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Italian Pages 287 [294] Year 2017
“Non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi.” - Cesare Pavese
“L’ossessione del suicidio è propria di colui che non può né vivere né morire, e la cui attenzione non si allontana mai da questa duplice impossibilità.” - Emil Cioran
“Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione.” - Sylvia Plath
Perché gli artisti, da Petronio a Pavese a Syl via Plath, sono attratti dalla morte al punto di preferirla alla vita? La storia della lette ratura e dell’arte è piena di suicidi veri e di suicidi intellettuali. Il confine tra questi due modi di chiudere i conti con la vita - Kafka che decreta la distruzione delle sue opere, Hemingway che si uccide veramente - è mol to labile e difficile da definire. Anche se non viviamo più in un’epoca in cui il rapporto fra l’artista e la vita è dominato dalla tensione verso il sublime gesto romantico, tuttavia la tentazione del suicidio è ancora suggestiva. Al Alvarez, noto critico letterario inglese che ha tentato egli stesso il suicidio, ci racconta l’avventura del suo viaggio di “andata e ri torno” fino al termine della vita, giungendo a intuizioni che sfuggono agli esperti di psi chiatria, sociologia e statistica. Il dio selvag gio costituisce infatti un tentativo di strap pare il suicidio dal campo della teoria per riportarlo a quello della dimensione umana, collegandolo alla visione della vita e dei co stumi come si è manifestata nei vari periodi storici. Il suicidio è sempre esistito; tanto più esiste nella nostra epoca in cui la condizione umana poggia su basi così fragili come già ci preannuncia il suicidio di Van Gogh a fine Ottocento e come ci conferma Pavese con il suo drammatico “Non parole. Un gesto”: un modo stoico per “venire a patti con la morte”, l’unica libertà per i nostri tempi, come rile vava Camus. Così, sostiene Alvarez, l’uomo moderno - di cui l’intellettuale rappresenta la coscienza più esposta alle sollecitazioni del “dio selvaggio”, vittima di un’angoscio sa solitudine che lo spinge a scegliere la via della morte piuttosto che accettare la scon fitta della vita - paga uno scotto che non ha precedenti nei secoli passati.
“Scrivere di suicidio, trasformare questo soggetto in qualcosa di bello: questo è il proibitivo obiettivo che Al Alvarez si è posto. E ci è riuscito appieno.” - New York Times -
Al Alvarez è nato a Londra nel 1929 e ha stu diato a Oxford. Dopo aver ottenuto varie bor se di studio in Inghilterra e negli Stati Uniti, nel 1956 ha lasciato il mondo accademico per diventare uno scrittore freelance. Per interi decenni è stato un brillante critico letterario per YObserver e critico drammatico per il New Statesman. Ha pubblicato numerosi saggi letterari e so ciologici - tra cui il reportage sul poker The Biggest Game in Town (Nuova Frontiera 2014) - e un volume di poesie.
Copertina
Il suicidio di Lucretia (part.), Maestro del Pappagallo, 1525 circa (Amsterdam, Rijksmuseum).
€ 18,00
Stampato per conto di Odoya da Gesp - Città di Castello (PG) nel mese di luglio 2017 Questo libro è stato prodotto PEFC con carta certificata PEFC
Al Alvarez
Il dio selvaggio Suicidio e letteratura
ODOYA
Titolo originale:
The Savage God A Study ofSuicide
Edizione originale: Weidenfeld & Nicolson, Londra 1971 Prima edizione italiana: Rizzoli, Milano 1975 Traduzione: Mario Manzari
Copyright © 2017 Casa editrice Odoya srl Tutti i diritti riservati isbn: 978-88-6288-407-5 Copertina: Mauro Cremonini Impaginazione: Mauro Cremonini e Mauro Sulis Revisione di traduzione: Caterina Ciccotti Redazione: Francesca Muratori Ha collaborato: Anna Scopano Un sentito ringraziamento a Stefano Nardini per il prezioso suggerimento L’editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti di edizione e di traduzione senza riuscire a reperirli: è ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.
