Il cinema italiano: servi e padroni


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Il cinema italiano: servi e padroni

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GOFFREDO FOFI

IL CINEMA ITALIANO: SERVI E PADRONI Un pamphlet sugli opportunismi e le fughe dei registi, le miserie e i condizionamenti del "mondo del cinema”

GOFFREDO FOFI

IL CINEMA ITALIANO: SERVI E PADRONI

FELTRINELLI ECONOMICA

Prima edizione: giugno 1971 Quinta edizione: settembre 1977 Copyright by

©

Feltrinelli Economica SpA Milano •

A molti amici

Introduzione

Questo è un pamphlet e non un saggio. I saggi li scrivono gli accademici, pagati, per farlo, dallo stato, o i possessori di rendite. Anche altri, naturalmente, ma una tantum, e rinunciando ad altro, almeno tem­ poraneamente. Questo "altro" è la necessità di gua­ dagnarsi il pane, ma soprattutto la volontà di parteci­ pazione effettiva all'elaborazione del nuovo, alle lotte, alla pratica sociale. La scelta del pamphlet è dunque determinata dalla scarsità del tempo a disposizione per scrivere, e da una scarsa fiducia, oggi, per la mi­ sura del saggio quando non si è un Benjamin o un Lu­ kacs (e di Benjamin e Lukàcs non ce ne sono in giro tanti). È determinata anche dalla difficoltà del­ l’autore a scrivere un "saggio" e dalla preoccupazio­ ne di toccare il lettore cui egli mira, partecipe e vivo nella realtà o che vivo e partecipe può diventare, al­ lontanandolo con una prolissità che quel lettore certo giudica inadeguata a un argomento come il cinema. I libri di cinema sono in Italia di due tipi: lun­ ghe disquisizioni scritte da accademici per accade­ mici; manualetti d’informazione in genere molto su­ perficiali. I critici di cinema sono invece di più tipi: gli accademici più o meno inutili; i deliranti sog­ gettivi o pseudo-linguisti; i venduti ignoranti della stampa settimanale e quotidiana, con due o tre ecce­ zioni al massimo; i funzionari di qualcosa (di par­ tito o di festival); gli scribacchini degli uffici stam­ pa delle ditte di produzione e distribuzione. Fanno pal le di un sindacato, sono "critici di mestiere." L'au7

tore non rientra in questa categoria professionale. S'interessa al cinema, come alcuni altri, perché con­ sidera il cinema come la più sociale e condizionata delle arti, quella in cui più coordinate s'interse­ cano e le danno ancora una funzione, un peso che è perlopiù negativo; come un mezzo di comunicazione di massa che, contrariamente ad altri, concede an­ che usi secondari o alternativi. Di queste coordinate alcune, quelle fondamentali, sono storiche, sociali, economiche e culturali; dun­ que politiche. Dunque, non specialistiche e non astratte. È da un obiettivo non specialistico e, a più livelli, politico che se ne vuole parlare in queste pa­ gine, quello dell’analisi e demistificazione di un or­ dine economico-culturale, di uno strumento in mano alla borghesia per imporre i suoi valori e sfruttare il popolo-spettatore, di uno specchio, per quanto de­ formato e spettacolarizzato e fatto intervento castra­ to e castratore, dell'evoluzione di una realtà in mo­ vimento come quella italiana di questi tempi. Ma in­ sieme si mira a un obiettivo: quello di dialoga­ re, sulla realtà effettiva di questo strumento e sui suoi usi, con alcuni dei suoi destinatari, quella fetta di pubblico raggiungibile oggi coi mezzi del libro: gli studenti, militanti e no, chiamati a un rapporto attivo con un sistema di merda come quello in cui viviamo, e che dal cinema continuano ad assorbire stimoli e argomenti di riflessione e discussione molto grandi, come sa chi opera tra loro o nella scuola. Per contribuire alla formazione di un giudizio più chiaro e definito, e poiché essi sono forse i soli a cogliere oggi, intuitivamente, i legami più importanti tra il cinema e la realtà che li attornia, tra il cinema e i problemi della vita e delle scelte quotidiane. Si rivolge anche, ai fini di un dialogo in realtà frustran­ te e quasi impossibile, ma tuttavia da tentare, a po­ chi registi "di buona volontà," non totalmente de­ formati dal loro individualismo o dalla conservazio­ ne degli interessi e privilegi di un ruolo giullaresco o da fantasie verbali e verbose appena utili a misti­ 8

ficare ai loro soli occhi l'evasione dai compiti rispetto ai quali, col loro operare coi mezzi e nelle strutture del cinema, devono comunque definirsi. L’esperienza di questi anni è stata, sotto questo profilo, assai ne­ gativa: è cresciuta invece di diminuire la sordità dei registi a una effettiva ridiscussione del loro lavoro e delle sue possibilità. Quando c’è stata, infatti, si è risolta in termini mitici, caotici, approssimativi, e ta­ lora pseudo-masochistici, e nel ritorno quasi generale alle regole del gioco imposte dal sistema. Questo non significa che ogni possibilità sia chiusa, ma ci pare più serio ipotizzare anche in questo settore un lettore nuovo e diverso; privilegiando coloro che intendono fare del cinema, che credono, come noi, nella possibilità di un uso del cinema per contribuire all’elaborazione di una cultura per la rivoluzione, cioè già ora per la distruzione dei valori del sistema c la loro sostituzione con valori comunisti, da ricer­ care e proporre prima, durante e dopo la rivolu­ zione da fare.

Benché scritto da uno, questo testo è il risultato di discussioni che datano ormai a qualche anno con amici e compagni e con quei giovani cui il libro è dedicato. Soprattutto coi collaboratori di "Ombre ros­ se" e dei "Quaderni piacentini." Se a qualcuno questa rapida sintesi va dedicata, è però a quei lettori di queste due riviste che in esse hanno trovato elemen­ ti di stimolo e riflessione per la militanza politica, per una militanza che desse il giusto peso agli aspet­ ti "culturali" del loro impegno, all’intervento per contribuire a cambiare, con la lotta, anche valori e comportamenti dei suoi protagonisti.

Rivendichiamo, e non solo in funzione provoca­ toria, la necessità di considerare il cinema come pre­ testo. La ricerca specialistica non ci coinvolge se non indirettamente, anche se in casi peraltro rari ha una sua validità e necessità. Un discorso cosi parziale, settoriale, nonché squalificato come è quel­ 9

lo sui cinema, ha per noi interesse solo se conside­ rato come un contributo, a partire da una situazio­ ne particolare, alla definizione di un nuovo rapporto tra politica e cultura, costruito sulle basi delle ne­ cessità presenti, con un chiaro senso dei tempi ma anche delle linee generali cui politicamente ci rife­ riamo. La "teoria" che ci si propone nasce: dall’ana­ lisi delle nostre stesse contraddizioni; dalla fase at­ tuale della lotta di classe in Italia; dalle esperienze passate (soprattutto immediatamente passate) e dal­ le loro carenze; dalla necessità di costruire una cul­ tura "altra" da contrapporre a quella borghese, di cui siamo più o meno tutti almeno parzialmente pri­ gionieri; dagli insegnamenti che possono essere ri­ cavati dal modo in cui il rapporto tra politica e cul­ tura è stato considerato, a sinistra, in altri paesi e in tempi recenti. Soprattutto in Cina, prima e dopo la grande rivoluzione culturale proletaria; ma anche nella nuova sinistra americana, nel maggio francese, in Italia dopo il '68, in America latina; e, al negativo, con la vecchia politica staliniana, i fronti popolari, il togliattismo italiano... È affare di gruppo, e non può che nascere all'interno di uno squilibrio e di una tensione che, ricondotti continuamente alla po­ litica, contribuiscano alla costruzione di una strate­ gia, all'elaborazione di un metodo, alla collaborazio­ ne costante allo sviluppo della rivoluzione. Il movimento studentesco, in Italia, ha tentato di distruggere la figura dell’intellettuale come cate­ goria separata, con un ruolo autonomo. Si scriveva "abbasso la cultura," si contestava la cultura e si ir­ ridevano i suoi rappresentanti ufficiali perché si vo­ leva che la cultura e la scienza cessassero di vedersi in un’aura "al di sopra della mischia," cessassero di servire gli interessi dei padroni per diventare le di­ mensioni dell'autorealizzazione di ciascuno e di tutti. Questo non voleva affatto significare la riproposta della figura mitica dell’intellettuale: fu subito chia­ ro, anche se la confusione nell'uso di questo termine oggi praticamente e sociologicamente inutilizzabile 10

può perdurare, che andava operata una distinzione netta tra "intellettuale” e "intellettuale/* e le cate­ gorie andarono sommariamente precisandosi. C'erano e ci sono gli alti funzionari e dirigenti (di case edi­ trici, delle università, della Rai-TV, della pubblicità...) equiparabili quanto a connotazioni di classe agli alti funzionari e dirigenti di qualsiasi industria, e dun­ que automaticamente nemici di classe. C'erano poi quegli amplissimi strati di "intellettuali” compren­ denti in realtà insegnanti, assistenti, redattori e col­ laboratori di case editrici, ricercatori, certi tecnici, giornalisti, ecc., il cui status e le cui condizioni eco­ nomiche e sociali hanno visto, nonostante le interne differenze e contraddizioni, un generale scadimento di ruolo, una progressiva proletarizzazione. Con que­ sti strati era possibile lavorare per portarli a una più precisa coscienza della loro servitù, per chiarire le finalità della loro lotta, per proporre l'alleanza con i proletari. Infine, in mezzo, rimaneva lo strato più ambiguo, quello degli "artisti,” degli "scrittori,” de­ gli "uomini di cultura di sinistra.” Qui la distin­ zione si faceva più difficile, e l'atteggiamento assun­ to dal movimento e dai gruppi è stato esso stesso più ambiguo. Tra quelli ci sono i bohémiens della sotto­ cultura di Brera o di Roma, i servi fedeli del siste­ ma, le personalità note e ricche, quelle note e poco ricche, le anime in pena divise tra i vantaggi della propria posizione e il richiamo della storia e del­ l’impegno. Districarsi là in mezzo sembrava, ed è, quasi impossibile. Passi per i luridi, facilmente rico­ noscibili da quello che fanno e producono o dai no­ mi dei loro padroni e mecenati. Degli altri, quelli ai quali il sistema attribuisce il compito di interpre­ tare la realtà o di cantarla, è parso che molti fossero toccati dalla intensa politicizzazione del '68-'69 e met­ tessero in discussione il loro ruolo e i loro compiti. Ma mai, se non andiamo errati, i loro privilegi. E allo­ ra. ecco che la modificata valutazione dei prodotti del proprio lavoro, l’affermazione di una personalità di­ lacerata alla ricerca di una giustificazione più poli­ li

tica e più rispondente al processo di crisi e di pro­ posta che la lotta politica andava sviluppando, han­ no potuto convivere più o meno con la stessa collo­ cazione sociale già precedentemente raggiunta, in una dubbia coesistenza sorretta dalla rivendicazio­ ne della coscienza infelice, altra faccia del soggetti­ vismo abituale. L’assenza di metodo nel portare avan­ ti questa crisi, l’attesa dell’organizzazione di cui met­ tersi a servizio come i compagni di strada di un tempo, hanno lasciato alcuni, dopo la fine di qual­ che illusione (l’Unione, l'autunno rivoluzionario, il movimento studentesco), pronti a rientrare tra le braccia della borghesia o tra quelle protettive e si­ cure dello sputtanato amplesso con le organizzazioni politiche del revisionismo che permettono la massi­ ma libertà di dire e fare specialistiche o poeticistiche sciocchezze, e fanno sentire "in contatto con le masse.” Categoria sociologicamente irrilevante, questi in­ tellettuali hanno risolto i loro problemi di "impe­ gno” politico caso per caso, e cosi probabilmente continueranno a fare. In generale, non li hanno ri­ solti nella misura in cui hanno ridato vita nei fatti alla falsa convinzione per cui l’attività artistica è rimasta o è diventata il loro modo di fare politica. Nessuna rivoluzione culturale è possibile senza un rapporto diretto con le masse, e l’unico reale rap­ porto con le masse è possibile attraverso la militan­ za politica, anche se questa deve oggi, provvisoria­ mente, avere le incertezze e le responsabilità del filo di rasoio di un collegamento prevalentemente indi­ viduale (meglio se di individui in quanto membri di categorie) alle istanze delle masse, alle situazioni di lotta, all’incerto procedere dei gruppi, data l’as­ senza, ora e per molto, del "partito” che unifica e dà senso alle singole lotte e partecipazioni. Per l’artista questa responsabilità è di soluzione più difficile che per il professore o, al limite, perfino il magistrato. Ma è proprio l’ambiguità plurima del suo ruolo rispetto a una definizione sociologica e po­ li

litica della sua attività die gli ha dato da decenni compiti gravi e responsabilità maggiori, alle quali ben raramente ha saputo adeguarsi. Un tempo, aveva abbandonato i suoi propositi più razionali e didattici, illuministici, assorbiti dalla scienza nel compito di rafforzamento della classe bor­ ghese, per farsi cantore (poeta) o studioso (filosofo) deir'umano," con una funzione essenzialmente con­ solatoria e sublimante e squisitamente ideologica, op­ pure per farsi vate di una visione del mondo da tra­ smettere ai discepoli perché facessero di questo mes­ saggio realtà. Fosse l'idea nazionale o la liberazione degli umili o raccordo tra le classi o la modernizza­ zione di una società, la responsabilità sociale di cui l'intellettuale-artista-filosofo si sentiva investito lo spingeva a proposte di azione. Ma intanto il consoli­ damento della borghesia sempre più privata e pri­ vai) tesi di valori giustificativi e sempre più scoperta nella sua funzione di dominazione di classe, portava alla nascita dei collaborazionisti, organici al potere, c parallelamente di colui che andava staccandosi dal­ l'impegno per propugnare forme solo apparentemen­ te libere da esso, in tutta una gamma di atteggia­ menti decadenti. In quest’ultima schiera, cominciava la lotta per difendersi dalla società, ritagliandosi uno spazio di privilegio o ritirandosi in sdegnosa consta­ tazione di impotenza e rifiuto. I portatori di messag­ gio si facevano invece sempre più politici, e tradi­ vano la propria classe per passare al servizio del po­ polo. Una parte dell’intellighenzia diventava dirigen­ ti, quadri e agitatori politici, scopriva il marxismo, e dalla comprensione della realtà passava alla più du­ ra impresa della sua modificazione. Ma non tutti si sentivano di fare il salto, rimanendo, fetta ben deter­ minata e ristretta di una borghesia piccola o grande in cui più non si riconoscevano, quei "portatori di scienza e di cultura” il cui peso nella formazione del­ le idee e nei processi di crisi o di consolidamento di ima società era ancora importante. I politici dove­ vano prendere posizioni verso questi loro ex fratelli, 13

cominciando col combattere i "vati” impiccioni la cui funzione era ormai morta grazie alla loro na­ scita, e trascurando invece i professori, i medici, e simili, per i quali si proponeva una politica delle alleanze più chiara e definita. Gli artisti meritano una diversa attenzione: Le­ nin privilegiava un solo tipo, il ” modello Gorki,” "l'ingegnere delle anime” mediatore tra il partito da una parte e il lettore borghese o il popolo alfabeta dall'altra. Trotzki considererà anche i rampolli de­ generi e arrabbiati o semplicemente in crisi della borghesia, acceleratori o esemplificatori della crisi di quella, come recuperabili e possibili inventori di una nuova poesia e una nuova arte della rivoluzione. Sta­ lin si rifarà al modello Gorki, riduttivamente tra­ sformatosi — a cominciare dallo stesso personaggio storico Gorki — in un burocrate più privilegiato di altri, meglio trattato di altri, funzionario-dirigente o funzionario-servo. Chi non s’adegua finisce in Siberia o viene ucciso. La formula dei "compagni di strada” risale a Trotzki, che lascia uno spazio autonomo all'elabora­ zione artistica, sempre più grande fino al terzo ma­ nifesto dei surrealisti, purché tutto sia fatto per la rivoluzione e nulla contro di essa. In quegli anni, la teoria degli "intellettuali organici" della classe ope­ raia, in parte una sopravvivenza, riadattata da Gram­ sci, non trovò in Italia applicazione pratica a causa delle condizioni storiche, e più tardi, nel dopoguerra, Togliatti preferirà adottare quella staliniana dei fron­ ti popolari. Negli anni Trenta, infatti, date le necessi­ tà della lotta internazionale contro il fascismo, i cor­ rispettivi europei di quegli artisti che in Russia erano spediti in Siberia venivano esaltati da un’identica po­ litica staliniana come i migliori portavoce e alleati di una formula politica, il fronte popolare, giudicata in­ dispensabile alla politica sovietica. L’artista-letteratofilosofo-scienziato, umanista, è ancora un mediatore, ma stavolta nei confronti delle classi medie contro le "200 famiglie" cui si circoscrive la struttura del po14

tcre, quelle stesse classi medie, chiamate ormai "ceti medi," che vengono viste come massa amorfa senza trasformazioni e differenziazioni interne. Portando avanti questa politica, Togliatti si limitò a richiedere agli intellettuali dichiarazioni di solidarietà e simpa­ tia, sposando appieno la tesi di una continuazione storica tra borghesia e socialismo, tra gli ideali risor­ gimentali e quelli resistenziali e quelli della lotta pro­ letaria. £ stato proprio il fatto di chiedere troppo poco ( offrendo peraltro molto in cambio) che ha contri­ buito da noi alla perdita di presa che il comuniSmo aveva sugli "uomini di cultura" favorendo la loro precipitazione nelle utopie più fumose, nell’irra­ zionalità distruttiva o auto-distruttiva di pochi e, per molti, quelli coi piedi più saldamente poggiati sulla terra, nell’abbraccio colla borghesia in funzione più o meno scopertamente servile: il funzionariato ben retribuito, gli innamoramenti tecnologici, le nuove avanguardie senza più dramma e pretese liberatorie se non cartacee, gli strutturalismi in accentuazioni qnalunquiste, altrettante maschere per una precisa scelta di destra: i committenti borghesi pagano me­ glio. E d'altronde la nessuna saldezza e maturazione politica di tutti costoro — merito indiscusso del PCI — derivava anche dalla genericità o stupidità dei compiti loro attribuiti nella politica delle allean­ ze, dal mancato lavoro di loro effettiva rivoluzionarìzzazione attraverso un contatto diretto con le mas­ si* e un “impegno" che fosse veramente tale e non solo quello delle firme. Oggi, nella complessità di un sistema capitalistico che tende a razionalizzarsi in un continuo scoppiar di contraddizioni, quello che manca all’intellettualem lista è un qualsiasi quadro sociologico, economico, politico, e dunque culturale, cui far riferimento. Ma questo quadro, che è possibile tuttavia darsi in un approfondimento teorico che nasca anche da un continuo rapporto con la realtà degli strati sociali protagonisti delle contraddizioni maggiori, degli 15

sfruttati, o più semplicemente, per il momento, con un buon lavoro d’inchiesta nel senso in cui lo in­ tendono i cinesi, richiede una fatica, una responsa­ bilità, delle rinunce, un metodo. È indubbiamente più facile, per il regista o l’artista italiano, cercare la mamma o fidarsi delle mode o del proprio fiuto o delle proprie viscere. Negli anni Venti, in Cina, Lu Hsiin vide il com­ pito provvisorio dell’intellettuale come lotta contro il mandarinato, e cioè contro l’equivalenza culturapotere; come lotta per il risveglio e la formazione politica, per il passaggio alla politica di quelli che avrebbero dovuto essere i futuri mandarini, gli stu­ denti; e come lotta per il risveglio e la formazione del popolo stesso, accostandogli gli strumenti del sapere e insieme demistificando e chiarendo le sue contraddizioni fuori da ogni idealizzazione populista. Il suo impegno è rivolto alla distruzione delle con­ dizioni dell’impegno, alla distruzione del ruolo e del­ la figura dell’intellettuale. Perché i privilegi scom­ paiano, è necessario che la rivoluzione avvenga, e che intanto l’intellettuale metta davvero a disposizione del popolo le sue conoscenze, gliele trasferisca in un costante rapporto. Più tardi, Lu Hsiin prenderà posi­ zione contro il fronte unito antigiapponese di propo­ sta staliniana, per combattere la proposta nazionali­ sta e interclassista che in esso si annida, e anche per­ ché vede il compito dell’intellettuale in un legame ben più responsabile con il popolo e gli oppressi. Con­ temporaneamente, vede nella richiesta fatta agli scrit­ tori di trattare certi temi e non altri, in un certo modo e non in un altro, una soluzione pericolosa, parallela alla prima. Rivendica di mettersi al servizio non del partito ma del popolo. Non intende “ me­ diare” una linea — con ciò stesso riconquistando una situazione di privilegio in un servizio a un po­ tere — ma ricercare un legame diretto preconizzan­ do la distruzione futura del ruolo dell’intellettuale. Futura, e non presente: collaborare alla liberazione del popolo dagli oppressori vuol dire anche aiutar­ 16

lo a liberarsi dell’ideologia, dei valori, degli atteg­ giamenti che nel popolo gli oppressori hanno incul­ cato. La libertà che Lu Hsiin rivendicava agli artisti lo riguardò soprattutto come momento di negazione della possibilità di esistenza di un'arte rivoluziona* ria. Rivoluzionaria è solo la lotta degli oppressi per il comuniSmo, e Lu Hsiin, artista, volendo parteci­ pare alla rivoluzione scelse per sé l'attività di porlare avanti quel processo di autodistruzione coscien­ te e motivata del proprio ruolo e via via della propria funzione, nella misura in cui il popolo andava cono­ scendo e maturando, modificando la realtà e la sua stessa coscienza. Questo processo, che in Europa solo Brecht ha af­ frontato, benché con minore chiarezza e con l'ambi­ guità che gli derivava anche da un ben diverso e fru­ strante sviluppo della storia della rivoluzione, ha mol­ lo da insegnarci. Qui, oggi, è questo un insegnamento che dovrebbe pur riguardare qualcuno, nello sciupio di formulazioni rivoluzionarie dei nostri artisti. Ma la rivoluzione culturale è stata preceduta dalla rivolu­ zione nelle strutture economico-sociali, è un'ulteriore fase di approfondimento di quella. Da noi, qui e og­ gi, non si può non accogliere ancora la tolleranza, se non la fiducia, che Lu Hsiin aveva nei confronti de D’arte. La poesia è ancora necessaria, nell'accosta­ mento a ima dimensione d’umanità che ci sfugge e che il sistema deturpa e ci aliena. Ma quanti sono i poeti? E perché non dovrebbe esser valido anche per loro un insegnamento che prevede nient'altro che un fu ticoso lavoro per la riconquista della dimensione del l'uomo, per il raggiungimento dell’utopia, per la ledale compenetrazione tra arte e vita, tra vita e arte? Anche per loro, dunque, dovrebbe essere più che mai valida la ricerca positiva di un'affermazio­ ne della vita, oltre e dopo il momento dell’indispen­ sabile distruzione. E in generale, la. elaborazione di una “politica culturale” in cui l’assurda dicotomia tra politica e cultura venga infine a cadere. 17

Uno dei paralleli che possiamo fare, forzando, tra la nostra situazione e situazioni cosi diverse come quelle della Cina della rivoluzione culturale (o l’Ame­ rica della nuova sinistra, al limite anche certi aspetti delle lotte del maggio francese), è nell’importanza che in esse in vario modo si riconosce alle sovra­ strutture e agli elementi di una ricerca viva di una cultura come forma immediata di vita. Questo pa­ ragone può servire a chiarire alcuni momenti essen­ ziali di un processo che ci riguarda. In Cina, si è trattato di sconfìggere le scelte economicistiche, il riprodursi di una verticizzazione del potere, e di af­ fermare il peso della partecipazione delle masse ad ogni scelta, la volontà di abolire le distinzioni col­ pendo alla base ogni situazione di privilegio, rifiu­ tando il sistema della divisione del lavoro. Uno dei principali insegnamenti della nuova sinistra ameri­ cana consiste nel rifiuto di rifarsi a una visione dog­ matica del processo rivoluzionario, e nella ricerca di forme immediate di liberazione culturale e di nasci­ ta di una nuova cultura, di nuovi modi di vivere fuori dagli schemi della società borghese e dai suoi pregiudizi interessati, di sviluppare parallelamente l’intervento di lotta contro le strutture del potere e l'affermazione di un modo non borghese di vivere. In entrambi i casi, non si intende rimandare a un mitico domani la trasformazione dell'uomo, essen­ ziale ormai per il successo di ogni rivoluzione e, qualora mancante, facilmente predisponente a dege­ nerazioni di tipo sovietico. Non si tratta di chiedere un impossibile e assurdo "paradise now,” ma sempli­ cemente di cercar di trasferire subito nella nostra pratica e nel nostro rapporto con la politica esigenze che non siano più soltanto quelle "partitiche,” ma che dimostrino la nostra capacità di proporre un modo socialista di intendere i rapporti tra gli uomini. L’interesse che portiamo a questi problemi con­ cerne immediatamente anche il nostro discorso sul cinema. Oggi come mai le sovrastrutture, e la scuo­ la, la stampa, il cinema, la televisione, hanno un 18

peso determinante nella manipolazione del consenso fondamentale al perpetuamento del sistema di op* pressione. La cultura che la borghesia impone ai proletari è funzionale al suo potere. Anche a livello di comportamenti quotidiani e valori di riferimento, l'operaio è alienato e spogliato delle sue possibilità, condizionato a restare schiavo. Proprio per questo quello della cultura è un terreno che deve venire investito sino in fondo e parallelamente al terreno della lotta a livello economico e sociale. Ciò signifi­ ca che occorre intervenire direttamente in questi c ampi, distruggere la cultura del nemico, operare i giusti tagli ed innesti, aiutare l'acquisizione di co­ noscenze e di modelli di comportamento e capacità di pensiero autonomi, lottare contro il vecchio per l'affermazione del nuovo, elaborare una cultura ri­ voluzionaria, favorire lo sviluppo di una continua rivoluzione culturale. Vuol dire anche pensare a fon­ do sull'uso possibile o alternativo di certi canali, sul rapporto da stabilire con chi vi opera, sui modi del­ la distruzione e della proposta. Vuol dire vedere an­ che il cinema come un terreno, secondario certo ma non per questo trascurabile, per la nostra lotta.

