut­ tosto ampio fra i suoi argomenti e la realtà materiale, e che lo stesso iato separa in profondità le proclamazioni normati­ ve di principio e le prassi operative che ad esse dovrebbero richiamarsi.

Il quarto esempio riguarda il controverso ambito delle mu­ tilazioni genitali femminili. Siamo a Seattle, Usa, città con un’alta percentuale di im­ migrati provenienti da paesi africani507. Nel 1996 alcuni gi­ necologi e pediatri del centro medico di Harborview porta­ no di fronte all’opinione pubblica i casi ricorrenti di donne somale che chiedono di poter sottoporre le loro bambine a una procedura, la ‘sunna’, simile a quella della circoncisione maschile. Questi medici pongono un quesito: possono essi praticare una puntura di spillo sul clitoride come viene loro richiesto dalle madri africane o devono accettare che quelle stesse madri siano costrette a un costoso viaggio in qualche paese africano, dove probabilmente le loro bambine sareb­ bero sottoposte a mutilazioni ben più severe ? La strada del­ la ‘sunna’ sembrava a quei medici una soluzione di compro­ messo, che avrebbe aiutato a mantenere aperto il dialogo tra la comunità medica e le donne delle comunità immigrate, al­ cune delle quali con particolari esigenze dal punto di vista sanitario (necessità a loro volta connesse anche alle mutila­ zioni genitali subite nei loro paesi d’origine). La proposta fu ritirata dagli stessi medici in ragione dell’enorme quantità di

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critiche ricevute (da parte del Procuratore generale dello Sta­ to di Washington, da deputati, senatori, altri medici, orga­ nizzazioni religiose) e nello stesso anno fu approvata negli Stati Uniti d’America una legge federale che dichiarava ille­ gali le mutilazioni genitali femminili508. Queste ultime, di cui esistono diverse varianti - tra cui la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione50’ -, sono ra­ dicate in Africa (soprattutto in Burkina Faso, Egitto, Eri­ trea, Etiopia, Guinea, Kenya settentrionale, Mali, Maurita­ nia, Nigeria settentrionale, Somalia, Sudan), nel Medio Oriente (Emirati Arabi, Oman, Yemen), in taluni paesi del­ l’Asia orientale (India, Indonesia, Malesia, Sri Lanka)510 e, grazie ai flussi migratori, si sono diffuse anche in Occiden­ te. Mentre l’età in cui le forme di mutilazione genitale sono operate varia secondo la tradizione (da prima del matrimo­ nio ai pochi giorni di vita)511, l’Organizzazione Mondiale del­ la Sanità stima fra 100 e 140 milioni le donne soggette a que­ ste pratiche, con un incremento annuo pari a circa 3 milio­ ni512. Le mutilazioni genitali femminili risultano indirettamen­ te proibite da numerose previsioni normative internaziona­ li e, in particolare, dalla succitata Convenzione sui diritti del fanciullo, la quale stabilisce, all’art. 24, 30 co., che: «Gli Sta­ ti parti adottano ogni misura efficace atta ad abolire le pra­ tiche tradizionali pregiudizievoli per la salute dei minori»; nonché dalla Convenzione sull’eliminazione di ogni discri­ minazione contro le donne, ove all’art. 2 si prevede che «gli Stati devono prendere tutte le misure idonee ... per modifi­ care o abolire le leggi esistenti, i regolamenti, i costumi e le pratiche che costituiscono una discriminazione contro le don­ ne»515. Non c’è dubbio: agli occhi di un occidentale le mutilazio­ ni genitali rappresentano una gravissima violazione del dirit­ to all’integrità fisica e alla salute, ingiuria che si presta a es­ sere rappresentata come l’ennesima epifania di una secolare oppressione perpetrata sulle menti e sui corpi delle donne.

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Altrettanto sicuro è che queste pratiche, nelle tradizioni in cui sono diffuse, vengono sovente avvertite come un obbli­ go, un rito di passaggio, necessario affinché la bambina o la ragazza diventi un’adulta responsabile, se non una ‘donna’ in senso pieno, titolare dell’intierezza dei diritti che la pro­ pria tradizione le attribuisce. Non mancano del resto i casi in cui sono le stesse potenziali ‘vittime’ a rivendicare il loro diritto a essere sottoposte a quelle pratiche - sottraendo pa­ radossalità all’osservazione per cui «ciò che per l’Occidente è inconcepibile, in altre culture è addirittura doveroso, e an­ zi desiderabile»514. Alcuni continuano doverosamente a in­ dignarsi, altri no, ma è difficile concludere aprioristicamen­ te che fuori dalla nostra cultura le donne siano sempre «in­ trappolate in una qualche forma di falsa coscienza che sarebbe compito del movimento per i diritti umani svela­ re»515; oppure negare in principio che chi aderisce a una tra­ dizione diversa dalla nostra possa ritenere che godere di quel­ la forma di appartenenza abbia un valore maggiore di qua­ lunque libertà negativa516. Inoltriamo però il discorso, osservando che se nei paesi d’origine i tentativi di vietare tali pratiche, già attuati dalle potenze coloniali e poi dai governi indipendenti, si sono ri­ velati infruttuosi, non è chiaro quale valore aggiunto possa attrarre su di sé l’imposizione dall’alto di sanzioni, invocate a partire da un diritto sovranazionale, sovente percepito co­ me ‘altrui’. Nei paesi di immigrazione, va sottolineato poi, una politica di mera repressione, in ispecie nei confronti dei genitori, oltre a rivelarsi impotente (e rendere frequente il ricorso a viaggi nel paese di origine per operare le mutilazio­ ni), rischia di risolversi in un danno per la stessa vittima che si vorrebbe tutelare, la quale alla mutilazione del proprio cor­ po potrebbe vedersi aggiungere la separazione dai genitori, o parenti, condannati 517. Ma c’è di piu. Non si scopre qui che la manipolazione del corpo e in particolare degli organi genitali, femminili e ma­ schili, si è diffusa in tutte le civiltà e le culture, e non soltan­

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to in quelle ‘primitive’518, e che ancor oggi queste pratiche so­ no tutt’altro che estinte51’. Occorre chiedersi però le ragioni della differenza di trattamento riservata alle mutilazioni fem­ minili nelle normative nazionali e internazionali, cosi come nella gran parte dei dibattiti, rispetto alle pratiche delle mu­ tilazioni maschili, in primis la circoncisione - largamente dif­ fusa nel mondo islamico, in quello ebraico, e non solo520. Se si condannano le manipolazioni sessuali femminili, anche nel­ le loro forme più lievi o puramente simboliche, muovendosi sullo stesso asse di valori e di principi giuridici, è difficile ac­ cettare a occhi chiusi le mutilazioni genitali maschili. Si trat­ ta di una lesione con conseguenze - normalmente - molto me­ no serie, e molto meno invalidanti, rispetto alle più gravi mu­ tilazioni femminili521, ma l’esperienza clinica segnala patologie e disfunzioni anche tra i circoncisi: emorragie, infezioni, fi­ stole uretrali, ritenzione urinaria, cisti del prepuzio, necrosi del glande, senza dire delle possibili conseguenze di caratte­ re psichico, come la sensazione di mutilazione e la riduzione del piacere e dell’attività sessuale522. Poiché viene praticata quasi esclusivamente sui minori, da un punto di vista giuridi­ co (e proprio dal nostro), se effettuata senza alcuna ragione sanitaria la circoncisione maschile non può che essere confi­ gurata come la lesione di un organo sano, spesso eseguita sen­ za poter ottenere l’autonomo consenso del diretto interessa­ to. Si tratta pur sempre di una «violazione della libertà e del­ l’integrità personale del minore»525. Quindi ? Ribadito che né i legislatori né il dibattito di ten­ denza si curano di questa stridente incongruenza - quasi a confermare che il «valore della donna non è nel suo corpo, ma nell’uomo che nel suo corpo si specchia e riflette l’ordi­ ne delle sue relazioni»524 - è chiaro che, tornando alle muti­ lazioni genitali femminili, l’attivista, occidentale e no, non pare disporre di alternative credibili rispetto a un approccio che, evitando forme di sovrapposizione culturale, assuma il punto di vista delle vittime e si saldi con i movimenti autoc­ toni, in particolare delle donne. Il fine ultimo dovrebbe es­

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sere la progressiva adozione, e poi applicazione all’interno di quelle stesse comunità, di regole (ad esempio, in campo suc­ cessorio e di diritto familiare)525: che promuovano l’allenta­ mento del vincolo fra status giuridico-sociale e quelle prati­ che; che favoriscano la loro sostituzione con rituali incruen­ ti o ne consentano l’esercizio solo su adulte consenzienti. La premessa consapevole consiste nel saper utilizzare nel tem­ po il diritto e le sue regole, nel loro rapporto biunivoco con le culture di cui sono (come sappiamo) veicoli e terminali, al fine di offrire la sola alternativa realistica alla situazione at­ tuale526. Nell’immediato, se quanto a noi risulta una grave violazione di diritti umani può non apparire tale a coloro al­ le quali vorremmo spiegare che in verità si sbagliano, non può che essere il consenso delle donne, tanto libero quanto informato, ad assurgere a presupposto giuridico che suggel­ la il rispetto per la persona, a nesso ineludibile fra preferen­ ze nostre e scelte altrui, a vincolo determinante per ogni pos­ sibile intervento527.

3. I popoli indigeni e i profeti del passato.

Le ultime due riflessioni centreranno il tema dei diritti collettivi e della loro (fin troppo trascurata) collocazione nel­ la prospettiva inter-generazionale. Entrambi i casi trovano il proprio fondale normativo nell’art. 1 del Patto Internazio­ nale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, del 1966, ove si stabilisce che «1. Tutti i popoli ... decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro svi­ luppo economico, sociale e culturale. 2. Per raggiungere i lo­ ro fini, tutti i popoli possono disporre liberamente delle pro­ prie ricchezze e delle proprie risorse naturali, senza pregiu­ dizio degli obblighi derivanti dalla cooperazione economica internazionale, fondata sul principio del mutuo interesse, e dal diritto internazionale. In nessun caso un popolo può es­ sere privato dei propri mezzi di sussistenza»528.

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Il quinto esempio offre contorni facili da tracciare e con­ clusioni difficili da distillare. Alla fine degli anni ’60, le au­ torità della Provincia canadese del Newfoundland promos­ sero una serie di misure nei confronti degli inuit stanziati in quel territorio, e percepiti come popolazione arretrata e de­ stinata all’estinzione, se non ‘persuasa’ ad adottare la cultu­ ra sedentaria e ad abbandonare credenze e pratiche che ave­ vano permesso loro di abitare foreste e lande boreali subar­ tiche. Dal punto di vista pratico, è nel 1968 che il governo provinciale comincia una politica d’insediamento attraverso la costruzione di case, concesse in locazione agli inuit per die­ ci anni con opzione d’acquisto, gratuita ed esercitabile lad­ dove la casa fosse risultata in buono stato manutentivo al ter­ mine del decennio. Gli inuit finirono coll’abbandonare la lo­ ro terra, grande circa come la Francia, per diventare locatari di piccole proprietà individuali, anche grazie a una ‘forma­ zione’ del loro consenso resa possibile dall’intermediazione di sacerdoti oblati. Il processo di ‘sedentarizzazione ’ degli inuit fu completato nel 197152’. Qui l’attribuzione di ‘diritti’ nel senso occidentale del termine ebbe come risultato, da un lato, una perdita di risa­ lenti diritti collettivi su una terra vastissima; e, dall’altro la­ to, la soluzione dell’«heart of the whole Indian problem», ossia la integrazione degli indigeni nell’economia di merca­ to canadese5”. La costruzione dell’assimilazione si basò sul­ la distruzione del nomadismo e la sua sostituzione con il ‘la­ voro’ (z.e.: lo scambio fra caccia e sedentarizzazione), sulla sostituzione degli dei animali e dei propri capi tradizionali con il Dio e i preti cristiani, sulla sostituzione del linguaggio tradizionale con la lingua inglese. Cosi, nella luce dello stesso Patto internazionale poc’an­ zi citato - e a prescindere dalle prospettive che ciascuno può abbracciare - è certo a) che il rispetto integrale dei valori cul­ turali inuit avrebbe lasciato incerto il rapporto di questi, e soprattutto delle loro future generazioni, col resto della so­ cietà e dell’economia canadese551; ma anche b) che i ‘diritti

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dei nativi’ a un’esistenza (che agli occidentali pare senz’al­ tro) ‘migliore’ finirono per essere garantiti solo allorché i na­ tivi e la loro cultura cessarono di essere tali552.

Le contraddizioni - quantomeno intergenerazionali - ca­ ratterizzanti la salvaguardia di diritti che nessun occidenta­ le rifiuterebbe per sé, possono però incidere anche sulla ri­ vendicazione di diritti che l’Occidente, per parte sua, a lun­ go ha ignorato555. Il sesto esempio prende difatti spunto dalla contrastata storia del progetto ‘Camisea’, in Perù, mirato all’estrazione, il trasporto, la distribuzione e l’export di gas naturale - ini­ ziativa ben nota alla comunità internazionale e alle organiz­ zazioni non governative, per i suoi drammatici impatti so­ ciali e ambientali554. Il progetto è localizzato in una delle più preziose foreste pluviali del mondo, nella valle dell’Urubamba, sud-est dell’Amazzonia peruviana, e prevede - e in par­ te ha già attuato - la costruzione di impianti di estrazione di gas naturale e di gasdotti nel cuore della foresta. Gli impat­ ti del progetto hanno destato allarme - richiamando la voce della normativa sovrannazionale citata all’inizio di questo paragrafo - non solo a) per i delicatissimi ecosistemi e la lo­ ro straordinaria biodiversità; ma anche b) per le popolazio­ ni indigene della regione, esposte al rischio di perdita di ri­ sorse alimentari (in particolare riserve ittiche e di cacciagio­ ne), di contaminazione delle riserve di acqua potabile e diffusione di malattie; nonché c) per la scarsa informazione che gli sponsor dell’iniziativa e il governo peruviano hanno a lungo offerto alle comunità e alle organizzazioni indige­ ne555. La storia del progetto è innervata da un’intensa campa­ gna di attivisti e Ong contro la sua realizzazione. Seppur qui non contino i dettagli minuti, preme rilevare alcuni dati, an­ cora una volta connessi all’utilizzo dei diritti umani in con­ testi non occidentali. Il primo dato ricorda come le campagne di cui si è fatta

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Capitolo dodicesimo

menzione hanno prodotto un carosello di entrate e uscite dal progetto di grosse società, agenzie pubbliche e organismi in­ ternazionali536. Il punto è però che non sempre il bilancio del­ l’affidabilità, in termini di rispetto per i diritti ambientali delle popolazioni indigene, ha conosciuto un saldo positivo con i nuovi entrati. La presenza di grandi multinazionali (al­ cune delle quali hanno finito per abbandonare il progetto) potrebbe invero essere trasformata in un’utilità da sfruttare per ogni attivista che abbia a cuore gli esiti della sua opera. Quelle società sono oggi fra le più esposte nella valorizzazio­ ne (e nell’impedire il discredito) della loro reputazione pla­ netaria. Esse sono quindi, almeno potenzialmente, le più sen­ sibili a vedersi imporre una negoziazione in punto di rispetto dei diritti umani, la implementazione dei quali è precisamen­ te l’arma potente di controllo (e di minaccia di quella repu­ tazione) in mano agli attivisti53’. Nella stessa prospettiva, le fortunate campagne per l’estromissione della Us ExportImport Bank - fuoriuscita che si sarebbe rivelata peraltro so­ lo temporanea (dal 2003 al 2008)538 - hanno negletto la cir­ costanza che l’agenzia americana risultava in grado di assi­ curare, comparativamente, i più elevati standard di tutela dei diritti umani. Ecco perché si è potuto sottolineare come la scelta, a quel punto necessitata per i realizzatori del pro­ getto, di importare beni da altri paesi, le cui agenzie di cre­ dito all’export non usano equiparabili strumenti di control­ lo sul rispetto dei diritti umani, abbia in realtà finito per de­ potenziare i risultati ottenuti da quelle stesse campagne53’. Ma non è tutto. Indiscussa la necessità primaria di salva­ guardare ognuno e l’insieme dei diritti delle popolazioni in­ digene, vi è una questione ulteriore, e più generale, da im­ mettere nell’ordine del giorno di qualunque riflessione su questi temi, cosi come di qualunque analisi del Patto inter­ nazionale del 1966, che si voglia votata all’effettività540. a) Si tratta di comprendere se le modalità con cui si con­ ducono le campagne a favore degli indigeni peruviani siano quelle auspicabili, di fronte al rischio che un paese non occi­

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dentale resti senza infrastrutture essenziali al suo sviluppo, e con la consapevolezza che mantenere intatti valori identitari degli indigeni nei confronti della loro terra, e intonsi va­ lori ambientali e naturali5'*1, significa difendere valori tutti che l’Occidente si è ben guardato dal salvaguardare, nella fa­ se ascendente delle proprie economie542. b) Qualora invece il rimprovero sia diretto proprio al mo­ dello socio-economico di sviluppo occidentale e ai tentativi di sua implementazione in quelle terre, bisognerebbe, al fi­ ne minimo di scongiurare una divaricazione drammatica fra mezzi e fini, compiere uno sforzo di trasparenza. Occorre­ rebbe cioè mettere in chiaro quanto profonda - e quanto de­ siderabile per chi la riceve - sia l’influenza esercitata proprio dal modello occidentale (dalla sua storia, dai suoi stessi va­ lori, linguaggi e retoriche) sulle modalità con cui si procla­ mano e brandiscono i diritti umani, nella valle dell’Urubamba come in tutto il Sud e l’Est del mondo.

Capitolo tredicesimo

Un tempo per le soluzioni

i. Esercizi di indifferenza.

Giunti a questo punto, è difficile sfuggire alla conclusio­ ne che le diatribe sulla politicità o giuridicità, nonché su re­ lativismo o universalismo dei diritti umani, una volta calate nelle pratiche quotidiane di quei diritti, finiscono per appa­ rire un esercizio di indifferenza, proprio nei riguardi dell’ar­ ticolazione e della complessità delle circostanze concrete cui dovrebbero applicarsi. Da quanto abbiamo ricordato in precedenza (nel Capitolo undicesimo) e dagli esempi appena scorsi risulta, in effetti, co­ me i paradigmi operativi abitualmente propagati veicolino: a) concezioni ‘politiche’ dei diritti, emergenti non solo quando (i) essi vengono calpestati in nome della soggezione al potere domestico, ma anche quando (n) se ne propone una tutela cen­ trata, assai piu che sulle preferenze locali, sulla resistenza all’(occidentale) ‘impero del male’543, e pure quando (in) gli strumentari del relativismo sono impiegati al fine di precosti­ tuire una sorta di «excuse for abuse»344, un alibi per la tiran­ nia545; b) argomenti di chi ai diritti umani riconosce piena va­ lenza giuridica e nondimeno promuove (i) un universalismo, sordo alla nostra storia e al suo travagliato dispiegarsi, e cieco rispetto alle sue differenze con le storie altrui; oppure (n) un relativismo ‘positivistico’, ripiegato sull’esegesi della diaposi­ tiva odierna dei popoli e delle culture, spesso incapace di in­ terrogarsi sulle forze dinamiche al lavoro (anche) in quei con­ testi, dinamismo che non deve necessariamente inseguire i no­ stri percorsi, ma nemmeno forzatamente evitare fratture, svolte, mutazioni, nei confronti della propria storia.

Un tempo per le soluzioni

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Tensioni queste ultime, si badi, sempre all’opera e dap­ pertutto, anche da noi. Assunta una discendenza familiare nei secoli radicata a Trieste, ad Augsburg, a Toulouse o a Edinburgh, siamo sicuri, ad esempio, che i discendenti odier­ ni delle famiglie de quibus considerino i diritti all’ambiente, al lavoro, alla casa, all’integrità fisica, alla parità fra i sessi, all’aborto, nella stessa maniera dei loro antenati di 80, 180, 810 anni fa? Porre insomma l’alternativa in termini dicotomici, uni­ versalismo v. relativismo, offusca la complessità dei fenome­ ni e, sul piano della loro comprensione, reca con sé il perico­ lo di una cristallizzazione a-storica del dinamismo, sia del di­ ritto che delle culture546. Rischio, quest’ultimo, alimentato da entrambi i produttori del discorso, ‘globalisti’ e ‘localisti’, essendo dai primi i diritti umani propagati come nozio­ ni a tenuta universale, oscurandone così la natura e la tecni­ ca di matrice occidentale (e sopravvalutando la loro capacità d’imporsi rapidamente in ordinamenti ‘altrui’)547. Mentre i secondi presentano le culture altre come sistemi omogenei e integrati di credenze e valori condivisi, da parte di un più o meno ampio gruppo di persone; sistemi destinati a restare fissi nel tempo, e nei confronti dei quali si predica la neces­ sità di punti di vista differenziati, sul terreno morale e giu­ ridico (così sottovalutando la capacità dei sistemi, anche giu­ ridici, di adattarsi, di convivere e, convivendo, di cambia­ re)548.

2. Confetti alfunerale?

Certo non si può tacere che la babele di discorsi sui dirit­ ti umani è incentivata dalla ampiezza del loro rosario54’. L’estensione del ventaglio di diritti stratificati nelle car­ te, e veicolati nel dibattito, è tale da forzare investimenti di energie, sul campo delle pratiche e delle retoriche, che risul­ tano inevitabilmente assai differenziati fra loro, intermitten­

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C apitolo tredicesimo

ti, dispersivi e, di fronte alla gran massa di diritti che chie­ dono tutela, inesorabilmente inadeguati530. Quando poi il di­ scorso pubblico - politico, mediatico, accademico - adotta nel proprio linguaggio nozioni quali diritti ‘fondamentali’551, ‘basilari’552 - a parte l’intento retorico («non vorrete negare che abbiamo ragione di / bisogna fare X, almeno con riguar­ do a...») - a che cosa esattamente si fa riferimento? A una selezione fra i diritti affermati nelle decine di carte interna­ zionali ? A quale selezione e a quali carte ? Ed è una selezio­ ne operata come e da chi ? Occorre, e.g., includere in questa prima scelta di diritti umani anche quelli dei disabili, fisici e psichici553, il diritto all’alfabetizzazione, cartacea e/o tecnologica, i diritti delle minoranze sessuali ? Se la risposta è affermativa, è allora pen­ sabile di rimproverare il vasto popolo dei diritti umani, atti­ visti e no, per non aver incessantemente mobilitato l’opinio­ ne pubblica globale in favore di un intervento, se non mili­ tare, quantomeno economico, di ritorsione commerciale, o di tipo giuridico (normativo, giudiziario), al fine di garanti­ re l’effettivo rispetto di tutti quei diritti, a favore di tutti i loro destinatari ? Se la risposta è negativa, occorre riconosce­ re l’esistenza di una (esplicita o latente) gerarchia fra quei di­ ritti. Cosi, però, riemerge la necessità di una replica agli in­ terrogativi formulati poco sopra554. Fra quelle scollate dalla retorica, una replica realistica è che le mobilitazioni, a difesa dei diritti o contro i soprusi, non possono basarsi che sulle mutevoli contingenze mediatiche, sulla passione o gli interessi specifici degli attivisti, sul­ la finitezza delle loro energie e risorse555. Una replica pro­ grammatica viene invece, e con autorevolezza, da chi invita a concentrarsi «su un nucleo ristretto di diritti ‘essenziali’ che costituiscono i valori fondanti della dignità umana». Sul fronte sociale ed economico, questi diritti ‘essenziali’ si ri­ troverebbero nel diritto all’alimentazione, nel diritto al la­ voro, nel diritto a un ambiente sano. Sul versante dei dirit­ ti civili e politici, gli sforzi maggiori dovrebbero invece ver­

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tere sulla protezione del diritto alla vita, del diritto a non es­ sere sottoposti a tortura o a trattamenti crudeli e degradan­ ti, del diritto a non essere vittima di arresto o detenzione ar­ bitraria, del diritto alla non discriminazione556. Si tratta di una distribuzione di confetti, ai funerali del­ l’ipertrofia del catalogo, e dell’ambizione alla sua tutela uni­ versale ? Si tratta dell’unico orizzonte su cui è possibile pro­ gettare azioni dotate di senso operativo ? La risposta va cercata pazientemente - e su di essa fra po­ co ci eserciteremo -, con la consapevolezza degli obiettivi da perseguire e delle loro reciproche priorità. Necessario è chia­ rire fin d’ora, però, le difficoltà d’implementazione che pu­ re una lista limitata di diritti, come quella proposta da An­ tonio Cassese, troverebbe (e trova) a livello di attuazione concreta. Essa implica per esempio, sotto il profilo dei dirit­ ti sociali - come lo stesso autore non si nasconde -, «note­ voli mutamenti nelle relazioni economiche internazionali (e in particolare nel commercio internazionale), nonché un ge­ nerale riorientamento dell’azione degli organismi internazio­ nali deputati a promuovere lo sviluppo»557. Ma anche sul ter­ reno dei diritti civili, a parte la dose di tecnocrazia giuridi­ ca necessaria a implementare su scala planetaria l’habeas corpus558, dovremmo ricordare quanto sbiadita sia la tutela operativa offerta a quei diritti dalle istituzioni del diritto in­ ternazionale55’ o quanto precario sia oggi divenuto, e proprio in Occidente, l’equilibrio fra quegli stessi diritti e le esigen­ ze di sicurezza interna o ‘nazionale’560. Oppure dovremmo sottolineare che l’ampia nozione di non-discriminazione fi­ nisce coll’invocare la ri-costruzione dell’intero tessuto cultu­ rale di molte delle tradizioni non occidentali; o che essa ri­ schia di articolarsi in conflitti ulteriori (vibranti anche nelle nostre domestiche politiche sull’immigrazione561, ossia) mag­ gioranza v. minoranza, e poi individuo v. comunità minori­ taria562; o, ancora, che la nozione medesima di non-discriminazione si presta a essere fondatamente rivendicata nei nostri confronti da chi, come gli omosessuali (anche in Occidente),

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si scontra tuttora sovente con le ideologie centrate sulla na­ turalità del coniugio eterosessuale563. Quanto poi al diritto alla vita, senza che occorra rammentare quanto faticose (e ancora incompiute) siano state le conquiste in punto di pe­ na di morte564, è bene sottolineare come la stessa condivisio­ ne di un valore morale, e del linguaggio con cui veicolarlo, possa rivelarsi illusoria e sterile dal punto di vista operativo. Basti pensare ai dibattiti occidentali sull’eutanasia o sull’a­ borto, dove le aspre divisioni circa l’inizio e il termine della vita non sono punto smussate dalla comune convinzione, in ogni schieramento, della necessità di proibire trattamenti crudeli alla persona e della protezione speciale e indispensa­ bile da riservare alla vita umana565.

3. Esercìzi di differenza. Prendere atto di questa complessità non significa arretra­ re davanti ai soprusi, né di fronte alla contro-retorica del lo­ calismo, né abbandonarsi alle derive di quel discorso pubbli­ co, occidentale e no, che mal rifornito di problemi concreti ama tutto ricondurre al cielo della metafisica, o al ‘dirty job’ della politica. Si tratta piuttosto - alla stessa stregua di quan­ to abbiamo invocato nei capitoli precedenti, a proposito del global business law o delle giurisdizioni penali universali di modellare strumentari i più aderenti possibile alla com­ plessità delle situazioni concrete. Quella cui si è chiamati è una scelta di contiguità ai pro­ blemi, che deve nondimeno far sua, e incorporare, un’altra serie di fattori essenziali alla comprensione dei fenomeni. Ciò di cui si sente il bisogno, da un lato, è un tentativo di in­ tegrazione degli strumenti, in modo da evitare gli estremi dell’indifferenza, quella relativista alla mutazione e quella universalista alla complessità. Ciò di cui si sente il bisogno, dall’altro lato - e anche in questa prospettiva -, è la consi­ derazione per il fattore ‘tempo’.

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Se è vero che un risvolto notevole della strategia dei di­ ritti umani è il loro utilizzo come veicoli di esportazione di modelli occidentali, il punto è che - a prescindere dalle op­ zioni a favore o contro tale utilizzo - questo export mira a diffondere modelli ‘odierni’, nel senso che si tratta di con­ cezioni che, da noi, appartengono a un modo diffuso di in­ tendere e organizzare la società solo da qualche secolo, e in qualche caso da pochi decenni. Sono modelli recenti di organizzazione del lavoro: si pen­ si al bando del lavoro minorile566. Sono recenti modelli cul­ turali, ad esempio: quanto alla nozione attuale di ‘assoluta’ inviolabilità della vita e dell’integrità fisica567, quanto alla no­ zione di tolleranza religiosa568, quanto ai diritti ambientali56’, quanto al ruolo sociale, politico, economico e giuridico del­ la donna570. E sicuro che, in tutti i casi, oggi si tratta di con­ cezioni e modelli di organizzazione sociale intorno ai quali il consenso, da noi, si acquista con poco. Ma altrettanto paci­ fico è che si tratta di modelli e concezioni la cui ricezione e attivazione si rivela estremamente costosa in ogni sistema che debba adottarli in poco tempo. Per far questo - per far diventare reclamabili oggi quei diritti irrivendicabili di cui parla Giuliano Amato571 -, talora bisognerebbe comprare un acceleratore per la propria storia, talora occorrerebbe inve­ ce comprare in blocco una tradizione (culturale, sociale, giu­ ridica) che propria non è.

4. La scelta per il candore - Il candore delle scelte.

Che fare, allora ? In qualsiasi prospettiva si collochi il problema, la presa in considerazione del contesto in cui diritti e cultura operano non è una variabile indipendente del discorso. Occorre però subito ricordare come su questi terreni, al di là dei crimini efferati ricadenti sotto le giurisdizioni internazionali (non da tutti accettate, come sappiamo)572, gli Stati restino largamen­

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te sovrani, e sostanzialmente non sfidati - a differenza di ciò che abbiamo visto accadere nelle materie commerciali, finan­ ziarie ed economiche in generale - quanto alla selezione, e alla sanzione, di ciò che è lecito e ciò che è illecito. Ecco la ragione per cui non si è mai avviata l’istituzione di una Glob­ al Court of Human Rights, che non risultasse un miraggio della retorica e che - a differenza della Corte penale inter­ nazionale (di cui, se la prima fosse attuabile, non si sarebbe forse sentito il bisogno) - risultasse quindi dotata di regole di funzionamento a natura transculturale; provvista di pote­ ri effettivi, estesi a tutto il pianeta e, da ultimo ma non ulti­ mo, articolata in sezioni operanti in prossimità dei proble­ mi, all’interno delle realtà locali (e non con giudici altezzo­ samente seduti sugli scranni di una sede occidentale). La via per fuggire le sirene dell’ipocrisia, e per non in­ goiare il boccone amaro deWinanità, né quello indigesto del colonialismo umanitario, si annuncia allora assai stretta. Le opzioni possibili paiono difatti solo le seguenti. A) La retorica è retorica. Ci dichiariamo esplicitamente al­ lineati a chi considera i diritti umani, nella loro dimensione giuridica, «nonsense upon stilts»573 o «fictions»574, al più espressioni di una ricerca «post-materiale di ancoraggi e di significato»575. Prendiamo atto del loro destino operativo (per il momento, soprattutto) occidentale, continuiamo a batter­ ci per la loro puntuta difesa nelle nostre occidentali terre (e aule giudiziarie), consegnando il sogno di un’equivalente ap­ plicazione universale e quotidiana di quei diritti all’esilio do­ rato delle utopie. Nel frattempo riorientiamo le nostre ener­ gie umanitarie, le iniziative, gli investimenti, anche retorici, su frontiere diverse, che si affidano ai meccanismi dell’azio­ ne o della resistenza politica e che del linguaggio dei diritti e della tecnocrazia del diritto sappiano fare un uso solo stru­ mentale, a supporto del (mutevole) obiettivo politico576. Certo, anche in una direzione del genere è necessario te­ nere a mente, sia le lezioni impartite dal tempo, nostro e al­ trui, sia quelle che insegnano a rifiutare l’universalismo e il

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relativismo come termini mutualmente esclusivi, e a perce­ pire entrambe le visioni come costituenti di un processo con­ tinuo di negoziazione, fra interessi globali e locali, dell’indi­ viduo e del gruppo, tra l’implacabilità dei loro conflitti odier­ ni e la loro diversa possibile articolazione nel futuro. Ma le coordinate della riflessione e delle prassi restano, in questa prospettiva, tracciate da penne diverse, che al diritto chie­ dono la carta, non di riempirla. B) Abbiamo ragione : le premesse. L’alternativa è issarsi sul­ le spalle delle nostre ragioni odierne e perseverare a difen­ derle, trapiantando la cultura giuridica dei diritti umani ovunque (riteniamo) ve ne sia bisogno. Anche quest’atteg­ giamento necessita però di una visione e di una strategia con­ sapevoli. Potremmo partire allora dall’assunto sostanzialmente in­ discusso che la gran parte delle società sviluppano il proprio etnocentrismo (ossia: credono che sulle questioni volta a vol­ ta rilevanti il loro punto di vista sia migliore di quello degli altri)577 e supporre ai nostri fini che una prospettiva intima­ mente comune all’Occidente esista e sia quella cui facciamo riferimento. Ma poiché queste non sono buone ragioni per continuare a propagare le nostre visioni del mondo nel buio dei pregiudizi, o degli opportunismi, è meglio dirlo a noi e al mondo con franchezza e, con Rorty, riconoscere che « [U]sare la parola ‘razionale’ per rendere encomio alle proprie scel­ te di fronte a tali dilemmi, è un vacuo complimentarsi con se stessi ... la retorica che noi occidentali usiamo per tenta­ re di persuadere tutti quanti ad assomigliarci di più miglio­ rerebbe, se noi fossimo più onestamente etnocentrici e smet­ tessimo di professare universalismo. Sarebbe meglio dire: noi siamo divenuti ciò che siamo, perché abbiamo smesso di eser­ citare la schiavitù, abbiamo mandato le donne a scuola, ab­ biamo separato Stato e Chiesa, ecc. ecc.; ecco che cosa è ac­ caduto quando abbiamo cominciato a considerare arbitrarie certe distinzioni ... Dire tali cose è preferibile a dire: guar­ da quanto siamo più bravi noi a distinguere quali differenze

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fra le persone sono arbitrarie e quali non lo sono; quanto sia­ mo più morali noi rispetto a voi»578. Bi) Abbiamo ragione: le prassi possibili. Occorre intender­ si, perseguire l’alternativa in discorso non vale a celebrare al­ cuna pan-giuridicità delle soluzioni. Anche nella prospettiva dell’implementazione globale e operativa dei diritti umani, il monitoraggio di governi e Ong sul rispetto delle Carte firma­ te dai singoli paesi resta assolutamente indispensabile. Ma co­ me sappiamo le energie e le risorse degli attivisti non sono in­ finite, i governi hanno molti interessi da mediare e le nume­ rose carte contengono «non solo le attese proibizioni sulla crudeltà ma anche un’agenda di azioni per migliorare la vita delle popolazioni del mondo, il tipo di cose che noi potrem­ mo immaginare se dovessimo disegnare il Nirvana partendo da zero»5”. Cosi, se adottare sanzioni economiche al fine di ottenere la salvaguardia dei diritti rischia (oltre ai possibili strali della WTO) di mancare il bersaglio, punendo le popola­ zioni nel loro intero e non i responsabili degli abusi580, man­ tenere pressioni politiche sugli Stati che violano i propri im­ pegni nei confronti delle Carte che hanno sottoscritto, è in astratto possibile per la violazione di ogni diritto, ma la di­ stribuzione del potere e degli interessi economici sugli scac­ chieri geopolitici non consente operazioni scortate da tassi ac­ cettabili di efficacia, che siano a largo raggio (ossia dirette al­ la salvaguardia dell’intero catalogo dei diritti umani). E qui che soccorre il maturo pragmatismo delle proposte à la Antonio Cassese, il cui tratto potrebbe essere recupera­ to, scontato di ogni nostra pretesa impositiva, e collocato in una prospettiva capace di guardare in faccia e superare le sue criticità anche all’interno dell’occidente. Il recupero non è ovviamente inteso a fornire alibi agli autori di abusi e viola­ zioni degli altri, numerosi, diritti formalmente sanciti dalle Carte, né a postulare un’adesione generalizzata e globale al ‘catalogo Cassese’. Si tratta piuttosto - in linea con le pre­ messe dell’alternativa che stiamo discutendo - di fornire un senso operativo all’aspirazione occidentale a trovare il con­

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senso più ampio possibile per le proprie proposte e di collo­ care quindi sul piano dAY effettività gli obiettivi perseguiti. In questo contesto, la riflessione sul metodo di quella propo­ sta si offrirebbe preziosa: (1) in chiave programmatica, come nuova piattaforma del discorso, pubblico e giuridico, sui di­ ritti umani; (n) in chiave operativa, per canalizzare le atten­ zioni, le retoriche, le energie e gli investimenti verso il con­ tenimento dei soprusi che maggiori sono ritenuti sul piano globale (e non solo dagli occidentali); (ni) in entrambe le pre­ cedenti dimensioni, quale purga dal dibattito di approssima­ zioni, spesso strategicamente orientate a legittiniare inter­ venti, anche militari, solo allorché il calcolo dei costi e bene­ fici risulti positivo per chi interviene581. B2) Abbiamo ragione: le avvertenze necessarie. Si potrà di­ scutere se il catalogo di Antonio Cassese è quello meglio ade­ guato a rispecchiare una gerarchia degli abusi condivisa dap­ pertutto; se esso debba essere riscritto in un trattato ad hoc; e comunque quanta flessibilità esso debba incorporare, in modo da assorbire le priorità e le istanze espresse, nella di­ namica del tempo, dalle variegate realtà non occidentali; su come quell’elenco possa trovare tutela rafforzata, effettiva, quotidiana, e con giudici (locali) di quale formazione, con quali avvocati, quali sanzioni e per chi; su come proseguire l’attività di salvaguardia delle istanze non incluse in quella lista, continuando a considerarle veri e propri diritti e allo­ ra immaginando strumenti giuridici per la loro protezione, oppure derubricandole ad aspirazioni politiche, che dalle po­ li tiché internazionali (e domestiche) dipendono. Indispensabile a ognuna di queste direzioni è però, anco­ ra una volta, guadagnare la coscienza che noi siamo figli e padri della nostra storia, tanto quanto lo sono gli altri, della loro. Ciò ci condurrebbe a introiettare due paradigmi inos­ sidabili - almeno quanto si sono rivelati tali a proposito dei destini possibili del commercio globale e delle giurisdizioni penali universali. Il primo marca il riconoscimento delle re­ gole altrui alla stessa stregua delle nostre, fe la consapevolez­

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za operativa che senza la partecipazione degli utenti e dei fa­ citori locali del diritto ogni paradigma operativo rischia di rimanere lettera morta582. Il secondo scolpisce il rilievo fon­ damentale, per noi e per chiunque, che il fattore tempo - co­ me abbiamo piu volte ribadito - occupa nella costruzione dei fenomeni, quelli a venire, come quelli che abbiamo alle spal­ le, o di fronte. Rifornita di questi problemi e di queste strategie - nei termini che qui si è solo tentato di abbozzare -, la scelta di perseverare nella difesa ed esportazione dei diritti umani po­ trebbe consolidare un nesso accettabile fra premesse e risul­ tati. E cosi che quella stessa scelta potrebbe alleggerirsi del peso di retoriche pregne di obiettivi indistinti, contribuire a liberare il guardaroba della politica dagli abiti griffati con il marchio dell’opportunità e catalizzare sui terminali giuridi­ ci e giudiziari locali le risorse dei dibattiti, nazionali e trans­ nazionali, rafforzando notevolmente gli strumenti di prote­ zione di un set determinato di diritti. Nella prospettiva di quella scelta, del resto, nulla avrà un senso di cui il tempo ci possa rendere orgogliosi, se l’investi­ mento di energie politiche e comunicative nella costruzione delle condizioni concrete in cui quei diritti possono diventa­ re irrinunciabili, non saprà sposarsi con investimenti dello stesso calibro consacrati all’edificazione delle concrete con­ dizioni in cui (senza altre perdite, di identità, o di futuro) quei diritti possono diventare autonomamente e materialmen­ te rivendicabili, da chi ne subisce direttamente la violazione e davanti ai propri giudici - non solo a Berlino o New York, ma anche a Bangkok, Lima, Lagos o Riyàd.

5. Contro il vento. Che si prediliga la via che vede nei diritti umani, e nella loro giuridica universalità, una irrealizzabile utopia, oppure quella che ne accetta la mondana necessità come un compi­

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to da perseguire nel segno della storia e della geografia, un dato resta indubbio. L’idea stessa e il movimento per l’affer­ mazione dei diritti umani hanno saputo creare un’attitudine culturale, sociale, emozionale, che si è diffusa e che non so­ lo ha dato e dà quotidiano sostegno a innumerevoli ‘ultimi’, vittime di ogni sopruso, ma ha permesso a molti una svolta autentica nel modo di guardare ai fatti della propria e altrui vita585. Quell’idea e quel movimento hanno potuto piantare ra­ dici estese anche grazie alla capacità propulsiva dimostrata dal discorso politico, accademico e mediatico, che nel tem­ po ha edificato il piedistallo su cui i diritti umani sono assisi oggi. E un discorso che ha potuto produrre icone, parole d’ordine, luoghi comuni, ma anche retoriche avvincenti, re­ se possibili dal dominio che l’Occidente ha esercitato, so­ prattutto negli ultimi decenni, sui paradigmi a disposizione dell’opinione pubblica mondiale. Un potere che l’Occidente si è guadagnato grazie all’attrattività del proprio modello di organizzazione sociale; un potere che ha potuto dettare agenda e contenuti al discorso pubblico ‘altrui’, finendo coll’invertire l’onere della prova su qualsiasi argomento sfidas­ se i capisaldi del nostro modo di elaborare la civiltà. C’è da chiedersi, però, se il vento della storia spiri anco­ ra alle nostre spalle o se lo faccia con lo stesso impeto del pas­ sato. Se cosi non fosse - e alcune avvisaglie, demografiche, economiche e politiche, offrono una misura di questa even­ tualità - occorrerebbe interrogarsi seriamente anche su qua­ le destino possa garantirsi il nostro modo di pensare i dirit­ ti umani (e come saremo capaci di proteggerli) nei nuovi equi­ libri: quelli che la concorrenza fra modelli culturali, giuridici, economici e politici sta determinando, e quelli, ancora piu incerti, che essa scolpirà per le generazioni a venire.

Parte quarta

Diritto e democrazia

Capitolo quattordicesimo

La nostra democrazia e le tracce lunghe del (suo) diritto

i. Letizie e disincanti.

Una delle misure cui si fa più di frequente ricorso nel sag­ giare la democraticità di un paese non occidentale è l’ado­ zione, da parte di questi, di una costituzione intonata alla nostra ‘rule of law’584. Il superamento di questi esami è sta­ to salutato con letizia, per richiamare esempi ben conosciu­ ti, a riguardo delle Costituzioni irachena e afgana, celebran­ do le prove di democrazia offerte da quei martoriati paesi. Altrettanto agevole, per converso, è esprimere disincanto nei confronti di eventi che rappresentano solo tappe ‘a crono­ metro’, preliminari a un cammino che verso la democrazia appare tanto lungo quanto disseminato di ostacoli585. Misurazioni eteronome, letizia e disincanti non possono tuttavia oscurare dati che appaiono fondamentali per com­ prendere, sia le radici e le prospettive del dibattito sull’im­ pianto della democrazia, al di fuori dell’occidente euro-ame­ ricano, sia il ruolo specifico che riveste il diritto nel farsi di quei fenomeni e nella valutazione di quegli stessi dibattiti.

2. Il primato della democrazia : questione di tempo.

Nel guardare alle cose del mondo, la disponibilità della democrazia è d’abitudine presentata come un pre-requisito di ogni valutazione (politica, economica, giuridica) e, talora, come un imperativo da conseguire - senza o con l’aiuto oc­ cidentale - da parte delle società che non ne godono. Non è questo il luogo per discutere le varie declinazioni

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su cui i politologi occidentali appoggiano le proprie nozioni di democrazia586 o per dibattere se vi sia qualcosa di ineren­ te a quest’ultima che la renda astrattamente o necessariamen­ te ‘giusta’587. Indubbio è che, allo specchio di chi guarda le società non democratiche come patologie della storia, si ri­ trova chi pensa alle nostre democrazie come espressioni lo­ cali di una cultura particolare e poi chi, per luoghi e tempi dati, discute o celebra i meriti di forme di governo ‘altre’, incluse quelle di natura autocratica o epistocratica588. Si trat­ ta di prospettive, queste ultime38’, che hanno animato posi­ zioni e discussioni politiche, oggi con particolare riguardo al­ le società est-asiatiche e islamiche5”, e alle cui sfide è diffi­ cile offrire una risposta non dogmatica, ossia rispettosa delle altrui differenze. In questa sede - senza neppure pensare di poter affrontare con rigore questioni di tale ampiezza - , due soli dati meritano l’evidenza. In primo luogo, affidarsi a chi è saggio o sapiente presuppone convenire su chi lo è, e que­ sto, a sua volta, necessita di un corpo sociale che condivida diffusamente un’omogenea gerarchia di priorità politico-cul­ turali: presupposto che non può essere dato per scontato nel lungo periodo, e tanto meno all’ora attuale, in gran parte del­ le società conosciute. In secondo luogo, nelle forme non-democratiche di governo non c’è garanzia di ricambio nella cul­ tura e nelle preferenze di chi detiene il potere. Il che non osta­ cola derive autoritarie, e soprattutto rende sicuro che - di fronte al problema delle migliori condizioni di governo per la comunità - quanto possa far preferire la democrazia è la sua maggiore flessibilità di risposta nel tempo™'. Profilo que­ st’ultimo da considerare essenziale, quanto meno - per ri­ correre a una immagine nota, ma biologicamente impeccabi­ le - se ciascuna generazione, e ognuno di noi, accetta di es­ sere un inquilino che risponde ai propri figli e alle generazioni a venire, come ai veri padroni di casa. Ma quanto precede è solo uno spicchio del discorso, an­ che ai nostri fini. Un conto è difatti la preferibilità della de­ mocrazia, un altro è la sua struttura intima. Il confronto ma­

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turo con le realtà non democratiche, ma anche coll’aspira­ zione occidentale a trasformarle e con lo stesso futuro nostro e altrui, non può prescindere dalla considerazione per gli ele­ menti costitutivi della nostra realtà, per la fibra di cui è tes­ suta la nostra democrazia. Ciò che permetterà di avanzare la discussione, in direzioni opposte a quelle perseguite, non so­ lo dai detrattori della stessa democrazia, ma anche (è quan­ to vedremo nel capitolo successivo) da chi la considera una merce facilmente esportabile. In entrambe le direzioni risulterà ovviamente necessario tenere sotto gli occhi i fattori di produzione degli argomen­ ti odierni. Si tratta di un confronto che appare invero indi­ spensabile, eppure è sovente gestito attraverso analisi (at­ traenti, ma nella nostra prospettiva) solo fino a un certo pun­ to rilevanti.

3. Democrazia e diritti.

Chiediamoci difatti quali siano, in Occidente, i fonda­ menti, o se si vuole i pre-requisiti, che - dalpunto di vista giu­ ridico - hanno reso possibile la nascita e lo sviluppo di quel­ la democrazia di cui oggi si discute anche come materia di trapianto5’2. Sgomberato il campo dall’ingenua credenza che la demo­ crazia si esaurisca sul mero piano delle (mutevoli) forme co­ stituzionali5’5, una prima risposta richiama i (parimenti va­ riabili) modelli di selezione dei governanti”4. Risposta indi­ scussa, come appena ricordato, ma che non basta a se stessa, se non arricchita da contenuti giuridici più densi. Questi por­ tano subito in superficie le grandi regole dell’eguaglianza e della libertà di espressione. Accanto ad esse, assieme ad es­ se, la storia ha però consegnato un ruolo di spicco a (il gro­ viglio di fenomeni che hanno alfine prodotto) la libera acces­ sibilità e la incisiva protezione della proprietà privata, ser­ batoio di obblighi, di diritti e, soprattutto, di riflessi comu­

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nicativi. Riflessi che, nel lungo e travagliato periodo593 - con i ricorrenti rischi di sopraffazione a spese dei non- o piccoli proprietari -, sono stati capaci di veicolare su, e irradiare dal­ l’individuo valori e pretese che hanno finito col conformare la sua stessa soggettività nei riguardi dei consociati e dei po­ teri pubblici396. Non è un caso del resto che la tutela messa a punto in riferimento al diritto di proprietà privata si sia nel corso del tempo posta in corrispondenza biunivoca con l’i­ dea secondo cui i diritti spettano all’individuo come tale, e non in quanto membro di una famiglia, di una tribù, o di una comunità religiosa, etnica o partitica397. Di qui, lo stesso prin­ cipio che riconosce in capo all’individuo obblighi e diritti si collega ulteriormente al principio per cui la responsabilità è personale, e non di gruppo, e si sviluppa nel riconoscimento della intangibilità della sfera privata di ciascuno, la quale a sua volta assume la struttura di tutela che è stata elaborata per la proprietà privata598. Alla domanda sui pre-requisiti della democrazia, una se­ conda risposta, intimamente connessa a quanto precede, segnala che, per come la intendiamo in Occidente (e per co­ me la dovremmo confrontare quindi con gli altri sistemi), la democrazia si rivela un complesso insieme di diritti e dove­ ri che il sistema giuridico, come implementato dai corpi ap­ plicativi, garantisce quotidianamente vengano rispettati, da­ gli individui cosi come dalle istituzioni. Che anche queste ul­ time siano (nel tempo divenute) soggette al controllo del diritto, ha costituito la via che oggi consente al cerchio de­ mocratico di aprirsi e chiudersi in capo ai singoli individui. Al fine minimo di scoprire, valutare e sviluppare le proprie preferenze, incluse le scelte politiche e istituzionali, gli indi­ vidui hanno difatti bisogno delle risorse comunicative che, nelle nostre società, sono loro fornite proprio dalla consape­ volezza, propagata e diffusa, della materiale reclamabilità di quei diritti e di quei doveri599.

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4. Specialismo e secolarismo (Gregorio VII, re Andrea II e Podiebrad, mugnai e follatori). Un altro dato essenziale a comprendere le ‘nostre’ demo­ crazie è che la mentalità occidentale assegna alla giustizia e al diritto (in particolare a quello civile, il quale, veste e au­ tentico tessuto connettivo dei rapporti fondamentali ‘con’ le cose e ‘fra’ le persone del mondo, ha funto storicamente da matrice allo sviluppo delle altre branche del diritto)600 uno spazio autonomo, estraneo alla dimensione delle scelte pura­ mente politiche, puramente morali o puramente religiose. Un’autonomia che ha vissuto un parallelo dinamismo di qua e di là della Manica601, conoscendo cicliche restrizioni ed ero­ sioni, ma che ha sempre incaricato la storia di ridicolizzare ogni tentativo di definitiva soppressione. Giustizia e dirit­ to, a loro volta - si noti - da non intendersi quali prospetti­ ve metafisiche602 o come nomenclature giurisdizionali, testi scritti603, galere e gabelle, ma quale mentalità diffusa, tradi­ zione profonda, visione quotidiana di cosa sia la legittimità604, a chi e come spetti amministrarla605. E questo un presupposto fondamentale, fra quelli che la storia ci ha consegnato, per ognuna delle nostre democrazie. A partire con nettezza dal xn secolo606 (e questo profilo del­ la storia trascenderà pure Weimar, Vichy, Salò o il Piano Marshall), la succitata autonomia607 dello spazio giuridico si lascia difatti cogliere in rapporto di corrispondenza biunivo­ ca con l’idea e la convinzione che l’amministrazione del di­ ritto debba essere affidata a un ceto, non di teologi o ideo­ logi, ma di tecnocrati. Professionisti i quali svolgono la pro­ pria attività sulla base di una cultura specialistica. Un sapere che è coltivato e percepito come terzo, imparziale, e che pro­ prio per questo ha potuto rappresentare il terreno fertile in grado di accogliere, quando la storia ha inteso affidarglieli, i semi delle libertà e della eguaglianza. Di sicuro, tutto ciò non sarebbe stato possibile se le for-

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ze che hanno guidato le evoluzioni della nostra storia, anche economica, non avessero avuto bisogno del diritto che noi conosciamo, e non ne avessero promosso lo sviluppo608. Di sicuro, tutto ciò non sarebbe stato possibile senza che un al­ tro motore della nostra civiltà, il cristianesimo occidentale60’, non avesse ribadito, con forza dai tempi di Gregorio VII610 (certo con qualche, anche recentissima, distorsione), il pre­ cetto evangelico che incoraggia il rispetto di Cesare611. Ma tutte queste occorrenze non sarebbero bastate a loro stesse se il tecnicismo del diritto non fosse stato in grado di forgiare pretese e obblighi indipendenti dal principe e dal trascendente. Ciò che ha consentito a quel tecnicismo di fun­ gere da efficace ‘isolante’ rispetto alle pressioni del potere politico e religioso. Ciò che‘ha concorso a costruire e diffon­ dere quella mentalità, quel bagaglio di riflessi culturali, che ha permesso, nel lungo periodo, alla Magna Charta, alla Bol­ la d’oro di re Andrea II612, a re Podiebrad613 e poi agli stessi illuministi, al parlamentarismo inglese, a Madison & Co., a tutti gli autori degli sforzi di minimizzare l’impatto dell’ar­ bitrio nelle nostre società - sforzi i cui esiti piu maturi sono proprio le nostre democrazie - , di far prevalere la legittimità (come la richiamiamo in queste pagine) sullà sovranità, di qualsiasi conio. Il dato che richiama lo specialismo e il professionismo del giurista occidentale distende poi la propria valenza anche in un’altra direzione. Il patrimonio di conoscenze (e di tecni­ che necessarie ad acquisirle) è diventato infatti, e dappertut­ to in Occidente, un fattore organizzativo del sistema. Ciò che è avvenuto non solo come si è detto ‘dal basso’: nel sen­ so che la percezione quotidiana dell’astratto ‘giusto’ si irrorò lentamente del concreto ‘legittimo’ - per i mugnai di Pots­ dam come già per gli artigiani di Figeac, i follatori di Gand o tutti gli altri promotori delle lotte proto-sindacali del ’200 e ^oo614 ma anche ‘dall’alto’, nel senso che mentre da un lato le conoscenze tecnico-giuridiche servivano a descrivere l’insieme delle regole e delle istituzioni secolari, dall’altro la-

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to il funzionamento delle stesse regole e istituzioni è dive­ nuto conoscibile e praticabile solo attraverso i giuristi - e non attraverso i politici o i ministri del culto. E in quest’ultima prospettiva che si comprendono pure le differenze di struttura, di categorie e di nomenclatura che, aH’interno dello stesso Occidente, si riscontrano: fra sistemi a profonda impronta liberista e quelli che si sono rifatti o s’i­ spirano a modelli ‘sociali’ di mercato; fra paesi ‘romanistici’ e quelli di common law. Paradossalmente queste differenze sono possibili proprio perché nella nostra tradizione l’auto­ nomia del giuridico dalle scelte politiche contingenti si è, nel corso del tempo, affermata come un valore fondamentale e diffuso, permettendo al diritto di evolversi indipendente­ mente dalle somiglianze o dalle differenze che la storia ha marcato in ambito politico, sociale o economico615.