Odoya srl Via Benedetto Marcello 7 — 40141 Bologna www.odoya.it
Sommario
Prefazione
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PARI! PRIMA
Prologo: Sylvia Plath
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PARU· SECONDA
Notizie preliminari
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paru: terza
11 mondo chiuso del suicidio
83
Errori 87 · Teorie 99 · Sentimenti 125 PARI E QUARTA
Suicidio e letteratura
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Dante e il Medioevo 149 · John Donne e il Rinascimento 155 William Cowper, Thomas Chatterton e l’età della ragione 173 L’agonia romantica 199 · Lo zero del domani: fra il XIX e il XX secolo 211 Dada: il suicidio come arte 219 · Il Dio Selvaggio 231 PARTE QUINTA
Epilogo: Abbandono
Note Indice dei nomi
255 .
277 283
Dopo di noi il dio selvaggio. - W.B. Yeats, Auto biografie
Il dio Tezcatlipoca era considerato un vero dio, invisibile, capace di avere accesso ovunque, in cielo, in terra e nelle regioni dei morti. Si diceva che quando era sulla terra istigava la gente a guerreggiare, suscitava inimicizia e discordie e provocava molti dolori e affanni. Aizzava le persone le une contro le altre talché queste si facevano guerra, e per questo motivo era chiamato «il nemico di entrambe le parti». Egli solo comprendeva come era governato il mondo, e lui solo dispensava prosperità e ricchezze e le toglieva a suo piacimento; dispensava ricchezze, prosperità e fama, coraggio e potere, dignità e onori e li ritoglieva a suo grado. Per questo era temuto e venerato, perché era in suo potere innalzare о abbattere. - Bernardino
de
Sahagún,
Storia generale delle cose della Nuova Spagna
Prefazione
liando andavo a scuola avevo un insegnante di fisica dal carattere insolitamente mite, alquanto squinternato, il quale parlava continuamente del suicidio con fare scherzoso. Era un tipo minuscolo dal faccione i < isso, una testa enorme ricoperta di una chioma ricciuta e lanosa, dal sorri si » perennemente preoccupato. Dicevano che si fosse laureato a Cambridge * «ni il massimo dei voti, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi. Un giorno, al termine di una lezione, osservò con aria pacata che chiunque si i.igliasse la gola doveva sempre prendere la precauzione di infilare prima Li lesta in un sacco, altrimenti avrebbe imbrattato ogni cosa. Tutti scoppiaιοί io a ridere. Poi squillò la campanella delfuna e i ragazzi andarono tutti hi botta a pranzo. Il professore di fisica, inforcata la bicicletta, corse dritto i i asa, infilò la testa in un sacco e si tagliò la gola. Non sporcò molto. Io i nii.isi terribilmente impressionato. I a sua mancanza fu molto sentita, poiché era difficile trovare una brava persona in quella comunità squallida e chiusa in se stessa. Eppure, fra tutti i pettegolezzi e i tentativi di soffocare lo scandalo, non mi passò mai per Li testa che quell’uomo avesse fatto qualcosa di male. In seguito, dovetti * “inbattere la mia lunga lotta con la depressione e mi parve di cominciare i i api re perché egli avesse optato per una soluzione così disperata. Poco lempo dopo ebbi modo di conoscere Sylvia Plath durante il periodo di 11 aordinaria attività creativa che precedette la sua morte. A volte parlava ino dui suicidio, ma con distacco, come di un qualsiasi altro argomento di • onversazione. Fu solo dopo che Sylvia si fu tolta la vita che mi resi conto »li non sapere quasi nulla sul senso di quel gesto, nonostante mi vani.issi
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Il dio selvaggio