Ritorniamo agli intellettuali e alle distinzioni ini­ ziali. Affermate esplicitamente o solo latenti, le de­ finizioni che più regolarmente capita di sentire oggi su “chi sono gli intellettuali" sono in definitiva le seguenti: a) quella, più antica, di "artisti" e "filosofi," "uo­ mini di cultura" e "scrittori,” ecc.; b) tutti o quasi i detentori di scienza e cultura (I cenici, insegnanti, medici, funzionari, artisti, diri­ genti politici, militanti...); c) quella, più ristretta della precedente, di "crea­ tori-trasmettitori-manipolatori di cultura" e cioè di conoscenze, di coloro che per professione s'occupano di cultura, che insomma la borghesia (il sistema) delega alla trasmissione dei suoi valori e della sua 19

visione della storia, alla trasmissione della sua "co­ noscenza di parte." Interessarsi seriamente e politicamente di cultu­ ra, non può che voler dire, per noi, seguire attiva­ mente la realtà e i destini di quest'ultimo settore, ac­ cettando operativamente l'ultima definizione, che comprende ovviamente una gran parte dei cineasti. Di questa fetta di "intellettuali" ci si deve occupa­ re da due punti di vista diversi e pur collegati: quel­ lo della loro collocazione professionale, sociale, di classe, e delle contraddizioni ad essa inerenti; quel­ lo della loro funzione sociale: per conto di chi ope­ rano, che cultura trasmettono, come la trasmettono. Le differenze di status all’interno di questo settore sono certo enormi: si va dalla maestra d’asilo al regista miliardario. Ma questa categoria esiste, in quanto unificata nella funzione e nei compiti che ad essi il sistema attribuisce e che, s’è detto, sono quelli dell’elaborazione e trasmissione di una cultu­ ra borghese a fini di perpetuazione del sistema e del dominio borghese. Ci rifiutiamo quindi decisamente di distinguere crocianamente e borghesemente tra le responsabilità della maestra d’asilo e quelle del grande regista, di accettare che il secondo goda di privilegi di casta che lo equiparano ai grandi diret­ tori d’azienda — lasciandogli un margine d’incertez­ za di mercato maggiore, ma anche una serie anch'essa maggiore di privilegi tradizionalmente consentiti dal­ la borghesia ai suoi giullari. Ci rifiutiamo di consi­ derare il grande regista o il grande scrittore, dal punto di vista della loro funzione e della responsa­ bilità da assumersi di fronte ad essa, diversamente dalla maestra d’asilo. La distinzione è semmai in un onere di responsabilità più grandi per il regista. La distinzione tra "creazione" (termine a cui preferiamo quello di "elaborazione”) e "trasmissione" di cultura esiste, ma in direzione comunista e rivoluzionaria essa deve essere rifiutata, prospetticamente, in vista di una dissoluzione generale di questo rapporto, in vista del momento in cui tutti saremo creatori e tra­ 20

smettiteli allo stesso modo. Compito storico del "creatore" rivoluzionario è quello di collaborare alla propria distruzione attraverso la trasmissione delle proprie conoscenze, capacità d'analisi, invenzioni, al­ le classi sfruttate. L’“ intellettuale" nel senso di "uomo di cultura," di "creatore-elaboratore" di conoscenze, di scienza, c di arte, deve quindi rinunciare ai privilegi del suo molo, rivendicando, oggi, in questa fase di sviluppo delle forze rivoluzionarie e delle contraddizioni in­ terne alla società capitalista, provvisoriamente ma pienamente, fino in fondo, la sua funzione di per sé aliena da ogni privilegio. Di essa c'è ancora bisogno, tanto più quanto più gravi, possenti, do­ minanti, condizionanti, e diventati squisitamente politici e al limite strutturali, sono gli usi politici a fini di dominio che la borghesia sa trarre dal suo monopolio della cultura. "Nella coscienza di recare in sé una contraddizione che non può essere risolta con gli strumenti del pensiero; che si risolve e si tra­ sforma solo nel moto storico, ossia con la sua scon­ fitta personale, ma anche con la vittoria di quello che in lui non era solo personale, l'intellettuale del quic-ora deve riconoscere, verificare, adempiere, correg­ gere le proprie procedure e tecniche conoscitive nel solo modo che sia stato trovato praticabile: ossia confrontandole e misurandole con quelle del proprio prossimo; che è come dire non solo con quelle dei propri pari ma — proprio per adempiere alla pro­ pria funzione generalizzante — con quelle di chi è sialo minorato e leso non solo dalla divisione del lavoro (da quella stessa divisione del lavoro che lo ha costituito come intellettuale) ma dallo sfrutta­ mento della sua intera esistenza." (Fortini) Ne consegue, necessariamente, un uso della cul­ tura la cui validità sta nel rapporto che l'intellettuale riesce a stabilire con la realtà politica del suo tempo e con le forze che in essa si muovono, non più nelle I orine supine, corrotte, di mercato delle vacche, che la tradizione politica togliattiana ha consegnato, ma 21

in una partecipazione alla realtà degli sfruttati che non può che avvenire coi mezzi di una pratica sociale corretta — a partire dalla realtà professionale che si sceglie e dal dialogo che si riesce a stabilire con "il popolo," con ciò stesso trasformandosi in agenti politici che non sono al servizio di nessun partito ma al diretto "servizio del popolo," e di se stessi in quanto parte di popolo. Che possono avere, quindi, voce in capitolo nel dibattito politico-ideologico alla pari di qualsiasi altro militante rivoluzionario, nel settore in cui si trova ad agire. Ne consegue, non ulti­ ma, una piccola verità che riguarda gli "artisti": scri­ vere, creare, dipingere, dirigere un film, escludersi dal rapporto con la realtà sociale delle lotte e della rivo­ luzione, è possibile solo parzialmente, non facendo della creazione una professione, colla caduta nel ruo­ lo e nei privilegi del ruolo che questa comporta. Ne consegue che non è più possibile accettare o soltanto pensare la professione di "artista." Diceva Marx che bisogna mangiare per scrivere e non scrivere per mangiare; oggi è importante anche il modo in cui abitualmente si mangia, e cosa e come si man­ gia. Gli "artisti" di professione — i pochi cui questo privilegio è permesso, quattro o cinque nelle lettere, e per il resto quasi tutti nel cinema, nel teatro, nella pittura — si servono dei margini dorati che il siste­ ma permette loro per mangiare (o gavazzare) e ac­ cettano, lamentosi apocalittici o tecnocratici che sia­ no, la prostituzione obbligata delle proprie capacità, il servizio diretto alle forze della conservazione. In una visione prospettica, il rapporto politicacultura può (e deve) essere ribaltato in quello prassiteoria, e la sua soluzione divenire la stessa: quella della compenetrazione effettiva dei due termini in­ dicata da Mao Tse-tung e dalla rivoluzione culturale cinese. Anche all'interno della situazione italiana oggi, la schizofrenia cui si assiste tra "militanza" da una parte e "lavoro teorico" o "intellettuale" dall’altra è da discutere e spesso da confutare. Di pari passo a quella tra "militanza professionalizzata" o "volontà­

ria” astratta da una qualsiasi collocazione professio­ nale reale (tipica per gli studenti, e per la loro provvi­ soria situazione di privilegio) che si chiude in una specializzazione che tiene tra l'altro in poco conto i problemi della trasformazione dei valori e delle cono­ scenze e dei modi di pensare e dei comportamenti, della vita quotidiana e dei modi in cui in essa agisco­ no le forze culturali della reazione e della manipola­ zione borghesi. Non si tratta affatto di teorizzare i ruoli professionali e la lunga marcia attraverso le isti­ tuzioni, bensì di indicare la necessità di una maggiore compenetrazione, anche all'interno della “politica,” tra dati strutturali e sovrastrutturali, tra intervento nella realtà e conoscenza e riflessione sulla realtà, tra modi di vivere condizionati e possibili modi di vivere alternativi, vedendo nella odierna dissociazione un nemico, uno strumento del nemico per perpetuare anche in questo modo la sua logica della divisione e dell'oppressione. Rifiutando altresì le situazioni di (relativo) privilegio della militanza come settore astratto e specifico dell'intervento, alla lunga passibile di riprodurre modelli che sono da superare e da rifiu­ tare, per il militante come per 1’*intellettuale,” di dis­ sociazione istituzionalizzata e di schematizzazione del­ la realtà in formule inadeguate alla sua complessità attuale. Nella militanza di quel tipo si cade soprattutto a seguito di una visione astratta e genericamente dico­ tomica delle teorie marxiste, in cui il ruolo del par­ tito è sempre identico a quello del modello bolsce­ vico, e la lotta di classe è considerata nella contrap­ posizione riduttiva di “classe operaia” e “padroni.” Oggi la complessità dei rapporti esistente in una so­ cietà vetero-capitalista non può essere ricondotta troppo schematicamente alla dicotomia proletariatoborghesia senza mediazioni e senza distinguo. Le li­ nee di separazione tra sfruttati e sfruttatori si sono fatte più ambigue e complesse, lo sviluppo neocapi­ talistico ha imposto forme di proletarizzazione sem­ pre maggiori ad ampie fette di classi medie, ha fat23

to dell’istruzione un criterio e una necessità econo­ mica e politico-culturale che coinvolgono direttamen­ te il proletariato, ha fatto si che sovente all'interno di uno stesso individuo, della sua collocazione so­ ciale come del suo modo di pensare e di essere, si trovino contraddizioni importanti riguardo ad una sua precisa collocazione di classe: che egli si trovi ad essere sfruttato, ma anche sfruttatore di altri a causa dei privilegi relativi di cui gode. Questa com­ plessità esige una verifica attenta e un’analisi delle classi molto precisa, come del loro posto e della loro funzione nella società italiana (nonché del rapporto tra paesi sviluppati e sottosviluppati su scala mon­ diale) che è ancora in gran parte da fare, per far risaltare le possibili potenzialità rivoluzionarie di es­ se, o quantomeno la forza delle loro contraddizioni rispetto al sistema. E questo è stato ed è valido al­ trove, quando si dibatte sul soggetto rivoluzionario privilegiando questo o quel settore (come accade ad esempio negli Stati Uniti, tra i gruppi che puntano sui negri dei ghetti o su quelli delle fabbriche, su­ gli operai bianchi o sulle avanguardie studentesche; e cosi via) sulla base di convinzioni predeterminate piuttosto che su analisi concrete che vedano più chia­ ramente il posto di ciascuna. E si pensi anche alla Cina del ’27, e alla rettifica operata da Mao rispetto alla linea del Komintern, con l’inchiesta sui contadini dello Hunan. La cultura che oggi ci interessa è quella che ci permette di conoscere le contraddizioni della realtà — politica, sociale, "culturale” del nostro tempo e della nostra società — per potervi intervenire nel modo più giusto, intelligente ed efficace, rispetto ai fini che ci guidano, e che sono quelli dell’instaura­ zione di una società in cui la divisione del lavoro infine scompaia e l’uomo sia liberato. La cultura per cui lottare è la capacità di analisi delle contraddi­ zioni, a cominciare dalle nostre. L’unico modo per sfuggire ai pericoli della falsa coscienza è quello di partire da quest’analisi e, riferendoci ai principi ge24

nerali del marxismo-leninismo e della rivoluzione pro­ letaria, verificare la validità della strategia che può derivarne. Ed è chiaro'che quest’analisi, questa co­ noscenza, ha senso ed effetto solo nella misura in cui nasce dal costante rapporto con una pratica so­ ciale fondata sul collegamento tra le lotte specifiche, quelle del proprio settore di intervento, e le lotte dei proletari innanzitutto, quelle di altri settori di sfruttati in secondo luogo. Se infatti è idealistico ed errato fuggire dalla propria realtà per cercare di fare la rivoluzione in un ambito tutto esterno ad essa e con l’unica guida di una spinta attivistica o di un credo dogmatico, pure è indispensabile che, rispetto alla propria situazione e alle lotte che in essa possono e devono sorgere, esista un elemento di definizione generale della validità o meno di quel­ le lotte che non può esser dato che dal riferimento ai principi del marxismo, all’ideologia proletaria e alle lotte del proletariato che vive le contraddizioni economiche e politiche fondamentali ed è il solo in grado di poterle definitivamente risolvere. Anche qua­ lora la classe operaia come normalmente intesa non dovesse più essere l’èlemento principe di azioni di portata rivoluzionaria (come avviene oggi in altri paesi di tardo-capitalismo) e queste fossero invece possibili presso altri settori sociali: non è certo un caso se Mao, che ha fatto la rivoluzione coi con­ tadini, pure indica in ogni testo gli operai come la classe-guida della rivoluzione. Ma è anche indispen­ sabile che da ogni lotta si tenda al collegamento con le avanguardie espresse dalle lotte in altre situazio­ ni, in un processo di unificazione delle esperienze e delle spinte rivoluzionarie dal quale soltanto può e deve nascere la nuova organizzazione rivoluzionaria. E per questo che ci sembra dover oggi privile­ giare, rispetto ai vecchi schemi dogmatici e tradi­ zionali, il momento di una dialettica viva tra sponta­ neità e organizzazione, tra logica di movimento e lo­ gica di partito, pena la dispersione o il recupero da un lato, e la fossilizzazione e inefficacia a livelli più 25

ampi dall’altro. All’interno di questa dialettica, i cui difficili modi solo pochi gruppi & poche forze oggi intendono o tentano d'applicare, e sono quelli nei quali noi più crediamo, c’è posto, è indispensabile che ci sia posto, per un’azione culturale che può in­ tervenire anche attraverso l'uso del cinema, per l'ela­ borazione concreta e politica di nuovi valori e nuovi modelli, di una nuova cultura, di una cultura per la rivoluzione culturale che affianchi, fino a diventare con essa una sola cosa, la lotta politica.

Che posto ha il cinema in tutto questo? Il nostro interesse per questo mezzo non è certo quello affettivo-escapista che muove molti, né quello specialistico o professionale o meramente "artistico” che altri rivendicano. Non viviamo di cinema e nean­ che nel “mondo del cinema," che è peraltro uno dei meno affascinanti che sia dato oggi di frequentare e conoscere. Non ci preme particolarmente di fare del cinema, e tanto meno di usufruire dei suoi van­ taggi. Ci interessa il ruolo che esso svolge all’inter­ no di un sistema come il nostro, il suo peso di por­ tatore di ideologie, il modo in cui riflette e distor­ ce la nostra realtà, ma soprattutto ci interessa quello di cui può o potrebbe essere portatore. In esso, abbiamo detto, s'intersecano coordina­ te diverse e diversamente importanti: il film è un prodotto industriale di consumo, sottoposto alle leggi dell’economia di mercato; è una tecnica avan­ zata; è un mezzo di elaborazione artistica in mano a forti individualità; è il luogo d’incontro di influenze molteplici che si concretizzano in prodotti destinati ad un pubblico ora indefinito e ora settorialmente definito; è il rifugio di evasioni piccole e grandi... Il cinema è un’industria, con sue leggi particolari, della quale vivono migliaia di persone (a Roma, dopo l’edilizia e assieme alla Rai-TV, è il settore industria­ le dominante). Ma soprattutto è un mezzo a disposi­ zione, diretta o indiretta, del potere per condizionare l’ideologia delle masse e che, come rari altri mezzi, 26

può servire anche a fini alternativi, farsi — con l’evo­ luzione e la semplificazione dei suoi procedimenti di lavorazione — portatore di messaggi diversi, da quel­ lo direttamente politico a quello squisitamente in­ dividuale e "creativo.” Oggi è indubbiamente, tra le forme di espres­ sione artistica e i mezzi di comunicazione di massa presenti, ancora la più attuale e viva, nel nostro contesto sociale. Condizionata da un interesse più immediato e diretto del potere la TV, più massiccia, unitaria, borghesemente determinata; mercificata per pòchi e tutti borghesi la pittura, nonostante le va­ ghe fughe frustrate in direzione contraria; forse sol­ tanto la musica — intendiamo Woodstock e non No­ no o Al Bano — ha in certe situazioni (ancora poco, da noi) una rispondenza al cambiamento culturale altrettanto evidente del cinema. È il cinema, oggi in Italia, e più in generale in molte società, diversamente sviluppate, a godere ancora dello spazio che gli offre una capacità di rispondenza alle esigenze di rapporto con un "pubblico" che in esso trasfonde molte delle sue istanze d’evasione e di comunicazio­ ne. Non sempre ha avuto questo spazio, quando i condizionamenti sono stati o sono troppo forti e troppo forte la volontà del sistema di usarne a suo uso diretto a causa della sua importanza specifica; e quando, in altre situazioni ancora, la sua acquie­ scenza alle leggi del mercato ha spinto il capitale a intervenirvi massicciamente controllandone secon­ do procedimenti industriali rigidi il momento della produzione come quello della distribuzione. E non sempre lo avrà. Domani, da noi, con lo sviluppo del­ le video-cassette, il cinema perderà parte della sua funzione attuale (e sarà certo un bene) nella misura in cui la privatizzazione e la semplificazione della realizzazione e distribuzione del film favoriranno un uso del cinema meno discriminato economicamente di quello attuale — anche se è prevedibile che la bor­ ghesia tenterà di bloccare con qualche nuova legge a suo uso e consumo queste possibilità di produ­ 27

zione e diffusione. Oggi, in America, la musica già assolve per un pubblico più giovane una funzione più ricca e creativa, meno mediata, di espressione e comunicazione. E ancora oggi, in Cina, il cinema è limitato quasi esclusivamente alla produzione di ma­ teriali documentari, per informare su vasti raggi di avvenimenti e fatti attuali. La funzione di educazio­ ne è assolta assai meglio, su scala immensa, dal tea­ tro, diventato attraverso le migliaia di gruppi mobili e l’iniziativa spontanea, un mezzo di espressione e di creatività delle masse che vi uniscono il momento del gioco, della riflessione sulla propria esperienza, dell'informazione reciproca, della formazione comu­ ne rispetto ad ideali comunisti. E forse, chissà, an­ che da noi, qualora il teatro perdesse non solo le sue caratteristiche borghesi, ma anche quelle di un’avan­ guardia sterilmente adagiata nella mimesi della pro­ pria morte o in liberazioni astratte estranee a ogni possibilità di comunicazione e di raccolta delle istan­ ze delle masse, il teatro potrebbe tornare ad assol­ vere una funzione in questo senso, di fronte all’autoritarismo, alla impenetrabilità del film all’influenza diretta, partecipata e creativa del suo pubblico. [Il libro, certo, ha il vantaggio di un rapporto maggiormente profondo e duraturo, di un’influenza formativa più attenta. Ma quale libro? La poesia è sempre più posto del lamento individuale, anche se altissimo. Il romanzo, oggetto di consumo inflazio­ nato e se "serio” spesso addirittura impreferi­ bile al romanzo di dichiarata evasione. Lo sa il let­ tore o recensore che voglia, oggi, leggere o consi­ gliare o parlare di qualcosa di valido: e non si esce dall’arco limitatissimo dei grandi negatori, dei grandi interpreti del disfacimento dell’individuo borghese di cui ben pochi ancora vivi (Beckett, naturalmente, forse uno o due altri, ma poi?), o dei latino-ameri­ cani più saldamente radicati in situazioni che anco­ ra riconoscono al romanzo una funzione storica di tipo borghese, morta in Europa con il momento del­ le avanguardie storiche. Infine, un po' di avanguar­ 28

die storiche appunto, ma alla cui rivolta e alla cui ricerca di un rapporto di realtà e di annullamento della letteratura nella realtà e di rivendicazione del momento totale e vitale delle esperienze intellettuali, la nuova avanguardia non sa che contrapporre giochi e pasticci. Stranamente, sono l’URSS e i paesi "co­ munisti" dell'Europa orientale ad aver visto o ve­ dere un ambiguo riscatto della letteratura, una sua nuova funzionalità, di tipo nettamente ottocentesco nei casi migliori, quando l'oppressione sociale è tale che gli spiragli di insoddisfazione rinascono prima di tutto in un gruppo di intellettuali, spesso anti­ marxisti o sciocchi occidentalisti. Resiste, in giro per il mondo, qualche pazzo ri­ belle che per un attimo sembra incarnare le istanze e i problemi di ima generazione di insoddisfatti, ma il cui peso decade quando quella generazione decide di passare ai fatti, e coerentemente all’insegnamento dei ribelli si ribella anch’essa, scoprendo per ciò stesso le vie dell'azione e lasciandosi indietro quei provvisori ed incerti, casuali maestri, anche quando autentici poeti. E in Italia ci si muove in una melma ancora più squallida, in cui la letteratura è di venti o trent'anni in ritardo rispetto alla realtà e ai suoi sviluppi — anche quando si vorrebbe avanguardia, a meno che in questo caso, come è sovente acca* duto, non si ponga direttamente a servizio di chi comanda. C'è stato forse uno scrittore che abbia espresso, in modo suo e con sue forme, la nostra complicata transizione? Restano i saggi, i soli libri ai quali oggi si chiede, c spesso si trova, un'acquisizione attiva di conoscen­ za, un'indicazione attiva di cambiamento, di model­ lo, di stimolo all'intervento e alla trasformazione. Ma anche qui l'inflazione: la spregiudicatezza edito­ riale si butta su tutto e tutto accomuna, tempestan­ do di richiami disutili il lettore giovane e potenzial­ mente o già attivamente ribelle, allo scopo confes­ sato di far soldi e inconfessato di confondere e ot­ tundere la rivolta.] 29

Il cinema, con la sua immediatezza — suo pregio e suo massimo limite — pure è presente ed esiste non per fette isolate di spettatori, per i borghesi o gli studenti soltanto, ma per tutti, in modi e con forme diverse, spesso le stesse per pubblici diversi. La sua capacità di presenza è ben superiore a quella del li­ bro e la sua rispondenza può essere, proprio perché un film lo si può scegliere, ben superiore alla pappetta televisiva, anche quando essa sia fatta di cro­ naca viva (ma i programmi di maggiore ascolto sono quelli che il potere si tiene più cari: paradossalmen­ te, il suo punto di forza maggiore sono, oltre al Te­ legiornale, Canzonissima e la TV dei ragazzi, ottenuti i quali può pure concedersi fette fumose di informa­ zione o creazione la cui oggettività o profondità è mistificata dalla compresenza generalizzante degli al­ tri programmi; e ovviamente le opposizioni s’accon­ tentano proprio delle briciole, secondo un preciso pia­ no del potere politico). Si parli con gli insegnanti, e si constaterà quale peso ha il cinema sulla formazio­ ne dei ragazzi e quali stimoli, negativi e positivi, essi ne ricavano. Si discuta di cinema con degli operai e si constaterà l'interesse per quei rari prodotti che possono vedere, nei quali possono ritrovare tracce e brandelli di quelle conoscenze che gli vengono negate altrove. Proprio perché il cinema è maggiormente sot­ toposto a leggi di mercato, esso riesce ad avere anco­ ra una presenza e una consistenza di cui ben pochi sanno coscientemente approfittare. Non si vuole con questo esaltare lo stato presente del cinema, è ovvio; ma indicare come esso possa mantenere quegli elementi di varietà e popolarità che sono sfug­ giti alle altre arti, e che sfuggono agli altri mez­ zi di comunicazione di massa più direttamente legati a un messaggio determinato e condizionante, meno libero perché in esso l’apporto della fantasia ricostruttrice e la riconoscibilità delle esperienze vengono legati a un unico fine. Oggi, il cinema è o può essere un punto d’azione privilegiato attraverso il quale affrontare un notevole lavoro di ricostruzio­ 30

ne, interpretazione, spiegazione della realtà, a uso di un pubblico che sarà sempre più necessario analiz­ zare nelle sue componenti di classe, per offrire ad esso nei modi più adeguati la possibilità di trovare la dimensione della interpretazione della propria esperienza nel confronto con le forze che la condi­ zionano e bloccano. Ma soprattutto, esso può intervenire nelle frange particolari del sistema, come quelle rappre­ sentate dall'ambigua soluzione dei cinema d'essai, rifiutando la vacua sperimentazione e l’individuali­ smo delirante o piagnone c le sperimentazioni gra­ tuite per proporre opere di più difficile comunicazio­ ne, ma anch’esse determinate a un progetto comu­ ne. Cambia il pubblico, cambiano i modi, il lin­ guaggio, in cui l’autore o gli autori si esprimono, ma di questo pubblico borghese si possono predili­ gere le parti giovani e attente, quelle cui è possibile proporre riflessioni anche individuali, ma pur tuttavia condizionandole a un fine conoscitivo e politico più alto — come oggi solo raramente avviene, e presso­ ché mai nel cinema italiano. Contemporaneamente, resta l’immenso e poco esplorato campo del cinema militante, di cui solo da poco organizzazioni e gruppi cominciano a servirsi, e la cui possibilità di crescita è immensa — tanto nella forma del "repertorio politico” (analisi didatti­ che economiche, storiche, perfino filosofiche; analisi di lotte e di situazioni particolari, ecc.) che dell'informazione sulle lotte in corso — il cui sviluppo può diventare notevolissimo e rivoluzionare i modi di comunicazione tra avanguardie e situazioni di lotta, oggi condizionati dai vari blocchi che vi si frappon­ gono, a partire dall’informazione borghese e revisio­ nista fino a giungere alle difficoltà oggettive delle di­ stanze e dei mezzi sinora usati. Il cinema è oggi, e sarà ancora per molto, un nostro ambiguo contemporaneo. Esso può anche es­ sere uno strumento di prim’ordine di chiarificazio­ ne e formazione politica. Ma, anche, può favorire con 31

modi che gli possono esser propri la maturazione di una coscienza e di una cultura nuòva, rivoluzionaria. Se abbiamo insistito sugli elementi positivi che crediamo di poter ancora ravvisare nelle possibilità del cinema, non ci sfuggono però gli infiniti elementi negativi che lo caratterizzano, come ogni altro mezzo di comunicazione di massa d'uso capitalistico nella nostra società, e in generale in tutte o quasi quelle che hanno un’industria cinematografica avanzata. Su questo avremo modo d'insistere nel corso di questo pamphlet, attraverso l’analisi delle contraddizioni particolari al “mondo del cinema" e attraverso Tesa­ rne delle opere e dei prodotti particolari. È evidente, infatti, che ogni proposta positiva non può che na­ scere da una azione di distruzione e di sgombero del campo da tutti i falsi problemi che vi allignano, in questo settore particolarmente diffusi, con le forme delle mistificazioni più caotiche o più sottili. In questo senso, un pur rapido sguardo a cosa il cinema italiano è ed è stato in tempi recenti, ci sembra par­ ticolarmente utile anche per vedervi e analizzarvi certi modi d’interpretazione della realtà italiana, cer­ ti modi di farsene influenzare o di tentare d’influenzarla, di cui il cinema italiano è stato particolarmente ricco, con la sua abilità a cogliere di questa realtà in trasformazione gli elementi da trasferire in prodotti di successo, da convertire in gusto, e da sfruttare fintanto che altri elementi, altri sintomi di trasfor­ mazione diventavano evidenti agli avvertiti sceneg­ giatori e registi, ai commercianti attenti, agli anda­ menti del botteghino. In questa direzione, ben poco la critica italiana ha fatto, interessata solo agli af­ flati e alle ispirazioni dei "poeti del cinema” e inca­ pace di considerare con l’attenzione che avrebbero meritato fenomeni di trasformazione che pure inci­ devano in profondità sulla scelta dei soggetti e dei modi narrativi, sulla nascita e la morte dei "generi,” e sull’opera stessa degli autori maggiori. È chiaro peraltro che l’interesse da noi portato 32

al cinema non va da sé, e non si esaurisce in questo settore. Il cinema ci interessa per la straordinaria commistione di influenze che vi convergono, e dun­ que anche di dati culturali; esso ci interessa soprat­ tutto nei confronti di quegli altri momenti che lo condizionano e insieme arricchiscono; come uno de­ gli aspetti della formazione e della trasmissione del­ la cultura, e come uno dei possibili aspetti della for­ mazione e trasmissione di una controcultura, di una cultura alternativa. Non è essenziale contribuire a cambiare il cinema, tutt’altro. Lo è contribuire a cam­ biare la storia e la vita, oggi più che mai, nella prei­ storia in cui viviamo. Per questo ci interessa consi­ derare nel cinema la sua realtà di veicolo dell’ideo­ logia e della cultura borghese e le sue possibilità di divenire, sia pure parzialmente, un momento dell’ela­ borazione e della trasmissione di una nuova e diver­ sa cultura, collegata alle istanze di liberazione che la miglior parte dell’umanità oggi persegue e alle quali chiaramente o confusamente aspira.