5. Il diritto fra ‘purezze’ e totalitarismi. Alla base del modo nostro d’intendere la democrazia e il diritto vi è, insomma, questa circolarità fra libertà e diritti individuali, secolarismo e professionismo, risorse comunica­ tive e mentalità diffuse. Nessuno può ignorare, lo abbiamo già sottolineato, che ognuno degli esiti di cui discorriamo è stato seme e frutto di una congerie di fattori, economici, religiosi, politici, né che l’influenza di questi ultimi può essere più elevata in materie pubblico-costituzionali. Sul punto, tuttavia, quanto permet­ te di sfuggire alla zoppia cognitiva è ricordare: che il diritto si coglie dappertutto quale infrastruttura sociale di condot­ te pubbliche e private; che nelle democrazie esso si pone pu­ re quale fondamentale premessa dell’esercizio del potere; che quindi il governante di turno, da noi, può essere legittimamente scelto, e operare, solo grazie al diritto. Altro è quindi ogni discussione sulla dimensione ‘politi­ ca’ del diritto e altro è la dipendenza delle prassi operative

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e discorsive dal principe ad interim. Si badi poi che qui non so­ no in gioco (né i sussulti della politica quotidiana, vale ripeter­ lo, né alcuna di) quelle discussioni - anch’esse, et pour cause, tutte occidentali - circa la ‘purezza’ astratta del diritto come fine in sé. Posizione che, da un lato, si nega alla evidente con­ siderazione che, dappertutto, il diritto si colloca in rapporto di­ namicamente biunivoco con la civiltà che esso contribuisce a forgiare, e di cui è espressione. Posizione che, dall’altro lato, si svela incapace di cogliere come ad essa possano abbarbicarsi ta­ vole di valori etero- o sovra-imposti, di cui le finalità sono so­ lo apparentemente neutre616. Si potrà allora trattare di valori ‘naturali’ o religiosi617 (il cui problema più evidente, anche in Occidente, è - oltre al fatto che quegli stessi valori possano declinarsi diversamente già all’attraversamento di una frontie­ ra - il tasso di condivisione, in società i cui membri sono sem­ pre meno proni a raccogliere l’ampia gamma delle proprie scel­ te di vita sotto l’ombrello, che si vorrebbe esteso, di una com­ patta prospettiva valoriale)618. Oppure, si potrà trattare della difesa dei valori di cui è imbevuto un diritto ‘consuetudinario’, la cui velocità di sviluppo consente al meglio il mantenimento dello status quo - l’esempio occidentale notevole è il common law angloamericano, per lungo tempo al servizio degli interes­ si maggiori di una fetta minore della società61’. Non sbaglia perciò chi ricorda come la battaglia dei valo­ ri in ogni società si giochi anche (e da noi: soprattutto) sul tavolo del diritto e come i sistemi giuridici possano rappre­ sentarsi nel loro complesso quali «contested sites of meaning, where dominant ideas and values provide the framework for contestation and for advancing alternative understandings and practices»620. Quel che però muta con i luoghi e con la storia - e si tratta di un dato fondamentale - è la differente civiltà giuridica diffusa nella società di riferimento, e quin­ di la diversa capacità dei giuristi, laici o no, di contribuire, o resistere, alle torsioni impresse alle regole da chi governa la comunità. Ebbene, in Occidente, a differenza che altro­ ve, tale capacità si è consolidata (con o senza un formale os­

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sequio alla moderna separazione dei poteri)621 attraverso gli strumenti della tecnocrazia laica e secolare, erigendo que­ st’ultima a caratteristica saliente dei rapporti fra potere e in­ dividuo e a solido piedistallo per il ruolo che il diritto ha sa­ puto stabilmente esercitare all’interno delle nostre società622. Fra i tanti possibili, un esempio ancora, vicino alla nostra storia. Senza l’autonomia del diritto, intesa come abbiamo ricordato - e come alimentata dai corpi applicativi, e dalla stessa cultura diffusa presso gli utenti del diritto - diviene difficile spiegare la sostanziale impermeabilità della natura e dell’articolazione degli istituti giuridici fondamentali allo scorrere dei nostri regimi totalitari, ciò che ha fin qui rap­ presentato un’affidabile promessa di superamento di ogni contingenza autocratica: una sorta di siero biotico contro ogni totalitarismo 62’. Totalitarismi che il diritto occidentale, di per sé, non ha i mezzi per prevenire, ma ha avuto la for­ za di archiviare rapidamente. E in questa traccia che si può in effetti comprendere l’agio relativo con cui la democrazia ha guadagnato il suo ruolo nell’Italia e nella Germania del secondo dopoguerra; ed è per questi stessi motivi che acco­ munare, senza l’analisi che stiamo qui evocando, l’esperien­ za nostra e tedesca624 a quella della possibile democrazia ira­ chena, o afgana, appare un percorso argomentativo indebi­ tato col grottesco, assai più che coll’opportunismo. Certo, ovunque la democrazia abbia prevalso si è tratta­ to di una vittoria faticosa e costosa. Ma di sicuro è una vit­ toria che non si sarebbe potuta raggiungere se il campo di battaglia non fosse stato liberato degli ostacoli del trascen­ dentalismo religioso625, se non fossero stati a disposizione gli armamentari propri a quella tradizione che abbiamo richia­ mato, alla sua tecnostruttura, ai suoi professionisti. Vittoria e armamenti, vale la pena di sottolinearlo, che possono all’o­ ra attuale assumere il ruolo di demarcatori, e fra i piu nitidi, di cosa sia V Occidente rispetto a ciò che non lo è, di dove la democrazia possa farsi strada in tempi ragionevoli e di dove quella strada rischi di rivelarsi cieca o assai più lunga.

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È solo nella prospettiva tracciata nel capitolo preceden­ te che la democrazia può essere colta, da noi, come sorella siamese della ‘rule of law’. Coppia di elementi che, come ab­ biamo visto, presso svariati e influenti consessi, sarebbero destinati a circolare parallelamente, non insieme alla consa­ pevolezza della propria storia, ma con il peso e la leggerezza di una nuvola, con la velocità del vento che tutto spazza e tutto rinnova626. Su quella coppia, giunti a questo punto del discorso, sia­ mo però in grado di intenderci meglio e di proporre una se­ rie di osservazioni utili a collocare in una prospettiva dina­ mica le nostre stesse esperienze, nonché a vagliare quanto quella stessa prospettiva sia necessaria per essere padroni del­ le scelte che l’Occidente è (o si sente) chiamato a compiere fuori dai propri confini.

i. Arretramenti possibili.

Abbiamo detto che, al di là delle epifanie contingenti, do­ mestiche a questo o quello spicchio della comunità occiden­ tale, la circolarità prodotta dalla tutela dei diritti individua­ li e dal secolarismo e professionismo dei giuristi, la menta­ lità diffusa che è attraverso i secondi che si reclamano i primi, le libertà, l’eguaglianza, la laicità dello Stato, sono i capisal­ di della nostra democrazia. Altrettanto vero è, però, che que­ sti pilastri hanno conosciuto fasi di edificazione lunghe e pe-

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tigliose627. È bene ribadire cioè che il dinamismo storico è proprio anche alla nostra civiltà, alla nostra tradizione, e che leggere i fenomeni di luiigo periodo come abbiamo fatto nei paragrafi precedenti, non significa celebrare alcuna fine del­ la storia, alcuna sua ineluttabile linearità, alcun inarrestabi­ le progresso quale nozione sempre e ovunque condivisa (a meno che non si voglia ridurre il progresso a quello scienti­ fico-tecnologico)628. Il futuro che vogliamo è quello che sapremo costruire, co­ me lo è il tempo odierno, che ha saputo essere esito di con­ flitti violenti, spesso armati, in nome di visioni del mondo che erano o si rappresentavano come antitetiche (dal contra­ sto fra i baroni e il re in Inghilterra, a quello sul continente fra papato e impero, dalle guerre di religione a quelle d’indi­ pendenza, civili, mondiali). Visioni che nel lungo periodo po­ trebbero entrare nuovamente in conflitto. Non essendo da noi all’orizzonte totalitarismi, si tratta piuttosto di conflitti che potrebbero essere causati da arre­ tramenti significativi sul piano dei diritti di libertà, per ipo­ tesi supportati dal consenso popolare, ad esempio in nome di ragioni di sicurezza nazionale protratte indefinitamente nel tempo62’. Oppure si potrà trattare di un’erosione della so­ vranità, statuale e democratica, da parte dei mercati finan­ ziari e delle istituzioni del capitalismo ‘scatenato’630, erosio­ ne ancora più marcata di quella di cui abbiamo dato conto nei Capitoli sesto e settimo, e tale da ridurre il raggio di ma­ novra degli eletti dal popolo oltre il punto in cui si pongono a repentaglio dei cittadini gli stessi diritti politici (in termi­ ni di rappresentanza effettiva) o sociali (e.g., rendendo an­ cor più dipendenti dai mercati le prestazioni previdenziali, sanitarie o di. economia sociale). Esiti che, incidendo sulla stessa allocazione dei diritti e penalizzando soprattutto i sog­ getti più deboli del corpo sociale, sottoporrebbero a tensio­ ni ancora più stridenti di quelle odierne lo stesso principio di eguaglianza tra cittadini. Ma i conflitti possono nascere pure in virtù del radica­

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mento sociale di orientamenti che mal sopportano (non ne­ cessariamente il principio teorico, ma) le pratiche quotidiane della laicità dello Stato e delle sue istituzioni, a partire dalle scelte cc.dd. eticamente sensibili6’1. Denominazione che ri­ sulta goffa (quante scelte non lo sono ?), ma funzionale anche a promuovere una profonda diseguaglianza fra chi a quelle scelte può dar corso altrove, fuori dallo Stato che le proibi­ sce, e chi quell’opzione non può praticarla. Oppure si potrà trattare di conflitti generati dal progressivo e diffuso consen­ so guadagnabile da posizioni che rivendicano, allo specchio di altrui fondamentalismi, o semplici diversità, un più saldo ancoraggio della propria società a valori tradizionali, presun­ ti e no6’2, fra i quali sono inclusi, talora come fondale che si fa fronte del palcoscenico, quelli comunitari/identitari e quel­ li religiosi6”. Valori, questi ultimi, che potrebbero armare due differenti pretese: che lo Stato si faccia braccio normativo della maggioranza religiosa, o ‘etnica’, nei confronti delle al­ trui minorità; che una minoranza non secolarizzata allarghi il raggio d’influenza delle proprie visioni sulle regole di convi­ venza (profittando pure di climi culturali in cui il multicultu­ ralismo è vissuto non come confronto continuo con la diver­ sità, ma come percorso di smarrimento dell’identità più tol­ lerante). Il risultato sarebbe all’evidenza quello di erodere principi fondanti come quello della laicità dello Stato e, an­ cora una volta, quello dell’eguaglianza dei cittadini6’4. Si tratta di arretramenti che, a differenza dei totalitari­ smi politici - architetture costituzionali e reti di polizia -, potrebbero incidere sulla sala-motori delle percezioni e del­ le aspettative sociali. Ciò che da noi certo (o auspicabilmen­ te) potrebbe accadere solo nel lungo periodo. Ciò che da noi potrebbe poi finire per scontrarsi - come è accaduto al tra­ monto dei totalitarismi novecenteschi - con la riemersione di quelle risorse culturali e professionali, di quella mentalità diffusa circa la reclamabilità dei diritti e dei doveri, pubbli­ ci e privati, che abbiamo visto essere gli elementi fondanti delle nostre forme di convivenza.

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Ma si tratta di una consapevolezza, quella del lungo pe­ riodo, che dovrebbe essere tale anche con riguardo al com­ plesso farsi dell’odierna democrazia e delle sue componenti, nutrendo cosi qualsiasi punto di vista, circa il divenire delle storie nostre e altrui, circa i variegati ‘oggi’ e ‘domani’ del­ le dinamiche sociali e istituzionali.

2. Accelerazioni ed etnocentrismi. L’accresciuta velocità delle comunicazioni - uno dei fat­ tori fondanti i fenomeni della globalizzazione - incentiva in­ vece un pregiudizio esteso circa la parallela accelerazione di ogni mutamento6’5. E cosi che si smarriscono, si oscurano o si rendono meno visibili le asincronie dettate dalle differen­ ze (non solo digitali, nelle infrastrutture o nel Pii) che per­ corrono le società del pianeta. Ma è cosi che la centrifuga del discorso globalizzante alimenta pure una visione del mondo incapace di filtrare i propri argomenti (e le proprie possibili ragioni) al setaccio della geografia e della storia altrui. In questo contesto si colloca pure - al netto di ragioni me­ no nobili - il dibattito sull’esportazione della (nostra) demo­ crazia. Come abbiamo visto per i diritti umani, anche su questo versante possono facilmente entrare in rotta di collisione le passioni e le analisi, i linguaggi e le pratiche, le strategie e il candore, gli interessi nostri e quelli altrui, gli interessi di og­ gi e quelli di domani. Come valutare allora questo dibattito, e i suoi fattori di produzione ? Anche qui le variabili da considerare sono numerose, e d’abitudine rincorrono le preferenze di chi le usa. Detto però che le gloriose litanie messianiche, incluse quelle neoliberali, che tutto rivoltano, e molto trascurano, hanno dietro di sé una storia trapuntata di fallimenti, non solo economici, vale la pena - ed è certo, anche cognitiva­

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mente, imprescindibile - accettare nuovamente la sfida con un dato che abbiamo già incontrato (e che non è estraneo a quelle stesse litanie). E ciò che gli antropologi insegnano es­ sere una prospettiva difficilmente sradicabile dalle società umane, ossia l’etnocentrismo espansionista: qui declinato co­ me tendenza a considerare migliori delle altre le proprie for­ me di convivenza e quindi a diffonderle quanto possibile6’6 - e cosi espandere e rafforzare i propri interessi. Si tratta in altri termini di assumere: che in Occidente la democrazia è considerata un bene in sé, o il male minore fra le forme di governo conosciute; nonché che l’Occidente è inevitabile si faccia promotore della visione del mondo di cui oggi dispo­ ne, visione che include l’incarico di spargere ovunque i semi dèlia democrazia, come behe da condividere con il resto del­ l’umanità, anche al fine di far meglio convivere il proprio plurimo sé (umanitario, affaristico, culturale) con i mondi al­ trui. E un atteggiamento che può rappresentarsi come nobile, o necessitato, ma affinché non si riveli goffo, o tragico, al­ cuni dati vanno allineati - privilegiando come sempre quel­ li con il regolo puntato sul diritto.

3. Trapianti e rigetti. (1) In primo luogo, non dovrebbe sfuggire che un atteg­ giamento mirante a riprodurre, sic et simpliciter, la demo­ crazia, le sue regole e istituzioni, come maturate nell’alveo dell’occidente, in esperienze ad esso estranee, si espone a controindicazioni drammatiche, anche sul versante più squi­ sitamente strategico. Il trapianto rischia infatti di produrre un costo di manu­ tenzione della transizione, dalle regole altrui alle nostre, straordinariamente alto (anche per chi ha semplicemente a cuore là costituzione di ‘mercati’). Costo contrassegnato dal­ l’elevato tasso di imprevedibilità, circa la tutela di ogni di­

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ritto e l’attuazione di ogni regola imposte dall’esterno - in­ cluse quelle elettorali, con i rischi di traumi da «inedita rap­ presentanza» (per gruppi tradizionalmente ai margini del po­ tere in quella comunità)637 -, in ambienti che possono essere, culturalmente, professionalmente o tecnicamente, imprepa­ rati a recepire e/o amministrare prontamente quelle regole, nell’orizzonte diffuso e variegato della quotidianità638. Quei costi di manutenzione sono poi destinati ad aumen­ tare, e di molto, senza una maggiore articolazione in punto di scelta degli interlocutori. L’obiettivo di assicurare effica­ cia al rispetto delle regole e dei diritti che vorremmo trapian­ tare, ancora oggi, non sempre include come dovrebbe tutti i soggetti che possono garantire effettività al progetto, in spe­ cie allorché lo Stato si mostri indifferente, insufficiente o in­ capace a darvi seguito, o a dirittura complice della sua mes­ sa in iscacco. La lista di tali soggetti è ampia, comprenden­ do certamente le organizzazioni umanitarie, le istituzioni endostatuali riconosciute dallo Stato, senza dimenticare le imprese e ogni altra istituzione detentrice di poteri effetti­ vi, e quindi di autorità giuridica, su la vita e le modalità in cui si pratica l’appartenenza delle persone: dalla famiglia, al­ la tribù, alle comunità territoriali, a quelle religiose63’. La interlocuzione forzata in direzione ‘top-down’, tanto più se mirata unicamente verso lo Stato altrui, reca poi co­ me sottoprodotto un’ulteriore minaccia, da valutarsi sempre più seriamente in termini di strategia politica: quella di in­ coraggiare la tensione, latente o già esplicita nel dibattito po­ litico extra-occidentale, fra Tradizione propria e Modernità altrui. I nuovi media del resto consentono facilmente alle po­ polazioni locali di ricevere, non soltanto i messaggi del ‘ne­ mico imperialista’ e del potere domestico, ma anche le altre, diverse voci che dissentono dalla nostra ‘modernità’. Di qui il pericolo del consolidarsi di un serbatoio automatico di ri­ sposte condivise, nascenti dalla fusione fra l’elemento identitario della tradizione e l’attrattività della postura naziona­ le della resistenza640. Di qui anche, e di conseguenza, il ri­

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schio di impoverire il discorso politico locale rafforzando la mano dei sedicenti tradizionalisti - ai quali è offerta una chance gloriosa di presentare qualunque loro politica come un’alternativa, al contempo globale e locale, alle mire ‘altrui’, ossia le nostre (e da quella gloriosa chance alla radiosa lotta per il terrorismo il passo non è mai stato così breve)641. (n) In secondo luogo, occorrerebbe riconoscere consape­ volmente, e manifestare pubblicamente, quali siano i presup­ posti e gli obiettivi dei nostri ‘interventi’, militari e no, fuo­ ri dai nostri confini. Di fronte al riscontro di ‘carenze’ de­ mocratiche in Russia o Cina siamo in grado di / pronti a eseguire o minacciare ritorsioni dotate di effettività ? La sto­ ria recente insegna di no, e pare proiettare la stessa risposta anche nel prevedibile futuro. Con quali strumenti pacifici pensiamo allora di confrontarci con le altrui mire di espan­ dere i propri interessi, i propri modelli di business, i propri ‘modi di guardare al mondo’ ? Ecco le ragioni per cui chiari­ re, a noi e ai discorsi pubblici altrui, premesse e obiettivi di ognuno degli interventi pro-democrazia, nonché Io strumen­ tario culturale di cui intendiamo servirci, è una necessità da affrontare con candore e urgenza. Non basta certo semina­ re parole d’ordine generiche - senza geografia né storia (se non la nostra), quali - ‘proteggere i diritti umani’, ‘costrui­ re la democrazia’, ‘diffondere la rule of law’, di cui sappia­ mo zeppe le dichiarazioni d’intenti di governi e organizza­ zioni internazionali. Questi sono proclami che, senza la sot­ tostante consapevolezza circa presupposti e scopi, nonché circa il tortuoso farsi dei fenomeni, si limitano a trasudare baldanzosa indifferenza per le realtà altrui e a imbottire il dibattito (senza che occorra richiamare le coscienze) di or­ pelli e distorsioni che alimentano, vuoi una mancanza di tra­ sparenza delle élite politiche, economiche, militari, vuoi un imbarazzante spreco di buona fede ingenuità ed energie di una moltitudine di individui, occidentali e no. (ni) Ricordare come tutti noi siamo figli di una storia multilineare, che ha condotto solo di recente le nostre idee di

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democrazia a maturità, muove una considerazione ulteriore. Se l’obiettivo è promuovere la nostra democrazia fuori dai confini dell’occidente, il minimo viatico è essere consape­ voli di quali siano i fattori che ne hanno reso possibile la na­ scita e lo sviluppo. Di sicuro le Costituzioni, le forme di go­ verno, i sistemi elettorali sono importanti ma, come abbia­ mo detto, senza la percezione diffusa e capillare della reclamabilità dei propri diritti, e della legalità, nei confron­ ti di chiunque, qualsiasi tentativo di radicare e diffondere il seme primigenio delle nostre convivenze resta un desiderio pio o ipocrita. Nella stessa prospettiva è bene aggiungere - quanto ab­ biamo ricordato più volte, ossia - che non esiste, in e per nessun paese, un modello «ideale» di sviluppo giuridico. Più precisamente, non esiste alcun modello di sviluppo giuridi­ co che possa fare a meno di nutrire robusti legami di compa­ tibilità con la realtà socio-economica, culturale e giuridica pre-esistente. Lo stesso progetto di sovrapporre a contesti dati modelli giuridici altrui si rivelerebbe inefficiente, e si è rivelato storicamente tale, perché sordo alla realtà che tutte le analisi fin qui richiamate riflettono, e al contesto sociale e culturale in cui le stesse regole fioriscono e operano. Beninteso: è verosimile che la realtà attuale del mondo, e in particolare la potenza globale dei media, degli argomen­ ti, dei modelli e simboli da essi veicolati, possa far si che non occorra un millennio, e forse neppure un secolo, affinché le nostre idee (possibilmente depurate da arroganze e cecità) e il nostro strumentario di diritti s’incardinino stabilmente in società diverse dalle nostre. Ma supporre che questi siano processi che si compiono nell’arco di un decennio, o pure di una generazione, significa amoreggiare con l’utopia e rifiu­ tarsi di convivere con la realtà.

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4. I limiti del nostro discorso. Sulla scorta di queste premesse, un progetto possibile è quello di costruire modelli d’intervento, rectius: di coopera­ zione, quanto piu discosti da ogni millenarismo, da ogni messianesimo ‘civilizzatore’ e adeguati alla bisogna, nostra e al­ trui. La prospettiva di chi scrive è tesa a richiamare unicamen­ te alcuni basilari pre-requisiti della democrazia, come la sto­ ria ce li ha consegnati e sotto il profilo squisitamente giuri­ dico642. Altro poi è - vale la pena di ribadirlo - scegliere co­ me far fiorire quella democrazia, in quale delle direzioni che essa e il suo diritto consentono: con o senza domestiche e drammatiche sperequazioni economiche, con o senza uno svi­ luppo debitore di aiuti esteri (e se ‘con’, fino a che punto). Qui la penna passa ad altri saperi. L’avvertenza è però una, ed è la solita. Si tratta di scelte che sarebbe bene dipendes­ sero assai più dal tempo e dalle fatiche di chi localmente lo produce, che dallo sfrenato e uniyersalista liberismo, o anti­ liberismo, di chi anche dei destini e del tempo altrui - ‘a fin di bene’, il va sans le dire - vuole restare padrone. Tralasceremo quindi ogni considerazione per una serie di questioni ben connesse alla genesi della democrazia, e del suo diritto, ma che si pongono al di là dei limiti di questa inda­ gine. Il riferimento va ovviamente alla desiderabilità di al­ tre forme di convivenza e di sviluppo (facile e tumultuoso è il richiamo all’odierno modello cinese)643 o alla diatriba sul genere di sviluppo da incentivare, privilegiando la sola accu­ mulazione o appaiandole fin da subito la redistribuzione644, e poi all’ineluttabilità del legame fra democrazie e capitali­ smi645, cosi come al mai troppo enfatizzato tema degli «ob­ vious goods»646 (dai vaccini agli antibiotici, dalle sementi ai fertilizzanti - e ai corrispondenti diritti di proprietà intellet­ tuale -, dalle infrastrutture logistiche, all’eliminazione di mi­ ne e residui esplosivi), i quali rappresentano utilità la cui di­

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stribuzione capillare è talmente indispensabile, da qualificar­ si come presupposto irrinunciabile di ogni cooperazione re­ sponsabile, a qualsiasi fine diretta647.

5. Una Global Court for International Aid. Si tratta però di una indispensabilità che nel frattempo, si consenta di aprire un inciso, dovrebbe confrontarsi con la parallela esigenza di chiamare finalmente governi e agenzie internazionali a rispondere del proprio operato, e delle pro­ prie altisonanti promesse, nei confronti del ‘sud’ del mondo. Questa è una prospettiva che non dipende da alcuna for­ zata equiparazione tra democrazia e sviluppo economico. E piuttosto una prospettiva alimentata dalla stringente consa­ pevolezza che il tempo necessario a un ripensamento delle nostre attitudini, dei nostri progetti, delle stesse regolazio­ ni, anche di quelle di cui abbiamo parlato nèl Capitolo sesto, non può passare invano nei confronti delle economie e dei popoli più deboli del pianeta648. Nei riguardi di questi ulti­ mi, i proclami (nostri) e le illusioni (di molti) si rincorrono da decenni. Ad esempio, proprio per accorciare tali distan­ ze, a partire dal summit 2008 di Hokkaido Toyako, il G8 ha inteso istituire una procedura di verifica degli impegni as­ sunti dagli Stati membri nei riguardi dei paesi e popolazioni più vulnerabili64’. Il meccanismo però prevede unicamente la confezione di un Report a cura di un gruppo di esperti da presentarsi al vertice di Muskoka in Canada, nel 2010. La natura largamente auto-referenziale dell’iniziativa salta agli occhi, non appena ci si accorge che manca qualunque con­ trollo esterno al lavoro degli esperti, cosi come è assente, ver­ so chi non adempie le promesse, qualsiasi misura sanzionatoria - se non quelle potenzialmente mediatiche, che agli ul­ timi del mondo, destinatari di quei mancati aiuti, è difficile risultino sufficienti. Qui allora conta mettere a fuoco i modi con cui soddisfa­

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re la necessità richiamata poco sopra: far finalmente rispon­ dere governi e agenzie di quanto promesso e non adempiu­ to, o mal adempiuto. Questa assunzione di responsabilità po­ trebbe acquisire i toni della serietà di fronte a un organo che - per delinearne qui rozzamente i contorni - si candidereb­ be al ruolo di Global Court for International Aid, da istituir­ si ad esempio presso l’Onu. Tale organo, composto di sezio­ ni specializzate, per tema e regione, e a partecipazione mista (Ong, governi, agenzie, rappresentanti locali non governati­ vi), avrebbe il compito di valutare quanto è stato e quanto non è stato realizzato alla luce delle Dichiarazioni, Agende, Patti, Accordi, liberamente e ufficialmente adottati da quei soggetti in questo o quel consesso internazionale. Alla Cor­ te dovrebbe essere poi attribuita la competenza, e la stru­ mentazione tecnica, per sanzionare efficacemente gli inadem­ pienti, o i mal-adempienti, con condanne risarcitorie in de­ naro o in natura (ad es., attraverso misure macro- e micro­ finanziarie, commerciali, tariffarie o non tariffarie, o attra­ verso la realizzazione di opere pubbliche, con l’impiego di personale indigeno), da erogare a favore e con il concerto del­ le realtà locali, secondo i criteri dettati dalla Corte medesima. Al pari di quella divisata in materia finanziaria (al Capi­ tolo 6, § 6), e a differenza di molti altri esperimenti di giu­ risdizione universale, troppo spesso intonati al vae victìs o di­ pendenti dall’unilateralismo della domestica forza sovrana650, questa rappresenterebbe un’iniziativa che, oltre a reagire al­ le locali istanze e aspettative - create da promesse altrui -, sarebbe dotata dell’effettività opportuna a fissare alle pro­ prie responsabilità soggetti altrimenti, e fin qui, non ben riforniti di incentivi diversi da quelli di rispondere burocra­ ticamente ai propri statuti o ai propri compassionevoli e (troppo spesso solo) cosmetici proclami.

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6. Oltre il democratic short-termism.

Torniamo ora ai contenuti sostanziali di cui, dal punto di vista giuridico, è necessario si doti qualunque prospettiva che, a partire dall’Occidente, voglia incentivare la nascita o lo sviluppo della democrazia. Va senza dirlo che il primo passo in questa direzione do­ vrebbe ribadire l’inutilità di ogni intervento imposto dall’al­ to, specie quelli di occupazione militare (dei limiti da frap­ porre allo stesso intervento ‘umanitario’ abbiamo già discus­ so)651. Occupazioni che, a meno che non le si mantenga sul campo per decenni, hanno storicamente mostrato, di per sé, di saper incidere sulle culture (anche giuridiche) locali quan­ to le ali per il volo del tacchino652. Il secondo passo dovrebbe chiamare in causa, da parte dell’Occidente e delle istituzioni globali, l’esercizio di quella vi­ sione che è sinonimo di forza civile, di capacità di contestua­ lizzare le soluzioni, di vivificare i germi della democrazia già all’opera negli altrui terreni e culture655. Capacità che dovreb­ bero a loro volta essere alimentate dalla consapevolezza dei tempi e dei processi necessari al raggiungimento dei concreti risultati attesi. Si potrà chiamare tutto questo ‘soft power’654, ma si tratta di un potere il cui esercizio non potrà mai pre­ scindere dall’interazione con le popolazioni interessate e poi da una collaborazione di governi, agenzie regionali e globa­ li, finalizzata al coordinamento degli interventi, che eviti spreco di energie umane e finanziarie al seguito di obiettivi sovrapposti. Del resto, dal punto di vista meramente strate­ gico, non potrà sfuggire che, in assenza di queste consape­ volezze, e di queste pratiche, diventa difficile fronteggiare efficacemente il pericolo che Cina, India, Fondi arabi e isla­ mici accrescano la propria sfera d’influenza, anche in termi­ ni di progettazione politica e giuridica, sulle regioni piu po­ vere (e ricche di risorse naturali) del globo, rappresentando­ si « come completamento o alternativa della globalizzazione proposta o imposta dall’Occidente»655.

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Su queste premesse, il terzo passo dovrebbe mettere in opera le indicazioni che meglio si prestano a tracciare pro­ spettive convergenti con ciò che si è fin qui esposto. Quan­ to richiameremo al paragrafo successivo - scontando il ri­ schio, in una sede stringata come questa, di una presentazio­ ne alla power-point - è una selezione fra gli spunti che affiorano o sono presenti, in maniera più o meno omogenea, in numerose fra le iniziative e i dibattiti in corso636. La dif­ ferenza cruciale, oltre che il fuoco sugli strumentari giuridi­ ci, è l’attenzione alla variabilità dei singoli contesti - altro è l’Iraq o l’Afghanistan, altro è la penisola araba, altro ancora è l’Africa sub-sahariana e così via -, nonché la più volte ribadita consapevolezza dei termini e dei tempi con cui le ‘ri­ cette’ possono essere metabolizzate da chi è chiamato a uti­ lizzarle, e quindi il rifiuto di ogni democratic short-termism, a favore della gradualità e del necessario coordinamento che tutte queste misure richiedono.

7. Scelte risapute. A) La diffusione delle risorse. Anzitutto, è opportuno mo­ bilitare saperi e risorse in grado di orientare processi equi di allocazione diffusa di risorse pubbliche e private, con parti­ colare riguardo all’articolazione degli interventi e della scel­ ta dei loro destinatari non statuali637. In questa direzione, oc­ corre una mobilitazione di saperi e risorse in grado di forgia­ re strumenti utili soprattutto nelle seguenti direzioni. (1) Luce sugli invisibili. Un’attenzione ovviamente prima­ ria andrebbe rivolta alla questione di sapere «chi e quanti siamo», ossia al basilare problema del riconoscimento giuri­ dico delle persone, visto che decine di milioni di individui, abitanti soprattutto i ‘paesi in via di sviluppo’, non trovano identità in alcun archivio o registro638. (11) Risorse pubbliche. Occorre promuovere regole di eguaglianza nell’accesso, e nella sua manutenzione655, alle ri­

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sorse pubbliche, quali acqua660, gas, elettricità; e poi all’alfa­ betizzazione, anche informatica, all’istruzione, anche tecni­ co-professionale661. Si tratta di risorse, quelle educative, che sono in grado prospetticamente di attuare al meglio il più ge­ nerale principio di eguaglianza, e alle quali l’accesso deve es­ sere garantito in forme e modalità che risultino convenienti dal punto di vista delle economie familiari. Non è in alcun modo pensabile, per tornare a un esempio noto al lettore, in­ sistere con la richiesta di abolizione del lavoro minorile sen­ za al contempo dirigere massicci investimenti all’alfabetizzazione-istruzione e al sostentamento economico della spe­ cifica comunità di riferimento662. (in) Proprietà private e collettive. Parimenti indispensa­ bile è la sicurezza e prevedibilità del regime giuridico delle risorse private e collettive, garantendo quanto possibile cer­ tezza e condizioni di impiego non discriminatorie (in specie di un gruppo sull’altro) della proprietà mobiliare e soprattut­ to immobiliare663. Per quest’ultima le partite più delicate si giocano (sempre inefficace ogni intervento ‘top-down’) in punto di processi di attribuzione della terra rispettosi anche del diritto locale, formale e informale664; nonché in punto di eventuale equa distribuzione di proprietà statali; in punto di protezione della titolarità, collettiva e individuale, dei di­ ritti - sia nei confronti di espropriazioni illegittime, sia con riguardo ai possibili abusi (sub specie di sfruttamento del maggiore potere economico-negoziale)665 ad opera dei sogget­ ti più forti sul mercato. In quest’ultima prospettiva, accan­ to a molti fattori diversi, di natura politica ed economica e di immediata incidenza sulla valorizzazione dei diritti pro­ prietari666, cruciale si rivela la sicurezza del titolo667, formale o informale668, quanto meno se riteniamo che le (variegate) forme di proprietà possano giocare anche altrove il ruolo di catalizzatore di valori e diritti che esse hanno svolto nelle nostre occidentali storie669. (iv) Accesso al credito e protezione dei contratti. E altre­ sì necessario incentivare la diffusione premiale del credito,

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Capitolo quindicesimo

insieme alla diffusione capillare del micro-credito - secondo il modello teoricamente persuasivo, e vincente sul terreno operativo, di Muhammad Yunus670 -, nonché una tutela, compatibile con le tradizioni locali, dell’effettività dei con­ tratti, soprattutto quelli di ‘durata’. A quest’ultimo propo­ sito, una nota ulteriore merita rilievo. Nei nostri schemi cul­ turali, la libertà di accesso al contratto, e alla tutela per la sua mancata esecuzione, è vista come co-sustanziale all’espli­ cazione della persona nella comunità di riferimento671. E no­ to però che ogni sistema contrattuale, per funzionare oltre la dimensione dello scambio immediato, ha bisogno che le parti si fidino l’una dell’altra, o comunque sappiano che la rottura immotivata del contratto espone chi l’ha causata a una sanzione. Questo, beninteso, è quanto si registra anche fuori dall’occidente, in società dove i partecipanti danno vi­ ta a reti di scambi e impegni reciproci che permettono all’e­ conomia locale di funzionare. Se però l’obiettivo è far usci­ re queste società ed economie dalla logica di mero, etero­ dipendente, o incerto, sostentamento e di promuovere la sicurezza della contrattazione anche come potenziale stru­ mento di libertà della persona da costrizioni comunitarie, serve che a disposizione di (qualunque) contraente vi siano rimedi in grado di sanzionare con effettività (qualunque) ina­ dempiente. Parallelamente, occorre consapevolezza: da un lato, che introdurre dall’alto i nostri modelli non farebbe che distruggere i vecchi legami, senza costruire quanto è neces­ sario; dall’altro lato, che sempre una «riforma in cui la gra­ duale introduzione di regole formali rinforzi i network esi­ stenti funzionerebbe meglio rispetto a una che cerchi di so­ stituirli»672, trattandosi perciò di adottare incentivi (anche di natura non economica) che creino le condizioni affinché quei vincoli di durata possano realizzarsi, al riparo di protezioni effettive673. B) Formazione trans-culturale. Al contempo, si tratta di mobilitare saperi e risorse in grado di determinare processi di formazione e selezione di classe dirigente capace di dialo­

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gare con le identità locali e con quella occidentale. Di qui l’attenzione anche al governo delle possibili fughe di cervel­ li, che lasciano i paesi d’origine privi delle risorse umane ne­ cessarie a (qualsivoglia) sviluppo674. Di qui pure l’attenzione alla costruzione, là dove possibile, di corpi sociali intermedi su base trans-comunitaria, trans-religiosa, trans-tribale, con l’obiettivo di attirare questi soggetti nel circuito di forma­ zione e applicazione del ‘nuovo’ diritto, anche perché, lo si è già sottolineato, l’ostinazione a vedere dappertutto nello Stato l’unico detentore del potere giuridico e della capacità di governo dei fenomeni rischia di apparire come propaga­ zione di una tradizione vischiosa e politicamente miope675. Ma di lì l’attenzione, altresì, per l’adozione di metodi di formazione per i giudici e i funzionari locali, che non si limi­ tino (come d’abitudine accade) a insegnare i modelli occiden­ tali, ma che siano in grado di mettere in comunicazione que­ sti ultimi con la tradizione giuridica del contesto e di tradurre gradualmente in regole, e assetti istituzionali, le aspirazioni locali a mutare uno o più spicchi d’orizzonte della conviven­ za sociale676. Aspirazioni che è possibile trovino alfine suggel­ lo in una costituzione, ma questa potrà spiegare con efficacia operativa le proprie ali solo allorché si sia stabilizzato il qua­ dro istituzionale cui abbiamo fatto cenno, alzando a quel pun­ to i costi transattivi necessari a una sua modificazione. Al di là dei quotidiani problemi d’implementazione di so­ fisticate architetture estranee alle tradizioni locali, supporre invece - come accade per la vulgata americo-europea ricor­ data supra al Capitolo quarto - che il testo di una costituzio­ ne fondi la legalità di un sistema, l’unità o l’identità di un popolo, svela niente più che un interesse di opportunità stra­ tegica o una perniciosa ingenuità677. Se così fosse, significhe­ rebbe che quella legalità, quell’unità, quell’appartenenza non esistevano, ma allora è sicuro che nessuna costituzione, o al­ tra legge scritta, sarebbe capace di crearla di per sé, ossia sen­ za il sostegno dei circuiti di produzione capillare del consen­ so, sociale e culturale.

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Capitolo quindicesimo

C) Scelte locali. Notoria è la difficoltà del mercato a indi­ viduare da sé, in una prospettiva che abbracci il lungo perio­ do, quale sia la ‘giusta’ collocazione di scuole, ospedali e be­ ni pubblici in genere, nonché quali siano le scelte appropria­ te (specie se gli attori sul mercato non sono espressione locale) a uno sviluppo che risulti sostenibile e duraturo. La conse­ guente necessità è che qualsiasi politica mirante alla priva­ tizzazione di assetti proprietari, o al perseguimento di ‘pub­ lic-private partnership’, entri sulla scena unicamente come mezzo per accompagnare, finanziare la realizzazione o me­ glio utilizzare i public goods scelti localmente. Non c’è dub­ bio: comunità percorse da forti eterogeneità di preferenze (dovute a fratture sociali, religiose, etniche) possono produr­ re scelte assai difficili da mediare, su qualsiasi tavolo678. Ma altrettanto sicuro è che la locale debolezza delle istituzioni ‘ufficiali’ consegna sovente all’utopia, o a una nalveté crude­ le, il disegno di co-decidere semplicemente a livello governa­ tivo, fra paesi ‘donatori’ di aiuti e paesi che li ricevono, le politiche d’intervento67’. Vale quindi la pena di articolare gli sforzi in una prospettiva multi-livello, che contempli proce­ dure di negoziazione anche con i rappresentanti delle comu­ nità, sub-statuali e locali680, il cui consenso dovrà ovviamen­ te risultare tanto libero e informato quanto possibile681. Obiettivo quest’ultimo che si sottrae, almeno parzialmente, alla vaghezza, se si chiarisce come su quel consenso non pos­ sano incidere i desiderata delle multinazionali, né quelli di quegli attivisti ‘umanitari’, che abbiamo visto volti a costrui­ re nell’altro un duraturo specchio dell’odierno sé682. Si trat­ ta di influenze che, se decisive, rischierebbero di mettere in iscacco quanto è saliente per la nostra visione della democra­ zia: ossia il superamento della percezione delle regole come meri veicoli di favori o minacce, e la promozione della par­ tecipazione politica (diretta o indiretta) dei membri della co­ munità alla produzione del diritto che li riguarda683. La for­ mazione di quel locale consenso è invece da valorizzare for­ temente, senza pregiudizi, ma con la consapevolezza dei

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tempi e delle modalità necessarie alla sua progressiva evolu­ zione684. Quest’ultima può giungere a maturità - in un circo­ lo che virtuoso deve pazientemente divenire - non prima che le pretese di cui più volte abbiamo discorso si siano trasfor­ mate in diritti operativamente reclamabili, e patrimonio del­ lo status dell’individuo, nei confronti così del governante co­ me degli altri consociati.

8. Al posto delle conclusioni. Se il vento della storia spirerà ancora alle nostre spalle, garantendo sostegno alle nostre convinzioni685, è solo da que­ sti rinnovati esercizi di differenza che si può avviare, fuori dall’occidente, un radicamento di quelle infrastrutture giuridico-istituzionali che hanno storicamente rappresentato le pre-condizioni per far acquisire alla democrazia, quantome­ no ai nostri occhi, un vantaggio competitivo - in termini di convenienza diffusa686, di aspirazioni condivise, per i singo­ li come per i corpi intermedi della società - su altre forme di organizzazione collettiva687. Del resto, affinché un processo di democratizzazione sia effettivo occorre - è sempre occorso - che i cittadini siano incentivati a utilizzare le (nuove) infrastrutture istituziona­ li e a produrre una domanda di legalità effettiva, veicolata su centri di decisione l’accesso ai quali deve essere garanti­ to estesamente, senza discriminazioni e, quindi, con moda­ lità tecniche e costi sopportabili da ogni consociato688. Allo stesso modo, occorre che giudici, giuristi, politici, ammini­ stratori siano in grado di maneggiare gli istituti della demo­ crazia, di comunicarli e di rispondere efficacemente a quel­ la nuova - inevitabilmente ‘in progress’ - domanda di lega­ lità68’. E solo sulla scia di questa domanda diffusa, e della convinzione di poter avere delle risposte sul piano dell’effet­ tività, che potrà allargarsi la strada verso la operativa reclamabilità del fitto tessuto di diritti (politici, sociali, economi­

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Capitolo quindicesimo

ci, culturali, ambientali) che noi abbiamo faticosamente con­ quistato, e verso la conformazione che essi sapranno assume­ re nei differenti contesti. Ovvio è che questa prospettiva reca con sé tempi lunghi. Verosimile è che si tratti dell’unica strategia destinata a da­ re fiato e sbocco operativo a quella costruzione di società pa­ cificate con il proprio (talora plurimo) ‘sé’, con la propria sto­ ria, con il proprio presente e con l’Occidente. Certo è che questi processi necessitano di una regia trasparente quanto alle premesse e consapevole delle complesse e differenziate modalità di realizzazione quanto agli obiettivi. Sicuro è al­ tresì che quei processi necessitano dell’apporto di un movi­ mento di opinione rifornito di competenze estese - antropo­ logiche religiose giuridiche sociologiche economiche, insom­ ma uno strumentario di analisi assai più sofisticato di quello rinserrato intorno alle econometrie delle istituzioni fi­ nanziarie internazionali, o pure sulle dicotomie Corano - rule of law, relativismo-imperialismo, pace-guerra. Ma ogni altra possibile alternativa rischia di apparire, in­ nocente o no, consapevole o no, un esercizio di retorica, ta­ lora commendevole, talora inutile e talora sanguinoso.

Note

I. DIRITTI E GIURISTI (pp. 5-15)

1 Per gli argomenti trattati in questo e nel successivo paragrafo, oltre ai riferi­ menti puntuali di cui alle note, si veda soprattutto R. Sacco, Legal Formants: A Dynamic Approach to Comparative Law (pts. 1 & 2), in «Am. J. Comp. L. », 39 (1991), n. 1, p. 343; Id., Antropologia giuridica, il Mulino, Bologna 2007, PP- 92 sgg. 2 Fra i moltissimi, P. Stein, I fondamenti del diritto europeo, Giuffrè, Milano 1987, pp. 3 sgg. (trad, da Legal Institutions. Fhe Development of Dispute Settle­ ment, Butterworths, London 1984); B. de Sousa Santos, Toward a New Com­ mon Sense. Law, Globalization, and Emancipation, Butterworths, London 2002’, passim, spec. pp. 16 sg., 86 sgg., 384 sgg.; J. H. Merryman, Compara­ tive Law Scholarship, in «Hastings Int’l & Comp. L. Rev.», 2r (1998), pp. 271 sgg.; M. Chiba, Introduction e Conclusions, in Id. (a cura di), Asian Indigenous Law in Interaction with Received Law, Kpi, London - New York 1986, pp. 1 sgg., 385 sgg.; F. von Benda-Beckmann, Who's Afraid of Legal Pluralism?, in «Journal of Legal Pluralism», 47 (2002), pp. 37, 48 sgg. Cfr. pure E. Ehrlich, GrundlegungderSoziologiedesRechts (rist. della i‘ ed. 1913), Duncker & Hum­ blot, Miinchen-Leipzig 1929, pp. 49 sgg., 315 sgg.; S. Romano, L’ordinamen­ to giuridico (1918), Sansoni, Firenze 1946", pp. 25 sgg. Per ilimiti entro iqua­ li la nozione di diritto può estendersi alle società animali più evolute, R. Sac­ co, Antropologia cit., p. 19. ’ Si veda ad es., P. Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Id., So­ cietà, diritto, Stato. Un recupero per il diritto, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 70, Giuffrè, Milano 2006, pp. 279, 294 sgg.; e, dadiverso angolo visuale,}. Attali, Breve storia delfuturo, Fazi, Roma 2007, 139 sgg. (trad, da Une brève histoire de Tavenir, Fayard, Paris 2006); si veda anche infra, Cap. 6. 4 E.g., M. Van Creveld, The Rise and Decline of the State, Cambridge University Press, Cambridge 1999, passim. Con particolare riguardo alla dimensione eu­ ropea, per la messa in iscacco di luoghi comuni circolanti, anche a livello di storici autorevoli, pagine illuminanti si leggono in P. Grossi, L’ordine giuridi­ co medievale, Laterza, Bari-Roma 1995, pp. 41 sgg. ’ Si veda in generale, C. Geertz, Local Knowledge: Fact and Law in Compara­ tive Perspective, in Id., Local Knowledge: Further Essays in Interpretive Anthro­ pology, Basic Books, New York 1983, pp. 167 sgg.; e già M. Weber, Econo­ mia e società, III: Sociologia del diritto (1922), Edizioni di Comunità, Milano I995> PP- 1 sgg., 11 sgg. ‘ L. Capogrossi Colognesi, Storia di Roma tra diritto e potere, il Mulino, Bologna 2009, pp. 465 sgg.; P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, Vallardi, Milano

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Note

1925s, pp. 3 sg.; A. Schiavone, lus. L’invenzione del diritto in Occidente, Ei­ naudi, Torino 2005, pp. 6 sgg. 7 R. Orestano, Introduzione allo studio storico del diritto romano, Giappichelli, Torino 1961“, pp. 517-18; A. Watson, Law Making in the Later Roman Repub­ lic, Clarendon Press, Oxford 1974, pp. 102 sg.; G. Pugliese, Diritto, in Enci­ clopedia delle scienze sociali, vol. Ili, Treccani, Roma 1993, pp. 34, 42 sgg. * H. J. Berman, Law and Revolution. The Formation of Western Legal Tradition, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1983, pp. 445 sgg.; L. M. Fried­ man, Storia del diritto americano, Giuffrè, Milano 1995, pp. 103 sgg. (trad. it. da History ofAmerican Law, 1985“); G. Calabresi, A Common Law for the Age of Statutes, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1982, pp. 1 sgg. ’ Si veda, rispettivamente, W. B. Hallaq, The Origins and Evolutions of Islamic Law, Cambridge University Press, Cambridge 2005, passim e pp. 178 sgg.; A. Abécassis, Droit et religion dans la società hébraìque, in « Archives de philosophic du droit», 38 (1993), pp. 23 sgg.; I. Englard, Law and Religion in Israel, in «Am. J. Comp. L.», 35 (1987), pp. 185, 191. Per valutazioni d’insieme, G. C. Kozlowski, Whenthe ‘Way’ Becomes the ‘Law’ : Modem States and the Transfor­ mations of «Halakhah» and «Shan'a», in W. M. Brinner e S. D. Ricks (a cura di), Studies in Islamic and Judaic Traditions, vol. II, Scholars Press, Atlanta 1989, pp. 97 sgg.; S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi, il Mulino, Bologna 2002, pp. 47 sgg., anche per ulteriori riferimenti. ” Si tratta di un fattore che certamente funge da efficace moltiplicatore nel tem­ po dello status quo, a favore di chi lo controlla, ma anche da mezzo comuni­ cativo potente nelle relazioni fra governante e governato, perché aggrava, sul piano della retorica, l’onere della prova di chi voglia argomentare il contrario. 11 Anche per i riferimenti ulteriori, si veda G. Ajani, A. Serafino e M. Timo­ teo, Diritto dell’Asia orientale, Utet, Torino 2007, pp. 3 sgg., 47 sgg., 77 sgg.; R. W. Lariviere, Dharmasàstra, Custom, «RealLaw», and «Apocryphal» Smrtis, in «J. Ind. Phil.», 32 (2004), pp. 611 sgg.; W. Menski, Hindu Law. Beyond Tradition and Modernity, Oxford University Press, New Delhi 2003, pp. 121 sgg.; L. Rocher, Law Books in an Oral Culture: The Indian Dharmasàstra, in «Proceedings of the American Philosophical Society», 137 (1993), pp. 254 sgg. ; R. May, Law & Society East and West. Dharma, Li and Nomos, Their Con­ tribution to Thought and to Life, Franz Steiner, Stuttgart 1985, spec. pp. 15 sgg., 40 sgg. 12 Si veda P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, Bari-Roma 2007, pp. 104 sgg. “ E multis, G. Zagrebelsky, Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vive­ recomune, Torino, Einaudi 2009, pp. 13 sg.; M. Fioravanti, Stato e costituzio­ ne, in Id. (a cura di), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Laterza, Bari-Roma 2005, pp. 3, 14 sgg.; e per le valutazioni di contorno, M. Van Creveld, The Rise cit., spec. pp. 184 sgg. Al di là della Manica e dell’Atlantico, esiti del genere non avevano potuto prodursi in forza del difficile equilibrio fra common law e legislatore che ha connotato di sé tutta la storia del diritto angloamericano. Dal tempo dei Normanni, è il diritto elaborato dalle Corti a essere percepito come eminente strumento di organizzazione dei rapporti so­ ciali, mentre il sovrano e poi il Parlamento saranno visti - ben oltre le rivolu­ zioni inglese e americana - come agenti sempre in grado di comprimere i di­ ritti dei cittadini. Si veda in generale, P. Stein, Ifondamenti cit., pp. 109 sgg.; H. J. Berman, Law and Revolution cit., pp. 445 sgg.; M. J. Horwitz, The Trans­ formation ofAmerican Law, 1780-1860, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1977, pp. 1 sgg.

