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Italian Pages 310 [228] Year 2010
James Hillman Il suicidio e l’anima Traduzione di Adriana Bottini
Adelphi eBook
TITOLO ORIGINALE:
Suicide and the Soul Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata Prima edizione digitale 2014 © 1965, 1997 (NEW EDITION) JAMES HILLMAN All rights reserved Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara © 2010 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-7610-0
PREFAZIONE DI THOMAS SZASZ
Per gli altri animali, procreazione e morte sono conseguenze accidentali di processi biologici. Per gli esseri umani, possono essere effetto di una scelta volontaria. Dagli albori della storia, l’uomo ha sempre esercitato un controllo sulla riproduzione, con l’infanticidio, e sulla morte, con il suicidio. Per gli ebrei ortodossi e per i cattolici osservanti l’uso della contraccezione è peccato, mentre per quasi tutte le altre persone è un atto di irresponsabilità il non praticarla. Per la maggior parte della gente, l’aborto continua a rappresentare un dilemma morale. L’infanticidio è condannato come assassinio dal diritto penale. Soltanto il problema del suicidio ha trovato una soluzione che risulta convincente per l’uomo moderno: si è stabilito che esso è un sintomo di malattia mentale, a meno che il «paziente» non sia «assistito» in questo da un medico, nel qual caso è considerato un «trattamento» per porre fine alle sofferenze. Il lettore sarà forse sorpreso nell’apprendere che la trasformazione del suicidio da reato punibile alla stregua di un omicidio in sintomo di una malattia del cervello chiamata infermità mentale (che annulla il dolo dell’atto) fu in realtà completata prima della nascita della specializzazione medica detta «psichiatria». Ecco, in breve, la storia. Nel Quattrocento, il diritto penale inglese integrò le pene ecclesiastiche nei confronti del suicidio con quelle secolari, un esito per il quale il grande giurista inglese del diciottesimo secolo William Blackstone non mancò di esprimere la sua approvazione: In Inghilterra la legge saggiamente e piamente ritiene che nessun uomo abbia facoltà di sopprimere la propria vita, se non per mandato di Dio, che della vita è l’autore; e poiché
il suicida si è reso colpevole di un duplice reato, uno spirituale, nel sottrarsi alla prerogativa dell’Onnipotente arrivando precipitosamente e non invitato al Suo cospetto, l’altro temporale, contro il sovrano, il quale ha interesse alla sopravvivenza di tutti i suoi sudditi, la legge ha classificato il suicidio tra i crimini supremi, facendone una speciale fattispecie di delitto, il delitto compiuto contro la propria persona.1 Poiché il suicidio era considerato un doppio reato, contro Dio e contro il Re, l’uccisore di se stesso riceveva una doppia punizione: gli veniva negata la sepoltura in terra consacrata2 e i suoi beni terreni erano confiscati e incamerati dall’elemosiniere della corona. La ferocia di quelle pene indusse con il tempo le giurie (cui toccava il compito di determinare le cause delle cosiddette morti innaturali) a cercare il modo di mostrare pietà per le vittime, quelle vive e quelle morte. Nel diciottesimo secolo l’Inghilterra era la nazione più tecnologicamente avanzata, più prosperosa e più potente del mondo. Non è un caso se il popolo inglese era quello che godeva di maggiore libertà personale al mondo e che registrava un altissimo numero di suicidi. Alla voce sul suicidio, l’Oxford English Dictionary cita questo esempio: «1741 … In una nazione triste e saturnina come la nostra, dove tra l’altro i suicidi sono più frequenti che in tutto il resto del mondo cristiano…». La novità dell’Inghilterra del diciottesimo secolo non era però l’umore melanconico, bensì la libertà. In Inghilterra, per la prima volta nella storia, il popolo comincia a dare grande valore alle due idee gemelle di libertà personale e di diritto alla proprietà privata. In tale clima culturale sempre più civile, i cittadini inglesi chiamati a fare da giurati per il coroner cominciarono a trovare intollerabilmente perturbante il dovere di comminare le pene prescritte dalla legge per i suicidi. Abolire la legge che condannava i suicidi era tuttavia impensabile: governanti e governati erano contrari alla depenalizzazione del suicidio;
sarebbe stato come per noi legalizzare l’uso delle droghe. Trasformare il colpevole in pazzo3 – ovvero, «infermizzare» il suicidio, trattare le persone che si macchiavano di questo delitto come se fossero matte – rappresentava la soluzione ideale. Consentiva di mantenere in vigore la sanzione religiosa e giuridica contro l’atto, e contemporaneamente forniva un meccanismo compassionevole e all’apparenza scientifico e illuminato per risparmiare alla famiglia del suicida lo stigma e il danno economico che la punizione dell’atto avrebbe comportato. Così sintetizza questa evoluzione, nella sua storia del suicidio in Inghilterra, S.E. Sprott: Nel diciottesimo secolo, le giurie presero sempre più frequentemente a pronunciare verdetti di infermità mentale allo scopo di risparmiare alle famiglie le conseguenze di una sentenza di omicidio; il numero di morti violente classificate come «follia» aumentò esponenzialmente rispetto a quelle registrate come suicidi … Dopo il 1760 la confisca dei beni diventa un’occorrenza rara.4 Deve essere apparso chiaro a chiunque si interessasse al problema che il dichiarare una persona – dopo la morte, nel momento preciso in cui eseguiva l’atto criminoso – non compos mentis era una tattica legale per aggirare la pena prescritta dalla legge per quel reato. Blackstone riconobbe il sotterfugio e mise in guardia contro il suo uso: Ma questa scusa [il dichiarare il reo non compos mentis] non va estesa fino ai limiti a cui tendono a forzarla le nostre giurie del coroner, ossia nel senso che ogni atto suicida sia la prova di una condizione di infermità mentale; come se chiunque commetta atti contro la ragione fosse totalmente privo di ragione; in base alla medesima argomentazione, infatti, si potrebbe dimostrare che anche tutti gli altri criminali, non solo il suicida, sono non compos mentis.5
L’ammonimento cadde nel vuoto. La legislazione definì il giudizio postumo della giuria una valutazione oggettiva di un dato della mente umana. Gli esseri umani non hanno certamente bisogno di incoraggiamento per eludere le responsabilità. Eppure in questo caso, la Legge, la Guida suprema, favoriva appunto una tale elusione. Dichiarando che i suicidi erano non compos mentis, la Legge aveva costruito un dispositivo che consentiva di eludere la responsabilità, celando quella elusione, con il concorso della medicina, dietro parole nobili come terapia e scienza. Di conseguenza, all’inizio del diciannovesimo secolo, la legislazione e l’opinione pubblica degli Stati Uniti erano pronte a dare credito alle più invereconde menzogne, presentate come dati di fatto della medicina, circa il suicidio come manifestazione patologica. Il primo testo sistematico che mette in collegamento legislazione e follia fu pubblicato nel 1838 da Isaac Ray, un medico di trentun anni, di Eastport, nel Maine (all’epoca un villaggio di pescatori con una popolazione di 2840 abitanti). Ray era un medico giovane informato sui testi ma privo della minima esperienza di pazienti psichiatrici, vivi o morti. Ciò nonostante, dichiarava con grande sicurezza: Le analogie sopra esposte tra propensione al suicidio e infermità mentale … sono rafforzate dalle modificazioni patologiche osservate dopo la morte. Nella maggior parte dei casi in cui è stato effettuato l’esame, si è rilevato che l’encefalo o i visceri addominali hanno subito lesioni organiche più o meno estese … Anche nei casi in cui l’atto fatale non era stato preceduto da indizi di malattia … l’autopsia ha frequentemente rivelato la presenza di gravi patologie, con ogni probabilità in corso da qualche tempo prima della morte.6 E concludeva: «Al momento attuale, il fenomeno del suicidio non riveste altra importanza se non quella derivante dal suo legame con le turbe mentali che si può supporre lo
abbiano provocato».7 I primi psichiatri videro nel suicidio uno dei campi più adatti per fare sfoggio della loro competenza. Ne sono un esempio queste affermazioni di Esquirol: Ho molto spesso riscontrato che il suicidio è preceduto dalla pratica della masturbazione. Lo stesso vale per l’abuso di bevande alcoliche … Gli individui in tal modo debilitati sprofondano nella lipemia [melanconia], e per nessun altro scopo che quello di togliersi la vita … Le considerazioni da me svolte fin qui, insieme ai fatti che ho riferito, dimostrano che il suicidio presenta tutte le caratteristiche dell’alienazione mentale, di cui è in realtà un sintomo … Essendo il suicidio un atto conseguente alla … follia … il suo trattamento rientra nella terapeutica delle malattie mentali … Ho dimostrato che l’uomo tenta di togliersi la vita soltanto quando è in preda al delirio e che i suicidi sono pertanto dei pazzi.8 Queste falsità sono state ripetute così spesso negli ultimi centocinquanta anni e sono state oggetto di rielaborazioni così numerose che oggi occorre una notevole indipendenza di giudizio per riuscire a considerare il suicidio senza vederlo attraverso lenti in qualche misura colorate dalla psichiatria. Il modo di pensare ufficiale ci impone di considerare lo psichiatra un esperto di suicidio. L’opinione pubblica e gli standard della pratica psichiatrica affermano perentoriamente come sia dovere dello psichiatra impedire ai suoi pazienti di uccidere se stessi; di conseguenza i suoi colleghi, in veste di periti oltre che di giudici, lo considerano responsabile di quelle «morti indebite». E non basta. L’opinione pubblica, gli standard professionali della pratica psichiatrica e la legge pretendono che accettiamo lo psichiatra anche come esperto dello stato mentale dei pazienti «terminali» e che affidiamo a lui il compito di distinguere tra coloro che soffrono di «depressione clinica», e dunque non hanno «diritto» al suicidio assistito, e coloro
che sono esenti da patologie psicologiche, e dunque godono di quel «diritto». Questi sono esiti inquietanti, i cui pericoli sono efficacemente oscurati dalla retorica corrente sulla salute mentale e i diritti umani. Non c’è da spiegare alcun mistero, riguardo al suicidio. Il suicidio è semplicemente un metodo mediante il quale possiamo trasformare il morire da una casualità a una scelta. Come ogni atto che compiamo nella vita, l’atto che vi pone fine non riguarda affatto la medicina, mentre riguarda, moltissimo, «l’anima». Benché sia stato scritto molti anni orsono, questo denso libro di James Hillman non potrebbe essere più attuale. Anziché spiegare il suicidio (liquidandolo), Hillman aiuta il lettore a comprenderlo un po’ meglio. 1. W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England: Of Public Wrongs [1752-1765], 4 voll., Beacon Press, Boston, 1962, pp. 211-12. 2. Il cadavere doveva essere seppellito ai crocevia, spesso conficcandovi sopra un palo che gli trafiggeva il cuore. 3. Il metodo era già stato indicato da Shakespeare. Amleto: «… renderebbe pazzo il colpevole / e atterrirebbe l’innocente, sbalordirebbe l’ignaro / e invero stupirebbe la qualità stessa / degli occhi e delle orecchie». Amleto, II, 2, vv. 561-563. [trad. it. di Agostino Lombardo]. (Il corsivo è mio). 4. S.E. Sprott, The English Debate on Suicide: From Donne to Hume, Open Court Press, La Salle, Ill., 1961, p. 112 (il corsivo è mio). 5. Blackstone, op. cit., p. 212. 6. I. Ray, A Treatise on the Medical Jurisprudence of Insanity [1838], a cura di Winfred Overholser, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1962, pp. 273-74. 7. Ibid., p. 274. 8. Jean-Étienne Dominique Esquirol, Des Maladies mentales [1838], trad. ingl., Mental Maladies: A Treatise on Insanity, facsimile dell’edizione del 1845, Hafner, New York, 1965, pp. 281-312.
NOTA INTRODUTTIVA (1964)
Addentrarsi in temi come la morte e il suicidio significa infrangere dei tabù. Per affrontare problemi che si sono cristallizzati nel tempo occorre vigore e, quanto più sono tenaci le difese, tanto più si è portati a proporre con forza la propria tesi. Perciò questo libretto appare polemico. Mette in discussione la prevenzione del suicidio; va a indagare l’esperienza della morte; accosta la questione del suicidio non dal punto di vista della vita, della società e della «salute mentale», bensì in relazione alla morte e all’anima. Considera il suicidio non soltanto come una via di uscita dalla vita, ma anche come una via di ingresso nella morte. Un simile capovolgimento di prospettiva scardina gli atteggiamenti ufficiali, soprattutto quelli della medicina. Di conseguenza, il nostro libro sfiderà la medicina e difenderà la cosiddetta «analisi laica» da una rinnovata angolazione psicologica. Questo approccio totalmente altro scaturisce dall’indagine del suicidio per come è esperito attraverso la visione che l’anima ha della morte. Qualunque cosa si dica sull’anima umana, ammesso che abbia un senso, sarà insieme giusta e sbagliata. I materiali psicologici sono così complessi, che qualunque formulazione è inadeguata. È impossibile guardare la psiche dal di fuori, oggettivamente, così come è impossibile uscire da noi stessi. Se qualcosa siamo, siamo psiche. E poiché l’inconscio relativizza qualsiasi formulazione della coscienza integrandola con una posizione opposta e ugualmente valida, nessuna affermazione della psicologia può avere certezza. La verità rimane incerta, giacché la morte, che è l’unica certezza, non rivela la sua verità. In nessun altro campo come nella psicologia, l’umana fragilità pone limiti definitivi all’operare. La scelta diventa dunque o smettere di parlare,
secondo saggezza, oppure dire comunque quello che si ha da dire, nella consapevolezza che è follia. Questo libro nasce dall’avere seguito la seconda strada. Benché il libro sia opera mia, ho un debito di gratitudine verso le molte persone che ne hanno letto le varie stesure, offrendo il loro contributo di idee e di incoraggiamento. Li ritroveranno incorporati impercettibilmente nel testo, i cui limiti sarebbero ancora più angusti non fosse stato per la loro generosità. Tra gli altri desidero ringraziare in particolare Elisabeth Peppler, Carlos Drake, Adolf Guggembühl, A.K. Donoghue, Marvin Spiegelman, John Mattern, David Cox e Robin Denniston. Un grazie speciale va a Eleanor Mattern, che ha battuto a macchina più volte l’intero lavoro e ha collaborato all’ultima stesura, parola per parola, con instancabile dedizione. Una parte del testo è stata letta agli operatori del Suicide Prevention Center di Los Angeles, che hanno fornito utili suggerimenti. Il debito più grande, per chi svolge la nostra professione, è sempre nei confronti delle persone con le quali lavoriamo: è dalle esperienze vissute con loro che nascono in seguito le nostre formulazioni. Sono profondamente grato a tutte queste persone, i cui nomi non possono essere citati. Un’altra fonte importante è stata mia moglie: parlandone con lei, ho trovato una traccia su come addentrarmi in questo argomento e ho cominciato ad avere fiducia nel modo in cui mi veniva di esprimerlo.
NOTA INTRODUTTIVA (1976)
Le riedizioni offrono l’occasione per fare delle aggiunte a margine. Qualcosa occorre aggiungere, per esempio, riguardo agli aspetti ombra del suicidio: aggressività, vendetta, ricatto, sadomasochismo, odio per il corpo. I comportamenti suicidari ci forniscono indizi sul nostro «assassino interiore»: chi è questa ombra, che cosa vuole. Poiché rendono manifesto come essa usi il corpo per realizzare fini concreti (vendetta, odio, eccetera), tali comportamenti sollevano profondi interrogativi sul nesso esistente fra i tentativi di suicidio e il tentativo di letteralizzare la realtà mediante il corpo. Altro ci sarebbe dunque da dire sul letteralismo del suicidio: il pericolo, infatti, non risiede nelle fantasie di morte, bensì nel loro letteralismo. Si potrebbero invertire i termini dicendo: il letteralismo è un comportamento suicidario. Benché tutto il libro sia permeato dal sentimento della morte come metafora e il suicidio sia visto come un tentativo di muovere verso la morte metaforica, altro ci sarebbe da aggiungere sullo sfondo archetipico di tale prospettiva verso la morte. Questo è appunto il tema sul quale dal 1964 non ho mai smesso di lavorare; invito il lettore che voglia approfondire le questioni affrontate in questo libro a riferirsi ai molti miei scritti sull’archetipo del Senex, sulla patologizzazione, sul letteralismo e il linguaggio metaforico in Re-visione della psicologia, nonché alle relazioni su Il sogno e il mondo infero e La necessità della psicologia anormale presentate nel 1973 e nel 1974 ai convegni di Eranos. Il suicidio e l’anima anticipava quelle mie successive riflessioni sul lato oscuro dell’essere umano. Rinnovo qui l’espressione della mia gratitudine nei
confronti di tutti coloro che a vario titolo hanno contribuito alla nascita e alla pubblicazione di questo libro: le persone, innominate, con le quali ho lavorato nella mia pratica professionale e quelle citate nella prima edizione: Eleanor Mattern, Adolf Guggembühl, Carlos Drake, Robin Denniston, A.K. Donoghue, Elisabeth Peppler, David Cox, Marvin Spiegelman, John Mattern e Catharina Hillman.
IL SUICIDIO E L’ANIMA
A Esther Straus
PARTE PRIMA
IL SUICIDIO E L’ANALISI
Le cose che sono naturali per la specie, non sempre lo sono per l’individuo. JOHN DONNE, Biathanatos, 1644 Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto … viene dopo. Questi sono giochi: prima bisogna rispondere. ALBERT CAMUS, Il mito di Sisifo, 1942 Lo stabilire l’ordine e il dissolvere ciò che è stabilito sono, malgrado l’apparenza esterna contraria, sottratti in definitiva all’arbitrio umano. Il segreto è che ha realmente vita soltanto ciò che può anche sopprimersi da sé. C.G. JUNG, Psicologia e alchimia, 1944 … non faremmo meglio a … riconoscere che col modo nostro, di uomini civili, di trattare la morte abbiamo vissuto al di là delle nostre possibilità psicologiche e che perciò ci conviene abbandonarlo e piegarci alla verità? Non sarebbe preferibile restituire alla morte, nella realtà e nel nostro pensiero, il posto che le compete, dando un rilievo un po’ maggiore a quel nostro atteggiamento inconscio di fronte alla morte che ci siamo fino ad ora sforzati di reprimere con cura? … Si vis vitam para mortem. Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte. SIGMUND FREUD, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, 1915
Oh costruisci la tua nave della morte, costruiscila in tempo e costruiscila con amore, e ponila tra le mani dell’anima tua. D.H. LAWRENCE, La nave della morte, ms.‘B’
1 Il problema
Sempre, l’esame accurato della vita comporta riflessioni sulla morte; sempre, il confrontarsi con la realtà significa guardare in faccia la mortalità. Non veniamo mai alle prese fino in fondo con la vita finché non siamo disposti a cimentarci con la morte. Non c’è bisogno di postulare l’esistenza di una pulsione di morte, né di filosofare sulla morte e sul suo posto nello schema delle cose, per arrivare a una semplice conclusione: ogni coinvolgimento profondo e articolato, con noi stessi o con un altro, contiene in sé il problema della morte. E nel suicidio questo problema si pone nella maniera più nitida. In nessun altro luogo la morte è così vicina. Se ci sta a cuore progredire verso la conoscenza di sé e verso l’esperienza della realtà, allora l’indagine del suicidio diventa il primo passo. Proprio perché è una tale minuziosa presa in esame della vita, l’analisi è impegnata in questioni che riguardano la morte. L’analisi offre quella intensa situazione umana che è necessaria per mettere a fuoco questioni essenziali, diventando con ciò un paradigma della vita. Nel chiuso di una stanza, tra due persone, nella segretezza e nel vuoto, ogni cosa è messa a nudo. È il posto giusto per gli argomenti sinistri, perché l’analisi è più un’attività della mano sinistra che della destra. Si occupa di tabù e si situa a sua volta all’interno di un tabù suo proprio. Il fine dell’adattamento all’ordine sociale attiene alla mano destra, alla consulenza psicologica rivolta alla coscienza. Ma l’analisi include anche la mano sinistra. Porta alla luce l’uomo inferiore, là dove l’uomo è maldestro e minaccioso e dove il suicidio è una faccenda reale. L’analisi dà alla mano sinistra una possibilità di vivere consciamente la propria vita senza che la destra sappia quello che fa e si erga a giudice. La mano destra non
potrà mai conoscere la mano sinistra, soltanto interpretare e trasporre. Pertanto, affrontando la questione del suicidio attraverso l’analisi, abbiamo una possibilità che non ci è data dalla statistica, dagli studi clinici e dalle ricerche sperimentali, tutte metodologie inventate dalla mano destra. Poiché l’analisi è la vita in un microcosmo, specialmente il lato oscuro della vita, le cose che vi si scoprono sono ampiamente applicabili ad altri intimi coinvolgimenti personali dove la ragione non basta. Quelle scoperte possono essere trasferite al problema del suicidio quale può presentarsi in altre situazioni della vita. Ed è nella vita che il suicidio si presenta. Contrariamente a quello che comunemente si pensa, il suicidio è più frequente tra le pareti domestiche che nei manicomi. Accade ai personaggi famosi di cui leggiamo sui giornali, o nella via dove abitiamo, a qualcuno che conosciamo, o in famiglia… oppure dentro di noi. Come qualsiasi colpo della sorte – l’amore, la tragedia, il trionfo –, il suicidio è di competenza dello psichiatra soltanto quando è distorto, soltanto quando rientra in una sindrome psicotica. In se stesso, il suicidio non è né sindrome né sintomo. Perciò la nostra indagine apparirà forse poco specialistica; si occuperà del suicidio nella situazione umana dell’analisi, ovvero come può presentarsi e si presenta nel normale corso di qualsiasi esistenza. Il suicidio è il problema della vita più inquietante. Come possiamo esservi preparati? Come possiamo comprenderlo? Perché lo si commette? Perché non lo si commette? Sembra un gesto irrevocabilmente distruttivo, che si lascia dietro sensi di colpa e di vergogna, sbalordimento e disperazione. Anche nell’analisi. Per l’analista, il suicidio è un problema più complicato perfino della psicosi, della tentazione sessuale o della violenza fisica, perché rappresenta l’epitome della responsabilità che egli si assume. Non solo, è fondamentalmente insolubile, perché non è un problema che riguarda la vita, ma la vita e la morte insieme, con tutti gli imponderabili che la morte comporta. Inoltre, il prendere in
considerazione il suicidio porta a considerare le cose ultime. Scoprendo la propria posizione nei confronti di questo problema, l’analista si formerà anche il proprio atteggiamento nei confronti delle cose ultime, o prime, riplasmando così il vaso alchemico della propria vocazione. Le opinioni che l’analista ha sulla religione, sull’educazione, sulla politica, o anche sulle vacanze, sul bere, sul fumo o sull’alimentazione, non dovrebbero interferire nel lavoro analitico. Durante il suo percorso di formazione, egli prende in esame le proprie credenze, le proprie abitudini e le proprie convinzioni morali, in modo che poi non costituiscano un ostacolo per l’altro che avrà di fronte. Poiché un punto di vista puramente personale non è adeguato per affrontare i problemi della seduta, la formazione dell’analista mira ad accrescere la sua oggettività. Quando il problema della seduta è il suicidio, è ancora più importante che l’analista si sia formato un punto di vista conscio che trascenda le sue inclinazioni soggettive. Ma in che modo l’analista sviluppa un atteggiamento di oggettività riguardo al suicidio? Oggettività significa apertura; e nei confronti del suicidio non è facile arrivare a una posizione di apertura. Il diritto ha giudicato il suicidio un reato, la religione lo chiama peccato e la società lo rifiuta. La tendenza è di mettere a tacere il fatto o di giustificarlo con la follia, quasi che il suicidio fosse l’aberrazione antisociale per eccellenza. Qui l’oggettività ti pone immediatamente fuori dal collettivo. Ma apertura nei confronti del suicidio significa qualcosa di più che assumere una posizione individuale in contrasto con l’opinione morale comune. L’indagine oggettiva in questo campo in un certo senso è un tradimento dell’istinto stesso della vita. Il problema sollevato in tale indagine conduce necessariamente oltre la portata della vita. Ma poiché soltanto la morte è al di là della portata della vita, apertura nei confronti del suicidio significa innanzitutto un muovere verso la morte, apertamente e senza angoscia. È una questione pratica. Arriva una nuova paziente e tu
noti dei segni sui polsi. Nei colloqui iniziali viene fuori che qualche anno prima ci furono due tentati suicidi, tenuti nascosti e quasi riusciti. Quella persona vuole fare l’analisi solo con te, perché le sei stato consigliato da un amico e lei non riesce a fidarsi di nessun altro. Accettandola in analisi, accetti il rischio che alla prossima crisi possa tentare di nuovo il suicidio, e tuttavia il tuo lavoro consiste appunto nel mantenere in atto una tensione analitica che non cerchi di sottrarsi alle crisi. Un altro paziente è malato di cancro e in preda a dolori sempre più intensi. Per motivi famigliari ed economici, ritiene preferibile morire ora, piuttosto che continuare a soffrire (e a far soffrire la sua famiglia) fino alle fasi terminali del tempo assegnatogli dalla medicina. E non vuole morire stordito dai sedativi e defraudato dell’esperienza del morire. I suoi sentimenti, i suoi sogni e le sue convinzioni religiose gli dicono con certezza che esiste un tempo per morire e che il suo è arrivato. Ha elaborato un suo punto di vista filosofico e non vuole esaurire le forze a discutere. Quello che cerca è la tua comprensione e la tua guida durante quel passo finale. Un giovane scampa la morte per un pelo in un incidente automobilistico. Ha sognato che, benché il problema del suicidio permei tutta la sua vita, al momento non lo deve affrontare, perché non è ancora abbastanza forte per gestirlo. È turbato perché non riesce a sentire l’impatto di quel sogno e tuttavia sa oscuramente di essere in pericolo. Vuole lavorarci sopra con te. Se dai retta al sogno ed eviti di affrontare il problema con lui, potrebbe capitargli un nuovo incidente, un surrogato del suicidio. Se dai valore al suo turbamento e affronti con lui il problema del suicidio, può darsi che egli non sia in grado di reggerlo, e il sogno potrebbe «avverarsi». Una quarta persona riceve misteriosi messaggi dal padre idolatrato, il quale, seguendo una singolare tradizione famigliare, si era suicidato. Il paziente ha l’impressione che ci sia un motivo cogente per seguire il richiamo ancestrale;
la morte acquista una fascinazione sempre più forte. Inoltre, i suoi sogni mostrano figure storpiate o morenti, indicanti un contenuto psichico che, entrando nella coscienza, potrebbe paralizzare la spinta alla vita, adempiendo la nemesi. L’analista «laico» (come si definisce di solito l’analista che non è medico, e dunque è, per la medicina, un profano) si trova completamente solo di fronte a queste decisioni: egli non ha una posizione precostituita né un’organizzazione sociale che lo aiutino ad affrontare quei pericoli. L’analista ha con l’altra persona una relazione assolutamente unica, una relazione che comporta nei confronti del destino dell’altro una responsabilità più intima, in questo momento, di quella che un marito ha nei confronti della moglie, un figlio nei confronti di un genitore, un fratello nei confronti dei fratelli, e questo principalmente perché è partecipe in una maniera del tutto particolare della mente e del cuore dell’altro. Non solo conosce cose che altri non sanno, ma la situazione analitica stessa lo pone in un certo senso nel ruolo di arbitro del destino. Questa relazione specialissima, con tutte le sue complesse aspettative circa il destino comune di entrambi, è stata chiamata traslazione. Attraverso di essa, l’analista è coinvolto nella vita dell’analizzando come non lo è nessun’altra persona. La traslazione è un’alleanza che lega i due nella buona e nella cattiva sorte e, sovente, contro tutti gli altri. Questa alleanza privata è fondamentale per l’analisi. È simile al rapporto tra avvocato e cliente, tra medico e paziente, tra confessore e penitente. In altre professioni, tuttavia, questo vincolo di fiducia è accessorio, è importante, ma, come vedremo più avanti, può e deve essere sciolto in quelle situazioni di forza maggiore in cui esso si trovi a confliggere con i princìpi fondamentali della professione. Ma la traslazione è la radice dell’analisi; non può mai essere revocata in favore di altri princìpi senza che venga infranto il vaso terapeutico. È il simbolo vivente del processo terapeutico ed esprime l’eros potente e sempre mutevole dell’analisi. Poiché è così complessa, così emotiva e così misteriosa, la
traslazione ha resistito a ogni tentativo di spiegazione. Il termine stesso è usato dagli analisti con accezioni differenti. Forse la si può comprendere meglio rifacendosi al modello della segretezza, del silenzio, dell’essere «contro tutti», che opera in altre imponderabili attività dell’anima: la creazione artistica, i misteri religiosi, l’amore passionale. Coloro che sono parte della specialissima relazione analitica partecipano insieme a un comune mistero, come gli amanti, gli esploratori, gli iniziati, che sono stati toccati insieme dalla medesima esperienza. Coloro che condividono questa via sinistra sono dei complici; il suicidio dell’uno comporta né più né meno la complicità dell’altro. Per lo psichiatra la situazione è diversa. Lo psichiatra ha avuto una formazione medica, e nel corso del libro avremo modo di soffermarci sugli effetti di questa formazione. Qui, ci limiteremo a dire che lo psichiatra ha una posizione precostituita dalla quale affrontare il rischio di suicidio. Non si trova solo come lo è l’analista, perché non è aperto allo stesso modo. La sua concezione della traslazione si fonda su altri princìpi, che lo portano a partecipare al processo terapeutico in altro modo. Soprattutto, sa in partenza quale è il suo compito riguardo al suicidio: salvare la vita. Possiede strumenti per farlo immediatamente, per esempio, applicando metodi fisici di trattamento (shock, iniezioni, pillole). Possiede l’autorità, diversa da paese a paese, per ricoverare il paziente in manicomio, almeno temporaneamente, per prevenire il suicidio. Come per il soldato, il poliziotto o il giudice, per il medico la morte è qualcosa che accade nell’espletamento del suo dovere. Non ne è considerato responsabile, se non pro forma e in casi anomali. In caso di errore, ha dalla sua l’opinione dei colleghi. Agli occhi del mondo non è un «profano». L’appoggio dei colleghi e il fatto di essere considerato lo specialista più accreditato nel giudicare di queste situazioni infondono sicurezza alle sue decisioni e conforto alla sua coscienza. Inoltre, in medicina l’errore fa parte del mestiere. Si
danno errori in chirurgia, in ostetricia, in anestesia, si danno errori nella diagnosi e nella cura. Nessuno pretende la perfezione dalla medicina. Nella lotta contro la morte, ci si aspetta che il medico combatta fino all’ultimo, ma non che vinca ogni volta. Il medico in una certa misura deve abituarsi alla morte dei suoi pazienti, dal momento che la morte fisica è la sua compagna quotidiana fin dall’inizio dei suoi studi di dissezione anatomica. Lo psichiatra ha minori occasioni dell’internista o del chirurgo di compiere errori tragici. Ha minori occasioni di perdere un paziente a causa della morte: tranne che con il suicidio. Poiché la morte è l’«errore» più evidente per il professionista di formazione medica, lo psichiatra tenderà a considerare il suicidio come il chirurgo considera un intervento malriuscito. L’analista giudica gli errori da un’altra angolatura. La sua prima preoccupazione è la salute dell’anima e pertanto i suoi criteri di giudizio riguardano la vita psichica, non la vita fisica. Vedremo nel corso del libro come la salute psichica non si riveli necessariamente nel comportamento fisico esteriore; di conseguenza, gli errori dell’analista sono più difficili da scoprire e da valutare. Cicatrici e mutilazioni non sono visibili allo stesso modo. Le aspettative del lavoro analitico sono inoltre più complesse di quelle della medicina e i confini del successo e del fallimento sono meno netti. Inoltre, poiché il lavoro analitico è una relazione, una relazione che richiede l’adesione profonda della personalità dell’analista, l’analista è sempre coinvolto in ogni evento. Questo coinvolgimento va al di là della responsabilità del medico per il suo paziente; quella dell’analista è piuttosto una partecipazione all’altro come se si trattasse di lui stesso. Perciò la morte del suo paziente è sempre per l’analista la sua stessa morte, il suo stesso suicidio, il suo stesso fallimento. Trovandosi di continuo di fronte a persone con tendenze suicide, l’analista è costretto a pensare la propria morte e a chiedersi dove ha mancato, perché chi viene in terapia consegna all’analista i propri problemi. È un
atteggiamento diverso da quello del medico, il quale non considera le malattie e le sofferenze che gli arrivano in ambulatorio come qualcosa che in qualche modo appartiene anche a lui. Nello stesso tempo, l’unicità della relazione che coinvolge l’analista con il paziente impedisce la partecipazione di altri al caso, sicché ciascuna morte è un carico che l’analista si porta da solo. La sua formazione non lo ha preparato in misura sufficiente a questo. L’analista si trova di fronte alla morte senza avere avuto l’accesso privilegiato alla morte e al morire che ha avuto il medico durante la sua formazione. Vi è arrivato seguendo un percorso psicologico, cioè vivendo l’esperienza della morte nella sua psiche. La sua analisi didattica è stata una iniziazione alla morte psichica. Ma l’iniziazione è, appunto, soltanto un inizio. L’analista rimane un profano se, in questa zona cruciale del suo lavoro, non si confronta con la morte psichica con la stessa frequenza e costanza con le quali il medico incontra la morte fisica. Costruendosi la propria posizione riguardo al suicidio, l’analista compie un passo verso tale confronto. Questo lavoro di elaborazione lo porterà più vicino all’esperienza della morte, perfezionando la sua oggettività e conferendogli una competenza ad affrontarla psicologicamente paragonabile alla competenza del medico riguardo alla morte fisica. Nel caso in cui lo psichiatra fosse anche un analista, si avrebbe, all’apparenza, la soluzione ideale: l’analisi medica. Da un lato, egli potrebbe lavorare in modo psicologico, costituendo quella speciale relazione con il paziente; dall’altro, avrebbe a disposizione l’armamentario della medicina a cui attingere quando si profilasse il rischio di suicidio. (Gli analisti medici e gli analisti laici tendono a seguire entrambi un approccio psicologico, finché non si presenta il suicidio: allora entrambi tendono a passare alla modalità medicalista). Non avrebbe senso andare avanti con questa disamina, se non fosse per il seguente interrogativo di fondo: non sarà che l’analisi medica, lungi dall’essere una
soluzione ideale, risulti di fatto più problematica della medicina o dell’analisi prese singolarmente? È difficile combinare insieme i punti di vista della medicina e dell’analisi. È possibile praticare l’analisi e tuttavia mantenere il punto di vista della medicina scientifica moderna? E reciprocamente, è possibile accettare coerentemente il punto di vista della psicologia del profondo, che afferma il valore dell’anima, e praticare la medicina ortodossa? Come vedremo più avanti, anima e corpo possono presentare esigenze tra loro in conflitto. Si danno momenti in cui le pretese della vita impongono di liberarsi dei valori dell’anima. Se ci si schiera dalla parte della vita, come è dovere del medico, le considerazioni psicologiche devono passare in secondo piano. Troviamo esempi di questa scelta in qualunque istituzione psichiatrica, dove, per proteggere la vita e prevenire il suicidio, si fa ricorso a ogni sorta di violenze psicologiche per «normalizzare» l’anima sofferente. Anzi, ogni precauzione, ogni prescrizione, ogni trattamento della medicina moderna possiede una componente antipsicologica, si presenti essa sotto forma di tranquillanti, dove la cosa è evidente, o semplicemente come fasciature e ingessature, che sembrano questioni solamente tecniche. Il trattamento del corpo non influisce sul corpo soltanto; viene fatto qualcosa anche alla psiche, qualcosa che in certi casi potrebbe essere positivo, ma che diventa sicuramente negativo qualora se ne ignorino o se ne neghino i possibili effetti sull’anima. Ogniqualvolta il trattamento trascura direttamente l’esperienza in quanto tale e ha fretta di ridurla o di superarla, viene fatto qualcosa contro l’anima. Perché l’esperienza è il solo e unico nutrimento dell’anima. Se ci si schiera dalla parte della vita psichica, come è dovere dell’analista, può darsi che per soddisfare le rivendicazioni dell’anima, le sue ansie di redenzione, si debba frenare la vita fisica, lasciarla indebolita. Tutto questo sembra andare contro ogni buon senso, ogni pratica medica, ogni principio razionale di mens sana in corpore sano. Eppure, quell’esperimento che è la vita produce di continuo
esempi in cui il corpo viene per secondo, e ogni nevrosi rende palese tale priorità della psiche rispetto al soma. Questa tensione tra corpo e anima si concretizza nel modo più trasparente nel problema del suicidio. Qui, il corpo può essere distrutto da una «mera fantasia». Nessun altro problema ci costringe altrettanto drammaticamente a guardare in faccia la realtà della psiche come una realtà alla pari con quella del corpo. E poiché l’asse su cui ruota l’analisi è, sempre, la realtà psichica, il suicidio diventa l’esperienza paradigmatica di ogni analisi, forse di ogni esistenza.