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PARTE PRIMA

Il cinema è un'industria

1. La produzione Il cinema è un’industria. Produce merci, e poi­ ché i suoi prodotti hanno una funzione ideologica, trasmettono conoscenze e valori, è indispensabile sapere come queste merci vengono prodotte e at­ traverso quali condizionamenti esse nascono prima che lo spettatore le consumi. In questo senso, ogni considerazione sul film che non rimandi a una co­ noscenza economico-sociologica e che si limiti al­ l’ambito del "risultato artistico,” quale i critici e i degustatori sono portati a fare in astratto, è da con­ siderarsi estremamente parziale, e in un’ultima ana­ lisi falsa, complice, retrograda. Inoltre il cinema, e quello italiano in particolare, è un'industria sui generis, con un'organizzazione del lavoro varia ed irregolare, tra le più sottoposte all’improvvisazione e alle mode, un'industria in cui la differenziazione e divisione dei momenti della preparazione, della rea­ lizzazione, della distribuzione, del consumo, è estre­ mamente marcata e addirittura macroscopica, scis­ sa in momenti spesso contraddittori. Inoltre, l'indu­ stria cinematografica italiana è legata a doppio fi­ lo allo stato, e vive grazie agli aiuti e alla protezio­ ne di esso, in una tipica catena del sottogoverno, prima democristiano e poi di centro-sinistra. Infi­ ne, poiché il cinema italiano lo si fa a Roma, e i suoi dipendenti (una parte notevole dei quali agi­ sce nel settore saltuariamente, con un grande ri­ 37

cambio interno) si affiancano a quelli della Rai-TV a formare un piccolo esercito di "tecnici" dello spettacolo e delle comunicazioni di massa (il cine­ ma e la TV rappresentano cosi la seconda industria romana dopo l'edilizia, e una delle quattro fonti maggiori di reddito per la popolazione nel suo in­ sieme, assieme ai ministeri, al turismo e all'edili­ zia) è anche necessario considerare questo partico­ lare ambiente e la sua natura, con tutti i fenomeni ad essa connessi. Mancano studi sociologici accura­ ti sul cinema italiano, né quello di sostituirli è lo scopo del nostro pamphlet. Tenteremo comunque di offrire al lettore una rapida descrizione di que­ sta situazione, cercando di rintracciarvi quello che a noi pare essenziale e che più incide in definitiva sulle stesse opere, per capire, infine, chi sono all’intemo di questa strana industria gli sfruttati e gli sfruttatori, quali condizionamenti di classe emer­ gono dalla sua struttura, e quale è il ruolo dei re­ gisti in tutto questo. La nascita di un film italiano è tortuosa e avven­ turosa, ma pur seguendo una tipologia irregolare, è riconducibile a un itinerario prestabilito. Le so­ cietà di produzione non possiedono quasi mai i mez­ zi di produzione del film, con l’eccezione di alcune grosse società come la De Laurentiis, la Vides, e poche altre. Le rimanenti si servono dei mezzi di altre aziende, che detengono la proprietà degli sta­ bilimenti di produzione (frammentati anch’essi, e di cui i maggiori sono Cinecittà, proprietà dello stato, e Dinocittà, proprietà di De Laurentiis, che però non offre la possibilità del ciclo completo di lavorazione), delle macchine e degli impianti, e cosi via. In ognuno dei due-trecento film che si producono annualmente in Italia entra in gioco quindi un picco­ lo e provvisorio insieme di imprese piccole o medie, specializzate in questa o quella fase della lavorazione, dalle apparecchiature al doppiaggio. Il perno ap­ parente di questo sistema è la società di produzio­ 38

ne, ma è proprio in questo campo che la confusio­ ne si fa più grande: sono infatti rarissime le socie­ tà che resistono sul mercato da più anni (come la citata De Laurentiis, la Vides di Cristaldi, la Rizzo­ li, la Panda, la Pea, la Documento e poche altre), mentre abbondano quelle che ogni anno nascono e muoiono attorno alla realizzazione di pochissimi film o addirittura di uno soltanto. Su quasi un cen­ tinaio di società di produzione attive nello stesso anno, solo il dieci per cento circa ha una produzio­ ne più o meno stabile, mentre le altre sfornano uno o due film al massimo, per morire subito dopo la loro nascita, in una gran caterva di carte bollate, e naturalmente con le più incredibili trasformazioni o alleanze dei loro ideatori, che fondano una socie­ tà per ogni film o quasi. Sopravvivono per più tem­ po coloro che hanno saputo cogliere il buon mo­ mento e realizzare una o due operazioni azzeccate, e naturalmente i pochi che tra un intrallazzo e Faltro sono riusciti a consolidare un minimo di pote­ re e a penetrare più intensamente nei meandri del sottogoverno. La maggior parte delle società di pro­ duzione finisce cosi per essere quasi sempre al mar­ gine delle leggi, con amministrazioni aleatorie, e un gioco di bustarelle che è invece dei più consistenti. Il produttore cinematografico italiano è, nella stra­ grande maggioranza dei casi, un avventuriero delle combinazioni più assurde. Queste “ditte” mettono in piedi Toperazione-film contattando attori, regista, sceneggiatori, ecc. sulla base di un progetto; ottenuto il loro consenso si presentano a una società di distribuzione, che può dichiararsi interessata o meno. In caso positivo es­ sa si impegna a distribuire il film; e ciò assicura au­ tomaticamente un minimo di incassi, la cui garan­ zia, trasformata rapidamente in cambiali, è presen­ tata dal produttore a una banca, che concede il cre­ dito necessario alla lavorazione del film. La specu­ lazione è fatta in generale prodotto per prodotto, caso per caso: il produttore ha il compito di imba­ 39

stire l’operazione, e può farlo sovente senza avere dalla sua neanche l’ombra di capitale. Le società di produzione maggiori, lasciando da parte le rarissime che sono parte di una società che produce anche e prevalentemente altro (come è ad esempio il caso della Rizzoli), vengono invece pro­ tette nella loro vita di industrie maggiori dallo sta­ to, come vedremo, e dalla cointeressenza del capi­ tale americano, il quale controlla in buona parte o in toto molte società di distribuzione, che sono in definitiva l’elemento più costante e stabile e forse il più importante di quest’industria, o interviene mas­ sicciamente in singole operazioni e neH’insieme di operazioni di società di produzione "italiane” in real­ tà ad esso asservite. I legami di Ponti, di De Laurentiis, di Cristaldi, di tutti i maggiori produttori nostrani con le grandi majors americane non sono da dimostrare, anche se uno studio esauriente sul­ la presenza e i modi in cui il capitale americano controlla il cinema italiano o buona parte di esso, direttamente o indirettamente, manca e sarebbe proficuo d'insegnamenti. In realtà, basta sfogliare il giornaletto dell'AGIS, l’associazione padronale dello spettacolo, e quello dell’ANICA, l’associazio­ ne dei produttori, distributori ed esercenti italiani, per rendersi conto a colpo d’occhio del grado d’in­ feudamento dell’industria cinematografica italiana rispetto all’MPAA, la corporazione delle grandi in­ dustrie cinematografiche americane. I nodi sono comunque riconducibili ai seguenti: controllo at­ traverso le società di distribuzione di buona parte del mercato italiano, grazie anche ai collaudati me­ todi del "noleggio cieco” e del "noleggio in blocco," per i quali l’esercente è costretto a noleggiare non un film alla volta ma una serie, il cui "capogruppo” è di grande richiamo spettacolare e gli altri titoli invece scadenti e secondari, in questo modo tagliando altre possibilità e altri film di altre origini; con la cri­ si del cinema americano (concorrenza della TV e altri fattori), il mercato estero è diventato sempre più 40

importante per l’industria USA, e perciò si sono di­ versificate e intensificate le manovre di controllo degli altri mercati, da un lato restringendo la pro­ duzione a titoli più prestigiosi, molti dei quali rea­ lizzati all’estero (specialmente in paesi dove i costi di produzione sono minori, come è stata l'Italia e poi la Spagna e la Jugoslavia), dall’altra con l’inter­ vento diretto nelle produzioni dei paesi più impor­ tanti, grazie all’acquisto per la distribuzione inter­ nazionale di film di quei paesi (in particolare italia­ ni, francesi e inglesi) spesso e volentieri “neutraliz­ zati" salvo casi eccezionali per impedir loro di far concorrenza diretta ai prodotti americani, e cioè mai o mal distribuiti o relegati in circuiti d’eserci­ zio estremamente secondari. In Italia, esistono cosi film nei quali gli americani investono sia per sfrut­ tarli al momento della distribuzione italiana sia per assicurarsene i diritti negli altri paesi (lasciando al produttore e al distributore italiani il mercato lo­ cale), con il caratteristico “cambio di nazionalità" del film una volta superati i confini del nostro paese. Quest’ultima realtà introduce a un più vasto pro­ blema: quello delle .“coproduzioni" internazionali, che usufruiscono dei contributi e degli aiuti dei va­ ri stati. Le speculazioni acquistano dimensioni paz­ zesche, con il caso di film che in Italia vengono con­ siderati italiani (e nei quali d'italiano c'è magari sol­ tanto un attore di secondo piano e la firma di un produttore) e che godono in tal modo dei contributi erariali concessi dallo stato al cinema, che ammon­ tano al 13% del totale degli incassi realizzati nei primi cinque anni di sfruttamento commerciale del film sul mercato nazionale! In questo modo una so­ cietà che ha investito ben poco in una qualche coproduzione ricava dallo stato cifre ben maggiori di quelle spese, e le speculazioni si fanno immense per quei grossi calibri particolarmente astuti nella ma­ novra delle carte e delle leggi e nei giochi di mi­ nistero. Ed è ovvio che i film che ne risultano sa­ ranno regolarmente asettici, adatti a tutti i mercati 41

e quindi pressoché uniformemente imbecilli. Buo­ na parte di quel famoso 13% finisce molto spesso nelle tasche di produttori stranieri, e il possibile ri­ cavo dallo sfruttamento della vendita dei film che sono in realtà in massima parte italiani sul mercato internazionale finisce nelle tasche dei distributori stranieri (prevalentemente americani) che si pre­ sentano come "produttori" dei film. La truffa è im­ mensa, e chi ci rimette è naturalmente il contribuen­ te italiano. Il 13% dei contributi dello stato finisce, in ogni caso, grazie all’assurdità di una legge padro­ nale e coloniale, nelle tasche dei produttori dei film di maggiore successo (e non di quelli di maggiore qualità, o prodotti da società minori e non afferma­ te o non abili come le grandi) regalando in sostan­ za miliardi ai più ricchi. I grossi speculatori-pro­ duttori puntano in partenza sul rientro dei capitali offerto dallo stato, che è in molti casi la loro mag­ giore fonte di guadagno: un film costato grossissi­ me cifre non arriva talvolta a rientrare nei costi, una volta avvenuta la spartizione dei guadagni tra i realizzatori i distributori gli esercenti, se non gra­ zie alla grossa cifra che lo stato dà indietro... 2. La distribuzione

In questo regno di ladri o, nel migliore dei casi, di avventurieri (tali sono in definitiva anche i pic­ coli produttori che realizzano “opere di qualità”), i ladri più piccoli non sono certo i distributori. In Italia esistono vari tipi di società di distribuzione cinematografica: le filiali delle società americane (Paramount, Fox, MGM e cosi via, legate direttamente alla corrispettiva produzione hollywoodiana, ma che assorbono anche molti prodotti italiani sullo stesso mercato nazionale); le ditte italiane a dimen­ sione nazionale, articolate per zone in genere corri­ spondenti alle province o a gruppi di province; e infine quelle minori che agiscono a livello regionale 42

e smerciano prodotti di minore impegno e richia­ mo, le riedizioni, e cosi via. È stato calcolato che gli interessi globali finiscono per suddividersi grosso modo cosi: il 55% alle società italiane, il 40% a quelle americane (fino a qualche anno fa erano in maggioranza, ma c’è da considerare che nuove ditte importanti, ad esempio come la Euro, della famiglia Cicogna, sono legate strettamente al capitale ameri­ cano) e il 5% alle regionali. Ma poiché i film italiani di maggior costo sono in generale finanziati in parte dagli americani, questi se ne assicurano anche la di­ stribuzione in Italia, lasciando alle ditte italiane gli scarti o quasi, insieme ai film americani minori che le grandi ditte non si curano di distribuire direttamente o i cui produttori non hanno rappresentanze dirette in Italia. Se si aggiunge la frode del "cam­ bio di nazionalità” a questo edificante prospetto, si giunge alla ovvia conclusione che gli americani con­ trollano in definitiva per la maggior parte anche la distribuzione. Dai soli film italiani che distribuisco­ no ricavano il 40% circa del loro fatturato, mentre le ditte italiane ricavano solo il 20% del loro dalla distribuzione di film americani; e i soldi che gli ame­ ricani fanno colla distribuzione di film di "copro­ duzione” all’estero ammontano a circa sette miliar­ di annui; e poiché infine, come si è detto a propo­ sito della produzione, non si realizza se non c’è un acquirente che garantisce nei confronti delle ban­ che, le decisioni americane sono fondamentali per la gran parte della produzione italiana e condizio­ nano direttamente tutta Tindustria cinematografica, ricavandone cifre astronomiche, di miliardi e miliar­ di ogni anno. Con il beneplacito dei produttori ita­ liani e soprattutto col beneplacito dello stato, che favorisce il perpetuarsi di una situazione che è, tut­ to sommato, di tipo nettamente coloniale, per com­ pletare il quadro della quale andrebbero anche con­ siderati gli introiti che le stesse o altre società ame­ ricane (ad esempio la General Electric) detraggono dall'uso di tecniche e strumenti di brevetto ameri­ 43

cano. Se si considera infine che le grandi ditte ame­ ricane sono associate o controllate dal grande capi­ tai^ industriale (la Paramount, ad esempio, è pro­ prietà della Gulf & Western, ecc.) la natura del con­ trollo economico del capitale americano sull’indu­ stria cinematografica italiana risalterà nella sua com­ pleta e oppressiva realtà, in una fitta rete di legami e interessi tesi allo sfruttamento dello spettatore italiano e contemporaneamente al condizionamento della sua ideologia attraverso prodotti grati alla me­ tropoli e funzionali al suo dominio. La^recente crisi attraversata dal cinema italiano (anni ’69-70) è esemplare proprio perché dimostra la natura coloniale del rapporto stabilito dal capi­ tale americano con quello della colonia italiana. Al momento in cui le speranze dei grossi guadagni su alcuni film italiani sono andate deluse e in cui si sono aperte possibilità di sfruttamento migliore in altri paesi, gli americani hanno scaricato i produt­ tori italiani. Setacciati i possibili guadagni con il boom artificialmente gonfiato, la piazza viene par­ zialmente abbandonata, senza lasciare alle proprie spalle neanche l’ombra di un’organizzazione indu­ striale efficiente e in grado di continuare da sola il lavoro intrapreso. Come accade in altri paesi e per altre industrie, e com’è buona regola dell’imperia­ lismo statunitense. Naturalmente nella crisi conflui­ sce come sempre l’ottusa incapacità degli industriali del cinema italiano; ma anche questo rientra nella regola.

3. L’esercìzio La dicotomia tra centro e periferia è in questo caso l’elemento fondamentale di distinzione. Esisto­ no grandi circuiti (cinema di prima e di seconda vi­ sione) e una sterminata frantumazione di piccole gestioni (cinema di terza visione, di paese, di par­ rocchia, ecc.) la cui situazione e i cui interessi sono nettamente differenziati. I primi, in mano ad alcuni 44

grossi nomi o società, i quali controllano dozzine e dozzine di cinema nelle città più importanti o nella stessa città (tipico, a Roma, il caso Amati, notabile democristiano padrone di un circuito di 36 cinema; ma quasi ogni città ha il suo Amati) godono di un periodo tutto sommato florido, specialmente se raf­ frontato alla situazione straniera (in Italia il cinema ha perso negli ultimi 13 anni circa 250 milioni di presenze agli spettacoli, ma in Inghilterra ne ha per­ si 720, in Germania 575, in Francia 220; da noi re­ stano comunque in totale circa 600 milioni di spet­ tatori all’anno) e alla concorrenza di altre forme di spettacolo. L’italiano va al cinema in media 11 volte l’anno con percentuali ancora tra le più alte del mondo (dieci anni fa erano 14 circa), ma in com­ plesso spende molto di più: nonostante la diminu­ zione degli spettatori, il costo dei biglietti d’ingresso è aumentato di più del 100%. Nella generale dimi­ nuzione delle sale, il numero di quelle di prima vi­ sione è invece cresciuto. Il processo cui si sta assi­ stendo è quello di una concentrazione dell’esercizio in poche avide mani per quanto riguarda le prime visioni e in parte le seconde (quelle legate agli stessi circuiti e agli stessi padroni delle prime), in forme di oligopolio protette tra l’altro dallo stato con i veti sull’apertura di nuove sale, che permettono ai grossi esercenti di impossessarsi di molte sale minori e trasformarle a loro uso. Costoro influiscono anche sulla produzione, in quanto il film di un certo ri­ chiamo viene "tenuto” nelle prime e seconde a lun­ go, fino ad esaurirne quasi completamente le possi­ bilità economiche, mentre quello che non ha suc­ cesso viene rapidamente eliminato e spesso le case di distribuzione non si preoccupano o non hanno modo di diffonderlo altrimenti, dato l'ostracismo dei circuiti principali. Alle sale periferiche e di paese viene lasciato lo scarto della produzione: il film logorato dal succes­ so delle prime e seconde visioni che arriva in terza 45

dopo anni, e il prodotto realizzato appositamente per le terze, dal franchingrassia al sottojamesbond al littletony, dato che le stesse società di distribu­ zione non hanno più interesse a piazzarvi lo stock dei prodotti maggiori. In questo senso, per le terze sta decadendo anche il sistema del noleggio in bloc­ co e si comincia ad assistere all'aumento del nu­ mero delle piccole società regionali. Il pubblico che interessa i produttori, i distributori, gli esercenti, gli americani, è sempre più quello delle prime: quel­ lo della classe media o impiegatizia. L’operaio o anche il piccolo-borghese degli strati inferiori pos­ sono vedere il film di richiamo solo in prima o in seconda, altrimenti non restano loro che film infimi e infrequentabili. Il piccolo esercizio è d’altronde legato a gestioni familiari e semiartigianali i cui proprietari e dipen­ denti sono non di rado legati ad un’altra attività, e riservano la sera e i pomeriggi festivi a questo se­ condo lavoro. La crisi riguarda soprattutto loro, che mantengono in vita iniziative di sopravvivenza e so­ no spesso costretti a -chiudere (più di duemila cine­ matografi sono scomparsi dal '64 a oggi). Eppure nel '68 i locali dal biglietto inferiore alle 300 lire canalizzavano ancora il 68% degli spettatori (e que­ ste sale non rientrano nel novero degli aventi di­ ritto agli abbuoni previsti dallo stato a causa della lo­ ro dimensione commerciale...) mentre i locali dal bi­ glietto superiore alle 500 lire, protetti e aiutati dallo stato, ne canalizzavano solo il 31%. Frammentazione del piccolo esercizio e concentrazione del grosso ri­ spondono a una precisa scelta del sistema in fatto di spettacolo cinematografico; scelta generale, che tende sempre più a isolare in grandi ghetti anche culturali le classi lavoratrici offrendo loro come for­ ma di divertimento e tempo libero la televisione e i prodotti più deteriori dell’evasione; mentre riserva agli abbienti gli spettacoli più lussuosi e, perché no, anche "impegnati." 46

4. ' [/intervento dello stato e i progetti di riforma

È lo stato, attraverso il ministero del turismo e dello spettacolo, quello delle partecipazioni statali, e in secondo luogo altri, che funziona, nel campo del cinema, da paravento, da coordinatore e da difen­ sore di un’industria incapace di darsi una sua auto­ nomia e di crescere secondo le leggi stesse della so­ cietà capitalistica. È lo stato che sceglie e indirizza e controlla, e interviene per la preservazione di una organizzazione assurda e per la sua copertura eco­ nomica, in realtà senza nessuna valida contropar­ tita, e qui non solo al diretto servizio dei padroni (per quel che riguarda la produzione, campo in cui i padroni sono prevalentemente americani, e l’eser­ cizio, in cui sono prevalentemente italiani) ma so­ prattutto a tenere in gioco attraverso mille modi e organismi e commissioni e mafie e banche i molti protetti dei gruppi egemoni di governo, i clienti e amici, in un’intricata catena di santantonio della cor­ ruzione. È grazie alla compiacenza dello stato che il capitale americano si è inserito coi guadagni favo­ losi di cui si è detto; è grazie ad essa che un ceffo come De Laurentiis resta in piedi nonostante mi­ liardi di deficit e continua a prosperare; è grazie ad essa che i produttori dei film (e dei cortometrag­ gi e dei cosiddetti cinegiornali) fanno affari coi pro­ dotti più ignobili; grazie ad essa che i vari Amati hanno costruito i loro piccoli imperi (in particolare dopo lo smantellamento e la svendita del circuito di sale proprietà dello stato, una dozzina di anni fa); è grazie ad essa, infine, che una massa di buro­ crati e di “amici degli amici" s’arricchisce attra­ verso gli enti di stato e il loro uso ed abuso. Infatti “lo stato cinematografaro” interviene an­ che in proprio nel settore del cinema con l’Ente au­ tonomo gestione cinema, istituito nel 1959, destinato al controllo di tre società a partecipazione statale: l’istituto Luce, che dovrebbe produrre film educa­ 47

tivi e documentari; Cinecittà, insieme di stabilimenti cinematografici da affittare per la realizzazione di film; l’Italnoleggio, società di distribuzione che, in quanto tale, ha peso anche nel campo della produ­ zione. Ma prima di tutto esso interviene con la legge sul cinema che porta il nome dell’ex-ministro Co­ rona, socialista, legge del novembre 1965 n. 1213, la quale ha riconosciuto per la prima volta la funzione sociale del cinema come "mezzo di espressione ar­ tistica, di informazione culturale, di comunicazione sociale," ma si è preoccupata soprattutto di mante­ nere i privilegi delle categorie dei produttori, distri­ butori, esercenti. Essa infatti conserva l’obbligato­ rietà di programmazione a film di "sufficienti qua­ lità artistiche o culturali o spettacolari," ai quali concede il contributo del 13% proporzionale agli in­ cassi realizzati, del quale si è detto, e protegge ima industria incerta, disorganica, spesso vacillante di fronte ai primi venticelli di crisi, e in definitiva suc­ cube del capitale americano, e che senza l’aiuto del­ lo stato, le esenzioni fiscali, i premi, gli abbuoni, il 13% e tutto il resto (compreso Centro sperimentale e Venezia) sarebbe costretta a fare da sé e ad accet­ tare fino in fondo le regole della concorrenza. In particolare la legge stabilisce l’abbuono di una gros­ sa quota di diritti erariali agli esercenti che proiet­ tano film ammessi alla programmazione obbligato­ ria e un ulteriore abbuono per quelli che hanno ot­ tenuto il premio di qualità (venti premi annuali, sui quaranta milioni ciascuno, destinati a film di "par­ ticolari qualità artistiche e culturali" e assegnati spesso e volentieri a film mediocri ma di autori e produttori ben protetti e a film di grosso costo e di grosso successo), un fondo speciale di 800 milioni presso la Banca nazionale del lavoro per il finanzia­ mento di film "ispirati a finalità artistiche e cultu­ rali" realizzati con formula associativa cooperativa (il che ha dato origine a varie piccole iniziative so­ stanzialmente fallimentari ad eccezione della "22 48

marzo," produttrice dei film di Frezza, Ponzi, Pa­ viani ecc.), oltre a tutti gli altri contributi e tutti gli altri incentivi per i padroni del cinema esisten­ te. Ma queste iniziative, ambigue e condizionate, si sono rivelate insufficienti a sostenere i grossi pro­ duttori, i quali continuano a piangere aiuto per le loro speculazioni, e ancor meno insufficienti a pro­ teggere davvero un cinema "culturale" di più spic­ cato interesse. I pochi film impegnativi e poveri che hanno usufruito di queste leggi, l’hanno fatto all’in­ terno di nuove speculazioni, benché piccole e legate a "gente di sinistra,” elitarie e nascoste, che non hanno trovato uno sbocco commerciale e un pub­ blico. E c’è anche da dire che le varie commissioni (per la concessione dei premi, per la censura, per questa e quella "provvidenza") sono in generale frut­ to di una spartizione di poltrone che avviene nelle trattative interpartitiche del centro-sinistra e nelle quali, per esempio, i registi sono rappresentati da al­ cuni squalificatissimi autori in riposo del peggior cinema commerciale degli anni passati, che hanno però il merito di essere fedeli rappresentanti del vaticano o di questo o quel gruppo DC. Cosi la legge Corona non ha affrontato nessuna scelta reale, man­ tenendosi nel campo, sino ad allora tradizionalmen­ te amministrato in proprio dalla DC, delle "sovven­ zioni" a un'industria perennemente pericolante e ric­ ca in mafie e in furti. L’Ente gestione, dipendente dal ministero delle partecipazioni statali in concordia con quello del turismo e dello spettacolo, è il caso d’intervento che riserva forse più sorprese per l’avvenire del cinema italiano. Infatti, se sotto Andreotti e i suoi seguaci la politica democristiana si serviva delle proprietà cinematografiche di stato per scopi clientelari e più particolarmente per favorirne la lenta morte a tutto favore dell’industria privata, con gli anni sessanta e l’ingresso dei socialisti nel governo la direzione è cambiata e l’ente è diventato il pilastro di un inter­ vento diretto dello stato, intervento più consapevole 49