da tempo, fra me e me, di possedere una vasta conoscenza dell’argomento. Questo libro rappresenta un tentativo di scoprire perché avvengono queste cose. Il libro si apre con una rievocazione di Sylvia Plath, non solo per tribu tare un omaggio a una scrittrice che io annovero fra le più dotate del nostro tempo, ma anche per porre l’accento su un fatto. Ho voluto che il libro iniziasse, così come termina, con la narrazione particolareggiata di una vicenda personale, affinché qualsiasi teoria о generalizzazione che a essa facesse seguito potesse in qualche modo essere ancorata alla realtà umana particolare. Nessuna teoria potrà mai chiarire da sola un atto ambiguo e dalle motivazioni così complesse come il suicidio. “Prologo” ed “Epilogo” hanno la funzione di ricordarci che ogni spiegazione è condannata sempre a essere incompleta. Così ho cercato di delineare gli sbalzi e gli sbandamen ti emotivi che portarono alla morte di Sylvia secondo quanto mi è dato comprenderli e con la massima obiettività possibile. Partendo da questo caso singolo ho sviluppato l’argomento portando il discorso su un campo meno personale. Il cammino si è dimostrato lungo. Al momento di mettermi al lavoro mi figuravo ingenuamente che sul suicidio non si fosse scritto granché: uno stupendo saggio filosofico di Camus, Il mito di Sisifo, una grossa ope ra autorevole di Emile Durkheim, il preziosissimo volumetto di Erwin Stengel pubblicato nei Penguin e un ottimo, ma ormai introvabile, profilo storico a opera di Giles Romilly Fedden. Mi resi ben presto conto di es sermi sbagliato. Sull’argomento esiste un’enorme quantità di materiale che aumenta ogni anno. Eppure solo un’esigua parte di esso potrebbe rivestire un certo interesse per chi non sia uno specialista, e una quantità anco ra minore tratta degli aspetti del suicidio noti personalmente al profano. I sociologi e gli psichiatri clinici, in modo particolare, hanno mostrato una vena segnatamente inesauribile. Eppure può accadere (in effetti molto spesso) di procedere stentatamente nella lettura più о meno di quasi tutti i loro innumerevoli volumi e articoli senza avvertire, neppure per una volta, il minimo interesse per quel miserando, confuso, tormentato parossismo che è la realtà comune del suicidio. Persino gli psicanalisti sembrano evii.ih l’.iigomcnto. I'.sso entra nelle loro opere per lo più incidentalmente, iihiiiH il i< tii.i 11 .it 1 .no < un .ih io. Esistono alcune eccezioni degne di nota
Prtfaziont
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(di cui, come è giusto, faccio menzione più avanti) ma sono staio costret to, in larga misura, a imbastire una teoria psicanalitica del suicidio come meglio ho potuto, dal punto di vista di un profano interessato che non è in analisi. Tutto questo si trova nella Terza Parte. Ma chiunque desideri un panorama completo dei fatti e delle statistiche riguardanti il suicidio c un sommario del punto a cui sono giunte la teoria e la ricerca odierne, dovrebbe consultare lo studio lucido e sensibile del professor Stengel, Il suicidio e il tentato suicidio. Quanto più mi immergevo nella lettura di studi di carattere tecnico, i uno più aumentava in me la convinzione che la miglior cosa da farsi fosse di considerare il suicidio secondo la prospettiva della letteratura onde \ edere in qual modo e per quale motivo esso accenda la fantasia degli indi\ idui creativi. La letteratura non è soltanto una materia di cui mi intendo un poco; è anche una disciplina interessata, al di sopra di ogni altra cosa, .i quello che Pavese chiamava «il mestiere di vivere». Dato