Capitolo primo

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14 Per qualche rilievo, si veda infra. Cap. 14, § 5. 15 A. Schiavone, lus cit., pp. 29 sgg.; Id., Giuristi e nobili nella Roma repubblica­ na, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. v sgg.; L. Capogrossi Colognesi, Storia di Roma cit., pp. 169 sgg.; M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in «Archives de philosophic du droit», 38 (1993), pp. 34 sgg.; F. Schulz, His­ tory of Roman Legai Science, Oxford University Press, Oxford 1946, passim e spec. pp. 6-12, 30 sgg., 60 sgg. “ Per i primi riferimenti nella prospettiva di cui al testo, con riguardo alla civiltà egiziana: S. Curto, L’antico Egitto, Utet, Torino 1981, pp. 314 sgg.; J. Assmann, Potere e salvezza. Teologia politica nell'antico Egitto, in Israele e in Euro­ pa, Einaudi, Torino 2002, pp. 176 sgg. (trad. it. da Herrschaft und Heil. Politische Theologie in Altdgypten, Israelund Europa, Carl Hanser, Munchen 2000); A. A. Schiller, Coptic Law, in «Juridical Review», 43 (1931), p. 211; per quel­ la mesopotamica, B. Jackson, Evolution and Foreign Influence in Ancient Law, in «Am. J. Comp. L.», 16 (1968), pp. 372-73; sulla Grecia classica, N. Lemche, Justice in Western Asia in Antiquity, or: Why no Laws Were Needed, in «Chi.-Kent L. Rev.», 70 (1995), p. 1695; R. Garner, Law Er Society in Classi­ cal Athens, St Martin Press, New York 1987; M. Gagarin, Early Greek Law, University of California Press, Berkeley - Los Angeles - London 1986; A. Lanni, Law and Justice in the Courts of Classical Athens, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2006, passim, spec. pp. 15 sgg.; E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero. Contributo alla protostoria del diritto greco, Giuffrè, Mila­ no 1979, spec. pp. 61 sgg., e ibid., 1-5, gli ulteriori rinvìi essenziali, cui adde A. Maffi, Gli studi di diritto greco, in «Etica & Politica / Ethics & Politics», 9 (2007), n. 1, pp. 11-24; per l’Africa tradizionale si veda, eg., la rassegna com­ pilata e annotata da E. Okupa, International Bibliography ofAfrican Customary Law, Lit, Hamburg 1998. Per considerazioni analoghe, con riguardo alle tra­ dizioni asiatiche, W. Menski, Comparative Law in a Global Context. The Legai Systems ofAsia and Africa, Cambridge University Press, Cambridge 20062, pp. 196 sgg., 228, 493 sgg., 543 sgg. 17 Per tutti, A. Watson, LegalTransplants : An Approach to Comparative Law, Uni­ versity of Georgia Press, Athens-London 1993"; il volume 10(2), gennaio 2008, di «Theoretical Inquiries in Law», dedicato a Histories of Legal Transplanta­ tions. «Legai cultures, like languages, can absorb huge amounts of foreign ma­ terial while preserving a distintive structure and flavor»: M. Galanter, Preda­ tors and Parasites : Lawyer-Bashing and Civil Justice, in «Georgia Law Review», 28 (1994), pp. 633, 680. 18 J. H. Merryman, La tradizione di civil law nell’analisi di un giurista di common law, Giuffrè, Milano 1973, p. 9 (trad. da The Civil Law Tradition, Stanford University Press, Stanford 1969). *’ Per esiti e sviluppi paralleli, in diritto ebraico, F. M. Denny, Orthopraxy in Islam and Judaism: Convictions and Categories, in W. M. Brinner e S. D. Ricks (a cura di), Studies in Islamic cit., pp. 83 sgg.; J. Neusner e T. Sonn, Compar­ ing Religions through Law. Judaism and Islam, Routledge, London - New York 1999, pp. 81 sgg., 127 sgg., 139 sgg.; J. D. Bleich e A. J. Jacobson, Jewish Le­ gal Tradition, in corso di pubblicazione, in M. Bussani e U. Mattei (a cura di), The Cambridge Companion to Comparative Law, Cambridge University Press, Cambridge 2010. 20 W. B. Hallaq, The Origins cit., spec. capp. 3-6, pp. 57-149; F. Castro, s.v. Di­ ritto musulmano, in Dig. IV, Disc, priv., sez. civ., Utet, Torino 1990, vol. VI, pp. 287, 289, 292-93. 21 Agli autori cit. nelle due note precedenti, adde R. Sacco, Antropologia giuridi-

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Note

ca cit., pp. 95 sgg., too; H. P. Glenn, Legal Traditions of the World, Oxford University Press, Oxford 2007’, pp. 177 sgg. 22 C. R. Sunstein, The Second Bill of Rights. FDR’s Unfinished Revolution and Why We Need It More than Ever, Basic Books, New York 2004, pp. 17 sgg., 54 sgg. ” T. Mackey, The Politics of the Courts, in C. L. Zeldon (a cura di), The Judicial Branch of Federal Government. People, Process, and Politics, Abe-Clio, Santa Barbara 2007, pp. 123, 146 sgg. 24 U. Mattei, Common law, Utet, Torino 1992, pp. 75 sgg., 203; E. Leuchtenburg, The Supreme Court Reborn : the Constitutional Revolution in the Age of Roosevelt, Oxford University Press, New York 1995, pp. 82 sg., 96 sgg. ” M. C. McKenan, Franklin Roosevelt and the Great Constitutional War :The Court Packing Crisis of 1937, Fordham University Press, New York 2002, pp. 303 sgg.; D. G. Stephenson jr, Campaign and the Courts: The US Supreme Court in Presidential Elections, Columbia University Press, New York 1999, pp. 149 sgg. 24 Risale a quei tempi la istituzione, ad esempio, della Federal Communication Commission (1936) e della Security and Exchange Commission (1934). 27 Del resto per secoli, fino al recente Constitutional Reform Act 2005, in In­ ghilterra il Lord Chancellor riuniva su di sé i ruoli di membro del governo, pre­ sidente della Camera dei Lord e vertice supremo del sistema giudiziario: si ve­ da J. Bell, Judiciaries within Europe. A Comparative Review, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge 2006, pp. 310 sg., 320 sgg. 22 Un inciso italiano. Dappertutto in Occidente, la formazione dei corpi applica­ tivi nasce nel ventre delle facoltà giuridiche. Per conseguenza, qualsiasi elogio o critica alla cultura di avvocati, notai, giudici o burocrati va rivolta, prima che a ogni altro obiettivo, a quei centri di produzione di sapere. Ebbene, di fronte alla ricchezza e alla complessità del fenomeno giuridico, i corsi fonda­ mentali delle facoltà giuridiche tacciono. Un modello d’insegnamento che non incorpora il divenire del diritto, e le sue interrelazioni con le esperienze altrui, ovviamente non incentiva la ricerca critica, neppure sul proprio sistema, e de­ termina un inevitabile corto circuito scientifico. Che questo sia il modo d’in­ tendere il ruolo del docente e dello studioso si presta a più di una perplessità, non solo al confronto con alcune delle esperienze occidentali, ma anche nella prospettiva di pensare alle facoltà di giurisprudenza come serbatoi di una clas­ se dirigente che, sul terreno della cruciale infrastruttura ‘diritto’, sappia com­ petere efficacemente sul mercato delle idee e delle soluzioni, al servizio del paese e del suo sistema socio-economico. Sul punto si veda la nota 50.

IL GIURISTI E GIUSTIZIA (pp. 16-22) ” Si veda per tutti, M. Graziadei, Artificial Reason, in B. Pozzo (a cura di), Or­ dinary Language and Legal Language, Giuffrè, Milano 2005, pp. 153 sgg.; e poi infra, Cap. 14. Razionalità da intendersi come strumentario variamente articolato, a seconda delle condizioni storiche e geografiche in cui si trova a operare. Uno strumen­ tario che può anche influire solo fino a un certo grado sui risultati operativi, ma che sempre risulta funzionale al mantenimento di un elevato tasso di iera­ ticità per il ruolo del giurista e per il corpus iuris di cui è (in larga parte arte­ fice, oltre che) messaggero: corpus juris che può variamente appellarsi Diritto Naturale e/o Diritto Razionale, Common Law, Code Civil, ecc. Si veda anche M. Bussani, Appunti sull'interlocutore delgiurista ed ilproblema dell'interpreta-

Capitolo secondo

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zione, in M. Bussani (coord.), Diritto, Giustizia e Interpretazione, in Annuario filosofico Europeo, a cura di G. Vattimo e J. Derrida, Laterza, Bari-Roma 1998, pp. 37, 41 sg. ” Si veda M. Lasser, Law, Culture, and Text:Do Judges Deploy Policy?, in «Car­ dozo L.R.», 22 (2001), pp. 863 sgg.; V. Varano e V. Barsotti, La tradizione giuridica occidentale, vol. I, Giappichelli, Torino 2006’, pp. 250, 300 sg.; M. Schwartzman, The Principle of Judicial Sincerity, University of Virginia Law School Public Law and Legal Theory Working Paper Series, n. 69, 2007. 12 Platone, Le leggi, in F. Adorno (a cura di), Dialoghi politici e lettere, Utet, To­ rino 19702, vol. II, 169 (Libro IV, 715b). ” Aristotele, La politica, Laterza, Bari 1966, 128 (Libro III, 1279a). ,4 S. Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996, qu. 90, arti. 1-3 (pp. 701-4), qu. 95, art. 2 (pp. 737-39), qu. 96, art. 4 (pp. 746-48), qu. 97, art. 1 (pp. 752-53), qu. 104, art. 1 (pp. 85354) ■ ” J. Locke, Secondo trattato sul governo, a cura di L. Formigari, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 150 (sezione 135). “ Si veda, rispettivamente, J. Rawls, eg., A Theory ofJustice, Harvard Univer­ sity Press, Cambridge Mass. 1971; Id., PoliticalLiberalism, Columbia Universi­ ty Press, New York 1993, 1996' - ma per l’utilizzo dello strumento del velo d’ignoranza, volto a individuare le preferenze che gli individui avrebbero, se non conoscessero la propria personale posizione nella situazione ipotetica in cui devono compiere la scelta, si veda già J. C. Harsanyi, Cardinal Utility in Welfare Economics and in the Theory of Risk-Taking, in «J. of Political Econ­ omy», 61 (1953), pp. 434-35; Id., Cardinal Welfare, Individualistic Ethics and Interpersonal Comparisons ofUtility, in«J. Pol. Econ.», 63 (1955), PP- 3°9 sS>-> R. Alexy, La giustizia come correttezza, in «Ragion Pratica», 9 (1997), pp. 103 sgg.; Ch. Perelman, eg., Logique juridique. Nouvelle rhétorique, Dalloz, Paris 1976; Id., The Idea of Justice and the Problem of Argumentation, Routledge, London 1963; R. Dworkin, eg., L’impero del diritto, il Saggiatore, Milano 1989, passim e pp. 159, 168 sgg. (trad. it. da Law's Empire, Belknap Harvard University Press, Cambridge Mass. 1986); J. Habermas, eg., Theorie des kommunikatives Handelns, voli. I-II, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981; Id., Moralbewujitsein und kommunikatives Handeln, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983. ” Si veda G. Teubner, Economics of Gift - Positivity ofJustice: The Mutual Para­ noia ofJacques Derrida and Niklas Luhmann, in «Theory, Culture and Society», 18 (2001), n. 1, pp. 29, 41 sgg. Con le formule di cui al testo il riferimento è, rispettivamente, a N. Luhmann, eg., The Third Question: The Creative Use of Paradoxes in Law and Legal History, in «Journal of Law and Society», 15 (1988), pp. 153, 158 sgg.; e aj. Derrida, eg., Force of Law : The ‘Mystical Foundation of Authority’, in «Cardozo L. R.», n (1990), pp. 919, 959. Si vedano anche le opere cit. poco oltre, alla nota 39. C. Douzinas e A. Gearey, CriticalJurisprudence. The Political Philosophy ofJus­ tice, Hart, Oxford-Portland 2005, pp. 89 sgg. ” Si veda in generale e per tutti (con argomenti spendibili in ogni esperienza oc­ cidentale), P. Cendon, Sul metodo, anzi sui metodi, in «Riv. crit. dir. priv. », 8 (1990), n. 1-2, pp. 155 sgg. “ Sulla varietà di nozioni circolanti, e per i riferimenti essenziali, M. Walzer, Sfere di giustizia, Laterza, Bari-Roma 2008 (trad. it. di Spheres ofJustice: A De­ fense ofPluralism and Equality, Basic Books, New York 1983); da noi, G. Za-

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Note

grebelsky, Giustizia, in M. Flores (dir.), Diritti umani. Cultura dei diritti e di­ gnità della persona nell’epoca della globalizzazione. Dizionario, Utet, Torino 2007, pp. 624 sgg.; I. Trujillo, Giustizia globale. Le nuove frontiere dell’ugua­ glianza, il Mulino, Bologna 2007, pp. 11 sgg. (e ibid., pp. 61-149, l’ordinato richiamo teoretico alle posizioni che, dal punto di vista operativo, esaminere­ mo più avanti, ai Capp. 4-7). 41 Difatti « there is no guarantee that what idealized members of the group would find to be in their common interest as members is what is in the common in­ terest of members of the group under actual, distinctly unidealized circum­ stances»: Ph. Pettit, The Common Good, in K. Dowding, R. E. Goodin e C. Pateman (a cura di), Justice & Democracy, Cambridge University Press, Cam­ bridge 2004, pp. 150, 166 sgg. Si pensi pure alle posizioni di Ronald Dworkin, secondo cui vi sarebbe sempre la corretta risposta a ogni quesito giuridico, ri­ sposta che può essere individuata dai giudici attraverso la considerazione dei principi morali e politici immanenti alla comunità data (e^. L’impero cit., pas­ sim e pp. 159, 168 sgg.). Detto della forte dipendenza di tale visione dalla fe­ nomenologia di common law, la critica altrettanto vibrante (e tale già nella li­ mitata prospettiva del nostro mondo occidentale) è sempre quella della seg­ mentazione di quei principi nella realtà sociale: «no fact seems plainer in the modem world than the extent and depth of moral disagreement, often enough disagreement on basic issues»: cosi, e per tutti, A. MacIntyre, Theories of Na­ tural Law in the Culture of Advanced Modernity, in E. B. McLean (a cura di), Common Truths:New Perspectives on Natural Law, Isi Books, Wilmington 2000, P- 9342 Senza che occorra sottolineare la loro lontananza pure dai pregnanti esiti del­ le ricerche - oltre che in punto di interrelazioni operative fra biologia e dirit­ to, su cui, eg., R. D. Masters e M. Gruter (a cura di), The Sense ofJustice. Bio­ logical Foundations ofLaw, Sage, Newsbury Park - London - New Delhi 1992; O. D. Jones e T. H. Goldsmith, Law and Behavioral Biology, in «Colum. L. Rev.», 105 (2005), pp. 405-502 - sul promettente versante delle scienze co­ gnitive: per i primi riferimenti utili, e.g., O. R. Goodenough e K. Prehn, À Neuroscientific Approach to Normative Judgment in Law and Justice, in « Phil. Trans. Roy. Soc. Lond.», B359 (2004), pp. 1709 sgg.; W. Glannon (a cura di), Defining Right and Wrong in Brain Science: Essential Readings in Neuroethics, Dana Press, New York 2007; D. DeGrazia, Human Identity and Bioethics, Cam­ bridge University Press, Cambridge 2005. Si vedano da noi, utilmente, i sag­ gi raccolti in R. Caterina (a cura di), I fondamenti cognitivi del diritto, Bruno Mondadori, Milano 2008. ■° Per entrambe le categorie di ‘falsi’, nella nostra prospettiva, si veda ancora Ph. Pettit, The Common Good cit., pp. 150, 166 sgg. 44 Si leggano sul punto le lezioni di S. Cassese, Il diritto globale. Giustizia e demo­ crazia oltre lo Stato, Einaudi, Torino 2009. Per spunti ulteriori, I. Shapiro e L. Brilmayer (a cura di), Nomos XLl : Global Justice, New York University Press, New York 1999; M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, il Mulino, Bologna 2007, spec. pp. 243 sgg. (trad, da Frontiers of Justice. Disability, Nationality, Species Membership, Har­ vard University Press, Cambridge Mass. - London 2006); Th. Nagel, È possi­ bile una giustizia globale?, Laterza, Roma-Bari 2009 (trad, da The Problem of Global Justice, in «Philosophy and Public Affairs», 33 (2005), pp. 113-47 e> ibid., VIntroduzione di S. Veca, pp. v sg. ; i saggi ora raccolti in Th. Pogge e D. Moellendorf, GlobalJustice. Seminal Essays, I: Global Responsibilities, Paragon, St Paul 2008; G. Brock, Global Justice. A Cosmopolitan Account, Oxford Uni­ versity Press, Oxford - New York 2009.

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45 Per tutti, S. Vanderheiden, Atmospheric Justice: A Political Theory of Climate Change, Oxford University Press, Oxford - New York 2008, pp. ni sgg. 46 Per i primi riferimenti, J. C. Tremmel (a cura di), Demographic Change and Intergenerational Justice. The Implementation of Long-Term Thinking in the Politi­ cal Decision Making Process, Springer, Berlin-Heidelberg 2008; Id. (a cura di), Handbook of IntergenerationalJustice, Edward Elgar, Cheltenham-Northamp­ ton 2006 (e in partic. C. Dierksmeier, John Rawls on the Rights of Future Ge­ nerations, ibid., pp. 72 sg.); A. Gosseries e L. H. Meyer (a cura di), Intergene­ rationalJustice, Oxford University Press, Oxford - New York 2009 (e D. Heyd, A Value or an Obligation? Rawls on Justice to Future Generations, ibid., pp. 167 sgg.); e cfr. anche E. Somaini, Uguaglianza. Teorie .politiche .problemi, Donzel­ li, Roma 2002, pp. 303, 311 sgg.; A. Gosseries, What Do We Owe the Next Generation(s)?, in «Loyola of Los Angeles Law Review», 35 (2001), pp. 293, 318 sg., 330 sg.; B. Ackerman, Temporal Horizons of Justice, in «Journal of Philosophy», 94 (1997), n. 6, pp. 299, 305 sgg.; H. Jonas, The Imperative of Responsibility, University of Chicago Press, Chicago 1984, spec. pp. 117 sg., 136 sg.; R. I. Sikora e B. Barry (a cura di), Obligations to Future Generations, Temple University Press, Philadelphia 1978; D. C. Hubin, Justice and Future Generations, in «Philosophy and Public Affairs», 6 (1976-77), pp. 70 sg.; J. English, Justice Between Generations, in «Philosophica! Studies», 31 (1977), pp. 91, 96 sg. Per il dibattito - spesso solo sincronico e tarato sulle categorie storiografiche occidentali - circa le modalità giudiziarie e no con cui i sistemi gestiscono le risorse presenti per riparare i torti maggiori originati dai regimi che li hanno preceduti, infra Cap. 9 e, fin d’ora, V. Grosswald Curran, The Politics of Memory/Erinnerun&politik and the Use and Propriety of Law in the Process ofMemory Construction, in «L. & Crit.», 14 (2003), p. 309; J. Elster, Closing the Books: Transitional Justice in Historical Perspective, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge 2004; R. M. Buxbaum, A Legal History of Interna­ tional Reparations, in «B.J. Int’l L.», 23 (2005), p. 314; D. Miller, National Responsibility and Global Justice, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 135 sgg., 238 sgg.; M. J. Sandel, Justice. What’s the Right Thing to Do?, Far­ rar, Straus & Giroux, New York 2009, pp. 211 sgg.; ma si veda anche A. Garapon, Peut-on réparer I’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, Odile Jacob, Paris 2008; e F. Lenzerini (a cura di), Reparations for Indigenous Peoples. Inter­ national and Comparative Perspectives, Oxford University Press, Oxford - New York 2009; nonché P. Bruckner, Il singhiozzo dell'uomo bianco (1984), Guanda, Parma 2008 (trad, da Le sanglot de I’homme blanc, Seuil, Paris 1983). ” Rimarca la distinzione, e la porta sul piano operativo, fra approccio ‘trascen­ dente’ e ‘comparativo’ ai problemi della giustizia ‘globale’ e alle sue priorità, A. Sen, The Idea ofJustice, Harvard University Press, Cambridge Mass. 2009, passim, ma si veda in partic. pp. 403 sgg. 48 Basterà forse ricordare, da un lato, che John Rawls - uno dei più autorevoli e rispettati produttori dei dibattiti sulla giustizia - incardini le sue riflessioni sul modello di una «self-contained» e «closed society» (giustificando la scelta, che riconosce astratta, «because it enables us to focus on certain main questions free from distracting details»: Political Liberalism, Columbia University Press, New York 1993, ed. riveduta 1996, p. 12); dall’altro lato, che sul punto delle relazioni internazionali lo stesso autore limita l’analisi ai rapporti fra «liberal and decent peoples»: The Law ofPeoples, Harvard University Press, Cambrid­ ge Mass. 1999, pp. 3 sg. In argomento, e all’interno di una letteratura sconfi­ nata, mirano al cuore della prospettiva di Rawls (e non solo) le critiche di G. Teubner, Self-subversive Justice : Contingency or Transcendence Formula ofLaw?, in «Modern Law Review», 72 (2009), pp. 1-23, spec. 3 sgg.

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Note

” D. A. Bell, East Meets West .Human Rightsand Democracy in East Asia, Prince­ ton University Press, Princeton 2000, p. 6. III. NOI E GLI ALTRI (pp. 23-39) ” I curricula delle nostre facoltà giuridiche sono invece al 90% dediti allo studio del diritto interno - il quale peraltro domina nei primi anni di corso, quelli più rilevanti nel forgiare gli abiti culturali. Niente di grave se pensiamo che que­ sto paese abbia bisogno di un ulteriore rifornimento di avvocati (destinati a restare) periferici sul mercato del diritto globale, e se accettiamo che buona parte di quel lucroso mercato resti in mano a studi angloamericani e alle loro filiali. Niente di grave se riteniamo non importante che il nostro paese sia ter­ ra di conquista per modelli, o ispirazioni altrui, spesso veicolati senza chiara consapevolezza delle implicazioni o delle necessità che quei trapianti recano con sé. Niente di grave se riteniamo irrilevante che la formazione giuridica del­ le nostre classi dirigenti sia gestita con modalità proprie a quelle di una colo­ nia intellettuale (quando si dà ascolto alle voci altrui), o di un paese autarchi­ co (quando quell’ascolto neppure si pratica). Per alcune osservazioni ulteriori, si veda supra, Cap. 1, nota 28, e infra, Cap. 5, § 8. ” Sulla cui articolata nozione, si veda anche infra, Cap. 5. ” Fra i tanti, M. Chiba, LegalPluralism in Mind: A Non-Westem View, in H. Pe­ tersen e H. Zahle (a cura di), Legal Polycentricity : Consequences of Pluralism in Law, Dartmouth, Aidershot 1995, pp. 71-83; Id., Three Dichotomies of Law : An Analytical Scheme of Legal Culture, in «Tokai Law Review», 1 (1987), pp. r sgg. (290 sgg.); M. Alliot, Les transferts du droit ou la double illusion, in Id., Le droit et le service public au miroir de I’anthropologic, Khartala, Paris 2003, pp. 129 sgg.; F. von Benda-Beckmann, Who's Afraid of Legal Pluralism?, in «Journal of Legal Pluralism», 47 (2002), pp. 37, 48 sgg.; J. L. Esquirol, The Failed Law of Latin America, in «Am. J. Comp. L.», 56 (2008), p. 75; C. R. Sunstein, On the Expressive Function ofLaw, in «U. Pa. L. Rev.», 144 (1996), pp. 2021, 2050. ” Si veda, fin d’ora, R. E. Scott e P. B. Stephan, The Limits of the Leviathan. Contract Theory and the Enforcement of International Law, Cambridge Univer­ sity Press, Cambridge 2006, p. no; T. Moustafa e T. Ginsburg, Introduction: The Functions of Courts in Authoritarian Politics, in Id. (a cura di), Rule by Law. The Politics of Courts in Authoritarian Regimes, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2008, pp. 1, 16 sgg.; C. P. R. Romano, The Judgesand Prosecutors of Internationalized Criminal Courts and Tribunals, in C. P. R. Ro­ mano, A. Nollkaemper e J. K. Kleffner (a cura di), Internationalized Criminal Courts and Tribunals : Sierra Leone, East Timor, Kosovo and Cambodia, Oxford University Press, Oxford - New York 2004, pp. 235, 246 sgg. ” Eg., R. Sacco, Le grandi linee del sistema giuridico somalo, Giuffrè, Milano 1985; Id., Il diritto africano, Utet, Torino 1995; M. Doucet e J. Vanderlinden (dir.), La reception des systèmes juridiques: implantation et destin, Bruylant, Bruxelles 1994. ” Si vedano le approfondite analisi raccolte da R. L. Abel (a cura di), The Poli­ tics ofInformal Justice, 2 voli. (I: The American Experience-, II: Comparative Stud­ ies'), Academic Press, New York 1982; e il più impressionistico approccio dei saggi racchiusi in H. Van Schooten e J. Verschuuren (a cura di), International Governance and Law. State Regulation and Non-state Law, Edward Elgar, Chel­ tenham-Northampton 2008.

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56 Si veda, per tutti, W. Menski, Comparative Law in a Global Context. The Le­ gai Systems ofAsia and Africa, Cambridge University Press, Cambridge 20062, pp. 3 sg.; M. Chiba, Introduction e Conclusions, in Id. (a cura di), Aria» Indig­ enous Law in Interaction with Received Law, Kpi, London - New York 1986, PP- 1 sg., 385 sgg. ” Sulle modalità con cui le pratiche di composizione dei conflitti riflettano e al contempo costruiscano la cultura delle comunità, O. Chase, Law, Culture and Ritual:Disputing Systems in Cross-Cultural Context, New York University Press, New York - London 2005, passim, spec. pp. 30 sgg., 94 sgg. E multis, oltre ai luoghi cit. supra, nota 2, si veda R. Sacco, Mute Law, in «Am. J. Comp. L. », 43 (2995), p. 455; M. Graziadei, La legge, la consuetudine, il di­ ritto tacito, le circostanze, in R. Caterina (a cura di), La dimensione tacita del diritto, Esi, Napoli 2009, pp. 49 sgg.; R. Cotterrell, Law, Culture and Society. Legal Ideas in the Mirror of Social Theory, Ashgate, Aidershot 2006, spec. pp. 112 sgg., 155 sgg. Ma si ricordi anche (per pescare tra i riferimenti che il di­ battito ama usare, spesso solo opportunisticamente) la distinzione fra ‘diritto’ e ‘legislazione’ tracciata da F. A. Hayek in Law, Legislation and Liberty, I: Rules and Order, University of Chicago Press, Chicago 1973, passim e spec. pp. 35 sgg., 72 sgg., I24 sgg. Secondo Hayek il diritto appartiene alla categoria degli ordini endogeni che nascono entro una data società, a causa delle aspet­ tative reciproche - cioè originano spontaneamente attraverso regole nel rispet­ to delle quali vivono le persone -, laddove la legislazione appartiene alla cate­ goria degli ordini esogeni, imposti dall’esterno o dall’alto, nell’intento di in­ fluenzare le regole endogene quando esse evolvono in una direzione percepita come inadeguata. ” Per tutti, B. de Sousa Santos, Toward a New Common Sense. Law, Globaliza­ tion, and Emancipation, Butterworths, London 2002’, spec. pp. 426 sgg. Ma si veda anche infra, note 452, 454. “ Si veda R. Sacco, in G. Alpa et alii, Le fonti del diritto italiano, II: Le fonti non scritte e Tinterpretazione, Utet, Torino 1999, pp. 17 sgg.; A. Gambaro, Perspec­ tives on the Codification of the Law of Property, in «Eur. Rev. Private L.», 5 (2997), PP- 497 sgg.; H. de Soto, The Mistery of Capital, Basic Books, New York 2000. 61 Persino il limite di valore è reputato irrilevante da S. Macaulay, Non-Contractual Relations in Business: A Preliminary Study, in «Am. Sociol. Rev.», 28 (1963), p. 55. Si veda anche Commission on Legal Empowerment of the Poor, Making the Law Work for Everyone, Toppan Printing, Somerset 2008, vol. II, cap. 4 (Business Rights), pp. 196 sgg.; J. T. Landa, Trust, Ethnicity, and Iden­ tity. Beyond the New Institutional Economics of Ethnic Trading Networks, Con­ tract Law and Gift-Exchange, The University of Michigan Press, Ann Arbor 2994. Dall’angolatura degli economisti, B. Klein e K. B. Leffler, The Role of Market Eorces in Assuring Contractual Performance, in «J. Pol. Econ.», 89 (1981), p. 6r5; O. E. Williamson, Credible Commitments: Using Hostages to Support Exchange, in «Am. Ec. Rev.», 73 (2983), p. 529; A. T. Kronman, Con­ tract Law and the State of Nature, in «J. L. Econ. & Org.», 2 (2985), p. 5. “ R. C. Ellickson, Order Without Law. How Neighbors Settle Disputes, Harvard University Press, Cambridge Mass. - London rggr, pp. 50 sg., 87 sg., 185 sg., 209 sg. Sull’esistenza di «multiple normative orders» che «push litigation to the periphery of dispute processing»: S. Macaulay, Elegant Models, Empirical Pictures and the Complexities of Contract, in «Law & Society Review», 22 (2977), PP- 507 sgg.; S. E. Merry, Getting Justice and Getting Even:Legal Con­ sciousness among Working Class Americans, University of Chicago Press, Chi-

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Note

cago 1990, passim, spec. pp. 37 sgg., 88 sgg.; H. Jacob, The Elusive Shadow of the Law, in «Law & Society Review», 26 (1992), p. 565. In ciascuno di que­ sti strati si può facilmente osservare come le ricompense usualmente consista­ no in beni, servizi, obbligazioni ai quali si assegna un valore (economico 0 no) positivo; e le sanzioni riguardino beni, servizi, obbligazioni ai quali si assegna un valore (economico o no) negativo: R. C. Ellickson, Order Without Law cit., passim, spec. pp. 123 sg. 65 Per una valutazione del dibattito, sovente alimentato a forza dall’ossigeno po­ sitivista, Alessandro Pizzorusso, in A. Pizzorusso e S. Ferreri, Le fonti del di­ ritto italiano, I: Le fonti scritte, Utet, Torino 1998, pp. 86 sg., 165 sgg. “ In argomento, e sul ruolo giocato dalle regole non ufficiali nel raggiungere e mantenere l’ordine sociale, ai luoghi cit. supra, Cap. 1, note 2 e 4, e quelli ci­ tati fin qui in questo Capitolo, adde W. G. Sumner, Folkways: A Study of the Sociological Importance of Usages, Manners, Customs, Mores, and Morals, Ginn & Co, Boston 1906; L. L. Fuller, Human Interaction and the Law, in R. P. Wolff (a cura di), The Rule of Law, Simon & Schuster, New York 1971; W. Menski, The Uniform Civil Code Debate in Indian Law : New Developments and Changing Agenda, in «German L. J.», 9 (2008), n. 3, pp. 211 sgg., 216; N. MacCormick, La sovranità in discussione. Diritto, stato e nazione nel «com­ monwealth» europeo, il Mulino, Bologna 2003, pp. 43 sgg. (trad, da Question­ ing Sovereignty. Law, State, and Nation in the European Commonwealth, Oxford University Press, Oxford 1999); e poi, fra gli economisti, anche W. Easterly, I disastri dell'uomo bianco. Perché gli aiuti dell'occidente al resto del mondo han­ no fatto più male che bene, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 94 sgg. (trad, it. da The White Man’s Burden. Why the West’s Efforts to Aid the Rest Have Done So Much III and So Little Good, Penguin, New York 2006). 67 E multis, W. Twining, Globalisation and Legal Theory, Butterworths, London 2000, p. 232. “ La quale, come ricorderemo - infra, Capp. 14 e 15 - può germogliare solo se supportata da un reticolato di regole informali, non antagoniste ai suoi valori e ai suoi principi. Si veda, fin d’ora, Commission on Legal Empowerment of the Poor, Making the Law Work for Everyone cit.; ma anche, dal punto di vi­ sta degli economisti, G. Tabellini, Institutions and Culture, in «Journal of the European Economic Association Papers and Proceedings», 6 (2008), n. 2-3, pp. 255 sgg., e ivi le indicazioni ulteriori all’assai vasto dibattito disciplinare. 67 Apprezzare la sopra descritta stratificazione significa tuttavia tenere a mente pure che non tutti gli strati di un sistema giuridico sono come vestiti che pos­ sono essere indossati o dismessi a piacimento. Quando uno strato esiste, esso non può essere rapidamente cancellato (sarebbe impossibile, ad esempio, per i sistemi ufficiali francese e italiano decidere d’improvviso di diventare siste­ mi di common law). Altrettanto vero è però che non tutti gli strati presenta­ no un grado omogeneo di resistenza. Ecco perché il diritto privato del com­ mercio internazionale è uno strato che poggia su regole largamente armoniz­ zate in tutto l’ambito giuridico occidentale: armonizzazione resa possibile anche, e soprattutto, perché apertamente supportata da tutti gli attori maggio­ ri dello strato in questione. “ Il dato è reso evidente dagli studi storici e antropologici: si veda eg., P. Gros­ si, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Bari-Roma passim-, K. von Benda-Beckmann, Why Bother About Legal Pluralism ? Analytical and Policy Ques­ tions : An Introductory Address, in Commission on Folk Law and Legal Plura­ lism, in «Newsletter», 39 (1997), pp. 14 sg. 69 Cosi, R. Sacco, Antropologia giuridica, il Mulino, Bologna 2007, p. 217.

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Che poi per quelle risorse l’appetito sia condiviso da attori economici e gover­ nativi occidentali, che lo sfamano con scarsa innocenza e ampia indifferenza alle esigenze locali, è un dato risaputo (e su alcuni suoi profili torneremo). Per tutti, da noi, A. Sciortino, L'Africa in guerra. I conflitti africani e la globalizza­ zione, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, passim e pp. 245 sgg., 353 sgg. 71 Al quale non sfuggivano i benefici (propri) del divide et impera: e multis, G. B. N. Ayittey, Indigenous African Institutions, Transnational Publishers, Ards­ ley 20061, spec. pp. 444, 460 (ma si veda anche pp. 146, 150, 152); J. Iliffe, Popoli dell’Africa. Storia di un continente, Bruno Mondadori, Milano 2007, spec. pp. 254 sgg. (trad. it. da Africans. The History ofA Continent, Cambridge University Press, Cambridge 2007’); W. Menski, Comparative Law cit., pp. 477 sgg-, anche per ulteriori riferimenti. 72 Sul punto, assai utili). Goody, Introduction, in Id. (a cura di), Succession to High Office, Cambridge University Press, Cambridge 1966, pp. 1 sgg. ; e poi M. Alliot, Un droit nouveau est-il en train de naitre en Afrique?, in G. Conac (dir.), Dynamiques et finalités des droits africains, Economica, Paris T980, pp. 467, 478 sg.; M. Gluckman, Politics, Law and Ritual in Tribal Societies (1965), Basil Blackwell, London-Oxford 1971, pp. 123 sgg.; Id., Custom and Conflict in Africa (1956), Basil Blackwell, Oxford 1973, pp. 27 sgg.; e i saggi raccolti in C.-H. Perrot e F.-X. Fauvelle-Aymar, Le retour des rois. Les autorités traditionnelles et I’Etaten Afrique contemporaine, Karthala, Paris 2003; oltre al clas­ sico E. Evans-Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, Cla­ rendon, Oxford 1937 (trad. it. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, F. Angeli, Milano 1976). Più in generale, A. Richards, Some Mechanisms for the Transfer ofPolitical Rights in Some African Tribes, in «J. Roy. Anthr. Inst.», 90 (i960), pp. 175 sg.; ma si veda anche J.Djoli, Le constitutionnalisme africain: entre l'officici et le réel... et les mythes. État de lieux, in C. Kuyu (dir.), À la re­ cherche du droit africain du xxf siècle, Connaissances et Savoirs, Paris 2005, pp. 175 sgg. Da noi, G. Calchi Novali, Dalla parte dei leoni. Africa nuova, Afri­ ca vecchia, il Saggiatore, Milano 1995, p. 94. ” W. Menski, Comparative Law cit., p. 483. 74 R. Sacco, Il diritto africano cit., pp. 199 sgg.; si veda anche H. W. O. OkothOgendo, The Imposition of Property Law in Kenya, in S. B. Burman e B. E. Harrell-Bond (a cura di), The Imposition of Law, Academic Press, New York 1979, PP- 147, 154 sgg. ” Si veda in particolare, B. Sitack Yombatina, Droit de l’environnement à l'épreuvedes representations culturelies africaines : une gestion à réinventer?, in C. Kuyu (dir.), À la recherche du droitafricain du xxf siècle cit., pp. 145, 164 sgg.; J. W. Bruce e S. E. Migot-Adholla, Searchingfor Land Tenure Security in Africa, Kendall/Hunt, Dubuque 1994. 76 Per alcuni cenni, infra Cap. 15 e, sin d’ora, si veda la soluzione, accolta in Tan­ zania, di registrare senza mediazioni tecniche diritti di natura consuetudina­ ria, oppure quella realizzata in Etiopia e Malawi, di registrare diritti su base familiare: Commission on Legal Empowerment of the Poor, Making the Law Work for Everyone cit., vol. II, p. 91. 77 Fra i tanti, A-. Rochegude, Ubi societas ibi jus : ubi jus, ibi societas, in C. Kuyu (dir.), À la recherche cit., pp. 115, 126 sgg.; C. Kuyu, Le Fancier, unepreoccu­ pation constante, un champ d‘expertise reconnue, in «Juridicités, Cahiers d’anthropologie du droit», U.S. (2006), pp. 83 sgg.; si veda anche E. Le Roy, La generalisation de la propriété privée de la terre, une fausse «bornie solution» pour l'Afrique noire, ivi, pp. 83 sgg.; cosi come L. Cotula (a cura di), Changes in «Customary» Land Tenure Systems in Africa, lied-Fao, London-Rome 2007.

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Note

’’ M. Guadagni, limodello pluralista, Giappichelli, Torino 1996, p. 71. ” Si veda, rispettivamente, T. Dejean, L’organisation judiciaire centrafricaine, pp. 28 sgg.; D. Nanare, La méconnaissance du droit et ses consequences sur le développement, pp. 85 sgg. : tutti in J. Willibiro-Sako (coord.), Le ròte de la justice dans le développement de laR.CA., Bangui 1991; e J. John-Nambo, Le droit et sespratiques au Gabon, in C. Kuyu (dir.), À la recherche cit., pp. 229, 232 sgg. " R. Sacco, Il diritto africano cit., p. 205. 81 Per rilievi analoghi, L. Abu-Odeh, The Politics of (Mis)recognition : Islamic Law Pedagogy in American Academia, in «Am. J. Comp. L.», 52 (2004), pp. 789, 806 sgg.; R. Sacco, Antropologia cit., p. 223. " A. Wezler, Dharma in the Veda and the Dharmasastras, in «J. Ind. Phil.», 32 (2004), pp. 629, 631; R. W. Lariviere, Dharmasàstra, Custom, «Real Law», and «Apocryphal» Smrtis, in «J. Ind. Phil.», 32 (2004), pp. 611 sgg.; L. Rocher, Law Books in an Oral Culture: The Indian Dharmasastras, in «Proceedings of the American Philosophical Society», 137 (1993), pp. 254-67. ” A. Kumar Giri, Il «governo della legge» e la società indiana. Dal colonialismo al postcolonialismo, in P. Costa e D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria e critica, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 708 sgg. Per il rilievo che «absent any general principle of equality in hindu society, and given the pervasive pres­ ence of dharma, the notion of rights, as individual power, or as anything else, is not inherent in hindu thought», H. P. Glenn, Legal Traditions of the World, Oxford University Press, Oxford 2007', p. 288. Per alcune utili precisazioni, W. Menski, Hindu Law. Beyond Tradition and Modernity, Oxford University Press, New Delhi 2003, pp. 77 sgg., 83. Si veda anche R. Lingat, The ClassicalLaw ofIndia, Oxford University Press, New Delhi 1973 (rist. 1999), spec, pp. 176 sgg. (trad. ingl. con aggiunte dij. D. M. Derrett da Les sources du droit dans le système traditionnelde I'lnde, Mouton & Co., Paris 1967); e, per la sot­ tolineatura di come gli stessi testi sacri accogliessero molte delle piu antiche consuetudini, J. D. M. Derrett, Hindu Law. Past and Present, A. Mukherjee, Calcutta 1957, pp. 1 sg., 42 sg.; Id., Religion, Law and State in India, Faber & Faber, London 1968, pp. 158 sgg.; U. Baxi, People's Law in India. The Hindu Society, in M. Chiba (a cura di), Asian Indigenous Law in Interaction with Re­ ceived Law, Kpi, London - New York 1986, pp. 216, 220 sgg.; si veda V. P. Nanda e S. Prakash Sinha (a cura di), Hindu Law and Legal Theory, New York University Press, New York 1996, spec. Vlntroduzione, pp. xn-xin. 84 G. Ajani, A. Serafino e M. Timoteo, Diritto dell'Asia orientale, Utet, Torino 2007, spec. pp. 168, 359. ” R. Sacco, s.v. Cina, in Dig. IV, Disc.priv., sez. civ., Utet, Torino 1988, vol. II, pp. 360 sgg.; L. Moccia, Il diritto in Cina, Bollati Boringhieri, Torino 2009; T. Ruskola, The East Asian Legal Tradition, in M. Bussani e U. Mattei (a cura di), The Cambridge Companion to Comparative Law, Cambridge University Press, Cambridge 2010, in corso di pubblicazione. “ W. Menski, Comparative Law cit., pp. 518 sgg., 523 sgg. " Per tutti, M. Tessier, Islam and Democracy in the Middle East, in «J. Comp. Pol.», 34 (2002), pp. 337 sg.; D. B. Burrell, Review: Varieties of Islamic Thought, in «Rev. Pol.», 56 (1994), pp. 773 sg.; T. Ramadan, La riforma radi­ cale. Elam, etica e liberazione, Rizzoli, Milano 2009, passim e pp. 12 2 sgg. (trad, da Radical Reform. Islamic Ethics and Liberation, Oxford University Press, Oxford - New York 2009); A. Piga, L'islam in Africa. Sufismo e jihadfra storia e antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 58 sgg. “ Si veda F. Castro, La codificazione del diritto privato negli stati arabi contempo­

Capitolo terzo

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ranei, in«Riv.dir. civ.», 1 (1985), pp. 387 sgg.; Id., Ilmodello islamico, a cu­ ra di G. M. Piccinelli, Giappichelli, Torino 2007’, pp. 87 sgg., 92 sgg. ” A. GambaroeR. Sacco, Sistemi giuridici comparati, Utet, Torino 2008’, p. 358. ” R. Aluffi Beck-Peccoz, La modernizzazione del diritto di famiglia nei Paesi ara­ bi, Giuffrè, Milano 1990, p. no. T. Abdulkader, Examining the Role of Islamic Law, in T. Abdulkader, S. Cox e B. Kraty (a cura di), Structuring Islamic Finance Transactions, Euromoney Books, London 2005, pp. 13, 27; J. Schacht, Introduzione al diritto musulma­ no, Fondazione Agnelli, Torino 1995, pp. 83 sg. (trad. da An Introduction to Islamic Law, Clarendon Press, Oxford 1964); in particolare, riguardo agli stra­ tagemmi giuridici ideati per superare l’impossibilità di prestare denaro a inte­ resse, G. M. Piccinelli, s.v. Ribà, in Dig. TV, Disc, prie., sez. civ., Utet, Torino 1998, vol. XVII, pp. 494-95; con riferimento a quelli impiegati per evitare i divieti esistenti in materia di contratti assicurativi, G. M. Piccinelli, Il sistema bancario islamico, Istituto per l’Oriente (Ipo), Roma 1989, p. 15. ” Si vedano supra, in questo Capitolo, i luoghi cit. alle note 82-83. ” Sul punto, D. R. Davis jr, Law and 581 final. B. S. Chimni, International Institutions Today: An Imperial Global State in the Making, in «Eur. J. Int’l L.», 15 (2004), n. 1, p. 27; si veda anche C. Pinelli, Le clausole sui diritti umani negli accordi di cooperazione intemazionale dell’Unione, in «Riv. crit. dir. priv.», 2006, pp. 39 sgg. Si centra sulla «diffusione

Capitolo quinto

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del patrimonio costituzionale europeo», nella prospettiva «di consolidare la posizione delle corti costituzionali, quali garanti dei diritti costituzionali e del primato del diritto», non puntando tuttavia «ad imporre una soluzione, ma a promuovere uno scambio di vedute in un’ottica di dialogo non direttivo», la «Commissione europea per la Democrazia attraverso il Diritto» (nota come Commissione di Venezia, dal nome della città in cui si riunisce), la quale è un organo consultivo del Consiglio d’Europa. Si veda www.venice.coe.int. La Commissione dirige i suoi lavori soprattutto verso i sistemi est-europei e del­ l’Asia centrale, un’area dove peraltro - come abbiamo ricordato (supra, in que­ sto Capitolo, § 4, e si veda pure Supporting Human Rights and Democracy: The US. Record, p. rii) - sono massicciamente presenti anche le agenzie Usa. 1,7 E.g., Ch. Bretherton e J. Vogler, The European Union cit., pp. 132 sgg., 180 sg. Si veda poi «Communication from the Commission to the Council, the Eu­ ropean Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, Governance in the European Consensus on devel­ opment towards a harmonised approach within the European Union», COM 65 sgg.; J. Peel, A Gmo by Any Other Name ...Might Be an Sps Risk! .Implications of Expanding the Scope oftheWto Sanitary andPhytosanitary Measures Agreement, in «Eur. J. Int’l L.», 17 (2006), n. 5, pp. 1009 sgg.), con particolare riguardo alla materia ambientale (A. E. Dessler e E. Parson, The Science and Policy of Global Climate Change : A Guide to the Debate, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 47-87; S. H. Schneider, A. Rosencranz, M. D. Mastrandrea e K. Kuntz-Duriseti (a cura di), Climate Change Science and Policy, Island Press, Washington D.C. 2010); e alla compatibilità dei modelli di proprietà intellettuale adottati dagli accor­ di TRIPS con la ‘traditional knowledge’, matrice produttiva di gran parte del­ l’agricoltura non occidentale (M. Goodhart, Democracy as Human Rights cit., pp. 208 sgg.; Th. Pogge, ora in World Poverty and Human Rights, Polity, Cam­ bridge 2008', p. 222). Óra, scontato l’impatto del fenomeno per cui criteri e risultati scientifici di cui si discute sono in grandissima parte quelli prodotti dal ‘Nord’ del mondo, ai nostri fini vale la sottolineatura di quello che appa­ re essere il punto piu avanzato della riflessione: ossia l’esigenza che tutti gli at­ tori coinvolti (scienziati, industrie, portatori di interessi pubblici) siano incen­ tivati (e qui il controllo dei circoli scientifici e del circuito mediatico si annun­ cia fondamentale) a svelare sempre le opzioni che s’intendono perseguire attraverso la scelta delle regole scientifiche date. Si veda almeno M. Shapiro, The Frontiers of Science Doctrine : American Experiences with the Judicial Con­ trol of Science-Based Decision-Making, in Ch. Joerges, K.-H. Ladeur e E. Vos (a cura di), Integrating Scientific Expertise into Regulatory Decision-Making, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden 1997, pp. 325, 339 sgg.; Ch. Joerges, Constitutionalism in Postnational Constellations : Contrasting Social Regulation in the EU and in the WTO, in Ch. Joerges e E.-U. Petersmann, Constitutionalism, Multilevel Trade Governance and Social Regulation, Hart, Oxford-Portland 2006, pp. 491, 511 sgg. 2,4 M. J. Trebilcock e R. Howse, The Regulation ofInternational Trade, Routledge, London - New York 2005’, PP- 559 s88- Su quanto segue si veda anche Astrid, Governare l'economia globale nella crisi e oltre la crisi, a cura di G. Amato, Pas­ sigli, Firenze 2009, pp. 279 sg., 289 sgg. 2” Sono difatti i soggetti espressione delle economie più forti a esercitare note­ voli pressioni affinché sia introdotta una ‘clausola sociale’ entro le maglie de­ gli accordi WTO, al declamato fine di estendere ai paesi in via di sviluppo l’ap­ plicazione di quegli standard di protezione dei lavoratori che sono propri ai nostri più solidi sistemi economici. Sono pressioni che hanno ovviamente in­ contrato il netto rifiuto dei soggetti rappresentanti le economie più deboli, se-

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Note

condo i quali la ‘clausola sociale’ altro non sarebbe che uno strumento al ser­ vizio di politiche protezionistiche, destinato a innalzare nuove barriere al com­ mercio delle economie meno sviluppate, e a far perdere a queste ultime uno dei pochi vantaggi competitivi di cui esse godono: il minor costo della mano­ dopera. Si veda, eg., J. Krè, E. Cihelkova e J. Biè, WTO and the Social Clause, or else: the Multilateral Approaches to the International Labor Standards, in «Acta Oeconomica Pragensia», x6 (2008), pp. 48 sgg.; S. Cho, Beyond Doha's Promises : Administrative Barriers as an Obstruction to Development, in «B.J. Int’l L.», 25 (2007), pp. 395, 419 sg.; T. N. Srinivasan e S. D. Ten­ dulkar, Reintegrating India with the World Economy, Peterson Institute, Wash­ ington D.C. 2003, p. 92; V. A. Leary, The WTO and the Social Clause:PostSingapore, in «Eur. J. Int’l L. », 8 (1997), pp. 118-19. 2M Per la sintesi del dibattito, M. Shahin, To What Extent Should Labor and En­ vironmental Standards Be Linked to Trade?, in «The Law and Development Re­ view», 2 (2009), n. 1, art. 2, pp. 1 sgg. I testi dell’accordo GATT sono stati inclusi nell’Accordo istitutivo della WTO. Sul punto, M. J. Trebilcock e R. Howse, The Regulation cit., pp. 27 sgg. 2” Si veda la Dichiarazione dell’organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) del 1998 sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro, che ha sintetizzato i contenuti delle cosiddette otto Convenzioni Fondamentali dell’OIL, ossia del­ le Convenzioni nn. 87/1948, 98/1949, 29/1930, 105/1957, 100/1951, 111/1958, 138/1973, 182/1999. Sul punto, eg., B. Hepple, Labour Laws and Global Trade, Hart, Oxford 2005, p. 144; E. Alben, GATT and the Fair Wage: A Historical Perspective on the Labor-Trade Link, in «Colum. L. Rev.», 101 (2001), pp. 1410, 1416 sgg.; e soprattutto M. J. Trebilcock e R. Howse, Trade Policy and Labour Standards, in «Minn. J. Global Trade», 14 (2005), pp. 261, 267. 2” La revoca delle concessioni di vantaggi commerciali è lo strumento primario adottato dall’Unione Europea, la quale, al riscontro del mancato rispetto, da parte di uno Stato esportatore, di una delle otto Convenzioni Fondamentali elaborate dall’OIL (e cit. alla nota precedente) - o di una delle Convenzioni Onu fra quelle ora indicate nell’All. Ili, parte A, del Regolamento (CE) n. 732/2008 del Consiglio, del 22 luglio 2008, può dichiarare quello Stato deca­ duto dal Generalized System of Preferences (GSP o GSP + ). Si veda in partico­ lare quanto disposto dagli artt. 15 sgg., e 20, dello stesso Regolamento - e, con riguardo alla base giuridica per il sistema generalizzato di preferenze attuato dalla WTO, si veda il contenuto della c.d. ‘Enabling Clause’ (Differential and More Favourable Treatment. Reciprocity and Fuller Participation of Develop­ ing Countries, Decisione del 28 novembre 1979, a: www.wto.org). 2” Sono sintomatici, da questo punto di vista, due dati: a) che «la Camera di com­ mercio americana abbia contestato l’introduzione delle nuove leggi sul lavoro [in Cina], alludendo alla possibilità che i nuovi investimenti sarebbero stati di­ rottati verso altri paesi, dove il lavoro è a minor costo e senza vincoli legisla­ tivi e contrattuali»: A. Lettieri, Lavoro, globalizzazione e crisi, in Astrid, Go­ vernare l'economia globale nella crisi ed oltre la crisi cit., pp. 197, 208; e, per contro b) che negli stessi Usa siano state adottate a livello locale numerose leg­ gi volte a escludere dal mercato prodotti non provenienti da ‘responsible ma­ nufacturers’. Si veda A. Barnes, Do They Have To Buy from Burma? A Preempt­ ion Analysis of Local Antisweatshop Procurement Laws, in «Colum. L. Rev.», 107 (2007), n. 2, pp. 426, 432 sgg. In luogo di tanti, M. Goodhart, Democracy as Human Rights cit., pp. 206 sg., 215 sg.; e cfr. J. Bhagwati, Elogio della globalizzazione, Laterza, Roma-Bari

Capitolo ottavo

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2005, PP- 166 sgg. (trad, da In Defense of Globalization, Oxford University Press, Oxford 2004). Si noti peraltro che gli Usa, delle otto citate Convenzio­ ni costituenti i ‘Core Labour Standards’ (supra, nota 297), hanno finora rati­ ficato soltanto le Convenzioni n. 105 (lavoro forzato) e n. 182 (peggiori for­ me di lavoro minorile). m Per la critica a una rigida applicazione degli standard lavorativi internaziona­ li a paesi non occidentali, di fronte al rischio della loro insostenibilità da par­ te del locale sistema produttivo, e multis, F. Onida, Standard sociali e del lavo­ ro nella ‘rule of law ’ intemazionale, in Astrid, Governare l’economia globale nel­ la crisi ed oltre la crisi cit., pp. 215, 230 sg.; M. J. Trebilcock e M. Fishbein, International Trade : Barriers to Trade, in A. T. Guzman e A. O. Sykes (a cura di), Research Handbook in International Economie Law, Edward Èlgar, Chel­ tenham-Northampton 2007, pp. 1, 55 sg.; e, in particolare, K. Basu, EléBelé. L'India e le illusioni della democrazia globale, Laterza, Bari-Roma 2008, pp. 21 sgg. (trad, da The Retreat of Democracy and Other Itinerant Essays on Globali­ zation Economics and India, Permanent Black, Delhi 2007) ove, con specifico riguardo al lavoro minorile, si leggono le seguenti preziose osservazioni: «si consideri un provvedimento che imponga una sanzione pecuniaria a tutte le imprese che impiegano lavoratori con meno di 15 anni: una misura apparente­ mente ragionevole per controllare il lavoro minorile. Il Child Labour Act del­ l’india, varato nel 1986, contiene proprio un provvedimento di questo gene­ re. Esaminiamo l'impatto di questa norma sul salario orario dei bambini. E probabile che il salario diminuisca, perché a seguito del provvedimento i bam­ bini diventano un fattore di produzione meno conveniente (il datore di lavo­ ro rischia di essere scoperto e multato). Se i bambini lavorano per permettere alle famiglie di guadagnare un livello minimo accettabile di reddito, allora l’ab­ bassamento del salario orario li costringe a lavorare piti a lungo [p. 21]... Nel­ le regioni pili povere, invece, si dovrebbe permettere ai bambini di lavorare qualche ora al giorno, perché questa è spesso l’unica maniera in cui possono fi­ nanziare la propria istruzione o quella dei propri fratelli ... Nell’affrontare il problema del lavoro minorile è facile commettere due errori: cader nella trap­ pola dell’autocompiacimento, lasciando tutto ai mercati, e cercare di elimina­ re il lavoro minorile in un colpo solo, senza alcun riguardo per il benessere dei presunti beneficiari di questi provvedimenti, vale a dire i bambini» [p. 25]. Su questo stesso punto, si veda anche E. V. Edmonds e N. Pavcnik, Child Labor in the Global Economy, in «J. Econ. Persp.», 19 (2005), n. r, pp. 199 sgg.; e infra, Cap. r2, § 2, e Cap. 15, § 8. «First you Western countries are pressing standards upon us that have arisen from your development rather than ours. And then you are worsening our com­ petitive situation through protectionism if we fail along these lines, by sup­ porting your own industries more than you otherwise would anyway»: M. Ris­ se, A Right to Work? A Right to Leisure? Labor Rights as Human Rights, in «Law & Ethics of Human Rights», 3 (2009), n. r, art. r, p. 13. In argomen­ to, oltre agli autori cit. fin qui, in questo paragrafo, si veda, per il dibattito, D. Rodrik, One Economics Many Recipes. Globalization, Institutions, and Eco­ nomic Growth, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2007, pp. 237 sgg.; J. E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona (2006), Einaudi, Torino 2007, spec. pp. 65 sgg. (trad, da Making Globalization Work, Norton & Co., New York 2006). Si vedano anche i dati richiamati infra, alla nota 566. ’°’ Ma solo per chi non sfugge ai paradigmi abituali. Si veda infatti, lucidamen­ te, S. Cassese, Oltre lo Stato cit., p. 93. M. B. Likosky, Law Infrastructure, and Human Rights, Columbia University Press, New York 2006, passim, e pp. 7 sgg., 62 sgg., 141 sgg.; D. A. Levy,