2 La prevenzione del suicidio: i punti di vista della sociologia, del diritto, della teologia e della medicina
Uno studio sul suicidio dovrebbe a rigore prendere le mosse da quei campi disciplinari che più direttamente si occupano di questo fenomeno e da cui sarebbe lecito aspettare un aiuto per formarsi il proprio punto di vista. Conviene però scansare le annose discussioni pro e contro il suicidio, con le relative giustificazioni: per interessanti che possano essere, non ci conducono su un terreno nuovo. Un’indagine svolta dalla prospettiva analitica si differenzia da altri tipi di ricerca in quanto non si propone né di condannare né di condonare il suicidio, anzi neppure di esprimere un giudizio, ma semplicemente di comprenderlo come un evento della realtà psichica. Essa deve domandarsi: come guardano gli altri campi a questa realtà? Di più: perché essi la guardano in questo o in quel modo? Per trovare un aiuto nella formazione di un proprio atteggiamento occorre indagare che cosa ha conformato gli atteggiamenti altrui. Dunque la nostra indagine deve partire dalle radici stesse delle tesi sul suicidio prevalenti nei campi in cui tale tema è più trattato, vale a dire dagli atteggiamenti psicologici che scaturiscono dai modelli fondamentali di pensiero propri di quei campi. Tutti noi, indipendentemente dalla nostra professione, muoviamo da determinate metafore radicali. Tali metafore o modelli di pensiero stanno dietro al nostro modo di vedere i problemi che incontriamo nella pratica professionale e lo governano. E non sono tanto concezioni organiche consapevoli, frutto di accurata elaborazione, quanto atteggiamenti semiconsci radicati nella struttura stessa della psiche. Lo studio delle metafore radicali rientra nella storia delle idee. Grazie alle indagini di Jung sulla natura
archetipica di tali modalità fondamentali di vedere il mondo, la storia delle idee sta diventando più empirica e psicologica, e più rilevante per la vita concreta, perché quei medesimi modelli di pensiero operano attraverso l’inconscio anche negli atteggiamenti di ciascuno di noi. Le metafore radicali non sono qualcosa che possiamo adottare e dismettere a piacimento. Sono tradizionali, vengono trasmesse con la professione stessa, sicché quando intraprendiamo un compito professionale entriamo in un ruolo archetipico. Dove la tradizione è viva, il suo sfondo archetipico trascina coloro che ne fanno parte ed è per molti versi più potente dell’individuo, contribuendo all’efficacia dei suoi interventi professionali. Prendiamo, per esempio, il sociologo. La metafora radicale che governa i suoi atteggiamenti e a cui va la sua lealtà è la Società. Essa è per lui una realtà vivente, che gli fornisce un modo di comprendere se stesso e gli offre uno schema concettuale dal quale dedurre ipotesi e un campo di dati di fatto su cui verificare e applicare quelle ipotesi. I dati nuovi saranno innanzitutto messi in relazione con questo modello e, quanto meglio vi potranno essere sussunti, tanto maggiore sarà l’efficacia del sociologo. Émile Durkheim, che può essere considerato il fondatore della sociologia moderna, scrisse un’opera importante sul suicidio, la quale, oltre a essere il primo studio completo del fenomeno dal punto di vista sociologico, ne rimane l’esposizione più chiara. Sulla base delle statistiche, anche quelle rudimentali dell’Ottocento, è possibile attendersi, per ogni anno dato, un dato numero di suicidi e inoltre predire quanti saranno per tipo, per età e per sesso. Il sociologo sa che l’anno prossimo negli Stati Uniti ci saranno almeno diciottomila suicidi, dei quali una certa percentuale avrà luogo nelle grandi città, una certa percentuale riguarderà le giovani madri, una certa percentuale avverrà per annegamento, e così via. Queste cifre hanno una tale attendibilità generale, che il
suicidio è oggi un fenomeno sociologico ufficiale, un dato di fatto validato da agenzie indipendenti, anno per anno, gruppo per gruppo, regione per regione. È uno degli eventi sociali fondamentali e di conseguenza (per la sociologia) non può essere spiegato studiando gli individui che, questo anno o il prossimo, si troveranno a rientrare nella quota prevista. Il suicidio è una tendenza collettiva del corpo sociale dotata di una propria esistenza e che si manifesta esigendo annualmente un certo tributo di vite. Per il fatto di soddisfare a certe condizioni, un individuo diventa un probabile suicida e successivamente un suicida. Tali condizioni sono state analizzate minuziosamente da Durkheim e dai sociologi venuti dopo di lui. Chiunque può diventare un potenziale suicida non appena si trovi in quelle particolari condizioni, le quali costituiscono una variabile stabile all’interno di ciascuna società. Scrive Durkheim: «Le cause di morte più che interne sono esterne a noi e diventano operanti soltanto se ci avventuriamo nella loro sfera di attività» (Durkheim, p. 43). Poiché l’individuo è intrappolato nella tendenza suicidaria di un gruppo dalla quale deriva l’esito suicida, il gesto in sé non può essere né morale né immorale. Non vi è coinvolta una scelta personale. Il suicidio è semmai un problema sociologico e ci dice qualcosa sullo stato di una società, uno stato che in questo caso per la sociologia è sempre negativo. Il suicidio rende evidente un allentarsi della struttura sociale, un indebolirsi dei legami di gruppo, una disgregazione. Rappresenta pertanto un attacco alla metafora radicale stessa della sociologia. In quanto è un nemico dichiarato della società, esso va contrastato e prevenuto. La sociologia si dedica con fervore alla prevenzione del problema; Durkheim stesso propose molte incisive misure al riguardo. Lo scopo principale è quello di riportare l’individuo in seno al gruppo dal quale si è estraniato per circostanze come il divorzio o la vedovanza, il successo o il fallimento, e così via, giacché per la sociologia è il movimento verso
l’isolamento individuale che favorisce la tendenza suicidaria. Per la sociologia prevenzione del suicidio significa rafforzamento del gruppo, il che ovviamente è un rafforzamento della sua metafora radicale. Adesso ci appare più chiaro come mai i sociologi si sentano tanto turbati dal suicidio. E diventa inoltre evidente che non è il suicidio la tendenza da prevenire, bensì la influenza disgregatrice dell’individualità. Se la prevenzione del suicidio si fonde con la prevenzione dell’individualità, non è certo alla sociologia che l’analista può rivolgersi per formarsi il proprio punto di vista. L’analista legge il movimento verso l’isolamento, l’individualità e l’allentamento dei legami con il collettivo in tutt’altra luce. Passando al punto di vista del diritto, scopriamo che il suicidio è dichiarato reato da tre delle grandi tradizioni sulle quali si fonda la giustizia occidentale: il diritto romano, il diritto ecclesiastico e il diritto anglosassone. Nei suoi Commentaries on the Laws of England, pubblicati in 4 volumi tra il 1765 e il 1769, W. Blackstone afferma che, poiché il suicidio si pone contro Dio e contro il Re, «la legge lo ha classificato tra i crimini supremi». Ancora una volta, il fine principale è la prevenzione. Blackstone propone un modo per contrastare il suicidio femminile che contemporaneamente avrebbe potuto giovare agli studi di anatomia: sarebbe una «norma saggia», scrive, se il coroner disponesse affinché il cadavere della suicida «fosse fatto a pezzi dal bisturi del chirurgo ed esposto alla pubblica vista». Di un’analoga vena immaginativa era dotato John Wesley, il fondatore del metodismo. Nel 1790, egli propose che i corpi delle suicide fossero trascinati nudi per le strade. Nell’antichità, la dissacrazione del cadavere era un metodo spesso usato per sottolineare pubblicamente la efferatezza di un crimine. Fino al 1870, nel diritto inglese, la deterrenza contro il suicidio consisteva nel rivalersi, piuttosto che sul corpo fisico, sulla proprietà fisica del
defunto. I beni immobili di coloro che, nel pieno possesso delle loro facoltà mentali, commettevano suicidio passavano automaticamente alla corona. Ancora nel 1961, il diritto inglese prevedeva la penalizzazione del patrimonio del defunto; in caso di suicidio del titolare, l’assicurazione sulla vita non veniva pagata ai beneficiari, a meno che ciò non fosse esplicitamente e preventivamente stipulato. Oggi, chi in qualche modo favorisce il gesto, per esempio il sopravvissuto di un patto suicida, è considerato in molti paesi complice di omicidio. In alcuni Stati degli Usa, il tentato suicidio è tuttora reato. Così come la sociologia vuole proteggere la società, il diritto si schiera dalla parte della giustizia. I princìpi della giustizia possono essere fatti derivare da tre forme di rapporto: dell’uomo con Dio, dell’uomo con i suoi simili, dell’uomo con se stesso. La separazione tra Stato e Chiesa e la secolarizzazione delle norme hanno in gran parte rimosso dal diritto contemporaneo il primo tipo di giustizia. La giustizia del secondo tipo attiene alla salvaguardia del contratto sociale. La famiglia, le istituzioni dello Stato, i contratti tra i vari enti, i diritti e doveri dei cittadini, il possesso di beni necessitano tutti di una stabilità garantita dalla legge. E la legge la garantisce integrando la continuità nel proprio tessuto, predisponendo misure per transizioni senza scosse e per eventualità future. La morte improvvisa lacera il tessuto, che allora i giuristi ricuciono con fili ripresi da molti luoghi: diritti e titoli di successione, clausole per il caso di morte, testamenti, sistemi di imposte sull’eredità e simili. Esistono disposizioni di legge in caso di calamità naturali (chiamate nel diritto inglese «atti di Dio»), ed è prevista l’eventualità della morte «per cause di forza maggiore». Ma si tratta sempre di morte esogena, ancorché improvvisa. Come scriveva Durkheim, «Le cause di morte più che interne sono esterne a noi». Il diritto sembra riconoscere soltanto un deus ex machina che agisce dall’esterno. La morte per suicidio, poiché ha origine all’interno della persona, non è né un caso di forza maggiore né una calamità
naturale, bensì una revoca unilaterale del contratto. Provocando intenzionalmente la lacerazione del tessuto, essa infrange la legge. Il terzo tipo di giustizia, il rapporto dell’uomo con se stesso, non è mai stato a rigori territorio di competenza della legge, se non per tutelare l’individuo dalla perdita di questo diritto per violazione da parte di altri. Le garanzie di libertà personale consentono all’individuo l’esercizio della giustizia interiore, ma non ne descrivono la natura. I tentativi di interferire con prescrizioni nella libertà individuale di culto, di pensiero e di parola sono stati addirittura considerati lesivi di tale giustizia interiore. Per gran parte del diritto europeo, il suicidio sembrerebbe dunque rientrare nei diritti impliciti dell’uomo. Se non che, dai tre grandi pilastri del diritto occidentale esso non è stato giudicato dal punto di vista del rapporto dell’uomo con se stesso. È stato giudicato dall’esterno, come se l’uomo appartenesse in primo luogo a Dio e al Re e solo residualmente a se stesso. Ancora una volta, ci viene detto che l’uomo non può servire sia la propria individualità sia il suo Dio e la sua società. Ma quando la legge non riconosce il suicidio come un diritto da tutelare, al pari delle libertà civili e della proprietà, non consente forse ad altri di interferire, calpestandolo, nel nostro rapporto con noi stessi? Non ci viene dunque impedito dall’esterno di perseguire quello che a noi potrebbe sembrare il nostro destino? Non ci viene ordinato per legge di vivere? L’interferenza nella giustizia interiore in nome della giustizia interpersonale o sociale è stata oltremodo violenta. La tradizione giuridica inglese ha sostenuto che, tra tutti i tipi di omicidio, soltanto il suicidio è privo di giustificazioni o di attenuanti. Il suicidio è sempre stato considerato (fino al 1961) un delitto grave, un assassinio; laddove l’uccisione per autodifesa, nell’attuazione della giustizia pubblica o per prevenire un reato sono tutte forme fatte rientrare nella legittima difesa. L’uccisione accidentale, per un insieme fortuito di circostanze, facendo resistenza all’arresto e per
proteggere se stessi o altri da una grave minaccia (di stupro, per esempio) sono tutte forme di omicidio preterintenzionale. In altre parole, la tradizione giuridica ha detto: possiamo uccidere gli altri in molti modi e per molti motivi senza infrangere la legge. Mai però, in nessuna circostanza, per nessun motivo, possiamo legittimamente uccidere noi stessi. La giustificazione è che solo il boia può applicare la pena di morte e io non posso sostituirmi al boia. In talune circostanze posso bensì ammazzare altri con la sanzione della giustizia pubblica, ma soltanto la giustizia pubblica può concedere a un cittadino di lasciare il suo dominio. Non essendo stato istituito un tribunale che vagli le richieste di suicidio, non c’è modo di rescindere il contratto sociale dandosi la morte, se non infrangendo la legge. Colui che ha commesso suicidio è colpevole e non avrà mai modo di dimostrare la propria innocenza. L’analista che accetti il punto di vista giuridico tradizionale non potrà mai giustificare un suicidio. La legge aveva lasciato una scappatoia: l’infermità mentale. Cancellando l’applicabilità del secondo tipo di giustizia, dava spazio al terzo tipo. Se una persona non è più giudicata suscettibile di essere governata dalle regole del contratto sociale fondato sulla ragione, la sua morte non costituisce una lacerazione del tessuto sociale. Quella persona non è più inserita nella trama dell’ordinamento giuridico; la sua parola e la sua azione si pongono al di fuori della struttura. Per la società razionale, in un certo senso essa è già morta. Ciò significa, al limite, che la giustizia è esercitata mediante la diffamazione personale. Per evitare di essere giudicato un assassino, il cittadino doveva accettare di essere definito un pazzo. La formula era: «incapace di intendere e di volere». Il suicidio compiuto con la mente «sana» veniva pertanto coperto dal silenzio o fatto passare per un incidente. Può essere questa la via di uscita anche per l’analista? Non direi, visto che il suo compito è quello di scoprire negli
atti di ciascun individuo l’elemento sano, di comprendere la ragione di quegli atti. La condivisione di questa opinione giuridica sarebbe una cancellazione di tutte le differenze, un dichiarare follia ciascun suicidio, indipendentemente da come appaia dall’interno. Per scoprire la metafora radicale che sorregge le ingiunzioni da parte della legge e della società circa il suicidio e la sua prevenzione, occorre rivolgersi alla Bibbia. La legge religiosa precede quella secolare e il comandamento «Non uccidere!» fornisce la base teorica sia del punto di vista giuridico sia di quello teologico. Nella Città di Dio (I, 19), sant’Agostino prende in esame questo comandamento in relazione ai suicidi di Giuda e di Lucrezia, la matrona romana che si uccise per riscattare il suo onore di donna casta. Agostino interpreta il comandamento in modo rigoroso: esso significa né più né meno quello che dice; non può essere modificato con la presunzione che Dio avesse detto a Mosè: «Non uccidere gli altri». Il suicidio è una forma di omicidio, esattamente come sostiene la legge. E come la legge in un certo senso ci ordina di vivere, lo stesso fa la teologia: ci comanda di vivere. Per coerenza con l’interpretazione di Agostino, il cristianesimo dovrebbe assumere come dogmi anche il pacifismo e il vegetarianismo. Ma la teologia, al pari del diritto secolare, sancisce alcune forme di uccisione, privilegiandole rispetto al suicidio. Per esempio, si passa sopra al comandamento di non uccidere nel caso della pena di morte, della macellazione di animali e della guerra. Invece, il togliersi la vita è categoricamente un peccato e al suicida compos sui, padrone di sé, la Chiesa cattolica nega i funerali religiosi. Ma non è solo la Chiesa cattolica ad avere questo atteggiamento; il protestantesimo fondamentalista, rappresentato negli Stati Uniti dall’American Council of Christian Churches, ha approvato una risoluzione di condanna della posizione della Chiesa anglicana, pronunciandosi per l’abrogazione della legge inglese del
1961 che depenalizzava il suicidio: «La morte per suicidio pone fine a ogni possibilità di pentimento. La vita è stata creata da Dio Onnipotente. Appartiene a Lui. L’assassinio, incluso l’assassinio della propria persona, costituisce una trasgressione della Sua legge». Perché la teologia aborrisce il suicidio più di ogni altra forma di uccisione? Perché ne è così turbata? Il punto di vista teologico deriva dall’idea di Creazione: «La vita è stata creata da Dio Onnipotente. Appartiene a Lui». Non siamo i creatori di noi stessi. Il sesto comandamento9 discende dal primo e dal secondo, che pongono Dio innanzi a tutto. Non possiamo toglierci la vita, perché la vita non ci appartiene, è parte della creazione di Dio e noi siamo sue creature. Scegliendo la morte, rifiutiamo il mondo di Dio e neghiamo la nostra creaturalità. Decidendo quando è il momento di abbandonare la vita, manifestiamo la mostruosità dell’orgoglio. Ci arroghiamo il ruolo di giudici, quando soltanto Dio può disporre della vita e della morte. Per i teologi, il suicidio è dunque l’atto supremo di ribellione e di apostasia, perché nega il fondamento stesso della teologia. La cosa merita di essere esaminata più a fondo. La teologia è lo studio di Dio e il teologo ne è l’esperto. Su Dio e sulla religione, la parola della teologia ha valore di autorità. Quando io o voi prendiamo in considerazione l’idea di toglierci la vita, ascoltando Dio a modo nostro, ecco che non seguiamo più l’autorità. Ci facciamo teologi, studiamo Dio autonomamente. Questo può bensì dare luogo a deliri religiosi e a un’anarchia teologica, in cui ciascuno ha il suo Dio, la sua setta, la sua teologia. Eppure: come possiamo altrimenti trovare ciascuno il Dio immanente o vivere nell’esperienza la nozione teologica per cui l’anima umana è il tempio di Dio? Dice l’Ecclesiaste che c’è un tempo per morire. Se Dio conosce quel tempo, in che modo lo comunica all’uomo? La teologia vorrebbe farci credere che Dio possa parlare soltanto attraverso gli eventi della sorte, perché la morte può venire soltanto dall’esterno. Anche in questo caso, come per la sociologia e per il diritto, la morte ha da essere
esogena, piombarci addosso per il tramite del mondo: un nemico, un incidente, una malattia. Non la portiamo dentro di noi; non abita nell’anima. Ma non potrebbe Dio parlare per il tramite dell’anima o sollecitare un’azione per mezzo della nostra stessa mano? Non è forse hybris da parte della teologia il porre limiti all’onnipotenza di Dio, sicché la morte debba sempre sopraggiungere in modi che non inficino la sua metafora radicale? Perché il suicidio non è negazione di Dio o della religione, ma delle pretese che la teologia avanza sulla morte e sul modo giusto di entrarvi. Il suicidio dà il benservito alla teologia, dimostrando che non si ha paura delle sue armi più antiche: l’aldilà e il giudizio universale. Ma non ne discende che, per il fatto di essere antiteologico, il suicidio sia necessariamente blasfemo o irreligioso. Non potrebbe, il suicidio compiuto per una spinta interiore, essere uno dei modi in cui Dio annuncia che è giunto il tempo per morire? Come scrisse David Hume nel breve saggio Sul suicidio, «Quando mi getto sulla punta della mia spada, ricevo dunque la morte dalla divinità, come se la ricevessi da un leone, da un precipizio, da una febbre». Il pensiero rabbinico, e anche il caso di santa Apollonia nella Chiesa cattolica, dimostrano la possibilità di una giustificazione religiosa del suicidio. Tra i primi martiri ci fu Apollonia, che si gettò volontariamente tra le fiamme (249) e tuttavia fu santificata, perché la sua morte era dedicata a Dio. Il suo gesto era in contrasto con l’esercito dei martiri cristiani i quali, pur consegnandosi volontariamente al massacro, non levarono mai la mano contro di sé. Il suicidio come martirio: questa è sempre stata la posizione dell’ebraismo. Piuttosto che compiere sotto coercizione l’obbrobrio dei tre peccati supremi: l’idolatria, l’incesto e l’assassinio, il suicidio diventa giustificabile, diventa una forma di martirio in quanto sacrificio per la glorificazione di Dio. In altre parole, anche la teologia può giustificare il suicidio quando il gesto è legato a Dio e ha un carattere religioso. Tuttavia, la decisione su ciò che è per la
glorificazione di Dio e ciò che non lo è viene demandata esclusivamente al dogma teologico. In tal modo, è il dogma a determinare la definizione di atto religioso. Il decidere se un atto è soltanto un peccato teologico o un gesto veramente irreligioso non dipende dal dogma ma dall’evidenza dell’anima. Il dogma ha già dato il suo giudizio. Poiché Dio non è chiuso nei confini assegnati dai dogmi delle varie teologie, ma può rivelarsi e si rivela anche attraverso l’anima, è all’anima che dobbiamo rivolgerci per trovare la giustificazione di un suicidio. Insomma, l’analista non può aspettarsi aiuto dal teologo, ma è risospinto ad affrontare il problema sul terreno che gli è proprio. Per finire, torniamo alla medicina e al medico. La regola di base del medico è primum nihil nocere, innanzitutto non nuocere. I suoi compiti sono: prevenire le malattie; trattare, curare e se possibile guarire; dare sempre sollievo; riparare e incoraggiare; alleviare il dolore; scoprire e combattere le malattie; tutto questo allo scopo di promuovere il benessere fisico, cioè la vita. Qualsiasi cosa intralci queste finalità va contrastata, perché compromette la metafora radicale della medicina: la promozione della vita. Qualora si verifichi un conflitto tra le varie finalità, per esempio dove l’intervento riparatore provochi dolore, ovvero dove un effetto dannoso serva alla guarigione, oppure dove il sollievo della morfina possa indurre una patologia, si stabilisce una gerarchia di finalità. Ma, sempre, al primo posto nella gerarchia è la promozione della vita. La misura del successo di un trattamento medico, se cioè abbia luogo oppure no la promozione della vita, è giudicata sul comportamento fisico. Il medico si basa essenzialmente su criteri quantitativi, come la frequenza del polso, la temperatura corporea, il metabolismo basale, l’emocromo e la pressione sanguigna, nonché sulle analisi raffinate delle secrezioni e delle prestazioni. Per la medicina, la vita da promuovere è la vita biologica, la vita del corpo. Il medico interpreta la sua massima, primum nihil nocere, in termini
corporei, chiedendosi se le sue azioni sono utili o nocive alla vita fisica. Nella gerarchia delle sue finalità, l’effetto di un trattamento sulla psiche non è al primo posto. Di conseguenza, in nome di questo fine, la promozione della vita, il medico può essere giustificato nell’usare qualsiasi mezzo per impedire a un paziente di togliersi la vita. Non sta propriamente al medico preoccuparsi dell’eventualità che le misure adottate per immobilizzare, calmare, isolare e rendere accessibile al colloquio clinico una persona intenzionata ad autodistruggersi distruggano a loro volta aspetti di quella soggettività che egli sta cercando di aiutare. Il modello medico stesso suffraga la regola standard: il minimo indizio di suicidio, la minima minaccia di morte richiedono l’applicazione immediata di mezzi di contenzione, sedativi e sorveglianza costante: il trattamento riservato di solito ai criminali. Al medico moderno non si chiede di occuparsi dell’anima del suo paziente se non quando la psiche del paziente interferisca con la salute fisica. I rimedi psicologici non sono prescritti per se stessi, come fini in sé, ma sono strumentali all’idea di buon funzionamento fisiologico che il medico ha. Il medico vuole ridurre al minimo l’interferenza della psiche nel regolare funzionamento di un sano sistema fisiologico. Ammetterà, certo, che il fine ultimo del benessere fisiologico è quello di servire da solida base per il benessere complessivo – culturale, sociale, psicologico. Ma il suo punto focale rimane la promozione diretta della vita e, come un bravo giardiniere, egli presta attenzione alle condizioni materiali dalle quali eventualmente fiorirà la crescita psichica. La crescita psichica non rientra nei suoi compiti, né vi rientra la valutazione delle proprie azioni dal punto di vista della psiche. La misura del suo successo dipende dalla misurazione delle funzioni corporee. Niente può essere misurato se non è quantificato. La rappresentazione della misura medica, quella che riassume le più grandi conquiste della medicina nel promuovere la vita, è la curva
dell’aspettativa di vita. Promuovere la vita ha finito per significare prolungare la vita. Quando un paziente «sta meglio», significa che «vivrà più a lungo». Il miglioramento è quantitativo e la medicina è indotta a porre l’equazione: vita buona = vita più lunga. Ma la vita può essere prolungata soltanto a spese della morte. Promuovere la vita significa anche, perciò, posporre la morte. La morte, in quanto unica condizione clinica per la quale la medicina non ha alcuna cura, è la grande nemica dell’intera costruzione. Il suicidio, che pone termine alla vita in senso medico del paziente, diventa allora la condizione da combattere assolutamente. Ecco dunque che, nel porsi al servizio della vita del paziente, il medico tende a servire un unico aspetto di quella vita: la sua durata. Perfino nel lenire le sofferenze il medico serve in ultima analisi questo fine, perché ha l’obbligo di posporre la morte con ogni arma a sua disposizione. Eppure, volente o nolente, la vita più sana del corpo più sano procede quotidianamente verso la sua morte. Con questa interpretazione del suo dovere di promuovere la vita, con questo relativo disinteresse per gli effetti psicologici della sua azione, come può il medico affrontare il problema del suicidio in maniera oggettiva? L’obbligo che ha nei confronti della sua professione lo ha inchiodato a un dogma al pari di qualsiasi teologo che difende gli articoli della sua fede. La metafora radicale della medicina, quale è interpretata oggi, non gli consente alcuna alternativa se non quella di schierarsi per la continuazione della vita fisica a ogni costo. Il suicidio abbrevia la vita; ergo non promuove la vita. Il medico non può addentrarsi insieme al paziente nell’esplorazione della morte. In qualunque momento, il rischio della sua realtà può indurlo a tirarsi indietro. La metafora radicale della medicina lega il medico a un nobile e importante punto di vista, ma mostra i suoi limiti quando deve confrontarsi con l’esplorazione del suicidio. Suicidio significa morte, la grande nemica. Il suicidio è giudicato a priori dal modello di pensiero della medicina. Può essere interpretato soltanto come un sintomo, un’aberrazione,
un’alienazione, da accostare nell’ottica della prevenzione. I modelli in base ai quali questi quattro campi che più si occupano del suicidio considerano il problema non sono di alcun aiuto per l’analista. Tutti e quattro partono da un pregiudizio, anche perché il suicidio rischia di scardinare le loro metafore fondative. E infatti presentano alcuni tratti comuni. Ciò che più li interessa è la prevenzione del suicidio, perché i loro modelli sono segnati dall’angoscia della morte. Angoscia derivante dal fatto che nei loro odierni schemi concettuali non c’è spazio adeguato per la morte. Essi la concepiscono come un evento esogeno rispetto alla vita, non come qualcosa che ha sede nell’anima, o come una possibilità e una scelta sempre presenti. Se ammettessero questo, ammetterebbero il suicidio, intaccando così le loro stesse fondamenta. Né la Società né la Legge né la Chiesa né la Vita sarebbero allora al sicuro. Dai punti di vista della sociologia, del diritto, della teologia e della medicina, la prevenzione del suicidio è una finalità legittima. Il che può essere giusto e anche necessario in tutti i casi, tranne uno: nell’affrontare il rischio di suicidio degli individui, relativamente pochi, che si incontrano nella pratica analitica. La linea di condotta tradizionale è sostenibile e ha certamente radici lontane; va tuttavia esaminata da un’angolazione che si ponga al di fuori dei campi disciplinari citati. Non sono mancati pensatori che lo hanno fatto, tra questi in particolare John Donne, Hume, Voltaire, Schopenhauer, ma essi non sono abbastanza moderni. Non hanno avuto accesso al punto di vista della psicologia, il quale avrebbe sottoposto a critica le metafore radicali stesse su cui quei campi si fondano, anziché limitarsi a discutere le idee di suicidio che da quelle metafore discendono. In altre parole, non sarà che il suicidio è incompatibile precisamente con quei modelli di pensiero? Se la risposta è sì, allora la prevenzione del suicidio non è che una forma camuffata di pregiudizio, a sua volta basato su un’angoscia di fondo nei confronti della morte. Se la
prevenzione del suicidio è un pre-giudizio e se l’analista vi si oppone perché non conduce alla comprensione del suicidio in quanto fatto psicologico, ciò non significa assolutamente che allora egli sia «a favore del suicidio». Ancora una volta, il problema non è se essere pro o contro il suicidio, il problema è il significato che esso ha nella psiche. Dunque il nostro compito è un altro: costruire un punto di vista analitico. Basti, per ora, ribadire che l’analista non può prendere a prestito il suo approccio dai colleghi di questi altri campi, i quali, mentre si sostengono a vicenda, non offrono alcun sostegno alla ricerca dell’analista che si confronta con la possibilità del suicidio nel suo lavoro quotidiano. La prospettiva analitica dovrà nascere autonomamente rispetto ai quattro campi presi in esame, perché il suicidio dimostra appunto l’autonomia della psiche rispetto alla società, al diritto, alla teologia e perfino rispetto alla vita del corpo. Il suicidio rappresenta una così grave minaccia per questi campi non soltanto perché non tiene conto delle prescrizioni delle loro tradizioni e contraddice le loro metafore radicali, ma soprattutto perché afferma con radicalità la realtà autonoma dell’anima. 9. Il quinto per i cattolici, che, sulla scorta della tradizione agostiniana, basano la successione su Deuteronomio, 5, 6-21. Molte Chiese protestanti seguono invece la formulazione data in Esodo, 20, 2-17, dove il divieto introduttivo di adorare altre divinità all’infuori di Dio è bipartito; di conseguenza la numerazione dei primi nove comandamenti differisce di una unità [N.d.T.].
3 Il suicidio e l’anima
Si direbbe che tutti gli autori che si occupano del tema del suicidio concordino con Farberow e Shneidman (The Cry for Help): «Il primo compito di qualunque studio scientifico rigoroso del suicidio è l’elaborazione di una tassonomia, di una classificazione dei tipi di suicidio». Sicché esiste ormai tutta una nomenclatura estremamente confusa al riguardo. Abbiamo il suicidio patologico, panico, altruistico, anomico, egoistico, passivo, cronico, subintenzionato, il suicidio religioso, politico, e via classificando. Viene calcolata la correlazione tra il numero di suicidi e la pressione atmosferica, le macchie solari, le fluttuazioni stagionali ed economiche, nonché tra i suicidi e condizioni biologiche come l’ereditarietà, la gravidanza e le mestruazioni. Il suicidio è studiato in rapporto alla tubercolosi, alla lebbra, all’alcolismo, alla sifilide, alle psicosi, al diabete. Esistono pubblicazioni che trattano del suicidio a scuola, nell’esercito, in carcere, ecc. Esistono studi sull’incidenza statistica dei suicidi ogni centomila persone, classificate per età, sesso, religione, razza, area geografica. Ci sono ricerche che mostrano le variazioni dell’atteggiamento nei confronti del suicidio nelle diverse epoche e nazioni, nonché i mutamenti nella tipologia e nella frequenza dei suicidi in correlazione ai mutamenti storici e filosofico-culturali. Abbiamo notizie di suicidi di gruppo o di massa: i danzatori fanatici dell’Europa centrale del quattordicesimo secolo, gli abitanti dei villaggi russi che si precipitarono in massa tra le fiamme nel diciassettesimo secolo, le giovani che nel Giappone del ventesimo secolo si gettano nel vulcano Mihari-Yama. Leggiamo sui giornali di salti nel vuoto dalle rupi degli innamorati, da particolari ponti, da chiese, monumenti, torri. Intere città, sette e battaglioni si sono
immolati fino all’ultimo uomo piuttosto che arrendersi. Sappiamo di martiri cristiani i quali, scrive John Donne: «In molti supplicavano di essere battezzati subito per poter essere mandati al rogo», sicuri che il martirio fosse la via al Paradiso. La Bibbia narra di Sansone, che fece crollare la casa su di sé e sui suoi nemici esclamando: «Muoia Sansone con tutti i Filistei!»; e di Giuda, colui che è il primo uomo moderno, il quale «si allontanò e andò a impiccarsi» (Mt., 27, 5). Tutte queste storie le possiamo leggere, ma quale comprensione ne ricaviamo? Che aiuto ne viene all’analista? Ovvero, venendo ai casi singoli, troviamo descrizioni di ogni genere: Petronio, che, tagliandosi e medicandosi le vene a più riprese, da vero epicureo discorre con gli amici mentre si svena per l’ultima volta; Seneca e Socrate, caduti in disgrazia, eseguono personalmente la propria condanna a morte; l’antichità ci riferisce dei suicidi di Ero nell’Ellesponto, di Saffo da una rupe sull’isola di Leucade, e poi di Cleopatra, di Giocasta, madre e sposa di Edipo, di Porzia per seguire Bruto, e di Paolina per seguire Seneca; e in tempi più vicini a noi: Hart Crane, Herbert Silberer, Thomas Beddoes, Cesare Pavese, Virginia Woolf, nonché uomini potenti e uomini d’azione, come Condorcet, Castlereagh, Forrestal, Winant, Vargas, Hemingway, il premio Nobel Bridgman, e Belmonte, il famoso matador. E come spiegarci questi suicidi: una figlia di Karl Marx, un figlio di Eugene O’Neill, un figlio di Thomas Mann, uno di Robert Frost, uno di Herman Melville? E come considerare le centinaia di ragazzi e bambini che si tolgono la vita ogni anno, e non sono né psicotici né ritardati né pervertiti, e alcuni non hanno nemmeno dieci anni? Forse, anche in questo caso, il fatto di stilare una nostra classificazione descrittiva, una sorta di morfologia dal nostro punto di vista, ci farà fare un passo avanti. Per esempio, potremmo proporre la categoria dei suicidi collettivi, sul modello della morte per panico di un branco di animali, della carica eroica di una brigata o del suicidio rituale delle sati.
Alla categoria dei suicidi collettivi apparterrebbero anche i suicidi di coloro che sono reclutati per morire, come gli assassini politici o i piloti kamikaze; i casi di harakiri o seppuku (squarciamento del ventre) dei giapponesi (maschi: per le donne è prescritto di tagliarsi la gola); e il numero incredibile di suicidi presso gli eschimesi Ardjiligjuar (un tasso di sessanta volte superiore a quello del Canada nel suo insieme). Un altro gruppo sarebbe quello dei suicidi simbolici. Vi possono rientrare i suicidi eseguiti con modalità bizzarre in pubblico, come quello esibizionistico di Peregrino Proteo sopra una pira profumata, a Olimpia (165 d.C.), davanti al pubblico rumoreggiante dei giochi. E i suicidi dalla struttura più schizoide, come quello di chi si immola, seguendo simbolicamente un modello archetipico di smembramento o di martirio religioso. Alcuni presentano una qualità ossessivo-compulsiva, dove la forza coattiva della pulsione non è molto diversa da quella che spinge l’alcolista a bere e il tossicodipendente a drogarsi. L’individuo è soverchiato dal bisogno pressante di trovare la propria speciale morte simbolica; e ne sono state registrate di ogni genere immaginabile: bere fenolo, ingerire vetro o ragni velenosi, cospargersi di cherosene e darsi fuoco, inghiottire un petardo e accenderne la miccia, infilarsi nella gabbia di un leone… Altri ancora li potremmo raggruppare come suicidi emotivi, commessi in preda a una passione travolgente. A questa categoria apparterrebbero quelli compiuti per vendicarsi di nemici, per provocare l’angoscia altrui; per manipolare il mondo, in preda alla rabbia della frustrazione; per l’umiliazione causata dalla rovina finanziaria, per la vergogna di un pubblico scandalo; i suicidi per sensi di colpa e rimorsi di coscienza, per terrore angoscioso, per lo stato melanconico della vecchiaia, della solitudine, dell’abbandono, del lutto, dell’apatia e del senso di vuoto, per la disperazione alcolica e per il senso di fallimento, specialmente del fallimento in amore. E vi rientrerebbero
anche i suicidi del successo, il salto dal punto più alto. Emotivo è anche il suicidio che è un grido di aiuto: «Salvatemi!», e l’impulso suicida a uccidere ed essere uccisi, o l’unione languorosa di amore-e-morte e l’autoimmolazione di una imitatio dei, nonché i suicidi per evitare la sofferenza fisica della tortura o della malattia, del carcere o della cattura in guerra. Che dire poi dei suicidi intellettuali, dove la motivazione è la fedeltà a una causa, a un principio o a un gruppo? Dovremmo inserire in questa categoria lo sciopero della fame e il suicidio ascetico che conduce al nirvana e le morti per martirio alle quali i primi Padri della Chiesa non ammettevano ci si potesse sottrarre. E anche, forse, la morte di Socrate e di Seneca, insieme ai suicidi del nichilismo, della ribellione e dell’assurdo. La conclusione generale che l’analista può trarre da tutte queste descrizioni è la seguente: il suicidio è una delle possibilità umane. La morte può essere una scelta. Il significato di tale scelta è diverso secondo le circostanze e gli individui. Il problema analitico inizia qui, dove terminano i resoconti e le classificazioni. All’analista interessa il significato individuale di un suicidio, che non è dato nelle classificazioni. L’analista parte dalla premessa che ciascuna morte ha senso ed è in qualche misura comprensibile, al di là di come la si classifichi. Il suo approccio al suicidio è identico a quello che ha verso qualsiasi altra forma di comportamento che gli accade di osservare nel suo lavoro, come i bizzarri sintomi definiti schizofrenici o i disturbi funzionali chiamati psicosomatici. L’analista presuppone che il comportamento abbia un «dentro» dotato di senso e che, considerando il problema dall’interno, egli sarà in grado di comprenderne il significato. Questo approccio è psicologico. Vale a dire, assume l’anima come sua premessa prima o metafora radicale. Rivendicando significati distinti per ciascun suicidio, anche laddove il comportamento esteriore è vistosamente tipico e
classificabile sociologicamente, l’analista rivendica l’esistenza di una personalità individuale e comprensibile alla quale il suicidio può essere riferito e essere dunque a sua volta compreso. Egli attribuisce intenzionalità a ogni evento umano. La sua ricerca è ricerca di significati. Il comportamento esteriore è generalmente tipico. Dall’esterno, ogni morte è semplicemente la Morte. All’apparenza è sempre uguale e può essere definita con precisione dalla medicina e dal diritto. Quando il suicidio è descrizione di un comportamento ed è definito come autodistruzione o come avvio di un atto il cui esito secondo il soggetto sarà l’autodistruzione, tutti i suicidi sono il Suicidio. E la persona individuale che ha scelto quella morte è diventata «un suicida». Quando la morte è vista dall’esterno, che spazio rimane all’anima individuale e alla sua esperienza di quella morte? Che cosa ha voluto dire? Che ne è stato della tragedia e dove è il pungiglione della morte? Quanto più il suo studio diventa scientifico, tanto più il suicidio è necessariamente guardato dall’esterno. È per questo che la classificazione diventa una trappola per la psichiatria, per la sociologia e per tutti quei campi il cui compito principale dovrebbe essere la comprensione del comportamento umano. Un esempio di questo slittamento dall’interno all’esterno è costituito dal lavoro di Shneidman, che è da tutti considerato il capofila della ricerca sul suicidio. Shneidman e i suoi collaboratori, affascinati come sono dalla tassonomia, sostituiscono di proposito i termini «suicidio» e «morte» con «autoannientamento», «interruzione», «cessazione», inventano perfino un termine per così dire stenografico, «Psyde» [da psychic demise], per indicare la sospensione dei processi animici: tutti termini purgati delle emozioni, depurati della vita psichica. Con tutto il loro impegno di ricerca, le indicazioni che traggono dai casi clinici e dalle classificazioni diagnostiche sono alla fine banalità. La loro analisi delle lettere di addio dei suicidi, con la conclusione che il fattore responsabile è il ragionamento
fallace (una «logica confusa») e che il suicidio è un «sofisma psicosemantico», sarebbe una parodia joyciana della ricerca, se non fosse così triste, così indecente e così tipica del complesso di inferiorità della psicologia nei confronti della scienza. È pur vero che il ricercatore deve necessariamente guardare i fenomeni dall’esterno. Altrimenti, non sarebbe possibile fare generalizzazioni e non esisterebbero parole utili come suicidio e morte. Inoltre, si potrebbe obiettare che nessuno può mai davvero entrare «dentro» un fenomeno, che rimarrà sempre uno «stacco» tra soggetto e oggetto. Senza i raggruppamenti e le classificazioni costruiti dall’esterno, ciascun atto sarebbe unico e irripetibile; non potremmo fare previsioni, trasmettere saperi, imparare alcunché. Molti temi importanti della pratica psicologica (delinquenza, alcolismo, psicopatia, invecchiamento, omosessualità) sono concetti a cui si è arrivati in questo modo. La parola stessa «nevrosi», con tutte le sue forme, sintomi e meccanismi, è una parola «esteriore», che scavalca le differenze individuali. Ma l’impegno dell’analista è quello di mantenere la connessione con l’interno e di non perdere la sua metafora radicale. In caso contrario, comincerà a vedere i suoi pazienti come esempi di questa o quella categoria e a occuparsi di risolvere il problema della delinquenza, della psicopatia, dell’omosessualità, e così via, quando invece la sua vocazione riguarda l’anima degli individui che nel loro comportamento esteriore presentano tratti tipici. La tipicità esterna non implica una corrispondente similarità di esperienza. «Gli alcolisti», «i delinquenti», «gli psicopatici» non esperiscono le loro forme tipiche di comportamento nella stessa maniera. L’intenzionalità delle azioni varia da una persona a un’altra. La letteratura sul suicidio, di cui abbiamo dato soltanto brevi cenni, rivela una enorme varietà di circostanze e di propositi che non si può dire corrispondano con quelle forme tipiche di comportamento esterno definite suicidio per annegamento, suicidio per depressione o suicidio per
temporanea incapacità mentale. Tra i grandi psicologi, Jung fu l’unico a non voler classificare le persone in gruppi secondo il tipo di sofferenza. Lo si è accusato di non avere saputo fornire una particolareggiata e sistematica teoria della nevrosi, accanto alla eziologia e al trattamento. Ma è davvero un difetto? Forse è la sua virtù l’avere, lui solo, riconosciuto la grossolana inadeguatezza delle descrizioni esclusivamente esteriori. L’analista si trova di fronte dei problemi, e quei problemi non sono semplicemente atti comportamentali classificabili né tipologie nosologiche. Essi sono in primo luogo esperienze e sofferenze, problemi dotati di un «dentro». La prima cosa che il paziente chiede all’analista è che si accorga della sua sofferenza e si lasci attirare dentro il suo universo esperienziale. Esperienza e sofferenza sono termini da sempre associati all’anima. «Anima», tuttavia, non è un termine scientifico e oggi ricorre molto raramente nella psicologia, e sempre tra virgolette, quasi a impedirgli di infettare l’ambiente scientificamente asettico in cui compare. L’anima non può essere definita con precisione, e non è una parola rispettabile nelle discussioni scientifiche, per come le si intende oggi. Esistono molte parole di questo genere, che sono portatrici di significato e tuttavia non trovano posto nella scienza odierna. Il fatto che il metodo scientifico le estrometta non vuol dire che i referenti di quelle parole non siano reali. Né, reciprocamente, si può dire che il metodo scientifico non sia valido perché omette queste parole prive di una definizione operativa. Tutti i metodi hanno i propri limiti; l’importante è avere chiaro quali sono le competenze di ciascuno. Per comprendere «l’anima» non possiamo rivolgerci alla scienza perché ce ne dia una descrizione. Il suo significato è dato nel modo migliore dal suo contesto, e tale contesto è già stato in parte formulato. La metafora radicale del punto di vista analitico è che il comportamento umano possiede
intelligibilità perché contiene un significato interno, che viene sofferto e vissuto come esperienza e che è compreso dall’analista attraverso l’empatia e l’intuizione. Tutti questi termini fanno parte del linguaggio empirico quotidiano dell’analista, forniscono il contesto e sono espressione della sua metafora radicale. Una ulteriore amplificazione della parola «anima» ci è offerta da tutta una serie di altri termini da sempre associati ad essa: mente, spirito, cuore, vita, calore, sentimenti di umanità, personalità, individualità, intenzionalità, essenza, interiorità, finalità, emozione, qualità, virtù, moralità, peccato, saggezza, morte, Dio. Dell’anima si può dire che è «turbata», «vecchia», «disincarnata», «immortale», «perduta», «innocente», «ispirata». Gli occhi sono detti «lo specchio dell’anima» perché la riflettono, e un uomo incapace di compassione è detto «senz’anima». Quasi tutte le lingue cosiddette primitive posseggono elaborate concezioni riguardanti una serie di princìpi animati, che gli etnologi hanno tradotto con la parola «anima». Per questi popoli, dagli antichi egizi agli eschimesi dei giorni nostri, l’«anima» è un’idea altamente differenziata che rimanda a una realtà dotata di grande portata concreta. L’anima è stata di volta in volta immaginata come l’uomo interiore e come la sorella o sposa interiori, come la sede o la voce di Dio dentro di noi, come una forza cosmica di cui sono partecipi tutti gli esseri umani, anzi tutti gli esseri viventi, come qualcosa di divino in quanto data da Dio, come coscienza morale, come molteplicità o come unità nella diversità, come armonia, come fluido, come fuoco, come energia dinamica e altro ancora. Possiamo «frugarci nell’anima»; la nostra anima può essere «sottoposta a giudizio». Ci sono parabole che descrivono la possessione dell’anima da parte del demonio e la vendita dell’anima al diavolo, le tentazioni dell’anima, la sua dannazione e redenzione, il suo perfezionamento attraverso discipline spirituali, i suoi «viaggi». Si è cercato di darle una localizzazione in questo o quell’organo o parte del corpo, di rintracciarne l’origine nello sperma o nell’ovulo, di
suddividerla in anima animale, vegetale e minerale; ma, sempre, la ricerca dell’anima conduce nel «profondo». Non solo, non si cessa di dibattere sul legame esistente tra l’anima e il corpo: c’è chi pensa che siano entità parallele; che l’anima sia un epifenomeno del corpo, una sorta di secrezione interna; che il corpo sia soltanto la pulsante manifestazione visibile di un’anima immateriale, sua causa formale; che la loro relazione sia irrazionale e sincronistica, che va e viene, che si affievolisce e si intensifica, in conformità con le costellazioni psicoidi; che non abbiano alcuna relazione; che la carne sia mortale e l’anima eterna e si reincarni attraverso i tempi secondo le leggi del karma; che ciascuna anima sia individuale e corruttibile, mentre è il corpo che, in quanto materia, non può essere distrutto; che l’anima sia presente soltanto nei corpi senzienti capaci di coscienza; ovvero che le anime siano presenti, come le monadi, in tutti i corpi in quanto gerarchia psichica della natura viva. Dai punti di vista della logica, della teologia e della scienza, queste affermazioni vanno sottoposte a dimostrazione e a confutazione. Dal punto di vista della psicologia, sono tutte proposizioni vere, in quanto sono affermazioni sull’anima fatte dall’anima. Sono autodescrizioni dell’anima espresse nel linguaggio del pensiero (così come, nel linguaggio della poesia e dell’arte, l’anima raffigura se stessa per contraddizioni e paradossi). Ciò implica che, in momenti differenti, ciascuna di quelle affermazioni riflette una fase della relazione anima-corpo. In un dato momento, la relazione è sincronistica, per cui tutto si carica di senso; in un altro momento, per esempio negli stati tossici o di malattia, anima e corpo si identificano talmente, che la posizione epifenomenica è quella vera. In un altro momento ancora, i percorsi di vita del corpo e dell’anima sono radicalmente indipendenti e non si incontrano mai. Dobbiamo dunque concludere che tali affermazioni sull’anima riflettono lo stato animico di colui che le fa. Rivelano il taglio speciale che assume in una
persona il problema del rapporto soma-psiche, un problema che appare irremissibilmente legato alla psicologia e all’enigma dell’anima, giacché è questa la domanda – in che rapporto reciproco stanno l’anima e il corpo? – che l’anima non smette mai di porci nella filosofia, nella religione, nell’arte e soprattutto nei travagli della vita quotidiana e della morte. Questa esplorazione della parola «anima» dimostra che non stiamo parlando di qualcosa di cui si possa dare una definizione; e dunque «anima» in realtà non è un concetto, ma un simbolo. I simboli, come sappiamo, non rientrano del tutto sotto il nostro controllo, sicché non è possibile usare quella parola in maniera non ambigua, sebbene noi la intendiamo riferita a quel fattore umano ignoto che rende possibile il significato, che trasforma gli eventi in esperienze e che viene comunicato nell’amore. L’anima è un concetto volutamente ambiguo, che resiste a ogni tentativo di definizione, così come fanno tutti quei simboli primi che forniscono le metafore radicali dei sistemi di pensiero dell’umanità. «Materia», «natura», «energia» hanno in ultima analisi la medesima ambiguità; e così pure «vita», «salute», «giustizia», «società» e «Dio», cioè i concetti che costituiscono la fonte simbolica dei punti di vista già presi in esame. L’anima non è fonte di offuscamento più di altri princìpi primi assiomatici. Nonostante il disagio che questa parola provoca nell’uomo moderno, essa continua a sottendere e a influenzare il punto di vista della psicologia del profondo in modi che forse riusciranno sorprendenti perfino a molti dei suoi seguaci. Ciò che una persona porta nella seduta psicoanalitica sono le sofferenze dell’anima; e i significati scoperti, le esperienze condivise e l’intenzionalità del processo terapeutico sono tutti espressione di una realtà vivente che non può essere percepita meglio che mediante la metafora radicale della psicologia, la psiche o anima. I termini «psiche» e «anima» possono essere usati in modo intercambiabile, benché la tendenza sia oggi a eludere
l’ambiguità della parola «anima» ricorrendo alla più biologica, più moderna «psiche». Con «psiche» si intende di solito un naturale fattore concomitante della vita fisica, possibilmente riducibile a essa. «Anima» invece ha una valenza metafisica e romantica. Le sue frontiere coincidono con quelle della religione. Insomma, la metafora radicale dell’anima, con tutte le sue imprecisioni e complessità, informa gli atteggiamenti dell’analista e governa il suo punto di vista. Quando un analista cerca di comprendere un’esperienza, si sforza di coglierne l’importanza per l’anima della persona coinvolta. Il giudicare una morte soltanto dall’esterno limita la comprensione. Sartre sostiene addirittura che è impossibile comprendere la morte appunto perché si tratta sempre della morte di qualcun altro; noi siamo sempre all’esterno. Di conseguenza, nello sforzo di assumere un punto di vista più psicologico, le indagini sul suicidio si indirizzano sempre più verso l’autopsia psicologica, cioè verso lo studio di casi clinici individuali. L’esame dei biglietti di addio dei suicidi, i colloqui con suicidi mancati e le analisi sociologiche di casi individuali sono tutti metodi per avvicinare il ricercatore al significato di quelle morti, per avvicinarlo a una comprensione dell’evento dall’interno. Ciò nonostante, queste indagini rimangono sostanzialmente all’esterno, perché sono condotte allo scopo di raccogliere informazioni intorno al suicidio. Non sono fatte per indagare l’anima di quella particolare persona nel suo intreccio di senso con il suicidio. Questo tipo di studi è condotto con il fine di arrivare alle cause del suicidio e di spiegare la pulsione suicidaria. Forti della spiegazione strappata mediante questo tipo di indagini, si può procedere a individuare un trattamento utile alla «prevenzione del suicidio». A questo punto, si potranno fornire all’analista indicazioni basate sull’evidenza statistica, su profili di personalità, su colloqui in profondità, eccetera, con le quali far fronte al «rischio di suicidio». Gli importanti lavori di
Ringel in Austria, di Farberow e Shneidman negli Stati Uniti e di Stengel in Inghilterra seguono questa direzione. Mirano alla prevenzione del suicidio. Questo si propongono le loro spiegazioni e indicazioni. Poiché il loro fine è la prevenzione, esse non sono davvero d’aiuto all’analista. Il suo compito è quello di essere oggettivo nei confronti dei fenomeni dell’anima, di prendere gli eventi così come si presentano, senza giudizi a priori. È questa la sua forma di apertura scientifica. I punti di vista collettivi (sociologico, medico, giuridico, teologico) hanno proclamato il suicidio un evento da prevenire. Con questo atteggiamento e questa paura a governare la loro ricerca, essi si precludono la possibilità stessa di comprendere il problema che si sono proposti di spiegare. La loro metodologia impedisce loro di trovare quello che stanno cercando. Se l’analista vuole comprendere che cosa avviene nell’anima, non deve mai procedere con un atteggiamento improntato alla prevenzione. Non la prevenzione, ma la conferma è l’approccio dell’analista all’esperienza. La sua aspirazione è quella di dare riconoscimento agli stati dell’anima che la persona coinvolta sta attraversando, in modo che essi possano trovare realizzazione nella personalità ed essere vissuti consciamente. Il suo compito è quello di confermare i processi in atto, quali che essi siano. In linea ideale, egli non è lì per approvare, per condannare, per modificare o per prevenire. Potrà cercare il significato, ma solo per esplorare il dato, non per sviare dall’esperienza in sé. Il tentativo di distogliere dall’esperienza distoglie anche dalla comprensione dei dati così come essi sono presentati. Pertanto, l’analista ha l’obbligo morale di accantonare gli studi sul suicidio, anche quelli apparentemente più utili, in modo da essere aperto a ciò che ha direttamente sotto gli occhi. Qualunque cosa interferisca nella sua specialissima comprensione emotiva dell’individuo che ha di fronte ostacolerà la comprensione generale. Soltanto le conoscenze di cui egli può fare uso giovano alla comprensione. Ma le
conoscenze sul suicidio derivanti dalle fonti oggi in auge non sono tendenzialmente utili alla comprensione, perché lì il problema è stato giudicato a priori. Le spiegazioni derivanti dagli studi che presentano il suicidio come l’esito di un raziocinio confuso sviliscono ciò che l’anima sta passando. Non colgono la gravità e l’enormità dell’evento. I pensieri che vengono definiti un «sofisma psicosemantico» non sembrano affatto sofistici alla persona che vuole suicidarsi. Il compito dell’analista è quello di indirizzare la comprensione all’interno dell’altra persona, là dove quei pensieri hanno senso. La comprensione non è mai un fenomeno collettivo. Si basa sulla sintonia, sulla conoscenza intima, sulla partecipazione. Dipende da una comunicazione tra anime ed è la modalità appropriata all’incontro ravvicinato tra esseri umani, laddove la spiegazione è una modalità propria del punto di vista delle scienze naturali. La comprensione cerca di fermarsi sul momento quale esso si dà, mentre la spiegazione allontana dal presente, risale all’indietro a una catena di cause o spinge lateralmente, nelle comparazioni. Gli eventi particolari tendono a essere visti come appartenenti a classi, sicché la novità unica e irripetibile di ciascun evento è sacrificata sull’altare della conoscenza generale. Il contrasto tra i punti di vista (comprendere dall’interno, spiegare dall’esterno) taglia in due la psicologia. È un vecchio problema nella storia del pensiero. Qualunque psicologia che descriva la natura umana dall’esterno, esclusivamente attraverso il comportamento osservato, con modelli esplicativi basati sulla fisiologia, sugli esperimenti di laboratorio, su meccanismi, statistiche sociologiche, eccetera, giungerà a conclusioni differenti rispetto all’altro tipo di psicologia. La psicologia che basa la sua descrizione sulla comprensione dall’interno userà procedimenti e concetti differenti e un differente punto di partenza: quello dell’individuo. L’analista dovrà sempre avere ben presenti queste
differenze di punto di vista, altrimenti incorrerà nell’errore di cercare di giungere alla comprensione attraverso lo studio delle spiegazioni. Cercherà di formarsi una propria posizione di fronte a un suicidio studiando la letteratura sull’argomento, anziché attraverso l’osservazione diretta della psiche sua e dell’altro e la comunicazione con la propria psiche e con la psiche dell’altro. Ricorrerà a vuoti concetti esplicativi: «masochismo», «tendenze autodistruttive», «aggressività rivolta all’interno», «suicidio parziale», «desideri di morte», «regressione primaria» e simili. In tal modo, rileverà forse schemi di reazione e scoprirà meccanismi, ma perderà l’anima. La psicologia del profondo ha riscoperto l’anima e l’ha posta al centro delle sue esplorazioni. Oggi corre il rischio di perderla nuovamente per la pressione esercitata dalla psicologia accademica. La psicologia accademica, con la sua ansia di essere scientifica come la fisica, ha unilateralmente scelto «l’esterno», sicché l’anima si trova a non avere più posto nell’unico campo dedito, come testimonia il nome, al suo studio. Appunto per questo, la psicologia del profondo è stata più o meno esclusa dai luoghi di studio deputati della psicologia ufficiale. Per ammettervela, le si chiede di rinunciare al suo punto di vista, al suo linguaggio e alle sue scoperte. Le si chiede di comprovare con metodi sperimentali i suoi risultati clinici. Di tradurre la comprensione clinica nella lingua aliena della spiegazione, propria delle scienze naturali. Insomma, il prezzo di ammissione è la perdita dell’anima. Ma senza una psicologia che indaghi in profondità l’anima individuale in cerca di senso non è possibile comprendere problemi come il suicidio, che affliggono la psicologia ufficiale. La psicologia del profondo è la pietra che i costruttori del mondo accademico hanno scartato, ma forse un giorno diventerà la chiave di volta di qualsiasi psicologia veramente scientifica, perché la comprensione della natura umana non può che cominciare con l’anima e usare metodi adatti al suo oggetto di studio. Psicologia significa «logos della psiche», il
discorso, il racconto della psiche. Perciò, la psicologia è necessariamente psicologia del profondo, giacché, come abbiamo visto, «anima» rimanda all’interno, al profondo. E la logica della psicologia è necessariamente un metodo di comprensione che racconta dell’anima e che all’anima parla nella sua lingua. Quanto più in profondità una psicologia sa spingere la comprensione, arrivando cioè ai significati interni universali espressi con il linguaggio archetipico di «racconti» mitici, tanto più essa è scientificamente precisa da un lato, e tanto più è piena di anima dall’altro. Per accostarci al problema del suicidio, per prima cosa cerchiamo di comprendere la vita dell’individuo della cui morte si tratta. Cominciamo con quel particolare individuo, non con il concetto. La personalità è, come è noto, in parte conscia e in parte inconscia, per cui si rende necessario indagare anche gli aspetti inconsci di quell’individuo. Anzi, una indagine che non dia tutto lo spazio necessario alla mitologia interiore dell’individuo suicidario (i sogni, le fantasie, le modalità appercettive) ne restituirà un ritratto incompleto. Le motivazioni al suicidio citate all’inizio del capitolo (collettive, emotive, intellettuali) non penetrano al di sotto della superficie, non guardano quella morte dall’interno. Poiché il suicidio è una via per entrare nella morte e poiché il problema dell’ingresso nella morte libera le fantasie più profonde dell’anima umana, per comprendere un suicidio occorre sapere quale fantasia mitica è messa in scena. Anche in questo caso, è l’analista colui che viene a trovarsi nella posizione migliore per giungere a tale più completa comprensione. Eppure, questo è stato contestato. La negazione della possibilità di comprensione psicologica del suicida come individuo non viene soltanto da parte della posizione «esterna» propria della sociologia. (Abbiamo già esaminato la sua tesi: è inutile andare a indagare le singole unità che si trovano a comporre la quota di suicidi). La contestazione viene anche dalla posizione che privilegia «l’interno».