che l’artista è, pei vocazione, più cosciente delle proprie motivazioni rispetto alla magl'ioi.mza delle altre persone, e dotato di una maggiore capacità di autoeI>i< ssione, non mi sembrava improbabile che egli potesse giungere a delle intuizioni che sfuggivano agli esperti di sociologia, psichiatria e statistica. Sul filo di questa premessa sono giunto a elaborare una teoria che, a mio ранте, spiega in qualche modo il contenuto dell’arte moderna. Ma, al fine di tapi re perché il suicidio sembrerebbe un motivo così dominante della I· urtatura contemporanea, sono risalito molto indietro nel tempo per ve li ic in che modo questo tema si è sviluppato nella letteratura degli ultimi me pie о sei secoli. Ciò ha comportato la presentazione di una certa quaniii.ì di particolari probabilmente tediosi. Ma quest’opera non è destinata allo specialista di letteratura e se finirà per rivelarsi tale vorrà dire che ho Ialino nel mio intento. Non presento alcuna soluzione. In realtà, non credo che ne esistano, • I no che il significato del suicidio varia a seconda delle persone e dei tempi, l’ci Petronio Arbitro fu la raffinata infiorettatura finale di una vita consa• iuta all’eleganza. Per Thomas Chatterton rappresentò l’alternativa a una molle lenta per inedia. Per Sylvia Plath fu il tentativo di cercare una via • I uscita dalla situazione disperata in cui la sua stessa poesia l’aveva spinta. l\ i ( csare Pavese fu inevitabile come il prossimo sorgere del sole, un even
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II dio selvaggio
to che tutte le lodi e il successo di questo mondo non valsero a rimandare. L’unica soluzione concepibile in cui il suicida può sperare è un qualche tipo di aiuto: sensibilità e comprensione per le sue sofferenze da parte dei buoni samaritani о del prete о di quei rari medici che hanno il tempo e la voglia di ascoltare, l’aiuto esperto offerto dallo psicanalista о da quella che il professor Stengel chiama ottimisticamente una «comunità terapeutica» specializzata per affrontare queste situazioni di emergenza. Ma dopotutto, può darsi che il suicida non desideri essere aiutato. Invece di presentare delle risposte, ho semplicemente cercato di contro bilanciare due pregiudizi: il primo è quel tono di presunzione religiosa (an che se ora è esibito più spesso da persone che non appartengono a nessuna chiesa in particolare) che bandisce con orrore il suicidio come un delitto morale о una malattia di cui non vale neppure la pena di discutere. Il se condo è la tendenza scientifica attuale che, nel momento stesso in cui tratta il suicidio come un fenomeno su cui indagare seriamente, giunge a negare a esso ogni serietà riducendo la disperazione alle statistiche più crude. Quasi ognuno di noi ha le proprie idee sul suicidio; perciò mi è impos sibile ricordare о ringraziare come dovrei tutti coloro che mi sono stati di ausilio con citazioni particolari e suggerimenti. Ma ho un grande debito di gratitudine verso Tony Godwin la cui convinzione (a dispetto di ogni evidenza) che io potessi comporre questo volume lo indusse a offrirmi un generoso anticipo che mi ha consentito di scrivere il libro. Inoltre desidero ringraziare l’Arts Council della Gran Bretagna per una borsa di studio che mi venne concessa generosamente e in un momento cruciale. E Diana Harte che ha decifrato il manoscritto, battendolo e ribattendolo a mac china con cura meticolosa. Un grazie, soprattutto, a mia moglie Anne, la quale mi ha assistito, criticato, e, in poche parole, mi ha fatto portare a compimento questa fatica.