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Note

BOT and Public Procurement: A Conceptual framework, in «Indiana Int’l & Comp. L. Rev.», 7 (1996), pp. 95, 106. Si veda C. McCrudden e S. G. Gross, Wto Rules on Government Procurement andNational Administrative Law, in«Eur.J. Int’l L.», 17 (2006), pp. 151 sg.; C. McCrudden, Buying Social Justice. Equality, Government Procurement and Legal Change, Oxford University Press, New York - Oxford 2007, pp. 232 sgg., 247 sgg. La stessa scelta è stata abbracciata, e per motivi analoghi, dal Sudafrica (qui per promuovere l’integrazione economica di gruppi storicamen­ te svantaggiati in ragione del colore della pelle, del genere, o di disabilità): M. J. Trebilcock e R. Howse, The Regulation cit., pp. 583 sg. J“ Si veda anche B. S. Chimni, International Institutions Today cit., p. 25. M’Domande assai simili si pongono C. McCrudden e S. G. Gross, Wto Rules cit., pp. 151, 153; ma si veda anche J. Yeng e S. C. Van Dissei, Improving Access of Small Local Contractors to Public Procurement. The experience of Andean Countries, in «ILO-ASIST Bulletin» (September 2004), n. 18, pp. 8 sgg.; Suc­ cess Africa .Partnership for Decent Work.ImprovingPeople’s Lives, vol. II, ILO, Addis Abeba 2007, pp. 2 sgg., 31 sgg. J centrate sui percorsi occidentali, A. Pacchi, Breve storia dei dirit­ ti umani, il Mulino, Bologna 2007; L. Hunt, La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo, Laterza, Roma-Bari 2010 (trad, da Inventing Human Rights. A History, W. W. Norton, New York - London 2007). Per alcune pro­ spettive di maggior dettaglio, G. R. Drivers e J. C. Miles, The Babylonian Laws, 2 voli., Clarendon, Oxford 1952 e 1955, spec. vol. I, passim-, V. P. Nanda, Hinduism and Human Rights, in V. P. Nanda e S. Prakash Sinha (a cura di), Hindu Law and Legal Theory, New York University Press, New York 1996, pp. 237 sgg.; Masao Abe, Religious Tolerance and Human Rights: A Buddhist Perspective, in L. Swidler (a cura di), Religious Liberty and Human Rights, Ecu­ menical Press - Hippocrene Books, Philadelphia - New York 1986, pp. 193 sgg.; J. Chan, A Confucian Perspective on Human Rights for Contemporary China, in J. R. Bauer e D. A. Bell (a cura di), The East Asian Challenge for Human Ri­ ghts, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 212, 227 sgg.; e poi, per le radici greche in particolare, C. Douzinas, The End ofHuman Rights. Crit­ ical Legal Thought at the Turn of the Century, Hart, Oxford 2000, pp. 24 sgg.; per quelle romane, R. H. Helmholz, Natural Human Rights: The Perspective of the lus Commune, in «Cath. U. L. Rev.», 52 (2003), pp. 301, 308, 313 sg., 319 sg.; T. Honore, Ulpian: Pioneer ofHuman Rights, Oxford University Press, New York 20022, spec. pp. 84 sgg.; R. A. Bauman, Human Rights in Ancient Rome, Routledge, London 2000. Si veda inoltre M. R. Konvitz (a cura di), Ju­ daism and Human Rights, W. W. Norton, New York 1972; H. H. Cohn, Hu­ man Rights in Jewish Law, Institute of Jewish Affairs, London - New York 1984; A. E. Mayer, Islam and Human Rights: Tradition and Politics, Westview, Boulder 20074; S. Avineri, The Paradox of Religion and the Universality of Hu­ man Rights, in A. Sajó (a cura di), Human Rights with Modesty: The Problem of Universalism, Koninklijke Brill NV, Leiden-Boston 2004, pp. 317 sgg. 427 J. Rawls, The Idea of an Overlapping Consensus, in «Oxf. J. Leg. Stud.», 7 (1987), p. 1. Se ne veda una discussione ai nostri fini utile in D. Miller, Na­ tional Responsibility and GlobalJustice, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 162 sgg.; Ch. R. Beitz, The Idea ofHuman Rights, Oxford University Press, Oxford - New York 2009, pp. 74 sgg.; da noi, S. Maffettone, Diritti umani e diversità culturale, in A. Sen, P. Fassino e S. Maffettone (a cura di), Giustizia globale, il Saggiatore, Milano 2006, pp. 47, 51 sgg. 42! Cosi, J. Habermas, VergangenheitalsZukunft, Pendo Verlag, Ziirich 1990 (trad, it. Dopo l’utopia, Marsilio, Venezia 1992, p. 20); su posizioni analoghe, si ve­ da la teoria degli ‘assoluti morali’ di J. M. Finnis, Natural Law and Naturai Rights, Clarendon University Press, Oxford 1980, spec. pp. 241-44 (trad. it. Legge naturale e diritti naturali, Giappichelli, Torino 1996); ma anche J. Grif­ fin, On Human Rights, Oxford University Press, Oxford - New York 2008, pp. 31 sgg. (ove l’autore argomenta a favore di un «expansive naturalism»). 425 Per tutti, la stessa M. R. Ishay, The History ofHuman Rights cit., pp. 47 sgg.; e poi N. Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp. 5 sgg.; D. Zolo, Fondamentalismo umanitario, in M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei di­ ritti umani cit., pp. 137 sgg.; A. Cassese, Idiritti umani oggi cit., pp. 63 sg.; J. R. Bauer e D. A. Bell, Introduction, in J. R. Bauer e D. A. Bell (a cura di), East Asian cit., pp. 3-4. 4,0 P. G. Lauren, The Evolution of International Human Rights, University Penn­ sylvania Press, Philadelphia. 2003’, pp. 1 sg., 4 sg.; ma si vedano anche le pre-

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Note

cisazioni di W. Twining, Conclusion, in Id. (a cura di), Human Rights,Southern Voices, Cambridge University Press, Cambridge 2009, pp. 217 sg. 4)1 Già sappiamo, peraltro, che le stesse nozioni di diritto ‘oggettivo’ e ‘soggetti­ vo’ sono costrutti occidentali che faticano o hanno molto faticato a far brec­ cia nelle culture ‘altre’: supra, Capp, r e 3; adde R. Panikkar, Is the Notion of Human Rights a Western Concept?, in «Diogenes», 30 (1982), n. 120, pp. 75 sgg.; N. Rouland, I fondamenti antropologici dei diritti dell’uomo, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto» (1998), pp. 245, 267 sgg.; K. Olivecrona, Legal Language and Reality, in R. A. Newman (a cura di), Essays in Jurispru­ dencein Honor ofRoscoe Pound, Bobbs-Merrill, Indianapolis - New York 1962, PP- 151 sgg. 4)2 J. Habermas, Dopo l’utopia cit., p. 20. 4” Ibid. 4)4 Fin d’ora, S. M. Carbone, I soggetti e gli attori nella comunità intemazionale, in aa.vv., Istituzioni di diritto intemazionale, Giappichelli, Torino 2003', pp. 26-32; B. Conforti, Diritto intemazionale, Esi, Napoli 20026 (rist. 2005), pp. 19-21. 4” È bene infatti sottolineare come la tradizione di pensiero (occidentale), spes­ so evocata a supporto storico dell’attuale configurazione dei diritti umani, non riconosceva che scarso o alcun ruolo agli individui e ai popoli come soggetti di un diritto ultra-statuale. Come ricorda A. Cassese - Idiritti umani oggi cit., p. 9 - ciascuno dei grandi pensatori attenti al ruolo e alle prerogative dell’indivi­ duo, quando «passa a parlare dei rapporti internazionali conclude - amaramen­ te o con rassegnazione - che soli vi dominano gli Stati» (si veda anche M. R. Ishay, The History of Human Rights cit., pp. 100 sgg.). Le grandi dichiarazio­ ni settecentesche (Usa 1776, 1787, Francia 1789) non vanno oltre: detto che colà nessuna considerazione è dedicata ai diritti dei gruppi, ogni forma di tu­ tela da esse predisposte valeva sull’esclusivo piano dei rapporti interni allo Sta­ to. Lo scenario non muta, né sul piano del discorso pubblico, né su quello nor­ mativo, con l’adozione, fra la seconda metà dell’ ’800 e la prima del ’900, di alcuni strumenti di diritto internazionale - aventi ad oggetto, e.g., la schiavitù, la codificazione del diritto di guerra, o l’uniformità di trattamento dei lavora­ tori (per alcune riflessioni utili a comprendere le ragioni politico-economiche che animarono l’adozione di questi strumenti, A. Cassese, I diritti umani oggi cit., pp. 17 sg.; P. G. Lauren, The Evolution ofInternational Human Rights cit., pp. 28 sgg., 38 sgg.) -. Si tratta di strumenti che non schiudono orizzonti nuo­ vi, vuoi per la limitatezza del loro campo di intervento, vuoi perché si muovo­ no nel solco dell’elaborazione tradizionale per la quale «gli individui sono pre­ si in considerazione in quanto pertinenza dello Stato»: M. Ignatieff, Una ra­ gionevole apologia dei diritti umani cit., p. 9. 4,4 Cfr. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia cit., pp. 11 sgg.; P. G. Carezza, «My Friend is a Stranger»: The Death Penalty and the Globallus Commune of Human Rights, in «Tex. L. Rev.», 81 (2003), pp. 1031 sgg. 4” Ai luoghi cit. supra, Cap. 9, nota 388, adde O. Schachter, International Law in Theory and Practice, Martinus Nijhoff, Dordrecht 1991, pp. 335 sgg.; I. Detter, The International Legal Order, Aidershot, Dartmouth 1994, pp. 281, 304 sg. 4" Si veda A. Cassese, Idiritti umani oggi cit., pp. 50 sgg.; D. Shelton, Remedies in International Human Rights, Oxford University Press, Oxford - New York 1999, pp. 137 sgg.; H. J. Steiner, P. Alston e R. Goodman, International Hu­ man Rights in Context:Law, Politics,Morals, Oxford University Press, Oxford - New York 2008’, pp. 925-1083.

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4” J. F. Murphy, The United States and the Rule of Law in International Affairs, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 326 sgg.; D. Archibugi, Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica, il Saggiatore, Milano 2009, pp. 177 sg. Per un’analisi comparata delle difficoltà che incontra, nelle varie giurisdizioni domestiche, l’applicazione orizzontale dei diritti umani (os­ sia la possibilità delle vittime di agire direttamente nei confronti di soggetti privati, responsabili della violazione di quei diritti), si veda, fra i tanti, D. Friedmann e D. Barak-Erez, Human Rights in Private Law, Hart, Oxford-Port­ land 2001 ; Ph. Alston (a cura di), Non-State Actors and Human Rights, Oxford University Press, Oxford - New York 2005; D. Oliver e J. Fedtke (a cura di), Human Rights and the Private Sphere, Routledge-Cavendish, London - New York 2007; H. Hershkoff, Transforming Legal Theory in the Light of Practice: The Judicial Application of Social and Economic Rights to Private Orderings, in V. Gauri e D. M. Brinks (a cura di), Courting Social Justice. Judicial Enforce­ ment of Social and Economic Rights in the Developing World, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge - New York 2008, pp. 268 sgg. XI. DIRITTI SENZA DIRITTO (pp. 141-51) 440 M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 70 sgg. (trad, da Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton Univer­ sity Press, Princeton 2001); si veda pure Ch. R. Beitz, The Idea of Human Ri­ ghts, Oxford University Press, Oxford - New York 2009, pp. 3 sgg., 198 sgg. 441 A. Sen, Human Rightsand the Limits of Law, in «Cardozo L. R.», 27 (2006), pp. 2913 sgg.; ma si veda anche M. C. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, il Mulino, Bologna 2001, pp. 112 sgg. (trad. it. da Wom­ en and Human Development. The Capabilities Approach, Columbia University Press, New York 2000). 442 «Right, the substantive right, is the child of law; from real laws come real rights; but from imaginary laws, from ‘laws of nature’ ... come imaginary rights». J. Bentham, Anarchical Fallacies; Being an Examination of the Declara­ tion of Rights Issued during the French Revolution, in J. Waldron (a cura di), Nonsense upon Stilts. Bentham, Burke and Marx on the Rights ofMan, Methuen & Co., New York 1987, pp. 46, 49. Si veda poi H. L. A. Hart, Are There Any Natural Rights?, in «Phil. Rev.», 64 (1955), pp. 175, 177 sgg.; J. Rawls, Poli­ tical Liberalism, Columbia University Press, New York 1996’, pp. 409 sgg. 441 A. Sen, The Idea ofJustice, Harvard University Press, Cambridge Mass. 2009, PP- 337 sgg-; F. Kurasawa, The Work of Global Justice. Human Rights as Prac­ tices, Columbia University Press, New York 2007, passim e p. 209. 444 O. Hòffe, Determiner les droits de I’homme à travers une discussion interculturelle, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 4 (1997), pp. 461, 463. 445 C. Gearty, Can Human Rights Survive?, The Hamlyn Lectures 2005, Cam­ bridge University Press, Cambridge 2006, pp. 72 sgg.; si veda anche, con ar­ gomenti che, benché centrati sull’esperienza Usa, si vorrebbero generalizzabi­ li, M. A. Glendon, Rights Talk. The Impoverishment of Political Discourse, Free Press, New York 1991, spec. pp. 14 sgg. 446 Per il rilievo secondo cui il ruolo delle corti nelle correnti negoziazioni in te­ ma di diritti umani sarebbe invece quello di un «bargaining chip for use in other politicai fora», H. H. Koh, Transnational Public Law Litigation, in «Yale L. J.», 100 (1991), pp. 2347, 2349. Ma si veda anche M. Loughlin, Rights, Democracy and Law, in T. Campbell, K. D. Ewing e A. Tomkins (a cura di),

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Note

Sceptical Essays on Human Rights, Oxford University Press, Oxford - New York 2001 (rist. 2003), pp. 41 sgg.; M. Tushnet, Scepticism about Judicial Review : A Perspective from the United States, ibid., pp. 359 sgg.; M. J. Dennis e D. P. Stewart, Justiciability of Economic, Social, and Cultural Rights : Should There Be an Int’l Complaints Mechanism to Adjudicate the Rights to Food, Water, Hous­ ing, and Health?, in «Am. J. Int’l L.», 98 (2004), p. 462. A. Sen, Identità, povertà e diritti umani, in A. Sen, P. Fassino e S. Maffettone, Giustizia globale, il Saggiatore, Milano 2006, pp. 7, 15 sgg. 44‘ Per la messa in guardia contro il rischio di sovrapporre la ‘comunità’ alla ‘co­ munità politica’ e quindi allo Stato nazione, assumendo cosi che comunità po­ litica e ‘comunità culturale’ coincidano, J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson, Introduction, in Id. (a cura di), Culture and Rights. Anthropological Per­ spectives, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 17 sg. Si veda an­ che il paragrafo successivo. m Eg., G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codifica­ zione del diritto, il Mulino, Bologna 1976, pp. 615 sg.; G. Calabresi, Ideals, Be­ liefs, Attitudes, and the Law. Private Law Perspectives on a Public Law Problem, Syracuse University Press, New York 1985, pp. 22-24; F. Werro, L'homme raisonnable a perdu sa pipe, in P. Gauch e P. Pichonnaz (a cura di), Figures Juridiques Rechtsfiguren - Melanges Dissociés pour Pierre Tercier, Schulthess, Zurich 2003, pp. 109 sgg.; M. Bussani, La colpa soggettiva, Cedam, Padova 1991, passim e pp. 1 sgg. 4” Si veda S. Sassen, Territorio, autorità, diritti, Bruno Mondadori, Milano 2008, PP- 355 sgg- (trad. da Territory, Authority, Rights, Princeton University Press, Princeton 2006); S. Benhabib, I. Shapiro e D. Petranovic, Editor’s Introduc­ tion, in Id. (a cura di), Identities, Affiliations, and Allegiances, Columbia Univer­ sity Press, New York 2007, pp. 1 sgg.; L. Caracciolo, Le vite degli altri (e la no­ stra), in «Limes» (2007), n. 4, pp. 7 sgg.; M. Bussarti e M. Graziadei, Afterword, in Id. (a cura di), Human Diversity and the Law, Staempfli - Bruylant - Ant. N. Sakkoulas, Berne-Bruxelles-Athens 2005, pp. 183 sgg.; utile poi, pure in una prospettiva americo-centrica, S. P. Huntington, Who Are We? The Challenges to America’s national Identity, Simon & Schuster, New York 2004. «Today, no country in the world only has one type of people within its borders, since mi­ gration is not only an ancient human phenomenon, but has become ever more ubiquitous»: W. Menski, The Uniform Civil Code Debate in Indian Law . New Developments and Changing Agenda, in «German L. J.», 9 (2008), n. 3, p. 215. 4,1 A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari, pp. 20 sgg. (trad. it. da Iden­ tity and Value. The Illusion of Destiny, W. W. Norton, London 2006); M. C. Nussbaum, Diventare persone cit., pp. 141 sgg.; A. Loretani, Identità, in M. Flores (dir.), Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell'epoca della globalizzazione. Dizionario, Utet, Torino 2007, pp. 705, 707 sgg.; e poi, in generale, e multis, M. R. Ferrarese, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, il Mulino, Bologna 2002, p. 71; U. Hannerz, La diver­ sità culturale, il Mulino, Bologna 2001 (trad. it. parziale di Transnational Con­ nections. Culture, People, Places, Routledge, London - New York 1996); S. N. Eisenstadt, Paradossi della democrazia, il Mulino, Bologna 2002, pp. 129 sgg., 137 (trad. da Paradoxes of Democracy, Johns Hopkins University Press, Balti­ more 1999); D. Nelken, Eugen Ehrlich, Living Law, and Plural Legalities, in «Theoretical Inquiries in Law», 9 (2008), n. 2, art. 6, pp. 443 sgg.; ma si ve­ da anche P. Perlingieri, La persona e i suoi diritti. Problemi deidiritto civile, Edi­ zioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005; Id., La personalità umana nell’ordina­ mento giuridico, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972.

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,S1 Nella vastissima letteratura, con qualche spunto particolarmente utile ai no­ stri fini, R. M. Keesing, Kin Groups and Social Structure, Holt, Rinehart & Winston, New York 1975; A. R. Radcliffe-Brown e C.D. Forde (a cura di), African Systems ofKinship and Marriage, Oxford University Press, Oxford 1950; P. P. Schweitzer (a cura di), Dividends of Kinship. Meanings and Uses ofSocial Kelatedness, Routledge, London - New York 2000; i classici C. Lévi-Strauss, Les structures élémentaires de la parenté, Mouton, Paris - The Hague 19672; J. G. Frazer, Matrimonio e parentela, il Saggiatore, Milano 1991 (trad, da Folk­ lore in the Old Testament. Studies in Comparative Religion, Legend and Law, vol. II, parte n, cap. Vi, Macmillan, London 1918); L. H. Morgan, Systems of Con­ sanguinity and Affinity of the Human Family (1870), The Smithsonian Institu­ tion, Washington D.C. 1871. Su versanti (solo apparentemente) diversi della riflessione, utili indicazioni sulla società cinese vengono da F. Sisci, Made in China, Carocci, Roma 2004, pp. 73 sg.; su quella indiana, da F. Rampini, La speranza indiana, Mondadori, Milano 2007, pp. 145 sgg.; mentre, su quella ita­ liana, analisi articolate si leggono in A. Alesina e P. Ichino, L’Italia fatta in ca­ sa. Indagine sulla vera ricchezza degli italiani, Mondadori, Milano 2009; e E. C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, il Mulino, Bologna 2006 (trad, da The Moral Basis of a Backward Society, Free Press, New York 1958). 4” E multis, J. Helm (a cura di), Essays on the Problem of Tribe, University of Washington Press, Seattle-London 1968; M. D. Sahlins, Tribesmen, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1968; L. Sheleff, The Future of Tradition. Customary Law, Common Law and Legal Pluralism, Frank Cass, London-Portland 2000; L. Rosen, The Culture of Islam. Changing Aspects of Contemporary Muslim Life, University of Chicago Press, London-Chicago 2002, pp. 39 sgg.; si veda an­ che P. Kirchhoff, The Principles of Clanship in Human Society, in M. Fried (a cura di), Readings in Anthropology, vol. II, Crowell, New York 1968’, pp. 370 sgg.; anche in U. Fabietti (a cura di), Dalla tribù allo stato. Saggi di antropolo­ gia politica, Unicopli, Milano 1991, pp. 17 sgg.; A. R. Radcliffe-Brown, Introduction, in A. R. Radcliffe-Brown e C. D. Forde (a cura di), African Sy­ stems of Kinship and Marriage cit., pp. 1,39 sgg. 454 Si veda anche supra, Cap. 3, § 4 e note 59, 64; nonché, sul punto di cui al te­ sto, e.g., ]. H. Murphy (a cura di), Ethnic Minorities, Their Families and the Law, Hart, Oxford-Portland 2000, passim; W. Menski, Rethinking Legal Theory in the Light ofSouth-North Migration, in P. Shah e W. Menski (a cura di), Migra­ tion, Diasporas and Legal Systems in Europe, Routledge-Cavendish, London New York 2006, pp. 13 sgg.; M. Angelucci, G. De Giorgi, M. Rangel e I. Rasul, Village Economies and the Structure of Extended Family Networks, in«B. E. Journal of Economic Analysis & Policy», 9 (2009), n. 1 (Contributions), art. 44. 4” Eg., P. Stein, I fondamenti del diritto europeo, Giuffrè, Milano 1987, pp. 21 sgg. (trad. da Legal Institutions. The Development of Dispute Settlement, But­ terworths, London 1984); R. Sacco, Antropologia giuridica, il Mulino, Bologna 2007, pp. 166 sgg.; A. A. Bootaan, Somalia:Stato regionale o canonizzazione clanica, in aa.vv., Scritti in onore di R. Sacco, vol. I, Giuffrè, Milano 1994, pp. 93 sgg.; S. Romano, L’ordinamento giuridico (1918), Sansoni, Firenze 1946’, pp. 106 sgg.; e A. Pizzorusso, La dottrina di Santi Romano e la mafia siciliana, in «L’Indice penale» (1994), pp. 608 sgg. 4,6 Si veda per esempio P. Shah (a cura di), Law and Ethnic Plurality : Socio-Legal Perspectives, Koninklijke Brill NV, Leiden-Boston 2007; e poi J. L. Carr e J. T. Landa, The Economics of Symbols, Clan Names, and Religion, in J. T. Lan­ da, Trust, Ethnicity, and Identity. Beyond the New Institutional Economics of Eth­ nic TradingNetworks, Contract Law and Gift-Exchange, University of Michigan

z8o

Note

Press, Ann Arbor 1994, pp. 115 sgg.; S. Fenton e H. Bradley, Ethnicity and economy : «race and class» revisited, Palgrave Macmillan, Basingstoke - New York 2002; W. Easterly, l disastri dell’uomo bianco. Perché gli aiuti dell’Oc­ cidente al resto del mondo hanno fatto più male che bene, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 97 sgg. (trad, da The White Man’s Burden. Why the West’s Efforts to Aid the Rest Have Done So Much III and So Little Good, Penguin, New York 2006). * ” Si veda anche supra, Cap. 3, § 4, e note 60-62, 64; nonché C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, il Mulino, Bologna 1999, pp. 85 sgg. (trad, da vari luoghi); F. von Benda-Beckmann et alii (a cura di), Between Kinship and the State : Social Security and Law in Devel­ oping Countries, Foris, Dordrecht 1988; e poi, fra i tanti, R. C. Ellickson, Order Without Law. How Neighbors Settle Disputes, Harvard University Press, Cambridge Mass. - London 1991; W. G. Sumner, Folkways: A Study ofthe So­ ciological Importance of Usages, Manners, Customs, Mores, and Morals, Ginn & Co., Boston 2907 (rist. Arno Press, New York 1979); K. N. Llewellyn, The Bramble Bush: On Our Law and Its Study, Oceana, New York r95r; L. L. Ful­ ler, Human Interaction and the Law, in R. P. Wolff (a cura di), The Rule ofLaw, Simon & Schuster, New York 1971; H. de Soto, TheMistery of Capital: Why Capitalism Triumphs in the West and Fails Everywhere Else, Basic Books, New York 2000; P. Karsten, Between Law and Custom, Cambridge University Press, Cambridge - New York - Melbourne - Madrid - Cape Town 2002. * ” Si veda D. J. Rothkopf, Superclass : The Global Power Elite and the World They Are Making, Farrar Straus & Giroux, New York 2008. R. Sacco, Il diritto africano, Utet, Torino 1995, pp. 150 sgg.; M. Bussani, Di­ versità e diritti «umani». Frammenti di agenda, in P. Perlingieri (a cura di), Te­ mi e problemi della civilistica contemporanea. Venticinque anni della Rassegna di diritto civile, Esi, Napoli 2005, pp. 19 sgg.; ma si veda anche W. Easterly, I disastri dell’uomo bianco cit., p. 99; e A. Ehr-Soon Tay, l‘valori asiatici’ e il rule of law, in P. Costa e D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria e critica, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 683, 694: «Negli anni cinquanta i giova­ ni asiatici arrivavano a frotte nel Regno Unito per sedere ai piedi dei profes­ sori di diritto e di politica della London School of Economics; per studiare Locke, Hobbes e Hume, Burke, Marx e Lenin. Apprendevano tutto ciò che c’era da apprendere, lo assimilavano e lo portavano a casa con sé. Facevano ri­ torno consapevoli della loro insoddisfazione e del loro ardente desiderio di cambiare il proprio status, da sudditi a cittadini, da pubblici impiegati di bas­ so livello a leader dei loro popoli. Fra i venti e i trent’anni, guadagnando au­ tonomia, presero in mano le redini del governo senza alcuna esperienza prece­ dente, promettendo libertà, uguaglianza e indipendenza». * “ Si veda e.g. P. J. Williamson, Varieties ofCorporatism. A Conceptual Discussion, Cambridge University Press, Cambridge 1985; ma anche T. H. Marshall, Cit­ tadinanza e classe sociale, Utet, Torino 1976, passim, spec. pp. 9-199 (trad. it. da Sociology at the Crossroad, Heinemann, London 1963). Esemplare, B. R. Barber, L'impero della paura, Einaudi, Torino 2004, pp. 248 sg. (trad. da Fear’s Empire. War, Terrorism and Democracy, Norton, New York 2003). Si veda anche supra, Cap. 3, § 4 e, in generale, J. T. Landa, Trust, Ethnicity, and Identity cit., passim. Utili ai nostri fini, e multis, R. Sacco, Langue et droit, in Rapports nationaux italiens au xVm Congrès International de Droit Compare Bristol 1998, Giuffrè, Mi­ lano 1998, pp. r sgg.; A. Ross, Tù-tù, in Festskrift tilHenry Ussing, Borum og

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Ilium, Kobenhavn 1951, pp. 468 sgg., e poi in molti luoghi, fra cui U. Scar­ pelli e P. Di Lucia (a cura di), Il linguaggio del diritto, Led, Milano 1994, pp. 119 sgg.; J.-C. Gémar e N. Kasirer (a cura di), Jurilinguistique:entre langues et droits / jurilinguistique Between Law and Language, Bruylant-Thémis, BrusselsMontreal 2005. 414 Si veda M. Ignatieff, Una ragionevole apologia cit., pp. 37 sg. Ma si veda an­ che, con specifico riguardo alle società africane, supra, Cap. 3, § 5. Si veda anche più avanti, in questo Capitolo, § 3 e, fin d’ora, per una panora­ mica delle questioni aperte a livello globale, S. S. C. Tay, Trade, the Environ­ ment, and Labor: Text, Institutions and Context, in W. Martin e M. Pangestu, Options for Global Trade Reform. A View from the Asia-Pacific, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge 2003, pp. 280 sgg. Si veda anche supra, Cap. 3, § 4. Vale poi la pena di ricordare la decisione del Consiglio di Stato francese - Commune de Morsang-sur-Orge, del 27 ottobre 1995, in Rec. Lebon, 1995, 372; ma riportato anche da A. Cassese, I diritti umani oggi cit., p. 57 -, in cui si è stabilito che il rispetto della dignità della persona umana deve essere considerato un precetto di ordine pubblico, invio­ labile persino da parte del suo stesso titolare. Si trattava di un soggetto affet­ to da nanismo che aveva accettato, contro corrispettivo, di essere lanciato a turno dai clienti di una discoteca di provincia, i quali gareggiavano fra loro per raggiungere la distanza più elevata. In argomento, si veda pure A. Massaren­ ti, Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima, Guanda, Parma 2006, PP- 7 sg. *’ Per spunti ulteriori, si veda ad esempio C. Douzinas, Human Rights and Em­ pire .The Political Philosophy of Cosmopolitanism, Routledge-Cavendish, Lon­ don 2007, pp. 48 sg., 290; M. C. Nussbaum, Diventare persone àt., spec. Cap. il, pp. 141 sgg.; A. Shachar, Privatizing Diversity : A Cautionary Tale from Re­ ligious Arbitration in Pamily Law, in «Theoretical Inquiries in Law», 9 (2008), n. 2, art. 11, pp. 573 sgg. Si vedano le illustrazioni raccolte in A. Pottage e M. Mundy (a cura di), Law, Anthropology, and the Construction of the Social, Cambridge University Press, Cambridge 2004. Per qualche ulteriore esemplificazione, infra, Cap. 12, §§ 2-3. 4M Si veda eg., T. Pogge, Group Rights and Ethnicity, in I. Shapiro e W. Kymlicka (a cura di), Ethnicity and Group Rights, New York University Press, New York - London 1997, pp. 187, 210 sgg.; e cfr. W. Kymlicka, Liberalism, Com­ munity and Culture, Clarendon, Oxford 1989, p. 186; S. Benhabib, I. Shapi­ ro e D. Petranovic, Editor's Introduction, in Id. (a cura di), Identities cit., pp. 1 sgg.; S. Maffettone, Diritti umani e diversità culturale, in A. Sen, P. Fassino e S. Maffettone (a cura di), Giustizia globale, il Saggiatore, Milano 2006, pp. 47, 64 sgg. Per uno scorcio impressionistico, utile soprattutto a cogliere alcu­ ne articolazioni del fenomeno, S. Godin, Tribes, Penguin, New York 2008. 4M Sul punto, si veda per tutti, P. Bruckner, Fundamentalismus der Aufklarung oder Rassismus der Antirassisten?, in T. Chervel e A. Seeliger (a cura di), Islam in Europa. Eine Internationale Debatte, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2007, pp. 55, 62: «Il multiculturalismo garantisce lo stesso trattamento a tutte le co­ munità, ma non alle persone che le costituiscono, negando a queste ultime la libertà di abbandonare le loro proprie tradizioni ... riconoscimento del grup­ po, oppressione dell’individuo» [t.d.a.J; Y. Ben-Shemesh, Law and Internai Cultural Conflicts, in «Law & Ethics of Human Rights», 1 (2007), n. 1, art. 9, a: www.bepress.com/lehr/vol1/iss1/art9; e, sempre utili, B. Barry, Culture and Equality, Polity, Cambridge 2001, passim e pp. 292 sgg.; J. Habermas, Tra scienza efede, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 198 sgg. (trad. it. da Zwischen Na-

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Note

turalismus und Religion, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005). Sull’utilizzo di canoni differenziati nel giudicare condotte criminose, in ragione dell’identità culturale del reo, si veda eg., per l’esperienza (soprattutto) statunitense, A. Dundes Renteln, The Cultural Defense (2004), Oxford University Press, Oxford - New York 2005; da noi, A. Bernardi, Modelli penali e società multiculturale, Giappichelli, Torino 2006. 471 S. E. Merry, Transnational Human Rights and Local Activism : Mapping the Mid­ dle, in «American Anthropologist», 108 (2006), n. 1, pp. 38, 44. Ma si veda anche, significativamente, R. O’Brien, Global Financial Integration : The End of Geography, Council on Foreign Relations Press, New York 1992. m Sulla contrapposizione fra diritti e cultura, fin d’ora, per i primi riferimenti allo sconfinato dibattito, J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R, A. Wilson, Intro­ duction, in Id. (a cura di), Culture and Rights. Anthropological Perspectives, Cam­ bridge University Press, Cambridge 2001, pp. 2-4. 4” O, come accade in molti contesti, a un relativismo auto-identitario, che fa un uso opportunistico del fattore ‘tempo’, chiamando radici ciò che - in assenza di analisi circa il dinamismo di qualsiasi storia (inclusa quella dei rapporti fra l“altro’ e il ‘noi’) - è, in realtà, un’agenda, un progetto. 474 Ad esempio: per i dati che testimoniano come il grande risalto da offrire, e poi effettivamente offerto ai diritti umani, nel discorso politico, e pubblico più in generale, fosse un obiettivo strategico lucidamente perseguito dagli Usa del se­ condo dopoguerra, fra i tanti, Y. Dezalay e B. G. Garth, The Internationaliza­ tion of Palace Wars: Lawyers, Economists and the Contest to Transform Latin American States, University of Chicago Press, Chicago-London 2002, pp. 62 sgg., 127 sgg. Ma si veda anche L. Baccelli, What Are They Fightingfor? Dirit­ ti umani, valori americani e interesse nazionale nella politica estera degli Stati Uni­ ti, a: www.juragentium.unifi.it; e supra, Cap. 5, § 4. 4” Emultis, E. Hatch, The Good Side ofRelativism, in«J. Anthr. Res.», 53 (1997), pp. 371. Ma, sul punto, si veda pure infra, Cap. 13, § 4. 474 Si veda già J. H. Steward, Comments on the Statement on Human Rights, in «American Anthropologist», 50 (1948), p. 351; e poi, eg., C. Taylor, Condi­ tions of an Unforced Consensus on Human Rights, in J. R. Bauer e D. A. Bell (a cura di), The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 124 sgg. 477 Sul punto, eg., S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mon­ diale (1997), Garzanti, Milano 2004, pp. 285 sgg. (trad, da The Clash of Civi­ lization and the Remaking of the World Order, Simon and Schuster, New York 1996); B. von Alberini Mason, The Case for Liberal Democracy in China, Schulthess, Ziirich 2005, pp. 84 sgg.; ma cfr. già K. A. Wittfogel, Orientai Despotism. A Comparative Study of Total Power, Yale University Press, New Haven 1957. Non manca ovviamente chi scorge in queste proclamazioni mo­ tivi di ordine politico interno (in argomento, fra i tanti, J. R. Bauer e D. A. Bell, Introduction, in J. R. Bauer e D. A. Bell (a cura di), The East Asian Chal­ lenge cit., pp. 3 sg.). L’atteggiamento dei governi dell’Estremo Oriente verso i diritti umani dovrebbe allora esser letto come una forma di reazione alle pres­ sioni occidentali per l’applicazione delle norme internazionali sui diritti e, con­ temporaneamente, come una legittimazione del modello politico esistente. Si veda anche A. Ehr-Soon Tay, l‘valori asiatici’ e il rule of law, in P. Costa e D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto cit., pp. 683, 702 sg. D. A. Bell, East Meets West: Human Rights and Democracy in East Asia, Princeton University Press, Princeton 2000, pp. 49 sgg.; oppure A. J. Langlois, The Politics ofJustice and Human Rights. Southeast Asia and Universalist Theory, Cambridge University

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Press, Cambridge 2001, passim, spec. pp. 12 sgg., 46 sgg.; S. C. Angle, Hu­ man Rights and Chinese Thought, A Cross-Cultural Inquiry, Cambridge Univer­ sity Press, Cambridge 2002. m Si vedano ad esempio supra, nota 426, i lavori di V. P. Nanda, Masao Abe, J. Chan, J. R. Bauer e D. A. Bell. A. Sen, eg: Human Rights and Asian Values, Sixteenth Morgenthau Memo­ rial Lecture on Ethics & Foreign Policy, 1997 (Carnegie Council on Ethics and International Affairs, New York 1997), trad. it. in Id., Laicismo indiano (introd, e cura di A. Massarenti), Feltrinelli, Milano 1998, pp. 147 sgg.; J. Donnelly, Universal Human Rights in Theory and Practice, Manas, New Delhi 20051, pp. 79 sgg., 108 sgg.; A. Harding, Buddhism, Human Rights and Con­ stitutional Reform in Thailand, in «Asian Journal of Comparative Law», 2 (2007), n. 1, art. 1; S. C. Angle, Human Rights and Harmony, in «Human Rights Quarterly», 30 (2008), pp. 76 sgg. "° Si veda eg. A. E. Mayer, Islam and Human Rights: Tradition and Politics, West­ view, Boulder 20074; oppure N. Othman, Rights of Women in Modem Islamic State, in J. R. Bauer e D. A. Bell (a cura di), The East Asian Challenge cit., pp. 169, 273 sgg., secondo il quale, ad esempio, la nozione coranica di fitna che de­ finisce la comune natura umana, può essere invocata per sostenere la non estra­ neità alla cultura dell’IsIam del fondamentale principio di eguaglianza. Si veda anche M. Khatami, Religione, libertà e democrazia, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 65 sgg., 122 sgg.; R. Bahlul, Prospettive islamiche del costituzionalismo, in P. Costa e D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto cit., pp. 617 sgg.; per una sinte­ tica e utile valutazione comparativa circa la collocazione dell’individuo nella ci­ viltà occidentale e in quella islamica, E. Gellner, Le condizioni della libertà. La società civile e i suoi rivali, Comunità, Milano 1996, pp. 21 sgg. (trad. it. di The Conditions of Liberty, Penguin, East Rutherford 1994). Su questi temi, da noi, eg., S. Ceccanti, Una libertà comparata. Libertà religiosa, fondamentalismi e so­ cietà multietniche, il Mulino, Bologna 2001, spec. pp. 33 sgg. 481 Per i riferimenti: A. E. Mayer, Shifting Grounds for Challenging the Authority ofInternational Human Rights Law : Religion as Malleable and Politicized Pretext for Governmental Noncompliance with Human Rights, in A. Sajó (a cura di), Human Rights with Modesty: The Problem of Universalism, Koninklijke Brill NV, Leiden-Boston 2004, pp. 349 sgg. 482 Si veda, in generale, A. A. An-Na‘im, Islam and Human Rights .Beyond the Uni­ versality Debate, Proceedings of the 94th Annual Meeting of the American So­ ciety of International Law (2000), William S. Hein & Co., Washington D.C. 2001, pp. 95, 97 sg.; T. Ramadan, La riforma radicale. Islam, etica e liberazio­ ne, Rizzoli, Milano 2009, passim e pp. 341 sgg. (trad, da Radical Reform. Islam­ ic Ethics and Liberation, Oxford University Press, Oxford - New York 2009); e poi B. G. Weiss, The Spirit of Islamic Law, University of Georgia Press, Athens-London 1998, passim epp. 186 sgg.; e il volume 4, n. 1 «Muslim World Journal of Human Rights» 2007, dedicato al tema The Transnational Muslim World, Human Rights, and the Rights of Women and Sexual Minorities (Guest ed. A. Chase), e ivi, in partic., A. E. Mayer, The Islam and Human Rights Nexus : Shifting Dimensions (art. 4). Si veda anche supra, Cap. 3, § 6. 484 Per esempio, N. Othman, Rights of Women in Modem Islamic State, in J. R. Bauer e D. A. Bell (a cura di), The East Asian Challenge cit., pp. 169, 171 sgg.; G. E. Fuller, TheFutureofPoliticallslam, in «Foreign Affairs», 81 (2002), n. 2, pp. 48 sgg.; P. Marshall (a cura di), Radical Islam’s Rules. The Worldwide Spread of Extreme Shan a Law, Rowmon & Littlefield, Lonham 2005.

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Note

4!! Si veda, e multis, B. Lewis, Islam and Liberal Democracy : A Historical Over­ view, in «Journal of Democracy», 7 (1996), n. 2, pp. 52-63; E. Said, A Clash of Ignorance, in«The Nation», 273 (22 ottobre 2001), n. I2;J. Donnelly, Uni­ versal Human Rights in Theory and Practice, Manas, New Delhi 2005', pp. 72 sgg.; R. M. Feener, Muslim Legal Thought in Modem Indonesia, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge - New York 2007; D. Anselmo, Shari'a e diritti uma­ ni, Giappichelli, Torino 2007; G. Caracciolo, Diritti umani ed Islam, Giappi­ chelli, Torino 2006, pp. 77 sgg. Fra i moltissimi, di recente, Th. McCarthy, Race, Empire, and the Idea of Hu­ man Development, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2009, passim e pp. 48 sgg., 180 sgg. XH. LE PRATICHE (pp. 152-69)

Si vedano infatti le opere cit. alle note seguenti. 4M L’istruttiva lettura di tali riserve è possibile a: untreaty.un.org. 4!’ Standard of Conduct for Interrogation under 18 U.S.C. §§ 2340-2340A, Me­ morandum from J. S. Bybee, Assistant Attorney General, for Alberto Gonza­ les, Counsel to the President, August 1, 2002. Il documento si legge in K. J. Greenberg e J. L. Dratel, The Torture Papers. The Road to Abu Ghraib, Colum­ bia University Press, New York 2005, pp. 172 sgg. In argomento, anche M. Normak, What Practices Constitute Torture: US and UN Standards, in «Human Rights Quarterly», 28 (2006), pp. 809 sgg.; P. Sands, «Lawless World»:Amer­ ica and the Making and Breaking of Global Rules from FDR's Atlantic Charter to George W. Bush’s Illegal War, Viking Penguin, New York - London 2005, pp. 205 sgg. 4W Si veda R. K. Vischer, Legal Advice as Moral Perspective, in «Geo. J. Legal Ethics», 19 (2006), pp. 225, 232 sg. 4,1 Standard of Conduct for Interrogation under 18 U.S.C. §§ 2340-2340A, Me­ morandum from J. S. Bybee, Assistant Attorney General, for Alberto Gonza­ les, Counsel to the President, August 1, 2002, in K. J. Greenberg e J. L. Dra­ tel, The Torture Papers cit., p. 176. 4” Eg., S. D. Murphy, US. Abuse ofIraqi Detainees at Abu Ghraib Prison, in «Am. J. Int’l L.», 98 (2004), pp. 595-96; O. Z. Bekerman, Torture - The Absolute Prohibition of a Relative Term-Does Everyone Know What Is in Room 101?, in «Am. J. Comp. L.», 53 (2005), pp. 743, 774 sg.; K. J. Greenberg (a cura di), The Torture Debate in America, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2006; e G. J. Annas, Human Rights Outlaws: Numberg, Geneva, and the GlobalLaw on Terror, in «Boston U. L. Rev.», 87 (2007), pp. 433-34; K. Roo­ sevelt III, Detention and Interrogation in the Post-9/11 World, University of Pennsylvania Law School - Scholarship at Penn Law, Paper 227, 2008. 4” Beneficial Professor of Law presso la Harvard Law School, e già Solicitor Gen­ eral of the United States (colui che rappresenta il governo federale dinanzi al­ la Corte Suprema). 4,4 E. Posner è Kirkland and Ellis Professor of Law, presso la University of Chi­ cago Law School. A. Vermeule è ora Professor of Law alla Harvard Law School. 4” Le citazioni sono tratte da R. K. Vischer, Legal Advice cit., rispettivamente a pp. 225 e 226-27. Si veda ora il duro giudizio sugli autori dei ‘Memo’, centra­ to sulla loro mancanza «to provide thorough objective and candid legal advi­ ce, even if that advice is not what the clients want to hear», nel rapporto del

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Department of Justice, Office of Professional Responsibility, Investigation in­ to the Office of Legal Counsel’s Memoranda Concerning Issues Relating to the Central Intelligence Agency’s Use of «Enhanced Interrogation Techni­ ques» on Suspected Terrorists, July 29, 2009 (spec. pp. 30 sgg., 159 sgg., 234 sgg., la citazione è a p. 21), divulgata dal «New York Times» il 20 febbraio 2010 e raggiungibile da: www.nytimes.com. ”* Su cui, in generale, I. de la Rasilla del Moral, The Increasingly Marginal Appre­ ciation of the Margin-of-Appreciation Doctrine, in «German L. J.», 7 (2006), p. 611; M. R. Hutchinson, The Margin of Appreciation Doctrine in the European Court of Human Rights, in «Int’l & Comp. L. Quart.», 48 (1999), p. 638; S. Cassese, 1 tribunali di Babele. 1 giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Donzelli, Roma 2009, pp. 58 sgg. *” Otto Preminger Institutes. Austria, Judgement of 20 September 1994, Series A, n. 295-A; 19 European Human Rights Report 1995, p. 34 [t.d.a.]. I. de la Rasilla del Moral, The Increasingly cit., pp. 613-14. m Sul punto, si vedano le indicazioni e le osservazioni di H. J. Steiner, P. Alston e R. Goodman, International Human Rights in Context. Law, Politics, Morals, Oxford University Press, Oxford - New York 2008’, pp. 655 sgg.; nonché M. Barberis, Europa del diritto, il Mulino, Bologna 2008, pp. 214 sg.; e, più in ge­ nerale, V. Zeno Zencovich, Freedom of Expression : A Critical and Comparative Analysis, Routledge-Cavendish, Abingdon - New York 2008, pp. 90 sgg. Tec­ nicamente e culturalmente differenti sono le coordinate su cui la stessa Corte si è mossa nella decisione del caso Lautsie v. Italia, il 3 novembre 2009. Req. n. 30814/06 (il caso verteva sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche in cui sedevano i figli minorenni della ricorrente, presenza ritenuta dalla Cor­ te in contrasto coll’art. 2 del r° Protocollo addizionale alla Convenzione, esa­ minato congiuntamente all*art. 9 della Convenzione medesima). Sotto il profi­ lo tecnico la Corte non ha qui ritenuto di dover poggiare i propri argomenti sul­ la dottrina del ‘margine di apprezzamento’. Dal punto di vista culturale, in Lautsie in gioco era - non un’azione considerata lesiva dei valori localmente maggioritari, ma - una istanza difensiva ‘da’ quegli stessi valori, nella loro ac­ cezione religiosa declinata come tradizionale. Si veda, anche per i riferimenti al dibattito, S. Mancini, La supervisione europea presa sul serio : la controversia sul crocifisso tra margine di apprezzamento e ruolo contro-maggioritario delle Corti, a: www.associazionedeicostituzionalisti.it, e poi G. D’Elia, Il Crocifisso nelle au­ le scolastiche : un paradosso che non resiste all’Europa; A. Schuster, Una ‘ratatouil­ le’,perfavore'. , nota a Lautsi v. Italia, entrambi a: www.forumcostituzionale.it. Si veda peraltro J. H. H. Weiler, Diritti umani, costituzionalismo ed integrazio­ ne: iconografia e feticismo, in «Quad, cost.», 3 (2002), pp. 521, 528, ove l’au­ tore s’interroga - in una prospettiva che abbiamo più in generale rilevato as­ sai utile (supra, Cap. 4, § 1) — se inserendo la Carta dei diritti fondamentali dell’UE (ora incorporata dall’art. 1 del Trattato di Lisbona entro Part. 6 del Trattato sull’UE) nell’ordinamento giuridico europeo non si sacrifichi «una delle caratteristiche veramente originali dell’architettura costituzionale preCarta nel campo dei diritti umani - la capacità di usare il sistema legale di cia­ scuno Stato membro come un laboratorio organico e vivente nella protezione dei diritti». Si veda J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson, Introduction, in Id. (a cura di), Culture and Rights. Anthropological Perspectives, Cambridge Univer­ sity Press, Cambridge zoor, p. 7; i dati raccolti dal 2008 Country Report on Human Rights Practices, Thailand, pubblicato il 25 febbraio 2009, a: www. state.gov; e quelli riportati dai lavori citati alle note seguenti, 503-6.

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Note

Circa l’i% nel 2000: The End of Child Labour: Within Reach, ILO, Geneva 2006, p. ii. Per un avvio della riflessione su queste interrelazioni, K. Basu, Eie Relè. L’India e le illusioni della democrazia globale, Laterza, Bari-Roma 2008, pp. 16 sgg. (trad, da The Retreat of Democracy and Other Itinerant Essays on Globalization Economics and India, Permanent Black, Delhi 2007), ove si segnala, ad esempio, come, sulla base di dati raccolti negli anni ’90 in Nepal, «uno studio dell’Unicef ha rivelato che i produttori di tappeti artigianali ne­ palesi hanno licenziato sbrigativamente molti bambini dalla forza lavoro, te­ mendo un boicottaggio internazionale dei loro prodotti, spingendo cosi diver­ se migliaia di bambine a darsi alla prostituzione» (ibid., p. 20). s” E.g., M. A. Muecke, Make Money Not Babies: Changing Status Markers of Northern Thai Women, in «Asian Survey», 24 (1984), n. 4, pp. 459, 468 sgg.; M. A. Muecke, Mother Sold Food, Daughter Sells Her Body: The Cultural Con­ tinuity of Prostitution, in «Social Science and Medicine», 35 (1992), n. 7, pp. 891 sgg.; S. Satha-Anand, Looking to Buddhism to Turn Back Prostitution in Thailand, in J. R. Bauer e D. A. Bell (a cura di), The East Asian Challenge for Human Rights, Columbia University Press, New York 1999 (rist. 2005), pp. 193 sgg.; Mei-Hua Chen, Selling Bodies - Selling Pleasure: the Social Organiza­ tion ofSex Work in Taiwan e A. Brody, Prostitution in Thailand:Perceptions and Realities: entrambi in G. Gangoli e N. Westmarland (a cura di), International Approaches to Prostitution:Law and Policy in Europe and Asia, Policy Press, Bri­ stol 2006, rispettivamente a pp. 165 e 185. Piu in generale, si veda anche L. M. Hanks jr, Merit and Power in the Thai Social Order, in «American Anthro­ pologist», 64 (1962), n. 6, pp. 1247 sgg. 5M Per un raffronto con la Malesia, in condizioni socio-economiche affini a quel­ le tailandesi (Commission on Growth and Development, The Growth Report Strategies for Sustained Growth and Inclusive Development, The World Bank, Washington D.C. 2008, p. 113), ma con tassi di prostituzione assai inferiori, e per la spiegazione centrata sul peso specifico delle direttive religiose, islami­ che in Malaysia e buddiste in Tailandia, si veda, anche per i riferimenti, J. R. Bauer e D. A. Bell, Introduction, in J. R. Bauer e D. A. Bell (a cura di), The East Asian Challenge cit., p. 16.1 precetti islamici - rilevano gli autori - cele­ brano il sesso all’interno del matrimonio e lo condannano fuori dal vincolo; il buddismo invece tende a denigrare l’atto sessuale indipendentemente dal con­ testo. La conseguenza è che le prostitute buddiste non porterebbero su di sé uno stigma peggiore di qualunque altra donna sessualmente attiva, sposata o no. Sul punto si veda anche A. A. An-Na‘im, Towards an Islamic Reformation : Islamic Law in History and Society Today, pp. 7,16 sgg. e A. Wadud-Mushin, The Qu'ran, Shari'a and the Citizenship Rights ofMuslim Women in the Umma, PP- 77 sgg-> entrambi in N. Otham, Sharia Law and the Modem State. A Ma­ laysian Symposium, SIS Forum (Malaysia) Berhad, Kuala Lampur 1994, rist. 1998. H. Montgomery, Imposing Rights? A Case Study of Child Prostitution in Thai­ land, in J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson (a cura di), Culture and Rights cit., pp. 80 sgg.; M. A. Muecke, Mother Sold Food, Daughter Sells Her Body cit., pp. 891 sgg. Su questi ultimi aspetti, fra i resoconti utili, S. Boonyabancha, Mainstreaming Community Led Processesfor Housing and Poverty Alleviation : The Development of CODI and the Baan Mankong Programme, a: www.community-planning.net; D. Tajgman (a cura di), Extending Labour Law to All Workers : Promoting De­ cent Work in the Informal Economy in Cambodia, Thailand and Mongolia, In­ ternational Labour Office, Bangkok 2006.