e destinato a un sicuro sviluppo. Non che con esso lo stato voglia fare concorrenza ai privati, anzi. Si direbbe piuttosto che intenda potenziare la sua fun­ zione di mediatore intelligente, aprendo le porte alla collaborazione con l’industria privata e contempo­ raneamente prevedendo una funzione di collabora­ zione con altri centri di comunicazione di massa in cui lo stato (i governi) è padrone, verso un controllo della cultura sempre più vasto. Ma occorre spiegar­ si, poiché in questo campo i discorsi e gli scandali si susseguono ininterrottamente, preludendo a una nuova legge sul cinema. La lotta per il controllo del­ l’ente da parte dei partiti del centro-sinistra è oggi al suo massimo. L’intervento dello stato previsto nella legge del ’65 aveva un chiaro intento generale: "lo stato pro­ muove la struttura industriale a partecipazione sta­ tale, assicurando che sia di integrazione all'industria privata e operi secondo criteri di economicità"; lo stato, cioè, doveva ancora sostenere l’industria pri­ vata e farsi imprenditore in proprio solo secondo criteri di guadagno, dovendo cioè investire per gua­ dagnare in proporzione. Questa direttiva ha fatto il gioco di certa industria e ha fatto dell’Italnoleggio un complesso distributivo (e produttivo) votato a far soldi con operazioni che non avevano niente di diverso da quelle private (ad esempio col superco­ losso La caduta degli dèi, curato direttamente dall’allora direttore dell’Italnoleggio, il socialista pro­ duttore Mario Gallo); e d’altronde la presenza socia­ lista, dapprima rilevante, non ha mai avuto fiato suf­ ficiente a contrastare (se pur lo avesse voluto) la forza della DC in queste organizzazioni. Cosi l’ente ha vivacchiato, con fondi in generale mediocri, fin­ ché i socialisti si sono dimessi dalla direzione del­ l'ente (nel ’68) aprendo una crisi che oggi, di fronte all’aggressività nuova della destra democristiana e dei socialdemocratici, sta raggiungendo gli apici del ridicolo e della mafiosità. La sinistra parlamentare (sindacati, PSI e PCI) porta infatti avanti una poli­ 50

tica di rafforzamento dell’Ente gestione (per cui si chiede un fondo enormemente più grande a dispo­ sizione, di 70 miliardi in un quinquennio), e di aiuto alle iniziative industriali cinematografiche nazionali, in particolare per quel che riguarda le “opere di cul­ tura." Tutto questo dovrebbe essere attuato attra­ verso una maggiore democratizzazione e rappresen­ tatività nella direzione dell’ente e delle sue tre so­ cietà. Su questa linea le sinistre s’incontrarono nel '70 con forze della DC, e sembrò che questa trasfor­ mazione dovesse avvenire. Ma come qualche comu­ nista stesso non tardò a capire, si stava in realtà tentando tutti uniti di "riedificare un apparato strut­ turale non tanto per aprire spazi a un cinema di idee e a forme libere di produzione e fruizione quanto per lanciare un salvagente all’industria cine­ matografica, prossima al collasso, ponendole quale unica condizione il conseguimento di un minimo di dignità culturale" (Argentieri). Era infatti quello che stava accadendo: la crisi conseguente al parziale ab­ bandono dell’Italia da parte di grossi investitori americani e al fiasco di una serie di iniziative, nel '70 mandava all’aria non pochi progetti e non po­ che società di produzióne. Lo stato e i produttori (più o meno assieme) mo­ dificavano la loro linea d’azione di boicottaggio nei confronti dell’ente di gestione, e capivano che esso poteva essere molto utile, da un lato per appoggiare e offrire sbocchi ai produttori privati (che avrebbe­ ro avuto dallo stato non solo altri crediti e le detas­ sazioni solite, ora sempre più vaste con l’introdu­ zione del nuovo sistema fiscale conforme agli accor­ di del MEC), ma anche commesse dirette e l’aper­ tura di nuovi campi d’azione in sostituzione del par­ ziale ritiro americano, e dall'altro per organizzare una timida razionalizzazione del settore e il control­ lo dei governi (e cioè sempre e comunque del pote­ re) sulle iniziative culturali in un campo in possi­ bile sviluppo e al quale il futuro riserva nuove am­ pie possibilità, dalle videocassette agli accordi con 51

la TV, dalla cinematografia educativa di cinema d’essai, ecc. Ovviamente, questa linea è meno chiara di quanto cosi affermiamo, poiché si tratta di un pro­ cesso in corso, estremamente incoerente, e nel quale il centro-sinistra nel suo insieme (cioè dalla sinistra PSI ai socialdemocratici) si scontra con le difficoltà e le contraddizioni che gli sono proprie in ogni set­ tore di fronte al problema delle riforme e della ra­ zionalizzazione neocapitalistica del sistema. Ma è tut­ tavia significativo che i contenuti di questa lotta sia­ no quelli proposti dalla commissione del 70 di cui si è detto, con punte più avanzate nella proposta di legge del PCI del 23 luglio 70 e nelle dichiarazio­ ni della sinistra PSI, sostanzialmente concordi tra loro e con omologhe richieste di altre organizza­ zioni (cineclub, ANAC, ecc.). Si chiede una raziona­ lizzazione che faccia democraticamente partecipare l’opposizione alla gestione di queste iniziative, una nuova legge che stabilisca le modalità dell’interven­ to dello stato in direzione riformista, e in definitiva la difesa del capitale e dell’iniziativa nazionale con­ tro quello americano, della piccola produzione con­ tro la grossa, del circuito alternativo (d’essai) con­ tro quello commerciale, lasciando i produttori e di­ stributori di quest’ultimo al loro destino, ad accet­ tare cioè le regole della concorrenza e del mercato tipiche della società capitalista. Si vuole insomma che lo stato valorizzi le sue “industrie di stato” (e quelle private nuove che esso può far sviluppare) di fronte a quelle private esistenti, dimenticando che le industrie di stato sono nate proprio per sostene­ re il capitalismo italiano nel suo insieme e proprio dopo che molte industrie private non riuscivano a sostenersi da sé. Questa “battaglia per la riforma,” simile a tante altre, si scontra come in tanti altri casi con la vi­ schiosità del sistema politico italiano, che tende a smussare e recuperare a suo uso e consumo, dopo tentennamenti e incertezze. Cosi oggi l’intervento dello stato si annuncia senza dubbio vasto, accettan52

do parte delle proposte socialiste e comuniste, ma per ricondurle a un terreno di compromesso più che tradizionale. Lo stato accetta cioè di farsi promoto­ re di un’intervento più ampio e diretto, ma in fun zione di interessi ben precisi. Cosi l’attuale ministro Matteotti può promettere ai produttori privati nuovi e grandi aiuti (fissazione a un basso livello dell’im­ posta sul valore aggiunto, progressiva abolizione del­ la censura, fondi di emergenza per miliardi di lire, nuove aperture di credito, ecc. ecc.) mentre contem­ poraneamente annuncia un fondo di 40 miliardi in cinque anni per l’industria di stato. Le due cose van­ no insieme, e finiscono per mediare la vecchia linea (sovvenzioni a un’industria caotica) con la nuova (maggiore intervento diretto), in una sostanziale uni­ tà di azione che i produttori sanno giustamente ri­ conoscere come a loro generale vantaggio. Ma negli enti di stato la lotta per il controllo interno dei “40 miliardi’’ non lascia indifferenti i partiti, che si sono letteralmente scatenati in una battaglia a coltello per le cariche che giunge fino alle delazioni fragorose (il ministro Preti che denuncia come evasore fiscale Ma­ rio Gallo, "ignoti" umanitari che denunciano in bloc­ co i socialisti di Corona alla magistratura accusandoli di aver troppo mangiato alla greppia dell'ente negli anni tra il '55 e il ’70, i socialisti che a loro volta con­ trodenunciano, i democristiani che ringalluzziti rimet­ tono in lizza i loro vecchi e nuovi papponi, ecc. ecc.) in una farsa davvero senza pudori. Quel che ne verrà fuori sarà un baraccone certo più interventista del precedente, ma non meno corrotto e sciagurato. E il PCI potrà di nuovo, come in molte altre occasio­ ni, scoprire cosa significa lottare per riforme che serviranno soprattutto al rafforzamento di settori che gli sono ancora nemici. È interessante però vedere sommariamente co­ sa essi chiedevano, e ipotizzare la realizzazione del­ la loro utopia per capirne il fondo. Essi afferma­ no che il cinema deve essere considerato non come un’"industria da sovvenzionare” ma come 53

un "servizio pubblico." Lo stato deve discrimina­ re tra film e prodotti, tra cultura e merce, lasciando i secondi al loro destino e assumendosi invece oneri e rischi nei confronti dei primi con: prefinanziamen­ ti sulla base delle sceneggiature proposte, finanzia­ mento con debole tasso d’interesse delle produzioni che si mantengono in certi limiti economici, circo­ lazione dei film giudicati di qualità con importanti esenzioni fiscali, rafforzamento dei premi di qualità, generale subordinamento dell’aspetto economico a quello socio-culturale, stabilimento di un’efficace im­ palcatura industriale del cinema italiano con leggi che condizionino i produttori privati a reinvestire nel settore e a offrire determinate garanzie di serietà economica, nascita di circuiti pubblici di sale gesti­ ti dalle locali organizzazioni culturali e popolari, na­ scita di cooperative di produzione, nuova regolamen­ tazione della programmazione obbligatoria a favore dei film di cultura e d’arte, riforma del Centro spe­ rimentale, regolamentazione dei rapporti tra cinema e TV favorendo la produzione di telefilm culturali e garantendo la loro presentazione, ecc. ecc. Insomma, una riforma abbastanza completa che lascia allo sta­ to un potere determinante nell’intero settore. Ma si dimentica appunto che lo stato non è uno stato al di sopra delle parti, ma è parte diretta e fon­ damentale di un sistema di classe; che gli enti di stato non possono che essere degli strumenti al ser­ vizio diretto o indiretto del sistema di classe; che lo stato che interviene nel cinema non può che farlo secondo la logica del potere, tutt’al più con i cambiamenti e gli aggiustamenti di tiro resi necessa­ ri dai rapporti di forza stabiliti tra i partiti al pote­ re (e in certi casi l'opposizione parlamentare), e che comunque l’intervento non può che avvenire sulla base di una logica di potere: di veicolamento dell’i­ deologia della borghesia e dei suoi partiti che è tutt’altro che "imparziale." Queste riforme insomma pos­ sono riguardare i socialisti e i comunisti ma conti­ nuano a non riguardare i proletari poiché comunque 54

servirebbero al loro condizionamento, al loro indot­ trinamento secondo schemi e valori coerenti ai prin­ cipi della democrazia borghese e cioè del sistema ca­ pitalistico. Riguardano però la "cultura" e la “libertà degli artisti," secondo impostazioni che considerano la categoria degli "artisti" come qualcosa di privile­ giato o da privilegiare, e alla cui difesa i proletari non possono che sentirsi estranei fintantoché essa cultura e essi artisti non sono in diretto collegamen­ to con la loro lotta e non sono loro espressione, fin­ tantoché essa libertà continua a riguardare i privi­ legi di un gruppo particolare pronto a imporre lo­ ro i suoi prodotti e i suoi valori senza tener conto delle loro esigenze più profonde e rivoluzionarie. Che gli artisti legati al popolo possano servirsi delle riforme e che il popolo stesso possa servirsene viene cosi a essere un fatto secondario rispetto alle sue lotte e alla sua esistenza: la cultura nuova e rivoluzio­ naria può giovarsi delle contraddizioni o delle am­ biguità dello stato borghese, ma non può nascere da­ gli enti e dalla protezione dello stato borghese. L'u­ topia non è dunque quella di chi rivendica per la cultura una nuova realtà che nasce dal basso e dalle lotte rivoluzionarie contro il sistema e contro i suoi valori, ma proprio quella di chi pensa che possa es­ sere lo stato a creare, veicolare, produrre e distri­ buire una nuova cultura. La “novità" non consiste­ rebbe, nelle sue mani, che nell’ammodernamento, nella confusione delle lingue, nel perpetuamento del­ la cultura borghese, e nella libertà di espressione per una categoria separata e non per le masse.

5. Il mondo del cinema L’industria cinematografica assorbe diecimila operai specializzati della produzione e delle indu­ strie tecniche, 40 mila dipendenti del noleggio e deH’esercizio e più di 3 mila tecnici. Ma mentre i dipendenti del noleggio ed esercizio (in realtà un 55

commercio e non un’industria, con una classe ope­ raia molto sfruttata, spesso sottoposta alla necessi­ tà del doppio lavoro, e un nucleo di impiegati a me­ dio e basso livello di retribuzione) è più o meno stabile, quella della produzione e delle industrie tecniche, insediata per la quasi totalità a Roma, è maggiormente sottoposta all’andamento del mercato e ai rischi di disoccupazione o sottoccupazione. A parte i dipendenti fissi che sono comunque la mag­ gioranza, ha però in generale i vantaggi di una re­ tribuzione irregolare ma spesso alta, con differen­ ziazioni interne considerevoli. I tecnici, gli sceneg­ giatori, gli attori, i musicisti ecc. di un qualche nome sono pagati film per film, e le loro quotazio­ ni sono variabili, a seconda dei successi precedenti e di altri fattori. Ogni film, in definitiva, proprio perché è un’operazione a sé stante nella maggior parte dei casi, finisce per costituire un caso a par­ te: e capita che vi siano film nei quali il compenso del regista incide enormemente, mentre in altri es­ so è estremamente secondario rispetto a quello de­ gli attori, o che finisca per guadagnare di più, glo­ balmente, uno sceneggiatore di un attore, e cosi via. Ma si tratta di un numero di privilegiati ristretto a poche centinaia di nomi, i cui redditi sono spesso enormi, paragonabili a quelli di piccoli o medi in­ dustriali o di grandi dirigenti d’azienda. Si tratta, per i nomi più noti, di cifre superiori anche al mez­ zo miliardo, e per il nucleo più consistente oscillan­ ti tra i 20 e i 200 milioni annui. In questo caso non ci si può basare, per una stima reale dei gua­ dagni della "gente del cinema” di primo grado (che ovviamente comprende in testa i produttori, anche se possono esistere casi di produttori che finiscono per ricavare da un film meno del suo protagonista), altro che sui pettegolezzi dell’ambiente, e non su dati realistici e completi. Ci sono poi quegli uomi­ ni di cinema che ruotano attorno ai big, o che por­ tano avanti imprese meno ambiziose e di minor suc­ cesso, e che hanno comunque redditi molto elevati, 56

e attorno a loro dipendenti o "liberi prestatori” a gradini più bassi, in una piccola bolgia di colore fel­ liniano sulla quale non esistono inchieste particola­ ri, che sarebbe peraltro estremamente difficile quantizzare e precisare, e infine, nell’ultimo gi­ rone, ci sono i manovali e le comparse il cui tenore di vita oscilla tra il livello dei normali dipendenti dell'edilizia romana e le arti d’arrangiarsi dei sot­ toproletari di borgata. Oggi, il collegamento tra questi settori profes­ sionali estremamente incerti e la TV si va organiz­ zando in un intrico complesso, poiché la TV assor­ be direttamente molta gente, artisti e tecnici e ope­ rai, ma contemporaneamente è legata a dozzine e dozzine di società esterne e di persone chiamate volta a volta con contratti parziali, esterni che in generale hanno altre fonti di reddito che vanno dal cinema all’università alla fabbrica. Ma diversamente dalla TV, dove comunque i dipendenti hanno contrat­ ti ai quali appellarsi, datori di lavoro fìssi e ricono­ sciuti, protezione sindacale efficiente, e fanno lotte, agiscono nei confronti di un chiaro padrone unico, il mondo del cinema riserva margini incredibilmen­ te più confusi di sfruttamento e di differenziazione sociale, in cui però l’alibi della “stessa barca” ha presa come in pochi altri ambienti. È vero anche che il cinema resta uno dei settori in cui è più fa­ cile realizzare grossi guadagni per il giovane di bel­ le speranze e di qualche talento, il che conferisce a questa industria una straordinaria forza d’attra­ zione verso leve di aspiranti cinematografici d’ogni genere ed estrazione. Il cinema è una delle componenti economiche maggiori di una città che vive in una strana situa­ zione di privilegio rispetto al resto del paese: sen­ za produrre alcunché di fondamentale, essa racco­ glie parlamento e ministeri ed enti e istituzioni con­ simili in una stessa baraonda e similitudine con la produzione dello spettacolo: una società fondamen­ talmente parassitaria che vive in vario modo alle 57

spalle del paese in una catena di interessi sovrastrutturali. Forse è anche per questo che i due set­ tori, politico-amministrativo e delle comunicazioni di massa audiovisive, si concentra qui, con uno sco­ po che è in definitiva vicino, con metodi ed aura simili, e con la complicità operativa che ne deriva. Secondaria ma non ultima conseguenza è il conge­ lamento di intelligenze e ambizioni di tutta una ca­ tegoria di “intellettuali" attratti dalla facilità dei guadagni e secondariamente dalla volontà di espri­ mersi (due cose che in questo contesto vanno di pari passo dato che per esprimersi si ha bisogno di una macchina complicata e costosa di cui si finisce per essere una delle rotelle, con poca indipendenza reale) in un ghetto dorato di estraniazione dalle realtà sociali fondamentali. Roma, città fascista per eccellenza poiché solo la difesa dello status quo permette il mantenimento dei privilegi basati su funzioni parassitarie e nel migliore dei casi asso­ lutamente terziarie, è il posto migliore per chiude­ re in un’opaca affermazione personale e in con­ creti privilegi un’intellighenzia disponibilissima al­ l’integrazione, dietro gli alibi e le false coscienze di cui si dirà meglio avanti. Questo insieme di azzardi e di complicità lega tra loro i membri di una industria che sembra ta­ le a metà, con condizioni di lavoro estremamente variabili. Essa ha ovviamente i suoi grandi privile­ giati e potenti e i suoi infimi dipendenti, ma a pa­ rer nostro ha i suoi reali sfruttati più all’esterno che all’interno della sua realtà produttiva. Sono “il pubblico," oggetto del taglieggiamento economico su cui il cinema vive (nonché in quanto contribuente di uno stato che sostiene l’industria del cinema coi soldi di tutti), e specialmente quel pubblico che me­ no di altri ha la possibilità di scegliere tra i prodot­ ti che gli vengono prospettati e che è quindi costret­ to a pagare per accogliere un'ideologia di sfruttamen­ to e di condizionamento borghesi. Il popolo, insom­ ma, nell’accezione maoista del termine, doppiamente 58

beffato dal sistema e dai suoi scherani, paga per ri­ cevere in cambio lo svago necessario alla riproduzio­ ne della sua forza-lavoro e un’ideologia che è quella dei padroni, e che i padroni vogliono inculcargli per meglio sfruttarlo. Questa funzione generale del ci­ nema è ovviamente negata dalle ideologie "sociolo­ giche" o "artistiche” del sistema, ma non per questo è meno reale. Cosi è quasi grottesco il richiamo dei produttori o dei registi a un "pubblico re" che, se­ condo loro, è colui che in realtà impone le linee e determina col successo o meno di questo o quello spettacolo le tendenze del mercato. Condizionato e oppresso anche per la sua mancanza di cultura, e cioè per la privazione di strumenti di conoscenza rea­ le in cui il sistema lo mantiene, il popolo può colla­ borare al suo sfruttamento, ma resta nondimeno lo sfruttato per eccellenza. Dietro la retorica dello spet­ tacolo il sistema si reimpossessa (com’è per altri consumi) di parte del salario concesso, e contempo­ raneamente trasmette l’ideologia necessaria all’ac­ cettazione da parte dello sfruttato del suo stato di sfruttamento. 6. Prospettiva Allarghiamo lo sguardo, e consideriamo per un at­ timo il cinema nel contesto della più vasta evoluzio­ ne della situazione sociale e della conseguente crisi del sistema d’informazioni e comunicazioni di massa sinora in atto. I fini del cinema sono stati nei suoi anni di gran­ de sviluppo quelli di "divertire" con spettacoli più o meno indirizzati a un enorme pubblico indifferenzia­ to (almeno in America e nei paesi a capitalismo avan­ zato) e insieme di fornire codici di valori politico­ sociali e morali unitari (di tipo borghese, capitalistico, famigliare, antieversivo). Prodotti standardizzati, i film erano un momento di controllo e di influenza sociale, di conquista dell'adesione al sistema di valo­ 59

ri proposto dal sistema e cioè di adesione al sistema nel suo insieme. Questo compito è stato assorbito successivamente dalla televisione, che ha portato il cinema e l’informazione in casa, alla famiglia, fram­ mentando l’esperienza e le modalità della comunica­ zione di massa (interclassista e comune) che il film proponeva nella sala in cui ci si recava. E insieme è cresciuto il ruolo dell'informazione (o socializzazione della conoscenza) come fattore di produzione del si­ stema, che ha differenziato le conoscenze coerente­ mente alle necessità dello sviluppo capitalistico, tra­ scurando proprio i momenti unitari della loro acqui­ sizione, messi peraltro in crisi anche dall’evolversi delle contraddizioni sociali ed economiche del si­ stema. Si è cosi giunti alla situazione presente, in cui le videocassette stanno per entrare in campo slegando ancora di più la precedente compattezza del sistema di informazioni e formazione che la cultura di massa devolveva nelle società capitalistiche al cinema. Non solo il cinema produrrà per la TV e per le videocas­ sette, ma la TV produrrà per il cinema, le videocas­ sette per la scuola, ecc., in un complesso sistema di influenze e di differenziazioni dal quale risultano molte possibilità e contraddizioni nella necessità per il sistema di offrire prodotti diversi per fini diversi e per mercati diversi, raggiungibili attraverso cana­ li diversi. Il rapporto di identificazione tra il messag­ gio e il mezzo salta, e con esso anche la struttura integrata delle comunicazioni audiovisive. Per soprav­ vivere il sistema ha bisogno della socializzazione del­ le conoscenze, e il sistema della produzione-diffusio­ ne del film (in generale) ha bisogno di una differen­ ziazione del prodotto e del mercato. C’è stata nel frattempo l’immensa svolta degli an­ ni Sessanta: la crisi politica del sistema, la rottura di una tradizione famigliare, la rivolta giovanile, la nascita di una controcultura, la rivolta contro le isti­ tuzioni, il rilancio delle lotte operaie... La cultura di massa come entità oppressiva e unitaria è saltata ne­ 60

gli Stati Uniti come altrove, e il sistema ha visto scoppiare contraddizioni a lungo compresse o co­ vate. Quello che il cinema poteva dare in proposta di modelli d’esistenza, e in cultura come complesso di valori e come un momento di sintesi delle cono­ scenze, è stato sottratto ai canali obbligati degli oli­ gopoli; quest'informazione-formazione cinematografi­ ca s’è vista affiancata da altri usi del cinema sinora marginali: quello della informazione politica diretta, per esempio, che la TV aveva già assunto per sé e che oggi si presenta come una divisione netta tra la informazione e la propaganda del sistema e l'infor­ mazione e la propaganda alternative, possibili gra­ zie alla semplificazione e accessibilità delle tecniche di realizzazione e proiezione. Mentre intanto va crol­ lando la possibilità di una sintesi unica e di un mes­ saggio unitario, e gli stessi produttori si vedono co­ stretti, per poter continuare a guadagnare, a differen­ ziare i loro prodotti e a inseguire pubblici particolari. In Italia, dato il diverso sviluppo capitalistico, il cinema del dopoguerra non è stato condizionato dallo stesso tipo di processo se non con molto ritardo: fino alla metà degli anni .’50 il neorealismo e i suoi ad­ dentellati hanno anzi costituito un’alternativa (o for­ se una mediazione) alla cultura di massa offerta dal cinema americano, ma più tardi questo processo ha preso corpo cogli anni Sessanta e in particolare con forme di spettacolo cinematografico nuove ed egemo­ ni come ad esempio la commedia di costume, mentre la TV proponeva dal canto suo una "cultura" unita­ ria e conformistica a una nazione che non lo era af­ fatto, sulla base di modelli piccolo-borghesi tradi­ zionali. Ma anche qui le contraddizioni non hanno tardato a scoppiare, anche se finora non si può par­ lare di una vera differenziazione del mercato (si ve­ da il ritardo nella nascita dei circuiti secondari, ci­ nema d’essai, ecc.). Il cinema e la TV non hanno in sostanza propugnato cose diverse ma la stessa cosa, con più margini di possibilità per il cinema, però scarsamente utilizzati; e solo adesso va avviandosi 61

un processo di differenziazione del quale i nostri au­ tori non si sono ancora ben resi conto. In questo nuovo contesto in fieri, la TV resterà probabilmente per moltissimo tempo ancora uno stru­ mento forzatamente unitario portatore di informa­ zioni e principi utili al perpetuamento del sistema, affiancata da un certo cinema (quello delle prime). Ma al loro fianco o contro di loro vanno già nascendo frammentazioni e divisioni, la ricerca di pubblici par­ ticolari e di un diverso rapporto con loro. È il mo­ mento per avanzare iniziative importanti, esterne ai canali fondamentali immediatamente gestiti o imme­ diatamente utili al potere, utilizzabili in funzione contrastante solo in rari casi, almeno per il momento; mentre il cinema “alternativo," sia o meno gestito dall’industria cinematografica o da fette di essa o in proprio da nuovi gruppi e nuove associazioni, si tra­ sformerà in un cinema per gruppi sociali particolari, minoritari ma esattamente quelli che vivono più a fondo le contraddizioni. È all’interno di questi “mar­ gini" e di queste nuove possibilità che a parer nostro si può e si deve operare, sia per offrire quelle opera­ zioni di sintesi delle esperienze umane e sociali fram­ mentate e negate dall’informazione borghese, sia per proporre e discutere interpretazioni della realtà utili alla lunga all'azione; sia per indicare modelli e valori alternativi sia per formare politicamente e direttamente (e allora com'è ovvio in modi totalmen­ te marginali, legati all'azione politica diretta) i pro­ tagonisti delle lotte per il comuniSmo. Il mezzo di comunicazione di massa e di crèazione artistica che è il cinema sta trasformandosi e differenziandosi nel suo uso, nei suoi modi, nelle sue destinazioni, apren­ do possibilità per un cinema nuovo e diverso, sia ai margini sia fuori dalle strutture produttive tradizio­ nali. Ma è ben raro che i registi tengano conto della collocazione del cinema in una precisa struttura eco­ nomica legata a interessi e funzioni determinati, e delle possibilità che il mezzo che usano e la evolu­ zione della società loro offrono per inventare nuove 62

vie e partecipare alla nascita di una cultura diversa e rivoluzionaria, preoccupati come sono di "espri­ mersi” e poco coscienti di quanto cambia intorno a loro. Il cinema è un mezzo di comunicazione e di espressione legato come pochi alla storia della so­ cietà capitalistica e destinato a seguirne i destini e le sconfitte. Come molti altri mezzi di questa socie­ tà è un’arma che può anche essere a doppio taglio, e venire usata contro invece che per il sistema. Ma per poterlo fare occorre non solo conoscerla ma an­ che conoscere l’avversario e il terreno della lotta, e avere chiari i fini e i principi dell’azione.