A.A.
porte primo
prologo
Sylvia Plath
Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione. - Sylvia Plath
La passione per la distruzione è anche una passione creativa. - Michail Bakunin
e ben ricordo, conobbi Sylvia e il marito a Londra nella primavera del
S
1960. Mia moglie e io abitavamo vicino allo Swiss Cottage, sul ver une meno raffinato del quartiere letterario di Hampstead, in un edificio ( do.irdiano di vari piani dai mattoni di un rosso particolarmente sgrade voli ; era il colore di una vecchia caldaia lasciata ad arrugginire all’aperto p< i così tanto tempo che persino la lucentezza dello sfacelo si era consunta. < Ju.indo ci trasferimmo in quell’appartamento il palazzo era appena stato к μ. lutato da una di quelle compagnie immobiliari accaparratrici di stabili • Ih* fecero affari d’oro prima che lo scandalo Rachman venisse a rendere piu dura la vita ai proprietari esosi. Inutile dirlo, i lavori erano stati esel.iiiii .illa meno peggio: l’arredamento era scadente e le rifiniture orribili; le u urlai a ture delle finestre sembravano troppo piccole per i vani aperti nei 1111111 e a ogni giuntura delle parti in legno si notavano ampi, grossolani ini< i и/i. Ma avevamo scartavetrato i pavimenti e dipinto l’appartamento a vivai i colori. Poi acquistammo alcuni mobili dai rigattieri di Chalk Farm e in· he questi li scartavetrammo e dipingemmo. Così tutto sembrò assumeII una fragile patina di vivacità: proprio il posto adatto per il primo figlio, И pi i ino libro, la prima vera infelicità. Quando traslocammo, diciotto mesi piu nudi, nei muri esterni vi erano ampie crepe in corrispondenza dei vani • l< Ile nuove finestre. Ma ormai anche nella nostra vita si aprivano crepe, • « » к c he non sembrava che ci fosse nulla di stonato. Poiché recensivo regolarmente le opere di poesia per X Observer, ¡neon и.ivo pochi scrittori. Il fatto di conoscere personalmente la persona che io cnsivo sembrava creare troppe difficoltà: le persone simpatiche spesso
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II dio selvaggio
scrivono brutte poesie e i buoni poeti possono essere dei mostri; più spesso che no sia l’autore che le sue opere erano scostanti. Tutto sommato, mi sembrava più facile non potere dare un volto al nome e giudicare tenen do davanti solo la pagina stampata. Mi attenni a questo criterio anche quando venni a sapere che Ted Hughes abitava vicino a casa mia, proprio oltre Primrose Hill, con la moglie, un’americana, e una figlia piccola. Tre anni prima aveva pubblicato IIfalco nella pioggia che aveva suscitato in me una grande ammirazione. Ma nelle sue poesie c’era qualcosa che mi faceva presumere che egli non si curasse di ciò che io ne pensavo. Esse sembrava no sgorgare da un mondo assorto, fisico, che era tutto suo; nonostante la grande abilità tecnica dispiegata, esse suggerivano l’idea che gli avvenimen ti letterari non interessassero minimamente l’autore. «Non preoccuparti», mi dissero, «non parla mai del proprio lavoro». Mi fu anche detto che aveva una moglie di nome Sylvia, la quale scriveva anche lei delle poesie, «ma», aggiunsero per rassicurarmi, «è molto acuta e intelligente». Nel 1960 uscì Lupercale. Mi sembrò la migliore opera di un giova ne poeta che avessi mai letto da quando avevo cominciato a lavorare per Y Observer. Quando scrissi una recensione per esprimere il mio giudizio, al giornale mi chiesero di compilare un breve “pezzo” su di lui per una delle rubriche più mondane. Gli telefonai e decidemmo di portare i nostri bam bini a fare una passeggiata a Primrose Hill. Sembrava una buona idea, che non coinvolgeva troppo nessuno dei due. Gli Hughes abitavano in un appartamentino non lontano dal giardino zoologico di Regent Park. Le loro finestre davano su una piazza fatiscente: un giardino, caduto in abbandono e inselvatichito, circondato da case scro state. Più