Secondo Sartre, l’unica persona in grado di comprendere una morte è la persona che è morta. Questo significa che il suicidio è incomprensibile, perché l’unica persona che lo potrebbe descrivere non è più in grado di farlo. Si tratta di un falso dilemma, ed è importante analizzare più da vicino questa posizione «interna» estremista. È importante capire se è vero oppure no che l’unica persona in grado di comprendere e di esprimere con parole la propria vita e la propria morte sia il soggetto stesso. I suicidi capaci di parlarne in maniera articolata, i Socrate, i Seneca, sono rari. L’individuo che comprende il proprio mito personale, che è capace di seguirne la trama con tanta chiarezza da avvertire il momento della propria morte e da raccontarlo, rappresenta un’eccezione nella storia dell’umanità. Si tratta di individui eccezionali e l’alto grado di consapevolezza che posseggono li ha resi leggendari. L’uomo normale poco comprende i propri atti e, per il fatto che lo coglie di solito di sorpresa, la morte gli sembra venire dall’esterno. Poiché siamo così poco in contatto con la morte che ci portiamo dentro, essa sembra una forza esterna, esogena, che colpisce dal di fuori. Sempre, ciò di cui siamo inconsci in noi stessi sembra venire da fuori. Facciamo il possibile per portare a coscienza frammenti delle nostre azioni, ma più che viverlo, di solito siamo vissuti dal nostro mito. L’esempio più chiaro della nostra impotenza a comprendere e a dare espressione articolata alla nostra vita interiore è dato dalla difficoltà che proviamo a confrontarci con i nostri sogni. Bisogna essere in due per interpretare un sogno. A meno di non disporre di un sistema codificato, come per esempio il libro dei sogni degli antichi egizi di Horapollo o il repertorio dei freudiani, ciascun sogno è un enigma. Brandelli del suo messaggio si rivelano ad alcuni per istinto, ad altri per addestramento. Ma il racconto non può essere sbrogliato né dall’analizzando da solo né dell’analista da solo. È un processo dialettico; la comprensione ha bisogno di uno specchio. Quanto più l’analista è «addentro» al caso, ha
dimestichezza con l’anima dell’altro in quanto suo specchio, tanto meglio riuscirà a comprendere il sogno. Lo stesso vale per il suicidio. Ma se l’analista è troppo vicino (ed è questo che si intende per identificazione controtransferale) non è più in grado di riflettere l’altro, perché a quel punto è diventato troppo uguale all’altro. Analista e analizzando sono diventati inconsci insieme sullo stesso punto. Lo specchio si appanna e non c’è più dialettica. L’analista deve tenere un piede dentro e uno fuori: una posizione che è esclusiva della relazione analitica. E che è profondamente difficile conseguire, il che spiega i lunghi anni di analisi personale e di training necessari per praticarla. Essa richiede una disciplina paragonabile a quella della scienza, e l’oggettività così conseguita è diversa ma equivalente all’obiettività richiesta nelle scienze naturali. Di questo parleremo in maniera più esauriente nella seconda parte del libro. Il fatto di essere sia «dentro» sia «fuori» significa che l’analista si trova in una posizione privilegiata per comprendere e per tradurre in parole la psicologia di un’altra persona. Può seguirne la configurazione perché è dentro di essa e contemporaneamente la osserva; mentre l’altra persona di solito è soltanto all’interno e ne è prigioniera. L’analista è perciò in grado di comprendere un suicidio meglio della persona che lo commette. Non è la persona che è morta, contrariamente a quanto dice Sartre, ad avere un accesso privilegiato alla propria morte, perché il significato di quella morte le era sempre rimasto in parte inconscio. Avrebbe potuto diventare conscio soltanto attraverso lo specchio dialettico, un processo per il quale l’analista è stato formato. Quando pure la comprensione dell’analista abbia l’effetto di prevenire il suicidio, non è detto che essa conduca a una spiegazione o che fornisca informazioni utili a coloro che ricercano le cause e mirano alla prevenzione. L’analista arriva alla comprensione attraverso la conoscenza dello stato in cui si trova l’anima al tempo della morte, ma, a causa della unicità e irripetibilità della relazione analitica, la sua
comprensione e formulazione di quello stato non può essere sottoposta a verifica. L’analista è solo. Questa condizione di isolamento è il nodo più critico dell’impegno a guardare il problema a partire dall’anima ed è ciò che conferisce all’analisi la sua missione solitaria e insieme creativa. Così come avviene alla persona il cui suicidio non è compreso dal collettivo o è interpretato solamente sotto il profilo delle motivazioni coscienti o dal punto di vista di sistemi di pensiero estranei, anche la comprensione che di quel suicidio ha l’analista non viene assimilata dal collettivo. La comprensione non è un fenomeno collettivo. È ancora lontano il giorno in cui la psicologia saprà spiegarla. Unica tra le professioni che si occupano della natura umana e dell’anima, la pratica analitica non ha altro punto di riferimento se non l’anima. Non esiste un’autorità più alta dell’analisi stessa, non esiste alcuna possibilità di approdo a posizioni esterne di ordine medico, giuridico o teologico, perché esse si oppongono alla morte e ne cercano la prevenzione. Non è possibile formulare una serie di regole sommarie per giudicare se un suicidio (o qualsiasi altro fatto che si verifica durante l’analisi) sia giustificato. Il farlo vorrebbe dire abbandonare l’interno in favore dell’esterno. Vorrebbe dire che non cerchiamo più di comprendere il singolo evento nella sua unicità, ma guardiamo a tipologie di comportamento, a categorie di atti. Tuttavia, questa importanza attribuita alla comprensione non significa tout comprendre, tout pardonner. Comprendere non significa stare a guardare con accettazione empatica e non direttiva, indipendentemente da quello che succede. L’analista possiede i suoi criteri di giustificazione. Tali criteri derivano essenzialmente da una valutazione della psiche conscia al momento della morte in relazione ai processi oggettivi dell’inconscio che costituiscono la sottostruttura archetipica del comportamento. Di conseguenza, la comprensione analitica richiede la conoscenza di quei processi psichici
oggettivi. La conoscenza richiesta nel far fronte al rischio di suicidio riguarda paradossalmente la grande Incognita, la morte. Non è una conoscenza di tipo medico, giuridico o teologico, che consiste comunque di astrazioni. È piuttosto una conoscenza che riguarda l’esperienza della morte, lo sfondo archetipico della morte quale la si incontra nell’anima, i suoi significati, le sue immagini ed emozioni, il suo influsso nella vita psichica, e in tal modo si può tentare di comprendere le esperienze attraversate durante la crisi suicida. L’analista formula giudizi e cerca di operare con la massima precisione e senso etico, esattamente come gli altri scienziati. E non differisce dagli altri scienziati nemmeno per il fatto di dedurre i propri criteri esclusivamente dal proprio campo. Al problema di come l’analista possa comprendere l’esperienza della morte e procedere di fronte al suicidio arriveremo tra poco. In questo capitolo abbiamo cercato di differenziare il modello sul quale si basa l’analista da altri modelli che non risultano autentici per la sua vocazione. Quando egli si sposta fuori dell’anima e mutua i suoi criteri dall’etica della teologia, della sociologia, della medicina o del diritto, si comporta da «profano» e le sue opinioni sono opinioni di un profano, non più giudizi scientifici basati sulla sua rigorosa formazione e sul materiale psicologico che osserva. Come uomo è certamente legato alle realtà della vita. È coinvolto nella società, nella legge, nella Chiesa, nella realtà fisica. La sua professione, del resto, ha ricevuto riconoscimento e fiducia collettivi: ma solo in quanto è stata concepita sul modello inautentico della medicina. La sua vocazione è nei confronti dell’anima quale si presenta negli esseri umani individuali. Essa lo pone insieme al suo paziente in un vuoto, dove, paradossalmente, gli obblighi vigenti nel collettivo che gli ha dato riconoscimento professionale sono sospesi. Ma nella misura in cui è fedele alla psiche, l’analista non è un profano. Ha un suo terreno, e in quel terreno c’è spazio per la morte.
4 L’esperienza della morte
La psicologia non dedica abbastanza attenzione alla morte. Come è esigua la letteratura al riguardo, in confronto ai tanti studi zelantemente annotati sulle cose più insignificanti della vita! L’esplorazione della morte attraverso lo studio dell’anima è certamente uno dei compiti primari della psicologia. Ma la psicologia non potrà mai dedicarvisi finché non si sarà liberata del senso di inferiorità nei confronti delle altre scienze, le quali, ovviamente, in ragione dei loro schemi concettuali, tendono a rifiutare questo tipo di indagine. Se la psicologia si decidesse a prendere le mosse dalla psicoterapia, ponendo con ciò la psiche al centro del suo interesse, prima di tutti quegli altri argomenti che dissipano tanto talento accademico, sarebbe obbligata ad affrontare il tema della morte. L’evitamento di questo tema da parte della psicologia è dovuto soltanto a ragioni di scientificità, soltanto al fatto che la morte non è un soggetto idoneo all’indagine empirica? Anche il sonno, l’equivalente simbolico della morte, è trascurato nella psicologia moderna. Come osserva W.B. Webb, gli studi sul sonno (e sull’attività onirica) sono scarsi in proporzione al resto. Non sarà che il relativo disinteresse della psicologia accademica per i processi del sognare, del dormire e del morire rappresenti una prova ulteriore della sua perdita d’anima e della sua angoscia della morte? La teologia ha sempre saputo che la morte è la prima preoccupazione dell’anima. La teologia, con i suoi sacramenti e i suoi riti funebri, le sue elaborazioni escatologiche e le sue descrizioni di Paradisi e Inferni, in un certo senso è tutta imperniata sulla morte. Ma non si può dire che la morte in sé sia aperta all’indagine teologica. I canoni religiosi sono stati fissati per articoli di fede.
L’autorità dei vari cleri trae forza da canoni che esprimono una posizione predeterminata nei confronti della morte. Essa può variare da una religione a un’altra, ma una posizione esiste sempre. Riguardo alla morte, il teologo sa come situarsi. I libri sacri, la tradizione e il proprio ministero gli dicono perché esiste la morte e come deve comportarsi al riguardo. L’ancora della teoria psicologica del teologo, e la fonte della sua autorità, è la dottrina della vita-dopo-lamorte. Le prove teologiche dell’esistenza dell’anima sono talmente legate a canoni fondati sulla morte (riguardanti l’immortalità, il peccato, la resurrezione, il giudizio universale), che una libera indagine metterebbe in discussione la base stessa della psicologia teologica. La posizione della teologia, non dimentichiamolo, parte dall’estremo opposto rispetto a quella della psicologia. Parte dai dogmi, non dai dati; dall’esperienza cristallizzata, non dall’esperienza viva. La teologia ha bisogno dell’anima per dare fondamento all’elaborato sistema di fede imperniato sulla morte che è parte integrante del suo potere. Se l’anima non esistesse, probabilmente la teologia dovrebbe inventarla, per conferire autorevolezza alle antiche prerogative del clero sul terreno della morte. Il punto di vista delle scienze naturali, medicina compresa, è un po’ come quello della teologia. È una posizione prefissata, che risente del meccanicismo moderno: la morte costituisce semplicemente l’ultimo anello di una catena di cause. È lo stato finale di un processo di entropia, è decomposizione, immobilità. Freud concepì in questo modo la pulsione di morte proprio perché il suo punto di partenza erano le scienze naturali dell’Ottocento. Certe immagini del processo del morire (uno scaricarsi delle batterie, un raffreddamento, un rallentamento, un irrigidimento, un dissolversi) rappresentano tutte la morte come l’ultimo stadio del decadimento. La morte è l’anello finale del processo di invecchiamento. Se guardiamo alla natura, questo punto di vista sembra essere corretto: la morte si presenta come decomposizione e
quiescenza. Il mondo vegetale, dopo la maturazione e la produzione dei semi, cade nel silenzio. La morte porta a compimento un ciclo. Qualsiasi morte avvenga prima che il ciclo sia compiuto è ovviamente prematura. Quando si dice che il suicidio è «innaturale», si intende dire che va contro il ciclo vegetativo della natura di cui anche la natura umana è parte. Sorprendentemente, però, sappiamo molto poco sul ciclo vegetativo, il quale presenta una grande varietà di modelli di senescenza e di morte. La genetica dell’invecchiamento delle cellule, che cosa si debba intendere per durata temporale naturale, il ruolo dei fattori ambientali (comprese le radiazioni) rimangono degli enigmi biologici, specialmente quanto più si sale nella scala della complessità delle specie. Secondo A.C. Leopold, in questo campo le spiegazioni sono particolarmente scarse. Non sarà, di nuovo, un segno che l’indagine scientifica è condizionata dall’angoscia della morte? I concetti della medicina di «morte prematura» e «innaturale» riferiti al suicidio trovano scarse conferme nella ricerca biologica, perché non sappiamo a che cosa si riferiscano quei termini nemmeno nel mondo vegetale. Inoltre, tutti i giudizi su processi vitali che non siano quelli umani sono dati dall’esterno, dunque nel pensare noi stessi dobbiamo stare attenti a non ricorrere a metafore mutuate dalle scienze naturali. Queste non potranno mai essere del tutto valide per la vita e la morte umane, le quali traggono il loro significato dal fatto di avere un «dentro». È da questa prospettiva interna che vanno trovate le risposte a tutte le domande su ciò che è «naturale» e «valido». All’apparenza, coloro che si suicidano per trovare una immobilità vegetativa prima che il loro ciclo sia compiuto accorciano innaturalmente la loro esistenza. Ma questo è come appare dall’esterno. Noi non sappiamo quali complessità inneschino la senescenza e la morte nelle piante, e ancora meno ne sappiamo sul «ciclo naturale» o arco di anni dell’uomo. Non sappiamo a quale punto della curva della longevità ciascuna esistenza dovrebbe
statisticamente entrare nel processo di morte. Non sappiamo quale influenza abbia il tempo sulla morte. Non sappiamo, poi, se anche l’anima muoia. Non è la teologia e neppure la medicina, ma un terzo campo, la filosofia, a dare della morte la formulazione che più si avvicina all’esperienza che ne ha l’analista. Espressa per primo da Platone (Fedone, 64), ripetuta in altri luoghi e in altre epoche, esagerata, impugnata, estrapolata dal contesto, la massima dei filosofi rimane vera: la filosofia è un coltivare la morte e il morire. Il filosofo della natura dei tempi antichi, che di norma era medico e filosofo insieme, meditava con il teschio sullo scrittoio. Non soltanto vedeva la morte dal punto di vista della vita; guardava la vita attraverso le orbite vuote del teschio. La vita e la morte vengono al mondo insieme; gli occhi e le orbite che li contengono nascono nel medesimo momento. Nell’istante della nascita sono già abbastanza vecchio per morire. Mentre vivo, sto morendo. Nella morte si entra tutto il tempo, non soltanto nel momento della morte legalmente e medicalmente definita. Ciascun evento della mia vita porta il suo contributo alla mia morte, e io costruisco la mia morte vivendo, giorno per giorno. A questo deve logicamente seguire la proposizione reciproca: qualunque azione rivolta contro la morte, qualunque azione che si opponga alla morte, nuoce alla vita. La filosofia è in grado di concepire vita e morte insieme. Per la filosofia esse non sono opposti che si escludono, polarizzati da Freud in Eros e Thanatos o da Menninger in Odio e Amore, giocati l’uno contro l’altro. C’è una lunga tradizione filosofica che imposta il problema in tutt’altro modo: la morte è l’unico assoluto della vita, l’unica certezza e verità. Poiché è l’unica condizione di cui ogni forma di vita deve tenere conto, la morte è l’unico a priori umano. La vita matura, si evolve e ha come meta la morte. La morte è il suo stesso fine. Viviamo al fine di morire. Vita e morte sono contenute l’una nell’altra, si completano a vicenda, sono comprensibili soltanto dalla prospettiva l’una
dell’altra. La vita assume il suo valore attraverso la morte e coltivare la morte è il tipo di vita raccomandato dai filosofi. Se soltanto chi è vivo può morire, soltanto chi muore è veramente vivo. La filosofia moderna è tornata a rivolgersi alla morte, in armonia con quella che è sempre stata una importante corrente della sua tradizione. Attraverso il tema della morte, filosofia e psicologia si stanno ricongiungendo. Freud e Jung, Sartre e Heidegger hanno posto la morte al centro delle loro opere. La maggior parte dei seguaci di Freud aveva rifiutato la sua metapsicologia della morte. Eppure oggi la psicoterapia è affascinata da Heidegger, il cui tema centrale è una metafisica della morte. Ma l’idioma germanico di Heidegger, portato dal vento della Foresta Nera, non è ciò che interessa all’analista; né lo è la sua logica dell’uso, perché non corrisponde ai fatti psicologici. Quando Heidegger dice che la morte è la possibilità autentica, costitutiva, e che tuttavia non può essere esperita in quanto tale, non fa che riproporre la tesi razionalista secondo la quale esistenza e morte (l’essere e il non essere) sono degli opposti logici: dove io sono, la morte non è; dove è la morte, io non sono. P.W. Bridgman (che in vecchiaia si suicidò) ragiona allo stesso modo: «Non esiste alcuna operazione empirica mediante la quale io possa decidere se sono morto; ergo, sono sempre vivo». È il tipo di ragionamento seguito da coloro che hanno difficoltà a separare la sfera dell’esperienza psichica dalla sfera dell’attività mentale o della coscienza razionale. Secondo questo ragionamento, può essere esperito l’atto del morire, ma non la morte. A seguirlo fino in fondo, si finisce nell’assurdo, perché allora si dovrà dire anche che nemmeno del sonno e dell’inconscio si può avere esperienza. Questi sofismi non intaccano l’esperienza psichica più di quanto le contraddizioni logiche disturbino l’anima. Morte ed esistenza potranno pure escludersi a vicenda nella filosofia razionalista, ma non sono degli opposti psicologici. La morte può essere esperita come stato
dell’essere, come condizione esistenziale. Le persone molto vecchie raccontano a volte dell’esperienza di trovarsi in un altro mondo, più reale di questo, dal quale anzi lo contemplano. Nei sogni e nelle psicosi si può vivere l’agonia del morire, oppure si è morti: lo si sa con certezza, lo si avverte con i sensi. Nelle visioni, i morti ritornano e raccontano del loro stato. Ogni analisi presenta l’esperienza di morte in tutte le sue varietà, e sotto ne porteremo alcuni esempi. L’esperienza della morte non può essere costretta in una definizione logica della morte. Ciò che rende Heidegger, il più antipsicologico dei pensatori, così influente per la psicoterapia è una unica cruciale intuizione: egli conferma Freud nel porre la morte al centro dell’esistenza. E senza una filosofia della morte gli analisti non possono svolgere il loro lavoro. Non è che i filosofi abbiano più risposte da offrire degli analisti; piuttosto, essi forniscono una pluralità di risposte diverse, perché aprono le domande, portando alla luce molti germi di significato. Rivolgendosi alla filosofia, l’analista non troverà punti di vista sulla morte e sul suicidio così ben definiti come ne troverebbe nei sistemi della religione, del diritto e della scienza. L’unica risposta che otterrà dalla filosofia è la filosofia stessa; infatti, nell’interrogarci sulla morte abbiamo già cominciato a praticare la filosofia, lo studio del morire. Questo tipo di risposta è anche psicoterapia. Fare filosofia è un po’ un entrare nella morte; la filosofia è la prova di scena della morte, come ha detto Platone. È una delle forme dell’esperienza della morte. La si è definita un «morire al mondo». Il primo passo nell’elaborazione di qualsiasi problema consiste nell’assumere su di sé quel problema come esperienza. Un problema lo si penetra entrando in intimo contatto con esso. La morte la si avvicina morendo. Per avvicinarsi alla morte occorre morire ogni giorno nell’anima, così come il corpo muore nei suoi tessuti. E così come i tessuti del corpo si rinnovano, anche l’anima attraverso quelle esperienze di morte si rigenera. Pertanto,
l’applicarsi al problema della morte è un morire al mondo, con la sua illusoria speranza che, in realtà, la morte non esista, ed è insieme un morire che immette nella vita, nel senso di un rinnovato e vitale interesse per le cose essenziali. Poiché in questo senso il vivere e il morire si implicano a vicenda, qualunque atto che tenga lontana la morte impedisce la vita. «Come morire» significa né più né meno «come vivere». Spinoza, ribaltando la massima platonica, ha affermato (Etica, IV, 67) che il filosofo pensa alla morte meno che a qualsiasi altra cosa e che la sua non è una meditazione della morte, ma della vita. Vivere in funzione dell’unica fine certa della vita significa vivere proiettati verso la morte. Quella fine è presente qui e ora come il fine della vita, il che significa che qualsiasi momento è il momento della morte. La morte non può essere rinviata al futuro e riservata alla vecchiaia. Una volta vecchi, può darsi che non si sia più in grado di fare esperienza della morte, ma solo di riprodurne le movenze esteriori. Oppure quell’esperienza l’avremo già vissuta, e allora la morte biologica avrà perduto il suo pungiglione. Perché la morte biologica non può disfare i risultati fondamentali conseguiti dall’anima. La morte biologica ha potere assoluto sulla vita soltanto quando non si è dato spazio alla morte nel pieno della vita. Rifiutando l’esperienza della morte rifiutiamo anche il problema di fondo della vita e lasciamo la vita incompiuta. Allora, la morte biologica ci impedisce di affrontare le domande ultime e blocca la nostra possibilità di redenzione. Per evitare questo stato dell’anima, che la tradizione chiama dannazione, abbiamo l’obbligo di andare alla morte prima che la morte venga a noi. La filosofia ci rammenta che noi ci costruiamo di giorno in giorno in vista della morte. Costruiamo dentro di noi la nostra «nave della morte». Da questa prospettiva, fabbricandoci la nostra morte ci uccidiamo quotidianamente, sicché ogni morte è un suicidio. Ci venga da «un leone, un precipizio, una febbre», ciascuna morte è opera nostra.
Allora, non c’è bisogno di pregare con Rilke: «O Signore, dai ad ognuno la sua morte», perché è appunto questo che Dio ci dà, anche se preferiamo non vederlo. Quando un uomo costruisce la struttura della sua vita in verticale, come un grattacielo, e sale, uno scalino dopo l’altro, un piano dopo l’altro, solo per gettarsi dalla finestra più alta o essere abbattuto da un attacco cardiaco o da un ictus, non ha forse portato a termine il suo progetto architettonico e Dio non gli ha forse dato la sua morte? In questa ottica, il suicidio non è più uno dei modi per entrare nella morte, ma ogni morte è un suicidio, e la scelta del modo (un incidente automobilistico, un attacco cardiaco o uno di quei gesti chiamati di solito suicidio) lo rende soltanto più o meno evidente. Andando incontro alla morte consapevolmente, dice la filosofia, possiamo costruire la nave migliore. Idealmente, con gli anni, la costruzione diventa più incorruttibile, sicché il passaggio dalla carne sempre più debole alla morte può avvenire senza paura, felicemente e con facilità. Questa morte che costruiamo dentro di noi è quella struttura permanente, quel corpo sottile («subtle body»), in cui l’anima trova alloggio in mezzo alla corruzione dell’impermanenza. Ma la morte non è una cosa facile; e il morire è una faccenda straziante, sporca, crudele e piena di dolore. Andare incontro alla morte consapevolmente, come propone la filosofia, deve dunque essere una grande conquista umana, additata alla nostra imitazione dalle figure dei nostri eroi religiosi e culturali. Nel cimentarsi con il problema del suicidio, l’analista farà bene, come primo passo, a prendere in considerazione la filosofia. Per alcuni, il suicidio può essere un gesto inconsciamente filosofico, un tentativo di comprendere la morte congiungendosi con lei. L’impulso di morte non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita; potrebbe esprimere il bisogno imperioso di incontrare la realtà assoluta, la richiesta impellente di una vita più piena attraverso l’esperienza della morte.
Senza l’angoscia della morte, senza le prevenzioni di posizioni precostituite, senza alcun pregiudizio patologico, ecco che il suicidio diventa «naturale». Naturale, perché è una possibilità della nostra natura, una scelta aperta a ciascuna psiche umana. La preoccupazione dell’analista non riguarda tanto la scelta suicida in sé, quanto il come aiutare l’altro a comprendere il significato di quella scelta, l’unica che pretende l’esperienza diretta della morte. Uno dei significati principali di quella scelta è l’affermazione dell’importanza della morte per l’individualità. Con la crescita dell’individualità, cresce anche la possibilità del suicidio. La sociologia e la teologia, come abbiamo visto, riconoscono questo fatto. Dove l’uomo è padrone di se stesso, dove è responsabile in prima persona delle proprie azioni (come avviene nelle culture urbane, nel bambino non amato, nelle culture protestanti, nelle persone creative), la scelta della morte diventa un’alternativa più frequente. In questa scelta della morte si cela, naturalmente, il suo contrario. Finché non possiamo scegliere la morte, non possiamo scegliere la vita. Finché non possiamo dire di no alla vita, non le abbiamo detto davvero di sì, ma siamo soltanto stati trascinati dalla sua corrente collettiva. Per l’individuo che si oppone a questa corrente la morte diventa la prima di tutte le alternative, perché colui che si oppone alla corrente della vita è il suo nemico e finisce per identificarsi con la morte. Di nuovo, l’esperienza della morte è necessaria per distaccarsi dal flusso collettivo della vita e scoprire l’individualità. L’individualità richiede coraggio. E fin dall’epoca classica il coraggio è sempre citato, in tutti i dibattiti sul suicidio: occorre coraggio per scegliere il cimento della vita e occorre coraggio per entrare nell’ignoto per propria autonoma scelta. Alcuni scelgono la vita perché hanno paura della morte e altri scelgono la morte perché hanno paura della vita. Non possiamo valutare con equità la viltà e il coraggio dall’esterno. Ma possiamo comprendere come mai il suicidio sollevi il problema del coraggio; il suicidio, infatti, ci obbliga
a trovare la nostra posizione individuale sulla questione di fondo: essere o non essere. Il coraggio di essere (come ci si compiace di dire oggi) non significa semplicemente scegliere la vita nel mondo. La vera scelta è scegliere se stessi, la propria verità individuale, compreso il più brutto degli uomini, come Nietzsche chiama il male che è dentro di noi. Continuare a vivere, sapendo che razza di mostri siamo, richiede davvero coraggio. E non pochi suicidi possono discendere dall’esperienza schiacciante della propria malvagità, un’intuizione che coglie più facilmente le persone dotate sul piano creativo, quelle psicologicamente sensibili e le persone schizoidi. Chi è, allora, il codardo e chi scaglia la prima pietra? Noi, tutti noi che simili a bestie sopravviviamo, ridotti nella nostra ottusità all’ombra di noi stessi. Ogni analisi si imbatte nella morte, in una forma o nell’altra. Nei sogni, il sognatore assiste alla propria morte, e poi c’è la morte di altre figure interiori; parenti che muoiono; carriere interrotte per sempre; atteggiamenti che decadono; la morte dell’amore; esperienze di perdita e di vuoto descritte come un morire; la percezione della presenza della morte e il terrore di morire. Alcuni, da sempre un po’ innamorati, come Keats, della «dolce morte», la invocano per sé o per altri, desiderano uccidere o essere uccisi. C’è la morte nel volare verso il sole come il giovane Icaro, nelle scalate al potere, nelle arroganti ambizioni delle fantasie di onnipotenza, in cui basta una zampata di odio e di rabbia e tutti i nemici sono cancellati. Alcuni sembrano sospinti verso la morte; altri ne sono braccati; altri ancora sono attirati dal richiamo di ciò che empiricamente si può solo definire «l’altro lato», la nostalgia per un amore, per un genitore o un figlio defunti. Altri hanno forse avuto una lancinante visione mistica di incontro con la morte, che da allora li perseguita nella forma di un’esperienza non compresa alla quale anelano ritornare. Per alcuni, ogni separazione è una morte e partire è morire. Ci sono persone che si sentono oggetto di una maledizione, nella certezza che la loro vita sia
un ineluttabile percorso verso la catastrofe, una catena di atti del destino il cui ultimo anello ha nome suicidio. Alcuni possono avere scampato la morte in una strage o in guerra, ma dentro di sé non si sono salvati e quell’angoscia viene messa in scena sempre di nuovo. Le fobie, le coazioni e l’insonnia possono rivelare un nucleo di morte. La masturbazione, solitaria e negatrice del richiamo dell’amore e, come il suicidio, chiamata «il male inglese», evoca fantasie di morte. La morte può interferire nei «come» morali della vita: il bilancio della propria esistenza, la fede, i peccati, il destino; come siamo arrivati al punto in cui siamo e come proseguire. O anche: se proseguire. Per comprendere tutte queste configurazioni della morte, l’analisi non può rivolgersi ad altro che all’anima, per sentire che cosa ha da dire sulla morte. L’analisi elabora le sue idee sulla morte empiricamente, a partire dall’anima stessa. Anche in questo Jung è stato un pioniere. Si è semplicemente posto all’ascolto dell’anima che racconta le proprie esperienze e ha osservato le immagini che la psiche vivente produce per rappresentare la meta della vita. In questo, Jung non è stato né un filosofo né un medico né un teologo, ma uno psicologo, uno studioso dell’anima. Ha scoperto che la morte ha molte sembianze e che nella psiche non si presenta di solito in quanto tale, come estinzione, negazione, fine di tutto. Nei sogni e nelle fantasie, le immagini e le idee della morte hanno tutt’altri significati. L’anima attraversa molte esperienze di morte, eppure la vita fisica continua; e quando la vita fisica si avvicina al suo termine, spesso l’anima produce immagini ed esperienze che indicano continuità. Si direbbe che il processo di costruzione della coscienza sia senza fine. Per la psiche, né l’immortalità è un dato di fatto né la morte è una fine. Non è possibile dimostrare la sopravvivenza e neppure confutarla: la psiche lascia aperta la questione. Il voler trovare prove e dimostrazioni dell’immortalità è segno di confusione concettuale, perché prove e dimostrazioni sono categorie della scienza e della logica: è la
mente che usa queste categorie e che viene convinta dalle prove. Perciò la mente può essere sostituita dalle macchine e l’anima no. L’anima non è la mente e possiede altre categorie per trattare il problema dell’immortalità. Per l’anima, gli equivalenti delle prove e delle dimostrazioni sono la fede e il significato, che sono altrettanto difficili da sviluppare e da chiarire, con cui è altrettanto difficile confrontarsi. Con la questione della vita dopo la morte l’anima si confronta alla luce delle proprie esperienze. È su quelle esperienze, non sui dogmi o sulla logica o sull’evidenza empirica, che si costruiscono i punti di vista della fede. E il semplice fatto che la psiche possieda questa facoltà di credere, inattaccabile da tutte le prove e le dimostrazioni, ci fa propendere per la possibilità dell’immortalità psichica. Immortalità psichica non significa né resurrezione della carne né sopravvivenza personale in un aldilà. La prima si riferisce all’immortalità del corpo, la seconda all’immortalità della mente. Noi stiamo parlando dell’immortalità dell’anima. Quale potrebbe essere nell’anima la funzione delle categorie della fede e del significato? Non fanno forse parte dell’equipaggiamento dell’anima per trattare con la realtà (così come prove e dimostrazioni sono gli strumenti della mente)? Se è così, allora gli oggetti della fede saranno a loro volta «reali». Questo argomento psicologico in favore dell’immortalità ha come premessa l’antica idea della corrispondenza, secondo la quale esiste un intimo nesso tra il mondo e l’anima dell’uomo. La psiche funziona in corrispondenza con la realtà oggettiva. Se l’anima possiede la funzione della fede, deve esistere una corrispondente realtà oggettiva sulla quale tale funzione si esercita. Questa è la posizione psicologica assunta, per esempio, nelle tesi teologiche secondo cui soltanto i credenti andranno in Paradiso: senza la funzione della fede, viene a mancare la corrispondente realtà del Paradiso. Questo approccio psicologico all’immortalità può essere espresso anche in un altro modo: come insegna Jung, il
concetto di energia e della sua indistruttibilità era una nozione antichissima e molto diffusa, variamente associata all’idea di anima, e questo ben prima che Robert Mayer formulasse in una legge scientifica il principio della conservazione dell’energia. Non può prescindere da questa immagine primordiale nemmeno la moderna psicologia scientifica, che tuttora parla della psiche in termini dinamici. Ciò che in psicologia è l’immortalità e reincarnazione dell’anima, in fisica è la conservazione e trasformazione dell’energia. Nella fisica, la certezza della mente che l’energia sia «eterna» è data come legge, e corrisponde alla convinzione dell’anima di essere immortale, mentre il senso di immortalità è la percezione interiore dell’eternità dell’energia psichica. Perché, se la psiche è un fenomeno energetico, allora è indistruttibile. La sua esistenza in «un’altra vita» non può essere dimostrata, come non può essere dimostrata l’esistenza dell’anima in questa vita. La sua esistenza è data soltanto psicologicamente, sotto forma di certezza interiore, cioè come fede. Quando ci domandiamo come mai ogni analisi si imbatta tanto spesso e in tante forme diverse nell’esperienza della morte, scopriamo, innanzitutto, che la morte compare allo scopo di aprire la strada alla trasformazione. Il fiore avvizzisce intorno alla sua capsula gonfia di semi, il serpente lascia cadere la vecchia pelle, l’essere umano adulto si sbarazza dei comportamenti infantili. Nel produrre il nuovo, la forza creativa uccide. Gli scompigli e le perturbazioni che chiamiamo nevrosi possono essere visti come una lotta tra la vita e la morte in cui i contendenti sono mascherati. Ciò che il nevrotico chiama morte, essenzialmente perché è oscuro e ignoto, è una nuova vita che cerca di fare breccia nella coscienza; ciò che egli chiama vita, perché è familiare, non è che una struttura moribonda che egli cerca di mantenere in vita. L’esperienza della morte demolisce l’ordine precedente, e nella misura in cui l’analisi è un prolungato «crollo psichico» (che crea anche, via via, nuove sintesi), fare
l’analisi significa morire. La paura all’idea di cominciare un’analisi smuove questi terrori profondi, sicché il problema della resistenza non può essere preso in maniera superficiale. Se il vecchio ordine non muore al mondo, non si dà spazio al rinnovamento, giacché, come vedremo più avanti, è illusorio sperare che la crescita sia un processo cumulativo, che non richiede né sacrificio né morte. L’anima promuove l’esperienza della morte per far entrare il cambiamento. Visto in questo modo, l’impulso suicida è una pulsione trasformativa. Che dice: «La vita così come si presenta deve cambiare. Qualcosa deve togliersi di mezzo. Quella del “Domani, e domani, e domani” è una storia raccontata da un idiota [Macbeth, V, 5, v. 19]. Il meccanismo deve arrestarsi del tutto. Ma, dal momento che non posso intervenire sulla vita del mondo, dopo avere tentato di tutto, porrò fine alla vita qui, nel mio corpo, l’unica parte del mondo oggettivo sulla quale ancora ho potere. Porrò fine a me stesso». Se esaminiamo questo ragionamento, vediamo come dalla psicologia esso conduca alla ontologia. Il movimento verso l’arresto totale, verso quell’appagamento nella stasi dove ogni processo finisce, è un tentativo di entrare in un altro livello della realtà, di passare dal divenire all’essere. Porre fine a se stessi significa arrivare al termine di sé, trovare la fine o il limite di ciò che si è, per arrivare a ciò che non si è: non si è ancora. «Quello» al posto di «questo»; un livello è azzerato in cambio di un altro livello. Il suicidio è il tentativo di passare violentemente da una sfera a un’altra, attraverso la morte. Il movimento verso un altro aspetto della realtà può essere formulato mediante una serie di opposti fondamentali, come corpo e anima, esterno e interno, attività e passività, materia e spirito, qui e oltre, che vengono simboleggiati nel binomio vita e morte. L’angoscia che precede il suicidio rappresenta la lotta dell’anima con il paradosso di tutti questi opposti. La decisione di suicidarsi è una scelta tra queste contraddizioni che appaiono impossibili
da riconciliare. Una volta compiuta la scelta e superata l’ambivalenza (come evidenziano gli studi di Ringel e di Morgenthaler sulle lettere di addio dei suicidi), la persona è di solito decisa e calma e non dà segno dell’intenzione di uccidersi. È già passata dall’altra parte. Questa calma corrisponde all’esperienza di coloro che sono alle prese con la morte fisica. «Pochi, molto pochi» ebbe a scrivere Sir William Osler «soffrono acutamente nel corpo, e meno ancora sono quelli che soffrono nella mente». L’agonia ha luogo prima del momento della morte biologica. La morte arriva innanzitutto come esperienza dell’anima; solo dopo il corpo si spegne. «Nei moribondi» scrive Karlis Osis «la paura non è l’emozione dominante», mentre frequente è un senso di euforia e di esaltazione. A conclusioni analoghe giungono altre ricerche sul processo del morire. La paura di morire riguarda l’esperienza della morte, che è distinta dalla morte fisica e non dipende da essa. Se quello al suicidio è un impulso trasformativo, possiamo considerare l’incubo, così presente oggi, di un suicidio di massa dell’umanità mediante la bomba atomica come un tentativo della psiche collettiva di rinnovarsi sbarazzandosi dei lacci della storia e del peso delle cose materiali che essa ha accumulato. In un mondo in cui gli oggetti e la vita fisica dominano su tutto, in cui i beni materiali sono diventati «il bene», ciò che potrebbe distruggere tali beni, e noi con loro a causa del nostro attaccamento, diventerà, naturalmente, «il male». Eppure: non potrebbe questo male essere anche, in certe situazioni, un bene travestito, nel senso che mette in evidenza quanto siano precari e relativi i nostri valori correnti? Attraverso l’atomica, viviamo all’ombra della morte. E mentre l’esistenza dell’atomica può avvicinarci all’esperienza della morte, non è detto che il suicidio di massa sia a sua volta più vicino. Dove si sta aggrappati alla vita, il suicidio assume la fascinazione ossessiva dell’annientamento nucleare. Ma dove la morte collettiva è una presenza quotidiana, come nei campi di concentramento
nazisti o in tempo di guerra, il suicidio è un fenomeno raro. Quello che voglio dire è: quanto più l’esperienza della morte è immanente, tanto maggiore è la possibilità di trasformazione. L’umanità è più vicina a un suicidio collettivo, certo; ma non è vero che esso debba essere messo concretamente in atto. Ciò che deve avvenire, se non si arriva concretamente al suicidio, è una trasformazione della psiche collettiva. L’atomica potrebbe dunque essere la mano oscura di Dio, quella mano che Egli ha mostrato a Noè e agli abitanti delle «città della pianura», e ci sollecita non già alla morte, bensì alla radicale trasformazione della nostra anima. Nelle persone in cui l’impulso suicida non è associato direttamente all’Io, ma sembra essere una voce, una figura o un contenuto dell’inconscio che forza, induce o ordina l’uccisione di sé, forse quella voce sta dicendo: «Non potremo incontrarci nuovamente finché non sarà avvenuto un cambiamento, un cambiamento che ponga fine alla tua identificazione con la tua vita concreta». Le fantasie di suicidio offrono la liberazione dalla consueta e letterale visione delle cose, consentendo così di ricollegarsi con le realtà dell’anima. Quelle realtà si presentano, oltre che come impulsi, come immagini e voci, con le quali diventa possibile comunicare. Ma per dialogare con la morte, occorre assumere come una realtà il regno dell’anima, con i suoi spiriti notturni, le sue emozioni arcane e le sue voci incorporee, dove la vita è disincarnata e altamente autonoma. Allora, quelli che sembrano impulsi regressivi possono rivelare i loro valori positivi. Per esempio, il giovane che dopo una bocciatura si impicca o si fa saltare le cervella voleva soffocare il suo spirito, perché ha aspirato con troppo accanimento a volare troppo alto: la morte è oscura e dolce; la passività e l’inerzia della materia lo riportano sulla terra. La melanconia, quella nera afflizione nella quale si consumano tanti suicidi, esprime la forza di gravità che attira verso il basso, dentro le ossa fredde e buie della realtà. La depressione circoscrive lo sguardo e lo concentra sulle cose essenziali, e il suicidio è la
negazione definitiva dell’esistenza in nome dell’essenza. Oppure, attraverso i pensieri suicidi la figura del padre morto continua (come lo spettro del padre di Amleto) ad affascinare la figlia. Quando lei si volge a guardarlo, lo sente dire: «Ti sei smarrita nelle cose del mondo perché hai dimenticato tuo padre e hai sotterrato le tue aspirazioni. Devi morire per ascendere». Anche in certe lettere di addio, per esempio di un marito che spiega di volersi suicidare per non essere di ostacolo alla libertà e alla felicità della moglie, si coglie il desiderio di pervenire attraverso il suicidio a una nuova condizione dell’essere. C’è un tentativo di trasformazione. La trasformazione, quando è autentica e completa, tocca sempre il corpo. Il suicidio riguarda sempre per qualche verso un problema con il corpo. Le trasformazioni che segnano il passaggio dall’infanzia alla fanciullezza sono accompagnate da modificazioni fisiche della struttura corporea e delle zone libidiche; lo stesso vale per tutti i più importanti momenti di trasformazione della vita, nella pubertà, nella menopausa, nella vecchiaia. Sono crisi emotive che trasfondono gioia e angoscia nel corpo e modificano aspetto e costituzione fisica. I riti di iniziazione sono prove della carne. L’esperienza della morte enfatizza nel corpo la trasformazione e il suicidio è un attacco alla vita del corpo. È pertinente, qui, l’idea platonica secondo la quale l’anima è prigioniera nel corpo e ne viene liberata dalla morte. Ci sono persone che si sentono da sempre straniere nel proprio corpo. Per incontrare il regno dell’anima come realtà, nel senso che attribuiamo di solito al termine realtà, occorre invero morire al mondo. Di qui può nascere l’impulso a distruggere la prigione del corpo. E, poiché non potremo mai sapere se l’antica idea di un’anima immortale in un corpo mortale sia vera oppure no, l’analista dovrà almeno provvisoriamente considerare il suicidio alla luce di una contrapposizione tra corpo e anima. L’attacco alla vita corporea rappresenta per alcuni un tentativo di distruggere la base affettiva della coscienza
egoica. Le mutilazioni suicidarie costituiscono una distorsione estrema di questa forma di esperienza della morte. Per comprenderle, possiamo riportarle alle tecniche di meditazione orientali o alle immagini universali del sacrificio dell’animale, la vita corporea. Poiché le immagini e le fantasie mobilitano all’azione, si cercano metodi per eliminare dai contenuti psichici l’impulso affettivo. La memoria viene purgata del desiderio. Perché l’azione sia depurata dell’impulso e perché l’immagine sia resa disponibile per il gioco immaginativo e la concentrazione meditativa, il desiderio del corpo deve morire. Ma non nel senso che debba morire direttamente, con il suicidio, che in questo caso costituirebbe un’interpretazione letteralistica di una necessità psicologica. La necessità è semplicemente quella di separare affetto e immagine, in moda da pervenire a una consapevolezza che trascenda le limitazioni egocentriche. Tale separazione avviene mediante l’introversione della libido, rappresentata archetipicamente dal complesso dell’incesto: il desiderio corporeo si congiunge con l’anima, anziché con il mondo. Attraverso questa congiunzione, l’impulso affettivo diventa allora totalmente psichico ed è trasformato. Nel fare presente con insistenza il suo bisogno impellente di trasformazione, la psiche a volte usa, oltre alla morte, anche altri simboli, come immagini di nascita e di crescita, trasposizioni spaziali e temporali, e simili. La morte, tuttavia, è il simbolo più efficace, perché porta con sé quell’intensa emozione senza la quale non è possibile alcuna trasformazione. L’esperienza della morte costituisce la sfida più impegnativa, in quanto esige la risposta di tutto l’essere. Significa che ogni processo si arresta. Obbliga a confrontarsi con la tragedia, la quale non lascia vie d’uscita se non quella di proseguire ed entrarvi dentro. La tragedia nasce sempre in extremis, quando si è messi con le spalle al muro e non resta che tentare il salto mortale verso un altro piano dell’essere. La tragedia è il salto che fa uscire dalla storia per entrare nel mito; la vita personale è trafitta dai dardi
impersonali del fato. L’esperienza della morte offre a ciascuna esistenza l’apertura alla tragedia, giacché, come avevano visto i romantici, la morte annulla il meramente personale e traspone la vita nel registro eroico, in cui vengono modulati non solo l’avventura, l’esperimento e l’assurdo, ma in cui, di più, risuona il senso tragico della vita. Poiché tragedia e morte sono necessariamente intrecciate, l’esperienza della morte ha la violenza lancinante della tragedia e il senso tragico della vita è la consapevolezza della morte. Gli altri simboli di trasformazione (nascita, crescita, trasposizioni spaziali e temporali) indicano tutti con chiarezza l’avvento di una nuova fase e la rappresentano prima che quella in corso sia conclusa. Dispiegano nuove possibilità, consentendo la speranza; invece, l’esperienza della morte non fa mai l’effetto di una transizione. È la transizione per eccellenza, ma, paradossalmente, dice che non c’è futuro: è arrivata la fine. Tutto è finito, è troppo tardi. Sotto la pressione di quel: «è troppo tardi», nella consapevolezza che la vita è fallita e non c’è più rimedio, ecco offrirsi il suicidio. In questo caso, il suicidio esprime l’urgenza di una trasformazione precipitosa. Non è una morte prematura, come direbbe la medicina, ma la reazione tardiva di una vita procrastinata, che non si è trasformata passo per passo durante il suo svolgimento. Vorrebbe morire tutto in una volta, adesso, perché, prima, ha saltato le crisi incentrate sulla morte. Questa impazienza e intolleranza rispecchiano un’anima che non è stata al passo della sua vita; o, nel caso di persone non più giovani, una vita che non nutre più di esperienze un’anima ancora affamata. Per i vecchi ci sono le colpe, i peccati da espiare e, allora, ecco che mi assumo il ruolo del boia. Oppure, mia moglie, o mio marito, sono morti; anche se non c’è certezza di una vita oltre la morte, una pur minima possibilità di ritrovarci «dall’altra parte» esiste, mentre quaggiù è solo sterile dolore. O, ancora, c’è la sensazione di essere già morti; una
apatica indifferenza, che dice: «Non mi importa se vivo o muoio». L’anima ha già abbandonato il mondo nel quale il corpo si muove come una sagoma di cartone. In ciascun caso, il tempo è fuor di sesto e il suicidio lo rimetterà a posto [Amleto, I, 5, vv. 188-89]. Quando si presenta nell’analisi, l’esperienza della morte è spesso associata a quelle figure primarie della psiche che sono Anima e Animus. Le lotte con le seduzioni di Anima e con le trame di Animus sono duelli con la morte. Nella vita adulta, tali lotte sono più letali di quanto non lo siano le minacce di immagini materne e paterne negative. Le sfide di Anima e Animus mettono a repentaglio addirittura la vita dell’organismo, perché il nucleo di queste dominanti archetipiche è psicoide, cioè è connesso strettamente, attraverso l’emotività, con la vita fisica del corpo. Malattie, criminalità, psicosi e tossicodipendenze sono soltanto alcune delle più vistose manifestazioni degli aspetti di morte degli archetipi di Anima e Animus. Volta dopo volta, Animus si presenta come l’assassino e Anima come la tentatrice che all’apparenza conduce l’uomo dentro la vita, ma solo per distruggerlo. La psicologia junghiana offre profonde intuizioni su queste due specifiche figure portatrici della morte presenti nell’anima. Durante l’analisi, l’analizzando scopre la morte dappertutto intorno a sé, specialmente nei sogni. Nei sogni, fa a pezzi il vecchio ordine, lo brucia, lo seppellisce. Gli edifici crollano; dai muri escono marciume, vermi, fiamme. Segue cortei funebri, entra in cimiteri, dove risuonano musiche arcane. Scorge cadaveri sconosciuti, vede donne in preghiera, sente il rintocco della campana. Legge il suo nome scritto sull’album di famiglia, su un registro, su una lapide. Il suo corpo si disintegra; vengono per smembrarlo il chirurgo, il giardiniere, il boia. Un giudice emette il verdetto di condanna, un prete somministra l’estrema unzione. C’è un uccello stramazzato al suolo. L’orologio scandisce la mezzanotte; oppure le cose accadono in sinistri gruppi di tre.
Compaiono artigli, bare, sudari, maschere ghignanti dai denti aguzzi. E falci, serpenti, cani, ossa, cavalli bianchi e neri e corvi, presagi di distruzione. Viene reciso un filo, abbattuto un albero. Oggetti che finiscono in fumo. Ci sono tracce di cancelli, e soglie. Il sognatore è guidato in luoghi sotterranei da una figura femminile ambigua; o, se chi sogna è una donna, la strada è indicata da occhi, dita, ali o voci senza corpo. Oppure hanno luogo un matrimonio, un rapporto sessuale con un angelo, una danza magica, una veglia funebre che finisce nella violenza, un banchetto ancestrale con vivande simboliche, un viaggio in una terra meravigliosa e felice. Si avverte un freddo umido, come di tomba, e una folata improvvisa di vento gelido. C’è la morte per acqua, per fuoco, per aria e per sepoltura nella terra. Il sognatore galleggia nel coma, nell’estasi, nella trance di una passività senza sforzo. Oppure è impigliato in una rete o in una ragnatela. Assiste alla morte di tutte le figure portatrici di modalità di adattamento non più valide, raffigurate nei beniamini dell’infanzia, negli eroi mondiali, o anche negli animali, nei fiori o negli alberi prediletti. Mentre nella vita quotidiana sbiadiscono i rapporti di un tempo, si hanno partenze e separazioni e le vecchie abitudini decadono, il sognatore si ritrova eremita in una grotta, in riva ad acque stagnanti, assetato nel deserto, sull’orlo di un abisso, su un’isola remota. O ancora, è minacciato da forze della natura (il mare, i fulmini), inseguito da branchi di animali, da assassini (ladri, violentatori) o da macchine sinistre. Oppure è lui che si accanisce sulla propria persona. La varietà di immagini che esprimono l’esperienza della morte sembrerebbe illimitata. Ciascuna racconta il modo in cui la visione che la coscienza ha della morte è riflessa dall’inconscio, in tutta la gamma dalla fuga fortunata al brutale assassinio. Ogni volta che incontriamo queste immagini e inizia un nuovo giro di sofferenze, è un pezzo di vita che viene abbandonato, e dobbiamo passare attraverso la perdita, il lutto, il dolore. E la solitudine e il vuoto. Ogni volta qualcosa è giunto alla fine.