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PARTE SECONDA

Opere e prodotti

1. Dopo il neorealismo Se dovessimo caratterizzare brevemente il cinema italiano recente, dovremmo parlare di un ondeggia­ mento costante tra opportunismo ed evasione. In va­ ri modi, i registi italiani sono stati coinvolti quasi tutti in questa scelta, tutt’altro che contraddittoria, come dimostra la loro opera, poiché anche l’evasione è stata in generale la scelta più dichiarata ed estrema di una forma di opportunismo, di cedimento nei con­ fronti del “mercato" (del sistema), appena maschera­ ta nei più vili da qualche dichiarazione "impegnata," da qualche spunto di "critica sociale" inserito nei propri film, e nei più sciocchi da qualche dichiara­ zione di pretesa rivoluzione nelle forme. La società italiana di questo dopoguerra è stata più contraddit­ toria, meno fossilizzata e contratta dalle altre euro­ pee. In paesi come l’Inghilterra o la Germania una più avanzata integrazione sociale, e un più avanzato controllo borghese sui media hanno fino ad anni recenti caratterizzato una produzione uniforme e in­ forme, piatta e scostante nella sua volgarità e bana­ lità, anche quando sorretta dal cosiddetto mestiere. In paesi come la Spagna o la Grecia e la Germania orientale la situazione più arretrata di blocco delle li­ bertà espressive favorita da forme più arretrate di controllo politico totale ha stroncato o castrato i ten­ tativi di uscita e presenza di una nuova cultura anche e soprattutto nel campo del cinema. Nei paesi sta­ 67

liniani, nelle lunghe stasi di freno e oppressione, fin­ tantoché la classe operaia non ha scatenato le sue battaglie, il controllo è stato attuato nelle forme di una produzione di stato, in mano a sozzi burocrati. E infine in Francia il controllo del potere si è svolto co­ me tradizionalmente, in una doppia morale estremamente rigida e condizionante per il cinema di grande diffusione, ed estremamente permissiva per gli spa­ zi parigini riservati a una cultura di lustro, purché essa, come in effetti è stato, non uscisse dai quartie­ ri consacrati e si limitasse al terreno riservato agli afflati personali ultrapoetici o alle profonde disqui­ sizioni formali, ai film e libri di un’intellighenzia au­ toconsumati da essa, in un ciclo chiuso che il maggio ha rotto appena in parte e che rinasce sotto nuove forme con la compiacenza degli interessati. La presenza di un’opposizione politica forte e or­ ganizzata ha impedito in Italia che lo slancio del ’45-’48 si perdesse totalmente, e ha protetto spazi no­ tevoli, contemporaneamente evitando — nella pro­ clamata esigenza dell’impegno sociale — che si creas­ sero invece i finti spazi della ricerca autonoma e astratta. Il neorealismo ha potuto organizzarsi e so­ pravvivere, e dare vari frutti, ma ha pagato lo scotto di una protezione interessata e fin troppo permissiva. In una sostanziale divisione del potere culturale pen­ dente a favore del PCI nei confronti della DC, e via via mediata negli ultimi quindici anni dal cuscinetto PSI, la volgare imbecillità fascistico-pacelliana dei dirigenti DC non aveva di che attrarre intellettuali antifascisti, anche quando dell'ultima ora, desidero­ si appunto di uno spazio che le sottane di Andreotti e di Sceiba certo non permettevano. E il PCI d’altron­ de chiedeva in cambio ben poco per la sua prote­ zione e il suo appoggio: qualche firma, qualche di­ chiarazione di voto, la presenza del popolo sullo schermo all’interno di una denuncia delle condizioni di vita delle masse e di una proposta democratica e ottimistica. L’intellighenzia italiana si caratterizzò cosi come “di sinistra’’ con poca spesa e molti van­ 68

taggi, mentre le strade più personali, ideologicamen­ te complesse o soltanto contorte (come fu il caso di Rossellini) ottenevano una sorta di non velato ostra­ cismo che doveva respingerle nell’arco di un’ideolo­ gia cattolica e sostanzialmente conservatrice, o nel rifugio infelice in attesa di un cambio della moda. Di questo potere di influenza, il PCI usò, come tutti i partiti staliniani e revisionisti occidentali, in modo adeguato alla sua linea di fronte popolare di alleanza storica con le forze della borghesia progressista. Gli intellettuali gli servirono appunto per un’azione di approccio nei confronti di questa, per placarne i ti­ mori, per preparare i tempi della collaborazione an­ che oltre le forme che la ricostruzione aveva dimo­ strato ma che la guerra fredda aveva finito per cri­ stallizzare. I registi venivano cosi considerati come un’avan­ guardia all’interno di quest’azione, coscienti o meno di esserlo. Molti, felici della pluralità degli spazi e di poter essere accettati senza pena tra le forze del si­ stema e tra quelle dell’opposizione allo stesso tem­ po, con tutti i privilegi di questa doppia sorte unita­ ria, non avevano che obiettare; altri aderivano in toto alla linea del partito senza porsi eccessivi pro­ blemi; altri, infine, dapprima in fiduciosa attesa del momento sempre rinviato della rivoluzione e poi av­ viliti dalla miseria degli sviluppi, finirono per trovarsi superati dagli avvenimenti, o per accettare la morale della cinica trasformazione scivolando vieppiù nel? l’abbandono di qualsiasi forma d’impegno, e "facen­ dosi furbi." Non si può dire che rispetto ai piani togliattiani il complesso di quest’operazione sia stato fallimentare; ma è anche evidente che la funzione di compagni di strada cosi poco coinvolti e rimasti cosi intoccati nelle loro scelte di vita e con tale spazio in quelle di cultura doveva rivelarsi alla buona occa­ sione facilmente intercambiabile in quella di servi dell’altra parte, via via recuperati e riacquistati (era anche, brutalmente, questione di prezzo, di doman­ da e di offerta) nel momento in cui il sistema, uscito 69

dalle secche degli anni freddi, sentiva il bisogno di una sua intellighenzia e di funzionari pù abili delle camicie nere e delle tonache di cui s’era sino ad allo­ ra servito. I lasciti borghesi si rivelarono in questo modo de­ terminanti, non sostituiti con nessuna ansia o pratica politica di rapporto reale con le masse. In cinema, il populismo proposto dalla politica culturale tro­ vava un ottimo terreno nella volontà di molti, appena usciti dal fascismo, di spalancare le finestre sulla realtà italiana che il fascismo aveva impedito si nar­ rasse. Infatti il fascismo considerava troppo im­ portante il cinema per permettergli di affrontare certi temi ed ambienti. E anche se indubbiamente esiste una continuità storica tra il Rossellini di L'uo­ mo della croce e il Rossellini di Roma città aperta, tra i film del fascismo contadino e quello risorgimen­ tale di Blasetti e altri prodotti post-resistenziali, pure la Resistenza era passata li in mezzo con uno scon­ volgimento e un vigore di cui si sentono comunque le tracce, e che permette di considerare la rottura del '45 come il momento di una vera apertura, dell’av­ vento effettivo della realtà sociale italiana sullo scher­ mo. Non che il popolo che si presentava — vaghissi­ mamente determinato — non fosse spesso astratto e mistificato, ma esso era comunque li, presente e ani­ moso, protagonista di una storia che trovava infine rispondenza anche nella cultura e sul telone bianco dello schermo, protagonista anche del cinema. Il processo non è uniforme — c'è posto per tutti. Il sentimentalismo di Zavattini e De Sica (e la loro retorica dell’anedotto), l’estetismo melodrammatico di Visconti (e la sua gestualità fredda e distante an­ che nel grido), la comprensiva captazione mistica del reale e dell'inespresso di Rossellini (e i suoi miti di grazia e di verità extrastoriche), la benevolente at­ tenzione borghese di Lattuada, il passionale presepio di De Santis, e giù giù anche il neo-qualunquismo mascherato da moralità piccolo-borghese di Zampa, il bozzettismo paternalistico di Castellani, il destror­ 70

so richiamo a una civiltà di onesti impiegati di Ger­ mi — i fumetti d’impronta napoletana — tengono tut­ ti egualmente conto di questa presenza, variamente adulandola rispetto alle proprie convinzioni e posi­ zioni di classe, alleate bensì tutte in ideali di progres­ so civile sostanzialmente interclassisti. Il corso è uni­ co, ma le sue interne forze sono già tutte presenti, e pronte, virato appena il capo degli anni Cinquanta, ad acquistare progressiva autonomia o a coagularsi in un magma di imbecillità, nel periodo rosa e sannazzariano del neorealismo, nel quale l’attenzione dai quattro soldi di vitalistica speranza si sposta via via al piccolo costume piccolo-borghese, fatto di mare­ scialli galanti, di impiegati in fregola e capufficio cor­ nuti. Tutto, in realtà, avrebbe dovuto lasciarlo preve­ dere. La linea di conciliazione e collaborazione politi­ ca della ri costruzione e del concordato, la teorizzazio­ ne della via italiana al socialismo, l’invito al recupero delle bandiere lasciate cadere dalla borghesia non potevano che sostenere, al massimo, l’invito alla co­ stituzione di una socialdemocratica e fiacca società civile offrendo per essa tutte le garanzie di pacifico sviluppo. Afflosciandosi i migliori impulsi della Resi­ stenza in quest’invito, la classe dirigente cattolica e la grande borghesia italiana non avevano che da strin­ gere il pugno per costringere la sinistra a una posi­ zione solamente difensiva quando, negli anni Cin­ quanta, le conseguenze della spartizione di Yalta si fecero più opprimenti e la guerra fredda si installò definitivamente dalle due parti del blocco con la sua panciuta ed armatissima arroganza e con i suoi stra­ scichi obbligati di intolleranza e censura. Il meno che si possa dire è che i bui anni Cinquanta dell’Italia furono il prodotto dello strapotere clericale cosi co­ me della posizione difensiva e di perenne (presunto) rinvio attuata dalla sinistra italiana, Stalin vivo o Stalin morto. I margini usabili sembrarono allora essere solo quelli di una politica degli autori, che lascia campo a poche operazioni “artistiche,” cercando di castrare 71

perfino quelle (è il caso di un film cosi profondamen­ te borghese come Senso, e di progetti che, a rilegger­ ne trame ed elenchi sulle colonne del vecchio "Ci­ nema Nuovo," sembra oggi incredibile che potessero venir presi per "sovversivi"), mentre il resto dev'esse­ re assolutamente innocuo e gradito ai ras del regi­ me. Tutti o quasi si adeguano. Cosi come ieri erano stati populisti e progressisti, si scoprono oggi d’un qualunquismo aberrante e d’una evasività assoluta. Certo, il "popolo" è ancora presente, e l’invocazione che prima si faceva di mostrare ogni tanto anche un po’ di borghesia, di uscire dalle borgate di Roma e dalle campagne del sud, viene accolta nel senso di riempire lo schermo di interni di buona periferia ro­ mana, di ministeri e di parrocchie. I cantori dei tele­ foni bianchi possono tranquillamente rimettersi all’o­ pera appena modificando i vecchi schemi nel senso di una grossolanità maggiore ("popolare") e le "belle mugnaie," le "bersagliere," le allegre "canaglie" sciori­ nano i loro sorrisi ed espongono le loro tette a rap­ presentare il "popolo” secondo convenzioni e model­ li da giornaletti umoristici; la miseria si fa sempre più contenta, addirittura una pacchia, e l'automobi­ le è là, a rappresentare un mito vicino e la proposta di un ideale. Di questi anni spagnoli, poco o nulla si salva. Il PCI propone innocui e poveri amanti; De Sica tenta un ultimo colpo con Umberto D. prima di prestare la sua antipatica faccia alle peggiori opera­ zioni rosa; Lattuada saltabecca tra un "film d'arte" e un fumetto, Il cappotto dopo Anna e prima di Scuola elementare', Visconti gira il carnevale-apoteosi del neorealismo con Bellissima e inizia le sue revisioni storiche togliattiane con Senso, ma, dopo, si getta su lattiginose ed apolidi notti di San Pietroburgo; Rossellini passa .dagli estatici fioretti dove un Fran­ cesco più cretino del necessario leva il suo canto a Dio e alla DC, a siti mediterranei in cui Ingrid Ber­ gman lo trova (sempre Dio) nelle bocche dei vulcani o nella lava di Pompei, aprendo però la strada alle passeggiate alienate e alle crisi dei sentimenti che 72

saranno l’emblema dei primi anni Sessanta; Maselli debutta, ragazzino, con Gli sbandati, che promettono più di quel che mantengono e se mantengono è nello sbandamento di cui il loro autore darà per lungo tem­ po prova. Due autori s'impongono, intanto, trainan­ do il neorealismo verso orbite nuove e inusitate: Fellini, che con Lo sceicco bianco e I vitelloni si tie­ ne ancora nell’ambito della scuola ma che con La strada ne esce decisamente per la tangente con la poesia dei reietti in cerca d’assoluto e comunicazio­ ne; e Antonioni, che questa comunicazione crede im­ possibile, e comincia a mostrarlo attraverso II grido, itinerario dell’operaio che non trova più forza nella storia una volta troncati gli agganci esistenziali e affettivi, e Le amiche, dove Pavese, preso nel suo me­ glio (se cosi si può dire) è tuttavia pretesto e tram­ polino per qualcosa d’altro, per l’ingresso a quel mondo di problematiche borghesi che fiorirà nell’av­ ventura e sfiorirà in una poetica indisponente. Il po­ polo, che non è mai stato proletario, ma disoccupato e contadino e picaro, scompare nelle brume della Bassa, alle porte dei “palazzi’’ della speculazione edi­ lizia, nelle livree dei servi muti delle tragedie della “alienazione," e, se resta, è decorativa figuretta di coc­ cio, colorita e pastasciuttara, completa di mandolino e magari onorato col gesto memorabile del vitellone di Fellini. Bastonato e coglionato. Ma il vento della storia cambia ancora. Disgelo in URSS, nuova frontiera in America, papa Giovanni in Vaticano, annunci di boom in Italia. L’industria del nord, rimessasi in piedi grazie alla collaborazione delle classi, all’IRI, e alla disoccupazione forzata del­ le masse, è pronta ad espandersi, anzi a crescere al­ l’interno del triangolo, e apre le porte agli immigrati dal sud, con ciò stesso abolendo in prima persona la barriera dei fogli di via mussoliniani e scelbiani. L'Italia si muove, si agita, cambia sotto i nostri oc­ chi, cresce e s’incasina. La DC non ce la fa più a governare da sola: ha bisogno del PSI, pronto da Pralognan a una collaborazione più intensa e sputta­ 73

nata. Una cosa il PSI però la esige: il riconoscimen­ to dei valori della Resistenza, il richiamo alla costi­ tuzione. Il terreno, in cinema, è preparato da qualche film — dei registi nuovi o minori — e da un plateale Generale della Rovere rosselliniano in cui, con sin­ tomatico ribaltamento, l’italiano qualunquista e ar­ ruffone si trasforma in eroe della Resistenza. Dopo il luglio ’60, estremo tentativo DC di aprire a destra, la strada è una sola. La borghesia italiana vuole ri­ farsi una verginità: gliene offrono il destro l’improv­ viso e massiccio amore per l'arte, i patetici romanzi di Cassola e il Lessico familiare della Ginzburg (che assurge a manifesto di un’identificazione della “nuo­ va” borghesia con le tradizioni più “fini" dell'indu­ stria — Olivetti — e dell'antifascismo — il borghesissimo perbenismo dei GL torinesi) e la miriade di film che, rotti i freni della censura clericale, tutti corrono ad applaudire: Estate violenta, Kapò, Tutti a casa, La ciociara, Il gobbo, La lunga notte del ’43, Era notte a Roma, La Marcia su Roma, L’oro di Ro­ ma, Tiro al piccione, Anni ruggenti, Il processo di Verona, Il terrorista, vari film documentari su Mus­ solini e soci, e naturalmente la sintesi socialista, All'armi siam fascisti. Prodotti nel breve arco di tre anni, storicizzano in forme generalmente sentimen­ tali quel periodo di vita italiana che sino ad allora era stato tabù toccare, e funzionano da blando esor­ cismo conciliatorio: un brutto sogno di tanto tempo fa, ora siamo tutti più buoni, ci vogliamo bene e la­ voriamo per il bene comune. A parte i rispettivi me­ riti e demeriti, essi rappresentano bene il momento di nascita del centro-sinistra e il nuovo “contratto” nazionale pacificatorio, scaricando sui fascisti il re­ siduo di male che la società italiana può ancora pre­ sentare, ed eludendo sistematicamente ogni indagi­ ne sulle cause profonde di quel male, e la loro peren­ ne presenza. Anche l’industria cinematografica sembra uscire dalle secche degli anni clericali, e crescere, espan­ dersi. La dolce vita trionfa mondialmente, specchio 74

del ’60; mentre Rocco e i suoi fratelli si amano e si odiano nelle periferie milanesi per sparire in quanto passato contadino e meridionale italiano e lasciare il posto a una classe operaia gentile, decisamente settentrionalizzata e sindacalizzata. Anche le borgate romane ricompaiono, ma stavolta per monotoni pre­ testi erotici scritti da Pasolini e filmati “elegantemen­ te” da Bolognini. Il Sud ha i giorni contati: la rie­ vocazione romantica del Brigante di Castellani lascia il posto, nel ’62, al “moralismo” buffone di Pietro Germi col suo Divorzio all’italiana, parallelo ai “filminchiesta" di due maestri della mistificazione reazio­ naria: Jacopetti e Biagi. La polemica sociale scivola verso la commedia di costume — che attraversa i suoi momenti migliori — e perfino Sordi si dà una morale in Una. vita difficile, scrollandosi di dosso l’eredità servile e addirittura esemplificando una bio­ grafìa ideale dei cedimenti post-resistenziali pronti però a risorgere nell’onestà del centro-sinistra. Nel gran veglione del boom, tutti sembrano ottimisti, e s’aggrappano a San Pietro e a Nenni assai più che al vecchio Paimiro, nella rosea visione di una incipien­ te Svezia nazionale e conciliata. Anche i film più amari, come Banditi a Orgosolo o Salvatore Giuliano, e più tardi Le mani sulla città, rispondono a questo appello poiché la loro denuncia è chiaramente, af­ ferma la critica, indirizzata a richiamare la classe dirigente alle sue responsabilità, e a liberarsi rapida­ mente delle piaghe che ancora restano aperte. Delle lotte di Torino e del risveglio della FIAT, dei contrat­ ti del '62, il cinema non sembra accorgersi: restano episodi settoriali, provvisori. È il boom, è la festa, e chi non gode oggi godrà certo domani, poiché il buongoverno è al lavoro, e l’opposizione collabora, superata la tempesta degli anni di crisi. In quest’orgia di smodata fiducia, s’insinuano e prendono piede i discorsi “nuovi.” La società indu­ striale sta unificando est ed ovest; la tecnocrazia è ormai al potere; gli operai sono integrati, ormai che frigo e auto ce l’hanno tutti; l’alienazione — nel sen75

so antonioniano del termine — sta diffondendosi e diventando nevrosi comune; la rivoluzione è un mi­ to; le ideologie sono morte. In vari modi e da vari luoghi (da Onofri a Guiducci, da Pasolini ad Anto­ nioni, da Eco ad Arbasino) la nuova cultura italiana macina questa fiducia sino a farne luogo comune e banalità. Jeanne Moreau e Monica Vitti deambulano tra il rumor delle antenne e gli inutili “messaggi" degli aeromodelli o della natura; Accattone invoca la dolce morte; l’impiegatuzzo di Olmi è preso nel­ l’ingranaggio, che tutti definiscono “kafkiano,” di una Milano macinasperanze e Federico Fellini si confessa aprendo la strada alle molte cazzate psicanalitiche che lo seguiranno. Siamo davvero entrati nella socie­ tà moderna!

2. Il sonno del boom

L’avventura e La dolce vita avevano aperto la por­ ta della società neocapitalista al cinema. Il neoreali­ smo era definitivamente sotterrato, se pure era mai esistito come entità veramente unitaria. Con La Dol­ ce vita era venuto anche il fracassante rilancio del ci­ nema italiano sul mercato nostro e internazionale, che favori il debutto di alcuni (Petri, Olmi, Pasolini, Vancini, Ferreri per il suo periodo italiano, Montaldo, De Seta, Orsini e i Taviani, Gregoretti, Bertolucci); il rilancio di altri (Monicelli, Germi, Castellani, Zurlini, Pietrangeli...) tesi a voler dimostrare una loro rinnovata vitalità; e il tentativo di alcuni dei vecchi di non perdere il posto e d’impadronirsi anzi di una poltrona più larga, adatta alle nuove dimensioni loro e dell’industria del cinema. Il periodo che seguirà — grosso modo dal 1963 al 1968 — è caratterizzato, s’è detto, dalla presunta morte delle ideologie, della presunta fine d’ogni pro­ spettiva rivoluzionaria europea, dal presunto trionfo della tecnocrazia, dalla presunta eternità della coesi­ stenza pacifica, dalla presunta e duratura conciliazio­ ne tra i quattro mitici santi di quegli anni (papa 76

Giovanni, Kennedy I, Kruscev e Togliatti). Chi s’in­ teressava alla recessione, al gatto selvaggio, alla Cina, a Berkeley e ai situazionisti, a Malcom X e a Marcu­ se, se non pochi gruppetti di irriducibili e nordici fa­ natici che non avevano capito che il gioco ormai era quello degli apocalittici o degli integrati o dei rifor­ misti — e che altre posizioni erano assurde, ridicole, o meglio, con parola troppe volte sentita, “superate”? Nell’orgia di voluttuosa e redditizia sconfìtta che do­ minò in quegli anni la cultura ufficiale, e di noia, gio­ co di smorta "avanguardia,” sfarzo di mode seman­ tiche e semiologiche e strutturali — consumismo in­ continente — i registi cercarono di stare al passo, in­ capaci o ormai totalmente inadatti a un discorso co­ mune, su basi e propositi comuni, individualizzando all'estremo le loro posizioni, facendosi “autori" come mai lo erano stati, in un profluvio di dichiarazioni, interviste televisive e giornalistiche, e, per chi poteva, anche poesie e saggi in proprio o accortamente sti­ molati (si pensi a quanti divertenti seminari su An­ tonioni e l'incomunicabilità, alla sterminata produ­ zione cartacea di Pasolini, all’istrionica abilità pub­ blicitaria di Fellini). Nascevano le superstar, e le pri­ medonne della regia. Degli altri, se si esclude il pro­ gressivo rigore e la progressiva misantropia di Mar­ co Ferreri, l’improvvisa fiammata dei Pugni in tasca, e la malinconica sconfitta di Prima della rivoluzione che annunciava in Bertolucci la stessa fine del suo protagonista, non ci fu posto per altri exploits e per azioni in profondo. Dopo i gentili Fidanzati, presi purtroppo nella spirale di sentimenti in beata armo­ nia con la realtà circostante, anche se questa era quel­ la delle nuove industrie del sud, Olmi si buttò in chie­ sa e TV e divenne imo dei più preteschi dei nostri registi; De Seta si fece psicanalizzare da uno junghia­ no e ce lo raccontò per filo e per segno, per poi pas­ sare da quel divano agli esigui salottini di una Liala francese lettrice dell’"Express"; Petri si lasciò cor­ rompere da Sordi, dalla fantascienza romanesca e flaianiana, e dalla facilità dei western progressisti sul­ 77

la mafia; Maselli illustrò decorosamente Gli indiffe­ renti e cadde di piatto nelle trappole della commedia sofisticata (coi bovini Vitti e Sorel che pretendevano imitare Marlene e Cooper, mentre lui, Maselli, era ovviamente Lubitsch); Vancini si sfogò della sua insipienza prendendo a calci un juke-box colpevole della fine delle illusioni rivoluzionarie e delle Stagioni del nostro amore', tutti o quasi tentarono il loro western-spaghetti con tanti morti ammazzati e torturati e tanta rivoluzione messicana; Rosi si pre­ stò a Blasco Ibanez e alla Loren; e Pontecorvo tentò il suo colpo d’oro con La battaglia d’Algeri, accurata­ mente calibrato per piacere anche ai burocrati algeri­ ni e a Charles De Gaulle!, la commedia all’italiana si imbastardiva dalla satira di costume (Il sorpasso, I mostri, La visita...) a forme di neoqualunquismo at­ traverso le quali Sordi, Gassman e Tognazzi, supe­ rato lo scoglio dell’antifascismo e del moralismo PSI, potevano infine tornare a mostrarsi per quello che sapevano di essere: rappresentanti e specchi di una borghesia tendenzialmente fascista, nel migliore dei casi sfruttatrice, parassitarla, ignobile, disgustosa. Era morto Togliatti. Più film cantarono il disorien­ tamento successivo per dei sopravvissuti assai poco sovversivi. Linee di politica culturale non ne esiste­ vano più: restava la moda, il gioco delle influenze, e soprattutto lo stimolo del mercato. Nei migliori: le pulsioni di una forte individualità, o le incertezze e il casino trasferiti in film d’incertezza e casino. Ma questo è un altro discorso, ancora attuale, e sul qua­ le bisognerà tornare più a fondo. All’orizzonte non apparivano forze nuove. Dei debutti del 1963-67, ci fu ancora Brass (che prometteva molto con un pri­ mo film sinceramente anarchico, e che dimostrò coi successivi ima grande disinvoltura o smania di ven­ dersi e più tardi gli aspetti più pseudo-beat, da artistoide di Brera, della nostra realtà pseudo-anarchica e, in realtà, ancora una volta qualunquista), ci fu Nelo Risi, poeta decente e di monotona moralità e ci­ neasta in cui la moralità si scioglie in lacrime signo­ 78

rili, e più tardi il secondo debutto (il primo l’aveva fatto con Marisa Allasio e Camping) di una delle due pale laterali di donna Jacqueline Kennedy-Onassis (l’altra, altrettanto squisita, è Truman Capote) di un decoratore vistoso e allegretto, Franco Zeffirelli. A parte i rarissimi morsi alla coda non potendo e non sapendo (o non volendo) mordere quella dei padroni, si viveva dunque nel mondo triste ma co­ stante (e per i nostri registi molto comodo) della “fine dell’ideologia,” di uno status quo che sembrava agli autori consolidamento stabilito e immutabile della società e della storia, poiché la storia aveva rag­ giunto un aspetto di equilibrio inamovibile pena la fine per entrambi i campi imperialisti (sono gli anni del ricatto atomico) e perché, ovviamente, la socie­ tà industriale unificava le classi sulle basi di un ge­ nerale imborghesimento. Restava la pacata denuncia, la tristezza senza speranza, l’elegia adolescente, l'amore-odio per il consumo, il superspettacolo storico, la psicanalisi, la volgarità delle pance tonde. La storia s'era fermata, quel che ancora succedeva era un fe­ nomeno di aggiustamento; tutt'al più, si poteva ipo­ tizzare al bar l’avvento del terzo mondo e della nuo­ va barbarie fanoniana. E se è vero che “chi è vivo non dica: mai,” il Brecht di quegli anni era però quel­ lo processionale e pomposo del compagno Strehler. In realtà, il centro-sinistra stava compiendo bene la sua opera. Lo sfilacciamento di una intellighenzia di sinistra avveniva senza colpo ferire, senza traumi e senza danni. Non c’era bisogno di ridurre al silenzio, nessuno, dato che — in questo settore e in generale in quello dell’“arte" e della "cultura” ufficiali — nes­ suno protestava, o se lo faceva era su questioni to­ talmente secondarie, dispute tra servi miranti all’ab­ bassamento del rivale per aver più spazio, o tenden­ ti al rialzo del prezzo della loro vendita. Una "nuova generazione" di docenti, dirigenti, intrallazzisti e nul­ lafacenti è assorbita dalla TV, dalle case editrici, dal­ la stampa dei padroni, dai ministeri. Come aveva scritto con significantissimo lapsus 1'"Avanti!” nel 79