vicino a Primrose Hill il lusso avanzava a grandi passi: le com pagnie immobiliari che pubblicavano le loro inserzioni sui giornali dome nicali eleganti esponevano le proprie insegne, le porte d’ingresso esibivano tutte i nomi dei colori di moda: “Cantaloup”, “Tangerine”, “Blueberry”, “Thames Green”, e si avvertiva ovunque un senso di luminosi interni: le vecchie case trasformate dai nuovi restauri in abitazioni spaziose e di lusso. La loro piazza, comunque, non era ancora stata rilevata. Era sudicia, in rovina e chiassosa di bambini. Le file di case che si dipartivano da essa era no ancora occupate da famiglie operaie dello stesso tipo per cui erano state costruite ottantanni prima. Nessuno, fino a quel momento, ne aveva fatto
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un quartiere elegante, quadruplicandone il prezzo, anche se ciò sarebbe accaduto nel volgere di breve tempo. Per arrivare all’appartamento degli Hughes bisognava fare una rampa di scale sudicie e percorrere un atrio ingombro di una carrozzina e una bicicletta. Era così piccolo che ogni cosa sembrava di sghembo. Ci si insinuava in un ingresso così stretto e ostruito che si riusciva a malapena a togliersi il cappotto. La cucina sembrava fatta per una sola persona e spalancando le braccia si potevano toccare le pareti opposte. Nel salotto ci si sedeva fianco a fianco nel senso della lunghezza fra una parete di libri e una di quadri. Nella camera da letto accanto al dotto, con la sua carta da parati a fiori, non sembrava ci fosse spazio per nulla tranne che per un letto matrimoniale. Ma i colori erano allegri, le .iippellettili graziose e da ogni cosa si sprigionava un senso di vivacità e di .novità. Su un tavolinetto accanto alla finestra c’era una macchina da scri vere a cui i coniugi Hughes si avvicendavano, lavorando ciascuno a turno mentre l’altro si curava della figlia. Di sera la facevano sparire per fare posto .illa culla della bambina. Più tardi presero a prestito una stanza da un altro poeta americano, W.S. Merwin, dove Sylvia si recava a lavorare la mattina, mentre Ted faceva il turno del pomeriggio. I i a la grande ora di Ted. Era sul punto di acquistare una considerevole i epurazione. Il suo primo libro era stato accolto favorevolmente e aveva vinto premi di ogni genere negli Stati Uniti, il che di solito significa che il secondo libro sarà un insuccesso. Lupercali invece, mantenne e superò agevolmente tutte le promesse de IIfalco nella pioggia. Una nuova persona lità, vigorosa e irrefutabile, si era affacciata sulla scena squallida della poesia inglese. Quali che potessero essere le sue esitazioni naturali e i dubbi verso il proprio lavoro, egli doveva in qualche modo rendersi conto delle proprie < apacità e dei risultati raggiunti. Solo Dio sapeva fin dove si sarebbe spinto ina, in sostanza, era già arrivato. Era alto, dall’aspetto vigoroso, con una giacca nera di velluto a coste, pantaloni neri e scarpe nere; i capelli scuri, arruffati, gli ricoprivano la fronte; aveva una bocca larga e arguta. Era pa drone della situazione. A quel tempo Sylvia pareva eclissata, e la poetessa aveva lasciato il posto .illa giovane madre e alla donna di casa. Aveva una figura slanciata, pint tosto piatta, un viso alquanto allungato, non bello ma vigile e pieno di