Quando l’esperienza della morte ripropone insistentemente immagini di suicidio, allora quello che sta per giungere alla fine è l’«io» del paziente, con tutto ciò che egli considera tale. L’intera rete e struttura va demolita, ogni legame sciolto, ogni vincolo allentato. Quell’«io» sarà totalmente e incondizionatamente liberato. La vita che gli è stata costruita intorno è diventata una gabbia di identificazioni, che va abbattuta; spesso, per gli uomini, questo si fa con la violenza della forza maschile; per le donne, è un dissolversi nel morbido abbraccio della natura, mediante annegamento, asfissia o con il sonno. Non ha più importanza che cosa verrà dopo, nel senso di chiedersi se sarà meglio o peggio; di sicuro quello che verrà dopo sarà qualcosa di radicalmente diverso, sarà il Totalmente Altro. Quello che verrà dopo è irrilevante, perché svia dall’esperienza della morte e la prosciuga del suo effetto. È quell’effetto che conta, niente altro. Come verrà, e quando, sono interrogativi secondari, rispetto al perché avviene. Dall’evidenza che la psiche esprime, l’effetto dell’esperienza della morte è quello di mandare a segno, in un momento critico, una trasformazione radicale. Intervenire a questo punto con misure preventive in nome della conservazione della vita frustrerebbe quella trasformazione radicale. Una crisi vera è un’esperienza di morte; non si può avere l’una senza l’altra. Dobbiamo dunque concludere che l’esperienza della morte è una condizione necessaria per la vita psichica. Questo implica che la crisi suicidaria, poiché è uno dei modi di fare esperienza della morte, deve essere considerata necessaria per la vita dell’anima.
5 Di fronte al rischio di suicidio
L’esperienza della morte è necessaria, ma lo è anche il suicidio in concreto? Come procede l’analista, quando l’esperienza della morte è veicolata da fantasie suicide? Come può rispondere ai bisogni del suo analizzando, mantenendo però separate necessità interne e necessità esterne? Quello di mantenere distinti interno ed esterno è uno dei compiti più importanti dell’analista. Se userà bene i suoi strumenti, libererà la vita dai grovigli delle proiezioni e l’anima dalla sua identificazione con il mondo. Interno ed esterno sono tenuti distinti affinché, in seguito, possano essere ricongiunti nel modo giusto, con l’anima che si esprime nel mondo e la vita esterna che nutre l’uomo interiore. La minaccia del suicidio, al pari di qualsiasi problema che induce una persona a entrare in analisi, è una confusione di interno ed esterno. Noi soffriamo quando mischiamo la realtà psichica con persone ed eventi concreti, riducendo così la vita a simbolo e distorcendone la realtà. E reciprocamente: soffriamo quando riusciamo a fare esperienza della realtà psichica soltanto agendo all’esterno, concretamente, le nostre fantasie e idee. Esistono una «storia clinica» e una «storia dell’anima», in cui esterno e interno, vita e anima, sembrano procedere in parallelo, senza incontrarsi mai. La storia clinica è una sequenza di fatti storici che ci hanno visti partecipi: famiglia, scuola, lavoro, malattie, guerre, amori. La storia dell’anima spesso trascura del tutto alcuni o molti di tali fatti e inventa spontaneamente storie e paesaggi interiori, senza grandi correlazioni con l’esterno. La storia dell’anima riguarda l’esperienza. Sembra non seguire la direzione univoca del flusso temporale ed è raccontata nel modo migliore dalle
emozioni, dai sogni e dalle fantasie. Interi archi di anni e di eventi sono bellamente ignorati, mentre i sogni gravitano e si muovono in cerchio attorno a certi aspetti della storia clinica in quanto simboli del senso che porta l’esperienza dell’anima. Tali esperienze devono la loro esistenza alla naturale attività creatrice di simboli propria della psiche. Le esperienze che nascono da sogni, crisi e intuizioni importanti conferiscono definizione alla personalità. Hanno anch’esse «nomi» e «date», come gli eventi esterni della storia clinica; sono una sorta di cippi che segnano i confini del territorio individuale e sono più difficili da negare dei fatti esterni della vita; nei sogni, per esempio, la nazionalità, lo stato civile, la religione, l’occupazione e perfino il nostro nome e cognome sono spesso modificati. Negare o cercare di cancellare la nostra «carta di identità» simbolica equivale a tradire la nostra natura e dunque a perderci in un anonimato senza radici, paragonabile a una catastrofe nella vita esterna, se non più grave. Nessuna analisi riduttiva riuscirà mai a svuotare di senso quei simboli con il riferirli a traumi esterni. La storia clinica riporta i successi e i fallimenti della vita rispetto al mondo dei fatti. Ma per l’anima successi e fallimenti non sono gli stessi, perché l’anima non funziona allo stesso modo. Il suo materiale è l’esperienza e i suoi risultati non si realizzano mediante sforzi della volontà. L’anima immagina e gioca, e il gioco non è riportato nelle cronache. Che cosa resta degli anni del nostro giocare infantile che potrebbe essere trascritto in una storia clinica? I bambini, e i cosiddetti «popoli primitivi», non hanno una storia; hanno invece la sostanza residua del loro gioco cristallizzata nel mito e nel simbolo, nel linguaggio e nell’arte, e in un certo stile di vita. Fare la storia di un’anima significa catturare emozioni, fantasie e immagini partecipando al gioco e sognando il mito insieme al paziente. Fare la storia di un’anima significa diventare parte del destino dell’altra persona. Mentre la storia clinica espone una sequenza di fatti che conducono a una diagnosi, la storia
dell’anima mostra piuttosto un brulichio concentrico che rimanda sempre oltre se stesso. I suoi fatti sono i simboli e i paradossi. Per fare la storia di un’anima occorrono lo sguardo intuitivo dei diagnostici di una volta e una comprensione immaginativa degli stili di vita che nessuna accumulazione e interpretazione di dati della storia clinica può sostituire. Non si può cogliere la storia di un’anima attraverso la storia clinica. Ma si può cogliere la storia clinica di una persona mediante la prolungata esplorazione della sua storia animica, e l’analisi è appunto questo. Man mano che l’analisi procede, si assiste a un movimento verso l’interno, dalla storia clinica alla storia animica: l’analisi ora esplora i complessi sempre più per i loro significati archetipici e sempre meno per la loro evoluzione traumatica. La storia dell’anima viene recuperata separandola dagli offuscamenti cui è andata soggetta nella storia clinica. Per esempio, genitori, fratelli, sorelle ridiventano le persone che sono nella realtà, senza più le distorsioni provocate dai significati interiori di cui erano state gravate. La riscoperta della storia dell’anima si manifesta nel risvegliarsi della vita emotiva, fantastica e onirica; in un senso mitologico del destino compenetrato dell’elemento transpersonale e caratterizzato da un tempo non deterministico, acausale. Riflette l’avvenuta «guarigione» da una identificazione cronica dell’anima con eventi, luoghi e persone del mondo esterno. Quando avviene questa separazione, ecco che io non sono più un caso clinico, bensì una persona. La storia dell’anima emerge man mano che mi scrollo di dosso la storia clinica, ovvero, in altre parole, man mano che muoio al mondo inteso come arena di proiezioni. La storia dell’anima è un necrologio in vita, che registra la vita dal punto di vista della morte, restituendo l’unicità di una persona sub specie aeternitatis. Mentre ci costruiamo la nostra morte, nello stesso tempo andiamo scrivendo il nostro necrologio nella storia della nostra anima. Il fatto che esista una storia dell’anima ci obbliga a considerare da questo punto di vista la morte dei nostri
analizzandi. Nelle storie cliniche, la morte in un incidente stradale è classificata diversamente dalla morte per overdose di sonniferi. Le morti per malattia, per incidente e per suicidio sono considerate tipi di morte differenti; e di fatto lo sono, viste dall’esterno. Nemmeno le classificazioni più raffinate (suicidio non intenzionato, intenzionato e subintenzionato) sanno dare pieno credito al coinvolgimento della psiche in ciascuna morte. Queste categorie non danno pieno riconoscimento al fatto che l’anima sta sempre meditando la morte. Nel senso in cui l’intendeva Freud, Thanatos è sempre presente; l’anima ha bisogno della morte e la morte risiede nell’anima permanentemente. L’analista è implicato in misura diversa nei diversi tipi di morte? È più responsabile in caso di suicidio, dove la morte è intenzionata, che non di incidente, dove è subintenzionata, o di cancro, una morte non intenzionata? La sua decisione riguardo a una morte, a prescindere da come è avvenuta, dipende dalla sua comprensione della storia animica. Le domande che si rivolge cercano di porre quella morte in relazione con i simboli fondamentali, marcatori del destino, presenti nella storia di quell’anima. La sua responsabilità è nei confronti della coerenza psicologica degli eventi, della loro giustizia o organicità interiori, indipendentemente da come appaiono all’esterno. Da questa prospettiva, la pallottola dell’assassino, accidentale e non intenzionata per la vittima, può rientrare in una configurazione mitica del suo destino tanto quanto un suicidio intenzionato e consapevole dopo anni di tentativi falliti. Perché non è soltanto una morte che rientri nella psicodinamica personale di una storia clinica e sia spiegabile secondo determinati sistemi motivazionali a poter essere considerata la morte giusta o la morte necessaria. Ci sono morti ingiuste, come quella dell’eroe, del compagno soccorrevole, della figura animica dell’amore, di quell’Uomo sulla croce, le quali, pure, hanno una loro giustizia tragica. Rientrano in una precisa configurazione mitica. Nei miti c’è spazio per ciò che è ingiusto e tuttavia necessario.
I miti governano le nostre vite. Pilotano da sotto le storie cliniche attraverso la storia animica. L’irrazionalità, l’assurdità e l’orrore di quegli esperimenti della natura che sono le nostre vite sono assunti su di sé dalle immagini e dai motivi mitologici, diventando in tal modo un po’ più comprensibili. Ci sono persone che devono vivere malamente la vita e poi morire malamente. Come altrimenti possiamo spiegarci il crimine, la perversità, il male? L’affascinante intensità di tali vite e di tali morti mostra che sono all’opera cose che trascendono il meramente umano. Il mito, che concede pieno spazio a ogni sorta di atrocità, offre allo studio di vite e morti siffatte un maggior grado di oggettività di qualsiasi analisi delle motivazioni personali. L’analista non ha certo un accesso privilegiato ai segreti della natura. Non è capace di decrittare il codice e di dare spiegazioni oracolari. Può, tuttavia, deo concedente, grazie alla sua dimestichezza con la storia dell’anima e con i mitologemi in essa dispiegati, tentare di arrivare al fondo delle cose, al di sotto di ogni considerazione di motivi razionalmente esplicabili e di moralismi sul bene e sul male. Del resto, la moralità razionale della vita è sempre stata un tema aperto alla discussione; perché la stessa cosa non deve valere per la morte? Dalla prospettiva della storia dell’anima, è l’alleanza segreta con l’analizzando a definire la responsabilità dell’analista (e lo vedremo meglio nella seconda parte del libro). La sua responsabilità si estende fino al suo coinvolgimento, alla sua partecipazione nella storia animica dell’altra persona. In linea teorica, dovrebbe essere coinvolto ugualmente in ogni tipo di morte, e non sarebbe più responsabile in caso di morte per suicidio che in qualsiasi altra. In caso di suicidio, il suo venir meno alla responsabilità non si misura tanto sul nudo atto del suicidio, come si pensa quando si dice che ogni suicidio è un fallimento terapeutico. Il suo fallimento riguarda piuttosto l’essere venuto meno all’alleanza segreta in due possibili modi: perché non è coinvolto, oppure perché non si è assunto consapevolmente
il coinvolgimento. La postura «un piede dentro e un piede fuori» va assolutamente mantenuta. Entrambi i piedi fuori è non-coinvolgimento; entrambi i piedi dentro è inconsapevolezza della responsabilità. Nessuno è responsabile della vita di un altro; ciascuno è padrone della propria vita e della propria morte. Ma siamo responsabili dei nostri coinvolgimenti. «E dunque non mandare a chiedere per chi suona la campana: suona per te»: le parole di John Donne diventano un principio ideale dell’atteggiamento dell’analista. Poiché ogni storia clinica si conclude sempre con la morte, essa è necessariamente incompleta: è condizionata dalla temporalità; non dice che cosa è successo dopo. L’anima invece sembra possedere elementi di premonizione e di trascendenza. Per l’anima, è come se la morte, e perfino il modo e il momento della morte, potessero essere irrilevanti, come se non importassero, come se per la storia animica la morte quasi non esistesse. Qui per l’analista laico ha inizio la risposta al problema del suicidio. Qui, inoltre, il punto di vista analitico e quello medico prendono strade divergenti. Il punto di vista del medico è vincolato al dovere di combattere la morte, di prolungare la vita e di tenere viva la speranza. La vita del corpo viene prima di tutto, e di conseguenza la reazione del medico deve essere volta a salvare quella vita, prolungandola: la storia clinica va tenuta aperta il più a lungo possibile. L’analista che è anche medico è obbligato dalla sua formazione e dalla sua tradizione a badare innanzitutto alla morte biologica, il che pone la morte simbolica e l’esperienza della morte al secondo posto. Ma quando l’analista medico dà più peso all’elemento fisico che non a quello psicologico, inficia il proprio punto di vista di analista. Sottovaluta l’anima come realtà primaria dell’analisi e si schiera dalla parte del corpo. In altre parole, se non abbandona lo schema teorico della medicina, l’analista medico non può spingersi fino in fondo in ciascuna analisi. Quando è a rischio la vita, egli ha l’obbligo di tradire
l’anima. Non fa più psicoterapia analitica, bensì medicina. Quando l’analista mette al primo posto la morte concreta, compie molte cose antipsicologiche. In primo luogo, ha perduto il punto di vista individuale e ha ceduto all’angoscia collettiva della morte che lo contagia attraverso l’analizzando. In tal modo, ha alimentato l’angoscia dell’altro e lo ha aiutato nella sua rimozione della morte. Questo contribuisce ad alimentare la nevrosi del paziente. Il tentativo di confrontarsi apertamente con qualsiasi cosa si presenti nell’analisi viene di colpo bloccato. Se d’altro canto l’analista privilegia la morte simbolica rispetto alla morte biologica perché ritiene la prima meno pericolosa, dimostra al paziente di avere bensì elaborato una propria posizione individuale nei confronti della morte nella psiche, ma continua a essere collettivo per ciò che riguarda la morte nel corpo. Un primo segno del fatto di avere ceduto all’angoscia collettiva della morte consiste nell’interrompere le sedute individuali per affidare il paziente a un’istituzione collettiva. Quando l’analista si comporta così, vuol dire che ha accantonato il punto di vista psicologico, perdendo con ciò il contatto con l’anima del paziente. Eppure la cosa che egli dovrebbe temere di più è la perdita dell’anima, non la perdita della vita. In più, ha compiuto un errore epistemologico, identificando la modalità di un’esperienza con l’esperienza stessa. Non ha saputo mantenere distinti interno ed esterno. Abbiamo mostrato come l’anima abbia bisogno dell’esperienza della morte. Tale esperienza può avvenire secondo varie modalità. Nel capitolo precedente abbiamo accennato ad alcune delle immagini interiori e delle emozioni con cui essa si presenta. Il suicidio è soltanto una di tali modalità; altre possono essere: depressione, crollo, stato di trance, isolamento, sovreccitazione ed euforia, fallimenti, psicosi, dissociazione, amnesia, negazione, sofferenza, tormento insostenibile. Questi stati possono essere esperiti simbolicamente o concretamente. Possono manifestarsi nella storia clinica o nella storia animica. La
modalità per arrivare all’esperienza psicologica della morte sembra non avere importanza per l’anima, purché essa possa fare quell’esperienza. Può darsi che per alcuni la morte biologica attraverso il suicidio concreto sia l’unico modo in cui l’esperienza della morte è possibile. Questo è il nodo cruciale del problema. Per il fatto che una minaccia di suicidio potrebbe comportare la morte fisica, dobbiamo dunque premunirci dall’esperienza della morte con misure di tipo medico? Premesso che la risposta deve sempre essere individuale, è bene avere chiari i termini del problema. Dal punto di vista medico, di fronte a un cadavere ogni considerazione riguardo all’anima e al suo destino risulta irrilevante. Per quanto un analista possa essere dedito alla causa dell’anima, si direbbe che la morte fisica ponga fine anche al suo lavoro. Il trattamento è terminato; il caso è chiuso. Con un cadavere non si fa psicoterapia. Secondo la tesi della medicina, le misure mediche sono sempre giustificate davanti a una minaccia di suicidio. C’è un unico modo per rispondere alle critiche incisive, e cioè la radicalità. A parte le argomentazioni circa il posto del suicidio nell’esperienza della morte e la sua giustificazione all’interno di uno schema mitico, come abbiamo visto sopra noi non sappiamo se l’anima muoia. Non sappiamo se storia clinica e storia animica inizino e finiscano nello stesso momento, né sappiamo fino a che punto la prima condizioni la seconda. Dall’evidenza dell’anima stessa, la fine della storia clinica si riflette nella storia animica in molti modi diversi: come un evento irrilevante, come un evento parziale (soltanto un aspetto o un’immagine muoiono), come una sfida urgente (a confrontarsi con il problema della salvazione), oppure come una nuova nascita, con il suo accompagnamento di esaltazione emotiva. Nelle culture non occidentali, dove si presta maggiore ascolto alla psiche e dove il suo «trattamento» è una parte importante delle preoccupazioni di ciascun individuo, le anime dei morti e la loro sorte ricevono attenzione costante
con la preghiera, con il culto degli antenati, con l’osservanza rituale e per il tramite di compagni d’anima, di portatori del loro nome, di discendenti e amici. La comunicazione non viene interrotta. Le anime dei vivi producono effetti sui morti. Ciò che ne facciamo, della nostra anima, influisce sul progresso delle loro, perché le anime dei morti sono ancora in evoluzione. Le incontriamo sotto forma di spiriti, nei sogni e attraverso le immagini che noi stessi ne custodiamo, che vivono in noi, specialmente in coloro che più sono stati coinvolti nella loro storia animica. Se seguiamo con radicalità il punto di vista dell’immortalità dell’anima, anziché ossequiarlo velleitariamente, la dialettica analitica con l’immagine vivente della persona morta non cessa con la sua morte fisica. Siamo tuttora coinvolti, e tuttora responsabili. Questa concezione non ha niente a che fare con tavole ouija e poltergeist. Non è misticismo, ma realismo psicologico. Deriva per induzione dal dato empirico delle immagini animiche e delle convinzioni dell’anima, ed è testimoniata nelle pratiche e negli atteggiamenti dei popoli di quasi tutte le culture. Sta alla base delle preghiere per i morti perfino nella nostra società, a indicare che il nostro rapporto con loro non è terminato e che il modo di trattarli ha importanza. Sottintende che il trattamento non è mai concluso; che l’analisi è, davvero, interminabile. In questo senso, il cadavere non esclude la psicoterapia; o meglio, l’analisi non è comunque una dialettica con il corpo in quanto corpo, sia esso vivo o morto. Anche all’obiezione secondo la quale perché si dia una relazione psicologica occorrono i corpi, se non altro per parlare, è possibile controbattere. L’altro che è morto continua a esistere come realtà psicologica con la quale comunicare: ne è un chiaro esempio il dialogo con santi e maestri scomparsi e con le persone care defunte. È una forma di comodo razionalismo, di psicologismo, il sostenere che quelle realtà psichiche sono soltanto immagini interiori o soltanto oggettivazioni della nostra soggettività. Se la realtà psichica è una realtà, allora dobbiamo seguirne la logica senza riserve. Non si può tenere
il piede in due staffe: da un lato, credere in essa come in una realtà oggettiva e, dall’altro e contemporaneamente, ridurla a figure e funzioni soggettive, situate non si sa bene dove nella nostra testa. La realtà fisica modifica drasticamente la realtà psichica, e viceversa. Ma esse non coincidono, se non in coloro che non hanno imparato a distinguere tra la propria anima e il proprio corpo. Quando dalla precedente confusione con la vita del corpo comincia a emergere una storia dell’anima (e l’esperienza della morte ne è un segnale), allora anche la realtà autonoma dell’anima e la sua trascendenza rispetto al corpo acquistano sostanza. Allora mantenere in vita un corpo non è più la condizione necessaria e imprescindibile per mantenere in vita ogni relazione psicologica. Tuttavia, l’analista può anche seguire il punto di vista della medicina, ma a una condizione: che le misure mediche non siano contro l’anima: Primum ANIMAE nihil nocere. Il trattamento deve essere rivolto all’anima, rispettare le sue emozioni e le sue immagini e tenere conto delle sue rivendicazioni. Questo significa che le misure mediche non sono intese semplicemente come interventi emergenziali per prolungare la vita, in modo che, successivamente, si possa iniziare di nuovo la psicoterapia. No, sono introdotte principalmente per il bene dell’anima e costituiscono un’aggiunta alla psicoterapia. In altre parole, l’ausilio della medicina è il benvenuto; la sostituzione con la medicina è rifiutata. Prevale il punto di vista dell’analisi. Ove richieda l’intervento della medicina (farmaci o ricovero psichiatrico) a scopo di prevenzione, l’analista è venuto meno alla sua vocazione. In pratica, ricorrere all’ausilio della medicina significa per l’analista affidarsi a un medico che sappia accettare l’autorità che deriva all’analista dalla sua specialissima posizione «all’interno» della situazione. A quel punto, è il medico, in un certo senso, il «profano». Così come non deve ricorrere alla prevenzione medica, alla stessa stregua l’analista non deve cercare una via di
uscita ricorrendo alla simbolizzazione. Perché la modalità simbolica, se usata in modo difensivo per prevenire il suicidio, può ingannare l’analizzando con una sostituzione che non soddisfa realmente il suo bisogno di fare esperienza della morte. Allora la simbolizzazione non funzionerà; il problema si ripresenterà… oppure non avrà più modo di ripresentarsi. L’esperienza della morte è necessaria, vie di uscita non ce ne sono, né mediche né simboliche. Le spesse mura difensive innalzate contro la morte attestano della sua potenza, e del nostro bisogno. Come la religione, come l’amore, come la sessualità, la fame, l’istinto di autoconservazione, e come la paura stessa, la tensione verso la morte è tensione verso la verità fondamentale della vita. Se alcuni chiamano Dio questa verità, allora la tensione verso la morte è anche tensione verso l’incontro con Dio, che per taluni teologi è reso possibile soltanto dalla morte. Il suicidio, tabù per la teologia, chiede con forza che Dio si riveli. E il Dio che il suicidio invoca, al pari del demone che sembrerebbe istigare il gesto, è il Deus absconditus, che non può essere conosciuto e del quale tuttavia si può fare esperienza, che è irrivelato e tuttavia è più reale e più presente nelle tenebre del suicidio di quanto non lo sia il Dio rivelato con tutte le sue testimonianze. Il suicidio offre l’immersione e una possibilità di rigenerazione attraverso il lato oscuro di Dio. Vuole confrontarsi con l’ultima, o la peggiore, verità di Dio, la Sua negatività nascosta. Ma tutto il suo sapere e tutti i suoi argomenti non serviranno all’analista nel ragionare con l’altro che ha di fronte. Personalmente, l’analista può ben essere convinto che le fantasie di suicidio siano modi di accostare l’esperienza della morte e che il paziente stia tragicamente mischiando il simbolico e il concreto, ma non riuscirà a trasmettere questa convinzione alla persona che gli siede di fronte. Tali argomenti, se sono una sostituzione intellettuale, sono assolutamente incapaci di penetrare l’esperienza cruciale. Il dinamismo vorticoso dell’emotività suicidaria li
espelle ed essi ricadono spuntati ai piedi dell’analista. Né egli può offrire la consolazione della religione o della filosofia. Come sottolinea Ringel, l’intensità dell’impulso suicida tiene avvinta a tal punto l’anima, che qualsiasi idea sia introdotta nel sistema sarà convertita in ulteriore energia per le fantasie suicide. Di fronte non abbiamo un «sofisma logico», bensì un essere umano in balia di un simbolo. L’anima insiste ciecamente e appassionatamente nella sua intenzione. Non si farà dissuadere; vuole avere la morte che le spetta, realmente, concretamente, subito. Deve avere la sua morte, se vuole rinascere. Se la morte viene in qualsiasi modo privata della sua travolgente realtà, la trasformazione è bastarda e la rinascita sarà malformata. L’analista non può negare questo bisogno di morire. Dovrà accompagnarlo. Il suo compito è quello di aiutare l’anima nel suo percorso. Non osa opporsi a quel bisogno impellente in nome della prevenzione, perché sa che la resistenza non fa che rendere più cogente il bisogno e più fascinosa la morte concreta. Né può bollare ogni desiderio di suicidio come un «acting out», perché in questo caso si tratterebbe di una negazione preventiva, prima di sapere con certezza se il gesto suicida sia necessario per fare l’esperienza della morte. Può darsi che non abbia preferenze sulla modalità da seguire. Ma accompagnando l’impulso, ponendosi come il ponte attraverso il quale il paziente può entrare nella morte, l’esperienza psichica potrebbe avvenire prima che si consumi concretamente la morte. Non si tratta in questo caso di sostituzione simbolica, benché succeda a volte che in quel momento la modalità simbolica compaia spontaneamente. Se così è, essa annuncia l’avvento dell’uomo nato due volte. La modalità simbolica indica che sta venendo alla luce un nuovo tipo di realtà. La persona ossessionata da fantasie di suicidio è una persona che non ha avuto modo di esperire la morte psicologicamente. È una persona incapace di esperire la realtà della psiche se non nelle sue proiezioni, e questo è il motivo per cui la realtà concreta e la morte fisica sono così irresistibili. Ma quando
l’impulso alla morte fisica è stato esso stesso vinto e assorbito dalla sua realizzazione all’interno della psiche, la realtà psichica assume una qualità numinosa e indistruttibile. È ciò che la tradizione chiamava il «corpo di diamante», più forte della vita stessa. Accompagnando l’impulso suicida, l’analista fa sì che venga costellata l’anima, sicché questa cominci a presentare le sue richieste in forma psicologica. Egli pone l’anima al primo posto e non arretra di fronte ad alcuna delle sue intenzioni. In questo, ha imparato dallo sciamano, il quale dà importanza suprema all’esperienza della morte. L’analista supera per quanto è possibile ogni pregiudizio contrario. Come lo sciamano, ha già visitato lui stesso la morte: perché sono i morti che possono meglio comunicare con i morti. Come lo sciamano, saluta il presentarsi dell’impulso come un segnale di trasformazione, ed è lì, pronto ad aiutare l’ingresso dell’altro in quella esperienza. Non attribuisce particolare peso alla modalità fisica della morte, ma si concentra sull’esperienza. Confermando la morte psichica, la può liberare dalla sua fissazione biologica. L’esperienza della morte, come abbiamo detto, assume molte forme: rabbia, odio di sé, tormento, ma soprattutto è disperazione. Quanto più l’impulso al suicidio è conscio, tanto più tenderà a colorare di disperazione tutta la vita psichica. E quanto più si è in grado di resistere in tale disperazione, tanto meno il suicidio sarà «una di quelle cose che succedono». Non sperare nulla, non aspettarsi nulla, non pretendere nulla: questa è la disperazione propria dell’analisi. Non nutrire false speranze, neppure la speranza di sollievo, che è ciò che induce una persona a entrare in analisi. È uno svuotamento dell’anima e della volontà. È lo stato che si instaura fin dalla seduta in cui, per la prima volta, il paziente sente che non c’è alcuna speranza di stare meglio, anzi di vedere alcun cambiamento, quale che sia. L’analisi conduce a questo momento e, costellando questa disperazione, lascia che si liberi l’impulso suicida. È da questo momento della verità che dipende tutto il lavoro
analitico, perché esso segna il morire alla vita falsa e alla false speranze dalle quali è derivato il disturbo. In quanto è il momento della verità, è anche il momento della disperazione, perché non c’è speranza. Ove sappia dismettere la reazione, propria del medico, di offrire speranza attraverso il trattamento, l’analista è in grado di entrare nella disperazione insieme al paziente. Rinunciando a sua volta alla speranza, può cominciare ad accettare l’esperienza del paziente, che gli dice che non c’è niente da fare. In tal modo, l’analista non offre nient’altro che l’esperienza stessa. Non possiamo aggirare questa disperazione resuscitando speranze già affondate, iniettando suggestioni e consigli o prescrivendo rimedi. Se la disperazione è totale, e presenta i caratteri clinici della depressione, le fantasie suicide tenderanno a diventare il contenuto precipuo delle sedute. Tuttavia, la situazione non è più precaria di quando quei medesimi contenuti stavano in agguato nel profondo e l’analizzando si aggrappava a delle chimere in un oceano di confusione. Potrebbe darsi che, in cuor suo, l’analista si dica che in realtà il fatto di non offrire niente è la forma migliore di trattamento, perché dà al movimento naturale della psiche una possibilità di esprimersi. Se fonda la sua condotta su questa idea, non è vero che non sta offrendo niente: sta comunque facendo un trattamento. Ha lasciato l’analizzando solo nella disperazione e ora lo tradisce nuovamente con una sostituzione. Una sostituzione più sottile: offre una disperazione simulata, che in realtà è una prevenzione piena di speranza. A questo punto, l’analista è obbligato a chiarirsi perché vuole che l’altro continui a vivere. Se per lui il paziente è soltanto una responsabilità, un fardello assunto nel momento in cui ha «accettato il caso», inconsciamente vorrà uccidere il suo paziente, perché tutti, in qualche recesso di noi stessi, desideriamo liberarci dei fardelli. La sensazione di essere un peso è già talmente forte in molti di coloro che si suicidano, che sovente il gesto è compiuto per altruismo, per
alleggerire gli altri di quel peso. Alla resa dei conti, princìpi come impegno terapeutico e responsabilità verso la vita non sono sufficienti. L’analista è messo con le spalle al muro di fronte al suo eros personale, deve sapere con il sentimento perché quell’individuo sia, personalmente, prezioso per lui. Ho davvero bisogno di questa persona e voglio davvero che continui a vivere? Quale è l’unicità della nostra relazione? In che senso sono coinvolto con questa persona in maniera diversa che con qualsiasi altra? Senza questo coinvolgimento personale, ciascun paziente sarebbe intercambiabile con qualsiasi altro. Tutti i discorsi sulla individualità sarebbero discorsi vuoti. Senza questo eros personale, non c’è alcun vaso terapeutico capace di contenere le forze distruttive, i desideri di ferire e di uccidere che possono costellarsi durante la crisi. L’intimità del legame focalizza nell’analisi gli affetti suicidari. La rabbia, l’odio e la disperazione sembrano diretti personalmente contro l’analista. Alcuni psicoanalisti hanno cercato di ridurre l’intera questione a una rimessa in scena nella traslazione di conflitti infantili. È vero, una traccia dell’infanzia colora la maggior parte delle nostre azioni, specialmente durante le crisi; ma l’attacco contro l’analista andrebbe più opportunamente considerato alla luce dell’alleanza segreta e dell’ambivalenza costellata dalla natura simbolica di ogni intimo legame personale. Lo scopo principale che quegli affetti distruttivi cercano di raggiungere è quello di dissolvere nella disperazione il vaso stesso della relazione analitica. Di conseguenza, nell’eros dell’analista deve esservi spazio anche per la disperazione. Solo così il suo eros non sarà usato come un sistema – «devi vivere perché io ti amo» – per costringere il paziente a uscire dalla disperazione. Mantenendosi fedele alla situazione di assenza di speranza, così come si presenta, l’analista costella in se stesso e nell’altro una sorta di coraggio stoico. Grazie a questa vigilanza leale da parte dell’analista, la minaccia di azione panica si affievolisce. Analista e analizzando sono
fianco a fianco, immobili, a contemplare la vita e la morte… o anche la vita o la morte. Non c’è trattamento, perché entrambi hanno abbandonato ogni speranza, ogni aspettativa, ogni pretesa. Hanno lasciato il mondo e il suo punto di vista esterno, assumendo come unica realtà le immagini, le emozioni e i significati che la psiche manifesta. La morte è già entrata, perché la furia di vivere è passata. La storia clinica registra un «nulla di nuovo», ma forse la storia animica sta realizzando una esperienza profonda e inesprimibile. Vigilanza leale significa anche dedicare attenzione ai particolari assurdi e insignificanti della vita. Perché l’esperienza della morte non è soltanto grandiosa, profonda e inesprimibile; essa dissolve il quotidiano nell’insensatezza. Succede di tutto; miracoli e spropositi insieme. Ma l’attenta considerazione del particolare non deve essere usata con intenti terapeutici: perché «la vita deve andare avanti», o per dare «sostegno all’Io». La focalizzazione sull’assurdo sembra essere un elemento spontaneo dell’esperienza della morte e tira fuori da vecchie abitudini significati completamente nuovi e sorprendenti. E la trasformazione è contrassegnata da una consapevolezza del paradosso e della sincronicità, dove senso e nonsenso si fondono. Alcune persone dicono che continuano a vivere soltanto per i figli, o per i genitori: per gli altri. Con questo in mente, l’analista può essere indotto a fare presenti al paziente gli effetti della sua morte sugli altri. Ma anche questo è un modo di evitare il rischio nella sua nuda intensità. Il suicidio pone la società, la responsabilità umana, perfino la comunità delle anime, in extremis. Perciò, come abbiamo visto, i punti di vista ufficiali giustamente lo condannano. Il suicidio è il paradigma della nostra indipendenza da tutti gli altri. Così è, necessariamente, durante la crisi suicidaria, perché in quel momento gli altri rappresentano lo status quo, quella vita e quel mondo che vanno assolutamente negati. Queste cose ormai non hanno più vera importanza e il richiamarle serve soltanto a intensificare la pulsione. Di conseguenza, va
benissimo considerare il gesto suicida un «grido di aiuto», ma non di aiuto per vivere. È, piuttosto, la richiesta di essere aiutati a morire, ad attraversare l’esperienza della morte in un modo dotato di senso. L’analista è efficace come collegamento con la vita soltanto se non rivendica questa funzione. L’analista non si schiera né per la vita né per la morte; si schiera per l’esperienza di questi due opposti. In quanto paradigma di indipendenza, il suicidio è anche egoismo. Il mondo viene ridotto alla mia piccola dimensione: io, la mia azione, la mia morte. L’abnegazione è soltanto onnipotenza camuffata. Avvenga il gesto nel silenzio furtivo o alla vista di tutti dal cornicione in pieno centro città, c’è in esso una egoistica ossessione per la propria importanza. E a tanto egoismo, il mondo degli altri, per esempio nel pronto soccorso dove vengono immediatamente portati coloro che hanno fallito il tentativo, reagisce con disprezzo. L’analista, tuttavia, riesce a scorgere perfino in quell’egocentrismo il piccolo seme della soggettività. Un seme deve stare rinchiuso su se stesso, per generare il proprio essere; deve essere tutto ed esclusivamente «io». Nell’egoismo che nega l’altro sta un’affermazione dell’individualità. L’analista porta avanti il processo analitico fissando nella coscienza le esperienze man mano che si dispiegano. E le esperienze sono acquisite a livello conscio nella personalità attraverso la conferma e l’amplificazione. L’esperienza della morte non è un’esperienza che si attraversa, e basta: viene conquistata, costruita e incorporata nella psiche. Astenendosi da qualsiasi atto di prevenzione, l’analista rende possibile al paziente l’esperienza della morte. Offre al paziente quella possibilità che gli è negata ovunque altrove. Poiché non spezza il vincolo di fiducia con il paziente nel momento in cui esso è più cruciale, ora l’analista svolge il ruolo del vero psicopompo, la guida delle anime. Ha mantenuto fede all’alleanza segreta. Il paziente sa che può fare affidamento sull’analista, perché il loro patto non può essere infranto neppure dalla morte. Astenendosi da
qualsiasi prevenzione, l’analista sta tuttavia facendo il massimo possibile per prevenire la morte concreta. Poiché è penetrato così totalmente nella posizione dell’altro, l’altro non è più isolato. Non può più, neppure lui, infrangere a suo piacimento l’alleanza segreta e intraprendere un passo da solo. La disperazione analitica altro non è che un affrontare insieme la realtà, e l’a priori di tutta la realtà umana è la morte. L’individuo è in tal modo incoraggiato a rispondere al proprio irresistibile bisogno di trascendenza e di assoluto. Eccoci tornati all’affermazione di Spinoza: quando l’uomo libero pensa alla morte, la sua è una meditazione della vita. La trasformazione ha inizio a questo punto, quando non c’è speranza. La disperazione produce quel grido di salvezza che la speranza sarebbe troppo ottimista, troppo sicura di sé per pronunciare. Non fu con voce di speranza che Gesù gridò: «Elì, Elì, lamà sabactàni?» (Mt., 27, 46). Il grido sulla croce è l’archetipo di ogni grido di aiuto. Vi risuona l’angoscia del tradimento, del sacrificio, della solitudine. Non è rimasto più nulla, nemmeno Dio. La mia unica certezza è la mia sofferenza, che chiedo sia allontanata da me con la morte. Una consapevolezza animale della sofferenza, e la piena identificazione con essa, diventano l’umiliante terreno della trasformazione. La disperazione fa entrare l’esperienza della morte ed è al tempo stesso il requisito per la resurrezione. La vita quale era prima, lo status quo ante, è morta quando è nata la disperazione. Esiste solo il momento così come è, il seme di ciò che verrà, quale che sia: se sapremo attendere. L’attesa è tutto e si attende insieme. Questa priorità dell’esperienza, questa lealtà all’anima e la spassionata oggettività scientifica nei confronti dei suoi fenomeni e questa conferma della relazione analitica possono far scaturire quella trasformazione che l’anima cercava. Può darsi che arrivi soltanto all’ultimo minuto. Può darsi che non arrivi affatto. Ma non c’è altra via. Se non arriva, l’analista rimane solo a giudicare se quel
suicidio era necessario oppure no. Necessario significa inevitabile, come un incidente o una malattia. Il famoso criterio platonico a giustificazione del suicidio è esposto nel Fedone (62c), dove l’autore fa dire a Socrate: «non è poi così illogico che sia proibito uccidersi prima che il dio non ne invii una necessità». In questo passo, «necessità» è sempre stata interpretata come un evento esterno, qualcosa di terribile che piomba addosso (sconfitta, incidente, malattia, catastrofe). Ma non potrebbe quella necessità provenire dall’anima? Se l’analista ha dato la possibilità di vivere l’esperienza della morte fino all’estremo, e tuttavia l’anima insiste nel volere la morte biologica attraverso il suicidio, non potrebbe anche questa essere considerata una necessità inevitabile, inviata dal dio? A questo punto dobbiamo fermarci. L’andare oltre, formulando ipotesi sul perché per alcuni sia necessario entrare nella morte in questa maniera, sul perché Dio chiami alcuni al suicidio, comporterebbe di interrogarsi su Dio e sui suoi progetti per l’uomo. Ma questo ci condurrebbe sul terreno della metafisica e della teologia, cioè oltre i confini della psicologia e di questo libro.
PARTE SECONDA
LA SFIDA DELL’ANALISI
A questo punto va ammesso che noi psicoterapeuti dovremmo essere veri filosofi o medici filosofi; anzi, che già lo siamo. C.G. JUNG, Psicoterapia e concezione del mondo, 1942 In psicologia il metodo assume un’importanza di gran lunga maggiore di quella che possiede nelle altre discipline. Perché oltre che uno strumento di scoperta è insieme uno strumento di trasformazione … In psicologia, pertanto, la verificazione richiede che ogni passo avanti, ogni ipotesi che è stata controllata e confermata soddisfi anche i valori dell’anima e quindi sia essa stessa uno strumento per la loro realizzazione. Dunque, ciò che egli arriva a conoscere sull’anima qualifica lo psicologo come mai il sapere scientifico potrà qualificare lo scienziato. Per lo scienziato è sempre possibile, anzi è imperativo, tenere distinta la sua personalità da ciò che sa e dalla materia a cui si riferisce il suo sapere: l’applicazione del suo metodo è indipendente dagli effetti che esso produce su di lui e le sue indagini sono condotte a prescindere dalla sua personalità, anziché attraverso di essa. Non è così per lo psicologo, il quale, mentre studia il suo mondo, nello stesso tempo crea quel mondo e insieme crea se stesso. EVANGELOS CHRISTOU, Il logos dell’anima, 1963 Non sono un meccanismo, una riunione di varie sezioni. E se sono ammalato, non è perché il meccanismo funzioni male. Sono ammalato per ferite nell’anima, nell’io emotivo profondo,
e le ferite dell’anima richiedono molto molto tempo, solo al tempo si può chiedere aiuto, e alla pazienza, a una forma di difficile pentimento, pentimento difficile e lungo, comprensione d’aver sbagliato la vita, e all’affrancamento dalla interminabile ripetizione dello sbaglio che l’umanità ha trovato eccellente consacrare. D.H. LAWRENCE, Guarigione
6 La medicina, l’analisi e l’anima
Nella nostra riflessione sul suicidio abbiamo mostrato come l’analista vede il proprio lavoro. Scegliendo di affrontare il più difficile di tutti i problemi che si incontrano in analisi, abbiamo messo a fuoco le sfide più cruciali della pratica analitica. Quelle sfide e la risposta che gli analisti hanno dovuto elaborare a partire dalla propria esperienza conducono inevitabilmente alla formulazione di una ontologia dell’analisi. È venuto il momento, insomma, che la psicoterapia si interroghi sulla radice archetipica della propria disciplina. Una volta fatto questo, l’espressione «analisi laica» decadrà da sola, perché l’analista non sarà più considerato, e non considererà più se stesso, dalla prospettiva di concezioni estranee alla sua disciplina. Non sarà più un prete laico, un medico laico, uno psicologo laico, dunque un profano. Avrà un territorio proprio, delineato e tracciato in tutti i suoi contorni. Alcuni passi per delimitare il campo dell’analisi sono già stati compiuti, da varie direzioni. La psichiatria esistenziale sta cercando di immettere la psicoterapia in una nuova forma. Le ricerche sulla comunicazione e la semantica, sulla terapia transazionale, sui processi transferali e controtransferali, nonché i tanti casi di fertile contaminazione tra religione e psicoterapia rappresentano tutti approcci nuovi e nuovi tentativi di marcare i confini tra il territorio della psicoterapia e quelli contigui. Un risultato completo, una vera ontologia della psicoterapia, dipenderà dalla costruzione di una scienza dell’anima. Tale scienza descriverà la natura della realtà psichica in quanto tale, distinta da contenuti mentali, atti e comportamenti, atteggiamenti, e così via. Affronterà i problemi del metodo e della verificazione e falsificazione
delle ipotesi. Elaborerà criteri per riconoscere la realtà psichica e preciserà che cosa intende per verità psicologica e che cosa sono i fatti psicologici. Dovrà anche definire con chiarezza le esperienze fondamentali dell’analisi: introspezione, significato, regressione, traslazione, nevrosi, nonché il senso stesso di «esperienza». Si arriverà così a una ontologia dell’«interiorità», tuttora, a causa del linguaggio e delle prospettive mutuati da altri campi, inadeguatamente concepita come ciò che sta all’interno del corpo o della testa. È un progetto molto vasto, ben al di là delle ambizioni di questo libro. Richiede un pensiero radicalmente nuovo, disposto ad abbandonare il terreno delle scienze fisiche, della teologia, della psicologia accademica, della medicina: insomma qualsiasi ambito che non sia il suo. Un primo passo potrebbe consistere nel separare la psiche in sé dai vari campi nei quali essa si manifesta. Poiché tutto ciò che è umano riflette qualche sfaccettatura della psiche, la separazione dell’anima dal resto, da ottenersi mettendo a nudo la sua struttura, i suoi contenuti e le sue funzioni, è un compito che può essere svolto soltanto dopo avere rifiutato gli strumenti e i contenitori propri di altri campi. Tale rifiuto è una necessità pressante, come ha dimostrato la nostra indagine sul suicidio. Tutti gli altri campi vedono i problemi dell’anima da angolature esterne; l’analisi soltanto parte dalla persona nella sua individualità. Essa è dunque il primo strumento da usare nel costruire una scienza dell’anima. Poiché costituisce lo strumento appropriato, le conclusioni ormai consolidate nella pratica analitica, per quanto frammentarie e paradossali, devono ricevere un peso maggiore di quelle provenienti da altri ambiti. L’ontologia dell’analisi non può essere formulata stabilendo un’equazione tra analisi ed esistenza e mutuando dalla filosofia esistenziale una lingua e un sistema di pesi e misure che sono comunque stranieri. L’ontologia dell’analisi, pur con tutte le sue analogie con la filosofia, è una psicologia, una psicologia analitica: una analisi psicologica, una analisi della psiche, e non l’applicazione di una filosofia
fenomenologica o esistenziale. La psicologia analitica è innanzitutto una scienza dei processi inconsci. I processi inconsci sono come torrenti e corsi d’acqua che confluiscono in quel grande fiume che è il processo di individuazione, il quale attraversa ogni essere umano e, nel suo viaggio verso il mare, lo conforma prospetticamente, facendolo essere se stesso. I singoli processi inconsci possono essere intesi anche come mitologemi, o frammenti di mito, che si manifestano nel comportamento e nei sogni e insieme vanno a costituire il mito centrale del processo di individuazione di ciascuna persona. Ecco: l’analisi mira ad agevolare il flusso e a riconnettere i frammenti simbolici in una configurazione mitica. Nello studiare i processi inconsci, riscontriamo regolarità interna, legge, ordine e coerenza. Ma l’analisi non è semplicemente anodina accettazione di qualsivoglia esistenza, come nella Daseinanalyse. L’«esserci» dell’individualità non ha né configurazione né prospettiva: ci sta tutto, perché i criteri dell’esistenza autentica non possono essere creati dalla coscienza del singolo individuo, isolatamente. Poiché in questo caso la soggettività non è bilanciata dalla psiche oggettiva, si arriva a un culto dell’individualità nella sua solitudine esistenziale, anziché a una «devota umiltà» nei confronti di quei processi inconsci fondamentali che sono al tempo stesso universalmente umani e il fondamento dell’individuazione. Per la nostra scienza dei processi inconsci è necessario un vasto corpo di conoscenze suscettibili di essere descritte e comunicate oggettivamente e di essere utilizzate per la previsione clinica. L’esplorazione di tali processi richiede rigorose indagini condotte con uno spirito di ricerca scientifica. L’ontologia dell’analisi va dunque elaborata sempre in riferimento a fatti empirici. Non è questo il metodo dell’ontologia esistenziale, che poco bada ai fatti empirici, alla indagine scientifica, all’inconscio, alla descrizione dei processi psicologici, anzi alla stessa psicologia, ridotta a umile ancella della filosofia esistenziale.