giorno trionfale della nascita del centro-sinistra, "nuo­ ve possibilità di impiego si aprono ai socialisti" e ai loro compagni di strada. Certo, sarebbe sbagliato far risalire al centro-sini­ stra la responsabilità di questa frana massiccia di te­ ste, o anche, più in generale, la situazione della si­ nistra. Ma è altrettanto certo che il decadimento del­ la vecchia sinistra è strettamente legato all’assorbimeno di una vasta fetta di essa nel potere, e alla col­ laborazione sempre più spinta della parte che restava fuori (cioè del PCI) allo stabilirsi di una realtà di sostanziale spartizione dei compiti all’interno di uno stesso gioco e di fini tutto sommato comuni. Per l’intellighenzia italiana, l’opportunismo e l’evasione non hanno più necessità di mascherarsi, e si fanno, se cosi si può dire, limpidi. Nel cinema, non vedia­ mo, come taluno, una sorta di scissione tra il mo­ mento della preparazione al centro-sinistra — e cioè gli anni del '59 al '62 con la loro fioritura di film e di interessi nuovi o rispolverati — e quella della suc­ cessiva decadenza: essi ci sembrano al contrario estremamente legati, il secondo conseguente necessa­ riamente al primo. Quel rinnovamento infatti aveva un colore molto preciso, e stimoli molto fiacchi: una volta allontanato il pericolo fascista, il monopolio clericale, la censura, la penuria di beni (in senso di standing individuale che era ancora relativamente basso per molte di quelle persone), quali stimoli suc­ cessivi avrebbero potuto esserci? La mancanza di fiato di quelle idealità e la meschinità integratoria di quel progetto erano stati accolti: non restava che goderne; e tanto più mediocre la spinta, tanto più mediocre il rapporto che si stabilirà con la nuova situazione. Il logoramento delle funzioni dell’opposi­ zione non può che coinvolgere le ruote secondarie del carro; la generica richiesta democratica non può che, ottenuta, lasciare il posto a una spirale di nuovi cedimenti la cui unica risorsa "positiva" è esibita in una vaga forma di coscienza infelice — più recitata che reale. La liscia e scivolosa superficie apparente 80

del benessere — a cui crede chi vuol credere, chi non ha rapporti con la realtà storica e sociale, con la ve­ rità del tempo e delle masse — provoca in tal mo­ do un abbandono a ciò che si crede e si pretende essere "la realtà" e alle ondate alternate, ma molli, lente e sterilizzate, allo sciabordio mosso da lievi venticelli di destra e di sinistra — di sinistra generi­ ca, di destra nei fatti. Di tutto questo, nel cinema, colpisce l’incapacità ad andare più a fondo, a scavare dietro la superficie, a scoprire i contrasti, a prevede­ re i tempi. A capire. Formalmente, è incapacità di ab­ bandonare il vecchio terreno delle convenzioni stabi­ lite, e del pur povero lascito di un neorealismo im­ bastardito, ed è incapacità a impossessarsi di nuovi modi e nuove tecniche — perfino di quelle abbastan­ za innocue della nouvelle vague. Politicamente, è in­ capacità di cogliere i nodi reali dei conflitti, che tut­ tavia esploderanno ben presto, con immensa sorpre­ sa di questi intellettuali, e che sono già tutti in cam­ po, e di cui esistono già, in qualche gruppo e rivista, analisi e indicazioni. Perché intanto cresce negli Stati Uniti la nuo­ va sinistra e la rivolta nera, e nel mondo la guerra del Vietnam fa esplicita a tutti la ve­ ra natura deH’imperialismo americano, e in Euro­ pa i situazionisti e i provos aggrediscono la vecchia cultura e i vecchi accademici e a Barbiana si scrive la Lettera a una professoressa, e in Bolivia è mor­ to Guevara, e nel Medio Oriente cresce la resistenza palestinese, e in Cina si scatena la rivoluzione cul­ turale. E in Italia se ne parla, se ne scrive, se ne discute, e si fanno manifestazioni su questi temi, e il movimento di nuova e rapida politicizzazione di massa dei giovani è in fase di intensa incubazione. 3. Dopo il ’68

Il ’68 dei film italiani è, paradossalmente ma non a caso, il ’69. Nel *68 i registi furono sorpresi dal 81

movimento studentesco, dal Maggio e da tutto il resto, mentre erano intenti a girare i letto soliti film. I film "nuovi" usciranno in gran fretta Tanno suc­ cessivo. Ma il loro modo di reagire alla fine della presunta fine dell’ideologia e della lotta è quello altrettanto mistificato e assurdo della fine della sto­ ria, della fine del mondo. I film del ’69 sono uno scialo di apocalissi. Il '68 era stato l’anno degli studenti, il ’69 è stato quello degli operai. I film politici saranno del ’70. Nel ’69 i registi erano intenti a realizzare le grandi catastrofi definitive. Il '70 e '71 sono anni di minore tensione. Il '71 e il '72 dei registi saranno anni di ritorno a più tranquilli binari, di nuova evasione o di nuova ma­ retta di destra, anche se il film politico è diventato nel frattempo genere. La sorpresa che si vedeva sulla faccia dei cineasti e dei critici presenti al festival di Pesaro, sul finire del maggio '68, era uno spettacolo. Pronti a fare, in coro, di Pesaro il contraltare di Venezia, a proporre una santa alleanza contro l’ala destra del sistema e a passare all'attacco approfittando e facendosi forti della contestazione studentesca che aveva mosso le acque e intimoriva per la sua ampiezza e decisione, non s’aspettavano certo di venir chiamati in causa es­ si stessi, e duramente. I tentativi conciliatori di po­ chi santoni erano destinati provvisoriamente al falli­ mento. La carica del movimento si rivolgeva tutta — in quell’occasione — proprio contro di loro, il loro passato e le loro compromissioni, la loro precedente abdicazione di fronte alla lotta. Gli studenti sembra­ vano non disposti a riconciliarsi, almeno allora, con coloro che erano comunque tra i responsabili — per interessi di vario ordine o per strategie e tattici­ smi ultrariformistici — della situazione in cui loro, gli studenti, s’erano trovati a dover agire. Non sem­ plice lotta contro i padri, dunque, almeno nei più lucidi, ma contrapposizione di una linea tendente alla rivoluzione a una che aveva scelto da tempo la 82

socialdemocrazia. A Pesaro, insomma, non si chiede­ va affatto la solita generica alleanza delle sinistre, e non si aveva niente da spartire con gli interessi cor­ porativi di una fetta del cinema italiano nei confron­ ti di un’altra più potente. Dopo le università, in giro per l’Italia, si erano contestati e occupati musei, mostre, festival, conve­ gni. Ma tanto era precisa — anche con tutto il suo interno disordine — la linea della contestazione e del­ l’occupazione delle università e delle scuole, tanto ambigua era quest’altra, che si riduceva assai spes­ so alla spinta di artisti o intellettuali emarginati o insoddisfatti della parte loro riservata dal sistema, alla ricerca di un potere corporativo maggiore e di farsi riconoscere dalla cultura ufficiale e dagli enti ufficiali della cultura come “cultura di nuova sinistra” con una sua capacità di contrattazione. La formula della lotta si concretizzava spesso in verbose, caoti­ che, impossibili assemblee, assolutamente non omo­ genee (a Pesaro l’unica omogeneità era data dal fatto di essere tutti “spettatori”: giornalisti di destra e di sinistra, fascistelli locali, operai, studenti, piccolo-bor­ ghesi, capelloni generici, amministratori comunali e provinciali, "operatori culturali” nop meglio definiti, e cosi via) e il massimo di rivoluzione consisteva per lo più nella proposta di cogestione o “autogestione” del convegno, del festival o della mostra. Non diver­ samente accadeva in Francia, dove negli "Stati Gene­ rali” del cinema nati nel maggio e dopo la contesta­ zione di Cannes, erano confluiti inizialmente perfino noti uomini del sistema come il reazionario Truffaut o il regista di Un uomo, una donna, e le loro posizio­ ni erano inizialmente, prima delle varie scissioni chia­ rificatrici, più o meno le stesse avanzate dai docu­ menti italiani del PCI o dell'ANAC a proposito del cinema. Di questo stesso tipo sarà la quasi comica “contestazione” veneziana, a qualche mese di di­ stanza. Le posizioni del MS a Pesaro erano assai più se­ rie anche se, necessariamente, non approfondite e 83

tendenti innanzitutto al rifiuto dell’embrassons-nous proposto dalla vecchia alla nuova sinistra. “Nell’am­ bito del cinema come in altri settori culturali/’ di­ cevano i documenti del MS, “un sistema politico a capitalismo complesso alla ricerca di una sua razio­ nalizzazione, come è quello italiano, contempla sia una struttura puramente commerciale-consumista, immediatamente funzionale, sia delle frange di co­ pertura ideologica che hanno lo scopo di: a) prospet­ tare pseudo-alternative che possano contribuire al­ l’ammodernamento del sistema; b) garantire agli intellettuali una palestra di esercitazioni inoffensive che forniscono l’illusione di una pseudo-autonomia, alibi oggettivo per la loro effettiva integrazione. In questo modo il sistema attua, relegandoli in un oriz­ zonte specializzato, una delle sue esigenze organiche: la divisione del lavoro, caratteristica fondamentale della società capitalistica e termine di verifica delle società che pretendono di attuare il socialismo. Ciò facendo, il sistema ottiene anche la canalizzazione di possibili istanze contestative all’interno della specia­ lizzazione: l’impulso a cambiare il mondo viene tra­ sformato in azione di aggiornamento-modificazione delle strutture espressive." Pesaro, nei suoi quattro anni di storia precedente, era stato un vistoso esem­ pio di questa linea, nato nell’ombra del centro sini­ stra ma con il sostanziale apporto del PCI e teso alla difesa di un cinema “indipendente" non meglio iden­ tificato nella sua “novità," e comunque accettabile a scadenza più o meno breve dal sistema nell’ambi­ to di una "differenziazione del mercato” cui si va già incontro anche sul terreno culturale, in un contesto di politica economica che ripropone una continua di­ fesa del capitale statale, piccolo, nazionale (ma dopo il ’69 il PCI andrà ben oltre), nei confronti di quello privato, grande, americano, portata avanti come li­ nea strategica, di fondo, in accordo a tutta un’impo­ stazione parlamentaristico-democratica. All’interno di queste caratterizzazioni, il festival (e la “sinistra del cinema”) era accusato di aver “con­ 84

centrato tutto l’interesse teorico delle tavole rotonde sull’analisi linguistica del film, attraverso relazioni di addetti ai lavori o di improvvisatori. "Quest’uso dell’analisi linguistica riflette un concetto dell’arte come specializzazione,” continuavano i documenti del MS, "e l’individuazione dell’essenziale dell’opera nel­ lo specifico stesso. In questo modo si realizza una neutralizzazione ideologica del discorso, sottraendo all’attività artistica e culturale la possibilità di vei­ colare istanze e significati eversivi. L’opera viene ad essere cosi considerata come una combinazione fun­ zionale di materiali, e la sua analisi ridotta a una verifica del suo meccanismo di funzionamento, ri­ flettendo cosi le esigenze di desideologizzazione av­ vertite dal sistema.” Ciò non impedisce la coesisten­ za "con mozioni sensibilistiche misticheggianti, in un’operazione che riflette una concezione dell’opera d’arte come assoluto attraverso la quale la borghesia, nel momento in cui riduce tutto a merce, si crea un alibi nobilitante e spirituale, e di autosublimazione nell’idealizzazione dei valori assoluti.” Si proponevano infine, sul piano dell’elaborazione teorica, queste ipo­ tesi di lavoro: “a) una funzione non oggettiva nel co­ stante rigetto della mistificazione della neutralità e della libertà della cultura; b) un aperto rifiuto del­ l’ideologia della specializzazione-competenza dell’in­ tellettuale; c) la necessità del giudizio politico, anche fazioso e settario, per verificare, chiarire e motivare le ipotesi di lavoro culturale.” Le definizioni di quel documento non risolvevano certo i problemi che trattavano, ma nella loro sec­ chezza erano perentorie nei rifiuti delle gabole e delle tonnellate di autodifese che la critica, i registi, i fun­ zionari del cinema "di sinistra” avevano sino ad allo­ ra avanzato: quelle corporative e categoriali, come quelle della libertà dell’espressione artistica e della rivoluzione nelle forme (senza mai specificare quale "rivoluzione” e a quale fine, in quale legame con quel­ la vera, quella da fare nelle strutture economico-po85

litiche, che era invece costantemente taciuta e nega­ ta, inesistente anche come mera ipotesi). I documenti mettevano anche le mani avanti ri­ spetto agli ancora scarsi teorici dell'" arte rivoluzio­ naria." Tranciando provocatoriamente nella questio­ ne, si affermava che "in una società borghese, la cul­ tura, anche quella che si inserisce nella tradizione progressista della cultura borghese e si propone di contestare e demistificare il sistema, rimane pur sem­ pre borghese. L’unica reale alternativa si pone prio­ ritariamente a livello strutturale e non a livello sovrastrutturale. In una società schiavistica quale quel­ la borghese, la richiesta di libertà di cultura, fatta dalla categoria degli intellettuali, è chiaramente una illusione o una mistificazione. Gli intellettuali, schia­ vi sul piano strutturale, si creano una falsa coscienza di libertà a livello sovrastrutturale. La richiesta di li­ bertà di cultura, cioè di rendere liberi gli intellet­ tuali (ammesso che sia oggettivamente possibile) non ha alcun senso; per noi ha senso solo la lotta per la libertà di tutta la società. [...] Il ricatto che deriva dalla accusa di ‘zdanovismo’ significa proporre da un lato il problema a livello di difesa di una categoria, gli intellettuali, separata e privilegiata, e non a livel­ lo di scelta rivoluzionaria, e dall’altro individuare nel­ la libertà un valore assoluto, eterno, e non un valore storico.” Si potrebbe, oggi, rimproverare a questo do­ cumento la sua intransigenza — peraltro mitigata dalle parti successive, che non citiamo, e che conte­ nevano interessanti proposte su quale tipo di cinema era ancora possibile fare dentro il sistema e quale era necessario fare fuori, come cinema militante. Ma si può facilmente immaginare il canaio che provocaro­ no; in un continuo tentativo, però, di "non rompere,” di conciliare, di ritrovare la perduta unità perlomeno in fattori secondari. L’affannosa e spesso comica agi­ tazione degli "intellettuali di sinistra” ebbe infatti episodi grotteschi: minacciati dai fascisti e dai qua­ lunquisti del paese (amministrato da vent’anni e pas­ sa dal PCI, e "tranquillo” nel suo turistico benesse­ 86

re) dopo gli scontri avvenuti per l’attacco della poli­ zia a una manifestazione, intellettuali e artisti si ap­ pellarono al PCI, che inviò gli operai a proteggerli quando la sera dopo la proiezione sfilavano nei bar del lungomare. Episodio limite, simbolico dell’impotenza e dell’isolamento e dell’assoluta dipendenza po­ litica di una categoria e di un'impostazione che non ha mai, neanche nei limiti del periodo "nazional-popo­ lare,” saputo stabilire un concreto legame con le masse, preoccupata soltanto della salvaguardia di un ruolo ideale fatto mestiere, di cui la realtà ha accet­ tato soltanto le forme di collaborazione e di sostan­ ziale copertura del sistema o di inoffensiva pretesa di "libertà" espressiva. In quei mesi, proprio in concomitanza con "gli avvenimenti," comincia ad aprirsi per i giovani registi uno spazio improvviso e inusitato. È la moda: la "contestazione" è diventato un argomento cosi gene­ rale che i produttori non vogliono certo trascurarlo, e ciascuno si cerca il suo giovane talentoso doverosa­ mente "dissacratore." C’è stato inoltre il successo inaspettato di due film di debuttanti, Samperi e Faen­ za. E dall’America giungono notizie di travolgenti successi di un nuovo cinema della gioventù contesta­ trice, fatto con quattro soldi. È in arrivo Easy Rider, La corsa è aperta. Ma i due grossi calibri d’apertura sono fuochi fatui, filmetti incerti d’autori d’incerto futuro. Il primo, Grazie zia, si muove sulla scia dei Pugni in tasca e del Servo di Losey ricalcata con una minimissima autenticità d’umori autobiografici, ses­ so incestuoso e smania apparentemente distruttiva o autodistruttiva. Il secondo, Escalation, di Faenza, è un Risi ammodernato sul gusto e per il piacere del commendatore milanese lettore del "Giorno” ma che ovviamente andrebbe bene anche per Montanelli. Ironia? Distacco? Aggressività? Solo nella misura dell’accettabile, e il tutto ben riducibile a una pre­ sunta critica interna al cinismo di una ricca borghe­ sia reazionaria. Novità? Solo nell’uso di gadget alla James Bond, nella profusione di plastiche colorate e 87

di oggetti tardo-svedesi. La conformità inincisiva è sostanziale, e cosi anche la banalità del linguaggio. Ma si aprono delle strade — produttive, non altro — che possono permettere ad altri giovani di mandare avanti i loro progetti. Altri debutti dell’anno sono quelli di Fondato, Liberatore, Severino, Ponzi, Masso­ brio, Magni, Scavolini, Muzii, Frezza e altri ancora. La strada è aperta. Ma per cosa? I più mirano al soldo. O comunque dimostrano una fretta, una corsa all’integrazione che è la loro spinta unica o maggiore, dietro un piccolo velo di presunta origi­ nalità o spregiudicatezza o dietro un moralismo di tutto riposo. Si propongono come forze di ricambio ai livelli mediani dello schieramento registico, quello dei servi piacevoli e salottieri. Il caso è diverso per alcuni come Ponzi, Frez­ za, Massobrio, e altri rari che più tardi avranno mo­ do di seguirli, i quali tendono a un cinema d’autore, in cui l'autore ha il sopravvento su tutto e l’espres­ sione della propria poetica o della propria indivi­ dualità non scende a compromessi con niente. Felici di aver trovato una produzione interessata a coprire i margini lasciati dagli aiuti ministeriali (è il mo­ mento della “22 marzo" e di altre consimili iniziative) lanciano infine il film a basso costo, ma che sia au­ tentico film d'autore. E d’autore è, indubbiamente, anche se l'autore che ne risulta non è spesso molto rilevante. Ma lo scotto dell’autore è quello di par­ lare non per un pubblico purchessia, ma per se stes­ so o — squallido-poetica illusione — per le future “storie del cinema.” La funzione marginale dell’ope­ razione, che non investe il sistema ma si scava fettuzze alternative, per il momento dimostratesi pre­ mature poiché i cinema d’essai non si moltiplicano con la rapidità sperata, è tale non solo rispetto al si­ stema della grande produzione (cui peraltro questi registi mirano, anche se solo pochi riusciranno a intrufolarvisi) ma anche a questa marginalità: molti dei nuovi film non escono neanche, com’è il caso del Gatto selvaggio di Frezza, che non era affatto il 88

peggiore. È tale infine e soprattutto anche rispetto alla possibile definizione di un pubblico: ma, s’è det­ to, il discorso degli autori non può scendere a patti poiché poésie oblige. Nei mesi successivi i debutti si moltiplicano: in tutto, una trentina nel giro di due anni, tra quelli "d’arte” e quelli “di consumo.” Il sistema trova i suoi nuovi Zampa e Lizzani — anche se quelli continuano indefessi a lavorare (e sfornano anch'essi contesta­ zioni generali e società del bene e del malessere) — e i cinema d’essai, enti di stato aiutando, proietta­ no nei grossi centri per qualche giorno i film d’au­ tore rimasti imbobinati. I big fanno i big. Il cinema italiano attraversa una delle sue solite crisi struttura­ li, in parte abilmente orchestrate dai grossi produtto­ ri e dal capitale americano per un miglior controllo della situazione con l’aiuto dello stato. E la malafe­ de investe tutti. Ci vorrà l’autunno caldo, con la sua tensione rea­ le e la ricomparsa sull’orizzonte politico italiano di forze operaie rivoluzionarie e agguerrite forze sinda­ cali a sgombrare le acque da molti equivoci. Intanto, nel ’69, i registi si lanciano in un’orgia di allucinati pessimismi. Escono Zabriskie Point, Il seme dell’uo­ mo, H2S, Satyricon, Un tranquillo posto di campa­ gna, Sotto il segno dello scorpione, Partner, Porcile, Cannibali, e altre operazioni “totali.” L’ipotesi è la fine del mondo. Gli “anziani” (con l’eccezione di Vi­ sconti, che prosegue imperterrito per la sua strada di fumettaro a grande spettacolo) hanno finalmente afferrato una dimensione meno regionalistica e ita­ liota dei problemi, ma proprio l’angoscia che glie­ ne deriva — vera o simulata — è un nuovo esempio per molti di incorreggibile provincialismo, di inca­ pacità di afferrare il dato reale a favore del lato ap­ parente della presunta globalità. L’iper-individuali­ smo, l'approssimazione delle analisi, il salto alle gran­ dissime metafore li sposta sensibilmente verso apo­ calissi caotiche, verso genericità dai mille rischi spi89

ritualistic!, verso l’innocuità di un pessimismo dalle incerte radici. D’altra parte, con l’eccezione di due personalità eterodosse come Pasolini e Ferreri, la "generazione di mezzo," quella allevata per l’appunto da Togliatti e da "Cinema Nuovo," si dimostra come la più povera e integrata. Scivolati i più sempre più in basso, nel­ la mediocrità e nella volgarità più inconcludenti, so­ lo Orsini e i Taviani in qualche modo sembrano re­ frattari a quel comune destino, bensì dividendo con quelli e con altri il destino di “gattini ciechi” di “do­ po i funerali." L’autobiografismo e il cumulo delle mode per l’uno, la metaforizzazione più generica per altri — segno di una crisi che intendono affrontare, certo, ma per cui ancora una volta non riescono a trovare gli strumenti giusti (anche se sanno vaga­ mente intuirli, ma spesso, come altri, solo per ap­ piattirli o snaturarli) — danno per tutto risultato l'i­ pertrofia di un io assai meno rappresentativo di quan­ to si vorrebbe oppure un filosofare di troppo scarso concetto. Difetti che condividono con buona parte dei giovani registi, con l’eccezione dei cinemaniaci alla Ponzi e alla Bertolucci. Ma l’apparente coerenza di questi è funzionale solo rispetto ad ambizioni troppo laterali e distanti, ugualmente e profondamente inu­ tili. In realtà, nessuna vera personalità è venuta fuo­ ri e neanche vere promesse. Non si esce — cinema di massa o cinema d’élite che sia — da una confusa mediocrità, da ambizioni enormi e brutti o innocui risultati che spiegano in parte gli interdetti della di­ stribuzione e certo quelli del pubblico. Chi si getta a corpo morto (ma solo sulla superficie dello scher­ mo) nell’aggressione ai valori della società costituita, finendo in realtà per pestare i piedi all’infinito sui dati della propria esperienza di borghesia soprattut­ to piccola; chi con visioni lungimiranti predice la morte di questa borghesia (operazione che da cinquant’anni si ripete, mentre essa tranquillamente si perpetua assorbendo gli uni o ammazzando gli al­ tri: ma in Italia le vittime nella cultura sono raris­ 90

sime, figuriamoci poi nel cinema); chi crede di poter superare la scarto culturale esistente tra la nostra provincia e la nostra tradizione (in cinema, il neo­ realismo, nel bene e nel male), gettandosi sulle orme dei Godard, degli Straub, dei Warhol, sposando mo­ duli non rivissuti criticamente piuttosto che appli­ carne lo spirito di ricerca, peraltro già discutibile e in crisi nella sua situazione d’origine, e sempre più ruotante a vuoto, a vuoto; chi è già alla doppia mo­ rale del film da fare per far figura e del film succes­ sivo da fare per far soldi; chi si dirige si scrive si interpreta si monta uno o più film addosso con l’uni­ ca preoccupazione di "esprimersi," senza mai pen­ sare che magari agli altri quello che lui può esprime­ re può anche non interessare un bel niente; e tutti, al novanta per cento, infoiati di metafore e di apolo­ ghi, di cannibalismo volgare e di rivoluzione escato­ logica, strologanti di massimi sistemi, accesi a candeluzze di rabbia, guerriglieri dell'infinito e dell’arte tra Piazza Navona e Santa Maria in Trastevere. Ma ec­ co che le metafore risultano sempre più personali e non trasferibili, ecco che lo sbriciolamento della nar­ razione tradizionale diventa sbriciolamento delle idee e non inventa altro che fumosità comprensibili appe­ na alla moglie e a quattro amici del regista, il quale, più tardi, non avrà da tirar fuori da questo delirio che la lezione del ritorno al puro commercio o quella dell’isolamento in una romantica rinuncia da "ma­ ledetto” o dell’arrabattamento tra una forma e l’al­ tra, con dilettantismo sempre crescente. E infatti il peccato capitale della nidiata di "nuovi” del ’68-69, con strascichi che ahinoi dureranno ancora per molto grazie alla serie sperimentale della TV e al centro spe­ rimentale, è proprio il dilettantismo, l'incuranza di qualsiasi tipo di verifica, la formazione culturale o pressoché inesistente o d'una confusione sbalorditi­ va. Dati comuni, ai quali va aggiunta la comune ori­ gine sociale. È il regno della sottocultura più incon­ tinente e inconsistente. In questo, il cinema italiano 91

mantiene alcune sue belle tradizioni, ma mai c’era stato, a dire il vero, altrettanto sciupio di nuvolaglia. 4. Ritorno alla politica