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sensibilità, con una bocca vivace e begli occhi castani. 1 capelli, anch’essi castani, erano raccolti in un’austera crocchia. Indossava un paio di bluejeans e una camicetta semplice, dai toni vivaci, all’americana: sveglia, linda, efficiente come una ragazza di un manifesto pubblicitario di prodotti per la cucina, cordiale eppure alquanto distaccata. La sua carriera precedente, di cui allora non sapevo nulla, smentiva quella sua aria casalinga. Era stata una bambina prodigio (aveva pubblicato la sua prima composizione all’età di otto anni) e in seguito una studentessa brillante, guadagnandosi tutti i premi in palio alla Wellesley High School e quindi allo Smith College; borse di studio a ogni piè sospinto, pieni voti, Phi Beta Kappa, presidentessa di svariate associazioni universitarie e premi per tutto ciò che faceva. Una rivista mondana di New York, Mademoiselle, l’aveva prescelta come la prima delle giovani promesse di maggior rilievo, indicendo feste e pranzi in suo onore e fotografandola in ogni angolo di Manhattan. Quindi, quasi inevitabilmente, aveva vinto una borsa di stu dio per Cambridge, dove incontrò Ted Hughes. Si sposarono il 16 giugno del 1956, nel giorno dedicato al joyciano Mr Bloom. A sostenere Sylvia era stata la madre, una vedova piena di abnegazione; insegnante, si era sacrifi cata affinché i due figli potessero avere successo. Il padre di Sylvia - ornito logo, entomologo, ittiologo, esperto internazionale sui bombi e professore di biologia all’università di Boston — era morto quando la figlia aveva nove anni. Entrambi i genitori erano di origine e di lingua tedesca, intellettuali e legati agli ambienti accademici. Quando Sylvia e Ted si recarono negli Stati Uniti, dopo il periodo di Cambridge, una brillante carriera universitaria sembrava cosa naturale e assicurata. A prima vista era la tipica storia di una scalata al successo: la studentessa brillante che supera un esame dopo l’altro e si fa strada così velocemente e instancabilmente che nulla potrà raggiungerla. E tutto questo potrebbe durare per tutta la vita, purché nulla intervenga ad arrestare lo slancio, e lo strumento di tutti quei trionfi non si disintegri e vada in frantumi semplicemente per l’eccessiva velocità e lo sforzo. Ma la sua carriera aveva già subito due arresti. Fra il mese dell’apparizione su Mademoiselle e l’ultimo anno di Società onoraria degli Stati Uniti, fondata nel 1776, i cui membri sono scelti fra gli studenti universitari che si sono particolarmente distinti nella vita accademica. [N.d. 77]
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università aveva avuto l’esaurimento nervoso e compiuto il disperato tentat ivo di suicidio che poi divennero l’argomento del suo romanzo La campana di netro. Quindi, una volta rientrata allo Smith College - «un’insegnante ecI с/tonale», dissero i colleghi -, le soddisfazioni accademiche avevano perso ai suoi occhi ogni attrattiva: non valevano lo sforzo. Così nel 1958 aveva ab bandonato la carriera universitaria - Ted non l’aveva mai presa seriamente in considerazione - e si era messa in proprio contando sulla fortuna e sulle sue doti poetiche. Tutto questo lo venni a sapere molto tempo dopo. Ora Sylvia aveva semplicemente rallentato il ritmo: era sottomessa, presa dalla hglia appena nata e cortese solo in quel modo piuttosto formale, superficia li c d’oltre Atlantico che serve a tenere gli altri a distanza. I cd scese dabbasso a preparare la carrozzina, mentre la moglie vestiva l i bambina. Io mi trattenni un momento, per allacciare il cappotto di mio tiglio. Sylvia si volse verso di me, improvvisamente, senza arrossire. • Sono così contenta che abbia scelto quella poesia» disse. «E una delle nue preferite, ma nessun altro sembrava trovarla interessante». Per un attimo rimasi interdetto: non sapevo di cosa stesse parlando. Lei ·..t ciò non si può dedurre molto. L’atteggiamento di Shakespeare verso ■ pinhlcini morali fu in sostanza uguale a quello nei riguardi delle sue fonti: η,ιιΐι и. ( '.iò che importa è il dramma. I suoi personali pregiudizi religiosi