Il contributo più importante alla chiarificazione della realtà psichica ci è venuto da Jung, il quale ha svelato le configurazioni dinamiche fondamentali della psiche, da lui denominate archetipi, una sorta di organi dell’anima. Rivendicando la sua idea della realtà psichica, intesa come un campo oggettivo, dotato di leggi proprie e richiedente metodi suoi propri, Jung ha incontrato l’opposizione delle varie ortodossie – della medicina, della teologia e della psicologia accademica, le quali avanzano a loro volta diritti sulla psiche: la psicoterapia è iniziata nel terreno della medicina, e la teologia considera l’anima umana una delle sue province. Descrivendo processi e contenuti psichici di cui esse avevano già disegnato la mappa e a cui avevano già dato un nome, Jung sembrava scavare loro il terreno sotto i piedi. Per la medicina e la teologia, l’analista stava invadendo i loro precinti ed era soltanto un profano. Jung ebbe il coraggio di tenere fede al proprio punto di vista. Si schierò con l’anima, affermando che essa è la prima realtà umana. Non mutuò alcuna metafora dalla biologia né dalla sociologia, con la loro enfasi sulle specie o sui gruppi, ma, dimostrando la capacità di autotrasformazione della personalità umana in direzione dell’unicità, si schierò decisamente dalla parte dell’individuo. Diede credito ai suoi pazienti; prestò fede alle loro anime. Quando si ha il coraggio di stare dalla parte della propria esperienza, ecco che si comincia a conferire esistenza reale all’anima, con ciò portando avanti la costruzione di quell’ontologia che ancora non esiste. E che può essere costruita soltanto per questa via. Sta a ciascun individuo coinvolto nell’analisi difendere la propria esperienza – i sintomi, le sofferenze, le nevrosi, e anche gli invisibili risultati positivi – di fronte a un mondo che a queste cose non dà alcun credito. L’anima può tornare a essere una realtà soltanto se ciascuno di noi ha il coraggio di assumerla come la realtà prima della sua vita, di schierarsi dalla sua parte, anziché limitarsi a «credere» nella sua esistenza. Per costruire un’ontologia della psicologia non c’è
bisogno di aspettare che la mente sintetica di un genio concepisca un sistema unitario nel quale tutti gli operatori possano trovare la propria casella. Questo approccio eclettico è stato provato per anni, riuscendo solo a generare nuove scuole e nuove diatribe. L’ontologia psicologica è costruita via via dagli analisti, esistenzialmente, dentro di sé; è costruita da ciascuno di noi con il rimanere fedele al proprio punto di vista, con il restare nel luogo in cui si è, cioè dentro il processo analitico. «Essere nel processo» (come alcuni junghiani usano definire la propria esperienza dell’analisi) è un’espressione che descrive uno speciale stato dell’essere e dunque una posizione ontologica. Può essere paragonato allo stato di coinvolgimento totale in cui si trovano a volte il pittore o lo scrittore, o gli innamorati, ovvero, alla lettera, «in amore». «Essere in analisi» ha per l’analizzando lo stesso tipo di significato: egli si vive come fondamentalmente – ontologicamente – separato dagli altri che non sono in analisi, esattamente come l’essere «in amore» pone gli innamorati fuori dalla normalità. Per entrare in questa posizione, non c’è bisogno di compiere un salto ontologico verso un nuovo tipo di esistenza, ma semplicemente basta schierarsi in difesa delle nostre individuali differenze esperienziali, di quelle scintille di unicità. Prima di poter portare avanti l’opera di Jung (come è doveroso fare, perché il nostro pensiero deve sempre mantenersi il più possibile aderente ai dati dell’esperienza), gli analisti dovranno liberarsi di quei rimasugli di teologia, di psicologia accademica e specialmente di medicina che tuttora ingombrano il campo e che per una psicologia analitica sono falsi indicatori. Uno di tali rimasugli è appunto l’espressione «analisi laica», che il presente libro si propone di smascherare. Questo libro si propone di sgombrare il terreno contestando una per una tutte le pretese che teologia, psicologia accademica e medicina accampano sulla pratica analitica. Non tanto per attaccare un nemico, ma per liberare un territorio occupato, in modo che un giorno si
possa costruire un’ontologia della psicoterapia con metodi e criteri suoi propri. La nostra è una campagna in favore dell’analisi, del punto di vista dell’analista e della metafora radicale che da esso scaturisce. Soltanto là dove quel punto di vista è ostruito da residui di vecchi atteggiamenti, in particolare medici, psichiatrici e freudiani, si renderà necessario demolire. Le vecchie contrapposizioni tra scienza e religione, come ai tempi di Shaw, o tra due culture, come ai tempi, più recenti, di Snow, non sono più attuali. La nuova contrapposizione, quella vera per la generazione odierna, è tra l’anima e tutto ciò che la vorrebbe massacrare o comprare, tra l’analisi e tutte le posizioni ufficiali della medicina, della teologia e della psicologia accademica che la vorrebbero usurpare, tra l’analista e tutti gli altri. Il suicidio è il problema di elezione per mettere a nudo questo conflitto. Oggi non ha senso sposare l’una o l’altra delle posizioni correnti. Siamo tutti talmente malati e siamo da così tanto tempo sull’orlo di un suicidio di massa e alla ricerca spasmodica di soluzioni personali a problemi enormi e collettivi, che, oggi più che mai, va bene tutto. Le recinzioni sono cadute: la medicina non è più la riserva dei medici, la morte non è più un fatto che riguarda i vecchi e la teologia non è più prerogativa di chi ha ricevuto gli ordini sacerdotali. Beninteso, il medico ha a sua volta un’anima e, in quanto guaritore in mezzo ai sofferenti, ne è forse più degli altri interpellato. Ma la medicina moderna esclude l’anima dai suoi insegnamenti e chiede al medico di agire come se lui stesso non l’avesse e come se il paziente fosse soprattutto corpo. La medicina moderna impone una scissione tra il medico e la sua anima. Può succedere che, personalmente, il medico creda nella sua esistenza e nella vita la segua, mentre nella sua professione faccia come se non esistesse. È tagliato fuori dalle sue autentiche radici nella medicina asclepiea, e il conflitto tra medicina e analisi non è che una riedizione di quello tra l’arte di Ippocrate e l’arte di Asclepio.
La formazione medica indirizza a tal punto lo studente a contrastare lo sfondo psicologico della medicina, che tutte le virtù del metodo ippocratico sono vanificate dai suoi svantaggi unilaterali. Poiché il medico si schiera così univocamente da una parte, l’analista è spinto a sua volta a estremizzare. Questa infausta situazione costella con forza ancora maggiore nell’inconscio dell’analista il punto di vista medico, sicché a volte egli non sa più di dove venga la distorsione: se dalla medicina moderna e dai suoi fautori o dall’ombra medicalista che agisce in lui e dal retroterra ottocentesco della psicoanalisi. E così come l’analisi non medica subisce l’ombra della medicina, chiamando se stessa «laica», alla stessa stregua la medicina assorbe le proiezioni dell’ombra analitica. È chiaro che questo non promuove un dibattito equilibrato. Ma forse è meglio così, perché l’equilibrio impedisce di avvicinarsi al limite. Ed è al limite che bisogna arrivare per indagare il suicidio. È il limite, dove si spalanca il baratro, che evoca quel cri de cœur che perfora ogni presentazione equilibrata. Ciò che è stato fatto all’anima dai suoi pastori e dai suoi medici in nome della «salute mentale», della «prevenzione del suicidio», della «psicoterapia dinamica», della «consulenza pastorale» e degli «studi sperimentali» esige una risposta dello stesso tenore, e questa non può essere equilibrata. L’analisi appartiene agli analisti; soltanto ciò che essi pensano del loro lavoro ha valore e soltanto i loro criteri sulla psicoterapia e sulla formazione degli psicoterapeuti vanno accettati. Tutti gli altri – medici, sacerdoti, psichiatri, psicologi accademici, filosofi esistenziali, sociologi – sono dei «laici», finché non avranno abbandonato le vecchie posizioni delle loro professioni aliene e non avranno messo l’anima al primo posto. Purtroppo, poiché così tanti analisti preferiscono lo stile consolidato delle vecchie strutture dalle quali provengono, essi tendono a costruire i nuovi centri di formazione nello stesso modo. E così vanno avanti con le loro idee da medici e le loro descrizioni basate sulle scienze
naturali, sul materialismo e sulla causalità. Oppure, abbandonano del tutto lo spirito scientifico, per seguire mode momentanee: l’esistenzialismo dalla Germania, lo zen dal Giappone. Il nostro primo compito, pertanto, è quello di parlare con gli analisti dell’analisi, di segnalare i punti in cui possono divergere, e di fatto divergono, dalla medicina, dove non praticano, non pensano né sentono più come i loro colleghi medici, benché siano per tanti versi affini alla figura tradizionale del medico. Nel corso del libro, metteremo a contrasto, di capitolo in capitolo, un punto di vista medico e un punto di vista analitico, con l’intento di mostrare, soprattutto, quanto sia importante che la pratica della psicoterapia si lasci alle spalle il suo retroterra medico per procedere autonomamente. Il primo a riconoscere che la medicina non costituiva il retroterra necessario né sufficiente per la pratica della psicoanalisi è stato Freud. In un certo senso, dunque, il nostro lavoro di separazione della medicina dall’analisi in questa seconda parte del libro si pone in continuità con il saggio di Freud, Il problema dell’analisi condotta da non medici. Freud si avvide ben presto che occorreva abbandonare in parte la medicina. In quello scritto egli mostra come, nel caso della psicoterapia, «gli ammalati non siano come gli altri ammalati, i profani non siano propriamente profani, e i medici non offrano precisamente ciò che ci si potrebbe attendere da loro e su cui si fondano le loro prerogative». L’analista non esamina fisicamente il suo paziente, non gli prescrive medicine, per i disturbi organici lo deferisce ad altri; nello studio dell’analista non ci sono apparecchiature mediche; non si vedono camici bianchi e valigette nere. Che razza di «dottore» è questo, a cui non interessano la medicina, l’eziologia e la diagnosi, le ricette, e nemmeno la riduzione del danno? È trascorsa una generazione dalle argomentazioni di
Freud e dalle accese discussioni sull’analisi laica degli anni Venti del Novecento. Da allora a oggi è cambiata anche la tipologia dei pazienti, il che ha aggiunto forza alla tesi di Freud. Oggi, l’analista vede più «disturbi della personalità», individui che si rivolgono a lui per «l’analisi del carattere», che non persone che chiedono l’eliminazione di un sintomo. L’analisi si è sempre più allontanata dalla terapia medica dei sintomi, per avvicinarsi alla cura psicologica dell’individuo intero. La rinuncia ai metodi dell’ambulatorio medico segna soltanto l’abbandono di avamposti minori; la vera roccaforte è rimasta inattaccata. Il punto di vista medico continua a guidare altre tecniche, e tende a imprimere all’analisi un taglio patologico nei confronti delle cose dell’anima. Il pericolo per l’analisi proviene non tanto da una debolezza della medicina, quanto dal suo punto di forza: dal suo materialismo coerentemente razionale. A costituire il problema non sono neppure le cognizioni insegnate nelle facoltà di medicina, gran parte delle quali inutili nell’analisi, come aveva constatato Freud (in qualsiasi campo, infatti, la formazione accademica comporta un accumulo di nozioni irrilevanti): il problema è il modello di pensiero della medicina, la sua Weltanschauung. Freud appoggiò fortemente l’analisi laica, e in una lettera scritta meno di un anno prima della sua morte ribadì le sue tesi: «… di ciò sono più convinto che mai, di contro alla evidente tendenza degli americani a trasformare la psicoanalisi in un semplice valletto della psichiatria» (Jones, p. 323 [trad. it., vol. III, p. 356]). Con tutto ciò, la terapia freudiana conserva in generale il punto di vista della medicina. I timori di Freud si sono realizzati: l’analisi freudiana è diventata l’ancella della psichiatria. L’approccio psicodinamico ed eclettico dello psichiatra medio è lo spirito annacquato di Freud. È il tipo di spirito facilmente accessibile che può essere contenuto senza pericoli in qualunque vaso di comune argilla. In tal modo lo psichiatra medio non deve sobbarcarsi la fatica di
affinare e distillare la sua personalità nell’alambicco di una analisi didattica approfondita, a parte una veloce catarsi per dare una ripulita al suo inconscio durante il tirocinio per la specializzazione. La parte maggiore dei seguaci di Freud ha rifiutato le sue idee sia sull’analisi laica sia sulla pulsione di morte, il che dimostra che la terapia freudiana rimane una disciplina medica. Rinnegando la posizione di Freud su questi temi decisivi, la terapia freudiana diventa accettabile per la medicina. Ed è inevitabile che i freudiani, con la loro insistenza sulla necessità della laurea in medicina per accedere al training psicoanalitico, si oppongano al loro maestro, visto che la metafora radicale che informa il loro atteggiamento non differisce da quella della medicina. È davvero necessario mantenere una mentalità medica per essere scientifici, per essere empirici? La scienza è un abito mentale, che richiede capacità di riflessione, onestà di coscienza e una sistematica e vivente interazione tra fatti e idee. Gli analisti possono rimanere scienziati nel senso fondamentale del termine, e scienziati empirici, senza ricorrere alla medicina. Jung stesso a volte mostra di non averlo capito: di fronte alle accuse di indulgere in «speculazioni antiscientifiche», si è rifugiato spesso nella postura dello «psicologo medico». Per «medico» in quei casi intendeva «empirico». Jung aveva elaborato le sue idee in conformità ai dati empirici che gli si erano presentati nella sua pratica. Ma non c’è bisogno di essere medici per mantenersi aderenti ai dati che si presentano nello studio del terapeuta o per avere a cuore il benessere di chi si affida a noi. Se Freud avesse difeso fino in fondo le sue idee sul problema dell’analisi laica, avrebbe finito per rinnegare totalmente il punto di vista della medicina, anziché limitarsi a dimostrare che la formazione medica non era necessaria, anzi era insufficiente per condurre un’analisi. Se la formazione medica non soddisfa le condizioni dell’analisi, allora vuol dire che l’analisi è qualcosa di diverso dalla
medicina. È lecito dubitare che Freud potesse spingere questo ragionamento fino in fondo, perché non era più giovane ed era ostacolato dalla sua stessa mentalità di medico positivista. (Non dimentichiamo che i suoi maestri erano nati nella prima metà dell’Ottocento). Spingere fino in fondo quel ragionamento e andare fino in fondo nella psicoterapia significa incontrare il problema della morte. Anche su questo, Freud conservò un modo di vedere strettamente legato alle scienze naturali, come dimostra il principio da lui postulato di una pulsione di morte, Thanatos, opposta alla vita. Quel principio riassume per i freudiani così tanti dei lati negativi della natura umana, che la frase di Freud, «la meta di tutto ciò che vive è la morte», diventa la dichiarazione pessimistica di uno scienziato della natura che è portato dalla struttura del suo sistema a combattere la morte in nome della vita. Alla sua base, l’approccio medico all’analisi sarà sempre pessimistico, dal momento che, qualunque cosa facciamo, la vita alla fine è sempre sconfitta dalla morte e la realtà fisica ha sempre la priorità sulla realtà psichica. Ma quella affermazione, «la meta di tutto ciò che vive è la morte», non è necessariamente pessimistica. Andare fino in fondo nell’analisi significa guardare quell’affermazione da un’ottica completamente diversa. Significa considerarla il fondamento logico di una ontologia dell’analisi. Andare fino in fondo nell’analisi significa arrivare alla morte e partire di lì. Se la morte è la meta della vita, allora la morte è qualcosa di più fondamentale della vita stessa. Se si deve scegliere tra le due, allora è la vita che deve arrendersi alla sua meta. La realtà fisica, che è limitata alla sola vita, deve cedere il primato alla realtà psichica, dal momento che la realtà dell’anima include entrambe, vita e morte. Il paradosso dell’anima è che, a dispetto della sua antica definizione di principio vitale, essa è anche sempre dalla parte della morte. Ci è data con un’apertura verso ciò che è oltre la vita. Lavora al proprio perfezionamento al di là di ogni considerazione di salute e vita fisiche. Questa misteriosa peculiarità dell’anima
la incontriamo nelle immagini e nelle emozioni di ogni analisi, dove le questioni più importanti dell’anima implicano la morte. Si direbbe che la realtà della psiche ci attiri dentro un inesprimibile e irrazionale assoluto, a cui diamo il nome di «morte». Quanto più attribuiamo realtà all’anima, tanto più siamo portati a occuparci della morte. Lo sviluppo dell’anima va in direzione della morte e avviene attraverso la morte, e, come abbiamo visto, richiede di fare esperienza della morte. Nel linguaggio della filosofia e della religione, questo coinvolgimento a priori dell’anima con la morte è stato chiamato la trascendenza e l’immortalità dell’anima. Perciò, l’analista può andare fino in fondo nella psicoterapia quando si schiera per la realtà della psiche. Può affrontare il rischio di suicidio senza combattere, senza interventi medicalisti. E può abbandonare il fondamento stesso della medicina, la lotta per la vita fisica, perché ha abbandonato la posizione ontologica del materialismo e del naturalismo scientifico, la quale dice che l’unica realtà è la realtà fisica. A questo punto occorre liberarsi anche del retroterra attitudinale della medicina, rispetto al quale il lavoro dell’analista è stato fino ad ora giudicato e che l’ha oppresso come sua ombra. Nei prossimi capitoli ci occuperemo appunto di alcuni aspetti di quel retroterra.
7 Questione di parole
Sul piano pratico, la divisione tra analisi medica e analisi laica non è così netta. L’opinione pubblica identifica con gli analisti tutta una serie di operatori: psichiatri, assistenti sociali, terapeuti di gruppo, consulenti pastorali, guaritori, psicologi clinici, e molti altri. La gente sa ben poco dell’analisi e meno ancora del tipo di preparazione necessaria per esercitarla. Chi è stato in cura da uno psichiatra o da uno psicoterapeuta o da uno psicoanalista dà per scontato che tutta la psicoterapia sia più o meno uguale a quella, quale che sia, che ha provato lui. Il requisito primo per esercitare l’analisi è da sempre molto semplice: prima di poter analizzare gli altri, l’analista deve essere stato a sua volta analizzato. Questa era la premessa originaria di Freud e di Jung ed è seguita dai freudiani e dagli junghiani autentici ancor oggi. È la cosiddetta analisi didattica accreditata, che comprende anche lo studio dell’inconscio. Il numero di sedute analitiche accumulate, il possesso o meno della laurea in medicina, il riconoscimento dei colleghi, il superamento di un esame statale di abilitazione, il possesso di un diploma rilasciato da un istituto per il training psicoanalitico, tutti questi fattori sono secondari rispetto al criterio fondamentale: prima di analizzare gli altri, l’analista deve essersi sottoposto a un’analisi personale. L’analisi personale è insieme il primo tirocinio e il test della vocazione dell’analista. L’analista ha pertanto il diritto di considerare «profani», indipendentemente dalle loro credenziali accademiche e dagli anni di esperienza clinica, tutti coloro che non sono stati analizzati. Naturalmente, tenderà a privilegiare coloro che hanno fatto un’analisi lunga e approfondita con un maestro accreditato, che hanno lavorato sotto il controllo di
un supervisore e che si sono formati presso un istituto per il training. La gente tende a fare di tutt’erba un fascio circa le figure che hanno a che vedere con la psicoterapia, di solito senza badare al fatto che in maggioranza gli psichiatri non si sono mai sottoposti a un’analisi personale e che la psicoanalisi non rientra nella loro formazione. Beninteso, ce ne sono molti altri che, avendo soddisfatto i requisiti analitici, sono anche analisti, oltre che psichiatri. Ma in generale gli psichiatri ricevono innanzitutto una preparazione medica, quindi fanno tirocinio in reparti psichiatrici, con pazienti ospedalizzati, ai quali nella maggior parte dei casi sono prescritti trattamenti organici. Gli analisti, invece, lavorano con pazienti ambulatoriali e usano metodi psicologici. Alcuni psichiatri passano dall’ospedale alla pratica privata forti dell’esperienza acquisita lavorando con pazienti psichiatrici, senza essersi personalmente sottoposti ad analisi. Per l’analista, questo tipo di psichiatra, ove pratichi delle analisi, è un analista «laico», nel senso di profano, anche se ha la laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria. Lo stesso vale per gli psicologi. Uno psicologo laureato in psicologia all’università può avere fatto o meno l’analisi personale, può appartenere o meno a un’associazione analitica riconosciuta. Alcuni esercitano l’analisi sulla base dei corsi frequentati per conseguire la laurea in psicologia. Ma la preparazione accademica in materie come metodi statistici, processi della coscienza collegati al sistema nervoso, esperimenti di laboratorio sul comportamento animale, applicazione dei test psicologici e procedure del colloquio psichiatrico è pertinente soltanto per la psicologia generale. Dunque, anche costoro, se praticano delle analisi senza la specifica formazione psicologica acquisita sottoponendosi ad analisi personale, rimangono dei «laici». L’espressione «analisi laica» è usata anche dagli analisti, ma in un altro senso. È quella che Freud chiamava «wilde Analyse», analisi selvaggia. La professione analitica è organizzata in differenti associazioni nazionali e
internazionali e segue differenti scuole di pensiero. Pur con tutte le differenze, l’accesso alla professione analitica è sempre condizionato da determinati requisiti. Se una persona non ha fatto abbastanza anni di analisi, o non ha avuto come didatta o come supervisore un analista accreditato, o non è in possesso delle credenziali accademiche richieste da quella particolare associazione, o non ha l’abilitazione perché i suoi titoli non sono riconosciuti in quanto acquisiti in un paese straniero o in campi disciplinari non previsti dalla legge, eccetera, eccetera, e tuttavia vuole esercitare l’analisi, anche in questo caso si può parlare di analista «laico». Oggi, tuttavia, il problema dell’analisi laica viene presentato principalmente dall’ottica della medicina. L’aggettivo stesso, «laica», è usato in senso peggiorativo, in quanto è nato nel campo della medicina; e rispecchia la suddivisione dell’analisi in due categorie: medica e non medica. La tesi medicalista, estremizzando, dice così: l’analisi è una specializzazione della psichiatria e la psichiatria è una specializzazione della medicina; di conseguenza, l’analista è un medico specialista. L’analisi è un metodo terapeutico per trattare le psicopatologie. Tutti i trattamenti del genere sono di pertinenza totale ed esclusiva della classe medica, la quale soltanto è autorizzata, da lei medesima e dalla legge, a praticare trattamenti terapeutici. Chiunque eserciti l’analisi esercita la medicina; chiunque eserciti la medicina sprovvisto di laurea in medicina non è semplicemente un laico – un profano –, ma un ciarlatano. Questa posizione estrema di solito non è formulata in modo così esplicito; invece è importante esporla a chiare lettere, visto che ha tanta influenza sull’analisi. Tocca da vicino, per esempio, la posizione professionale dell’analista che non è medico. Può capitare che l’analista non medico debba appoggiarsi a uno psichiatra che non è mai stato analizzato né ha studiato l’inconscio; o peggio, può capitare che sia interdetto per legge dall’esercitare la sua professione.
Molto più grave è l’effetto che la posizione medicalista ha avuto sul pensiero e sulla pratica di tutti gli analisti, medici e non medici. Quella tesi (l’analisi è una specializzazione della psichiatria e la psichiatria è una specializzazione della medicina) incrina subdolamente la coscienza di sé dell’analista influendo sui suoi atteggiamenti. L’analista si convince che il suo lavoro rientri in una disciplina medica, e dunque tenderà a concepire i propri problemi e a formulare le proprie risposte in termini medici, il che lo porta a considerarsi un profano. Adotta lui stesso il punto di vista della medicina, senza accorgersene. E senza accorgersi della speciosità di questo ragionamento. Perché è l’analisi, e l’analisi soltanto, che si dedica totalmente e specificamente ai problemi della psiche, che lavora con materiali, metodi e finalità esclusivamente psicologici. L’analisi è l’unica disciplina che indaga la psiche nel suo ambiente naturale, vale a dire all’interno di una relazione. L’analisi può essere definita nel modo più semplice come lo studio, all’interno di una relazione, di eventi psicologici inconsci, al fine di portarli a esistere nella coscienza. La psichiatria è soltanto uno dei modi di accostarsi a quegli eventi, un modo che è limitato dal fatto di avere per base la medicina. Finché non avrà spazzato via dentro di sé questi modelli di pensiero inautentici, l’analista non sarà in grado di costruire autonomamente la sua disciplina. Non solo: finché non si schiererà totalmente dalla parte dell’anima, l’analista verrà inevitabilmente meno alla sua vocazione e al suo analizzando. È stato detto che, poiché è nata in ambito medico, l’analisi rientra nella medicina. Freud e Jung erano entrambi medici, l’uno specializzato in neurologia, l’altro in psichiatria. L’analisi è nata in ambito medico ed è stata scoperta da medici semplicemente perché i medici erano gli unici a prestare ascolto alla psicopatologia, ai patimenti dell’anima. Dopo che Darwin aveva riesumato i progenitori scimmieschi dell’uomo e Nietzsche aveva annunciato la morte di Dio, e dopo il materialismo razionalistico del
diciannovesimo secolo, l’anima cercò rifugio nel gabinetto dell’alienista. La psiche si era alienata dal mondo, perché il mondo aveva perduto la sua anima. Freud diede ascolto alle sue pazienti isteriche, Jung ai suoi pazienti schizofrenici. E scoprirono una pregnanza di significati, con ciò riscoprendo l’anima nel luogo più inatteso: tra i malati e i matti. Benché quello sia il luogo in cui è stata ritrovata, è opinabile che l’anima con le sue sofferenze debba rimanere per sempre una provincia della medicina. Voglio dire: molte persone che sono alla ricerca di sé approdano alla fine nello studio dell’analista. Mettiamo pure in ridicolo questa moda di «andare in analisi», ma ciò non toglie che si tratti di un fatto psicologico. La religione e la medicina, allora come oggi, sono troppo sane per offrire una risposta efficace all’anima in extremis, ed è in extremis, nei patimenti e nei sintomi radicati nell’inconscio, che cominciamo per la prima volta ad avere sentore dell’anima. L’anima è stata seppellita nell’inconscio e chiede un aiuto psicologico, un aiuto nella sua lingua. Quelle persone vogliono qualcuno che si interessi della psiche in quanto tale, uno specialista dell’anima, non un medico o un prete, e neppure un amico. Gli analisti non hanno certo chiesto di fare i preti o i medici, e magari vi fossero più amici saggi e amanti sinceri! Si sono ritrovati in questa posizione perché nessun altro voleva occuparsi della psiche, della psiche in sé. L’analisi è iniziata là dove l’anima giaceva nell’oscurità, e così gli analisti sono diventati specialisti in oscurità. Si sono schierati dalla parte dell’inconscio e del rimosso e il loro è diventato un lavoro della mano mancina: sinistro, da ciarlatani, antiaccademico, servo del diavolo. Ma da quella posizione estrema, l’analista ha potuto incontrare l’anima, anch’essa esiliata nella vita in extremis. In origine, l’approccio della medicina era diverso. Lo si evince dai significati di base dei termini usati per designare il medico. Vedremo con una breve indagine di quei termini come, man mano che la medicina si è allontanata
dall’approccio antico, facendo proprio il punto di vista delle scienze naturali, gli aspetti lasciati vacanti abbiano cominciato a essere occupati dall’analista. Per indicare il medico, la lingua inglese usa il termine «physician», cioè «fisico»,10 che deriva dal greco phýsis, «natura», dalla radice sanscrita bhu, «far crescere, produrre» e anche «essere». Il «fisico» era in origine lo studioso della natura: un filosofo che si occupava della natura dell’essere, o ontologia, oltre che dell’essere della natura. La sua conoscenza della natura gli veniva dallo studio dell’uomo, inteso sempre come l’uomo intero, non semplicemente la materia di cui è fatto. Questo avveniva prima che si operasse la scissione tra uomo e natura e la natura fosse fatta coincidere con la materia. Ma a partire dal Seicento, la filosofia della natura è stata soppiantata dalla fisica, ed è nella fisica che il «fisico» cerca il modello ultimo della natura umana e i metodi per gestirla; avvicinandosi alla scienza della natura, si è allontanato dalla natura dell’uomo. Questo ha prodotto sia le grandi conquiste della medicina moderna, sia le grandi difficoltà del medico moderno nel comprendere ciò che nei suoi pazienti non può essere spiegato dalla scienza razionalistica. Il termine «dottore» deriva invece dal latino docere, «insegnare», termine affine a ducere, «condurre, guidare», e a educare, «istruire». Un animale «docile» è facile da ammaestrare; un «documento» (documentum) è ciò che serve per insegnare, e una «dottrina» (doctrina) è il contenuto di un insegnamento, una scienza. I «Dottori della Chiesa» della tradizione cattolica erano i grandi teologi e filosofi cristiani. Nelle scuole di medicina delle università medioevali, i soli medici che avevano il diritto di fregiarsi del titolo di «Dottore» erano coloro che tenevano corsi di insegnamento, come avviene oggi nelle università tedesche per il titolo di Dozent. Si sottintende che colui che reca il titolo di dottore dovrebbe essere un uomo di cultura, dedito agli studi e alla ricerca e capace di insegnare ad altri il suo sapere. È curioso notare come [in Inghilterra e negli Stati
Uniti] questo titolo sia riservato oggi quasi esclusivamente ai medici che esercitano praticamente la professione. I termini «medicina» e «medico», con i loro derivati, come «medicamento» e «rimedio», vengono dal latino medicus, connesso al verbo mederi, «risanare, curare». Ma a scavare più a fondo, ci si imbatte nuovamente in un elemento filosofico. Mederi, «curare», è affine a meditari, «meditare, riflettere». Derivano entrambi dalla radice antico-iranica vimad, «considerare, valutare, misurare», tutti atti della coscienza riflessiva. In gaelico troviamo l’analogo midiur, «giudice», e med, «bilancia»; come osservano Prince e Layard, med è il fulcro della bilancia, il punto mediano (medium) che tiene insieme gli opposti dividendoli in due parti uguali (mediare). Queste associazioni linguistiche possono essere interpretate nel senso che la cura e le cure offerte dalla medicina sono legate alla meditazione, al pensiero riflessivo che va in profondità. «Misura» e «bilancia» trascendono la loro accezione farmaceutica. Il medicus, mentre misura la febbre e il dosaggio, misura anche se stesso. Per fornire al paziente un consulto adeguato, deve tenere un consulto con se stesso. Cura e rimedio sono qualcosa di più di semplici eventi prodotti attraverso l’applicazione materiale di cure mediche; sono frutto di meditazione e richiedono una presa di coscienza da parte del medico. L’attenta considerazione della teoria è altrettanto necessaria della pratica; il tenere un consulto con se stessi è altrettanto fruttuoso del consultare i colleghi. La meditazione è theoria, l’attività contemplativa e visionaria della vita religiosa. Insomma, la «medicina» conduce all’autoanalisi. Il termine terapia viene dal greco therapéia, «cura», dalla radice sanscrita dhar, «portare, sostenere, reggere», da cui dharma, «regola, abitudine, tradizione», intese come ciò che porta e sorregge. Il terapeuta è colui che sorregge e che accudisce, come fa il servitore (in greco, théraps, therápon). È anche colui al quale appoggiarsi, aggrapparsi, dal quale essere sorretti e sostenuti: dhar infatti è anche la radice di
thrónos, «trono, seggio, sedia». Tocchiamo in questa etimologia una delle radici della relazione analitica: la sedia dell’analista è davvero un trono possente, che costella la dipendenza e proiezioni numinose. Ma anche l’analizzando ha la sua sedia, e ha nell’analista il suo servitore e insieme il suo sostegno. Analista e analizzando sono entrambi coinvolti emotivamente nella relazione e la dipendenza è reciproca. Non si tratta tuttavia di una dipendenza personale, dell’uno nei confronti dell’altro. È piuttosto una dipendenza di entrambi nei confronti della psiche oggettiva, al cui servizio, nel processo terapeutico, essi si pongono insieme. Sostenendo la psiche, dandole premurosa attenzione e accudendola con devozione, l’analista traduce nella vita il significato della parola «psicoterapia». Lo psicoterapeuta è, letteralmente, il servitore dell’anima. È interessante osservare come il termine terapia sia quasi del tutto scomparso dal lessico della medicina. Ricorre più che altro nelle professioni non mediche: psicoterapia, terapia di gruppo, fisioterapia, terapia occupazionale, terapia del gioco, eccetera. Si tratta di situazioni in cui sono primari gli aspetti emotivi, come cura amorevole e premura reciproca; mentre nella medicina sono stati rimpiazzati da procedimenti più intellettuali, come diagnosi, farmacologia e chirurgia. Nel momento in cui si è allontanato da questo significato della terapia, il medico è ora più vicino al primo termine greco usato per indicare questa figura: iatrós. L’origine di questo termine è incerta, ma secondo interpretazioni autorevoli esso significherebbe «colui che riscalda»; lo iatrós è colui che eccita e rianima, che combatte la fredda morte. Il termine sarebbe anche affine al latino ira, cioè collera, aggressività, uno spirito di prepotenza, temperamento, irascibilità. «Psichiatra» significherebbe dunque animatore o ispiratore della psiche, colui che ridà calore e reattività stimolando ed eccitando. L’elettroshock e altre stimolazioni esterne sono espressioni moderne e concrete di questa antica idea. Esistono altri modi per eccitare, rianimare e stimolare. La
vivificazione può avvenire anche attraverso il coinvolgimento emotivo con il paziente nel processo terapeutico. Qui, per dare calore e vita al paziente, il medico fa ricorso al proprio spirito e alla propria anima (l’anima inconscia). Sfortunatamente, troppo spesso il camice bianco, gli strumenti sterilizzati, l’atmosfera dello studio medico in generale impediscono tale coinvolgimento emotivo. E, sfortunatamente, l’atteggiamento da medico ha impedito a molti analisti di mostrare il proprio spirito e il proprio temperamento, per timore che questo potesse costituire una forma di «suggestione» o di «consiglio» e fosse dunque antiscientifico. Se si può giudicare dall’etimologia di iatrós, è compito del guaritore ispirare, animare e attizzare l’emotività. Quando adempie a questo compito, l’analista potrebbe essere più vicino alla figura del medico nell’antica accezione, che non il suo distaccato collega dottore in medicina. Il coinvolgimento emotivo con il paziente è messo in evidenza in altri termini usati nelle lingue europee per designare il medico: läkare (svedese), lekarz (polacco), lekar (serbo; termini simili si trovano in altre lingue slave). La radice in questi casi è la stessa del latino loqui, parlare, da cui «eloquenza» e «loquace». Connesso attraverso la medesima radice è il verbo greco del discorso razionale, léghein, nonché la voce affettiva della natura animale: lákein (emettere strida); e inoltre il lituano loti (ululare), il latino latrare, detto del cane. Il compito del medico era affine, secondo queste etimologie, a quello dello stregone delle società tribali. Il livello affettivo del trattamento, alimentato dalla recitazione di formule magiche, preghiere e lamentazioni, aiutava il medico primitivo a scacciare i demoni. Egli partecipava con la voce e parlava da livelli al di sotto della conoscenza razionale. Lasciava perfino che i demoni si impossessassero di lui, assumendosi come propria la malattia del paziente. Tra tutti questi sradicamenti linguistici, il più rivelatore è il cambiamento di significato subito dalla parola «patologia».
Letteralmente, patologia significa il lógos del páthos, che si potrebbe tradurre con lo studio della sofferenza. La radice indoeuropea di páthos è spa, rintracciabile nel tedesco moderno nei termini emnen, emnung, che esprimono tensione estrema, come della corda di un arco. Dalla medesima radice derivano «paziente» e «pazienza», che rimandano a una lunga resistenza: come dicevano gli alchimisti, «nella tua pazienza è la tua anima». Lo sradicamento della patologia, nel senso moderno di eliminazione della malattia, se applicato alla psiche significa anche eliminazione della tensione e della sofferenza, della pazienza di resistere: eliminazione, alla fine, dell’anima. Dire che i pazienti mettono a dura prova la pazienza del medico non è soltanto un logoro gioco di parole. Nella sua pazienza è la sua anima, e nei suoi pazienti è l’anima della medicina. Il modo in cui il medico va incontro ai suoi pazienti, comprende la loro patologia, tollera la sofferenza e la tensione e trattiene il proprio furor agendi rivela la sua pazienza e la profondità della sua anima. Lo scopo di questa digressione è stato quello di indicare un lato ulteriore delle parole fondamentali della professione medica. Questo altro lato, più antico, è sia filosofico sia emotivo. Rimanda alla meditazione e a una forma di partecipazione emotiva, due modalità che trascendono la visione troppo angustamente intellettuale del medico inteso come scienziato della natura. Questo altro lato è più simile all’atteggiamento dell’analista, il quale indaga la natura cercando di comprendere l’uomo. Finché il medico non sarà ritornato a questa concezione più antica e più integrale della sua vocazione, non riconosceremo alla medicina alcun diritto esclusivo su parole come «terapia», «dottore», «paziente», e così via; né attribuiremo validità all’opinione della medicina su chi o che cosa, nella psicoterapia, sia da considerare «laico», cioè profano. 10. Anche l’italiano «fisico» era utilizzato in questa accezione, in contrapposizione a «chirurgo», almeno fino alla metà dell’Ottocento [N.d.T.].
8 Il guaritore come eroe
Andremo ora a vedere come mai, dalla prospettiva della medicina, il suicidio va prevenuto, la malattia combattuta e la morte differita. Non sarà che, a conformare la prospettiva del medico e a guidare la sua attività, sia una metafora radicale, un atteggiamento archetipico? Abbiamo detto che si tratta di un atteggiamento di orrore nei confronti della morte e abbiamo trovato indizi di come esso influisca sul lavoro del medico da dietro le quinte, attraverso il suo inconscio. Con ogni probabilità, tale orrore corrisponde a un’idea archetipica presente nella psiche che non riguarda soltanto la morte, ma anche la inconscietà. Una metafora in cui sono uniti orrore dell’inconscietà e orrore della morte è rintracciabile nel simbolismo archetipico della Grande Madre. Le rappresentazioni maschili della morte (come ha spiegato Edgar Herzog) hanno spesso un’impronta oscura e terrigna, associata a una Dea onnipotente e divorante. Il nemico della morte è l’eroe rappresentante della luce, dell’aria, del cielo, un Dio solare, il principio di coscienza. Quanto più prendiamo in senso materialistico l’idea della morte presente nella psiche, tanto più saranno concrete le armi dell’eroe e tanto più fisicamente visibile sarà il principio di coscienza. Quando la morte è concepita soltanto come morte biologica, materiale, allora portatore del principio di coscienza deve essere chi affronta la sfida fisicamente, a livello biologico. Perciò, oggi, il primo portatore dell’immagine del nemico della morte è il medico. Il principio della coscienza, della luce, dell’aria e del cielo è stato materializzato nei suoi lucenti strumenti chirurgici, nei suoi farmaci dai colori dell’arcobaleno, purgati con il fuoco e con lo spirito di tutte le impurità ctonie.
Il medico trae la sua potenza da questo archetipo. Non è il suo sapere a conferirgli il manto dell’eroe, giacché sulla vita e sulla morte il medico in fondo non ne sa molto più di altri, come molti vecchi dottori di famiglia sono pronti ad ammettere, e come molti pazienti e molti giovani medici intelligenti hanno dovuto amaramente scoprire. Né l’aura eroica gli è conferita dalla sua dedizione e dal suo spirito di sacrificio. Anche altri, i minatori per esempio, ubbidiscono a un codice di lealtà e corrono altrettanti rischi, senza essere nobilitati da questa immagine. Il medico è numinoso perché è il principe dei combattenti contro la nera morte. La lotta contro l’oscurità è forse il primo compito dell’uomo; e ogni volta che il medico fascia una ferita o scrive una ricetta, si riproduce la lotta contro il drago regressivo della inconscietà, le «fauci della morte». Di conseguenza, il medico deve predisporre un trattamento. Soprattutto, deve fare qualcosa. Se non facesse niente, niente del tutto, abbasserebbe le armi di fronte alla morte e si svestirebbe del suo ruolo archetipico, di ciò che innanzitutto lo ha reso efficace. Il minimo accenno di passività da parte sua diventa una sorta di suicidio. Per lui, la regressione terapeutica è una contraddizione in termini. La guarigione deve essere una marcia in avanti, un attacco contro le potenze dell’oscurità. Egli deve combattere la morte negli altri e tenere vivo il mito dentro di sé. Poco importa quello che fa, purché sappia costellare l’immagine del salvatore, di colui che tiene lontana la morte anche solo di poco. Guarire significa sottoporre a trattamento. Gli esperimenti con i placebo, gli svariati, a volte contraddittori, trattamenti prescritti per certi stati patologici, nonché la grande varietà di scuole terapeutiche (medicina occidentale ortodossa, agopuntura cinese, cure miracolose, rimedi casalinghi, sciamanesimo, omeopatia, preghiere, chiroterapia, Christian Science, idroterapia, medicine alternative, ecc.), dimostrano che non conta ciò che il medico fa, ma la circostanza che faccia qualcosa. Questo non significa che il grandioso apparato della
medicina ortodossa sia inutile e che tanto varrebbe tornare alle sanguisughe e ai salassi. Non è qui il punto. È ovvio che, entro il sistema operativo usato oggi dalla medicina occidentale, certi trattamenti sono i migliori. È ovvio che la medicina scientifica è efficace. Ma il punto è che, dentro al sistema operativo di qualunque scuola di medicina, è contenuto l’archetipo del guaritore. È l’archetipo del guaritore a conferire numinosità al medico ed efficacia al trattamento. In altre parole, la guarigione poggia sul guaritore non meno che sul medicamento. L’archetipo del guaritore è stato concepito in maniera troppo ristretta. Particolarmente riduttiva è l’idea diffusa che il guaritore sia al servizio della vita soltanto. Una volta ancora, la vita è stata ridotta alla fisiologia, laddove il termine greco originale, bíos, indicava l’intero processo o corso della vita, non semplicemente il suo funzionamento corporeo. Non la vita, bensì la luce è il vero Dio del guaritore. Il guaritore rappresenta la coscienza; è l’eroe portatore di luce. Il Dio greco protettore dei guaritori, Asclepio, è figlio di Apollo. Non fa direttamente parte del grande pantheon; è uno dei figli del Dio del sole, uno dei tanti modi in cui la luce della coscienza opera nel mondo. L’archetipo del guaritore non è legato a una specifica modalità o forma di medicina, basta che la modalità attraverso la quale risplende promuova la coscienza. Anche la chiarificazione, l’illuminazione, l’introspezione, la visione, la concentrazione dell’esperienza, come anche l’ampliamento degli orizzonti spirituali, sono al servizio di Apollo. La guarigione può essere prodotta pure attraverso la dialettica dell’analisi, non dipende necessariamente dalle tecniche concrete della medicina fisica. Con la secolarizzazione della medicina, gli Dei hanno perduto la loro realtà. E degli Dei morti non possono certo guarire. Oggi, soltanto il medico è in grado di guarire, ed è per questo che è caricato di tanto valore e deve sempre fare qualcosa: è l’agente di se stesso e la guarigione arriva per mezzo delle sue azioni. Un tempo era un agente degli Dei,
strumento passivo delle loro intenzioni. Nella medicina asclepiea, un sistema durato almeno un migliaio di anni (e ancora operativo nell’analisi contemporanea, come suggerisce Meier), il guaritore era assolutamente passivo, a paragone della smania di azione del medico moderno. Gli Dei inviavano la malattia e quando i tempi erano maturi la toglievano. (Spesso, i tempi non erano mai maturi, o meglio, la maturazione era la morte stessa e dunque la cura era la morte). Allora, era Apollo ad agire. Secondo Kerényi, uno dei suoi epiteti era boethós, «[colui] che corre in soccorso». Il medico era l’assistente del Dio e assecondava il naturale processo di guarigione, alla luce delle sue conoscenze. Ma il suo sapere non era mai una sostituzione del processo naturale; conoscere non era guarire. Oggi, il medico combatte da solo con la vita e la morte, perché gli Dei sono morti… o così egli crede. Ha preso il posto degli Dei, e un segnale della sua assunzione a un ruolo divino è il suo correre in soccorso, la sua smania di azione, il suo furor agendi. Benché sia ancora sorretto dalla sua metafora radicale, il medico ha perduto il rapporto con essa, sicché si direbbe che a volte sia posseduto da Apollo, il quale spinge la medicina verso un desiderio crescente di luce, di ordine, di razionalità, di moderazione, verso una armoniosa perfezione priva di emotività. Il medico venera questi princìpi, e ogni nuovo ospedale è un tempio dell’Apollo secolarizzato, dove i grandi sacerdoti fanno il giro di visite con il loro seguito biancovestito, passando tra i supplici dolenti, dispensando ordini nel linguaggio incomprensibile di una setta. Sempre meno di frequente il medico lascia i sacri precinti per entrare con le visite domiciliari nel mondo irrazionale e non sterilizzato dei sofferenti. Sempre più spesso, i grandi momenti dell’esistenza, la nascita e la morte, hanno luogo dentro il tempio del medico, che pure in origine era stato eretto non per la nascita e la morte, ma per la malattia. Quando indaga l’inconscio, l’analista deve stare attento all’indebita influenza di Apollo. L’oscurità non è il primo
regno di questo Dio. La coscienza apollinea tende a ritrarsi con orrore dall’inconscio, che identifica con la morte. L’analisi condotta da medici, con il suo retroterra apollineo, userà la dialettica troppo intellettualmente, troppo come una tecnica. L’analista medico si trova così a cercare di produrre nel suo paziente ordine, razionalità e distacco. A cercare di chiarire i problemi portando alla luce l’inconscio. Va orgoglioso di saper spiegare i meccanismi e mira all’equilibrio e all’armonia. Soprattutto, tende a lavorare in modo distaccato, dall’alto di un trono olimpico di onniscienza. Se Apollo è distacco e chiarità, Dioniso è coinvolgimento. Nel suo bisogno di Apollo, l’analista potrebbe essere portato a osteggiare il suo opposto, Dioniso. Se vuole riuscire a tenere un piede dentro e un piede fuori, come quando si trova di fronte al rischio del suicidio, l’analista farà bene a poggiare sulle prospettive fornite da entrambi gli Dei. I racconti su Dioniso illustrano l’altra prospettiva. Dove Apollo è moderazione, Dioniso è esagerazione, e l’orgia ne è la rappresentazione migliore. Dioniso si presenta in forma di toro, leone, pantera e serpente; e possiede una pronunciata femminilità. Era celebrato nella danza e onorato come protettore dell’arte drammatica, che aveva intenti terapeutici. I partecipanti ai misteri dionisiaci smembravano e divoravano il Dio e lo bevevano sotto forma di vino. Attraverso l’ebbrezza orgiastica, la danza gioiosa e le passioni di una rappresentazione drammatica, essi incorporavano lo spirito del Dio ovvero penetravano nel suo spirito. Quando lavora a partire dal cuore delle sue emozioni, dove lui stesso è più oscuro e fissato, quando lavora con uno spirito che scaturisce dall’istinto, l’analista sta seguendo questo opposto di Apollo. È un approccio impensabile per la medicina, a meno che essa non voglia adottare i metodi degli stregoni. Anche questo approccio all’inconscio, pur così diverso, è unilaterale, ma qui, se non altro, il regno
dell’oscurità non è più identificato con la Grande Madre e non è vissuto con orrore, come avviene inevitabilmente dalla prospettiva dell’eroe solare. Con l’aiuto di Dioniso, l’analista impara a farsi afferrare dal dramma del paziente, a entrare nella follia e a lasciarsi dilaniare, a far emergere la donna che è in lui, ad accettare la propria forma animale e ad ammettere di essere mosso dalle pulsioni brutali del potere, del riso sboccato, della passione sessuale, della fame di possesso. Dioniso offre il coinvolgimento nella sofferenza: qui, il contrassegno del guaritore-eroe sarà la capacità di vivere in se stesso i tormenti delle emozioni e di trovare, attraverso di esse, un’identificazione con le medesime forze presenti nell’altro. Sono gli opposti – mano sinistra, mano destra; un piede dentro, un piede fuori – che mantengono nell’analista la tensione della coscienza. Troppo dell’uno o troppo dell’altro – troppo distacco o troppo coinvolgimento –, ed ecco che l’analista è scivolato inconsciamente in un ruolo archetipico. Il più pericoloso per lui è quello apollineo, perché esso tende a coglierlo alle spalle, attraverso il retroterra medico della professione. Allora l’analista diventa il guaritore eroico, che contrasta, previene e teme le confusioni che il paziente gli ha portato da guarire. La verità è che l’analista non è il Guaritore. Non esistono Guaritori; esistono soltanto persone attraverso le quali opera l’archetipo del guaritore, attraverso le quali Apollo o Dioniso parlano. L’analista appare il Guaritore soltanto allo sguardo distorto dei malati, perché i malati non hanno modo di trovare in se stessi la fonte della guarigione. Non sono più in grado di udire la voce delle potenze guaritrici dell’inconscio e di comprendere la loro lingua. Perciò l’analista deve fare da mediatore tra i malati e gli Dei, e, forse, tra gli Dei stessi. Se l’analista si identifica con il ruolo divino del Guaritore, obbliga l’analizzando all’identificazione con il ruolo compensatorio del Paziente. Allora l’analisi diventa interminabile, perché l’analista ha bisogno del paziente con la stessa intensità con cui il paziente ha bisogno di lui. In
inglese, health e healing («salute» e «guarigione») hanno la stessa etimologia di whole («tutto; intero; integro»): la salute, dunque, è totalità, non potrà mai dipendere da un’altra persona. Finché guarda al Guaritore per avere ciò che non ha trovato, vale a dire la propria personale relazione con gli Dei, il paziente non può che rimanere il Paziente. La salute, come la totalità, è completamento nell’individualità, dunque comprende anche il lato oscuro della vita: i sintomi, la sofferenza, la tragedia e la morte. Totalità e salute, dunque, non escludono questi fenomeni «negativi»; essi sono requisiti della salute. Ecco che comincia a trasparire come sia diverso il modo di rapportarsi all’archetipo del guaritore da parte dell’analista rispetto al suo collega medico, troppo influenzato dalla tradizione apollinea. La tradizione dell’atteggiamento distaccato è peraltro relativamente nuova, nella medicina. In passato, la medicina era più vicina a quello che è oggi l’analisi, abbracciava il corpo e l’anima, l’apollineo e il dionisiaco. In tutte le culture, anche nella nostra fino a tempi recenti, i medici erano sacerdoti al servizio degli Dei; oggi rimane il sacerdozio, rimangono i templi, ma dove sono gli Dei? La nuova religione dell’illuminismo ha messo sul trono la ragione e il corpo a spese dell’eros e dell’anima. Ed è appunto nelle sfere trascurate dell’eros e dell’anima, non nella tecnica razionale, che la medicina moderna trova i suoi punti di crisi: iperspecializzazione, visite domiciliari, parcelle, gestione ospedaliera, intrusione della politica, formazione, relazione medico-paziente – tutti problemi che mostrano come l’aspetto umano sia caduto nell’ombra. Il problema è in gran parte dovuto alla rimozione del dionisiaco, quell’elemento essenziale della guarigione che fino a non molto tempo fa era tenuto in grande conto in tutte le forme di medicina. Se ne può dedurre che il medico dei nostri giorni non sia immune dal difficile rapporto che la nostra cultura ha con il corpo e che con la carne non abbia maggiore dimestichezza dei suoi pazienti. Non possiamo però biasimare lui solo, per il suo materialismo e la sua
tendenza a rifugiarsi nel laboratorio e nella chirurgia, dove spirito e corpo possono essere separati con rassicurante nettezza. Tutti noi ci comportiamo così, in questa epoca della scienza apollinea e dell’«acting out» dionisiaco nell’affetto e nella fantasia. Il medico si trova a portare il fardello della nostra delusione soltanto perché è il portatore dell’immagine del guaritore, e noi abbiamo un tale disperato bisogno di essere guariti. Ci aspettiamo che ci indichi la strada con il ritornare lui stesso all’immagine archetipica del guaritore. Così l’analista non sarebbe ricacciato su quelle posizioni estreme: «solo anima», «solo eros», «solo emotività». Allora, potrebbe nascere un’autentica analisi medica, ispirata a un’arte della guarigione nel nome di entrambi gli Dei.