Questo clima perdura, ma il ’69 ha chiarito molte cose: non si tratta più della rivolta contro i padri o contro la scuola borghese retrograda e oppressiva. Le grandi lotte operaie hanno riaperto in Italia un di­ scorso dalle possibilità rivoluzionarie. Il sistema è in­ capace di risolvere le sue crisi e la sua trasformazio­ ne urta soprattutto contro la non-collaborazione ope­ raia. I conflitti rinascono con violenza accresciuta; il riformismo mostra la corda nella sua incapacità di recuperarli; i sindacati si fanno avanti timidamen­ te come mediatori, frustrati ora dall’insensibilità pa­ dronale e della classe dirigente politica ora dall’in­ disciplina operaia; il PCI tenta il gran passo dall’op­ posizione di sua maestà alla dirigenza effettiva del si­ stema, a mezzadria coi padroni e la vecchia classe politica. I conflitti esplodono, e bisogna scegliere. Na­ turalmente, ancora una volta, l’opportunismo fa la sua comparsa. Chi raccontava crisi individuali insor­ montabili, ora che la storia si è rimessa in marcia, è pronto a politicizzarsi di nuovo, sulla linea di una ambigua adesione destinata rapidamente a mostrare il suo vero volto. Nascono, paralleli ma diversamente significativi, due nuovi fenomeni: quello del “cinema politico” e quello del “cinema militante." Il primo è tutto interno al sistema, e non può che risultarne una variante. Ma esiste, è un prodotto dei tempi, e in que­ sto senso c’è anche da rallegrarsene. Petri, Montaldo, perfino Damiani e altri ancora girano o si appresta­ no a girare “film politici" che hanno a protagonisti poliziotti fascisti, magistrati corrotti, mafie di vario tipo. E perfino operai, assenti dallo schermo da sem­ pre. È presto per dire del film di Petri, probabilmen­ te sindacalistico, ma è curioso e sintomatico che per­ fino un Sordi, quintessenza del qualunquismo, incar­ 92

ni un operaio in qualche conunediaccia di preteso costume. E con gli operai si rifanno avanti forze e settori che il cinema ha trascurato da anni. Natural­ mente quest’ingresso è a doppio taglio: raramente questi film parlano chiaro, trincerandosi piuttosto dietro il caso limite, la denuncia democratica, la ma­ fia, e al meglio i sindacati. In TV dietro i conflitti psi­ cologici e di "comunicazione." Altri, indefessi campio­ ni della cassetta e della volgarità, ripropongono si il popolo abbandonando per un tratto i loro adorati impiegati romani gassmaniani, ma questo popolo è visto allora con la simpatia del "Candido," volgare, consumista, "alienato" da quegli stessi film e da quel­ la stessa TV, da quegli stessi spettacoli di cui i regi­ sti che accusano sono i riconosciuti maestri. È il caso dei socialisti Scola, Age, Scarpelli... Sintomo di un odio e una ripugnanza per il popolo che è dei nuovi ricchi e che ha i suoi corrispettivi nel falso populismo e nel fascismo "latente" alla Celentano e alla Germi. Ci si avvia, insomma, a una radicalizzazione delle posizioni anche nel cinema, e anche se la sua funzione di mediatore impedirà a codesti to­ mi di fare sul serio le loro scelte, mantenendo aperto ogni spazio di opportunismo, a seconda del vento. Esiste anche, dopo il maggio, un cinema militante che cerca confusamente di aprirsi dei varchi, di tro­ vare un contatto efficace coi suoi reali destinatari. Anche in questo c’è confusione, ma le iniziative si moltiplicano e le organizzazioni nascono, i repertori si formano, le linee si precisano. Questo tipo di ci­ nema fuori del sistema è destinato a una notevole crescita e diffusione, via via che l’uso di mezzi più rapidi (il super 8, le video-cassette) verrà assunto co­ me utile mezzo di informazione e formazione politica da parte dei gruppi politici rivoluzionari. In questo campo le scelte non possono che essere radicali: i sindacati avranno un loro cinema militante e un loro circuito (Gregoretti ne è diventato il regista ufficia­ le, dei sindacati in blocco attraverso il PCI); i gruppi rivoluzionari un altro, o più altri. Le necessità imme­ 93

diate (di sopravvivenza) dei gruppi rivoluzionari han­ no portato ad alleanze con registi (e pittori, e rari altri noti rappresentanti di altre categorie intellet­ tuali) per averne aiuti e sostegno. L’aiuto è stato spesso dato, ma sotto il segno di un equivoco che non potrà durare: quasi di un gioco ad illudersi. Per i primi si è trattato quasi sempre di un’opera di strumentazione senza più, per i secondi di un modo di scaricarsi la coscienza e di costruirsi degli alibi che non ha il fiato lungo. Da parte loro si arriva magari anche a collaborare alla realizza­ zione di questo o quel filmetto militante, di que­ sta o quella operazione di cinema politico, ma restan­ do nella loro torre d’avorio di artisti che mediano in questo modo il loro rapporto con i gruppi rivoluzio­ nari e che in nulla sono disposti a rivoluzionarizzare il loro modo di vivere e di essere e il tipo di cine­ ma, di "discorso d’autore" che essi fanno. Questa reciproca malafede ha avuto episodi anche grotteschi (lo stesso Scola, autore di quel Dramma della gelo­ sia che non ci peritiamo a definire razzista nei con­ fronti dei popolani romani, è andato dopo poco tem­ po a girare il suo bravo filmetto politico davanti a Mirafiori, si dice) e soprattutto rischia di risolversi in un gioco confuso e sterile, quando invece potreb­ be costituire la base per iniziative di progressivo in­ teresse dei gruppi rivoluzionari per le possibilità del­ la "cultura," e dei registi per un loro più sincero (e per ciò stesso più autonomo e profondo) rapporto con la realtà politica del nostro tempo. Sincera o no, la crisi che molti registi, molti artisti hanno dichia­ rato nel '68, dopo il movimento si è risolta nel loro passaggio o alleanza dal gruppo più di moda sul mo­ mento a un altro che, nella voga, lo sostituiva. Inca­ paci di una riflessione politica e di una conseguente scelta, molti si sono aggrappati ai leader più abili per averne lumi ed essere "in.” Contemporaneamente perseguendo la loro consueta pratica quotidiana e senza che di tutta questa "trasfigurazione" nulla tra­ sparisse nell’opera. La fragilità ideologica e politica 94

dei più sinceri o dei più svegli tra i registi ha avuto modo di venire pienamente dimostrata. Ciò non to­ glie che la loro crisi sia stata spesso verace e che sia possibile tra loro e i gruppi una collaborazione pro­ duttiva per entrambi. A patto che la "crisi" non si ri­ solva in "nuove” forme di falsa coscienza. Anche in questo la situazione si radicalizza. Oggi è possibile affermare di noi e degli altri da un obiettivo politico non settario ma determinato — do­ po il '68 e dopo il '69 e soprattutto di fronte alla pro­ va del provvisorio ristagno, della ricomparsa bene orchestrata di ideologie e gruppi di destra, della forza del revisionismo e del riformismo — da che parte si sta, con chi e per cosa e come si vuol lavorare. Ma questo è da dimostrare non solo nell’appoggio ad un gruppo, ma nel cercare realmente un contatto con la politica e con le lotte fuori dagli schemi troppo fa­ cili ed evasivi dei "compagni di strada”; e va dimo­ strato anche e soprattutto, per i cineasti, nel tipo di cinema che si farà, per chi e come e a che fine lo si farà, in che modo la politicizzazione saprà tro­ vare le forme adeguate e nuove per esprimersi.

5. I tre cannoni Tre sono i registi, anzi Artisti con FA maiuscola, che il cinema italiano impone sui mercati intemazio­ nali e che internamente entusiasmano il pubblico e la critica delle prime, prodotti da Oscar e da Nastri d’Argento, da Festival e da Museo, e i loro nomi sono ben noti: Visconti, Antonioni, Fellini. Non hanno tra loro che questi punti in comune: l’estrema individua­ lità artistica che fa si che non facciano scuola, non abbiano figli né imitatori; che abbiano ingaggiato in modi simili una stessa lotta per il successo sulla base di efficientissime ricerche di mercato; che i loro film siano costosi e ricchi alla pari dei supercolossi americani. Ma diversamente da quelli, questi sono "opere d’arte,” riflessioni globali e profonde sulla 95

Storia, sulla Vita, sul Mondo e sull’inconscio, sulla Natura e sulla Società e, e qui dovrebb'essere il se­ gno della loro Nobiltà, sulla Decadenza e la Morte o una indefinibile e stratosferica Rivoluzione. Barac­ coni diversamente controllati, i loro film hanno in comune una superiore forma di kitsch che avvilisce e mortifica i grandi temi che toccano, e la spettacola­ rità dell’impresa come l’ambizione calcolatissima ed esterna ai rischi finanziari ed artistici e, ovviamente, personali. In essi la solennità è legge anche nei risvol­ ti vivaci di un Fellini, l’imposizione al pubblico di una atmosfera sacrale dello spettacolo che vedrà è d’obbligo: si sappia che si sta per assistere a qual­ cosa di grande e di maestoso, ci si tolga il cappello e magari anche le scarpe: il cinema si trasforma in tempio per offizi maggiori, immani messe cantate per le quali la dovizie dei paramenti e la materia dei sal­ mi non hanno da venir messe in discussione. Dei tre, colui che più gioca sul sicuro è senz’altro Visconti, il metteur en scène per eccellenza, l’illustra­ tore perenne di un Ottocento che solo la furba stol­ tizia togliattiana- ha potuto far prendere per nostro contemporaneo. I suoi melodrammi "neorealisti” o "realisti" di autonoma invenzione e costruzione (ma su stampini stabiliti anteguerra, quella del '14) si ri­ velano vieppiù come sterili e magniloquenti fumetti come, per altri e non dissimili cammini, ma con me­ no sacrale presunzione, Hollywood ne ha dati con Minnelli e Sirk, rispettabili e comunicanti nella furio­ sa gestualità delle passioni mimate e immimetiche alla pari dei nò giapponesi. E il resto è regia scalige­ ra, su preferenze registrate dall’arco di scontro tra slancio verdiano e fine di un’epoca. Visconti aspira al romanzo. Un tempo era la parvenza esterna del ro­ manzo progressista ad attrarlo — in concomitanza ad un’epoca. Ora è il romanzo di sangue e lussuria, di incesto e perversione, di decadenza e morte. Un tempo mascherava la sua aristocratica estraneità ai problemi sociali contemporanei con soggetti anch'essi ricalcati sulla formula del romanzo ottocentesco, 96

ma di cui erano protagonisti pescatori e contadini, e affermava d’identificarsi con il risorgimentale Ussoni quando tutto il suo interesse e la sua relativa passione e identificazione si rivolgeva alla contessa Serpieri. Vi si costruirono sopra teorie oggi risibili (dalla cronaca al romanzo: ma quando è stato crona­ ca? e quale romanzo?). E tuttavia l'epoca gli era pro­ pizia, e qualcosa ne restava nei suoi film, che oggi si perde alle visioni successive. Resta infatti l’esterio­ rità, tale anche quando infine il suo interesse, giunta la maturità e finite le preoccupazioni di piacere a tutti, lo ha aiutato a spingersi sul suo terreno predi­ letto, e scegliere al finto ottimismo la mediocrità di una piatta visione della decadenza. Piatta, perché non sono suoi autentici maestri né Mann né Dosto­ evskij, né Proust né i tragici greci, bensì Verdi e D’Annunzio, l'uno nella passionalità, qui fatta mera recitazione del grido, l’altro nell’attenzione decora­ tiva e nelle sontuose sinuosità della regia. Illustratore, dunque, e divulgatore scolastico dei sacri testi della letteratura borghese, e soprattutto di quelli che meno ne necessitano. La caduta degli dei, morbosa e tesa saga dei Buddenkrupp, è un im­ pasto divertente dei riferimenti più strambi, da Do­ stoevskij a Shakespeare, da Verdi a Wagner, da Ster­ nberg agli espressionisti, da Mann all’Agatha Christie dei Dieci piccoli indiani, di cui un dialogo somma­ mente ridicolo e una musica zivaghiana scoprono l’in­ tima inefficienza: formula abile e meccanismo pro­ vato, il cui scopo è la cassetta. Anche qui, per i gon­ zi "di sinistra,” non manca il richiamo politico: l’or­ rore della svastica, la fine di una certa borghesia ca­ pitalistica. Ma anche qui il gioco si svela con solare chiarezza: muoiono i Krupp e trionfa il nazismo, dice Visconti, e invece, guarda caso, è morto il na­ zismo e trionfano ancora i Krupp. I critici che hanno parlato per il Visconti recente di "fascino della decadenza" devono aver visto un film diverso da Morte a Venezia, poiché anche que­ sta conclusione il film la preclude, con la sua frigi­ 97

dezza decorativa, senz’anima e senza partecipazione. Il rapporto tra fiduciosità prussiano-borghese e ten­ tazione della decadenza, Visconti lo ha appiattito e “spiegato” con interventi estranei al corpo manniano di pura funzione divulgativa, riducendolo a dibatti­ to tra due concezioni dell’arte: quella ascetica che cerca la bellezza nelle forme come volontà di purez­ za, e quella, morbosa, che la vita stessa propone. Il realismo scenografico di Visconti esclude ogni possi­ bilità di allucinazione e visionarietà, riduce Tadzio a giovanottino tentatore, e appiattisce ogni sfondo, nei tutto-pieni abituali di tende e di ninnoli. Fa della riflessione di Mann sull’artista borghese e sul borghe­ se e della loro connaturata tentazione decadente una lezione esternamente preziosa quanto internamente vacua di lettura di un classico — che pure dichiara da sempre congeniale — e ne esclude perfino quella ironia, quel distacco ai quali perfino Mann credette necessario ricorrere nella sua narrazione. Illustra e divulga, e fa male entrambe le cose, poiché la sua illustrazione è infedele ed arretrata persino rispet­ to al testo che ha scelto, e la sua divulgazione è ri­ duttiva e banalizzante, tradente senza per questo portare nell’opera prescelta alcunché di nuovo e di proprio. Anzi, l’impaglia e mummifica togliendone i succhi vitali. Accademico per eccellenza, maestro in antiquariato, il suo cinema è uno dei meno pre­ senti al tempo e alle sue passioni, alle cose e ai lo­ ro significati. C’è veramente di che sorprendersi per la devota attenzione di cui ancor oggi lo si lusinga, se non fosse per 1’"autorità” che il tempo gli ha da­ to e che egli stesso si è presa, fatta della superficie di una burbera "dignità” di aristocratico reaziona­ rio, buona ancora a imporsi solo sui tapini di ima critica in caccia di briciole altisonanti o i servi di professione di cui il mondo del cinema, come un interno viscontiano, è zeppo. Antonioni, un tempo tormentato rappresentante di problemi e tematiche che il conformismo neorea­ lista e nazional-popolare rifiutava, è stato il primo 98

regista, dopo Rossellini, a liberarsi dalle secche del neorealismo e per qualche tempo istintivamente a comprendere la novità del neocapitalismo — coglien­ done i primi soffi, e subito immaginandoli e viven­ doli come nevrosi. Mentre Visconti faceva Rocco, e Fellini il pazzo calderone cattolico della Dolce vita, egli aveva già girato L’avventura, punto più aperto e maturo di una crisi che doveva essere per lo spet­ tatore apertura alla migliore comprensione dell’universo e della crisi borghese. QueU’istmtiva partecipazione poetica si andò ra­ pidamente deformando in maniera, e scivolò fino alle grottesche volgarizzazioni del Deserto rosso. L’impas­ se fu allora evidente: ma piuttosto che confrontarsi col “nuovo mondo” della trasformazione neocapitali­ stica in via di vera realizzazione (troppo pieno di contrasti perché egli potesse accettarlo e faticarci in analisi), e non già realizzato senza scosse e già to­ talmente "domani” come la Ravenna del suo film pre­ tendeva e non era, egli preferì la tangenziale del viag­ gio all’estero, e un’internazionalizzazione abile, anche allegra, ma non più sorretta dalla biografia e affatto abbandonata dalla modesta cultura e capacità d’ana­ lisi che egli aveva. L’istinto, come per molti altri, non bastava più, e Blow-up fu un gioco di apparenze e scarse verità, la dichiarazione di incomprensione di una realtà sfuggente, nascosta e complicata dietro le bravure tecniche, le perizie coloristiche, le trappo­ le del giallo. Accumulava sull’aneddoto pretese a inu­ sitate profondità, tutte austeramente accennate die­ tro la moderata stravaganza del soggetto: i rapporti tra arte e realtà (la fotografia come cinema ed arte), i rapporti tra realtà e apparenza, i dati più invadenti ma anche i più esteriori della società del benessere: feticismo, disinteresse, edonismo... Ma: la conclusio­ ne che l'unica realtà è quella dell’artista è stupida e vecchia; il tentativo di penetrare l’apparenza dimo­ strava come l’apparenza avesse invaso il tutto, e pre­ cludeva ogni chiave d’interpretazione a favore di una confusione piacevole, solleticante le più abban99

donate ed equivoche delle interpretazioni; e quello che di generalizzabile il film finiva per dare non era altro che una congerie di minimi elementi di costu­ me o di cose, sfumanti nell'eleganza della foto. Non contento della puntata inglese, non appena l'America fu di gran moda e qualcuno gli ebbe pre­ stato le opere di Marcuse con un certo ritar­ do, eccolo partire per gli USA per un'impresa dal budget degno dei vecchi film di Stroheim, per dire con megalomane vastità d’orizzonti cose che si sarebbero potute dire altrettanto bene e forse meglio con mezzi più modesti. Ma egli è “Antonioni," Blow­ up ha incassato miliardi, e tutto gli è permesso. Dun­ que, parla dell’America. I buoni dicono che si tratta di un film personale e che l’America c’entra poco. Ma perché scomodarla, e perché essenzializzare al­ lora in aneddoto pluri ed ultra-significante tanti ele­ menti cosi pienamente attuali, americani, grossi, coin­ volgenti tutti i grandi temi del momento, dalla ri­ volta giovanile alla società del consumo alla violenza americana? In realtà, nonostante le sue caute dichia­ razioni, egli ha proprio cercato di essenzializzare una materia enorme, di offrire il succo di una svolta storico-sociale di immensa portata, della fine di un mito e della faticosa nascita del nuovo. Ha fatto ri­ corso al sogno all’utopia alla profezia, all'astrazione attraverso la fiaba. Ma pochi registi sono meno por­ tati all’astrazione di lui, fondamentalmente sentimen­ tale e incapace di cercare e scoprire il filo non tanto segreto ma certo dialettico di una analisi determina­ ta. Finora, fino ai deteriori simbolismi del film ra­ vennate e di quello londinese, si era giustamente li­ mitato a narrazioni di comportamenti di per sé il­ luminanti, non a piccole storie con pretesa di "illu­ minarsi" di grande visione storico-filosofica-sociologica. Senza un metodo d’analisi e giustamente insoddi­ sfatto dei suoi vecchi mezzi, ha ondeggiato alla ri­ cerca di un modo più denso di affrontare il magma impressionante e sconvolgente che gli stava di fronte e ha cercato di ridurre il tutto a una fiaba che fosse 100

estremamente significante, eppure immediata nella sua assoluta semplicità. Ma la semplicità non poteva essere in questo caso che dono degli dèi della storia, e la fiaba, stemperata in moralità da favolello, si è tutta squagliata in banalità priva d’immedia­ ta pregnanza come di quell’ambiguità (produttiva) che potesse permettere livelli più ricchi di lettura. Per trovare il giusto rapporto tra metafora e reali­ smo, ha fatto ricorso essenzialmente alla sua vena “poetica,” molto più che non all’analisi e alla sua concretizzazione non-riduttiva in soggetto, convinto come sempre di poter arrivare al fondo dei fondi dei problemi per grazia di istinto. Il suo film è cosi un deserto in cui un'esile traccia porta a panorami noti e gonfiati: una carrellata di luoghi comuni del ci­ nema d’analisi americano, della contestazione gio­ vanile, del teatro e del cinema off-B roadway e offHollywood, che provocano una tremenda impressio­ ne di già visto e già noto, con la differenza che que­ st’operazione di presunta sintesi, quest’evasione nel­ la totalità non mediata è estremamente più presun­ tuosa e dunque più irritante di tutte le cose che ri­ corda o manipola. L’inutilità dell’operazione (e la sua enormità) dimostrano ancora una volta come scarsi e a buon mercato (ma ad alto compenso: si parla di trecento e passa milioni, e il film è costato quattro miliardi e mezzo!) siano il preteso rivoluzionamento e la pretesa sofferenza di certi registi. Legato ai di­ sagi esistenziali e borghesi di un'epoca ferma e coe­ sistenziale neocapitalistica, apparentemente priva di futuro non “alienato,” Antonioni ha creduto come tanti altri “poeti" prima e dopo di lui che il suo di­ sagio potesse rappresentare perennemente quello del mondo e della storia e non fosse invece al massimo quello di una classe in un tempo preciso e si è preso sempre più sul serio, narciso addolorato ed altero. Quando ha visto che la storia risconvolgeva le carte, ha tentato disperatamente di mettersi al passo, ma senza riscoprire affatto i valori della modestia. Non gli bastava forse essere poeta per afferrare e poi ren­ ici

dere il tutto e l’essenza di un’epoca e di yna civiltà? Altro che "profezia rivoluzionaria”! Irrimediabilmenre "out” (che non crediamo in una sua capacità di ri­ voluzionamento reale) non può che rimescolare il no­ to, col tocco leccato di un fotografo di "Vogue," la dottorale sbrigatività di un editorialista di "Life” e la cattiva metafisica di un film di Antonioni, e quando i suoi pensum non fanno gridare tutti al capolavoro, rinchiudersi nelle sdegnose e inutili pose dell’artista incompreso. Confessiamo, tra i tre cannoni, la nostra prefe­ renza per Fellini. Egli, almeno, si presenta e si ma­ schera da clown, si fa direttamente spettacolo buffo­ nesco per una borghesia avida di finte magie e di giocolieri dello strano. Per di più, non ha particolari motivi per impressionarla e spaventarla; se Visconti nasconde con la finta aristocraticità dell'artista e la grande pretesa del romanzo la sua capacità di me­ scolatore di ricette; se Antonioni si fa tragico o iera­ tico evocatore di sciagure semplificate e spiegazzate; Fellini, che è apparso come tra tutti il più mistifi­ catore, in realtà è quello che più rispetta le regole del gioco: sbalordire, sorprendere, barare fino in fondo con la carta dello spettacolo e, di più, farsi spettacolo egli stesso. Senza intimorire: sotto, si continua a sentire il romagnolo di casa nostra, con la sua cultura raffazzonata, il suo fondo cattolico, il suo amore per le belle cose e la buona tavola, e an­ che, di recente, con la sua paura dell'infarto. Mostro casalingo e riconoscibile, fenòmeno da baraccone che tale si è voluto e tale accetta di essere, egli ha tut­ tavia acquistato un minimo di spessore proprio in questi ultimi tempi, quando ha abbandonato le facili dicotomie della grazia e della brutalità, di Gelsomina e Zampanò, di Cabiria e l'impiegato, delle cameriere umbre e della fauna di via Veneto che affliggevano i suoi vecchi film, e che si riducevano, per uno sguar­ do più largo, a un conflitto di puri e peccatori. Ma già ne La dolce vita s’inseriva nel suo stile in­ certo, fatto di pause e di sobbalzi, un che di visiona­ 102

rio, di soggettivo e allucinato, che i film successivi do­ vevano dilatare fino all’onirismo drogato del Satyricon. La fuga nel simbolo, da sempre presente (Gelsomina e Anitona e tutti quanti) trovava un freno prov­ visorio nella "confessione” (clownesca) di Otto e mez­ zo. Di fronte alla critica mai contenta e all’incapacità manifesta di un controllo teorico purchessia sui suoi film, rivendicava fino in fondo "il diritto alle proprie contraddizioni,” aprendo in questo la strada a Paso­ lini e a tanti altri. L’arbitrio di Otto e mezzo, film tutto di privacy e di autoesaltazione con strizzata d’occhio, conciliatorio con tutto e con tutti in difesa della necessariamente caotica e indiscriminante vi­ talità della vita, si permetteva di escludere il mondo, di non trattarlo. La psicanalisi e la farandola, la gio­ stra e un po’ di blanda magia: anche la propria im­ potenza creativa era pretesto creativo, le proprie mi­ serie pretesto a spettacolo. Con Giulietta degli spi­ riti tentò di raccontare un'altra psicanalisi: quella della moglie — e penetrò abbastanza a fondo nell’uni­ verso mentale di una sciocca provinciale divenuta nuova ricca. Ma altro è raccontare se stessi e altro entrare nelle fantasie degli altri e raccontarle. Tra soggettività e oggettività nasceva solo approssimazio­ ne ridicola e mostruosità gratuita ed incerta. Poi, dopo un lungo silenzio, ecco Toby Dammit, che pur ricalcando un poco La dolce vita era però ormai tut­ to onirico, tutto allucinato e distorto, e senza più al­ legria, ma solo orrore di morte e cupezza di fine. Fellini era pronto per il Satyricon (a cui i Clowns non aggiunge se non una nuova discesa tra i fantasmi infantili e un tentativo di sbeffeggiare nella morte del clown la propria morte). Da questo film malfatto, incontrollato, dove come non mai si rivela l’incapacità di Fellini a costruire un insieme, a legare le parti isolabili e a dare un unicum se non per iterazione e mono-insistenza, il "mondo” reale è scomparso persino cronologicamen­ te. Siamo alla fine di un'era pagana che, cattolica­ mente, è vista come notte senza fondo, medievale e 103

buia, caotica e informe foresta irta di simboli e ne­ ra, nordica, per niente meridionale. Come un incubo di ricerca ai confini della civiltà e della morte. Sia­ mo del parere opposto a quello di chi non vi ha visto attualità: no, Fellini ha voluto fare un film sull'oggi, o almeno sull’oggi quale lui se lo immagina. Ne La dolce vita si insisteva sin troppo sulla stagnazione depravata di un mondo che ha perso i suoi valori e non sa riconoscere quelli veri e tradizionali (vec­ chissimi). Qui, il caos della fine di un mondo non prelude a un ritorno al passato ma ad un nuovo in­ distinto, alla cui ricerca il protagonista si muove senza troppo averne coscienza. Un errore la costru­ zione del film dimostra, una delle massime incon­ gruenze, proprio nell’avere un protagonista e una storia e nel volerli inutilmente negare appiattendo in un’episodica inerte e in capitoli a sé stanti ogni evidente sviluppo. Perché il cammino del giovane Encolpio — che purtroppo non riesce mai a diven­ tare personaggio e neppure simbolo — è una quéte prima indistinta e poi più cosciente di esserlo, dal­ l’iniziale vitale sensualità a una riflessione sull’orro­ re e il crollo circostanti, per arrivare oltre, per im­ barcarsi verso un nuovo mondo. Il caos può essere quello d’oggi — come hanno ben capito i giovani spettatori americani — e il protagonista un giovane d’oggi, la ricerca una ricerca reale, esistente. Fellini sa vederla solo coi vaghi riferimenti a un cristianesi­ mo genericamente escatologico; ma per una volta i suoi fantasmi hanno qualcosa a che spartire coi fantasmi di tutti, anche se egli non riesce ad andare oltre una confusa indicazione, fidandosi della sua in­ tuizione e del suo istinto. Più che essere Encolpio, l’Encolpio sbiadito e fiac­ co del suo film, egli è un Eumolpo, poeta buffonesco, istrione arruffato e intrallazzista, clown infine, che non può veder oltre alla propria morte, e che anche di questa fa e farà spettacolo, su una spiaggia riminese o sulla segatura d’una pista di circo. La sua ma­ schera è più vistosa e più impiastricciata e volgare 104

di quella degli altri due big del cinema italiano, ma proprio per questo ci sembra sincera e attuale: di una cultura mediocre e agonizzante gli altri nascon­ dono la realtà dietro accigliate fronti che nascon­ dono poco o nulla oltre la maledetta ansia di restar vivi e trionfanti; la cipria e il cerone di Fellini so­ no, quantomeno, adeguati alla sua condizione.