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507 Si veda www.juragentium.unifi.it. Public Law n. 104-208, 30 September 1996 (Sections 579, 644, and 645). Per una ricostruzione dettagliata degli eventi, si veda D. L. Coleman, The Seattle Compromise-.Multicultural Sensitivity and Americanization, in «Duke L. J.», 47 (1998), p- 717Si veda, per le classificazioni utili, il sito dell’organizzazione Mondiale della Sanità, www.who.int. Ivi, è reperibile pure la definizione convenzionale di ‘mutilazione genitale femminile’ elaborata dalla stessa OMS, per la quale «Fe­ male genital mutilation comprises all procedures involving partial or total re­ moval of the female external genitalia or other injury to the female genital or­ gans for non-medical reasons». In argomento, e in luogo di tanti, si veda Y. Bonnefoi, Dizionario delle mito­ logie e delle religioni, Rizzoli, Milano 1989, s.v. Circoncisione, pp. 299 sgg. (trad, da Dictionnaire des mythologies, FÌammarion, Paris 1981); S. McLean e S. E. Graham (a cura di), Temale Circumcision, Excision and Infibulation. The Facts and Proposals for Change, Minority Rights Group, Report n. 47, London 1985; A. Rahman e N. Toubia, Femdie Genital Mutilation. A Guide to Laws and Policies Worldwide, Zed Books, London - New York 2000; e, assai utile, E. Grande, Hegemonic Human Rights and African Resistance: Female Circum­ cision in a Broader Comparative Perspective, in «Global Jurist Frontiers», 4 (2004), n. 2, art. 3. sn M. Paganelli e F. Ventura, Una nuova fattispecie delittuosa: le mutilazioni geni­ tali femminili, in «Rassegna italiana di criminologia» (2004), pp. 453, 454 sg. 712 WHO, Progress in Sexual and Reproductive Health Research, n. 72, 2006. Per le campagne internazionali che promuovono il bando delle mutilazioni ge­ nitali femminili, si veda soprattutto il sito «No Peace Without Justice», a: www.npwj.org (e ivi pure la più recente dichiarazione «From Cairo to Ouaga­ dougou: Towards a Global Ban of Female Genital Mutilation», sottoscritta dai rappresentanti di 16 Stati africani, all’esito dell’High Level Meeting di Ouagadougou, 8-ro November 2009). A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 68; E. Grande, Hegemonic Human Rights cit. Si veda anche R. O. Hayes, Female Genital Mu­ tilation Fertility Control, Women's Role and the Patrilineage in Modem Sudan, in «American Ethnologist», 2 (1975), pp. 617, 618 sgg.; J. Boddy, Womb as Oa­ sis . The Symbolic Context of Pharaonic Circumcision in Rural Northern Sudan, in «American Ethnologist», 9 (1982), pp. 682, 685 sgg.; L. Favali, Fra legge e mo­ delli ancestrali : prime osservazioni sulle mutilazioni genitali in Eritrea, Giappichel­ li, Torino 2002; N. Ehrenreich e M. Barr, Intersex Surgery, Female Genital Cut­ ting, and the Selective Condemnation of ‘Cultural Practices’, in «Harv. Civil Rights - Civil Liberties L. Rev.», 40 (2005), p. 71, specialmente pp. 76 sg. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 76 (trad, da Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton University Press, Princeton 2001). Si veda peraltro M. Deckha, The Salience of Species Differ­ ence /or Fctwwms/TZieoty, in «Hastings Women’s L. J.», 17(2006), n. r,p. r6: «Typically in mainstream feminist theory, “women” referred to white, mid­ dle-class, heterosexual, able-bodied women, thus excluding women who were marginalized by differences based on constructs other than gender. Other “wo­ men” who were of color, lesbian, differently abled, elderly, non-Western or low-income were never invoked under the term “women”»; e J. A. Baer, The Global Impact of Feminist Legal Theory: Five Minutes of Global Feminism, in «T. Jefferson L. Rev.», 28 (2005), p. 93. Alla stessa stregua, si fa notare, leg­ gere «la violenza contro le donne come un’opposizione fra cultura e diritti as­

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Note sume che tutti questi comportamenti siano ‘culturali’ e che non ci sia dibatti­ to, all’interno delle società, quanto alla accettabilità di ciascuno di essi»: S. E. Merry, Changing Rights, Changing Culture, in J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson (a cura di), Culture and Rights. Anthropological Perspectives, Cam­ bridge University Press, Cambridge 2001, p. 38 [t.d.a.]. Davvero numerosi sono gli esempi che sfidano le percezioni comuni. Valga qui, e.g., il richiamo ai movimenti femministi della Nigeria settentrionale che non intendono sfidare ciò che noi chiameremmo diseguaglianza di genere, puntan­ do invece all’implementazione dei diritti delle donne come affermati dalla sharì'a (H. J. Abdullah, Religious Revivalism, Human Rights Activism and the Struggle for Women's Rights in Nigeria, in A. A. An-Na‘im (a cura di), Cultural Transformation and Human Rights in Africa, Zed Books, London - New York 2002, pp. 169-71); cosi, «women’s human rights, in this context, become wom­ en’s rights under sharì'a»: S. E. Merry, Transnational Human Rights and Lo­ cal Activism : Mapping the Middle, in «American Anthropologist», 108 (2006), n. 1, pp. 38, 40. Si veda in questo medesimo senso la posizione espressa dall’Inter-African Com­ mittee on Traditional Practices Affecting the Health of Women and Children, Newsletter 14, July 1993, 6. In direzione diametralmente opposta - nel senso cioè dell’imposizione della responsabilità in capo ai genitori, e al medico - si veda invece la summenzionata legge Usa (Public Law n. 104-208, 30 Septem­ ber 1996, § 645), nonché quella italiana: 1. 9 gennaio 2006, n. 7, «Disposizio­ ni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genita­ le femminile», in partic. art. 6. Gli effetti deleteri della criminalizzazione del­ le mutilazioni genitali femminili sono stigmatizzati da una letteratura estesa, per la quale, eg., E. L. Han, Book Review : Legal and Non-Legal Responses to Concerns for Women's Rights in Countries Practicing Female Circumcision : De­ bating Women's Equality by Ute Gerhard, in «B. C. Third World L. J.», 22 (2002), pp. 2ox, 212; L. A. Obiora, Bridges and Barricades : Rethinking Polemics and Intransigence in the Campaign against Female Circumcision, in «Case W. Res. L. Rev.», 47 (1997), pp. 357-58; e, con particolare riguardo al rischio che ciò induca le comunità interessate a percorrere le strade della clandestinità, da noi, N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose, il Mulino, Bologna 2006, pp. 185 sg.; G. Brunelli, Prevenzione e divieto delle mutilazioni genitali femminili : genealogia (e limiti) di una legge, in «Quad, cost.» (2007), pp. 567, 573 sg.; B. Pastore, Pluralismo, fiducia,solidarietà. Questioni di filosofia del di­ ritto, Carocci, Roma 2007, pp. 19 sg. Su tutto ciò, in una letteratura vastissima, si veda C. Chipaux, Des mutilations, deformations, tatouages rituels et intentionnels chez l’homme, in J. Poirier (dir.), Histoire des moeurs, Gallimard, Paris 1990, vol. I, pp. 553-67; e da noi A. De­ stro (a cura di), Le politiche del corpo. Prospettive antropologiche e storiche, Patròn, Bologna 1994. Sulle mutevoli frontiere del c.d. bio-diritto, quale disci­ plina che indaga le regole relative al corpo e alle sue metamorfosi, si veda, sot­ to diversi angoli visuali, O. D. Jones e T. H. Goldsmith, Law and Behavioral Biology, in «Colum. L. Rev.», 105 (2005), pp. 405-502; C. Casonato, Intro­ duzione al biodiritto. La bioetica nel diritto costituzionale comparato, in «Qua­ derni del Dipartimento di Scienze Giuridiche», Trento 2006; e già S. Rodotà, Questioni di bioetica, Laterza, Bari-Roma 1993. Come prova l’enorme diffusione anche in Occidente del tatuaggio, del pierc­ ing e di varie forme di modellazione chimica e chirurgica del corpo. Nel corso dell’ottocento, sia in Europa che negli Stati Uniti, l’ablazione del clitoride e la circoncisione maschile erano usate come rimedio alla masturbazione. La clitoridectomia era usata anche come cura dei disturbi psichici, come l’isteria,

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l’epilessia e la ninfomania. Nell’Inghilterra vittoriana l’asportazione del clito­ ride era adottata da una parte della medicina ufficiale ed è stata praticata ne­ gli ospedali psichiatrici sino ai primi decenni del secolo scorso. Anche «per Sig­ mund Freud, è noto, l’eliminazione della sessualità clitoridea era un requisito indispensabile per lo sviluppo di una femminilità matura»; D. Zolo, Infibula­ zione e circoncisione, a: www.juragentium.unifi.it. Si veda poi, fra gli altri, C. Pasquinelli, Infibulazione. Il corpo violato, Meltemi, Roma 2007, spec. pp. 67 sgg.; O. Nnaemeka, If Female Circumcision Did Not Exist, Western Feminism Would Invent It, in S. Perry e C. Schenck (a cura di), Eye to Eye. Women Practis­ ing Development Across Cultures, Zed Books, London - New York 2001, pp. 171 sgg. Negli Usa si segnala che il 60-70% degli adulti è stato circonciso da neonato. Si veda (anche per considerazioni riguardanti la diffusione della pratica in Au­ stralia e in Canada) J. P. Warren, NORM UK and the Medical Case against Cir­ cumcisions British Perspective, in G. C. Denniston e M. F. Milos (a cura di), Sexual Mutilations. A Human Tragedy, Plenum Press, New York - London 1997, pp. 85, 92; E. Grande, Hegemonic Human Rights cit. Fuori dall’occidente non sempre è cosi: si vedano ad esempio i dati raccolti in punto di morti e gravi malattie conseguenti alla circoncisione maschile in Su­ dafrica, da G. C. Denniston e M. F. Milos, Preface, in Id. (a cura di), Sexual Mutilations cit., pp. v-vi. D. Zolo, Infibulazione e circoncisione cit. Ibid.-, si veda anche E. Grande, Hegemonic Human Rights cit.; e poi J. Rogers, Flesh Made Law :The Economics of Female Genital Mutilation Legislation, in A. Orford (a cura di), International Law and Its Others, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2006, pp. 357 sgg.; e cfr. M. Fusaschi, Isegni sul corpo cit., pp. 123 sgg.; G. Cassano e F. Patruno, Mutilazioni genitali fem­ minili, in «Famiglia e diritto» (2007), n. 2, pp. 194 sgg. 514 U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 1994’, p. 214. In questa direzione si veda, fra gli altri, The Centre on Housing Rights and Evictions, Bringing Equality Home: Promoting and Protecting the Inheritance Rights of Women: A Survey of Law and Practice in Sub-Saharan Africa, COHRE, Geneva 2004, spec. p. 73. Nell’art. 7 della stessa legge italiana 9 gen­ naio 2006, n. 7, «Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile», si legge: «comunque senza nuo­ vi o maggiori oneri per lo Stato, sono previsti, in accordo con i Governi in­ teressati, presso le popolazioni locali, progetti di formazione e informazio­ ne diretti a scoraggiare tali pratiche nonché a creare centri antiviolenza che possano eventualmente dare accoglienza alle giovani che intendano sottrar­ si a tali pratiche ovvero alle donne che intendano sottrarvi le proprie figlie o le proprie parenti in età minore». Sul punto, eg., G. Cassano e F. Patru­ no, Mutilazioni genitali femminili, in «Famiglia e diritto» (2007), n. 2, pp. 192 sgg. Del resto, senza prendere le distanze da un’idea di ‘donna’ (o di ‘uomo’) co­ me entità universali e omogenee nel tempo, o dall’idea che esiste un prototi­ po di donna (o di uomo) sui cui interessi si possano modellare le nostre aspira­ zioni, non solo si resta lontani dal realizzare come noi, le altre, gli altri, siano categorie sempre culturalmente e storicamente determinate, ma soprattutto ci si priva degli strumenti utili a supportare gli interessi concreti delle donne e promuoverne l’affermazione proprio sul piano dei diritti. Diritti la cui appli­ cazione dovrebbe essere sensibile al contesto loro proprio, al fine minimo di coniugare i diversi bisogni delle diverse identità. In questi termini, A. Grif-

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Note

fiths, Gendering Culture: Towards a Plural Perspective on Kwena Women’s Rights, in J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson (a cura di), Culture and Rights cit., p. 120; egiàC. Pateman, The Disorder of Women. Democracy, fe­ minism and Political Theory, Stanford University Press, Stanford 1989, passim e p. 125; M. Strathern, No Nature, No Culture: The Hagen Case, in C. P. MacCormack e M. Strathern (a cura di), Culture and Gender, Cambridge Univer­ sity Press, Cambridge 1980, pp. 174 sgg. M. Fusaschi, I segni sul corpo cit., pp. 139 sgg. In generale, per l’indispensabi­ lità di quel consenso libero e informato, si veda soprattutto M. Colchester e F. Mackay, In Search of Middle Ground: Indigenous Peoples, Collective Repre­ sentation and the Right to Free, Prior and Informed Consent, Paper presented to the 10th Conference of the International Association for the Study of Com­ mon Property Oaxaca, August 2004, disponibile, fra i molti luoghi, a: www.forestpeoples.org; ma si veda anche A. Cassese, Idiritti umani oggi cit., pp. 70 sg.; M. Ignatieff, Una ragionevole apologia cit., pp. 23 sg. Per un esempio di suc­ cesso dell’approccio delineato al testo, M. Melching, Abandoning Female Ge­ nital Cutting in Africa, in S. Perry e C. Schenck (a cura di), Eye to Eye. Women Practising Development Across Cultures cit., pp. 156 sgg. Si veda anche la United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, A/RES/61/295, del 13 settembre 2007, al suo art. 29: «1. Indige­ nous peoples have the right to the conservation and protection of the envi­ ronment and the productive capacity of their lands or territories and resour­ ces. States shall establish and implement assistance programmes for indige­ nous peoples for such conservation and protection, without discrimination. 2. States shall take effective measures to ensure that no storage or disposal of hazardous materials shall take place in the lands or territories of indige­ nous peoples without their free, prior and informed consent. 3. States shall also take effective measures to ensure, as needed, that programmes for mo­ nitoring, maintaining and restoring the health of indigenous peoples, as de­ veloped and implemented by the peoples affected by such materials, are duly implemented». Si veda C. Samson, Rights as the Reward for Simulated Cultural Sameness: The Innu in the Canadian Colonial Context, in J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson (a cura di), Culture and Rights cit., pp. 226, 229 sgg. ”* C. Samson, Rights as the reward cit., p. 231. ”* Sul punto si veda anche W. Kymlicka, Liberalism, Community, and Culture, Oxford University Press, Oxford 1989, pp. 146 sg., 183 sg., 189; Y. Tamir, Liberal Nationalism, Princeton University Press, Princeton 19953, pp. 146 sg., 149 sg.; R. Hardin, Subnational Groups and Globalization, in K. Dowding, R. E. Goodin e C. Pateman (a cura di), Justice & Democracy, Cambridge Univer­ sity Press, Cambridge 2004, p. 186; B. W. Morse, S. Reynolds e A. Ronson, Anche gli inuit hanno una voce, in «Limes» (2008), Quaderno speciale Partita al Polo, suppl. al n. 3, p. 63 sgg. Per una dura contestazione della vicenda si veda, eg., il rapporto dell’Assembly of First Nations (Violations of Law and Human Rights by the Govern­ ments of Canada and Newfoundland in Regard to the Mushuau Innu: A Doc­ umentation of Injustice in Utshimasits (Davis Inlet), Ottawa, 1993), secondo cui «the federal and Newfoundland governments have repeatedly failed to meet even the most minimum human rights standards» (p. 57). Tutte queste distinzioni, come vedremo, non sono però nette come potrebbe sembrare, né dal punto di vista teorico, né da quello operativo. Non sfugge come ogni au­ to-rappresentazione di identità culturale, le altrui come le nostre, possano es­

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sere frutto di una fra le molte possibili interpretazioni della propria storia e che, soprattutto, tali rappresentazioni possono essere adattate alla protezione di interessi contingenti. Si veda pure il n. 3(1-2) di «Identities: Global Studies in Culture and Power» (1996) (e ivi in particolare i saggi di J. Beckett, pp. x sgg.; M. Rogers, pp. 73 sgg.; J. Friedman, pp. 127 sgg.). Per un esempio di co­ me gli standard normativi internazionali contribuiscano a dare forma concre­ ta ai movimenti di rivendicazione dei diritti delle popolazioni indigene, si ve­ da, con particolare riferimento ai nativi del Guatemala, R. Sieder e J. Witchell, Advancing Indigenous Claims through the Law: Reflections on the Guatemalan Peace Process, in J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson (a cura di), Cul­ ture and Rights cit., pp. 201 sgg. Le autrici osservano come, seppure la lotta per il riconoscimento dei diritti culturali vada intesa come risposta a una lun­ ga storia di discriminazioni, quegli standard finiscano per favorire l’adozio­ ne, da parte degli attivisti nazionali, di una strategia «essenzialistica», ossia tesa a far sempre valere l’immutabilità di un ‘oggi’ erede del passato - aspet­ to particolarmente evidente, ad esempio, nella proiezione idealizzata dell’an­ tico diritto consuetudinario maya (si veda in partic. pp. 213 sg.). L’effetto complessivo di queste reificazioni è - secondo le studiose - quello di rappre­ sentare solo parzialmente la complessa realtà sociale in cui le comunità indi­ gene sono calate, e di produrre un’ulteriore marginalizzazione dei loro mem­ bri dalla piu ampia società guatemalteca. Per una rassegna di casi in cui a es­ sere in gioco è il conflitto tra integrazione, o sviluppo economico, e identità indigene, P. Ratcliffe, ‘Race’, Ethnicity and Difference. Imagining the Inclusi­ ve Society, Open University Press, Maidenhead 2004; P. Macklem, Indigeni, in M. Flores (dir.), Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nel­ l’epoca della globalizzazione. Dizionario, Utet, Torino 2007, pp. 737, 743 sgg. Si veda anche infra, nota 542 e, in generale, sempre assai utili, E. Hobsbawm e T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1987, rist. 2002 (trad, da The Invention ofTradititon, Cambridge University Press, Cambridge 1983); W. Sollors (a cura di), The Invention of Ethnicity, Oxford University Press, New York - Oxford 1989 (e in particolare l’Introduzione del curatore, pp. xx sgg.); A. L. Epstein, Ethnos and Identity. Three Studies in Eth­ nicity, Tavistock, London 1978 (trad. it. L’identità etnica. Tre studi sull’etnicità, Loescher, Torino 1983); E. Tonkin, M. McDonald e M. Chapman (a cu­ ra di), History and Ethnicity, Routledge, London - New York 1989; U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco (1998), Carocci, Roma 2003“. ”J « It is ironie that much of the concern with the supposed consequences of glob­ alization is [the] relatively paternalistic concern by wealthy Westerners for ‘protections’ of cultural groups, many of them in the Third World or other­ wise still outside the main flood of the global economy, and that those protec­ tions would generally be strictures on members of those groups, strictures that the proponents of protection would adamantly refuse for themselves»: R. Har­ din, Subnational Groups and Globalization cit., p. 194. ”* Si veda la storia del progetto a www.iadb.org; e poi R. Kuppe, Pluralismo juridico en el neoliberalismo? Unas reflexiones criticas sobre elproyecto CAMISEA de la Amazonia peruana, in M. Castro Lucie (a cura di), XII Congreso International. Derecho consuetudinario y pluralismo legal: desaftos en el tercer milenio, vol. I, Universidad de Chile - Universidad de Tarapacà, Santiago 2000, pp. 394 sgg. M. B. Likosky, Law Infrastructure, and Human Rights, Columbia University Press, New York 2006, pp. 114 sgg.; e poi: www.bicusa.org. Svariate iniziative sono state promosse, a vari livelli, al fine di incanalare i comportamenti delle multinazionali verso pratiche di rispetto dei diritti urna-

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Note

ni, dei diritti dei lavoratori, della protezione dell’ambiente. Gli esiti si sono raccolti intorno a una serie di ‘soft law codes of conduct’ («[A] kind of regu­ latory gesture ... required to help defuse mounting public concern about the lack of accountability of MNEs within the international economic system»). Si tratta di ‘gesti regolatori’ alla cui adozione ha probabilmente contribuito il timore che «interference by MNEs might provoke hostile reactions in devel­ oping states and possibly lead to the imposition of restrictions on the rights of foreign investors», ma che certo valgono assai più come meritoria attività se­ gnaletica di un impegno verso l’opinione pubblica mondiale, che come sforzo di costruzione di paradigmi giuridici dotati di effettività. Per una panoramica sugli esiti di tali iniziative, G. Schuler, Effective Governance through Decentral­ ized Soft Implementation: The OECD Guidelines for Multinational Enterprises, in «German L. J.», 9 (2008), pp. 1753 sgg. (da cui sono tratte le citazioni, a p. 1757); 1 tre volumi del Rapporto «Corporate Complicity in International Crimes», reso pubblico il 16 settembre 2008 dall"Expert Legai Panel’ costi­ tuito in seno alla ‘International Commission of Jurists’ (i volumi sono a: www.business-humanrights.org); B. Scholtens e L. Dam, Banking on the Equa­ tor. Are Banks that Adopted the Equator Principles Differentfrom Non-Adopters?, in «World Development», 35 (2007), pp. 1307-28; K. M. Leisinger, Capital­ ism with a Human Face: The UN Global Compact, in «J. Corp. Citizenship», 28 (2007), pp. 1 sg.; J. A. Zerk, Multinationals and Corporate Social Responsi­ bility, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2006. Da noi, so­ prattutto, L. Gallino, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l'e­ conomia, Einaudi, Torino 2009, pp. 72 sgg.; e S. Cassese, I tribunali di Babe­ le. 1 giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Donzelli, Roma 2009, pp. 16 sgg.; ma anche F. Denozza, L’etica delle relazioni intemazionali, in N. Boschiero e R. Luzzatto (a cura di), I rapporti economici intemazionali e l’evoluzione del loro regime giuridico, Esi, Napoli 2008, pp. 123 sgg. Per critiche vibranti circa il moralistico supporto offerto al modello di ‘corporate social responsibil­ ity’, giudicato funzionale ai meri interessi delle imprese e distorsivo anche ri­ spetto ai compiti (di vigilanza e di attuazione delle regole) che dovrebbero ve­ nire assolti dagli Stati, R. B. Reich, Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia, Fazi, Roma 2008, pp. 196 sgg. (trad, da Supercapitalism. The Transformation ofBusiness, Democracy, and Everyday Life, A. A. Knopf, New York 2007) e, ibid., G. Rossi, Prefazione, p. x. Si veda, M. B. Likosky, Beyond Naming and Shaming: Towards a Human Rights Unitfor Infrastructure Projects, in Id. (a cura di), Privatising Development. Trans­ national Law, Infrastructure and Human Rights, Martinus Nijhoff, Leiden-Bos­ ton 2005, pp. 3, 15 sg., 20; C. A. Rodriguez-Garavito e L. C. Arenas, Indig­ enous Rights, Transnational Activism, and Legal Mobilization: the Struggle of the U’wa people in Colombia, in B. de Sousa Santos e C. A. Rodriguez-Garavito (a cura di), Law and Globalization from Below. Towards a Cosmopolitan Lega­ lity, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 241, 258 sgg. 538 Si veda di recente, per il rinnovato interesse della banca, www.exim.gov. M. B. Likosky, Law Infrastructure cit., p. 174. Piu in generale, per una valuta­ zione dei dati da bilanciare, in questa prospettiva, S. Joseph, Corporations and Transnational Human Rights Litigation, Hart, Oxford-Portland 2004, passim e pp. 101 sgg., 148 sgg.; R. W. Grant e R. O. Keohane, Accountability and Abus­ es ofPower in World Politics, in «Am. Pol. Sci. Rev.», 99 (2005), n. 1, pp. 29, 37 sg., 40; D. Litvin, Gli imperi del profitto, Garzanti, Milano 2007, soprat­ tutto Parte IV, pp. 263 sgg., 355 sgg. (trad. da Empires ofProfit, Texere, New York - London 2003). Per una vicenda analoga, che conferma - pur di fronte a pericoli comparativa­

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mente meno gravi di lesione ai diritti umani - come gli esiti possano variare a seconda delle circostanze, del contesto socio-economico, e delle conseguenti sensibilità dei governanti, si ricordi il caso che contrapponeva una società mi­ neraria canadese interessata allo sfruttamento di una zona adiacente il parco americano di Yellowstone, e una serie di associazioni ambientalistiche. Qui la vicenda si è conclusa in tempi relativamente brevi a favore di queste ultime, grazie a una decisione del World Heritage Committee dell’Unesco, che spin­ se l’amministrazione Clinton a negoziare con la società canadese un accordo che pose fine al progetto: T. McDonnell, Case Study of Ecosystem Management, the Biosphere Reserve Program, the World Heritage Program & the Wildlands Projects in the Greater Yellowstone Ecosystem, 2005, a: sovereignty.net. Si ve­ da anche S. Cassese, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Ei­ naudi, Torino 2009, pp. 39 sgg. Su questo specifico punto, non manca la discussione di alternative utili a mol­ te delle soluzioni, o teorizzazioni, avanzate fin qui. Si vedano ad es. le tracce di una nuova «good global environmental governance» delineate da D. C. Esty, Rethinking Global Environmental Governance to Deal with Climate Change: The Multiple Logics of Global Collective Action, in «Am. Econ. Rev.», 98 (2008), n. 2, pp. 116, 117 sgg. (sul punto, anche). D. Sachs, Common Wealth. Econom­ ics for a Crowded Planet, Penguin, New York 2008, pp. 301 sg., 308 sgg.; B. Larsen, G. Hutton e N. Khanna, Air Pollution, in B. Lomborg (a cura di), Global Crises, Global Solutions, Cambridge University Press, New York - Cam­ bridge 2009", pp. 7 sgg.; e ibid, le alternative discusse da J. Shah, Perspective Paper x.r, p. 50 sgg.); oppure la proposta di estendere il già diffuso ricorso ai cc.dd. debt-for-nature swaps, tecniche finanziarie che permettono di sostene­ re il costo della conservazione delle bio-diversità, e piu in generale delle risor­ se naturali - per le modalità d’impiego di quelle tecniche, si veda il sito del WWF: www.worldwildlife.org; oppure R. Buckley, Debt-for-development Ex­ changes: The Origins of a Financial Technique, in «L. & Dev. Rev.», 2 (2009), n. 1, art. 3, pp. 25, 32 sgg. 542 « [R]ich people are rich because they have developed technology successfully to address a lot of challenges and because they were lucky enough not to have some of the ecological barriers that the poor have». J. D. Sachs, Poor Man's Economist, in «New York Times Magazine», 15 dicembre 2002, a: www.nytimes.com. Si vedano poi le osservazioni di Haripriya Rangan sulla realtà del­ le Garhwal Himalayas, luogo di origine del movimento Chipko di protezione degli alberi, reso famoso e celebrato dagli ambientalisti di tutto il mondo, ma in loco contrapposto al desiderio di molti residenti di continuare nel loro an­ tico e tradizionale utilizzo commerciale delle foreste e nelle altre attività ne­ cessarie al proprio sostentamento: H. Rangan, Romancing the Environment: Popular Environmental Action in the Garhwal Himalayas, in J. Friedman e H. Rangan (a cura di), In Defense ofLivelihood: Comparative Studies on Environmen­ tal Action, Kumarian Press, Westport 1993, p. 162. Per altri illuminanti casi di contrapposizione fra istanze malamente conciliabili sul mero piano della reto­ rica, D. M. Goldstein, Human Rights as Culprit, Human Rights as 'Victim: Rights and Security in the State of Exception, in M. Goodale e S. E. Merry (a cura di), The Practice of Human Rights. Tracking Law Between the Global and the Local, Columbia University Press, New York 2007, pp. 49 sgg.; B. King­ sbury, The Applicability of the International Legal Concept of «Indigenous Peo­ ple» in Asia, in J. R. Bauer e D. A. Bell (a cura di), The East Asian Challenge cit., pp. 336, 361 sgg., e ibid., p. 369, l’osservazione secondo cui «le popola­ zioni indigene possono avere numerose ragioni per sentirsi esse stesse vittime della ‘conservazione’ - si pensi alle restrizioni a certe forme di agricoltura in­

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Note tradotte nella maggior parte dei paesi del Sud-est asiatico, allo spostamento di persone per far spazio a parchi nazionali, alla protezione di specie animali sel­ vagge in via di estinzione, al rifiuto di accedere a foreste minori, onde evitare la deforestazione» [t.d.a.J.

Xin. UN TEMPO PER LE SOLUZIONI (pp. 170-81) Ricorda come l’accusa di occidentalizzazione possa in taluni contesti apparire uno stratagemma politico, utilizzato dalle élite locali al fine di screditare le for­ ze che premono per un cambiamento, M. C. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, il Mulino, Bologna 2001, p. 56 (trad, da Wom­ en and Human Development. The Capabilities Approach, Columbia University Press, New York 2000). Si veda anche supra, Cap. 11, § 5. 544 M.-B. Dembour, Following the Movement ofa Pendulum: Between Universalism and Relativism, in J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson (a cura di), Culture and Rights. Anthropological Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge 2001, p. 59. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 76 (trad, da Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton University Press, Princeton 2001); e si veda supra, Cap. 11, § 5. ,4‘ Eg. S. E. Merry, Changing Rights, Changing Culture, in J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson (a cura di), Culture and Rights cit., pp. 32-34; S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nel­ l’era globale, il Mulino, Bologna 2005, passim e pp. 22 sgg., 104 sgg. (trad, da The Claims of Culture : Equality and Diversity in the Global Era, Princeton Uni­ versity Press, Princeton 2002); M. Barberis, Europa del diritto, il Mulino, Bo­ logna 2008, pp. 176 sgg.; L. Boccelli, I diritti dei popoli. Universalismo e diffe­ renze culturali, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 64 sgg. Per rilievi analoghi, eg., H. P. Glenn, Legal Traditions of the World, Oxford University Press, Oxford 2007’, p. 265. !4“ S. Cassese, Oltre lo Stato, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 103. Per l’osservazio­ ne che è virtualmente impossibile trovare un diritto indigeno ‘puro’, giacché se in generale tale può essere definito il «law existing indigenously in the na­ tive culture of a people prior to the reception of Western state law», il piti del­ le volte esso «include some assimilated law which was originally received in earlier times», M. Chiba, Introduction, in Id. (a cura di), Asian Indigenous Law in Interaction with Received Law, Kpi, London - New York 1986, p. 8. In pro­ spettiva analoga, Ann Armbrecht Forbes: «la ricerca del vero ‘locale’ è una ri­ cerca incompleta e potenzialmente fuorviarne. Sapere chi parla più forte, chi pretende di parlare per chi, chi sceglie di rimanere in silenzio e perché, sono tutti influenti sulla voce che viene, alla fine, etichettata come ‘locale’ » [t.d.a.]. A. A. Forbes, Defining the ‘Local’ in the Arun Controversy: Villagers, NGOs, and the World Bank in the Arun Valley, Nepal, in «Cultural Survival Quarterly», 20 (1996), n. 3, p. 31. Ma si veda pure J. Habermas, Tra scienza e fede, Later­ za, Roma-Bari 2006, pp. 198 sgg. (trad. it. da Zwischen Naturalismus und Re­ ligion, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005); J. Waldron, Minority Cultures and the Cosmopolitan Alternative, in «U. Mich. L. Rev.», 25 (1992), pp. 751 sgg. ; oppure i saggi di L. Leve, «Secularism Is a Human Right! » : Double-binds of Buddhism, Democracy, and Identity in Nepal; L. Nader, Introduction: Regi­ sters of Power; J. E. Jackson, Rights to Indigenous Culture in Colombia: tutti in M. Goodale e S. E. Merry (a cura di), The Practice of Human Rights. Tracking

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Law Between the Global and the Local, Columbia University Press, New York 2007, rispettivamente pp. 78 sgg., 117 sgg. e 204 sgg. Ch. R. Beitz e R. E. Goodin, Introduction: 'Basic Rights’ and Beyond, in Id. (a cura di), Global Basic Rights, Oxford University Press, Oxford - New York 2009, pp. 1, 23 sg. Sembra cosi che «la precisione dei diritti ‘positivi’ sia ab­ bandonata in favore delle piti solenni ma piti vaghe pretese ai ‘diritti umani’, come se il linguaggio del diritto dovesse recuperare in decibel ciò che perde in accuratezza»: C. Gearty, Can Human Rights Survive?, The Hamlyn Lectures 2005, Cambridge University Press, Cambridge 2006, p. 70 [t.d.a.]. «The rhetoric of human rights seems to have triumphed because it can be adopted by left and right, the north and the south, the state and the pulpit, the minister and the rebel. ... But this ‘broad church’ allure of human rights is also their weakness»: C. Douzinas, Human Rights and Empire: The Political Philosophy of Cosmopolitanism, Routledge-Cavendish, London 2007, p. 33. ”l Eg., L. Ferrajoli, Ifondamenti dei diritti fondamentali, in Id. et alii, Diritti fon­ damentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 20021, pp. 279 sgg.; G. Peces-Barba, Teoria dei diritti fondamentali, Giuffrè, Milano 1993 (trad. it. da Carso de derechos fundamentales. Teoria generai, Edema, Ma­ drid 1991). Ad esempio: H. Shue, Basic Rights : Subsistence, Affluence and US. Foreign Pol­ icy, Princeton University Press, Princeton 1996’; D. Miller, Justice and Glob­ al Inequality, in A. Hurrell e N. Woods (a cura di), Inequality, Globalization, and World Politics, Oxford University Press, Oxford 1999, pp. 198 sgg. Per 1’uso della formula ‘diritti inderogabili’, e multis, G. Cataldi, s.v., in M. Flo­ res (dir.), Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell'epoca del­ la globalizzazione. Dizionario, Utet, Torino 2007, pp. 382 sgg. Si veda anche la UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities, adottata il 23 dicembre 2006 ed entrata in vigore il 3 maggio 2008; su cui eg. F. Mégret, The Disabilities Convention: Human Rights of Persons with Disabili­ ties orDisability Rights?, in «Human Rights Quarterly», 30 (2008), pp. 494 sgg. !M Nella stessa direzione si muove chi rileva come «diritti fondamentali ma antinomici non possono avere, gli uni e gli altri, un fondamento assoluto, un fon­ damento che renda un diritto e il suo opposto entrambi inconfutabili e irresi­ stibili» (N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, p. 13), e chi segna­ la le ricorrenti tensioni interne che lacerano le carte dei diritti fondamentali, con la reciproca antinomia che separa i diritti di libertà e patrimoniali da un lato, e i diritti sociali, ispirati al valore dell’uguaglianza, dall’altro; il diritto al­ la sicurezza e il diritto alla privacy; i diritti economici in linea di collisione con la tutela dell’ambiente: M. Ignatieff, Una ragionevole apologia cit., pp. 25 sg.; D. Zolo, Fondamentalismo umanitario, ibid., pp. 138 sg. Ma si veda anche A. Sen, Human Rights and the Limits of Law, in «Cardozo L. R.», 27 (2006), p. 2913; e i saggi di O. Yasuaki, Y. Ghai e K. Y. L. Tan, rispettivamente pp. 103 sgg., 241 sgg., 264 sgg., in J. R. Bauer e D. A. Bell (a cura di), The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge 1999. Restando nondimeno vero che «se i nomadi avessero diritto di parola nella co­ struzione della dichiarazione dei diritti umani, il diritto alla proprietà di una capra avrebbe trovato un rango alto nella lista; e se gli abitanti dei villaggi in­ diani avessero contribuito a un paragrafo della stessa dichiarazione, un dirit­ to essenziale sarebbe stato rinvenuto nel diritto a morire a casa circondato dai membri della propria famiglia»: T. H. Eriksen, Between Universalism and Re­ lativism: A Critique of the Unesco Concept of Culture, in J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson (a cura di), Culture and Rights cit., p. 135 [t.d.a.].

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Note A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 215. Cfr., fra gli altri, M. Ignatieff, Una ragionevole apologia cit., pp. 58 sg.; A. Ferrara, Two Notions of Humanity and the Judgment Argument for Human Rights, in «Politi­ cal Theory», 31 (2003), n. 3, pp. 392 sgg.; G. Preterossi, L’Occidente contro se stesso, Laterza, Roma-Bari 2004, spec. pp. no sgg.; P. De Sena e A. Saccucci, Diritti fondamentali, in M. Flores (dir.), Diritti umani cit., p. 376; D. Miller, National Responsibility and Global Justice, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 163 sgg., 197 sgg., anche per ulteriori riferimenti; ma si ve­ da pure il richiamo all’inderogabilità di una serie di diritti, largamente coinci­ denti con quella di A. Cassese, all’art. 4(2) del Patto Onu sui diritti civili e po­ litici del 1966. Per un catalogo affine a quello di Cassese, ma virato sulla no­ zione (mutuata da Sen) di capability (intese qui quali: ‘capacità funzionali umane fondamentali’), M. C. Nussbaum, Diventare persone cit., pp. 95 sgg. A. Cassese, idiritti umani oggi cit., p. 216; e si veda pure A. Sen, The Idea of Justice, Harvard University Press, Cambridge Mass. 2009, pp. 379 sgg.; e i saggi di M. Langford e K. Roach, in M. Langford (a cura di), Social Rights Juris­ prudence. Emerging Trends in International and Comparative Law, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2008, rispettivamente pp. 3 sgg., 46 sgg.; ma anche B. S. Chimni, The Sen Conception of Development and Contem­ porary International Law Discourse : Some Parallels, in «The Law and Develop­ ment Review», 1 (2008), n. 1, art. 2, pp. 3 sgg. Su un altro versante della ri­ flessione, per il rilievo secondo cui le contrazioni del catalogo dei diritti si li­ miterebbero a ridurre la quantità ma non la natura dei problemi, senza evitare il sospetto che il centrarsi sui diritti essenziali sia un mezzo per lubrificare l’e­ sportazione del modello culturale e giuridico occidentale, ad essi sotteso (e pre­ tenziosamente radicato in un inesistente ‘global moral consensus’): P. Jones, Human Rights and Diverse Cultures: Continuity or Discontinuity, in S. Caney e P. Jones (a cura di), Human Rights and Global Diversity, Frank Cass, LondonPortland 2001, pp. 27, 34 sgg.; D. Zolo, Fondamentalismo cit., pp. 149, 154; T. Mazzarese, Minimalismo dei diritti : pragmatismo antiretorico o liberalismo in­ dividualista?, in «Ragion Pratica», 26 (2006), pp. 179 sgg.; e si veda anche U. Baxi, The Future ofHuman Rights, Oxford University Press, New Delhi 2002, pp. 67 sgg.; nonché i saggi raccolti in S. Hertel e L. Minkler (a cura di), Eco­ nomie Rights. Conceptual, Measurement, and Policy Issues, Columbia University Press, New York 2007. Con riguardo allo stesso Occidente, si veda C. Gearty, Can Human Rights Sur­ vive cit., pp. 102 sg., ove l’autore ricorda i continui assalti dell’Esecutivo in­ glese ai diritti inerenti l’habeas corpus, nel 1867, nel 1939, nel 1996, nel 2005; senza dire del vastissimo dibattito sulla normativa Usa antiterrorismo, su cui, e per tutti, J. F. Murphy, The United States and the Rule ofLaw in Internation­ al Affairs, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 289 sgg., 335 sgg.; e sul punto specifico di cui al testo, P. Halliday e G. E. White, The Sus­ pension Clause: English Text, Imperial Contexts, and American Implications, Uni­ versity of Virginia Law School, Public Law and Legal Theory Working Paper Series, 2007, n. 83. A. Cassese, I diritti umani oggi cit., pp. 178-80. Per il dibattito, e per tutti, cfr. J. Waldron, Security as Basic Right (after 9/11), in Ch. R. Beitz e R. E. Goodin (a cura di), Global Basic Rights cit., pp. 207 sgg.; e A. Hurrell, Another Turn of the Wheel? Basic Rights in International So­ ciety, ibid., pp. 49, 66 sg. E multis, J. Habermas, Notes on a Post-secular Society, 18 giugno 2008, a: www.signandsight.com; W. Menski, Comparative Law in a Global Context. The

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Legai Systems of Asia and Africa, Cambridge University Press, Cambridge 20062, passim, spec. pp. 58 sgg.; R. Baubòck, Politicai Boundaries in a Multilev­ el Democracy, in S. Benhabib, I. Shapiro e D. Petranovic (a cura di), Identi­ ties, Affiliations, and Allegiances, Columbia University Press, New York 2007, pp. 85, 96 sgg. Sotto lo specifico profilo dei conflitti linguistici, si veda e.g. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia cit., pp. 69 sgg. A. Kumar Giri, Il «governo della leggeri e la società indiana. Dal colonialismo al postcolonialismo, in P. Costa e D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria e critica, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 708, 727 sg., richiama invece il celebre caso di Shah Bano, una donna indiana e musulmana, che si era rivolta al giudice per chiedere il mantenimento da par­ te dell’ex marito (peraltro facoltoso, che l’aveva lasciata per una giovane don­ na). Nel 1985 la Corte Suprema indiana aveva confermato la decisione dell’Alta corte che aveva accolto le pretese dell’ex moglie (Mohammed Ahmed Khan v. Shah Bano Begum, A.I.R. 1985 S.C. 945). La Commissione indiana per il diritto personale musulmano aveva accusato la sentenza della Corte Suprema di grave interferenza nel diritto personale (colà in vigore) e ben presto le for­ ze politiche e religiose conservatrici, affermando di rappresentare e protegge­ re gli interessi delle minoranze, esercitarono pressioni sul governo affinché fos­ se adottata una legge ad hoc che, in materia di statuto personale, affermasse con chiarezza l’applicazione del diritto islamico agli islamici. La legge fu effet­ tivamente promulgata l’anno dopo [The Muslim Women (Protection of Rights in Divorce Act), n. 25, Acts of Parliament, 1986] e, nelle parole dell’autore, si è trattato di «un trionfo dei leader politici e religiosi musulmani maschi che pretendono di essere gli unici portavoce dell’intera popolazione musulmana ... La domanda chiave è: la libertà di religione può venire usata per sopprimere il diritto all’uguaglianza costituzionalmente garantito degli individui, in partico­ lare delle donne ?» Sul punto si veda anche M. C. Nussbaum, The Clash Within: Democracy, Religious Violence and India’s Future, Harvard University Press, Cambridge Mass. - London 2007, PP- J45 sgg.; K- R- Khory, The Shah Bano Case, in R. D. Baird (a cura di), Religion and Law in Independent India, Manohar, New Delhi 2005', pp. 149 sgg.; nonché, per alcune puntualizzazioni, e sul destino operativo di quella legge nelle aule dei tribunali indiani, W. Men­ ski, The Uniform Civil Code Debate in Indian Law : New Developments and Chang­ ing Agenda, in «German L. J.», 9 (2008), n. 3, pp. 219 sg., 237 sgg. Ancora di recente il 25% degli europei ritenevano impossibile da giustificare l’omosessualità: P. Skidmore e K. Bound (a cura di), The Everyday Democracy Index, Demos, London 2008, p. 18; mentre l’orientamento sessuale della per­ sona è visto «as the second most widespread form of discrimination in the EU» (dopo quella basata sull’origine etnica): Discrimination in the European Union: Perceptions, Experiences and Attitudes (Fieldwork February - March 2008), Spe­ cial Eurobarometer 296, July 2008, a: ec.europa.eu/public_ opinion/ archives/ebs/ebs__296__ en.pdf, p. 52. Si veda comunque, e in generale, N. Teunis e G. Herdt (a cura di), Sexual Inequalities and SocialJustice, University of California Press, Berkeley - Los Angeles ■ London 2007; e poi C. J. Cohen, Straight Gay Politics: The Limits of an Ethnic Model of Inclusion, in I. Shapiro e W. Kymlicka (a cura di), Ethnicity and Group Rights, New York University Press, New York - London 1997, pp. 572 sgg.; A. S. Young, Attitudes Toward Homosexuality, in «Public Opinion Quart.», 61 (1997), p. 477. La pena di morte, tuttora in vigore in almeno 80 paesi, è stata abrogata in Ca­ nada nel 1976, e in altri 50 paesi solo fra il 1985 e il 2005: D. Scaglione, Pe­ na di morte, in M. Flores (dir.), Diritti umani cit., pp. 1062, 1064 sgg. Per gli argomenti giustificativi del suo uso in chiave di deterrenza, e.g., C. R. Sun-

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Note

stein e A. Vermeule, Is Capital Punishment Morally Required? Acts Omissions, and Life-Life Tradeoffs, in «Stan. L. Rev.», 58 (2005), p. 703 - il primo dei due autori, entrambi professori alla Harvard Law School, è ora «Administra­ tor of the Office of Information and Regulatory Affairs at the Office of Man­ agement and Budget», nell’Amministrazione Obama; il secondo, lo abbiamo già incontrato, nella discussione del Torture Memo: supra, Cap. 12, § 1. !6! Emultis, M. Ignatieff, Una ragionevole apologia cit., pp. 25-26; L. H. Tribe, Abortion: The Clash of Absolutes, Norton, New York - London 1990, passim-, M. Kohl, TheMorality ofKilling: Sanctity ofLife, Abortion, and Euthanasia, Hu­ manities Press, New York 1974; K. L. Vaux, Death Ethics : Religious and Cul­ tural Values in Prolonging and Ending Life, Trinity Press International, Phila­ delphia 1992; P. Lewis, Assisted Dying and Legal Change, Oxford University Press, Oxford - New York 2007; R. Young, Medically Assisted Death, Cam­ bridge University Press, Cambridge - New York 2007. Si veda anche supra, Cap. 8, § 3. Per i dati comprovanti come i minori fra i io e i 14 anni rappresentassero, al torno del xx secolo, in Francia, Inghilterra e Usa, un numero oscillante fra il 17 e il 20% delle forze lavoro, J. Humphries, Child Labour: The Experience of Today’s Advanced Economies and the Lessons of the Past, paper prepared for the Conference on «The Economics of Child Labour», Oslo, 28-29 May 2002, a: ucw-mirror.peanetweb.it, pp. 4 sgg. (an­ che in «World Bank Review», 17 (2003), pp. 175-96); e si veda anche H. Cun­ ningham e P. P. Viazzo (a cura di), Child Labour in Historical Perspective, 18001985: Case Studies from Europe, Japan and Colombia, Unicef-Istituto degli In­ nocenti, Firenze 1996. Secondo uno studio Istat pubblicato nel 2002, con dati relativi al 2000, «Bambini, lavori e lavoretti. Verso un sistema informativo sul lavoro minorile. Primi risultati», le percentuali di minori che da noi svolgeva­ no in quell’anno qualche attività lavorativa erano stimate: 0,5% per la fascia fra i 7 e i io anni, 3,7% tra 11 e 13 anni, e 11,6% per i quattordicenni. Se­ condo invece le stime pubblicate dallTLO nel 2006, «more than 200 millions child labourers aged 5-17 years are still working. The number in hazardous work, which accounts for the bulk of the worst forms of child labour, is esti­ mated at 126 millions. Most working children (69 per cent) are involved in agriculture, compared with only 9 per cent in industry. Globally, the AsianPacific region accounts for the largest number of child workers - 122 million in total, followed by Sub-Saharan Africa (49.3 million) and Latin America and the Caribbean (5.7 million)», in «World of Work», 61 (December 2007), p. 5. Si veda, ad esempio, supra, in questo Capitolo, la nota 564 in punto di pena di morte; e Cap. 12, § 1, a proposito della tortura, su cui, in generale, si veda pureG. Frankenberg, Torture and Taboo: An Essay Comparing Paradigms of Or­ ganized Cruelty, in «Am. J. Comp. L. », 56 (2008), pp. 403 sgg. E.g., P. Zagorin, How the Idea ofReligious Toleration Came to the West, Prince­ ton University Press, Princeton 2003, passim, e pp. 3 sg., 9 sg., 93 sg.; N. Bentwich, The Religious Foundations ofInternationalism : A Study ofInternation­ al Relations through the Ages, Allen & Unwin, London 19592, spec. Capp, ix e x, pp. 204 sgg. *’ Un riferimento utile, fra i tanti, è quello che segnala come la prima Conferen­ za delle Nazioni Unite sull’ambiente (UNCHE, United Nations Conference on Human Environment) si sia tenuta a Stoccolma nel 1972. ”° Si veda eg., S. E. Merry, Changing Rights, Changing Culture cit., pp. 34 sgg. Noi in bilico. Inquietudini e speranze di un cittadino europeo. Intervista a cura di F. Forquet, Laterza, Bari-Roma 2005, p. 24.

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5,2 Supra, Cap. 9, in particolare § 2. Per parafrasare ciò che Bentham affermava a proposito dei «naturai rights»: J. Waldron (a cura di), Nonsense upon Stilts : Bentham, Burke and Marx on the Rights of Men, Methuen Books, London 1987, p. 53. 574 A. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, Notre Dame Press, No­ tre Dame 19842, p. 70: «Natural or human rights then are fictions». C. Gearty, Can Human Rights cit., p. 28; ma si veda anche M.-B. Dembour, Who Believes in Human Rights?, Cambridge University Press, Cambridge New York 2006, spec. pp. 1 sgg., 272 sgg. Si veda A. Sen, The Idea ofJustice cit., pp. 337 sgg. E multis, E. R. Leach, Etnocentrismi, in Enciclopedia Einaudi, vol. V, Einau­ di, Torino 1978, pp. 955 sgg.; ma si veda anche F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 1990, spec. pp. 216 sgg.; T. Todorov, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einau­ di, Torino 1991, pp. 5 sgg., 73 sgg. (trad, da Nous et les autres. La reflexion franpaise sur la diversité humaine, Seuil, Paris 1989); E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2002, pp. 394 sg.; e già W. G. Sumner, Folkways : A Study of the Sociological Impor­ tance of Usages,Manners,Customs,Mores,andMorals, Ginn&Co, Boston 1906, pp. 13 sg. - cui si fa risalire l’uso del termine ‘etnocentrismo’. 5,8 R. Rorty, Giustizia come lealtà piu ampia, in Filosofia e questioni pubbliche, voi. Il, n. 1, Armando, Roma 1996, pp. 53, 63 sg. Cosi, e a proposito della sola Dichiarazione Onu del 1948, C. Gearty, Can Hu­ man Rights cit., p. 7. s“ Si veda per tutti, Buhm Suk Baek, Economie Sanctions Against Human Rights Violations, in Cornell Law School LL.M. Papers Series, 2008, 11, a: Isr.nellco.org/cornell/lps/clacp/r 1. ”* Lo stesso A. Cassese, I diritti umani oggi cit., pp. 225-28, elabora un’ipotesi per cui, di fronte a «violazioni gravissime dei diritti umani (crimini contro l’u­ manità, atti di genocidio)» attestate da organi internazionali competenti «qua­ li l’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani, od organi regionali con­ simili, nonché da Organizzazioni non governative autorevoli, quali Amnesty International o Human Rights Watch» - e fallito ogni intervento di soluzio­ ne pacifica da parte del Consiglio di sicurezza, dell’Assemblea generale dell’O­ nu e di ogni altra istituzione internazionale competente -, uno Stato «potreb­ be essere autorizzato a usare la forza, purché essa fosse (1) limitata e mirasse esclusivamente a porre termine alle atrocità, (2) proporzionata alla gravità del­ le violazioni, (3) utilizzata nello stretto rispetto delle norme internazionali di diritto umanitario, e (4) cessasse immediatamente appena terminate le viola­ zioni» [p. 228]. Si veda anche Id., Ex iniuria jus oritur: Are We Moving towards International Legitimation of Forcible Humanitarian Countermeasures in the World Community?, in «Eur. J. Int’l L.», 10 (1999), pp. 23, 27; S. Cassese, I tribunali di Babele. Igiudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Donzelli, Ro­ ma 2009, pp. 27 sgg.; D. Archibugi, Cittadini del mondo. Verso una democra­ zia cosmopolitica, il Saggiatore, Milano 2009, pp. r88 sgg. Si veda poi, sulla medesima lunghezza d’onda della proposta di A. Cassese, le iniziative inter­ nazionali concernenti la c.d. ‘responsibility to protect’ (ogni riferimento in C. Focarelli, La dottrina della «responsabilità di proteggere» e l'intervento umanita­ rio, in «Riv. dir. int.», 2008, n. 2, pp. 317 sgg.). La vaghezza e il rischio di abusi di meccanismi del genere sono sotto gli occhi di tutti (si vedano le valu­ tazioni critiche raccolte dallo stesso C. Focarelli, a p. 330 sgg.). Ai nostri fini,

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Note

tuttavia, la domanda da rivolgere a politici, attivisti e sostenitori dei diritti umani, diventa: il diritto occidentale, e i suoi giuristi, possono proporre qual­ cosa di meglio ? 5“ E nella prospettiva tracciata da queste osservazioni che diviene pensabile e pos­ sibile cooperare con le realtà altrui, anche incentivando la formazione, in capo alle persone volta a volta interessate, di un consenso tanto libero quanto infor­ mato circa la natura e le modalità di rivendicazione delle proprie identità, sin­ golari e collettive, circa lo spettro dei propri diritti e delle loro alternative con­ crete, oggi e nel tempo (il che è quanto vale, a riprendere i nostri esempi, per gli inuit come per gli indigeni peruviani, per le persone soggette a mutilazioni genitali come per i genitori e le bambine tailandesi). Per la necessità che le co­ munità indigene si autogovernino in una maniera tollerante delle differenze, ma senza legittimare imposizioni esterne, o anche statuali, in nome dei ‘diritti umani’, eg., R. Sieder e J. Witchell, Advancing Indigenous Claims through the Law: Reflections on the Guatemalan Peace Process, in J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wilson (a cura di), Culture and Rights cit., p. 229; ma si veda anche L. M. Smith, Implementing International Human Rights Law in Post Conflict Set­ tings - Racklash without Buy-In: Lessons from Afghanistan, in «Muslim World Journal of Human Rights», 5 (2008), n. 1, art. 5. Si veda anche Da. Kennedy, Reassessing International Humanitarianism : The Dark Sides, in A. Orford (a cura di), International Law and Its Others, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2006, pp. 131, 133 sgg.