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- quali che essi possano essere stati - non riuscirono mai a sovvertire il suo istinto dell’efficacia drammatica. Inoltre i gusti del pieno Rinascimento in fatto di tragedie non comportano una nuova tolleranza verso il suicidio concreto. Le sofferenze di un eroe tragico, distaccato e nobilitato dal dram ma poetico, è, letteralmente, un mondo ben diverso dal suicidio lontano dalle scene, che è raramente tragico, mai grandioso, e più spesso sordido, deprimente, confuso. Non ci sarebbe stato nulla di strano se il corpo di un Otello vero fosse stato trascinato per le strade da un cavallo per essen seppellito a un crocevia con un palo attraverso il cuore. Persino il pio Sii Thomas More nella sua repubblica ideale afferma che un suicida non ui to rizzato sarebbe stato «gettato insepolto in una qualche palude fetida». Quindi, ciò che distinse l’atteggiamento rinascimentale nei riguardi del suicidio, rispetto a quello medievale, non fu l’improvviso accesso di una reazione illuminata nella vita pratica, bensì una nuova insistenza sull’indi vidualismo, che fece sembrare i problemi morali fondamentali della vita» della morte e della responsabilità più incerti e complessi di prima, e assai più aperti al dubbio. Se non altro, fu un momento di considerevole raffi natezza; il mondo morale si era inclinato sul proprio asse e l’intero clim.i spirituale era mutato. L’esempio migliore e più evidente di questo mutamento è John Donne, il quale, fra le molte altre doti e gli altri titoli di distinzione, scrisse la prima difesa del suicidio in inglese, Biathanatos. Il sottotitolo recita: A Déchira tion of that Paradoxe, or Thesis, That Selfhomicide is not so naturally Sin nr, that it may never be otherwise (Una esposizione di quel paradosso, о tesi, che Г auto-omicidio non è per sua natura un peccato che non possa ni.il essere altro che tale).* Era di moda fra gli accademici spiegare che Donni4 in realtà non intendeva sul serio ciò che diceva. Il libro non era che l ui teriore esempio del suo esibizionismo intellettuale e dottrinario, della мы capacità, come estensore famoso di paradossi e composizioni offensive, di difendere qualsiasi argomento indipendentemente dalla sua evidente ¡пм> stenibilità. Bisogna ammettere che il libro rappresenta una delle sue opctr meno invitanti: intricato, particolareggiato, a volte pedantesco e spcsMll Può essere interessante ricordare che Donne era imparentato, per parte di madre, con Sii Ih· mas More.
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insopportabilmente dotto. In poche parole, è difeso con lo stesso accani mento con cui è ragionato. Inoltre, si attaglia molto male alfimmagine del prete castigato e mesto che Donne doveva finire per diventare/ Ma egli stesso non fece alcun mistero di quanto gli premeva l’argomento. Come spiega nella Prefazione, questo è il motivo per cui ha scritto il libro: Reza, un uomo [...] eminente e illustre, nel pieno fulgore e culmine del sapere [...] in merito a sé confessa che solo per lo spasimo della forfora che gli ricopriva il capo, una volta si sarebbe annegato dal ponte dei Mugnai di Parigi, se lo zio in quel momento non fosse per caso passato di lì; io sono spesso affetto da tale malsana inclinazione. E, se il motivo sia perche all’inizio fui allevato ed ebbi modo di conversare con uomini di una reli gione repressa e disgraziata, abituati a spregiare la morte e bramosi di un sognato martirio; о perché il comune Nemico in me trova una porta mal serrata contro di lui; о perché nella dottrina stessa sussiste una perplessi là e malleabilità; perché la mia coscienza sempre mi assicura che nessun risen timento ribelle verso i doni di Dio, né alcun’altra peccaminosa coincidenza accompagna in me questi pensieri, che un coraggioso sprezzo о debole viltà la partoriscono, ogniqualvota una qualsiasi afflizione mi assale, mi sembla di aver le chiavi della mia prigione in mano mia e nessun rimedio si présenla così presto al mio cuore quanto la mia propria spada. Il meditare su ciò mi
In seguito il libro mise in imbarazzo Donne stesso. Questi nel 1619 ne inviò una ««»pii । *