9 Il giudizio patologico
La patologia è la parte della medicina che studia l’insorgere e l’evolversi degli stati morbosi; è stata definita il ramo della scienza che ricerca le cause e i meccanismi della malattia, e il concetto di malattia è stato costruito estrapolando le caratteristiche che differenziano il malato dal soggetto normale. La patologia parla dei disturbi del bíos, del processo vitale. Esistono una patologia organica e una psicopatologia. Come abbiamo visto, in origine «patologia» significava studio della sofferenza; nella patologia moderna, tuttavia, la sofferenza del soggetto – i disturbi che accusa – è soltanto uno dei fattori che vanno a costituire i dati determinanti la malattia. E non è neppure il fattore centrale; gran parte dell’attività di ricerca della patologia è svolta da persone che non hanno mai visto il paziente, ma soltanto pezzetti della materia di cui è fatto. Poiché ciascun paziente presenta variabili soggettive che distorcono la precisione del microscopio, il patologo trova più agevole escludere per quanto è possibile il sofferente dal quadro, in modo da individuare la malattia rapidamente e con precisione. A causa dell’influenza della patologia, la medicina è diventata sempre di più una sfida intellettuale, e sempre meno una relazione emotiva tra dottore e paziente. Spostando la messa a fuoco dal capezzale del malato al laboratorio, o lasciando che i metodi del laboratorio, propri della patologia, influenzino il suo atteggiamento clinico, ecco che il medico adotta un pregiudizio patologico. Un pregiudizio che lo indurrà a credere che le malattie esistano indipendentemente dagli esseri umani e che sia più corretto studiare la malattia in sé, piuttosto che l’essere umano ammalato.
Anche l’analista, quando sposta l’interesse dalla persona che accusa un disturbo al disturbo stesso e alla sua causa, abbandona il capezzale in favore del laboratorio: anche l’analista è stato contagiato dal pregiudizio patologico. Questo slittamento è più grave nell’analisi che nella medicina, perché nella medicina si danno condizioni che è possibile isolare in vitro, per coltivare, magari, una antitossina da applicare eventualmente, in una fase finale, al paziente stesso. Ma nell’analisi non si hanno parassiti, agenti infettivi o componenti chimici isolabili dal paziente. Non si dà una situazione in vitro, non c’è un altro luogo in cui condurre le osservazioni, perché nell’analisi la malattia è il paziente. Anche quando applica le tecniche più avanzate della istochimica nel tentativo di sciogliere «l’enigma della vita», il patologo segue pur sempre il metodo classico della anatomia, che consiste nel separare le cose separabili, ovvero, come scriveva Claude Bernard, nello «scindere successivamente i fenomeni complessi in fenomeni sempre più semplici». Questo conduce a una crescente differenziazione delle parti (come nella fisica nucleare), che a sua volta richiede strumenti tecnici sempre più raffinati. L’organismo nell’interezza della sua situazione vitale non è più al centro, perché l’organismo è complesso e un fenomeno complesso non può essere afferrato da uno specialista. La medicina tende a elaborare nuovi strumenti e nuove tecniche per scindere quel fenomeno complesso che è il paziente. Ai fenomeni semplici si accede di solito procedendo a ritroso verso le origini: in questo consiste l’approccio genetico nella spiegazione dei problemi. I processi, come la malattia, sono indagati nella loro, più semplice, infanzia, e non alla luce dei fini che conseguono, visto che il fine è sempre e comunque quello stato universale che è la Morte. Di conseguenza, l’embrionale tende a essere più interessante del maturo e l’infanzia è considerata più importante della vecchiaia. L’approccio genetico ha avuto un effetto infausto sulla psicoterapia. Disturbo psicologico ha finito per significare
disturbo infantile e la ricerca è volta a scindere il presente dal passato, a ridurre il complesso al semplice, i traumi psicologici a traumi materiali. Corriamo a ritroso lungo i binari di questo modello fallace verso eventi anteriori più semplici, per fermarci soltanto quando arriviamo a quell’altra certezza, oltre alla morte, che è la Madre. Sono talmente numerosi i fenomeni che oggi nell’analisi sono interpretati alla luce della relazione madre-bambino, da giustificare il sospetto che la psicoterapia sia affetta da un collettivo complesso materno inconscio. Questa «diagnosi» ben si accorda con l’approccio genetico e causalistico usato dalla psicoterapia a imitazione delle scienze naturali, e ciò che nella scienza è la materia, in psicologia è la madre. Quando l’approccio genetico o quello anatomico non arrivano alle cause prime, come si sperava, allora il pregiudizio patologico è costretto ad aggredire i problemi per mezzo della misurazione. Il modo più semplice per differenziare le cose consiste nel misurarle, perché ogni fenomeno materiale esiste in una data quantità e dunque può essere misurato. Salute e malattia possono essere espresse in formule numeriche: emocromo, metabolismo basale, eccetera. Il guaio è che, come abbiamo visto, questo approccio tende a ridurre le differenze qualitative a differenze di quantità, il che porta con sé un’ulteriore premessa: vita «buona» tende a significare vita più lunga. Allora, promuovere la vita significa prolungare la vita e sviluppo della coscienza significa prestazioni più elevate. I metodi della patologia che la medicina ha incorporato cominciano in tal modo a infettare la psicoterapia. In medicina, quanto più rapidamente e sicuramente viene riconosciuta la patologia, tanto maggiori sono le possibilità di un trattamento rapido e sicuro. Per questo motivo, il medico è sempre all’erta per individuare segni di patologia. Se vuole essere un bravo diagnostico, cosa da cui dipende lo svolgimento del suo lavoro, sarà inevitabilmente portato a spiare la possibilità di affezioni insospettate in tutto ciò che il paziente gli dice e in tutto ciò che osserva in lui.
Qualunque cosa può essere sintomatica; il sospetto è parte integrante del suo lavoro. Se l’analista procede con questo atteggiamento da medico, siamo di fronte a un pregiudizio patologico. Quando diciamo che una persona è ammalata? E che è ammalata mentalmente? I manuali di medicina non si stancano di ripetere che i confini della patologia, anche di quella organica, non sono netti. Esistono diversi livelli di complessità; vale a dire, ci sono malattie, come l’idrofobia e il vaiolo, in cui le variabili individuali sono meno importanti della sindrome patologica, che è spiegata a sufficienza dalle sue cause immediate. Ma condizioni più complesse, come appunto il suicidio, richiedono, per essere comprese, modelli causali più articolati. Esiste una differenza tra condizioni patologiche semplici, spiegabili con un singolo elemento dell’organismo umano, e altre condizioni che, mentre non possono essere spiegate, possono essere comprese soltanto in relazione all’organismo complessivo e al suo ambiente. Il fatto di applicare un modello semplice a una condizione complessa distorce la natura, forzandola in uno schema prefabbricato. Siamo di fronte a un pregiudizio patologico. Per scoprire il confine tra salute e malattia, occorre esaminare più da vicino l’idea che la medicina ha della salute. La salute è generalmente concepita come funzionamento corretto, benessere fisico, solidità strutturale, assenza di patologie, mancanza di turbe o disabilità, e così via. Ovviamente, come ha scritto René Dubos, questa idea della salute è un miraggio, in cui non trovano spazio le realtà della vita umana, che in ogni momento include perturbazione e sofferenza. La «salute» così intesa non fa altro che alimentare il pregiudizio patologico e incoraggiare le prescrizioni regressive della psichiatria moderna: antidolorifici, tranquillanti, vacanze e svago. Ma la sofferenza fa talmente parte del destino dell’uomo, che la si può considerare più «normale» di una simile salute ideale, anzi, diciamo pure che la sofferenza è la normalità della salute. Se questo è vero, allora dove comincia la patologia?
Da un terzo ai due terzi dei disturbi che il medico incontra in ambulatorio non presentano alcuna precisa patologia. Nelle situazioni complesse, la definizione di malattia è altrettanto vaga della definizione di salute. Questa vaghezza è ancora più pronunciata quando si attribuisce maggiore valore al lato soggettivo, al disturbo quale è accusato dal paziente. Può succedere che ci siano prove oggettive di patologia senza che sia accusato alcun disturbo, e che sia accusato un disturbo in assenza di evidenze patologiche. Interno ed esterno possono presentare segnali molto diversi. Per il medico, un segnale primario di patologia è il dolore fisico. Il medico razionalista di un tempo identificava dolore e sofferenza. Dove non esisteva una base organica dimostrabile, la sofferenza era semplicemente immaginaria. La base della sofferenza doveva essere il dolore, come se il grido di Cristo sulla croce fosse scaturito dalle sue ferite fisiche. Oggi sappiamo che la sofferenza precede il dolore fisico; è la psiche che traduce gli eventi fisiologici in sensazioni dolorose. Basta alterare lo stato di coscienza, per esempio con l’ipnosi, ed ecco che il fachiro cammina sui carboni ardenti e il trapano del dentista è indolore. La sofferenza può essere presente senza una base nel dolore organico e addirittura può esserci dolore fisico senza una base organica (dolore fantasma). Ma non può esserci dolore fisico se non viene sofferto dalla psiche. Questo significa che la sofferenza viene prima del dolore, il quale è soltanto una miccia (la più importante, certo) che fa esplodere la sofferenza. A parte l’intervento diretto volto a rimuoverne la causa, il dolore fisico può essere aggredito a livello psicologico solamente in due modi: accrescendo la capacità di sopportare la sofferenza, alla maniera spartana o stoica (e le tecniche psicologiche muovono in questa direzione), oppure diminuendo la sensibilità con antidolorifici, secondo l’uso moderno. Questo metodo porta a una riduzione della capacità di sopportazione che a sua volta riduce la tolleranza di tutti i tipi di sofferenza. Il circolo vizioso che in tal modo si
avvia porta non già a una riduzione della sensibilità, ma anzi a un’accentuata suscettibilità alla sofferenza, sicché i calmanti diventano sempre più indispensabili. Con ciò si instaurano una sorta di ipocondria cronica e la dipendenza dai farmaci e dallo svago tipica della nostra epoca. Il pregiudizio patologico ha confuso il dolore con la sofferenza, ottundendoci nei confronti di ambedue. Il messaggio che la sofferenza voleva annunciare è cancellato e gli scopi dei nostri dolori psichici non possono arrivare alla coscienza. Questa situazione ha indotto alcuni analisti ad assumere la posizione antagonista: il ripudio di ogni trattamento fisico. Ma così facendo soggiacciono a loro volta al pregiudizio patologico: confondono anch’essi la sofferenza con il dolore. Nel dare riconoscimento al valore della sofferenza, fanno l’errore di credere che il dolore vada ridotto solamente in extremis. Nel rivendicare la funzione della sofferenza nell’ampliare la coscienza, dimenticano che il dolore può limitare drasticamente la coscienza. La sofferenza è necessaria per accrescere la consapevolezza e per lo sviluppo della personalità. Questa è la conclusione a cui siamo giunti con la nostra riflessione sull’esperienza della morte. Quante occasioni di consapevolezza siano state ostacolate dalla definizione idealizzata della salute non lo potremo mai sapere. Possiamo presumere che in molti casi l’esperienza della morte, a causa dell’angoscia che la accompagna, è stata bloccata dal pregiudizio patologico, il quale nella sua rappresentazione della salute non concede spazio alla sofferenza. Per non parlare dei danni che quell’idea di salute ha comportato per lo sviluppo personale e professionale del medico. Considerando la disfunzione e la sofferenza esclusivamente come patologia, il medico impedisce a se stesso di avvertire la sua propria ferita. Nell’antichità, il medico operava le guarigioni attraverso la propria sofferenza; questo è ciò che fece Cristo. La fonte delle cure era la ferita viva, che non si rimarginava. Lo scopo dell’analisi didattica non è soltanto quello di guarire la
personalità dell’analista, ma di aprire le sue ferite, dalle quali sgorgherà la sua compassione. Il medico odierno, invece, non lavora più con le emozioni, perché la sua predilezione per la patologia scientifica tende ad allontanarlo dalla comprensione della sofferenza in favore della spiegazione della malattia. Non applica più l’antica massima: medico, cura te stesso. I medici sono notoriamente pessimi pazienti, forse perché hanno perduto la capacità di essere feriti. L’idea di salute è stata a tal punto falsata, che il medico è incapace di curare se stesso a partire dalle proprie infezioni psichiche, dalle proprie ferite e paure. Il logos della sofferenza non può essere descritto dai testi di patologia, che usano termini clinici per indicare le esperienze dell’anima; è un logos che attiene ai campi della religione, della filosofia e della psicologia. Così come dolore e sofferenza sono fenomeni diversi, alla stessa stregua nuocere e ferire non sono la stessa cosa. Quando tiene aperte le proprie ferite, l’analista non sta facendo del male a se stesso. Quando la storia animica ritorna insistentemente su certe dolorose ferite primarie, sui complessi fondamentali, lo fa per estrarne nuovi significati. Ciascun ritorno riapre le ferite e le fa sanguinare di nuovo, eppure questo processo non contraddice affatto la massima: primum nihil nocere. Qualora l’analista pensi questo e cerchi di suturare le ferite in se stesso o nel paziente dicendo che il tale episodio è un capitolo chiuso, una volta ancora si comporta da medico. La cura sbagliata, o la cura giusta al momento sbagliato, nuocciono più della ferita aperta. La ferita, come ci dicono i poeti, è una bocca, e il terapeuta deve solo prestare ascolto. Un modo consueto per individuare una patologia consiste nel riferirsi a criteri collettivi. Per talune condizioni patologiche i criteri sono soltanto collettivi. Nel caso del vaiolo, per esempio, non c’è differenza tra individuale e collettivo; nel caso del suicidio, invece sì. L’epidemia di suicidi incoraggiata da Egesia di Cirene nell’Egitto tolemaico
dovette essere affrontata con un intervento collettivo; ma i fenomeni psichici epidemici non sono atti individuali. Viceversa, l’applicazione di misure e di criteri collettivi a un comportamento che è in primo luogo individuale rivela la presenza di un pregiudizio patologico. Il medico è tenuto a usare criteri collettivi, se non altro perché l’epidemiologia è il suo campo. Il medico non deve tutelare soltanto la vita del suo paziente, ma anche la vita della società, la salute pubblica. E questo è un compito importantissimo. La prevenzione è fondamentale per la salute pubblica e l’avere uno sguardo patologico aiuta la medicina a individuare la patologia nei servizi igienicosanitari, negli alimenti e nei farmaci, nell’aria e nell’acqua. Inoltre, i metodi collettivi per riconoscere le malattie sono importanti per la diagnostica medica. Poiché i disturbi soggettivi possono non essere verificabili con l’esame oggettivo, e poiché l’evidenza patologica oggettiva può essere molto sfuggente o addirittura assente, la medicina dispone di un altro metodo, accanto alla descrizione soggettiva e all’evidenza oggettiva. E cioè il metodo della patologia statistica. Il concetto di malattia si fonda sull’estrapolazione di quelle caratteristiche dello stato morboso che differiscono dallo stato normale. La patologia dichiara apertamente che le modificazioni atipiche sono semplicemente deviazioni dalla norma. Le deviazioni dalla norma presuppongono una norma definita come tale. Dipendono cioè da dove collochiamo i limiti della normalità, dall’ampiezza che assegniamo alla zona centrale di una curva di distribuzione. Metà delle decisioni che il medico curante prende ogni giorno riguarda disturbi che i pazienti accusano ma che sono privi di una base organica, per i quali non esistono norme oggettivamente definite. In questi casi, pertanto, le deviazioni dalla norma tendono a essere deviazioni dalla norma del medico stesso. Il quale la deduce dalla sua formazione medica, dalla sua esperienza clinica, dai suoi corsi di aggiornamento; e nel caso di condizioni psicologiche
complesse, la sua norma tende a basarsi sulla sua tolleranza personale, sull’entità dell’angoscia che esse suscitano in lui. A differenza dell’analista, egli non ha esposto le proprie norme a una verifica: esse rimangono sotto forma di pregiudizio patologico tra lui e il paziente, il quale magari fa riferimento a norme completamente diverse. Il termine «normale» deriva dal latino norma, la squadra del falegname, l’attrezzo ad angolo retto atto a stabilire se un dato elemento è dritto. Naturalmente, rispetto a uno strumento del genere, si rileveranno delle «deviazioni», e allora qualunque cosa che non sia «dritta» e «allineata» sarà patologica. Ecco che «normale» si fonde in maniera indistinguibile con «sano». L’uso sempre più ampio del termine «deviazione» in politica, nella sessualità, nella tecnologia attesta l’influenza della norma statistica sul pregiudizio patologico. Le nostre idee di normalità tendono a basarsi su aspettative statistiche: ciò che eccede o è inferiore a tali aspettative devia dalla norma. Più la mente del medico è intellettualmente rigorosa, meno è capace di misurarsi con le variabili psicologiche. Le statistiche mediche riducono la tolleranza e accrescono la paura nei confronti delle condizioni che si collocano agli estremi della curva di distribuzione, vale a dire nei confronti dei fenomeni più individuali. La formazione dei medici è carente in quanto non prevede lo studio delle discipline umanistiche, dove è messo in luce il significato delle situazioni che deviano dalla norma: la storia, la letteratura, la biografia. Le aspettative che sono soltanto statistiche non sono più umane. Come ha osservato Jung nel suo ultimo lavoro impegnativo, Presente e futuro, nessun essere umano corrisponde alla norma statistica: siamo tutti ammalati, perché nel modello statistico è incorporato un pregiudizio patologico. Il pregiudizio patologico agisce anche a un altro livello, come deformazione professionale. Il vedere la vita attraverso le lenti della propria professione è uno dei portati dell’addestramento professionale. Lo scrivano è preciso, il
burocrate non prende decisioni, il sarto vede la cucitura e non l’uomo. Si finisce per identificarsi con il ruolo che si svolge, con la maschera che si indossa, con la Persona; l’esterno invade l’interno e determina il modo di vedere. Per la medicina, questa distorsione visiva comporta che si veda innanzitutto la patologia. «Innanzitutto» significa vedere prima di ogni cosa e dietro ogni cosa il patologico, privilegiare il nascosto rispetto all’evidente. Per esempio, per l’analisi freudiana, dietro l’uomo e dietro la cultura si annida la patologia sessuale. È una deformazione che ha falsato la psicoterapia nonché la vita quotidiana stessa. L’amicizia è omosessualità latente; dietro ogni monumento della cultura si nascondono desideri incestuosi, sadismo, analità, invidia del pene, angoscia da castrazione, e via elencando. Per l’esistenzialismo, al cuore dell’agire umano troviamo nausea, orrore, noia e solitudine. Per il marxismo, le grandi conquiste della storia sono riconducibili alla schiavitù, allo sfruttamento e alla guerra. Il patologico riduce il meglio al peggio. C’è una confusione di modelli: la collocazione spaziale è confusa con una scala di valori. Ciò che è primo è ciò che è più semplice, ciò che è più semplice è ciò che è più basso, ciò che è più basso è ciò che è peggiore. Le cose ultime rimandano sempre indietro, agli inizi, al primo anello di una catena causale. In ultima istanza, siamo soltanto animali, o cellule, o miscugli biochimici. Ovvero, nel linguaggio psicologico, ci viene detto che, alla fin fine, siamo soltanto ciò che è accaduto nei primi anni di vita. Psicologia del profondo tende a significare psicologia al livello più basso, più semplice, più distante dalla vita qui e ora. I sogni sono analizzati per scoprire il contenuto latente, non il contenuto manifesto. Poi, una volta scoperto ciò che è peggiore e più basso, si presume di avere trovato anche ciò che è ultimo ovvero primo (che è più semplice e più elementare). Tuttavia, noi siamo anche ciò che diventiamo, ciò che siamo al momento della morte. In un certo senso, la morte è più reale della nascita, in quanto nella morte abbiamo dietro
di noi tutti gli inizi. La morte è immediatamente presente, perché il momento della morte può essere ogni momento, ed è ogni momento per l’anima in trasformazione, la quale vive mediante il morire. Non ci sono problemi morali riguardo al passato se non quello del pentimento. Non esiste un «come» entrare nella vita, mentre esiste un «come» entrare nella morte. Il pregiudizio patologico riduce gli eventi anatomicamente ai loro elementi più semplici e guarda i fenomeni dal lato posteriore. Per esempio, il suicidio ricorre nella maggioranza dei casi in situazioni umane comuni, eppure è concettualizzato nella sua caricatura patologica, quale si presenta tra gli psicotici ospedalizzati. Viene accostato là dove è meno comprensibile, dove è complicato da fattori organici ed endogeni, per i quali la psichiatria non sa comunque dare spiegazioni certe. E si perpetua così il vecchio errore psichiatrico di accostarsi all’anima attraverso la sua anormalità. Ciò che lì si scopre viene poi applicato ovunque. Come scriveva il famoso psichiatra francese Chavigny: «Tout suicide doit être interpreté au point de vue psychiatrique». E Eissler aggiunge: «… la prevenzione del suicidio del paziente è palesemente il primo dovere dello psichiatra e non occorrono altre giustificazioni né discorsi» (p. 165). Tutti i suicidi sono in ultima istanza una medesima persona, il suicida dell’ospedale psichiatrico. Ogni suicidio, come ogni sofferenza, contiene semi opposti; ogni atto ha il suo lato d’ombra, è vero, e dappertutto c’è del patologico. Ma il pregiudizio punta subito al caso patologico, convinto che la radice di ogni atto stia nell’ombra. L’analista che lavora a partire da questo confusionario modello di psicologia del profondo, il modello proprio della medicina, finirà per scoprire che i suoi pazienti sono senza remissione in preda a sensi di colpa. Per quanti sforzi facciano, sembra che non riescano mai ad arrivare al fondo dei loro problemi e, quand’anche ci arrivassero, quel fondo sarà un inferno di bestialità. Fintanto che l’analista riduce gli eventi a elementi ultimi e questi elementi li ritrova soltanto
al livello più infimo, il paziente non può essere strappato da tale terreno maligno. Il pregiudizio patologico dell’analista finisce per trapiantarsi nel paziente, producendo metastasi in ogni angolo della sua personalità. L’ombra ricopre tutto e il paziente è tormentato dalla propria responsabilità per tutto il male che porta con sé, quando invece quella oscurità è in gran parte proiettata dall’ombra dell’analista, con la sua visione deformata. Forse per la medicina l’adozione di un pregiudizio psicologico sarebbe meno dannoso di quanto lo è per l’analisi il pregiudizio patologico. Ogni evento, comprese le malattie organiche che rientrano legittimamente nella sfera di competenza della medicina, risulterebbe avere allora un lato oscuro, vale a dire il suo aspetto inconscio, psicologico. H.J. Simon ha recentemente proposto una teoria ampiamente documentata della malattia, detta della «infezione attenuata», secondo la quale l’uomo e i microbi convivono in pacifica coesistenza, con vantaggi reciproci. Ospite e parassita sono parte del medesimo sistema più ampio, per cui l’infezione (attenuata) è una condizione continuativa e abituale. Se l’agente infettivo proviene da un diverso campo ecologico, come nel caso della rabbia o della peste, non si dà coesistenza naturale. Ma virus patogeni, batteri intestinali, il batterio della tubercolosi, stafilococchi e streptococchi fanno parte del nostro sistema vitale. Certe misure mirate a debellarli (radioterapia, chirurgia, antibiotici) alterano lo stato di infezione attenuata, turbano la coesistenza, causando a volte nuovi sintomi e nuove infezioni: sono le malattie cosiddette iatrogene, cioè causate dal medico stesso. Poiché continua a collegare l’infezione con la malattia e la malattia con la morte, il medico insiste nella lotta, con esiti alla fine controproducenti. La teoria dell’infezione attenuata ci insegna che, perché si produca una malattia nell’organismo ospite, è bensì necessario un agente infettivo, ma esso non è sufficiente per scatenare la malattia: può darsi che siano presenti i germi,
ma non la malattia. Anche quando viene individuato l’agente patogeno, l’occasione scatenante la malattia rimane un enigma. Eufemismi come «abbassamento delle difese» o «squilibrio omeostatico» spiegano poco o nulla. Per capire quali siano le condizioni sufficienti a determinare la malattia occorre rivolgere l’indagine sull’organismo ospite. Ed è qui che al medico potrebbe essere d’aiuto un pregiudizio psicologico, che lo induca a domandarsi: che significato ha questa malattia in questo momento della vita del paziente? Che cosa sta avvenendo nell’inconscio del paziente e nel suo ambiente? Quale sembra essere lo scopo della malattia? Che cosa sta interrompendo o favorendo? Il «pregiudizio» della psicologia parte dalla premessa che la malattia voglia ottenere qualcosa. Proporrà dunque linee di ricerca del tutto nuove. Insomma, mentre il pregiudizio patologico tende a vedere la malattia dove non ce n’è alcuna e a volte è incapace di spiegarla quando è presente, un pregiudizio psicologico potrebbe offrire informazioni che, da sola, la patologia non sa fornire. Un primo passo verso la correzione dell’astigmatismo della medicina ortodossa e l’acquisizione di una nuova messa a fuoco consisterebbe nell’adozione da parte di ciascun medico di un pregiudizio psicologico. Questo potrebbe interrompere il circolo vizioso delle malattie iatrogene e anche delle malattie ricorrenti. Di più, potrebbe indurre il medico a occuparsi di psicologia con la dedizione che la sua vocazione richiede, a cominciare dall’analisi della propria personalità, delle proprie ferite. La teoria della infezione attenuata, le idee di Jaspers e di von Weizsäcker sull’importanza biografica della malattia, l’impostazione di Clark-Kennedy, di Dubos, nonché altre concezioni olistiche, presentano la pratica della medicina in una nuova luce, più psicologica. Una luce forse meno forte e concentrata, ma capace di illuminare una zona più vasta, una luce che non vede soltanto la parte colpita, isolata sotto i riflettori della sala operatoria, ma l’essere umano intero nella crisi situazionale della sua malattia. Oggi il medico non
può più eliminare la patologia senza, paradossalmente, adottare un pregiudizio psicologico, il quale non mira affatto a eliminarla. Scegliendo di considerare l’analisi una forma «profana» di medicina, in realtà la medicina si sottrae al confronto con l’unico campo che le offre il massimo contributo per la risoluzione dei suoi due problemi più urgenti: il senso da dare alla malattia e il rapporto medicopaziente. Per dirla in altro modo, il medico, nella sua pratica, potrebbe trarre grande profitto dal diventare a sua volta un «profano». Se profano significa non professionale, allora significa aperto. I preconcetti dell’atteggiamento professionale e il rigido modello del pensiero medico potrebbero essere accantonati per rivolgersi con orecchio ricettivo agli enigmi del paziente. Finché la medicina non accetterà la sfida che l’analisi le pone e non lascerà che il suo pensiero sia penetrato e fertilizzato dalla realtà dell’inconscio, le sue idee non saranno di questo secolo, e i suoi progressi continueranno a essere esclusivamente tecnici: chimici, chirurgici, strumentali, mentre la sua mente rimarrà chiusa nella sua monastica verginità e seguiterà ad aggirarsi per le bianche corsie dell’ospedale piena di concetti pittoreschi e antiquati sulla sofferenza, la causalità, la malattia e la morte.
10 La diagnosi e la dialettica analitica
Siamo sicuri che la diagnosi rientri tra i compiti principali del medico che abbiamo passato in rassegna nel secondo capitolo? O non serve piuttosto finalità più fondamentali, come la prevenzione, il trattamento, la riparazione, cioè in generale a promuovere la vita? Per migliaia di anni le diagnosi sono state, e in molti luoghi sono tutt’oggi, rudimentali, quando non chiaramente sbagliate. Ciascun sistema terapeutico rileva e interpreta i segni clinici in maniera diversa. Ciò nonostante, i medici hanno saputo e sanno trattare e guarire, riparare e incoraggiare, promuovere la vita. La storia della medicina dimostra come in passato molte diagnosi fossero vistosamente carenti. Eppure, quale grande efficacia hanno saputo avere i medici curanti! Questo scarto tra la teoria e la pratica può essere in parte spiegato, come abbiamo visto, con l’archetipo del guaritore. Nell’arte di guarire, la diagnosi ricopre un ruolo secondario perché la medicina è una scienza applicata; funziona o fallisce in base ai suoi effetti sul paziente. Non può esistere la diagnostica come scienza pura, come scienza del sapere medico, perché non esiste medicina senza malattia e non esiste malattia senza paziente. Essendo la medicina una scienza applicata, l’arte e il metodo del medico vengono al primo posto. Il sapere del medico può essere meno importante delle sue azioni, specialmente della sua capacità di costellare la guarigione. Di più, ciò che il medico fa può essere meno importante del fatto che faccia qualcosa. Ma nella medicina moderna la diagnostica ha assunto un ruolo sempre più centrale. Questo esito si deve in parte all’influenza che le scienze naturali hanno esercitato sulla medicina, soprattutto a partire dal diciassettesimo secolo.
L’importanza della diagnosi riflette il ruolo sempre crescente che nella medicina ha assunto la conoscenza, a scapito dell’arte medica e della pratica medica. La medicina scientifica ricerca le cause dei segni clinici, le quali, una volta scoperte, determinano il corso del trattamento. Per fare una diagnosi corretta servono conoscenze, conoscenze che diventano sempre più complesse, dal momento che alla letteratura scientifica si aggiungono ogni anno undici milioni di pagine di riviste mediche. Per le sue diagnosi, il medico è costretto a distogliere l’attenzione dal paziente e a rivolgersi al laboratorio, perché nel laboratorio tutto questo immenso e complesso corpo di conoscenze può essere sistematizzato e condensato. I segni clinici tendono a diventare referti di laboratorio, ovvero il medico curante mette insieme la sua diagnosi esaminando lastre radiografiche, tracciati dell’elettroencefalogramma e dell’elettrocardiogramma, analisi del sangue e delle urine, eccetera eccetera. Anche per il trattamento, il medico si rivolge al laboratorio, dove sono stati preparati prodotti corrispondenti alle categorie diagnostiche. Il medico è così diventato un intermediario tra il paziente e il ricercatore e, mettendo il più possibile tra parentesi la propria personalità, cerca di non intralciare il flusso di informazioni accurate dal paziente al laboratorio e di corrette prescrizioni dal laboratorio al paziente. Le macchine diagnostiche computerizzate atte a perfezionare l’accuratezza della diagnosi e della prescrizione sono il portato logico della evoluzione scientifica della medicina. Nella misura in cui si sforza di imitare il punto di vista del fisico, facendo proprio il modello di pensiero delle scienze naturali, il medico deve tenersi il più possibile «fuori», definendo con nettezza lo «stacco» tra sé e il paziente. Deve rimanere un osservatore oggettivo dei processi in atto nel paziente e proteggere tali eventi dall’interferenza soggettiva. Il medico migliore è dunque quello meno calato nella situazione. Trasferendo il ragionamento alla psicoterapia, l’analista migliore sarebbe quello che, secondo
il modello ortodosso, se ne sta seduto alle spalle del paziente, interviene raramente e tiene celata la propria personalità. La psicologia accademica e la psicologia clinica non seguono forse il medesimo modello? Negli ultimi decenni, sono stati inventati migliaia di test diagnostici miranti a fornire allo psicologo clinico informazioni accurate (come in laboratorio, verrebbe da dire), allo scopo di rendere più rapida la classificazione diagnostica e di facilitare la scelta del trattamento. La situazione del test è simile a quella del laboratorio; la partecipazione dello psicologo deve essere ridotta al minimo. Per ottenere una conoscenza accurata occorre eliminare i fattori che dipendono dalle simpatie personali. Sembra quasi che conoscenza e comprensione siano incompatibili. Giacché la comprensione, con il suo intuitivo coinvolgimento empatico con l’altro, è caduta in disuso, perché dal punto di vista della scienza non è affidabile, la valutazione dell’altro ha finito per dipendere sempre di più da strumenti diagnostici. Ma questo tipo di conoscenza potrà mai compensare la perdita di comprensione? I conflitti che sorgono nelle équipe cliniche tra lo psichiatra e l’assistente sociale riflettono questa differenza tra conoscenza e comprensione. Quando lo psicologo che somministra i test o fa i colloqui clinici conosce bene il suo soggetto e ha stabilito un vero rapporto con lui, le sue osservazioni potrebbero non essere più abbastanza oggettive, non posseggono più la stessa validità diagnostica. La dialettica dell’analisi, al contrario, cerca di superare la distanza tra soggetto e osservatore intessendo legami che li avvicinino. Questo può cominciare ad avvenire soltanto quando non è più molto chiaro chi è il soggetto e chi l’osservatore. Il paziente comincia a osservare se stesso e l’analista, partecipando così attivamente alla dialettica dell’analisi; e l’analista, essendo soggetto al processo in atto, non è più un osservatore occupato a fare la diagnosi. Diagnosi e dialettica partono entrambe da ciò che è noto
per lavorare con ciò che è ignoto. Usano entrambe l’intelletto e richiedono entrambe una risposta da parte del paziente. Ma, mentre la diagnosi si arresta quando l’ignoto è stato reso noto, quando la malattia è stata classificata, la dialettica prosegue dentro l’ignoto e non si arresta. Corrisponde al processo senza fine del diventare consci, al di là delle restrizioni dell’intelletto razionale. La differenza tra diagnosi e dialettica si manifesta anche nella differenza tra guarigione e coscienza. Il fine (e la fine) del trattamento clinico è la guarigione. Il processo produce il suo frutto e tutti gli interventi medici sono tappe in vista di quel coronamento. La coscienza, invece, da quello che possiamo dedurre, non arriva ad alcuna meta precisa, non matura alcun frutto definitivo, ma è un processo continuo, sempre in corso. L’analista che si pone come meta del proprio lavoro una qualche idea di guarigione ragiona alla maniera del medico. Non ha colto la natura del complesso, che è la base del processo analitico. Per i complessi non esistono antidoti. Benché siano i determinanti della vita psichica, non possono essere curati una volta per tutte, perché i complessi non sono cause. Sono elementi basilari, dati con l’anima stessa come nuclei energetici e poli qualitativi della vita psichica. Il modello medicalista tende a concepirli come ferite e traumi, o come escrescenze maligne e corpi estranei, da asportare con i metodi della medicina. Ma se sono centri energetici, i complessi non possono essere «guariti» senza danneggiare la vitalità del paziente. Quando l’analista lavora avendo in mente questo fine, scopre che la guarigione tende a manifestarsi nel fatto che il paziente diventa più freddo e composto, meno vibrante e meno libero. (Non a caso gli artisti hanno sempre manifestato il timore che l’analisi potesse rimuovere i loro complessi e, cauterizzando le loro ferite, castrare la loro creatività). In quanto centri energetici, anziché essere guariti o estirpati, i complessi possono essere trasformati e, in quanto entelechie finalizzate, il rapporto dialettico con essi ne sviluppa il dinamismo mentre amplia la coscienza.
Questo significa forse che, poiché la dialettica che produce coscienza sembra non avere fine, ciascuna analisi deve essere «eterna»? Niente affatto: è la dialettica del processo analitico a continuare almeno finché dura la vita. Questo processo, anche se può sembrare strano, è soltanto secondariamente un portato dell’analisi che ha luogo nello studio dell’analista tra i due partner. Il processo dialettico si svolge nell’anima di ciascun individuo, tra l’Io e le dominanti dell’inconscio, le grandi forze psichiche che conformano il carattere e indirizzano il destino. La tensione dialettica è presente prima che inizi l’analisi e spesso, se l’Io non se ne fa carico e non vi risponde positivamente, si manifesta sotto forma di sintomi. Lo sviluppo dell’anima procede per stati di tensione, dove il peso è ora dalla parte dell’Io, ora dalla parte dell’inconscio. L’energia psichica è come una corrente alternata, che l’analisi intensifica. L’analisi fornisce il polo opposto quando il paziente ha perduto il contatto con l’opposto che è in lui. Allora, tutte le forze scisse dell’inconscio del paziente vengono costellate nell’analisi e l’analista, come un magnete, le attira su di sé. L’analista viene a rappresentare l’inconscio del paziente, che adesso è visibile, allo scoperto; egli diventa così l’oggetto principale dei pensieri del paziente: si instaura allora il fenomeno che chiamiamo «traslazione». Il processo transferale continua finché, attraverso la dialettica, l’analizzando non è in grado di oggettivare le realtà dell’anima senza bisogno che la persona dell’analista lo faccia per lui. A questo punto, l’analizzando è in grado di mantenere in atto da solo il processo di intensificazione della coscienza, tornando eventualmente in analisi per lavorare su un determinato campo energetico particolarmente disorganizzato. Il dialettico funge da levatrice, disse Socrate, l’inventore di questo metodo. La sua presenza aiuta il paziente a sgravarsi della nuova vita che da lui sta nascendo. L’analista favorisce un processo che essenzialmente appartiene all’analizzando. Fondamento di tutte le relazioni interpersonali è la dialettica intrapersonale, la relazione con
la psiche inconscia. Il processo dialettico va avanti anche all’interno di ciascun partner separatamente. Anche l’analista fa dei sogni, vive emozioni, ha dei sintomi, con i quali egli deve tenersi in contatto, così come il medico si tiene al corrente della letteratura medica. L’analista cerca in tal modo di mettere in pratica la massima: «medico, cura te stesso», applicando a se stesso le «medicine» che prescrive agli altri. Si sforza di mantenere in buone condizioni la sua coscienza, in modo da non avere punti inconsci con nessuno dei suoi pazienti. Se ha delle cadute nell’inconscio, ricadrà nel ruolo che essi gli assegnano, e i pazienti stessi non potranno più distinguere tra le proprie proiezioni e la realtà dell’analista, perché questi si è identificato con le loro fantasie. Soltanto mantenendosi saldo nel proprio polo mediante il rapporto dialettico con i propri sogni, le proprie fantasie ed emozioni, i propri sintomi, egli può essere di aiuto all’analizzando. L’analisi si accosta al corpo in quanto origine di sintomi ed emozioni in maniera differente dalla medicina. L’approccio diagnostico tratta il corpo come un oggetto; la diagnosi richiede lo studio meticoloso di tale oggetto. Su questo punto, l’analista non medico è davvero un profano: non possiede le conoscenze per auscultare un torace o palpare un addome. Questa ignoranza costituì la ragione principale per cui l’analista non medico (anche dove compensasse la sua ignoranza con le necessarie nozioni di psichiatria organica) fu definito «laico», profano, appunto. Non era in grado di fare diagnosi; non conosceva il corpo. Ma il corpo, oltre a essere un oggetto, è anche un’esperienza. Il corpo è insieme «esso» e «me». L’esperienza del corpo va oltre il concetto di «immagine corporea». L’esperienza del corpo è il retroterra di ogni consapevolezza e della percezione interiore della nostra realtà esterna. Quando si tratta di esporre il corpo in vista di una diagnosi, c’è il paziente che riesce ad astrarsi da esso, unendosi al medico che lo visita nell’esame distaccato di se
stesso disteso sul lettino. E c’è il paziente che istintivamente cerca di coprire la sua nudità, sentendosi una vittima sacrificale, esposto nella sua intimità. Queste due reazioni elementari rivelano la scissione che viene costellata dall’approccio diagnostico. Il corpo diventa o solo oggetto o solo soggetto. Laddove nella realtà, esso è un oggetto soggettivo e un soggetto oggettivo. Queste esperienze del corpo (soprattutto la separazione dal corpo e l’osservazione del corpo) sono appunto ciò che l’analisi cerca di trasformare. Perciò, l’analista è molto cauto nell’usare un approccio diagnostico, perché esso, con tutto il valore che riveste nella medicina, non fa che allargare la scissione che l’analisi mira a ricomporre. Anche l’analisi riserva meticolosa attenzione al corpo. L’analisi osserva e ascolta il corpo inteso come esperienza. Il corpo è il vaso alchemico nel quale ha luogo il processo di trasformazione. L’analista sa che, se il corpo non ne è toccato, non si danno cambiamenti duraturi. Le emozioni strapazzano sempre il corpo e la luce della coscienza ha bisogno del calore delle emozioni. Le affezioni corporee che compaiono durante l’analisi sono sintomatiche (non nel senso diagnostico) di determinate fasi del processo dialettico. Prenderle in senso diagnostico e trattarle alla maniera della medicina potrebbe danneggiare quel processo. La comparsa di eruzioni cutanee, di disturbi circolatori o degli organi interni, di acciacchi e dolori riflette l’evidenziarsi di nuove zone di esperienza corporea, che spesso sono costrette a manifestarsi sotto forma di malanni, prima che il corpo riesca a farsi ascoltare senza dover urlare per ottenere riconoscimento. L’analista presta la stessa minuziosa attenzione anche al proprio corpo, pronto a cogliere nella propria carne indizi che lo aiutino nel suo personale processo dialettico. Cerca di accorgersi se, durante la seduta, è stanco e gli viene fame, se si sente sessualmente eccitato, oppure se se ne sta abbandonato sulla sedia in atteggiamento passivo, se cincischia nervosamente, se compaiono dei sintomi e si sta ammalando.