XIV. LA NOSTRA DEMOCRAZIA (pp. 185-93) Si veda anche supra, Cap. 5. Per una riflessione serena ed efficace, S. Romano, Con gli occhi dell'IsIam, Lon­ ganesi, Milano 2007, pp. 136 sgg. Se ne veda una sinossi in L. Moriino, Democrazie e democratizzazioni, il Muli­ no, Bologna 2003, passim e pp. r8 sgg.; A. Magen e L. Moriino, Scope, Depth, and Limits of External Influence, in Id. (a cura di), International Actors, Democ­ ratization and the Rule of Law : Anchoring Democracy?, Routledge, New York 2008, pp. 224-32; C. Tilly, Democracy, Cambridge University Press, Cam­ bridge - New York 2007, pp. 7 sgg. Del dibattito, estesissimo, una sintesi efficace si legge in G. Sartori, Democra­ zia. Cosa è, Rizzoli, Milano 2007 (nuova ed.), pp. 118 sgg., 156 sgg.; adde - sulla dichiarata scia di B. Barry, Democracy and Power: Essays in Politicai Theory, vol. I, Clarendon Press, Oxford 1991; Id., Justice as Impartiality ; A Treatise on Social Justice, vol. II, Oxford University Press, Oxford 1995 - K. Dowding, R. E. Goodin e C. Pateman, Introduction : Between Justice and Democracy, in Id. (a cura di), Justice and Democracy, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 1 sgg., in partic. p. 5: «there is nothing inherent in democracy that necessarily makes it just. Democracy is a procedure for for­ mally capturing the views of the citizens and translating into outcomes. That procedure has only tangential connections to the outcomes being just». Per lo sviluppo di tali argomenti, e riferimenti ulteriori, R. J. Arneson, Democracy Is Not Intrinsically Just, ibid., pp. 40 sgg. In una letteratura sconfinata, per i riferimenti essenziali, e utili ai nostri fini, D. M. Estlund, Why Not Epistocracy, in N. Reshotko (a cura di), Desire, Iden­ tity and Existence. Essays in Honor of T. M. Penner, Academic Printing and Pub­ lishing, Kelowna 2003, pp. 53 sgg.; Id., Democratic Authority. A Philosophi­

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cal Framework, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2008; A. Olbrecht, Long Live the Philosopher-King?, in «Rerum Causae», 1 (2006), n. 1, pp. 37 sgg.; S. S. Wolin, Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarianism, Princeton University Press, PrincetonOxford 2008, pp. 159 sgg.; oppure, per un altro versante del dibattito, J.-P. Benoit e L. A. Kornhauser, Only a Dictatorship is Efficient or Neutral, New York University Law and Economics Working Papers, New York 2006, Pa­ per 85. Per toni assai più impressionistici, ma che valgono il richiamo perché riassuntivi di quelli ‘di tendenza’, A. Gat, The Return of Authoritarian Great Powers, in «Foreign Affairs», 86 (2007), n. 4, pp. 59 sgg. In argomento, si veda già S. M. Lipset, Some Social Requisites of Democracy: Economie Development and Political Legitimacy, in «Am. Poi. Sci. Rev.», 53 (1959), n. 3, pp. 69 sgg.; e più di recente, eg., F. Zakaria, Democrazia senza libertà, in America e nel resto del mondo, Rizzoli, Milano 2003, passim e pp. 14 sgg., 320 sgg. (trad, da The Future of Freedom Alliberai Democracy at Home and Abroad, W.W. Norton, New York 2003); E. L. Glaeser, R. La Porta, F. Lopez-de-Silanes e A. Shleifer, Do Institutions Cause Growth, in «J. Econ. Growth», 9 (2004), pp. 271 sgg.; e si veda pure H. L. Root e K. May, Judicial Systems and Economie Development, in T. Moustafa e T. Ginsburg (a cura di), Rule by Law. The Politics of Courts in Authoritarian Regimes, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge - New York 2008, pp. 304 sgg. Si veda supra, Cap. 11, § 5, il dibattito sulle configurazioni del potere che ta­ luni vorrebbero connaturate al vigore degli ‘Asian’ e ‘Islamic Values’; adde R. Guolo, L'Islam è compatibile con la democrazia?, Laterza, Roma-Bari 2004; A. J. Langlois, Human Rights without Democracy? A Critique of the Separationist Thesis, in «Human Rights Quarterly», 25 (2003), p. 990; B. Rajagopal, Inter­ national Law from Below. Development, Social Movements, and Third World Resistance, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2003, pp. 212 sgg.; C. McCrudden, A Common Law ofHuman Rights? Transnational Judicial Conversations on Constitutional Rights, in «Oxf. J. Leg. Stud. », 20 (2000), pp. 499 sgg-; G. Walker, The Idea of Nonliberal Constitutionalism, in I. Shapiro e W. Kymlicka (a cura di), Ethnicity and Group Rights, New York University Press, New York - London 1997, pp. 154 sgg. Si veda anche G. Sartori, Democrazie e definizioni, il Mulino, Bologna 1957, pp. 119 sg.; A. Dixit, G. M. Grossman e F. Gul, The Dynamics of Political Compromise, in «J. Pol. Econ.», ro8 (2000), p. 531; fra gli altri, attenti alla dimensione temporale delle preferenze, D. Acemoglu e H. A. Robinson, Eco­ nomie Origins of Dictatorship and Democracy, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2006, pp. 23 sgg.; F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992, pp. 20, 328 (trad, da The End of History and the Last Man, Free Press, New York 1992); S. M. Lipset, Some Social Req­ uisites of Democracy : Economie Development and Political Legitimacy, in «Am. Poi. Sci. Rev.», 53 (1959), pp. 69 sgg.; F. A. von Hayek, The Constitution of Liberty, University of Chicago Press, Chicago i960, spec. p. 132 (trad. it. La società libera, Vallecchi, Firenze 1969); ma anche K. R. Popper, The Open So­ ciety and Its Enemies. The Spell ofPlato, Routledge & Kegan Paul, London 1966, p. 179 (trad. it. La società aperta e i suoi nemici, I: Platone totalitario, Arman­ do Editore, Roma 1973). ”2 Sulla questione, ovviamente, la scienza politica (che, quando li usa, di rado fa leva su argomenti giuridici diversi da quelli del diritto pubblico) nutre prospet­ tive numerose, e il dibattito è sconfinato. Per i ragguagli essenziali, G. Sarto­ ri, Democrazia. Cosa è, cit., parte I, pp. n-137. Sempre all’opera di Sartori (pp. 141 sgg., 159) si rimanda per i limiti ‘fisici’ e strutturali dell’esperienza

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Note

democratica nella Grecia antica. Su quest’ultimo punto si veda, anche per i ri­ ferimenti ulteriori, L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004 (rist. 2008), pp. 31 sgg.; R. A. Dahl, La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma 2005, pp. 20 sgg., 30 sgg. (trad, da Democracy and Its Critics, Yale University Press, New Haven - London 1989); J. Dunn, Democracy: A History, Atlantic Monthly Press, New York 2005, in panie, pp. 13 sg.; D. Held, Modelli di democrazia, il Mulino, Bologna 2006, pp. 30 sgg. (trad, da Models of Democracy, Polity Press, Cambridge 2006’); J. Keane, The Life and Death of Democracy, W.W. Norton, New York - London 2009, pp. 3 sgg., 70 sgg. Del resto, allorché ci si confronti con le società islamiche, un dato da tenere a mente è la rilevanza relativa che assume - beninteso: all’interno della nostra specifica analisi - ogni discorso sulla centralità della forma costituzionale. Oc­ corre essere consapevoli che, tanto da noi, quanto nei paesi islamici, esiste in­ variabilmente un livello di legalità ‘costituzionale’ superiore alla volontà del singolo Parlamento o governo: questi ultimi, là come qui, quando emanano una qualsiasi legge sono concepiti come organi che nell’esercitare i propri poteri sono vincolati da norme, principi e valori (rispettivamente: costituzionali al­ l’occidentale, e sciaraitici) che ne giustificano la stessa esistenza e ne orienta­ no la ragion d’essere. Il punto critico è dato dal contenuto e, ancor più, dal modo di operare della struttura costituzionale sovraordinata che, in Occiden­ te, è quella che conosciamo e, ‘da loro’, è la shari‘a. Ecco perché è ben altro dal suo testo scritto che da noi rende possibile l’utilizzo della Costituzione qua­ le strumento di battaglie politiche trasferite sul terreno giuridico e arbitrate/arbitrabili sul pavimento delle Corti. Potrà semmai risultare di tutta evidenza il rapporto dialettico che sussiste - da noi come nei paesi islamici - tra civiltà e tradizione giuridica. La tradizione giuridica ‘secolare’ è un pilastro fondamen­ tale della nostra civiltà, tanto quanto la tradizione giuridica ‘coranica’ lo è nei paesi islamici. In altre parole, è storicamente facile cogliere, all’interno di en­ trambe le tradizioni: a) la corrispondenza biunivoca fra valori di civiltà e va­ lori giuridici; h) il ruolo portante, nello sviluppo di quei valori, svolto dalla fi­ gura del giurista - laico, da noi, religioso nei paesi islamici -, come artefice e messaggero di quel complesso di regole che costituiscono il sostrato storico e attuale delle diverse società. In una direzione non dissimile, ad esempio, A. Quraishi, Interpreting the Qur'an and the Constitution : Similarities in the Vse of Text, Tradition, and Reason in Islamic and American Jurisprudence, in «Cardozo L. R.», 28 (2006), pp. 67 sgg. Si veda anche supra, Cap. 1, § 4, Cap. 3, § 6. Cfr., per tutti, A. Sen, Le radici globali della democrazia. Perché la libertà non è un’invenzione dell'occidente, Mondadori, Milano 2004, spec. pp. 8 sgg.; e G. Sartori, Democrazia cit., pp. 337 sgg., e ivi pure le critiche del secondo ai corollari delle argomentazioni del primo. Per comprendere appieno il significato dei due aggettivi, il rimando è a P. Gros­ si, Le situazioni reali nell’esperienza giuridica medievale. Corso di storia del dirit­ to, Cedam, Padova 1968; Id., Il dominio e le cose. Percezioni medievali e mo­ derne dei diritti reali, Giuffrè, Milano 1992. 5% Per la cruciale questione relativa alla funzione, ai limiti e alla stessa conforma­ zione dei diritti proprietari (finanziari, di produzione, di consumo), nel tem­ po e nello spazio in cui i sistemi si muovono, lo stato dell’arte circa le idee cir­ colanti in Occidente si ottiene, oltre che da P. Grossi, nei luoghi citati alla no­ ta precedente, da S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, il Mulino, Bologna 19901; A. Gambaro, Il diritto di proprietà, Giuffrè, Milano 1995; U. Mattei, La proprietà, Utet, Torino 2001.

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Per l’influenza decisiva esercitata in America Latina sugli sviluppi della demo­ crazia (all’occidentale) dall’architettura socio-economica centrata sul latifon­ do (e dalla conseguente scarsa protezione e diffusione della proprietà privata), si veda R. L. Prosterman, Land Reform in Latin America : How to Have a Rev­ olution Without a Revolution, in «Wash. L. Rev.», 42 (1966-67), pp. 189, 193 sg. (per gli aspetti istituzionali); E. Feder, 'Latifundios’ and Agricultural La­ bour in Latin America, in T. Shanin (a cura di), Peasants and Peasant Societies, Basii Blackwell, Oxford 1987', pp. 89, 90 sgg.; A. de Janvry, Peasants, Cap­ italism and the State in Latin American Culture, ibid., pp. 391, 399 sgg.; F. M. Foland, Agrarian Reform in Latin America, in «Foreign Affairs», 48 (1969/70), PP- 97 sgg. (per gli aspetti socio-economici); Th. T. Ankersen e Th. Ruppert, Tierra y Libertad.The Social Function-Doctrine and Land Reform in Latin Amer­ ica, in «Tul. Envtl. L.J.», 19 (2006), pp. 69 sgg. (per un’utile sintesi degli svi­ luppi storici - e ibid., pp. 76 sgg., anche per la non dissimile organizzazione fondiaria precedente alle conquiste europee); Pak Hung Mo, Land Distribution Inequality and Economie Growth: Transmission Channels and Effects, in «Pac. Econ. Rev.», 8 (2003), pp. 171, 178, 181 (per le evidenze statistiche circa la profonda ineguaglianza nella distribuzione delle terre); R. Miguez Nùnez, Las Oscilaciones de la Propiedad Colectiva en las Constituciones Andinas, in «Global Jurist», 8 (2008), n. 1, art. 4 (per la dicotomia proprietà collettiva - proprietà privata nella costruzione del diritto latino-americano). Cfr. poi, U. Mattei, The Peruvian Civil Code, Property and Plunder. Time for a Latin American Alliance to Resist the Neo Liberal Order, in «Global Jurist Topics», 5 (2005), n. 1, art. 3, con H. de Soto, The Mistery of Capital. Why Capitalism Triumphs in the West and Fails Everywhere Else, Basic Books, New York 2000, spec. pp. 157 sgg., 187 sgg., 224 sgg. Non sorprenderà peraltro che tali assetti proprietari abbiano scatenato una reazione, oltre che sociale estesa, anche scolare, sotto le bandiere della dottrina della funzione sociale della proprietà, declinata però - li, come in altri tempi e luoghi - su versanti non fertili agli sviluppi di una democrazia di matrice occidentale: si veda ancora il saggio di Th. T. Ankersen e Th. Ruppert, Tierra y Libertad cit. poco sopra (e ibid., pp. 1 io sg., il ri­ lievo di come queste reazioni possano, in quei contesti, rivelarsi controprodu­ centi alle stesse idee che le animano, allorché deforestazioni e messe a pasco­ lo di terreni agricoli diventano la risposta dei proprietari alla necessità di giustificare un impiego socialmente utile della terra). Per il latifondo e l’asset­ to feudale dell’organizzazione socio-economica, quali fattori di produzione, prima, e di sostegno poi, dell’autocrazia russa, R. Pipes, Russia under the Old Regime (1974), Penguin Books, Harmondsworth 1977, passim, spec. pp. xvnxvin, 64 sgg. (per gli aspetti post-rivoluzionari, pp. 18 sg.); e, sul punto, ana­ lisi preziose pure in A. Romano, Contadini in uniforme. L’Armata Rossa e la collettivizzazione delle campagne nell'URSS, Olschki, Firenze 1999; Id., Lo sta­ linismo, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 9 sgg.; T. Shanin, Russia as a De­ veloping Society, vol. I, Macmillan, London 1985, pp. 17 sgg. (e, per utili ana­ lisi quantitative, pp. 133 sgg.); J. P. LeDonne, Absolutism and Ruling Class. The Formation of the Russian Political Order, 1700-1825, Oxford University Press, New York - Oxford 1991, pp. 4 sgg., 40 sg., 188, 218 sgg.; U. Procac­ cia, Russian Culture, Property Rights and the Market Economy, Columbia Uni­ versity Press, New York 2007, passim e pp. 115 sgg. ; S. Hoch, Serfdom and So­ cial Control in Russia, University of Chicago Press, Chicago 1986; ma si veda anche E. R. Wolf, On Peasant Rebellions, inT. Shanin (a cura di), Peasants cit., pp. 367 sgg. ; A. Walicki, Legal Philosophies of Russian Liberalism, Clarendon, Oxford 1987, pp. 82, 85 sgg., 125 sgg.; T. McDaniel, Autocracy, Capitalism, and Revolution in Russia, University of California Press, Berkeley-London 1988, pp. 17 sgg., 174 sg., 322 sgg.; e, per una sintetica riflessione sugli svi-

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Note

luppi successivi alla caduta del regime sovietico, M. McFaul e K. Stoner-Weiss, The Myth of the Authoritarian Model, in «Foreign Affairs», 87 (2008), n. 1, pp. 68 sgg.; L. J. Rolfes jr, The Struggle for Private Land Rights in Russia, in «Eco­ nomie Reform Today», 1 (1996), pp. io sgg. Cosi A. Gambaro e R. Sacco, Sistemi giuridici comparati, Utet, Torino 2008’, P- 37J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. io sg., 174 sg. (trad, da Zwischen Lìaturalismus und Religion, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005); A. Sen, L’altra India, Mondadori, Milano 2005, pp. 25 sgg. (trad, da The Argumentative Indian, Penguin, London 2005); G. Zagrebelsky, Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Einaudi, Torino 2009, pp. 31 sgg.; G. Ferrara, I presupposti della democrazia, febbraio 2010, a: www.astrid-online.it; K. Dowding, Are Democratic and Just Institutions the Sa­ me?, in K. Dowding, R. E. Goodin e C. Pateman (a cura di), Justice and De­ mocracy cit., pp. 25 sgg., anche per gli ulteriori, essenziali riferimenti. 6“ Come del resto ci ricorda G. Boehmer (Vorwort, in Id., Grundlagen der Biirgerlichen Rechtsordnung, vol. I, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tubingen 1950, p. ix), con icasticità efficace, seppure anelastica alle evoluzioni della storia: Òffentliches Recht vergeht, Privatrecht bestebt. Si veda anche F. A. von Hayek, Die Sprachverwirrung im politischen Denken (1968), in Id., Grundsdtze einer liberalen Gesellschaftsordnung. Aufsàtze zurPolitischen Philosophic und Theorie, Mohr Siebeck, Tiibingen 2002, pp. 150, 157-58; oppure M. J. Horwitz, The History of the Public/Private Distinction, in «U. Pa. L. Rev.», 130 (1982), pp. 1423 sgg.; e, ora, il volume 56(3), Summer 2008, dell’« American Journal of Com­ parative Law», Special Symposium Issue: Beyond the State:Rethinking Private Law (a cura di N. Jansen e R. Michaels). H. J. Berman, Law and Revolution. The Formation of Western Legal Tradition, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1983, pp. 273 sgg., 434 sgg. Si veda supra, Cap. 2. "J E chi riduce a questo il diritto, che dovrebbe far tesoro dei moniti di coloro i quali paventano uno scenario in cui la normatività astratta «spossessa la poli­ tica ... il legalismo si impossessa della vita, e la politica muore»: B. de Giovan­ ni, L’ambigua potenza dell’Europa, Guida, Napoli 2002, p. 190. Si veda inve­ ce, nitidamente, G. Calabresi, Two Functions ofFormalism. In Memory of Gui­ do Tedeschi, in «U. Chi. L. Rev.», 67 (2000), pp. 479, 482. Per l’uso di questo termine, in luogo di ‘legalità’, perché meglio in grado di co­ gliere le «fondazioni sostanziali e non formali» dei fenomeni di cui si discute al testo, P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Bari-Roma 1995, p. 144. «Preso singolarmente, quasi nessuno di tali fattori costituisce un elemento pe­ culiare della civiltà occidentale; ciò che contraddistingue l’Occidente è la loro presenza congiunta»: S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordi­ ne mondiale (1997), Garzanti, Milano 2004, p. 95 (trad, da The Clash of Civi­ lization and the Remaking of the World Order, Simon and Schuster, New York 1996). 6“ Sulle fortune alterne, e le diverse configurazioni, che quell’autonomia conob­ be nei secoli precedenti, e.g., H. J. Berman, Law and Revolution cit., pp. 49 sgg.; P. Grossi, L’Europa deidiritto, Laterza, Bari-Roma 2007, pp. 11 sgg., 39 sgg.; Id., L’ordine giuridico cit., pp. 61 sgg.; R. C. Van Caenegem, An Histor­ ical Introduction to Western Constitutional Law, Cambridge University Press, Cambridge 1995, pp. 34 sgg.; M. Lupoi, The Origins of the European Legal Or-

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der, Cambridge University Press, Cambridge 2000, passim e spec. pp. 247 sgg., 270 sgg. (trad, da Alle radici del mondo giuridico europeo, Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1994). In questa stessa direzione, e sui semi fecon­ di piantati a Roma con la nascita del giurista professionale, supra, Cap. r, § 3. Nozione, beninteso, che come sempre «non significa neutralità del diritto né sua sottrazione al gioco delle forze storiche: in una realtà umanissima com’è ogni realtà giuridica le zone neutrali sono infatti, se non impensabili, almeno estremamente ridotte. Autonomia è quindi nozione relativa ... e si­ gnifica soltanto che il diritto non è l’espressione di questo o quel regime né delle sole forze che ad esso fan capo». P. Grossi, L'ordine giuridico cit., p. 51. 60S Si vedano sul punto i riconoscimenti che vengono da giuristi e storici quali P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, Bari-Roma 2007, pp. r8 sgg., 29 sgg., 67 sgg., 83 sgg., ri3 sgg.; A. Padoa Schioppa, Italia ed Europa nella storia del di­ ritto, il Mulino, Bologna 2003, pp. 108 sgg., 409 sgg., 533 sgg. Per il fenomeno ben noto come ‘cesaropapismo’ che ha connotato l’evoluzio­ ne dei complessi rapporti fra autorità secolari e Ortodossia cristiano-orienta­ le, si veda - con particolare riguardo alla Russia - R. Pipes, Russia under the Old Regime cit., passim, spec. pp. 223 sgg.; J. P. LeDonne, Absolutism and Ruling Class cit., pp. 141 sg., 298; T. McDaniel, Autocracy, Capitalism, and Revolution in Russia cit., pp. 172, 187 sgg.; T. Shanin, Russia as a Developing Society, vol. I, cit., p. 50; V. Lobachev e V. Pravotorov, A Millennium ofRus­ sian Orthodoxy, Novosti Press, Moscow 2988, pp. 38-63 (e pp. 64 sgg. per gli sviluppi post-rivoluzionari); G. P. Fedotov, The Russian Religious Mind, 2 vol!., Harvard University Press, Cambridge Mass. 1946-1966; S. Runciman, The Orthodox Churches and The Secular State, Oxford University Press, Auck­ land-Oxford 1911, passim, spec. pp. 9-25; G. Codevilla, Lo Zar e il Patriarca, La Casa di Matriona, Milano 2008, passim. Per i portati di quel fenomeno nel lungo periodo, e rilevanti nella nostra prospettiva, che in Russia hanno ali­ mentato la commistione fra diritto e morale religiosa, nonché, e di conseguen­ za, a) «quell’importante aspetto della cultura russa che collegava all’ideale cri­ stiano lo spirito antilegalista»; e è) la propensione all’autocrazia come model­ lo organizzativo dello Stato, mai sfidato da un’articolazione della società civile sufficientemente organizzata a protezione dei propri diritti, né rifornita dal­ le risorse comunicative necessarie a rivendicarne di nuovi, si veda per tutti, G. Ajani, Diritto dell'Europa orientale, Utet, Torino 1996, pp. 64 sgg. (la ci­ tazione è da p. 75, nota 39); U. Procaccia, Russian Culture, Property Rights and the Market Economy cit.; ma pure A. Romano, Lo stalinismo cit., pp. 9 sgg.; D. J. Galligan, Legal Failure: Law and Social Norms in Post-Communist Europe, in D. J. Galligan e M. Kurkchiyan (a cura di), Law and Informal Prac­ tices. The Post-Communist Experience, Oxford University Press, Oxford - New York 2003, anche per ulteriori riferimenti. Si veda almeno H. J. Berman, Law and Revolution cit., passim, spec. pp. 87 sgg., 94 sgg. (e nota 1 a pp. 574 sgg.); ]. Le Goff, Il cielo sceso in terra. Le ra­ dici medievali dell'Europa, Laterza, Bari-Roma 2004, pp. 78 sg., ma anche pp. 246 sg. (trad, da L'Europe est-elle née au Moyen Age?, Seuil, Paris 2003). Per riferimenti arricchiti da datazioni anteriori (fino alle dignitates distinctae fra imperatore e papa, proclamate da papa Gelasio I, 492-96), A. Padoa Schiop­ pa, Italia ed Europa nella storia del diritto, il Mulino, Bologna 2003, pp. 202 sgg.; e si veda anche P. Prodi, Una storia della giustizia, il Mulino, Bologna 2000, pp. 40 sgg., 59 sgg.

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Note

611 Mt 22, 21; Me i2, 17; Lc 20, 25. Su questo specifico punto, per la netta di­ stinzione fra il cristianesimo, da un lato, e islam ed ebraismo dall’altro, demar­ cazione fondata proprio sull’incorporazione, da parte del primo, della diffe­ renziazione fra ‘spirituale’ e ‘secolare’, J. Neusner e T. Sonn, Comparing Re­ ligions through Law. Judaism and Islam, Routledge, London - New York 1999, pp. 2 sgg.; S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi, il Mulino, Bologna 2002, pp. 41 sgg. Cosi già M. Weber, Economia e società, III: Sociologia del diritto (1922), Edizioni di Comunità, Milano 1995, pp. 140 sgg. (la cui analisi si pri­ va tuttavia di prensilità allorché colloca le esperienze non cristiano-occidenta­ li sotto il segno della staticità e dell’irrazionalità: si veda eg., pp. 142 sg., 189). 612 Per il cui testo originale del 1222, e quello rivisto, del 1231, H. Marczali, En­ chiridion Eontium Historiae Hungarorum, Athenaeum, Budapest 1901, pp. 104 sgg. e 134 sgg.; si veda anche}. M. Bak, G. Bónis e J. R. Sweeney (a cura di), Decreta regni mediaevalis HungariaefThe Laws of the Medieval Kingdom of Hun­ gary, I: rooo-rjor (con la collaborazione di L. S. Domonkos), Charles Schlacks jr Pub, Idyllwild 19992, pp. 32 sgg. e (per la trad, ingl.) 95 sgg.; in argomen­ to, pure H. J. Berman, Law and Revolution cit., pp. 294, 515. 611 Si veda il visionario, premonitore e affascinante Tractatus [1464], ora in J.-P. Faye (dir.), L'Europe une, Gallimard, Paris 1992, pp. 52 sg. 614 J. Le Goff, Il cielo sceso in terra cit., pp. 210 sg. Si veda A. Gambaro e R. Sacco, Sistemi giuridici comparati cit., p. 43. Su quella posizione, il rimando è, per tutti, a H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Verlag Franz Deuticke, Wien i9602, spec. pp. 200 sgg. Per quelle incapacità, si veda, e.g., B. Z. Tamanaha, Law as a Means to an End cit., pp. 5 sgg., 61 sgg., 75, anche per la discussione delle posizioni assunte, sul punto di cui al testo, da una lunga serie di protagonisti del dibattito gius-politico, da F. Engels a F. Cohen, da O. W. Holmes a R. von Jhering (dalla cui trad. ingl. di DerZweck im Recht - The Boston Book Company, Boston 1913 - Tamanaha riprende il titolo); con efficaci toni figurativi, F. Galgano, Il diritto e le altre arti. Una sfi­ da alla divisione fra le culture, Compositori, Bologna 2009, pp. 65 sgg. Si veda e.g E. J. Weinrib, Legal Formalism: On the Immanent Rationality of Law, in «Yale L. J.», 97 (1988), p. 949 (per il radicamento del fenomeno giu­ ridico nel paradigma del diritto naturale ‘classico’); J. M. Finnis, Natural Law and Natural Rights, Clarendon University Press, Oxford 1980, pp. 65-103 (il richiamo è al diritto naturale nella versione cattolica di Tommaso); M. S. Moo­ re, Educating Oneself in Public: Critical Essays in Jurisprudence, Oxford Univer­ sity Press, Oxford 2000, pp. 295 sgg. (il rimando è al ‘realismo morale’); J. Gordley, The State's Private Law and Legal Academia, in «Am. J. Comp. L.», 56 (2008), soprattutto pp. 643 sg., 647 sg. (per l’interazione fra il diritto na­ turale e il positivismo giuridico). Si veda G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, il Mulino, Bologna 2008, pp. 28 sg. ; V. Ferrari, Diritto che cambia e diritto che svanisce, in P. Rossi (a cu­ ra di), Fine del diritto?, il Mulino, Bologna 2009, pp. 37 sg., 41 sgg.; e già C. Schmitt, La tirannia dei valori, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 21 sgg., 67 sgg. (trad, da Die Tyrannei der Werte, i960, in Sàkularisation und Utopie. Ebracher Studien. Ernst Forsthoff zum 65. Geburtstag, W. Kohlhammer Verlag, Stuttgart 1967, pp. 37 sgg.); ma anche supra, Cap. 11, §§ 2-5. M. Weber, Economia e società, III: Sociologia del diritto (1922), Edizioni di Comunità, Milano 1995, p. 136. Per un’agile rassegna di esempi, G. Tullock, The Case Against Common Law, Carolina Academic Press, Durham 1997, pas­ sim e pp. 6, 9 sg. Per analisi piu articolate si veda, eg, U. Mattei e L. Nader, Plunder. When the Rule ofLaw is Illegal, Blackwell, Malden 2008, pp. 12, 168

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sgg.; D. C. North, J. J. Wallis e B. R. Weingast, Violence and Social Orders . A Conceptual Frameworkfor Interpreting Recorded Human History, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge - New York 2009, pp. 89, 91 sgg.; per qualche illu­ strazione utile in materia di allocazione di diritti proprietari, M. A. Glendon, Rights Talk. The Impoverishment of Political Discourse, The Free Press, New York 1991, pp. 20 sgg.; M. J. Horwitz, The Transformation of American Law, 1780-1860, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1977, pp. roi-8. “° R. Sieder e J. Witchell, Advancing Indigenous Claims through the Law .Reflections on the Guatemalan Peace Process, in J. K. Cowan, M.-B. Dembour e R. A. Wil­ son (a cura di), Culture and Rights. Anthropological Perspectives, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge 2001, p. 203; e cfr., più in generale, J. M. Maravall, The Rule of Law as a Political Weapon, in J. M. Maravall e A. Przeworski (a cu­ ra di), Democracy and Rule ofLaw, Cambridge University Press, Cambridge 2003, pp. 261 sgg. Innumerevoli sono le illustrazioni di come la citazione di cui al te­ sto rifletta quanto accade da sempre, accade tutti i giorni e ovunque. Fra i tan­ ti, in Occidente, M. J. Horwitz, The Transformation ofAmerican Law, 1780-1860 cit., pp. 1 sgg.; L. M. Friedman, Storia del diritto americano, Giuffrè, Milano 1995, P- 25 (trad, da History of American Law, Simon & Schuster, New York 1985“); H. Jacob, Introduction, in H. Jacob, E. Blankenburg, H. M. Kritzer, D. M. Provine e J. Sanders, Courts, Law and Politics in Comparative Perspective, Ya­ le University Press, New Haven - London 1996, pp. 6 sgg.; N. Irti, Norma e luo­ ghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Roma-Bari zoor, pp. 50 sgg. Per il diritto canonico, fin dai suoi primi passi, P. Grossi, L ' ordine giuridico cit., pp. 109, r 19 sgg.; per il diritto islamico ed ebraico, S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi, il Mulino, Bologna 2002, pp. 244 sgg., 252 sgg.; per l’esperienza giuridica russa, G. Ajani, Diritto dell’Europa orientale, Utet, Torino 1996, pp. 64 sgg., 76; per la Cina imperiale, G. Ajani, A. Serafino e M. Timoteo, Diritto dell’Asia orienta­ le, Utet, Torino 2007, PP- 51 sgg.; Per il diritto tradizionale africano (anche nel­ le sue interrelazioni col diritto odierno), J. Djoli, Le constitutionnalisme africain: entre Tofficici et le réel ...et les mythes. Etat de lieux, in C. Kuyu (dir.), Àia re­ cherche du droit africain du xxf siècle, Connaissances et Savoirs, Paris 2005, pp. 175 sggSi veda anche supra, Cap. r, § 5 e nota 27. 612 Una paradossale controprova si ha dal richiamo alle modalità tecniche che gli autori del ‘Torture Memo’ hanno dovuto utilizzare per costruire i propri ar­ gomenti: supra, Cap. 12, § 1. 621 Come è testimoniato, e.g., dal ricongiungimento del diritto odierno, in Euro­ pa orientale, con la tradizione romanistica propria a quei sistemi fino all’av­ vento dei regimi comunisti (G. Ajani, Diritto dell’Europa orientale cit., pp. 33162); oppure dalla vigenza complessivamente inalterata - non solo dal punto di vista formale, ma anche da quello sostanziale, ossia nella fabbrica quotidia­ na del diritto - del codice civile tedesco, del 1896, prima e dopo l’esperienza nazista, del codice civile spagnolo, del 1889, prima e dopo l’esperienza fran­ chista, della continuità tecnica e culturale fra il codice civile italiano del 1865 e quello ‘fascista’ del 1942, tuttora in vigore. 624 Ad es., C. Gearty, Can Human Rights Survive?, The Hamlyn Lectures 2005, Cambridge University Press, Cambridge 2006, p. 78; oppure (con riferimen­ to a Germania e Giappone) U.S. Department of State, The Future ofIraq Project (una serie di r3 voli, redatti fra l’ottobre 2001 e il settembre 2003, e disponi­ bili sub National Security Archive Electronic Briefing Book n. 198, a: www.gwu.edu), Overview, p. 1 r - ma vedi ora le assai più caute osservazioni contenute nel Rapporto dello Special Inspector General for Iraq Reconstruc-

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Note tion (SIGIR - che risponde ai segretari di Stato e della Difesa Usa), Hard Les­ sons. The Iraq Reconstruction Experience, febbraio 2009, a: www.sigir.mil, pp. 14, 159, xói. Con riguardo particolare al Giappone, É. O. Reischauer, Storia del Giappone .Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 2000 (trad. it. da Japan. The Story of a Nation, apparentemente dalla 3“ ed., A. A. Knopf, New York 1981), segnala: «La decisione più saggia degli americani fu quella di fon­ dare le riforme sulle passate conquiste democratiche dei giapponesi, partico­ larmente sul loro Parlamento di tipo inglese creato durante il periodo della ‘de­ mocrazia Taisho’, e non di trapiantare le istituzioni democratiche americane in Giappone [p. 173] ... La concezione erronea degli americani sui grandi ma­ li della società giapponese fece si che essi si occupassero delle riforme in mo­ do energico e perfino radicale, ma il successo alla fin fine dipese proprio dalla natura della società giapponese e dalle basi democratiche e liberali di fatto già stabilite» [p. 189]. La presenza di uno di quelli che abbiamo visto essere i pre­ supposti per la nascita della democrazia ‘occidentale’, ossia la laicità delle isti­ tuzioni, è sottolineata da G. Ajani, A. Serafino e M. Timoteo, Diritto dell'A­ sia orientale cit., pp. 165 sgg.; D. A. Metraux, The Soka Gakai's Critical Role in the Rapidly Changing World of Postwar Japanese Politics, in Tun-Jen Cheng e D. A. Brown (a cura di), Religious Organizations and Democratization. Case Studies from Contemporary Asia, M. E. Sharpe, Armonk 2006, pp. 267 sgg. L’odierna incompiutezza della marcia nipponica verso la democrazia (à la oc­ cidentale) è segnalata invece, e fra gli altri, da L. D. Hayes, Introduction to Jap­ anese Politics, M. E. Sharpe, Armonk 2005, il quale allinea la corruzione dif­ fusa (pp. 105 sgg.), la diuturna subordinazione del Parlamento alle decisioni prese dalle élite politiche, economiche e burocratiche (pp. 57, 280 sgg.; ma sul punto si veda anche Yun’ichi Kyogoka, The Politicai Dynamics ofJapan, Uni­ versity of Tokyo Press, Tokyo 1987, p. 69), la scarsa indipendenza della ma­ gistratura dal potere politico (pp. 62 sgg.; e si veda J. Sanders, Courts and Law in Japan, in H. Jacob, E. Blankenburg, H. M. Kritzer, D. M. Provine e J. San­ ders (a cura di), Courts, Law and Politics cit., pp. 326 sgg.; J. M. Ramseyer, The Puzzling (In)dependence of the Courts :A Comparative Approach, in «J. Leg. Stud.», 23 (1994), pp. 72T, 724 sg.); il nepotismo endemico nella selezione della classe politica (il 40% dei candidati del Partito liberaldemocratico per le elezioni della Camera Bassa nel 1990 erano figli di membri del Parlamento: p. 49). Più in generale, sui percorsi della democrazia giapponese, e per riferimen­ ti ulteriori, N. Ike, A Theory ofJapanese Democracy, Westview Press, Boulder 1978; J- Arnason, Paths to Modernity: The Peculiarities of Japanese Feudalism, in G. McCormack e Yoshio Sugimoto (a cura di), The Japanese Trajectory .Mod­ ernization and Beyond, Cambridge University Press, Cambridge 1988, p. 235 sgg.; F. K. Upham, The Illusory Promise of the Rule of Law, in A. Sajó (a cura di), Human Rights with Modesty : The Problem of Universalism, Koninklijke Brill NV, Leiden-Boston 2004, pp. 279, 301 sgg. U. Mattei, Why the Wind Changed: Intellectual Leadership in Western Law, in «Am. J. Comp. L.», 42 (1994), pp. 195 sgg. L’insistenza sullo storico prima­ to della consuetudine laica, quale presupposto dell’odierno percorso delle isti­ tuzioni democratiche in India, è diffusa. Eg.: M. MacLaren, Thank you India - Reflections on the 4th International Conference on Federalism, New Delhi, 5-7 November 2007, in «German L. J.», 9 (2008), n. 3, pp. 367 sgg., il quale os­ serva in particolare (p. 381): «The task of striking the fine balance between manifold identities, of reconciling competing national and sub-national inter­ ests, and of managing contradictions between unity and diversity is not an easy one. It is, however, easier when there is a narrative of cultural heritage to be drawn upon, and much easier when that heritage is one of acceptance of

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heterodoxy, ongoing dialogue, and pluralism». Sul medesimo punto si veda anche A. Sen, Le radici globali della democrazia cit., spec. pp. 19 sg., 50 sg.; Id., L’altra India, Mondadori, Milano 2005, pp. 30 sgg., 68 sg., 293 sgg. (trad, da The Argumentative Indian, Penguin, London 2005); W. Menski, Hindu Law. Beyond Tradition and Modernity, Oxford University Press, New Delhi 2003, pp. 121 sgg., 548, 590; e poi J. J. Lipner, The Rise of «Hinduism» ; or, How to Invent a World Religion with only Moderate Success, in «Int’l J. Hindu Stud. », 10 (2006), pp. 91 sgg.; P. N. Bhagwati, Religion and Secularism under the In­ dian Constitution, in R. D. Baird (a cura di), Religion and Law in Independent India, Manohar, New Delhi 2005', pp. 35 sgg.; G. J. Jacobsohn, The Wheel of Law. India’s Secularism in Comparative Constitutional Context, Princeton Uni­ versity Press, Princeton 2003; S. Rajagopalan, Secularism in India ; Accepted Principle, Contentious Interpretation, in W. Safran (a cura di), The Secular and the Sacred, Nation, Religion and Politics, Frank Cass, London-Portland 2003, pp. 241 sgg.;M. V. Rajeev Gowda e E. Sridharan, Parties and the Party System, 1947-2006, in S. Ganguly, L. J. Diamond e M. F. Plattner (a cura di), The State of India’s Democracy, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2007, pp. 3 sgg. Considerazioni non dissimili, con riguardo agli sviluppi della democra­ zia indonesiana, si leggono in G. Barton, Islam and Democratic Transition in In­ donesia, in Tun-Jen Cheng e D. A. Brown (a cura di), Religious Organizations cit., pp. 221 sgg.; Tun-Jen Cheng e D. A. Brown, Introduction: The Roles of Religious Organizations in Asian Democratization, ibid., pp. 3, 16, 27 sgg.; e si veda anche T. Lindsey, Indonesia: Devaluing Asian Values Rewriting Rule of Law, in R. Peerenboom (a cura di), Asian Discourses of Rule of Law, Routled­ ge-Curzon, London - New York 2004, pp. 281 sgg. Per il dibattito vasto - ma sovente svolto solo all’interno delle categorie interpretative occidentali - su­ gli sviluppi possibili della democrazia in Cina, R. Peerenboom, China Modern­ izes. Threat to the West or Modelfor the Rest?, Oxford University Press, Oxford 2007, spec. pp. 195 sgg., 257 sgg.; Id., China's Long March Toward the Rule of Law, Cambridge University Press, Cambridge 2002, pp. 513 sgg.; e, con particolare riguardo al ruolo giocato in quella tradizione dal confucianesimo, L. W. Pye, Asian Power and Politics, Belknap Press, Cambridge Mass. 1985, passim e pp. 182, 187 sgg.; F. Fukuyama, Confucianism and Democracy, in «Journal of Democracy», 6 (1995), n. 2, p. 20; W. Th. de Bary, Some Com­ mon Tendencies in Neo-Confucianism, in D. S. Nivison e A. F. Wright (a cura di), Confucianism in Action, Stanford University Press, Stanford 1959, pp. 25, 28 sgg.; D. A. Bell, East Meets West:Human Rights and Democracy in East Asia, Princeton University Press, Princeton 2000, pp. 286 sgg.; ma anche i saggi di T. Zhou, Y. Lang (pseud.) e Y. Zhang, in «Limes» (2008), n. 4, rispettiva­ mente pp. 97, 107 e 117. Con specifico riguardo all’impatto che sul farsi del­ la democrazia hanno avuto le interrelazioni fra religione (in ispecie il confu­ cianesimo) e potere, a Taiwan e in Corea, G. Ajani, A. Serafino e M. Timo­ teo, Diritto dell’Asia orientale cit., rispettivamente pp. 229 sg., 237 sg., e 251 sgg., anche per i riferimenti essenziali; cui adde, per Taiwan A. Laliberté, 'Buddhism for the Human Realms’ and Taiwanese Democracy, M. A. Rubin­ stein, The Presbyterian Church in the Eormation of Taiwan’s Democratic Society, 1945-2004-, e, per la Corea del Sud, Im Hyug-Baeg, Christian Churches and De­ mocratization in South Korea, tutti in Tun-Jen Cheng e D. A. Brown (a cura di), Religious Organizations cit., rispettivamente pp. 55 sgg., 109 sgg., 136 sgg.

XV. DERIVE ED ESPANSIONI (pp. 194-212) Si veda supra, in partic. Cap. 5. Per utili ragguagli (anche statistici) sul lungo cammino compiuto dall’Occiden­

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Note

te per raggiungere gli standard sociali, politici ed economici, che ora esso van­ ta, H.-J. Chang, Kicking Away the Ladder. Development Strategy in Historical Perspective, Anthem Press, London 2003 (rist. 2005), pp. 69, 71 sgg. Si veda anche J. Keane, The Life and Death of Democracy, W.W. Norton, New York London 2009, pp. 873 sgg. “• G. A. Almond, M. Chodorow e R. H. Pearce (a cura di), Progress and Its Dis­ contents, University of California Press, Berkeley 1982, passim;]. H. Steward, Teoria del mutamento culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1977, passim e pp. 19 sgg., 87 sgg. (trad. da Theory of Cultural Change. The Methodology ofMul­ tilinear Evolution, University of Illinois Press, Urbana 1955). Ma, in genera­ le, moniti severi a non cadere nella tentazione di cui al testo vengono da una letteratura imponente. Si ricordi solo G. Sasso, Tramonto di un mito. L'idea di «progresso» tra Ottocento e Novecento, il Mulino, Bologna 1984; J. Le Goff, Progresso/Reazione, in Enciclopedia Einaudi, vol. XI, Einaudi, Torino 1980, pp. 198 sgg.; M. Ginsberg, Progress in the Modem Era, in P. P. Wiener (a cu­ ra di), Dictionary of the History of Ideas, vol. Ill, Scribner’s Sons, New York 1973, PP- 633 sgg.; e M. D. Sahlins e E. R. Service, Introduction, in Id. (a cu­ ra di), Evolution and Culture, University of Michigan Press, Ann Arbor i960, pp. i sgg.; R. Nisbet, History of the Idea of Progress, Basic Books, New York 1980; J. B. Bury, Storia dell'idea di progresso, Feltrinelli, Milano 1964 (trad, da The Idea ofProgress. An Inquiry into Its Origin and Growth, Macmillan, New York 1932). Si veda eg. M. Ainis, Le libertà negate, Rizzoli, Milano 2004, pp. 220 sgg., 302 sgg“° A. Glyn, Capitalism Unleashed, Oxford University Press, Oxford - New York 2006 (trad. it. Capitalismo scatenato, Brioschi, Milano 2007); si veda anche M. Salvati, Capitalismo, mercato e democrazia, il Mulino, Bologna 2009, spec. pp. 39, 106 sgg.; R. B. Reich, Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia, Fazi, Roma 2008; e poi C. E. Lindblom, The Market System. What It Is, How It Works, and What to Make of It, Yale University Press, New Haven 2001; nonché R. Dahrendorf, Qua­ drare il cerchio. Benessere economico, coesione sociale e libertà politica, Later­ za, Roma-Bari 1995 (trad. it. da Economie Opportunity, Civil Society, and Politicai Liberty, UN Research Institute for Social Development, Geneva 1995); C- Crouch, Postdemocrazia (2003), Laterza, Roma-Bari 2004, spec, pp. 41-60, 90-126. V. Barsotti e N. Fiorita, Separatismo e laicità. Testo e materiali per un confron­ to tra Stati Uniti e Italia in tema di rapporti stato-chiesa, Giappichelli, Torino 2008. 02 Sulla possibile ‘costruzione’ delle tradizioni, supra, Cap. 12, §§ 2-3, e i luoghi ivi cit. Si veda per tutti S. Rodotà, Perché laico, Laterza, Roma-Bari 2009. 6M Sul punto le valutazioni d’insieme si leggono in J. Habermas, Notes on a Post­ secular Society, 18 giugno 2008, a: www.signandsight.com; H. Joas, Gesell­ schaft, Stoat und Religion, in Id. (a cura di), Sdkularisierung und die Weltreligionen, Fischer, Frankfurt am Main 2007, pp. 9 sgg.; si veda anche C. Tilly, De­ mocracy, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2007, pp. 106 sggSi veda e.g. M. R. Ferrarese, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo del­ le istituzioni, il Mulino, Bologna 2002, pp. 1 sgg. La prospettiva, peraltro, non

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è inedita: si veda ad esempio D. Halévy, Essai sur I’acceleration de l’histoire, Fayard, Paris 1961'; D. Harvey, The Condition of Postmodemity, Blackwell, Malden 1990, passim e pp. 240 sgg. 6)6 Su questo punto, agli autori cit. supra, Cap. 13, § 4, nota 577, in partic. E. R. Leach, Etnocentrismi, in Enciclopedia Einaudi, V, Einaudi, Torino 1978, pp. 955 sgg.; adde, per gli ulteriori riferimenti essenziali, in una letteratura vastis­ sima, U. Fabietti e F. Remotti (a cura di), Dizionario di Antropologia, s.v. Et­ nocentrismo, Zanichelli, Bologna 1997, pp. 273 sg.; e i contributi raccolti in U. Fabietti (a cura di), Dalla tribù allo stato. Saggi di antropologia politica, Unicopli, Milano 1991. Assai perspicui, sul punto, P. Collier, A. Hoeffler e M. Sòderbom, Post-Con­ flict Risks, in «Journal of Peace Research», 45 (2008), n. 4, pp. 461 sgg.; si ve­ da anche P. Collier, Wars, Guns, and Votes, Harper Collins, New York 2009; nonché J. Snyder e E. D. Mansfield, Electing to Eight: Why Emerging Democ­ racies Go to War, Mit Press, Cambridge Mass. 2007; J. Snyder, From Voting to Violence : Democratization and Nationalist Conflict, W. W. Norton, New York 2000; con particolare riguardo ai rischi recati dall’enfatizzazione dei con­ notati ‘elettorali’ della democrazia, in società che non condividono con le no­ stre i caratteri che abbiamo ricordato al Capitolo precedente, W. Bello, The Global Crisis ofLegitimacy ofLiberal Democracy, inG. Lechini (a cura di), Glo­ balization and the Washington Consensus : Its Influence on Democracy and Deve­ lopment in the South, Clacso, Consejo Latinoamericano de Ciencias Sociales, Buenos Aires 2008, pp. 133 sgg. 1,1 Per tutti, D. Berkowitz, K. Pistor e J.-F. Richard, The Transplant Effect, in «Am. J. Comp. L.», 51 (2003), pp. 163 sg. Si veda anche supra, Cap. 3, §§ 3-4, Cap. 11, §§ 2-3; e Commission on Legal Empowerment of the Poor, Making the Law Work for Everyone, Toppan Print­ ing, Somerset 2008, vol. I, p. 18. s* D. Held, Democrazia e ordine globale, Asterios, Trieste 1999, pp. 126, 130 sg. (trad. it. da Democracy and the Global Order, Polity Press, Cambridge 1995). Si veda ad es. Da. Kennedy, New Approaches to Comparative Law : Comparativism and International Governance, in «Utah L. Rev.» (1997), pp. 545, 578 sg.; D. Chirot, A Clash of Civilizations or of Paradigms? Theorizing Progress and So­ cial Change, in «International Sociology», 16 (2001), n. 3, pp. 341 sgg.; U. Baxi, The Future of Human Rights, Oxford University Press, New Delhi 2002, PP- 9i sgg. 642 « [E]ven if legal development were not to contribute one iota to economic de­ velopment (I am not saying that is the case, but even if this were, counterfactually, true), even then legal and judicial reform would be a critical part of the development process»: cosf, A. Sen, What Is the Role of Legal and Judicial Reform in Economic Development?, lezione tenuta presso la Banca Mondiale in occasione della prima conferenza sul Comprehensive Legal and Judiciary De­ velopment, Washington D.C., 5 giugno 2000: siteresources.wordbank.org, p. io (un insegnamento che - come abbiamo visto supra, Cap. 5, § 7 - la World Bank ha tradotto in progetti senza tempo né geografia); ma si veda pure Com­ mission on Legal Empowerment of the Poor, Making the Law Work for Every­ one cit., vol. I, p. 47; e, fra gli altri, i saggi raccolti in A. Perry-Kessaris, Law in the Pursuit of Development, Routledge, Abingdon 2010. Si veda anche supra, Cap. 5 e note 180-82; e P. Grilli di Cortona, Come gli Sta­ ti diventano democratici, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 75 sgg., 82 sgg. In ge-

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Note

nerale, per il dibattito rilevante ai nostri fini, si veda supra, il Capitolo prece­ dente, § 2, anche per i riferimenti, cui adde, e multis, fra i giuristi, U. Mattei e L. Nader, Plunder. When the Rule of Law is Illegal, Blackwell, Malden 2008, spec. pp. 196 sgg.; fra gli economisti, E. S. Reinert, How Rich Countries Got Rich ... and Why Poor Countries Stay Poor (2007), Public Affairs, New York 2008, spec. pp. rot sgg. Spunti ricostruttivi in L. G. Pes, Diritto e sviluppo neoliberale : il dibattito sul 'new law and development’, in «Poi. dir.», 38 (2007), pp. 611 sgg.; J.-M. Se­ verino e O. Charnoz, De I’ordre global à la justice globale: vers une politique mondiale de régulation. I: Concepts, in «En Temps Réel», Mai 2008, Cahier n. 33, pp. 6 sgg.; si veda anche D. C. North, J. J. Wallis e B. R. Weingast, Vio­ lence and Social Orders. A Conceptual Framework for Interpreting Recorded Hu­ man History, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2009, pp. 263 sgg. Per critiche acuminate ai modelli circolanti, S. Latouche, La scom­ messa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2007, passim, spec. pp. 73 sgg. (trad. da Le pari de la décroissance, Fayard, Paris 2006). Per i ragguagli sul dibattito corrente, oltre a P. Hall e D. Soskice (a cura di), Varieties of Capitalism. The Institutional Foundations of Comparative Advan­ tage, Oxford University Press, Oxford 2001; J.-P. Fitoussi, La democrazia e il mercato, Feltrinelli, Milano 2004 (trad, da La democratic et le marche, Grasset, Paris 2004); M. Salvati, Capitalismo, mercato e democrazia, il Mulino, Bo­ logna 2009, spec. pp. 39, 106 sgg.; P. Savona, Il governo dell'economia globa­ le, Marsilio, Venezia 2009, pp. 154 sgg.; si veda C. J. Milhaupt e K. Pistor, Law and Capitalism. What Corporate Crises Reveal about Legal Systems and Eco­ nomic Development around the World, University of Chicago Press, ChicagoLondon 2008, passim', K. E. Davis e M. J. Trebilcock, The Relationship between Law and Development cit., pp. 895, 933 sgg.; G. Sartori, Democrazia. Cosa è cit., pp. 237 sgg., 271 sg., 355 sgg.; nonché B. Bueno de Mesquita e G. W. Downs, Le autocrazie sostenibili, in «Aspenia», 46 (2009), pp. 166 sgg.; H.-J. Chang, Bad Samaritans. The Myth of Free Trade and the Secret History of Capi­ talism, Bloomsbury Press, New York 2009, pp. 171 sgg.; S. Cassese, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Einaudi, Torino 2009, pp. 176177: «La “democrazia globale” sviluppa o sostituisce le democrazie naziona­ li? E non potrebbero gli ordini giuridici globali abusare, a loro volta, dei po­ teri di cui dispongono, sia pure a fini “giusti” ?» M Per i quali, e per tutti, W. Easterly, Idisastri dell’uomo bianco cit., p. 413. Sul cruciale punto che concerne l’identificazione e le modalità di realizzare e di­ stribuire i «global public goods», cfr. J. D. Sachs, Common Wealth. Economics fora Crowded Planet, Penguin, New York 2008, pp. 295 sgg.; S. Barret, Why Cooperate? The Incentive to Supply GlobalPublic Goods, Oxford University Press, Oxford - New York 2007; Vandana Shiva, Le nuove guerre della globalizzazione. Sementi acqua eforme di vita, Utet, Torino 2005, passim (trad, da Globalization’s New Wars: Seed, Water and Life Forms, Women Unlimited, New Delhi 2005); B. Chimni, The Sen Conception of Development and Contemporary International Law Discourse:Some Parallels, in «The Law and Development Review», 1 (2008), n. 1, art. 2, pp. 3 sgg.; L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della demo­ crazia, IL Teoria della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 596 sgg. Sul punto, anche per i riferimenti essenziali al dibattito, il quale è arato da pro­ poste di cui si scorgono con fatica i contenuti di effettività, D. Miller, Nation­ al Responsibility and Global Justice, Oxford University Press, Oxford 2007, passim, spec. pp. 238 sgg.; e ibid., pp. 57 sgg., pure la discussione di rimedi centrati sull’istituzione di una Global Resources Tax (avanzata da Th. Pogge,

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An Egalitarian Law of Peoples, in «Philosophy and Public Affairs», 23 (1994), pp. 195-224). Si veda anche, per la proposta di distribuzione di un ‘Global Re­ sources Dividend’ a favore degli individui impossibilitati a soddisfare « their own basic needs with dignity», Th. Pogge, World Poverty and Human Rights, Polity, Cambridge 2008’, pp. 202 sgg. (la cit. è da p. 203). M’ Peraltro, la letteratura critica sugli aiuti occidentali, e in particolare sulle loro articolazioni dannose nei confronti degli stessi beneficiari, è sterminata. Si ve­ da, anche per i riferimenti essenziali, D. Moyo, Dead Aid. Why Aid Is Not Working and How There is Another Way for Africa, Farrar, Straus & Giroux, New York 2009; H.-J. Chang, B«d Samaritans cit.; W. Easterly (a cura di), Reinventing Foreign Aid, Mit Press,Gambridge Mass. 2008; P. T. Bauer, Dal­ ia sussistenza allo scambio. Uno sguaradcritico agli aiuti allo sviluppo, Ibi, Tori­ no 2009; R. Glenn Hubbard e E. W. Duggan, The Aid Trap:Hard Truths About Ending Poverty, Columbia University Press, New York 2009; L. Whitfield (a cura di), The Politics ofAid. African Strategies for Dealing with Donors, Oxford University Press, Oxford - New York 2009; W. Maarhai, The Challenge for Africa, Pantheon Books, New York 2009. "" Si veda supra, Cap. 9. 651 Supra, Cap. 13, § 4, nota 581. 6,2 Dal punto di vista europeo, poi, ogni riflessione sulle relazioni fra interven­ tismi e investimenti ‘umanitari’ dovrebbe tener conto dei dati che segnalano come «[N]early two decades after the end of the Cold War ... European de­ fence resources still pay for a total of 10,000 tanks, 2,500 combat aircraft, and nearly two million men and women in uniform - more than half a mil­ lion more than the US hyper-power. Yet 70% of Europe’s land forces are sim­ ply unable to operate outside national territory - and transport aircraft, com­ munications, surveillance drones and helicopters (not to mention policemen and experts in civil administration) remain in chronically short supply. This failure to modernize means that much of the € 200 billion that Europe spends on defence each year is simply wasted»: N. Witney, Re-energising Europe’s Security and Defence Policy, European Council on Foreign Relations, July 2008, pp. 1,31. 655 Per tutti, e per lezioni preziose, si vedano gli scritti di A. Sen, e.g: The Idea of Justice, Harvard University Press, Cambridge Mass. 2009, pp. 329 sgg. Fra i primi, J. S. Nyie jr, Il paradosso del potere americano, Einaudi, Torino 2002, pp. 12 sg. (trad. it. da The Paradox ofAmerican Power, Oxford Univer­ sity Press, Oxford 2002). Si veda poi, e multis, J. D. Sachs, Common Wealth cit., pp. 272 sgg., 278 sgg., 298 sgg. Per il richiamo all’attrattività esercitata dal ‘software’ del potere proprio all’ideologia comunista, nel periodo della guerra fredda, G. Tremonti, La paura e la speranza, Mondadori, Milano 2008, p. 27. G. Calchi Nevati, Africa Cinquanta, ISPI Policy Brief, n. 169, December 2009, p. 6. Per l’impostazione dei percorsi possibili, lungo la prospettiva di cui al te­ sto, W. Easterly, I disastri dell'uomo bianco cit., pp. 193 sgg., 210, 216 sgg., 413 sgg.; R. G. Rajan, The Future of the IMF and the World Bank, in «Am. Econ. Rev.», 98 (2008), n. 2, pp. no sgg.; nonché Harmonising Donor Prac­ tices for Effective Aid Delivery, DAC Guidelines and Reference Series, 3 voli., OECD, Paris 2003-2006; e i luoghi cit. supra, in questo Capitolo, § 6. A fa­ vore dell’impiego di interventi basati sullo scambio ‘debt-for-development’, in materia di sanità, ambiente, educazione, R. Buckley, Debt-for-development Ex­ changes: The Origins of a Financial Technique, in «L. & Dev. Rev.», 2 (2009), n. 1, art. 3, pp. 25 sgg.