6. Il delfino È il più rappresentantivo ed esemplare dei prodot­ ti artistici della nuova-antica borghesia italiana. Ha trent’anni, ha fatto strada, molta altra ne farà. Non sa molto, ma sa bene quello che vuole, che è molto. E lo vuole col plauso del massimo numero possibile di persone, quelle, per intenderci, dell’alleanza in fieri tra centro-sinistra e finta* opposizione. Ha uno spazio grande; sa profittarne. Da un lato, ha tentato con godardiane o beckiane operazioni avanguardistiche, peraltro irritanti e sciocche nell’accumulo di ma­ teriali non autentici, nel filosofare e lingueggiare di riporto sproloquiando di sé, di rivoluzione, di rivo­ luzione nelle forme, di doppi e di plurimi, di vita arte ego e vietcong, un terreno troppo restrittivo e insoddisfacente per le sue alte ambizioni, vista l’ar­ retratezza del sistema d’essai. Ma probabilmente, più in là, ci riproverà. Poi, ha scoperto la chiave, sem­ plice come l’uovo di Colombo e la mela di Newton. Altro che insistere sullo sdoppiamento! La soluzio­ ne era a portata di mano: farsi uno e trino come dio padre, e sfruttare tutti i terreni con un'approva­ zione cosi globale e inattesa che finirà per insegnare qualcosa anche a molti altri, anche se non cosi favoriti come il Nostro. Da un lato, la TV: programmi sperimentali, liber­ tà, prestigio, purché storie d’arte, fumose, che pas­ sino accanto ai problemi reali e li impantanino nel1’“ispirazione personale.” Dal secondo: il sistema in­ dustriale, le produzioni ad alto livello magari con 105

capitale e distribuzione americana, su grandi proble­ mi, abbastanza audaci, molto decorative, che passino accanto, ecc. ecc., ma stavolta con un grado di leg­ gibilità maggiore, adatto anche al livello di prima lettura delle signore per bene. Dal terzo lato: il ci­ nema "militante." Ma quale cinema e quale militan­ za? La scelta è ovvia, quella meno preoccupante, quel­ la più conciliante, meno esigente, più gratificante: fare film per il Partito Comunista a cui nel frattem­ po ci si è iscritti, sulle sue linee: cinema po­ litico revisionista. Il partito è cosi nuovamente il sostituto di una madrechiesa che s'accontenta di un’opera buona e di un obolo di tanto in tanto, la­ sciando liberi per il resto di fare ed essere ciò che si vuole. La soluzione è perfetta, è davvero la quadra­ tura del circolo. Non dubitiamo della fedeltà di Ber­ tolucci alla guida del partito in fatto di discorso po­ litico, da proporre dall’Emilia rossa a quei circuiti che sono gli stessi dai quali è stato spazzato il grup­ po di Fo. Né dubitiamo della indipendenza della sua creazione — nei limiti industriali o d’ente di stato che egli si sarà scelti — nei suoi film per il sistema. Questi film d’altronde sono perfettamente in accordo con tutto, ché il "discorso d’artista" è dei più sostan­ zialmente cauti e opportunistici. In Prima della rivo­ luzione, vera opera prima dopo una Commare secca giapponese e bologniniana, era la propria educazione sentimentale ad essere narrata, in una Parma di re­ miniscenze stendhaliane cui sempre continuerà a tor­ nare. Fabrizio è chiamato a scegliere tra l’accettazio­ ne della sua collocazione di classe e la possibilità di uscirne, sentimentalmente e politicamente. Il puro muore, tra la Sanseverina e l’eroe che non riescono a stabilire che un legame nevrotico, condizionato dal­ la scarsezza dei margini che loro si aprono o che lo­ ro vogliono effettivamente aprire, mentre lontano sventolano le bandiere dei festival de "l’Unità." Dall’obiettivo di Fabrizio-Bernardo perfino quelle fiacche bandiere potevano ancora sembrare incon­ ciliabili con l’appartenenza a un mondo borghese. 106

Pure, con l’intelligenza istintiva di una regia sot­ tile e controllata, di una poesia esile ma vera, Ber­ tolucci riusciva a cogliere, nello squallido panora­ ma di conformismo del cinema italiano d’allora, dal suo autobiografismo una rappresentazione autentica c sentita, pur con tutti i suoi limiti, di una crisi borghese. I suoi sviluppi saranno deterio­ ri e colonizzati. La duplice influenza del Living Theatre e di Godard lo porta al pastrocchio che è Partner, dove l’intuizione di un tema importante della crisi borghese — quello dell’impotenza di chi si vorrebbe in rivolta e che si crea un alter-ego di fantasia capace di tutto, e purtuttavia destinato anch'esso al fallimento — scade in un collage d’in­ fluenze sovrapposte, in incapacità di cogliere come è di Godard, nella disarticolazione del linguaggio tradizionale, gli elementi d’interpretazione del caos, o di tentativo d’interpretazione attraverso la pro­ vocazione, in cui ogni brano, ogni frammento vuol rimandare ad altro e si dà per segno di insofferen­ za e rivolta. In Partner resta invece l’accumulo e la chiusu­ ra dei riferimenti, peraltro ricchi di rifrittura, mai tesi a farsi sostegno di una metafora d'interpreta­ zione. Quando questa spunta, è quella di una eva­ sione e mistificazione assurda, dove il teatro di­ venta sostituto di rivoluzione, la rivoluzione delle forme narrative un fine in sé capace di avvicina­ re il momento deìValtra rivoluzione, e di essa so­ stanzialmente sostitutiva. Gli errori di Partner, oggi imputati dal regista a un momento di "ma­ lattia,” saranno da lui meditati in funzione non di un loro superamento ma di una marcia indietro che va indietro persino a Prima della rivoluzione. La tattica del rientro e del successo diventa l’esi­ genza prima di Bertolucci, perpetrata attraverso il la­ voro quasi parallelo per la TV e per la grande pro­ duzione. Strategia del ragno e II conformista sono, in mo­ di appena diversi, lo stesso film: la ricerca di una 107

conciliazione con il mondo dei padri — in una visio­ ne che intrica psicanalisi e storia. Ma la psicanalisi è la versione più borghese e integrata di Freud — di conciliazione appunto (e non di rottura, di stimolo a nuovi lidi), di soluzione della nevrosi nell’accettazio­ ne della continuità. E la storia — il fascismo e la re­ sistenza — è ricerca di una identità all’interno di un ordine, mai tentativo di collocarsi in rapporto a quel­ l’ordine, di agire su di esso col bisturi della rivolta. Strategia è il rapporto con un padre prima eroe e poi scoperto come traditore e in una prospettiva in­ certa di soluzione e di visione definita. Il conformi­ sta è ben peggio, perché qui quella che poteva anche essere una felice intuizione (l'appartenenza a uno stesso contesto, a una stessa matrice borghese, del fascismo come dell’antifascismo) si svuota in com­ mistione di sesso e politica, Freud (un certo Freud) aiutando. Seguace, si direbbe, del deteriore Jancso, ma senza il rigore e la pervicacia di quello, Bertoluc­ ci rinchiude fascismo e antifascismo in una calamita di attrazioni reciproche, in un campo d’ambiguità senza scampo. Il suo protagonista diventa conformi­ sta e fascista per insicurezza della propria virilità e per il presunto omicidio di un servo osceno; frutto di una putrida borghesia romana, ne sposa la rappre­ sentante (piccolo-borghese) più tipica ed imbecille; si autopropone, per eccesso di conformismo e per distruggere la "fascinazione del bene’’ (dell'antifasci­ smo, del possibile altro padre) che ha rinnegato, per l’assassinio di un fuoriuscito suo ex maestro; preten­ de non identificarsi al brutale poliziotto che l’accom­ pagna, faccia reale della facciata fascista; si lega al­ l’ambigua moglie dell’antifascista a sua volta "affa­ scinata dal male’’ (il fascismo) che sente cosi simile a sé, e che per di più è anche lesbica e attratta dal­ la borghesuccia romana; tesse la sua meschina e in­ sicura tela di ragno tra attrazioni e repulsioni alter­ nate, fino a partecipare all’omicidio dell’antifascista e della moglie; e in un colosseo di eterni corsi e ri­ corsi scopre l’inutilità del suo delitto e l’inesistenza 108

fattuale, ma non intima, della sua colpa. Tutto que­ sto Bertolucci lo narra insistendo su due aspetti, da cui il terzo scaturisce più limpido di quanto egli for­ se non intenda: il primo, la morbosa fascinazione tra "male" e "bene" interni a un contrasto inteso come ugualmente borghese, tra anima cattiva e anima buo­ na della borghesia; il secondo (come in Strategia), il gioco della ricostruzione immaginata di un’epoca (i trenta) resa in bei costumi, belle musiche, bei scena­ ri, belle acconciature. Ed ecco il terzo, essenziale al film e sua cifra reale: la fascinazione che esercita il fascismo, visto come un non-vissuto e non-storicizzato mondo dei padri, sul regista. Questa fascinazione è un problema reale, storico, e i fatti quotidiani del '71 ce lo ricordano ad ogni istante. Un film che scavi nel vivo di questa proble­ matica sarebbe essenziale e importante. Ma da quale obiettivo? Quello di Bertolucci potrebbe essere tutt’al più uno dei casi da analizzare in un film del ge­ nere ma non è certo l’analisi che sarebbe necessaria. È un film della e non sulla borghesia; è un film del­ le tentazioni fasciste della borghesia italiana e non sulle. La sua ricostruzione storica non è mai vi­ sione dialettica e storica della storia, ma egotistica caverna di pulsioni viscerali e psicanalitiche, utili so­ lo per l’analista e lo storico culturale futuro e, ades­ so, per le gratificazioni "artistiche” e "problematiche” di una classe dirigente di cui sollecita la falsa co­ scienza. La sua "problematica" è d’altronde, com’era prevedibile, tranquillamente accettabile anche dai re­ visionisti, fattisi anche loro più moderni e, con la fuga dei cervelli e degli artisti verso altri lidi, co­ stretti ad accontentarsi di quello che capita.

7. Il poeta

È proprio per il rispetto che ancora (infantilmen­ te) sentiamo per il poeta che Pasolini è stato in an­ ni passati, e per la sua capacità, allora, di cogliere 109

il conflitto tra spinta politica e spinta esistenziale e la necessità di una sua soluzione, che il Pasolini di og­ gi va più duramente rifiutato e negato. Oggi, nell’infi­ nito profluvio di film, abbozzi di film, documentari, progetti, poesie, drammi, dichiarazioni, difese, de­ nunce, amori, lettere aperte, interviste, gesti, viaggi, libri che Pasolini butta sul mercato in un’ansia irre­ frenabile e di presenza e di esorcismo — tanto più vana quanto più incontrollata e immeditata è la loro genesi, risposta immediata al minimo stimolo, e tan­ to più inefficace quanto più cambia, si contraddice, passa oltre, ritorna indietro, divaga, urla, si affanna con il rischio di una generale assuefazione e del pro­ gressivo disinteresse — è difficile e forse inutile ten­ tare un discorso critico, poiché la mescolanza di bio­ grafico e poetico e teorico che Pasolini ingarbuglia si è allontanata progressivamente dalle vere preoccupa­ zioni, dalla sostanza dei problemi che ci riguardano. E tuttavia in questa complessa nevrosi e smania di decadenza alcuni dati è utile ritrovarli. Innanzi­ tutto l’odio-amore per la borghesia, che lo caratte­ rizza sempre più fortemente con connotazioni ben precise: quelle del piccolo-borghese un tempo incer­ to tra le due possibili scelte, e sempre più tendente ad essere accolto e rispettato tra i ricchi, di fatto, anche se sinceramente può dichiarare il contra­ rio o tentare altre alleanze. Un rapporto con la sto­ ria che da autentico, capace di vivere e di coglierne le contraddizioni reali, è scivolato nella ricerca di una impossibile soluzione nel mito, e nel fare di ogni operazione presunta storica una sbandata metastori­ ca e un affossamento autodistruttivo. La sostituzione di un’esaltazione della istintiva vitalità di un popo­ lo visto nella sua unica accezione sottoproletaria e come tale in ima visione già decadente, con una al­ trettanto decadente poetica della morte, contempla­ ta e goduta con estetica voluttà. Il passaggio da un cinema di "poesia,” pieno di barlumi e in­ venzioni irrisolte, ma di lacerazioni sincere, a una applicazione di esso su temi e contesti che sanno 110

sempre più di esterno (Medea). La continuità, inve­ ce, di una falsa dialettica di santità-corruzione, di premio-castigo, di grazia-colpa, che lo vede volta a volta aggressivo ed umile, Cristo e Giuda, rivoluzio­ nario e servile, religioso e blasfemo, nell’inconciliabile specchio di Narciso, di cui più non si distingue qual è il riflesso e quale la persona. In sostanza, è assurdo e irriverente continuare a considerare Pasolini come "un artista di sinistra." Colla confusione di una capacità di acquisi­ zione culturale all’interno della quale ogni mo­ tivazione di scelta è viscerale, e in questo senso è acquisizione utilitaria, o, peggio, di copertura, egli non può che essere assunto a critico e sinistrato poeta di una tragedia borghese e attuale. Da Accat­ tone, in cui già il tema della morte era predominan­ te, alla teoria del rapporto cinema-morte, per cui ci­ nema ed esistenza non sono decifrabili veramente che dopo la fine, attraverso le strade di una idealità cristiana dapprima — che dà salvezza e riscatto in una visione giovannea e pseudo-marxista — e più tar­ di, sinora, attraverso la volontà di identificazione e di senso del mito, Pasolini ha seminato i suoi film di una cupa ed ombrosa presenza. La barocca vivacità di La ricotta conclude in morte, e prelude ai ribal­ tamenti di morte e vita all'interno della morte che sono de La terra vista dalla luna e di Che cosa sono le nuvole, dove la dimensione del sogno permette la riconciliazione dei contrari, la loro possibilità di cam­ bio nello stesso contesto, e infine la possibilità di comprensione della vita soltanto attraverso la mor­ te. "Essere vivi o essere morti è la stessa cosa" nel primo, e la scoperta delle nuvole nel secondo, una volta finiti i burattini che siamo neH’immondezzaio del trapassato ed eterno. Con Vccellacci e uccellini Pasolini mescolò più carte, sviluppando la li­ bertà poetica di quei brevi componimenti. Qui, at­ traverso il cammino parabolico di Totò e Ninetto, Pasolini tenta più interventi contemporanei, tornan­ do a una forma di poesia-saggio che gli è congeniale: 111

la riflessione sulla storia, anzi su un’epoca determi­ nata dalla storia (quella, s’è detto,* della crisi o fine delle ideologie) e sulle sue incertezze, sulla ricerca del senso della vita, sulla sua posizione di fronte ad entrambe e le difficoltà di tenervi fronte. Da questo esame che avrebbe potuto essere stimolante e vitale, nasceva invece la scelta "di destra" di Pasolini, il ri­ fiuto del terreno dello scontro con la storia per l’ir­ razionalità e la metastoria, per il mito e la morte. Non più mescolanza ibrida ma proficua di momenti e stimoli, ma via unica e precisa, i cui conflitti saran­ no tutti interni ad essa e il cui dialogo sarà finto, pretestuoso, estraneo alla realtà. D’ora in avanti, il cinema di Pasolini è solo accet­ tabile come segno di una crisi minore, di un ritorno al decadentismo storico italiano con qualche vaga venatura europea più dichiarata che reale, e comun­ que anch’essa decadente, e interno a una crisi bor­ ghese di cui non è neppure particolarmente rappre­ sentativo. Sempre più viscerale e frustrato — dal ri­ fiuto da parte di un mondo di sinistra che vorrebbe ancora lo accogliesse, dal sentimento e dall’ansia del­ la colpa, dalla incapacità di negare e di negarsi per qualcosa d'altro — egli piomba nella soggettività più sfrenata, fatta di rimorsi e di accuse, e in cui il va­ gheggiamento della morte è sublimazione disperata e masochistica, di impossibile soluzione dei contra­ sti in un "altro mondo" fuori dalle responsabilità del­ la storia e dalle angosce della psiche. Edipo Re non è la storia di una ricerca della verità, ma una con­ fessione psicanalitica a metà, che riduce il mito a pretesto e che serve a giustificare l’elegia su se stes­ so, sulla propria solitudine, e a giustificare l’abban­ dono del terreno della più feconda analisi del proprio rapporto con la storia per una già sconfitta dichiara­ zione d’impotenza di fronte al segno di un destino ga­ bellato per umano e generale e per impossibile a ri­ solversi. Teorema è si la narrazione di più modi di inaridirsi e distruggersi che l’individuo borghese ha di fronte, la tragica fuga nel deserto della solitudine 112

in cerca di un dio che non risponde più, nell’eroti­ smo, nell’immobile silenzio, nell’assurdo dell’arte sen­ za più consolazione né scopo davanti alla rivelazio­ ne di una grazia dionisiaca e pura dell’esistenza rap­ presentata dall'ospite misterioso del settimo giorno, dal portavoce dell’”altro." Solo la serva ne trarrà una spinta "positiva," in forme di religiosità e misti­ cismo contadini, poiché sola non contaminata dalla disumanizzazione della borghesia. Ma l'ospite, rin­ viato, è in realtà inimmaginabile a Pasolini in modi diversi da quello del bello borghese, del simile a quel mondo che dovrebbe sconvolgere: né Rimbaud, né Dioniso, né un portatore di vero nuovo. Il campo è chiuso, e la rivelazione inefficace per forza, morta in partenza: non c’è davvero salvezza per nessuno, se il portavoce della novità e della rivelazione fosse dav­ vero sempre cosi identico alla quotidiana disumanità dei borghesi e con la loro stessa faccia. In Porcile, si passa dal mito naturale e cannibalico dell’episodio dell’Etna al grottesco di una rappre­ sentazione da camera dell'orrore borghese che stride col manierismo in cui il mito si congelava, per azzar­ dare non più che una estrema soggettivazione dell'incubo esterno della storia. Il presunto distacco del­ l’episodio moderno si svela proprio per questo, pro­ prio nel confronto con la tragedia esistenziale di sem­ pre, come mero gioco giustificativo. La, società divora i figli disobbedienti. Pasolini si compiace di conside­ rarsi divorato. Non lo sfiora mai il dubbio di essere uno dei divoratori: infatti, è un poeta, e i poeti non possono che essere vittime... Cosi in Medea, dove il manierismo e la compiacenza estetizzante si fa più evidente e, se possibile, più scoperta ancora, e dove però la giustificazione viene meno prudentemente ap­ plicata dall’esterno, dalle dichiarazioni e dalle inter­ viste del regista tese a dilatare e indirizzare l’inter­ pretazione dell'accademica e banale esercitazione. Morti i contrasti e le dilacerazioni tra aspirazioni borghesi e aspirazioni marxiste, morte anche le di­ lacerazioni di una condizione borghese di cui ci si è 113

fatti prigionieri, non resta che spaziare negli Etna e nelle Anatolie preistoriche e inserire di forza, dall'esterno, significati che nobilitino un’opera che l’autore sa ormai irrimediabilmente perduta. La storia e la cultura diventano cosi per Pasolini una copertura, una giustificazione, un paravento non sentito e non più necessario, onde evitare che il distacco da quel mondo che avrebbe anche potuto essere il suo diventi troppo esplodente e lo abbandoni solo alla sua esi­ stenziale miseria di ricco. Rischia la fine dell’ispira­ zione anche nel senso riduttivo e poeticistico della vitalità delle immagini e della visceralità delle asso­ ciazioni.

8. Negatori e ribelli

E tuttavia Pasolini si riserva, almeno sinora, uno spazio all’interno del sistema produttivo-distributivo diverso e meno venduto di quello dei big e dei Ber­ tolucci. I suoi film rimangono sul margine di un az­ zardo, quantomeno di un azzardo commerciale. È uno spazio a metà tra le grandi sale e i cinema d’es­ sai, occasionalmente ricoperto con opere di maggiore possibilità di assorbimento commerciale. In questo margine si collocano pochi altri autori, circoscritti al circuito minore e limitato dalla forma delle loro ope­ re e dalla difficoltà di lettura delle loro intenzioni. Ferreri d’altronde — oggi il più lucido e interessan­ te dei nostri registi — ha in comune con Pasolini la nevrosi borghese, ma senza le mescolanze e le con­ traddittorie pulsioni del primo e le sue spinte poeti­ che tradizionali anche quando per il cinema appa­ rentemente nuove. La sua condizione gli è chiara, e la detesta. Rifiuta le consolazioni dell'arte e i vagheggia­ menti connessi, e si ferma coscientemente a una nega­ tività aggressiva, tagliente e precisa, anche quando non è più satira ma referto comportamentistico o me­ tafora. Il suo cammino è istruttivo. Dal neorealismo 114

alla lezione spagnola (Bunuel, ma anche la versione spagnola del neorealismo) dell’humour nero, dalla commedia di costume alla constatazione (ancora su lontana lezione bunueliana), conquistando un suo stile attraverso il rifiuto della facilità e della com­ piacenza. Da L’ape regina a L’harem, misogino e misantro­ po illustratore essenziale della lotta dei sessi e della coppia, è passato a L’uomo dei cinque palloni (Break­ up, il film e non l'episodio) e alla collocazione stori­ ca e sociologica dei comportamenti alienati dell’indi­ viduo borghese, descritti impietosamente senza ri­ spetto per la storia e la sociologia, e cioè conquista­ ti nella loro verità attraverso i particolari che più toccano l'autore, suggerendogli riferimenti più per­ sonali, trasferiti e depurati nel film. Descrive la ba­ nalità quotidiana dell'esistenza borghese, ma descri­ ve anche le proprie ossessioni e le proprie paure: consumo, cibo, regressione, evasione, feticismo, mor­ te. Se stesso come borghese degli anni del miracolo, e lo è talmente che la sua intuizione e la sua opera di depurazione vanno sempre a segno. Potrebbe dire come Flaubert ’’Madame Bovary c’est moi." Ma diver­ samente dai tanti, egli ha il coraggio di farsi oggetto, c soggetto d'analisi, di non lasciare parlare le pulsio­ ni istintive e sentimentali, di operare su di esse con la lucidità del freddissimo distacco. Il suo rischio è duplice. In Dillinger è morto il migliore dei suoi film ma anche il più oliato, quello in cui la forza irritante e aggressiva non nasce dalle asperità e dal rifiuto del bello stile, ma dalla carica globale dell'operazione e dalla sua conseguenzialità logica, su dati stavolta minimi, è quello della limita­ tezza forzata della strada del negativo, che pure gli sembra l'unica frequentabile "all’interno del sistema” al livello del "discorso artistico." L’altro è quello, piu politico e interno alla sua tematica, dell’ingresso in una dimensione in cui la riconoscibilità del reale sia castrata di tutte le sue connotazióni storiche e 115

sociologiche, diventi un mondo a parte, di astrazio­ ni non determinate e, pertanto, non più accet­ tabili. È vero per Harem, ma anche e soprattutto per II seme dell’uomo, dove le contraddizioni che in Dillin­ ger nascevano dal confronto tra l'astrazione e la con­ cretezza dei dati e si rendevano portatrici di una stridenza provocatoria e produttiva, si cristallizzano pre­ ordinatamente in un’ipotesi senza sviluppo e senza apertura, in uno schema: "la metafora diventa meta­ fisica; rifiuta la contraddizione, diventa tautologia; cade nella stessa mistificazione della crisi in cui na­ sce: fissare in un’astrazione una realtà e non lasciare spazio alla dialettica” (Tescari). Nel Seme dell’uomo si tratta dell’uomo, come prodotto specifico della ci­ viltà occidentale del consumo, ma anche, come in al­ tri suoi precedenti film, come momento di biologica stupidità, come uomo extra-storico di fronte al di­ lemma della continuazione o meno della specie. I due personaggi femminili, l’una tutta animale natura e istintivamente disposta ai rischi della nuova storia, l’altra incapace di esprimere intellettualmente il suo dissenso dalla nuova partenza della storia, ma nondi­ meno decisa a rifiutarla, sono l'esemplificazione di un dilemma che va oltre i dati della storia e della socie­ tà borghese e rifiuta di ipotizzare una storia e una società diverse. In Dillinger la pretesa è minore e tanto più grandiosa: quella di mostrare nei fatti sin­ goli e minimali e nella loro quotidiana concatenazio­ ne il risultato di una società definita che è quella neocapitalistica occidentale: il protagonista è immer­ so negli oggetti ed è oggetto esso stesso, prodotto di un processo di reificazione al quale, per sua condi­ zione, non ha più mezzo di sfuggire se non con il simbolico e inutile omicidio di altre meno coscienti persone-cose e con favolose e ridicole indie inesistenti. "La chiusura, la negazione sono radicali, non lascia­ no nessuna prospettiva; non è un film che recuperi valori umanistici o lusinghe riformiste; per quel pro­ tagonista non ci sono possibilità di salvezza. C’è so­ 116

lo il lungo spazio di azione insensata che costituisce il film” (Volpi). Il "negativo” di Ferreri ondeggia in tal modo tra una constatazione nitida e distaccata e perciò stesso efficace nella sua violenza di cose, nella sua aggres­ sivi là esplicativa, e una visione la cui apparente im­ mensità le toglie di significato totalizzante e di effi­ cacia. Ondeggia tra un approccio che può in sostan­ za anche diventare marxista e un approccio dai molti rischi metafisici e devianti. È tutto dentro alla pro­ pria nevrosi di borghese che si odia e vorrebbe di­ struggersi e rifiutarsi in quanto tale, e alla sua im­ possibilità di uscirne. Lo stesso avviene del suo rapporto col cinema. Vi­ ve il cinema come nevrosi, ma tutto in cinema; so­ lo il '68 lo ha scosso e lo ha messo in rapporto ad al­ tro e in conflitto con sé. Ma fare il cinema come ne­ vrosi — che è già diverso dal farlo come alibi e dal la rio come mestiere privilegiato e dal farlo come modo di affermarsi — non è sufficiente. Egli oggi in­ tani individua (si vedano le sue scarse interviste) rinctlìcacia rivoluzionaria del suo cinema, ma con alcune incertezze e incongruenze. A tratti parla di un altro cinema possibile, fatto con linguag­ gio semplice e popolare, per i contadini e gli onerai, e arriva a ipotizzare un uso del cinema all”mterno del sistema con funzione di appoggio alla rivoluzione. Ma poi ricade rapidamente nel pessimi­ smo del "recupero comunque” e dell’impossibilità di far altro, e s’accontenta, male, di quello che fa: un cinema per pochi, ma che possa aiutare qualcuno a veder meglio nella propria realtà e sull’orrore di * tii