Il suo corpo è una cassa di risonanza. Questa sensibilità è lo strumento giusto per il corpo inteso come esperienza e si confà al lavoro analitico. Benché non sia una sensibilità diagnostica, non si può certo considerare una qualità da profani. Questo ci porta a esaminare come sono considerati i sintomi dal punto di vista diagnostico e da quello dialettico. Per il primo, il sintomo è un segno clinico, per il secondo possiede un significato simbolico. Il male di stomaco e il male di testa sono segni clinici, ma esprimono anche significati diversi a seconda del simbolismo generale che lo stomaco e la testa rivestono in una particolare persona. In questo modo, il processo dialettico ottiene dai sintomi tutta una serie di informazioni, esattamente come fa la diagnosi, che li considera segni di patologia. I sintomi persistenti, come la balbuzie, l’ulcera ricorrente, la «tosse del fumatore», sono assunti dentro il processo dialettico, e anche la loro integrazione avviene attraverso il simbolo. Laddove la medicina cerca di curare il sintomo, perché lo considera soltanto un indice di disfunzione, l’analisi lo esplora per la sua importanza simbolica. I sintomi non sono soltanto difetti funzionali. Come tutte le ferite, sono anche menomazioni dotate di uno sfondo archetipico: gli esseri umani, infatti, soffrono in quei modi specifici dalla notte dei tempi. La biografia, la mitologia, la letteratura e il folclore, e non soltanto la medicina, forniscono tutte uno sfondo alla sintomatologia. La persona sofferente può dare un senso alla sua ferita rapportandosi ad essa simbolicamente. Anzi, una volta che i suoi aspetti simbolici sono entrati nella coscienza, può darsi addirittura che non abbia più bisogno di quel sintomo reversibile. A quel punto, la sua attenzione non sarà obbligata forzosamente e dolorosamente a concentrarsi sul solito vecchio tormentoso problema. La guarigione, qualora avvenga, sarà allora un sottoprodotto della coscienza. Diagnosi e dialettica usano, inoltre, metodi differenti. Quando studia i segni diagnostici, il medico ha a cuore
soprattutto la precisione; perciò circoscrive esattamente la zona o l’organo colpito, definisce il punto in cui duole, i parametri quantitativi e morfologici del sangue, eccetera. L’analista, invece, cerca di ampliare il campo della coscienza esplorando lo sfondo simbolico dei sintomi. Il primo usa il metodo della definizione, il secondo il metodo dell’amplificazione. La definizione dichiara ciò che una cosa è e dove essa si distingue da ciò che non è tale. La definizione esclude, tagliando via ciò che non è attinente. Quanto più una cosa può essere definita in modo preciso e ristretto, tanto migliore è la conoscenza che ne abbiamo. Poiché l’anima è per molti aspetti ambigua e poiché la conoscenza che ne abbiamo è sempre incompleta, nel suo caso ogni definizione netta è prematura. I problemi principali che l’analizzando porta in analisi sono i principali problemi di ogni esistenza umana: l’amore, la famiglia, il lavoro, il denaro, le emozioni, la morte; e l’usare la lama della definizione con questi problemi, più che isolarli dal contorno, rischia di mutilarli. E comunque, le definizioni sono più appropriate per la logica e per le scienze naturali, dove occorre seguire rigide convenzioni lessicali e dove le definizioni riguardano sistemi operativi chiusi. La psiche non è un sistema chiuso in questo senso. La definizione placa l’incertezza inchiodando le cose a uno schema. Per l’analisi, è più utile l’amplificazione, perché schioda le cose dalla loro rigida cornice abituale. L’amplificazione mette la mente di fronte a paradossi e tensioni; disvela le complessità; e tende a costruire simboli. Questo metodo ci avvicina alla verità psicologica, che possiede sempre un aspetto paradossale inconscio, meglio di quanto non faccia la definizione, con la sua razionalità esclusivamente conscia. Il metodo dell’amplificazione è simile ai metodi delle discipline umanistiche e delle arti. Girando intorno alla questione in esame, si amplifica il problema finché si arriva a esaurirlo. Questa attività assomiglia a una prolungata meditazione, o alle variazioni su un tema in musica o alle
figurazioni della danza o alla tessitura delle pennellate sulla tela. Possiede anche un aspetto ritualistico, perché la dignità del problema che viene amplificato non è mai ascritta totalmente alla conoscenza. Sappiamo in partenza che non è possibile conoscere il problema: possiamo solamente volarci sopra, saggiarlo, mostrare il nostro rispetto attraverso la nostra devota attenzione. Questo modo di agire dà alle stratificazioni di significato presenti in qualsiasi problema la possibilità di rivelarsi, e inoltre corrisponde al modo in cui l’anima stessa presenta le proprie richieste: ritornando ossessivamente ai complessi primari, per elaborare sempre nuove variazioni e incalzare così la coscienza. Il dono del significato non è un effetto dell’interpretazione, la quale troppo spesso è soltanto una traduzione in parole ragionevoli che depotenzia l’inconscio. Il significato non è qualcosa che l’analista impartisce a un patchwork di sogni e di eventi. Non viene immesso, semmai viene estratto. Pertanto precede l’interpretazione e la rende possibile, perché se il significato non fosse già presente in ogni evento psichico, nessuna interpretazione funzionerebbe. Il significato è un a priori, ed è per questo che qualunque evento può diventare un’esperienza significativa. L’analista fa emergere il significato in due modi: mettendo a nudo gli eventi e penetrando fino agli elementi essenziali; e facendoli lievitare fino alla loro pienezza, con l’amplificazione. Nel primo caso, pone domande, esattamente come il diagnostico. Ma nella diagnosi l’interrogazione mira a risposte precise, fattuali. Dove esattamente le fa male? Quando è cominciato? Quanta febbre ha al risveglio? Le domande cessano quando è stata ottenuta l’informazione. Le domande dell’analisi non producono risposte precise. Anzi, mettono in moto un processo che suscita altre domande e va a sondare sempre più a fondo nella vita. Il significato viene estratto da ciò che è ignoto. Si scoprono cose che mai si sarebbero immaginate, così come Socrate, con le sue domande, cavava fuori verità sconosciute da Menone. Lo
stile dell’interrogazione socratica sollecita le domande dell’anima. Poiché tali domande interpellano la vita, questo modo di interrogare pone in questione la vita stessa. Una volta ancora, troviamo che la dialettica del processo analitico conduce all’esperienza della morte. Nel secondo caso, l’amplificazione conduce a nuovi simboli. Man mano che i vecchi simboli diventano consci e ricevono una formulazione, i significati di cui sono portatori sembrano disseccarsi. Ritornando nuovamente sul problema con un nuovo giro di amplificazioni (mediante letture, o la vita stessa, oppure i sogni), si scopre un altro aspetto simbolico, liberando un’altra esperienza. Gli eventi assumono un aspetto simbolico; la dimensione interiore della vita (in sanscrito, l’aspetto sukshma) comincia a manifestarsi dappertutto, il che è una delle mete di molte discipline spirituali. Si approfondisce di conseguenza la capacità di esperire le cose. Prendendo dimestichezza con i complessi primari della nostra anima, arriviamo a cogliere certe verità su noi stessi. Questa intima conoscenza è insieme verità oggettiva e comprensione. Poiché i temi a cui si ritorna con l’amplificazione non sono soltanto le mie e le vostre ferite più profonde, ma anche i temi eterni dell’anima, essi non potranno mai essere sciolti definendoli una volta per tutte. Poiché sono esperienze oggettive collettive, di cui ciascuno di noi è partecipe, ecco che, arrivando ai livelli oggettivi e collettivi dei nostri problemi personali, cominciamo anche a comprendere gli altri. Nell’analisi didattica, il candidato impara a sviluppare l’oggettività amplificando i propri problemi al di là del livello personale. Egli sarà allora in grado di comprendere l’altro, per così dire, «dal basso». Se la comprensione fosse semplicemente empatia, rimarrebbe un fenomeno personale. Allora sì che soltanto la conoscenza potrebbe portare alla verità. Attenzione, questo è un punto molto importante. Se la comprensione fosse semplicemente un’identificazione con il punto di vista dell’altro, una condivisione della sua sofferenza personale,
tutti i giudizi formulati su un caso sarebbero soggettivi. L’analista si troverebbe intrappolato in un circolo solipsistico di empatia e non ci sarebbe alcuna oggettività. L’analisi non sarebbe diversa da qualunque atto di compassione personale. Ciò che la rende oggettiva e che offre la possibilità di fondare una scienza dell’anima è precisamente l’aspetto oggettivo, collettivo dell’anima. Questo aspetto l’anima lo ha in comune con le altre anime e si manifesta nella capacità di concepire, immaginare, comportarsi ed essere mossa secondo certe metafore fondamentali, che Jung ha chiamato modelli archetipici. La comprensione richiede dunque conoscenza, conoscenza della psiche oggettiva. Senza tale conoscenza dell’inconscio collettivo, l’analista tenderà a ridurre i problemi fondamentali agli insignificanti fatti personali di una esistenza individuale. La dialettica diventa allora il dialogo superficiale della cronaca e della caccia al ricordo, uno scambio di opinioni personali. L’individualità non consiste in questo tipo di differenze personali nei dettagli. L’individualità dell’anima non poggia su circostanze fortuite come l’educazione famigliare o la condizione economica, bensì più probabilmente sulla capacità che ciascuno di noi possiede di scoprire la propria particolare vocazione, di cui quelle circostanze sono parte e a cui vanno collegate. Questo movimento verso il diventare ciò che siamo chiamati a essere lo riconosciamo attraverso una successione di esperienze la cui ricchezza di senso è travolgente, che costituiscono la nostra storia animica. (Jung ha tracciato il disegno complessivo e le fasi generali di tali esperienze nelle ricerche sul «processo di individuazione» e ha fornito un esempio personale di storia animica nella sua autobiografia, Ricordi, sogni, riflessioni). Ricollegando la storia clinica alla storia animica, ponendo i particolari insignificanti in relazione con il mito centrale della vita del paziente, l’analista cerca di comprendere l’altro e di accompagnarlo alla comprensione di sé. Benché l’analista sia uno specialista, il suo campo,
l’anima, abbraccia niente meno che l’intera natura umana, anzi forse più ancora. I problemi che l’analista tratta non sono semplicemente problemi clinici, di natura privata e soggettiva. È modestia fuori luogo da parte sua definirli tali, mentre l’adozione della messa a fuoco angusta dei meccanismi psicopatologici e l’uso del linguaggio clinico non rendono giustizia alla dimensione dell’anima sofferente nella sua pienezza. Le sfide che l’anima gli propone nella sua pratica gli impongono di studiare. Deve imparare a situare il soggettivo dentro un contesto psicologico oggettivo, altrimenti rimarrà irretito nella pletora di piccoli fatti insignificanti. E anche l’uso del gergo professionale, quando parla del suo lavoro, è irrispettoso nei confronti dell’anima. L’analista ha un obbligo morale che trascende la sua specializzazione, perché ciò che entra nel suo studio è l’oggi. Il livello collettivo dell’anima sofferente è la storia umana. Riguarda tutti. Le conoscenze dell’analista, più che dalla medicina ortodossa, sono tratte dalla filosofia, dalle arti, dalle religioni e dalla mitologia, perché è in quei campi che sono espresse le formulazioni della psiche oggettiva. Essi descrivono i modi in cui l’anima vede ed esperisce la vita e la morte. I problemi di cui l’analista è chiamato a occuparsi non attengono al curare le malattie e normalizzare la salute; riguardano il «come vivere» e il «come morire». Il trattamento dialettico di questi temi, per essere prolungato e fecondo, deve essere arricchito con amplificazioni provenienti da molte fonti. Le discipline umanistiche hanno più cose da dire al riguardo che non le scienze, e la medicina è meno utile della mitologia, dove abbondano esempi di immagini e comportamenti, descritti con esattezza di particolari, che mostrano in che modo la psiche, ai suoi livelli più fondamentali e oggettivi, costruisce i suoi problemi e allestisce le sue soluzioni alternative. Ciascun sogno ricapitola questi temi eterni con un linguaggio eterno, mescolandovi i fatti contingenti del quotidiano. L’analista ha il dovere di astenersi dal ridurre
uno dei due livelli all’altro; piuttosto, analista e sognatore, ponendosi in rapporto dialettico, uniranno i due livelli. La posizione analitica – un piede dentro, un piede fuori – comporta non soltanto conoscenza e comprensione, distacco e coinvolgimento, ma soprattutto significa comprensione del livello personale della psiche alla luce della conoscenza del livello impersonale. Questo consente quel distacco dall’interno, una sorta di pensiero simbolico, che è tutt’altra cosa del poggiare il piede che sta fuori sul piedistallo della medicina.
11 La speranza, la crescita e il processo analitico
«Finché c’è vita, c’è speranza»: è questo il motto del medico. La speranza infonde coraggio al paziente, rafforzando in lui la volontà di vivere. Il medico non osa abbandonare la speranza: essa è l’essenza del suo atteggiamento terapeutico. Il senso di quel motto va oltre l’accezione secolare strettamente medica: finché il paziente vive, c’è speranza di guarirlo. Quella frase stabilisce un’identità tra vita e speranza: dove è la vita, là è la speranza. E quella speranza è volontà di vivere, desiderio di futuro; come dice il dizionario: «Sperare: aspettare con desiderio». Come potremmo tirare avanti senza la speranza; che cosa è il domani senza di essa? Il motto del medico propone l’idea che la forza propulsiva fondamentale dell’uomo sia la speranza, così come l’assenza di speranza è l’atmosfera del suicidio. Dove c’è vita, deve esserci speranza. È la speranza che ci fa andare avanti. O come ha detto T.S. Eliot: Via, via, via, disse l’uccello: il genere umano non può sopportare troppa realtà. (Quattro quartetti, «Burnt Norton», I, vv. 44-45) E se la speranza è la forza emotiva fondamentale della vita, forse, come suggerisce Eliot, è anche il suo contrario: l’inganno fondamentale, l’aspettativa e il desiderio che ci sviano dal momento presente. Vale forse la pena ricordare alcune leggende sull’origine della speranza nel mondo. In India, la speranza attiene alla sfera di Māyā, la Grande Dea, che ci tenta con la ruota dell’illusione. Come Māyā, la speranza tesse gli innumerevoli miraggi del nostro destino. Siamo impigliati in una rete di
speranze che è la volontà di vivere esperita come proiezione verso il futuro. In quanto emozione fondamentale, la speranza di Māyā corrisponde a quella che la psicologia moderna chiama la funzione proiettiva della psiche, che non ci abbandona mai per tutta la vita, incalzandoci con lusinghe. In Occidente, l’equivalente di Māyā è Pandora. I racconti della loro creazione presentano molte analogie. In Grecia, è Zeus a creare Pandora, una statua, una bambola a grandezza naturale, di una bellezza dipinta, il primo «bellissimo male» (kalón kakón), che venti divinità dell’Olimpo dotarono di virtù. In India, la Grande Dea è la soluzione trovata collettivamente dall’assemblea degli Dei per salvare il mondo dalla disperazione. In un’altra leggenda, essa fa la sua comparsa sotto forma di Aurora; infine, come Satī, fu plasmata da Brahmā alla presenza di venti divinità, per indurre S´iva con la sua bellezza a lasciare il suo ascetico isolamento, affinché, nel susseguirsi incessante di generazione e decadimento, il gioco eterno della vita potesse continuare. Associati alla Dea, in Grecia e in India, sono tutte le follie e i vizi delle umane passioni e anche tutte le energie creative delle attività umane (Śiva e Brahmā; Prometeo, Efesto, Zeus). Nella iconografia originale, il recipiente di Pandora era una giara o un vaso, diventati nella tradizione successiva, come documentano Dora e Erwin Panofsky, uno scrigno. Nel vaso di Pandora erano celati tutti i mali del mondo e quando fu aperto (come era inevitabile che accadesse, non diversamente da come Eva, cedendo alla tentazione del proibito, portò nel mondo il Peccato) i mali volarono fuori, tutti tranne la Speranza. La creazione del mondo fenomenico dell’illusione è analoga in Grecia, in India e nell’Antico Testamento. Il racconto di Esiodo ci dice che la speranza è uno dei mali contenuti nel vaso di Pandora, l’unico che vi rimase dentro. Sta nascosta dove non è visibile, mentre tutti gli altri mali, miraggi e passioni sono proiezioni che incontriamo nel mondo esterno. Integrando le proiezioni, li possiamo dunque
ricatturare. Invece, la speranza è all’interno, mischiata alla dinamica stessa della vita. Dove è la speranza, là è la vita. Non possiamo mai affrontarla direttamente, così come non possiamo afferrare la vita, perché la speranza è la spinta a vivere nel domani, l’incurante protendersi nel futuro. Via, via, via. Ben diversa è la speranza religiosa. La incontriamo nell’ottava epistola di Paolo ai Romani: «Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» [Rm, 8, 24-25]. Speranza non è sperare ciò che si spera; non si spera ciò che già si conosce: una simile speranza è speranza mal collocata. È illusione. Ancora con le parole di Eliot: Ho detto alla mia anima: taci, e attendi senza speranza perché la speranza sarebbe speranza mal collocata; attendi senza amore perché l’amore sarebbe amore mal collocato; rimane la fede ma la fede e l’amore e la speranza stanno tutti nell’attesa. (Quattro quartetti, «East Coker», III, vv. 23-26) Il significato religioso della speranza implica il sacrificio di ogni speranza. Non è appunto questa speranza religiosa, in cui l’attesa è tutto, la speranza della disperazione che emerge quando si è di fronte al rischio di suicidio? La speranza secolarizzata trova l’espressione più chiara nella medicina. A una riunione della American Cancer Society, uno degli specialisti invitati ha spiegato così il motivo per cui non bisogna mai rinunciare alla lotta per salvare il paziente dal cancro: per elevati che siano i costi, il dolore e lo strazio psichico, c’è sempre la speranza che, durante una tregua temporanea, la scienza medica scoprirà un rimedio, salvando la vita del paziente. La qualità della
vita e l’ingresso nella morte tendono a essere messi al secondo posto rispetto al fine principale della medicina: prolungare la vita. La vita non è più in funzione di qualcosa d’altro, ma è diventata la misura di se stessa. Questo è sufficiente e valido per la medicina scientifica; ma lo è anche per l’analisi? Salvare la vita ha significati differenti nei due casi. Per il medico, significa innanzitutto posporre la morte. È un concetto semplice e chiaro; può essere misurato: in anni, giorni, ore. La speranza di salvezza che il medico offre è speranza di tempo in più, la vita come quantità. E la speranza al cui servizio si pone è la richiesta da parte del paziente di una vita più lunga, non di una vita migliore, non di una vita trasformata. Quando la vita diventa la misura di se stessa, vita buona significa semplicemente vita più lunga, e la morte diventa il grande male. Mettiamo che il rimedio sia stato trovato e sia arrivato al letto del paziente, che speranza ha ora costui? Che cosa è stato fatto per salvarlo, per la sua salvezza? Questo tipo di speranza, la speranza della medicina, è al servizio della salvezza secolarizzata – solo che una tale salvezza non esiste. La medicina collega la malattia con la morte, la salute con la vita. Hieronymus Gaubius di Leida (1705-1780) diede la seguente definizione: «La medicina è la guardiana della vita e della salute contro la morte e la malattia»; mentre oggi la medicina dice che l’idea di «morte naturale» non è suffragata da prove, perché le autopsie mostrano che ogni morte può essere fatta risalire a residui di malattia. La speranza sottintesa è che, se potessimo eliminare la malattia, potremmo anche eliminare la morte. Tuttavia, una vita di malattia e una morte in salute sono esse pure delle realtà. Questa inversione dei consueti abbinamenti ci prospetta un altro modo di guardare ai problemi che l’analista incontra. La lotta contro la malattia può essere separata dall’angoscia della morte, perché la malattia è nemica sia della vita sia della morte. La malattia interferisce con il morire nel modo giusto oltre che con il vivere nel modo giusto. C’è una metafora induista che indica come la
morte richieda la salute: al momento giusto, cadiamo intatti e maturi dall’albero della vita. Questo sottintende che il medico possa prendere le armi contro la malattia non soltanto in nome della vita, ma anche in nome della morte, affinché il suo paziente possa giungere alla sua cosciente maturazione. Ancora: presso gli eschimesi, quando una persona si ammala, assume un nuovo nome, una nuova personalità caratterizzata dalla malattia. Per superare una malattia bisogna appunto, letteralmente, passarle «sopra», trascenderla, cioè morire. L’unica speranza di guarigione risiede nella morte della personalità malata. La salute richiede la morte. Forse è questo che Socrate intendeva con le sue ultime oscure parole sul gallo sacrificale dovuto ad Asclepio. Una volta sacrificato il gallo, l’orgoglio che a ogni risveglio annuncia l’alba di un nuovo giorno, ecco che l’istinto del domani è eliminato. La morte, allora, è la cura e la salvezza, e non soltanto un ultimo e più grave stadio della malattia. Il canto del gallo all’alba annuncia anche la resurrezione della luce. Ma la vittoria sulla malattia e il nuovo giorno hanno inizio soltanto quando deponiamo sull’altare l’ambizione di vincere. La malattia che l’esperienza della morte cura è l’accanimento di vivere. Tale malattia è definita nel modo migliore dalla formula medico-statistica: «aspettativa di vita». Il fatto di sperare, di «aspettare con desiderio», trova una giustificazione nella statistica; ciascuno ha diritto a una certa quantità di vita. Questa aspettativa tende a impigliare medico e paziente in una speranza mal collocata. Essi sperano in una quota ulteriore della vita già conosciuta, sperano cioè nel passato. Questo tipo di speranza non è certo speranza di salvezza e neppure speranza di un nuovo inizio. È regressiva, perché sottrae alla sfida della morte. È egocentrica, perché chiede una quota ulteriore di ciò che si era. Non è certo la speranza di quello che non vediamo descritta da Paolo, dove «stare meglio» indica una qualità dell’esistenza, non
un’approssimazione alla norma. Si è portati a credere che il desiderio di essere liberi dalla malattia coincida con il desiderio di ritornare a quello che si era prima della malattia, allo status quo ante. Quando il medico si unisce al paziente nella speranza di ri-pristinare la salute, di recuperare la salute, con una rapida ri-presa, entrambi vanno contro il flusso del tempo, il processo dell’invecchiamento e la realtà della morte. La loro congiunta speranza nega la condizione di morbosità di ogni forma di vita. L’analista si trova spesso a passare deliberatamente sopra ai sintomi che compaiono in analisi. Anziché fare indagini sui sintomi, egli rivolge l’attenzione alla vita del paziente che quella patologia ha alimentato. Il presupposto da cui parte è che la malattia assume il suo significato nel contesto della vita del paziente ed è questo significato che egli cerca di comprendere. Non può, l’analista, proporre la consueta speranza di guarigione e neppure di sollievo dai sintomi. Perché la sua esperienza analitica gli ha insegnato questo: la speranza che il paziente manifesta è essa stessa parte integrante della patologia. La sua speranza nasce come parte essenziale del costellarsi della sofferenza ed è spesso mossa dall’impossibile pretesa di essere libero dalla sofferenza stessa. La condizione psicologica che ha costellato quei sintomi è appunto la medesima che ora i sintomi interrompono e distruggono: ovvero curano. Pertanto l’analista non può certo sperare che il paziente ritorni alla condizione da cui erano nati sia i sintomi sia la speranza di liberarsene. Poiché ha in sé questo nocciolo di illusione, la speranza favorisce la rimozione. Sperando di tornare allo status quo ante, noi rimuoviamo l’attuale stato di debolezza e di sofferenza, con tutto ciò che esso può offrire. Le posture di forza sono responsabili di molte delle malattie oggi più diffuse: ulcere, disturbi vascolari e coronarici, ipertensione, sindrome da stress, alcolismo, incidenti sportivi e automobilistici, esaurimento nervoso. Esiste anche una volontà di ammalarsi, che, al pari dell’impulso suicidario,
porta paziente e medico a confrontarsi direttamente con la morbosità e che si ripresenta con ostinazione a dispetto di ogni speranza in contrario. Ci sarebbe da chiedersi se la speranza del medico non sia essa stessa in parte responsabile di tale recidività della malattia; infatti, poiché la speranza non concede mai abbastanza spazio alla debolezza e alla sofferenza, l’esperienza della morte non ha modo di esprimere il suo significato. Con le guarigioni rapide, le esperienze vengono defraudate del loro effetto profondo e pervasivo. Perciò l’anima è costretta ad ammalarsi sempre di nuovo, finché non ha ottenuto ciò che vuole. Ha inizio così un nuovo circolo vizioso iatrogeno. L’immagine che la medicina ha della salute, con le sue aspettative nei confronti della vita, semplicemente non concede spazio sufficiente alla sofferenza. La medicina vorrebbe liberarcene. Spesso, il medico vuole sbarazzarsi della malattia del suo paziente perché la considera un’invasione straniera, da scacciare. Ma nell’analisi non è possibile sbarazzarsi della malattia, perché, come abbiamo visto, la malattia è il paziente. La malattia è la sofferenza, e non è dalla sofferenza che il paziente va salvato; essa anzi è la condizione necessaria per la sua salvezza. Se il paziente è la malattia, il fatto di sbarazzarsi della malattia comporta un rifiuto distruttivo del paziente. E allora l’unica protezione del paziente sarà una traslazione intensificata, in cui l’anima (aggrappandosi, mettendo in campo moine e seduzioni) pretende più intensamente che mai che le sia consentito di essere. Nella misura in cui curare significa sbarazzarsi della malattia, nessuna persona in analisi vorrà mai rinunciare alla condizione di paziente. Eppure, si direbbe che la speranza del trattamento medico sia quella di realizzare la grande utopia di un mondo senza più pazienti. E il paziente, in fondo in fondo, è portato a vergognarsi di essere malato. La medicina stessa, con la sua idea di salute, ci induce a vivere al di là delle nostre possibilità e, a causa di tale negazione dell’umana fragilità, siamo tutti tesi ed esauriti, sull’orlo della crisi. Anche
quando il medico prescrive di rallentare il ritmo, il suo personale furor agendi («via, via, via») toglie efficacia alla prescrizione. «Stare meglio» significa «essere più forti»; la salute è diventata sinonimo di forza, la forza sinonimo di vita. Siamo spinti al massimo, fino al punto di rottura, per essere poi ricostruiti come eravamo prima, come una macchina prigioniera di un processo sempre più accelerato di azione e retroazione. E l’anima riesce a farsi sentire soltanto parlando la lingua del medico: con i sintomi. Essere deboli e senza speranza, essere passivi di fronte alle manifestazioni sintomatiche dell’inconscio, è sovente una condizione altamente positiva all’inizio dell’analisi. Se non è vissuta come positiva, è perché la nostra speranza è rivolta ad altro, a qualcosa che ci aspettiamo in base a ciò che già conosciamo. Ma la morte avanza e una trasformazione è probabile. L’analista a volte incoraggia il paziente a vivere in maniera diretta queste occasioni, ad accoglierle con favore, addirittura a considerarle preziose – perché appunto alcuni migliorano peggiorando. Se l’analista comincia a sperare con il paziente di «sbarazzarsi» dei sintomi, vuol dire che ha cominciato ad applicare la rimozione alla maniera del medico. Ci sono persone che possono arrivare a questo punto, dove ha inizio l’umiltà, soltanto attraverso l’umiliante sconfitta della malattia o del tentato suicidio, soltanto attraverso la modalità organica. Ma ecco che la speranza medicalista, con il suo arsenale di prescrizioni, punta a ripristinare la forza dello status quo ante. Respinge nuovamente il paziente, sia pure ora rinforzato. Questi pazienti, che si avviavano alla salute grazie all’avvicinamento alla morte, la medicina li rimanda indietro, riconsegnandoli alla vita e alla malattia. L’analista si accosta alla dipendenza e alla passività e alla disperazione in maniera differente, perché parte dalla sua stessa debolezza. È costretto ad ammettere, nella prima seduta, che non è in grado di formulare alcuna diagnosi, che non conosce la causa del disturbo, che non sa se è in grado di trattarlo e di guarirlo. Mostra di essere, in un certo senso,
passivo di fronte ad esso. Ha dovuto abbandonare le sue aspettative circa la vita dei suoi pazienti e offre ben poco per alimentare la speranza del paziente. Se una speranza nutre, è la speranza nell’inconscio, in quell’ignoto che potrebbe emergere dalla dialettica analitica, che è speranza di «quello che non vediamo». È l’atteggiamento descritto nel capitolo «Di fronte al rischio di suicidio». Le considerazioni fatte per la speranza valgono anche per la crescita. Il medico ha avuto una formazione biologica. Il suo modello di sviluppo deriva dagli studi sulla evoluzione, soprattutto delle specie subumane. Riconosce lo sviluppo dall’incremento delle dimensioni, dalla differenziazione delle funzioni, dall’aumento di vitalità, dall’approssimazione alle norme della specie, e, nelle forme di vita superiori, riconosce la maturità dalla capacità di riprodursi. Le sue conoscenze di base sulla crescita gli sono state fornite dalla genetica, dalla biochimica, dalla istologia, dalla embriologia. Trasferito al processo analitico di sviluppo dell’anima, questo modello fraintende alcuni fenomeni fondamentali. Anche su questo punto riscontriamo come l’analisi freudiana sia stata influenzata dal suo retroterra medico. L’analisi freudiana di solito ha termine quando il paziente ha raggiunto un adattamento sessuale soddisfacente; raramente accetta analizzandi di età superiore ai quarantacinque anni. La sua nozione di sviluppo è condizionata dal pensiero biologico: la capacità biologica di riprodursi è trasferita alla psiche e trasformata in un criterio di «maturità». Ma davvero la plasticità biologica e la capacità psichica coincidono? Perfino l’idea di creatività, la meta ambita da così tante persone, è modellata da queste nozioni biologiche di potenza e di riproduzione sessuali. Poiché in tutti i processi naturali il seme si manifesta sempre sul piano fisico, la creatività è concepita come un atto riproduttivo con un risultato tangibile – un figlio, un libro, un monumento – dotato di una vita fisica che prosegue oltre quella del suo produttore. La
creatività, tuttavia, può essere intangibile e presentarsi sotto forma di una vita buona, di un bel gesto, o di altre virtù dell’anima, come la libertà e la schiettezza, lo stile e il tatto, l’umorismo, la gentilezza. Per la filosofia e per la religione, la capacità di creare la virtù in se stessi è sempre stata un bene massimo. Tradizionalmente, questo tipo di crescita aveva la priorità sulla crescita fisica. E per conseguirla, può essere necessario sacrificare il modello biologico della creatività e il tipo di crescita manifestato dalla natura. La crescita dell’anima non richiede, tuttavia, gli eccessi del martire e dell’asceta. Basta ricordare che una vita creativa mostra spontaneità e libertà, e che creatività non significa soltanto produttività in senso fisicamente tangibile. Il paziente vuole «crescere» e diventare «creativo». E buona parte della pratica psicoterapeutica segue l’illusione che dobbiamo tutti essere normali (guariti), cioè fare figli, svolgere un’occupazione, oppure essere creativi, cioè scrivere, dipingere, svolgere un’attività artistica. Quando una persona parla di creatività, intesa come produttività, troverà un orecchio ricettivo nell’analista di formazione medica, perché questi segue il modello biologico di crescita. (L’atteggiamento del medico è giustamente legato a questo modo di pensare, perché, come abbiamo visto, il termine «physician/fisico», medico, deriva dalla radice bhu, «crescere», «produrre»). Questa nozione di crescita lascia trasparire le medesime aspettative della nozione di speranza. Ancora una volta, è una nozione quantitativa. Tende a considerare il processo analitico come un aggiungere qualcosa alla personalità. L’analista che ha questa visione delle cose spera che il paziente diventerà più completo e armonioso, più adattato, più abile, più produttivo. Ovvero, nel caso le mete siano introvertite, crescita tende a significare una soggettività più ricca, più differenziata, il tutto formulato come «ampliamento della coscienza». Che l’espansione sia introvertita o estrovertita, crescita tende a significare incremento e le mete sono influenzate dal pensiero
biologico. Il paziente si aspetta di crescere secondo i parametri del modello biologico, e l’analista che si basa su questo modello corre il rischio di giudicare la crescita esclusivamente secondo i criteri dei processi dell’evoluzione biologica. Queste idee di sviluppo sono più adatte per il bambino, che deve crescere, che non per l’adulto già cresciuto, per il quale l’incremento di dimensioni e di vitalità, la riproduzione e l’approssimazione alla norma non costituiscono più delle mete da raggiungere. La crescita intesa soltanto come incremento, la crescita senza la morte, riecheggia il desiderio di avere una Madre amorevole dai cui seni sgorghi perenne il latte. La creatività intesa come produttività espansiva cela in sé le fantasie di onnipotenza di un fallicismo velleitario. Il fatto di conservare tali mete in età matura, anche se ora trasferite allo «sviluppo psichico» e alla «creatività», rivela che non tutte le cose infantili sono state accantonate. È l’immaturo che è ossessionato dalla ricerca della maturità. E non è forse tipico dell’adolescenza raffigurarsi la crescita e la creatività con le immagini proteiformi del verbo «diventare»? Il colore della speranza e della crescita è il verde, come è verde la giovinezza. Il furor agendi creativo, sorretto da mal riposte metafore di crescita, può impedire lo sviluppo psichico autentico; perciò l’analista tenderà a considerare la crescita in una luce totalmente diversa. La creatività dell’analisi non deve necessariamente oltrepassare i confini dell’analisi stessa. Non deve necessariamente produrre qualcosa d’altro. La creatività è qui, si esplica durante la seduta analitica. La relazione analitica, che è una relazione alla quale si lavora insieme, costituisce la forma base di una creatività reciproca. Ci sono atti creativi che hanno luogo nella solitudine, come dipingere e scrivere, o in gruppi complessi, come nelle arti sceniche. Ma nell’analisi al suo meglio, due persone si creano l’un l’altra. Ecco: l’analisi fornisce la metafora radicale della creatività quale si esprime in qualunque relazione dove l’interazione ricca di frutti costituisce l’attività che viene
svolta, ma l’attività non è svolta in vista dei suoi frutti. Il processo analitico consiste in trasformazioni che portano verso l’individualità; a essere se stessi. In base all’osservazione empirica di questo processo, si potrebbe affermare che l’individualità è la norma per la nostra specie, per l’essere umano. È una condizione paradossale, perché l’individualità è sempre differente dalla specie e smentisce tutte le verità statistiche. L’analista si trova pertanto a incoraggiare una crescita che, semmai, conduce verso il nonconforme, verso l’eccentrico. Si ritrova a prendere posizioni, come la posizione nei confronti del suicidio, che sembrano in assoluto contrasto con le norme della specie intesa biologicamente. La crescita dell’anima può allontanare drasticamente dall’adattabilità e dalla differenziazione. Per esempio, con l’analisi una giovane moglie insicura o un giovane per il quale il sentimento ha la precedenza sul pensiero possono trovarsi a essere più introversi e meno bravi a gestire il mondo in cui vivono. Per prima cosa, anziché conformarsi a un mondo che pone richieste per loro inautentiche, hanno dovuto essere quello che sono. Sul lungo periodo, può darsi che raggiungeranno un migliore adattamento, ma i passi verso tale adattamento appaiono completamente diversi dalla consueta nozione biologica di crescita. Perfino certi fenomeni estremi dei manicomi, come l’accentuarsi della dipendenza e il ritiro autistico, l’analista riesce a vederli come fenomeni di crescita. L’anima può compiere scatti evolutivi che però non vengono alla luce, mentre le sue manifestazioni possono apparire contrarie al mondo, alla vita e al corpo. L’antico concetto di mens sana in corpore sano va ripensato. Quando parliamo di vita piena non sempre intendiamo anche pienezza dell’anima. A volte, a una vita piena corrisponde un «vuoto interiore», e per converso una persona, di cui diciamo che è buona o che ha un’anima ricca, magari non ha mai vissuto un solo giorno in buona salute dal punto di vista medico. Può essere che si debba rinunciare alle mete biologiche
dell’espansione e della differenziazione in favore della concentrazione. Per certi giovani dotati, anzi, l’orizzonte con le sue luminose possibilità si restringe: lo sviluppo della coscienza richiede perseveranza e univocità di intenti. La concentrazione su di sé e sul proprio destino determina una certa ristrettezza di visione e una intensità emotiva che in nessun modo si conformano al modello della differenziazione biologica o della vitalità della persona armoniosa che ha saputo esprimere tutte le sue facoltà. L’analisi non è semplicemente una forma di psicoterapia dinamica. Il termine stesso, «psicodinamica», tradisce la Weltanschauung della crescita, piena di speranza. Spesso l’analisi porta a condizioni in cui le dinamiche del cambiamento si arrestano e si instaura una condizione di stabilità. È la stabilità che gli alchimisti concettualizzavano nel Lapis, la Pietra; non già caratterizzata da capacità di crescere e di cambiare, ma semplicemente uguale a se stessa. La semplicità di questa condizione non è pessimismo, ma deprime fortemente le aspettative ottimistiche. Crescita può significare svilupparsi divergendo dal mondo. Il processo analitico rappresenta questo movimento con immagini di perdita, di denudamento, di morte. Ciò che si distacca è esattamente ciò che è stato aggiunto. Una volta smontate le illusioni, ciò che rimane è spesso più piccolo di ciò che si sperava, perché diventare se stessi significa essere ridotti a ciò che si è – la pietra, quel grumo irriducibile di volgare argilla –, così come amare se stessi significa accettare la propria limitata realtà, che è anche, insieme, la propria unicità. Lo sviluppo prodotto dall’analisi, specialmente nelle persone non più giovani, sembra muovere da ciò che si vede a ciò che non si vede. (E infatti, non sono appunto i bambini a volerci mostrare sempre tutto quello che hanno in mano?). La questione dei risultati visibili diventa sempre meno pressante, benché il lavoro analitico possa diventare sempre più stringente. Qui, la creatività è tutta dedita alla creazione di se stessi. Ne abbiamo parlato più sopra con il linguaggio della tradizione come di corpo
sottile, di corpo di diamante immortale, del costruire la propria morte. Sono una crescita e una creatività che non possono essere misurate con criteri biologici; corrispondono ai modelli di sviluppo spirituale che troviamo anche nella religione, nel misticismo e nella filosofia. Per tutti questi motivi, il processo analitico può essere meglio descritto come affinamento qualitativo che non come crescita quantitativa. L’alchimia, come ha minutamente documentato Jung, ci offre la rappresentazione più limpida di questo tipo di sviluppo. Il minerale grezzo (la sostanza di cui tutti siamo fatti) è sottoposto a fusione per separarne il metallo prezioso; i liquidi (le nostre indistinte correnti emotive) sono sottoposti a distillazione per cavarne una goccia di essenza rara; le masse solide (le nostre amorfe accumulazioni) sono ridotte ai loro elementi fondamentali. Qui la separazione procede per discriminazione e le scorie vengono scartate. Oppure, mediante il fuoco e il sale (delle nostre brucianti e amare esperienze), vengono bruciate le superfluità e ai valori viene conferita permanenza. Il troppo grossolano è reso sottile, il troppo pesante è reso più volatile, il troppo mercuriale è appesantito con il piombo e il troppo arido fertilizzato con la pioggia. Il volume del raccolto è sempre minore del grano in erba. Il lavoro analitico tende a produrre la personalità «piccola» in senso religioso, dove la crescita procede verso il basso e l’interno e all’indietro, verso gli spiriti ancestrali e i semi vitali dai quali siamo germinati. Come sapevano gli alchimisti, il processo analitico è un opus contra naturam, un’opera contro natura. L’ontogenesi dell’anima non è ricapitolazione della filogenesi biologica, benché il nostro intelletto per descriverla debba ricorrere a metafore biologiche. Dunque, la crescita psichica è paradossalmente una crescita contraria alla vita naturale, ove la vita naturale sia concepita troppo ingenuamente. La crescita dell’anima non può che avvenire attraverso la morte, il più grande opus contra naturam. Anzi, no, non è crescita, è piuttosto ciò che il Buddha indicò con le sue ultime parole: «La decomposizione è nella natura di tutte le
cose composite. salvezza».
Operate
con
diligenza
per
la
vostra
Così come speranza e crescita sono metafore inadeguate per concettualizzare il processo analitico, insoddisfacenti sono anche i loro opposti, disperazione e morte. O meglio, nella misura in cui parliamo dell’analisi soltanto come di un processo di miglioramento, allora qualsiasi modello di perfezionamento, trasformazione, crescita e sviluppo può andare bene. Ma tutte queste metafore radicali sono fuorvianti quando diventano difese contro l’esperienza diretta. E l’esperienza diretta, solo alimento dell’anima, è il cuore dell’analisi, perché genera coscienza. Perfezionamento, trasformazione, crescita e sviluppo richiedono tutti momenti individuali di esperienza diretta che smentiscono con squassante intensità il processo dello sviluppo come accumulazione. «Processo» può troppo facilmente essere confuso con «progresso», e il progresso mascherare troppo facilmente il momento. Un momento, qualsiasi momento, può essere il momento della morte, sicché l’intero processo è sempre condensato nel momento presente. Non è altrove, non è nel futuro, ma qui e ora, in qualsiasi momento di coscienza emotivamente intensa. Della coscienza sappiamo poco. Dopo tutti i millenni da che l’uomo è sulla terra, ancora non siamo in grado di dire granché sul fenomeno centrale della vita psichica. Disponiamo di ipotesi attendibili sulla sua base fisiologica e sulle sue connessioni sensoriali. Abbiamo inoltre buoni motivi per credere che la coscienza consumi energia, che richieda una tensione e una disposizione psicologiche, e che sia legata a ciò che chiamiamo «la realtà». Per converso, usiamo la parola «inconscio» quando rileviamo una distorsione o una inconsapevolezza della realtà. Dall’evidenza di cui disponiamo, possiamo dire che la coscienza si intensifica nei momenti in cui la realtà è esperita più direttamente e coraggiosamente.
Questa ipotesi concorda con le descrizioni della maggior parte delle discipline spirituali che sviluppano la coscienza intensificando la concentrazione dentro il prisma dell’attenzione. Tale attenzione non è meramente intellettuale. È un attendere con dedizione, un prestare ascolto alla realtà che parla; ne è un’immagine il Buddha, con le sue grandi orecchie ricettive, tutto un lato della testa aperto. Nell’analisi, la coscienza è vivificata da successive confrontazioni dirette e coraggiose con la realtà, e l’affrontare insieme la realtà della morte per suicidio ne costituisce l’esempio paradigmatico. Il cammino verso questo luogo dove cadono tutti i veli è espresso con innumerevoli metafore dello sviluppo della coscienza, come: il vagare per i vicoli ciechi e i meandri del labirinto; il percorso del pellegrino attraverso inflazioni, depressioni e ostacoli persistenti; lo sfogliare, una dopo l’altra, le bucce della cipolla cabalistica; e altre ancora. Quale che sia la metafora, lo scopo è quello di arrivare a un’esperienza diretta della realtà, delle cose così come sono. Anche la coscienza mistica, comprese le «visioni istantanee» di origine chimica di Huxley, mira a questa vivida penetrazione, per cui scompare la divisione tra consapevolezza soggettiva, da una parte, e natura oggettiva, dall’altra. Vita e immaginazione si congiungono in momenti di sincronicità. Le deviazioni, i muri e i veli sono tutti quei sistemi che abbiamo costruito per impedire il contatto diretto. Sono la crescita che impedisce la crescita, le croste che proteggono la sensibilità dall’esposizione diretta, senza mediazioni. L’immediatezza è infatti il grande tabù; l’esperienza è diventata esperienza per interposizione. Il cibo dell’anima arriva preconfezionato. L’individuo non si sente più dentro la propria vita, ma fuori, occupato a osservarla o a metterla in parole. È diventato il personaggio di un film, l’autore delle proprie memorie, un pezzo delle fantasie famigliari che realizza speranze scaturite dalla disperazione di altri. La Madre vive la vita attraverso i figli e il Padre attraverso l’azienda. Quando ogni altra possibilità di nuda
immediatezza si allontana, il contatto mediante la sessualità diventa una coazione. L’anima vorrebbe mostrarsi all’altro nuda nella sua semplice eloquenza, ma riesce soltanto a spingere il corpo alla follia di un adulterio. Un modo più subdolo di mediare l’esperienza è quello messo in atto dalla psicologia stessa, con i suoi eroi, le loro immagini e le loro vite, con le sue tecniche e la sua terminologia. La persona diventa un caso clinico, che agisce i concetti formulati nel manuale, con un processo di autoanalisi che frammenta la spontaneità emotiva riducendola in granelli di polvere. Perfino le degnissime attività del tempo libero e dell’impegno sociale, la vita associativa del quartiere, nonché interessi più «elevati», come la religione e l’arte, e perfino l’idillio dell’amore personale possono impedire l’esperienza diretta, sicché la vita assume quella qualità che la fa definire «fasulla» dai giovani, i quali, essendo ancora capaci di immediatezza, resistono con la violenza all’ingabbiamento della loro visione incorrotta nelle trappole preconfezionate delle elusioni degli adulti. Per questo motivo abbiamo definito l’analisi un prolungato crollo psichico e l’abbiamo riconnessa alla creatività. L’analisi deve essere iconoclastica. Procede rompendo i vasi nei quali è imprigionata l’esperienza, perfino il vaso dell’analisi stessa. Di tutti i vasi, quello della medicina è il più allettante per l’analista, soprattutto perché sa accomodare così opportunamente le aspettative del paziente. Con lo sguardo alla crescita e la speranza riposta nella prossima seduta, possiamo trascurare il lavoro lasciato in sospeso in questa. Ma nell’analisi esiste soltanto il numinoso momento presente; crescita e speranza sviano da questo confronto. Nel momento presente, l’unica cosa che vale è questa audacia, anche al punto di tralasciare ogni buon senso medico in cambio della immediatezza del contatto umano e del rischio delle emozioni. Nel momento presente, siamo nudi e irrimediabilmente ottusi, in nessun modo superiori al paziente. L’unico strumento che l’analista possiede per
intensificare la consapevolezza durante la seduta analitica è la propria persona. Perciò gli analisti hanno sempre considerato l’analisi personale il criterio primo del loro lavoro; i non analizzati sono dei profani. Sogni, associazioni, avvenimenti possono tutti essergli di aiuto, ma possono essere altrettanto facilmente usati dal paziente come nuovi veli e nuove difese contro il vivere le cose in maniera diretta. Ecco perché l’incontro qui e ora è così importante: perché in esso l’analista non si limita a fare da specchio al paziente, ma lo mette di fronte alla propria reazione. Il paziente è venuto da noi per ricevere questa reazione. Non cerca né la crescita né l’amore né la guarigione, bensì la coscienza nella sua realtà immediata. L’incontro qui e ora esige dai due partner di essere intensamente concentrati, di essere ciascuno «tutto lì», con una «presenza totale» che, a causa della base fisiologica della coscienza, non può essere mantenuta a lungo. Di nuovo, come abbiamo visto nel capitolo 6, questo impegno totale a essere dentro il processo è la base ontologica del lavoro analitico, giacché l’essere analiticamente presenti comporta anche la presenza del modo d’essere analitico. Il movimento dal divano alla sedia, vale a dire il movimento da Freud a Jung, palesa questo passaggio dal diagnostico e dal mediato al dialettico e all’immediato. La postura fisica corrisponde a una diversa postura ontologica, conferendo un diverso significato alla frase «essere in analisi». Il paziente seduto sulla sedia non contempla più se stesso dall’alto, con l’occhio del medico, in quanto oggetto di diagnosi e di trattamento. Il passaggio dal divano alla sedia rappresenta uno spostamento della messa a fuoco nel paziente stesso, da «ciò che ha» a «chi è». La sedia ci inchioda a noi stessi, ci riporta all’interno della nostra realtà, così come siamo, faccia a faccia, ginocchia contro ginocchia, messi direttamente e coraggiosamente l’uno di fronte all’altro nello specchio l’uno dell’altro, senza possibilità di esperienze per interposizione. Non c’è più la libertà dell’associazione libera, nella speranza che ne venga fuori
qualcosa di nuovo. Non ci sono aspettative di qualcosa di differente; c’è, invece, la medesimezza di ciò che siamo, adesso. Facciamo esperienza dell’immutabile che è al di sotto dei mutamenti ricorrenti. Questa identità e immutabilità gli antichi greci la chiamavo l’Essere, ed è la medesimezza della propria unicità, che gli alchimisti rappresentavano nell’immagine del Lapis. Qui, in questo punto immobile e ferito, non ci sono né speranza né crescita, né alcun divenire, ma solo ciò che è ora, puro e limpido, deo concedente, come il cristallo. Il processo analitico può essere descritto come una serie di momenti di chiarezza, unici e inestimabili, sovente rappresentati nella psiche con l’immagine di una collana di pietre preziose. La tradizione chiama la costruzione di questi prismatici momenti «costruzione del corpo di diamante». Emerge ora l’importanza che, per il nostro tema della morte, dell’immortalità e della costruzione del corpo di diamante, riveste il lavoro analitico volto ad affermare nell’anima gli indistruttibili valori della coscienza. Potremmo dunque concludere che il paziente che si rivolge a noi per risolvere i suoi problemi psicologici sta chiedendo, al fondo, di risolvere il problema della sua psiche; come a dire che risolvere il proprio problema significa risolvere ovvero salvare la propria anima. È ciò che la tradizione ha sempre chiamato salvazione o redenzione. Abbiamo scoperto che, dietro ogni bisogno pressante di crescere e di svilupparsi, di creare e di produrre, dietro ogni speranza di guadagnare più forza, più vita, più tempo, dietro il «via, via, via», si cela il bisogno di salvare la propria anima, in un modo o nell’altro, con le buone o con le cattive, attraverso l’inferno e il mare aperto, con lo zen o con Freud o con Jung. Mediante l’esperienza diretta resa possibile in analisi, mettiamo in pratica l’esortazione del Buddha: «Operate con diligenza per la vostra salvezza».