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Note

6!‘ Oltre ai riferimenti di cui alle note che seguono, si vedano i saggi raccolti in D. M. Trubek e A. Santos (a cura di), The New Law and Economie Develop­ ment. A Critical Appraisal, Cambridge University Press, Cambridge 2006. Let­ tura utile, quest’ultima, non solo per la qualità dei contributi, ma anche in vi­ sta di una valutazione complessiva del movimento - di marca culturale statu­ nitense - noto come ‘law & development’, ancora oggi mal rifornito di adeguata cultura comparatistica, e sovente imbrigliato fra le maglie dell’interventismo e quelle del relativismo progressista (che sulle spalle del primo finisce sovente per barcollare). Si veda ad ogni modo L. G. Pes, Diritto e sviluppo neoliberale cit., pp. 611 sgg.; e i luoghi cit. supra, nota 173. In questa direzione si veda, e.g., seppure con accenti privi della concretezza auspicabile da parte di un attore come la UE, la «Dichiarazione comune del Consiglio e dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio, del Parlamento europeo e della Commissione sulla politica di svi­ luppo dell’Unione europea: ‘Il consenso europeo’». Commission on Legal Empowerment of the Poor, Making the Law Work cit., vol. II, cap. r, pp. 4 sgg.; e si veda anche il programma «Birth Registration for All Versus Oblivion (BRAVO)» lanciato dalla comunità di Sant’Egidio, a: www.santegidio.org. *” W. Easterly, I disastri dell’uomo bianco cit., pp. 207, 214 sgg. “° Sul punto, si veda l’analisi di D. Whittington, W. M. Hanemann, C. Sadoff e M. Jeuland, Water and Sanitation, in B. Lomborg (a cura di), Global Crises, Global Solutions, Cambridge University Press, New York - Cambridge 2009', PP- 355 sgg-; e ibid, le alternative discusse da J. Davis, Perspective Paper 7.1, pp. 430 sgg.; F. R. Rijsberman e A. P. Zwane, Perspective Paper 7.2, pp. 440 sggPer alcune evidenze empiriche circa la correlazione fra livelli d’istruzione e na­ scita o crescita di istituzioni democratiche, fra gli altri, E. L. Glaeser, R. La Porta, F. Lopez-de-Silanes e A. Shleifer, Do Institutions Cause Growth, in «J. Econ. Growth», 9 (2004), pp. 271, 285 sgg. Per utili indicazioni operative si veda invece M. Grosh, C. del Ninno, E. Tesliuc e A. Ouerghi, For Protection and Promotion. The Design and Implementation of Effective Safety Nets, The World Bank, Washington D.C. 2008,passim, spec. pp. 128 sgg., 253 sgg., 283 sgg-. 343 sgg., 373 sgg., 415 sgg. Cfr. P. F. Orazem, P. Glewwe e H. Patrinos, The Benefits and Costs ofAlternative Strategies to Improve Educational Out­ comes, in B. Lomborg (a cura di), Global Crises cit., pp. 180 sgg.; e ibid., V. Lavy, Perspective Paper 4.1, pp. 215 sgg. Da noi, cfr. P. De Sena, Banca mon­ diale, diritto all’istruzione e patto sui diritti economici, sociali e culturali, in N. Boschiero e R. Luzzatto (a cura di), I rapporti economici intemazionali e l’evo­ luzione del loro regime giuridico, Esi, Napoli 2008, pp. 123 sgg. Si veda anche supra, Cap. 8, § 3 e note 299-302; Cap. 12, §2, note 503, 505506. Per possibili illustrazioni pratiche, si veda M. Grosh, C. del Ninno, E. Tesliuc e A. Ouerghi, For Protection and Promotion cit., spec. pp. 137 sgg., 297 sgg. Nella prospettiva di cui al testo si colloca, ad esempio, il progetto «Cibo per l’istruzione», dello United Nations World Food Program. In sintesi, l’ini­ ziativa punta a offrire cibo (sotto forma di pasti scolastici) per sfamare i bam­ bini e al contempo attirarli allo studio. Onde favorire l’accesso dei bambini al­ le scuole, il programma prevede anche la distribuzione di razioni alimentari da portare a casa, in modo da incoraggiare i genitori a mandare i figli, e soprattut­ to le figlie, a studiare. Si vedano le informazioni disponibili a: one.wfp.org. Sul punto, i caveat necessari si leggono nelle opere citate supra, alla nota 597; adde, assai utile nella prospettiva che tiene gli occhi aperti sulla complessità

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dei fenomeni extra-occidentali, B, Rajagopal, International Law from Below. Development, Social Movements, and Third World Resistance, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge - New York 2003, pp. 263 sgg.; L. Godden e M. Tehan (a cura di), Comparative Perspectives on Communal Lands and Individual Ownership. Sustainable Futures, Routledge, Abingdon 2010. M F. Place e P. Hazell, Productivity Effects of Indigenous Land Tenure Systems in Sub-Saharan Africa, in «American journal of Agricultural Economics», 75 (1993), n. 1, pp. 10 sgg.; P. Collier e J. W. Gunning, Explaining African Eco­ nomic Performance, in «J. Econ. Lit.», 37 (1999), n. 1, pp. 64 sgg.; C. J. Milhaupt e K. Pistor, Law and Capitalism cit., passim, spec. pp. 17 sgg., 197 sgg. Si vedano peraltro le difficoltà incontrate - per le ragioni di cui al testo dai programmi internazionali di ‘peace-building’ che si sono volti a riconfigu­ rare l’assetto dei diritti immobiliari in territori usciti da conflitti, in S. Leckie (a cura di), Housing, Land, and Property Rights in Post-Conflict United Nations and Other Peace Operations, Cambridge University Press, Cambridge - New York 2009, e, in particolare, le analisi su Cambogia (R. C. Williams, Stability, Justice and Rights in the Wake of the Cold War: The Housing, Land and Property Rights Legacy of the UN Transitional Authority in Cambodia, pp. 19 sgg.), Af­ ghanistan (C. Foley, Housing, Land, and Property Restitution Rights in Afghani­ stan, pp. 136 sgg.), quelle pili ottimistiche sul Kosovo (M. Cordial e K. Rosandhaug, The Response of the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo to Address Property Rights Challenges, pp. 61 sgg.) e quelle, che rinvia­ no il giudizio al futuro, sull’Iraq (N. Thomson, The Trouble with Iraq : Lessons from the Field on the Development of a Property Restitution System in «Post»Conflict Circumstances, pp. 220 sgg.). Va difatti tenuto in considerazione che in molte realtà «speculators pre-empt prospective titling programmes by buying up land from squatters at prices slightly higher than prevailing informal ones. Squatters benefit in the short term, but miss out on the main benefits of the titling programme, which ac­ crue to the people with deeper pockets» (Commission on Legal Empower­ ment of the Poor, Making the Law Work cit., vol. I, p. 80; e si veda anche il vol. Il, p. 101). Si tratta di evenienze che però potrebbero essere contrasta­ te con regole prevedenti l’efficacia differita di quei contratti, scortate dalla attribuzione medio tempore del diritto di recesso a favore del venditore; op­ pure con regole stabilenti vuoi una moratoria sulla rivendita (come, eg., nel­ le Filippine e in Armenia: ibid., vol. II, p. 101), vuoi limiti all’accumulo di di­ ritti proprietari, anche per interposta persona. Sullo spinoso problema delle terre africane, rivendicate da comunità o individui locali e acquisite da entità statuali straniere, che, in quanto tali, risultano d’abitudine immuni da qual­ sivoglia responsabilità, L. Cotula, S. Vermeulen, R. Leonard e J. Keeley, Land Grab or Development Opportunity? Agricultural Investment and International Land Deals in Africa, IIED/FAO/IFAD, London-Rome 2009, passim e pp. 95 sgPer una ricognizione articolata di tali fattori, Th. Kelley, Unintended Conse­ quences ofLegal Westernization in Niger: Harming Contemporary Slaves by Re­ conceptualizing Property, in «Am. J. Comp. L.», 56 (2008), pp. 999 sgg. Commission on Legal Empowerment of the Poor, Making the Law Work cit., vol. II, pp. 64 sgg.; ma cfr. pure A. Sen, L’altra India, Mondadori, Milano 2005, p. 237 (trad. da The Argumentative Indian, Penguin, London 2005). “* Si veda anche supra, Cap. 3, § 5; e cfr. J. W. Bruce, Property Rights Issues in Common Property Regimes for forestry, in «The World Bank Legal Review. Law and Justice for Development», World Bank - Kluwer, Washington D.C. - The Hague 2003, pp. 257, 263 sgg.

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Note

Fungendo cosi da possibile terminale di riferimento anche per politiche redi­ stributive, altrimenti appese al cappio dell’assenza di utilità da ripartire. Sul punto, cfr. H. de Soto, The Mistery of Capital, Basic Books, New York 2000, passim; J. K. Ohnersorge, Developing Development Theory : Law and Develop­ ment Orthodoxies and Northeast Asian Experience, in «U. Pa. J. Int’l Econ. L. », 28 (2008), n. 2, pp. 219, 294 sgg.; M. Grosh, C. del Ninno, E. Tesliuc e A. Ouerghi, For Protection and Promotion cit., passim, spec. pp. 128 sgg.; M. Trebilcock e P. E. Veel, Property Rights and Development: The Contingent Case for Formalization, in «U. Pa. J. Int’l L.», 30 (2008), pp. 429 sg.; M. Salvati, Ca­ pitalismo, mercato e democrazia cit., passim, e pp. 23, 69 sgg.; ma cfr. anche R. G. Rajan e L. Zingales, Salvare il capitalismo dai capitalisti, Einaudi, Torino 2004, pp. 13 sgg., 165 sgg. (trad, da Saving Capitalism from the Capitalists, Crown Business, New York 2003); nonché D. Usher, The Economic Prerequi­ sites of Democracy, Columbia University Press, New York i98r. Si veda da noi M. Yunus, Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 1998 (trad, it. da Versun mond sons pauvreté, Lattès, Paris 1997); Id., Un mondo senza po­ vertà, Feltrinelli, Milano 2008 (trad, da Vers un nouveau capitalisme, Lattès, Paris 2008); e per altre, non dissimili iniziative, W. Easterly, Idisastri dell’uo­ mo bianco cit., pp. 416 sgg.; qualche spunto ulteriore in S. Borzutzky, AntiPoverty Politics in Chile: A Preliminary Assessment of the Chile Solidario Pro­ gram, in «Poverty & Public Policy», 1 (2009), n. 1, art. 2; E. M. King, S. Klasen e M. Porter, Women and Development, in B. Lomborg (a cura di), Global Crises cit., pp. 585, 610 sgg.; e ibid., L. Haddad, Perspective Paper 10.1, pp. 638 sgg., e A. Tansel, Perspective Paper 1 o .2, pp. 642,647 sgg.; D. Moyo, Dead Aid cit., pp. 128 sgg.; e cfr. pure i saggi raccolti in M. Fairbanks, M. Fai, M. Escobari-Rose e E. Hooper (a cura di), In the River They Swim: Essays from Around the World on Enterprise Solutions to Poverty, Templeton Press, West Conshohocken 2009. Per il ricorso al «microtrade», definito come una forma di «international trade on a small scale, based primarily on manually produced products using small amounts of capital and low levels of technology available at a local level in LDCs [Least Developed Countries, n.d.a.J» e concepito «as a means to raise income to reduce or eliminate poverty», Y.-S. Lee, Theoretic­ al Basis and Regulatory Framework for Microtrade : Combining Volunteerism with International Trade towards Poverty Elimination, in «L. & Dev. Rev.», 2 (2009), pp. 367 sgg. (la citazione è da pp. 367-68). ‘71 M. Bussani, Libertà contrattuale e diritto europeo, Utet, Torino 2005, pp. 11 sgg. 672 La fonte, non sospetta di eccessivi penchant antropo- o socio-logici, è W. Eas­ terly, I disastri dell’uomo bianco cit., pp. 116. Si veda M. Fafchamps, Networks, Communities, and Markets in Sub-Saharian Africa. Implications for Firm Growth and Investment, in «J. African Econ.», 10 (2001), AERC Supplement 2, pp. 109 sgg.; piti in generale, R. Caterina, Un approccio cognitivo alla diversità culturale, in Id. (a cura di), Ifondamenti cogni­ tivi del diritto, Bruno Mondadori, Milano 2008, pp. 205 sgg. m Per una meritoria presa in carico del problema, si veda la Comunicazione del­ la commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, L’UE partner mondiale per lo svi­ luppo. Accelerare i progressi verso la realizzazione degli obiettivi di sviluppo del millennio (COM(zoo8) 177 def.), ove tuttavia si pecca di ingenuo paternali­ smo nel senso che - invece di prevedere misure di compensazione alla fuoriu­ scita di ‘cervelli’ attraverso investimenti sociali ed educativi nei paesi d’origi­ ne - si punta a incidere sui destini individuali proponendo programmi di «for­ mazione per l’esportazione, il rafforzamento dei diritti - soprattutto sociali -

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dei lavoratori che rientrano nei paesi di origine e la stipula di accordi sull’occu­ pazione tra Stati membri e paesi in via di sviluppo per consentire la gestione delle assunzioni proteggendo al tempo stesso i settori vulnerabili» (sub n. 4). Per il superamento di questa ‘tradizione’, ma su di un piano ancora largamen­ te programmatico, si vedano le «Conclusioni del Consiglio e dei Rappresen­ tanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio su ‘L’UE part­ ner mondiale per lo sviluppo - Accelerare i progressi verso la realizzazione de­ gli obiettivi di sviluppo del millennio (MDG)’», del 27 maggio 2008, nn. 18-20 e 64; il Rapporto dello Special Inspector General for Iraq Reconstruction, Hard Lessons. The Iraq Reconstruction Experience, febbraio 2009, a: www.sigir.mil, pp. 115 sgg., 238 sgg., 332 sgg.; White Paper on U.S. Policy Toward Afghani­ stan and Pakistan, 27 marzo 2009, a: www.america.gov. E appena il caso di ricordare che «obedience to the law depends not only on a feeling that the substantive injunctions of the law are fair but also that courts impose them fairly»: cosi, S. M. A. Lloyd-Bostock, Explaining Compliance with Imposed Law, in S. B. Burman e B. E. Harrell-Bond (a cura di), The Imposition of Law, Academic Press, New York 1979, pp. 9 sgg. Fra i tanti, si veda pure H. Jacob, Introduction, in H. Jacob, E. Blankenburg, H. M. Kritzer, D. M. Pro­ vine e J. Sanders, Courts, Law and Politics in Comparative Perspective, Yale Uni­ versity Press, New Haven - London 1996, p. 13; F. Fukuyama e M. McFaul, Should Democracy Be Promoted or Demoted?, in «The Washington Quarterly Winter», 31 (2007/2008), n. 1, pp. 23, 28; A. N. Licht, Social Norms and the Law: Why Peoples Obey the Law, in «Rev. L. & Econ.», 4 (2008), pp. 715 sgg.; nonché R. Sacco, Perché l’armato ubbidisce all’inerme? (Saggio sulla legittimazio­ ne del diritto e delpotere), in «Riv. dir. civ.», r (1997), n. 1, pp. rr sgg. 677 Si veda ad es. N. MacCormick, La sovranità in discussione. Diritto, stato e na­ zione nel «commonwealth» europeo, il Mulino, Bologna 2003, PP- 53 sgg. (trad, da Questioning Sovereignty. Law, State, and Nation in the European Com­ monwealth, Oxford University Press, Oxford 1999); M. J. Horwitz, Constitu­ tional Transplants, in «Theoretical Inquiries in Law», 10 (2009), n. 2, pp. 535 sgg. Un buon esempio di opportunità/ingenuità, nel senso di cui al testo, è da­ to invece da U.S. Department of State, The Future ofIraq Project (una serie di 13 voli, redatti fra l’ottobre 2001 e il settembre 2003, e disponibili sub Na­ tional Security Archive Electronic Briefing Book n. rg8, a: www.gwu.edu), cap. 4, Democratic Principles and Procedures, p. 49: «The first task of politics is to restore the faith of the people of Iraq in the idea of a founding document, a Constitution». 678 Eg., A. Alesina e E. Spolaore, The Size of Nations, Mit Press, Cambridge Mass. London 2003, pp. 3, 17 sgg., r39 sgg.; e, tra gli altri, R. La Porta, F. Lopezde-Silanes, A. Shleifer e R. W. Vishny, The Quality of Government, in «J. L. Econ. & Org.», 15 (1999), pp. 245, 261 sgg. 6” Si veda la Paris Declaration on Aid Effectiveness: Ownership, Harmonisation, Ali­ gnment, Results and Mutual Accountability (marzo 2005), e il documento che dovrebbe implementarne i principi, Accra Agenda for Action (settembre 2008), entrambi a: www.oecd.org. Si veda anche la nota successiva. “° Molto diversi e, nella nostra prospettiva, assai discutibili, si rivelano gli inter­ venti che transitano attraverso la c.d. ‘revisione paritaria’ di alcuni governan­ ti da parte di altri governanti, come adottata ad esempio dalla New Partner­ ship for Africa Development (NPAD). Questo meccanismo prevede che i lea­ der africani garantiscano reciprocamente la realizzazione di standard di buon governo. Una volta sottolineato come non sia ben comprensibile la ragione per cui «i donatori adottino un meccanismo di rendicontazione che essi non appli-

ji8

Note

cherebbero mai ai loro paesi» (si veda anche supra, in questo Capitolo, § 6, la nostra diversa proposta), quanto rileva è che la ‘revisione paritaria’ «ignora un elemento essenziale di democrazia, che è il rendere conto delle proprie scelte ai propri cittadini, e non ad altri governi»: W. Easterly, 1 disastri dell’uomo bianco cit., p. 167 (entrambe le citazioni). 181 Commission on Legal Empowerment of the Poor, Making the Law Work cit., vol. IV, pp. 239 sgg. Si vedano i luoghi cit. supra, Cap. 12, §§ 2-3, Cap. 13, § 1. Eg., A. Sen, Le radici globali della democrazia. Perché la libertà non è un’inven­ zione dell’occidente, Mondadori, Milano 2004, pp. 5 sgg., 61 sgg., 79; Com­ mission on Legal Empowerment of the Poor, Making the Law Work cit., vol. I. P- 46,4 M. Grosh, C. del Ninno, E. Tesliuc e A. Ouerghi, For Protection and Promo­ tion cit., pp. 118 sg.; ma si veda anche D. Archibugi, Cittadini del mondo. Ver­ so una democrazia cosmopolitica, il Saggiatore, Milano 2009, pp. 39 sg.; M. Pa­ pa, Afghanistan : tradizione giuridica e ricostruzione dell’ordinamento tra Shari'a, consuetudini e diritto statale, Giappichelli, Torino 2006, spec. pp. 313 sgg., 339 sggSi vedano pure le considerazioni svolte supra, Cap. 8, § 5 e Cap. 13, § 5. “* Altrimenti il rischio è sempre quello che la popolazione si comporti con la con­ vinzione che « seguire le regole non è solo ingiustificato ma è persino contro­ producente per i suoi interessi». Cosi, con riguardo alla realtà indiana attua­ le, A. Kumar Giri, Il «governo della legge» e la società indiana. Dal colonialismo al postcolonialismo, in P. Costa e D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria e critica, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 708, 728. T. Carothers, Aiding Democracy Abroad: The Learning Curve, Carnegie Endow­ ment for Int’l Peace, Washington D.C. 1999, p. 87; J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. io sg. (trad, da Zwischen Naturalismi und Religion, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005); nella medesima prospet­ tiva, cenni utili, seppure resi a compasso allargato, in A. Sen, Lo sviluppo è li­ bertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano 2000, pas­ sim e pp. 150 sgg., 157 sgg. (trad, da Development as Freedom, A. A. Knopf, New York 1999). Si veda anche Commission on Legal Empowerment of the Poor, Making the Law Work cit., vol. II, cap. 1, pp. 12 sgg.; L. Nader ed E. Grande, Current il­ lusions and Delusions about Conflict Management - In Africa and Elsewhere, in «L. & Soc. Inq.», 27 (2002), pp. 573 sgg.; e, nella stessa prospettiva di cui al testo, per evidenze documentate a riguardo di esperienze condotte in Ameri­ ca Latina, in India, Sudafrica e Ungheria, R. Gargella, P. Domingo e Th. Roux (a cura di), Courts and Social Transformation in New Democracies: An Institutional Voice for the Poor?, Ashgate, Aidershot 2006. K. Hendley, Rewriting the Rules of the Games in Russia: The Neglected Issue of the Demand for Law, in «East Eur. Const. Rev.», 8 (1999), n. 4, p. 89; C. J. Milhaupt e K. Pistor, Law and Capitalism cit., passim, spec. cap. 10, pp. 197 sgg.; R. W. Gordon, The Role of Lawyers in Producing the Rule of Law: Some Critical Reflections, in «Theoretical Inquiries in Law», 11 (2010), pp. 441 sgg., 464 sgg.

Indici

Indice delle riviste citate in modo abbreviato

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Indice delle riviste citate in modo abbreviato

Giust. civ. «Giustizia civile». Harv. Civil Rights - Civil Liberties L. Rev. «Harvard Civil Rights - Civil Liber­ ties Law Review». Harv. Int’l L. J. «Harvard International Law Journal». Harv. J. Legis. «Harvard Journal on Legislation». Harv. L. Rev. «Harvard Law Review». Hastings Bus. L. J. «Hastings Business Law Journal». Hastings Int’l & Comp. L. Rev. «Hastings International and Comparative Law Review». Hastings Women’s L. J. «Hastings Women’s Law Journal». Ind. Int’l & Comp. L. Rev. «Indiana International and Comparative Law Re­ view». Ind. J. Glob. Stud. « Indiana Journal of Global Legal Studies». Int’l Business L.J. «International Business Law Journal». Int’l J. Const. L. «International Journal of Constitutional Law». Int’l J. Hindu Stud. « International Journal of Hindu Studies». J. African Econ. «Journal of African Economics». J. Am. Oriental Society «Journal of the American Oriental Society». J. Anthr. Res. «Journal of Anthropological Research». J. Comp. Pol. «Journal of Comparative Politics». J. Corp. Citizenship «Journal of Corporate Citizenship». J. Disp. Resol. «Journal of Dispute Resolution». J. Econ. Growth «Journal of Economic Growth». J. Econ. Lit. «Journal of Economic Literature». J. Econ. Persp. «Journal of Economic Perspectives». J. Hist. Ideas «Journal of the History of Ideas». J. Ind. Phil. «Journal of Indian Philosophy». J. Int’l Crim. Just. «Journal of International Criminal Justice». J. Int’l Econ. L. «Journal of International Economic Law». J. L. Econ. & Org. «Journal of Law, Economics, & Organization». J. Leg. Stud. «Journal of Legal Studies». J. Marshall L. Rev. «John Marshall Law Review». J. Pol. Econ. «Journal of Political Economy». J. Roy. Anthr. Inst. «Journal of the Royal Anthropological Institute». J. World Trade «Journal of World Trade». L. & Contemp. Prob. «Law & Contemporary Problems». L. & Crit. «Law and Critique». L. & Dev. Rev. «Law and Development Review». L. & Soc. Inq. «Law and Social Inquiry». Mat. st. cult. giur. «Materiali per una storia della cultura giuridica». Mich. J. Int’l Law «Michigan Journal of International Law». Mich. L. Rev. «Michigan Law Review». Minn. J. Global Trade «Minnesota Journal of Global Trade». N.C. L. Rev. «North Carolina Law Review». N.E. L. Rev. «New England Law Review». Nw J. Int’l L. & Bus. «Northwestern Journal of International Law and Business». N.Y.U. J. Int’l L. & Pol. «New York University Journal of International Law and Politics». N.Y.U. L. Rev. «New York University Law Review». Ohio N.U. L. Rev. «Ohio Northern University Law Review». Oxf. J. Leg. Stud. «Oxford Journal of Legal Studies». Pac. Econ. Rev. «Pacific Economic Review». Pa. St. Int’l L. Rev. «Penn State International Law Review». Phil. Rev. «Philosophical Review».

Indice delle riviste citate in modo abbreviato

323

Phil. Trans. Roy. Soc. Lond. «Philosophical Transactions of the Royal Society B Biological Sciences». Poi. dir. «Politica del diritto». Public Opinion Quart. «Public Opinion Quarterly». Quad. cost. «Quaderni costituzionali». Quart. J. Econ. «Quarterly Journal of Economics». Rass. dir. civ. «Rassegna di diritto civile». Rev. int. dr. comp. «Revue internationale de droit compare». Rev. L. & Econ. «Review of Law & Economics». Rev. Pol. «Review of Politics». Riv. crit. dir. priv. «Rivista critica del diritto privato». Riv. dir. civ. «Rivista di diritto civile». Riv. dir. int. «Rivista di diritto internazionale». Riv. trim. dir. pubbl. «Rivista trimestrale di diritto pubblico». Securities Regulation L. J. «Securities Regulation Law Journal». Stan. L. Rev. «Stanford Law Review». St. John’s L. Rev. «St. John’s Law Review». St. Thomas L. Rev. «St. Thomas Law Review». Tex. L. Rev. «Texas Law Review». T. Jefferson L. Rev. «Thomas Jefferson Law Review». Tul. L. Rev. «Tulane Law Review». Tul. Envtl. L.J. «Tulane Environmental Law Journal». U. Chi. L. Rev. «University of Chicago Law Review». UCLA Pac. Basin L. J. «UCLA Pacific Basin Law Journal». U. Kan. L. Rev. «University of Kansas Law Review». U. Mich. L. Rev. «University of Michigan Law Review». U. Pa. J. Int’l Econ. L. «University of Pennsylvania Journal of International Eco­ nomic Law». U. Pa. J. Int’l L. «University of Pennsylvania Journal of International Law». U. Pa. L. Rev. «University of Pennsylvania Law Review». U. Pitt. L. Rev. «University of Pittsburgh Law Review». U. Rich. L. Rev. «University of Richmond Law Review». Utah L. Rev. «Utah Law Review». Va. L. Rev. «Virginia Law Review». Wash. L. Rev. «Washington Law Review». Will. & Mary Bill of Rts J. «William & Mary Bill of Rights Journal». Wis. L. Rev. «Wisconsin Law Review». World Econ. «World Economy». Yale J. Int’l L. «Yale Journal of International Law». Yale L. J. «Yale Law Journal». ZaòRV «Zeitschrift fiir auslàndisches òffentliches Recht und Vólkerrecht».

NéU’Indice degli autori citati il numero che segue il nome indica la nota, eccet­ to che per la Prefazione per la quale si indica invece il numero di pagina in cui com­ pare la nota.

Indice degli autori citati

Abdulkader, T., 91. Abdullah, H. J., 516. Abe, M., 426, 478. Abécassis, A., 9. Abel, R. L., 55. Abrams, J. S., 342, 388. Abu Garda, B. I., 364. Abu-Odeh, L., 8r. Acemoglu, D., 59T. Ackerman, B., 46. Adorno, F., 32. Agostino di Tagaste, 368. Ainis, M., 629. Ajanì, G., rr, 84, 97, 102, rio, 609, 620, 623-25. Akerlof, G. A., 220. Alben, E., 297. Alberini Mason, B. von, 477. Alesina, A., 452, 678. Alexy, R., 36. Alford, R. P., 405, 415. Alliot, M., 52, 72. Almond, G. A., 628. Alpa, G., 60. Alston, P., 402, 438, 439, 499. Aluffi Beck-Peccoz, R., 90. Alvarez,}. E., 258,.287, 388. Amato, C., 386. Amato, G., 177, 222, 244, 262, 294, 299. Ambos, K., 399. Amorim, C. L. N., 321. Andenas, M., 322. Anderson, K., 319. Andriani, S., 238. Angelucci, M., 454. Angle, S. C., 477, 479Ankersen, Th. T., 597. An-Na‘im, A. A., 482, 504, 5r6. Annas, G. J., 492.

Annunziato, P., 114. Anseimo, D., 485. Antoniolli, L., 410. Archibugi, D., 284, 344, 439, 58r, 684. Arenas, L. C., 537. Aristotele, 33. Arlacchi, P., 339. Arnason, J. P., 624. Arneson, R.}., 587. Aronowitz, S., 266. Assmann,}., 16. Attali,}., 3. Avineri, S., 426. Awaji, T., 97. Axelrod, R., 312. Ayittey, B. N., 71. Aziz, M., 266, 269. Baccelli, L., 474. Bachmann, S.-D., 401. Baek, B. S., 580. Baer, J. A., 515. Bagwell, K., 3r4. Bahlul, R., 480. Baird, R. D., 94, 562, 625. Bak, J. M.,612. Bakker, C. A. E., 391. Banfield, E. C., 452. Barak-Erez, D., 439. Barber, B. R., 461. Barberis, M., 499, 546. Bardusco, A., 402. Bar Grill, O., 220. Barnes, A., 299. Barr, M., 514. Barret, S., 647. Barry, B., 46, 470, 587. Barsotti, V., 31, 123, 632. Battole, S., 270. Barton, G., 625.

326

Indice degli autori citati

Bary, W. Th. de, 625. Basile, M. E., 120. Bassanini, F., 247. Bassiouni, M. C., 342, 343, 371. Basu, K., 301, 502. Battini, S., 265, 288. Baubòck, R., 561. Bauer, J. R., 426, 429, 476-78, 480, 484, 503, 504, 542, 554. Bauer, P. T., 649. Bauman, R. A., 426. Baxi, U., 83, 557, 641. Baylis, E. A., 376. Bazyler, M. }., 405, 415. Beck, C. H., 120. Beck, U., 204, 273. Becker, C., 415. Beckett,}., 532. Beitz, Ch. R., 422, 427, 440, 549, 560. Bekerman, O. Z., 492. Bekker, P. H. F., 350. Bell, D. A., 49, 98, 161, 426, 429, 476478, 48°. 484, 5°3> 504, 542, 554, 625. Bell,}., 27. Belletiger, A., 97. Bello, W„ 637. Benda-Beckmann, F. von, 2, 52, 68, 457Benhabib, S., 280, 450, 469, 546, 561. Benoit, J.-P., 588. Ben-Shemesh, Y., 470. Bentham,}., 442. Bentwich, N., 426, 568. Benvenisti, E., 257, 274, 289, 330. Benvenuti, P., 351, 372. Berkowitz, D., 638. Berman, H. }., 8, 13, 601, 606, 610, 612. Bermann, G. A., 320, 326. Bermann, S., 318. Bernanke, B. S., 230. Bernardi, A., 470. Bernstein, L. , 119. Bertolin, F., 389. Bestor,}. F., 120. Bhagwati,}., 300, 321. Bhagwati, P. N., 625. Biè,}., 295. Bigsten, A., 332. Blankenburg, E., 97, 620, 624, 676. Blaurock, U., 241. Bleich,}. D., 19. Bobbio, N., 273, 429, 554.

Boccelli, L., 368, 426, 546. Bòckenfòrde, E.-W., 266. Bodde, D., 105. Boddy,}., 514, Boehmer, G., 600. Boele-Woelki, K., 212. Bohannan, P., 348. Bohlander, M., 363. Bonfante, P., 6. Bónis, G., 612. Bonnefoi, Y., 510. Boonyabancha, S., 506. Bootaan, A, 455. Bork, R., 150. Borrowman,}., 410. Borzutzky, S., 670. Boschiero, N., 266, 536, 661. Bosco, D., 138. Bound, K., 563. Bradley, C., 418. Bradley, H., 456. Braithwaite, K., 258. Brantner, F., 195, 332. Brass, N. A., 321. Bratsis, P., 266. Braudel, F., 118. Bretherton, Ch., 195, 197, 332. Breuss, F., 324. Brilmayer, L., 44. Brinks, D. M., 439. Brinner, W. M., 9, 19. Brito Vieira, M., 291. Brock, G., 44. Brody, A., 503. Broomhall, B., 388. Brown, C. P., 323. Brown, D. A., 624, 625. Bruce,}. W., 75, 668. Bruckner, P., 46, 470. Brunelli, G., 517. Buchanan, A., 282. Buckley, R., 541, 655. Bueno de Mesquita, B., 645. Buiter, W. H., 239. Bull, H„ 266. Burman, S. B., 74, 676. Burrell, D. B., 87. Bury,}. B., 628. Busch, M. L., 326. Bussani, M., 19, 30, 85, 114, 136, 149, 200, 202, 210, 212, 240, 247, 252, 253> 256, 449, 45°, 459, &7tBuxbaum, R. M., 46. Bybee,}. S., 489, 491.

Indice degli autori citati Cabatingan, L., 187. Caenegem, R. C. van, 606. Calabresi, G., 8, 449, 603. Calabro, A., 114. Calchi Novati, G., 72, 115, 655. Calleo, D. P., 133. Galloni, M., 355, 356. Campbell, T., 446. Cananea, G. della, 265, 279, 289, 330. Caney, S., 557. Canfora, L., 592. Cantarella, E., 16. Capogrossi Colognesi, L., 6, 15. Caracciolo, G., 485. Caracciolo, I., 365. Caracciolo, L., 114, 160, 187, 192, 291, 450. Carbone, S. M., 434. Carothers, T., 125, 161, 169, 173, 687. Carezza, P. G., 436. Carr, J. L., 456. Carrino, A., 266. Cartabia, M., 402. Casonato, C., 518. Cass, D. Z., 292. Cassano, G., 523, 525. Cassese, A., 342, 346, 354, 355, 359, 363, 366, 385, 388, 391, 394, 400, 416, 424, 429, 435, 438, 466, 514, 527. 556, 557> 559, 581. Cassese, S., 44,113,114, 216, 257, 264, 266, 276, 282, 285, 287, 303, 327, 329, 496, 536, 540, 548, 581, 645. Castellucci, I., 106. Castro, F., 20, 88. Castro Lucie, M., 534. Casucci, F., 114. Cataldi, G., 552. Caterina, R., 42, 58, 220, 673. Cavalieri, R., 102, 104. Ceccanti, S., 480. Cecco, M. de, 232, 236. Cendon, P., 39. Chan, J., 426, 478. Chandler, D., 340. Chang, H.-J., 126, 180, 182, 627, 645, 649. Chang, P. L., 324. Channell, W., 173. Chapman, M., 532. Charnovitz, S., 316. Chase, O., 57. Cheng, Tun-Jen, 624, 625.

327

Chervel, T., 470. Chesterman, S., 123, 292. Chianale, A., 96, 97. Chiavano, M., 363. Chiba, M., 2, 52, 56, 83, 548. Chi-hye Suk, J., 269. Chimni, B. S., 112, 118, 196, 275, 292, 306, 557, 647. Chipaux, C., 518. Chirot, D., 641. Cho, S., 295, 321, 324, 326, 328. Chodorow, M., 628. Chow, D. G. K., 107, 109. Cihelkova, E., 295. Cimiotta, E., 345, 385. Clarke, D. C., 180. Claussen, K., 377. Codevilla, G., 609. Cohen, C. J., 563. Cohen, F., 616. Cohen, J. A., 104. Cohn, H. H., 426. Coing, H., 120. Colaianni, N., 517. Colchester, M., 527. Coleman, D. L., 508. Collier, P., 331, 637, 664. Colombi Ciacchi, A., 401. Conac, G., 72. Conforti, B., 289, 434. Cooke, J. E., 406. Coquillette, D. R., 120. Cordes, A., 120. Cordial, M., 664. Costa, P., 83, 414, 459, 477, 480, 562, 686. Cotteteli, R., 58. Cotula, L., 77, 665. Cowan, J. K., 111, 448, 472, 501, 505, 515. 526, 529, 532, 544, 546, 555, 570, 582, 620. Cox, S., 91. Crane, D. M., 373, 387. Crespi Reghizzi, G., 105. Creveld, M. van, 4, 13, 266. Crook, J. R., 361. Crouch, C., 630. Cui, F., 328. Cui, Z., 182. Cunningham, H., 566. Curto, S., 16.

Dahl, R. A., 282, 592. Dahrendorf, R., 630.

328

Indice degli autori citati

D’Alberti, M., 262, 330. Dalhuisen, J. H., 270. Dallago, B., 183. Daly, E., 381. Dam, L., 536. Daniels, R. J., 125. Darcy, D., 239. Darcy, S-, 371. Davis, D. R. jr, 93. Davis,}., 409, 660. Davis, K. È., 173, 179, 645, De Andreis, M., 262. Deckha, M., 515. De Francesco, G., 363. De Giorgi, G., 454. DeGrazia, D., 42. Dejean, T., 79. D’Elia, G., 499. De Lisle, }., 144. Delmas-Marty, M., 216, 366. Del Ponte, C., 351. Del Vecchio, A., 385. De Martino, E., 577. Dembour, M.-B., ni, 349, 448, 472, 5°i, ?O5> 5t5, 526, 529, 532, 544, 546, 555> 57°> 575. 582, 620. Dennis, M. }., 446. Denniston, G. C., 520, 521. Denny, F. M., 19. Denozza, F., 536. Derrett, J. D. M., 83, 94, 96. Derrida, J-, 30, 37. De Sena, P., 401, 556, 661. Dessler, A. E., 293. Destro, A., 518. Detter, I., 437. De Vittor, F., 401. Dezalay, Y., 130, 141, 162, 474. Diamond, L. }., 625. Di Bello, A., 291. Dickinson, E., 229. Dierksmeier, C., 46. Di Lucia, P., 463. Dima Ehongo, P., 190. Diomande, A. M., 253. Dissei, S. C. van, 307. Dixit, A., 591. Dixon, R-, 378. Djoli, J., 72, 620. Dombalagian, O. H., 240. Domingo, P-, 688. Domonkos, L. S., 612. Donahue, C., 120. Donnedieu de Vabres, H., 342.

Donnelly,}., 479, 485. Donovan, D. F., 413. Doucet, M., 54. Douzinas, C., 38, 130, 340, 351, 426, 467, 55°Dowding, K., 41, 43, 531, 533, 587, 599Downs, G. W., 257, 645. Draghi, M., 228, 251. Drahos, P., 258. Dratel, J. L., 489, 491. Drigo, F., 243. Drivers, G. R., 426. Drumbl, M. A., 381. Duggan, E. W., 649. Dundes Renteln, A., 470. Dunn,}., 592. Dworkin, R., x, 36, 41. Dyzenhaus, D., 292, 405. Easterly, W., 64, 117, 187, 456, 459, 646, 649, 655, 659, 670, 672, 680. Edmonds, E. V., 301. Ehrenreich, N., 514. Ehrlich, E., 2. Ehr-Soon Tay, A., 459, 477. Eichengreen, B., 244. Eisenstadt, S. N., 451. Ellickson, R. C., 62, 457. Elliott,}., 229. Elsea,}. K., 357. Elshtain,}. B., 368. Elster,}., 46. Engels, F., 616. Englard, L, 9. Engle, E. A., 396. English,}., 46. Epstein, A. L., 532. Eriksen, T. H., 555. Escobari-Rose, M., 670. Esquirol,}. L., 52, 186, 221. Estlund, D. M., 588. Esty, D. C., 315, 541. Etzioni, A., 368. Evans-Pritchard, E., 72. Evenett, S.}., 268. Ewing, K. D., 446. Eyrich, H., 139.

Fabietti, U., 453, 532, 636. pacchi, A., 426. Fafchamps, M., 673. Fairbanks, M., 670. Fai, M., 670.

Indice degli autori citati Falk, R., 275. Farnell, E. J., 291. Fassino, P., 427, 447, 469. Fauvarque-Cosson, B., 183. Fauvelie-Aymar, F.-X., 72. Favali, L., 514. Faye, J.-P., 613. Feder, E., 597. Fedotov, G. P., 609. Fedtke, ]., 439. Feener, R. M., 485. Feichtner, I., 326. Feldman, E. A., 97. Fenton, S., 456. Ferdinandusse, W., 393. Ferrajoli, L., 266, 551, 647. Ferrara, A., 556. Ferrara, G., 599. Ferrarese, M. R., 149, 216, 266, 451, 635. Ferrari, S., 9, 611, 620. Ferrari, V., 618. Ferreri, S., 63. Finnis, J. M., 428, 6x7. Fioravanti, M., 23. Fiorentini, F., 230. Fiorita, N., 631. Fischer-Lescano, A., 321. Fishbein, M., 301, 328, 334. Fitoussi, J.-P., 645. Fitzpatrick,]., 413. Fletcher, G. P., 363, 4ro-r2. Flores, M., 40, 340, 363, 372, 400, 451, 532, 552, 556, 564. Focarelli, C., 401, 582. Foland, F. M., 597. Foley, C., 664. Forbes, A. A., 548. Forde, C. D., 452, 453. Forquet, F., 571. Forsythe, D. P., 387. Foscolo, U„ xin. Fracasso, A., 229, 249, 268, 332, 335. Franck, Th., 344. Francois, J. F., 335. Frankenberg, G., 249, 567. Fraser, N., 280. Frazer, J. G., 452. Freedman, S. G., 368. Freeman, M., 372. Fried, M., 453. Friedman, D., 439. Friedman, J., 532, 542. Friedman, L. M., 8, 272, 620.

329

Friedman, T. L., 272. Frulli, M., 402, 402. Fukuyama, F., 368, 592, 625, 676. Fulford, A., 378. Fuller, C. ]., 93. Fuller, G. E., 484. Fuller, L. L., 64, 457. Fusaschi, M., 523, 527. Gaeta, P., 355-57> 361, 363, 388Gagarin, M., r6. Galanter, M., 27, 94, 273. Galgano, F., 626. Galimberti, U., 524. Galligan, D. J., 609. Gallino, L., 238, 247, 536. Gambaro, A., 60, 89, 202, 596, 598, 625. Gangoli, G., 503. Ganguly, S., 625. Garapon, A., 46, 2x6, 416. Gargella, R., 688. Garner, R., 16. Garth, B. G., 130, 141, 262, 474. Gat, A., 588. Gauch, P., 449. Gauri, V., 439. Ge, J., 107. Gearey, A., 38. Gearty, C., x, 445, 549, 558> 575> 579> 624. Geertz, C., 5, rxr, 457. Gelasio I, 6ro. Gellner, E., 480. Gémar, J.-C., 463. Gewirtz, P., 244. Ghai, Y., 554. Giegerich, T., 402. Ginsberg, M., 628. Ginsburg, T., 53, 589. Giovanni, B. de, 603. Glaeser, E. L., 126, 183, 589, 662. Glannon, W., 42. Glendon, M. A., 445, 619. Glenn, H. P., 22, 83, 204, 547Glenn Hubbard, R., 649. Glewwe, P., 66r. Gluckman, M., 72. Glyn, A., 630. Godden, L., 663. Godin, S., 469. Godt, C., 402. Goldin, L., 238. Goldsmith,]. L., 259.

33°

Indice degli autori citati

Goldsmith, T. H., 42, 518. Goldstein, D. M., 542. Goldstein, J., 121, 274. Goldstein-Bolocan, M., 383. Gonzales, A., 489, 491. Goodale, M., 542, 548. Goodenough, O. R., 42. Goodhart, Ch. A. E., 254. Goodhart, M., 293, 300, 326, 330. Goodin, R. E., 41, 43, 531, 533, 549, 560, 587, 599. Goodman, R., 402, 438, 499. Goody, J., 72. Gordley, J., 617. Gordon, R. W., 125, 689. Gorman, R. A., 292. Gosseries, A., 46. Gottwald, E., 326. Gowan, R., 195, 332. Graham, S. E., 510. Gramsci, A., 131. Grande, E., 417, 510, 524, 520, 523, 688. Grandini, R., 277, 420. Grant, R. W., 281, 284, 330, 340, 539. Gray,J., 177, 186. Graziadei, M., 29, 58, 450. Graziani, R., 344. Greenberg, K. J., 489, 491, 492. Griffin, J., 428. Griffiths, A., 526. Grilli di Cortona, P., 643. Grosh, M., 661, 662, 669, 684. Grosheide, F. W., 212. Gross, S. C., 305, 307, 308. Grossi, P., 3, 4, 12, 68, 120, 201, 595, 596, 604, 606-8, 620. Grossman, G. M., 591. Grosswald Curran, V., 46. Guadagni, M., 78. Guarnieri, C., 216. Gul, F., 591. Gunning,]. W., 664. Guolo, R., 590. Gutmann, A., 421. Guzman, A. T., 301, 328, 334. Habermas,]., 36, 428, 432, 433, 470, 548, 561, 599, 634, 687. Haberstroh, J., 405. Hacker-Cordón, C., 282. Hafner, D. L., 371, 381, 384. Hajjar, L., 399. Hakimi, M., 413.

Halberstam, M., 394. Halévy, D., 635. Hall, P., 645. Hallaq, W. B„ 9, 20. Halliday, P., 558. Halperin, M. H., 176. Hammergren, L., 179. Han, E. L., 517. Haneman, W. M., 660. Hanks, L. M. jr, 503. Hannerz, U., 451. Harbon, L., 341. Hardin, R., 531, 533. Harding, A., 479. Harrell-Bond, B. E., 74, 676. Harsanyi, J. C., 36. Hart, H. L. A., 442. Hartigan, J. C., 329. Harvey, A. F., 213. Harvey, D., 635. Haskell, J. F., 177. Haslam, E., 349. Hatch, E., 475. Hayek, F. A. von, 58, 591, 600. Hayes, L. D., 624. Hayes, R. O., 514. Hayner, P. B., 371. Hazell, P., 664. Heckman, J. J., 287. Held, D., 176, 213, 275, 281, 592, 640. Helm, J., 453. Helmholz, R. H., 426. Hendley, K., 221, 689. Henzelin, M., 342. Hepple, B., 297. Herdt, G., 563. Hershkoff, H., 439. Hertel, S., 557. Hewko, ]., 177. Heyd, D., 46. Higgott, R., 334. Hirschl, R., 216. Hobsbawm, E., 532. Hoch, S., 597. Hoeffler, A., 637. Hoekman, B. M., 322. Hoffe, O., 270, 444. Holden, P., 332. Holland, S., 244. Holmes, O. W., 616. Holmes, S., 270. Honoré, T., 426. Hooper, E., 670. Hornberger, K., 386.

Indice degli autori citati Horwitz, M. J., 13, 600, 619, 620, 677. Howse, R., 214, 293, 294, 296, 297, 305, 321. Hrovatin, S., 229. Hubin, D. C., 46. Humbert, M., 15. Humphries,}., 566. Hunt, L., 426. Huntington, S. P., 368, 450, 477, 605. Hurrell, A., 552, 560. Hurrelmann, A., 266. Hutchinson, M. R., 496. Hutton, G., 541. Hyug-Baeg, Im, 625. Ichino, P., 452. Ignatieff, M., 421, 429, 435, 436, 440, 464, 5i5> 527> 545, 554, 556, 562, 565. Ike, N., 624. Iliffe, J., 71. Inazumi, M., 388. Irti, N., 325, 620. Ishay, M. R., 368, 423, 426, 429, 435.

Jackson, B., 16. Jackson, J. E., 548. Jacob, H., 62, 97, 620, 624, 676. Jacob, R., xvn. Jacobsen, T., 270. Jacobsohn, G. J., 625. Jacobson, A. J., 19. Jansen, N., 600. Janvry, A. de, 597. Jefferson, T., 338. Jeuland, M., 660. Jhering, R. von, 616. Joas, H., 634. Joerges, Ch., 293. John-Nambo, J., 79. Jonas, H., 46. Jones, N. A., 379, 381, 385, 387. Jones, O. D., 42, 518. Jones, P., 557. Joseph, S., 401, 411, 539. Jouannet, E., 292. Jùrger Sàcker, F., 139. Kahler, M., 121, 274. Kahn, K. A. A., 378. Kaleck, W., 399. Kané, M., 190. Kapstein, E., 323. Karsten, P., 457.

331

Kasirer, N., 463. Kazarian, E., 229. Keane, J., 592, 627. Keeley, J., 665. Keesing, R. M., 452. Keleman, D., 141. Kelley, Th., 666. Kelly, T., 349. Kelsall, T., 373. Kelsen, H., 343, 369, 616. Kelsey, J., 330. Kennedy, Daniel L. M., 316. Kennedy, David, 136, 221, 368, 583, 641. Kennedy, Duncan, 139, 173. Keohane, R. O., rai, 274, 281, 282, 284, 312, 33°. 34°, 539Kerchove, M. van de, 272. Kerhuel, A.-J., 283. Khanna, N., 541. Khatami, M., 480. Khory, K. R„ 562. Kiff, J., 229. King, D. B., 266. King, E. B. L., 371, 381, 384. King, E. M., 670. Kingsbury, B., 259, 277, 280, 282, 33°> 344> 398, 542. Kirchhoff, P., 453. Kitamura, I., 101. Klasen, S., 670. Kleffner, J. K., 53, 378. Klein, B., 61. Kloner, D., 227. Klug, H., 321. Knopf, A. A., 536, 624, 687. Kochavi, A. J., 342. Koh, H. H„ 446. Kohl, M„ 565. Kontorovich, E., 388. Konvitz, M. R., 426. Kormos, B. J., 240. Kornhauser, L- A., 588. Koskenniemi, M., 279, 289. Koyama, N., 101. Kozlowski, G. C„ 9. Krasner, D., 273. Kraty, B., 91. Krè, J., 295. KreB, C„ 342. Krisch, N., 277, 280, 282, 330, 344. Krishnan, J., 94. Kritzer, H. M., 97, 620, 624, 676. Kroeschell, K., 120.

332

Indice degli autori citati

Kronman, A, T., 61. Kruse, M. B., 179. Kumar, K., 371. Kumar Giri, A,, 83, 414, 562, 686. Kumm, M., 277. Kuntz-Duriseti, K., 293. Kuppe, R., 534. Kurkchiyan, M., 609. Kuyu, C., 72, 75, 77, 79, 225, 620. Kymlicka, W., 469, 53T, 563, 590. Kyogoka, Y., 624. Ladeur, K.-H., 293. Laliberté, A., 625. Làncos, P. L., 315. Landa,}. T., 6r, 456, 462. Lang, Y., 625. Langevoort, D. C., 234. Langford, M., 557. Langlois, A.}., 477, 590. Lanni, A., 26. La Porta, R., 126, 589, 66r, 678. Lariviere, R. W., 11, 82. Larsen, B., 542. Larson, G., 94. Lasser, M., 32. Latouche, S., 644. Lattanzi, F., 340. Lauren, P. G., 425, 430, 435. Lavranos, N., 226. Lavy, V., 662. Leach, E. R., 577, 636. Leary, V. A., 295. Lechini, G., rÓ2, 637. Leckie, S., 664. LeDonne, J.-P., 597, 609. Lee, Y. S., 335, 670. Leffler, K. B., 62. Le Goff,}., 6ro, 6r4, 628. Leibfried, S., 266. Leisinger, K. M., 536. Lemche, N., r6. Lena,}. S., 404. Leng,}., r8r. Lenzerini, F., 46. Leonard, R., 665. LeRoy, E., 77, 225. Lettieri, A., 262, 299. Leuchtenburg, E., 24. Leve, L., 548. Lévi-Strauss, C., 452. Levin, M., 229. Levy, D. A., 304. Lewis, B., 485.

Lewis, P., 565. Licht, A. N„ 676. Lichtblau, E., 246. Likosky, M. B., r6r, 259, 304, 422, 535> 537> 539Lindblom, C. E., 270, 630. Lindsey, T., 625. Lingat, R., 83. Linton, S., 374. Lipner,}.}., 625. Lipset, S. M., 589, 592. Litvin, D., 539. Llewllyn, K. N., 457. Lloyd-Bostock, S. M. A., 676. Lobachev, V., 609. Locke,}., 35. Lollini, A., 322, 372, 379. Lomborg, B., 542, 660, 662, 670. Lopez-de-Silanes, F., 226, 589, 662, 678. Loretani, A., 452. Loughlin, M., 446. Luhmann, N., 37. Luo, Y., 99. Lupoi, M., 606. Luzzatto, R., 266, 536, 662. Maathai, W., 649. Macaulay, S., 6r, 62. MacCormack, C. P., 526. MacCormick, N., 64, 270, 677. Macedo, S., 282. MacIntyre, 42, 574. Mackay, F., 527. Mackey, T., 23. Macklem, P., 532. MacLaren, M., 625. Maffettone, S., 427, 447, 469. Maffi, A., 26. Magen, A., 586. Mamlyuk, B. N., 277. Mancini, S., 499. Mancuso, S., 290. Mandel, M., 357. Manns,}., 239. Mansfield, E. D., 637. Maravall,}. M., 620. Marczali, H., 622. Marè, M., 262. Mariezcurrena,}., 372. Markesinis, B., 289. Marks, S., 266. Marshall, P., 484. Marshall, T. H., 460.

Indice degli autori citati Martin, W., 465. Martinelli, A., 195. Massarenti, A., 466, 479. Masters, R. D., 42. Mastrandrea, M. D., 293. Matsushita, M., 335. Mattei, U., 29, 24, 85, 122, 124, 136, 139, 149, 187, 212, 221, 225, 404, 414, 596, 597, 619, 625, 643. Matteucci, N., 273. Matthias, K., 95. Mavroidis, P. C., 320, 322, 326. May, K., 589. May, R., 11. Mayer, A. E., 426, 480-82. Mazzarese, T., 557. McCarthy, Th., 486. McCormack, G., 624. McCoy, P. A., 240. McCrudden, C., 305, 307, 308, 310, 590. McDaniel, T., 597, 609. McDonald, M., 532. McDonnell, T., 540. McFaul, M., 597, 676. McKenan, M. C., 25. McLaughlin Mitchell, S., 344. McLean, E. B., 41. McLean, S., 510. McMahon, P. C., 387. Meagher, N., 320. Mégret, F., 553. Mehmet, O., 330. Mei-Hua Chen, 503. Melching, M., 527. Menski, W., ri, 16, 56, 64, 71, 73, 83, 86, 93, 96, 103, 450, 454, 561, 562, 625. Merry, S. E., 62, 471, 515, 516, 542, 546, 548, 57°Merryman,}. H., 2, 18. Messer, E., 424. Metraux, D. A., 624. Meyer, L. H., 46. Michaels, R., 600. Migot-Adholla, S. E., 75. Miguez Nunez, R., 597. Miles, J. C., 426. Milhaupt, C. }., 186, 226, 645, 664, 689. Miller, D., 46, 427, 552, 556, 648. Milos, M. F., 520, 521. Minkler, L., 557. Minsky, H., 218.

333

Mo, P. H., 597. Moccia, L., 85. Moellendor, D., 44. Montgomery, H., 503, 505. Moore, M. S., 617. Moran, M., 405. Moravcsik, A., 282. Morgan, L. H., 452. Moriino, L., 586. Morse, B. W., 531. Moustafa, T., 53, 589. Moyo, D., 321, 649, 670. Muecke, M. A., 503, 505. Mundy, M., 468. Murphy, J. F., 315, 340, 399, 413, 439, 558. Murphy, J. H., 454. Murphy, R., 361. Murphy, S. D., 492. Murrell, P., t8o.

Nader, L., 124, 127, 134, 221, 414, 548, 619, 643, 688. Nagel, Th., 44. Nanare, D., 79. Nanda, V. P., 83, 343, 426, 478. Napolitano, G., 231, 265, 271. Nava, M., 229. Nedzel, N. E., 321. Neff, S. C., 359. Negri, A., 266. Negri, S., 363. Nelken, D., 451. Nelson, R. L., 187. Nesbitt, M., 371, 373. Neusner, J., 19, 611. Newman, R. A., 431. Nicolazzi, M., 261. Ninno, C. del, 661, 662, 669, 684. Nisbett, R., 628. Nivison, D. S., 625. Nnaemeka, O., 519. Nollkaemper, A., 53, 378. Norberg,}., 231. Nordstrom, H., 326. Normak, M., 489. North, D. C., 619, 644. Nussbaum, M. C., 44, 441, 451, 467, 543, 556, 562Nyie,}. S. jr, 654. Obiora, L. A., 517. O’Brien, R., 471. O’Brien, W. V., 368.

334

Indice degli autori citati

Ocampo, J. A., 331. Oda, IL, 100. Odendahl, K., 278. Odersky, W., 139. Ohmae, K., 259. Ohnersorge, J. K., 669. Okoth-Ogendo, O., 74. Okupa, E., 16. Olbrecht, A., 588. Olivecrona, K., 431. Oliver, D., 439. Onado, M., 230, 238. Onida, F., 301. Oprilo, W. C„ 266. Oppenheim, L., 274. Orazem, P. F., 661. Orbie, J., 194. Orestano, R., 7. Orford, A., 523, 583. Orni, R., 386, Ortino, F., 322. Ost, F., 272. Othman, N., 480, 484. Ouerghi, A., 661, 662, 669, 684. Pacheco-López, P., 331. Padoa Schioppa, T., ix, 332, 419, 608, 610. Paganelli, M., 511. Pal, R. B., 367. Panditaratne, D., 405. Pangestu, M., 465. Panikkar, R., 431. Papa, M., 684. Parsi, V. E., 259, 266, 275. Parson, E., 293. Partner, P., 368. Pasquino, G., 273. Pastore, B., 517. Pateman, C., 41, 43, 526, 531, 533, 587. 599Patrinos, H., 661. Patrono, F., 523, 525. Paulus, A. L., 360. Paust, J. J., 413. Pauwelyn, J., 289, 322, 324. Pavcnik, N., 301. Pearce, R, H., 628. Peces-Barba, G., 551. Peel, J., 293. Peerenboom, R., 108, 128, 144, 625, Pelanda, C., 270. Peli, O. C„ 415. Perelman, Ch., 36.

Perez Esquivel, A., 347. Perissich, R., 204, 262. Perlingieri, P., 451, 459. Perrot, C.-H., 72. Perry, S., 519, 527. Perry-Kessaris, A., 642. Pes, L. G., 644, 656. Peters, R. F., 368. Petersen, H., 52. Petersmann, E.-U., 293. Petranovic, D., 280, 450, 469, 561. Pettit, Ph., 41, 43. Piccinelli, G. M., 88, 91. Pichonaz, P., 449. Pickett, K., 250. Pielke, R. A. jr, 293. Piga, A., 87. Pinelli, C., 196. Pinto, A. R., 243. Pipes, R., 597, 609. Pistor, K., 186, 226, 256, 638, 645, 664, 689. Pizzorusso, A., 63, 455. Place, F., 664. Pianta, F., 229. Platone, 32. Plattner, M. F., 625. Pogge, Th., 44, 293, 321, 469, 648. Poirier, J., 518. Ponzanelli, G., 386. Popper, K. R., 591. Porter, M., 670. Posner, E. A., 259. Posner, R. A., 150, 217, 229, 230, 250, 494Pottage, A., 468. Powell, J., 344. Pozzo, B., 29. Prakash Sinha, S., 83, 426. Pravotorov, V., 609. Prehn, K., 42. Preterossi, G., 266, 556. Procaccia, U., 221, 597, 609. Prodi, P., 610. Prosterman, R. L., 597. Provine, D. M., 97, 620, 624, 676. Przeworski, A., 620. Pugliese, G., 7. Putnam, R. D., 368. Pye, L. W., 625. Quartapelle, L., 115. Quattrocolo, S., 354, 355. Quraishi, A., 593.

Indice degli autori citati Rabkin, A., 274. Radcliffe-Brown, A. R., 452, 453. Rahman, A., 510. Rajagopal, B., 173, 275, 590, 663. Rajagopalan, S., 625. Rajan, R. G., 273, 655, 669. Rajeev Gowda, M. V., 625. Ramadan, T., 87, 482. Ramasastry, A., 405. Rampini, F., 452. Ramseyer, J. M., 624. Rangan, H., 542. Rangel, M., 454. Ranger, T., 532. Rasilla del Moral, I. de, 496, 498. Rasul, I., 454. Ratcliffe, P., 532. Ratner, M., 415. Ratner, S. R., 342, 388. Rawls, J., 36, 48, 427, 442. Raz,J., 127. Reich, R. B., 536, 630. Reimann, M., 139. Reinert, E. S., 643. Reinhardt, E., 326. Reinhart, C. M., 217, 219. Reischauer, E. O., 624. Reisman, W. M., 413. Reiss, D., 239. Remotti, F., 577, 636. Reshotko, N., 588. Reviglio, E., 247. Reydams, L., 396, 399. Reynolds, K. M., 329. Reynolds, S., 531. Richard, J.-F., 638. Richards, A., 72. Richman, B. D., 119. Ricks, S. D., 9, 19. Rijsberman, F. R., 660. Risse, M., 302. Ritter, P., 229. Rizzello, S., 220. Roach, K., 557. Ròben, V., 216, 313. Roberts, A., 413. Robinson, H. A., 591. Rochegude, A., 77. Rocher, L., 11, 82, 93. Rodotà, S., 518, 596, 633. Rodriguez-Garavito, C. A., 321, 537. Rodrik, D., 182, 302. Rogers, J., 523.

335

Rogers, M., 532. Rogoff, K. S., 217, 219. Róhl, W„ 100. Rolfes, L. J. jr, 597. Ròling, B. V. A., 343. Romano, A., 204, 597, 609. Romano, C. P. R., 53, 378. Romano, S., 2, 455, 585. Ronson, A,, 531. Roosevelt, K. III, 418, 492. Root, H. L., 589. Rorty, R., 578. Rosandhaug, K., 664. Rosen, L., 453. Rosencranz, A., 293. Rosenfeld, M., 266. Rosow, S. J., 266. Ross, A., 463. Rossi, G., xvi, 116, 536. Rossi, P., 618. Rotberg, R. I., 371. Roth-Arriaza, N., 371. Rothkopf, D. J., 458. Rott, P., 401. Rouland, N., 431. Roux, Th., 688. Rubinstein, M. A., 625. Runciman, S., 609. Ruppert, Th., 597. Ruskola, T., 85, 128. Russell, F. H., 368.

Sacco, R., t, 2, 21, 54, 58, 6o, 69, 74, 80, 81, 85, 89, 102, 103, 115, 116, 455. 459, 463, 598, 615, 676. Saccucci, A., 556. Sachs, J. D., 213, 541, 542, 647, 654. Sadoff, C., 660. Safran, W., 625. Sahlins, M. D., 453, 628. Said, E., 485. Sajó, A., 187, 426, 481, 624. Salvadori, M. L., 266. Salvati, M., 630, 645, 669. Sampford, Ch., 270. Samson, C., 529, 530. Sandel, M. J., 46. Sanders, J., 97, 620, 624, 676. Sands, P., 330, 489. Santa Maria, A., 266. Santoro, E., 266. Santos, A., 139, 180, 221, 656. Sapelli, G., 217. Sapir, A., 194, 332.

336

Indice degli autori citati

Sapra, S. G., 220. Sartori, F., 225. Sartori, G., 587, 591, 592, 594, 645. Sasseti, S„ 259, 450. Sasso, G., 628. Satha-Anand, S., 503. Savona, P., 270, 645. Scaglione, D., 564. Scalia, A., 150. Scartata,}., 229. Scarpelli, U., 463. Schabas, W. A., 361, 371. Schacht,}., 91. Schachter, O., 437. Scheiber, H. N., 405. Schelling, Th. C., 312. Schenck, C., 519, 527. Schiavone, A., 6, 15. Schiff, B. N., 363. Schiff Berman, P., 259. Schiller, A. A., 16. Schmidt, P., 100. Schmitt, C., 618. Schneider, S. H., 293. Scholtens, B., 536. Schooten, H. van, 55. Schott,}.}., 337. Schropp, S. A. B., 314. Schuler, G., 536. Schuster, A., 499. Schwartzman, M., 31. Schwarzenberger, G., 131. Schweitzer, P. P., 452. Sciortino, A., 70. Scott, R. E., 53, 274, 313, 314. Sebastian, T., 318. Sebok, A.}., 405, 412. Seeliger, A., 470. Sen, A., 47, 222, 427, 441, 443, 447, 451. 469, 479, 554, 557, 57Ó, 594, 599, 625, 642, 653, 667, 683, 687. Serafino, A., ri, 84, 97, 102, no, 620, 624, 625. Service, E. R., 628. Shaak, B. van, 342. Shachar, A., 467. Shah,}., 541. Shah, P., 454, 456. Shahin, M., 296. Shanin, T., 597, 609. Shany, Y., 216. Shapiro, I., 44, 280, 282, 450, 469, 561, 563, 59°Shapiro,}., 194.

Shapiro, M., 282, 293. Sharawi, H., 162. Sheleff, L., 453. Shelton, D., 401, 438. Shiller, R.}., 220. Shiva, V., 647. Shleifer, A., 126, 183, 589, 661, 678. Shue, H., 552. Shy Kraytman, Y., 342. Sibbitt, E. C., 141. Siddique, A., 179. Sieder, R., ni, 532, 582, 620. Siegle,}. T., 276. Sikora, R. I., 46. Silbey, S. S., 161. Silverstein, G., 169. Singer, P., 213, 330. Sisci, F., 452. Sitack Yombatina, B., 75. Skidmore, P., 563. Skinner, G., 409. Skocpol, T., 368. Slaughter, A.-M., 121, 138, 216, 266, 274Sloane, R., 387. Sloss, D., 257. Slye, R. C., 342. Smith,}. T., 399. Smith, L.}., 401. Smith, L. M., 582. Snyder, F. G., 259. Snyder,}., 637. Sòderbom, M., 637. Sollors, W., 532. Somaini, E., 46. Sonn, T., 19, 611. Soskie, D., 645. Soto, H. de, 60, 457, 597, 669. Sousa Santos, B. de, 2, 59, 321, 537. Southwick,}. D., 316. Spackman, C., 229. Spada, A., 220. Spaventa, L., 227, 235. Spolaore, E., 678. Sridharan, E., 625. Srinivasan, T. N., 295. Staiger, R. W., 314. Steffek,}., 288. Stein, P., 2, 13, 455. Steiner, H.}., 402, 438, 499. Stephan, P. B., 53, 274, 313, 314. Stephens, B., 411. Stephens, Ph., 337. Stephenson, D. G. jr, 25.

Indice degli autori citati Stevens, J., 275. Steward,). H., 476, 628, Stewart, D. P., 446. Stewart, R. B., 277, 278, 280, 282, 313, 33°. 344Stiglitz,). E., 213, 217, 221, 227, 229, 230, 255, 267, 302, 321, 326, 337. Stoner-Weiss, K., 597. Strathern, M., 526. Strauss, A. L., 406. Stiirner, R., 139. Sudetic, C., 351. Sugimoto, Y., 624. Sumner, W. G., 64, 457, 577. Sunstein, C. R., 22, 52,149, 270, 564. Sweeney,). R., 612. Swidler, L., 426. Sykes, A. O., 301, 328, 334.

Tabellini, G., 66. Tajgman, D., 506. Tamanaha, B. Z., 123, 125, 292, Tamir, Y., 531. Tan, K. Y. L., 554Tansel, A., 670. Tarello, G., 135, 199, 449Targetti, F., 219, 222, 249, 268, 333, 335Tay, S. S. C., 465. Taylor, C., 476. Tehan, M., 663. Tendulkar, S. D., 295. Termini, V., 315. Tesliuc, E., 661, 662, 669, 684. Tessier, M., 87. Teubner, G., 37, 48, 259, 277, 420. Teunis, N., 563. Thakur, R., 270. Thirlwall, A. P., 331. Thompson, D., 371. Thompson, H., 231. Thomson, N., 664. Tilly, C., 266, 586, 634. Timoteo, M., ir, 84, 97, 102, 1 io, 620, 624, 625. Todorov, T., 577. Tomkins, A., 446. Tommaso d’Aquino, 34. Tondini, M., 389. Tonello, M., 247. Tonkin, E., 532. Tosic, )., 349. Toubia, N., 510.

Trebilcock, M. (J.), 125, 173, 181, 214, 294, 296, 297, 301, 305, 321, 328, 334, Ó45, 669. Tremmel, ). C., 46. Tremonti, G., 330, 654. Treves, T., 216. Tribe, L. H., 565. Triepel, H., 131. Trubek, D. M., 139, 173, 180, 221, 656. Trujillo, I., 40. Trumbull, Ch. P., 388. Tullock, G., 619. Tushnet, M., 446. Twining, W., xi, 65, 162, 430. Udombana, N. )., 322, 326. Unterman, A., 223. Upham, F. K., 187, 624. Usher, D., 669. Utter, R. F., 107.

616.

331,

321,

106,

337

Vagts, D. F., 131. Vanderheiden, S., 45. Vanderlinden,)., 54. Varano, V., 31, 101, 106, 123. Vattimo, G., 30. Vaux, K. L., 565. Veca, S., 44. Veel, P. E., 669. Ventura, F., 511. Venzke, I., 187. Vermeule, A., 564. Vermeulen, S., 665. Verschuuren, )., 55. Viazzo, P. P., 566. Vibert, F., 282. Vigevani, G. E., 402. Vischer, R. K., 490, 495. Vishny, R. W., 678. Vitale, E., 551. Vogel, T., 238. Vogler,)., 195, 197, 33^ Vos, E., 293.

Wadud-Mushin, A., 504. Waldron,)., 442, 548, 560, 573. Walicki, A., 597. Walker, )., 590. Wallensteen, P., 341. Wallerstein, I., 133. Wallis, ). )., 619, 644. Walzer, M., 40, 127, 368. Warren,). P., 520.

jj8

Indice degli autori citati

Watson, A., 7, 17. Waxman, H. A., 233. Weber, M., 5, 611, 619. Weiler, J. H. H., 282, 500. Weingast, B. R., 619, 644. Weinrib, E. J., 617. Weinstein, M. M., 176. Weiss, B. G., 482. Werro, F., 449. Westmarland, N., 503. Weston, B. H., 132. Wet, E. de, 278. Wezler, A., 82. White, G. E„ 558. Whitfield, L„ 649. Whiting, S. H., 180. Whittington, D., 660. Wiegand, W., 139. Wiener, P. P., 628. Wierda, M., 371. Wignaraja, G., 335. Wilf, S., 115. Wilkinson, R., 250. Williams, A., 179. Williams, R. C., 664. Williamson, O. E., 61. Williamson, P. J., 460. Willibiro-Sako, J., 79. Willis, J. F„ 342. Wilson, B., 329. Wilson, R. A., ni, 448,472,501,515, 526, 529, 532, 544, 546, 555, 570, 582, 620. Witchell, J., in, 532, 582, 620. Witney, N., 194, 652. Wittfogel, K. A., 477. Wolf, E. R., 597. Wolf, M., 115, 265. Wolfensohn, J. D., 170, 171. Wolff, R.P., 64, 457. Wolfrum, R., 216. Wolin, S. S„ 588. Woods, N., 336, 552. Wright, A. F., 625. Yacoub, J., 353. Yasuaki, O., 554. Yeng/J., 307. Young, A. S., 563. Young, R., 565.

Zaccagnini, L., 357. Zagorin, P., 568. Zagrebelsky, G., 13, 40, 599, 618.

Zahle, H., 52. Zak, P. J., 220. Zakaria, F., 589. Zapatero, P., 215. Zappala, S., 363. Zechenter, E, M., 422. Zeeuw, J. De, 371. Zeldon, C. L., 23. Zeno Zencovich, V., 499. Zerk, J. A., 536. Zhang, Y., 625. Zhou, T., 625. Ziccardi Capaldo, G., 340. Zingales, L., 228, 669. Zolo, D„ 83, 340, 344, 351, 353, 359, 368, 370, 388, 414, 459, 477, 480, 519, 522, 523, 554, 557, 562, 686. Ziirn, M., 266. Zwane, A. P., 660.

Indice analitico

aborto, 72, 171, 174. Accra Agenda for Action, 317. acqua (diritto all’), 207. Afghanistan: - assistenza tecnica, 67. - costituzione, 185. - rule of law, 185. Africa sub-sahariana: - diritto informale, 28-31. - diritto tradizionale, 29-31. - figura del giurista, 9. - matrimonio: - lavoro della donna nel, 31. - regimi patrimoniali, 31. - registri civili, 31. - micro-credito, 208. - mutilazioni genitali femminili, 161165, 287-90. - proprietà fondiaria, 30. - regole di successione al potere, 29. Aids: - farmaci anti-retrovirali, 256. - WTO, 256. aiuti allo sviluppo, 50, 107, 202-4, 210, 3I3aiuti di Stato, 82, 102-4, 254. Alexy R., 18. alfabetizzazione: - diritto all’, 172. - informatica, 207. Algeria: - codificazione, 33. - corti laiche e religiose, 33. Amato G., 175. Amazzonia, vedi Peru. ambiente: - accordo di Copenaghen, 238. - associazioni ambientaliste, 293. - Chipko (movimento), 293. - debt-for-nature swap, 293.

diritto all’, 167-69, 171. diritto e scienza, 19-20, 251. disastro ambientale come crimine con­ tro l’umanità, 129. - e giustizia intergenerazionale, 21, 167. - United Nations Conference on the Human Envinronment (UNCHE), 298. America Latina, 65, 67, 240, 318. - democrazia, 303. - latifondo, 303. - regimi di proprietà fondiaria, 303. - riforme economiche, 240. American Bar Association (ABA), 55, 57, 60-61, 231. anagrafe: - mancanza di, 206, 314. Aristotele, 17. Armenia, 315. Asia orientale: - Asian values, 149-50. - Carta asiatica dei diritti umani, 139. Australia: - appalti pubblici, 254. - e WTO, X04. autocrazia, 186, 193, 229, 303, 305. avvocati: - come formanti del diritto, 54-57, 130t3t. - law firms angloamericane, 54. - nel mercato globale, 54-55, 220.

-

Badoglio P., 261. Banca Mondiale, vedi World Bank. Bano Shah, 297. Belgio: - e IMF, 259. - giurisdizione penale universale, 127. Benami, 34.

340

Indice analitico

beni pubblici, 90, 210. Bentham J., 142, 299. Bosnia-Erzegovina: - Camera per i crimini di guerra, 261. - Corte costituzionale, 261. Brasile: - e farmaci anti-retrovirali, 256. - e IMF, 1 io, 259. - e ruolo geopolitico, 110-11. - eWTO, 255. buddismo, 137, 150, 275, 283, 286, 309. Bumiputera, 102-3. Burke E., 280. Burkina Faso, 162. Burundi, 45. Bush G. W., 280. Bybee J., 154.

- guanxi, 225. - li, 32. - maoista, 36-38. - matrimonio, 5, 37. - procedura civile, 37. - riforma agraria, 37. - rule of law, 50, 55, 237. - ruolo geopolitico, no-ii, 205. - su, 32. - Tibet, 5, 269. - tradizione giuridica, 7, 32, 36-38. - US-Asia Law Institute, 55. circolazione dei modelli giuridici, 38-39, 43-46, 52-68, 108-9, 118, 125-26, 148-51, 158-69, 174-81, 197-201. circoncisione, 161, 164, 288-89. civil law: - e common law, 191. - e diritto scolare, 11. - e Doing Business, 65. Cambogia, 315. - europeo, 66-71. - Democratic Kampuchea, 124. - possibile ruolo globale del, 68-71. - Extraordinary Chambers, 123-24. - giurisdizioni di, come rule takers, 65. Camerun, 30. - prodotto interno lordo, delle giurisdi­ Canada: zioni di, 65, 70. - appalti pubblici, 254. Clinton, W. J., 55, 293. - inuit, 166. codice civile: - Newfoundland, 166, 290. - algerino, 33. capitalismo/i, 72, 80, 195, 228, 246. - egiziano, 33. - e democrazia, 189-90, 202, 229, 303. - etiope, 29. cartolarizzazioni, 76-77. - europeo, 69-71. - Pfandbriefe, 241. - francese, n, 307. Cassese A., 173, 178, 196, 296. - giapponese, 35. cesaro-papismo, 305. - giordano, 33. cibo: - italiano, 11, 307. - diritto all’alimentazione, 136, 159- marocchino, 33. 160, 172, 314. - siriano, 33. - diritto e scienza, 251. - spagnolo, 307. - Food and Agriculture Organization - tedesco, 307. (FAO), 244. - tunisino, 33. - UN World Food Program, 314. - turco, 33. Cina: codice SWIFT di identificazione banca­ - All China Lawyers Association, 55. ria, 97. - comuniSmo, 36. Colombia, 229., - conciliazione, 37. - Uribe Vélez A., 50. - confucianesimo, 36. colonialismo, 29, 67, 136, 163, 176. - consuetudine, 3 2. - e diversità giuridica, 44. - diritto informale, 36-38. Commission on Growth and Develop­ - e Corte penale internazionale, 118. ment, 234, 254, 286. - e democrazia, 200, 202, 309. Commissione europea per la Democra­ - e diritti umani, 50. zia attraverso il Diritto, 237. - e giustizia, 22. Commissioni per la verità e la riconci­ - e IMF, no. liazione, 121, 265. - Europe-China School of Law, 237. Committee on Capital Market Regula­ tion, 77. - fa, 32.

Indice analitico common law: - come paradigma dominante, 54-71, 130-31. - e civil law, 191. - e corti, 12. - e custodia dello status quo, 192. - e legislatore, t3. - India, 33. - inglese, 7. - Magna Charta, 48, 190. - parlamentarismo, 190. - prodotto interno lordo, delle giurisdi­ zioni di, 65. - ruolo del giudice, 7. - ruolo del legislatore, 214. -Usa: - Corte Suprema, 13. - individualismo proprietario, 13. - laissez-faire, 13. confucianesimo, 32, 36-37, 137, 275. - e democrazia, 226, 309. Cook E., 48. Corea del Sud: - confucianesimo, 309. - democrazia, 64. corpo: - della donna, 164. - manipolazione del, 163. Corpus luris civilis, 7. corruzione, 267, 308. Corte europea dei diritti dell’uomo, 140. - libertà di espressione, 157. - margine di apprezzamento, 157. - religione cattolica, 156. Corte interamericana dei diritti dell’uo­ mo, 140. Corte internazionale di giustizia, 248, 261. Corte penale internazionale: -competenza, 114-25. - crimine di aggressione, 115, 117-18. - Darfur, 263. - e Usa, 116-17. - American Service Members’ Pro­ tection Act 2002, 262. - Repubblica Democratica del Congo, 127, 264, 269. - Statuto della, 114, 116-18. - Sudan 264. Corti penali internazionali, vedi Giuri­ sdizioni penali internazionali. Costa d’Avorio, 30. Costa Rica, 64, 234. Costituzione:

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afgana, 185. come fattore di produzione di iden­ tità, 209. - e Islam, 302. - esportazione della, 56-58, 61, 63, 185, 201, 209. - indiana, 33. - irachena, 185. - Usa, 56-58, 128-29, 272Court Packing Pian, 13. Credit Rating Agencies, 78-80. - irresponsabilità, 79-80. - regolazione globale delle, 83-84. credito: - diritto di accesso al, 207-8. - micro-, 208. crimine/i: - contro l’umanità, 114-15, 122-23, 264, 270, 299. - di aggressione, 115, 117-18, 263. - di genocidio, 114-15, 123-24, 126, 267, 269. -diguerra, 114-15,117, 122,126, 261, 264, 267, 270. crisi finanziaria/e: - ricorrenza delle, 74. cristianesimo: - e democrazia, 190. - e secolarismo, 189-91, 195. Cromwell O., 98. cultura/e: - dinamismo delle, 148, 165-67, 170171, 175, 205, 215, 287-91, 294. - e tradizioni giuridiche, xi, xvi, 9-10, i5-i7> 29> 32> 38-39. 43-44. 48-50. 53, 56, 63, 72, 121, 126, 128, 138, 149-50, 157, 163, 173, 175, 186, 189, 193, 201, 208, 226-27, 232, 276, 282-83, 305, 307.

-

Darfur, 263. Debt for Development, 313. Debt for Nature, 293. democrazia: - America Latina, 303. - Cina, 200, 309. - e capitalismo, 72, 195. - ed elezioni, 187, 311. - e diritti umani, 197, 200. - e istituzioni globali, 96, 312. - e latifondo, 303. - e Occidente, 198. - e rule of law, 50, 56-59, 64, 66, 68, 187-93, 194-

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Indice analitico

e secolarismo, 189, 292, 194. e short-termism, 205-6. e tecnocrazia giuridica, 143, 155,158, 173, 176, 189-93. - Giappone, 308. - India, 205, 308-9, 318. - Indonesia, 309. - nel tempo, 185-86. - nozioni, 186. - requisiti, 187-93, 2°2. - risorse comunicative, 188, 191. - Russia, 64, 200. dharma, 31-32, 224. diamanti: - traffico internazionale di, regole del, 45. diritti civili, 92, 136, 139, 172-73, 271, 396. diritti costosi, 92. diritti politici, 139, 195. diritti sociali, 173, 295. diritti umani [vedi anche Asia orientale, Islam, Unione Africana]: - Amnesty International, 271, 299. - applicazione orizzontale, 244, 277. - convenzione/i: - americana sui diritti dell’uomo, 139, 27t- europea per la salvaguardia dei di­ ritti dell’uomo e delle libertà fon­ damentali, 239, 271. - Onu: - sui diritti dei minori, 139, 159x6o, 162. - sui diritti delle persone disabili, 239. - sul genocidio, 239. - sulla discriminazione contro le donne, 239, 262. - sulla tortura, 239, 252-54. - dichiarazione/i dell’Onu: - sui diritti dei popoli indigeni, 239. - sul diritto allo sviluppo, 239. - universale dei diritti dell’uomo, 139. 274; - e democrazia, 297, 200. - e multinazionali, 229. - e religioni, 252-56. - e rule of law, 50,53. - Global Court of Human Rights, 276. - Human Rights Watch, 299. - nucleo ristretto di, 270. - Patto Onu: - sui diritti civili e politici, 239, 272, 296. -

sui diritti economici, sociali e cul­ turali, 239, 265-66, 268. - relativismo v. universalismo, 248-52, 270-80. diritto: - canonico, 307. - come ‘luogo’ di conflitti, 292, 226. - consuetudinario, 6-7, 26, 229, 292; vedi anche Cina, Giappone, India, Stratificazione giuridica. - e custodia dello status quo, 292, 224. - dotto, 6-7, 20. - ebraico, 7, 224-25, 307. - e cultura, 9-20. - e legal process, rr. - e lingua, 30, 54, 63, 66-67, - e scienza, 29-20, 252. - e Stato, 8. - informale, 30, 36, 75, 208, 207, 240. - nel diritto pubblico, 26-27. - globale, 94, 205-9, 248-50, 254255- internazionale, applicazione orizzon­ tale del, 277. - modello sovietico, 37-38. - naturale, 8, 28, 98, 2x6, 306. - oggettivo, 28. - professionalizzato, 7-9, 48-49, 289x93- ragioni dell’obbedienza al, 8, 327. - razionale, 226. - rivelato, 6, to, 33. - romano, 7-9. - sacrale, 7, 29. - soggettivo, 276. - tecnocratizzato, 7, 48-49, 189-93. disabili: - Convenzione Onu sui diritti delle per­ sone, 139. - diritto dei, 20, 272. donna/e [vedianche Corpo, Matrimonio]: - Convenzioni e Dichiarazioni Onu, ve­ di diritti umani. - e Islam, 33, 288. - mutilazioni genitali femminili, vedi Mutilazioni genitali femminili. - prostituzione infantile, 258-59. - Protocollo sui diritti delle donne in Africa, 139. dumping culturale, 202. dumping sociale, vedi World Trade Or­ ganization. Dworkin, R. M., r8, 228. -

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- codice civile, 11. - Corsica, 104, 233. ebraismo, 34, 137, 164, 306-7. - e IMF, 259. economia comportamentale, 74. - e Organisation pour l’Harmonisation Ecuador, 107. en Afrique du Droit des Affairs educazione, 32, 54-55, 137, 313. (OHADA), 67, 236. - diritto all’, 13, 136. - giurisdizione penale universale, 127, Egitto: 270. - codificazione, 33. Freud S., 289. - corti laiche e religiose, 33. Fujimori A., 126. eguaglianza, principio di, 83, 194-96, Fuqahà’, 9-10. 206-7, 233, 2&3Emirati Arabi Uniti, 162. epistocrazia, 186. Gì, in. G7, ni. Eritrea, 30, 162. G8, 81, 203. Etiopia: G20, 259. - codificazione civile, 29, 33. - registrazione dei diritti di proprietà, Gabon, 30-31. Gelasio I, 305. 223generazioni future: etnocentrismo, 149, 177, 198, 299, - ambiente, 21, 169, 238. 311. - e democrazia, 186, 208-11. Europa [vedi anche Unione Europea]: - e diritti umani, 181. - armonizzazione del diritto civile, 69- e giustizia, 21. 71, 222. - e popoli indigeni, 166-69. - orientale, 58, 307. genocidio, 114-15, 123-24, 126, 139, - spese militari, 313. 267, 269, 299. Europe-China School of Law, 237. Germania, 11-12, 54, 69-70, 89, 234, eutanasia, 174. 241, 243, 270-72. Extraordinary Chambers, vedi Cambo­ - assistenza tecnica: gia. - in America Latina, 67. - nell’Africa sub-sahariana, 67. Facoltà di giurisprudenza, 216. - nel Sud-est asiatico, 67. - curricula, 67, 220. - Bundesministerium fiir wirtschaftlifalsi: che Zusammenarbeit und Entwick- negativi, 20. lung, 236. - positivi, 20. - codice civile, 11, 307. farmaci: - Deutsche Gesellschaft fiir technische - anti retro-virali, 256. Zusammenarbeit, 236. fascismo, 193, 307. - Deutsche Stiftung fiir Internationale Federal Reserve, 246. Entwicklung, 236. Filippine, 315. - Deutsche Stiftung fiir internationale Financial Stability Board, 241. rechtliche Zusammenarbeit, 236. finanza, 74-86, 88-91, 108-9. - Deutscher Entwicklungsdienst, 236. - Credit Default Swap, 76. - Internationale Weiterbildung und - deregolazione, 75, 93. Entwicklung GmbH, 236. - derivati, 76. - nazismo, 128, 193, 307. - regolazione, 75-86. - orientale, 104. - subprime, 77, 241. Giacomo I, 49, 98. Fondo monetario internazionale, vedi Giappone: International Monetary Fund. - chòtei, 226. Ford Foundation, 55. - codice civile, 35. formanti: - consuetudine, 35. - mito della concordanza, 12, 15. - democrazia, 308. Francia, 54, 69-70, 114, 234, 281, 298. - diritto informale, 34-35. - civil law, 222.

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Indice analitico

epoca Tokugawa, 226. gerarchie sociali, 34. giri, 34matrimonio, 35. metodi di soluzione delle dispute, 35, 226. - tradizione giuridica, 7, 32, 34-35. - unioni civili, 35. giochi di ruolo: - accademici, 20. Giordania: - codificazione, 33. giudice/i: - e circuito democratico, 13. - formazione, 62, 146, 179, 209, 232, 235- globali, 84. - modi di reclutamento, 24. Giurisdizioni penali internazionali [ve­ di anche Cambogia, Corte penale in­ ternazionale, Kosovo, Libano, Sier­ ra Leone, Timor Est]: - Camera per i crimini di guerra in Bosnia-Erzegovina, 261. - immunità sovrana, 128. - Tribunale di Norimberga, 114, 261. - Tribunale di Tokyo, 114, 264. - Tribunale penale internazionale per il Ruanda, 114-15, 124, 267. - Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, 114, 261. - e attività Nato, 115. Giurisdizioni universali [vedi anche Giurisdizioni penali internazionali]: - Belgio, 127. - Corte penale internazionale, 116-18; ve­ di anche Corte penale internazionale. - Francia, 127. - Italia, 126. - Norvegia, 126. -Olanda, 127. - Regno Unito, 126. - riparazioni monetarie, 271. - Spagna, 126. - Usa: - Alien Tort Statute, 129-31. - Holocaust Claims, 128. giurista [vedi anche avvocati, Facoltà di giurisprudenza, giudice/i]: - assenza del, 8-9. - bouche de la loi, 17. - di civil law, 66-67. - di common law, 54-55. - di professione, 36-37, 190.

-

e discorso pubblico, ix-x, 18-20. e sfera sacrale, 302. formazione del: - in Italia, 216, 220. - in Europa, 66-67, 235- negli Usa, 67. - straniero, come obiettivo della politica estera, 55-57. - in Cina, 36-37. - in Giappone, 32, 34-35. - in India, 32-34. - nell’antica Grecia, 9. - nell’antica Roma, 8-9. - nell’IsIam, io, 32-33. - professori: - come formanti del diritto, n-12. - in Usa, 52. giusnaturalismo, 129. Giustiniano, 7. giustizia: - accesso alla, 109. - e opzioni politiche, 18. - e World Trade Organization, 73. - globale, 21-22, 84, 114. - intergenerazionale, 21, 166, 169. - occidentale, teorie della, 16-22. Global Compact, 292. Global Court for International Aid, 203-4. globalizzazione: - aspetti redistributivi, no. - giudiziaria, 73, 239. - istituzioni della: - democraticità, 96-97. - irresponsabilità, 95-97. - movimenti anti-, 44. - ‘obvious goods’, 202. Global Standards, 81. - Lecce Framework, 243. Gonzales A., 154. Graziani R., 261. Gregorio VII, 190. Grozio U., 98. Guinea: - corti laiche e religiose, 33. - mutilazioni genitali femminili, 162. -

Habeas Corpus, 173, 296. Habermas J., 18. Hamilton A., 272. Hariri R., 268. Hart H. L. A., 142. Hobbes T., 280. Hume D., 280.

Indice analitico identità: - come fattori di produzione d’istanze giuridiche, 144-46. - corporative, 146. - culturali, 63, 145-48; vedi anche Co­ stituzione, Diritti umani, Popoli in­ digeni. - nel processo penale, 282. - di gruppo, 143, 145-47; ve^‘ “fiche Di­ ritti umani, Popoli indigeni. - economiche, 145-46. - educazionali, 146. - etniche, 145, 196. - familiari, 145. - linguistiche, 63, 145-46; vedi anche Lingua. - professionali, 145. - religiose, 63, 145, 196. - tribali, 290. Illuminismo, 52, 69, 190. immigrazione, 147, 173. imperialismo umanitario, 274. India: - benami, 34. - casta, 32. - common law, 33. - consuetudine, 32, 222. - laicità della, 33, 225, 308-9. - democrazia, 205, 308-9, 318. - dharma, 32, 224. - e IMF, 1 io. - e liberalismo economico, 64. -eWTO, 255. - farmaci antiretrovirali, 256. - induismo, 33-34, 137, 224. - lavoro minorile, 253. - Child Labour Act 1986, 253. - matrimonio, 32. - Hindu Marriage Act, 34. - Shah Bano case, 297. - ruolo geopolitico, iio-n, 205. - tradizione giuridica, 7, 32-33, 105, 222, 224, 273-74. indirect rule, 89. Indonesia [vedi anche Timor Est]: - Ad hoc Human Rights Court, 266. - democrazia, 309. - mutilazioni genitali femminili, 162. induismo, vedi India. Inghilterra, vedi Common law, Naviga­ zione marittima, Regno Unito. International Bank for Reconstruction and Development, 233, 259.

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International Centre for Settlement of Investment Disputes, 78. International Development Associa­ tion, 233. International Labour Organization (ILO): - Core Labour Standards, 100, 253. - dumping sociale, vedi World Trade Organization. International Monetary Fund (IMF), 62, 73, no. - e rule of law, 62. - Poverty Reduction Strategy Papers, 62. - riforma dell’, 259. internet: - Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (ICANN), 97. Iraq, 232, 307-8, 315, 317. - American Bar Association, 57, 61. - costituzione, 61, 135. - democrazia, 193. - giurisdizione italiana su fatti accadu­ ti in, 269. - Office of Constitutional Support, 61. - rule of law, 57. Irlanda del Nord, 233. Islam: - Carta della Lega degli Stati Arabi, 139. - corti: - laiche, 33. - religiose, 33. - Dichiarazioni: - del Cairo sui diritti dell’uomo nel­ l’islam, 139. - islamica universale dei diritti del­ l’uomo, 139. - e donne, 33. - finanza, 225. - fuqahà’, 9-10. - giudice, io. - islamic values, 150-51, 186, 301. - legalità ‘costituzionale’, 302. - matrimonio: - divorzio e clausole penali, 33. - poligamico, 33. - mutilazioni genitali femminili, 164. - mutuo a interesse, 33. - qàdl, 10-11. - ruolo del giurista, 10-11. - siyàsa, 32. Italia, 54, 70, 81, 83, 104, 222, 234, 261, 285.

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Indice analitico

assistenza tecnica: e rapporti con la Cina, 67. in Afghanistan, 67. - codice civile, 11, 307. - educazione del giurista, 23, 216, 220. - fascismo, 193, 307. - giurisdizione universale, 126, 269, 271-72. - mutilazioni genitali femminili, 288289. lus cogens, 53, 230. -

-

Jiang Zemin, 55. Jugoslavia (ex) [vedi anche Kosovo]: - serbi, 115, 271. - Tribunale penale internazionale per la, 114-16, 261-62. jungle law, 109.

Katanga G., 264. Kenya, 162. Khan M. A., 297. Kosovo: - European Union Rule of Law Mission in Kosovo (EULEX), 266-67. - Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK), 122-23. lavoro [vedi anche International Labour Organization]: - diritto al, r3, 147, 172. - dumping sociale, vedi World Trade Organization. - forzato, xoo, 253, 271. - lotte proto-sindacali, 190. - minorile, 99,158, 175, 207, 253, 298. Law and Development, 214, 232-33. legal origins, 234. legal process, 11. Lenin V. I., 280. lex mercatoria, 45, 228. Libano: - Tribunale speciale per il: - competenza, 268. - diritto applicabile, 268. lingua: - come fattore di identità, 63. - della comunità, 63, 147. - del singolo, 146. - e Stato, 63. - minoranze linguistiche, 297. Locke J., 18, 280. lotta alla povertà, 50. - Cibo per l’istruzione, programma, 314.

Commission for the Legal Empower­ ment of the Poor, 221. - Poverty Reduction Strategy Papers, 62. Lubanga Dyilo T., 264.

-

Madagascar, 30. mafia, 63, 233. Magna Charta, 49, 190. Malawi: - registrazione dei diritti di proprietà, 223. Malesia: - Bumiputera, 103. - e Islam, 286. - e WTO (Government Procurement Agreement), 102-4. - mutilazioni genitali femminili, 162. Mali: - corti laiche e religiose, 33. - mutilazioni genitali femminili, 162. Marocco: - codificazione, 33. - corti laiche e religiose, 33. Marx K., 280. marxismo, 52, 137. matrimonio: - in Giappone, 35. - in India, 34. - nell’Africa sub-sahariana, 31. - nell’IsIam, 33. - regimi monogamici, 5. - regimi patrimoniali, 31. - regimi poligamici, 5, 31, 33. - unioni di fatto, 72. Mauritania [vedi anche Unione Euro­ pea]: - latte di cammello, 256. - mutilazioni genitali femminili, 162. mercati finanziari [vedi anche Crisi fi­ nanziaria, Finanza]: - autorità di controllo, 78. - cartolarizzazioni, 76-77. - Credit Default Swap, 76. - crisi, 74-80. - deregolazione, 75-80. - Global Standards, 81. - informalità, 74-80. - regolazione globale, 80-86. - Race to the bottom v. Race to the top, 80. - short-termism v. long-termism, 82. - subprime, 77, 241.

Indice analitico mercato: - concorrenza nel, 44, 79, 89, 99, 102, 245- e sviluppo, 210. - regolazione decentrata del, 65. micro-credito, 208, 316. micro-trade, 316. minoranze, 50, 233, 266, 298. - etniche, 196. - linguistiche, 297. - religiose, 196. - sessuali, 272. minori: - diritti dei: - al cibo e all’educazione, 314. - Convenzioni e Dichiarazioni Onu, vedi diritti umani. - lavoro dei, 99, 158, 175, 207, 253, 298. - prostituzione infantile, 158-59. Moldavia, 256. Mongolia, 67, 236. Mugabe R., 127. multiculturalismo, 196, 281. multinazionali [vedi anche Global Com­ pact]: - comportamenti anti-concorrenziali, 245- e Alien Tort Statute, 129. - e diritti umani, 129, 168, 291. - e paesi ‘in via di sviluppo’, 245. - OECD Guidelines for Multinational Enterprises, in, 243. - responsabilità sociale delle imprese, 292. mutilazioni genitali femminili, 161-65. - consenso libero e informato, 165, 290. - diffusione, 162. - e circoncisione maschile, 161, 164, 288-89. - forme, 162. - Italia, 288-89. - rimedi, 164-65, 289. - Usa, 208, 288.

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- mare clausum, 98. - mare liberum, 98. nazismo, 128, 193, 307. Nepal, 286. New Comparative Economics, 234. New Deal, 12-13, ®7New Partnership for Africa Develop­ ment (NPAD), 317. Ngudjolo Chui M., 264. Nigeria, 162, 262, 288. - giurisdizione universale, 180. nomadi, 166, 295. North-Atlantic Treaty Organization (NATO), 115, 262, 271. Norvegia, 126, 266.

Obama B. H., 59, 265, 298. obvious goods, 202. Occidente: - giuridico, come dimensione cognitiva, xn, 6-7, 16, 38-39, 46-51, 66-69, 109-12, 128-31, 136-38, 175-81, 185-93, 194-98, zìi-12occupazioni militari, 205. Olanda, 98. - assistenza tecnico-legale in Mongolia, 67, 236. - giurisdizione universale, 127. Olocausto, 128, 136. - Holocaust claims, 128, 130. - processo di Norimberga, 114, 261. Oman, 162. omosessualità, 173-74, 297. Organization for Economie Co-opera­ tion and Development (OECD), in, 243-44, 3I7Organisation pour 1’Harmonisation en Afrique du Droit des Affaires (OHADA), 67, 236. Organization for Security and Co-oper­ ation in Europe (OSCE), 61. Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu): - Assemblea Generale, 289. - Consiglio di sicurezza, 114-16, 118119, 261, 263, 266, 268, 299. - crimine di aggressione, 115,117-18. navigazione aerea, 88. - International Civil Aviation Organi­ - Darfur, 263. - Special Working Group on the zation (ICAO), 244. Crime of Aggression, 263. navigazione marittima, 88. - International Maritime Organization - Convenzioni/Dichiarazioni, vedi Di­ (IMO), 244. ritti umani. - Corte penale internazionale, vedi Cor­ - libertà dei mari, 98. te penale internazionale. - limite del mare territoriale, 250.

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Indice analitico

giurisdizioni penali internazionali, vedi Giurisdizioni penali internazio­ nali. - United Nations Children’s Fund (UNICEF), 286. - United Nations Conference on the Hu­ man Envinronment (UNCHE), 298. - United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD), 244. - United Nations Development Pro­ gramme (UNDP), 60-61, 232. - United Nations Educational, Scientif­ ic and Cultural Organization (UNE­ SCO), 293. Organizzazione Mondiale del Commer­ cio (OMC), vedi WTO. Organizzazione Mondiale della Sanità (QMS), 287. organizzazioni internazionali, 200, 248, 250, 265. organizzazioni non governative, 140, 167, 299. -

Paesi Baschi, 63, 233. Pakistan, 103, 255, 317. Pal R. B., 264. pandettistica, ri. Paraguay, 139. Paris Declaration on Aid Effectiveness, 317; pena di morte, 131, 174, 297, 398. Perelman C., 18. Perù, 300, 303. - Amazzonia: - progetto Camisea, 167-69. Pinochet A., 126. Platone, 17. politica agricola: - Unione Europea, 256. - Usa, 255. popoli indigeni, 265, 291. - consenso libero e informato, 290, 300. - dell’Amazzonia, 167-69. - Dichiarazione sui diritti dei, 139. - e multinazionali, 168. - e Patto Onu sui diritti economici, cul­ turali e sociali, 265-66. - generazioni future, 166-69. - inuit, 166. - progetto Camisea, 267-69. - proprietà collettiva, 266. Portogallo, 98. proprietà:

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collettiva, 266, 288, 207, 303. diritto di, 23, 30-32,64, 287-88, 207, 302. e democrazia, 287-88, 207. e diritti umani, 50. e rule of law, 50, 68, 287-88. espropriazione, 207, 325. fondiaria: - in America Latina, 303. - in Russia, 303. - nell’Africa sub-sahariana, 30-32, 3I5- registrazione della, 30-32. - sviluppo del credito, 32. - titolo di, formale e informale, 26, 207, 324-26. funzione sociale, 64. individuale, 23, 288, 207. intellettuale, 87. - Agreement on Trade Related As­ pects of Intellectual Property Rights (TRIPs), 252. - diritto e scienza, 29-20, 252. - in ambito agricolo-sanitario, 202. - World Intellectual Property Or­ ganization (WIPO), 244.

Quebec, 233.

Rawls J., 28, 242, 229. reddito di cittadinanza, 243. Regno Unito, 224 [vedi anche Common law]: - anti-europeismo, 70. - Constitutional Reform Act 2005, 226. - e codice civile europeo, 70. - e separazione dei poteri, 216. - giurisdizione universale, 226. - indicatori economico-culturali, 70. Repubblica Centro-Africana, 32. Repubblica Democratica del Congo, 227, 264, 269. resistenza: - ai modelli occidentali, 272, 298-202. responsabilità sociale dell’impresa, vedi Multinazionali. Rivoluzione francese, ix, 8. Roosevelt F. D., 9, 22-24, 87. Rorty R., 277. Ruanda: - corti Gacaca, 224-25, 267-68. -genocidio, 224. - giurisdizioni penali, 224, rr6, 224-25.

Indice analitico Tribunale penale internazionale per il, 115, 124. rule of law: - e democrazia, 50, 56-59, 64, 66, 68, 194. - e diritti umani, 50, 53, 57-58, 61-62. - e proprietà privata, 50, 68. - e sacralità dei contratti, 50, 68. - Governance Indicators, 64, 234. - Magna Charta, 48, 190. - nozioni, 48-51. - thick/thin, 49-50, 228. - promozione della: - e assistenza tecnica, 50, 54-55, 68. - e costituzioni, 54, 56-58. - e istituzioni internazionali, 59-66. Rumsfeld D., 270. Russia, 240, 256, 307. - democrazia, 64, 200. - e cesaro-papismo, 305. - e latifondo, 303-4. - e Corte penale internazionale, 118. - e IMF, 1 io, 259.

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Safety net, 90, 101, 158-59, 207. schiavitù, 177, 272, 276. scienze cognitive, 74, 218. Scott IL, 77. Securities and Exchange Commission (SEC), 76, 82, 240, 242. Selden J., 98. Sen A., 150, 296. Senegai, 30. separazione dei poteri (principio della), 192. - in Inghilterra, 216. - negli Usa, 12-14. Serbia, 271; vedi anche Corte penale in­ ternazionale, Jugoslavia, Kosovo. shari'a, 7, io, 32, 150, 302. Sierra Leone: - Corte speciale per la, 121, 266. - competenza, 121. - diritto sostanziale e processuale ap­ plicabile, 121. Siria: - codificazione, 33. siyàsa, 31-32. socialismo, 38, 49. - americano, 246. social norms, 25. Somalia, 158, 162. sovranità, 86-92, 94-95, 113, 116-17, 145, 190, 195, 244-48.

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Spagna, 54, 98, 126. - codice civile ed esperienza franchista, 3°7- giurisdizione universale, 126, 270. - indipendentismo basco, vedi Paesi Ba­ schi. Spence Commission, vedi Commission on Growth and Development. spettacolarità del diritto, 273-74. Sri Lanka, 162. standard tecnici, 228, 251. - International Organization for Stand­ ardization (ISO), 96-97. stato minimo, 93. stratificazione giuridica (fenomeni del­ la): - nel diritto occidentale, 26. - strati, 25-28. - consuetudinari, 26-27. - nel diritto pubblico, 26-27. - del commercio transnazionale, 27. - dinamismo degli, 28. - formali, 26-27. - informali, 26-27. successione ereditaria, regole sulla, 3234, 165, 268. Sudafrica: - appalti pubblici, 254. - e farmaci anti-retrovirali, 256. Sudan, 162, 264. - Darfur, 263. Swaziland, 231. Tailandia: - buddismo, 286. - e diritti umani, 158, 300. - prostituzione minorile, 158-61, 286. Taiwan, 64, 254. - confucianesimo, 309. - democrazia, 309. Tanzania: - registrazione dei diritti di proprietà, 223. terrorismo, 153, 200, 267. - normative Usa anti-, 131, 296. testamento biologico, 73. Tibet, 5, 269. Timor Est, 266. - Comissào de Acolhimento, Verdade e Reconciliaijào, 266. - Serious Crimes Unit, 122. Togo, 30. Tommaso d’Aquino, 18, 264, 306. tortura [vedi anche Diritti umani]:

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Indice analitico

Abu Ghraib, 155. Guantanamo, 270. Torture Memo, 154-56, 298, 307. - Fried C., 155. - Posner E., 155. - Vermeule A., 155. totalitarismo/i, 191-93, 196. Traditional Knowledge, 251. tradizione giuridica, nozione di, 9. trapianto giuridico, vedi Circolazione dei modelli giuridici. tribù, 145, 147, 188, 199, 209, 279. Tribunale speciale per il Libano, vedi Li­ bano. Tribunali penali internazionali, vedi Giurisdizioni penali internazionali. Tunisia: - corti laiche e religiose, 33. - matrimonio, 5, 33. Turchia: - codificazione, 33. - corti laiche e religiose, 33. -

Ungheria: - Bolla d’oro, 190. Unione Africana, (Organizzazione dell’) ((O)UA), 139. - Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, 139. - Protocollo sui diritti delle donne in Africa, 139. Unione Europea: - educazione dei giuristi, 66-68. - e Mauritania, 256. - e Moldavia, 256. - e politiche Usa, 54, 58. - e Regno Unito, 70. - giustizia sociale, 44. - in Kosovo, 266. - politica agricola, 256. - politica estera, 67-71, 110-11, 236237, 258, 266-67. - prodotto interno lordo delle giurisdi­ zioni civilistiche dell’, 65. - prodotto interno lordo delle giurisdi­ zioni di common law dell’, 65. - promozione della rule of law, 68, 237, 266-67. - revoca delle concessioni di vantaggi commerciali, 252. - Core Labour Standards, too, 253. - Generalized System of Preferences (GSP), 252. - ruolo globale dell’, 67-69, no, 236,258.

- Schengen, accordi di, 70. - Trattato di Lisbona, 285. Unione Sovietica, 37-38, 52, 114. Uruguay, 64, 234. Usa: - Alien Tort Statute, 129-31. - American Bar Association, vedi Ame­ rican Bar Association. - circoncisione, 161, 288. - Core Labour Standards, too, 253. - corti, 12-14, 52-54. - e controversie finanziarie, 75-76. - e giurisdizione universale, 53, 128131. - Holocaust claims, 128, 130. - ius cogens, 53. - Japanese Forced Labour Litigation, 272. - Torture Victims Protection Act 1991, 273. - Costituzione, 56, 128-29, 272. - crisi del ’29, 12. - e Corte penale internazionale, 116117. - American Service Members’ Pro­ tection Act 2002, 262. - egemonia giuridica, 51-60, 66-67, 71- formazione del giurista, 67. - straniero, come obiettivo della po­ litica estera, 55-57. - Obama B. H., 59, 265, 298. - pena di morte, 131, 297. - politica estera degli: - e Costituzioni, 56-58, 61, 63, 185, 201, 209. - e democrazia, 55-62. - e diritti umani, 50, 53, 55-58. - e rule of law, 50, 53, 57-58, 61-62. - ‘responsible manufacturer’, 252. - Rumsfeld D., 270. - social activists, 53. - Securities and Exchange Commission (SEC), vedi Securities and Exchange Commission. - spettacolarità del diritto, 273. - third strike rule, 131. - tortura, vedi Tortura. - United States Aid for International Development (USAID), 55-56, 230, 266. - US-Asia Law Institute, 55. - US Export-Import Bank, 168.

Indice analitico Vermeule A,, 155, 284. Vietnam, 64. waqf, 33. Washington consensus, 162. World Bank (WB), 73, no. - Comprehensive Development Frame­ work, 62, 3ir-r2. - Doing Business, 65-66, 229, 234-35. - e rule of law, 63-66. - Governance Indicators, 64, 234. - International Finance Corporation, 233- Investment Climate Surveys, 234. - Poverty Reduction Strategy Papers, 62. - riforma della, 65, 258-59. World Trade Organization (WTO), 73, 97, 99-112, T78, 238. - Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPs), 251. - clausola sociale, 251-52. - dumping sociale, 99-102, 104. - Core Labour Standards, 100, 253. - Enabling Clause, 252. - enforcement delle regole, 104-9. - Dispute Settlement Body (DSB), 105-8. - casi pendenti, 255. - cotone americano, 255. - e accesso alla giustizia, ro5-6, 109. - farmaci anti-retrovirali, 256. - frutta moldava, 256. - latte di cammello, 256. - retaliatory measures, 106-8, 255. - Dispute Settlement Understanding (DSU), 105-8. - e paesi ‘in via di sviluppo’, 99-109, 251-59. - e Unione Europea, 1 io. - General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), 100, 252. - Government Procurement Agree­ ment (GPA), 102-4; anche Au­ stralia, Canada, Malesia, Sudafrica.

Yemen, 162.

Zambia, 30. Zardad F. S., 126.

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Ringraziamenti particolari. Di debiti intellettuali credo si viva, ed è certamente il mio caso. Inin­ terrotta sarebbe perciò la lista di creditori cui questo libro deve qualcosa. Mi limito allora a ringraziare qui due persone, meno attrezzate a pensar­ si come indispensabili, ma senza le quali le pagine che precedono sareb­ bero state assai diverse. Grazie alla eterea, eppure contagiosa allegria di colei alla quale il li­ bro è dedicato. Grazie all’irresistibile tenerezza di Niccolò, che nei giorni piu tortuo­ si della riflessione ha saputo rincuorarmi, trasmettendomi la persuasione sua che «se quancuno leggerà il libro, di sicuro non gomiterà» (enfasi nel­ l’originale).