12 Segreto professionale e mistero analitico
Cercheremo ora di verificare se la segretezza dell’analisi si basa sul dovere di mantenere il segreto fissato per la prima volta nel giuramento di Ippocrate: «Giuro di osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato». Se potremo dimostrare che la segretezza analitica si fonda su altre basi, diverse da quelle dei medici, avremo smentito ancora un’altra obiezione contro l’analisi «laica». La segretezza del medico è un nobile principio etico; salvaguarda la dignità della persona e, insieme, nobilita la malattia stessa, con il considerarla un dato che attiene al destino di una persona, che è parte del suo dramma e che va rispettato. Nella segretezza del medico c’è anche una necessità sociale. Dove salute e malattia sono concepite come espressioni degli alti e bassi della sorte, è indispensabile che il medico non spettegoli sulle faccende dei pazienti a lui affidati. Senza etica professionale, la medicina non potrebbe esistere. Chi mai esporrebbe i propri lati più deboli e più vergognosi agli occhi del medico, se questi mettesse in piazza quello che ha saputo nella camera del malato? Eppure, con tutta la sua nobiltà, la segretezza del medico spesso rimane un principio soltanto programmatico. Tende a essere un principio programmatico perché è una regola, e le regole trattano tutti i casi allo stesso modo. Non tiene in conto la relazione individuale tra paziente e medico, sicché il paziente è davvero, letteralmente, «nelle mani del medico» o «sotto i ferri del chirurgo». Il medico non parte dall’identificazione con il caso che gli si presenta. Nella medicina moderna questo non si fa, per tutti i motivi che
abbiamo esposto. Il medico, per proteggere il paziente, ha bisogno della regola della segretezza, perché non si sente personalmente implicato nel caso. Non avverte che la segretezza mira anche a proteggere il medico, nel senso che l’esposizione del caso ad altri è anche un po’ un esporre se stesso. Se il medico fosse emotivamente coinvolto nel processo terapeutico come lo è l’analista, non ci sarebbe il medesimo bisogno di una regola sulla segretezza. Egli si sentirebbe obbligato a mantenere il silenzio circa l’anima del paziente come lo mantiene sulla propria. La discrezione non avrebbe bisogno di essere imposta per regolamento, perché nascerebbe spontaneamente. Le regole vengono imposte dall’esterno quando è andato perduto il naturale senso di discrezione. Nell’antichità, il giuramento di Ippocrate possedeva connotazioni religiose che sono state eliminate dalla medicina moderna. Ciò che rimane è soltanto uno scheletro irrigidito, un principio etico privo della sua vitalità trascendente. Il medico dichiara: «Mi puoi dire tutto, farmi vedere tutto, perché, in base al mio giuramento, niente uscirà mai di qui». Però non dice niente di se stesso, di come accoglie queste rivelazioni dell’anima altrui. Un segreto condiviso produce intimità, e la prima persona che il paziente ha in mente non sono «gli altri», ma il medico stesso. Sarà degno di penetrare tanto a fondo nella mia vita privata? Sarà capace di gestire le rivelazioni che pretende da me? Eppure il paziente è stato inchiodato da quella regola all’intimità con uno sconosciuto. La segretezza del medico opera per mezzo di una curiosa dissociazione. Il paziente espone la sua storia clinica e il suo corpo come se fossero qualcosa di esterno alla sua vita intima. Il medico esamina la storia clinica e il corpo del paziente come se fossero oggetti. Probabilmente nel contesto della medicina non si può fare altrimenti, e l’impegno al segreto professionale è sufficiente. Il corpo, del resto, non è nascosto come lo è l’anima; i suoi fatti sono oggettivati, pubblici, mentre l’anima è per sua essenza privata e segreta. Tanto è vero che, per trovare il locus
dell’anima, i medici dei tempi antichi andavano a cercare nei recessi più nascosti del corpo, non diversamente peraltro dagli odierni analisti di formazione medica, che concepiscono la vita psichica come qualcosa di intrinsecamente legato alle parti «intime», «segrete» della persona. I segreti infondati e i segreti custoditi per le ragioni sbagliate isolano la persona e agiscono dall’interno come un veleno, sicché la confessione risulta catartica e la comunicazione terapeutica. La pretesa paranoide di una lealtà assoluta, quella paura del tradimento e della pubblicità, dimostra che la persona non è più capace di amare e di lasciarsi ferire. L’amore va dove è possibile il tradimento, altrimenti che rischio c’è? L’amore in sicurezza è la parte più piccola dell’amore. Questo tipo di segretezza è una difesa che conduce alla solitudine paranoide: io, da solo con i miei segreti, e nessuno di cui fidarmi. Un altro segreto custodito per le ragioni sbagliate è quello del bambino piccolo, che si tiene stretto il suo segreto per un poderoso esercizio di onnipotenza. Per il bambino è un comportamento necessario, ma l’adulto infantile continua secondo lo stesso schema, cerca di dominare tenendo per sé quello che ha. Tanto la segretezza paranoide quanto la segretezza infantile isolano impropriamente la persona. Etimologicamente, mantenere un segreto significa tenere separata una cosa, isolarla. La segretezza è fondamentale per l’individualità. In una famiglia, per esempio, le personalità individuali non possono svilupparsi, se i suoi membri non hanno segreti condivisi gli uni con gli altri e segreti protetti dallo sguardo degli altri. Ciò che tengo segreto mi tiene separato, ed è nella mia vita segreta che comincio a scoprire la mia anima individuale. (Una delle ragioni per cui è così difficile mantenere i segreti è appunto la difficoltà di mantenere intatta la propria individualità). Rivelando un segreto, lasciamo entrare un altro nei sacri precinti della nostra individualità. Ci teniamo il nostro segreto finché non abbiamo la sensazione che l’altra
persona, con la quale vorremmo condividerlo, lo considera sacro a sua volta. Perché questo avvenga, occorre che tra le due persone ci sia fiducia. La fiducia si costruisce lentamente, con la comprensione e la dialettica. Un segreto può essere condiviso soltanto tra due persone, non tra una persona e una professione. Quando, in obbedienza all’impegno del medico alla segretezza, l’analista tiene nascosta la sua personalità nella speranza di creare un’atmosfera in cui egli non sia altro che uno specchio oggettivo degli eventi, può succedere che di fatto impedisca rivelazioni che il paziente ha bisogno non tanto di rendere pubbliche per liberarsi, quanto, disperatamente, di condividere con un altro essere umano. Ci apriamo non soltanto per far uscire un segreto, ma anche per far entrare un altro nel nostro segreto. Il punto di vista analitico tende a considerare i segreti come qualcosa da condividere, come un pasto comunitario. Poiché la partecipazione a un segreto crea rapporto, la riluttanza di un paziente a rivelarsi, addirittura a sottoporsi a test psicologici, può costituire una buona base per il lavoro analitico. Essa mostra quale grande valore il paziente attribuisca alla sua vita intima, alla sua storia animica. Ma la segretezza ostacola le diagnosi precise; e contrasta l’impulso apollineo a portare tutto alla luce. Perciò il punto di vista medico tende a considerare tutti i segreti alla stregua di segreti infondati. Sono qualcosa da estirpare dall’organismo del paziente con la scarica emotiva e la catarsi. Vanno raccontati con abbandono, così come vengono in mente, per liberarsi da un peso. Non a caso l’analisi freudiana era stata inizialmente definita «talking cure», la cura mediante il parlare. L’analisi, così come l’abbiamo concepita fin dal primo capitolo, è un’alleanza segreta. In essa, la fiducia si sviluppa attraverso la segretezza. Se per l’analista è eticamente sbagliato infrangere tale fiducia discutendo dell’analizzando con altri, allora anche per l’analizzando il parlare ad altri della sua analisi e del suo analista costituisce una rottura dell’alleanza segreta. Il segreto reciprocamente condiviso tra
i due partner non può essere aperto ad altri da nessuno dei due, senza che l’alleanza sia infranta. Violare un segreto è violare una promessa, il che equivale né più né meno a infrangere la promessa dell’analisi. La quale non è speranza di questo o quel risultato specifico, benché contenga l’allusione a una gravidanza: il segreto che i due partner mantengono reca la promessa di cose a venire. Il mantenimento di un segreto all’interno della relazione è dunque il primo atto nella costruzione del contenitore analitico che racchiude la promessa dell’analisi. Questa idea è rappresentata con l’immagine del «vaso analitico», documentata da Jung nei suoi studi sull’alchimia. La lealtà dei due partner nel loro lavoro in comune è un’esigenza ineludibile del lavoro stesso. Senza l’alleanza segreta, non possiamo far fronte al rischio di suicidio. Questa segretezza è qualcosa di più di una regola imposta dall’etica. Si fonda su basi totalmente diverse, più vicine a quelle dei misteri religiosi. Il termine «mistero» deriva dal verbo greco mýein, «chiudersi», detto sia dei petali di un fiore sia degli occhi. È un movimento naturale di occultamento, e manifesta il senso di religioso pudore davanti al mistero della vita, la quale per metà si svolge nell’oscurità. Gli analisti che hanno un’idea esclusivamente sessuale della traslazione tenderanno a trascurare la possibilità che pudore, occultamento e mistero siano virtù. Ci sono processi che vanno tenuti segreti, se si vuole che possano andare a buon fine. Per esempio, la segretezza si addice alle attività creative, al rapporto tra amanti, alla preghiera, alla contemplazione, al ritiro meditativo. La cosa straordinaria, riguardo alle nostre esperienze più importanti, è il fatto che siano così segretamente intime, riguardino solo noi, personalmente, individualmente. Non tutto ciò che è oscuro è necessariamente rimosso. E nella pratica della psicologia del profondo, ciò che è profondo (perfino se concepito, secondo un modello biologico, come ciò che è radicato nel fango e
nell’oscurità) deve rimanere sotterraneo. La sorgente è invisibile, celata allo sguardo. L’analisi va cauta nello sbrogliare le rimozioni. Poiché il rimosso ritorna comunque, in una forma o nell’altra, ogni scavo condotto con lo spirito del furor agendi può risultare prematuro e danneggiare l’intera pianta. Pertanto, quando indaghiamo la sessualità rimossa, stiamo attenti a non insistere troppo per esporre ciò che è naturale tenere nascosto. In quasi tutte le società, il numinoso è protetto da tabù e i genitali sono di solito coperti. Una disamina esplicita della sessualità può violare i sentimenti di segretezza che sono naturali per la vita sessuale. Il rapporto sessuale non è normalmente un evento pubblico e i momenti della riproduzione, dalla discesa dell’ovulo alla produzione di spermatozoi alla fecondazione e alla gestazione, avvengono tutti nell’oscurità. Questo significa che, nel portare alla luce i segreti e il senso di colpa sessuali, è bene lasciare nell’oscurità il mistero e il pudore legati alla sessualità. Tra le analogie del mistero analitico, quella con il mistero religioso è forse la più confacente. Laddove la segretezza mantiene il silenzio su ciò che è noto, il mistero riguarda l’ignoto e l’inconoscibile. Il partecipante a un mistero religioso condivide un’esperienza che non è lui a far accadere. Egli è testimone dell’epifania di un Dio, di una rappresentazione drammatica che coinvolge l’anima nei suoi eventi, e attraverso questa esperienza egli viene trasformato. La sua testimonianza non è quella dell’osservatore distaccato, così come la sua partecipazione non è quella dell’esaltato. La sua partecipazione consiste nell’essere aperto a quello che potrà avvenire, nel lasciarsi muovere da qualcosa che trascende la sua volontà. Nell’antica Grecia, coloro che partecipavano ai misteri maggiori (e potevano essere in migliaia) non parlavano mai di quello che era avvenuto, e a tutt’oggi non «conosciamo», nel senso scientifico, il contenuto preciso e le sequenze esatte di quei riti. Non ne parlavano per paura di morirne, perché il mistero crea in chi vi prende parte non soltanto
segretezza, non soltanto discrezione, ma un soverchiante senso di reverente e muto timore, che rende impossibile parlarne a chi non ha condiviso quell’esperienza. I partecipanti stessi non ne hanno «conoscenza». La vita religiosa si fonda su tali esperienze e, dovunque si sia esperito un mistero, lì sorge una casa di Dio: dal mistero analitico si formano culti per un processo naturale. Non è possibile dare notizie intorno a un mistero, perché non è possibile parlare di ciò in cui si è immersi. «Intorno» significa «all’esterno», e per arrivare nel luogo in cui è possibile dare notizie occorrerebbe uscire dal luogo in cui si è. Colui che partecipa a un mistero vi è immerso per tutto il tempo in cui il vaso resta chiuso. Uscire da un’esperienza vivente parlandone significa non essere più partecipe di quella vitalità. Significa la morte. Se riconosciamo che la relazione analitica è un’alleanza segreta e che il processo analitico è un mistero, allora vediamo come le reticenze dell’analizzando nella traslazione non siano tutte e soltanto sotterfugi e resistenze, ma anche un aspetto legittimo di quel processo. L’analizzando non è il paziente di un medico che voglia tenere per sé alcuni pezzi della sua storia clinica. Ha l’obbligo morale di non esporre la sua anima finché non è sicuro che il vincolo tra lui e l’analista non è una condizione programmatica imposta dalle regole di una professione, ma è un legame vero. E, più avanti, quando l’analisi si avvicina alla fase della separazione, il fatto di non rivelare certi segreti può essere un indicatore che si sta entrando in quella fase: il partner comincia a tenere nascosta la sua anima, nutrendo la propria individualità con le esperienze non condivise. Tutto questo conduce alle seguenti osservazioni: primo, la resistenza, la reticenza, il silenzio e il sospetto rallentano il processo analitico. Questi ostacoli si dimostrano talmente difficili da gestire, che dobbiamo domandarci se non si presentino appunto per rendere più solide e più durature le trasformazioni. La segretezza dunque cementa non soltanto i legami tra i due partner, ma anche l’integrazione in atto
nella psiche dell’analizzando. Quando un analizzando si blocca nelle associazioni libere, abbiamo un’indicazione della presenza di un complesso che oppone resistenza. Ma i complessi, come abbiamo visto, non possono essere sciolti con la forza, vincendone la resistenza. Il loro nucleo è sempre un’idea a tonalità affettiva, un’esperienza inattaccabile, che è necessariamente segreta perché costituisce un mistero numinoso e fondamentalmente ignoto. Quel nucleo non può essere conosciuto finché il suo significato archetipico non emerge nelle esperienze; e perché questo avvenga può occorrere tutta la vita. Resistenza e segretezza si fondano dunque su quell’ignoto e inconoscibile che sta al cuore della vita psichica. In secondo luogo, gli analisti sono giustificati nel loro ostinato rifiuto di presentare ai convegni tutti i particolari di una analisi. Ci sono cose che non possono essere riferite, nemmeno dopo la morte della persona in questione, perché i segreti appartengono all’anima, e noi non sappiamo se anche l’anima di quella persona è morta. Inoltre, certe cose non saranno mai riferite perché non possono essere raccontate; non ammettono formulazione. La formulazione trasforma l’ignoto che è al cuore della vita psichica in un «problema». Ed è un errore epistemologico confondere i problemi psicologici con i misteri dell’anima, per un verso mistificando i problemi, per un altro verso pretendendo di risolvere i misteri. L’anima, benché problematica, non è un problema, è un mistero. L’analista, benché risolutore di problemi, è anche un mýstes, l’iniziato che mantiene il segreto. I problemi si possono risolvere; i misteri si possono soltanto vivere. Infine, la resistenza che l’analista prova di fronte alle varie spiegazioni del comportamento umano ha solide basi. I suoi sentimenti non nascono da nebulosità romantica e dal gusto per le cose oscure. Al contrario, l’analista è un servitore di Apollo, e lavora giorno e notte per chiarificare e illuminare. È obbligato a pensare in modo rigoroso e a parlare in maniera concisa. Tuttavia, l’analisi insegna a chi
la pratica che tanta parte della vita umana è nascosta nell’inconscietà. Poiché accetta questa oscurità, l’analista può lavorare dentro i suoi confini. Se l’anima è un mistero, le spiegazioni saranno sempre insufficienti. Il mistero del processo terapeutico è il vero sfondo della segretezza analitica. Ed è qualcosa di fondamentalmente diverso dalla segretezza del medico, il che significa che per garantire la chiusura del vaso non c’è bisogno della laurea in medicina, del giuramento e del codice professionale. Il vaso chiuso è il ricettacolo delle forze trascendenti e impersonali della psiche che producono la guarigione. La guarigione si prepara dietro il sipario, tra le quinte. Ci sono persone che hanno fatto esperienza di tali forze impersonali sotto forma di Dei, il cui intervento trasforma il processo di guarigione in una rappresentazione drammatica che i sogni riflettono. Ciascun sogno ha una sua struttura drammatica, e la sequenza dei sogni dipana gli intrecci, le scenografie interiori e i personaggi della storia dell’anima. Questo dramma terapeutico è un’unica lunga epopea mitologica, alla quale partecipano, insieme, gli Dei, il paziente e l’analista. Quando gli Dei fanno il loro ingresso sulla scena, tutto si fa silenzio e le palpebre si chiudono. Immersi nell’oblio da questa esperienza, ne riemergiamo senza sapere precisamente che cosa è accaduto; sappiamo soltanto che siamo stati trasformati. Glencullen House, presso Dublino / Botorp, Hemsö, 1962-1964
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
PARTE PRIMA
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PARTE SECONDA
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POSTSCRIPTUM: RIPENSAMENTI
Universale ed eterno, il suicidio è un evento archetipico; il nostro modo di guardarlo, tuttavia, è condizionato dal tempo. Perciò, questo libro è legato a un tempo e insieme è svincolato dal tempo. Porta il segno della metà del secolo, quando fu concepito, quando, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la psicoterapia era ancora influenzata dai modelli della medicina, un periodo chiaramente «preanima», precedente la rivalutazione dell’anima della fine degli anni Novanta. Sembra strano, oggi: quarant’anni fa «l’anima» era senza dimora, rintracciabile soltanto, come cultura «soul», nelle strade metropolitane oppure sepolta nei pulpiti e nei cimiteri della religione. Questo libro, di fatto, resuscitò «l’anima» dal suo reliquiario, infondendo in questa immagine le quotidianità cariche di passione della musica soul, della cucina soul, della cultura afro-americana. Esso può a buon diritto rivendicare di essere stato il primo libro a portare «l’anima» al centro del discorso clinico, fregiandosi addirittura di quella parola nel titolo. L’inserimento dell’anima nel titolo di un libro di psicoterapia è ispirato da un famoso saggio di Jung, Das Seelenproblem des modernen Menschen (1931), tradotto in inglese come Modern Man in Search of a Soul (1933). Il mio libro prova a trasferire l’idea di Jung di una psicologia improntata all’anima nel momento in assoluto più sconvolgente e straziante della pratica terapeutica: il suicidio del paziente. Questo è il motivo per cui è stato scritto e il motivo per cui continua a essere letto. Punta al cuore della psicoterapia. Poiché tutti noi siamo in tacita terapia con noi stessi, il tema del suicidio tocca al cuore ciascuno di noi. Poiché negli anni Cinquanta la psicoterapia era
fortemente influenzata da una mentalità medicalista, molte pagine del libro (la seconda parte) sono dedicate a chiarire la distinzione tra due atteggiamenti contrapposti: quello medico e quello psicologico. Ma tutto il libro porta avanti questa distinzione, radicalizzando la cesura tra la vita e l’anima. Sostiene la tesi che il compito primo dello psicoterapeuta è quello di «fare anima» (un’espressione che in seguito ritroverò in John Keats) e non quello di preservare la vita. E che, inoltre, se vita e anima hanno percorsi distinti, il paradigma più limpido di tale distinzione si presenta nella forma del suicidio. Bisogna dire qui che, benché la distinzione sia utile da tenersi in mente, nella pratica anima e vita non sono così facilmente separabili. E infatti, quasi tutti i miei scritti successivi sull’anima (come pure, naturalmente, il libro di Thomas Moore sulla cura dell’anima nel mondo)11 mostrano nei particolari come si possa vivere la vita senza perdere l’anima e come si possa fare anima senza negarsi alle chiamate della vita. All’inizio mi veniva difficile cogliere la fluida interazione sempre in atto tra l’anima e la vita quotidiana; tendevo anzi a separarle ancora più nettamente, come nel Sogno e il mondo infero, in alcuni capitoli sul Puer aeternus e nei saggi di argomento alchemico sull’azzurro della melanconia e la terra bianca immaginale. Più tardi, ci fu una reazione in direzione della vita, testimoniata dagli scritti sull’urbanistica e la vita urbana, sulla cittadinanza e sull’ecologia; sempre, o da una parte o dall’altra: oscillazioni tra l’anima e la vita. Un possibile scioglimento arrivò nel 1981, grazie al concetto di anima mundi, l’anima del mondo e nel mondo; dello stesso anno è la conferenza al convegno di Eranos sulla «Immaginazione dell’aria nell’alchimia», che mostrava come l’anima fosse uscita dal vaso chiuso della segretezza introversa per entrare nel mondo pubblico della chimica e della tecnologia. Oltre alla citata contrapposizione, che desidero correggere, tra il fare anima e il vivere la vita, ce n’è una
seconda sulla quale vorrei ritornare. Questo libro esprime un pregiudizio contro il modello della medicina, anche se nel contesto degli anni Sessanta tanto animus eroico era assai utile e giustificato. La psicoterapia aveva, ce l’ha tuttora, un’ombra, l’ombra della medicina. Essa è l’introietto del canone culturale che privilegia la psichiatria sulla psicologia, il corpo sullo spirito, la scienza sull’arte. Pertanto, il lavoro dello psicoterapeuta è inevitabilmente segnato dall’ombra di un senso di inferiorità legato al suo essere un «non medico». Per affermarsi in piena autonomia, la psicoterapia deve prendere le distanze dal suo oppressore medico, che parla con la voce del materialismo, dello scientismo e della causalità lineare. Anche in questo caso, soltanto anni dopo (con Storie che curano) mi resi conto che il senso di inferiorità è dato con l’anima e non è semplicemente un portato del canone culturale che si fa paladino della medicina in quanto scienza. Dunque questo libro mette in scena anche la lotta del suo autore con l’ombra della medicina. A causa di questa lotta, di questa postura eroica, il libro trascura una semplice verità, il fatto che il pensiero medico può influenzare la pratica psicologica anche su un versante virtuoso. Questo non lo dovremmo mai dimenticare. Qualche esempio: il codice etico della segretezza; la massima «primum nihil nocere»; il principio apollineo del «correre al soccorso», a rammentarci come ogni terapia sia un’attività altruistica. Centrata sull’altro. Il modello della medicina tiene inoltre conto di situazioni di interesse pubblico: contagio, epidemiologia, salute pubblica. Trasferita nella pratica psicoterapeutica, questa presa in carico degli aspetti pubblici si traduce in una attenzione più allargata per il paziente, anziché nel vederlo esclusivamente come essere a sé stante, come individuo che si staglia nel vuoto, senza un fondamento nella polis. Un’altra virtù del modello medico è l’occhio patologizzato. Il medico è immerso nella patologia, nella deformazione, nella malattia e nella morte. Nello sforzo di distinguere i più
minuti e complessi movimenti della patologia, il suo occhio si è abituato alle ombre. Dopo tutto, ciò che spinge il paziente a entrare in terapia non ha nulla a che vedere con la traslazione, le resistenze, la manipolazione, la rimozione e tutte le altre tecniche della pratica e i dinamismi delle teorie, ma è semplicemente la disperazione, spesso incarnata nella malattia: c’è qualcosa che non si riesce più a tollerare, che fa troppo male. La mente del medico ha sempre presente il primato della malattia, ed è importante che la pratica terapeutica sia permeata da una qualche idea di malattia che la tenga ancorata alla sofferenza e allo stato di patimento della condizione umana. Altrimenti lo studio dello psicoterapeuta diventa una camera stagna piena delle esalazioni di idee di realizzazione di sé e trascendenza spirituale, e per l’anima è come essere nuovamente in chiesa. Non dimentichiamo, poi, che anche nel modello medico ci sono divinità. Con tutto il suo attuale scientismo e la sua idolatria per i farmaci e i macchinari, la medicina ha i suoi patroni divini: Apollo, Asclepio, Igea, Chirone, Macaone, Podalirio, Dioniso, Artemide, Peone. La verga di Mercurio, con il serpente attorcigliato, è rimasto fino ad oggi l’emblema della medicina. Eracle era chiamato salvatoreguaritore; perfino Achille sapeva medicare le ferite in battaglia. Accanto alla genealogia divina, la medicina incarna una preziosa tradizione umana di osservazione riflessiva e di interesse mirato per il mistero della condizione umana, che essa sa, carnalmente, essere ben lontana dalle idealizzazioni in cui troppo facilmente cadono gli esseri umani – cosa che, senza il suo sfondo medico, la psicoterapia potrebbe dimenticare, o addirittura negare. Nonostante questo dovuto omaggio al mondo della medicina, mi sento di difendere ancor oggi le cose che scrissi in questo libro trentacinque anni fa. L’anima ha affinità con la morte al di là della malattia e della disfunzione, che non sono gli unici messaggeri della morte. Dunque la morte non può essere appannaggio esclusivo della
medicina. L’intrinseca affinità dell’anima con il mondo infero e con «l’aldilà» distingue ontologicamente l’anima da qualsiasi modello medicalista, che definisce vita e morte in base a concetti propri della medicina. Non è detto che la morte cerebrale dia la vera misura della morte, e del resto anche questa misura della morte puramente fisica è stata contestata. Ciò che sostiene la vita non può certo essere ridotto a un sistema per mantenere in vita. Finché le complessità, e le tortuosità, della morte vengono confinate in definizioni mediche, non è facile mantenere unite medicina e anima. Esse divergono e finiscono per contrapporsi, perché la prima diventa dipendente da procedimenti farmaceutici e meccanici sempre più spinti, e l’altra cede alle lusinghe della serenità spirituale. La distinzione di fondo tra anima e vita che sottende il pensiero di questo libro non conduce però necessariamente al corollario che in queste pagine è esposto. Insomma, non ne consegue necessariamente che l’anima sia un possesso privato e la morte un fatto che riguarda esclusivamente l’individuo. Forse, negli anni lontani in cui questo libro cominciò ad abitare la mia mente, alcune stanze erano occupate dall’esistenzialismo, con la sua solitudine esasperata. Camus, Sartre, Kierkegaard, Heidegger, e l’«angoscia» e l’«essere-gettato» dell’uomo: questi erano i vicini di casa. Naturalmente, Jung occupava l’intero piano terreno e da lì emanava fino alle mie stanze all’ultimo piano la sua illuminante filosofia del Sé con il suo individualismo radicale. Gli atteggiamenti individualistici derivanti da queste filosofie aborriscono la sfera pubblica, concepita come un inferno assurdo («L’inferno sono gli altri» scriveva Sartre), ovvero, con Jung, come «il collettivo», termine più adatto a evocare la gestione brutale dell’agricoltura sovietica o la peste e le mosche di Camus e di Sartre che non una società umana dalla quale l’anima dovrebbe trarre nutrimento e piacere. Ovvio che Jung e gli autori francesi avessero orrore del collettivo. Erano appena usciti dalla seconda guerra
mondiale, con le sue efferatezze di massa, l’ignominia del collaborazionismo, le SS, i campi di sterminio. Ma i Caligola, gli Attila, i Cortés appaiono in tutti i luoghi e in tutte le epoche, anche sotto il pentacolo del Pentagono. La «psiche collettiva», in fondo, non è altro che la polis. è la civiltà stessa, non soltanto la folla, le masse, la plebe irrazionale. Quando l’individuale e il collettivo sono incatenati in una coppia di antagonisti logici, l’individuo diventa straniero nella sua città, vive la condizione esistenziale dell’alienazione. Da questo soggetto isolato la morte può essere immaginata soltanto come una morte nuda e singolare, logicamente e ontologicamente separata da qualsiasi comunità di anime. Il suicidio è una faccenda personale, privata, riguarda solo il soggetto. Tormenta l’individuo in quanto individuo, alla maniera di Amleto. Essere o non essere diventa necessariamente il massimo problema dello straniero che ciascuno di noi è, come ha scritto Camus. Se, invece, per «anima» intendiamo anche un’anima mundi, allora, come scrissero alchimisti come Sendivogio e Paracelso, essa vive per gran parte «fuori» dalla mia persona. Appartiene anche al mondo che si sottrae alla mia autorità. Allora la decisione circa il suicidio non attiene a me soltanto. Il corpo e la vita del corpo saranno forse nelle mie mani, ma la mia anima partecipa del mondo. Potrò essere il carnefice unico, ma posso anche dirmi l’unico giudice? Alcuni anni fa, mentre ero impegnato in una critica a tutto campo della psicoterapia, cercai di superare il suo eccessivo individualismo, il suo non tenere in conto il mondo. Perché, proposi, non definire la soggettività individuale come «comunità interiorizzata»? Perché non restituire all’anima la sua importanza cosmologica, amalgamando per definizione ambiente e cittadinanza con la nostra individualità? Perché non ammettere che l’attaccamento è una necessità ontologica dell’anima, essenziale alla sua natura? In questa prospettiva, le relazioni tra le persone, oltre che tra le persone e le cose, sarebbero date intrinsecamente, non
sarebbero più concepite come contatti tra individui separati e atomistici racchiusi dentro la propria pelle. Non si tratterebbe più di «stabilire» relazioni o di «favorire» relazioni; ma, invece, di riconoscere, sostanziare e perfezionare qualcosa che è già dato. Scopriremmo che nella psicoterapia la traslazione non fa che rendere manifesto questo innato e irriducibile moto di attaccamento. Una volta compreso che il coinvolgimento è una condizione fondamentale per l’anima, saremmo ineludibilmente connessi per definizione, per definizione impegnati a intrecciare i fili del nostro destino con l’anima degli altri. Gli altri sono implicati nella mia morte come io lo sono nella loro. Il suicidio diventa una vicenda comunitaria. In passato, ai corpi dei suicidi era negata la sepoltura nel terreno comune consacrato. Evidentemente, si pensava che il suicidio staccasse il corpo e l’anima del suicida dal corpo di anime della comunità. Esso non era soltanto un togliersi la vita da parte del suicida, ma strappava il suicida dal suo intrinseco attaccamento nei confronti degli altri, troncando i fili che lo legavano alla polis. Togliendosi la vita, egli proclamava di non essere ontologicamente un cittadino, un membro della polis, come se fosse esentato da qualunque partecipazione al cosmo. Tuttavia, a operare il taglio non è il gesto in sé. è il pensiero che la mia anima sia mia, e dunque che la mia morte appartenga solo a me: della mia morte posso fare quello che voglio. Poiché posso porre termine alla mia vita quando e come e dove mi aggrada, sono un essere totalmente mio, assolutamente autodeterminato, sciolto dalla costrizione fondamentale che opprime nell’essenza ogni essere umano, l’incerta certezza della morte. Non sono più il suddito della Morte, in devota attesa che essa scelga il dove il come e il quando del proprio arrivo. Ho tolto la mia morte dalle mani della Morte. Il suicidio diventa la presa di potere ultima. Sono il redentore di me stesso («Dov’è, o morte, la tua vittoria?» [1 Cor, 15, 55]): il peccato di superbia dell’individualismo.
Questo contribuisce a spiegare la comune reazione di ostilità suscitata dai tentati suicidi. Coloro che tentano il suicidio non sono guardati con simpatia dalla famiglia, dagli amici o dai medici; suscitano, al contrario, rabbia o forte biasimo. Prima della compassione per le difficoltà o per la sofferenza che può avere provocato il gesto, scatta la condanna; ci scopriamo istintivamente irritati, offesi, pronti a incolpare. Sono convinto che questa reazione così diffusa rimandi agli strati più antichi della psiche che sono comuni a tutti, diciamo pure alla nostra umanità archetipica. Siamo in senso profondo animali sociali, oltre a essere depositari di un destino individuale. Qualcosa insiste nel dire che siamo parte di un’anima più vasta, che non apparteniamo soltanto a noi stessi. Dunque, questo Postscriptum mira a sganciare il suicidio dall’individualismo. Voglio salvaguardare il senso del mistero che pervade il libro, ma oggi proietterei quel mistero nello specchio di un’anima più vasta, la cui partecipazione al cosmo è più grande della mia vita, forse più grande della vita in sé. Talmente grande è la sua partecipazione che non se ne possono toccare i confini (Eraclito). Poiché i confini dell’anima mundi non si possono determinare, non mi è lecito logicamente o moralmente giustificare il mio suicidio come una chiamata del mio libero e autonomo Sé. Gli opposti fondamentali non sono l’anima e la vita, bensì l’anima e la libertà autodistruttiva dell’individualità. La polemica aperta intorno al suicidio assistito del dottor Kevorkian ripropone l’antica questione: l’anima, di chi è? Se l’anima è mia, allora ho certamente il «diritto» di andare nel Michigan per farmi aiutare a morire dal dottor Kevorkian. Se fa parte di un contesto più ampio – oggi usurpato dallo Stato secolare e sottoposto ai suoi legalismi –, allora la mia decisione e l’aiuto del dottore si pongono fuori dalla legge. Kevorkian rappresenta la posizione eroica dell’individuo libero e autodeterminato; lo Stato l’autorità dogmatica e oppressiva del collettivo. A questo usurato livello della contrapposizione tra
individuale e collettivo, la questione non può essere risolta. Occorre un contesto più ampio, che abbracci entrambi i termini. Questo Postscriptum propone di considerare l’anima mundi il contesto e di definire la soggettività individuale come l’interiorizzazione di quella comunità. Il suicidio, letteralmente «uccisione di se stessi», significherebbe allora sia uccisione della comunità sia coinvolgimento comunitario nell’uccisione. Ecco il mio ragionamento, e la mia proposta. Se l’anima è per sua essenza coinvolta con l’anima del mondo, allora ogni suicida deve riconoscere questa condizione, altrimenti la decisione di togliersi la vita non è veramente un atto dell’anima, ma solo un atto di indipendenza. Il «mondo» degli «altri» va coinvolto nella decisione, non già con la volontà e in modo letterale, ma ritualmente e simbolicamente. Occorre convocare una rappresentanza del corpo politico, del cosiddetto «collettivo», in quanto emissario degli invisibili cosmici. Il mondo deve farsi testimone. Un tempo questo ruolo era svolto dal rabbino, dal pastore, dal prete, anche se tali figure non rappresentavano autenticamente l’anima mundi, perché ciascun religioso era condizionato dalla fede nei dogmi della propria confessione e non era del tutto aperto ai segni dei molteplici destini. Neppure il giudice al servizio dello Stato secolare può adeguatamente rappresentare «gli altri»; e lo stesso vale per il medico, fedele al modello della conservazione della vita. L’anima mundi potrebbe essere simbolicamente rappresentata, è questa la mia proposta, da una sorta di corte comunitaria – una rappresentanza legale, medica, estetica, religiosa, filosofica, oltre che di parenti e amici. Non che tale corte abbia facoltà di autorizzare o proibire, e nemmeno di facilitare o dissuadere. Il compito di questi «altri» è rituale, consiste cioè nel rappresentare davanti al pubblico l’idea del suicidio, nel formalizzarne il significato, nell’onorarla come valore, nel farne sentire la potenza, in modo che la morte non sia privatizzata. Allora l’atto, anche
se compiuto, o tentato, in solitudine, non avrà più quel peso immane. Perché la solitudine è stata riscattata dal rito. Inchinandomi a questo corpo esterno e collaborando al rito, io riconosco che parte della mia anima è esterna al corpo e alla sua vita, che è per definizione comunitaria e che anche le realtà invisibili partecipano della mia morte così come hanno partecipato della mia vita. Questa contemplazione del suicidio prima dell’atto coinvolge il mondo in un gesto rituale di chiusura dei conti con il mondo. Libera – non già dal «peccato» di suicidio, ché tale l’atto in sé non è – bensì dalla superbia dell’individualismo. Il gesto rituale conferisce all’atto la sua dignità: non più una preparazione clandestina, vergognosa e solitaria, una morte furtiva, di contrabbando; al suo posto, una pubblica dimostrazione di onestà. Il suicidio esce dalla clandestinità, dallo stanzino buio. Quello di sottrarre il suicidio alla clandestinità giuridica è il fine che si sono proposti la Hemlock Society e il dottor Kevorkian. Non sono riusciti, tuttavia, a liberarlo dalla clandestinità psicologica dell’individualismo. Il suicidio rimane tuttora un agone privato. L’idea di uscire dalla clandestinità fa sorgere nuove domande. Non più di ordine morale: il suicidio è giusto o sbagliato? Non più di ordine medico-legale: in quali casi è lecito, con quali modalità e per mano di chi? Le domande diventano semmai di ordine più psicologico: da cosa dipende la feroce resistenza che nella civiltà occidentale si oppone all’idea di aprire lo stanzino buio? Perché quando si profila una «minaccia» di suicidio scatta il panico persecutorio: intervento della polizia, reclusione, criminalizzazione dei «favoreggiatori», sedazione totale? Evidentemente, l’idea di far uscire il suicidio dallo stanzino buio dell’individualità privata costituisce una minaccia per l’essenza stessa dell’individualità privata. Il fare entrare altri negli interrogativi profondi che il suicidio apre offre al suicidio lo sfondo antico di Roma e quello ritualizzato del Giappone. Fa riconoscere come sia in gioco qualcosa che trascende la
propria persona. Si recupera così anche la metapsicologia di Freud e il mito che egli ha restituito alla psicoterapia. Freud ha proclamato che Ade con il suo mondo infero è una forza cosmologica universale. Ha legato ineluttabilmente l’anima al principio di Thanatos, la pulsione verso la morte, la pulsione della Morte. Freud era immerso nelle sorgenti greche del pensiero psicologico. La sua psicologia afferma decisamente che la morte non è una questione temporale, uno stadio finale verso il quale la vita muove. No, è una pulsione autonoma, una forza. L’anima cerca la morte mentre vive. La morte è sempre in atto, dunque siamo tutti dei suicidi. Chiamiamo la morte trasformazione radicale, crescita, rinnovamento; ne avvertiamo i sentimenti concomitanti: il senso di perdita e il rimorso. L’anima contiene entrambi gli aspetti: una eterna primavera di empiti erotici e un inverno senza fine di dolore e di lutto. Questa universalità del suicidio, questo thanatos presente nella vita di ogni anima, comporta che i membri della corte non saranno meri testimoni esterni; saranno partecipanti nell’agone. Che portano alla mia individuale tragedia non la severità del giudice, bensì l’empatia. Infine, non dimentichiamo che quella dell’individualità è un’idea archetipica sostenuta da un mito. Un’idea che ossessiona la mente in molti luoghi e in molte epoche. Pensiamo ad esempio ai problemi sui quali si tormentava la filosofia medioevale: come spiegare il principio di individuazione, ovvero le differenze tra le cose, le quali posseggono ciascuna una specifica quiddità. L’idea riappare nel pensiero orientale, dove l’individualità è definita sostanzialmente una illusione, anzi l’inganno più grave della mente divisa. E assume un ruolo centrale nell’alta nozione di persona che alimenta le radici cristiane dei valori occidentali circa la sacralità di ciascun individuo e che ha influenzato la nostra etica, i nostri sistemi politici nonché il nostro concetto di proprietà privata. Un’idea archetipica, abbiamo detto; ma come è difficile riconoscerla tale quando più mi sento «io». Come è difficile
accettare che questa mia privatissima «esperienza» di unicità sia in fondo un fenomeno collettivo, accessibile a tutti, in tutte le epoche, in tutti i luoghi. L’archetipo dell’individualità si riflette nella coscienza personalizzata che, se presa semplicisticamente e letteralmente, diventa l’ideologia dell’individualismo e la mitologia del monoteismo. Se, come propongo nel mio libro e come ribadisco in questo Postscriptum, il suicidio inteso come «uccisione di sé» letteralizza il desiderio di far morire quel «sé», allora la morte che il suicidio cerca è quella dell’idea archetipica della soggettività che ha segregato l’anima nella sua piccola cella e mi ha convinto della mia individualità. La forza dell’idea di singolarità è un riflesso del mito del monoteismo, di un Uno autosufficiente, autocentrico, automotivato. Se questo è vero, allora l’impulso a eliminare me stesso può avere la sua fonte archetipica negli altri che sono stati esclusi: altri Dei, altri esseri, altre chiamate rivolte all’anima. Forse nel mio suicidio viene agita la vendetta degli esclusi, al fine di liberare la mia anima per immetterla in un più ampio, più completo cosmo di compartecipazione. Detto altrimenti: l’individuo è più ampio della singola individualità personale. C’è qualcosa – che va oltre il mio «io» – che abita l’anima, partecipa della sua vita e ha diritto di parola sulla sua morte. Ciò che caratterizza in modo essenziale il mio essere «io» mi è dato dal mio daimon (ne parlo diffusamente nel mio libro Il codice dell’anima), che è il mio compagno e che ha scelto di abitare nella mia vita. Come ha scritto Henri Corbin, è il processo di individuazione del daimon che dovrebbe starci a cuore, l’adempimento della sua vocazione, al cui servizio è posta la nostra vita. è al daimon, dunque, che vanno rivolte le domande aperte dal problema del suicidio; a lui devo chiedere a che cosa mira nell’ossessionarmi con il desiderio di abbandonare questo mondo in cui, pure, ha voluto entrare. Vuole lasciarlo, andarsene altrove? Oppure sono io la causa pressante? Solo lui lo può sapere e dunque solo lui può fornire risposte che io
forse non so neppure immaginare. Il fatto di rivolgermi a lui nel momento della disperazione e del dubbio può dare l’avvio a un dialogo simile a quello di cui si legge nel primissimo testo sul suicidio che la cultura umana può vantare, il papiro egizio del primo periodo intermedio, indicato con il titolo Dialogo di un disperato con la sua anima. Le idee archetipiche hanno il potere di impossessarsi di noi. Lo sappiamo tutti, perché tutti siamo stati innamorati, abbiamo creduto nella nostra crescita, ci siamo sentiti esaltati nel trionfo, paralizzati da timori e indecisioni, precipitati nelle paludi della disperazione. In tutti questi stati dell’anima, la nostra coscienza diventa schiava di un’idea dominante, testimoniando in maniera convincente dell’archetipo che ci ha afferrati. Alla stessa stregua possiamo diventare vittime dell’idea dell’individualità. Ma per liberarci dell’idea non è necessario liberarci della nostra persona. Anziché farla finita con noi stessi per inseguirla, possiamo farla finita con l’idea, vedendola in trasparenza. Le fantasie di suicidio letteralizzano un tentativo di epistrophé. Per liberare l’anima non c’è bisogno di abbandonare il mondo, quando ciò che vogliamo è liberarci della sua mondanità; anche il mondo infatti può diventare una ossessione archetipica. Basta vederlo in trasparenza e, dalla sua esteriorità, arrivare alla sua anima, alla quale ciascun daimon è legato e che pretende la nostra partecipazione. Infatti, se non le restituiamo un poco di quello che ci dà, l’anima del mondo, così trascurata, avvizzirà, e il mondo sarà sempre più inanimato e il nostro impulso al suicidio sempre più forte. Thompson, Connecticut, 1997 J. H. 11. Cfr. Thomas Moore, La cura dell’anima, trad. it. di Elena Broseghini e Anna Morpurgo, Frassinelli, Milano, 1997 [N.d.T.].
INDICE ANALITICO
Agostino, sant’ alchimia alleanza segreta tra analista e paziente, si veda analista, alleanza segreta con il paziente dell’ amore/amanti/amare amplificazione analisi – dialettica dell’ – didattica – e amplificazione – e configurazione mitica – e esperienza – e guarigione – e i sintomi – e il corpo – e il rimosso – e l’anima – e la medicina – e la storia animica – forme di esperienza della morte nell’ – laica/profana – le sfide dell’ – ontologia dell’ – personale – unicità della relazione analitica analista – alleanza segreta con il paziente dell’ – come psicopompo – conoscenze dell’ – criteri di giustificazione dell’ – dialettica dell’ – e fantasia mitica
– e il coinvolgimento – e il Guaritore – e il suicidio; e la sua prevenzione; e l’impulso al – e l’anima – e l’esperienza della morte – e l’inconscio – e la comprensione – e la disperazione – e la filosofia – e la morte – e la patologia – e la prevenzione del suicidio, si veda analista, e il suicidio – e la sofferenza – e la teologia – e ricerca dei significati – e traslazione – eros personale dell’ – formazione dell’, si veda formazione, dell’analista – laico/profano – non medico – punto di vista dell’ – responsabilità dell’ – vocazione dell’ anima – archetipi dell’ – come simbolo – e il corpo – e il suicidio – e l’analisi – e l’esperienza della morte – e la facoltà di credere – e la medicina moderna – e la morte – e la psicologia accademica – e la psicologia – e la teologia
– e psiche – e segretezza – esperienze dell’ – fantasie dell’ – fenomeni dell’ – in extremis – individuale – metafora radicale dell’ – misteri dell’ – realtà autonoma dell’ – salute dell’ – salvazione dell’ – scienza dell’ – sofferenze dell’ – storia dell’ – sviluppo dell’ – terminologia dell’ – trattamento dell’ – si veda anche psiche Anima e Animus anime dei morti apollinea, tradizione Apollo archetipo; si vedano anche significati archetipici Asclepio bambino/i Bernard, Claude biologico, modello Blackstone, William bomba atomica Bridgman, Percy W. Buddha cancro classificazione
sfondo
archetipico
e
– dei tipi di suicidio – del comportamento umano coinvolgimento emotivo collettivi, criteri complesso/i complessità, livelli di comportamento – comprensione del – e psicologia – esteriore – significato interno del comprensione (vs. spiegazione) – e conoscenza – negazione della possibilità di controtransferale, identificazione coraggio corpo – di diamante – e l’anima, si veda anima, e il corpo – e trasformazione – relazione anima– vita del coscienza creatività crescita Cristo crollo psichico cura, si veda guarigione Darwin, Charles Daseinanalyse deformazione professionale Dei Depressione diagnosi dialettica analitica Dio
dionisiaco, elemento Dioniso diritto, punto di vista sul suicidio del disperazione dolore Donne, John dottore Dubos, René Durkheim, émile egoica, coscienza, ; si veda anche Io Eissler, K.R. Eliot, T.S. emozioni, energia epidemiologia eros errore psichiatrico eschimesi esistenzialismo esperienza/e, – collettiva – conferma delle – del corpo – e comportamento – psicologica fantasie – di onnipotenza – di suicidio Farberow, N.L. filosofia fisico/a – comportamento – dolore – medicina – morte
– realtà – salute – trattamento – vita formazione – dell’analista – del medico, Freud, Sigmund, freudiana, analisi Gaubius di Leida, Hieronymus genetico, approccio Gesù, si veda Cristo Grande Madre guarigione; si veda anche terapeutico, processo guaritore harakiri Heidegger, Martin Herzog, Edgar Hume, David Huxley, Aldous immortalità – approccio psicologico all’ incesto, complesso dell’ inconscietà inconscio – collettivo – processi dell’ individualità, individuazione, processo di individuo/i, individuale – comportamento – e la morte – significato del suicidio per l’ infanzia
– disturbi nell’ – gioco nell’ infezione attenuata, teoria dell’ Io, -, si veda anche egoica, coscienza ipnosi ipocondria cronica Jaspers, Karl Jung, Carl Gustav laica, analisi, si vedano analisi, laica/profana e analista, laico/profano Lapis Lawrence, D.H. Leopold, A.C. Madre malattia/e, -, – iatrogene – ricorrenti male, il masturbazione materialismo razionale Mayer, Robert medicina – analisi medica – asclepiea – e Apollo – e l’analisi – e l’anima – e la diagnosi – e la morte – e la patologia – e la psicologia – e la salute – e la vita – finalità della
– ippocratica – lato più antico della – modo di pensare della – parole della – punto di vista della – scuole terapeutiche della – sfondo psicologico della – trattamenti della medico/dottore/«fisico» – come guaritore – e il segreto professionale – e la diagnosi – e la morte – e la patologia – e lo sviluppo – si vedano anche medicina e formazione, del medico Meier, C.A. melanconia Menninger, Karl metafore radicali mistero mito/mitologia – frammenti di – interiore morbosità Morgenthaler, Walter morte – angoscia della – biologica – come condizione esistenziale – comprensione della – configurazioni della – costruzione della – e il suicidio – e il tempo – e l’analisi – e l’analista
– e l’anima, si veda anima, e la morte – e l’individuo – e la filosofia – e la legge – e la psicologia – e la teologia – e la tragedia – e le scienze naturali – e malattia – esperienza della – impulso di – problema della – pulsione di – simbolica morti nevrosi Nietzsche, Friedrich norma/normalità omicidio ontologia – dell’analisi – della psicologia – esistenziale Osis, Karlis, Osler, William Pandora Paolo, san paradosso patologia – sessuale – statistica – si veda anche pregiudizio patologico personalità – disturbi della
Platone pregiudizio patologico; si veda anche patologia Presente e futuro (Jung) Primun nihil nocere psiche – attività creatrice di simboli della – collettiva – configurazioni dinamiche della – problema del rapporto soma– si veda anche anima psichiatra – e l’analisi – suo atteggiamento nei confronti del suicidio psichiatria psichico/a – crescita – crollo – dolore – energia – esperienza – forze – immortalità – morte – processi – realtà – salute – sviluppo – vita – si veda anche psicologico/a psicologi, e l’analisi psicologia – accademica – analitica – e la diagnosi – e la filosofia – e la medicina – e la morte
– e la sofferenza – generale – punti di vista contrastanti nella – teologica psicologia del profondo psicologico/a – aiuto – approccio p. al suicidio – atteggiamento p. nei confronti del suicidio – autopsia – disturbo – esperienza – morte – patologia – pregiudizio – processi – punto di vista – realismo – realtà p. del suicidio – rimedi – verità – si veda anche psichico/a psicopatologia psicoterapia – approccio genetico alla – dinamica – nuovi approcci alla realtà – psichica, si veda psichica, realtà redenzione; si veda anche salvazione/ salvezza regressivi/e – impulsi – prescrizioni reincarnazione, si veda rinascita religione Ricordi, sogni, riflessioni (Jung)
Rilke, Rainer M. rimozione/i rinascita Ringel, Erwin salute salvazione/salvezza Sartre, Jean-Paul scienza/e segretezza – del medico – dell’analisi – e individualità – paranoide – religiosa sessualità sfondo archetipico; si vedano anche archetipo e significati archetipici Shneidman, Edwin S. significato/i significati archetipici; si vedano anche archetipo e sfondo archetipico simbolico/a – modalità – pensiero – significato simbolo/i Simon, Harold J. sincronicità sintomi Snow, C.P. sociologia – punto di vista sul suicidio della Socrate sofferenza – dell’anima, si veda anima, sofferenze dell’ – studio della
sogni – sistema codificato di – studi sui specchio dialettico speranza Spinoza, Baruch Stengel, Erwin storia – del pensiero – delle idee storia clinica suicidio – affrontare il rischio di – argomenti a favore e contro – ascetico – collettivo – come martirio – come possibilità umana – comprensione de – crisi suicidaria – da parte di bambini – decisione di – del successo – descritto in maniera articolata – deterrenti del – e il pregiudizio patologico – e l’esperienza della morte – e l’individualità – e la morte – e la psicologia – e la teologia – e la trasformazione – e lo psichiatra – emotivo – emozioni intorno al – epidemie di – fantasie di
– – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –
giustificato giustificazione religiosa del il problema del immagine del impulso al indagine sul individuale «innaturale» intellettuale letteratura sul minaccia di mutilazioni «naturale» nell’antichità nella storia oggettività sul posizione dell’ebraismo sul posizione della Chiesa anglicana sul pregiudizio sul prevenzione del pulsione al; si veda anche suicidio, impulso al punto di vista del diritto sul punto di vista della medicina sul punto di vista della sociologia sul rituale significato per l’individuo del simbolico statistiche sul studi sul studio scientifico del tendenza al tentativi di terminologia del
teologia – e il suicidio – e l’anima
– e la morte terapeuta terapeutico – atteggiamento – processo; si veda anche guarigione – regressione terapia Thanatos tragedia trasformazione traslazione – e sessualità trattamento vita – aspettativa di – domande che interpellano la – dopo la morte – e l’esperienza della morte – e la morte – e la speranza – esterna – processi vitali – promuovere la – verità fondamentale della Von Weizsäcker, Viktor Webb, Wilse B. Wesley, John
.
Frontespizio _____________________________________________________________________2 Prefazione di Thomas Szasz ________________________________________________________4 Nota introduttiva (1964) __________________________________________________________10 Nota introduttiva (1976) __________________________________________________________12 Parte prima. Il suicidio e l'analisi ___________________________________________________15 Citazioni _________________________________________________________________16 1. Il problema _____________________________________________________________18 2. La prevenzione del suicidio ________________________________________________28 3. Il suicidio e l'anima _______________________________________________________43 4. L'esperienza della morte ___________________________________________________62 5. Di fronte al rischio di suicidio_______________________________________________84 Parte seconda. La sfida dell'analisi _________________________________________________103 Citazioni _____________________________________________________________________104 6. La medicina, l'analisi e l'anima _____________________________________________106 7. Questione di parole ______________________________________________________118 8. Il guaritore come eroe ____________________________________________________128 9. Il giudizio patologico ____________________________________________________136 10. La diagnosi e la dialettica analitica _________________________________________150 11. La speranza, la crescita e il processo analitico ________________________________164 12. Segreto professionale e mistero analitico ____________________________________183 Bibliografia ___________________________________________________________________192